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K. J. PARKER TUTTI I COLORI DELL'ACCIAIO (Colours In The Steel, 1998) INTRODUZIONE I popoli indoeuropei - germani, celti, latini, baiti, indiani e iranici - erano tutti accomunati da una medesima weltanschaung, una stessa "visione del mondo", in virtù della quale diritto e religione erano in fondo una stessa cosa, due aspetti inestricabili della loro vita quotidiana. Grandi organizzatori, amministratori abili e dotati, gli indoeuropei erano dei veri e propri uomini d'ordine, "ispirati cioè al principio che ciascuno deve assumere in pieno la propria condizione... uomini che detestavano il disordine, il caos, l'anarchia, insomma tutto ciò che compromette l'equilibrio sempre fragile di forze antagoniste" (1). In conseguenza di ciò e proprio per salvaguardare questo equilibrio dando pieno fondamento al "diritto" e assicurarne il funzionamento, gli indoeuropei mettevano al primo posto delle loro azioni più significative, alla base stessa della loro concezione dell'ordine sociale, la nozione di patto, di contratto sancito fra poteri contrari e quindi - come corollario - la nozione di giuramento che suggella tale contratto. (2) Questa visione delle cose veniva a collocare automaticamente il Diritto sullo stesso piano e nella stessa sfera del Sacro, tanto è vero che nella religione degli indoeuropei l'idea stessa di contratto trovava impersonificazione in divinità di particolare rilevanza quali Mitra o Tyr. Ciò faceva dello spergiuro un sacrilegio assai prima che un reato e della violazione di un contratto un ubris, un'offesa agli dei, prima che una colpa criminale. In questa particolare visione del diritto trova il suo fondamento un tipo di "processo" che ha in effetti assai più le caratteristiche di un rito religioso che di un procedimento giudiziario: l'ordalia. In pratica era diffuso, specie fra i Celti e i Germani, il costume di consentire che in caso di contrasto circa il rispetto di un contratto o di un giuramento, in caso di contestazione sulla sincerità di qualcuno, questi potesse chiamare gli dei stessi a testimoni della propria correttezza, sfidando colui che metteva in dubbio la sua parola - o un suo "campione" a un duello sacro. Proprio grazie all'intervento divino garantito dalla perfetta identità fra Sacro e Diritto, colui che era dalla parte del giusto e del vero avrebbe immancabilmente vinto il duello.
Si tratta, come è noto, di un concetto che è penetrato anche nella cultura medievale nell'ambito della quale spesso vediamo cavalieri battersi "in torneo" per sostenere le contrastanti ragioni di sovrani avversari o di re e grandi feudatari in conflitto. Ora - sembra chiedersi K.J. Parker in questo suggestivo e intrigante Tutti i colori dell'acciaio - che cosa sarebbe successo se il rito dell'ordalia avesse continuato a sussistere dal punto di vista della forma e fosse anzi diventato il modo normale di risolvere qualunque controversia legale, anche in materia di commercio o di altre materie triviali, ma in un mondo secolarizzatosi e laicizzatosi? Se fosse stato cioè chiaro a tutti che l'esito del duello non dipendeva affatto dall'intervento divino, ma solo dalla maggiore o minore abilità dei contendenti? Sarebbe successo - suggerisce Parker - che si sarebbe creata una vera e propria casta di "avvocati" pronti a vendere la propria lama e la propria abilità di schermidori al migliore offerente, senza curarsi minimamente di dove stesse la ragione e dove il torto. Una specie nuova e nobilitata di mercenari: di spade in affitto. Ed è proprio su questa premessa di ordine socio-culturale che Parker basa la sua accattivante avventura, raccontandoci miserie e glorie di Bardas Loredan, un "avvocato" ormai stanco, sempre meno all'altezza della sua comunque rischiosa professione, deciso a ritirarsi e a passare gli ultimi anni della propria vita insegnando la scherma a giovinotti pedicellosi e a campagnoli pieni d'illusioni perché, come si dice, bisogna pure campare. Ma bisogna anche imparare a non fermarsi alle apparenze. Infatti sotto le spoglie dello spadaccino cinico e stanco si cela un eroe di altri tempi: l'unico sopravvissuto dell'esercito di Maxen Pitchfork, il leggendario generale che per decenni ha tenuto i barbari delle pianure alla larga, lontani dalle mura di Perimadeia, ciclopica e pittoresca capitale di un impero ormai in declino. Parker riesuma dunque, in versione cappa e spada, il certo non nuovo ma sempre intrigante meccanismo narrativo del combattente formidabile nascosto nei panni di un uomo mediocre, che alla fine si lascia indurre a intervenire e si schiera dalla parte della ragione assolvendo il ruolo di deus ex machina. Un meccanismo narrativo particolarmente caro al genere western (ricordate "La Pistola sepolta"?), ma comunque sempre efficace. Solo che nel mondo di Bardas Loredan - per quanto secolarizzato e laicizzato sia - anche se non funziona la magia in senso stretto, ha
purtuttavia effetto una forza suprema chiamata il Principio, che ricorda assai il Karma degli indù e per effetto della quale Bardas è perseguitato dagli effetti collaterali di una maledizione lanciatagli contro per vendetta da una ragazza assai decisa ad avere la sua pelle. Sicché il nostro eroe, prima e oltre a fare appunto la sua parte, deve pensare soprattutto a restare in vita! Su queste premesse Parker ha costruito una godibilissima saga avventurosa e senza tempo, che coniuga con sapienza emozioni, colpi di scena e una opportuna percentuale d'ironia. Del romanzo colpisce soprattutto l'attendibilità dell'universo immaginario in cui Bardas si muove, che probabilmente deriva dal fatto che dietro di esso c'è qualche buona lettura dell'autore. Non pago di evocare l'ordalia, Parker richiama infatti esplicitamente nella sua descrizione della città di Perimadeia, teatro di gran parte del romanzo e che non a caso chiama "la Città Tripla", la concezione tripartita dell'ordine terreno come riflesso della tripartizione di quello cosmico che è alla base di tutta la concezione del mondo dei popoli indoeuropei. È infatti assodato - soprattutto per merito degli studi del grande storico delle religioni Georges Dumézil - che gli indoeuropei distinguevano tre funzioni dell'attività umana: quella giuridico-magica o suprema, che era appannaggio del capo e della casta sacerdotale; quella marziale, incaricata della difesa e della espansione della comunità; quella produttiva, creatrice dei beni indispensabili alla vita e che include quindi agricoltori e pastori, artigiani e mercanti. I richiami del mondo inventato da Parker a quello reale degli antichi indoeuropei sono troppi e troppo precisi per essere frutto di coincidenze, per cui mi sento autorizzato a ritenere che siano piuttosto il frutto di una scelta deliberata, che spiega l'attendibilità e sarei quasi tentato di dire la familiarità dell'universo che ci racconta. Tanto di guadagnato, anche se questo nulla aggiunge e nulla toglie a un'avventura straordinariamente godibile, che vi terrà incollati alla poltrona. Alex Voglino 1) Régis Boyer, Il mondo indoeuropeo, in "L'Uomo indoeuropeo e il Sacro", a cura di Julien Ries, Jaca Book-Massimo, Milano, 1991. 2) Ibid. CAPITOLO PRIMO
Non era altro che una disputa da quattro soldi a proposito di un trasporto di merci: c'era disaccordo in merito alla interpretazione di un contratto scritto malamente, a causa di alcune discrepanze di scarsa rilevanza in certe polizze di carico, che riguardavano una materia di diritto mercantile notoriamente ambigua. Se affrontata nel modo giusto avrebbe potuto essere risolta senza ricorrere al tribunale e senza che nessuno si sentisse danneggiato. Non era certo il tipo di causa per cui uno si sentiva disposto a morire, se solo poteva farne a meno. Tutti si alzarono in piedi non appena videro il giudice avanzare attraverso l'ampio spazio della corte. Era un uomo basso, risplendente ma anche un po' ridicolo nell'abito nero e dorato che era proprio della sua carica. Si fermò un paio di volte, sfiorando il pavimento con la punta delle sue scarpette nere per verificare che la superficie fosse liscia e livellata e Loredan notò con approvazione che indossava appropriate calzature da spadaccino e non quelle a punta tanto di moda, predilette da funzionari e uomini d'affari. Non tutti i giudici della Sezione Commerciale e Marittima erano ex spadaccini - molto semplicemente non ce n'erano abbastanza a disposizione - e Loredan non si sentiva a suo agio quando il giudice era uno che non aveva mai fatto la professione. Era dura fidarsi di un uomo la cui esperienza della legge arrivava solo ai confini dell'arena del tribunale. Il cancelliere, il vecchio, miope Teofano che era stato in servizio assai prima che tutti gli avvocati attualmente esistenti venissero al mondo, dichiarò che la corte era in sessione e dette lettura dei nomi delle parti. Il giudice rivolse un cenno ai contendenti i quali a loro volta lo ricambiarono con un moto del capo, dopo di che ognuno si rimise a sedere. Dai banchi del pubblico provennero i soliti sommessi rumori della gente che si accomodava: lo strofinio delle natiche sui sedili di pietra, il fruscio dei cestini a mano a mano che venivano aperte bottiglie e spuntini venivano messi a portata di mano, dove fosse possibile agguantarli senza bisogno di distogliere lo sguardo dal processo anche per un solo secondo. Il giudice scrutò i documenti che aveva innanzi a sé e domandò chi difendeva i fratelli Mocenigo. Loredan alzò lo sguardo. Dal lato opposto del tribunale un ragazzo biondo e imponente si stava alzando in piedi abbassando d'istinto la testa, abituato com'era - evidentemente - a picchiarla contro i soffitti troppo bassi. Disse di chiamarsi Teofil Hedin, dichiarò la propria qualifica e s'inchinò alla corte. Un mormorio di approvazione si levò dal pubblico e i
soldi cominciarono a cambiare di mano via via che si accendevano le scommesse. «Molto bene» disse il giudice. «Chi è l'avvocato dei convenuti...» esitò e gettò un'occhiata alle carte «... la famiglia Dromosil?» Come d'abitudine, Loredan sentì una morsa allo stomaco mentre si alzava in piedi; non si trattava di paura quanto piuttosto di un'acuta autoconsapevolezza e dell'intenso desiderio di essere da qualunque altra parte. «Sono io, vostro onore» disse, un po' troppo sommessamente. Alzò il tono della voce nel pronunciare il suo nome: Bardas Loredan, avvocatospadaccino, del Collegio di Bowyers & Fletcher, da dieci anni nella professione. Il giudice gli chiese di parlare più forte. Ripeté tutto quanto e non poté fare a meno di notare che aveva la voce un po' rauca. Sapeva che si trattava solo dello strascico di un leggero raffreddore, ma il pubblico ne trasse le proprie conseguenze e si sentì il lontano tintinnio di monete contate sulla pietra dei sedili. Il giudice cominciò a leggere le deposizioni. Era una fase della procedura che Loredan detestava in maniera particolare; non aveva alcuna utilità pratica e lo lasciava sempre teso e nervoso. L'altro avvocato, comediavolo-si-chiamava Hedin, se ne stava in piedi con aria distesa, con le mani dietro la schiena; chiunque avrebbe giurato che stesse prestando attenzione a quanto il giudice andava leggendo. Alcuni avvocati, specialmente i più anziani, usavano qualche piccolo rituale per ammazzare il tempo in questa fase: recitavano una preghiera esattamente della necessaria lunghezza, facevano mentalmente delle liste, cantavano fra se una canzone o recitavano una filastrocca. Loredan, come al solito, se ne stette lì a disagio, fregando i piedi e aspettando che la voce monotona terminasse la lettura. Il che, alla fine, accadde; era il segnale perché le mani di Loredan cominciassero a sudare. Accanto a lui, Athli era alle prese con nodi e fibbie; se si è dimenticata la cenere per le mie mani, promise Loredan a se stesso, è la volta che le torco il collo. Senza neanche alzare lo sguardo il giudice domandò se qualcuno volesse sottoporre altri documenti, dette per scontato (giustamente) che non fosse così e fece un segnale agli avvocati. Loredan fece un lungo respiro e si girò verso la sua assistente. «La Guelan» mormorò. Athli inarcò le sopracciglia. «Sei sicuro?» «Certo che sono sicuro. L'hai portata con te, non è vero?»
Athli non si dette neppure la briga di rispondere; qualunque fossero i suoi difetti, era una collaboratrice affidabile quando si trattava dell'equipaggiamento. Sapeva anche che qualunque lama avesse scelto - magari la Boscemar, oppure la Spe Bref - lei comunque avrebbe detto Sei sicuro?, esattamente con lo stesso tono di voce, che immancabilmente lo faceva andare su tutte le furie. Athli infilò un braccio nella sacca delle armi e ne trasse un involto di soffice velluto grigio, stretto in cima da un cordoncino blu. Loredan glielo tolse di mano e sciolse il nodo. Forse sarebbe stato meglio scegliere la Boscemar, dopo tutto? No. Era una sua aurea regola quella di non cambiare mai idea una volta fatta la scelta. La Guelan. Lasciò cadere la custodia per terra - non si sarebbe mai sognato di dirlo a qualcuno, ma quel gesto gli faceva sempre pensare a una ragazza che lasciava cadere al suolo il proprio vestito - e strinse la mano intorno alla semplice impugnatura, cercando al tatto le minime scanalature che indicavano il punto esatto in cui posizionare il pollice e il mignolo. Delle sue tre spade era la più lunga e la più leggera, oltre che la più costosa, vecchia ormai di oltre un secolo. Un tempo la lama era stata decorata da una incisione raffigurante foglie di vite, ma adesso per poterla intravedere bisognava esporre la spada alla luce in una precisa posizione. Gli aveva fatto superare brillantemente trentasette controversie giudiziarie, nove delle quali davanti alla Corte Suprema e una addirittura alla presenza del Cancelliere in persona. Cinque tacche segnavano il filo (ce n'erano state altre, ma abbastanza piccole da poter essere eliminate con la pietra per l'affilatura) e la lama era lievemente piegata a circa un palmo dalla punta, per colpa di qualche antecedente proprietario. La Boscemar era una lama più affilata e la Spe Bref in teoria era più bilanciata, ma in un processo quello che conta di più è l'affidabilità. Dopo un secolo di duro lavoro in tribunali come quello, ormai doveva sapere come svolgere al meglio il proprio lavoro. Nella misura in cui qualcuno di noi lo sa. L'usciere diede l'ordine di sgomberare il pavimento della corte. Athli gli passò il pugnale - per lo meno di quelli ne aveva uno solo, il che voleva dire almeno una cosa su cui non occorreva stare a struggersi - e Loredan lo infilò nella guaina che aveva dietro la schiena, promettendo a se stesso nell'atto di farlo che la prima cosa che avrebbe fatto l'indomani sarebbe stato di cambiarle la cinta con una nuova. Sì. Bene. Il giudice alzò una mano, assaporando la drammaticità del momento e invitò gli avvocati ad avvicinarsi al banco. Nel prendere il suo posto ai
piedi della piattaforma su cui si ergeva, Loredan sentì una delle sue gambe sfiorare senza volerlo un ginocchio dell'altro. Sussultò. Sarebbe stata una bella sfortuna morire per una disputa su un carico e per di più per mano di un bastardo alto e biondo. Ragione di più, quindi, per fare in modo che non accadesse. Quando il suo avversario allungò la propria spada al giudice perché la ispezionasse, Loredan non poté fare a meno di notare il lampo di luce riflesso dal marchio inciso sulla lama appena al di sopra dell'elsa. Una Tarmont, vecchia di un anno o poco più, che aveva tutta l'aria di essere stata poco usata. C'era solo qualche vaga traccia lasciata dalla pietra per affilare che rovinasse la perfetta lucidità della lama: da quando era stata forgiata era stata affilata sì e no quattro o cinque volte. Abbastanza stranamente, quella vista gli risollevò un poco lo spirito. Era una spada costosa, una creazione di uno dei cinque migliori armaioli viventi, ma era nuova ed era stata a malapena utilizzata. Suggeriva un eccesso di fiducia in se stessi, una tendenza a dare per scontato che tutto sarebbe andato nel modo migliore. Dieci anni di professione gli avevano insegnato che quel genere di atteggiamento poteva essere letale, se l'avversario ne approfittava nel modo giusto. Quando ebbe consegnato a sua volta la propria spada e la ebbe riavuta indietro dopo che il giudice l'aveva degnata a malapena di un'occhiata che gli parve lievemente offensiva, Loredan fece il suo abituale inchino che consisteva in una lieve inclinazione del collo e andò a prendere il proprio posto al centro del tribunale. L'impiantito sembrava solido sotto i suoi piedi, coperto dell'adeguato strato di sabbia e segatura, che consentiva una perfetta presa dei piedi. Indossava il suo più vecchio paio di scarpe, che ormai da parecchio avevano assunto esattamente la forma dei suoi piedi, e aveva reso più aderenti le suole quasi nuove facendo uso di una raspa. Athli gli tolse il mantello dalle spalle e il freddo del tribunale lo fece rabbrividire. Parecchio tempo prima, dopo avere visto la morte in faccia, aveva imparato a non battersi indossando altro se non una leggera camicia di lino molto larga sulle spalle e intorno alle braccia, strettamente legata invece ai polsi, e un confortevole paio di brache senza fibbie nelle quali ci si potesse impigliare proprio nel momento sbagliato. Più di una volta aveva visto uomini morire alla distanza di una lama dalla sua faccia, per avere scelto di indossare una camicia di lana pesante che li proteggesse dal freddo autunnale. Dieci anni di professione e capisci che tutto conta. Quando arrivò l'ordine era pronto e per fortuna. L'altro avvocato era
rapido e palesemente forte; il difficile sarebbe stato rimanere vivo per il primo mezzo minuto e poi ancora per i tre minuti successivi. La prima stoccata arrivò piuttosto alta e non fu affatto il tipo di colpo che si sarebbe aspettato. Fu costretto a fare alta anche la sua parata e il peso che l'altro aveva caricato sulla lama fu tale che con la forza del proprio braccio e del polso quasi non riuscì a defletterla. Gli riuscì in qualche modo, ma fu costretto a fare un passo indietro e due a destra, scoprendosi il petto; non c'era nessuna speranza di un colpo di risposta. Prevedibilmente l'attacco successivo fu basso, ma il fatto che stavolta se lo aspettasse non rese meno complicato il pararlo. Due rapidi passi verso destra lo misero fuori portata, ma la sua guardia era tuttora troppo alta e una ferita al ginocchio destro che era rimasto scoperto, sarebbe stata la fine. Fortunatamente il suo avversario optò invece per un'altra stoccata alta. Due passi indietro dettero a Loredan abbastanza spazio per parare di prima, caricando la lama di tutto il peso del proprio corpo e deviando così nettamente la spada dell'altro verso destra. A quel punto inclinò il polso per una botta corta, più che altro un fendente con il polso girato, diretto allo stomaco. Il suo avversario arretrò, ma non abbastanza in fretta; la punta della sua spada penetrò di qualche centimetro prima che Loredan la ritirasse e, esponendosi al rischio di essere ferito alla spalla destra, si protendesse in basso e in avanti, per una stoccata diritta. Il suo ginocchio e la sua mano sinistra toccarono il suolo all'unisono e avvertì una fitta di dolore quando un legamento protestò. L'altro avvocato parò alla disperata, deviando la sua lama ma senza riuscire a scostarla abbastanza, sicché quasi cinque centimetri della spada di Loredan gli penetrarono nel fianco destro. Aveva fatto un buon lavoro fino a quel momento; ma probabilmente non abbastanza buono. Non ancora, perlomeno. Loredan, tuttora con un ginocchio sul pavimento, fece forza sulla mano e sulla gamba sinistra per rimettersi in piedi, ma il ginocchio sinistro sembrò non avere alcuna intenzione di collaborare... Crampi! Che razza di modo idiota di morire. L'altro uomo però era troppo preoccupato dalla vista del proprio sangue per accorgersi delle difficoltà di Loredan il quale, in qualche modo, riuscì a rimettersi diritto poggiando sulla gamba destra e ad arretrare di un passo, rimettendosi più o meno in guardia. Non era il momento più adatto per cercare di muovere i piedi; sarebbe cascato per terra, sicuro come la morte. Tutto dipendeva dall'altro, da come sarebbe stato in grado di affrontare il fatto di essere stato ferito. Aspettando che si muovesse, Loredan maledì tutte le dispute commerciali, tutti i processi
basati sul diritto contrattuale e tutti gli spadaccini alti e biondi che avevano dieci anni meno di lui. Un mucchio di maledizioni da lanciare nel tempo di un battito di cuore, ma la velocità è una cosa che si accompagna inevitabilmente a una lunga pratica. Fortunatamente al suo avversario sembravano essere saltati i nervi. Invece di lanciarsi avanti, come avrebbe fatto Loredan se si fosse trovato al suo posto, arretrò rapidamente e poi tentò un fendente laterale all'altezza del gomito: un modo per uccidersi altrettanto sicuro che il gettarsi a capofitto da un'alta torre, rifletté Loredan mentre deviava nettamente il colpo e si proiettava nell'inevitabile affondo. Sentì la punta della lama incontrare un osso, la vide piegarsi... E spezzarsi di netto, come il gambo di un calice per il vino, a cinque o sei centimetri dalla punta. Disgustato trasformò la stoccata in una botta ravvicinata facendo affidamento sulla sola fermezza del polso e squarciò la gola del suo avversario con la stessa semplicità che se si fosse trattato di un foglio di carta. Ci fu un clangore quando quest'ultimo lasciò cadere la sua spada, la stravagante, malaugurata Tarmont - non aveva mai capito che senso avesse comperare armi nuove - e un ansito sommesso quando il suo avversario cercò di respirare attraverso una gola che non esisteva più. Naturalmente ci fu anche un mucchio di sangue, seguito dal solito tonfo sordo quando il corpo cadde per terra. Maledizione a tutte le dispute commerciali. Il giudice picchiò il suo martelletto e pronunciò la sentenza - abbastanza superflua - a favore dei convenuti. Ci fu un applauso da parte degli spettatori - non proprio trionfale, era stato un combattimento molto veloce senza nessun vero e proprio colpo da maestro - seguito da rumore di piedi, dalla ripresa delle conversazioni che sì erano interrotte, da qualche risata, da uno starnuto sul fondo dell'aula. L'assistente dell'altro avvocato raccolse le sue carte, se le mise sottobraccio. Non aveva nessuna fretta di raggiungere i propri clienti in fondo alla zona riservata al pubblico. Athli aveva raccolto la Tarmont: adesso era di proprietà di Loredan, secondo un antico costume; valeva dieci volte il suo onorario ma tutto il suo valore non sarebbe bastato a comperare un'altra Guelan, anche ammesso di riuscire a trovarne una. Era stata una giornata insoddisfacente se si eccettuava il fatto che era ancora vivo. «Che cosa ti è successo?» chiese Athli. «Per un attimo ho pensato che fosse arrivata la tua ora.» «Crampi» ribatté Loredan. Aveva voglia di recuperare la punta della sua
spada, ma non se la sentiva per nulla di andare così vicino al corpo. Non appena avesse sfilato il troncone sarebbe spruzzato sangue dappertutto e lui non era dell'umore giusto. «Guarda qua» borbottò, fissando la spada spezzata che stringeva ancora in pugno. «A quanto pare sono appena diventato proprietario di un costosissimo coltello da carne.» «Te lo avevo detto che quell'aggeggio ormai aveva fatto il suo tempo» osservò Athli. «Se tu l'avessi venduta, come ti avevo suggerito...» Gli porse la custodia di velluto e Loredan ci lasciò cadere il troncone rimasto attaccato all'elsa. Athli annodò il cordoncino e la mise nella sacca delle armi. «Come va il ginocchio?» «Meglio, ma avrò bisogno di riposo più o meno per una settimana. Quand'è la prossima causa?» «Fra quattro settimane» rispose Athli «ed è un divorzio, per cui non dovrebbero esserci problemi. Informerò il cliente, comunque, giusto in caso che preferisca incaricare un altro avvocato.» Loredan annuì. I divorzi, appartenendo al diritto ecclesiastico, si supponeva che non fossero all'ultimo sangue, anche se nel caso di morte di uno degli avvocati il giudizio restava valido. A ogni modo era sempre corretto avvisare il cliente se si era infortunati, specialmente in un caso in cui importanti clausole matrimoniali erano la materia del contendere. «Potrei sempre farla tagliare, suppongo» argomentò Loredan. Era consapevole di stare zoppicando e la distanza che lo separava dalla porta del tribunale gli sembrò molto maggiore del solito. «Le spade corte sono molto di moda in alcuni tribunali al giorno d'oggi.» «Non così corte» ribatté Athli. «Piuttosto falla ridurre a un secondo pugnale. Ti farebbe comodo averne uno di ricambio.» «Sacrilegio.» Un paio di portantini stavano trascinando via il suo avversario dopo avergli gettato addosso un sacco in modo da nasconderlo agli occhi del pubblico. «A proposito, da quando in qua mi occupo di cause di divorzio?» «Da quando hai cominciato ad avere problemi con il tuo ginocchio.» Athli alzò lo sguardo su di lui, aggrottando un po' le sopracciglia. «Senza offesa» disse «ma hai mai pensato che prima o poi verrà l'ora di ritirarti?» «Lo farò non appena me lo potrò permettere» rispose Loredan, sentendo però un po' di amaro in bocca. «O non appena mi nomineranno giudice.» «Sapevo che lo avresti detto» ribatté Athli. Puntuali come il postino i brividi cominciarono dopo la seconda botti-
glia, proprio quando stava per aprire la terza. Senza dire una parola l'allungò alla sua assistente. «Faresti meglio ad andarci piano con questa roba» osservò lei riempiendogli il bicchiere. «Tanto per cominciare, è troppo costosa.» Loredan fissò contrariato l'immagine distorta del suo viso che si rifletteva sulla superficie scintillante del calice. «Lo vuole la tradizione» ribatté. «È un segno di rispetto.» Si ricordò di un particolare. «Abbiamo offerto da bere al suo assistente?» domandò. Athli annuì. Nell'osteria c'erano parecchi degli spettatori che avevano assistito al processo, e alcuni di loro stavano attirando l'attenzione l'uno dell'altro e indicandolo. La cosa non piacque molto a Loredan; d'altro canto la taverna dopo una causa era un luogo dove poteva esserci sempre l'occasione di trovare altro lavoro. I fratelli Khevren lo avevano ingaggiato in quel modo, e anche i mercanti del cartello della cannella. Parecchie delle famiglie più influenti mandavano degli inviati a tutti i processi per cercare di individuare i migliori avvocati, specialmente giovanotti abbastanza dotati di talento da essere in grado di sopravvivere, ma anche abbastanza giovani da avere tariffe poco esose. Tutti i potenziali clienti conoscevano già perfettamente quelli che erano nella professione da dieci anni, il cui unico rischio era quello di finire fuori mercato chiedendo compensi troppo alti... D'altro canto abbassarli equivaleva ad ammettere che la propria carriera era finita. Lo stesso valeva per il fatto di accettare di apparire in una causa di divorzio; per un avvocato della sua esperienza era come confessare di sentirsi decrepito o di non avere più il controllo dei propri nervi, o entrambe le cose. Tutto sarebbe diverso se nel diventare più vecchio diventassi anche più bravo rifletté Loredan, ma non è così. «Bene» stava dicendo Athli «tu hai svolto la parte facile del lavoro.» Adesso tocca a me farmi pagare dai Dromosil. Loredan emise un grugnito. «Digli che se no gli faremo causa» affermò. Athli fece una smorfia: i debiti professionali, come per esempio le parcelle degli avvocati, erano oggetto di processi personali, che implicavano un duello fra le parti senza che a nessuna delle due fosse consentito il ricorso a un avvocato. In pratica, tuttavia, gli avvocati che risaputamente facevano causa per le proprie parcelle, tendevano ad avere molte difficoltà nel trovare lavoro. «Te la caverai, comunque» continuò Loredan. «Non è stata una cattiva giornata per te, calcolando anche il valore della spada che abbiamo vinto.» Athli fece spallucce. Il suo dieci per cento sarebbe stato una decente
sommetta, ma non avrebbe mai ammesso di esserne compiaciuta. «Mi sono guadagnata duramente ogni singolo centesimo» ribatté. «Finisci di bere. Entro un'ora dobbiamo incontrarci con il cartello del carbone.» Loredan emise un gemito. «Devo proprio vederli?» domandò. «Non puoi dirgli che sto ancora riprendendomi o qualcosa del genere?» «Farebbe una pessima impressione. Ho dovuto sudare sangue per persuaderli che non sei un'antica rovina tremolante che ha bisogno di aiuto perfino per andare in bagno. E per carità non zoppicare. Hai l'aria di un vecchio di centosei anni.» Con un'espressione di sfida, Loredan si riempì di nuovo il bicchiere. «Dove mai potrò comperarmi un'altra Guelan?» chiese in tono tetro. «Di tutte le cose bastarde, proprio questa doveva capitarmi.» Athli lo squadrò inarcando le sopracciglia. «Se vai avanti su questa strada finirai per diventare superstizioso» disse. «Che è un vezzo straordinariamente pericoloso per uno che fa il tuo mestiere.» Loredan, borbottò qualcosa. «Per fare un lavoro ben fatto ci vogliono i giusti attrezzi» ribatté poi. «Non c'è niente di superstizioso in tutto questo. E penso anche che sia venuto il momento di cominciare a scalare il costo di armi ed equipaggiamento dal lordo dei guadagni. Altri assistenti accettano questa condizione» aggiunse in tono difensivo, prima che Athli riuscisse a spiccicare parola. «Concordano sul fatto che si tratta di una spesa essenziale per potere svolgere un buon lavoro.» «Non se ne parla neanche.» «Athli, stiamo parlando della mia vita...» S'interruppe, dolorosamente conscio di avere violato le regole. Fra avvocato e assistente la possibilità che il primo morisse non doveva mai essere neppure menzionata. Si chinò un po' in avanti con un movimento impacciato, vergognandosi di se stesso. «Quando hai detto che dobbiamo incontrare quelli del cartello del carbone?» Athli lo stava fissando. Le era successo di farlo spesso, ultimamente. Un'altra regola inviolabile era che gli assistenti non si preoccupavano per gli avvocati. Gli procuravano solo del lavoro; della migliore qualità possibile: il fatto che un processo troppo impegnativo potesse fare uccidere un uomo con la velocità di un fulmine, doveva rimanere assolutamente al di fuori della relazione fra i due. «Va bene» disse alla fine. «Dirò che hai dovuto partecipare a una festa per la tua vittoria.» «Con i fratelli Dromosil? Ma fammi il favore.» Finì il vino e rivoltò il calice sottosopra. «Sarà meglio che venga con te» disse con un sospiro.
«Non posso correre il rischio di lasciarti trattare da sola con clienti così difficili. Vuole dire che dopo andremo in una taverna e ci ubriacheremo. D'accordo?» concluse in tono feroce. «Dopo che avremo passato almeno un'ora con il cartello del carbone» replicò Athli in tono serio. «D'accordo.» «Questo Principio» disse il Patriarca con aria grave «al quale ovviamente non attribuiamo alcun nome, fornisce l'energia che rende possibili tutte queste cose. Non dimenticate mai quanto è limitata o quanto poco può in effetti fare.» S'interruppe e volse intorno lo sguardo nella sala, fissando i banchi strapieni. Cinquecento giovani studenti assettati di sapere, ognuno dei quali senza dubbio da bambino aveva giurato a se stesso che da grande sarebbe diventato un mago. Alexius era un uomo naturalmente cinico e l'avere raggiunto il soglio del patriarcato aveva spazzato via anche il suo già limitato idealismo, ma perfino lui ammetteva di avere una seria, sacra responsabilità, nei confronti delle quote di novizi che si avvicinavano ogni anno agli studi. Aveva il dovere di fare loro capire il prima possibile che lì non gli sarebbe stato insegnato come diventare dei maghi. «Fondamentalmente» continuò «il Principio può essere usato come uno scudo o, ma in misura assi più limitata, come una spada. È tutto qui: difesa e offesa. La sua energia non può curare i malati o resuscitare i morti, cambiare il piombo in oro, rendere un uomo invisibile o irresistibile con le donne. Non può creare nulla e modificare nulla che già esista. Può deviare maledizioni e può condurre a segno delle maledizioni; e anche questi effetti sono largamente casuali rispetto agli autentici scopi per cui il Principio esiste. Il potere è un prodotto secondario, come il cuoio e la colla sono solo dei prodotti secondari rispetto all'allevamento dei maiali.» Come si era augurato l'immagine molto terra terra provocò un lieve brivido di disgusto fra i membri del suo pubblico di adolescenti dalle alte aspirazioni. Non era così che si erano aspettati di sentire parlare il Patriarca. Erano venuti lì per essere messi a parte di un magnifico segreto, il più splendido e utile segreto fra tutti quelli custoditi dalle varie corporazioni. Con un po' di fortuna, il giorno dopo alla stessa ora ci sarebbero stati almeno una ventina di volti che lo avrebbero fissato con un'espressione assai meno ardente via via che i figli cadetti che erano andati lì solo per imparare come trasformare in rospi i propri fratelli maggiori e i figli dei mercanti inviati per apprendere come evocare venti favorevoli e geni che
trasportassero gratis i loro carichi di qui e di là dai mari, si sarebbero preparati a rifare i bagagli e a tornare alle proprie case. Se avesse fatto bene il proprio lavoro prima della fine del corso sarebbe riuscito a liberarsi di almeno metà di quei giovani sciocchi. «Domani» disse «vi spiegherò i quattro grandi postulati su cui si fonda il Principio. Una volta che li avrete compresi, sempre che vi riesca di farlo il che non è affatto detto, sarete in condizione di decidere quale dei sei aspetti del Principio studiare e noi potremo assegnarvi alla giusta classe e ai giusti insegnanti. Vorrei anche ricordare a quelli fra voi che non hanno ancora saldato la retta che non potranno essere assegnati a nessuna classe fino a quando non avranno depositato l'intera somma. Potete andare.» E con ciò per oggi l'educazione dei giovani era conclusa. Fece ritorno alla propria cella, una scatola quadrata di pietra con un letto di assi, una massiccia libreria di quercia e il più stupefacente soffitto a mosaici dell'intera città e scivolò fuori dai paramenti propri del suo ufficio, in particolare i ridicoli stivali color porpora. Sedette sull'orlo del letto e pazientemente si mise a combattere con l'esca e l'acciarino fino a quando la lampada non si decise con riluttanza a gettare un po' di luce. Proprio al di sotto della sua cella stavano preparando il refettorio per il pasto serale. Fra breve il dispensiere avrebbe bussato alla sua porta e chiesto il permesso di sciogliere il grosso nodo che teneva sospeso l'enorme candeliere appeso direttamente sopra la grande tavola, in modo che potesse essere abbassato e dotato delle candele necessarie per la serata. Il Patriarca non poteva fare a meno di sentirsi seccato per quell'intrusione, anche se faceva parte del rituale di ogni giorno; i rumori della cena disturbavano le sue letture e non c'era giorno che non si ammaccasse un alluce nella penombra della cella contro il dannato anello nel pavimento che faceva da ancoraggio per il candeliere. Aveva insistito per potere disporre di una stanza senza finestre; la luce di una lampada, riflessa dalle migliaia di tessere dorate che formavano i leggendari mosaici, era più che sufficiente per leggere, a patto che ci si chinasse verso la fiamma e si tenessero le pagine a pochi centimetri dal proprio naso. Alexius sapeva di essere fatalmente predisposto alla distrazione. Se avesse avuto una finestra avrebbe passato il tempo a guardare fuori invece che a leggere il suo libro. Se l'intonaco fosse stato nascosto da degli arazzi se ne sarebbe stato seduto a contemplarli invece di concentrare la mente sugli ardui temi trattati dai Padri. E se fosse sceso a cenare nel refettorio, invece di accontentarsi di un filone di pane integrale,
di una brocca d'acqua e di una mela, quel giorno non sarebbe più riuscito a lavorare e neanche la mattina di quello successivo. Il risultato era che godeva fama di essere un grande asceta e veniva onorato di conseguenza. Era, il che lo faceva davvero sorridere, probabilmente il Patriarca più rispettato che la città avesse avuto nell'ultimo centinaio di anni. Non male per un uomo che doveva compitare quando leggeva e che non faceva neanche alcuno sforzo per nascondere la cosa. D'altronde, anche se ci metteva il doppio del tempo rispetto ai suoi colleghi per afferrare ogni nuovo sviluppo e ogni nuova ipotesi nel campo dell'ortodossia, per lo meno li afferrava davvero. Lazier, uomo molto più dotato, che non si prendeva neppure la briga di leggere i testi e che si basava piuttosto sul riassunto che gliene facevano gli altri, commetteva errori e poteva essere messo in difficoltà con una qualunque citazione sia pure appresa a fatica. Qualcuno di loro lo aveva perfino in simpatia. Non riusciva proprio a spiegarsi il perché. La fonte delle sue tribolazioni, che quella sera aveva deciso di mettersi a leggere, era un nuovo discorso sulla natura della fede; una breve monografia messa insieme a quanto pareva in un momento di tranquillità dal giovane Archimandrita di uno dei collegi della città, un uomo con più istintiva comprensione del Principio nella punta delle unghie di quanta non ce ne fosse nell'intero corpo del Patriarca, ma che dedicava la gran parte delle proprie ore di veglia e una considerevole porzione degli incassi della sua istituzione alle gare di trotto. Nel suo trattato il giovane scommettitore aveva teorizzato che la fede agisse sul Principio come un catalizzatore, nello stesso modo in cui un prisma di vetro o di cristallo è in grado di concentrare la luce del sole. Il Principio, aveva argomentato, era altrettanto universale e diffuso quanto la luce. Solo quando veniva filtrato consapevolmente dalla mente umana poteva diventare abbastanza forte da illuminare le tenebre sotterranee o da aprirvi un pertugio. Il Patriarca aggrottò le sopracciglia. Era un modo succinto e accurato di esprimere ciò che lui stesso aveva sempre intuito a proposito del Principio ma che non era mai stato capace di chiarificare in modo esplicito nella propria mente; evidentemente il ragazzo aveva un dono eccezionale ed era solo al primo capitolo del testo, la parte che abitualmente si utilizzava per riassumere ciò che rappresentava le premesse ovvie e scontate del ragionamento che seguiva. La straordinaria nuova ipotesi che era stata portata alla sua attenzione era espressa nei settantotto capitoli che
seguivano. Sarebbe stata una lunga notte. Stava appunto cominciando ad avvertire le prime avvisaglie di un mal di testa (non era certo di aiuto il fatto che la sua copia fosse scritta malamente e su una pergamena che era già stata cancellata e usata tre volte) quando sentì qualcuno bussare alla porta come si stava aspettando che accadesse già da una mezz'ora. Borbottò di entrare e una lama di luce apparve nel vano della porta. «Spiacente di disturbarvi, Padre.» Borbottò qualcos'altro, cercando di non alzare lo sguardo dal libro. Per qualche ragione, stanotte non si trattava del dispensiere; non aveva riconosciuto la voce, ma era giovane e femminile: probabilmente una delle domestiche. Se voleva avere almeno una speranza di riuscire a fare entrare nel proprio cervello non brillantissimo quella complicata ipotesi... «Mi dispiace di disturbarvi» ripeté la voce. «Ma se poteste dedicarmi qualche minuto...» Dannazione, si trattava di una studentessa. «Sto leggendo» borbottò, sollevando le pagine ancor più verso il proprio naso. «Vattene.» «Non vi farò perdere molto tempo, lo prometto. Per favore.» Alexius sospirò. «Il Patriarca Nicephorus Quinto» disse con severità «interrotto mentre era intento alla lettura del saggio Tutte le Cose Avranno Fine lanciò una tale maledizione che lo sfortunato incauto che lo aveva disturbato fu immediatamente colpito da un fulmine. Solo con molta fatica la vittima fu più tardi identificata come la stessa figlia di Nicephorus, che si era precipitata ad avvisare suo padre che la casa era in fiamme. Ti suggerisco vivamente di venire a parlarmi domani dopo la lezione.» È un'ottima cosa evitare le distrazioni, ma se le distrazioni rifiutano di farsi evitare, la cosa migliore da fare è affrontarle immediatamente. Prese un pezzo di giunco dal pavimento e lo mise nel volume a mo' di segnalibro, poi alzò lo sguardo. Forse non si sarebbe rivelata una distrazione particolarmente seria, dopo tutto. Era alta e ossuta, con pallidi occhi azzurri e un viso affilato; poteva avere quindici o sedici anni e il suo corpo era atteggiato come se si fosse trattato dell'abito di una sorella maggiore che un giorno o l'altro avrebbe smesso di essere troppo grande per lei. Sono sempre quelli magri che vengono spinti fuori di casa perché si facciano una professione. Alla stessa età anche lui aveva avuto quell'aria allampanata. Sentì allentarsi un po' il malumore. «Sbrigati, allora» disse. «Che cosa posso fare per te?»
La ragazza si inginocchiò sul pavimento; non per un atto di ossequio, ma solo per antica abitudine, come una cresciuta in una casa nella quale non c'erano sedie. «Vorrei imparare a lanciare una maledizione, per favore.» Alexius chiuse gli occhi. Quest'anno si cominciava presto. Stava per dire qualcosa di violento e che la facesse filare via di corsa, ma per qualche ragione non lo fece. C'era qualcosa di intrigante in quella ragazzina, come dire, pareva stesse parlando d'affari. Si sentì tentato di esaudire la sua richiesta. «A che scopo?» le domandò. La cosa parve suonarle come una domanda sciocca. «Voglio maledire qualcuno» rispose. «Potreste insegnarmi le parole necessarie, per favore?» Potrei spiegarle come stanno le cose, pensò Alexius. Potrei cominciare con i quattro postulati, farle vedere il percorso logico che conduce alle basi teoretiche del Principio, spiegarle in breve che ruolo svolge la fede (di cui si può dire che è come un cristallo, usato per concentrare i raggi del sole...), spiegare i reciproci effetti di azione e reazione e la futilità di qualunque uso non motivato del potere e in questo modo farle comprendere esattamente quanto sia stata sciocca la sua richiesta. Oppure potrei semplicemente rispondere di no. «Dipende da chi vuoi maledire e perché» rispose invece. «Se una maledizione deve avere effetto positivo... Cioè, scusa, non volevo usare queste parole... Insomma se deve avere effetto, deve essere fortemente motivata da qualcosa che la vittima designata ha fatto. Il vecchio detto Nessuno può maledire un uomo innocente, anche se strettamente parlando non è esatto, tuttavia esprime una sostanziale verità...» «Oh, state tranquillo che non è innocente» lo interruppe la ragazza con tono sicuro. «Ha ucciso mio zio.» Alexius annuì. «Questo è un buon punto di partenza» disse. «Se non altro esiste un'azione in cui una maledizione può trovare il suo fondamento. È meglio se un omicidio è anche ingiustificato, tuttavia si può riuscire a maledire efficacemente anche un uomo che era nel suo diritto, se si è comunque comportato in modo violento o tale da causare danno ad altri. Ecco perché prima ho precisato che la massima da me citata a proposito della possibilità di maledire un uomo innocente, non è del tutto veritiera.» La ragazza rifletté per qualche attimo. «È stato legale» disse. «Ma non giustificato. Come può mai essere giustificato il fatto di uccidere qualcuno? Non può, e questo è tutto.» Il Patriarca decise di lasciare cadere questo specifico punto. «Quando
dici legale...» iniziò. «Mio zio è un avvocato. O almeno lo era.» La ragazza sorrise. «Non uno molto bravo. Non ha mai ucciso nessuno nella sua vita. Si è sempre occupato solo di testamenti e divorzi, capite.» Alexius soppresse un sorriso, pensando a una famosa statua della periferia in cui era nato: DEDICATO ALLA MEMORIA DI NICETAS IL PUGILE DI CUI SI PUÒ DIRE SENZA TEMA DI SMENTITA CHE NON FECE MAI DEL MALE A NESSUNO. «Forse non era il lavoro più adatto per lui» disse. «Immagino che sia stato un altro avvocato...» «Il suo nome è Bardas Loredan» dichiarò prontamente la ragazza. «Credo che sia piuttosto famoso. Adesso potete dirmi le parole giuste, per favore?» Alexius sospirò. «Non è davvero così semplice come credi» dichiarò. «Tanto per cominciare, non esiste nessuna particolare parola; in effetti si può maledire qualcuno con perfetta efficacia senza dire nulla. Ciò che davvero serve è un'immagine...» «Ne ho una» lo interruppe la ragazza, infilando una mano in una manica. «Mentale» continuò Alexius imperterrito. «Una chiara immagine mentale dell'atto che ha fatto scaturire la tua volontà di lanciare la maledizione.» Strinse i denti; alla fine dei conti era meglio spiegare tutto subito: probabilmente avrebbe risparmiato del tempo dopo. «Il modo in cui funziona è che un atto giustificante, qualcosa di violento o che ha fatto del male, provoca un disturbo nelle forze alle quali noi ci riferiamo come a Il Principio.» Capiva che era un modo assai grossolano di mettere le cose, ma non avrebbe saputo fare di meglio. La ragazza sembrava capire. «È come quando lanci un sasso in acqua. Per una frazione di secondo l'acqua viene spostata e si crea una specie di vuoto nel punto in cui è abitualmente. Poi l'acqua torna a occupare quel punto, ma le increspature della superficie continuano a propagarsi. Ciò che possiamo fare, talora, è prendere il controllo di quel vuoto, riempiendolo con qualcosa di nostra scelta. È questo ciò che noi chiamiamo una maledizione.» «Credo di capire» disse la ragazza. «Ma allora che cosa ne è dell'acqua? Quella che avrebbe dovuto tornare a occupare il vuoto, intendo?»
Alexius sorrise, impressionato. «Questa è un'ottima domanda» rispose. «Vedi, interferendo là dove c'è già stata un'interferenza non facciamo altro che peggiorare le cose... No, questo è un modo sbagliato di porre la questione. Aumentiamo il livello di disturbo e inevitabilmente suscitiamo una reazione. Per essere più precisi, la reazione tende a essere assai più intensa della maledizione stessa.» «Ti colpisce con più violenza di quella con cui la maledizione colpisce la vittima?» Alexius annuì soddisfatto. «Hai centrato il punto» disse. «Ecco la ragione per cui prima di imparare a lanciare maledizioni bisogna imparare a deviarle. Altrimenti c'è il rischio di riuscire a far sì che il nostro nemico si fratturi una gamba, ma al prezzo del nostro stesso collo.» La ragazza si strinse nelle spalle. «La cosa non mi preoccupa» disse. «Volete per favore dirmi come devo procedere?» Alexius tamburellò con le dita sul ginocchio. Una cosa che gli adepti del Principio non facevano era di lasciarsi assoldare come assassini metafisici, maledicendo gente perfettamente sconosciuta all'ordine. A parte le implicazioni sociali della cosa, bisognava anche tenere conto del pericolo. La reazione a una maledizione quando si era nella propria mente era già un'esperienza sgradevole; sventare la medesima reazione quando ci si trovava all'interno della testa di qualcun altro era pressoché impossibile, a meno di non sapere esattamente quello che si stava facendo. E il Patriarca non aveva nessuna difficoltà ad ammettere di non essere affatto sicuro di saperlo in quel momento. «No» disse. «È fuori questione. La sola cosa che posso fare è tentare di lanciare la maledizione per tuo conto, ma...» «Lo fareste?» La spiegazione accuratamente formulata che si era preparato sembrò svanirgli dalla mente. «È una cosa molto difficile» rispose. «E probabilmente non funzionerebbe. Vedi, dovrei provare a vedere che cosa c'è nella tua mente.» «Siete in grado di farlo?» Il Patriarca si tirò la barba. Sarebbe stato facile rispondere che era impossibile; perché in effetti lo era o comunque poco ci sarebbe voluto a dimostrarle che non era una cosa possibile. A tre settimane da lì, sarebbe stato intento a spiegare proprio questo nel corso delle lezioni. Una nozione che era necessario imparare, tuttavia - il famoso quarto postulato - era che il fatto che una cosa fosse impossibile non voleva dire che uno non potesse
riuscire a farla se veramente ci provava. Ma per provare, doveva volerla fortemente. «Più o meno» rispose. «Come funziona?» Alexius lasciò che un flebile sorriso gli si disegnasse sulle labbra. «Non sono affatto sicuro che funzioni» ribatté. «Qualche volta capita, ma non è esatto dire che si tratta di un processo che funziona o no. Un orologio funziona se lo carichi. Qualche volta però può capitare che un orologio fermo indichi l'ora esatta.» La ragazza lo fissò. «Che cos'è un orologio?» domandò. Alexius accantonò l'argomento con un gesto. «Se ti fa piacere ci proverò» disse. «Ma non ti prometto niente.» «Grazie.» «Di niente. Ora, devo cercare di visualizzare esattamente ciò che è accaduto; devo vedere quel sasso colpire la superficie dell'acqua. Non un sasso qualsiasi; proprio il sasso giusto e nessun altro. Mi capisci?» «Credo di sì.» La ragazza appoggiò il mento sulle mani e corrugò le sopracciglia. «Volete che vi racconti quello che è successo.» Il Patriarca scosse la testa. «No» rispose. «Voglio che mi racconti quello che ricordi, il che è diverso. Quando ci pensi o quando qualcosa ti fa tornare in mente quell'episodio non c'è un'immagine a cui il tuo cervello corra immediatamente?» «Sì. È come una frazione di secondo, scolpita nella memoria.» «Molto bene.» Alexius fece un profondo respiro. «Dimmi che cosa vedi.» La ragazza alzò lo sguardo su di lui. «Lo zio stava tentando di colpirlo... Una specie di fendente laterale più che non una stoccata vera e propria. Lui riuscì a deviare lateralmente la spada dello zio e lo trafisse, poi la sua spada si spezzò. Vedo come se fosse ora il tratto spezzato della sua lama che sporge dal petto dello zio. È una cosa così strana vedere un pezzo di metallo tanto lungo infilzato nel corpo di una persona. Mi fa venire in mente un ago puntato su un cuscino o un coltello piantato nel burro.» Alexius annuì. «E che cosa mi dici a proposito dell'espressione sul suo viso? Su quello di tuo zio, intendo. Riesci a vederla?» «Oh, sì.» La ragazza abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate. «Era contrariato.» «Contrariato?» ripeté Alexius. «Esatto. Come quando si fa un gesto goffo, come lasciare cadere una
tazza o strapparsi una manica su un chiodo. Era contrariato perché aveva fatto un errore di scherma. Era molto orgoglioso di come tirava di spada. Sapeva di non essere poi così bravo, ma si esercitava per ore. Aveva l'abitudine di appendere un sacco pieno di paglia al melo sull'aia e di colpirlo con un pezzo di legno. Inoltre sapeva i nomi di tutti i vari colpi e li pronunciava ad alta voce a mano a mano che li provava contro il sacco. Tutte le volte che faceva un errore era sempre contrariato. Credo che fosse la sola cosa che gli stava a cuore.» «Capisco» disse Alexius. «Dovevi volergli molto bene» aggiunse poi, anche se era una osservazione superflua. La ragazza annuì. «Aveva otto anni più di me. Dicono che ventitré anni sia già una bella età da raggiungere per uno spadaccino mediocre.» Bene, torniamo a noi, rifletté il Patriarca. Ventitré. Nelle periferie occidentali era abbastanza consueto per gli zii sposare le proprie nipoti. Ecco una cosa utile; non c'era niente di meglio dell'amore per aiutare ad afferrare un'immagine fluttuante. Chiuse gli occhi... «La state lanciando adesso?» «Sì. Non interrompermi.» «Ma non vi ho ancora detto che tipo di maledizione voglio che lanciate.» Alexius esalò un sospiro esasperato. Non solo ci si aspettava da lui che riuscisse a lanciare una maledizione su uno sconosciuto: doveva anche essere una specifica maledizione. La cosa stava cominciando a rivelarsi un'autentica impresa. «Allora?» «Riesco a vederlo» disse la ragazza. «È in tribunale e io sono di fronte a lui. Tutti e due impugniamo una spada e lui cerca di colpirmi. E poi...» Alexius sollevò una mano allarmato. «Alt» disse «o finirai per lanciarla tu stessa e allora la reazione farà crollare il tetto sulla testa a tutti e due. Abbi fiducia in me; credo di sapere quello che hai in mente.» Chiuse nuovamente gli occhi; e là, come se fosse stata dipinta all'interno delle sue palpebre c'era la corte, con l'alto soffitto a cupola, le file di banchi di pietra che circondavano il pavimento coperto di sabbia, la piattaforma del giudice, le postazioni marmoree entro le quali gli avvocati attendevano di essere convocati. Riusciva a vedere la schiena di Loredan e la ragazza da sopra la sua spalla; era più grande, cresciuta, straordinariamente bella in un modo che lo faceva sentire a disagio. Vedeva chiaramente la luce rossa e blu che proveniva dalla grande finestra a rosone strappare riflessi alla lama che lei impugnava: una lunga e sottile striscia di acciaio
temperato che per effetto della prospettiva sembrava essere un prolungamento della sua mano, un singolo dito puntato. Vide Loredan avanzare, ne apprezzò la grazia e la misura nei movimenti; poi vide la ragazza reagire con una parata molto alta. Ora stava proiettandosi in avanti anche se sembrava quasi che non avesse mosso il braccio, salvo che per la rotazione del polso che aveva prontamente rimesso la spada in linea. La spalla di Loredan si abbassò nel tentativo di frapporre la sua spada a quella di lei, ma stavolta risultò essere troppo tardi: il solito errore degli uomini che hanno troppa fiducia in se stessi. Dato che Loredan gli volgeva la schiena Alexius non poté vedere l'impatto né il punto in cui la lama si era infilzata; vide però la sua mano lasciare cadere la spada e poi lo vide indietreggiare barcollando e cadere, piegato in due, morto prima che la sua testa sbattesse rumorosamente contro le pietre dell'impiantito. La fanciulla non fece alcun movimento e continuò a tenere la spada puntata contro di lui. Si rese conto di non avere mai visto l'uomo in faccia e di non avere mai chiesto quale fosse il nome della ragazza... Aspetta. Ecco che arriva. Immagina la mosca che ronza intorno alla tua testa, o la falena che sbatte qua e là fastidiosamente nel tuo studio di notte mentre sei chino sulla fiamma della lampada. Allunghi una mano e il tuo grosso pugno fa sembrare ancora più piccolo l'insetto mentre le dita si serrano nel tentativo di schiacciarlo. O riesce a schivarle in tempo o non ci riesce. Se ci riesce, lo spostamento d'aria provocato dal gesto della tua enorme mano sposta lateralmente l'insetto che per un momento perde il controllo e si agita disperatamente. Alexius poté avvertire l'enorme mano che si stava avventando su di lui da tergo, pur senza riuscire a vederla; riuscì a sentire lo spostamento d'aria che lo fece barcollare come se una grossa onda lo avesse sorpreso in mare aperto. Non c'era nulla che potesse fare; la mano sarebbe riuscita ad afferrarlo, oppure no. Non ci riuscì; ma gli passò così vicina da sbatterlo per terra, come se una porta gli si fosse chiusa improvvisamente in faccia. Cercò di emettere un suono, ma non gli era rimasto neanche un po' di fiato nei polmoni. Spalancò la bocca e cadde dal letto. «Vi sentite bene?» «No» rispose Alexius. «Aiutami ad alzarmi.» La ragazza lo afferrò per le maniche; era molto forte. «Che cosa è successo?» domandò. «Ha funzionato?» «Non ne ho la più pallida idea» borbottò il Patriarca, massaggiandosi la
nuca con molto più vigore di quanto non giustificasse il piccolo bernoccolo che si era procurato. «Nella mia mente, o meglio nelle nostre menti, l'ho ucciso. Per essere precisi, tu lo hai fatto. Se poi davvero, nella realtà...» La ragazza lo lasciò andare di colpo. «Ma così non va» esclamò. «Non è questa la maledizione che volevo.» Alexius le rivolse uno sguardo assassino; l'intera faccenda aveva smesso di essere allarmante e stava cominciando a farsi ridicola. «Che cos'altro avresti dovuto volere?» ribatté. «Sei in cerca di vendetta, non è così?» «Vi ho già detto che non ammetto l'omicidio» ribatté con freddo furore. «Che cosa potrà mai venire di buono dalla sua morte? Se solo mi aveste lasciato spiegare...» Alexius lasciò ricadere la testa su uno dei magri cuscini. «Allora che cosa volevi, se non cercavi la sua morte?» domandò stancamente. «Sii onesta. Voi due, davanti a un tribunale...» «Volevo mozzargli la mano destra» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Ero sul punto di mozzargli la mano e poi di andarmene, mollandolo lì di fronte a tutti.» Girò di scatto la testa e i capelli le nascosero il volto. «Restare ucciso non è un castigo, per lui; fa parte del suo lavoro. Volevo che soffrisse.» «Be', ormai è fatta» sbottò Alexius. «Dovrai accontentarti e questo è quanto. Sempre ammesso che generi qualche effetto, naturalmente. Come ti ho già detto, ci sono delle ottime probabilità che non sia così.» La ragazza si alzò in piedi. «Non penso che sia quello che accadrà» disse. Si mosse verso la porta. Chissà per quale ragione, si domandò Alexius, i giovani sono costituzionalmente incapaci di dire grazie. La ragazza stava per svanire oltre l'accecante lama di luce che aveva anche preannunziato la sua entrata, quando se ne ricordò. «Come ti chiami?» le gridò. «Iseutz.» Sentì la sua voce provenire dall'oscurità. «Iseutz Hedin.» «Ci vediamo domani a lezione» le gridò in risposta mentre la porta si richiudeva. Sapeva che non sarebbe stato così. Una era eliminata, ne restavano ancora altri quattrocento novantanove. Quando il dispensiere salì per abbassare il candeliere, Alexius gli scagliò contro un libro. CAPITOLO SECONDO
Tradizionalmente il modo migliore per raggiungere l'isola su cui è stata eretta Perimadeia, la più antica e la più bella di tutte le città del mondo, è dal versante del mare. Dapprima solo il faro si staglia al di sopra della linea che separa il cielo dall'acqua. A mano a mano che la nave si avvicina, le torri del Phylax e le guglie del Phrontisterion si affacciano sopra l'orizzonte, come verdi germogli di grano. Subito dopo la montagna stessa sembra sorgere improvvisa dalle acque e ogni straniero scorge per la prima volta in distanza la sagoma lontana della Tripla Città. La sommità della montagna è come un bagliore ultraterreno di marmo bianco e tetti dorati e i forestieri ignoranti che non sanno fare altro che credere nell'esistenza degli dei danno immediatamente per scontato che quella sia la loro residenza. Quando gli viene spiegato che la città superiore è la dimora della famiglia imperiale, gli viene quasi naturale fare un'associazione mentale fra dei e imperatori, una reazione abbastanza naturale che generazioni di diplomatici di Perimadeia hanno sfruttato fino in fondo. Dato che nessuno mai entra o esce dalla città superiore, nulla può contraddire ciò di cui si convincono i visitatori più barbari; non che lo stato di Perimadeia abbia mai fatto qualche sforzo per convincerli del contrario. Al di sotto di quella sorta di corona bianca e dorata si estende la seconda città, un intrico di palazzi, templi, banche, mercati, arene ed edifici pubblici di ogni genere, tali da togliere il respiro, mescolati e spesso indistinguibili rispetto alle residenze private dei ricchi e potenti. Tutti i grandi di Perimadeia vogliono che la loro casa appaia come un glorioso e impressionante edificio ufficiale e più di un inviato o di un mercante confuso ha vagato per ore fra i chiostri e i corridoi di qualche edificio della seconda città solo per scoprire alla fine di trovarsi nella residenza di un privato cittadino. La città inferiore diventa visibile solo quando la nave si avvicina alla costa, essendo in larga misura oscurata dalle colossali mura che guardano verso il mare, guardiane invulnerabili della città da sette secoli. Una volta diventata visibile, la sezione più grande e più caotica della città assomiglia molto a qualsiasi altra metropoli in tutto il resto del mondo, salvo per il fatto che è molto più ampia e più fittamente costruita; è come se i grandi imperatori conquistatori del passato avessero raccolto le città conquistate durante le proprie campagne, selezionato il bottino e tutte le altre cose di valore che valeva la pena di trattenere e poi gettato gli edifici vuoti ai piedi della montagna, lasciando che si accatastassero come una grossa pila di gusci di ostriche.
Se ci si avvicina alla città da uno dei due bracci del fiume alla cui biforcazione sorge l'isola, la vista è un po' meno spettacolare. Il viaggiatore vede immediatamente l'intera montagna non appena varca uno degli stretti passi che valicano le colline circostanti e le mura rivolte verso terra non nascondono la città inferiore nella stessa misura in cui lo fanno le difese marittime. Se la si avvicina dal fiume, Perimadeia appare come una città molto grande divisa in tre livelli, lambita su due lati dagli estuari di corsi di acqua dolce e sul terzo dal mare; imprendibile, arrogante, infinitamente ricca, ma non necessariamente la dimora degli dei. Certamente anche gli dei avrebbero dei quartieri riservati ai propri servitori, ma apparirebbero più puliti e non così bui e sovraffollati. Un altro vantaggio dell'avvicinarsi dal mare, per effetto dei venti prevalenti, è che l'odore si comincia a notare solo quando la nave ha attraccato nel porto della Mezzaluna d'Oro. I viaggiatori che arrivano dal fiume sono investiti dall'odore assai prima; il vantaggio peraltro è che così hanno modo di abituarvisi gradualmente, prima di arrivare ai ponti levatoi, mentre al contrario quelli che arrivano dal mare ne sono travolti sgradevolmente e a sorpresa non appena mettono piede giù dalla nave. Solo uno ogni cento dei cittadini nati a Perimadeia è anche solo vagamente consapevole dell'odore; anzi chi è nato e cresciuto nella città tende a non notarlo e si lamenta dell'aria blanda e rarefatta in cui si imbatte quando viaggia all'estero. Non è un odore fatto di un unico aroma; si tratta piuttosto di un ricco e complicato miscuglio di fumo di legna e carbone, di concerie, raffinerie, distillerie, vetrerie, panetterie, taverne, profumerie, fornaci, mattonaie, botteghe artigiane, pesce, escrementi di bestiame, sudore umano e alghe marcescenti, in un insieme di cui è impossibile trovare al mondo anche solo un parallelo. La carovana di Temrai aveva seguito il braccio occidentale del fiume scendendo dagli altipiani e di conseguenza entrò in città attraverso il Ponte di Drover, varcando la Porta Nera. Una volta oltrepassata la porta la strada diventa la principale via del quartiere dei carpentieri e dei costruttori di macchine e la prima cosa che Temrai vide nella Città della Spada fu il famoso mulino che triturava le ossa e che sorgeva accanto alla porta, sul lato sinistro. Si trattava di una visione straordinaria per un giovanotto appena arrivato dalle pianure. Ciò che Temrai vide fu un pozzo profondo dal quale si ergeva un gigantesco cerchio di legno con delle pale che si irradiavano da esso come i raggi da una ruota. Qualcuno aveva aperto un buco nelle mura
della città a un'altezza più o meno di due metri e mezzo dal fondo del pozzo; poiché si trovava al di sotto del livello dell'estuario dall'altra parte delle mura, attraverso il buco scorreva dell'acqua che cadeva sulle pale e faceva ruotare il cerchio di legno prima di venire raccolta e deviata nuovamente di là dalle mura attraverso un foro più piccolo, controllato da qualche sorta di meccanismo che faceva sì che il flusso d'acqua si scaricasse senza lasciare entrare acqua dal fiume. Il cerchio ruotava intorno a un asse formato dal tronco di un pino gigantesco. All'altra estremità dell'asse c'era una ruota più piccola nella quale erano stati piantati dei pioli, che si incastravano perfettamente in altrettanti pioli piantati a loro volta in una seconda ruota posizionata ad angolo retto rispetto alla prima. In realtà c'era un'intera serie di ruote, tutte che si incastravano l'una nell'altra come le fauci di un branco di cani selvatici, e che alla fine si collegavano alla macina. Il miracolo consisteva nel fatto che benché l'asse ruotasse lentamente, la ruota del mulino girava in maniera molto più veloce, garantendo così che le ossa che venivano gettate nel raccoglitore fossero triturate fino a ridursi a una polvere finissima. Temrai non aveva mai visto così tante ossa in un unico luogo; erano perfino più di quelle che ricoprivano la piana di Skovund, teatro della grande battaglia fra i clan orientali e occidentali che si era svolta tre generazioni prima. Due uomini stavano in piedi sul raccoglitore e ve le gettavano a palate, raccogliendole da un recipiente fatto di assi. La gran parte delle ossa era di bue, di cavallo o di capra, ma mescolate insieme a esse ne apparivano qua e là di inequivocabilmente umane: costole, tibie, braccia, teschi. Lo scricchiolante suono della triturazione a mano a mano che la mola ci passava sopra ricordava quello di uomini a cavallo che in una foresta avanzassero su un letto di felci e rami secchi, solo molto più forte. «A che cosa servono?» chiese agli uomini con i badili. Non potevano sentirlo; o se per caso potevano, comunque non riuscivano a comprendere il suo accento. Ma l'uomo che possedeva il banco di oggetti di rame proprio accanto al mulino lo tirò per una manica e gli spiegò; il fertilizzante d'ossa, disse, era molto apprezzato dai contadini e dai giardinieri del mercato. Faceva crescere i vegetali. «Oh» disse Temrai «capisco. Grazie.» «Sei uno delle pianure, non è vero?» Temrai annuì. Riusciva a comprendere l'artigiano perfettamente, anche se trovava il suo accento cantilenante abbastanza antipatico. Prima della
partenza gli era stato spiegato che la gente della città cantava più che parlare; fino a quel momento non aveva capito come fosse possibile. «In tal caso» disse l'artigiano «vorrai certamente comperare un'autentica pentola di rame di Perimadeia. E capita per puro caso...» Dopo avergli spiegato che non aveva denaro con sé (fortunatamente l'artigiano gli credette) Temrai si allontanò velocemente e spinse il suo cavallo su per la collina verso il punto in cui gli era stato detto che avrebbe trovato l'arsenale della città. Lungo la via passò davanti a un numero crescente di banchi e di botteghe sempre più notevoli e affascinanti: un uomo stava usando un ramo di salice piegato per fare girare un fuso su cui era fissata la gamba di una sedia che lui stava lavorando con un cesello a mano a mano che ruotava; un fabbricante di balestre stava ricavando in una barra di ferro la cavità cui fissare la molla; due uomini stavano lavorando con il più grosso trapano che Temrai avesse mai visto, con cui stavano facendo un buco in una ruota di ferro; dei carpentieri stavano saldando la struttura di una magnifica pressa a mano, che probabilmente serviva per schiacciare grappoli o olive. Temrai era sbalordito da quello che vedeva, al punto tale che solo per un pelo non provocò svariati disastri per il fatto di non guardare dove stava andando ed evitò miracolosamente di passare direttamente in mezzo ai banchi ben ordinati dei vari mercanti. Era incredibile, disse a se stesso, che mani umane avessero potuto costruire tutte quelle cose meravigliose. Evidentemente essere un uomo implicava più cose di quanto non avesse realizzato fino a quel momento. E quella era la città in cui si sarebbe guadagnato da vivere decentemente lavorando come fabbro. In qualche modo, non gli sembrava giusto; con tutto quello straordinario bagaglio di conoscenze e tutte quelle incredibili macchine e attrezzature, come era possibile che lui sapesse qualcosa che nella città era ignorato? Se fosse dipeso da lui, non si sarebbe mai permesso di pensarlo. Ma naturalmente non era così; quindi legò il cavallo fuori dagli imponenti portali di bronzo dell'arsenale, trovò una porta laterale dall'aria assai meno intimidente ed entrò. A differenza della maggior parte di quelli della sua razza, Temrai era già stato all'interno di altri edifici. Sapeva che cosa si provava al trovarsi in mezzo a delle pareti e sotto un tetto e anche se si trattava di un'esperienza non proprio di suo gradimento, la cosa non gli risultava comunque troppo gravosa. Stavolta, però, si trattava di una situazione del tutto differente. Era buio, come all'interno della tenda di suo padre e la poca luce che c'era
consisteva in un tremolante bagliore rossastro. Quest'ultimo, come il caldo opprimente, proveniva da delle enormi fornaci dalle quali uomini sudati e a torso nudo spillavano getti di acciaio fuso bianco e brillante, riversandolo in lunghe file di identici stampi che stavano tutto intorno alla base delle fornaci come altrettanti maialini raccolti intorno a una scrofa. Il rumore era ancora peggio; in patria non c'era nulla che desse più piacere a Temrai del rumore del martello del fabbro, ma quelli che sentiva dovevano sicuramente essere i martelli dei geni del tuono. Quando i suoi occhi si furono abituati un po' di più alla scarsa luce, fu in grado di individuare la fonte del frastuono: una batteria di quelli che potevano solo essere giganteschi martelli meccanici; degli enormi pali di legno ricoperti di ferro o di rame che venivano sollevati da robuste ruote fino a quando un meccanismo non li liberava e li lasciava in caduta libera. Dietro la macchina che muoveva i martelli vide un'altra ruota gigante, simile a quella che faceva funzionare il mulino delle ossa ma di proporzioni ancora maggiori. Notevole: questi uomini facevano sì che il fiume lavorasse per loro. L'idea stessa disturbò Temrai; era come schiavizzare gli dei. Salvo il fatto che tutto pareva dimostrare che non ci fosse alcun dio in città. Forse, rifletté Temrai, con tutte quelle macchine la città non ne aveva bisogno. «Tu.» Si girò e si trovò di fronte a un uomo basso e grasso, con due rade ciocche di capelli bianchi ai lati del cranio perfettamente calvo, che lo stava fissando. Temrai sorrise. «Tu» ripeté l'uomo calvo. «Che cosa vuoi?» Come tutti gli altri uomini nell'edificio anche questo era nudo, eccezione fatta per un gonnellino di tessuto bianco, sporco. Era perfettamente comprensibile, pensò Temrai, se uno era costretto a lavorare tutto il giorno immerso in quel calore, anche se con le miriadi di scintille che sprizzavano continuamente dalle fornaci ardenti pensava che avrebbe preferito tenersi addosso la camicia e sudare di più. E quello era il posto nel quale si era recato nella speranza di trovare lavoro. Sentì un forte impulso a battersela, ma riuscì a trattenersi. «Per favore» disse «voglio un lavoro.» L'uomo lo guardò come se gli avesse appena chiesto una fetta di luna fra due fette di pane. «Un lavoro» ripeté. «Sì, per favore» insistette Temrai. «Vengo dalle pianure. Sono un fabbricante di lame.»
L'uomo calvo inarcò entrambe le sopracciglia e annuì. «Ma davvero?» osservò; o meglio, cantilenò. Anche se fosse vissuto lì per il resto della sua vita (gli dei non volessero!), rifletté Temrai, non si sarebbe mai abituato a quel modo sbalorditivo di parlare. Dovette fare uno sforzo per non mettersi a ridere. «Sì» disse ancora Temrai, chiedendosi che cos'altro avrebbe dovuto dire. «Ho anche portato con me un po' di lega per la saldatura. Vi interesserebbe vederla?» L'uomo annuì; a questo punto Temrai infilò una mano nella bisaccia e ne tirò fuori cinque barrette di quel sottile filo argentato che si diceva fosse tanto ambito da quella gente così straordinaria. L'uomo gliele tolse di mano con reverenza, come se si fosse appena visto porgere l'anima di sua nonna. «Sai come usarla?» chiese. Temrai annuì. «So utilizzare anche la normale lega di bronzo e piombo» affermò. «E so fare fili e strati sottili di ferro, saldarli per farne il nucleo di una lama e poi forgiare e temprare il taglio.» «Un autentico giovane maestro» rispose l'uomo. «Non sembri abbastanza vecchio da avere già concluso il tuo tirocinio.» «Scusate?» L'uomo scrollò la testa. «Il tirocinio» ripeté. «Hai l'aria di uno che è ancora apprendista. Lascia perdere. Vieni qui.» La parte del vasto locale verso cui l'uomo lo condusse, grazie al cielo era piuttosto vicina a una delle alte finestre e per la prima volta da quando aveva varcato la soglia Temrai ebbe la sensazione di vederci di nuovo veramente. C'erano delle incudini, opportunamente fissate su delle basi di olmo; rastrelliere piene di martelli, molle, pinze, ferri, preselle, mandrini; tutti strumenti rassicurantemente familiari in mezzo alle cose strane e meravigliose che riempivano il resto della stanza. C'era anche un piccolo, semplice crogiolo in mattoni con un mantice in pelle di capra, in cui la lama di una spada emanava un bagliore rosso scuro; e accanto a esso barre di lega di zinco e piombo e un recipiente di coccio pieno di liquido. Quando vide tutto ciò Temrai comprese che cosa gli sarebbe stato chiesto e si sentì immediatamente rassicurato. In ogni parte del mondo le spade sono fabbricate più o meno nello stesso modo; c'è un nucleo di metallo morbido intorno al quale vengono avvolti centinaia di strati di fili o di fogli di ferro, prima di venire resi incande-
scenti e trasformati a colpi di martello in un unico blocco di metallo fuso; poi a parte c'è il filo, il bordo tagliente, ricavato da vecchi chiodi o da ferri di cavallo, anch'essi fatti fondere, martellati, temperati, di nuovo martellati e resi incandescenti in un forno a carbone, con sangue essiccato e cuoio, in modo da trasformare il ferro in acciaio. Attraverso questo metodo si può ottenere una lama con un adeguato taglio, in grado di tranciare i materiali più morbidi di cui sono fatti gli elmi e le armature, ma non così fragile da spezzarsi nel caso di un colpo violento, come un calice lasciato cadere su un pavimento di pietra. Ammesso che un fabbro abbia le competenze di base, molto tempo e molta pazienza, le varie parti separate non sono difficili da fabbricare; la parte difficile consiste nel saldare il taglio al nucleo, usando liquidi animali e lega. Temrai scelse un paio di molle, tolse la lama incandescente dal fuoco e la esaminò. Il taglio era già stato saldato al nucleo e lungo l'intera giuntura si notavano delle infinitesimali gocce di liquido che brillavano di un bagliore aranciato. Si guardò intorno, vide dov'era il mastello pieno d'acqua e vi immerse la lama. «Spiacente» spiegò. «La saldatura era sbagliata.» L'uomo calvo aggrottò le sopracciglia, ma Temrai sembrò non prenderne nota. Quando la lama fu raffreddata ne tagliò via con delle pinze le parti fragili e con pochi misurati colpi di un martelletto fece in modo che il taglio si staccasse dal nucleo. Tolse dalla bisaccia il proprio personale contenitore di additivo: un corno di montone svuotato e pieno di quella sottile polvere bianca che costituiva la componente essenziale del più grande miracolo di cui era capace la sua nazione. Fece scivolare una piccola porzione di polvere su una pietra piatta, la raccolse in un mucchietto e ci sputò sopra diverse volte; poi mescolò il tutto con la punta di un mignolo fino a quando non ebbe ottenuto una pasta uniforme e cremosa. Stando bene attento a non fare uno strato troppo spesso, la spalmò sul nucleo e sul taglio nei punti in cui dovevano saldarsi, non senza avere prima raschiato via con il suo coltello i resti bruciacchiati del vecchio additivo. L'uomo calvo gli allungò un pezzo di filo di ferro e Temrai ci avvolse strettamente la lama dopo essersi assicurato che le giunture combaciassero perfettamente. Poi rimise il tutto nella piccola fornace e fece andare il mantice con grande energia fino a quando non sentì il calore scottargli le gambe.
«Dobbiamo renderla davvero incandescente» spiegò «o l'argento non fonderà.» La differenza, praticamente l'unica differenza, era che lì si usava lo stagno (ricavato da rame e zinco) o (il che era ancora peggio) una lega perfino più morbida, fatta di stagno e piombo. Nelle pianure, non commettevamo quell'errore. Univamo tre parti di rame, una di zinco e sei parti d'argento, ottenendo una lega che scorreva come acqua a una temperatura assai inferiore e univa il ferro all'acciaio in un modo che risultava del tutto impossibile a una lega di piombo e stagno. Quando la lama fu di un brillante colore arancione, Temrai prese una barretta di lega dalla bisaccia, la passò in quello che era rimasto della pasta cremosa e poi ci sputò sopra, per invocare la buona sorte. Poi tolse la lama dal crogiolo e fece aderire la barretta alle giunture. Non appena la barretta sfiorò la spada la lega fondette e si spandette nella sottile fessura, lasciando solo l'ombra di una sottile linea bianca sotto una crosta di colore più grigio. Quando si fu presa cura di entrambi i lati della lama, davanti e dietro, la rimise nel fuoco, recitò sottovoce la preghiera in onore del dio dei fabbri (non perché si aspettasse che il dio lo potesse sentire da quel luogo remoto, ma perché quello era esattamente il tempo che ci voleva perché la lega si spandesse perfettamente in tutte le giunture), la ritirò e si guardò intorno alla ricerca del vaso dell'olio. Non ce n'era nessuno. «No» rispose l'uomo calvo quando gli domandò se ce ne fosse uno. «C'è il secchio dell'acqua. A che cosa ti serve l'olio?» «Mi serve dell'olio» ripeté Temrai. «Sempre che ne abbiate. Se no vanno bene anche del lardo o del burro.» L'uomo si strinse nelle spalle e si allontanò, tornando dopo pochi secondi con un'alta giara piena di burro rancido. «Naturalmente lo usiamo per temperare l'acciaio, ma per raffreddare utilizziamo l'acqua» disse. «No» insistette Temrai, sia pure con il tono più gentile possibile. «L'olio è la cosa migliore, ma andrà bene anche il burro. In caso contrario la lama si raffredderebbe troppo in fretta e le saldature risulterebbero deboli.» La lama scivolò nel burro con un sibilo, sollevando una zaffata di fumo puzzolente. Ce la lasciò per il tempo necessario a rivolgere tre invocazioni ai geni del fuoco, la tirò fuori e stavolta la immerse nel mastello dell'acqua. «Fatto» disse. «Tutto qui?» «Sì.» «Oh.» L'uomo calvo fece spallucce. «Pensavo fosse una procedura più
elaborata. Mi immaginavo che voi, gente, usaste la magia o roba del genere.» Temrai scrollò il capo. «Niente magia» ribatté. «Argento. E l'additivo. E poi olio o lardo, che vanno meglio del burro, sempre che riusciate a procurarvene un po'.» Poggiò la lama sull'incudine, pregando di avere fatto tutto nel modo giusto e che quando avrebbe fatto saltare la crosta a martellate di fronte a lui apparisse una bella, diritta linea dorata senza buchi o cavità. Non rimase deluso; aveva fatto un buon lavoro. Tagliò via il filo di ferro, prese una piccola lima dalla rastrelliera e grattò via i pochi, piccoli grumi di stagno che rimanevano, orgoglioso della lama. Ora tutto ciò che restava da fare era riscaldare gentilmente la spada fino a farle assumere un colore vagamente di paglia scura e poi tuffarla in acqua (non in olio, lardo o burro come aveva detto l'uomo; come era possibile che non sapessero queste semplici cose?), indi lucidarla e affilare il taglio; un lavoro semplice che chiunque era in grado di fare, un compito che il maestro poteva tranquillamente affidare all'apprendista. Strano, tuttavia, che lì, nella Città della Spada, dove tutto veniva deciso dalle spade e le buone lame venivano stimate più di qualunque altra cosa, non conoscessero il modo appropriato di forgiarle. Eppure nelle pianure, dove invece possedevano l'abilità e le necessarie conoscenze, si pensava assai poco alle spade, che erano tenute in scarsa considerazione da una nazione di arcieri. Se finivi per trovarti abbastanza vicino al nemico da essere in condizione di usare la spada, molto probabilmente qualcuno aveva commesso un clamoroso errore. L'uomo fissò la lama, massaggiandosi il mento. Ne ispezionò entrambi i lati; passò il polpastrello su e giù lungo le giunture svariate volte, poi abbastanza all'improvviso sollevò il braccio e picchiò con tutta la sua forza la lama contro l'estremità di un'incudine. Ci fu un orrendo clangore; la spada scavò una tacca spessa come la corda di un arco nel metallo dell'incudine, rimbalzò, sfuggì di mano all'uomo calvo e cadde al suolo con grande fragore. «Sei assunto» disse l'uomo. «Cinque quarti d'oro al mese. Domani mattina presentati un'ora prima dell'alba.» Si massaggiò il palmo della mano destra con il pollice della sinistra. «Ti procurerò dell'olio» aggiunse. «D'oliva andrà bene?» Temrai si strinse nelle spalle. «Non lo so» disse. «Da dove vengo io disponiamo solo di grasso purificato. Immagino che il vostro olio andrà
altrettanto bene.» Cinque centesimi d'argento gli procurarono un angolo della camera di una locanda appena dietro l'angolo; la donna vecchia e magra che gestiva il luogo aveva borbottato qualcosa a proposito del fatto di accogliere sconosciuti nella sua casa linda e pulita (salvo che non lo era affatto, che un uomo e una donna stavano facendo rumorosamente l'amore nell'altro angolo e che un vecchio era apparentemente sul punto di morire sul pagliericcio accanto al suo senza che nessuno, a parte Temrai, ne prendesse neanche nota) e si era data molto da fare per accertare che avesse capito di non portare animali in camera e che i pasti erano da considerarsi extra. Se le porcherie mezze crude abbandonate in vari piatti sparsi sui tavoli della sala comune avevano qualcosa a fare con essi, Temrai disse a se stesso che sarebbe stato assai meglio provvedere direttamente a procurarsi il cibo. Quanto agli animali, più tardi quella sera vendette il suo cavallo ricavandone due quarti d'oro. A casa si sarebbe potuto comperare un'intera scuderia di ottimi cavalli con due quarti d'oro coniati dall'Impero e in aggiunta anche un posto in cui ricoverarli. E così eccomi qui, rifletté, mentre cercava di scavarsi una nicchia confortevole nel pagliericcio e infilandosi il mantello arrotolato sotto la testa per usarlo come cuscino. Fino a quel momento aveva fatto tutto nel migliore dei modi, il che lo meravigliava molto. Sarebbe stato in grado di apprendere tutto ciò che a suo padre serviva di sapere; dove le mura erano deboli e come erano organizzati i turni delle sentinelle, quanta gente viveva lì e chi custodiva le chiavi delle varie porte; quante frecce e quante punte di lancia l'arsenale era in grado di produrre in un giorno; in quali ore della giornata c'era bassa marea nell'estuario e se era possibile tagliare i ponti abbastanza in fretta da impedire a un gruppo di assalitori di assumerne il controllo. Se avesse svolto bene il proprio lavoro, forse avrebbe messo suo padre in condizione di mantenere il suo maggiore giuramento e di trovare la pace quando fosse venuto il suo tempo di cavalcare in cielo; e sarebbe stata una cosa giusta e buona. Ciò nonostante non poté fare a meno di domandarsi per quale precisa ragione suo padre volesse tanto quel luogo. Raderlo al suolo sarebbe stato uno spreco, odioso agli occhi degli dei. Saccheggiarlo... Tutti i carri del suo clan non sarebbero stati in grado di contenere la ricchezza di quella città e comunque essa era costituita da cose di cui nessuna aveva veramente bisogno. D'altronde cacciarne la popolazione per trasferirsi lì a vivere era qualcosa di assolutamente inimmaginabile, una
vera abominazione. Doveva esserci qualche altra ragione per cui suo padre era disposto a versare il sangue di tanti propri arcieri solo per impadronirsi di quel luogo bizzarro; ma non sarebbe stato in grado di immaginare quale fosse neanche se ne fosse andato della sua stessa vita. Il che (rifletté, mentre si abbandonava a uno stato di sopore) è esattamente la ragione per cui non sono ancora pronto a diventare il capo del mio clan. Per cui, va bene così. All'ultimo momento Loredan penetrò all'interno della guardia del suo avversario, girando lateralmente il proprio corpo e spinse in avanti il braccio destro fin dove riuscì ad arrivare. La lama dell'altro tracciò un segno sanguinante sul suo petto, pochi centimetri al di sopra dei capezzoli; la sua spada invece si conficcò nettamente in un occhio del suo antagonista, uccidendolo prima che avesse anche solo il tempo di togliersi dalla faccia il ghigno presuntuoso che vi aveva aleggiato per l'intero duello. Ci fu l'abituale flump! causato dalla caduta della carcassa quando il corpo colpì il pavimento; la causa era risolta a favore del querelante. L'usciere rivolse un gesto languido al chirurgo del tribunale, ma Loredan scosse il capo; contrariamente a quanto pensava la gente, i medici delle corti non uccidevano tanta gente quanta ne ammazzavano gli avvocati, anche se non per merito proprio. La sua ferita comunque non gli faceva ancora male, anche se il sangue scorreva copioso. Stando attento, Loredan scostò il tessuto inzuppato della camicia dal taglio e fu scosso da un brivido. «Andiamo» disse Athli a un passo da lui. «Quella ha bisogno di essere disinfettata. Per un attimo ho pensato che tu fossi davvero spacciato, lo sai?» «Anch'io» replicò Loredan in tono sommesso. «Odio le cause di divorzio.» «Avresti dovuto ritirarti» disse Athli, tirandolo con sé per una manica. Loredan aveva ancora la spada in pugno e non era per niente facile aprirsi la strada in mezzo alla folla confusa degli spettatori senza cavare per sbaglio un occhio a qualcuno. «È stato sempre sul punto di batterti fino dall'inizio.» Loredan scosse la testa. «Ritirarsi è roba da perdenti.» «Già, l'idea è proprio questa. Ma nelle cause di divorzio è consentito perdere, qui sta il punto. Scommettere tutta la tua vita su un riflesso di una frazione di secondo e vincere per un milionesimo di millimetro... be', in
questo contesto è una cosa veramente stupida.» «Grazie mille.» Una volta che furono all'esterno, Loredan passò la spada ad Athli, che pulì la lama e poi la mise via, nella sacca delle armi. Si sentiva debole e non stava bene; era un po' come se fosse stato lui a essere ucciso solo che nessuno se n'era accorto. «Andiamo a bere?» «Scordatelo. A casa.» Loredan decise di non protestare. «A casa tua o mia?» «Sapevo che me lo avresti proposto uno di questi giorni. Penso che la tua sia più vicina.» Naturalmente Athli non era mai stata a casa di Loredan; non ce ne sarebbe stata ragione, dopo tutto. Sapeva più o meno dove si trovava e dall'indirizzo aveva dedotto che vivesse in una delle "isole", gli alti blocchi di appartamenti costruiti con materiale scadente che erano spuntati come funghi nel distretto del circo dopo il grande incendio di un secolo prima o giù di lì. Sapeva che alcuni erano migliori di altri; ce n'erano con acqua potabile nel cortile, ipocausti che assicuravano il riscaldamento d'inverno, muri che stavano in piedi perché progettati come si deve invece che per semplice abitudine. Il blocco in cui viveva Loredan non era di questi. «Settimo piano» disse lo spadaccino, appoggiandosi allo stipite per riprendere fiato. «Va bene» rispose Athli ansimando attraverso i denti. Il peso del suo braccio le stava stritolando una spalla senza contare che Loredan continuava a inciampare nei suoi piedi. La scala era buia: alcune "isole" avevano delle lampade che illuminavano le scale a qualunque ora del giorno e della notte; non questa... E le scale erano strette e scivolose. Fu una lunga arrampicata. «Hai la chiave?» «Non c'è» rispose lui. «Dai un calcio alla porta, tende a incastrarsi.» La casa di Loredan risultò essere nuda, fredda e immacolatamente pulita. C'erano un letto, un tavolo, una poltrona finemente scolpita con teste di drago per braccioli e un arazzo consunto che un tempo doveva essere stato di valore appeso alla parete di fronte; una coppa, un piatto di peltro, un cucchiaio, un grosso baule per i libri con un pesante chiavistello, un armadio a muro per gli abiti, un ceppo di legno con un coltello appoggiato sopra, la cui lama era ormai diventata sottile come un foglio di carta a furia di venire accuratamente affilata; un paio di scarpe di ricambio e un cappello di cuoio che pendeva da un chiodo piantato nel muro; una
lampada di ceramica; una brocca con il monogramma di un negozio di vini sbalzato su un lato; una coperta di riserva. «Va bene» chiese Athli. «Che uso fai del tuo denaro?» Loredan emise un gemito e si lasciò cadere sul letto. «Dovrebbe esserci un po' di vino nella brocca» disse. «E anche delle bende nell'armadio a muro.» Athli stette a osservarlo mentre puliva la ferita, faceva delle spugnature con il vino della brocca e poi la bendava con un'abilità che chiaramente derivava dalla pratica. «Che cosa ne diresti di mettere qualcosa sotto i denti?» gli chiese. Loredan girò la testa verso il ceppo di legno. «Apparentemente non ho niente in casa» rispose. «Scenderò in panetteria un po' più tardi. Grazie per l'aiuto.» Athli fece spallucce e non disse nulla. Tutto il suo abito da assistente era sporco di sangue. Loredan le stava facendo capire chiaramente che adesso si aspettava che se ne andasse. «Ti serve qualcosa?» chiese, un po' imbarazzata. Loredan fece cenno di no con la testa. «Quando è la prossima causa?» chiese. «Fra tre settimane.» «Il cartello del carbone?» Athli annuì. «Temo di sì.» «Non importa. Non hai nessuna idea di chi abbiano ingaggiato?» «Non ho sentito ancora nulla di definitivo» mentì Athli. «Dimmi ciò che non è ancora definitivo, allora.» Lei fece una smorfia. «Alvise» disse. «Forse. Come ho già detto, non è confermato.» «Alvise. Capisco» sospirò Loredan; sembrava molto, molto stanco. «A quanto pare i nostri clienti hanno offeso la controparte proprio per bene, se è preparata a tirare fuori una simile somma di denaro.» Che fosco epitaffio, rifletté Athli. Ciò che disse però fu: «Probabilmente si tratta solo di una chiacchiera, per indurre i nostri clienti a rinunciare a presentarsi in giudizio. Gli costerebbe il doppio della somma contestata.» Loredan si strinse nelle spalle e provò una fitta di dolore. «Probabilmente ne vogliono fare una questione di principio. Oh, be', staremo a vedere.» Athli socchiuse la porta. «Se ti fa piacere posso passare di nuovo più tardi, per assicurarmi che tu stia bene.» «Starò benissimo. Grazie di nuovo.» Athli avvertiva sulla pelle il sangue che era filtrato attraverso il tessuto
del vestito; era freddo e appiccicoso, simile a sudore. «Ci vediamo, allora» disse e chiuse la porta dietro di sé. Loredan stette ad ascoltare lo scalpiccio dei suoi passi sulle scale; poi cercò inutilmente di trovare una posizione comoda rovesciandosi sulla schiena e rimase lì a fissare una lunga crepa del soffitto. Nel giro di tre settimane, quando quel maledetto taglio avrebbe appena cominciato a rimarginare come si deve (sempre se avesse avuto fortuna e la ferita non si fosse infettata) avrebbe dovuto misurarsi in tribunale con Ziani Alvise, Avvocato Generale e Campione Imperiale. C'erano spadaccini anche migliori di lui; quattro o cinque, nessuno dei quali era Bardas Loredan. È strano, rifletté, con quanta calma ho appena accolto l'annuncio della mia morte. Un cenno del capo, un'espressione contrariata come per dire be', è così che va a finire, quindi; due righe di testo incise su una lastra tombale: BARDAS LOREDAN Diede la Sua Vita per il Cartello del Carbone Non esistevano dei; questo Loredan lo sapeva benissimo. E anche se esistevano vivevano lontano, in terre ove ci fosse meno luce, lontano dalla voce dei mortali. Nonostante questo, pregò; se me la cavo in questa occasione è la volta che mi ritiro, raccolgo le mie cose, vado in pensione, apro una scuola o qualcosa del genere. Anche se fossero esistiti degli dei sapeva che non gli avrebbero creduto, perché quella preghiera l'avevano già sentita altre volte. E invece lui era ancora lì: un avvocato che esercitava la professione da dieci anni, un uomo che da giovane era sembrato una promessa ma che poi non aveva saputo mostrarsi all'altezza delle aspettative e che alla fine, molto semplicemente, non era stato capace di vivere. Forse il cartello del carbone si sarebbe accordato in tribunale, dopo tutto. Gli uomini come Alvise finivano per combattere davvero una sola volta su dieci, perché a nessuno piace andare in tribunale quando c'è in ballo del denaro, sapendo a priori che perderà. Ma quelli del cartello del carbone non erano i tipi che facevano transazioni; li aveva incontrati e aveva capito subito di che pasta erano fatti. Erano il tipo di gente che ha la capacità di invischiarsi nelle situazioni più ingarbugliate per colpa della propria ottusa e suina avidità e che poi reagisce con furia e sbalordimento quando ne consegue l'inevitabile disastro. Gli sembrava di vederli, uscire a grandi passi dal tribunale con i pesanti abiti svolazzanti intorno alle caviglie, borbottando con astio contro l'incompetenza del loro ultimo avvocato e la
parzialità del sistema giudiziario, intenti a giurare solennemente di essere pronti a farsi spellare vivi piuttosto che pagare anche solo un singolo centesimo di parcella per una causa che era stata così malcondotta. Potrei sempre ritirarmi io, pensò. Esiste in ogni caso questa possibilità. Sarebbe l'unica scelta di buon senso; la mia carriera sarebbe finita, ma che importanza avrebbe? Sarei ancora vivo. Potrei dedicarmi a qualcosa d'altro. Sogghignò e si girò su un fianco. Naturalmente non sarebbe mai stato capace di abbandonare un caso solo perché aveva paura, e perfino perché sapeva che ci avrebbe rimesso la pelle. Era una di quelle cose che semplicemente non accadevano; se fossero accadute, l'intero sistema sarebbe collassato e a quel punto che cosa sarebbe successo? Dopo tutto era la solidità del suo diritto commerciale che aveva fatto di Perimadeia il più grande centro di scambio del mondo. E poi se uno diventa avvocato vuole dire che non si aspetta certo di vivere in eterno. Lo aveva già deciso parecchi anni prima che l'ultima cosa al mondo che voleva era di vivere per sempre. Dodici anni dopo, eccolo lì; e anche se non aveva combinato molto, per lui era abbastanza. Tradizionalmente la bara di un avvocato era portata da sei suoi colleghi, con l'uniforme del proprio collegio e fodere vuote alla cintura mentre sul coperchio della cassa era stata appoggiata la seconda migliore spada del defunto (dato che la migliore era andata ovviamente come bottino al vincitore) insieme a una singola rosa bianca, simbolo di giustizia. Nella realtà le cose erano abbastanza differenti, ovviamente; la bara veniva portata a spalla da sei persone che avevano avuto il buon senso di abbandonare la professione da tempo e di dedicarsi ad altro, la spada veniva affittata dall'impresario funebre e, per qualche motivo, quasi sempre pioveva. Quando era più giovane gli era capitato di stare in piedi davanti a parecchie fosse fangose. Ormai non si prendeva neanche più la briga di andare ai funerali. È tipico della mia fortuna che la Guelan si sia spezzata proprio quando mi sarebbe stata più necessaria. Gli sovvenne una cosa e con un gemito si chinò oltre il bordo del letto frugandoci sotto fino a quando le sue dita non incontrarono un involto di lana grezza. Lo tirò fuori. Era coperto di ragnatele e di una sottile polvere grigia, ma il nodo si sciolse senza difficoltà e Loredan si ritrovò in mano un vecchio e malconcio fodero nero da cui spuntava un'elsa di acciaio bronzeo senza fronzoli. Ecco una cosa curiosa, disse a se stesso; non ci ho pensato neanche per un attimo nell'arco degli ultimi dieci anni. Ma perché
no? Non può fare alcuna differenza dopo tutto. Dodici anni prima un giovane che si sentiva già vecchio dopo tre anni spesi nelle guerre di frontiera si era iscritto alla scuola di scherma che sorge vicino alla Porta del Protettore, pagando la retta in contanti con monete prese da una borsa ben fornita e portando con sé una spada assai semplice e di poco conto, senza il nome del fabbro sul ricasso. Una volta concluso il corso gli erano rimaste ancora abbastanza monete nella borsa da permettergli di comperarsi un'autentica Guelan e la semplice spada da pochi soldi era stata via via retrocessa a spada di scorta, terza scelta, lama solo per le emergenze fino a quando non era stata relegata sotto il letto avvolta in una coperta al settimo piano dell'Isola Trentanove. Volendo essere pignoli, non era affatto una spada da avvocato; solo una lama militare prodotta dall'arsenale, limata per ridurne il peso, artigianalmente ritemprata e fissata su una semplice impugnatura con l'elsa. Aveva ucciso molti uomini prima di venire alleggerita, ma in seguito era stata usata solo per esercitarsi e per le lezioni e non le era stato mai più chiesto di portare il peso di una vita umana. Valeva un quarto imperiale e mezzo, a volere esagerare. Non l'aveva mai amata molto. Non gli doveva nulla. Sarebbe andata benissimo. Chiuse gli occhi e si abbandonò al sonno. Fece dei sogni tutt'altro che piacevoli. Temrai abbassò lo sguardo sulla sua coppa e vide che era ancora quasi mezza piena del liquido. Avrebbe preferito che fosse vuota. Era tentato di svuotarla di nascosto mentre nessuno badava a lui; ma i suoi nuovi amici l'avevano ordinata per lui e gettare via un dono sarebbe stato un insulto oltre che uno spreco. Tuttavia aveva un sapore orribile e stava cominciando a farlo sentire male. «Ed è vero» stava chiedendogli uno dei suoi compagni «che quando uno diventa vecchio lo portano nel deserto e lo abbandonano là a morire? Ho sentito raccontare da qualche parte...» Si erano fermati al suo banco da lavoro qualche tempo prima quella sera; quattro uomini di mezza età e dalle spalle larghe che lavoravano alle fornaci, allegri, amichevoli, abituati a parlare a voce alta. Quando li aveva visti dirigersi verso di lui Temrai per un attimo si era preoccupato. Sarebbe stata la cosa più naturale del mondo se fossero stati risentiti per il fatto che uno straniero (e uno delle pianure, per di più) fosse entrato bello bello nell'arsenale e avesse ottenuto un lavoro che, normalmente, avrebbe
dovuto essere assegnato a qualche loro connazionale. Da quello che aveva colto qua e là molti degli artigiani più abili dell'arsenale erano affiliati a una specie di clan segreto, riservato ai maestri dell'arte metallurgica; magari quegli uomini ne facevano parte e avevano intenzione di cacciarlo via. Fu con un certo sollievo che scoprì che tutto ciò che volevano era invitarlo a bere con loro. «No» ribatté, scuotendo la testa (e per qualche ragione quel movimento fu sufficiente per fargliela girare). «Non è affatto vero. Abbiamo grande rispetto per gli anziani, che sono saggi e sanno tante cose. Sono loro a prendere tutte le nostre decisioni e dirci come ci dobbiamo comportare. Mio padre...» S'interruppe appena in tempo e rimediò all'errore facendo finta che un po' di liquore gli fosse andato per traverso. Gli altri parvero trovare la cosa molto divertente e cominciarono a dargli pacche sulla schiena con le loro enormi mani. Che strano, aveva la vaga impressione che stessero condividendo uno scherzo che lui invece non capiva, come se qualcuno avesse attaccato un ratto alla treccia di un altro senza che questi se ne accorgesse. «Probabilmente quello a cui ti vuoi riferire» riprese «è ciò che accade quando qualcuno è molto malato e sente di stare per morire. Quando ciò accade, molto spesso i nostri vecchi scelgono di inoltrarsi da soli nelle pianure per risparmiare al proprio clan il dolore di vederli morire. Naturalmente, questo fa anche risparmiare razioni di cibo. Fra la mia gente, lo spreco è un sacrilegio intollerabile.» Si rese conto che le parole gli uscivano un po' strascicate, come se avesse avuto un brutto mal di denti e la mascella gli si fosse infiammata. Questo, unito ai capogiri, gli faceva desiderare con tutto il cuore di tornare alla locanda e sdraiarsi. Avrebbe dato per scontato che il malessere avesse qualcosa a che fare con il liquore se non fosse che gli altri avevano bevuto molto più di lui e, se mai, erano più in forma del solito. «Bevi» disse uno di loro che si chiamava Milas. «Non avete il vino nel paese da cui vieni?» Temrai rispose che dalle sue parti si beveva latte. L'uomo annuì con aria saggia e gli scintillarono gli occhi. «Il vino è molto meglio del latte» intervenne un altro, un certo Divren. «Ti farà bene. È pieno di zuccheri e rende più forti.» Milas sollevò la brocca e Temrai realizzò che la sua coppa era nuovamente piena. Fece un lungo sorso, perché non vedeva l'ora di vuotarla. Erano persone veramente gentili e ospitali, ma quel liquido era disgustoso.
«Abbiamo sentito dire che nel tuo paese tutti gli uomini hanno centinaia di mogli a testa» disse il più vecchio dei quattro, che si chiamava Zulas. «È vero?» «Oh, no» gli assicurò Temrai. «Mai più di sei, e anche questo vale solo per i grandi signori, come mio... La maggior parte della gente ne ha solo una o due. Dipende dal fatto che ci sono più donne che uomini.» «Davvero? E come mai?» «Perché moltissimi uomini rimangono uccisi» rispose Temrai. Ruttò, ma nessuno sembrò esserne offeso. «In combattimento, o sperduti nelle pianure; oppure capita che qualcuno se ne vada semplicemente via per interi anni. Allora le loro mogli sposano qualcun altro. Anche se» aggiunse, corrugando la fronte «non credo che la parola matrimonio significhi la stessa cosa qui e a casa mia.» Zulas fece l'occhiolino agli altri. «Ah, no?» chiese. «E quale è la differenza, allora?» Temrai cercò di concentrarsi. «Be'» disse alla fine «là da dove vengo io gli uomini passano la maggior parte del loro tempo fuori nelle pianure, a badare ai cavalli e alle greggi, mentre le donne rimangono con la carovana, sicché maschi e femmine non tendono a passare molto tempo insieme. Qui da voi invece vivono a contatto tutto il tempo. Per me è stupefacente. Uomini e donne non sono fatti per passare insieme tutto questo tempo. Sono diversi. Si danno reciprocamente sui nervi.» «Sacrosanto» affermò Milas, annuendo con aria grave. «Ecco, bevi un altro goccio.» «Ti fa crescere i peli sul petto» lo incoraggiò Divren. «D'altro canto» proseguì Temrai imperterrito «ci sono così tante cose qui che sono differenti. Prendete le compravendite, per esempio. In questa città tutto può essere comprato e venduto; quello che mangi, quello che bevi, gli abiti che indossi, il posto in cui vivi. Così da voi c'è un sacco di gente che non fa altro che fabbricare camice e un altro mucchio di persone la cui sola occupazione è quella di comperare cibo da una parte e rivenderlo dall'altra.» Indicò il locale che gli stava intorno. «C'è perfino chi si guadagna da vivere possedendo una casa in cui altri abitano. Questo è proprio bizzarro. Oppure prendi voi, anzi, volevo dire noi: a casa mia è tutto diverso. Tutto ciò che voi fate o meglio che noi facciamo è di fabbricare spade dalla mattina alla sera. Nel mio paese i fabbri fanno i fabbri un giorno ogni dieci, e per tutto il resto del tempo si occupano del loro bestiame, riparano i carri, conciano le pelli, insomma si comportano
esattamente come tutti gli altri. Perfino mio... Perfino i grandi capi escono a cavallo per andare a curare gli armenti quando non devono occuparsi di qualche questione che riguarda il clan. Per cui è molto raro che qualcuno abbia necessità di comperare o vendere qualcosa. La cosa stupefacente» continuò Temrai «è che il nostro modo di vivere sembra funzionare benissimo, ma lo stesso vale per il vostro. Sono altrettanto efficaci, solo differenti.» «Sante parole» disse il quarto uomo, Skudas. «Nel vino si trova la saggezza, non è così che dicono? Bevine un altro.» «Grazie» disse Temrai porgendogli la propria coppa. Più ne bevevi e meglio andava giù. «E un'altra cosa» riprese. «Qui avete gente il cui solo mestiere è combattere e che quando non sta combattendo si allena a farlo. Tutta la mia gente combatte quando è necessario, ma per tutto il resto del tempo non ci battiamo mai. be', quasi mai. Badate bene, passiamo un bel po' di tempo a combattere, clan contro clan e nazione contro nazione. Ma sono sempre dispute che si risolvono in un giorno, mentre voi siete capaci di continuare a combattere la stessa guerra anche per dieci anni o più. Che senso ha? È evidente che l'unico scopo di un combattimento è quello di stabilire chi è più forte, non chi ha i generali più furbi, capaci di fare trascinare una guerra anche se il nemico ha migliaia di uomini in più. È una cosa che non ha alcun senso per me.» Zulas chiese un'altra brocca con un cenno della mano, poi disse: «Sicché non ti piace stare qui, dico bene?» «Mai detto questo» ribatté Temrai, scuotendo la testa con decisione. «Mai sognato di dirlo. Penso che questo sia un posto assolutamente meraviglioso, con tutte le cose incredibili che ci sono e il modo in cui riuscite a vivere uno in cima all'altro senza perdere quasi mai la pazienza. Se la mia gente dovesse vivere qui, stretta come cavalli in un recinto, nel giro di un giorno si sbranerebbe. Invece è difficile avere faide o litigi quando si fanno tutti cose insieme, come guadare un fiume con i carri e riunire i cavalli per domarli.» S'interruppe per bere un'altra sorsata di vino e poi continuò. «Penso che un clan assomigli assai più a una famiglia che non la vostra città. Qui ognuno è un individuo a sé e vivete tutti nelle vostre case chiudendo la porta di notte; molti di voi non conoscono neppure la gente che vive a mezz'ora di distanza da casa vostra. È una cosa strana.» Un'altra cosa strana, notò Temrai, era che la stanza aveva cominciato a girare in tondo. Prima di allora si era sentito in quel modo solo un'altra
volta, quando avevano eretto i falò per una danza agli dei e le donne anziane avevano bruciato erbe e foglie sacre. In quell'occasione il fatto che gli girasse la testa non lo aveva fatto sentire a disagio, perché gli dei erano scesi sulla terra e si erano uniti alle danze e la presenza delle divinità ha sempre un effetto peculiare sugli esseri umani. Possibile che ci fossero degli dei nella taverna, quella notte? Aveva sentito raccontare storie di dei che andavano in giro sotto mentite spoglie per tenere d'occhio i mortali e se le divinità viaggiavano non ci sarebbe stato nulla di strano nel fatto che si fermassero in una locanda per la notte invece di dormire all'aperto. Senza dare nell'occhio si guardò intorno, cercando di individuare chiunque potesse essere un dio. Non notò alcun evidente candidato, ma questo non significava nulla. Tuttavia, in base a quanto tutti dicevano, non avrebbe dovuto essere scontato che non ci fosse alcun dio nella Città della Spada? Be', magari c'erano e proprio per questo motivo erano in incognito. Nel qual caso, meglio fare finta di non essersi accorto di niente. «E c'è anche un'altra cosa» disse. Continuò a chiacchierare ancora per un po'; ora però non riusciva più a mettere a fuoco ciò che stava dicendo. Era come cercare di ascoltare una conversazione nella tenda vicina. Riusciva a udire una voce, ma le parole erano tutte distorte e incomprensibili, come le incisioni su una moneta pescata dalle acque di un fiume. Se aveva ragione lui a proposito degli dei, allora molto probabilmente ce n'era più d'uno quella notte nella locanda. Inoltre, cominciava a non sentirsi troppo bene. La successiva cosa di cui ebbe percezione fu che l'oste lo stava scuotendo per un braccio, parlandogli con un tono di voce stanco e assai poco cordiale. Temrai cercò di spiegargli la questione degli dei, ma questo sembrò infastidirlo perché subito dopo si ritrovò per strada, riverso in una pozza di qualcosa che non aveva affatto l'aria di essere acqua. Vomitò. Si guardò intorno cercando Zulas e Milas e gli altri, ma se n'erano andati. Era terribilmente timoroso di averli offesi comportandosi in modo strano; dopo tutto era uno straniero, uno delle pianure come se non bastasse. Era stato molto gentile da parte loro comperargli tutto quel vino. Doveva assolutamente ricordarsi di ringraziarli la mattina successiva e di scusarsi. Alla fine un soldato con una lanterna capitò da quelle parti e lo prese a calci fino a quando non si fu alzato in piedi. A quel punto vagò qua e là per un po' cercando il posto in cui viveva, ci rinunciò e si sdraiò a dormire sotto un carro. Il suo ultimo pensiero, prima che la mente si abbandonasse al sonno, fu che la città era un posto veramente strano, ma che alcune delle
persone che ci vivevano erano davvero gentili e dal cuore d'oro; come il buon vecchio Zulas e Minas e Scudas e anche Divren. Doveva assolutamente ricordarsi di chiedere a suo padre di risparmiare le loro vite una volta che la città fosse stata conquistata. Dodici anni prima un gruppo di uomini a cavallo era entrato in città attraverso la Porta dell'Alba. Avevano l'aria stanca e i volti irsuti; i loro abiti erano consunti e pieni di toppe e le loro cotte di maglia erano tenute insieme con il filo di ferro. Molti di loro avevano un aspetto inquietante, quasi fossero altrettanti orchi delle fiabe per bambini; avevano arti storti a causa di fratture mal curate, e grosse cicatrici indicavano il punto dove avevano subito ferite non adeguatamente disinfettate e che avevano suppurato. Sia gli uomini che i cavalli erano magri in modo quasi comico, tanto che mani e piedi apparivano sproporzionati rispetto al corpo. Ovviamente erano degli eroi, anche se nessuno uscì di casa per andargli incontro e qualcuno anzi li bersagliò con sassi e ortaggi, perché avevano perso. Erano tutto ciò che rimaneva dell'esercito. Per quanto indietro uno potesse andare con la memoria, i Lancieri di Maxen avevano sempre costituito l'unica e sola difesa contro la vaga ma costante minaccia rappresentata dai clan delle tribù nomadi delle pianure occidentali. Lui e i suoi svolgevano il proprio lavoro tanto bene che i cittadini ormai li davano per scontati, onorandoli, rispettandoli, e pagandoli venticinque quarti al mese tutto compreso; di conseguenza a nessuno venne mai in mente di chiedersi come ci si potesse aspettare che mille cavalieri pesanti potessero respingere all'infinito le orde dei clan, che potevano contare su un numero praticamente illimitato di guerrieri. Dopo tutto era sempre andata cosi e Maxen aveva dimostrato di riuscirci; ogni volta che un cittadino si svegliava nel cuore della notte perché aveva avuto un incubo pieno di selvaggi urlanti e nugoli di frecce, il suo pensiero correva subito al generale Maxen, Conte delle Marche Esterne e allora si girava sull'altro fianco e si rimetteva a dormire. Ma Maxen, che aveva passato trentotto dei suoi sessanta anni sul campo, combattendo i clan, improvvisamente fece quello che per tutti era inconcepibile e morì: di cancrena, in seguito a una caduta da cavallo durante una delle abituali spedizioni punitive. Non appena la notizia della sua morte si sparse fra i clan, ci fu l'inevitabile esplosione. Per le tribù Maxen aveva rappresentato, molto semplicemente, la creatura più terrificante del mondo, una forza demonica che appariva nel cuore della
notte, circondata di torce in fiamme e spade affilate, uccidendo ogni essere vivente di un'intera carovana e poi scomparendo in qualche voragine del suolo, invisibile nell'immenso vuoto delle pianure. La morte di Maxen fu come la morte della paura stessa; così, quando il suo secondo in comando, Alsen, affrontò i clan riuniti al Fiume del Corvo essi si lanciarono contro i Lancieri come se si fosse trattato di fantocci di paglia durante una esercitazione. Alsen, che era in servizio da venticinque anni dopo essersi unito al reggimento come semplice guerriero, era un soldato brillante, uno le cui campagne, in circostanze diverse, avrebbero potuto diventare oggetto di studio nelle accademie militari. Stando le cose come stavano, si trovò ad affrontare un nemico che lo sovrastava numericamente venticinque a uno; nonostante questo gli inflisse perdite talmente devastanti da rendere impossibile per molti anni un assalto alla città, ma morì e ottocento ottanta dei suoi uomini perirono con lui. Ciò che restava del suo esercito si affrettò a fare ritorno a Perimadeia agli ordini del nipote di Maxen, un ragazzo di ventitré anni che aveva partecipato alla guerra nelle pianure solo per sette anni: Bardas Loredan. CAPITOLO TERZO «Affermare che il Principio consente a qualcuno di anticipare il futuro» disse il Patriarca pensando a tutt'altro «equivarrebbe a dire che la principale funzione del mare è quella di spingere pezzi di legna sulla spiaggia. Sarebbe molto più accurato, anche se ancora sostanzialmente errato, affermare che uno che osserva attentamente il Principio può assumere alcune cose a proposito degli effetti che probabilmente la sua azione avrà sul mondo materiale. Qualunque altra cosa sarebbe quanto meno fuorviante.» La giovane donna di cui non riusciva assolutamente a ricordare il nome non faceva più parte della classe. Aveva ottenuto quello per cui era andata lì o qualcosa di molto simile e ora se n'era andata. Alexius aveva la sgradevole sensazione di essere nella stessa posizione della figlia di un locandiere che avesse passato una notte allegra con un affascinante straniero e che la mattina dopo cominciasse a sentirsi male. Avvertiva chiaramente gli effetti collaterali della maledizione; se voleva avere una qualche speranza di rimettere le cose a posto era necessario che rivedesse la ragazza. «Pensate a una strada» continuò, mentre gli studenti con le teste chine
sulle proprie tavolette da scrittura, trasformavano diligentemente la sua sapienza in segni incisi nella cera. «Un uomo avanza a cavallo lungo una valle dai fianchi scoscesi, in una regione notoriamente infestata da briganti. Dal punto in cui si trova non è in grado di scorgerli, appostati appena oltre la successiva curva della via, pur sospettando che possano essere lì in agguato. Un osservatore che si trovasse più in alto sul fianco della montagna riuscirebbe invece a vedere lui e i briganti nel medesimo tempo. Non c'è alcuna magia in tutto ciò; gode solo di un punto di vista più elevato. Ne consegue anche che non puoi vedere chi ti tende un'imboscata se stai percorrendo la strada; solo un osservatore imparziale che contempli cose che riguardano altri può percepire il pericolo imminente.» Era, e Alexius ne era consapevole, un esempio sconfortantemente inadeguato; ma per dei principianti sarebbe andato benissimo. Più avanti, quando ne avrebbero saputo di più, avrebbero potuto crogiolarsi nella constatazione della sua evidente fragilità, il che avrebbe giovato alla loro confidenza in se stessi. «Oppure pensate» riprese «a una coppa piena d'acqua appoggiata su un tavolo. La coppa non può rovesciare e neanche smuovere l'acqua di propria volontà; ma se per caso dovesse verificarsi un terremoto o se una carovana di carri particolarmente pesanti passasse nella strada sottostante, la coppa sembrerebbe tremare per una autonoma decisione. L'uomo che coglie i segni di un imminente terremoto prima che siano percepiti da occhi non esperti, oppure che vede i carri imboccare la strada, sa in anticipo che la coppa vibrerà. È in grado di predirlo; può anche interferire, sollevando la coppa dal tavolo e impedendo in questo modo che le vibrazioni la facciano cadere e rompere. Se è un tipo di pochi scrupoli può dichiarare che grazie ai suoi tremendi poteri è in grado di fare vibrare la coppa fino al punto di fare rovesciare dell'acqua e poi può fare sembrare di avere tenuto fede alla propria spacconata.» Stava facendogli venire delle idee? Nessuna che non covassero già un'ora dopo essere venuti al mondo. Alexius detestava i chiromanti ancora di più di quelli che, per denaro, affermavano di curare i malati o di lanciare il malocchio. La cosa triste era che molte delle loro profezie avevano la tendenza a rivelarsi esatte, naturalmente soprattutto perché i clienti si aspettavano che fosse così e si comportavano di conseguenza. «Noi che studiamo il Principio» proseguì «siamo nella condizione di stare un passo indietro e di vedere i briganti in agguato o i carri che si avvicinano. Qualche volta le nostre osservazioni ci rendono possibile
intervenire; nel qual caso esponiamo noi stessi a tutti i pericoli contro i quali mettiamo in guardia gli altri; ci precipitiamo nel passo per mettere in guardia il viandante oppure accorriamo là dove si abbatterà il terremoto nella speranza di salvare qualcuno. L'affermazione che siamo in grado di tenere lontani i banditi o di rovesciare acqua da una coppa senza neppure sfiorarla, sarebbe tuttavia non solo disonesta, ma anche terribilmente pericolosa. I banditi lascerebbero perdere il viandante e attaccherebbero noi. Noi, al posto della persona che ci siamo precipitati ad avvisare, finiremmo per rovesciare l'acqua. Alcuni sostengono che quando ci rendiamo conto di un pericolo che si avvicina e tuttavia non facciamo nulla, ci comportiamo in modo disdicevole; pensate invece piuttosto alla cosa come al preferire che i banditi facciano una sola vittima invece di due. Questo conclude la lezione; per domani leggete i primi venti capitoli dei Sillogismi di Mycondas e siate pronti a rispondere a delle domande.» Smise di parlare e, per quanto riguardava gli studenti, cessò anche di esistere. Alcuni di loro, ne era perfettamente consapevole, molto semplicemente non gli avevano creduto. Preferivano di gran lunga dare per scontato che lui e gli altri maestri del suo ordine cercassero di tenere per sé i trucchi migliori. Facessero pure; per il momento erano ancora troppo ignoranti per fare del male a qualcuno a parte se stessi. Alla fine alcuni di loro cominciarono a uscire in gruppo, chiacchierando fra di loro di tutto a parte ciò che gli era stato appena insegnato. Alexius lasciò che la sua mente tornasse alla questione della ragazza e della maledizione, che continuava a risultargli sgradevole come un granello di sabbia che gli si fosse infilato sotto una palpebra. Che fine aveva fatto? Forse qualcuno degli altri studenti lo sapeva; salvo che era stata lì così poco tempo che era altamente improbabile che avesse stabilito un rapporto con chicchessia. Oltre a tutto, paragonati a lei, tutti gli altri sembravano terribilmente giovani e immaturi. Chi mai avrebbe condiviso i suoi segreti con un bambinetto? Se aveva dato una spiegazione del perché se ne stava andando e aveva raccontato della maledizione, senza dubbio qualche sciocco avrebbe a sua volta cercato di lanciare il malocchio su qualcuno. Be', se fossero stati fortunati forse se la sarebbero cavata senza altro danno che non il fallimento dell'impresa. Il Patriarca di Perimadeia che cercava da tutte le parti una studentessa che aveva abbandonato il corso il secondo giorno; una ragazza che aveva passato una considerevole parte della sera del primo nella cella del Patriarca. Poteva già immaginare cosa ne avrebbero detto i suoi colleghi
più giovani se solo gliene avesse offerto l'opportunità. Il che, decise, si sarebbe ben guardato dal fare. Avrebbe dovuto trovare qualche altro modo per curarsi dal suo disagio. Percepì qualcuno alle sue spalle e lo sentì accelerare il passo per raggiungerlo. Senza voltarsi, rallentò il suo. «Affascinante.» Riconobbe la voce; Gannadius, l'Archimandrita dell'Accademia Cittadina. Ormai purtroppo era troppo tardi per riaccelerare il passo. «Ogni anno cinquecento nuove facce, eppure nel giro di una settimana o due parlano e si muovono esattamente come tutti i loro predecessori. Mi domando se sia opera nostra o se tutti i ragazzi siano fondamentalmente intercambiabili.» «Penso che siano vere entrambe le cose» rispose Alexius. «Quel poco di individualità che possono avere quando arrivano qui viene presto spazzata via dalla necessità di rendersi indistinguibili dai loro pari per aspetto, gusti e opinioni. La cosa migliore che si possa dire della gioventù è che prima o poi tutti quanti ne veniamo fuori.» Una volta concluso l'abituale scambio di frasi fatte, Alexius si augurò che il suo collega fosse in procinto di andarsene. Non ebbe questa fortuna; quel giorno Gannadius aveva qualcosa da dire. Quando si sarebbe finalmente deciso a farlo, questa era tutta un'altra faccenda. «Mi mette a disagio pensare che anch'io un tempo sono stato così giovane» sospirò Gannadius. «Perlomeno mi pare ovvio che devo esserlo stato, anche se giuro che non me ne ricordo affatto. Per quanto ne so io, mi pare di avere avuto sempre la stessa età. D'altro canto è indubbio che i miei amici mi sono invecchiati intorno.» Prova un po' a indovinare come mai? disse Alexius fra sé e sé. «Una volta ho letto» disse invece ad alta voce «che per ogni uomo c'è un'età che gli risulta particolarmente appropriata; una volta che la raggiunge, smette di crescere anche se il suo corpo invece continua a invecchiare.» «Nel mio caso, dovevano essere i quarantatré anni.» Suo malgrado, Alexius dovette ammettere di essere interessato. «Davvero? E perché quarantatré?» «Avevo quell'età quando lessi per la prima volta l'Anacletus» disse semplicemente Gannadius. «Quale pensi che sia la tua età ideale?» «Credo di non averla ancora raggiunta» confessò Alexius. «Riesco a ricordare distintamente di avere avuto tre anni e di essermi interrogato su cosa significasse avere quell'età. E ho avuto diciassette anni per un lungo periodo di tempo, ma adesso non più. Penso di avere smesso di avere
diciassette anni quando ho realizzato di non avere più paura dei miei immediati superiori.» «E questo quando è avvenuto?» «Quando sono diventato Patriarca» rispose Alexius. «Adesso ho paura dei miei immediati sottoposti, ma naturalmente non è la stessa cosa.» Gannadius annuì con aria saggia. «Giusto per cambiare completamente argomento» disse «sei sicuro di sentirti bene?» Alexius smise di camminare e si massaggiò il mento per nascondere la propria sorpresa. «È così ovvio il contrario?» domandò. «Mio caro amico, non fai altro che andare in giro con l'aria di un uomo che ha un piede chiuso in una tagliola. Sarebbe impertinente da parte mia azzardare che forse hai, per così dire, imboccato un sentiero nascosto, diverso dalla vie maestre del Principio e che in conseguenza di ciò sei andato a sbattere il naso?» Alexius sorrise. «No» rispose. «Solo che sapevo perfettamente a che cosa andavo incontro. Ho lanciato una maledizione e temo di starne pagando le conseguenze.» «Oh. Qualcuno che conosco?» Alexius esitò. Gannadius era spesso inopportuno, frequentemente noioso e sempre pomposo; ma per quanto ne sapeva Alexius non aveva motivazioni oscure e nascoste e neanche selvagge ambizioni, inoltre i suoi scritti rivelavano una mente sorprendentemente pratica e recettiva e un acuto intelletto. In aggiunta Alexius aveva bisogno di aiuto se voleva liberarsi da quei maledetti sintomi. «Uno spadaccino» disse «di nome Bardas Loredan. Con il quale, debbo aggiungere, non ho alcun conto personale in sospeso. Ho lanciato la maledizione per conto di qualcun altro, il che probabilmente spiega perché adesso pago un prezzo così alto.» Gannadius si morse il labbro inferiore, cercando di nascondere una risatina. «Nel qual caso» disse «devo davvero congratularmi con te per la qualità del tuo lavoro. Farò bene a ricordarmi di essere estremamente gentile con te in qualunque occasione.» Alexius inarcò un sopracciglio. «Che cosa è successo?» «Ah, sicché pretenderesti di non saperlo? Si dà il caso che io abbia una piccola somma di denaro investita in un cartello che estrae e vende carbone. Adesso ha una controversia con un gruppo concorrente e fra breve la questione finirà davanti a un tribunale. I nostri avversari hanno dato l'incarico di rappresentarli a un certo Bardas Loredan.»
«Capisco. E allora?» «Noi abbiamo incaricato Ziani Alvise» ribatté Gannadius. «Hai sentito parlare di lui, senza dubbio?» Alexius corrugò la fronte. «Mi pare di sì. Non seguo affatto i processi, ma quel nome fa suonare un campanello nella mia mente. È bravo?» «Puoi giurarci. A quanto ne so la confraternita degli allibratori paga Loredan vincente a cento venti a uno eppure non trova nessuno che voglia scommettere su di lui.» «Capisco.» Alexius annuì lentamente. «Nel qual caso» proseguì «ti raccomando con forza di puntare fino al tuo ultimo quarto su Loredan. Anzi, già che ci sei, potresti gentilmente puntare su di lui anche cinquanta quarti per mio conto.» Gannadius aveva un'aria perplessa. «Mio caro amico» disse «la modestia è una qualità ammirevole, ma non ti sembra di stare un po' esagerando? Mi permetto di farti notare che il semplice fatto in sé che ci sarà questo duello fa intuire come la tua maledizione stia egregiamente funzionando.» «Non capisci. In base alla mia maledizione è predestinato a morire per mano di qualcun altro. Una persona ben specifica. E non si tratta di Ziani Alvise.» «Ah.» Gannadius assunse un atteggiamento pensoso. «Questo è davvero seccante, perché ho già scommesso pesantemente su Alvise. Comunque, immagino di potere riuscire a trovare ancora qualche quarto per scommettere su Loredan. Grazie; in questo momento potresti avere salvato un poveruomo dalla più abietta povertà. In cambio...» Alexius accettò l'offerta con un breve cenno del capo. «Devo ammettere» disse «di avere bisogno di un po' di aiuto. Questa maledizione si sta rivelando una dannata complicazione. Mi sa tanto che ho fatto un lavoro migliore di quanto non pensassi.» «Maledire è come cucinare con l'aglio: conviene resistere alla tentazione di aggiungere ancora un pizzico per sopramisura. Verrai tu all'Accademia o preferisci che venga io da te stasera?» Alexius ponderò la cosa. Tutto considerato, sarebbe stato meglio se la cosa non fosse avvenuta proprio sotto il naso dei suoi confratelli del Principio. «Dopo cena» disse «all'Accademia. Ora di allora tutti i tuoi dovrebbero essere impegnati nel Capitolo.» «E io insieme a loro» gli fece notare Gannadius. «Comunque, davanti a una richiesta diretta del Patriarca...» «Preferirei di gran lunga che tu dicessi che si tratta di affari urgenti
dell'Ordine» rispose Alexius. «Il che non è poi così lontano dalla verità. Da quando ho lanciato la maledizione ho avuto enormi difficoltà a concentrarmi su qualsiasi cosa. I documenti stanno cominciando ad accumularsi, per non parlare dello stato delle mie letture.» «Stasera allora, dopo cena. Se suonerai alla porta secondaria, farò in modo da venire ad aprirti personalmente.» «Grazie.» Gannadius si allontanò a piccoli passi, accompagnato dal lieve ticchettio sul lastrico delle suole delle sue scarpe alla moda. Un uomo curioso, rifletté Alexius. Era Archimandrita dell'Accademia Cittadina da sette anni, un tempo particolarmente lungo per un incarico che di norma veniva considerato una noiosa formalità preliminare sulla attentamente strutturata strada che conduceva al Patriarcato; eppure in tutto questo tempo non aveva mai mostrato la minima inclinazione ad accettare una promozione e tanto meno a tramare e trattare per assicurarsene una. Tre anni prima, se solo lo avesse chiesto, avrebbe potuto ottenere il Patriarcato della Canea, invece aveva preferito consentire che il suo arcidiacono, che egli odiava e disprezzava in modo particolare, si avventasse sul posto vacante come un esercito invasore e lo conquistasse, per modo di dire, all'arma bianca. Eppure all'apparenza costituiva un vero e proprio modello dell'archetipico uomo in carriera; figlio cadetto di una potente famiglia cittadina, possedeva grosse proprietà e ricche sostanze, ereditate dalla famiglia della madre, il che faceva sì che venisse assiduamente corteggiato dagli omuncoli simili a curculionidi che passavano la loro vita annidati sotto il selciato dei palazzi della politica. Alexius scrollò la testa; forse i venti gelidi e le correnti marine della Canea non lo attiravano. O forse si trattava di un uomo onesto per davvero. Abbastanza curiosamente, Alexius era orientato a pensare che fosse quest'ultima la spiegazione. Secondo i piani, Alexius scivolò fuori mentre la cena era ancora in corso sotto la sua cella e avanzò con cautela attraverso le strade della città di mezzo fino a raggiungere la scala nord. Le porte erano state chiuse per la notte ma i guardiani lo conoscevano piuttosto bene; dato che gli abitanti della città superiore non si facevano mai vedere, il Patriarca costituiva per la città la cosa più simile a un simbolo di vertice civico. Per uno che stava facendo del suo meglio per attraversare la città di mezzo in incognito, era un serio inconveniente; nonostante ciò alla fine Alexius riuscì a raggiungere l'Accademia Cittadina senza essere né riconosciuto né derubato e bussò alla porta dell'ingresso di servizio con il pomo del suo bastone animato.
«Ah, eccoti» disse Gannadius attraverso la finestrella che si era improvvisamente spalancata alla sommità della porta. «Stavo cominciando a chiedermi se saresti davvero venuto.» L'appartamento dell'Archimandrita era circa cinque volte più grande della cella di Alexius. Sui muri erano appesi arazzi preziosi e c'erano cinque sedie dorate e scolpite con gusto raffinato; un letto a baldacchino era sollevato dal pavimento da una bassa pedana; svariati cofani e cassapanche di noce decorato facevano bella mostra di sé; completavano l'arredamento un'alta scrivania con intarsi di madreperla che raffiguravano scene di caccia, uno sgabellino in osso di balena accuratamente levigato e un bel servizio da vino con decorazioni d'argento; tutto aveva l'aria piuttosto nuova e odorava in modo pungente di canfora e. cera d'ape. Alexius non dubitava che il suo collega sarebbe stato in grado di fornire un'accurata e aggiornata valutazione del prezzo di vendita di ciascun oggetto presente o del costo per rimpiazzarlo, così come di quotare il tutto come un lotto unico. «Disapprovi» disse Gannadius senza scomporsi. Alexius scosse la testa. «Niente affatto» ribatté. «Vivi in un modo che si addice a un grande signore con poteri temporali, il che è esattamente ciò che sei. Io, nella mia posizione, troverei in tutto ciò una eccessiva fonte di distrazione, ma solo un selvaggio potrebbe disapprovare la bellezza di per sé. E sono sicuro che apprezzi tutto ciò assai più di quanto non facciano i mercanti di frutta secca e i baroni delle acciughe che hanno bisogno di riempire le loro case di oggetti come questi solo per dimostrare a se stessi che sono uomini di una qualche statura.» «Nonostante questo, disapprovi. Personalmente scambierei volentieri tutte queste cianfrusaglie con i mosaici del tuo soffitto. Ma dubito fortemente che siano in vendita.» Alexius sorrise. «È un dato di fatto che un giorno o l'altro potrebbe capitarti di dormirci sotto» ribatté. «O vorresti continuare a sostenere di non avere alcuna ambizione in questo senso?» Gannadius fece spallucce. «La questione è piuttosto se sono tagliato per quel genere di ruolo» replicò. «E di fatto non lo sono. Non ancora, perlomeno.» «Ecco una risposta molto onesta a una osservazione piuttosto impertinente. Bada bene, questo non significa che io ti creda anche solo per un secondo.» «Il solo fatto che una risposta sia onesta non significa anche che sia
necessariamente sincera» ribatté Gannadius con una risatina. «Vogliamo smetterla di punzecchiarci l'un l'altro e occuparci di cose serie?» «È certo la cosa migliore» rispose Alexius, dopo di che raccontò a Gannadius tutto ciò che era successo senza nulla omettere. Quando ebbe finito l'Archimandrita rimase per un po' seduto nella sua splendida sedia, massaggiandosi la radice del naso, piccolo e schiacciato, con l'indice della mano sinistra. «Credo di capire cosa è successo» disse. «Ciò che è successo è che la maledizione che hai lanciato non era quella giusta.» «Non era quella che la ragazza intendeva. Dato che era la sua maledizione e io solo lo strumento mediante il quale l'ha lanciata, potrebbe avere avuto effetti significativi il fatto che io abbia commesso questo errore. Il risultato in questo caso sarebbe stato un evento errato rispetto al Principio.» «Più o meno.» Gannadius annuì. «In soldoni, hai scelto un buco nel mondo naturale e hai tentato di infilarci qualcosa che non ci si incastra. E adesso devi fare i conti con gli effetti di questa contraddizione.» Alexius annuì lentamente. «La spiegazione ha senso, sono d'accordo. Quello di cui non sono sicuro è come fare a rimettere le cose a posto.» «Oh, ma questo è semplice» lo interruppe il suo collega. «Devi ritornare al momento della maledizione e raddrizzare la situazione. Se elimini la maledizione sbagliata e la sostituisci con quella giusta...» Alexius sollevò una mano. «Naturalmente ci ho già provato» disse. «Il solo problema è che non sono in grado. Dopo tutto non è la mia maledizione e quindi non posso annullarla. Tutto ciò che posso fare è creare uno scudo protettivo intorno all'uomo colpito dal malocchio in modo da impedire che generi i suoi concreti effetti; e anche questo comincia a risultarmi difficoltoso. Tutte le volte che ci ho provato, il giorno dopo ho dovuto constatare che lo scudo era svanito. Non mi sorride davvero la prospettiva di dover erigere nuovi scudi intorno a questo tizio ogni giorno, per tutto il resto della mia vita.» «È un problema complesso» disse Gannadius. «La sola cosa che posso suggerire è che ci proviamo di nuovo, tutti e due insieme. E prima che tu dica qualunque cosa, sono d'accordo con te sul fatto che non c'è alcun motivo per pensare che i nostri sforzi congiunti abbiano in qualche misura più successo dei tuoi tentativi solitari. Quello che ci servirebbe veramente, come è ovvio, è la ragazza.» Alexius sospirò. «Sono portato a convenire con te su questo punto»
disse. «Comunque, se sei disponibile a unirti a me, penso che valga la pena di fare un tentativo... Ammesso che tu sia disposto a correre il rischio. Non voglio pensare allo stato in cui finiresti per trovarti se il tentativo ci si ritorcesse contro.» «Oh, be'.» Gannadius fece spallucce. «Chi non risica non rosica. Dimentichi che non ti ho ancora detto qual è il mio prezzo.» «Una visione permanente dei miei mosaici, suppongo» ribatté Alexius. «Non sono sicuro di poterti fare questa promessa; e poi tieni conto che più o meno abbiamo la stessa età. Non c'è nessuna garanzia che vivrai abbastanza a lungo da incassare il tuo premio.» Sorrise. «Voglio sperare che tu non stia facendo piani per ottenerlo prima della scadenza naturale.» Gannadius appariva genuinamente offeso. «Per essere precisi, no.» affermò. «Se avessi voluto il patriarcato, stai pure sicuro che a questo punto me lo sarei preso; o perlomeno starei tossendo e colando dal naso nel gelo della Canea. Il mio prezzo è assai più esoterico di questo. Voglio che tu mi sveli il settimo aspetto del Principio.» A dispetto di se stesso, Alexius rimase scioccato. La conoscenza del settimo aspetto era un segreto condiviso solo dal Patriarca di Perimadeia, dal Primate dei Sacri Pirati e dall'Abate dell'Accademia del Giavellotto d'Argento; in effetti era ciò che contraddistingueva le massime cariche dell'Ordine. Era anche il solo segreto che era sempre stato mantenuto, a prescindere dalla gravità delle circostanze o dalla venalità di chi si trovava nella posizione di condividerlo. «Perché?» chiese, quasi sottovoce. Gannadius corrugò la fronte. «Perché voglio conoscerlo» ribatté. «È una cosa tanto strana? Che tu lo creda o no, sono entrato nell'Ordine per imparare come comprendere il Principio, o almeno quella minima parte di esso che è possibile comprendere. Logicamente, ho bisogno di conoscere tutti e sette gli aspetti per potere anche solo cominciare i miei studi.» «Ho idea che tu sia completamente sincero» disse Alexius. «Il che non rende la tua richiesta in qualche modo meno offensiva.» «Ho detto qual è il mio prezzo. Non occorre neanche dire che il segreto sarebbe perfettamente al sicuro con me. Dopo tutto uno non ruba una fortuna in oro solo per gettarla dalla finestra a manciate, alla gente assiepata sotto.» Alexius rifletté per un momento; «Tutto ciò che posso suggerire» disse «è che a tempo debito... non manca molto tempo comunque, ormai, visto che il poveruomo ha più di ottant'anni... ti succeda a Teofrasto come Primate. In questo modo perlomeno sarai autorizzato a condividere questa
conoscenza e l'effetto pratico sarà esattamente lo stesso.» «È proprio necessario? Non ho davvero alcun desiderio di lasciare questo luogo confortevole per andare a vivere su un'isola rocciosa in mezzo al mare con niente altro che ladri e assassini come compagnia.» «È un incarico per cui altri hanno ucciso e rubato» ribatté Alexius un po' seccato. «Mi aspettavo che la cosa ti avrebbe fatto piacere.» «Certamente no. È vero che hanno una buona biblioteca laggiù, ma niente a che vedere con ciò che posso avere a disposizione qui in città. Comunque» proseguì «una volta che conoscerò il settimo aspetto, non resterà poi molto che i libri mi possano ancora insegnare. Oh, benissimo, allora. Hai la mia parola, se è abbastanza per te.» Alexius si concesse il lusso di un tetro sorriso. «Suppongo che questo mi insegnerà a non fare più favori alle ragazzine» disse. «Il pagamento dopo, naturalmente; e solo se otteniamo qualche risultato concreto.» «Naturalmente. Vogliamo cominciare?» Una sottile, crudele lama di luce si fece strada attraverso le persiane. «Svegliati, è una deliziosa mattinata.» Con la mano già stretta intorno all'elsa della sua Boscemar, Loredan dominò quella che sarebbe stata la sua reazione istintiva e aprì gli occhi. «Che diavolo» disse con voce rauca «pensi di stare facendo?» «Ti sto facendo alzare» ribatté Athli, spalancando del tutto le persiane. «Avanti, alzati e sorridi.» Loredan si tirò la coperta fino sotto il mento. «Quale possibile ragione potrei mai avere per alzarmi dal letto a questa antelucana ora del mattino? Vattene.» Athli riempì a metà una coppa versando dalla brocca del vino e poi lo allungò con altrettanta acqua. «Avresti dovuto essere già in piedi due ore fa» disse in tono brusco «invece di startene accovacciato lì come un maiale.» «E perché?» «Allenamento. Bevi questo e mettiti qualcosa addosso. Penso che cominceremo con dieci giri del convento, prima di dirigerci alla volta delle Scuole. Oh, avanti, in nome del cielo. Ho visto espressioni più vive in animali cucinati e con una mela in bocca.» «Oh, per...» Loredan chiuse gli occhi, ma tutto il sonno se n'era andato. «Vattene intanto che mi vesto» le ordinò.
«Va bene. Non startene lì a oziare.» Era passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che aveva deliberatamente corso per una certa distanza, e dieci giri del convento lo lasciarono con le ginocchia molli e con una fitta di dolore al costato il che, fece notare, costituiva un motivo più che sufficiente per tornarsene a casa. Athli non si lasciò impressionare. «Mi fai venire in mente mio nonno quando sonnecchiava davanti al fuoco» disse. «Una mattina alle Scuole ti farà un mondo di bene.» Ora che furono arrivati in cima alla lunga scala che conduceva alla città di mezzo, Loredan cominciò a sentirsi piuttosto male. Diagnosticò di essere vittima di un attacco di cuore o comunque di un piccolo infarto. «Non essere sciocco. E piantala di bighellonare.» Le Scuole erano ospitate in un edificio lungo e stretto di un solo piano, che si trovava fra l'antico circo e le cisterne per l'acqua piovana. All'interno il salone principale era affollato dall'abituale insieme di giovanotti e ragazze alla moda avvolti in costosi e assolutamente poco pratici costumi da spadaccino, appoggiati alle custodie delle proprie spade e intenti a osservare i pochi professionisti che si dedicavano alla loro abituale routine di allenamento. Aiutanti correvano avanti e indietro con bersagli di paglia e mastelli pieni di creta umida, gli insegnanti urlavano, gli inevitabili venditori ambulanti giravano ai margini della folla con i loro vassoi di vino e salsicce, i mercanti di spade facevano affari sottovoce fra i pilastri del colonnato che occupava l'altra estremità dell'edificio. «Dovevamo venire proprio qui?» chiese Loredan in tono miserabile. «Non sopporto questo posto.» «Devi allenarti» ribatté Athli. Prima di tutto Loredan sistemò un bersaglio. Decise di essere realistico; gli esibizionisti e quelli veramente bravi amavano utilizzare un mezzo penny d'argento, ma lui non era mai stato così bravo neanche all'apice della gioventù. Disegno invece sul bersaglio un tondo grosso più o meno come un pugno, che sarebbe risultato ai fini pratici assai più funzionale. «Sette su dieci?» suggerì. «Facciamo nove.» «Non sono tenuto a fare come dici tu» ribatté «perché io sono un avvocato e tu solo una dannata assistente.» Fece tre passi tutti di eguale misura all'indietro e tolse la Boscemar dalla sua custodia. «Nove su dieci» ribadì Athli. «Sei pronto?» Loredan annuì. Lo scopo dell'esercizio era di fare un allungo a due passi
dal bersaglio, trafiggendo ogni volta il tondo che aveva disegnato. Il trucco consisteva nel raddrizzare il colpo all'ultimo momento possibile, con una rotazione del polso. Centrò il bersaglio sette volte su dieci. «Ora rifallo» disse Athli. «Però meglio.» Con i successivi dieci colpi riuscì a fare centro sei volte; e altre sei con i successivi dieci. Al quarto tentativo, fece centro tutte e dieci le volte. «Vedi?» disse Athli con aria di sufficienza. «Allenarsi rende perfetti.» «Oh, stai zitta» replicò, appoggiandosi alla struttura del bersaglio nel tentativo di recuperare il fiato. «Adesso suppongo tu pretenda che io faccia i numeri.» Il bersaglio consisteva in un cilindro di paglia intrecciata largo più o meno un braccio e di eguale spessore. Su di esso erano disegnati a caso dei numeri, da uno a dodici, in cifre scritte più meno dell'altezza di un pollice umano. L'esercizio comportava che l'allenatore gridasse un numero e lo spadaccino lo infilzasse con la punta della spada da un passo di distanza. Quindici colpi giusti su venti era considerato un ottimo risultato. «Pronto?» «Sedici, va bene?» «Diciotto.» Stavolta mise a segno diciotto centri al primo tentativo. La seconda fase dell'esercizio era uguale, ma veniva svolta al doppio della velocità. A quel ritmo, dieci centri su venti era sufficiente per brillare. Loredan fece centro tutte e venti le volte. «Bene, davvero ben fatto» disse Athli. «Ora passiamo alla linea di piombo.» La linea di piombo consisteva in un peso di piombo, appunto, appeso a una cordicella e sistemato in modo da penzolare nel punto in cui si presumeva che si sarebbe trovata idealmente la punta della spada di un avversario che avesse dato la schiena alla struttura del bersaglio. Lo spadaccino doveva spostare il peso, fare un affondo, ritirarsi e nel farlo parare il peso che si rimetteva in verticale. Mancare la parata, significava colpo nullo. Quattordici colpi riusciti su venti a velocità normale, oppure sette a velocità doppia, era considerato un risultato ottimo per chiunque. Tagliare la cordicella, invece, non valeva. «Non male» osservò Athli quando Loredan ebbe messo a segno diciannove colpi validi su venti a velocità normale. «Adesso proviamo a farlo nel modo più difficile.» Un pieno di venti colpi validi a doppia velocità; Athli insistette perché lo
rifacesse e poi perché tentasse un'altra volta a tripla velocità. Erano arrivati a quattordici colpi validi su quattordici tentativi quando Loredan tagliò il peso di piombo a metà con una improvvisa rotazione del polso e si rifiutò di mettere ulteriormente alla prova la propria fortuna. «Bene, abbiamo appurato che sei bravo negli affondi» disse Athli. «Adesso dedichiamoci a qualcosa in cui non sei altrettanto bravo.» La quintana era concepita per allenarsi alla ritirata successiva a una parata. Consisteva in quattro protuberanze di legno che sporgevano ad angolo retto l'una rispetto all'altra da un mozzo, che ruotava intorno a un asse verticale più o meno all'altezza del mento di un uomo. Lo spadaccino doveva colpire una protuberanza e poi parare la successiva mentre il mozzo ruotava. Più rapidamente e con più forza colpiva, con maggiore rapidità era costretto a parare la protuberanza successiva. La versione più sofisticata dell'allenamento normale consisteva nell'utilizzare solo la seconda e la quarta protuberanza, il che implicava la necessità di togliere di mezzo, sollevandola la lama della spada fra un colpo e l'altro, invece che limitarsi a spostarla con rapide torsioni del polso. «Mi fanno male le braccia» si lamentò Loredan dopo quattro cicli completi di esercizi sia nel modo standard che in quello più complicato. «Non servirà certo a migliorare la situazione se sarò costretto a presentarmi in tribunale ridotto solo a un coacervo di muscoli doloranti.» «Sei solo pigro» ribatté Athli. «Va bene, passiamo al gioco di piedi.» Stavolta le proteste di Loredan furono assai eloquenti e insistenti, anche se infruttuose alla fine dei conti. L'allenamento per il gioco di piedi consisteva in una serie di impronte disegnate per terra, ognuna contrassegnata da un numero. Nella versione base, lo spadaccino doveva muovere i piedi in modo da coprire le orme corrispondenti ai numeri che venivano chiamati dall'allenatore, prima lentamente e poi via via a velocità sempre più frenetica. La versione avanzata dell'allenamento funzionava nel medesimo modo, ma lo spadaccino era bendato. «Adesso posso riposarmi?» chiese Loredan ansimando. «Continuo a dirti che odio gli allenamenti, ma tu non mi dai retta.» «Rifai una volta l'ultimo esercizio. Hai mancato il numero ventisei.» Dovette rifare tre volte l'esercizio bendato prima di riuscire a eseguirlo in maniera perfetta. Trentuno movimenti giusti su quaranta erano già considerati una prova eccellente. «Soddisfatta?» «Non era poi così male» accondiscese Athli. «Adesso sarà meglio che tu
faccia un po' di esercizio con l'anello.» «Athli...» «L'anello.» Da un trave del tetto pendeva un anello di ferro largo circa come una mela. Proprio sotto di esso era tracciato sul pavimento un cerchio di cinque passi di diametro. Per questo esercizio lo spadaccino doveva avanzare e poi arretrare stando entro il cerchio, facendo dei mezzi affondi con lo scopo di fare passare ogni volta la lama attraverso l'anello. La versione più complicata implicava di parare nel contempo una funicella di piombo sospesa a un cappio, che ruotava ogni volta che veniva colpita in modo da seguire lo spadaccino tutto intorno al cerchio. Di tutti gli esercizi che venivano praticati nelle Scuole, era probabilmente quello che Loredan odiava di più. «Sono piuttosto soddisfatto di me stesso» disse, alzando la voce quel tanto che serviva per farsi sentire dal gruppo di spettatori che si era raccolto intorno a lui mentre metteva a segno il secondo circuito perfetto all'anello, parando la fune di piombo. Non capitava tutti i giorni che qualcuno riuscisse a fare risultato pieno nel cerchio dell'anello. Riuscirci due volte di seguito era un'impresa quasi eccezionale. «Forza» disse Athli «muoviti prima di scoppiare per la soddisfazione.» «Significa che adesso posso tornarmene a casa?» «Dopo che avrai fatto gli esercizi al sacco e ai covoni.» Il sacco era un recipiente di cuoio pieno di creta umida, che più o meno simulava la consistenza di un corpo umano e serviva per esercitarsi a passarlo da parte a patte. Il sacco aveva una comprensibile, ma nondimeno seccante tendenza a squarciarsi dopo un po' e d'inverno le Scuole usavano piuttosto le carcasse di alcuni maiali provenienti dal mercato dei macellai. Nel caldo estivo, tuttavia, gli spadaccini dovevano accontentarsi della creta umida. I covoni erano funi di paglia intrecciata, annodate fra loro strettamente fino a formare un blocco più o meno dello spessore del collo di un uomo. Un bravo spadaccino con una spada affilata normalmente riusciva a tranciarne uno con due colpi. «Finirò per infangarmi tutto» protestò Loredan mentre un assistente riempiva un sacco e lo appendeva a una struttura di legno. «E allora?» «Voglio solo sottolinearlo, tutto qui. Mi coprirò completamente di fango, dalla testa ai piedi. Quante camice pensi che io possieda?» Aveva messo a segno una dozzina di buoni colpi al sacco quando la
lama della Boscemar colpì qualcosa di duro, un sasso rimasto in mezzo alla creta o un nodo particolarmente resistente della cucitura del sacco, e si piegò come un arco teso, spezzandosi poi a qualche centimetro dalla punta. Loredan fissò con espressione tetra l'elsa che stringeva in mano e si abbandonò a una serie di colorite imprecazioni. Da parte sua, Athli ebbe il buon senso di non dire nulla. «Ecco fatto» disse Loredan, scagliando la spada per terra. «Mancano dieci giorni al duello e io rompo la mia lama migliore. Se uno deve credere ai segni, questo non mi sembra troppo arduo da comprendere.» Lasciò la spada dov'era e si diresse verso la porta frontale. C'era una densa folla riunita intorno alla gabbia dei pappagalli. Riconobbe l'uomo nella gabbia e si fermò a guardare. All'interno di una alta e stretta voliera c'era il celebre avvocato Ziani Alvise, il suo avversario nell'imminente processo. Tutto intorno a lui sul pavimento della gabbia c'erano corpi di colibrì morti e l'assistente si stava accingendo a liberarne un altro gruppo nella voliera. Normalmente i bersagli utilizzati nella gabbia dei pappagalli erano normalissimi passeri; i colibrì erano molto più difficili da colpire dei passeri. Mentre l'assistente richiudeva la voliera, una mosca ci si infilò attraverso le sbarre, subito al di sopra della spalla destra di Alvise. Senza neppure girare la testa, lo spadaccino sollevò di scatto la lama, tagliò la mosca esattamente in due e rimise la spada in posizione di guardia in tempo per decapitare il primo colibrì del nuovo gruppo. Loredan passò il pomeriggio ad ubriacarsi completamente. Perimadeia, la Città Tripla, promessa sposa del mare e signora del mondo civilizzato era in declino. Era vero che già in passato aveva avuto delle difficoltà, ma mai paragonabili a quelle di adesso. Appena settantacinque anni prima il suo impero terrestre si era esteso da Zimisca, negli altipiani, a Tendria, le cui montagne gemelle facevano da portale all'imboccatura del mare centrale. Ora il luogo in cui era sorta Zimisca era distinguibile solo grazie al tracciato delle fondamenta seminascosto dalle alte erbe di gramigna, da cui sporgeva solo qua e là un cumulo di rovine e i due grandi castelli di Tendria erano presidiati dalle truppe di altrettanti Signori della Guerra rivali, ciascuno dei quali si atteggiava a solo Autentico Imperatore, ma in realtà governava solo su qualche isola rocciosa e su una flotta raccogliticcia di vascelli pirata. Canea, l'ultimo possedimento insulare dell'Impero era di fatto uno stato autonomo e le navi
che ogni anno portavano l'ormai solo nominale tributo, saccheggiavano poi tesori cento volte maggiori dalle navi mercantili di Perimadeia, in quelle che un tempo erano state sacrosante acque territoriali dell'Impero. Nonostante tutto il suo splendore, la fidanzata del mare non possedeva altro che la terra su cui sorgeva e il dominio dell'Imperatore aveva i suoi confini nel mare e negli estuari dei fiumi che lambivano le mura dalla parte di terra e da quella marittima. Non che la cosa importasse a qualcuno. Ogni cittadino sapeva che le mura erano totalmente imprendibili. Cinquecento uomini erano in grado di difendere la città contro tutte le nazioni del mondo, come aveva fatto l'Imperatore Teogeno due secoli e mezzo prima. Le cose erano sempre state così. Il potere esterno di Perimadeia andava e veniva come le maree; un secolo vedeva i confini dell'Impero includere praticamente tutto il mondo conosciuto e quello successivo vedeva invece la città chiusa entro le proprie mura come un uccello in gabbia, salvo che tre generazioni dopo ci sarebbero nuovamente stati governatori di Perimadeia in tutte le isole e le grandi città della terraferma. Non era mai sembrato essere una cosa molto importante. I commerci, non la terra o i castelli, era tutto ciò che contava a Perimadeia e la città non era mai stata più impegnata, più affollata e più prospera. Sembrava essere una storia che si ripeteva all'infinito e che aveva una propria logica. Conquiste e occupazioni costavano denaro e uomini. Senza nessun impero da proteggere non c'erano tasse di guerra da pagare né ordini governativi a credito da esaudire, interrompendo gli affari dei mercanti e delle imprese. In più, nessun miraggio di bottino e di avventura attraeva gli uomini lontano, via dalle vetrerie, dalle fonderie, dalle fabbriche di vasi, dalle concerie, dai cantieri navali, dai mulini, dalle fornaci, dalle botteghe artigiane e dagli studi professionali che producevano un inesauribilmente ricco fiume di beni di ogni genere e qualità. Per oltre un millennio la città si era vantata del fatto che uno ogni tre manufatti circolanti nel mondo era stato prodotto nel rumore e nell'aria viziata della città bassa. Ora, per la prima volta, si trattava probabilmente della verità. Privi di dei che distorcessero i loro valori e distraessero la loro attenzione, i cittadini di Perimadeia comprendevano e apprezzavano i beni materiali come nessun'altra nazione al mondo. I cittadini della Città Tripla vedevano la propria vita come una breve, ma eccitante opportunità di produrre e di fare il maggior numero di cose possibili nel breve intervallo che correva fra la nascita e la morte. E se, di tanto in tanto, sentivano il
bisogno di conquistare delle terre e di costruire dei castelli, come peraltro era sempre accaduto ai ricchi mercanti, probabilmente dipendeva dal fatto che c'erano pochi altri modi di spendere il proprio denaro, dato che possedevano già tutto quello che un uomo poteva ragionevolmente desiderare. A patto, naturalmente, che le mura reggessero; ma questa era una cosa che si poteva tranquillamente dare per scontata. Quanto ai pirati, be', certo, costituivano un fastidio, ma niente più di questo. La sola conseguenza era che invece di trasportare i propri beni fino ai clienti a bordo di navi di Perimadeia, i mercanti se ne stavano a casa e lasciavano che fossero i clienti a correre il rischio di andare da loro. Prima o poi qualche potente principe straniero si sarebbe stancato di perdere denaro perseguendo i propri interessi mercantili e avrebbe spazzato quei vermi via dal mare. Non c'era alcuna necessità che la città sprecasse un solo quarto d'oro o la vita di un singolo cittadino di Perimadeia per fare quello che qualcun altro sarebbe stato presto ben felice di fare per suo conto. Senza dubbio lo stesso sarebbe valso per qualunque ipotetico nemico fosse arrivato via terra, ammesso che qualcuno fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza da trovarsi di fronte alla frustrante barriera costituita dalla cinta di mura terrestri. Sarebbe stato sufficiente spedire alcune veloci galee nelle isole e nelle città costiere e subito il mare avrebbe pullulato di truppe inviate a proteggere la sola e unica autentica fonte della prosperità universale. Qualcuno aveva addirittura cominciato a vagheggiare l'ipotesi di smantellare la flotta e di congedare il poco che restava della guardia cittadina; perché sprecare denaro per qualcosa che non sarebbe mai servito, anche nella peggiore e più inconcepibile emergenza? Di conseguenza non vi fu alcuna manifestazione isterica di panico o alcun disordine nelle strade quando la città fu raggiunta dalla notizia che la valle di Anax, l'ampia e fertile regione che separava la città dalle pianure e che forniva alla città due terzi delle sue riserve di cibo, era stata occupata grazie a un'alleanza fra i clan dell'Orso Bianco e del Drago di Fuoco, unitisi sotto la guida di un capo il cui impronunciabile nome suonava più o meno Sasurai. Ebbene? dissero i cittadini; stavano comunque cominciando a praticare prezzi troppo alti. E se la gente delle pianure che viveva in città aveva paventato folle dedite al linciaggio e barili di pece bollente, aveva grossolanamente sbagliato nel giudicare i propri ospiti e il loro carattere cosmopolita, entrambi al di sopra di quel genere di cose, come del resto sempre era stato. Tanto per fare un esempio, il giorno dopo che era arrivata
la notizia il giovane Temrai fu accolto con gli stessi amichevoli cenni del capo quando si presentò al lavoro e sedette al suo banchetto e nessuno tirò in ballo con lui quella questione. Naturalmente non siamo in grado di giudicare se le cose sarebbero andate nello stesso modo se i suoi colleghi avessero saputo che egli era figlio di Sasurai. Alexius il Patriarca e Gannadius l'Archimandrita della città erano in piedi ai bordi dell'arena del tribunale e osservavano un uomo e una ragazza che stavano mettendosi in guardia. Avevano impiegato un giorno e due notti per arrivare lì ed erano esausti. Ironicamente, era stata proprio la loro estrema stanchezza che alla fine lo aveva reso possibile, perché entrambi giacevano profondamente addormentati nelle proprie sedie nell'appartamento dell'Archimandrita e il tribunale non era altro che lo sfondo di un sogno condiviso. «Puoi sentirmi?» sussurrò Alexius. «Sì, ma pare che invece loro non possano» ribatté Gannadius. «Sono arrivato un paio di minuti prima di te e ho fatto qualche esperimento preliminare. Per quanto posso capire, non siamo veramente qui.» Alexius represse un brivido. «Bene» rispose. «La sola idea di starmene di fronte all'intera città vestito solo della camicia, mi sconvolge.» «A quanto pare si tratta di un edificio particolarmente bello» disse Gannadius, guardandosi intorno e scrutando i palchi affollati dal pubblico. «Mi piacerebbe tanto che ci fosse un modo per dire quanto avanti nel futuro siamo.» «La ragazza è più vecchia dell'ultima volta che l'ho vista» disse Alexius. «Sfortunatamente, data la nostra scarsa esperienza di donne, dubito che siamo in grado di giudicare in modo accurato quanto più vecchia. È indiscutibilmente cresciuta, ma questo è tutto ciò che posso dire con cognizione di causa sull'argomento.» «Che cosa succede adesso?» Prima che Alexius avesse modo di rispondere, il giudice diede il segnale, la corte divenne improvvisamente silenziosa e i due avvocati diedero il via alla loro performance. Anche questa volta Loredan dava la schiena al Patriarca; stavolta tuttavia Alexius notò che impugnava una spada spezzata. Lo fece notare al proprio collega, che annuì. «Senza dubbio si tratta di un elemento significativo» disse Gannadius. «Vorrei solo sapere che cosa significa.» «Stai bene attento; succede quasi subito, all'inizio del duello.»
Stavolta, tuttavia, non accadde. Benché tenesse fin dall'inizio un atteggiamento difensivo, Loredan combatté con la disperata energia di un uomo che capisce fino in fondo in che razza di guaio si trova. Affondi e fendenti che avrebbero dovuto troncare la sua vita in qualche modo venivano deviati proprio all'ultimo istante e benché i suoi contrattacchi si scontrassero con una difesa invalicabile quanto le mura di Perimadeia, parevano garantirgli il tempo e lo spazio di cui aveva bisogno per continuare a difendersi efficacemente. A conti fatti, entrambi i contendenti diedero una dimostrazione di abilità da togliere il fiato. Quasi quasi valeva la pena di avere vegliato quarantotto ore, solo per assistervi. «Tutto ciò è gravemente sbagliato» borbottò Alexius. «Mi si gela il sangue nelle vene a pensare che ormai da settimane costituisco il terminale su cui scarica questa cosmica confusione.» «Ti sta proprio bene» ribatté Gannadius, senza distogliere lo sguardo dal combattimento. A modo suo era un esperto di arte giudiziaria e quello a cui stava assistendo era un pezzo da collezionisti. La ragazza tentò un affondo da sinistra e Loredan riuscì a scivolare lontano dalla sua lama; ma il colpo era stato in realtà una finta e la spada si posizionò perfettamente in linea con la sua gola. Solo un ultimo, frenetico riflesso gli consentì di frapporre una mano. Deviò il colpo, ma la lama della ragazza lo colpì al centro del palmo. Dal punto in cui si trovava, Alexius riuscì a scorgere svariati centimetri della punta che spuntavano dal dorso della mano di Loredan. Questa è la tua occasione, disse a se stesso e mentre Loredan si proiettava in avanti mirando al corpo senza protezione della ragazza, Alexius finì in mezzo a loro e cercò di approfittare della situazione. Non sentì nulla quando la spada di Loredan lo trafisse da parte a parte: come avrebbe potuto? Non era davvero lì... Ma quando abbassò lo sguardo e vide la lama svanire nel proprio petto, comprese immediatamente di avere appena commesso il peggiore errore della sua vita. Un attimo dopo la ragazza gli girò intorno e trafisse Loredan là dove si trovava; lo spadaccino cadde in avanti, a faccia in giù, mentre la sua spada restava conficcata nel corpo del patriarca. Alexius stava chiedendosi come tutto ciò fosse possibile, visto che Loredan stava usando una spada spezzata e senza punta, quando all'improvviso si risvegliò. Era stato l'acuto dolore al petto e alle braccia che lo aveva svegliato; un attacco di cuore, su questo non c'era il minimo dubbio. Gannadius era ancora profondamente addormentato, e Alexius non era in grado né di
muoversi né di parlare per cercare di svegliarlo. Si rese conto che era molto probabile che stesse per morire. La cosa gli sembrò, più che altro, soprattutto ingiusta. Gannadius sollevò la testa. «Va tutto bene» disse «non preoccuparti. Vivrai.» Il dolore s'interruppe. «Stai fermo» proseguì Gannadius. «E rilassati. Cerca di respirare normalmente.» Si alzò in piedi, rigido e impacciato dopo avere dormito in quella posizione rannicchiata, e si versò mezza coppa di un forte vino scuro. «Questo ti aiuterà» disse. «Forza, bevi. Se tu fossi dovuto morire, saresti già bello che stecchito a quest'ora.» Alexius fece una smorfia quando il vino gli bruciò le budella. «Che cosa è successo?» domandò. «Ho avuto un infarto o qualcuno mi ha pugnalato?» «Tutti e due. Colpa mia, temo. Dammi la coppa, te la riempio di nuovo.» «Colpa tua?» Gannadius annuì. «Dovevo fare qualcosa per impedirgli di uccidere la ragazza. Buttare te in mezzo a loro è tutto quello che mi è venuto in mente sul momento. È un bene che tu non fossi lì per davvero, perché avrebbe potuto essere molto pericoloso.» «Di tutte...» Alexius fece un vago gesto per rifiutare la coppa che gli veniva porta di nuovo. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?» chiese. «Adesso sono vittima di una maledizione che ho lanciato io stesso. E la ragazza lo ha comunque ucciso, sicché tutto quello che abbiamo fatto non è servito a nulla.» Gannadius scosse la testa. «Rifletti» disse con severità. «Eri già vittima della maledizione; è questo ciò che non andava in te nelle scorse settimane. Quello che ho fatto io è stato di ricondurre tutto a un punto fermo, per così dire. No» continuò «se non fosse stato per me le cose sarebbero andate molto peggio. Loredan avrebbe ucciso la ragazza e allora dove ci troveremmo tutti quanti, adesso?» «Non sei tu quello che ha la prospettiva di essere passato da parte a parte» sottolineò Alexius. «Nella migliore delle ipotesi, siamo esattamente al punto di partenza.» «Oh, no» obiettò Gannadius «niente affatto. Tanto per cominciare, abbiamo svolto delle ricerche pratiche di enorme valore in un'area del Principio a proposito della quale fino a oggi si sapeva deplorevolmente
poco. Scriverò un trattato in materia.» Il Patriarca chiuse gli occhi e fece un lungo sospiro. «A parte questo?» disse. «A parte questo, ritengo che abbiamo fatto qualche indiscutibile progresso. Invece di avere solo una vaga idea del fatto che stai soffrendo di una qualche reazione negativa senza sapere che forma abbia assunto, ora sappiamo esattamente ciò che puoi aspettarti. Come se non bastasse, siamo arrivati in tempo per impedire le conseguenze potenzialmente disastrose di questo secondo intervento, il che di per sé non è un risultato da poco. Aggiungi il fatto che in nessun modo la reazione negativa sembra avere coinvolto anche la mia persona, e credo che possiamo congratularci l'un l'altro per un lavoro ben fatto.» Gannadius sorrise. «Adesso ti suggerisco di cercare di dormire per un po'. Ho fatto preparare per te una delle stanze degli ospiti. I problemi di cuore non sono qualcosa che si possa prendere alla leggera, sai.» Alexius gemette. «Ciò che davvero mi deprime» disse «è che io e te siamo i principali esperti al mondo in questo tipo di pratiche. Se questo è il meglio che riusciamo a fare, forse sarebbe il caso di lasciare perdere. In nome del cielo, si suppone che noi si sia capaci di fare proprio questo genere di cose per vivere!» Gannadius lo fissò a lungo. «Per vivere» disse. «Forse preferiresti ripetere lo stesso concetto con altre parole.» Il capo istruttore era contrariato. «È vero» acconsentì. «Ci sono già stati degli avvocati femmina. Qualcuno di loro è perfino riuscito a vivere fino a venticinque anni. Ma questo soprattutto perché nessuno voleva mai ingaggiarle, ragione per cui era un caso se gli capitava ogni tanto un lavoro. Non vuoi fare davvero questa professione. Vattene via.» La ragazza non replicò; gli porse invece una grossa borsa di cuoio, che reggeva sul palmo della mano. L'istruttore non poté fare a meno di notare che aveva l'aria di essere bella piena. «Non siamo attrezzati per occuparci di studenti di sesso femminile» disse. «Avremmo bisogno di spogliatoi separati e, molto semplicemente, ci manca lo spazio. Per non parlare di dove metteremmo gli chaperon.» aggiunse, colto da un'improvvisa ispirazione. «E prima di dire che tu non hai bisogno di nessuno chaperon, prova ad andare a dichiararlo davanti
all'Ufficio della Pubblica Morale. È proprio il tipo di cosa che potrebbe farmi chiudere dalla mattina alla sera. E poi come la mettiamo con l'abbigliamento?» proseguì, domandandosi come mai nessuno dei suoi argomenti sembrasse generare il minimo effetto. «Non ti aspetterai di poter combattere in pantaloni e d'altro canto i tribunali non hanno mai approvato nessun tipo di abito da procedura solenne per le donne. Provocheresti solo un mucchio di risate.» La ragazza restò muta. La borsa era lì, sulla sua mano tesa. Un senso di smarrimento e di frustrazione cominciò a invadere l'istruttore; perché non riusciva a fare entrare niente in testa a quella ragazza che sembrava averla dura come un macigno? Nel corso degli anni aveva convinto vere e proprie centinaia di ragazzini stupidi a non tentare di intraprendere una professione nella quale non avevano alcuna speranza di sopravvivere. Era un uomo coscienzioso e poi doveva anche pensare alla sua licenza di istruttore. Non poteva neanche pensare a se stesso intento a spiegare a una madre e a un padre isterici e a un ufficiale dell'Ufficio della Pubblica Sicurezza dall'espressione impenetrabile, perché aveva permesso a una ragazzetta di iscriversi e di farsi uccidere nel primo combattimento. La borsa era bella grossa, ma non abbastanza da ripagarlo della eventuale perdita di una professione lucrosa che aveva coltivato per nove duri anni. «Per favore» disse. «Se non vuoi dare retta al buon senso, almeno vattene e vai a rovinare la vita a qualcuno dei miei concorrenti. Posso darti un'intera lista di posti in cui puoi provare.» «Voi siete il migliore» disse la ragazza. «Voglio imparare qui.» Alle loro spalle, la lunga sala destinata agli esercizi echeggiava del clangore della spade e delle grida di istruttori poco pazienti. Il pavimento tremò sotto il peso di trenta piedi che lo colpirono con forza e all'unisono eseguendo il primo, il secondo e il terzo passo della guardia ortodossa, la risposta arretrata, la fleche, l'affondo difensivo, la parata meridionale, la giravolta dello spadaccino, la mandritta. Ogni giorno vedeva arrivare lì un nuovo gruppo di brillanti, astute, sciocche facce di giovinotti e di padri angosciati il cui unico figlio era scappato da casa lontano dagli affari di famiglia per inseguire il sogno romantico di diventare un avvocato. Ogni settimana c'erano funerali a cui bisognava partecipare, nuovi nomi da iscrivere nei ruoli degli ex allievi che avevano dato la loro vita per la professione. In un modo o nell'altro, il capo degli istruttori non faceva altro che vedere un inquietantemente ampio numero di giovani con una gran
fretta di morire, ma mai nessuno insistente come quella ragazza. La cosa che più lo colpiva, probabilmente, era il fatto che non stesse affatto pregandolo o facendogli moine o implorandolo. Era piuttosto come se stesse esigendo un diritto inoppugnabile che lui invece cercava di negarle slealmente, attaccandosi ai pretesti più ridicoli. Le sarebbe stato proprio bene, disse a se stesso, se le avesse permesso di iscriversi. «Va bene» disse alla fine «facciamo un patto. Tu mi dici perché è cosi dannatamente indispensabile per te diventare un avvocato e dopo può darsi che io mi lasci persuadere.» Silenzio. Per la prima volta l'istruttore colse una vaga traccia di riluttanza; forse il motivo non era dei più nobili, uno che gli avrebbe consentito di rifiutare senza troppa fatica. Decise di approfittare del momentaneo vantaggio. «Il fatto è» disse «che esiste una sola valida ragione per volere esercitare questa professione. Tutte le altre fanno automaticamente di te una candidata non adatta. E ho il presentimento che non si tratti della stessa ragione che sta dietro alla tua richiesta.» La ragazza non disse nulla, ma le sue guance stavano cominciando a imporporarsi. Da buon professionista, l'istruttore poté avvertire un difetto nella sua guardia che lo spinse a insistere. Passò decisamente all'offensiva. «La sola ragione valida che può spingere qualcuno a combattere per mantenersi» disse «è il desiderio di denaro. Non l'amore per la giustizia, o l'onore, o lo spirito d'avventura, né il coraggio o il desiderio di eccellere. Certamente non il piacere di uccidere; soprattutto la ragione non può essere il desiderio di trovare un modo per morire anzitempo senza però che si tratti di un suicidio. Dev'essere voglia di denaro, o niente altro. E se stai per dirmi che non c'è problema perché in realtà non hai nessuna intenzione di esercitare la professione una volta finito il corso e che sei qui solo per imparare la scherma, allora suggerisco che tu te ne vada dalla mia scuola prima che ti faccia scaraventare in strada. Di tutte le sporche, disgustose parole che conosco, la peggiore di tutti è amateur. Ed è esattamente questo ciò che sei, non è vero?» Stava vincendo; infatti quando gli rispose, la voce della ragazza era scossa e preoccupata. «Come potreste saperlo?» disse in tono remissivo. «Perché» ribatté «ti sei presentata qui con tutta la retta in anticipo, già pronta, senza neanche fare finta di contrattare sul prezzo, di offrirti di pagarmi lavorando o almeno di chiedermi di aspettare fino a quando avrai cominciato a guadagnare. Il che è esattamente ciò che fanno i professioni-
sti. Di conseguenza è evidente che tu non sei una professionista.» Vittoria. La mano della ragazza si chiuse intorno alla borsa e poi lei la lasciò ricadere lungo il fianco. «Andate al diavolo, allora» disse. «Mi toccherà andare da qualche altra parte.» «Buona fortuna» rispose l'istruttore, sollevato dal fatto che il confronto si fosse concluso. Eppure, adesso che l'aveva avuta vinta, non poteva fare a meno di provare una bruciante curiosità. Dopo tutto, non aveva risposto alla sua domanda. Gliela pose di nuovo. «Non sono affari vostri.» «Se tu mi rispondessi» insistette «forse potrei indicarti la persona giusta a cui rivolgersi.» La ragazza fece spallucce; la cosa non sembrava più importante. Quel semplice gesto parve ridimensionare la sua vittoria. «Vendetta» disse infine. «Tutto qui.» «Ah» rispose l'istruttore; «Avrei dovuto immaginarlo. Se c'è una cosa che odio quasi quanto gli amateur è il melodramma.» La ragazza lo guardò storto. «Mio zio è stato ucciso da un avvocato di nome Bardas Loredan. Il solo modo che ho per punirlo legalmente è di diventare io stessa avvocato. Ed è esattamente ciò che ho intenzione di fare.» A dispetto di se stesso, l'istruttore non poté fare a meno di sentirsi intrigato. «Perché ci tieni tanto che si tratti di una cosa legale?» domandò. «Se per te è una cosa così terribilmente importante, perché non ingaggi una coppia di ragazzi svegli che gli taglino la gola in qualche stradina buia? Posso certamente darti un paio di dritte in questo senso; più di uno dei nostri ex studenti sposta la propria area di attività in questo campo, dopo un paio di anni.» La ragazza scosse la testa. «Sarebbe un omicidio» disse. «Non credo nell'assassinio, è una cosa sbagliata. Voglio che si tratti di una giusta rivincita.» All'istruttore vennero in mente svariate risposte, ma non diede voce a nessuna. «Va bene» disse. «Fai causa a uno dei suoi regolari clienti e poi ingaggia uno spadaccino più bravo di lui. Verrà ucciso e si tratterà di una faccenda del tutto legale.» «Sarebbe comunque un omicidio» ribatté la ragazza. «Dopo tutto, non è che Loredan abbia fatto qualcosa di scorretto. Stava solo facendo il suo lavoro, ragione per cui non ha commesso alcun crimine che lo ponga fuori dalla legge. Però ha ucciso mio zio e per questa ragione deve essere
punito.» Prima che l'istruttore potesse replicare qualcosa, si era già voltata e si era allontanata; fuori dalla scuola e fuori dalla sua vita. In linea di massima era più che felice di essersi liberato di lei; ma una piccolissima e tuttavia pericolosissima parte di lui rimpiangeva il fatto di avere perduto un soggetto così interessante da osservare. L'istruttore aveva visto ogni genere di gente strana: triste, perversa, disturbata, pazza o molto semplicemente e classicamente stupida. Però non aveva mai incontrato un tipo così. Probabilmente, ricordò a se stesso, c'era solo da esserne contenti. È sempre meglio stare alla larga dai guai che camminano su due gambe. Era già pomeriggio avanzato quando Loredan si svegliò. Aveva mal di testa, era depresso e arrabbiato con se stesso per il fatto di sentirsi così da schifo. Decise di uscire a farsi una bevuta. Se un uomo vuole veramente ubriacarsi nella città bassa di Perimadeia, c'è un'infinità di posti in cui può andare, che nel loro insieme corrispondono a tutte le sfumature di umore, dall'allegria più rumorosa al profondo auto disprezzo, incluse naturalmente le infinite sfumature che stanno fra l'uno e l'altro estremo. Si va dalle taverne alla moda in cui gente rispettabile parla di affari davanti a un bicchiere di eccellente vino, fino ai tuguri senza licenza nascosti solo da una tenda e ospitati nelle stanze del retro di qualche casa privata. L'abbondanza dell'offerta è tale da risultare talora imbarazzante. C'erano taverne che si facevano pubblicità con enormi insegne fatte a mosaico e altre che facevano del loro meglio per risultare invisibili. C'erano osterie che erano veri e propri uffici governativi, altre che erano teatri, altre ancora che erano accademie di musica o di matematica pura; c'erano templi dedicati a dei il cui culto era proibito, mercati di scambio del grano e dei cereali, sale di danza e istituti di meccanica, luoghi in cui erano ammesse le donne e altri che invece le fornivano, posti in cui andare se si voleva assistere a una rissa e altri perfetti per iniziarne una. C'erano perfino taverne in cui si andava per discutere su quale fosse la taverna migliore in cui trascorrere la serata! Infine c'erano posti in cui si poteva andare e starsene seduti per conto proprio fino a quando si era troppo ubriachi per muoversi. Di fatto, di questi ultimi ce n'erano tantissimi. Quello scelto da Loredan non aveva un nome e neanche molti avventori; si trattava del retro del negozio di un costruttore di ruote, con quattro
tavolacci, otto lampade a olio e un bancone su cui si picchiava con il pugno quando si voleva ancora da bere. Nessuno chiacchierava molto, anche se occasionalmente qualcuno canticchiava per mezzo minuto o giù di lì. Ai piedi del muro di fondo c'era un canaletto in cui si poteva orinare se se ne sentiva il bisogno. Se a qualcuno capitava di morire nel posto in cui era seduto, nessuno se la prendeva. Il vino non faceva più male di un attacco di malaria. Loredan ne aveva vuotato per metà una piccola caraffa quando qualcuno si diresse verso di lui e gli si sedette di fronte. «Bardas» disse. Loredan sollevò il capo: «Teoclito» rispose. «Non eri morto?» «Non ancora.» Teoclito poggiò sul tavolo un'altra caraffa e riempì il suo bicchiere e quello di Loredan. «Bada bene, non mi sforzo quanto di te di morire. Come vanno le cose nella professione legale?» «In modo deprimente.» «Fai un sacco di soldi, o così ho sentito dire.» Loredan fece spallucce. «Più che nell'esercito e poi puoi indossare i tuoi vestiti. Cosa mi dici di te?» Teoclito sembrava avere settant'anni; in effetti aveva soltanto cinque o sei anni più di Loredan. L'ultima volta che si erano trovati seduti uno di fronte all'altro davanti a una caraffa di vino era stato in una tenda eretta fra le rovine di una città che avevano raggiunto tre giorni troppo tardi. Il giorno successivo c'erano state un po' di scaramucce con i clan; Teoclito era risultato uno dei feriti che sembravano al di là di ogni speranza di aiuto. Erano tornati indietro per mettere fine alle sue sofferenze, ma lui non era più dove lo avevano lasciato. Ne conseguiva che evidentemente era stato catturato dai clan. Era un genere di cose alle quali bisognava abituarsi a non pensare. «Ormai sono tre anni che è successo» disse Teoclito. «Lavoro alla scuola di danza; pulisco dopo che le ragazze si sono esercitate. È un modo come un altro per sbarcare il lunario.» Loredan gli riempì di nuovo il bicchiere. «E prima?» domandò. «Niente di spassoso. È meglio che continui a non sapere nulla.» Teoclito sorrise; aveva cinque denti in tutto. «Hanno dei dottori sorprendentemente bravi, ma un perverso senso dell'umorismo. Alla fine mi hanno lasciato andare.» «Così, semplicemente?» «Non c'era posto per nessun passeggero nella carovana e d'altro canto
sono gente molto superstiziosa. Uccidere uno zoppo porta terribilmente sfortuna.» «Poi cosa è successo?» Teoclito emise un sospiro carico di stanchezza. «Oh, ho camminato verso la costa, ci sono arrivato, ho scoperto di avere puntato nella direzione sbagliata. A quel punto non me la sono sentita più di camminare e sono rimasto dov'ero.» «Vale a dire?» «Solamen.» Loredan aggrottò un sopracciglio; Solamen era in alto sulla costa nord, a due mesi di cammino dal luogo in cui lo aveva visto per l'ultima volta. Fra le altre cose era un fiorente mercato degli schiavi. «Ho trovato un lavoro, in un certo senso. Non pagato. Una specie di lavoro volontario.» «Ah.» «Alla fine mi sono ritrovato a fare il rematore a bordo di una grossa nave» continuò Teoclito. «E quando questa grossa barca naufragò al largo della Canea, nuotai fino a riva ed eccomi qui. Vorrei tanto dirti che è bello essere di nuovo a casa, ma il mio sostanziale rispetto per la verità mi impedisce di farlo.» «Hai avuto il tuo bel da fare, allora.» Teoclito si strinse goffamente nelle spalle. «Come hai detto tu, sempre meglio che essere nell'esercito. Comunque, bando a queste ciance. Vedi ancora qualcuno del vecchio gruppo?» Loredan fece cenno di no con il capo. «Non molti di noi sono riusciti a tornare indietro» disse «e non facciamo rimpatriate. Alla fine dei conti, nessuno di noi rimpiange granché.» Sbadigliò. «Detto questo, mi sono effettivamente imbattuto in Cherson l'altro giorno, giù ai moli. Adesso dirige una fonderia di ottone e se la passa bene. Dà lavoro a un mucchio di gente.» «Personalmente non ho mai potuto sopportarlo.» «Neanche io. È buffo, vero? come sembrano essere sempre i bastardi a cavarsela meglio.» Prima della sua morte presunta, Teoclito era stato il Comandante di Compagnia di Loredan. Eroe dalla testa ai piedi in una società che scoraggiava quel tipo di visione del mondo; primo a ingaggiare combattimento, ultimo a ritirarsi. Adesso sembrava molto più basso di come lo ricordasse Loredan. Era quasi completamente calvo, e la coroncina dei capelli lasciava intravedere molte cicatrici. Loredan aveva preso il suo
posto come comandante; per quanto ne sapeva, erano i soli due uomini ancora vivi della loro compagnia. Teoclito lo stava fissando con uno sguardo intenso. In realtà, dovette ammettere Loredan, soprattutto di disprezzo. «Già» si sentì rispondere. «Sembra proprio che sia così, non è vero?» Riempirono di nuovo i bicchieri e per un po' rimasero silenziosi. A Loredan non veniva in mente niente da dire. «Comunque» disse alla fine Teoclito, finendo il suo vino e alzandosi in piedi, «non posso fare troppo tardi, domattina devo andare a lavorare. Ci vediamo.» «Clito.» Loredan avrebbe voluto mangiarsi la lingua; aveva il timore che ciò che stava per dire sarebbe stata la cosa sbagliata. «Sì?» «Hai... Hai abbastanza soldi? Voglio dire...» Di nuovo quello sguardo. «Ti ho già detto» rispose «che ho un lavoro. In gamba, Bardas.» «Anche tu.» «Oh, ancora una cosa.» Teoclito si appoggiò al tavolo, spostando il peso dalla gamba destra alla sinistra. «Sì?» «Sono sicuro che tu avessi una buona ragione per abbandonarmi e non tornare indietro» disse. «Solo non azzardarti mai a cercare di spiegarmi quale fosse.» «Abbi cura di te, Clito.» «Lo faccio sempre.» Si allontanò, trascinandosi dietro il piede destro. Tutto il suo corpo sembrava avvitato su se stesso, come un tratto di fune. Doveva essere stata davvero una lunga strada dagli altipiani a Solamen, camminando in quel modo. È incredibile cosa è disposta a sopportare certa gente pur di rimanere viva. Loredan lasciò lì il resto del suo vino e fece ritorno alla propria "isola". Era praticamente sobrio, ma andava bene lo stesso. Niente più vino, disse a se stesso, mentre si sdraiava per cercare di dormire. Pasti regolari, esercizio, allenamenti alle Scuole, forse perfino una nuova spada e chissà che non riuscisse a mettersi abbastanza in forma da potere affrontare Ziani Alvise. Dopo tutto, era solo un nuovo duello, una cosa nella quale si supponeva che fosse bravo. Non è che gli si chiedesse di fare qualcosa di impegnativo, come camminare fino a casa.
CAPITOLO QUARTO «Che cosa stai guardando?» domandò l'ingegnere. Temrai fece un passo indietro. «Mi dispiace» disse. «Stavo solo dando un'occhiata.» L'ingegnere fece una smorfia e sputò nella sabbia. «Non hai nessun lavoro da fare?» «Ho finito. Sono in attesa del prossimo carico di metallo grezzo. Così mi è venuta l'idea di dare un'occhiata intorno.» L'ingegnere borbottò qualcosa e tornò a concentrarsi sul proprio lavoro. Stava lavorando alla base di una piccola catapulta, il tipo che scagliava una pietra da cinquanta chili. Usando una grossa asse lunga più di quattro metri; prima lui un aiutante l'avevano segata da un massiccio tronco stagionato, usando una sega di due metri. «Serve per la struttura di base?» chiese Temrai. L'ingegnere sollevò lo sguardo, stupito. «È la metà sinistra della struttura ad A» rispose. «Quella destra l'abbiamo già fabbricata. Com'è che sai tante cose a proposito di macchine da guerra?» «È un argomento che mi interessa» disse Temrai. «Sono stato spesso a guardare.» L'ingegnere, un uomo di circa sessantacinque anni con una folta peluria bianca sul petto e sugli avambracci che lo faceva somigliare a un orso, annuì. «Ti conosco» affermò. «Sei il ragazzo straniero, quello che viene dalle pianure.» Sulle sue labbra si disegnò un sorrisetto. «Scommetto che non hai mai visto niente del genere nelle pianure.» «Oh, no» rispose Temrai. «Trovo affascinante vedere tutti questi diversi marchingegni.» Stavolta l'ingegnere scoppiò proprio a ridere. «Bah, questi aggeggi non sono un granché» disse. «Le catapulte sono basate su un progetto molto semplice. Basta piazzare un peso dannatamente grosso e greve a una estremità e all'altra uno per alloggiare la pietra, che ruoti intorno a un perno supportato da due strutture ad A. Tutto quello che si deve fare è issare il peso con una carrucola, poi si carica la pietra e si molla il peso. Il peso ricade a corpo morto e la pietra viene scaraventata lontano. Una banalità. A paragone di alcune delle macchine che fabbrichiamo qui, si tratta di un gioco da ragazzi.»
«Oh» disse Temrai. «Pensavo fossero armi piuttosto efficaci.» L'ingegnere fece spallucce. «Oh, se è per questo funzionano benissimo. Abbiamo costruito delle catapulte in grado di scagliare una pietra di duecento chili a cinquecento metri dritta come un fuso. Questa è solo un giocattolo; raggiunge la medesima distanza ma riesce a lanciare solo pietre di un quarto del peso.» Temrai annuì con l'aria di apprezzare e senza darlo a vedere l'ingegnere si sentì compiaciuto nel notare la luce di entusiasmo che si era accesa nei suoi occhi. Tutti i veri ingegneri sono degli entusiasti; apprezzano l'ammirazione e il rispetto tanto quanto gli scultori o i pittori e sanno di meritarseli assai più di questi ultimi. Tutto ciò che è necessario per fare una scultura è farle assumere un determinato aspetto. Una macchina invece deve anche funzionare. «Come fate a sapere quanto grande la dovete costruire?» chiese Temrai. L'ingegnere rise di nuovo, ma con simpatia. «Questa, ragazzo mio, è una domanda dannatamente sensata. In parte si può stabilirlo facendo dei calcoli, applicando quelle che noi chiamiamo formule. Per il resto ci si arriva provando e sbagliando. Se ne costruisce una e si vede se funziona; se non va la si ricostruisce in un altro modo, e si continua così esperimento dopo esperimento fino a quando non se ne ottiene una che funzioni. È ciò che chiamiamo predisporre dei prototipi.» «Ah» disse Temrai. «Per esempio» proseguì l'ingegnere, segnando con grande attenzione il rettangolo che si preparava a tagliare, tramite leggeri tocchi del suo cesello «il Segretario delle Ordinanze viene da me e mi dice che vuole dieci catapulte leggere per coprire un angolo delle mura verso il mare, proprio dirimpetto alla Catena, dove hanno appena finito di erigere cinque nuovi bastioni. Così mi spiega cosa vuole che facciano, e io mi metto a riflettere. Ora, so che una volta ne abbiamo costruita una che aveva un braccio lungo dieci metri, con un contrappeso di una cinquantina di chili e che avevamo scoperto di poterci lanciare una pietra di circa venticinque chili a tre o quattro centinaia di metri. Non è un granché, pare più adeguato a un giocattolo per ragazzini, ma rappresenta pur sempre un punto di partenza. Così mi dico, se posso lanciare venticinque chili a trecento metri con un contrappeso di cinquanta chili e un braccio di dieci metri, forse se voglio lanciare ottanta chili ad almeno cinquecento metri devo cominciare con un braccio di tredici, quattordici metri e centotrenta chili di contrappeso. Poi però mi dico, aspetta, un braccio di diciotto metri con centotrenta chili di
contrappeso scaraventa una pietra da ottanta chili a quattrocentocinquanta metri, allora tento con venticinque chili e un braccio di quindici metri e siccome in questo modo il braccio si spezza, so che quindici metri sono troppi per un contrappeso e la volta dopo provo con quattordici metri. Stavolta però ho fatto il braccio troppo corto, ragione per cui sono costretto ad aumentare il contrappeso all'altra estremità; decido di aumentarlo. A quel punto so che se il braccio si spezza di nuovo, dovrò cercare di costruirlo più robusto gettando alle ortiche tutti gli altri calcoli.» Si interruppe per prendere fiato. «Non è un lavoro veloce» disse «costruire macchinari.» «Ha l'aria di essere una cosa davvero complicata» osservò Temrai. Sembrava così sbalordito che l'ingegnere gli rivolse un sorriso. «È complicato» disse poi «fabbricare cose che funzionino. Qualunque dannato sciocco può fabbricare una macchina che non funziona. Senza offesa, ragazzo, questo è esattamente ciò che fate voi stranieri. Vedete una macchina e dite, questa sì che è una grande idea, fabbrichiamone una anche noi; ma non vi fermate mai a pensare quanto dovrà essere lunga o di che materiale dovrà essere costruita, sicché poi non funziona e voi dite, al diavolo, vorrà dire che gli dei sono irritati e lasciate perdere il tutto. È tutta qui la differenza, capisci?» aggiunse, picchiettandosi la fronte con un dito. «Qui nel cervello.» «Lo capisco benissimo» rispose Temrai. «È per questa ragione che voi siete tutti così saggi.» Osservò attentamente le varie parti già finite del macchinario e quelle a metà della lavorazione, poggiate al muro in ordine o fissate a sostegni appositamente costruiti e le sue labbra continuarono a muoversi come se stesse contando sottovoce. «E suppongo che il risultato non dipenda solo dal braccio e dal peso» riprese poi. «Immagino che sia anche importante riuscire a costruire la struttura di base della giusta misura.» «Cominci ad afferrare il concetto. Potremmo essere ancora in tempo a fare un ingegnere di te.» Batté una mano affettuosamente sul legno di fronte a sé, fissato da grosse ganasce di ferro. «Ci ho riflettuto a lungo e penso che se costruisco la struttura dodici per otto per dodici dovrei quasi azzeccarci; non è come se stessi cercando di montare un braccio di venti metri con la necessità di essere bilanciato da conto ottanta chili di contrappeso. Perché vedi, quanto più peso ci vuole tanta maggiore forza è necessaria e quindi tanto più alta deve essere la struttura a forma di A. Ma quanto più acuto fai l'angolo tanto è più facile che la macchina si spezzi
sotto sforzo ragione per cui è necessario, dopo di che arriva un bel tomo delle Ordinanze e ti dice di togliere assolutamente dieci chili o la catapulta sarà troppo pesante per la torre su cui vogliono posizionarla.» L'ingegnere alzò gli occhi al cielo con aria drammatica. «Capisci cosa voglio dire?» domandò. «Penso di sì. Che cos'altro fabbricate oltre alle catapulte?» «Qualunque cosa tu possa nominare» rispose l'ingegnere orgogliosamente. «Fino a oggi, quest'anno ho costruito catapulte, balestre, mangani, tutta dannata roba di questo genere. Fare un bel, semplice trabucco sarebbe un gradito cambiamento, te lo dico io.» Seduto al proprio banco di lavoro, intento a saldare scrupolosamente il filo indurito a un cuore di metallo ancora morbido, Temrai non potette fare a meno di pensare a suo zio Tesarai; a come una volta, molti anni prima, fosse riuscito a catturare un artigliere di Perimadeia e si fosse messo a torturarlo con tremenda ingenuità ed entusiasmo nel tentativo di strappargli i segreti della costruzione delle macchine da guerra. Con più determinazione Tesarai tentava di ottenere il suo scopo, tanto meno ricavava fino a che giunse il momento in cui il prigioniero morì portando con sé intatti i suoi segreti e lasciando la gente dei clan piena di un profondo e meravigliato rispetto. A questo punto Tesarai dichiarò che era chiaro che la città non avrebbe mai potuto essere conquistata, dato che i suoi abitanti erano pronti a fronteggiare anche la più orribile delle morti piuttosto che tradirla. In quell'occasione Temrai, che al tempo aveva dodici anni e aveva a malapena l'età che gli consentiva di prendere parte ai Consigli, tentò di suggerire che forse avevano affrontato la questione nel modo sbagliato. Tentare di estorcere informazioni a quella gente era evidentemente futile; non sarebbe stata una idea molto migliore cercare semplicemente di chiedergli le cose con le buone maniere? Cosa alla quale aveva aggiunto prontamente (per paura di essere spedito dritto a dormire) che gente talmente gonfia di orgoglio per la propria città da preferire di morire piuttosto che tradirla, molto probabilmente avrebbe detto a un curioso che ponesse domande tutto quello che voleva sapere, a condizione che avesse posto queste domande in modo tale da consentire a quelli di Perimadeia di sfoggiare la propria grandezza davanti a un selvaggio ignorante. E adesso, cinque anni dopo, eccolo lì; e la cosa si stava dimostrando ancora più facile di quanto avesse pensato. Ora conosceva le dimensioni e i dettagli costruttivi della torre da assedio, della scala lunga, dello scorpione, dell'ariete azionato dalla forza di gravità e della catapulta. Aveva appreso
l'arte di... e di scavare sotto le mura semplicemente recandosi in biblioteca e leggendo un libro. Un membro della guardia che aveva incontrato in una taverna gli aveva fatto una visita guidata delle mura e delle torri di guardia e poi erano rimasti insieme a bere mentre quest'ultimo gli illustrava gli esatti orari del cambio delle ronde e gli elencava il numero degli uomini in servizio a ogni turno. Il lavoro che aveva ottenuto all'arsenale significava che ora ne sapeva più dei comandanti della guardia circa le scorte e la capacità di produzione di frecce della città. C'era perfino un libro che il bibliotecario aveva promesso di trovargli, che descriveva dieci perfettamente funzionanti modi di spezzare le difese e invadere la città; vent'anni prima era stato un testo obbligatorio all'accademia militare, ma in seguito nessuno si era più ricordato della sua esistenza. Era meraviglioso; come tutto ciò che riguardava la città era meraviglioso, sconvolgente e profondamente triste. Finì la saldatura e mise la lama nel fuoco preparandosi a portarlo al massimo calore; avrebbe fatto un buon lavoro, non c'era da preoccuparsi; il meno che potesse fare, date le circostanze, era assicurarsi che possedessero almeno qualche spada decente con cui difendersi quando sarebbe arrivato il momento. Mescolati alla folla numerosa che pagò il proprio quarto di rame e si mise in fila per potere assistere alla causa Alvise-Loredan, c'erano una ragazza alta e magra e un giovanotto altrettanto alto, ma piuttosto rotondetto. Indossavano due mantelli uguali, di taglio e colore del tutto fuori moda... «Come facevo a saperlo? L'ultima volta che sono stato qui è stato più di cinque anni fa.» «E non ti è neanche passato per il cervello che la moda poteva essere cambiata?» «A essere onesti, no.» «Uomini!» ... e quando bisbigliavano fra di loro, il dialetto, benché più bizzarro che propriamente barbaro, era abbastanza strano per fare sì che la gente in coda dietro di loro li additasse con un cenno del capo e si facesse l'occhiolino. Isolani, si dicevano l'un l'altro, controllando in maniera ostentata di avere ancora alla cintura la scarsella. «Non sono sicura di avere voglia di assistere a questo spettacolo» disse la ragazza sottovoce mentre consegnava al bigliettaio il piccolo contrasse-
gno d'osso che le era stato dato all'ingresso. «Che cosa potrà mai esserci di divertente nel vedere due uomini adulti che cercano di ammazzarsi a vicenda?» Il suo gemello scrollò il capo. «Probabilmente non ci riusciranno» disse. «È a dir poco oltremodo difficile. Molto più probabilmente uno ucciderà l'altro e questo sarà tutto.» «Non essere ottuso» ribatté sua sorella. «Sai perfettamente cosa volevo dire. E sono convinto che sia un costume da barbari.» Suo fratello fece spallucce. «Non sto dicendo il contrario» affermò «ma è una cosa che devi vedere almeno una volta se vuoi avere qualche speranza di comprendere questi pazzi.» «Zitto! Ti sentiranno.» «Ah, tanto non sanno che cosa significhi la parola pazzi. Senti, se vuoi diventare parte della compagnia e combinare qualcosa da queste parti, la prima cosa su cui devi concentrarti è il loro folle sistema legale. Che peraltro, se qualcuno dovesse chiedertelo, per te è il migliore del mondo, capito?» La ragazza annuì. «Va bene» disse «ma continuo a non capire...» «Silenzio. Ecco il giudice. Alzati in piedi quando lo faccio io.» «Barbari» sbuffò la fanciulla. Tre giorni trascorsi nella Tripla Città erano stati sufficienti per aprire una vasta breccia nella nebbia di affascinanti immagini romantiche di cui aveva avuto piena la testa quando la bianca corona delle mura di Perimadeia si era affacciata all'orizzonte. L'odore continuava a infastidirla e nulla poteva riconciliarla con lo stato in cui erano le strade. Era una delle tanti folli contraddizioni che caratterizzavano quel luogo; la bancarella di ciascun mercato sembrava offrire a ogni passo tessuti e abiti sempre più sontuosi e stupefacenti, con colori e orditi che sfidavano qualunque sogno possibile sull'Isola, ma se li indossavi per andare per strada, li rovinavi irrimediabilmente nel giro di cinque minuti. Gli edifici, anche quelli della città bassa, erano alti e maestosi quanto lo era la residenza del Principe nella sua patria d'origine, ma le strade all'esterno erano viscide di melma e fango, le vie principali piene di buche e intasate da carri e carretti che schizzavano i passanti di acqua putrida e parevano cercare in ogni modo di travolgerli anche se li tenevano all'interno della linea degli scoli a cielo aperto. Tutti quelli che vedeva nella strade avevano l'aria prospera ed erano ben vestiti, ma aveva notato che suo fratello portava ostentatamente la spada alla cintura ogni volta che uscivano e si teneva alla larga dagli
androni e dai vicoli bui. Decise che era un luogo interessante da visitare, ma nel quale non si sarebbe mai sognata di vivere. «Guarda, ecco gli avvocati» sussurrò suo fratello, punzecchiandola con un dito per attirare la sua attenzione. (Quella era un'altra cosa che la metteva a disagio; in patria era maleducato indicare, qui invece lo facevano tutti. Aveva passato il primo giorno e mezzo con il viso costantemente paonazzo per l'imbarazzo.) «Quello è il legale del querelante e l'altro è il difensore» continuò suo fratello. «Credo che quello famoso sia l'avvocato del querelante.» «Non ho intenzione di guardare. Dovrai dirmi tu quando sarà tutto finito.» «Fai come ti pare.» Si appoggiò allo schienale, cercando di sistemarsi comodamente sulla panca di pietra, e si guardò intorno alla ricerca di qualche volto conosciuto. Non era stata una sua idea quella di condurre Vetriz in viaggio con lui; ma ormai era lì e in fondo non si era dimostrata un peso eccessivo, sicché non gli sembrava più una così cattiva idea. Certo, lo obbligava a trascorrere serate piuttosto noiose, ma il lato buono della medaglia era che stava risparmiando parecchio denaro pur dovendo accollarsi le spese di Vetriz, il che non era male davvero. Era anche innegabile che si fosse rivelata positiva per l'andamento degni affari. A casa un faccino grazioso non era di alcuna utilità, ma nonostante tutto il loro vantato cinismo i cittadini di Perimadeia si lasciavano affascinare da un bel sorriso o da una caviglia tornita fatta intravedere, come altrettanti piccioni affamati davanti a un po' di grano in pieno inverno. Era una tattica che in patria non si sarebbe mai sognato di adottare; c'era una parola nella sua lingua per indicare gli uomini che non tagliavano immediatamente la gola a qualunque straniero insidiasse le loro sorelle e non era una bella parola. Qui le cose erano diverse, naturalmente; e non c'era nulla di male, a patto che Vetriz non finisse per farci l'abitudine... Di questo passo avrebbe concluso tutti i suoi affari a tempo di record. Aveva già venduto quattro quinti del vino e dell'olio e anche per un buon prezzo. La cera, la legna e le spezie avevano spuntato anch'esse una somma almeno del cinquanta per cento superiore a quanto si sarebbe aspettato (il che lo compensava largamente per l'imbarazzante errore commesso portandosi dietro duemila lampade a olio a forma di porcospino; quelle poteva anche gettarle nella baia e fare spazio per più merci da riportare in patria). Quanto agli acquisti, aveva praticamente già tutto
quello che voleva e i prezzi non erano molto aumentati dall'ultima volta. Le sole cose che ancora gli servivano erano lucchetti e chiavistelli filettati; era tipico della sua sfortuna avere fatto il viaggio quando c'era una anomala scarsità di entrambi... «Che cosa sta succedendo?» «Eh? Oh, scusa, ero soprappensiero. Questa parte del processo si chiama comparsa ed è quella in cui...» «Silenzio!» Si girò e domandò scusa. «Questa parte» riprese, abbassando la voce a un semplice sussurro «è quella in cui passano in rassegna i fatti del caso. Di solito è un po' tecnica...» «Perché?» «Come?» «Perché si prendono questa briga? Voglio dire, se tanto tutto verrà deciso sulla base di chi riuscirà a spaccare il cuore dell'altro per primo, in che modo può essere utile riesaminare i fatti?» Venart si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea, non è il mio sistema giudiziario. Ascolta, non ti chiedo di approvarlo, solo di capire come funziona. Se vuoi occuparti di affari in futuro, devi conoscere almeno le basi del loro diritto commerciale.» Vetriz sbuffò. «Be'» disse «a me pare tutto molto sciocco.» «Zitta!» Finalmente la comparsa si concluse e Vetriz, che se la panca fosse stata anche solo un po' meno scomoda probabilmente si sarebbe addormentata, sbadigliò e fissò i due uomini in camicia bianca che stavano girandosi intorno con aria guardinga al centro dell'aula del tribunale. Quello alto e biondo era, apparentemente, il favorito; di conseguenza decise di augurarsi che fosse l'altro a vincere. Si disse che, se fosse stato un isolano, sarebbe risultato basso; per la gente di Perimadeia era di media statura. Per quanto riusciva a vedere fino a ora, dato che le dava la schiena, era più anziano del suo avversario, più basso e più snello; tuttavia continuava a non capire perché tutti quanti dessero per scontato che avrebbe perso. Per quanto poteva giudicare, le pareva più probabile il contrario. Non, ammise, che sapesse alcunché a proposito di tecniche di scherma: Venart aveva cercato di spiegarle qualcosa, ma Vetriz aveva resistito solo a qualche minuto di fleches, mandritta e Zweyhender prima di dichiarare che il tutto la faceva pensare a una forma di sport, solo più stupido e più pericoloso. No, se avesse dovuto
fare una scommessa avrebbe puntato sull'uomo più basso. Si domandò perché e arrivò alla conclusione che dipendeva dal fatto che l'altro aveva l'aria vanesia e arrogante, il che significava che era quello che aveva più probabilità di dimostrarsi imprudente. Spero che quello più basso vinca, disse a se stessa. La cosa poi cominciò a farsi piuttosto violenta; smisero di danzarsi attorno e cominciarono a menarsi fendenti; nell'eccitazione del momento Vetriz si dimenticò per un attimo quanto sciocco fosse il tutto e si sporse in avanti sul piccolo sedile. Avrebbe voluto gridare qualche incoraggiamento, come se si trattasse di una corsa di cavalli, ma tutti gli altri se ne stavano seduti assolutamente zitti e quieti. Erano un ben strano gruppo di persone; che divertimento c'era ad andare a uno spettacolo se poi era vietato gridare? «Non ci vorrà molto, ora» le sussurrò Venart con la calma fiducia di un vecchio esperto. (Era stato in tutto a vedere tre processi, come lei sapeva perfettamente, ma quell'atteggiamento era tipico di Venart; probabilmente era ciò che faceva di lui un così abile mercante.) «Comincia a essere stanco, vedi?» Vetriz guardò e per un attimo si domandò se stessero assistendo allo stesso duello. Non che ne capisse o si curasse di capirne qualcosa, ma ebbe la sensazione che quello che suo fratello aveva scambiato per stanchezza, fosse in realtà una sagace manovra dell'uomo più basso, che si stava spostando verso il centro dell'arena, lasciando che fosse l'altro sciocco a fare quasi tutto il movimento. Quella, si disse, era chiaramente la risposta dell'esperienza all'arroganza. L'uomo più alto stava anche cominciando a vibrare colpi di taglio piuttosto che non tentare stoccate di punta, ciò che lei interpretò come un segno di disperazione. Sì, convenne; probabilmente a questo punto non ci sarebbe voluto molto. L'uomo alto vibrò una botta terribile in direzione della testa del suo avversario, che peraltro la parò senza difficoltà e con una aggraziata economia di movimenti. Vetriz decise che quell'uomo incontrava la sua approvazione; in una situazione sciocca stava cercando di dimostrarsi una persona di buon senso. Ora non sarebbe stato proprio bene a quell'altro idiota se la prossima volta che avesse tentato uno di quei colpi melodrammatici, la spada gli si fosse spezzata in due? Loredan si sentiva il petto serrato in una morsa e capì che ormai era solo
una questione di tempo. Avvertì che Alvise aveva già vinto il duello nella propria mente; il suo intelletto aveva perso interesse nella faccenda e non si prendeva neanche più la briga di tirare di scherma, affidandosi alla propria superiore velocità, lunghezza del braccio e forza, tanto è vero che usava il taglio piuttosto che la punta. Non correva grandi rischi; sapeva esattamente come Loredan che il suo avversario era troppo stanco per potere mettere insieme qualcosa di simile a un convincente contrattacco. Tutto in realtà era già finito dal momento in cui Loredan si era lasciato spingere al centro dell'arena. Non stava neanche più tentando di dedurre i colpi dell'avversario; invece di anticiparli e tentare di capire dove ognuno fosse diretto, l'unica cosa che riusciva ancora a fare era parare per istinto; dopo così tanti anni di professione era un riflesso che non poteva tradirlo completamente, ma che serviva solo a prolungare un combattimento che poteva comunque avere un solo esito. Prima o poi Alvise sarebbe riuscito a ingannarlo con una stoccata e la cosa sarebbe finita lì. Alvise menò un colpo in alto a sinistra, costringendo Loredan a una parata laterale che lo sbilanciò sul piede più arretrato. Nel momento stesso in cui assunse quella posizione seppe di avere fatto la cosa sbagliata; la vera stoccata sarebbe stata diretta al ginocchio e nel tempo che gli restava non poteva farci proprio niente. Dannazione, pensò con calma glaciale, osservando il movimento della spada di Alvise come se fosse stato uno spettatore della galleria e non lì al centro dell'arena. Un riflesso disperato lo indusse a ruotare di scatto, spingendo in avanti la spalla sinistra e tendendo all'indietro la gamba destra. La lama mancò il suo ginocchio per un soffio e dieci anni di esperienza professionale gli fecero capire subito che ora Alvise era in una posizione sbagliata e quindi vulnerabile. Non poteva permettersi di sprecare il tempo necessario a mirare il colpo; vibrò la botta verso il punto in cui si ricordava che si era trovato il collo di Alvise sperando di non stare commettendo a sua volta un errore ancora più grossolano. Colpì qualcosa. La prima cosa da fare era mettersi fuori pericolo: gioco di piedi, muovere il corpo, mantenere la distanza fra lui e l'altro uomo, rimettersi in guardia. Solo allora era il caso di concedersi il lusso di verificare se l'avversario aveva ancora la testa sul collo. Sì, ma c'era una grossa bolla di sangue che si stava formando su un lato della sua mascella e stava arretrando, prendendo tempo e mettendo
distanza fra di loro. Di scatto, Loredan si lanciò in un affondo; in realtà fu una mossa difensiva, più una punzecchiatura che altro, al solo scopo di farlo arretrare un altro po'. Alvise deviò il colpo, ma in modo goffo. Non gli piace il dolore, realizzò Loredan. Chi lo avrebbe immaginato. Affondò di nuovo, stavolta con un po' più di convinzione. La risposta fu in una certa misura più professionale, ma sempre in atteggiamento difensivo. Adesso Alvise era al centro dell'arena. Quasi all'improvviso, Loredan vide come avrebbe potuto batterlo. Fece un terzo affondo, lasciando deliberatamente scoperto il suo lato sinistro con un appropriato spostamento della spalla. Vibrò il colpo verso il basso, in modo che Alvise fosse costretto a una risposta diretta verso l'alto e quando il colpo dell'altro arrivò, Loredan passò rapidamente il piede che teneva più arretrato dietro a quello più avanzato e scartò verso destra, lasciando che la sua lama passasse sotto quella di Alvise, augurandosi di essere riuscito a porsi fuori dalla traiettoria di quest'ultima. Avvertì qualcosa che gli toccava un fianco, lo ignorò e mosse il braccio per vibrare una stoccata corta. Capì di essere caduto in un tranello. Anche Alvise si era mosso circolarmente e ora la sua lama stava calando dritta verso il cranio di Loredan, senza niente in mezzo che potesse fermarla, eccetto la possibilità di intercettarla con la protezione dell'elsa; il che sarebbe stato comunque inutile perché il colpo successivo... Non arrivò mai. Ci fu uno schianto, non rumoroso, e venti centimetri della punta della spada di Alvise volarono per aria sfiorando una guancia di Loredan. Mentre completava la stoccata, probabilmente solo per metà consapevole che la sua spada si era spezzata, Loredan ruotò il polso e azzardò una botta, corta e debole verso il volto di Alvise. Sarebbe stato un colpo sciocco e pressoché innocuo se Alvise avesse avuto ancora una spada con cui pararlo. Ma dato che non era così, la punta della spada di Loredan gli si infilzò in un occhio, uccidendolo all'istante. «Applaudiamo, o qualcosa di simile?» sibilò Vetriz. «No.» «Oh.» Non era andata nel modo che lei si aspettava; il fatto che la spada dell'altro si fosse spezzata in quel modo faceva sembrare tutto un puro colpo di fortuna, ciò che era sicura non fosse la verità. Senza dubbio
significava invece che il vincitore lo aveva costretto a fare qualche mossa che portasse inevitabilmente alla rottura della spada, oppure che lo avrebbe ucciso comunque con uno dei prossimi colpi. Si rilassò e infilò una mano nella bisaccia alla ricerca di una mela. Avere visto uccidere un uomo davanti ai suoi occhi non l'aveva turbata particolarmente, realizzò; probabilmente perché era troppo lontana per avere avuto l'opportunità di osservare l'espressione dei visi o per vedere il sangue. Visto da lassù era tutto un gioco e il morto avrebbe potuto benissimo non essere affatto morto e stare solo scherzando o recitando. Era stato eccitante, doveva ammettere e le faceva piacere di avere individuato fin dall'inizio quello che sarebbe risultato vincitore. Comunque adesso aveva assistito a un processo a Perimadeia, il che significava che con un minimo di fortuna non avrebbe mai più dovuto assistere a un altro. Come modo per regolare una disputa sulla ritardata consegna di quattro tonnellate di carbone, sembrava eccessivo e di pessimo gusto. «Possiamo andare adesso?» «Dovremmo attendere il verdetto.» «Verdetto? Ma se lo ha...» «Allora?» Il volto di Athli lo stava fissando, emergendo da un confuso incubo fatto di orrore e dettagli incongrui. Sembrava bianca come neve. Non rispose. Mentre le allungava la spada si rese conto che non l'aveva ripulita dal sangue. E con ciò? «Allora?» ripeté. «Allora cosa?» Athli deglutì con fatica. «Che cosa è successo?» domandò. «Ho temuto...» «Anch'io» ribatté Loredan, lasciandosi cadere sulla sua sedia. «Ti dispiace se non ne parliamo per niente? E per pietà, tienimi lontani quei bastardi. Se dovessero venire qui, giuro che li ucciderei.» Athli lo fissò inorridita e poi si allontanò di corsa, per andare a tenere lontani quelli del cartello del carbone. Probabilmente volevano lamentarsi per l'angoscia di averlo dovuto vedere farsi quasi uccidere; una buona ragione, secondo loro, per ottenere uno sconto del venti per cento sulla parcella. Pensò alla spada di Alvise che si spezzava. Pura fortuna, rifletté; due
terzi delle lame al giorno d'oggi non erano altro che ferraccio, proprio come i loro proprietari non erano altro che carne da macello. Ma chi avrebbe mai potuto immaginare che l'elsa di una vecchia spada militare potesse spezzare la lama di una spada da avvocato di qualità superiore? Il tutto serviva solo a dimostrare qualcosa che però per il momento non aveva voglia di stare a pensare che cosa fosse. Era interessante, tuttavia; una minima falla nell'acciaio, una bolla d'aria o una briciola di sabbia, che in qualche modo era sfuggita al martello del fabbro, era stata sufficiente a sovvertire l'esito di un duello e a capovolgere la giustizia. Avvertiva però che in quella circostanza era successo qualcosa che non avrebbe dovuto accadere; qualcosa di piccolo e di cui non era stato tenuto conto, qualcosa che in un certo senso non era sportivo. Probabilmente, decise, in qualche modo ho barato. «Me ne sono liberata» disse Athli, lasciandosi cadere a sedere accanto a lui. «Hanno detto...» «Non voglio saperlo.» Athli annuì. «Mi sembra giusto. Una bella bevuta?» Loredan fece cenno di no con il capo. «Penso di avere voglia di andare da qualche parte a sdraiarmi» rispose. «Dopo di che, intendo abbandonare la professione.» «Sai» disse Athli, versando il vino dalla brocca di coccio «per un attimo in tribunale ho creduto davvero che tu stessi parlando seriamente.» «È così» ribatté Loredan. «E lo sto facendo anche adesso.» Mosse la mano sul panno di lana che si stava tenendo premuto contro il fianco. Aveva smesso di sanguinare già da un po', grazie a un'abluzione di brandy e ad alcuni strati di ragnatele prese dai travi del tetto della taverna, ma per qualche ragione non riusciva a smettere di tenere premuta la ferita, quasi come se nel profondo sentisse che avrebbe dovuto essere molto più grave di quanto non fosse. «Sono troppo vecchio e troppo carente di talento naturale. Penso sia venuto da molto il tempo che mi dedichi a qualcosa d'altro.» Athli lo fissò da sopra il bordo della sua coppa. «Cosa, per esempio?» «Non ne sono sicuro.» Loredan pescò con circospezione un moschino che gli era caduto nel vino. «La cosa ovvia da fare sarebbe quella di aprire una scuola.» «Potresti farlo, certamente» rispose Athli. «Bada bene però che c'è una bella differenza fra conoscere i movimenti ed essere capaci di insegnarli a
qualcun altro.» «Be', l'alternativa è fra quello o mettermi a fare l'assistente. Pensi che sarei un bravo assistente?» Athli scosse il capo. «Saresti un vero disastro» disse. «Tanto per cominciare, insulteresti tutti i clienti. Inoltre, tu non hai idea di quanto duro lavori comporti come professione. Prendi me, per esempio. Ero in piedi un'ora prima dell'alba, ho dettato dodici lettere prima di colazione, poi sono uscita per degli appuntamenti fino a quando è arrivata l'ora di venire a prendere te. E oggi pomeriggio ho delle altre lettere da scrivere, conti da fare, comparse da abbozzare...» «Va bene, mi hai convinto. Tutto quel leggere e scrivere mi tirerebbe scemo, per non parlare dell'idea di alzarsi presto al mattino. Se avessi avuto voglia di alzarmi con le galline, non avrei mai lasciato...» Si interruppe di colpo, chiaramente imbarazzato. Athli era intrigata. «Continua» disse. «Se avessi voluto svegliarti con le galline non avresti mai lasciato la fattoria. È questo che volevi dire?» Loredan sogghignò e annuì. «Già» disse. «Una vita orribile, della quale sono stato ben felice di liberarmi. Quindi...» «Va bene, va bene» accondiscese Athli divertita. «Sicché sei un ragazzo di campagna per davvero, è questo che vorresti sostenere? Sinceramente non lo avrei mai detto. Sarei stata pronta a scommettere del denaro sul fatto che tu non fossi mai uscito dalle mura in vita tua.» Loredan mantenne un viso assolutamente inespressivo. «Una o due volte» disse. «Mio padre aveva un piccolo castello nel Mesoge. Naturalmente era solo un vassallo. Ti dispiace se cambiamo argomento?» Athli fece spallucce, lievemente offesa. «Se ti fa piacere» rispose. «Ero solo curiosa, ecco tutto.» Deliberatamente Loredan si riempì la coppa e la vuotò d'un fiato, lasciando che alcune goccioline rosse gli scivolassero lungo il mento. «Comunque» disse «piantiamola lì. Allora, dato che sei sicura che non potrei mai guadagnarmi da vivere come assistente, sembra che sarò costretto a insegnare.» Sospirò. «Sarebbe stato bello avere almeno un paio di opzioni che non avessero niente a che spartire con questa spregevole professione» disse. «Il problema è che non so fare assolutamente niente altro.» «Perché non apri una taverna?» «C'è troppo da lavorare.» Sorrise. «Inoltre, non ho la più pallida idea di come si faccia a fare l'oste. Non è la professione a cui si suppone che si
dedichino i vecchi veterani quando si ritirano dall'esercito?» «In teoria sì, anche se di solito sono le loro mogli e le loro figlie che fanno tutto il lavoro.» Athli ridacchiò. «Mio zio ebbe una taverna per un po' dopo che aveva smesso di navigare. Gli affari gli andarono benone, si stufò, vendette il locale con un buon profitto e si comprò un'altra nave.» «È un suggerimento? Devo informarti che non so nuotare.» «Neanche mio zio. In linea di massima l'idea è quella di evitare di mettersi in situazioni che lo renderebbero necessario.» Loredan scrollò il capo. «Troppo pericoloso» disse. «Bisogna essere fuori di testa per passare la vita interamente circondati dall'acqua.» Athli non lo stava ascoltando, perché era troppo impegnata a cercare di origliare la conversazione che stava avvenendo al tavolo dietro di loro. Loredan aggrottò le sopracciglia, poi cercò di sentire qualcosa anche lui. «Non essere così sfacciato» gli sibilò Athli. «È imbarazzante.» «Senti chi parla. Avanti, allora, che cosa stanno dicendo di così interessante?» «In effetti, parlano di te. Sono appena arrivati dal tribunale.» «Oh.» «Sono stranieri.» «Ah. Questo spiega tutto.» Loredan girò parzialmente il collo e li fissò più attentamente. Vide un uomo alto e rotondetto con un viso affilato dagli zigomi alti e una ragazza che quasi certamente era sua sorella gemella. Su di lei i lineamenti condivisi facevano un effetto assai migliore. «Non essere sciocca» stava dicendo l'uomo. «Se non gli si fosse spezzata la lama in quel modo, avrebbe infilzato il tuo uomo come una lepre allo spiedo. Non ho mai visto un simile imbranato in tutta la mia vita.» «Venart...» «Per non parlare del danno che ciò ha arrecato alla giustizia» continuò l'uomo. «Era chiaramente surclassato sotto ogni punto di vista. L'altro stava solo giocando con lui, se avesse voluto avrebbe potuto farla finita molto prima. Gli sta bene, per avere avuto pietà di quel vecchio pagliaccio, immagino.» «Venart...» «È davvero strabiliante che sostenga ancora duelli alla sua età. Voglio dire, si suppone che sia una professione altamente competitiva, in cui solo i migliori sopravvivono e tutto il resto. Dannazione, avrei potuto combattere meglio io con una mano legata dietro la schiena, di quanto non abbia
fatto lui...» «Venart, è seduto proprio dietro di te.» L'uomo si immobilizzò, come se avesse appena infilato un piede in una trappola. Loredan si rese conto di stare fissando la ragazza dritto negli occhi. Volse altrove lo sguardo. «Merda, Vetriz, perché diavolo non me lo hai detto...» «Ho tentato, idiota. Farai meglio a scusarti in tutta fretta.» «Non può avermi sentito.» «Ovviamente, sì. Stavi ragliando come un somaro.» «Io non raglio come...» «Va bene, se tu non hai intenzione di scusarti, suppongo che dovrò farlo io.» «Vetriz! In nome del cielo che cosa credi di stare...» La ragazza si alzò e si diresse verso il tavolo di Loredan. Athli si nascose il volto fra le mani, cercando disperatamente di non scoppiare a ridere, mentre Loredan trovava improvvisamente affascinanti le punte dei suoi stivali. «Scusatemi.» Loredan alzò lo sguardo. «Sì?» disse. La ragazza sorrise dolcemente e Loredan, che fino a quel momento aveva trovato la cosa vagamente divertente, cominciò a sentirsi irritato, come regolarmente gli accadeva quando era in presenza di un deliberato tentativo di affascinarlo. «Desideravo solo scusarmi per mio fratello» disse la ragazza. «Vedete, siamo stranieri qui, e...» «Lasciate perdere» rispose Loredan. «Fra l'altro, ha quasi ragione.» Si voltò ostentatamente e fece il gesto di versarsi dell'altro vino, ma l'effetto fu rovinato dal fatto che la brocca era vuota. La ragazza tuttavia non sembrò essersi accorta del suo atteggiamento. Stranieri, pensò e lanciò uno sguardo della serie vienimi-in-aiuto ad Athli, che lo ignorò completamente. «Non si rendeva conto di stare comportandosi in modo davvero maleducato» continuò la ragazza. «Onestamente, ogni tanto mi vergogno di lui. Continua a fare sciocchezze di questo genere.» Loredan le indirizzò un sorrise glaciale. Il suo accento stava cominciando a dargli sui nervi. «Davvero» disse «non fa niente. Athli, a che ora hai detto che avevamo quell'appuntamento?» «Quale appuntamento?» «Ma sì, quell'appuntamento dall'altra parte della città.» Athli represse a stento una risata e scosse la testa. «La cosa mi giunge
del tutto nuova» riuscì a dire alla fine. «Il meno che possa fare è offrirvi da bere» insistette la ragazza e fece un cenno in direzione di suo fratello, che stava facendo del proprio meglio per riuscire a scomparire del tutto dietro una brocca vuota di sidro. «Venart» gridò «ordina da bere per questi signori.» Venart si alzò lentamente in piedi, giurando e spergiurando fra se che quella era l'ultima volta che portava sua sorella da qualche parte. A casa non si sarebbe mai sognata di comportarsi in quel modo; quanto prima fossero tornati sull'Isola tanto meglio sarebbe stato. Si mosse strascicando i piedi, ordinò una grossa brocca di vino e, con riluttanza, raggiunse sua sorella. «È stato molto gentile da parte vostra» stava dicendo Athli. «Unitevi a noi, prego.» Loredan le fece gli occhiacci e cercò di darle un calcio sotto il tavolo, ma lei riuscì a spostare la gamba dalla sua traiettoria. «Ma certo, sedetevi, prego» sibilò nel tono più ostile che gli riuscì di improvvisare con così poco preavviso. «Il mio nome è Loredan e questa è la mia assistente, Athli.» La ragazza sembrò lievemente sorpresa. «La vostra assistente?» ripeté. «Esatto. Sono un avvocato e lei è la mia assistente.» Si rese conto che la ragazza aveva dato per scontato che Athli fosse sua moglie. Desiderò intensamente che scomparissero entrambe. «Capisco» disse la ragazza, sedendoglisi di fronte. «Io mi chiamo Vetriz e questo è mio fratello Venart. Veniamo dall'Isola.» «Siete qui per affari?» Vetriz annuì. «Venart mi sta mostrando i segreti del mestiere» disse. «È la prima volta che vado all'estero. Nostro padre ha lasciato la nave e le merci in eredità a tutti e due in parti eguali e perciò ho detto che mi sembrava ora che cominciassi anch'io a tirare il carretto.» «Davvero.» Loredan fece del suo meglio per sembrare annoiato. Gli riuscì benissimo. «Immagino che abbiate fatto il giro di tutte le cose che ci sono da vedere, intanto che eravate qua.» «Oh, sì» rispose la ragazza allegramente. «È per questo che eravamo in tribunale oggi. Venart ha detto che non era pensabile venire fino a Perimadeia e non assistere a un processo.» «Spero che vi siate goduta lo spettacolo» disse Loredan in tono tetro. L'abilità della ragazza nel non cogliere i diversi toni della voce era straordinaria, dato che annuì entusiasticamente.
«Davvero tantissimo» rispose. «È stato oltremodo eccitante. In effetti, è proprio di questo che stavamo discutendo poco fa. Vedete, Venart pensa di sapere tutto di tutto e io stavo dicendogli che invece avevo capito fino dal primo momento che sareste stato voi a vincere.» «E vi sbagliavate» disse Loredan. «Come ha detto lui, è stato solo un colpo di fortuna.» «Veramente?» La ragazza sembrava sorpresa. «Sono sicura che state solo facendo il modesto.» «Ho molti motivi per mostrarmi modesto.» Vetriz soppesò le sue parole per un po', poi scoppiò a ridere. «Siete riuscito a sorprendermi» disse. «Pensavo che avreste fatto apparire il tutto come ordinaria amministrazione, anche se immagino che invece non sia mai una cosa facile.» Esitò per un attimo, poi proseguì. «Quindi il fatto che la spada dell'altro si sia spezzata in quel modo è stato un puro caso?» Loredan incrociò lo sguardo di Athli; non aveva più nessuna voglia di ridere. Decise di farla soffrire ancora un po', insistendo nella conversazione. «Un puro caso» confermò. «Anche se è una cosa che capita, di tanto in tanto con le spade che si usano per i processi. Le lame sono molto più sottili di quelle delle spade normali... Chiedo scusa, sto diventando tecnico, ma tutto dipende dalla temperatura del cuore della lama e dal modo in cui è saldato ai due tagli. Se il cuore viene riscaldato troppo nella fornace, è possibile che vi restino delle impurità. Basta colpire una di quelle e la lama si spezza in due.» «Capisco» rispose Vetriz. «Ve l'ho chiesto solo perché giusto un secondo o due prima che si spezzasse ho avuto la stranissima sensazione che stesse per succedere proprio qualcosa del genere. Strano, non trovate?» Loredan scrollò il capo. «Come ho già detto, è successo più di una volta. È una cosa che uno deve sempre aspettarsi. Come la morte» aggiunse in tono melodrammatico. Athli gli lanciò uno sguardo della serie piantala, del quale fece mostra di non avere preso nota. Vetriz spalancò gli occhi. «Volete dire che tutti questi duelli sono all'ultimo sangue?» chiese. «Tutti a eccezione di quelli per testamenti e divorzi. Formalmente cadono sotto una diversa giurisdizione, anche se in pratica i processi si svolgono negli stessi tribunali e davanti agli stessi giudici. La distinzione risale nel tempo a quando i preti avevano le loro corti, davanti alle quali si svolgevano i giudizi relativi al diritto familiare e testamentario.»
«Pensavo che non aveste nessun dio» obiettò Vetriz. «Adesso no. Ma un tempo ne avevamo.» «Capisco. Ve ne siete liberati, o più semplicemente la gente ha smesso di crederci?» Loredan fece spallucce. «Un po' tutte e due le cose, credo» rispose. «La religione cominciò a essere via via meno popolare e questo mise gli imperatori in condizione di agire e confiscare beni ecclesiastici tutte le volte che avevano bisogno di soldi. E anche quando non ne avevano bisogno, per come la vedo io. Comunque, una volta che il clero ebbe perso tutto l'oro, l'argento e le terre nessuno ebbe più interesse a farsi prete e l'intera faccenda finì nel nulla.» Venart, che fino a quel momento se ne era stato seduto calmo e tranquillo, cercò un modo per mettere fine a quella conversazione. «Scusatemi» disse «ma non siete stato ferito durante il combattimento?» Loredan annuì. «Niente di grave» rispose. «Come avete sottolineato voi stesso, sono stato molto fortunato.» «Non dovreste andare a farvi vedere da qualcuno?» chiese Venart fingendosi preoccupato. Proprio mentre lo diceva, Loredan si rese conto che la ferita aveva ricominciato a sanguinare. Alzò la testa di scatto e annuì. «Mi sa che avete ragione» disse. «Se volete scusarmi...» La ragazza sembrò delusa. «Be'» disse «è stato un vero piacere conoscervi. Quando tornerò a casa potrò dire a tutti di avere bevuto un bicchiere con un autentico spadaccino di Perimadeia.» Loredan fece un sorriso fra l'ironico e l'amaro. «Ottima idea» disse. «Buon viaggio di ritorno.» Una volta che Loredan e Athli si furono allontanati, Venart fece un sospiro profondo. Vetriz lo batté sul tempo. «È stata tutta colpa tua» affermò. «Ho cercato di metterti in guardia, ma non mi hai voluto ascoltare.» «Avrei dovuto saperlo che era tutta colpa mia» disse suo fratello rassegnato. «Cerchiamo di tornare alla locanda senza altri guai, prima che ti venga qualche altra idea. E non sognarti mai più...» «È strano» lo interruppe Vetriz. «Sapevo per davvero che alla fine sarebbe stato lui a vincere. Una volta conosciuto è un tipo assolutamente normale, non trovi?» «Non saprei» rispose Venart. «L'ho sentito mettere almeno tre parole in fila e questo per quanto mi riguarda fa già di lui un eroe nella sua
categoria.» Vetriz ignorò la battuta. «Va bene» disse. «Andiamo al mercato delle posate, così potrai insegnarmi a comperare il rame. Mi sembra avessi detto che avevamo un mucchio di cose da fare oggi.» Alexius alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo. «Allora?» domandò. «Ha vinto.» Il patriarca fece un piccolo cenno di assenso, chiuse il volume e lo appoggiò con la copertina in giù su uno scaffale della libreria. «Tutto bene, dunque» osservò. «Entra e bevi una coppa di sidro.» Alla parola sidro il labbro superiore di Gannadius si arricciò lievemente. «Non è roba per me» rispose. «È stata una strana faccenda» proseguì, sedendosi sull'unica, spartana sedia della cella. «Alla fine non si è trattato altro che di pura fortuna. Alvise lo aveva in sua balia, quando gli si è spezzata improvvisamente la spada.» «Abbiamo messo in piedi una efficace difesa» ribatté il patriarca. «Spero solo che la cosa non abbia finito per risultare troppo ovvia.» Gannadius scosse la testa. «È proprio questo il punto» rispose. «Non penso sia dipeso da noi. O perlomeno» aggiunse, tormentandosi la corta barba «non solo da noi. Giuro che ho avvertito l'influenza di qualcun altro...» «Oh, andiamo» lo interruppe Alexius. «Sai che cosa penso a proposito di questo genere di cose.» Il suo collega aggrottò le sopracciglia. «È tutta questione di opinioni» ammise. «Per quanto mi riguarda, so di essere assolutamente sincero se dico di avere avvertito l'intervento di qualcun altro, a parte le nostre difese. E prima che tu mi dia lezioni sul misticismo immotivato e sulla dottrina degli effetti, sappi che mi baso solo sulla pura osservazione. Sono convinto che le nostre difese abbiano avuto effetto solo su di lui, con il risultato di metterlo in grado di continuare a saltare di qua e di là, parando ottime stoccate con pessime risposte. Ma il fatto che la spada di Alvise si sia spezzata è tutta un'altra questione.» Alexius annuì. «Be', non c'è dubbio. Deve avere danneggiato Alvise in modo piuttosto drastico.» Rifletté sulla cosa per un po'. «Che si sia trattato di una maledizione, lanciata da qualcun altro contro Alvise?» suggerì. «È possibile. Ma forse parlare di una maledizione è esagerato. Perso-
nalmente ho percepito solo un lieve tocco; non perché fosse modesto il potere che c'era dietro, quanto perché aveva l'aria di essere usato in modo minimo e quasi casuale. Una lieve spinta più che non un colpo violento, se capisci quello che voglio dire.» Alexius si appoggiò al muro dietro di sé e fissò i mosaici sul soffitto. Senza neanche rendersene conto, cominciò a contare le stelle. «Si tratterebbe di un fenomeno davvero inusuale» osservò. «Se si trattava di un potere notevole, come tu suggerisci, la reazione avrebbe potuto essere terribile. Chi si sarebbe esposto a un rischio simile per il piacere di una spintarella, per dirla a modo tuo? Se fossi disposto a espormi al rischio di una reazione di notevole livello, penso che perlomeno vorrei colpire la vittima designata con la forza di un maglio.» «A questo ho pensato anch'io. Ma se si trattasse di un potere naturale?» Alexius affilò lo sguardo. «Un'azione inconsapevole» disse in tono pensoso. «È possibile, immagino, anche se grazie al cielo si tratta di un fenomeno assai raro. Che si tratti della mia ex studentessa?» Gannadius scosse la testa. «Avresti percepito il potere in lei, senza dubbio. Non ti saresti mai lasciato sfuggire una cosa come questa.» «Potrebbe annidarsi molto nel profondo» azzardò Alexius, massaggiandosi i reni doloranti. Il letto della sua cella era già abbastanza scomodo quando veniva usato per il proprio scopo. Servirsene come sedia era un gesto temerario. «Ma hai ragione, penso che lo avrei notato. E inoltre» aggiunse, colpito da un'improvvisa riflessione «se avesse avuto un qualunque potere proprio, mi avrebbe interrotto prima che io lanciassi una maledizione errata. Senza contare il fatto che avrei dovuto essere in grado di cogliere qualche traccia della sua malia prima ancora di lanciarla. No, penso che possiamo scartarla. Ma l'idea che oggi in tribunale ci fosse qualcuno con un talento naturale, mi pare sensata. Riesco quasi a immaginarmi qualcuno in mezzo al pubblico che tifa per lo spadaccino più debole e visualizza nella sua mente la spada che si spezza, il suo beniamino salvo e felice: si tratterebbe di una reazione puramente istintiva...» «Già.» Gannadius si alzò, fece qualche passo in cerchio e tornò a sedersi. «Nel qual caso» proseguì «non pensi che questo complichi ancora di più le cose? Se dovremo tornare un'altra volta all'interno della tua visualizzazione, chi può dire esattamente che cosa ci troveremo stavolta?» Alexius si lasciò andare all'indietro sul letto e chiuse gli occhi, cercando di schiarirsi la mente. Soprattutto, non perdere il senso delle proporzioni. «Le conseguenze» disse. «Ponderiamo bene la cosa, prima di perdere il
senso delle proporzioni. Il peggio che possa succedere...» «È che la maledizione si ripercuota direttamente su di te» lo interruppe Gannadius in tono petulante «con gravi conseguenze per la tua persona e, di conseguenza, per i tuoi colleghi. Il Patriarca di Perimadeia ucciso da una delle sue stesse maledizioni...» «E come potrebbe mai saperlo qualcuno?» obiettò Alexius. «Mio caro amico, gli uomini in perfetta salute e ben nutriti non si sdraiano e muoiono senza ragione alcuna.» «Racconta a tutti che era già malato da tempo. Che si è trattato di cause naturali. Anzi, di una vera e propria misericordiosa liberazione.» Riaprì gli occhi. «Pensi davvero che la cosa potrebbe arrivare a questo?» «Caro amico mio...» Alexius si rialzò a sedere e posò i piedi sul pavimento. «Penso sia venuto il momento per me di essere del tutto franco con te, Gannadius. Non capisco ciò che sta succedendo.» «Alexius, tu sei il Patriarca di...» «Sì, lo sono. Per definizione so più cose di qualunque altro uomo vivente a proposito del Principio. Eppure non capisco come diavolo operi. Il che vale anche per te» aggiunse, prima che Gannadius potesse aprire bocca. «La somma dei nostri saperi, dei nostri saperi uniti bada bene, ci dice solo che in qualche modo agisce. C'è voluta l'intera vita di entrambi, dedicata allo studio dell'opera di migliaia di filosofi e ricercatori nell'arco di parecchi secoli, ma almeno sappiamo che agisce. Il che però è tutto, esaurisce il nostro sapere. Controllarlo è tutta un'altra faccenda.» «Sì, ma...» «E ora» continuò Alexius imperterrito «sembra esistere la prova che in città si trovi qualcuno con il naturale potere di controllarlo. Probabilmente» aggiunse in tono amaro «in modo istintivo e magari senza neanche rendersi conto di ciò che sta facendo. Come se non bastasse, giusto per aggiungere un piccolo tocco umano, c'è una maledizione che io stesso ho lanciato e che vaga senza controllo alcuno in giro per la città, a quanto pare con ottime probabilità di finire per scaricarsi su di me.» Si morse selvaggiamente le nocche. «Sai, se solo avessimo limitato i nostri studi alla matematica e alle speculazioni sull'etica, che in fondo è ciò di cui si suppone che noi ci si debba interessare...» «Sì, ma non lo abbiamo fatto. O perlomeno, tu non lo hai fatto.» «Sei stato felice di lasciarti coinvolgere.» «Sta bene.» Gannadius si strinse il volto fra le mani. «Tutto questo non è
di aiuto. Se non possiamo controllare questo problema, conosciamo qualcuno che invece ne sia capace?» Alexius sospirò. «Come tu stesso hai appena puntualizzato, sono il Patriarca di Perimadeia. E tu sei l'Archimandrita dell'Accademia cittadina. Chiedere aiuto a qualcuno è un lusso a cui abbiamo rinunciato quando accettammo queste promozioni.» «Quello con il talento naturale» disse Gannadius improvvisamente. «Forse, lui saprebbe come mettere le cose a posto.» «Ma non abbiamo appena convenuto che molto probabilmente non è neppure consapevole del suo potere? Anche se riuscissimo a convincerlo del fatto di averlo, non c'è motivo di pensare che sia in grado di servirsene a comando.» «A quanto pare non abbiamo nessun'altra opzione.» «Vero.» Alexius lasciò ricadere il mento sul petto. «Ma come possiamo rintracciare questo tuo misterioso personaggio dai poteri naturali? Non possiamo certo andare in giro per la città sperando in un miracolo.» Gannadius rifletté per un bel po'. «A essere sinceri» disse alla fine «non so che cos'altro potremmo fare.» «Ma ci vorrebbero anni. E io non ho...» «Lo so» ripose Gannadius. «E non è tutto, se solo ci pensi. Stai dando per scontato che il nostro personaggio sia uno della città; e se non fosse così? Se si trattasse di uno straniero, venuto qui per affari e che ripartirà nel giro di un giorno o due? O, peggio, se se ne fosse già andato?» «Non c'è ragione di pensarlo.» «Ah, sì? Fatti questa domanda: se si tratta di un cittadino, uno che vive qui abitualmente, come mai non ne abbiamo mai avvertito traccia? Quante probabilità ci sono che questa sia la prima manifestazione dei suoi poteri?» «Però è possibile.» «Certo, ma anche improbabile. Un potere così forte da riuscire a tradurre in realtà un desiderio appena accennato...» «Questa è solo una teoria.» «E anche ciò che ho visto con i miei occhi, non dimenticare. Io ero là, in tribunale.» «Anche tu hai ragione.» Alexius fece un borbottio d'insofferenza. «Forza, allora. Suggerisci qualcosa.» Gannadius si strinse nelle spalle. «A parte battere le strade, non riesco a pensare a niente altro. E naturalmente non c'è la minima garanzia...» «Una trappola» disse Alexius all'improvviso. «No, non esattamente una
trappola. Un'esca. Qualcosa che abbia molte probabilità di spingerlo a usare il suo potere, o di fare sì che esso si manifesti senza che lui debba fare consciamente qualcosa. Qualcosa che lo faccia venire allo scoperto.» «Splendida idea. E come proponi di metterla in pratica?» Alexius starnutì e poi si soffiò il naso. «Non ne ho idea» confessò. Gannadius si chinò in avanti, massaggiandosi il mento con una mano. «Dev'esserci qualcuno a cui chiedere consiglio» disse. «Quante volte devo dirti...?» «È una questione di specializzazione» insistette Gannadius. «Abbiamo bisogno di uno specialista. Quanti studiosi del Principio risiedono in questa città? Migliaia. Dev'essercene per forza uno che abbia concentrato i suoi studi proprio su questa particolare nicchia della materia. Ognuno di loro deve studiare qualcosa di particolare.» «Quindi proponi di indire un conclave, dire a tutto il nostro ordine che siamo in un terribile guaio e domandare se nessuno per caso conosce la soluzione. Ti prego, Gannadius.» «Ovviamente dovremo essere estremamente circospetti. Potremmo diffondere un documento pieno di errori e stare a vedere chi si fa avanti per discuterlo.» «Fantastico. Hai una vaga idea di quanto tempo ci vorrebbe? Supponi che il nostro misterioso personaggio sia uno straniero come hai suggerito tu, in procinto di lasciare la città. Molto semplicemente, ci manca il tempo.» «Vuoi dire che dovremmo improvvisare?» «Immaginare. Come predisporre una trappola per smascherare qualcuno con un talento naturale?» Alexius fissò al di sopra delle sue mani intrecciate il candeliere che stava al centro della stanza. «Qualunque cosa è meglio che stare qui seduti a battibeccare fra di noi.» Fece un sorriso tirato. «Notevole, vero? In fondo si suppone che noi si sia bravi in questo genere di cose.» «Lo siamo» ribatté tetramente Gannadius. «È proprio questo che mi preoccupa.» CAPITOLO QUINTO Loredan si svegliò con la camicia sporca di sangue. Esaminò la ferita, la fasciò con delle bende nuove e del muschio umido e si cambiò la camicia. Non c'era pane nell'appartamento; si infilò pertanto la giacca non senza
dolore (il fianco era indolenzito e infilare il braccio nella manica fu tutt'altro che piacevole), scese faticosamente le scale e si avviò attraverso il labirinto di vicoli che occupava la parte meridionale dell'"isola", alla volta di una panetteria che conosceva bene. Erano abituati a lui, lì, e nessuno si risentiva più quando lo vedeva entrare a chiedere del pane ammuffito. «Ne abbiamo tenuto da parte un po' per voi» disse il figlio del prestinaio. «È il tipo blu quello che piace a voi, non è vero?» Aveva smesso di tentare di spiegare a cosa gli servisse da molto tempo e si limitò quindi a sorridere mentre gli allungava un quarto di rame. Il ragazzo rifiutò il denaro con un gesto della mano. «Offre la casa» disse con l'aria di un munifico signore. «Non abbiamo molta gente famosa fra i nostri clienti.» «In questo caso, mi farebbe comodo anche un filone di pane fresco. Che cosa intendete dire con famoso?» Il ragazzo ridacchiò. «Vi chiamano il grande Bardas Loredan. Vi siete fatto un mucchio di amici da queste parti, ieri.» «Davvero? E come ci sono riuscito?» «Abbiamo scommesso tutti su di voi. Capito?» Loredan inarcò un sopracciglio. «Lealtà fra vicini?» «Dite piuttosto percentuali maledettamente favorevoli. Diavolo, se avessi saputo che avreste vinto per davvero, avrei scommesso più di un mezzo di rame. Comunque, a duecento a uno...» Loredan raccolse il suo pane. «A quanto pare, avete ricavato più voi di me da questa causa» disse in tono irritato. «Perché nessuno mi ha detto che gli allibratori mi davano duecento a uno? Avrei potuto scommettere anch'io qualche soldo.» Fece ritorno a casa, su per le scale interminabili. Altri spadaccini si tenevano in forma correndo o facendo esercizio nella palestra delle Scuole; tutto quello che aveva bisogno di fare lui era raggiungere la porta di casa sua dalla strada. La forma di pane che il panettiere aveva da parte di lui era perfettamente adeguata allo scopo; su tutto un fianco era coperta di orribili macchie blu e biancastre. Con grande attenzione grattò con la punta del pugnale le scaglie di muffa bluastra facendosele cadere sul palmo della mano sinistra, poi le poggiò sopra un foglio di carta bianca. A questo punto tolse le bende alla ferita e sparse la muffa direttamente sul taglio vivo, dopodiché rifece la fasciatura. Non aveva idea se quel particolare rituale avesse qualche effetto benefico o no; non era mai più successo che una ferita gli si infettasse da quando aveva cominciato a osservarlo, ma le
spade da processo di solito venivano tenute pulite e prive di ruggine, per cui forse si trattava solo di una coincidenza. Tagliò una fetta di pane fresco e si versò l'ultimo residuo mezzo bicchiere del vino del giorno prima. Quella faccenda della muffa del pane era qualcosa che aveva appreso molto tempo prima, nelle pianure. La prima volta che ne aveva sentito parlare aveva immaginato che fosse solo l'ennesima beffa giocata a danno di una fresca recluta, una storiella dello stesso tipo delle uova di mulo e delle leggendarie frecce da tirare con la sinistra che ciascun fantaccino viene spedito almeno una volta a prendere dal proprio sergente. Con il tempo tuttavia capì che non si trattava di uno scherzo, pur astenendosi dal fare direttamente ricorso a quel trattamento. La leggenda voleva che un gruppo di feriti che non avevano nulla con cui fermare il sangue delle proprie ferite a parte del pane raffermo conservato nella sacca di una sella, fossero tutti guariti a tempo di record. Loredan aveva la sensazione che in quella storia ci fosse del vero. La sua teoria era che la cosa avesse qualcosa a che fare con la muffa assai simile che la gente delle pianure metteva deliberatamente nel proprio puzzolente formaggio di latte di capra. Dopo tutto era un fatto che sapessero come cavarsela con cure e medicine improbabili. C'era per esempio una ricetta altamente sospetta che richiedeva corteccia di salice bollita nell'acqua, la quale peraltro funzionava davvero contro il mal di testa come lui sapeva bene. La gente delle pianure; era la seconda volta che gli capitava di pensarci dopo il duello. Era stato il fatto che una seconda buona spada si fosse spezzata che gliel'aveva fatta tornare in mente, e la spiegazione che aveva fornita a quella ragazza noiosa che aveva incontrato nella taverna. Perché loro erano in grado di saldare il nucleo di uno spada ai tagli utilizzando una lega che fondeva a una temperatura molto più bassa, per cui avevano molte meno probabilità di realizzare in modo improprio la tempra delle proprie spade le quali, di conseguenza, avevano la tendenza a non spezzarsi. Era vero che la spada delle pianure aveva una lama curva e con un solo taglio, totalmente inadatta alla professione legale; tuttavia la tecnica era probabilmente adattabile a qualunque modello. Se domandò se qualcuno nella città sapesse utilizzare il metodo delle pianure e se sì, come avrebbe potuto scoprire chi fosse senza fare capire a nessun altro ciò che aveva in mente. Poi ricordò. Aveva finito con quel genere di cose, ormai; stava per lasciare la professione e dedicarsi ad altro. Scosse la testa e si tagliò un'altra fetta di pane.
Ci aveva pensato molte altre volte, in precedenza; praticamente dopo ogni duello nell'arco degli ultimi sei anni. Però pensare una cosa e farla per davvero erano due faccende del tutto diverse. La sua scusa era stata sempre che non c'era nessun'altra cosa che fosse in grado di fare, nessun altro modo di guadagnarsi da vivere, troppo tardi per imparare un altro mestiere e così via. Fino al giorno prima era riuscito a convincere se stesso abbastanza da crederci, anche se ormai da molto tempo sapeva che non era vero. La verità era che negli ultimi dieci anni più o meno, se n'era andato in giro schiacciato dalla sensazione orrenda di essere stato risparmiato dalla guerra, in attesa di venire utilizzato come uno scarto di carne o un ritaglio di cuoio. Era un atteggiamento stupido e soprattutto pericoloso e si disprezzava per questo. Ma non era praticamente mai riuscito a farci i conti, con il risultato che si era limitato a tirare avanti, un duello alla volta, collezionando cicatrici sul suo corpo e scavandosi una strada cruenta attraverso una intera generazione di avvocati. Era ora di ammettere che la cosa non funzionava. In caso contrario, lo avrebbe fatto soprattutto il giorno prima. Dunque era deciso. Avrebbe aperto una scuola o gestito una taverna. Aveva tutte le meraviglie del mondo a portata di mano. La sola cosa che doveva fare era restare vivo abbastanza a lungo. Si rimise la giacca (stavolta fu ancora più doloroso) e si arrampicò faticosamente su per la collina, fino alle Scuole. Era l'ultimo posto al mondo in cui aveva voglia di andare il giorno dopo un grosso processo. Ci sarebbero stati altri avvocati, assistenti, odiosi bighelloni, la professione in tutta la sua gloria e lui avrebbe preferito di gran lunga non dovere fare conversazione, evitando una lunga serie di insincere congratulazioni. Si alzò il bavero intorno al collo e scivolò all'interno da una porta laterale. Il numero di istruttori che lavoravano nelle Scuole tendeva a variare, in relazione a un ampio numero di fattori, che andavano dalla salute dell'economia al periodo dell'anno. C'erano sei scuole fondate da molto tempo e mostruosamente costose che occupavano delle precise sezioni dell'edificio e che avevano propri locali sistemati e arredati a proprio piacimento; poi c'era un flusso in costante mutazione di uomini anziani e di psicotici che bighellonava lungo i colonnati offrendosi di renderti invincibile in un giorno, garantendo la restituzione del denaro se restavi ucciso nell'arco del primo anno; infine c'erano dieci o dodici istituzioni che si collocavano fra questi due estremi e
che garantivano una qualche istruzione nell'uso delle armi per un prezzo più o meno realistico. Tutte le scuole di quest'ultimo gruppo, che di solito erano formate dal proprietario, magari da un aiutante e da un impiegato che fungeva insieme da assistente, da amministratore e da segretario, utilizzavano la sala principale e le strutture comuni e pagavano un modesto affitto al governatore per questo privilegio. Per aprire una nuova scuola bisognava pagare un mese di pigione in anticipo e piazzare un'insegna di legno sul muro con su il proprio nome, sotto la quale gli studenti potessero riunirsi all'inizio di ogni giorno. Mentre era diretto verso gli uffici del governatore, Loredan vide qualcuno che conosceva. Non ebbe il tempo di voltarsi o di nascondersi dietro una colonna. «Congratulazioni.» «Grazie» rispose. L'uomo si chiamava Garidas. Aveva fatto l'avvocato per sei anni prima di perdere un occhio in una causa di diritto bancario; ora lavorava come istruttore nella seconda migliore grande scuola di Perimadeia e contemporaneamente aiutava a tenere i registri. Suo padre aveva fatto parte della cavalleria e Loredan lo aveva visto morire per una ferita da freccia in una fredda mattina, mentre pattugliavano un avamposto in rovina in mezzo alle pianure. Le sue ultime parole erano state una disperata richiesta di badare al suo ragazzo e a Loredan era capitato di essere la persona più vicina. Era quasi sicuro che l'uomo morente fosse stato convinto di stare parlando con qualcun altro. «Non sono sicuro di dove questo ti collochi nella classifica» disse Garidas. «Alvise occupava più o meno il sesto posto, quindi adesso devi essere uno dei primi dodici.» «Non più. Mi sono ritirato.» «Oh.» Garidas sembrò colto di sorpresa. «Da ieri?» «Da e a motivo di ieri. Potrò essere uno stupido, ma so riconoscere un avvertimento.» Garidas annuì. «Da quello che ho sentito, lo è stato certamente. È curioso: ci eravamo organizzati per portare un gruppo di allievi ad assistere al processo, ma per qualche ragione non lo abbiamo fatto.» «Non sarebbe stato un gran bell'esempio per degli studenti» ribatté Loredan. «È stato uno di quei classici casi in cui il migliore non ha vinto; molto depistante.»
«Al contrario. Una salutare messa in guardia dai pericoli dell'imprudenza e del sottostimare il proprio avversario. Dunque, ora che cosa hai intenzione di fare? Una vita di ozio e di lusso?» «Come se potessi permettermela» rispose Loredan, corrugando le sopracciglia. «No, dovrò mettermi in concorrenza con voi. In effetti, sto andando proprio adesso nell'ufficio del governatore.» «Davvero?» ridacchiò Garidas. «Se tu volessi potrei spendere una parola buona per te nella mia scuola.» «No grazie. Non mi è mai andata a genio l'idea di lavorare per qualcuno. Dovere avere dei clienti è già stato abbastanza sgradevole, ma perlomeno ero padrone di me stesso, almeno in teoria. Appenderò un'insegna come tutti gli altri e starò a vedere che succede.» «Buona fortuna.» Garidas sorrise. «Ho sempre detto che ti facevi vedere troppo poco da queste parti. Ti terrò a mente per tutti gli aspiranti allievi che saremo costretti a mandare via.» Loredan annuì. Probabilmente Garidas lo avrebbe fatto davvero; era sempre stato molto cordiale anche se non poteva essere venuto in nessun modo a sapere che la retta della costosa scuola che aveva frequentato (quella in cui ora insegnava) e il suo mantenimento mentre faceva lo studente, erano stati interamente pagati da Loredan con il suo stipendio di soldato e con il premio in denaro della sua liquidazione. Senza contare alcuni redditizi clienti che Loredan era stato costretto a rifiutare, per evitare di doversi battere con lui in tribunale. In un modo e nell'altro, Garidas gli era costato un mucchio di denaro nel corso degli anni. Sarebbe stata una gran bella cosa se, dopo tutto questo tempo, avesse cominciato a restituirgliene un po' raccomandandolo a qualche studente. Più tardi quella stessa mattina si diresse al quartiere dei fabbricanti di insegne, per farsene dipingere una. Tradizionalmente recava un ritratto dell'insegnante seduto, abbigliato con i suoi vestiti da processo e armato con il tipo di armi in cui esercitava la professione di maestro. Inoltre nella parte in basso vi comparivano il nome e la tabella delle tariffe; negli ultimi tempi, tuttavia, aveva preso piede la moda di raffigurare gli ex spadaccini nell'atto di vincere il proprio caso più famoso e i pittori dipingevano il maestro di dimensioni assai maggiori del suo avversario, rimpicciolito e mortalmente ferito. Alcuni istruttori commissionavano addirittura dei versi laudativi da fare inscrivere a lettere d'oro lungo il bordo. Loredan decise che avrebbe dovuto mostrarsi intransigente su questo genere di cose. «Bardas Loredan» disse di conseguenza «trentotto al giorno, spada e
pugnale standard e a due mani, niente abiti fantasiosi.» «Solo il ritratto e la scena del duello?» «Niente scena del duello.» «Sicuro?» Il pittore non nascose il suo disappunto. «Non vi chiederò nessun extra per la scena del combattimento.» «Niente duello.» «Dipingo delle bellissime scene di duello. Costituiscono un'ottima pubblicità.» «No.» Il pittore rifletté per un attimo. «Posso dipingervi con una corona di luce che rappresenta l'influenza protettiva del Principio» disse. «Non se intendete essere pagato.» «Sedete su quella sedia» rispose il pittore contrariato. «Sarò da voi fra un minuto.» Si girò e cominciò a trafficare con bottigliette e vasetti sul retro del negozio. Loredan si appoggiò allo schienale e cercò di rilassarsi. Era un giorno stranamente caldo per quella stagione e l'ombra proiettata dalla tenda della bottega era piacevole. Dal punto in cui era seduto godeva di una chiara vista della piazza che costituiva la principale area di scambio del distretto dei fabbricanti d'insegne. Come molti altri luoghi di Perimadeia in cui si concentravano piccoli artigiani specializzati, si trattava di una piazza con una fontana al centro, sulla quale incombeva una statua vecchia e trascurata. Intorno alla fontana c'era una concentrazione di tende e chioschi che nascondevano in parte le imponenti insegne dei negozi del piano terra. A intervalli regolari si dipartivano rampe di scale che conducevano alle gallerie sulle quali si affacciavano le botteghe del primo piano e che poi proseguivano fino alle residenze e ai laboratori del secondo piano. Ai quattro angoli della piazza delle porte a forma di arco immettevano nei distretti confinanti; neanche a dirlo, c'erano dei negozi costruiti perfino sopra le arcate, sicché i lati della piazza apparivano come altrettanti solidi muri fatti di esercizi commerciali. In ciascuna bottega dal lato illuminato dal sole, un fabbricante d'insegne sedeva sulla soglia sfruttando al meglio la luce del giorno; dato che gli edifici erano così alti, gli occupanti di ciascun lato potevano lavorare sfruttando la luce del sole unicamente per un quarto della giornata. Una costante processione di carri, carretti e altri mezzi di trasporto si muoveva rumorosamente nel poco spazio libero che restava fra le botteghe e la fontana al centro della piazza; salvo quando il traffico si ingorgava e
tutti erano costretti ad arretrare, avendo per accompagnamento un coro di grida irose e di classiche imprecazioni da carrettiere. A differenza di quanto accadeva in quasi tutta la città, il distretto dei fabbricanti d'insegne non aveva alcun odore particolare, peculiare di quel genere di attività. C'era solo l'abituale odore di fondo che ormai nessuno notava più. Così tanta gente, si disse Loredan, così tanti commerci, così tanti modi diversi di guadagnarsi da vivere bene o di garantirsi a malapena la sopravvivenza e per ciascuna attività utile e che recasse un profitto un distretto separato e adatto, dove fosse facile ottenere tutto ciò che era necessario per produrre uno specifico tipo di beni. Così tanto ordine e un'esistenza così prestabilita, con ogni uomo al suo posto e che faceva la sua parte a beneficio del tutto. Nella piazza vicina c'erano i negozi e le bancarelle dei tintori, che sbriciolavano conchiglie e noci di cocco, polverizzavano ruggine, pietra e piombo per ottenere i colori che, mescolati con albume o acqua si trasformavano nelle vernici che poi venivano utilizzate nella piazza accanto. I più abili e importanti tintori producevano l'universalmente nota pittura dorata di Perimadeia, mescolando ossido, mercurio e stagno su una lastra di marmo, aggiungendo aceto a tripla forza e polvere di piombo, mescolando tutto insieme e raccogliendo ciò che ne derivava in bottigliette di pietra. In un angolo della piazza dei tintori c'erano i fabbricanti di pennelli, una specialità all'interno di un'altra specialità, che passavano le loro giornate a tagliare setole nella giusta misura e a fissarle ai manici, a bollire pentole di colla e a martellare i ferretti che fissavano le setole. Dovevano attraversare dodici piazze per raggiungere il distretto dei produttori di colla, situati in una parte della città che la gente attraversava alla massima velocità possibile e avvolgendosi il bavero intorno al naso per combattere l'orrendo puzzo del cuoio crudo che macerava nell'acqua di calce. I produttori di colla, da parte loro, non dovevano fare altro che girare l'angolo e superare un ponte per raggiungere i forni da calce in una direzione e il quartiere dei conciatori e dei macellatori equini nell'altra. La loro strada passava attraverso il quartiere dei falegnami, dove probabilmente sarebbero transitati davanti a dei fabbricanti d'insegne in attesa di ritirare pannelli di legno appena tagliati e levigati, dalle segherie che si stringevano intorno a quella che un tempo era stata una cascata, prima che la gente della città la modificasse in modo che facesse funzionare centinaia di ruote di altrettanti arguti ingranaggi. Tutta quella gente, tutte quelle attività; e ognuna parte di un tutto, inutile
e incapace di funzionare senza una serie di altre attività e di altri commerci, egualmente dipendenti dalla unione e dalla fusione di molteplici parti. Mentre se ne stava seduto a guardare, Loredan ebbe la sgradevole sensazione di essere la sola cosa in quella città che non ne fosse anche una componente, una parte indispensabile di qualcosa di più grande. Fino al giorno prima, naturalmente, le cose erano state molto diverse; allora egli faceva ancora assolutamente parte della vita commerciale di Perimadeia: era uno dei più specializzati fra gli specialisti, collocato a una estremità dell'intero processo, là dove a volte gli ingranaggi degli accordi non funzionavano a dovere e il perfetto funzionamento della macchina imponeva di lubrificarli con un po' di sangue. Erano pensieri sciocchi, lo sapeva; perché non appena avesse avuto la sua insegna e il suo bravo pezzo di carta firmato dal governatore che gli assegnava uno spazio, avrebbe avuto di nuovo un ruolo, una parte da recitare, una funzione da svolgere al servizio del processo. Sarebbe stato molto più saggio godersi quell'intermezzo invece che farsene angosciare; ben poche persone a Perimadeia avevano, anche solo per un attimo, l'opportunità di farsi da parte e di passare un'ora o giù di lì senza partecipare alla vita della città. «Tutto fatto» disse il pittore. «Volete dargli un'occhiata prima che stenda la vernice trasparente?» Loredan annuì e si alzò in piedi. Si rivelò un pezzo di arte commerciale assolutamente adeguato, senza scene di duello e senza traccia di corone di luce. Ne fu sollevato. «Ho davvero le orecchie così a sventola?» «Sì.» Il pittore immerse il pennello in un solvente e poi lo asciugò con uno straccio. «State a sentire che cosa vi propongo» disse. «Per puro caso mi trovo ad avere qui questa serie veramente bella di versi laudativi: cinque stanze di elegie. Si tratta di un ordine poi cancellato, che vendo per quattro soldi. Starebbero benissimo lungo il bordo, guardate. Due quarti.» «No.» «Il problema con alcune persone è che non riescono ad afferrare l'importanza vitale di una propaganda positiva.» «Una cosa veramente tragica.» Il pittore sospirò e tolse il sigillo di cera dal collo di un vaso di vernice trasparente. «Che cosa ne direste di una serie di cinque miniature perfettamente identiche, da appendere in luoghi in cui amano ritrovarsi quelli ricchi e alla moda? Come gesto di buona volontà, potrei chiedervi solo tre quarti.»
«Potete chiedermi tutto quello che volete, fino a quando non vi aspettate che io vi dia del denaro.» «Le miniature e i versi laudativi per sette ottavi e ci aggiungo anche un metro di corda da quadri.» (Proveniente dal quartiere dei cordai, tre piazze più a ovest, dove tendono le funi proprio attraverso la piazza, fissandole a pioli di legno mobili; un altro commercio, un altro centinaio di uomini più o meno le cui vite arrivavano fino a lì e non andavano oltre.) «Grazie, ma no. Non avete ancora finito?» «Volete darmi il tempo?» borbottò il pittore. «Se non state bene attento, rischiate di rovinare la pittura ancora per un po'.» E naturalmente, rifletté Loredan mentre il pittore finiva di stendere la vernice trasparente, le cose sono ancora più complesse. Da ciascuno di questi commercianti indaffarati dipende un altro sistema complesso; mogli e intere famiglie da nutrire e da vestire, bambini che devono ricevere l'appropriata istruzione, ai quali bisogna trovare un marito o un artigiano che li prenda come apprendisti; affitti da pagare, quote per le corporazioni, soldi per la licenza e le tasse, genitori e suoceri da mantenere una volta diventati vecchi, pompe funebri a cui pagare la parcella. Attraverso questo sottosistema ogni componente è indissolubilmente legata all'insieme, al punto tale da non osare sconfinare dal proprio ruolo, dato che ogni ruota dell'ingranaggio sente di dovere assolutamente girare senza problemi, per timore di distruggere ogni cosa. Era bizzarro pensare che in altre parti del mondo c'era gente che in qualche modo riusciva a vivere senza tutto questo. Naturalmente si trattava di selvaggi, di poco superiori alle bestie, creature che in tutta la loro vita non si sarebbero mai sognate di farsi dipingere un ritratto o di portare un caso in tribunale; il che costituiva la ragione per cui era necessario che stessero là da dove venivano, lontano dalle mura e dalle porte della Tripla Città: per evitare che un uomo indaffarato e diretto al lavoro di buon mattino potesse vederli e cominciare a domandarsi che cosa diavolo lo spingesse a darsi tanto da fare. «Finito» annunciò il pittore. «Badate che sarà ancora umida per un'ora più o meno. Se volete potete portarvela via, ma vi si attaccherà della polvere alla vernice, sicuro come l'oro.» «Capisco» rispose Loredan, annuendo. «Che cosa ne direste se ve la lasciassi qui per un paio d'ore e poi tornassi a prenderla?» «Per me va bene» disse il pittore, asciugandosi le mani. «Mi dovete cinque quarti, grazie.»
Due ore senza niente da fare. Normalmente si sarebbe trovato una taverna (quando uno deve ammazzare il tempo, è sensato farlo in un macello apposito), ma si ricordò che ormai non faceva più quel genere di cose. Non aveva denaro da buttare via in vino e non se ne parlava più di bere durante la giornata per poi smaltire l'alcool dormendo il pomeriggio. Be', allora poteva tornare fino alle Scuole e chiedere se erano pronti i suoi documenti, per sentirsi dire di tornare dopo circa un'ora; gli sarebbe rimasto ancora il tempo di fare ritorno al distretto dei fabbricanti d'insegne prima che la vernice fosse stata del tutto asciutta. Preferì invece allontanarsi verso il Ponte dei Mandriani, una zona che gli capitava raramente di visitare. Gli istruttori di successo non hanno tempo di andare in giro a guardarsi intorno durante le ore di lavoro, quindi gli conveniva approfittare della situazione fin tanto che poteva. «Scusatemi.» Si guardò intorno e poi abbassò lo sguardo. Una bambinetta piuttosto arruffata gli stava tirando una gamba dei pantaloni. Sopirò e cercò una moneta nella scarsella che portava alla cintola. «Scusatemi» ripeté la bambina «ma voi siete Bardas Loredan.» Non sentirti in torto, ragazzina, non è colpa tua. «Esatto» disse. «Come fai a sapere chi sono?» «Siete un avvocato, non è vero?» La bambina pronunciò quella lunga frase con la stessa fatica con cui una gallina avrebbe deposto un uovo esagonale; lentamente, badando a non balbettare e con un sorriso di trionfo alla fine. «Siete il migliore del mondo, a quanto dice mio padre.» «Lo ero» rispose Loredan corrugando le sopracciglia. «Che mestiere fa tuo padre? È anche lui un avvocato?» La bambina fece cenno di no con la testa. «Fabbrica botti» disse. «Ma gli piace assistere ai processi. Qualche volta porta anche me a vederli.» «Davvero? Come... è gentile.» La bambina annuì. «Mi ha portato a vedere voi ieri, quando avete ucciso quell'uomo.» Ebbe un'espressione raggiante. «Mi piace andare ai processi, perché papà mi compra sempre un dolce, da mangiare mentre guardiamo il duello.» «Ti piacciono i dolci, dunque?» «I dolci sono la cosa che preferisco.» Pescò dalla borsa un mezzo di rame. «Allora perché non vai a comperarti un bel dolce proprio adesso? Sono sicuro che ti piacerebbe.»
La bambina scosse vigorosamente la testa. «Mio papà dice che non devo mai accettare dolci dagli sconosciuti.» Loredan sospirò. «Tuo padre ha ragione» disse. «Ma non credo che questo valga nel caso in cui qualcuno ti dia del denaro e lasci che sia tu stessa a comperarti i dolci. Forza, vai.» La bambina rifletté per un po'. «Potrei andare alla bottega di mio padre e chiedergli il permesso» disse. «Voi aspettatemi qui.» «Ti dico io che cosa facciamo» suggerì Loredan. «Vai a cercare il tuo papà e prendi la moneta con te così puoi mostrargliela. Che te ne pare?» La bambina esitò, poi annuì. «Va bene» disse. Non appena fu sparita alla vista, Loredan si affrettò ad attraversare la strada e si precipitò all'interno del più vicino edificio, che si rivelò essere l'arsenale della città. Con un minimo di fortuna, non lo avrebbe seguito lì dentro. Erano passati più di dieci anni dall'ultima volta che era stato nell'arsenale. Scosse la testa: prima l'incontro con Garidas e ora questo; il dannato esercito lo stava tallonando quel giorno, come un cane affamato. Il posto non sembrava essere cambiato molto da quando ci era venuto con suo zio per ritirare venti barili di frecce che gli erano stati ripetutamente promessi ma mai consegnati e che alla fine erano dovuti andarsi a prendere personalmente. (Chissà perché avevano sempre dovuto combattere con il Dipartimento Approvvigionamenti per ogni singolo chiodo, custodia d'arco o biscotto?) Era tuttora un luogo afoso, buio e rumoroso al cui interno si scorgevano schiene sudate che rilucevano alla fiamma delle fornaci e in cui nembi di scintille volavano di qua e di là in modo imprevedibile bruciando la pelle nuda. Bisognava farsi da parte per non inciampare nelle grosse barre di metallo che venivano spostate, mentre uomini arrampicati sulle ciminiere lanciavano grida incomprensibili. L'aria era piena del clangore degli attrezzi lasciati cadere per terra e del tonfo dei magli meccanici che si riverberava lungo la pavimentazione del suolo. C'era della colla che bolliva, del grasso che bruciava, fumo, limatura di ferro e l'inconfondibile odore del metallo appena tagliato. I trapani e gli attrezzi da tornio mal lubrificati provocavano un cigolio, che si alternava al ritmo veloce delle pedaliere, al suono energico delle pietre per affilare maneggiate con energia, al clangore dei martelli a punta rotonda che plasmavano lastre di metallo su altrettante forme di legno e al sibilo dell'acciaio che veniva temperato. Se fosse stato di un altro umore lo avrebbe trovato un luogo eccitante; in mezzo a tutta quella attività creativa, non mancava
certo la vitalità. «Tu.» «Io?» Si guardò intorno, ma non riuscì a capire da dove arrivasse la voce. «Sì, tu. Che cosa vuoi?» Loredan sorrise con aria imbarazzata. «Scusate» disse «stavo solo dando un'occhiata in giro. Non avevo intenzione...» «Allora fammi il dannato favore di andartene a dare un'occhiata da qualche altra parte. Questo non è un parco.» Continuava a non capire chi gli stesse parlando; non che avesse particolare interesse a continuare la conversazione. «Scusate» ripeté dirigendosi verso la porta. Si trovò la strada bloccata da un carretto carico di carbone. Gli girò intorno e si trovò faccia a faccia con un giovane snello e non molto alto che stava reggendo con un paio di molle una barra di ferro incandescente; se la trovò a meno di trenta centimetri dal viso. «Ah» disse. «Sono spiacente.» Il giovanotto scostò immediatamente il pezzo di ferro. «Colpa mia» disse in un accento familiare. «Non vi avevo visto con quel carretto in mezzo.» Era uno delle pianure; proprio quello che ci mancava. Era molto tempo che non incontrava un abitante delle pianure. E non aveva mai avuto un particolare desiderio di rivederne uno. La lama incandescente che oscillava a poche decine di centimetri dal suo naso non migliorava certo la situazione. Fece un sorriso tirato e oltrepassò il giovane, senza fermarsi fino a quando non fu tornato nuovamente all'aria aperta. Vagabondò per un po' fino a quando non ebbe raggiunto una porta della città; se era destino che passasse l'intera giornata sbattendo il naso nel suo inglorioso passato, tanto valeva che completasse l'opera di sua volontà. Salì in cima alle mura e vi rimase in piedi per un bel po', pensando in termini generali a un gran numero di cose, tutte ormai implacabilmente senza rimedio. Alla fine si trovò una taverna. Che strano tipo, pensò Temrai. Era un dato di fatto che se ne incontravano parecchi in quella città; certo più che a casa. Probabilmente dipendeva dal fatto che qui avevano più probabilità di sopravvivenza. Nella sua patria non sapevano che farsene della gente strana, degli sciocchi e di quelli che non erano all'altezza, sicché tutti tendevano a non vivere a lungo. Era in piedi accanto alla forgia, intento a osservare il cangiare dei colori
in una lama che fino ad allora era stata resa incandescente solo un'altra volta, a mano a mano che il calore si diffondeva: da grigio a giallo, da giallo a rosso scuro, a porpora e finalmente a blu, il colore giusto per una seconda tempratura. Dopo avere controllato che il bagno di acqua salmastra fosse tiepido al punto giusto (una tempratura a temperatura troppo bassa avrebbe solo spezzato l'acciaio), tolse la lama dal fuoco e la tuffò sotto la superficie dell'acqua. Una bolla rotonda di vapore si sollevò dal liquido, un sibilo raggiunse il suo acme e poi svanì, simile all'uggiolio di un cucciolo che venisse annegato. Era sorprendente il modo in cui una fiamma ardente e un po' di acqua tiepida potevano trasformare un morbido e malleabile pezzo di ferro in una lama tagliente e robusta. Non per la prima volta, si domandò come mai funzionasse. A casa sua in realtà conoscevano la risposta. L'acciaio è come il cuore umano, dicevano. Per rendere un uomo abbastanza duro da essere utile bisogna prima scaldarlo al fuoco dell'ira e immediatamente dopo raggelarlo nel bagno temprante della paura e della consapevolezza della propria debolezza; perché il metallo si tempra con l'acqua e l'uomo con le lacrime. E questo è solo il primo stadio; rende un uomo duro, ma anche fragile e in quanto tale di nessuna utilità come strumento, o come arma. Ora deve essere scaldato nuovamente, al fuoco lento, cauto e deliberato dell'odio e temprato una seconda volta in acqua salata; è questo secondo processo che lo rende utile, capace di tagliare e infliggere ferite, ma senza che questo rischi di spezzarlo. Solo uomini ben temperati sono utili agli dei e al proprio clan. Dopo avere eliminato i residui di colore con una lima, batté con forza la lama un paio di volte contro una delle estremità dell'incudine, giusto per assicurarsi che la tempera non avesse compromesso la perfetta saldatura fra i tagli e il nucleo, poi prese un vaso di pasta di pomice e si diresse verso una vicina ruota per dare inizio al lungo, noioso compito di lucidarla. Di norma quello era un tipico compito da fabbro, il tipo di attività con cui un maestro fabbricante di spade non avrebbe mai perso tempo; ma l'aiutante che gli era stato assegnato era a casa perché aveva la moglie ammalata e Temrai si era offerto volentieri di fare anche il suo lavoro. Quella era un'altra delle cose bizzarre della città. Nella sua patria se a uno si ammalavano la moglie o un figlio, era scontato che gli altri facessero il suo lavoro e anzi gli portassero la sua parte di latte e formaggio. Qui, un uomo era già fortunato se, essendo obbligato a restare a casa per badare ai suoi, perdeva solo la paga della giornata. Probabilmente doveva esserci
una ragione per cui le cose andavano in quel modo, anche se nessuno sembrava sapere quale fosse. Il giorno prima era stato a guardare mentre erigevano la grande macchina torcitrice che aveva richiesto un mese per la sua fabbricazione; una gran bella macchina, che ci si aspettava fosse in grado di scaraventare una pietra da cento chili a trecento metri di distanza. Quasi tutti i lavoratori presenti nell'edificio erano stati chiamati per aiutare, tirando funi o facendo forza su leve mentre le strutture in legno venivano posizionate e fissate al loro posto con chiodi, cunei di legno e bande metalliche. Dopo che la struttura fu assemblata e dichiarata solida, erano state avvoltolate le corde che, una volta rilasciate, davano alla macchina il suo potere di gittata. Un'altra parabola? Era un gioco facile da fare; le corde tenevano il posto degli uomini del suo clan, che dopo essere stati pigri e pacifici per un lungo tempo, ora erano tesi e pronti a scattare... Profezie e segni erano un'ottima cosa, ma si trattava di un giochetto troppo facile per avere qualche autentico valore. Osservare un'aquila che vola sopra l'armata del proprio nemico stringendo un capretto fra gli artigli era di fatto solo un modo per osservare la natura; certo, se uno avesse visto un capretto con un'aquila stretta fra i suoi zoccoli rossi di sangue volare e ruotare al di sopra dei propri stendardi al primo lumeggiare dell'alba... be', quello sì che sarebbe stato un portento. Comunque; la grande macchina, ufficialmente denominata dal Dipartimento degli Approvvigionamenti catapulta, grande, a base fissa, numero trentasei e nota invece ai suoi creatori come l'Ubriacone Intemerato (ci vuole molto tempo per ubriacarlo, ma quando lo fa si ubriaca davvero...), era ora posizionata sulla torre del terzo miglio lungo le mura rivolte verso terra, inumidita di pece per fare fronte al vento umido che spirava da est, e copriva l'ultimo angolo che era rimasto cieco e indifeso; o perlomeno l'ultimo angolo che risultava indifeso agli ottusi ufficiali del Dipartimento. La città, per quanto la riguardava, era ora pronta ad affrontare qualunque minaccia. La quale minaccia avrebbe dovuto essere piuttosto ottusa per non capire che si trattava di una vera e propria illusione. Due ore davanti alla ruota e la lama fu lucidata; non proprio come la superficie di uno specchio, come gli sarebbe piaciuto, ma comunque in maniera sufficiente per il proprio compito al servizio del governo, come avrebbero detto i suoi colleghi. Andò ad aggiungersi al resto della produzione di quella settimana su una rastrelliera fissata al muro, pronta per essere fissata a un'elsa, verificata e immagazzinata; il che significava
essere coperta di grasso e avvolta in carta oleata prima di essere sistemata in un barile insieme ad altre venti spade identiche e poi essere impilata nelle cantine di una torre di guardia e abbandonata lì. Temrai si lavò le mani, tornò al suo posto e ricominciò dall'inizio. Fece tre lame complete quel giorno e diede inizio a una quarta. «Che fretta c'è?» gli chiesero i suoi colleghi, seccati che facesse quasi il cinquanta per cento di lavoro più di loro. «Sai qualcosa che noi non sappiamo?» Non diede nessuna risposta. Finito il lavoro rimise le cose in ordine, unse i suoi attrezzi con olio di camelia e li ripose; poi si infilò la giacca e fece ritorno alla locanda. Era il momento più fresco della serata, quel breve momento di sollievo che divideva il calore diretto del sole da quello accumulato, che soffocava la notte irradiandosi dalla pietra come dai mattoni di un camino. Era un momento particolarmente attraente per trovarsi in città; luci amichevoli filtravano dalle porte delle botteghe e delle taverne; voci allegre echeggiavano, accompagnate dall'eco della musica suonata ora bene ora malamente. Ovunque uno andasse vedeva uomini e donne che passeggiavano insieme senza seguire una particolare direzione e senza alcuna fretta apparente: erano mariti affettuosi con le loro mogli, ragazzi che facevano la corte alle innamorate, ubriachi che si accompagnavano a ragazze di taverna. Nella sua patria, in linea di massima, la gente andava a cavallo o se ne stava seduta: era una cosa più di buon senso, ma non altrettanto pittoresca. Davanti alla porta della locanda vide un uomo che indossava un lungo cappotto di pelle e che pareva cercare di confondersi con l'ombra proiettata dall'ingresso. Era così, dunque. Anche questo era un segno, dopo tutto. «Jurai» disse sottovoce. «È...» L'uomo annuì. «Serenamente» rispose. Era così strano sentire di nuovo la propria lingua. Sentì nostalgia, rimpianto e un vago disgusto, tutto nello stesso tempo. «È stata la febbre, una settimana fa.» All'uomo sembrò sovvenire di essersi dimenticato qualcosa. «Mi dispiace» disse. «Era un grande capo.» Temrai fece spallucce, sapendo che la lode era fasulla. Non un grande capo; forse, un bravo capo, così come era stato abbastanza un buon padre e un insegnante sufficiente. Non era stato quel genere di uomo di cui gli dei si possono servire; era stato messo nel fuoco troppo tardi, cotto a una temperatura troppo alta e probabilmente si sarebbe dimostrato troppo fragile. Suo figlio: quello sì che era tutta un'altra cosa.
«Immagino che farei meglio a tornare a casa» disse. «Dove li hai lasciati?» «Al guado di Korcul» rispose Jurai. «La piena è stata notevole quest'anno... Pensano che non sarà possibile passare almeno per una settimana ancora. Se ci sbrighiamo, possiamo raggiungerli là.» «Non sarà difficile trovarli anche se non dovessimo riuscirci» rispose Temrai in tono assente. Non riusciva a fare a meno di pensare che aveva ancora del lavoro da fare lì; ma non era vero. Aveva appreso tutto quello che era venuto ad apprendere, di più in effetti. E aveva lavorato duro, guadagnato la paga, fatto perfino qualcosa di buono mentre era ospite della città. Un uomo dovrebbe cercare sempre di fare qualcosa di buono ovunque vada: di lasciare un posto migliore di come era quando ci è arrivato. «Probabilmente ci aspetteranno» disse Jurai. «C'è molta legna laggiù e tu hai detto che avresti avuto bisogno...» «È così.» Corrugò la fronte. «Immagino che farò meglio a prepararmi. Hai portato un cavallo per me? Ho venduto il mio.» «Uno per ciascuno e un ricambio» rispose Jurai. «Non è il caso di perdere tempo.» «Va bene. D'accordo. Non ci vorrà molto.» Lasciò lì Jurai ed entrò nella locanda. Strano; quel grosso carro di pietra senza ruote, che non andava mai da nessuna parte e dove bisognava pagare per il semplice privilegio di risiedere all'interno, cominciava a sentirlo come casa sua. Riusciva ad annusare il pane della sera che cuoceva nel forno e le donne stavano preparando la tavola. Un gruppo di uomini, tutti suoi amici, alzarono lo sguardo dai dadi con cui stavano giocando e gli fecero un cenno di saluto. Date le circostanze, sperava tanto di non rivederli mai più. La padrona della locanda stava rigirando un pentolone di zuppa, assaggiandola di tanto in tanto con un lungo cucchiaio di legno e aggiungendo ora un pizzico di un'erba, ora di un'altra, con un'aria di concentrazione che risultava vagamente comica. Gli sorrise quando lo vide e promise che sarebbe stato pronto in tavola di lì a breve. «Per la verità» disse «non mi fermo. Vorrei fare i miei bagagli, se non vi dispiace.» «Ve ne andate?» Sembrava dispiaciuta. «Oh. C'è per caso qualcosa che non va?» «Mio padre è morto.»
«Mi dispiace. Era ammalato?» Temrai annuì. «Sarà meglio che vada il prima possibile.» La proprietaria della locanda posò il cucchiaio. «Immagino che vostra madre sarà felice di rivedervi» disse. «È morta» rispose Temrai. «Quando ero ancora un bambino.» «Questo è triste. Così sarai tu il capofamiglia ora, immagino.» «Proprio così.» «Avete una famiglia numerosa?» «Piuttosto numerosa. Spiacente, ma devo veramente andarmene. Quanto vi devo?» La donna scosse la testa. «Va bene così» disse. «Sono passati solo due giorni dall'ultima volta che mi avete pagato. Siete mio ospite. Volete che vi prepari qualcosa da mangiare durante il viaggio?» Temrai rifiutò educatamente; lei insistette; alla fine, solo per riuscire finalmente a mettersi in movimento, Temrai accettò mezza forma di pane, una salsiccia e due mele. «È stato bello avervi qui» disse la donna, porgendogli un cestino coperto da un pezzo di tela pulita. «Non mancate di venirmi a trovare se doveste fare ritorno in città.» «È possibile che ritorni» disse Temrai. «E anche abbastanza presto.» «Non vedo l'ora. Fate buon viaggio.» «Senza dubbio. Grazie di tutto.» «Siete sempre il benvenuto.» Sentendosi un assassino, Temrai raccolse le sue poche cose riunendole in un fardello e riuscì a uscire dalla locanda senza rivolgere la parola a nessun altro. Vi prego, pregò silenziosamente, siate fra i primi ad andarvene quando a oriente appariranno le nubi di polvere e tutti cominceranno a farsi prendere dal panico. Non voglio che vi accada nulla, davvero. È solo che... «Pronto?» chiese Jurai, allungandogli le redini di un cavallo alto e scattante. «Pronto» rispose. «Quasi mi dimenticavo. Hai ottenuto ciò per cui sei venuto?» «Sì.» Jurai ridacchiò. «Molto bene» disse. «La prossima volta che vedrai questa gente, sarà in tutt'altro contesto.» Temrai strinse i denti. «Speriamo che sia così» disse poi. Montarono (era strana la sensazione di stare di nuovo in groppa a un cavallo dopo tutto quel tempo) e avanzarono lentamente lungo le strade,
preoccupati che gli animali potessero spezzarsi una gamba fra i ciottoli o in un canale di scolo. Era raro vedere uomini a cavallo in giro per la città e i pedoni che erano in giro per la passeggiata serale non sembravano avere particolare fretta di scostarsi e di farli passare. Temrai si sentiva sciocco e gli pareva di avere gli occhi di tutti puntati addosso mentre torreggiava sul resto dei cittadini (ma lui non era già più uno di loro) come un grande nobile che prendesse parte a una processione e il suo stallone delle pianure, alto e che pareva quasi emettere fuoco dalle froge, raschiava il lastrico con gli zoccoli e scrollava la testa per l'impazienza, costretto a indugiare dietro a un panettiere basso, calvo e grasso e alla sua consorte quasi sferica, che erano usciti solo per fare due passi. Avrebbe potuto volerci tutta la notte solo per arrivare alla porta, ma il panettiere e sua moglie si fermarono a comperare dei dolci e così poterono passare. Erano arrivati in vista della porta quando un uomo sbucò da una taverna senza guardare dove stesse andando e finì proprio davanti al cavallo di Temrai. Quest'ultimo tirò con forza le redini verso di sé e a destra, obbligando lo stallone a fare una mezza giravolta; fu sufficiente a impedire che quello sciocco ubriacone si facesse male seriamente, ma il puntale dello stivale di Temrai (che era rinforzato in ferro, precauzione indispensabile per chi lavorava in un luogo in cui c'era ogni tipo di oggetto pesante che non aspettava altro che cadere, schiacciando alluci non adeguatamente protetti) centrò un lato della testa dell'uomo, che cadde a terra pesantemente. Temrai lanciò un grido di allarme e scivolò giù dalla sella, gettando a Jurai le sue redini. «Vi sentite bene?» L'uomo si massaggiò il cranio. «No, grazie a voi» borbottò. «Perché diavolo non state più attento a dove andate?» Parlò in modo strascicato, arrotondando le parole, evidentemente per effetto di qualche bicchiere di troppo; proprio lo stato che provocava la maggior parte delle risse in città, come Temrai ben sapeva. Di conseguenza si scusò e aiutò l'uomo ad alzarsi in piedi, cercando di rimuovere lo sporco della strada e le macchie di fango che gli lordavano la giacca e raccogliendo il fardello, ora appiattito, che l'uomo teneva prima in mano. Sfortunatamente il cavallo ci era proprio passato sopra. «Ehi, pagliaccio» esclamò l'uomo «guarda che cosa hai fatto alla mia insegna! Avanti, prova a dare un'occhiata!» La luce che filtrava dall'ingresso della taverna rivelò un ritratto ben fatto e certamente nuovo, inequivocabilmente suggestivo, salvo che un buco
esattamente della misura dello zoccolo di un cavallo si trovava nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la faccia. Temrai vide la mano dell'uomo correre alla cintura, verso il punto da cui avrebbe dovuto pendere una spada. Fortunatamente, non ce n'era traccia. «È terribile» mormorò Temrai. «Sono così dispiaciuto. Vi prego, lasciate che vi risarcisca per il danno.» «Potete giurarci che vi lascio» ringhiò l'uomo di rimando. «Per non parlare del mancato guadagno, del dolore, della sofferenza e del fatto che stavate cavalcando sulla pubblica via come un vero incosciente.» Questo, si disse Temrai, era un po' esagerato detto da un ubriaco che aveva cercato di gettarsi sotto gli zoccoli del suo cavallo; ma il significato dell'insegna, la terminologia legale, la mano corsa istintivamente alla cintura non gli erano sfuggite. Ubriaco o sobrio, che avesse torto o ragione, non aveva particolarmente voglia di fare a coltellate con un avvocato professionista. «Naturale» disse in tutta fretta. «Quanto vi devo?» L'ubriaco lo stava fissando con aria incuriosita e il suo cervello ottenebrato stava facendo del proprio meglio per afferrare le fila di un ricordo appena abbozzato. «Tu» disse. «Sei il ragazzo delle pianure che stava nell'arsenale.» «Esatto» rispose Temrai; poi anche lui si ricordò di chi si trattava. «Vi ho visto oggi pomeriggio. Siete entrato e poi ve ne siete andato poco dopo.» L'uomo annuì e con grande sollievo Temrai avvertì che il momento pericoloso era passato. Un ubriaco, in preda alla nebbia alcolica, poteva pugnalare uno sconosciuto da cui pensava di essere stato offeso, ma non qualcuno che conosceva. L'espressione dell'uomo infatti si rilassò in una sorta di risolino. «Hai rovinato la mia insegna» disse. «Mi ci è voluto tutto il giorno per farmi fare questo dannato oggetto. Se tu solo immaginassi quanto può essere noioso farsi ritrarre...» «Posso immaginarlo.» L'uomo fece spallucce. «Pazienza» disse. «Senti, ti dico io cosa faremo. Mi dimenticherò dell'insegna rovinata e di tutto il resto, se mi farai un favore. Accetti?» Temrai esitò. Non era in condizione di promettere favori, proprio ora che stava per lasciare la città; d'altro canto rifiutare avrebbe certamente fatto infuriare l'ubriaco, mettendo Temrai in un guaio ancora più grosso.
«Ehm...» disse. «Sei un fabbricante di spade, giusto?» «È così.» «L'avevo immaginato.» L'uomo annuì lentamente. «Un fabbro delle pianure. Quindi saprai tutto sul modo di saldare il nucleo di una lama ai tagli in modo che non si spezzi.» «Sì» rispose Temrai. «In che modo...» «Amico» disse l'ubriaco «potresti essere l'uomo che mi salverà la vita. Vedi, io sono un avvocato. Uno spadaccino legale. O meglio lo ero, fino a oggi; ho mollato tutto e ho deciso di diventare un istruttore. Bella vita, quella dell'insegnante, salvo per il fatto che bisogna svegliarsi presto di mattina. Comunque, avrò in ogni caso bisogno di una buona spada che non mi si spezzi in mano nel bel mezzo di un combattimento. Ultimamente ho visto spezzarsi sotto i miei occhi due eccellenti lame che possedevo» aggiunse con amarezza «e un'altra ha fatto la stessa fine a tanta distanza dalla mia faccia quanto quella che c'è fra te e me.» Era un dato di fatto che si stesse chinando sempre più verso di lui; anche con la sua limitata esperienza, Temrai riusciva a distinguere nel suo alito due dei vini più popolari fra quelli di poco prezzo. «È allora che mi è venuto in mente: quei cafoni delle pianure, loro sì che sanno fabbricare spade che non si spezzano, o almeno lo sapevano fare una dozzina di anni fa. Quindi è questo che voglio che tu faccia per me e non parleremo mai più dell'insegna rovinata. Affare fatto?» Il volto di Temrai era privo di qualsiasi espressione quando rispose, così come la sua voce. «Affare fatto.» L'ubriaco non sembrava avere notato niente di strano. «Bravo ragazzo» disse l'ubriaco sorridendo, poi diede a Temrai una grande pacca sulle spalle. «Il mio nome è Loredan, Bardas Loredan. Mi puoi trovare alle Scuole in qualunque momento. Se dovesse mai venirti voglia di imparare la scherma, ti farò un prezzo speciale.» «Grazie» rispose Temrai sottovoce. «Incrociare la spada con voi sarà un vero piacere.» Adesso l'ubriaco era pieno di buonumore; resse la staffa per aiutare Temrai a salire a cavallo e lo salutò con un cenno cordiale mentre si allontanava, prima di gettare l'insegna rovinata in un canale, girare su se stesso un paio di volte come se fosse incerto su dove andare e finalmente puntare di nuovo verso la taverna. Temrai cavalcò in un silenzio di tomba fino a quando non ebbero superato la guardia alla porta e non furono sul
ponte. «Si può sapere di cosa avete discusso?» chiese Jurai. «Quell'uomo» rispose Temrai «voleva che gli fabbricassi una spada.» Jurai fece spallucce. «Che stupido.» Temrai si voltò sulla sella e alla luce delle torce che si rifletteva sull'acqua Jurai vide che aveva il volto rigato di lacrime. «Jurai, ti rendi conto di chi era?» «Un ubriaco. O, già, un avvocato, qualunque cosa significhi. Mi è sembrato di capire che si tratti di una specie di mercenario.» «Questo è quello che è ora. Pensa, Jurai; un uomo che sa dell'uso dell'argento nella saldatura delle lame e che dice di averlo appreso più o meno dodici anni fa. Riflettici, Jurai.» Jurai rifletté per qualche momento; poi imprecò sottovoce. «I razziatori di Maxen» mormorò. «Pensi che fosse uno di loro?» «Dodici anni, Jurai. Qualcuno che ha appreso della saldatura con l'argento nelle pianure. E non era un mercante, credimi.» «Dei potentissimi. Se fossi stato nei tuoi panni lo avrei ucciso su due piedi.» Temrai scosse la testa e sorrise. «Ci sarà un'altra occasione. A essere sinceri mi ha fatto un favore. Sai, sono stato qui così tanto tempo che mi ero quasi scordato la vera ragione per cui ero venuto.» Jurai fece schioccare la lingua. «Dubito che questo sia possibile» disse. «Ho detto quasi» ripose Temrai. (Dimenticare Maxen? No, era una macchia che non si poteva cancellare per quanto spesso uno la lavasse o per quanta energia ci mettesse a sfregarla con la pomice. Dodici anni ed era ancora là, radicata nelle fibre, insieme al puzzo di capelli e ossa bruciate, onnipresente come l'aroma del cedro che si mette negli armadi.) «Nell'arsenale, tutti gli altri si levavano la camicia per lavorare, a causa del caldo. Non io.» Scivolò a metà fuori dalla giacca e si abbassò la camicia su una spalla, rivelando l'estremità di una cicatrice lucida e bianca. «Non mi andava di spiegare come me la fossi fatta; non quando andavamo tutti così d'accordo.» Rimise a posto la camicia e la giacca. Jurai notò una certa difficoltà nei movimenti: era stato troppo tempo senza montare in sella. Infine Temrai si alzò il bavero intorno al collo prima di girarsi a guardare le lampade che bruciavano a entrambi i lati della porta. «Quando darò fuoco alla città sbarrerò quella porta dall'esterno, Jurai, è il minimo che io possa fare. È un peccato» aggiunse, con il tono di uno costretto a buttare
via un paio di brache non ancora del tutto lise «in fondo mi sono simpatici, davvero. Ma è una cosa che va fatta e stando così le cose, preferisco essere io a farla, che non un qualunque sconosciuto.» Jurai lo guardò, non senza un po' di preoccupazione. «È esattamente quello che tuo padre avrebbe voluto fare» disse, in tono vagamente imbarazzato. «Dubito che ne sarebbe stato capace» rispose Temrai in tono stanco. «Da giovane era assetato di sangue, quando è diventato capo era diventato un debole e poi ha passato il resto della sua vita gonfio di odio e frustrazione. Lui, non sarebbe mai stato in grado di radere al suolo Perimadeia. Ma io lo farò.» Il suo compagno lo guardò fisso. «Ne sei certo?» «Oh, sì. Adesso che sono stati così gentili da mostrarmi come fare.» CAPITOLO SESTO Battere le strade della città, aveva detto Gannadius. Percorrere ogni vicolo e attraversare ogni piazza fino a quando non avesse sentito quel tocco di redini che significava che aveva trovato lo sconosciuto con poteri naturali. Secondo lui, era l'unica strada. Probabilmente era così, borbottò Alexius fra sé, mentre se ne stava seduto sui gradini di una fontana stringendosi fra le mani lo stivale sinistro, ma i piedi gli facevano male. E poi cosa direbbero i confratelli se dovessero mai scoprire che ho passato gli ultimi tre giorni camminando su e giù per le strade... Era possibile, si domandò, che avesse completamente perso il senso delle proporzioni? Era vero che continuava a essere vittima di quegli attacchi improvvisi (mal di testa accecanti, febbri che lo facevano sudare, fitte dolorose al petto e alle gambe, vomito e diarrea), ma stavano diventando meno violenti e meno frequenti e se non altro aveva ricominciato a dormire ora che i sogni si erano fatti più indistinti. Incantesimi di tripla forza e campi protettivi probabilmente erano d'aiuto, anche se lo sforzo di mantenerli attivi alla fine era più dannoso degli attacchi in sé, e comunque aveva la sensazione che non sarebbero stati di nessun aiuto se non ci avesse lavorato quasi a tempo pieno anche Gannadius. Era molto più probabile, secondo lui, che la maledizione in se stessa stesse lentamente incominciando a perdere potenza, senza dubbio anche grazie alla miracolosa sopravvivenza di Loredan nel duello con Alvise e al fatto che,
apparentemente, aveva deciso di lasciare la professione. A mano a mano che diventava meno vulnerabile alla maledizione, quest'ultima declinava avendo sempre meno di cui alimentarsi. A essere sinceri, Alexius si stava baloccando da qualche giorno con l'idea di provare proprio a spezzarla; era fattibile, ne era certo, anche se naturalmente nessuno ci aveva provato fino ad allora. No, rifletté, infilandosi nuovamente, con grande cautela, lo stivale sul piede gonfio, non era quella la strada. La sola speranza stava nel rintracciare questo benedetto tizio con poteri naturali, il che si stava rivelando più difficile di quanto non si fosse aspettato. Forse aveva lasciato la città, cosa di cui era convinto Gannadius. Alexius sperava con tutto il cuore che non fosse così; doversi sentire in quel modo per tutto il resto della sua vita non era un'idea propriamente allegra. Non sarebbe una gran bella cosa, disse a se stesso, se fossi davvero in grado di usare la magia? Potrei usare un incantesimo di movimento per spostarmi tanto per cominciare e potrei farla finita con tutto questo camminare. O, meglio ancora, potrei scovare questo dannato standomene comodamente nella mia cella, e scaraventargli in testa un tuono. Naturalmente, se fossi in grado di usare la magia, non avrei bisogno di fare nessuna di queste cose; farei semplicemente a pezzi la maledizione e me ne libererei, e così tutti sarebbero contenti. A parte quella maledetta, ambigua ragazza che mi ha trascinato in questa situazione; della cui felicità, sinceramente, non mi interessa proprio un bel nulla. Avrei dovuto dare retta a quello che mi diceva mia madre a proposito del fatto di parlare con donne sconosciute. Nel laboratorio dall'altra parte della strada, due uomini stavano costruendo una sega meccanica, da installare nelle segherie giù vicino al fiume. La lama stava in posizione verticale, fissata con un albero a gomiti a una ruota mossa dall'acqua, che stava nella parte bassa, mentre nella parte superiore era sospesa a uno spesso trave di tasso, tagliato ad arco in modo da avere alburno sulla parte superiore e duramen in quella inferiore; quest'ultimo fungeva da molla, sollevando la lama in modo da consentirle di tagliare qualunque tronco fosse stato fatto rotolare orizzontalmente contro di essa, scivolando su una piattaforma di rulli. A ogni rotazione della ruota mossa dall'acqua la lama della sega calava per venire subito dopo fatta risalire con un colpo di manovella, il che garantiva un taglio continuativo e che aveva la stessa forza di una sega a mano manovrata da due uomini che la impugnassero alle due estremità. I due carpentieri
stavano ultimando il montaggio, incastrando fra loro una coppia di contropali obliqui che sostenessero l'asta su cui andava montata la molla di legno di tasso. Alexius non era un ingegnere, ma riuscì lo stesso ad apprezzare il progetto, che era di un tipo che non gli era mai capitato di vedere prima. Un'altra nuova macchina, quindi, che segnava un ulteriore progresso e che avrebbe probabilmente finito per consentire una maggiore produttività e assi tagliate meglio a un prezzo più basso. Per un attimo si sentì incredibilmente geloso; perché non poteva passare anche lui la vita a fare un mestiere nel cui ambito era possibile migliorare le cose, farle meglio grazie a un po' di riflessione intelligente e a molta applicazione pratica? In ogni parte della città c'erano uomini che lavoravano a progetti come quello; li si poteva vedere in ogni piazza tracciare disegni per terra con un bastoncino o inciderli su un pezzo di legno con un chiodo, sempre alla ricerca di una soluzione migliore, più economica, più razionale, più bella a vedersi. Ma il Patriarca di Perimadeia doveva passare la sua vita a spiegare che la magia non funzionava, che il Principio era in gran parte incomprensibile e che anche gli effetti che si poteva ragionevolmente confidare di riuscire a generare, non avevano alcuna vera applicazione pratica. Eppure eccolo lì, vestito di lino e di seta, mentre gli indaffarati carpentieri indossavano lana grezza e andavano a piedi nudi. C'era chi diceva di essere un mago? Imbroglione. Via! Avrebbe dovuto caricarli tutti su un carro e cacciarli dalla città. I due artigiani finirono di fissare al loro posto le ultime viti e il più vecchio spedì il suo assistente ad avvolgere a mano la ruota per fare una prova. A quanto sembrava, girare la manovella era una vera faticaccia; infinitamente più sensato lasciare che fosse l'acqua cadendo a fare il lavoro. Ecco, volendo quello era un perfetto esempio di come il Principio potesse essere utilizzato in modo buono e produttivo. Il giovane grugnì per la fatica e il legno sotto sforzo gemette mentre la ruota girava. Con un allarmante schianto la molla di tasso si spezzò in due di netto. La lama della sega, non più sostenuta in alto si piegò lentamente e cadde di lato strappando l'albero a gomiti dalla ruota e costringendo il giovane artigiano a mettersi fuori portata a grande velocità. Ce la fece per un pelo; un centimetro più in là e la lama gli sarebbe caduta sulla schiena. L'artigiano anziano cominciò immediatamente a imprecare e il giovane rispose con altrettante imprecazioni agitando il pugno verso il maestro e vibrando alla macchina un violento calcio che fece molto più male al suo
piede che non alla sega meccanica. Stavano ancora urlando e imprecando quando Alexius, sentendosi molto più in pace con se stesso di quanto non si fosse sentito qualche minuto prima, si rimise in piedi e ricominciò la propria ricerca. Stava passando davanti al negozio di un fabbricante di serrature nella piazza successiva quando sentì il segnale. Non aveva niente a che fare con quello che si era aspettato, ma fu comunque inequivoco; un'improvvisa pressione mentale, simile alla sensazione che si diffonde nell'aria quando sta per scatenarsi un temporale, solo in questo caso enormemente concentrata: un po' come il sidro rispetto al succo di mela. Cominciò ad avvertire una violenta emicrania. Si bloccò immediatamente, certo che la fonte di quella sensazione si trovasse all'interno del negozio. Uno sguardo attraverso l'entrata gli mostrò il fabbricante, un uomo anziano da cui una volta Alexius aveva acquistato un chiavistello (quindi non era lui la fonte) e un uomo e una donna, chiaramente stranieri. Interessante; così la teoria di Gannadius sembrava essere giusta, dopo tutto. L'uomo era alto e magro con zigomi alti e un viso amichevole, vagamente comico. La donna era chiaramente sua sorella gemella. Gli venne in mente qualcosa che aveva letto parecchio tempo prima a proposito di gemelli e poteri naturali: un'attraente teoria sul fatto che due menti con una spontanea, insita empatia attraessero in qualche modo il Principio, come il rame attira il fulmine. La ragazza era straordinariamente simile al fratello, eppure nello stesso tempo bella, mentre lui non lo era e al massimo poteva avere un'aria strana. Quando Alexius la guardò si sentì serrare il cranio in una morsa di mal di testa. Era così dunque. Si rese conto che sarebbe stato di grande aiuto se si fosse preparato per quel momento e se avesse deciso prima quello che avrebbe detto. C'era tuttavia una ragionevole probabilità che il fabbricante lo riconoscesse e lo accogliesse in modo tale da rendere palese a qualunque visitatore straniero che si trovava in presenza di una delle autorità locali. Si infilò una mano in tasca, verificò di avere un po' di denaro con sé ed entrò nel negozio. La cosa si mise bene. Il fabbricante e lo straniero erano impegnati in qualche complicata trattativa e a quanto pareva un elemento di distrazione era tatticamente vantaggioso per il commerciante, il quale si interruppe immediatamente e accolse con grande reverenza l'illustre cliente, chiedendo in maniera esplicita ad Alexius se fosse soddisfatto del chiavistello che aveva comperato da lui. Le parole Per graziosa conces-
sione del Patriarca di Perimadeia sembravano sospese nell'aria come la nebbia sul mare di primo mattino. I due stranieri si scambiarono uno sguardo. Stava funzionando. «Non volevo interrompervi» disse Alexius. «Non ho particolarmente fretta.» Dopo un attimo di esitazione gli stranieri e il fabbricante ripresero le loro schermaglie commerciali che sembravano ruotare intorno a un prezzo speciale per quattro dozzine di chiavistelli con le relative chiavi e viti per fissarli. Alexius stava domandandosi come avviare una conversazione con la ragazza quando si rese conto che non sarebbe stato necessario. «Scusate» disse lei «ma mi domandavo una cosa. Ho sentito parlare così tanto di voi e del vostro ruolo. È vero che siete capace di fare incantesimi?» Sarebbe stato molto meglio se la testa non gli avesse fatto così male, ma riuscì a ignorare il relativo senso di disagio. Sorrise. «Non è così» rispose. «È vero che gli studi scientifici e filosofici a cui ci dedichiamo ci consentono di capire alcuni astrusi principi di natura che, in generale, nessun uomo comune è in grado di cogliere; in conseguenza e in maniera del tutto incidentale rispetto a quello che ci proponiamo effettivamente di fare, riusciamo a generare certi, chiamiamoli effetti che un osservatore superficiale potrebbe scambiare per magia. Ma non possiamo trasformare il piombo in oro o gli uomini in rane, né volare o scagliare fulmini.» Le ci volle un po' di tempo per tradurre nella propria testa l'intero discorso e a quel punto non riuscì a nascondere un certo disappunto. «Oh» disse. «Ho sempre sognato di incontrare un vero mago. Uh, mi dispiace. Mi sono espressa in modo terribilmente ineducato.» Alexius le rivolse un sorriso da vecchio zio. «Niente affatto» disse. «Anch'io ho sempre sperato di imbattermi in uno. Ma la cosa più simile a un vero mago che posso mai sperare di incontrare è qualcuno con un talento naturale.» «Oh? Che cosa intendete dire?» Con la coda dell'occhio Alexius sorvegliò a che punto fosse la trattativa; sembrava stare complicandosi se possibile ancora di più. La testa sembrava sul punto di scoppiargli... È lei la causa. Vuole parlare con me senza essere interrotta e allora fa in modo che la trattativa diventi più ostica. Come...? «Ah» disse Alexius alla fine «vorrei potere essere più chiaro. Vedete, le
gente con poteri naturali è molto rara e le probabilità di incontrare davvero qualcuno sono molto piccole, per lo meno qui nella città. A quanto pare, da queste parti non riusciamo a produrne.» «Capisco. E allora da dove vengono?» Alexius inarcò un sopracciglio «Abbastanza curiosamente» improvvisò «un numero sorprendente dei casi documentati sembra essere stato proveniente dall'Isola. Ho ragione se penso che anche voi...?» La ragazza sembrava raggiante. «È esatto» rispose. «È proprio da lì che veniamo. Oh, suppongo che la cosa sia ovvia» aggiunse «per via del nostro accento e dei vestiti. La cosa bizzarra, comunque, è che non ho mai sentito dire che qualcuno dei miei connazionali sapesse usare la magia.» «Di nuovo quella parola» disse Alexius. «Il punto è che sarebbe possibile vivere nella stessa città con qualcuno dotato del talento naturale per cinquant'anni, senza mai accorgersene. Il potere di chi si trova in questa condizione consiste nel fare accadere cose: cose perfettamente ordinarie, di tutti i giorni, che non attirano l'attenzione di nessuno; fanno cadere una tegola da un tetto, litigare due uomini sul prezzo del latte; il punto è che è lui a fare sì che queste cose accadano. Molto probabilmente» aggiunse, massaggiandosi le tempie inconsapevolmente «senza neanche rendersene conto.» «Bizzarro» disse la ragazza. «Quindi anch'io potrei avere dei poteri naturali e non esserne neanche consapevole?» Il dolore non era più una semplice fonte di irritazione; ora ormai praticamente intollerabile e Alexius riusciva a malapena a mascherare il suo disagio. Nonostante questo, ebbe la sensazione che la cosa si stesse rivelando un po' troppo facile. «È possibile» disse. «Straordinariamente improbabile, naturalmente, dato che ci sono così poche persone del genere...» «Che siano a vostra conoscenza» lo interruppe la ragazza. «Quello che voglio dire è che si limitano a causare cose del tutto normali senza scatenare uragani o trasformare la gente in rospi, come potreste individuarli? O se ne incontraste uno voi sareste in grado di riconoscere le sue facoltà?» Forse, pensò Alexius fra sé, il dolore è una sorta di tattica diversiva, in modo da fare sì che io sia così preoccupato da non realizzare che sta menandomi per il naso. Ma per quale ragione dovrebbe farlo? «Non avendone mai incontrato uno non saprei che cosa dirvi. È proprio
questo il punto, vedete; il fenomeno è così raro che non se ne sa praticamente nulla. Per quanto ne so io» aggiunse, consapevole di stare forse per infilarsi in una vera e propria imboscata, ma desideroso ormai solo di mettere fine a quella conversazione, in modo da potersi allontanare e fare diminuire l'emicrania «un abitante dell'Isola ogni sei, oppure ogni dodici o in qualunque proporzione preferiate, anche tutti, potrebbe possedere in una certa misura quel genere di talento naturale. È possibile, ma naturalmente nessuno fino a ora ha fatto ricerche in questo senso. Sarebbe uno studio interessante» aggiunse con tutta la convinzione che riuscì a fingere. «Davvero?» La ragazza sembrava interessata e compiaciuta. «Allora che cosa ne direste... No, vi prego, dimenticate le mie parole. Sono sicura che avete moltissimo da fare.» Mentre rispondeva che se per caso stava proponendo se stessa e suo fratello come soggetti di studio, lui e i suoi colleghi ne sarebbero stati veramente felici, Alexius poté quasi sentire l'amo infilzarglisi nel labbro. Naturalmente a quel punto era troppo tardi e poi quella dannata emicrania... «Ammesso» aggiunse «che vostro fratello abbia tempo...» «Oh, non avevamo fatto nessun programma per oggi pomeriggio. Venart» aggiunse, dandogli una gomitata nelle costole «non abbiamo nessun impegno questo pomeriggio, vero?» «Cosa? Oh, no. O meglio, non volevamo andare a dare un'occhiata alla seconda città? Mi pareva che tu volessi vedere l'Accademia e...» «In questo caso» disse Alexius (e poté quasi sentire i fili che lo facevano muovere come una marionetta di legno in un teatrino per bambini) «consentitemi di farvi da guida. Ci sono svariate cose di un certo interesse a cui normalmente il pubblico non può accedere...» «Oh, che cosa meravigliosa!» Alla ragazza scintillavano gli occhi e la sua emicrania... «Oh, Venart, facciamolo! Sarà divertentissimo.» Non molto tempo dopo Alexius scortava i suoi due nuovi compagni attraverso la porta che immetteva al secondo livello. Ogni volta che faceva un passo, era come se facesse forza su un osso fratturato. C'era solo una piccola consolazione; che di lì a poco anche Gannadius avrebbe avuto un bel mal di testa. Tutto considerato, si disse che gli stava bene. Dopo un giorno di cavalcata Temrai era irrigidito e dolorante, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Dopo tutto era il capo di una nazione di
cavallerizzi. «Ci fermiamo qui» annunciò quando il dolore alla base della spina dorsale divenne maggiore di quanto potesse sopportare. «C'è acqua e possiamo accamparci sotto gli alberi.» Jurai si strinse nelle spalle. «C'è ancora un'ora di luce» obiettò. «Stavo proprio pensando che se insistessimo ancora per un po' potremmo raggiungere il guado di Okba prima che faccia buio.» «Ci fermiamo qui.» «Come vuoi.» Jurai tirò verso di sé le redini e poi scivolò dal dorso del cavallo atterrando agilmente sulle punte dei piedi. Una volta ne ero capace anch'io, rifletté cupamente Temrai. Solo pochi mesi fa lo sapevo fare perfettamente. Si limitò invece ad aspettare che il suo compagno avesse girato la schiena e poi scese faticosamente dal cavallo, atterrando in modo goffo su un lato del piede sinistro. Interessante, si disse; conosco Jurai fin da quando ero bambino ed era il Primo Cavaliere di mio padre. Dei, come mi sembrava importante allora; e adesso eccolo qui, che fa quello che gli dico io. Decise di fare un esperimento. «Jurai» disse nel tono più casuale possibile «fai una corsa a riempirmi di acqua la borraccia, grazie.» Tese il recipiente, aspettandosi da un momento all'altro uno scappellotto dietro l'orecchio. Al contrario Jurai lo prese senza fare obiezioni e corse... Sì, corse dopo una dura giornata a cavallo... verso il fiume. Stupefacente, pensò Temrai; posso dargli ordini, quasi come se fossi mio padre... Già. Be', solo per il fatto che posso non significa che devo farlo. «Va bene» gridò a Jurai che aveva cominciato a raccogliere legna per accendere un fuoco «ci penso io. Tu bada ai cavalli.» Mentre stringeva le pastoie e levava agli animali le briglie, Jurai aveva un risolino stampato in faccia; è naturale, si disse, mi conosce come mi conosco io, non potrebbe essere diversamente dopo tutti questi anni. Solo che non sa che cosa è successo mentre risiedevo nella città. Non sa che ci sono così tante cose da apprendere. «Bene, dunque» disse una volta che il fuoco fu acceso (se non altro sono ancora in grado di avviare un fuoco; ringrazio gli dei per questo) ed ebbero eretto la siepe di rami secchi e spinosi che nessun viaggiatore delle pianure si sarebbe mai sognato di tralasciare quando gli capitava di dormire fuori da un carro «sarà meglio che tu mi faccia un quadro di quello che è successo.»
«A parte l'evento fondamentale, non molto» rispose Jurai, imbarcandosi subito dopo in un succinto eppure interminabile racconto che includeva lo stato del bestiame (comprese le perdite subite a causa dei lupi, delle malattie, delle bestie che si erano semplicemente smarrite e di quelle che erano state spazzate via dalla corrente traversando un fiume), la morte di alcuni vecchi cavalli, la doma di nuovi puledri, la mungitura del latte, la produzione di formaggio, il numero di pelli conciate e immagazzinate, svariate liti, risse, cospirazioni, adulteri, fidanzamenti, i risultati delle corse dei cavalli, delle partite di polo, di quelle di scacchi, dei tornei di tiro con l'arco e delle competizioni musicali; il tutto senza trascurare un breve rapporto sullo stato delle strade più importanti, dei guadi e dei passi montani, la morte di alcune persone anziane, la nascita di svariati bambini, alcuni incidenti fatali, una serie di ferite trascurabili e altre più gravi e una malattia in corso che avrebbe potuto causare la morte dei pazienti. Concluse informandolo che un uomo era stato accecato per avere tagliato i tendini del cavallo di un suo nemico, che due tende erano state sradicate da un vento anomalo e che tutte le perdite e i danni erano stati rimborsati per speciale disposizione del capo attingendo alle riserve del clan. C'era stata anche una scorreria fallita da parte di alcuni banditi grazie a un pastorello (opportunamente lodato per la sua azione e premiato con un cavallo prelevato dal branco del capo) che li aveva visti avvicinarsi. Il tutto si era concluso con la perdita di alcune frecce, senza che fosse stata rubata alcuna bestia e senza feriti da entrambe le parti. «E questo è più o meno tutto» concluse, bevendo una sorsata d'acqua dalla borraccia. «Che cosa mi racconti di te? Ho l'impressione che tu abbia ottenuto tutto quello per cui ti eri recato in città.» Temrai annuì. «Se dicessi che sarà una cosa facile» disse «gli dei mi sentirebbero e non lo sarebbe più. Diciamo che mi sono fatto una ragionevole idea di quello che dovremo fare.» «E la città?» continuò Jurai, evitando il suo sguardo. «Che cosa ne dici? Com'è veramente?» «Ah.» Temrai scosse la testa. «Jurai, non potresti credere com'è veramente. È...» Esitò. «È diversa» disse alla fine. «Solo diversa?» «Veramente diversa.» Temrai fece un gesto di disperazione. «Soprattutto nelle piccole cose, a parte le vere grandi differenze, è ovvio.» «Mio Signore Temrai» lo interruppe Jurai a voce bassa e in tono vagamente sarcastico «trovo veramente difficile credere che tre soli mesi
passati in mezzo al nemico possano averti fatto completamente dimenticare come si fa un rapporto coerente.» Temrai sollevò lo sguardo; irato dapprima, poi vergognandosi per essersi arrabbiato. La voce gli aveva fatto venire in mente quella di suo padre, morbida, sardonica, capace di essere più tagliente di una verga di nocciolo. Annuì seccamente. «Hai ragione» disse. «Molto bene, allora. Sarà un buon esercizio per quando sarò tornato indietro.» Si interruppe e si concentrò per un momento. «Le mura della Città della Spada, dal lato che fronteggia la confluenza dei due fiumi sono alte circa quindici metri, larghe sei alla base e cinque alla sommità, sicché due carri possono incrociare sul camminatoio andando in direzione opposta. Ci sono delle torri di guardia ogni centoquaranta metri e ognuna si staglia altri otto metri al di sopra della linea dei bastioni; è in grado di fornire una perfetta copertura a una dozzina di arcieri, a una macchina balistica e a una squadra di addetti. In ogni torre c'è una scorta di millecinquecento frecce e di cinquanta proiettili per la catapulta. Le torri vigilano anche sulle rampe di scale che collegano i bastioni al suolo. Le quattro porte dal lato di terra sono tutte affiancate da bastioni in grado di ospitare duecento arcieri, cinque normali macchine balistiche e una di quelle di tipo più pesante, da utilizzare contro le torri d'assedio e gli arieti. I ponti che attraversano i fiumi finiscono con ponti levatoi e l'acqua del fossato è più o meno profonda sette metri, anche se il fondo è piuttosto solido. Mura e torri sono in buono stato di manutenzione, i meccanismi dei ponti levatoi sono perfettamente funzionanti e adeguatamente protetti e le catapulte vengono esaminate spesso e usate a scopo di addestramento dalle squadre cui sono affidate permanentemente...» Jurai annuì. «Continua» disse. «Una volta superate le mura» proseguì Temrai «una forza d'invasione avrebbe grandi difficoltà ad avanzare in maniera ordinata nel caso che la città bassa venisse difesa con convinzione. Le strade sono abbastanza strette da poter essere bloccate in fretta e la disposizione delle vie laterali e dei vicoli rende abbastanza probabile che la forza d'invasione venga aggirata sui fianchi e circondata con ben poco preavviso. Dare fuoco alla città bassa probabilmente finirebbe per intrappolare gli invasori e rendere loro impossibile la ritirata. Le difese sono state progettate in modo da poter essere tenute da un numero relativamente piccolo di uomini e qualunque rinforzo decisamente al di sopra dell'optimum molto probabilmente finirebbe per rivelarsi un ostacolo più che un aiuto. Personalmente ritengo
che il numero ottimale sia a spanne di cinquemila arcieri e tremila uomini d'arme, il che più o meno corrisponde al numero di uomini addestrati che in ogni momento sono pronti a intervenire. Si tratta di una forza che può essere mobilitata e in posizione entro venti minuti dal suono dell'allarme; c'è anche una riserva di circa diecimila uomini abili, con un rispettabile addestramento e un buon equipaggiamento. Quanto alle scorte militari dei più vari generi, non sono riuscito ad avere nessuna informazione davvero esauriente, probabilmente perché non è disponibile; hanno immagazzinato di tutto per molti anni e dal punto di vista pratico probabilmente le scorte vanno considerate infinite, senza contare la capacità di produzione giornaliera dell'arsenale della città.» «Va bene» mugugnò Jurai. «Ma si batteranno?» Temrai annuì. «Oh, sì» disse. «Su questo non c'è dubbio. Non sono un popolo bellicoso, ma la loro storia è piena di assedi e di tentati assalti sia da terra che dal mare. Sono allevati fin da bambini nell'attesa di un aggressione: l'ultimo attacco avvenne trenta anni fa, quando un'armata di rispettabili dimensioni e qualità fu inviata da una coalizione di stati facenti capo alle città d'occidente; fu praticamente distrutta dalle catapulte a lunga gittata installate sulle mura dal lato del mare prima che le navi avessero la possibilità di arrivare a tiro. Sostengono di avere affondato più di duecento vascelli nel corso di una sola giornata e se tu avessi visto le catapulte capiresti che non si tratta di una sbruffonata.» «Va bene» disse Jurai «supponiamo di essere riusciti a impadronirci della città bassa. Che cosa succede poi?» Temrai annuì. «Il muro che separa la città bassa dalla seconda città non è né alto né spesso come le mura di terra, ma il gradiente su cui sorge e il modo in cui gli edifici ai suoi piedi sono attaccati gli uni agli altri lo rendono, se possibile, un ostacolo ancora più arduo. Le torri di guardia seguono più o meno il solito schema e sono piazzate a intervalli di un centinaio di metri; ospitano solo una guarnigione ridotta, ma sono fornite ampiamente di frecce e altre riserve. I maggiori granai sono tutti nella seconda città, così come le principali cisterne, da cui anche la città bassa preleva l'acqua che le serve. In caso di emergenza, c'è abbastanza spazio da consentire all'intera popolazione di quest'ultima di ritirarsi nella seconda città, se si rendesse necessario evacuarla e peraltro da molti anni esistono piani per affrontare questa contingenza, che sono ben conosciuti dai cittadini anche se è diverso tempo che non viene fatta una esercitazione di evacuazione totale. Sulla città alta non ho informazioni, perché solo ad
alcuni alti ufficiali viene consentito di recarvicisi; si mormora che lassù vi siano grandi cisterne per la raccolta dell'acqua piovana e altri granai, oltre a una guarnigione permanente di truppe d'élite, che costituiscono la guardia personale dell'Imperatore.» «Capisco» disse Jurai, smuovendo il fuoco con un lungo bastone. «E tu pensi di essere riuscito a individuare un modo per aprire questa specie di cassaforte?» «Non io» rispose Temrai con un risolino. «Sono stati loro stessi, anni fa. Poi si dimenticarono di averlo fatto.» Sospirò e si lasciò andare all'indietro, appoggiando la schiena alla sella. «Ecco cosa sono quelli di Perimadeia. Gente troppo acuta perché la cosa non si ritorca contro di loro.» «Ebbene? Hai intenzione di mettermi a parte del segreto, o dovrò aspettare fino alla convocazione del consiglio?» «Dovrai aspettare anche un po' più a lungo» rispose Temrai con uno sbadiglio. «Comunque verrai a saperlo anche troppo presto, credi a me. In realtà, si tratta di una cosa piuttosto semplice.» Jurai borbottò e staccò un pezzo di pane. «Non riesco proprio a capire come possano vivere mangiando questa roba» disse. «Ti gonfia da morire, ma poi senti di nuovo fame poco tempo dopo.» «Ci si fa l'abitudine» rispose Temrai in tono assonnato. «Solo i ricchi possono permettersi di mangiare carne più di una o due volte al mese e comunque si tratta di roba salata e speziata da fare vomitare. Per due monete di rame puoi avere tutto il formaggio che sei in grado di mangiare, peccato che non sappia di niente. Oh, mangiano anche pesce.» «L'ho sentito dire» rispose Jurai corrugando la fronte. «Anch'io ho mangiato del pesce una volta. Non me ne sono dimenticato tanto presto. Per quel che mi riguarda, possono anche strozzarcisi.» «Il loro è pesce di mare» mormorò Temrai, mentre gli si chiudevano gli occhi. «Nella maggior parte dei casi è essiccato e salato, oppure lo affumicano. Faresti l'abitudine anche a quello. È a buon mercato.» «Che cosa mi dici del bere? Vino e sidro, non è vero?» «È bene andare molto prudenti con quella roba. È diabolica.» «E le donne?» Temrai stava già russando. «Va bene» disse Bardas Loredan, nascondendo i suoi veri sentimenti «fatevi dare un'occhiata.» Non era una vista che ispirasse granché. C'era un ragazzotto lungo e
dinoccolato di circa diciotto anni, con un accenno di barba gelosamente curata su quel poco di mento che aveva; un altro gli somigliava molto, ma non aveva accenno di barba; c'era poi un ragazzone imbronciato che poteva avere sedici anni, in una versione nuova e appena un pelo troppo stretta di quella che i ricchi agricoltori di Lussa supponevano fosse la moda del momento in città; il successivo era un ragazzino minuto e filiforme con la faccia da bambino che forse avrebbe potuto essere adatto, se solo fosse stato una ventina di centimetri più alto e una ventina di chili più pesante; al suo fianco una ragazza che lo fissò negli occhi; infine un giovanotto grassoccio e di buona famiglia, che a ventiquattro anni era già troppo anziano e poi palesemente disinteressato. Grandioso. Fece un respiro profondo. «Cominciamo dall'inizio» disse. «I vostri nomi.» In realtà sapeva già come si chiamava la gran parte, senza bisogno di chiederglielo. Il massiccio contadino si chiamava Ducas Valier; se uno avesse lanciato per aria una manciata di sassolini in una fiera del bestiame, in una qualunque delle città di Lussa in cui si teneva mercato, si poteva stare sicuri che avrebbe colpito almeno tre Valiers, uno dei quali si sarebbe immancabilmente chiamato Ducas. Il ragazzo con la barba era Menas Crestom: un nome da cittadino, probabilmente del distretto dei vasai o di quello dei mattonai; probabilmente era il figlio più giovane di una famiglia arricchitasi grazie alla generazione precedente e con idee deprimentemente fuorviate su cosa significasse aiutare un ragazzo a partire nella vita con il piede giusto. La sua quasi copia senza barba apparteneva allo stesso tipo di gente; nelle fonderie si potevano contare più Corrers che non pile di scorie di metallo fuso o macchie di ferro traboccato e almeno un quarto dei ragazzini della sua età in città si chiamavano Folas, in onore di Folas Manhurin, campione di pugilato per cinque anni consecutivi un quarto di secolo prima. Il ragazzo filiforme aveva un nome tipico dei suburbi orientali, Stas Teudel, e quello ricco inevitabilmente era un Teo-qualcosa, anche se si trattava di una variazione che risultava nuova a Loredan: Teoblept Iuven. Quando sentì il nome di famiglia del ragazzo, Loredan chinò inconsapevolmente il capo. Un secolo prima gli Iuven erano stati proprietari di cinquanta delle migliori navi mercantili della baia; al giorno d'oggi vivevano tuttora in uno dei più prestigiosi palazzi della seconda città, ma i loro sarti insistevano nel pretendere un acconto prima di mettersi a lavorare agli abiti. Quanto alla ragazza era un tipo anonimo, che si tendeva a dimenticare un attimo dopo avere distolto lo sguardo; con un
po' di fortuna, probabilmente avrebbe risposto a un semplice «Tu» e a un cenno del capo nella sua direzione. «Passiamo al secondo punto» disse. «I soldi.» Tutti tirarono fuori la borsa da sotto la giubba, o la staccarono dalla cintura o la sfilarono da dove la tenevano, cioè appesa al collo sudaticcio. Mastro Iuven gli porse un pezzo d'oro da cinque, scusandosi con aria di sufficienza per il fatto di non avere niente di più piccolo. Loredan lo scusò e tenne la differenza a titolo di acconto per il prosieguo. «Bene» disse Loredan. «Adesso possiamo dedicarci alla vostra istruzione. Chi ha portato una propria spada? Nessuno?» Sfortunatamente ce l'avevano tutti, eccettuata la ragazza; si trattava di una così eccentrica collezione di mercanzie metalliche, che uno si sarebbe aspettato di trovarla solo in una discarica. Il contadinotto sollevò una spada larga vecchia di due secoli che sarebbe stata una vera manna al tempo in cui gli uomini andavano in battaglia coperti da trenta chili di piastre d'acciaio e cuoio indurito. Probabilmente un collezionista gliela avrebbe pagata bene, nonostante le mancasse la punta e fosse pesantemente intaccata. I tre ragazzi di città offrirono orgogliosamente alla sua ispezione l'ultimo grido in materia di spade vistose e di poco prezzo: il giovane Mastro Teudel sembrò profondamente offeso quando Loredan ne distrusse l'orgoglio e la gioia piegando quasi in due la sua spada su un ginocchio senza alcuno sforzo apparente. Il virgulto della nobiltà aveva una autentica Frascanum, che Loredan gli disse immediatamente di mettere via e di non guardare neanche più per almeno sei mesi, ricordando che un po' di tempo prima si era mantenuto per quasi otto mesi grazie ai proventi della vendita di una di quelle spade. Poteva immaginare la faccia di paparino se l'erede di famiglia fosse tornato a casa dopo il primo giorno passato a fare pratica di parate, con cinque tacche su ciascun taglio della lama e senza il leone finemente cesellato che al momento ornava una delle due estremità dell'impugnatura. «Fortunatamente» disse «ho avuto la preveggenza di portare un po' di spade da pratica, che vi affiderò quando vi sarete meritati abbastanza fiducia. Per il momento useremo spade di legno, con le quali» aggiunse in tono lugubre «è perfettamente possibile per non dire fatalmente facile, cavare un occhio a qualcuno se si sta meno che attenti.» Allungò loro le lame di legno; ottanta centimetri di asta da freccia infilata su una semplicissima elsa di pino e con una grossa imbottitura in punta, giusto nel caso che qualcuno fosse riuscito a mettere a segno un colpo contro il compagno
con cui si allenava. Fortunatamente era riuscito a procurarsi un'intera cassa di aste a poco prezzo; c'era da scommettere che almeno uno di quegli idioti sarebbe riuscito a spezzare la sua lama già durante la prima giornata. Nelle mattine particolarmente rigide riusciva ancora a sentire gli effetti dello schiaffo su un orecchio che aveva ricevuto dal Mastro Gramin proprio per avere commesso una simile sciocchezza. Finì per dimostrarsi una lunga giornata; ma ora dell'orario di chiusura delle Scuole Loredan aveva insegnato ai suoi improbabili allievi i principi elementari di entrambi i tipi di guardia, il passo avanzato e quello all'indietro, l'affondo rannicchiato e l'arretramento nella stessa posizione lungo una linea retta tipico della scuola di scherma della Città e il movimento circolare a schiena eretta che apparteneva invece alla vecchia scuola, fino a quando nonostante la propria naturale inettitudine e dei difetti individuali cominciarono a somigliare almeno un po' a degli spadaccini. Le scuole di alta classe, come sapeva perfettamente, non si avvicinavano neppure alle mosse della vecchia scuola fino alla fine della prima settimana e anche allora gran parte degli allievi tendevano a muoversi come delle vecchiette colte di sorpresa nel cuore della notte. Dei suoi sei, rifletté mentre si abbandonava su una sedia nella più vicina taverna decente (la nuova regola era «niente osterie», ma per una volta non sarebbe stato grave), i due ragazzi alti e pelle e ossa facevano più o meno quello che gli veniva detto e sembravano disperatamente desiderosi di imparare. Conosceva il tipo; ne aveva ammazzati parecchi come loro nell'arco degli ultimi dieci anni. Il contadino non era né goffo né stupido come sembrava e con la sua ovvia forza avrebbe potuto diventare un bravo combattente nello stile Zweyhender, ma Loredan era quasi certo che avrebbe mollato tutto nel giro di una settimana o due. Il ragazzino filiforme che veniva dai suburbi si era rivelato una causa persa in partenza; avrebbe finito per imparare i diversi colpi a furia di ripeterli, ma non dava il minimo segno di essere in grado di usare il cervello. Consentirgli di fare l'avvocato a Perimadeia sarebbe stato un autentico omicidio a sangue freddo. Mastro Iuven si era dimostrato irritantemente abile una volta che si era degnato di prestare attenzione, ma Loredan sapeva già che non sarebbe mai diventato uno spadaccino, che si volesse dire per codardia o perché aveva abbastanza buonsenso da evitare i combattimenti. Il che lasciava solo comediavolosichiamava. La ragazza. Quasi tutti gli abominevolmente numerosi romanzetti di ambiente giudiziario sfornati in grande profusione dagli scribacchini di professione e
da uno sterminato numero di amatori senza talento avevano per eroina un'adorabile spadaccina, sottile come un giunco, ma veloce e mortale, capace di infilzare il grande avvocato o di aprirsi un varco attraverso qualunque numero di banditi, pirati e guerrieri barbari. Di tanto in tanto Loredan si era preso la briga di spiegare ad alcune delle sue conoscenze esattamente perché quella poetica invenzione fosse impossibile; che senza peso e allungo e senza un polso abbastanza vigoroso da deviare la spada dell'avversario, tutta la velocità e l'agilità di questo mondo non sarebbero state sufficienti per sfuggire a una rapida morte. Aveva spiegato loro con quanta rapidità le braccia e le ginocchia si stancassero, come un fendente vibrato a piena forza da un uomo di novanta chili avrebbe fatto volare letteralmente per aria una fanciulla giovane e carina anche se la sua parata fosse stata da manuale; come, in breve, l'aula di un tribunale non fosse adatta a una donna e neanche ad alcuna persona per bene, se era solo per questo. Continuava a pensarla nello stesso modo; tuttavia la ragazza aveva talento. Naturalmente non era affatto sottile come un giunco. Non c'era grasso superfluo su di lei, ma era forte e sicura sui piedi; era chiaramente abituata a lavorare, anche se non in una fattoria a giudicare dalle mani. Loredan supponeva che si trattasse della figlia unica di qualche artigiano; una figlia che faceva un lavoro da figlio maschio perché qualcuno doveva farlo e non c'era nessun altro che lo potesse fare. (Nel qual caso, che cosa diavolo ci faceva lì?) La cosa più importante, però, era la sua determinazione. Non era la foga infantile dei due pseudo gemelli alti e magri; non dava la sensazione di qualcuno che finalmente realizzasse il suo sogno di bambino, non si divertiva. Era quasi come se si trattasse di qualcosa che doveva fare bene, che le piacesse o no, come se la sua vita dipendesse da questo. Sempre pensando a lei, Loredan scrollò la testa e bevve una lunga sorsata di sidro. La sensazione sgradevole che gli comunicava andava al di là del suo poco amore per le spadaccine. Era... ...qualcosa di personale. Sbadigliò, improvvisamente consapevole di quanto fosse stanco. Il giorno dopo avrebbe dovuto insegnare a quei defatiganti ragazzini come impugnare, un altro po' dei passi di base e gli elementi essenziali della difesa. Avrebbe dovuto farli impratichire nell'affondo e poi fargli riprovare tutto quello che aveva spiegato fino a quel momento, facendo in modo che se lo ficcassero bene in testa. Questo a patto che gli reggesse la voce e che
non venisse accidentalmente infilzato oppure che non perdesse la pazienza e non finisse per ammazzarne uno. Se fosse stato veramente fortunato sarebbe riuscito a istruire questo gruppetto, a liberarsene e a ricominciare tutto da capo con un altro branco di incapaci. Stavolta mi sono veramente incastrato da solo. Sì. be', almeno nessuno stava cercando deliberatamente di assassinarlo. Aveva veramente voglia di un'altra brocca di sidro. Invece si alzò, raccolse le sue borse e le altre sue proprietà e si incamminò verso casa, attraverso la città e poi su per la scalinata. C'era qualcuno che lo aspettava sulla soglia. Lo vide, di chiunque si trattasse, prima che lui o lei riuscissero a scorgerlo e si appiattì contro il muro appena al di fuori del fioco cerchio di luce proiettato dalla torcia. Una volta che si fu calmato realizzò che se la figura ammantellata e imbacuccata era quella di un assassino, doveva trattarsi di uno proprio incompetente; inoltre, chi mai poteva volersi prendere la briga di farlo ammazzare? Un ladro d'altronde non avrebbe sprecato le ore di oscurità standosene nascosto fuori dalla porta in un'area piuttosto povera solo per scommettere sulla improbabile eventualità che il padrone di casa facesse ritorno e che valesse la pena di derubarlo; nel remoto caso che ci potesse essere qualcosa degno di essere rubato, avrebbe spalancato la porta che non era neanche chiusa a chiave, avrebbe preso quello che voleva e se ne sarebbe andato. Comunque. Con cautela e usando solo il tatto, Loredan sciolse il nodo che chiudeva l'imboccatura della sua sacca delle spade e lasciò che essa scivolasse per terra. Poi, nel massimo silenzio che gli riuscì di mantenere dopo avere salito tutte quelle scale, montò gli ultimi gradini e afferrò la torcia. «Athli!» gemette. «Mi hai fatto letteralmente morire di paura.» «Mi dispiace» rispose Athli. Dannazione! Non ci aveva neanche pensato. «Stavo solo passando di qui e...» «Davvero?» Sapeva che non era vero. «Be', farai meglio a entrare. La porta non è chiusa.» Lei stava fissando la spada che stringeva in pugno. Si sentì sciocco. «Mi hai messo paura» disse, rimettendo la torcia nel suo supporto. «È molto che sei qui?» «No» rispose lei. Chiuse la porta dietro di sé e cominciò a trafficare con l'acciarino per accendere la lampada. La pietra era umida; come tutto il resto in quella trappola per topi.
«Perché vivi in un posto del genere?» disse Athli, sedendosi sull'orlo del letto. «Guadagni bene.» «Un tempo» ribatté Loredan, sollevando la brocca del vino e trovandola vuota come al solito. «Mi sono ritirato, ricordi? Ora non sono altro che un anonimo istruttore, con appena sei allievi.» «A un quarto d'argento al giorno fa sei quarti» ribatté lei. «La maggior parte della gente che vive qui è fortunata se vede altrettanto denaro in un mese. Quale è il tuo problema? Non puoi esserti bevuto tutti quei soldi... Saresti morto.» Loredan sogghignò. Non le avrebbe detto niente del pezzo d'oro da cinque che aveva in tasca, per il quale, incidentalmente, avrebbe avuto il resto se avesse voluto. «Affari miei» rispose. «Può darsi che mi piaccia stare qui. Voglio dire, è un distretto così pittoresco che la gente devia dalla sua strada solo per il piacere di sostare sulla soglia delle case.» «Io...» Si fissò le punte degli stivali. «Stavo chiedendomi come te la passassi, tutto qua. Sei allievi; è tanto o poco?» «Sono più o meno nella media, in effetti» rispose. «E, come mi hai fatto notare, se posso continuare così non è un brutto vivere. È un duro lavoro, però.» «Sei bravo a farlo?» Si strinse nelle spalle. «Dammi tempo» disse «è stato solo il mio primo giorno.» Si tolse gli stivali allontanandoli con un calcio e fletté le dita doloranti. «Sono stato afflitto da cinque idioti e una valchiria e ho insegnato loro ad avanzare in linea retta senza inciampare nei propri piedi. Penso che abbiano ottenuto ciò per cui avevano pagato.» Si rilassò contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi. «Dunque, che sei venuta a fare, veramente?» Era decisamente una buona domanda. Naturalmente c'era una ragione per cui una ragazza avrebbe potuto inventarsi una scusa per andare a trovare un uomo che non vedeva da tre interi giorni... Athli era una ragazza, dopo tutto, anche se era una cosa di cui si era sempre vietato di prendere nota se non raramente nei tre anni passati da quando si erano conosciuti. Anzi, era l'unica ragione che gli venisse in mente. Il che avrebbe potuto essere... Imbarazzante. «Non ti fermi mai a pensare, vero?» rispose lei in tono petulante. «Bardas, per quanti avvocati pensi che facessi l'assistente? Ti sei mai fermato a chiedertelo?»
Loredan aggrottò la fronte. «Hai ragione. Non l'ho mai fatto. Sei brava nel tuo lavoro, non c'era motivo di pensare che tu non avessi già fatto una bella pratica con altri.» «Uno» ribatté Athli. «Fino a poco tempo fa. E poi quel maiale egoista si è ritirato alla faccia mia, lasciandomi senza lavoro.» «Oh!» Spalancò gli occhi. «Perché non mi hai mai detto niente?» «Be', certo, avrei dovuto parlarti. Avrei dovuto dirti: Oh, non puoi ritirarti ho bisogno che continui a mettere a repentaglio la tua vita a intervalli regolari in modo che io possa continuare a guadagnare il mio dieci per cento. Non essere così...» «Va bene, capisco il tuo punto di vista. Nel qual caso, scusandomi per il fatto di essere così brutalmente logico, vuoi spiegarmi perché me ne stai parlando adesso?» Athli gli lanciò un'occhiataccia. «Perché ho bisogno di guadagnarmi di che vivere» disse. Lo sguardo duro si sciolse, sostituito da uno imbarazzato. «Mi stavo facendo una domanda. Gli istruttori hanno anche loro assistenti, non è così? Ne hai già ingaggiato uno?» Loredan fece cenno di no. «Pensavo di potermela cavare da solo. Ma perché vorresti abbandonare un lavoro che conosci? Solo perché mi sono ritirato? Hai i tuoi regolari clienti, che ci hanno sempre consentito buoni affari. Ci sono moltissimi avvocati che farebbero qualsiasi cosa per un portafoglio clienti come il tuo.» «Oh, certo» rispose lei, fissandolo con fermezza stavolta. «Comprese le loro vite. Usa un po' d'immaginazione Bardas. Perché credi che abbia fatto da assistente solo a te?» Loredan aggrottò la fronte. «Non ne ho idea» ammise. «Perché hai sempre avuto l'aria di uno che non si sarebbe fatto uccidere» disse con grande calma. «Bardas, non voglio spedire nessun giovane verso la sua morte. Non credo che sarebbe un bel modo di guadagnarsi da vivere. Ho continuato a lavorare con te perché...» «Perché?» «Perché mi fidavo di te» rispose in tono tagliente. «Oh, sapevo bene che la legge delle probabilità diceva che un giorno tu... Avresti perso. Ma non senza che fosse necessario. Non...» «Non a meno che non potessi farne assolutamente a meno?» Le sorrise. «Sono lusingato.» «A ogni modo» disse lei bruscamente «ti ho fatto una domanda. Hai bisogno di un'assistente?»
Loredan rifletté per un attimo o perlomeno finse di farlo. Apparentemente si era sbagliato sul motivo che l'aveva portata lì, ma la cosa aveva comunque senso. Non aveva davvero bisogno di un assistente e non avrebbe potuto pagarla meno del venticinque per cento. Il che avrebbe inciso notevolmente sui suoi guadagni e nonostante ciò sarebbe stato un ben magro profitto rispetto a quello a cui era abituata, anche se lui era stato il solo avvocato per cui lavorasse. (Cosa significava veramente? Ci avrebbe pensato più tardi...) D'altro canto... «Sì» rispose alla fine «a patto che tu sia in grado di procurarmi degli ulteriori allievi e ti guadagni lo stipendio in questo modo. Basandomi sulla mia vasta esperienza di istruttore professionista, di ben ventiquattro ore, suppongo che potrei addestrarne dodici altrettanto bene che sei. Che ne dici?» «Che cosa ne dici di un mese di prova?» suggerì Athli. «Ho un intero giorno di esperienza meno di te in questo campo, ricorda. Potrebbe non piacermi.» Loredan ridacchiò. «Oh, penso che ti ci troverai benissimo» disse. «Perché, a conti fatti, si tratta sostanzialmente di spedire alla morte dei giovanotti. Sarà come ai vecchi tempi.» «Adesso» disse Alexius «chiudete gli occhi e voglio che mi diciate che cosa vedete.» I gemelli abbassarono obbedienti le palpebre; il maschio, Venali, con il volto imbronciato e quella inevitabile espressione imbronciata-madeterminata che è tipica di ogni uomo quando sospetta che qualcuno voglia prenderlo in giro, ma non osa rifiutarsi per timore di commettere un'offesa mortale; la ragazza, Vetriz, con un'espressione rapita di pura beatitudine come c'era da aspettarsi da una bella ragazza che stesse vivendo una meravigliosa avventura. Alexius lanciò un'occhiata al proprio collega; sembrava spaventato a morte e grigio per il dolore. Il Patriarca gli indirizzò un mezzo sorriso: sapeva esattamente come si sentiva. «Vedete niente?» chiese. «Uhm» disse Venart, chiaramente ignaro di che cosa ci si aspettasse da lui. La ragazza scrollò la testa. «Molto bene.» Quella, naturalmente, era stata tutta una sceneggiata per verificare che non fingessero. Stabilito che non era così, Alexius fece un respiro profondo, cercò inutilmente di allentare gli artigli d'acciaio che gli stavano lentamente stritolando il cervello facendoglielo quasi schizzare
dagli orecchi e... Il tribunale. Stavolta, per qualche ragione, i banchi del pubblico erano vuoti; non c'era traccia di giudice, usciere, cancellieri. Non c'era nessun altro a parte l'uomo che adesso sapeva chiamarsi Loredan, con la schiena girata verso Alexius, i piedi ravvicinati e il braccio destro steso dritto davanti a sé, con la spada stretta in pugno nella posizione di guardia tipica della vecchia scuola; c'era anche la ragazza per conto della quale aveva lanciato la maledizione in un tempo che gli sembrava remoto e... «Salve» disse Vetriz. Si era materializzata all'improvviso nella piccola porzione di arena che separava i due spadaccini immobili. Girò loro intorno come se fossero statue in una piazza, ammirandoli. «Lo riconosco» disse alla fine. «È l'avvocato che abbiamo visto l'altro giorno. Anche l'altra è un avvocato? Non pensavo che le donne potessero svolgere questa professione altrettanto bene che gli uomini.» Alexius annuì. Non c'era traccia di Gannadius da nessuna parte; ma lì, finalmente, la testa non gli doleva. «Non vedo tuo fratello» disse. Vetriz si guardò intorno. «Potrebbe non essere riuscito a passare, allora. Che ne è del vostro assistente?» Oh, che peccato che non sia qui a sentirla! Non gli avrei mai permesso di dimenticarsene. «Apparentemente non ce l'ha fatta neanche lui» rispose Alexius, cercando di nascondere la propria apprensione. «Sai, è una cosa davvero interessante. Hai idea di come sei arrivata qui?» Vetriz fece spallucce. «Neanche per sogno. Se è per questo non so neppure come faccio a fare funzionare le braccia e le gambe. Succede, e basta.» Si guardò nuovamente intorno. «Siamo veramente qui, oppure si tratta solo di un sogno o di qualcosa del genere?» «Non lo so» confessò Alexius. «Di solito non è affatto così e proprio questa è la cosa più strana. Di solito... Certo, dire di solito dà l'idea che io faccia questo genere di cose tutti i giorni il che ovviamente non è vero... Di solito comunque si arriva appena un attimo prima di un momento cruciale, nel futuro o nel passato a seconda della ragione per cui si è venuti. Per quanto posso capire, qui non siamo né nell'uno né nell'altro. Non sono neppure sicuro che alla fine dei conti non siamo davvero in un sogno. Oppure, se hai davvero dei poteri naturali, forse fai questo genere di cose in modo totalmente diverso da quello a cui sono abituato.» Loredan, osservò, stava decisamente respirando; e lo stesso valeva per la ragazza. Ma le loro braccia non vacillavano benché mantenessero la guardia e nessuno, per quante migliaia di ore avesse passato ad allenarsi a
mantenere la posizione poteva stare con il braccio teso per più di un minuto o due senza fare il minimo movimento... Ecco la risposta. Ecco cosa stavano facendo; non combattendo, ma allenandosi... E quello non era l'interno di un tribunale, ma la grande arena delle esibizioni nelle Scuole, deliberatamente ricopiata sul modello di una corte di giustizia in modo che quando gli studenti vi facevano l'esame finale, fossero nell'ambiente più realistico possibile. La punta della spada della ragazza vibrò, anche se solo impercettibilmente. Straordinario, mormorò Alexius a se stesso; ha pescato l'immagine dalla mia mente e l'ha spostata indietro... O avanti? Non ne aveva idea... Tutto di sua iniziativa. Non ho assolutamente la più pallida idea di come abbia potuto riuscirci. La ragazza emise un piccolo gemito, che Alexius riconobbe come di pura agonia, e la punta della sua spada vibrò di nuovo. Naturalmente mantenere una certa posizione per un tempo determinato era uno degli esercizi di addestramento più fondamentali (e più ardui) per uno spadaccino. Da quel che ne sapeva, insegnava tutta una serie di utili abilità e tonificava i muscoli come nessuna altra cosa. Alexius, che sapeva perfettamente bene che non avrebbe potuto mai fare niente del genere per più di qualche secondo, sussultò al pensiero. Stavolta il movimento fu più netto e meno controllato; poi Loredan scattò in un affondo, muovendosi troppo velocemente perché l'occhio di Alexius riuscisse a seguirlo. La ragazza parò con quasi altrettanta rapidità dopodiché si scambiarono due o tre colpi fino a quando Bardas non le fece saltare la spada di mano apparentemente senza sforzo, con una rapida torsione del polso. Subito dopo si piegò quasi in due, stringendosi l'avambraccio e imprecando a mezza voce. La ragazza sembrava furiosa con se stessa e non aprì bocca. «Se la cosa può consolarti in qualche modo» ansimò Loredan «è stata una prova decisamente notevole. Stai cominciando a capire come funziona la cosa davvero bene.» «Ho fallito» borbottò la ragazza di rimando. «Ho lasciato che mi batteste.» Loredan le rivolse uno sguardo perplesso. «Andiamo» disse «si suppone che io sia il tuo istruttore.» «Essere bravi non è abbastanza» disse la ragazza. «Si può essere bravissimi e morire lo stesso se si incontra un avversario più bravo.» C'era una
nota nella sua voce che ad Alexius decisamente non piacque; e neanche a Loredan, apparentemente. «Sai» disse «sono veramente contento di essermi ritirato nel momento in cui l'ho fatto. Se c'è una cosa che non ho mai potuto sopportare, sono i perfezionisti.» La ragazza si limitò a fissarlo con uno sguardo carico di rimprovero. È proprio un tipo pericoloso. Tanto per cominciare, che cosa mi è saltato in mente di lasciarmi coinvolgere da un tipo cosi mortifero? «È una cosa davvero divertente» intervenne Vetriz all'improvviso «ma non dovremmo fare qualcosa?» Alexius si girò a guardarla, sbalordito. «Che cosa?» disse. Vetriz corrugò le sopracciglia. «Quando mi avete spiegato tutto questo ambaradan» disse «mi avete anche detto che quando vi capita di andare a tentoni alla ricerca di qualcuno come in questo caso...» Alexius era sul punto di dire qualcosa ma si trattenne. Tutto considerato andare a tentoni era un modo veramente appropriato di descrivere la situazione. «... L'idea non è quella di fare qualcosa? Mi capite? Di interferire, voglio dire. Di raddrizzare i torti, di rimettere le cose a posto. Oppure ho frainteso?» «Be', normalmente...» Per qualche motivo Alexius non riusciva a trovare le parole per spiegarsi. «Vedi, non siamo qui per niente del genere. Ricorda che si tratta solo di un esperimento.» «Oh. Va bene. Pensavo solo che dato che ho visto quest'uomo combattere per davvero e che adesso ha evidentemente un problema con quella creatura decisamente feroce...» Ancora una volta Alexius ebbe la strana sensazione di venire sollevato e mosso lateralmente lungo una fila di caselle, su una scacchiera. «Interferire solo per il gusto di interferire sarebbe terribilmente pericoloso» disse con gravità. «Per non dire, be', molto semplicemente sbagliato. Non abbiamo nessuna idea di cosa ci sia veramente dietro questa situazione.» Bugiardo, disse a se stesso. E la situazione sembrava stare finendo decisamente fuori controllo. A quanto pareva, la dannata ragazza adesso si era iscritta alla sua scuola di scherma; probabilmente stava cercando di farsi insegnare da lui il modo di ucciderlo. Se dovesse saltare fuori che è tutta colpa mia... «Capisco» disse Vetriz. «E allora che cosa volete fare adesso?» «Suppongo» disse Alexius lentamente «che sia venuta l'ora di tornare
indietro.» «D'accordo.» ... Aprì gli occhi e si trovò a fissare direttamente quelli di Gannadius, che era così terrorizzato da avere un'aria quasi comica. Lanciò un'occhiataccia al suo collega per fargli capire che era il caso che si ricomponesse e poi guardò verso Vetriz. Aveva ancora gli occhi chiusi. «Scusatemi» disse Venart diffidente, con gli occhi sempre serrati e con un'espressione che continuava a essere buffa «ma per quanto tempo ancora dobbiamo restare così?» Lei aveva ancora gli occhi chiusi. Se era rimasta indietro e aveva fatto qualcosa dopo che lui se n'era andato... Oh, in nome del cielo che cosa stava succedendo? «Cavolo!» esclamò Vetriz aprendo gli occhi e sorridendo. «Questo sì che è stato stupefacente.» Fissò Alexius con un'espressione raggiante. Aveva le guance in fiamme. «Siete davvero bravo» aggiunse. «Ci avrei giurato che sapevate come usare la magia.» Alexius aveva un'emicrania peggiore del solito. CAPITOLO SETTIMO Gli esploratori dovevano averli avvistati prima che entrassero nel passo di Drescein, perché dall'altra parte trovarono una vera e propria scorta ad attenderli. «Stai bene attento a come ti comporti in questa occasione» gli sussurrò Jurai mentre sbucavano nuovamente alla luce del sole. «Ricorda che è la prima volta che ti rivedono da quando sei diventato il loro capo. La prima impressione è quella che conta.» «Stai tranquillo» rispose Temrai sottovoce. «So che cosa fare.» Non poté comunque fare a meno di avere la sensazione che fosse tutto piuttosto sciocco; in fin dei conti i cinque cavalieri che li stavano aspettando e che erano l'avanguardia del gruppo, li conosceva da sempre. C'era Basbai, che reggeva la bandiera con l'aquila con la solita aria disperatamente solenne; Temrai si ricordava quando Basbai Mar lo aveva inseguito per tutto il campo con un bastone (raggiungendolo alla fine, per sua somma sfortuna) nella sciagurata circostanza in cui lui e la figlia più giovane di Basbai erano stati sul punto d'imbarcarsi in una cauta ricerca nel grande mistero dell'adolescenza. Poi c'era Ceuscai: alto, magnifico
Ceuscai, cinque anni più vecchio di lui, nonché suo campione e difensore dalla involontaria brutalità che si manifestava nei giochi; non era passato poi così tanto tempo da quando aveva trovato finalmente il coraggio di parlare a Ceuscai da pari a pari. E suo zio An che cosa diavolo pensava di fare infagottato in quell'assurdo costume di pelli e piume... Salvo che Anakai Mar era stato alto sacerdote del clan per cinquantadue anni e si mormorava che una volta all'anno giocasse a scacchi con gli dei. Spinse gli speroni contro il fianco del cavallo e lasciò che Jurai facesse del suo meglio per non restare indietro; l'occasione esigeva un po' di spettacolo; era una cosa alla quale avrebbe dovuto comunque abituarsi. Quando fu a pochi metri dai cinque esploratori fece piegare lateralmente il cavallo e, a un galoppo appena rallentato, sfilò orizzontalmente davanti a loro. Una volta all'altezza di Basbai allungò una mano, afferrò la bandiera strappandogliela di mano e la sollevò in alto, riuscendo in qualche modo a non rallentare e a non farsela sfuggire. Il centinaio e più di cavalieri che seguiva l'avanguardia esplose in un urlo di entusiasmo... Il che gli sembrò giusto, perché era stata una bella esibizione di equitazione specialmente considerando che era del tutto fuori allenamento. Fece una giravolta, sollevò di nuovo lo stendardo, lo restituì a Basbai nel passargli davanti, girò nuovamente su se stesso e andò a fermarsi davanti allo zio An, che gli fece l'occhiolino senza peraltro abbandonare la sua espressione monolitica. «Salute a te, Temrai-me-Mar» tuonò lo zio An, usando il suo tono professionale. «Possa nostro Padre Temrai vivere in eterno.» Poi, usando la sua voce normale, a voce abbastanza bassa da non potere essere udito da quelli che lo seguivano, aggiunse: «Sei ingrassato, caro il nostro Temrai. Se non altro ti hanno dato da mangiare come si deve.» «Non farmi ridere, zio An, o finirò per cadere da cavallo.» Temrai sollevò la mano destra in un saluto solenne e la tenne alta mentre i cinque uomini più importanti e prestigiosi del clan scendevano di sella e si inginocchiavano davanti a lui sul duro suolo. Lo stanno facendo con autentico trasporto, realizzò Temrai, e per un attimo si sentì a disagio. Ma fu solo questione di un secondo. Ciò che significava, era che volevano che assolvesse bene al suo ruolo e che avrebbero fatto di tutto per aiutarlo. Il minimo che poteva fare era cercare almeno di provarci. Fece un respiro profondo e si augurò che non gli tremasse la voce. «Sono Temrai ker-Sasurai Tai-me-Mar» si sentì dire. «Alzatevi in piedi, figli miei.»
Dei, che rappresentazione! Cercò di richiamare alla mente il modo in cui suo padre affrontava abitualmente quel genere di situazioni; ma non fu di grande aiuto, in tutta sincerità. Dopo tutto, suo padre era stato il capo e uno tendeva a dare per scontato che il capo sapesse cosa stava facendo... Poi gli sovvenne che suo padre era morto. E che adesso il capo era lui. E, ciò che era peggio, suo padre era morto ma Temrai non poteva piangerlo o anche solo parlare mai più di lui, neanche con la famiglia o con i suoi più intimi amici, perché naturalmente il capo viveva in eterno... Voglio tornare a casa, pensò. Sono a casa. Cominciò di nuovo a sentirsi meglio una volta che il campo fu in vista; poi di colpo si sentì drasticamente peggio. Quello che aveva veramente voglia di fare era balzare da cavallo, correre alle tende, fare due carezze ai cani, dare a tutti quelli che incontrava il loro regalo, precipitarsi a cercare Pegtai e Soritai e Felten e Codruen giusto per dire loro ciao prima che suo padre tornasse... Rallentò e si incamminò per la strada principale in mezzo a due file di tende, con la testa alta e la schiena dritta, come gli avevano insegnato. La gente stava uscendo per venirlo a vedere, ma nessuno agitava una mano o gridava; perfino i cani stavano un passo indietro agitando la coda in modo incerto, come se temessero che fosse arrabbiato. Non aveva mai visto il campo così tranquillo fino ad allora. È sciocco. Anzi, non lo è. È il modo in cui il clan si deve comportare in presenza del capo. Anche suo padre... Anche Sasurai Tai-me-Mar si era sentito in quel modo, si chiese, la prima volta che aveva fatto ingresso in quel campo come Padre del Clan, protettore del suo popolo e nipote degli dei? No, probabilmente no; ricorda la storia della tua famiglia, Temrai, non puoi più permetterti di essere distratto rispetto a questa materia. Sasurai Tai-meMar era già di mezza età e riconosciutamente associato alla guida del clan quando Jaldai Tai-me-Mar fu ucciso da Maxen Pitchfork nelle pianure di Sela. Sasurai aveva fatto ritorno alla testa di un esercito sconfitto e la gente che sbirciava dall'ingresso delle tende non aveva guardato lui, aveva cercato con lo sguardo la sagoma familiare di un padre, di un marito, di un figlio, di un fratello in mezzo ai cavalieri che lo seguivano, sforzandosi di non gridare e di non piangere quando si rendeva conto che non c'era... Probabilmente si poteva dire con certezza che Sasurai si era goduto quel momento ancora meno di lui e anche che nonostante ciò probabilmente se l'era cavata meglio.
Devo comportarmi come si deve. Da adesso in avanti devo fare tutto come si deve. «Il prossimo esercizio» disse Loredan «è uno che odierete per il resto della vostra vita. È doloroso, noioso e se non lo farete bene vi costringerò a ricominciare dall'inizio. Pronti?» Mentre il suo gruppetto di discepoli lo fissava con sguardi che andavano dalla paura all'odio, Loredan unì i calcagni ad angolo retto, drizzò la schiena e tese il braccio davanti a sé nella posizione di guardia della vecchia scuola. Un minuto dopo (che nella fattispecie era molto tempo) disse: «Dovreste avere tutti capito il concetto, a questo punto. Adesso, fatelo voi.» Il risultato fu quello prevedibile, così li costrinse a ripetere l'esercizio; e poi di nuovo e di nuovo e ancora una volta... Uno di questi giorni, mormorò a se stesso mentre sorvegliava la fila di punte di spada pronto a sorprendere la prima che avesse vibrato o si fosse mossa, riuscirò a capire a cosa esattamente dovrebbe servire questa tortura. Deve avere uno scopo, se no perché venti generazioni di spadaccini sono state costrette a sottoporvisi tre volte al giorno, tutti i giorni? Stavolta Iuven, il ragazzo ricco, fu il primo a cedere. Loredan colpì la punta della sua lama con il dorso della mano, spostandola lateralmente e poi facendogliela abbassare, disse: «Un'altra volta» e continuò a camminare lungo la fila. Non appena uno di loro cedeva, gli altri inevitabilmente facevano subito lo stesso. Solo la paura di essere il primo spingeva ognuno di loro a tenere duro fino a quel momento. Quando non ne poté più di stare a guardarli, sibilò un «Va bene, basta così» e spostò verso il basso tutte e sei le punte con un'unica manata. «Voglio solo ricordarvi» aggiunse «che questi fioretti da allenamento che state usando sono molto più corti e più leggeri di una vera spada. E in futuro l'esercizio durerà quattro minuti e non due. Bene, adesso imparerete la parata di rovescio con passo indietro, della scuola della Città. Cominciate piazzando il piede avanzato sulla linea, piegate bene tutte e due le ginocchia, come se foste seduti su una sedia che in realtà non esiste. Mastro Teudel, avete l'aria di un ragno costipato.» La ragazza, ora; non era meno impacciata e pasticciona degli altri cinque, ma c'era qualcosa di quasi terrorizzante nella sua determinazione. Era come se... Insomma, i futuri avvocati imparavano la scherma con l'obbiettivo di guadagnarsi da vivere senza farsi ammazzare. Lei invece
voleva imparare a uccidere. Era da dieci anni in quella professione e non aveva mai incontrato un tipo del genere. Non era affatto sicuro che la cosa gli andasse a genio. «Quella» confidò ad Athli, mentre la classe si lanciava pesantemente e in un sibilare di lame nella prova della manovra appena appresa «diventerà una minaccia.» «Bene» rispose Athli. «Un allievo di successo è la migliore forma di pubblicità.» Era seduta su una sedia pieghevole con la testa immersa in una pila di tavolette di cera; liste di nomi per quanto era in grado di giudicare cercando di leggerle alla rovescia. «Sai che cosa sono questi?» chiese lei. «Non ne ho idea.» «Sono i nomi di tutti gli studenti che hanno cercato di iscriversi alle scuole di scherma per questo ciclo di lezioni, con l'indicazione di quella che li ha presi, se conosciuta. Ce n'è più di trenta che, a quanto sembra, non hanno ancora trovato un posto. Una volta finito questo lavoro, sarò in grado di uscire e cominciare ad arruolare nuovi allievi.» «Sei furba, eh? Io però ho già una classe.» «Ah.» Athli sorrise. «E che cosa ne diresti dell'idea di addestrare due classi contemporaneamente? Svariati istruttori lo fanno» proseguì, mentre il volto di Loredan si corrugava in un'espressione dubbiosa. «Non è poi così difficile. Prendi adesso, per esempio. Mentre loro mettono in pratica quello che gli hai appena mostrato, potresti istruire un'altra classe. Potremmo raddoppiare la mole di lavoro.» Loredan scosse la testa. «Mi sta già facendo a pezzi solo lo stare dietro a questi qua» disse. «Due classi nello stesso tempo mi ucciderebbero.» «Ah, ma solo perché non hai ancora preso il giusto ritmo. Una volta che sarai riuscito a individuare il più efficace sistema d'insegnamento...» «Bella idea, ma no grazie. Potrei forse farcela con una classe di dodici allievi, ma due gruppi di sei sarebbero troppo. Inoltre, puntiamo a farci una reputazione di qualità attraverso la cura individuale di ogni discepolo. Il che significa che devo tenere costantemente d'occhio ognuno di loro se voglio notarne gli errori e non potrei mai farlo se stessi prestando la mia piena attenzione a un'altra classe per metà del tempo.» Abbassò lo sguardo sulle tavolette diligentemente compilate e pensò all'inutile sforzo che le erano costate. «Avresti dovuto consultarti con me prima di cominciare a fare tutto questo.» Athli inarcò le sopracciglia. «Ben, allora che cosa dovrei fare?» disse.
«Ho finito da ore di fare le cose che mi avevi affidato.» «Non lo so, come posso saperlo?» ribatté Loredan. «Oh, no, guarda cosa sta facendo quel pagliaccio di Valier. Se solo ogni tanto desse retta a quello che gli si dice...» Tornò concentrarsi sul suo lavoro, mentre Athli lasciava cadere lo stilo che aveva usato per scrivere nella borsa che aveva ai piedi, con un sospiro. Si era fatta un punto d'onore di andare a osservare quasi tutti gli altri istruttori delle Scuole e, obiettivamente, Loredan era più o meno nella media. Era vero che urlava meno e che insegnava di più di alcuni di loro, ma fra i suoi sei allievi e tutti gli altri che stavano facendo praticamente la stessa cosa in altre parti di quel medesimo edificio, non c'erano differenze apprezzabili. Lasciò che la sua attenzione si spostasse altrove. Una delle grandi scuole aveva la sua sede lì vicino e l'istruttore stava facendo esercitare una classe avanzata nell'uso della Zweyhender. Un'abilità piuttosto esoterica; la pesante spada a due mani era praticamente obsoleta e veniva usata solo per alcuni bizzarri giudizi, come in materia di calunnia o stregoneria... La sua sopravvivenza era dovuta al fatto che si trattava di casi così infrequenti che nessuno ancora si era preso la briga di modificare le leggi. In tutto il tempo che aveva passato in giro per tribunali, Athli non l'aveva mai vista usare. Sapeva che Loredan aveva una Zweyhender infilata da qualche parte, anche se non l'aveva mai vista nel suo appartamento (e sì che una cosa così voluminosa era difficile che sfuggisse), ma non aveva idea di come la si usasse in pratica. Si mise a osservare. L'istruttore cominciò mostrando alla sua classe come andasse impugnata la spada. Ne tirò fuori una; dalla punta al pomo dell'elsa era lunga quasi due metri e circa un quarto della lunghezza era rappresentato dall'impugnatura. I bracci del paramano a croce erano lunghi ciascuno quasi trenta centimetri e al di sopra di loro, più o meno venti centimetri lungo la lama, c'era una seconda guardia più piccola, formata da due ricurvature della spada stessa, simili a due ali. Athli stette a guardare mentre l'istruttore prendeva un fazzoletto di seta e lo avvolgeva intorno alla lama fra le due guardie; poi strinse la lama a quell'altezza con la destra e piazzò la sinistra a metà dell'impugnatura vera e propria. A quel punto fece vedere quali erano i movimenti di base. Athli, che si era immaginata grandi fendenti e grandi tagli, come colpi di falce, scoprì con disappunto che in pratica la Zweyhender era usata più come un'alabarda a lama lunga o una lancia, che non come una spada.
Servendosene in quel modo, grazie al peso e all'equilibrio accuratamente calcolati, era possibile fare veloci e accurati affondi, piccoli e pericolosi mezzi colpi e intricate parate, tutte eseguite con un minimo di movimento. Lungi dall'essere un'arma eroica, realizzò, come quella che avrebbero potuto impugnare un cacciatore di draghi o un guerriero di grande valore, era la tipica arma dell'uomo che gioca sulle probabilità, perché forniva anzitutto una solida difesa a prova di temerarietà, consentendo nello stesso tempo a chi la usava di attaccare rapidamente quando il farlo era ragionevolmente prudente e con un accettabile margine di rischio. Se non altro con la sottile e tagliente spada da processo c'era un certo grado di grazia e di stile, una residua traccia di splendore nelle varie fasi del duello. Chi usava la Zweyhender, invece, avanzava pesantemente, cercando di esporsi il meno possibile e studiava l'avversario più che combattere, facendo ricorso a tutta una serie di mosse formali che rendevano difficile perdere tanto quanto vincere. Era una cosa di buon senso; una questione d'affari ed estremamente pragmatica. Non c'era spazio per il divertimento. Si domandò perché non fosse usata più massicciamente. Quattro o cinque studenti si allenarono con l'istruttore per frazioni diverse di tempo... Uno riuscì a resistere per ben due minuti, mentre altri vennero battuti nel giro di pochi movimenti. Era un genere di scherma piuttosto facile da seguire; un susseguirsi di piccole, nette punzecchiature e finti affondi che servivano a chiarire chi fosse in vantaggio, costringendo il perdente a nascondersi dietro la propria impenetrabile guardia, tacitamente ammettendo la sconfitta. La facilità con cui un perfetto novizio poteva riuscire a tenere a bada l'istruttore spiegava perché la spada non fosse più in uso; quando il duello doveva essere all'ultimo sangue, ogni caso avrebbe potuto durare una giornata senza esito alcuno e il contendente senza speranza avrebbe potuto tenere il vincitore morale a oltre un metro di distanza da sé, pur non avendo la minima possibilità di vincere. Ciò non avrebbe servito l'interesse della giustizia che imponeva invece un confronto breve e un vincitore inequivoco, che si poteva identificare senza ambiguità quando solo uno restava in piedi. Il sesto studente stava resistendo un po' più a lungo. Era un giovanotto basso e robusto, non particolarmente ben vestito e chiaramente a corto di fiato dopo i primi trenta secondi. Athli non conosceva la tecnica e quindi non poteva dirlo con certezza, ma le pareva evidente che riusciva a rimanere in gioco grazie a una fantasiosa e temeraria improvvisazione, che stava cominciando a dare sui nervi all'istruttore. La classe sembrava
considerarlo estremamente abile; naturalmente non stavano facendo il tifo per lui. Tifare durante un vero processo era considerato vilipendio della corte e costava a chi se ne macchiava una settimana in cella nei sotterranei del tribunale. Era tuttavia ovvio a chi andasse la loro simpatia e a mano a mano che i movimenti dell'istruttore si facevano più rigidi e i suoi colpi cadevano con più forza, Athli si rese conto che aveva paura di perdere la faccia e il loro rispetto se quella farsa fosse continuata a lungo. L'istruttore affinò la sua scherma, muovendosi più velocemente e tentando qualche trucco che non aveva inserito nella precedente dimostrazione. La risposta dello studente fu una spettacolo affascinante; il ragazzo aveva un talento naturale, non c'era alcun dubbio su questo; ma stava solo complicandosi la vita da solo: l'intera cosa non aveva scopo e anzi era controproducente, dato che il motivo per cui era lì non era sconfiggere il suo istruttore in duello, ma imparare a usare la spada secondo le regole. Athli cominciò a sentirsi seccata; aveva dimostrato quello che sapeva fare, era ora di cedere graziosamente e accettare l'applauso dei compagni. Ma il ragazzo non lo fece. Continuò a duellare e Athli vide un fendente portato con grazia andare a segno, tracciando una sottile linea scarlatta sulla parte più grossa dell'avambraccio del ragazzo. Il resto della classe sussultò e mormorò e l'istruttore fece un passo indietro, dando per scontato che la cosa finisse lì. Non era così; il ragazzo spostò la mano destra sull'impugnatura principale e ruotò la pesante spada intorno alla testa, vibrando verso l'istruttore un colpo che gli avrebbe spaccato la testa in due come un ciocco di pino se lo avesse colpito. Invece il maestro schivò e parò, riuscendo a ricevere il fendente alla ben e meglio appena sopra il paramano. La forza del colpo lo fece arretrare e il piede destro scivolò indietro di trenta centimetri o giù di lì prima che riuscisse a rimettersi in posizione; nel frattempo il ragazzo aveva vibrato un altro fendente: un colpo devastante, menato a ginocchia piegate e schiena curva, con un'inclinazione laterale più che non dall'alto verso il basso, sicché la lama puntò verso l'avversario all'altezza del collo. L'istruttore fece un balzo all'indietro in punta di piedi, riuscendo a malapena a sollevarsi quel tanto da potere frapporre la parte più solida della sua spada fra sé e il colpo, prima di venire tranciato in due. Perse tuttavia completamente l'equilibrio e vacillò; in quel momento di autentico pericolo l'istinto dovette prendere controllo della sua mente, perché contrattaccò con un colpo vibrato basso e a piena forza, mirato proprio nel varco fra le braccia del ragazzo e la lama, ove si apriva uno spazio senza ostacoli in fondo al quale c'era il cuore...
Qualcuno gridò. La spada scivolò fra le dita del ragazzo e cadde a terra rumorosamente; un momento dopo il peso morto del suo corpo cadde sulla lama dell'istruttore, strappandogli di mano l'impugnatura. L'elsa, sporgendo dalla sua cassa toracica strappò un clangore alle pietre del lastrico. Era morto molto prima di toccare il suolo. Il maestro restò immobile come una statua (che cosa succede, non hai mai ucciso nessuno prima? E pretendi di essere un professionista!), mentre la classe arretrava lentamente e molta gente nel resto dell'arena si girava a guardare. Loredan, giratosi di scatto in quella direzione, fu colpito a una guancia dalla punta di un fioretto di legno, ma non sembrò neanche accorgersene. Qualcuno urlò; la gente cominciò a correre. Uno degli allievi dell'istruttore lo afferrò per un braccio, ma quello non accennò a muoversi. Adesso c'erano parecchie voci che chiedevano aiuto, o un dottore o qualche altro altrettanto inutile intervento esterno. Erano tutti raggruppati intorno al cadavere del ragazzo e lo sfioravano con cautela, sperando di cogliere un segno di vita là dove evidentemente non ce n'era traccia. Athli sentì che le si piegavano le ginocchia e una morsa le serrò lo stomaco. Sentì che stava per vomitare. «Signori.» Era la voce di Loredan che parlava, con tono vagamente annoiato, come se stesse rimproverando un bambino per avere parlato in classe. «Se questo genere di cose vi turba, posso suggerire che forse state addestrandovi per la professione sbagliata? Non è cosa che ci riguardi. Dunque, dove eravamo?» Data l'assenza di Temrai, il clan aveva posposto i giochi connessi al funerale di Sasurai. I vincitori si sarebbero sentiti truffati se non avessero ricevuto il premio dalle mani del loro nuovo capo e peraltro la consegna dei trofei era tradizionalmente per il nuovo capo l'occasione per un discorso formale, in cui illustrare i suoi disegni e obbiettivi per i primi anni di regno. Avevano approfittato del tempo per fare delle preparazioni ancora più elaborate del solito. Avevano marcato il percorso delle gare di cavalli con dei cumuli di pietre, eretto reti di legno per le partite di polo, scavato appropriati poligoni per le competizioni degli arcieri e così via e i principali contendenti si erano potuti concedere il lusso di svariati giorni di bel tempo in cui allenarsi. I bersagli di feltro pressato per le frecce erano già pieni di buchi, ma pochi nel centro e avevano i contorni scheggiati, a dimostrazione di quanto bisogno ci fosse di un appropriato allenamento.
C'era stato perfino il tempo di catturare un'aquila viva per il tiro al pappagallo, al posto del pupazzo impagliato di cui si accontentavano di solito. La cosa migliore era che i suoi luogotenenti avevano convinto il clan a scavare un lungo e basso terrapieno che fungesse da tribuna d'onore, il che significava che una volta tanto la gente che non si trovava in prima fila avrebbe potuto comunque vedere qualcosa di più divertente che non la nuca di chi aveva davanti. Per Temrai era stato costruito un apposito trono di legno, con un tappeto su cui camminare e un tavolo a fianco su cui sciorinare i premi. Naturalmente, come voleva la tradizione, i premi consistevano in cose preziose scelte fra i beni del capo morto e Temrai dovette fare uno sforzo per non gettare sguardi di rimpianto a svariati oggetti selezionati che aveva fortemente sperato di ereditare, esposti nel loro splendore a testimoniare la sua semi divina munificenza. C'erano, per esempio, gli speroni d'oro di Sasurai, il suo corno da vino personale, un paio delle sue pantofole più belle e più riccamente ricamate e una faretra piena di frecce di prima qualità con penne scarlatte, che servivano a identificarle come quelle del capo. Dannazione, disse a se stesso Temrai. Oh, be', non importa. Era praticamente obbligatorio che partecipasse almeno a una gara e sarebbe stato inaccettabilmente maleducato se avesse vinto... Un onesto quarto posto sarebbe stato l'ideale, abbastanza per dimostrare bravura, ma ben lontano dall'assegnazione dei premi. Aveva pertanto annunciato che avrebbe preso parte alla gara di tiro con l'arco da distanza ravvicinata e al tiro al pappagallo; era un arciere abbastanza abile da potere perdere la gara sulla distanza ravvicinata senza risultare troppo palese, se si fosse reso necessario e se si fosse iscritto alla gara del pappagallo con un numero abbastanza alto nell'ordine di tiro, qualcun altro molto probabilmente avrebbe colpito l'aquila prima del suo turno, sollevandolo dall'obbligo di partecipare. Coerentemente al prestigio della disciplina, il tiro con l'arco veniva alla fine, il che consentì a Temrai di rilassarsi e di guardare in santa pace le gare dei cavalli. Le corse ippiche (cinque, dieci e quindici giri del percorso, con e senza ostacoli) filarono lisce e solo con un minimo tollerabile d'imbrogli. I risultati non portarono alcuna sorpresa. Tobolai e i suoi sei figli si divisero tutti i premi in quattro delle sei gare e furono ben rappresentati nelle altre, mentre Remtai e Piridai vinsero rispettivamente la gara con gli ostacoli piccoli e con quelli medi per un'incollatura.
Le partite di polo furono la solita allegra confusione. Bestren imbrogliò sfacciatamente durante la partita delle donne, ma ci sarebbe stata una insurrezione se l'avesse espulsa prima che i giovanotti le avessero potuto dare una bella e lunga occhiata nel suo costume sportivo e dato che evitò comunque di ammazzare qualcuno la cosa non fece particolarmente danno. Alla fine la sua squadra perse sette a dieci e tutti furono contenti, specialmente Temrai che così si risparmiò l'imbarazzo di doverle consegnare il premio. Lei gli aveva fatto la corte in maniera fin troppo scoperta sino da quando era stata abbastanza grande da potersi scegliere un marito, ma nonostante fosse indiscutibilmente graziosa tutto ciò che provava per lei era al massimo una specie di affascinata ripugnanza. Fu molto più contento di potere consegnare la fibbia d'oro e la spilla a Sargen-pel-Tazrai, una ragazza intelligente con un piacevole senso dell'umorismo, il cui fidanzamento con il figlio maggiore di Limdai sembrava essere andato in fumo mentre Temrai era stato via. Riuscì a fare in modo che il suo sorriso di congratulazioni non prendesse una piega maliziosa, ma trattenne la fibbia un secondo più del necessario quando gliela consegnò. L'insieme contribuì a migliorare ancora la sua opinione sulle partite di polo. Dopo le gare ippiche venne il momento di quelle di corsa. Non erano mai piaciute particolarmente al pubblico e in realtà il loro scopo era solo quello di garantire un intervallo fra le competizioni a cavallo e quelle con l'arco. Fu durante il brusio di rinnovato interesse che fece seguito all'ultima gara di corsa che Temrai si alzò in piedi e fece il suo annuncio a sorpresa. Si rivelò una perfetta scelta di tempo. Ci sarebbe stata, annunciò, una gara in più; non una nuova competizione, perché c'erano dei riferimenti a essa in alcune delle più antiche ballate del clan, ma una che a memoria d'uomo non si era mai più svolta. Un gioco di squadra, proseguì, perché i giochi di squadra servivano a coltivare lo spirito di cooperazione e di mutuo supporto... Continuò così fino a quando fu stufo di ascoltarsi. Poi annunciò la gara dei tronchi. Non fu una completa sorpresa, naturalmente; aveva scelto i capitani delle squadre il giorno prima e i gruppi che avevano scelto e tagliato i tronchi erano anch'essi a parte del segreto. Nonostante ciò si creò una gratificante atmosfera di eccitazione mentre i due tronchi d'albero venivano scaricati da un lungo carro e trascinati da due pariglie di cavalli entro i limiti del campo. Naturalmente non mancavano i giovani desiderosi di prendere parte alla gara; per fortuna se lo era aspettato e i due capitani erano stati appropriatamente istruiti su chi scegliere nella folla di ansiosi
volontari. Lo scopo della gara, spiegò, era di portare il tronco dalla partenza all'arrivo senza mai lasciarlo cadere e senza farsi superare dalla squadra avversaria. Il premio sarebbe stato un pezzo d'oro di Perimadeia per ciascun uomo e un cappello rosso e porpora per il capitano. Non appena le squadre furono in posizione si alzò in piedi, sollevò in aria il suo copricapo e poi lo lasciò cadere per terra. Fu subito evidente che l'abilità dei concorrenti era assai inferiore al loro entusiasmo. Barcollavano avanti e indietro come ubriachi, inciampavano nei piedi uno dell'altro e finirono per correre più di lato che dritti; alla fine più che varcare la corda dell'arrivo, ci andarono a sbattere contro. Per quanto riguardava Temrai, non fu una cosa negativa. Dimostrava il bisogno di allenamento per quanto riguardava quella specifica capacità: una cosa sulla quale avrebbe potuto insistere durante il discorso di chiusura. Nella fattispecie le due squadre arrivarono talmente a ridosso l'una dell'altra che la decisione su chi avesse vinto fu presa dagli arbitri che saggiamente aveva piazzato ai due capi della corda dell'arrivo. Alla fine abbastanza giustamente vinse la squadra di Ceuscai, il che fu un bene anche perché Temrai aveva dato le sue misure ai cappellai che avevano fabbricato il copricapo della vittoria. Come la gran parte del clan, lasciò che la sua attenzione si allentasse un po' durante le prove di atletica; si permise piuttosto il lusso di stare a guardare la sua gente. Era una cosa che non aveva mai fatto prima, abbastanza comprensibilmente. Dopo tutto era uno di loro e lo era stato tutta la sua vita. Ora, tuttavia, avvertiva un'indefinibile, ma indiscutibilmente percepibile barriera fra loro e se stesso; in parte perché adesso era il capo, ma soprattutto perché era stato in città e aveva visto qualcosa di diverso... Qualcosa, doveva ammettere, che sotto molti punti di vista era migliore o perlomeno più avanzato. Dopo le case di pietra e mattoni, le strade lastricate, l'acqua abbondante immediatamente disponibile in ogni piazza, le tende del clan sembravano primitive e lui non riusciva più a sentirsi a suo agio in un ambiente primitivo. Non poteva fare una colpa al clan per il fatto di non avere inventato a proprio beneficio le cose meravigliose che in città venivano date per scontate; non c'era niente di sbagliato o di insano nel non essere altrettanto intelligenti di qualcuno più dotato: c'erano popoli più intelligenti di altri, così come ce n'erano di più alti. Ma sapere che era possibile avere condizioni migliori e non desiderarle, quello sicuramente era stupido e probabilmente anche insano...
(Zandai Mar che superava l'asta del salto in alto per un capello; era troppo vecchio per partecipare, ma vi era costretto per una questione di prestigio. Ostren che inciampava in una zolla di terra sollevatasi e che cadeva a faccia in giù durante il salto sull'acqua. Solo quattro uomini che gareggiavano nel lancio del giavellotto, senza che nessuno di loro riuscisse a farlo passare attraverso il cerchio...) ... A meno, naturalmente, che il prezzo per avere quelle cose meravigliose non fosse superiore al loro valore; quella, sospettava, era la risposta che stava cercando. Non era un'idea nuova. Al contrario... Era stata la abituale lamentela auto assolutoria di intere generazioni di viaggiatori che avevano fatto ritorno dalla città. La ripassò mentalmente. Quelli di Perimadeia si erano assicurati ogni genere di meraviglie, ma avevano smarrito la parte migliore di se stessi; così dicevano i viaggiatori sorseggiando con aria di sufficienza latte e idromele accanto al fuoco, sotto le stelle fredde e scintillanti. Sono diventati insensibili ed egoisti, disprezzano le razze meno evolute e si sentono in diritto di derubarle al solo scopo di alimentare il proprio emendabile gusto per una innaturale ricchezza. Già, pensò Temrai, be', i viaggiatori raccontavano anche molte altre storie, compresi i loro incontri con enormi lucertole volanti o creature con il corpo d'uomo e la testa da animale; storie alle quali alcuni di noi credono e altri no. Io ho visto la gente della città e non è particolarmente diversa da noi, una volta che si guardi al nocciolo, scavata la corteccia. Certo, c'erano delle differenze; accoglievano gli stranieri, anche quelli provenienti da nazioni che erano tradizionalmente le loro peggiori nemiche, senza sospetti e senza ostilità. Se mai dicevano qualcosa, si trattava piuttosto di una domanda incuriosita circa la veridicità di qualche diceria particolarmente strana che avevano udito (è vero che tutti voi avete sette mogli? È vero che dalle tue parti gli uomini e le donne fanno... be', sai cosa... stando in sella e al galoppo? Trasformate davvero i teschi dei vostri nemici in calici e strappate lo scalpo ai nemici che uccidete in battaglia? E come stanno veramente le cose...?). C'era un'altra differenza: in città c'era un intero quartiere occupato da dottori, il cui lavoro consisteva nel cercare di tenere in vita gente di cui il clan non si sarebbe minimamente curato, perché anche se fosse guarita sarebbe stata comunque troppo vecchia o cagionevole per essere di qualche utilità. Naturalmente il clan badava alla sua gente, ma solo fino al momento in cui il farlo era nell'interesse del clan stesso. In città, tenere la
gente in vita era un obbiettivo in se stesso. E la cosa, anzi, andava oltre. Nelle pianure, a parte una o due persone con particolari abilità gli altri non ne avevano, ognuno faceva lo stesso lavoro e possedeva più o meno la stessa quantità di beni e nessuno se ne curava più di tanto. In città era diverso. Più di questo, onestamente non poteva dire, perché la questione era complicata; ma dato che la gente più povera della città sembrava comunque possedere più che non la maggior parte di loro nelle pianure, che cosa poteva esserci di male? Nella infinitamente complessa gerarchia della città un uomo poteva rimanere dove si trovava, oppure poteva lavorare duramente e forse riuscire a innalzarsi di tre o quattro gradini in seno a quell'ordine immutabile. Temrai non riusciva a farsi un'opinione precisa su tutto questo, ma perlomeno riusciva a riconoscere che c'era un'evidente differenza. E ora eccolo lì, di ritorno, intento a osservare il suo popolo. La prima cosa che lo colpì fu quanto fosse numeroso. Non era compito di nessuno calcolare esattamente quanti fossero nel clan e certamente lui non ne aveva idea. All'inizio di una grossa guerra era costume che gli uomini in grado di combattere passassero in fila davanti alla tenda del capo e che ogni uomo lasciasse cadere una freccia in un cesto mentre passava. I cesti venivano poi caricati sui dorsi dei cavalli da trasporto e usati come scorta di riserva per il gruppo principale di combattenti. L'ultima volta che era stato fatto, circa dodici o tredici anni prima, erano serviti più di cento cavalli solo per la scorta di frecce, ma era passato troppo tempo perché riuscisse a ricordarsi quanti cesti portasse ciascun cavallo, o il numero di frecce che era mediamente contenuto in ogni cesto. C'erano altri modi in cui avrebbe potuto dedurre il numero dei membri del clan, sia pure approssimativamente: per esempio dal tempo che il clan impiegava a guadare un particolare fiume, o dalla lunghezza della fila in marcia su un tratto noto di una strada rettilinea, o ancora dal numero di pelli che ogni mese venivano affidate ai conciatori (il che gli avrebbe detto quanti manzi venivano uccisi e di conseguenza quante erano le bocche da sfamare), ma dovette ammettere di non essere abbastanza interessato da darsene la pena, senza contare che non era una cosa di cui potesse curarsi legittimamente. Contare la sua gente sarebbe stato un po' troppo come contare le sue bestie. Avrebbe implicato che la possedeva, ciò che ovviamente non era. Aveva sentito raccontare che c'era stato un tempo in cui, in Città, uomini avevano posseduto altri uomini nello stesso modo in cui possedevano bestiame e attrezzi, ma non ci aveva creduto, così come
non credeva ai leoni a due teste o agli alberi parlanti che, nello stesso modo, si supponeva fossero esistiti molto tempo prima, quando il mondo era giovane. A questo punto si rese conto di stare davvero osservando la sua gente, come se fosse stato una della Città, andato lì per spiare i clan. Vide uomini alti fra il metro e sessantacinque e il metro e ottanta, donne più basse di una testa o di mezza, vestiti di lana, feltro e cuoio, che mangiavano carne secca, latte, miglio quando ce n'era, mele e olive durante la stagione giusta, a patto che avessero studiato bene i tempi del loro itinerario; un popolo che viveva in tende di feltro e pelli, che si spalmava lardo sulla pelle in pieno inverno per proteggersi dal vento e dall'umidità, che non sprecava niente e che non possedeva più di quanto si potesse trasportare dentro un carro e sul dorso di due cavalli. Era un popolo che era riuscito a trovare un utilizzo per qualunque parte di un cavallo o di un manzo: latte, carne e sangue come cibo; il grasso per fare candele, per cucinare e per rendere le cose impermeabili; la pelle per fare vestiti, tende, finimenti, cappelli e armature; il pelo per il feltro, le funi e le corde degli archi; le ossa e i denti per ricavarne bottoni, aghi, archi e cocche di freccia, fibbie, manici di attrezzi, pezzi degli scacchi, gioielli, flauti e colla; i tendini per fissarsi gli archi sulla schiena; e gli escrementi per alimentare il fuoco. Era gente che non oziava, ma che non si affrettava neanche mai, che aveva poco e non voleva nulla di più, che non scriveva libri, ma conosceva i nomi dei propri antenati delle cento generazioni precedenti, che non aveva macchine, ma conosceva il segreto della saldatura con l'argento e che sapeva interpretare tutti i colori dell'acciaio. Guardandoli per davvero per la prima volta, si rese conto di quanto fossero strani, quanto fossero diversi. Questo è ciò che siamo. Il popolo che vive nelle pianure. E che sa fare cento e una cosa con il cadavere di una mucca. Qualcuno gli batté su un braccio; era ora di consegnare il premio per le gare di corsa e per quelle di salto oltre i vari ostacoli. Una volta finito (e domandatosi, nel farlo, come gli fosse venuto in mente di consentire che la seconda migliore sella e un paio di guanti da falconeria perfettamente nuovi di Sasurai venissero dati a delle persone il cui unico talento era quello di lanciarsi oltre un bastone poggiato sopra altri due) raccolse il suo arco e la faretra e scese nell'arena per le gare di tiro con l'arco. Se non altro pensò, ringraziando gli dei, nessuno aveva cercato di convincerlo a dare via l'arco di Sasurai. Secondo la tradizione avrebbe
dovuto accompagnare suo padre nell'eternità e Temrai rese un silenzioso, ma grato omaggio al buon amico che aveva trovato il modo di dimenticarsene al momento giusto. Aveva archi di sua proprietà, abilmente fabbricati da lui stesso o da altri, ma quello era l'arco con cui aveva imparato a tirare. Conosceva quell'arco ed esso conosceva lui. Se al mondo esisteva un arco migliore, non gli interessava saperlo. Quando ci si mise di fronte per fissare la corda, fu come un ritorno a casa. Era una corda nuova rispetto all'ultima volta che l'aveva visto, ma comunque una buona corda: il lungo tendine della zampa di un cavallo, avvoltolato in seta da cima a fondo e appropriatamente cosparso di cera, con perfette asole d'osso nel punto in cui la freccia andava incoccata e una presa d'avorio per tenderla. Una volta teso l'arco sistemò il guanto intorno alle dita della destra e si fissò il parabraccio sull'avambraccio sinistro, regolò l'altezza della faretra, controllo l'impiumaggio delle frecce, si agitò con irrequietezza e cercò di pensare a qualcosa d'altro. Adesso che era lì in piedi, con il piede sinistro sulla linea e davanti un invisibile tunnel che lo collegava al bersaglio, si rese conto che sarebbe stato davvero duro cercare di non vincere. L'unica cosa che giocava a suo vantaggio era che praticamente tutto il clan lo stava guardando, il che avrebbe dovuto essere abbastanza per agitare e fare sbagliare chiunque. Quando venne il suo turno di tirare aveva già fatto un ottimo lavoro nel convincere se stesso di avere perso anche la poca abilità che gli era propria. Il giudice di linea diede il comando di incoccare e la mano gli tremò un po' mentre posizionava la cocca di corno della freccia sulla corda, in modo che la penna di gallo risultasse in alto. Al comando Tendere! sollevò l'arco, grugnì mentre spingeva lontano da sé il braccio sinistro, tese la corda con la destra fino a quando non sentì l'arco incurvarsi e il peso spostarsi dalle spalle alla schiena. Mentre la parte posteriore della punta della freccia scivolava nell'incavo fra il pollice e l'indice della sinistra, il pollice destro gli sfiorò la guancia e la presa sulla corda toccò il labbro inferiore, il che garantiva l'allineamento di freccia, mano e arco. Fissò gli occhi sul bersaglio, escludendo qualunque altra cosa al mondo e per un secondo e mezzo cancellò dalla mente la morte di suo padre, la città di Perimadeia e le sue difese, i doveri e le responsabilità del capo di un clan e la sua inattesa sensazione di estraneità in mezzo al proprio stesso popolo. C'erano troppe altre cose a cui pensare; il braccio sinistro lievemente piegato, con il gomito che sporgeva, il secondo dito della mano destra più inclinato del terzo per assicurarsi che la corda fosse perfettamen-
te verticale nell'incavo fra la prima e la seconda falange di tutte e tre le dita che la reggevano, l'impossibilità di non pensare all'atto di raddrizzare quelle dita nel rilasciare la corda (perché il perfetto lancio era semplicemente la transizione fra il momento in cui si tendeva la corda e quello in cui non la si tendeva più; così semplice, così apparentemente impossibile)... Poi lasciò partire la freccia e ci fu un plump in distanza quando colpì il bersaglio, in basso e a destra, sintomo di un rilascio non perfetto della corda. Oh, be', se fosse facile non ci sarebbe motivo di fare delle gare. Incoccò una seconda freccia e tese l'arco. Per tutto il tempo che gli ci volle per scoccare una dozzina di frecce si godette il lusso di essere semplicemente Temrai, il competente ma mediocre arciere, niente altro che la somma della sua forza e della sua abilità. In fondo alla sua mente, sapeva che era un momento da godere fino a quando fosse durato, perché non c'era modo di sapere quando gli sarebbe stato consentito essere di nuovo quel Temrai. Alla fine risultò quinto e fu il meglio che riuscì a fare. In un certo senso gli diede più piacere che vincere. Aveva offerto un passabile spettacolo e aveva il conforto di sapere che nel suo esercito c'erano almeno quattro arcieri che sapevano tirare meglio di lui. Date le circostanze, sarebbe stato davvero deprimente se avesse vinto. Rimase a pochi passi dalla linea mentre si svolgevano le gare sulle distanze maggiori, non volendo fare ritorno al suo posto d'onore fino a quando non ci fosse stato costretto. Se la sua presenza fra gli arcieri metteva un po' a disagio gli altri concorrenti, non era una cattiva cosa. Senza dubbio le pesanti pietre lanciate dalle catapulte che stavano sulle torri delle mura verso terra li avrebbero messi molto più a disagio e ci avrebbero dovuto avere a che fare abbastanza presto. La media della mira era davvero piuttosto buona. Si fece una nota mentale di chiedere i risultati complessivi una volta che le gare fossero finite, e si chiese se ci fosse qualcuno in grado di ricordare dei risultati paragonabili, che gli consentissero di calcolare se la capacità del clan con l'arco era aumentata o diminuita nel corso degli anni. Un capo coscienzioso, ragionò, doveva sapere queste cose. Era il momento della gara del pappagallo, il gran finale. Esattamente per quale ragione la gente del clan trovasse così affascinante guardare degli uomini che scagliavano frecce contro un uccello legato per una zampa alla sommità di un palo lungo quaranta metri, era una cosa che Temrai non
aveva mai capito. Probabilmente dipendeva dal fatto che si svolgeva in modo molto più dinamico delle convenzionali serie di tiri contro i bersagli; ogni concorrente lanciava una freccia e non appena uno colpiva il bersaglio la gara era finita. Forse il brivido stava nel fatto che qualcosa di tangibile veniva colpito e cadeva a terra... Non c'era granché di cui entusiasmarsi nel sentire il lieve tock di frecce che in distanza si infilzavano nel feltro, calcolando che solo le persone molto vicine al bersaglio erano in grado di capire dove la freccia avesse colpito. Non poteva trattarsi di una sana e tradizionale sete di sangue perché normalmente il pappagallo non era altro che una sacca di cuoio piena di paglia, immersa nella colla e poi coperta di piume. La sua personale teoria era che l'eccitazione nascesse dal pericolo implicito in tutte le frecce che non colpivano il bersaglio e che ricadevano erraticamente verso terra, assai spesso finendo proprio in mezzo agli spettatori. Stavolta c'era un uccello vero; una grande aquila bronzea legata per una zampa alla sommità del palo e che protestava selvaggiamente per quel trattamento indegno. Questo sarebbe stato certamente fonte di una eccitazione molto maggiore del solito, perché tutti quelli che avevano perso un figlio o un agnello per colpa delle aquile di montagna, potevano sentirsi partecipi di quella simbolica vendetta. Per parte sua, Temrai avrebbe tirato altrettanto volentieri alla solita sacca piena di paglia. Aveva passato troppe ore con la mandria quando era un ragazzino, cercando vanamente di tenere lontane quelle dannate creature con grida e pietre per provare pietà per quel maledetto uccello, ma quello non aveva tanto l'aria di un atto di difesa da una persecuzione, quanto piuttosto di una esecuzione pubblica. Fra l'altro la versione di paglia non strideva così tanto. Un colpo. Frugò con lo sguardo in mezzo alla faretra fino a quando non vide la particolare freccia che stava cercando. Era stata la sua favorita fin da quando era giovane, anche se era svariati centimetri troppo lunga per lui. Non aveva idea da dove venisse; aveva le piumette scarlatte del capo, ma non era stata fabbricata nelle pianure. Il clan ricavava le sue frecce da un unico pezzo di legno, sicché l'asta aveva lo stesso diametro per tutta la sua lunghezza. Questa freccia aveva una parte centrale dell'asta in cedro, infilata in una posteriore di corniolo e si assottigliava molto gradualmente da un punto che si trovava venti e più centimetri sotto la punta, fino alla cocca. La punta, stretta e inusualmente pesante, aveva una sezione quasi quadrata a differenza dell'abituale profilo triangolare prediletto dai fabbri del clan. Aveva la sensazione che fosse molto vecchia e in origine era
arrivata, passando per la città, da Scona dove i fabbricanti di archi e gli impiumatori più bravi del mondo creavano equipaggiamenti per gli arcieri più bravi. Le piumette erano di anitra e non di aquila o di corvo e assai presto avrebbero dovuto essere sostituite. Se l'avvicinò agli occhi, per essere sicuro che non si fosse piegata o spezzata, poi fu costretto a fare rapidamente un balzo di lato per evitare una freccia in caduta che alla sommità del palo era stata investita da un colpo di vento ed era piombata quasi in testa a lui. Per estrazione gli era toccato di tirare per settimo, sicché non dovette aspettare a lungo. Non che ci fosse un particolare rischio che vincesse quella gara; la specifica abilità di scagliare frecce verticalmente in aria non era una di quelle che gli era sembrato valesse la pena di coltivare, dato che non serviva in guerra salvo quando si era proprio sotto le mura di una città e lui non aveva mai sentito il fascino particolare di tirare frecce agli uccelli in volo. Lo stesso però non valeva per un sacco di gente e cinque fra i migliori cacciatori di uccelli del clan avevano estratto turni prima del suo. In qualche modo, tuttavia, riuscirono tutti a sbagliare con il risultato che Temrai si trovò con il piede sulla linea, con il collo piegato a fissare il sole quasi direttamente nel tentativo di individuare la sagoma dell'uccello sullo sfondo del cielo accecantemente luminoso. Tese l'arco e mirò più o meno nella giusta direzione, rilassò le dita della destra e si preparò a scagliare la freccia. Era proprio sul punto di lasciarla partire quando il sole si nascose dietro quella che era praticamente la sola nuvola nel cielo, il che gli consentì di vedere con chiarezza il bersaglio. Sentì la corda che gli mordeva la carne delle dita attraverso il guanto e le spalle gli dolevano. Era ora di liberarsi di quella dannata freccia. Si concentrò sull'uccello e smise di trattenere la corda. Dannazione, pensò. Quante occasioni c'erano state in cui avrebbe dato qualsiasi cosa pur di colpire il bersaglio in una gara del pappagallo, davanti all'intero clan? Più di quelle che riusciva a ricordarsi, al tempo in cui passava giornate intere a scagliare frecce contro un rotolo di feltro appeso a un lato del suo carro, cercando di afferrare quel particolare, elusivo tocco di abilità che gli avrebbe consentito di mandare la freccia esattamente dove voleva invece che più o meno nella giusta direzione. Mentre osservava la freccia colpire il bersaglio, l'uccello piegarsi su se stesso, cadere in avanti e restare a
penzolare dalla corda che lo legava come un sacco vuoto, imprecò chiedendosi come fosse potuta succedere una cosa del genere. Tutto quello a cui poteva pensare era che gli dei avevano accumulato dieci anni delle sue preghiere per un colpo come quello e poi avevano maliziosamente deciso di accontentarlo proprio in quel momento, per fargli dispetto. Ci fu un imbarazzato silenzio mentre l'intero clan cercava di capire se fosse il caso di applaudire o se invece fosse libero di esprimere la propria disapprovazione per una così palese violazione dell'etichetta. Gli altri concorrenti raccolsero le proprie frecce e rimisero gli archi nelle custodie senza una parola e senza uno sguardo nella sua direzione. Doveva succedere proprio nella gara del pappagallo, la sola nella quale non avrebbe potuto comunque squalificarsi magnanimamente lasciando che se la disputassero gli altri concorrenti? E, in nome degli dei, come si supponeva che facesse a premiare se stesso? La sola cosa che gli venne in mente di dire fu: «Mi dispiace.» Comunque, ormai non ci poteva fare niente. Rimise l'arco nella custodia e fece ritorno al suo trono. Adesso, naturalmente, doveva fare il suo discorso. Lo aveva preparato accuratamente e sapeva che era brillante. Prima un succinto, ma forbito elogio del suo predecessore. Poi una dichiarazione formale della sua intenzione di guidare il clan contro il nemico, dichiarando le proprie ragioni e motivando il popolo rispetto alla battaglia che lo attendeva. Qualche parola sull'evidente destino del clan, un po' di misticismo per quelli che se lo aspettavano e, per concludere, una ricapitolazione ben articolata e una frase memorabile, che la gente potesse tramandare ai propri nipoti. Aveva tutto sulla punta della lingua. Invece si schiarì la voce e disse: «Non avete nessuna voglia di sentire un mucchio di chiacchiere, quindi ecco quello che faremo. Una volta oltrepassato il passo di Nasdin, andremo a sud lontano dal nostro solito percorso, per tagliare legna. Poi la faremo scendere lungo il fiume... Non lo abbiamo mai tentato prima, ma so che è già stato fatto e quindi anche noi possiamo riuscirci... E alla fine del viaggio costruiremo delle macchine da assedio. Non c'è problema, ho imparato come si fa e non si tratta di niente di speciale. Nel tiro con l'arco siete bravi, anche troppo in qualche caso, ma dovremo allenarci con i tronchi se vogliamo avere almeno una speranza di riuscire a sfondare le porte della Città, quindi voglio dei volontari per formare una squadra addetta all'ariete; date i vostri nomi ai capi delle ali entro i prossimi tre giorni. Ci sono un mucchio di dettagli a
cui non ho ancora pensato, ma abbiamo tempo e vi terrò al corrente durante il viaggio. Questo è tutto, davvero, per cui me ne starò zitto e vi lascerò proseguire i festeggiamenti. Divertitevi. Oh, e se non volevate che la vostra aquila venisse colpita, non avreste dovuta lasciarla lì.» Non era un granché come battuta; ma nell'atto stesso di sedersi capì di avere appena arricchito la loro tradizione di un nuovo proverbio. Cento anni dopo gente che aveva lasciato che il proprio bestiame non ancora marcato si mescolasse con la mandria di qualcun altro, o le cui mogli trascurate cominciavano a guardarsi intorno, avrebbero sentito rispondere alle proprie proteste, con una risatina e con la battuta: «Sì, be', se volevi che nessuno colpisse la tua aquila...» Nel frattempo, aveva appena parlato al suo popolo come un capo, non come un ragazzo che indossava il cappello di suo padre che gli stava troppo grande. Avrebbe avuto i suoi volontari per la squadra addetta all'ariete e avrebbe fatto scorrere i tronchi giù per il fiume; e nessuno avrebbe mormorato alle sue spalle che pensava che il Capo non avesse affatto un piano, perché lo aveva ammesso lui per primo e questo era stato piuttosto leale. Probabilmente la cosa avrebbe funzionato e questo perché aveva imparato che se c'era un bersaglio da colpire, gli si tirava una freccia e al diavolo le regole. Sasurai non lo aveva mai capito; Sasurai non aveva dato l'assalto a Perimadeia. Io l'ho capito e la attaccherò. Era ancora seduto, preso in quelle riflessioni quando vennero a rimuovere il trono e il tappeto. Non lo buttarono sull'erba, ma gli fecero capire chiaramente che avevano un lavoro da fare e che li stava intralciando. Si scusò e lasciò che procedessero. CAPITOLO OTTAVO L'intramontabile popolarità di cui i Patriarchi di Perimadeia godevano presso i propri concittadini era un aspetto del loro alto ufficio che trovavano sconcertante, gradevole o seccante a seconda di quanto approfonditamente gli capitava di pensarci. Dato che il Patriarca non era altro che il capo di un ordine di filosofi e scienziati impegnati a studiare un soggetto astruso senza il minimo valore pratico per la gente comune, non c'era motivo che fosse amato e ammirato, il che rendeva la cosa sconcertante. Il fatto che i suoi concittadini continuassero ad amarlo e ammirarlo a prescindere da ciò che faceva o non faceva era certamente toccante. Il fatto
che la sua popolarità fosse dovuta all'universalmente diffuso equivoco che lo voleva una sorta di mago ufficiale, il cui compito era quello di battersi con le forze dell'oscurità per il bene della città, tenendone lontane torme di perfidi demoni, pestilenze e violenti uragani che potessero intralciarne i ricchi commerci marittimi era, invariabilmente, fonte di irritazione. Dopo essere passato attraverso tutti e tre questi stati d'animo, il Patriarca tendeva a non considerare la questione e a non pensarci affatto. Ciò nonostante, quando si sparse la notizia di una grave malattia che aveva colpito il Patriarca Alexius ci furono moltissime spontanee dimostrazioni di affetto popolare, senza dubbio da parte di cittadini preoccupati che lo volevano vedere di nuovo in piedi, sano e impegnato a combattere i demoni, prima che qualcosa di orribile potesse accadere. Fiori, frutta e un'ampia scelta di amuleti portafortuna apparvero fuori dalle porte della sua residenza tutte le mattine, vecchiette piene di buone intenzioni lasciarono ai guardiani alla porta litri di brodo caldo e nutriente e importanti esponenti dell'Ordine, che avrebbero avuto un modo migliore di impiegare il proprio tempo, dovettero passare ore a ricevere delegazioni di bambini sorridenti e rumorosi, che portavano ghirlande di erbe odorose, intrecciate con le loro mani inesperte, ma innocenti. Fu tale il disturbo arrecato da quella solidarietà non sollecitata che non appena si sentì abbastanza bene da reggersi in piedi, Alexius fu costretto ad apparire a un balcone e a mostrarsi alla folla plaudente nella speranza che quella persecuzione pur animata da buoni propositi e che durava da un paio di mesi, cessasse finalmente. «Trovo il tutto piuttosto commovente» commentò Gannadius, mentre Alexius tornava a piccoli passi verso il letto, con le braccia che gli facevano male per avere salutato la folla per oltre mezz'ora. «Tutta questa gente che non ti ha mai neanche incontrato, in piedi fuori dalla porta in qualunque clima, che sommerge il posto sotto masse di fiori...» «Se qualcuno fosse in grado di spiegarmi come anche un intero carro di erbe profumate abbia la benché minima possibilità di curare il mal di cuore, potrei ufficializzare la cura e guadagnare una fortuna» borbottò Alexius, infilandosi nuovamente sotto le coperte alla ricerca di una sia pur minima residua traccia di calore. «Stando le cose come stanno, penso che correrò il rischio di espormi al ludibrio universale, facendomi qualche ora di sonno.» «Be', non puoi» rispose Gannadius. «Hai un dovere verso i tuoi concit-
tadini, che hanno bisogno di amare qualcosa, non possono amare il governo perché nessuno ama mai il governo, e quindi hanno scelto te. Potresti essere almeno abbastanza cortese da mostrarti contento.» Alexius borbottò contro il cuscino. «Sai che cosa stanno dicendo?» ribatté. «Dicono che sono stato impegnato in un duello magico con creature malefiche di un altro universo, evocate dai nostri nemici, e che anche se alla fine sono riuscito a trionfare la lotta mi ha ridotto a un rottame balbettante. Dopo tutti gli sforzi che ho fatto per spiegare che non siamo dei maghi...» Gannadius sorrise divertito. «Il che ovviamente è servito solo a convincerli ancora più fermamente che è esattamente ciò che siamo» disse. «Mentre se tu te ne andassi in giro indossando un lungo manto blu coperto di simboli mistici, direbbero che non sei altro che un volgare ciarlatano e ti tirerebbero addosso delle uova.» Si alzò in piedi. «Farai meglio a riposare un po'. Tutta questa eccitazione sta peggiorando il tuo già brutto carattere.» «Lo so» rispose Alexius. «Penso che dipenda soprattutto dalla frustrazione per essere bloccato qui, quando ci sono così tante cose che dovrei stare facendo...» Gannadius corrugò la fronte. «Niente d'importante» disse con fermezza. «I tuoi brillanti segretari stanno occupandosi di tutte le questioni di routine (piuttosto meglio di quanto non facessi tu, debbo aggiungere) e stanno leggendo tutti gli ultimi sviluppi in materia teoretica, così che io possa spiegarli a te in un modo che sarebbe comprensibile anche a un bambino. Quanto all'altra questione...» Fissò Alexius dritto negli occhi. «Sembra proprio che si sia risolta da sé, adesso che quei due sono tornati là da dove erano venuti. Penso che dovremmo limitarci a gioire per essercene liberati e dimenticarci di quello che è successo.» Alexius annuì lentamente. La devastante reazione che aveva subito mezz'ora dopo che i due isolani se n'erano andati era qualcosa che non sarebbe mai riuscito a dimenticare, ma i due mesi passati sdraiato a letto a fissare i mosaici piuttosto sopravvalutati che aveva sul soffitto lo avevano aiutato a mettere l'intera questione nella giusta prospettiva. Riconsiderando la cosa, era piuttosto chiaro quello che era accaduto; una sfortunata coincidenza fra il suo sciocco esperimento di maledizione per procura e la presenza in città di una persona con poteri naturali, che aveva smosso forze straordinarie in seno al Principio senza avere la più pallida idea di cosa stesse facendo e quindi, di conseguenza, nella assoluta impossibilità di
controllare gli effetti della propria interferenza. Una volta che essa se n'era andata, le reazioni erano svanite (appena in tempo, o senza dubbio a quel punto lui sarebbe già morto) e il buon senso suggeriva che, se non c'erano più reazioni, voleva dire che in qualche modo ogni cosa era tornata al suo posto. Le discrete indagini svolte da Gannadius avevano rivelato che Loredan, l'avvocato, conduceva una vita serena e prospera come istruttore, che la misteriosa ragazza sembrava essere completamente svanita e che, almeno per ora, non si erano manifestate né pestilenze né terremoti anomali. Quindi tutto andava bene... (Ma non era così, naturalmente; per quanto tentasse di rassicurare se stesso che tutto era finito, non poteva togliersi dalla testa quella terribile sensazione di essere stato manipolato, così facilmente manipolato da qualcuno che maneggiava ogni aspetto del Principio con la stessa abilità e confidenza con cui Bardas Loredan usava la sua spada preferita. E non si trattava della ragazza, di questo era sicuro, né poteva trattarsi del suo piuttosto ordinario fratello, o di qualcuno che viveva in città se era per questo... Quindi di chi poteva essersi trattato? E, ciò che lo turbava ancora di più, a che scopo?) «A questo punto me ne vado» disse Gannadius. «Ci vediamo... Ah, ecco Dalmatius con le tue lettere. Nessun riposo per i dannati, dopo tutto.» Alexius cercò di nascondere un gemito mentre il più laborioso e agitato dei suoi giovani segretari entrava nella stanza. Gannadius trovò che non c'era momento migliore per filarsela e lo abbandonò, a cavarsela come meglio poteva. «Non ci sono molte cose con cui sono costretto a importunarvi oggi» cinguettò il giovane, lasciando cadere in grembo ad Alexius un grosso mucchio di incartamenti e posizionandogli accanto una candela in precario equilibrio. «Lettere Encicliche agli archimandriti sui nuovi protocolli dottrinari...» «Quali nuovi protocolli dottrinari? E da quando abbiamo una dottrina? Siamo scienziati, non sacerdoti...» Dalmatius gli rivolse un'occhiata paziente, rendendo palese che sopportare Alexius non gli costava più di tanto. «Vi ho già spiegato tutto la scorsa settimana» disse. «Sul fatto che il conclave generale ha risolto il dibattito sintesi/diatesi molto semplicemente, riducendo il numero di principi elementari riconosciuti da sette a sei. È tutto piuttosto...» «Meraviglioso» borbottò Alexius. «È una idea davvero brillante quella di modificare le leggi di natura purché sia fatto con un voto democratico!
Penso sia venuto il momento che esca da questo letto e metta la parola fine a tutte queste sciocchezze.» «Non pensateci neppure» rispose Dalmatius con feroce allegria. «Se solo vi azzarderete a mettere piede a terra, i dottori vi spelleranno vivo. Comunque, questi sono i protocolli» continuò, separando uno spesso mucchio di documenti dagli altri, che gli agitò sotto il naso. «Questi incartamenti sono solo decreti, più la vostra corrispondenza privata.» Mentre Alexius sigillava le lettere e cercava di concentrarsi sul non dare fuoco alle coperte con la candela, Dalmatius gli diede le ultime notizie. «Si dice in giro» cinguettò «che i clan stiano nuovamente preparando qualcosa di brutto. Per quanto mi riguarda, sarebbe ora di fare qualcosa in proposito.» Alexius, che si era appena versato della ceralacca bollente sul dorso di una mano, alzò lo sguardo. «Davvero? Di che genere?» «Dovremmo mandargli contro un esercito» rispose Dalmatius. «Spazzarli via una volta per tutte. Quello che voglio dire è che non ha proprio senso lasciare che orde di selvaggi vivano sui gradini di casa nostra.» Sei anni prima, ricordò Alexius, Dalmatius si era trovato su una barca che stava attraversando il Mare di Mezzo, provenendo dalla brutta cittàstato di Blemmya, insieme a circa duecento altri rifugiati che erano stati cacciati a causa del naso grosso e del colore dei capelli. Era tutt'oggi perfettamente in grado di smarrirsi fra il ponte Carters e l'Accademia Cittadina. Era interessante notare come in soli sei anni si fosse ripreso a tal punto dalla dose di intolleranza umana provata sulla sua pelle, da potere adesso consigliare con perfetta serenità la persecuzione di qualcun altro. «Non sapevo che avessimo ancora un esercito» disse Alexius dolcemente. «Sono sicuro che lo avrei notato, se fosse così.» «Si può sempre arruolarlo» spiegò Dalmatius «e poi naturalmente c'è la guardia cittadina. Più di quanto serve per dare una bella lezione a una pletora di selvaggi. A quanto pare stanno macchinando qualche cosa a monte del fiume. Fanno scendere lungo la corrente grosse zattere di tronchi, che ci crediate o no. È tutta una cosa senza senso, questo è ovvio. Voglio dire» aggiunse con una risatina «che cosa se ne può fare un mucchio di selvaggi di un fiume pieno di tronchi?» Loredan, a cui era stata fatta la stessa domanda, evitò di rispondere. Stava aggiustando uno dei fioretti da esercitazione con dello spago da marinaio e della colla, il che gli diede la scusa per fingere di non avere
sentito. «A quanto sembra» insistette Athli «si parla di inviare una spedizione agli ordini di quell'uomo... Oh, come si chiama? Ce l'ho sulla punta della lingua.» «Fammi un favore e metti un dito proprio qui... No, lì, ecco così... Mentre ci spalmo su un po' di colla. Attenta a non incollarti il dito.» «Maxen, ecco qual è. Generale Maxen. Dicono che il suo nome sia una leggenda nelle pianure.» Loredan aggrottò la fronte e intinse il pennello nella pentola della colla. «È morto» rispose. «Ormai sono dodici anni che è morto.» «Oh.» Athli si strinse nelle spalle. «Chi è che comanda l'esercito, allora?» «Nessuno.» La colla era troppo liquida. Loredan fece schioccare la lingua, aggiunse un altro pizzico di polvere e mescolò la pentola. «E non c'è neppure un esercito, a meno che tu non voglia prendere in considerazione quelle decorazioni per le mura che chiamano guardie cittadine. Sono dodici anni che non abbiamo un esercito. Ed è una gran bella cosa, se vuoi il mio parere. Dovremmo considerarci fortunati di non avere bisogno di averne uno e accontentarci.» «Posso muovere il dito, adesso?» «Resisti ancora un secondo, fino a quando la colla sarà calda. Dunque, che cosa si pensa che stiano tramando i clan, secondo le tue così affidabili fonti?» «Non lo so, come potrei saperlo? Qualcuno parlava di un gran numero di tronchi che starebbero facendo scendere lungo la corrente del fiume in questa direzione, ma mi sembra che non sia il genere di cosa a cui si dedicano i clan; voglio dire, quando mai si sono occupati di barche, navigazione, fiumi e roba del genere?» «Mai, o perlomeno» ammise «mai in passato. Forse adesso lo fanno. Dato il ritmo con cui ci serviamo di legname in questa città, forse lo stanno portando qui per vendercelo. Il guadagno varrebbe lo sforzo, se fosse così.» «Probabilmente è questa la spiegazione, allora. Solo che mi è sembrato di sentire dire che ci hanno dichiarato guerra, o qualcosa del genere. A quanto pare il vecchio capo è morto e suo figlio è una specie di tizzone d'inferno.» «Oh, probabilmente sono solo sbruffonate» disse Loredan, con gli occhi fissi sulla giuntura che stava cercando di fissare con la colla. «Quando un
nuovo capo sale in carica, è normale che faccia rullare un po' di tamburi di guerra e lanci qualche roboante proclama. Fa sentire tutti felici di essere dei grandi guerrieri. In realtà non succede poi nulla.» «Ah.» Athli starnutì, per effetto dei fumi della colla che stava bollendo. «A quanto pare sai un sacco di cose sui clan» disse. «Come mai?» «Cose che ho sentito. Storie raccontate dai soldati, quel genere di cose. Nelle taverne fumose si tende a incontrare un mucchio di vecchi veterani. Sì, adesso puoi togliere il dito, grazie. Passami quello spago e avrò finito.» «È un pensiero preoccupante, comunque» riprese Athli dopo un breve attimo di silenzio. «Che cosa succederebbe se si mettessero in testa di attaccarci? Se non abbiamo un esercito...» Loredan fece un'espressione esasperata. «Se avessimo un esercito» ribatté «avrebbero qualcuno con cui combattere. Ed è quello l'unico modo in cui potremmo subire una sconfitta, considerando che quelle sono brutte bestie da incontrare in campo aperto, o così ho sentito dire» aggiunse. «Stando le cose come stanno, la sola cosa che potrebbero fare se ci assalissero, sarebbe di starsene seduti sull'altra sponda del fiume a guardare le navi cariche di grano che entrano in porto. Forse hai notato quelle grosse costruzioni di pietra... Noi le chiamiamo mura...» «Va bene, non c'è motivo di essere tanto ironico. Continuo a pensare... Be', siamo tutti cresciuti nella convinzione che le mura siano del tutto imprendibili, ma personalmente non so un bel niente di assedi e roba del genere. Come facciamo a essere sicuri che siano davvero insuperabili?» «Be', il fatto che la città non sia mai caduta per un attacco da terra è già un bell'indizio» rispose, mentre avvolgeva pazientemente lo spago intorno alla lama del fioretto. «E non perché non ci abbiano provato, bada. Se tu volessi conquistare la città, dovresti essere dotato di tutto il necessario equipaggiamento: macchine, torri da assedio, arieti, scale per varcare il fossato. Tutto ciò è assai al di là delle capacità dei clan. No, il solo modo in cui potrebbero entrare sarebbe se qualcuno gli aprisse la porta dall'interno, il che mi sembra francamente improbabile.» «Non c'è problema, allora.» Athli si alzò in piedi, pulendosi le mani su un pezzo di straccio che Loredan aveva appoggiato per traverso sullo schienale della sedia. «D'altronde immaginavo che fosse solo una chiacchiera, perché se no l'Imperatore starebbe già facendo qualcosa in proposito.» «Be', è naturale. È per questo che ne abbiamo uno.» Fece un semplice, ordinato nodo e tagliò lo spago con i denti. «Se proprio vuoi terrorizzarti e
andare a dormire con l'ossessione di una invasione straniera, è molto meglio che ti dedichi al panico per un attacco di quelli dell'Isola.» «Pensavo che fossero nostri alleati» obiettò Athli. «Lo sono, fino a un certo punto. Fanno un mucchio di affari con noi, ma questo non significa che non preferirebbero comunque prendere le merci senza pagare. Più precisamente, sono gli unici ad avere una flotta, che sia pure al limite, potrebbe essere abbastanza forte. Certo, non gli sarebbe facile superare le catapulte e le barriere galleggianti che bloccano gli stretti. Onestamente, non vedo nessuno con un minimo di cervello cercare di attaccare la Città. Ci sono un mucchio di bersagli più facili a cui dedicarsi prima. Ecco, questo è a posto. È solo il secondo che ho dovuto riparare fino ad adesso. Se vuoi il mio parere, niente male.» Accese una candela e spense la lampada con un soffio. Non c'era più nessuno nelle Scuole a quell'ora di notte; fortunatamente era riuscito a convincere il governatore a dargli una chiave dell'ingresso laterale. «Andiamo a mangiare un boccone» disse. «È stata una giornataccia.» Aveva già infilato la chiave nella serratura quando qualcuno lo chiamò per nome. Si voltò e con sua grande sorpresa vide come-diavolo-si-chiama, la strana ragazza che faceva parte della sua classe. «Salve» disse. «Che cosa fai qui a quest'ora di notte?» «Mi avete detto che devo allenarmi nella presa a braccio teso» rispose, con un tono come se la sua domanda l'avesse offesa. Aveva l'aria stanca; la fronte era imperlata di sudore e i capelli della frangia erano irti. «Se potete dedicarmi un minuto, vi sarei molto grata se poteste osservarmi mentre faccio l'esercizio. Vi va?» Loredan inarcò entrambe le sopracciglia. «Perché no?» disse in tono dubbioso. La ragazza fissò prima lui e poi Athli. «Se c'è un extra da pagare sarò ben felice...» «Il prezzo normale più un quarto a ora: è il costo per le lezioni individuali» disse Athli con fermezza. «Lo metterò nel tuo conto.» Lanciò un'occhiata a Loredan che voleva dire: Attenzione, questa ragazzina ha delle fantasie su di te. Loredan la interpretò correttamente e scosse lievemente la testa. Personalmente, non pensava affatto che fosse così. Però la ragazza era strana, su questo non c'erano dubbi. Non che non avesse una sua personalità; anzi, se mai il contrario, questo era sicuro. Ma era come se tenesse uno schermo innalzato intorno a sé, come il sipario di seta dipinta che si
supponeva celasse l'Imperatore quando dava udienza, in modo che la sua persona non fosse neanche sfiorata dagli sguardi della gente comune. O qualcosa del genere. Comunque, era strana. «Resti qui intorno?» chiese ad Athli con una nota di nervosismo nella voce. Lei fece cenno di no con la testa. «Me ne vado a casa» rispose. «Nessuno paga il mio tempo.» Loredan la fece uscire e poi richiuse la porta. «Bene» disse. «Visto che abbiamo tutto il posto per noi direi di usare l'arena delle esibizioni, dove possiamo fare un po' di luce.» Fece un vago gesto in direzione dell'alto arco dall'altra parte rispetto a dove si trovavano loro. «Porta una torcia che accendiamo i candelabri.» Non avrebbe saputo dire perché, ma provò una sensazione di disagio mentre attraversavano la grande arena vuota. Era stata costruita come una copia fedele di quella del tribunale, perché l'idea era quella di abituare gli studenti all'atmosfera delle grandi occasioni, ai banchi degli spettatori e all'acustica peculiare, che potevano essere una grave forma di distrazione se uno non c'era abituato. Non erano proprio riusciti nell'impresa (in nessun altro luogo fuori dalla corte il rumore di due spade che si incrociavano era così sonoro e acuto), ma le somiglianze erano sufficienti da mettere Loredan a disagio. «Illuminiamo prima il posto come si deve» gridò, felice di sentire che la sua voce suonava piena e fiduciosa nella vuota oscurità. «Approfittiamone, visto che non paghiamo le candele.» Lei non rispose e Loredan si sentì piuttosto sciocco; perché tutte quelle chiacchiere, come se si fosse trattato di un'occasione mondana? Perché ho accettato di restare? mormorò a se stesso. Magari Athli ha ragione e la ragazzina mi ha attirato qui per attentare al mio onore. Pensò al viso della fanciulla. Non gli era mai venuto in mente di fare caso se fosse carina o no. Pensandoci obiettivamente, lo era, anche se di una bellezza un po' angolosa, ma... No, stava facendosi trascinare dalla fantasia. Non era il tipo. «Va bene» disse, piazzando l'ultima candela nel candeliere «diamoci da fare. Usa la spada nella sacca rossa. Sii prudente, bada. Quella è la mia Spe Bref.» La ragazza annuì e sciolse il nodo. Si mangia le unghie, non lo avevo notato. In mano sua la spada sembrava stranamente estranea, come se la sua lealtà potesse essere posta in dubbio. Lasciò cadere la sacca e tese la lama stendendo il braccio davanti a sé, posizionando piedi e spalle e
irrigidendo la schiena. «Così va quasi bene» disse Loredan, cercando di avere un tono incoraggiante. «La spalla sinistra portala un po' più indietro e allinea il piede destro con la lama. Meglio, ora sei perfetta. Mantieni la posizione.» Cominciò a contare sotto voce, mentre scioglieva l'imboccatura della seconda sacca. Per qualche ragione le sue dita si muovevano goffamente e si spezzò un'unghia sulla corda robusta. «Ti stai rendendo le cose più complicate» disse, tirando fuori la spada da cavaliere e impugnandola. «Stai stringendo l'elsa invece di lasciare che ti stia appoggiata in mano. Qui, guarda me.» Si mise in posizione di fronte a lei, alzando lentamente il braccio destro e la spada, fino a quando le due lame formarono un'unica linea retta. «Vedi, lascio che le punte delle dita e la base del pollice facciano tutto il lavoro. Lo scopo dell'esercizio sta tutto qua; una presa morbida è molto più sicura di una da fare sbiancare le nocche e ti consente di muoverti più liberamente. Ecco, ora stai andando molto meglio. Continua così, te la stai cavando brillantemente.» Non sembrava che gli stesse dando retta; o meglio, sembrava fregarsene dei suoi consigli e dei suoi incoraggiamenti. Era una sensazione che aveva già provato: che lei non volesse imparare, ma che dovesse imparare, come se si trattasse di un orribile, ma inevitabile compito. Oh, be', mi capita gente di tutti i tipi. E sono felice di dire che le sue motivazioni non sono affari miei. «Va bene, riposati» disse quando fu trascorso un intero minuto. La ragazza lo guardò corrugando la fonte, come se fosse sul punto di obiettare, poi abbassò la spada. «Fra un attimo lo faremo di nuovo e cercheremo di resistere per due minuti, ma stavolta comincia con la presa che ti ho spiegato e li conteremo da quel momento. Va bene?» Lei annuì. Il breve movimento della sua testa fu molto preciso, una efficiente comunicazione, designata allo scopo di minimizzare al massimo il contatto fra di loro. Fu un po' come lo scambio di cenni che precede un duello, dopo che il giudice ha dato il via; il modo in cui comunicano due nemici quando non resta niente altro da dire se non Adesso cerchiamo di ucciderci l'un l'altro. Quella riflessione scosse un po' Loredan. «Bene. Adesso.» Sollevarono le braccia esattamente nello stesso momento e Loredan si ritrovò a fissarla negli occhi al di sopra di una striscia d'acciaio. Fu un momento sgradevole, un po' come essere di nuovo in tribunale, però peggio. A corte, quando fissava il suo avversario negli occhi, poteva sempre scorgere un residuo bagliore di paura e ovviamente
l'altro poteva fare lo stesso con lui. Era l'ultimo scambio di umanità condivisa, la sola cosa che avevano in comune giunti al momento finale. Negli occhi della ragazza non c'era paura, solo una piuttosto sgradevole assenza di qualunque emozione. Mai più, promise a se stesso. E al diavolo il denaro. Stava contando; un minuto e quarantacinque, un minuto e cinquanta e lei non si era mossa di un millimetro. Un'impresa notevole per una che durante le ore di lezione era stata palesemente carente in quell'esercizio. In qualche modo la cosa lo preoccupava... Forse lo aveva fatto deliberatamente male proprio per convincerlo a concederle quella sessione, anche se era al di là della sua comprensione perché diavolo avrebbe dovuto farlo. Ciò nondimeno c'era, inconfondibile, la sensazione di venire manipolato, unita alla precisa e inquietante percezione che qualcuno li stesse osservando. Avanti, Bardas, la prossima volta comincerai a vedere rane rosa. Falla finita con questa storia e vattene a casa. Un minuto e cinquantotto; la punta della spada della ragazza vibrò, anche se solo impercettibilmente e lei emise un piccolo grugnito, che Loredan riconobbe come un segno di pura agonia. Su questo solidarizzava con lei; la sua spalla e il suo bicipite erano in preda a dei veri e propri crampi, anche se lui aveva l'esperienza dalla sua parte. La punta della spada sobbalzò di nuovo e poi un'altra volta; stavolta si era trattato di un movimento più evidente e incontrollato. Basta così, decise Loredan; poi, d'impulso, si disse: Mettiamola alla prova sul passo successivo, recupero dopo essere stata in guardia. Se lo merita, dopo avere fatto così bene l'esercizio. Controllò rapidamente di essere in linea e poi fece un affondo verso di lei. La ragazza capì al volo e parò, dopo di che si scambiarono due o tre colpi (questa è abilità naturale, non ci sono dubbi; sono geloso), fino a quando Loredan non le fece saltare la spada di mano con una breve e secca torsione del polso che gli fece dolere i muscoli fino al gomito. Il dolore fu tale che rimase per un attimo senza fiato; si piegò quasi in due, stringendosi l'avambraccio e imprecando a mezza voce. La ragazza sembrava furente con se stessa e non disse una parola. «Se la cosa può consolarti» disse Loredan senza fiato «è stata una prova davvero notevole. Stai veramente cominciando a capire come si fa.» Si massaggiò il muscolo alla sommità dell'avambraccio, rimpiangendo amaramente l'impulso di dare un po' di spettacolo che lo aveva portato a farsi male e gli aveva causato imbarazzo davanti a uno studente. Lei non sembrava avere preso nota della cosa, però.
«Ho fallito» borbottò la ragazza di rimando. «Ho lasciato che mi batteste.» Per qualche ragione quella osservazione fece sentire Loredan decisamente a disagio. «Andiamo» disse, cercando di avere un tono gioviale. «Si suppone che io sia il tuo istruttore.» «Essere bravi non è sufficiente» ribatté lei e Loredan ebbe la netta impressione che non stesse parlando con lui. «Si può essere bravissimi e morire lo stesso, se l'avversario è più bravo.» Loredan fece spallucce, cercando senza grande esito di rasserenare l'atmosfera. «Sai» disse «sono proprio felice di essermi ritirato quando l'ho fatto. Se c'è una cosa che non ho mai sopportato, sono i perfezionisti.» La ragazza lo guardò con risentimento, con le braccia conserte, stringendosi le spalle fra le dita. Loredan aveva già visto donne in quell'atteggiamento e aveva una vaga idea di cosa significasse. Non capiva cosa stesse succedendo e in fondo si augurò di non doverlo mai scoprire; nonostante ciò, sentì di dovere dire qualcosa. «Scusa se mi faccio gli affari tuoi» disse «ma perché questa cosa è così importante per te? Stai facendo ottimi progressi, sai, molto più di tutti gli altri...» Lei girò la testa lievemente dall'altra parte, come se volesse sottrarsi alle sue parole. «Voglio fare bene» disse. «Be', lo stai facendo. Hai un talento naturale per la scherma, cosa che non si può dire di molta gente.» Gli venne improvvisamente un'idea. «È una cosa ereditaria, forse?» «Mio zio era un avvocato.» Adesso lo stava fissando negli occhi, come poco prima, solo che ora non c'erano due metri d'acciaio a dividerli. «Forse avete sentito parlare di lui: Teofil Hedin.» Loredan corrugò la fronte; faceva suonare un campanello nella sua testa, ma niente di più. «Sono negato per i nomi» rispose. «Non dimentico mai una faccia, ma i nomi mi entrano da un orecchio e mi escono dall'altro.» Fece un risolino piuttosto acido. «Fra l'altro» aggiunse «in questa professione molto spesso capita di incontrare la gente un'unica volta, per cui non ha molto senso tenere i nomi a mente.» «Sì, capisco.» Raccolse la spada e la resse per la lama, appena al di sotto dell'elsa. «Possiamo rifare l'esercizio ancora una volta?» Oh no, non vorrai rifarlo veramente? «Sì, perché no?» rispose nel tono più allegro che gli riuscì. «Stavolta però lascerò che tu faccia da sola. Se finisco per slogarmi un polso, ci rimetto un mucchio di denaro.»
Lei annuì, afferrò la spada dalla parte dell'impugnatura e stese innanzi a sé il braccio, abbassando poi la punta della lama fino a toccare il pavimento. «Stavolta vorrei provare per quattro minuti.» Loredan fece spallucce. «Se vuoi» disse. «Va bene. Adesso.» La ragazza sollevò la spada; la punta era direttamente in linea con l'incavo alla base della gola di Loredan, nella perfetta guardia della vecchia scuola. Bardas si voltò, contando sottovoce e rimise la propria spada nella custodia. Quando tornò a girarsi, lei non si era mossa di un millimetro. Davvero impressionante, anche se era una specie di maniaca. «Quando ti eserciti per conto tuo» disse «comincia sempre con un minuto e poi aumenta via via; non cercare di fare tre o quattro minuti fino dall'inizio. È meglio per te ed è anche più utile.» Gli occhi della fanciulla non lo mollarono mai; o, più precisamente, non si staccarono mai dai pochi centimetri quadrati della sua gola che costituivano il bersaglio. Era come se avesse fatto quello tutta la vita, rifletté e gli passò per la testa che se si fosse mosso in quel momento (se avesse accennato a piegare il ginocchio destro, o avesse spostato il peso mutando l'equilibrio), lei lo avrebbe trafitto prima che avesse la minima speranza di spostarsi dalla traiettoria. Si accorse che gli sudavano le mani e sentì il bisogno irrefrenabile di fare due passi indietro. Ma questo sarebbe stato... «Tre minuti» disse. «Tenta di arrivare a quattro.» Poi l'avvertì di nuovo: una opprimente sensazione di essere osservato, come un pezzo in mostra o un esperimento scientifico. Qualcosa stava per succedere, ne era sicuro. Ma la ragazza era immobile come una statua, come se un dio l'avesse paralizzata nell'atto di prepararsi per un affondo. L'impulso ad allontanarsi dalla spada stava diventando quasi incontrollabile... Istinto. Dopo dieci anni passati a fare l'avvocato, non c'è da stupirsi se mi viene voglia di saltare indietro tutte le volte che qualcuno mi punta addosso una spada, disse Loredan a se stesso. La cosa cominciava a dargli sui nervi più di quanto fosse normale; a parte le mani sudate, realizzò che stava cominciando a essere attanagliato da quello che si preannunziava come un tremendo mal di testa. Tre minuti e venticinque e ancora non il minimo movimento della punta della spada. Il che dimostra solo quale straordinario insegnante io sia. Tre minuti e cinquantacinque e gli occhi cominciavano a giocargli degli scherzi. Sapeva che la ragazza non aveva fatto il minimo movimento, ma era come se potesse vedere il presente e il futuro nello stesso momento: la
punta della lama immobile nell'aria e, contemporaneamente, che puntava contro di lui, perfettamente in linea. Se affonda per davvero il colpo, pensò nervosamente, potrò prendermela solo con me stesso. Tre minuti e cinquantanove... Alle sue spalle, sentì il suono di qualcuno che si schiariva la gola. Loredan si girò di scatto, nel preciso istante in cui la ragazza piegava il ginocchio destro e abbassava la punta della spada. Sotto l'arcata c'era un uomo che li osservava. «Mastro Loredan?» Dannazione, era Lethas Modin, uno degli uomini del governatore e non aveva un'aria lieta. «Ho visto la luce.» Loredan abbassò lievemente lo sguardo. «Stavo dando a questa studentessa un po' di lezioni extra» disse, cercando di mantenere un tono piatto. «È una ragazza davvero promettente. Mastro Modin, la mia allieva...» Maledizione. Non ricordo il suo nome. Sono negato per i nomi. La ragazza disse con aria burbera come si chiamava. Mastro Modin non sembrò particolarmente interessato. «Vi sarei grato se mi faceste sapere in anticipo quando intendete servirvi di queste strutture per lezioni extra curricolari» disse in tono irritato. «Per parlare chiaramente, ci sono costi addizionali; candele, noleggio dello spazio e cose del genere. Per questa volta farò finta di niente, ma se intendete fare regolarmente cose del genere...» Loredan aggrottò le sopracciglia. L'emicrania gli era scoppiata del tutto, adesso e l'ultima cosa che desiderava era starsene lì a farsi rimproverare da un membro del governatorato, davanti a una studentessa. E in ogni caso, che cosa diavolo ci faceva lì quel vecchio sciocco a quell'ora di notte? Quella gente non aveva una casa a cui fare ritorno? «Grazie, Mastro Modin. Terrò certamente la cosa a mente e la prossima volta vi avvertirò. E se sarete così gentile da fare sapere alla mia assistente quanto vi devo per le candele...» Modin respinse l'offerta con un gesto petulante. «Avete intenzione di restare qui ancora a lungo?» chiese. «Sempre per parlare chiaro, dovrebbe esserci un rappresentante del governatore presente nell'edificio ogniqualvolta ne vengono usati gli spazi, per l'eventualità che si verifichino incidenti; formalità inevitabili, sapete.» Guardò la ragazza, come se lo sguardo gli fosse caduto su qualcosa di strano che però non sapeva cosa fosse. «Pensate al disdicevole incidente dell'altra settimana, per esempio. Nel caso che... ehm... sia versato del sangue entro queste mura, siamo direttamente responsabili davanti alle autorità.»
Per qualche ragione, Loredan sentì un brivido gelido corrergli giù per il collo. «Vi chiedo scusa, Mastro Modin» rispose un po' rigido. «E per questa notte abbiamo finito, grazie. Sono spiacente per qualunque... inconveniente.» Il funzionario soffiò attraverso il naso, manifestando così tutta la sua disapprovazione. «Molto bene, Mastro Loredan. Signorina» aggiunse, facendo con aria riluttante un cenno del capo in direzione della ragazza. «Buona notte.» Una volta che si fu chiuso alle spalle la porta secondaria delle Scuole, Loredan si sentì molto meglio. La testa gli pulsava ancora come fosse martellata da un maglio, ma gli faceva meno male che poco prima. Allora? Che cosa significa tutto ciò? Be', perlomeno possiamo accantonare la teoria di Athli. Tolse la chiave dalla serratura, la lasciò cadere nella scarsella e si gettò in spalla le sacche delle spade. Era una notte fredda e annusò aria di pioggia. Dal rosso al blu; dal blu al verde; osserva tutti i colori dell'acciaio a mano a mano che assorbe il calore della fornace. Attendi l'ultimo cambiamento, quando il verde si scurisce fino a diventare quasi nero, ma approfitta di quell'attimo, prima che passi... «Così va bene» disse Temrai, asciugandosi il sudore dalla fronte con una manica. «Adesso temperalo, sbrigati.» Il lungo e piatto nastro d'acciaio sibilò nell'acqua e divenne invisibile sotto una coltre di vapore. Quando il sibilo fu cessato lo tirarono fuori e Temrai lo esaminò con cura. «Va bene» disse, cercando di nascondere la propria apprensione _ Adesso piegatelo in due. Ci vollero due uomini robusti e quasi non ce la fecero; ma finì per piegarsi come le due estremità di un arco, senza spezzarsi. «Ci siamo» disse Temrai sollevato. «Va bene. Adesso sappiamo come fare a temperare le lame per ricavare delle lunghe seghe.» Li lasciò intenti ad affilare i denti della sega, usando schegge di arenaria spezzate a forma di cuneo e tornò indietro lungo la riva fino al campo in cui c'era il principale deposito di tronchi. Usando seghe di due e tre metri invece delle asce, dei coltelli e delle azze potevano abbattere alberi e trasformarli in pali e assi al doppio e forse anche al triplo della velocità. Il che era il minimo se tutti i tronchi di cui aveva bisogno dovevano essere riuniti alla stazione alla foce del fiume prima che arrivasse l'inverno e
congelasse ogni cosa. Trasportare tutto quel materiale con i carri, specie attraverso passi pieni di neve, era una complicazione di cui preferiva fare a meno. Tutta la vallata era piena di rumore e di movimento. Sulle colline, al di sopra della striscia che avevano già disboscato e trasformato in una distesa di rami tagliati e mozziconi di tronchi, la foresta echeggiava del rumore di centinaia di asce e delle grida dei boscaioli, e di quelli che guidavano le bestie da soma, mentre pariglie di cavalli e di buoi venivano aggiogate a mucchi di tronchi abbattuti. In basso, sui moli dove venivano formate le zattere, i tronchi venivano staccati e fatti rotolare in acqua, per venire fissati e legati insieme, dando vita appunto a delle zattere. Quelli che ci lavoravano saltavano di tronco in tronco, imprecando, gridando, ma riuscendo in qualche modo a svolgere il proprio compito. Impariamo nell'atto stesso in cui lo facciamo, rifletté Temrai con un misto di stupore e di panico. Be', adesso abbiamo seghe da usare. Sarebbe stato interessante provare a costruire seghe mosse dall'acqua come quelle che ho visto in città, ma credo che ci manchi il tempo. E inoltre, una cosa è essere astuti e una cosa è agire da astuti solo per il piacere di farlo. La cosa che lo preoccupava di più erano i calcoli ipotetici che avevano fatto. La prima settimana che avevano passato lì, tutto ciò che lui e la sua gente avevano fatto era stato contare alberi, intagliare segni in quelli abbastanza alti e diritti da meritare di essere tagliati, cercare di stimare quante assi utilizzabili e quanti pali avrebbe prodotto ogni albero, e poi, come se non bastasse, di intuire di quanti pali e di quante assi avrebbero avuto bisogno per costruire un non ben specificato numero di catapulte e altre macchine. Alla fine della settimana si era arreso e aveva dato ordine di abbattere tutto quello che sembrava anche in parte utilizzabile. Alla fine il legname sarebbe stato o troppo poco o decisamente eccessivo. C'era anche il problema di mantenere il clan sedentario in un luogo che in generale era tutt'altro che adatto, per un periodo di tempo così lungo da essere senza precedenti. Avevano già dovuto inviare il bestiame lontano, risalendo il fiume per trovare nuovi pascoli e questo li aveva privati di un certo numero di uomini che invece gli avrebbero fatto maledettamente comodo. Questo aveva voluto dire destinare ancora più uomini a procurare provviste servendosi dei carri, e a cacciare selvaggina nel profondo della foresta dove non arrivava il rumore e la confusione non aveva fatto fuggire gli animali. Se a questo si aggiungevano i gruppi che aveva dovuto inviare a procurare minerale ferroso e calce, quelli necessari per bruciare il
carbone e il contingente che faceva la guardia alle donne impegnate a raccogliere e intrecciare giunchi per fare fronte alla quasi strabiliante quantità di funi di cui sembravano avere bisogno... Bah, in qualche modo sembrava che restasse sempre abbastanza gente da fare procedere il lavoro. Questo clan è davvero numeroso, siamo più di quanti non pensassi. «Immagino che la sega funzionasse.» Jurai si era materializzato alle sue spalle, sporco di fango e spettinato dopo essere stato a supervisionare la partenza delle ultime zattere di tronchi. «Molto bene. Devo dire ai fabbri di smetterla con i chiodi e di cominciare a produrre seghe?» Temrai fece cenno di no con la testa. «Ci ho già pensato io» disse. «Quelli che fabbricavano chiodi adesso stanno facendo punte di freccia e quelli che preparavano frecce hanno cominciato a realizzare seghe. Le squadre di affilatoli stanno insegnando ai pochi ragazzini dai cinque ai sette anni che non sono già impegnati come molare le punte di freccia, in modo da potersi dedicare all'affilatura delle seghe. E ho messo i tagliatori di pietre al lavoro, a preparare pietre da affilatura, il che significa... Comunque» aggiunse con un sorrisetto stanco «è tutto sotto controllo.» Si interruppe e lasciò vagare lo sguardo sulle migliaia di puntini indaffarati che si muovevano avanti e indietro nel paesaggio disalberato e irreale. «Dobbiamo essere pazzi» disse «anche solo a provare a fare tutto questo. La gente della Città ha impiegato centinaia di anni a imparare le cose che sa...» Jurai fece spallucce. «Sono stati gentili a fare la parte noiosa per noi» disse. «E alla fin fine, gli sta bene.» Passò anche lui un momento a guardarsi intorno; forse ciò che vide non gli piacque particolarmente. «Solo gli dei sanno che effetto avrà su di noi tutto questo» disse in tono sommesso. «La gente ha già cominciato a mormorare. C'è chi dice che non è una cosa giusta.» «Ci avrei scommesso» borbottò Temrai. «Di che si tratta, stavolta? Stiamo offendendo gli dei del fiume, o quelli della foresta, oppure quelli del fuoco...» «Tutti quanti» rispose Jurai divertito. «Ma la cosa che dicono di più è: se la gente della Città è cattiva e merita di essere spazzata via, per quale esatta ragione ci stiamo spezzando la schiena nel tentativo di diventare come loro?» «Ah» sorrise Temrai, con aria abbastanza triste. «Non so la risposta a questa domanda. Forse l'imitazione è la più sincera forma di adulazione. Loro hanno tentato di spazzare via noi; abbiamo imparato dal loro
esempio.» Si strinse il volto fra le mani. «Anch'io non ne sono entusiasta. E tuttavia è una cosa che deve essere fatta. Credo che alla fine dei conti, su questo punto siamo tutti d'accordo. E tutti quelli che pensano che possiamo superare le mura di Perimadeia con una carica di cavalleria sono invitati caldamente a venire da me a spiegarmi come pensano che sia possibile farlo. Sono ansioso di scoprirlo.» Sbadigliò, si stirò e si alzò in piedi. «Bene» disse sbrigativamente «adesso pensiamo alle aste delle frecce. Sarà bene che vada a vedere come se la stanno cavando.» La sezione in cui venivano fabbricate le aste era un'area piena di gente all'interno di una valletta dalle sponde alte, proprio al di sopra del ciglio della collina più vicina, che era già stata completamente privata degli alberi. Mentre scavalcava la cresta Temrai vide quella che sembrava una piantagione di alberelli; solo che questi erano stati abbattuti, privati dei rami e piantati in terra, in attesa di agire come molle per le cento e più macchine per fabbricare aste di freccia, che Temrai si augurava di vedere all'opera dall'indomani. Dal punto di vista cittadino si trattava di oggetti molto primitivi; ogni alberello veniva piegato e una corda fissata alla sua sommità, poi avvolta intorno a un perno montato su due cavalletti e infine collegata a un pedale con dei cardini. Il carpentiere premeva il pedale con il piede, facendo tendere la corda e facendo così girare il perno in una direzione. Poi l'alberello raddrizzandosi traeva la corda a sé e faceva girare il perno nella direzione opposta. L'estremità del perno era dotata di due rebbi che si conficcavano a un capo del pezzo di legno destinato a trasformarsi in un'asta di freccia; l'altro capo era supportato da una trave che lo teneva orizzontale. Quando il perno girava lo stesso accadeva al pezzo di legno e il carpentiere vi premeva contro un'affilata lama d'acciaio, strappandogli trucioli e alla fine ottenendo una sottile asta perfettamente diritta... (Ma stiamo usando soprattutto legna verde, che nella migliore delle ipotesi significa frecce schifose, che voleranno lente e storte anche nel caso che non si spezzino contro la corda dell'arco. Forse stiamo sprecando tempo ed energie facendo tutto questo. Se solo potessimo usare un po' più di tempo, essere sicuri di fare tutto nel migliore dei modi. Solo che faremmo in tempo a essere tutti morti prima che ogni cosa fosse veramente a posto. Tutto ciò che posso fare è cercare di agire nel modo meno sbagliato possibile.) «Quanto al numero di frecce che ci servirà» commentò Temrai mentre camminavano in mezzo alle file di macchine completate per tre quarti
«non voglio neppure saperlo. Prova a pensarci. Un uomo può mirare e scagliare dodici frecce al minuto; una di queste macchine può fabbricarne, diciamo, venti al giorno, a patto che i carpentieri siano disposti a lavorare fino a che cadono esausti. Non ne avremo mai abbastanza, anche se ci sarebbe abbastanza legno per costruire tutte le maledette frecce necessarie. E comunque è il tipo di legno sbagliato» aggiunse. «È verde. Senza contare che non so davvero dove andremo a trovare le piumette...» «Stavo proprio arrivando a questo» disse Jurai. «Uno dei miei dice che c'è un lago letteralmente pieno di anitre lassù, in mezzo alla successiva catena di colline.» «Anitre» ripeté Temrai. «Perfetto.» «Il che non è una cattiva cosa anche a prescindere dalle piumette» proseguì Temrai. «Credo che gli ultimi cervi se la siano battuta in colline lontane, e se non vogliamo cominciare a fare ricorso alle mucche da latte...» «Non ci pensare neanche. Va bene, di quanti uomini hai bisogno per andare a caccia di anatre? Non che abbia mai sentito parlare di qualcuno che usasse per le frecce piume di anatra, ma non abbiamo alternative.» Già, rifletté, nell'atto stesso di pronunciare quelle parole. Legna verde e piume d'anatra, e dovremmo essere una nazione di grandi arcieri. A quanto pare stiamo facendo del nostro meglio per fare abbandonare il nemico a un vero e proprio senso di tranquillità. A mezzogiorno il rumore e il movimento si interruppero, o per lo meno divennero meno invasivi, mentre il cibo veniva distribuito e la gente del clan si riuniva in gruppetti per mangiare. Temrai ebbe a malapena il tempo di dare un morso a un pezzo di formaggio duro prima di trovarsi letteralmente circondato; c'erano quelli perplessi, gli esasperati, i queruli, gli offesi... Come possiamo fare questo? Che cosa avremmo dovuto fare? Con che diavolo dovremmo fare questa cosa? Come ci si può aspettare che facciamo questo e quello senza gli attrezzi adatti? Ti aspetti davvero che facciamo quella cosa con questo? Rispose alle domande e alle lamentele come meglio poté, sorridendo, scuotendo la testa, simpatizzando, promettendo di pensare a qualche soluzione o di averlo già fatto, fino che alla fine si allontanarono tutti, ma era già ora di rimettersi a lavorare. Gettò il resto del formaggio a un cane di passaggio e si allontanò speditamente, per andare a vedere cosa non andasse nelle funi per le zattere, che continuavano a spezzarsi. Ah, be', si consolò, gli dei devono sentirsi continuamente in questo
modo. E pensare che un tempo li invidiavo. A metà del pomeriggio era finalmente riuscito a convincere le squadre che facevano le zattere che le funi si spezzavano perché le fissavano troppo strette. Improvvisamente notò qualcosa sull'altra sponda del fiume. Un gruppo di uomini a cavallo si stagliava sullo sfondo del cielo: stavano osservando ciò che accadeva lì da loro. Per un attimo ebbe di nuovo sette anni e si sentì in preda al terrore; voleva correre per il campo mettendo tutti in guardia. Scappate, se volete salvarvi la vita! È arrivata la cavalleria! Poi però li contò, ci rifletté, e chiamò i suoi cugini Mesbai e Pepotai, che stavano avanzando in mezzo al campo, arruolando i cacciatori di anatre. «Più in fretta possibile» disse «radunate venti uomini e salite su quell'altura girando da dietro.» Gli indicò il punto in cui si trovavano i cavalieri. «Non fate niente, arrivate solo dall'altra parte rispetto a loro e assicuratevi che non si accorgano di voi finché non sarete in posizione, poi salite sulla cresta e fatevi vedere. Se si allontanano, seguiteli ma senza entrare mai in contatto. Capito?» Pepotai, un giovanotto basso e robusto, con una lunga barbetta ispida, annuì. «Possiamo portarteli qui, se vuoi» disse. «O se preferisci, possiamo metterli in fuga.» «No.» Temrai scosse la testa in modo enfatico. «Non voglio. Per quanto dovranno saperne li amiamo teneramente e non ci sogneremmo mai di fargli del male. Per adesso voglio che continuino a cullarsi in questa illusione. Avranno tempo a disposizione più avanti per ricredersi.» Quando si furono allontanati, si concesse un'altra occhiata dall'altra parte del fiume. Erano dieci cavalieri della Città, mandati a tenerlo d'occhio, a cercare di capire cosa stesse macchinando lì giù, in mezzo a tutti quegli alberi abbattuti. Se Maxen fosse stato ancora vivo, non si sarebbero certo limitati a osservarli da rispettosa distanza. Al contrario la prima avvisaglia che avrebbero avuto sarebbe stata una carica di cavalleria pesante da tutti i lati, mentre altri allagavano il campo, gli arcieri li coprivano di frecce e lance e ogni cosa veniva data alle fiamme, prima che loro avessero una sola possibilità di arrivare a un arco o a un cavallo. C'è un'altra cosa che devo fare, decise. Mettere sentinelle su tutte le vie di approccio e anche sulla riva del fiume. A quest'ora Maxen avrebbe già bloccato il fiume, e ucciso tutti gli uomini che avessero cercato di scenderlo... Un pensiero sgradevole. Doveva tenere un gruppo di uomini sempre armati e pronti, giusto nel caso avessero tentato qualcosa? O sarebbe stato controproducente, l'esibizione di uomini in armi li avrebbe messi assai più in allarme dello
spettacolo di tanti pacifici, laboriosi boscaioli? Dei del cielo, sarò felice quando tutto ciò sarà finito e noi potremo tornare a occuparci delle cose di cui ci siamo sempre occupati. Girò la schiena alla importuna presenza della Città e si allontanò. CAPITOLO NONO L'uomo bussò, entrò, prese il candelabro e se ne andò di nuovo. Alexius, che stava dormendo, sbadigliò e si alzò a sedere nel letto. Non poteva essere già ora, o sì? Be', presumibilmente lo era. Accese la candela di una piccola lampada, trovò il punto a cui lo aveva lasciato del libro che stava leggendo e cercò di concentrarsi. Quando consideriamo l'essenziale universalità del Principio, osservandolo come un tutto e non semplicemente come la somma dei suoi molteplici effetti percepibili (che per definizione non possono essere considerati validi paradigmi dell'insieme, diluiti come sono in mezzo a circostanze materiali e puramente fortuite), possiamo finalmente cominciare ad avvicinarci, sia pur tentativamente, a uno stato di consapevolezza in cui l'infinito e l'individuale cessano gradualmente di essere distinguibili... Non andò meglio quando lo rilesse una seconda volta; era ancora come tentare di acchiappare un'oca che scappava in mezzo a degli arbusti fitti. Non mise giù il libro, ma lasciò lentamente che la sua vista smettesse di mettere a fuoco la pagina. Non molto dopo era di nuovo addormentato... ...E in piedi sulle mura della città, sulla piattaforma più alta di una delle torri che si affacciavano sulla Porta dei Mandriani, intento a osservare in distanza il punto in cui il fiume si biforcava, in direzione delle pianure. Più lontano le nuvole sembravano appoggiate sull'orizzonte; un vento teso le stava spingendo verso il mare, come un giovane cane da pastore che radunasse il gregge, ma si trattava di nuvole di polvere. In piedi accanto a lui, per qualche ragione, c'erano Bardas Loredan, l'avvocato, Vetriz e suo fratello e un uomo che non conosceva; un altro abitante dell'Isola, a giudicare dal suo assai discutibile gusto nel vestire, ma che aveva ciò nonostante intorno a sé un'aura da cittadino. Stavano tutti fissando le nubi di polvere come spettatori a una gara di cavalli o a un processo. Dopo un po', Vetriz diede un colpetto nelle costole a suo fratello. «Due quarti d'oro su questa corsa» disse. Suo fratello fece una smorfia. «Non se ne parla» disse. «Te le do dieci a uno.»
L'altro fece cenno di no. «Non accetto scommesse stupide» insistette. «Ma in altre occasioni...» cominciò Vetriz. Venart scrollò il capo e sogghignò. «Oh, be'» disse Vetriz sorridendo con fare angelico «valeva la pena di provarci.» La cosa curiosa, non poté fare a meno di notare Alexius, era che le nuvole di polvere adesso sorgevano direttamente dal mare... (Gannadius? Sei tu? Nel tuo sogno, certamente. Sarei venuto in un sogno di mia fabbricazione, ma stasera sono costretto a rimanere sveglio. Sai, devo accogliere ufficialmente l'archimandrita di Turm. Prometto che cercherò di darti il minore fastidio possibile.) ... E ora non si trattava più tanto di nuvole di polvere, quanto di vele; migliaia di vele bianco-grigie, gonfiate dal vento potente che adesso soffiava direttamente in faccia ad Alexius, tanto che le vele avanzavano verso di loro tutte insieme e a incredibile velocità; e la ragazza, Vetriz, stava dicendo: «Tre pezzi d'oro da cinque a venticinque a uno» senza trovare nessuno che accettasse la scommessa. «Tutto ciò è molto bizzarro.» Bardas Loredan stava rivolgendosi a lui, anche se aveva lo sguardo fisso sul mare. «Naturalmente vi conosco, per avervi già visto. Suppongo che quasi ciascuno in città vi conosca. Ma perché vi sto sognando? Immagino che siate una specie di simbolo della magia o qualcosa del genere.» «Con tutto il rispetto» rispose Alexius «sono io che sto sognando voi. E non sono un simbolo di magia, se mai di filosofia.» «Oh.» Loredan si strinse nelle spalle. «Scusate, ma sono tutte cose fuori dalla mia portata. Nella nostra famiglia il mistico è Gorgas. Non è vero?» L'uomo che Alexius non conosceva continuò a fissare dritto davanti a sé e annuì. «E per vostra informazione» disse «questo è il mio sogno e voi siete solo orpelli del mio...» Vetriz si svegliò con un sussulto. La luce stava cominciando a filtrare attraverso le persiane e il volto accanto al suo sul cuscino era immerso in un alone di pallida luce dorata, abbastanza intensa da evidenziare i segni e le rughe della pelle. Con gli occhi chiusi e l'aria imbronciata che la gente tende ad avere quando è profondamente addormentata, sembrava più vecchio e in qualche modo aveva un'espressione crudele. Vetriz sbadigliò e si scostò i capelli dagli occhi. «Gorgas» disse.
«Vattene.» «Gorgas. È ora di alzarsi.» «Mbz.» Vetriz scivolò fuori dal letto e spalancò le persiane. Sotto la finestra il mare era blu scuro, quasi nero, con una macchia di porpora e oro nel punto in cui le nuvole s'incontravano con l'acqua. Dalla sua finestra Vetriz poteva guardare direttamente verso le tre navi sue e di suo fratello, attraccate nel porto di Haya Morene a qualche distanza dalle altre imbarcazioni. Era il migliore ancoraggio di tutta l'Isola. Si infilò nel vestito, strinse la cintura e si passò un pettine fra i capelli. «Gorgas» disse «adesso devi veramente alzarti. La nave di Venart è in porto. Potrebbe arrivare da un minuto all'altro.» Il grosso uomo irsuto che stava nel letto spalancò un occhio. «Tu, stupida vacca, perché non me lo hai detto prima?» sbottò, gettando le gambe giù dal letto e cercando alla rinfusa i propri vestiti. «Non ti avevo raccomandato...?» «Sbrigati.» Vetriz gli girò la schiena, domandandosi cosa diavolo ci avesse visto in quell'uomo la notte prima. Dopo tutto, non è che fosse abituata a comportarsi così. «E non c'è nessun bisogno di essere maleducati. Dovrà pur sempre passare la dogana e supervisionare lo scarico delle merci. Non c'è motivo che tu ti faccia prendere dal panico» aggiunse ironica. Gorgas Loredan non rispose nulla; era troppo preso a infilare gli stivali sui suoi enormi piedi. Vetriz non aveva nessuna voglia di guardarlo, adesso. La brocca di vino usata la notte prima era sul davanzale; la inclinò, ma era vuota. Le faceva male la testa. Le stava bene per essersi comportata come una sgualdrina. Non che temesse davvero che Venart potesse passare a vie di fatto se fosse tornato prima. Nell'improbabile caso che la porta si fosse spalancata e lui fosse entrato nella stanza con la spada in pugno e un'espressione tempestosa, tutto ciò che lei avrebbe avuto bisogno di fare sarebbe stato ridacchiare e dire: «Ven, che cosa pensi di stare facendo con quell'aggeggio in mano?» e lui sarebbe subito tornato sui suoi passi enormemente imbarazzato, borbottando, come un cane in fuga da un nido di formiche rosse. E comunque anche se fosse entrato e avesse ucciso Gorgas Loredan sotto i suoi occhi, non si sarebbe certamente avvelenata la vita per questo. Ciò a cui non poteva neanche pensare era la prospettiva di Ven che
rimuginava, la rimbrottava, aspirava l'aria attraverso i denti serrati con un'espressione dolente per i successivi sei mesi, e insisteva per portarla con sé o affidarla alla loro stramaledetta zia. «Ancora non sei vestito?» disse. «Pensavo che fossero le donne quelle lente a prepararsi al mattino.» «Stai tranquilla. Sto andandomene» rispose la voce dietro di lei. «Questo posto ha una porta secondaria?» «Vieni, te la mostro» rispose Vetriz. Eppure in qualche modo la notte prima era sembrato tutto così naturale; durante la festa serale nella quale si era vantata di come aveva incontrato il Patriarca della Città... Che strano uomo, eppure davvero estremamente dolce... E di avere assistito a un vero duello in tribunale... Improvvisamente la sua vicina di tavolo le aveva dato un colpetto nelle costole e le aveva indicato una estremità del tavolo degli uomini, dicendo: «Non fare vedere che guardi, ma vedi quel tipo grosso e tarchiato in fondo al tavolo? Suo fratello è un avvocato di Perimadeia.» Poi aveva detto come si chiamava, ed era lo stesso uomo che lei aveva visto combattere e anche lo stesso uomo che era apparso in quel buffo sogno che aveva fatto al palazzo del Patriarca, o come diavolo si chiamava quel posto... Poi avevano fatto girare il vino tre o quattro volte di troppo e l'uomo che l'aveva accompagnata alla festa moriva dalla voglia di lasciarla lì e di filarsela con quella puttana di Morozin (buon divertimento a tutti e due) e alla fine... Be'. Non era stato poi così male in quel momento, ma adesso voleva lasciarselo alle spalle: cosa fatta capo ha. Richiuse la porta dopo che il capitano Gorgas Loredan per poco non fu rimasto impigliato con il bordo del mantello, il che avrebbe certamente conferito un confortante tocco di comicità a un episodio altrimenti solo squallido, e attraversò il cortile per andare a farsi un bagno. Era quasi mezzogiorno quando Venart finalmente arrivò a casa con l'aria stanca e piuttosto contrariata. «So che siamo discendenti di pirati» borbottò mentre scalciava via gli stivali «e sono sempre favorevole a tenere in vita le antiche tradizioni, ma penso che gli uffici doganali non dovrebbero sentirsi in dovere di derubarmi sfacciatamente solo per salvaguardare la loro identità culturale, questo è tutto. C'è qualcosa da mangiare?» «Naturalmente sì» rispose Vetriz. «Che cosa pensi che abbia fatto mentre eri via, organizzato orge selvagge?»
«Forse sarebbe stato meglio» ribatté Venart massaggiandosi i piedi. «Meglio dissipare il patrimonio in vizi e frivolezze che vederlo scomparire nelle gole di quegli squali giù al porto. Con le tariffe doganali che mi hanno imposto, sarò fortunato se riuscirò ad andare in pari su quel malto.» «Pane, formaggio e una mela, va bene? O preferisci della zuppa calda?» «Qualunque cosa purché non sia pesce» disse Venart con disgusto. «Se vedo comparire pesce in questa casa nelle prossime sei settimane, parto. Non c'è niente e ribadisco niente da mangiare a Psattyra a parte pesce crudo e sanguinante, a meno di non volere calcolare come cibo quella specie di funghi gialli e crudi, cosa che mi rifiuto di fare.» «Povero agnellino» disse Vetriz in tono assente. «Mettiti a riposare un'oretta, mentre ti preparo qualcosa.» Il mal di testa svanì abbastanza rapidamente, con l'aiuto di una dose di corteccia di salice bollita in acqua di rose e di un'arancia, e il bagno riuscì più o meno a rimuovere dal suo corpo il ricordo delle mani di Capitan Gorgas. Nonostante ciò continuò a sentirsi stanca e assente: non hai dormito abbastanza e puoi prendertela solo con te stessa. Non c'è da meravigliarsi che tu abbia avuto degli incubi mescolando idromele, sidro e vino forte. Non erano stati dei veri incubi. In un certo senso, un autentico incubo sarebbe stato più eccitante. Bardas Loredan si svegliò sudato e imprecando, vide la luce attraverso le persiane e cominciò a tastare in giro, cercando i suoi vestiti. Sembrava che la testa volesse spaccarglisi; l'effetto del vino rosso sudicio, marcio, da due soldi, prodotto industrialmente, su uno stomaco vuoto. Coraggio, se si fosse veramente sbrigato avrebbe potuto arrivare alle Scuole in tempo per essere in ritardo solo di un quarto d'ora. Fosse dannata quella maledetta, eccentrica, folle ragazza, per avergli fatto sentire il bisogno di bere un goccetto. Alla fine, arrivò in ritardo di soli dieci minuti; tutto considerato, una bella impresa, che si sarebbe meritata l'ammirazione e le congratulazioni di tutta la sua classe, non quegli sguardi gelidi. «Va bene» disse «prendete posizione. Mi dispiace di essere in ritardo. Ora, il gioco di piedi della vecchia scuola. A posto, per favore; non in quel modo, Mastro Iuven, a meno che non intendiate confondere il vostro avversario cadendo per terra. Il piede avanzato in linea con la lama, il piede arretrato ad angolo retto, forza, lo abbiamo già fatto centinaia di
volte...» Per quale misterioso motivo me lo sarò sognato, dopo tutti questi anni? E quella ragazza straniera e suo fratello, che avevo conosciuto in una taverna? E il Patriarca, di tutta la gente possibile? Questa è davvero l'ultima volta che cerco di risparmiare su una grossa bevuta. La ragazza, l'imbronciata, insopportabile spina nel fianco che era la causa di tutto, oggi tirava di scherma magnificamente. I suoi movimenti stavano cominciando ad assumere quel ritmo aggraziato e letale che era tipico di tutti i migliori avvocati, qualcosa che aveva visto in altri, ma mai in se stesso. Aveva sempre avuto la tendenza ad associarlo con un piacere perverso per l'atto di uccidere e non gli piaceva, ma certamente era un ottimo presagio per il futuro della ragazza nella professione. Da parte sua, aveva sempre tirato di scherma in modo coerente al suo modo di essere: da codardo intelligente e molto bravo, che sapeva che uccidere qualcun altro era il solo modo per restare vivi. «Salve.» Athli si era materializzata alle sue spalle mentre lui stava osservando la classe, impegnata in una serie di semicerchi. «Come è andato ieri notte il tuo tête-à-tête con la piccola Miss Faccia Affilata? Vi rispettate ancora l'un l'altro, stamattina?» «Per favore non essere maliziosa, Athli; ho un po' di mal di testa. E per tua informazione, anche volendo non avresti potuto essere più fuori strada. Non so che cosa voglia quella maledetta donna, ma sono felice di informarti che non si tratta di me.» «Ne sei sicuro?» «Convinto. Per quanto la riguarda, sono solo uno che le sta insegnando come fare a infilzare la gente. A questo proposito, prova a darle un'occhiata stamattina. Odio doverlo dire, ma sarà una brava spadaccina.» «La cocca dell'insegnante, eh?» «Oh, vattene e vedi di trovarti qualcosa da fare, da brava.» Gli venne un'idea. «C'è una cosa utile che potresti fare» aggiunse. «Vai a fare uno dei tuoi sorrisi incantatori a Mastro Modin. Non mi ama più e non mi manca altro che di avere sul collo gente come lui. Potresti fare la parte della ragazzina che sta su un piede solo e giocherella con una ciocca di capelli, che ti viene così bene e che hai usato su quel vecchio sporcaccione che lavorava per il cartello dell'olio di cocco.» «Io non ho mai...» Athli sembrò offesa, poi si rilassò. «Va bene» disse. «Pace?» «Pace. Ma se riuscissi ad ammansire Modin nei miei confronti sarebbe
di grande aiuto. A quanto pare ho abusato della fiducia del governatore tenendo lezioni individuali senza permesso.» Athli annuì. «Va bene» disse. «Gli racconterò di avere la nonna che sta morendo e poi gli offrirò del denaro.» «A patto che tu non gli dia denaro.» Athli sogghignò. «Fidati» disse. «Sono un avvocato.» Quando ebbe risolto la questione con Mastro Modin, dovette ammettere con se stessa che la battuta di Loredan sulla ragazzina su un piede solo che giocherellava con una ciocca di capelli, era abbastanza giustificata (la cosa sbalorditiva era che l'avesse notato!). Non dovrei comportarmi in questo modo, ma qualche volta rende tutto più facile, specie quando non c'è il tempo di spuntarla con un ragionamento o di dirimere una questione in base ai fatti. Immagino che in amore e in diritto tutto sia lecito... «Scusatemi.» Si voltò e in qualche modo riuscì a non gridare per la sorpresa. Avrebbe voluto dire «È giusto che siate già in piedi?» oppure «Non dovreste essere a letto?» ma naturalmente non lo fece. Quello che in effetti disse fu: «Patriarca, che cosa posso fare per voi?» «Mi dispiace di importunarvi» disse il Patriarca «ma siete voi l'assistente di Mastro Loredan? L'uomo alla porta mi ha indicato voi.» «È così, infatti» rispose Athli. Sicché le voci erano state corrette, disse a se stessa; doveva essere stato malato, perché aveva un'aria orribile, pover'uomo. «Desiderate vederlo? Sta facendo lezione a una classe proprio in questo momento, ma sono sicuro che non ci sarebbe problema a...» Il Patriarca sorrise. Aveva un bel sorriso. La colse di sorpresa; di solito aveva un'aria così grandiosa e austera quando prendeva parte a qualche cerimonia o funzione civica. «Non preoccupatevi» disse. «Non è urgente. Avreste niente in contrario se lo aspettassi fino alla pausa di mezzogiorno?» «Se siete sicuro che non vi incomodi...» Athli si sentì piuttosto agitata. Adesso aveva la responsabilità di fare stare comodo e di intrattenere per la prossima ora un fragile dignitario. Avrebbe dovuto stare lì in piedi a chiacchierare con lui? O il Patriarca avrebbe preferito starsene seduto in un angolino tranquillo, a leggere un libro? Sempre ammesso che riuscisse a trovargli una sedia; e dando per scontato che avesse voglia di sedersi. Dannazione, pensò Athli. Mia madre non mi ha educata perché diventassi una diplomatica. «No, assolutamente no.» Il Patriarca le fece cenno di precederlo. (Se mi
apre anche una sola porta, finirò per morire dall'imbarazzo.) «Spero davvero di non essere un fastidio. Temo di sapere assai poco su come funzionano le cose dentro questo palazzo.» Dopo che gli ebbe offerto tutto quello che le veniva in mente, alla fine accettò di sedere su una sedia vicino a una colonna e di stare a guardare la classe. «E se potessi disturbarvi, ancora, gradirei un bicchiere d'acqua» aggiunse. «Ve ne sarei davvero grato. Purtroppo stamattina mi sono svegliato con uno spiacevole mal di testa.» Oh, dei, dove posso trovare qualcosa da bere in questo posto? «Non c'è problema» disse con decisione. «Se siete sicuro di stare bene qui, ve la porterò in un momento.» «Perfettamente bene, grazie» rispose Alexius. «Siete davvero molto gentile.» Una volta che si fu liberato dell'assistente... Una ragazza deliziosa, ma con una certa predisposizione ad agitarsi per nulla, o forse terrorizzata all'idea che lui potesse trasformarla in una rana... Alexius si lasciò cadere sulla sedia e prese fiato. Si sentiva schifosamente, anche a prescindere dall'emicrania, e sapeva che non avrebbe dovuto andare lì, ma gli sarebbe stato assolutamente impossibile evitarlo, dopo il sogno fatto la notte prima. Il fratello di Loredan. Fu colto da un'irrazionale ondata di risentimento verso Gannadius per il fatto che non fosse lì, pur sapendo perfettamente bene che il suo collega aveva un impegno a cui non poteva sottrarsi, che si sarebbe protratto fino a metà pomeriggio. Tuttavia voleva disperatamente sapere cosa ne pensasse Gannadius del sogno e se aveva visto le stesse cose. Comunque, non c'era niente da fare. Era più importante che parlasse proprio con Loredan, una cosa che in realtà avrebbe già dovuto fare da parecchio tempo, solo che gli era mancato sempre il coraggio di confessare all'avvocato ciò che aveva fatto. Ma adesso non c'erano veramente più alternative. Solo il cielo sapeva che cosa gli avrebbe detto. Aprì gli occhi e si trovò a fissare la schiena di Loredan, che gli nascondeva la vista di giovani dall'aria energica che stavano saltellando e girandosi intorno a semicerchio, seguendo i suoi secchi comandi. Aveva appena deciso di averne avuto abbastanza quando il semicerchio girò ed egli fu in grado di vedere i volti degli studenti... Inferno e dannazione! Lei! Con uno sforzo Alexius si impose di restare calmo e continuare a respirare, anche se l'improvviso dolore al braccio e al petto era abbastanza intenso da fargli venire voglia di urlare. Uno degli allievi di Loredan era
quella ragazza, la causa di tutti i suoi problemi... Quella che voleva Loredan mutilato; che nella famosa visione che gli era stata ispirata dalla ragazza dell'Isola stava facendo esercizi di scherma con lui... Naturale, quanto sono stato stupido a non pensarci. Quella che proprio in quell'istante stava puntando una spada alla gola di Loredan. Be', ovvio; stava imparando a duellare. Doveva per forza farlo se voleva diventare abbastanza abile da riuscire a mutilare uno spadaccino ricco di esperienza e di talento. La logica dell'intera situazione gli fece correre un brivido fino alle piante dei piedi. Fu questo a farlo decidere; doveva dire a Loredan ogni cosa, avvisarlo del pericolo. Una volta fatto ciò, forse con l'aiuto di Gannadius sarebbe riuscito ad annullare la maledizione e a mettere ordine in quel maledetto casino una volta per tutte. Se solo avessi avuto il buon senso e il coraggio di fare questo fin dall'inizio, invece di correre in giro alla ricerca di gente con poteri naturali... Era meglio non stare a pensarci. E ora ci mancava solo quell'orribile enigma a proposito di Gorgas, l'intellettuale che si vestiva come uno dell'Isola e saltava fuori nei suoi sogni insieme agli unici altri due isolani con cui aveva avuto a che fare recentemente. Se fosse mai riuscito a chiarire quella faccenda, sarebbe stato un bel caso da studiare; qualcosa da includere nei corsi propedeutici come un'inquietante messa in guardia sui pericoli di un uso scorretto del Principio. «Eccovi qua.» Era di nuovo la ragazza sempre agitata, che gli stava tendendo una coppa d'argento incredibilmente ornata. «Mi dispiace di averci messo così tanto.» Le sorrise, prese la coppa... Cielo, era qualche tipo di trofeo per una gara di scherma... e bevette una lunga sorsata. «Posso chiedervi» disse poi «chi è quella fanciulla? Quella nella classe di Mastro Loredan.» «Oh, quella è...» Athli si bloccò. Ce l'aveva sulla punta della lingua, ma per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare il nome di quella orribile ragazzina. «È la nostra allieva più brava» disse alla fine. «Bardas... Mastro Loredan ha un'alta opinione di lei. Secondo lui, ha un talento naturale.» «Capisco» rispose Alexius, cercando di non reagire alla sua infelice scelta delle parole. «Ed è un membro abituale della classe?» «Altroché» ripose Athli, annuendo con decisione. «Speriamo che negli anni a venire diventi la nostra migliore pubblicità.» Un violento clangore di metallo che si scontrava indusse entrambi a
volgere lo sguardo. Loredan stava insegnando una parata con passo all'indietro della vecchia scuola. Per dare una dimostrazione aveva detto alla ragazza di fare un affondo nella sua direzione, mentre lui avrebbe deviato la sua lama, fatto un netto passo all'indietro e verso destra e contrattaccato con il medesimo movimento. Ma le cose non erano andate esattamente così; l'affondo della ragazza era quasi penetrato nella sua difesa e adesso lui era sbilanciato e stava riuscendo a tenere lontana la spada della ragazza solo facendo ricorso alla pura forza. «Spiacente» disse «ho sbagliato io. Sarà meglio che lo rifacciamo.» La ragazza disimpegnò la sua lama; Loredan riprese la sua posizione. Alexius capì dal dolore di essersi piantato le unghie nel palmo delle mani. «Adesso» disse Loredan. Stavolta bloccò la lama perfettamente, la deviò, fece il suo passo laterale e portò la punta della propria spada esattamente a un palmo dal mento della ragazza, il tutto in una frazione di secondo. Fu quasi un bello spettacolo da vedere. Abbassò la spada e si girò verso la classe per spiegare la mossa. La ragazza fece un altro affondo. La velocità della reazione di Loredan fu stupefacente. Non ci fu molto da vedere; un lampo di luce riflessa, un clangore, un colpo secco e poi un tonfo mentre la spada della ragazza le veniva fatta saltare letteralmente di mano e andava a cadere sul pavimento. La punta della lama di Loredan... Era la Spe Bref; Athli sapeva che la teneva sempre così affilata che poteva passare la pelle e penetrare nella carne senza che uno se ne accorgesse... Stava sfiorando la pelle del collo, liscia e morbida, appena sotto il mento della fanciulla, esercitando quel tanto di pressione necessaria per pungerla, senza farla sanguinare. Le diede una lunga occhiata perplessa lungo il filo della lama, poi si ritrasse con un movimento secco ed essenziale e tornò girarsi verso la classe. «Come stavo dicendo» cominciò «è di vitale importanza mantenere il polso e il gomito allineati durante tutta la manovra...» La ragazza era bianca come un cencio e tremava, con entrambe le mani strette intorno al collo. Il resto della classe li fissava tutti e due con un'espressione inorridita e affascinata insieme, senza quasi osare respirare. Athli, che se ne avesse avuto il tempo avrebbe gridato, aveva lasciato cadere la borsa e il coperchietto del suo calamaio portatile si era aperto, lasciando colare attraverso il tessuto e sul pavimento dell'inchiostro marrone scuro. Quanto ad Alexius, fu solo svariati secondi dopo che era tutto finito che si rese conto di quanto fosse diventato forte il dolore al
petto e al braccio. Cercò di alzarsi dalla sedia, ma non gli riuscì. Stava per farsi prendere dal panico quando sentì il dolore svanire rapidamente, come acqua che ruscellasse da un otre bucato. Come se servisse a mantenere un equilibrio, il suo mal di testa si fece ancora più intenso. In modo vagamente simile, anche se molto più lentamente, pure la tensione si allentò via via che le menti dei presenti si concentravano nel ripensare all'accaduto per renderlo più accettabile, per rendere possibile archiviarlo nella memoria. Perfino Alexius si chiese per un attimo se non avesse immaginato tutto, se non avesse visto ciò che la sua melodrammatica immaginazione segretamente si aspettava o sperava di vedere, piuttosto che non ciò che era effettivamente accaduto. Poteva anche essersi trattato di una momentanea ricaduta nel sogno, di un frammento di visione, come la nota di uno studioso scritta a mano in grafia minuscola fra le righe di un libro. Aveva sentito parlare di fenomeni del genere, specie fra quelli che erano mentalmente disturbati e quelli che cercavano di rendere più profonde le proprie meditazioni masticando certe erbe; mentre gli stavi parlando, la testa di un uomo poteva improvvisamente trasformarsi in quella di una lucertola o di un uccello, e poi tornare umana in una frazione di secondo. C'erano aruspici che sostenevano di riuscire a vedere nel futuro in quel modo e altri mistici e ciarlatani che affermavano di potere stabilire se un uomo era un assassino, perché c'era un attimo berciassimo in cui riuscivano a scorgere il sangue dell'uomo ucciso che bagnava le mani dell'omicida. Forse si trattava di una cosa del genere, si disse Alexius cercando di confortarsi. E forse, dovette ammettere, non era così. A mezzogiorno la classe si riposò come al solito. La ragazza si allontanò rapidamente in direzione della fontana dell'acqua potabile; il resto degli allievi formarono immediatamente un gruppetto fitto, che sussurrava. Loredan, che sembrava davvero sfinito, sedette su una cassa fissando il pavimento e si massaggiò la fronte con le dita. «Bardas...» cominciò Athli. «Non dirmi che me lo sono immaginato» la interruppe seccamente, senza alzare lo sguardo. «Ha cercato di uccidermi. Non riesco a capirlo. Perché mai...?» «Bardas» ripeté Athli. «Il Patriarca è qui per vederti.» Loredan alzò lo sguardo e inarcò le sopracciglia. «Non essere sciocca, Athli» disse. «Per quale ragione al mondo il Patriarca dovrebbe volere vedere me?» «Vieni a chiederglielo tu stesso.»
Prima che Loredan avesse il tempo di fare qualche altra obiezione, lo sguardo gli cadde sull'uomo seduto su una sedia all'ombra del colonnato. «È quello?» chiese. «Sta rivelandosi una giornata davvero speciale.» Athli annuì. «Devo dire a quella ragazza di andare al diavolo?» disse. «Le preparo il conto e...» Si interruppe. Loredan stava ridacchiando. «Hai intenzione di proteggermi da una folle assassina con una ricevuta, non è vero? Non sognarti di farlo. Molto presto quella strana creatura sarà una pubblicità di prima classe per la nostra scuola. Sarebbe una vera pazzia se la cacciassi proprio adesso.» «Ma ha cercato...» «Senza riuscirci. E allora, vogliamo andare a vedere che cosa vuole il mago?» Si avvicinò alla sedia del Patriarca e poggiò un ginocchio a terra, mentre Athli (con una certa riluttanza) si allontanava. Loredan era sul punto di lanciarsi in quelle ciance del genere a-che-cosa-dobbiamo-l'onore, quando Alexius si chinò in avanti per sussurrargli all'orecchio. «Scusate la domanda, ma per caso avete mal di testa?» Loredan fece un'espressione stupefatta. «Perché, si vede?» disse. «A essere sinceri adesso va meglio. Poco fa mi sembrava che una squadra di operai stesse spaccando pietre proprio appena dietro i miei occhi.» Alexius fece un respiro profondo. «Inoltre» continuò «posso chiedervi se avete un fratello che si chiama Gorgas?» Stavolta Loredan scattò all'indietro, come un uomo che avesse messo un piede su un serpente. «A essere sinceri, sì» rispose. «O meglio, lo avevo; per quanto ne so, o per quanto mi interessa per dirla tutta, a quest'ora potrebbe anche essere morto.» Spostò il peso per fare in modo che non gli si addormentasse una gamba. «In cambio» disse «fareste qualcosa per me?» «Se posso.» «Va bene. Potete dirmi tutto quello che sapete a proposito del sogno che avete fatto ieri notte? Ho la sensazione che siate qui proprio per quello.» «Lo farò volentieri» rispose Alexius. «Prima però, ditemi se uccidereste un vecchio che si regge a malapena in piedi, ma che è terribilmente spiacente e sta facendo del suo meglio per rimettere a posto le cose?» «Immagino di no. Perché me lo chiedete?» Alexius gli spiegò tutto. Quando ebbe finito Loredan, che aveva continuato a corrugare la fronte come se stesse cercando di seguire una
conversazione in una lingua straniera che parlava a malapena, annuì e disse: «Capisco.» «Ho pensato che fosse meglio informarvi» continuò Alexius. «Avrei dovuto farlo parecchio tempo fa, naturalmente, ma...» Loredan si strinse nelle spalle. «Be', me lo avete detto ora.» Si massaggiò il mento. «Mi dispiace» aggiunse «ma sono davvero fuori dal mio territorio. Non ho mai avuto granché a che fare con la magia e con quel genere di cose, capite?» Per una volta Alexius non cercò neanche di spiegargli che in effetti non si trattava di magia. «Sembrava... be', una cosa quasi innocente in quel momento» proseguì, sapendo di stare peggiorando la situazione a ogni parola che diceva, ma incapace di interrompersi. La cosa veramente irritante era che aveva la sensazione che Loredan, molto semplicemente, non credesse a una parola; al Principio, alle maledizioni, ai poteri naturali. Un attimo dopo, Loredan, cercando di scusarsi, confermò tuttavia la sua impressione. «Mi dispiace se la cosa può sembrare villana o poco rispettosa» disse, in tono diffidente. «Solo che ho sempre pensato che ci fossero già abbastanza problemi nel mondo reale senza bisogno di andare a evocare un mucchio di storie spaventose sul sovrannaturale. E per quanto mi concerne, non c'è proprio nulla di cui dobbiate scusarvi.» Sorrise. «Mi dispiace se vi ho offeso» aggiunse. «Se i miei vicini mi sentissero parlare al Patriarca in questo modo mi chiuderebbero in un barile di pece bollente per blasfemia. Ma grazie di avermi parlato di lei. Sapevo che c'era qualcosa di seriamente fuori posto, ma non mi era venuto in mente che potesse trattarsi di qualcosa di personale. È strano» continuò «ma con tutti gli anni che ho passato nella professione, non mi è mai capitata una cosa del genere; voglio dire, la famiglia di qualunque avvocato conosce i rischi, nessuna si sognerebbe di dare inizio a una faida o altre sciocchezze del genere. Se accadesse, l'intero sistema giudiziario diventerebbe ingestibile.» Sospirò. «Immagino sia la mia solita sfortuna. L'unica allieva un po' decente che ho, e in realtà sta imparando a tirare di scherma solo perché vuole uccidere me. Be', ha sprecato il suo denaro, perché io mi sono ritirato. Se volesse uccidermi dovrebbe trattarsi di un bell'onesto omicidio e voi avete detto di ritenere che i suoi principi non glielo consentano.» Alexius annuì. «Così mi disse. Ma quando ha cercato di uccidervi poco fa...» Loredan fece spallucce. «In realtà non credo che fosse una cosa preme-
ditata, solo un allievo cui sono saltati i nervi. Capita. Solo la scorsa settimana uno studente ha perso la testa durante una lezione e si è fatto ammazzare. È una dannata scocciatura quando succede, costituisce un terribile problema per le Scuole per un mese o giù di lì, poi tutto viene dimenticato. Ho incaricato la mia assistente di preparare una liberatoria da fare firmare a tutti gli studenti prima dell'inizio del corso, a titolo di precauzione.» Si alzò in piedi. Comunque, grazie per tutto quello che mi avete raccontato e, come ho detto, scusatemi se vi ho insultato. Non c'è niente di personale; ammiro davvero quello che voi fate, solo che io non ci credo. «Io...» Alexius si interruppe e annuì. «Vi prego» disse «non preoccupatevi. Io ci credo e sono ancora estremamente preoccupato, ma» aggiunse, vedendo un'espressione allarmata affacciarsi sul viso di Loredan «non ho certo intenzione di farvi prediche o di cercare di convertirvi alla vera fede.» Sorrise e si strinse nelle spalle. «Mi sovviene che se avete davvero abbandonato la professione legale, la maledizione è probabilmente sconfitta, dato che il duello che ho visto non potrà mai svolgersi per davvero. Quindi la faccenda deve essersi risolta» proseguì «in un modo o nell'altro. Certo senza aiuto da parte mia, il che mi rimette al mio posto. Che cosa avete intenzione di fare con lei, se posso chiedervelo?» «Mmm...» Loredan si massaggiò il naso con il palmo di una mano. «È una ragazza imprevedibile. La cosa migliore sarebbe di prenderla per un orecchio e buttarla fuori, ma non sono sicuro di poterlo fare. Voglio dire, ha pagato le sue lezioni.» Improvvisamente gli venne un'idea che lo fece sorridere. «Se le dovessi dire di mollare le lezioni adesso» disse «sarebbe una rottura di contratto, in presenza della quale avrebbe pieno diritto di trascinarmi in giudizio. Se lo facesse dovrei difendermi da solo... Immaginatevi che disastro sarebbe professionalmente se io, un istruttore, assoldassi un avvocato... E così facendo sarei io stesso a darle un'opportunità di uccidermi in tribunale; controproducente, no? Al momento, naturalmente, potrei batterla con una mano legata dietro la schiena, ma al ritmo a cui sta migliorando, se si iscrivesse a un'altra classe diventerebbe un'autentica minaccia nel giro di un anno, cioè molto prima che la causa finisse prescritta.» Fece un lungo respiro e sospirò. «Come se non bastasse» continuò «cacciare ottimi studenti apparentemente senza un motivo, non è esattamente il modo migliore di farsi una buona reputazione in questo campo, e io faccio questo lavoro per vivere. Se vogliamo dire le cose come stanno,
sarebbe meno dannoso se dovessi uccidere accidentalmente quella dannata ragazza. Non che abbia intenzione di farlo» aggiunse, nel vedere il Patriarca spalancare gli occhi. «Sono stato un avvocato, ma non sono una persona così perfida. No, penso che la cosa più sicura sia di lasciarle finire il corso e di tenerla d'occhio in modo speciale in ogni momento. Quando ero sotto l'esercito avevamo un detto: il nemico che puoi vedere è l'ultimo dei tuoi problemi.» «Va bene.» Alexius fece forza sui braccioli della sedia. Loredan lo aiutò ad alzarsi e gli allungò il bastone da passeggio. «Sapete il fatto vostro ed è meglio che vi lasci decidere liberamente. Fino a questo momento i miei tentativi d'interferire nei vostri affari non sono stati propriamente utili per nessuno. Secondo me, il meglio che posso fare è di andare a casa a leggermi un libro.» Sorrise. «Non vi chiedete mai quale demone vi abbia posseduto nel momento in cui avete deciso di abbracciare questa carriera? Io me lo sono chiesto speso.» «Continuamente» rispose Loredan. «Be', in realtà solo qualche volta. Ma d'altra parte, che altro diavolo avrei potuto fare in vita mia? Non è che abbia poi avuto tutta questa possibilità di scegliere.» Alexius si chiese se dovesse porgergli la mano o dargli una pacca sulla spalla, come una specie di benedizione informale. Decise di lasciare perdere. «Un'ultima cosa» disse. «Vostro fratello... Vive sull'Isola?» «Non credo. È passato molto tempo dall'ultima volta che ho avuto qualcosa a che fare con lui.» «In qualche modo... Fa un mestiere assimilabile al mio?» «Non ne ho idea. Per essere onesto con voi, non ci vado d'accordo e non ci sono mai andato. Se ne andò da casa un po' prima di me e credo che a nessuno di noi si sia spezzato il cuore nel vederlo andare via.» Loredan fece un sorriso tetro. «Non è esattamente un uomo simpatico, mio fratello.» «Ah.» «Quindi, temo di non potervi essere di grande aiuto in questo campo. Mi dispiace. E adesso sarà meglio che torni a occuparmi della mia classe, prima che comincino a borbottare che rivogliono i soldi indietro. Stamattina sono arrivato in ritardo, il che peggiora la situazione.» Alexius cambiò idea e gli porse la mano. «Grazie, Bardas Loredan. Per quello che vale, sono davvero molto spiacente.» Loredan scoppiò in una risata e prese la mano. «Sentite» disse «ho cominciato a perdonare gente che aveva cercato di uccidermi prima ancora
di cominciare a radermi. È bello avere l'opportunità di farlo con uno che è ancora vivo.» «Ora» disse Temrai, facendo un respiro profondo e obbligandosi a sorridere. «Credo che si faccia in questo modo.» Consapevole non senza ansia del fatto che svariate migliaia di persone lo stavano guardando, raccolse un pezzo di legno e cominciò a tracciare disegni nel fango. «Prima» disse «costruiamo la struttura, che in realtà non consiste di altro che di quattro grossi pezzi di legno uniti a formare un quadrato. Questi pezzi» disse schizzandoli accuratamente sul fango in modo che se ne vedesse bene la forma «costituiscono i lati e questi altri pezzi servono a unire i lati insieme. Poi ci sono i pali perpendicolari, con un architrave in cima; oh, sì, e due montanti fatti così che servono a impedire che la struttura si deformi quando il braccio la colpisce con violenza.» S'interruppe per un attimo, cercando di rivedere la macchina distintamente nella sua testa. «Qui dietro c'è un rullo, degli assi per le ruote e naturalmente il braccio in se stesso. Ora, mi sono dimenticato qualcosa? Non riesco a ricordarmi. Oh, certo, il meccanismo avvolgente e quello bloccante, ma questo è affare dei fabbri, per cui per ora li lasceremo perdere. Credo che sia tutto. D'accordo, mettetevi intorno a me e vi spiegherò come funziona.» La gente del clan si spinse avanti e, quasi con riluttanza, formò un cerchio intorno al grezzo schema di una macchina a torsione di medio peso. Temrai si era basato su quella di fronte alla quale era passato tutti i giorni recandosi al lavoro: catapulta, fissa, di media taratura, classe quattro se la si voleva chiamare con il suo nome esatto. Era sembrata elegantemente semplice là in città, dove macchine assai più complesse e sofisticate erano una vista normale. Ma lì, sulla rive del fiume, ai piedi di una montagna di tronchi non stagionati appena tagliati, tutto sembrava piuttosto diverso. Il suo popolo, il clan, gli uomini e le donne con cui era cresciuto lo stavano guardando come se stesse proponendo loro di costruire un ponte fino alla luna o di imprigionare il vento in una bisaccia. Pensandoci bene, riusciva a capire il loro punto di vista. «L'idea» continuò «è che avvolgendo un tratto di fune... Si suppone che il crine di cavallo sia il materiale migliore, ma noi useremo corde normali tanto per cominciare e vedremo se funzionano altrettanto bene... Si crei una specie di molla...» «Temrai, che cos'è una molla?»
Oh, dei, non funzionerà mai. «Una molla è... Be', sai come funzionano i torni? Facendo piegare un alberello e poi lasciando che torni a ridistendersi? O un arco, se è per questo? Quella è una molla. Una cosa che si piega e poi torna spontaneamente nella posizione in cui era prima.» S'interruppe. «Sto riuscendo a spiegarmi o è meglio che ricominci dall'inizio?» «No, va bene così» disse qualcuno. «Continua per piacere.» «D'accordo. Fidatevi di me: se avvolgete su se stesso un bel tratto di fune e poi gli piazzate un'asta nel mezzo in questo modo e poi lo tirate verso il basso in questa maniera...» fece del suo meglio per spiegare l'intera operazione a gesti. «... e poi la lasciate andare all'improvviso, scatterà in avanti; e se piazzate una pietra alla sommità dell'asta...» «Non cadrà semplicemente per terra?» «Non se avrete scavato una cavità in fondo all'asta, facendone una specie di cucchiaio. Va bene» disse, colto da un'ispirazione improvvisa «proviamo a metterla in questi termini. Avete presente quando immergete un cucchiaio nello yogurt o in qualunque altra cosa e poi lo tirate fuori? Se lo fate di scatto lo yogurt schizza via, giusto? Lo abbiamo fatto tutti per gioco quando eravamo bambini, non è vero? Il principio è esattamente lo stesso, solo che qui quello che fa scattare il cucchiaio è la fune.» Silenzio. Devono pensare che sono impazzito, rifletté Temrai preoccupato. Devono stare pensando che gli ho fatto abbattere tutti quegli alberi e costruire tutte quelle zattere solo perché noi si possa stare seduti sotto le mura a schizzare yogurt. «Credetemi» disse, con tutta l'autorità che riuscì a mettere nella propria voce «funziona. Vedete quella roccia laggiù? Una di queste cose può lanciare una pietra di quelle dimensioni... Oh, facilmente fino a quell'albero, probabilmente anche più lontano. L'ho visto con i miei occhi.» Nessuno aprì bocca; probabilmente fu meglio così, perché se lo avessero fatto avrebbero detto Se lo dite voi, Lord Temrai, in quello speciale tono di voce riservato a fare sorridere gli idioti. Il solo modo in cui riuscirò a convincerli, realizzò, è costruendo questa dannata macchina e dandogli una dimostrazione pratica. Quindi è proprio questo quello che dovrò fare. «Va bene» disse «adesso conoscete tutti i principi di base. Datevi da fare. Cominceremo dai lati. Voglio due pali di cuore di legno, tre metri per sessanta centimetri, per trenta. Voi al lavoro, con seghe e azze.» Il gruppetto che aveva indicato si alzò in piedi e avanzò titubante verso la pila di tronchi, con l'aria di gente spedita a raccogliere raggi di luna in una damigiana. Temrai tornò a osservare il diagramma.
«Voi voglio invece che vi dedichiate a sbozzare i montanti. Di nuovo in cuore di legno, due metri per trenta centimetri per trenta. Alle estremità voglio che mi ricaviate dei tenoni... Vi spiegherò dopo che cos'è un tenone» aggiunse rapidamente prima che qualcuno glielo chiedesse «quando avrete tagliato i pali. Voialtri invece potete tagliare il palo che servirà da architrave, ma cominceremo con un palo di due metri e mezzo, per trenta centimetri per quindici; lasciateci l'alburno perché dovrà avere una certa elasticità. Ora, devo riflettere un po' sui travi verticali perché hanno una forma bizzarra.» Per il momento, si rassicurò, è ancora solo un grosso gioco; stanno cominciando a entrare nello spirito della cosa e si stanno anche divertendo. Con un po' di fortuna avrò una catapulta finita e funzionante prima che si stufino; e una volta che ne avranno vista una scagliare per davvero una grossa roccia, questo dovrebbe fare il resto. Almeno lo spero, perché se no sarò in un bel guaio. Le cose non andarono bene come Temrai sperava. All'atto pratico svariate parti si rivelarono sbagliate e dovettero essere rifatte e per fabbricare tutti i componenti del prototipo ci volle una settimana invece di una giornata. Di positivo ci fu che il morale della squadra addetta al montaggio rimase alto e che la cosa si rivelò contagiosa; si radunò una grossa folla eccitata, piena di buon umore e ansiosa di rendersi utile, che continuò a fare commenti e a mettersi spesso fra i piedi dei montatori per vedere le varie parti che venivano assemblate in attesa che la macchina, completata, venisse messa alla prova. Sono venuti per assistere al fallimento, disse Temrai a se stesso tetramente mentre ascoltava il brusio delle conversazioni e osservava le donne che sistemavano per terra stuoie cuscini e sciorinavano cibo, come se si fossero trovate ai giochi per il funerale di Temrai. O forse no, rifletté. Penso che si divertiranno comunque vada. Si concesse un paio di minuti per osservare la scena; c'era colore, rumore e movimento; intere famiglie e gruppi di amici sedevano insieme, bambini correvano qua e là gridando mentre balzavano dentro e fuori dall'acqua del fiume, inseguiti dalle madri con teli per asciugarli, che quando li acchiappavano li costringevano a liberarsi dei vestiti bagnati. Era uno strano modo di celebrare la nascita di una nuova, terribile arma. Camminò fino in cima all'altura e vi si erse, ritto in piedi; fu abbastanza per attirare l'attenzione della folla. I bambini vennero zittiti, i piatti fatti
girare, l'idromele e il latte vennero versati. Si domandò se fosse il caso di fare un discorsetto e optò per il no. Era ora di cominciare. Si schiarì la gola e cominciò a dare ordini. I componenti più grossi e pesanti erano i due lati della struttura, imponenti tavole di legno lunghe tre metri in cui avrebbero dovuto andare a incastrarsi quasi tutti gli altri componenti. Il fratello di sua madre, Kossanai, che nell'ambito del progetto aveva nominato capo della squadra di montaggio, organizzò un gruppo che sollevasse i lati verticalmente e li tenesse fermi mentre le traverse venivano incastrate al loro posto. Primo ostacolo; il tenone della traversa frontale era troppo grande per la mortasa che si trovava nel pannello di sinistra della struttura. Fra la squadra che aveva fabbricato le traverse e quella che invece aveva fatto i lati scoppiò immediatamente una lite accalorata, perché un gruppo insisteva che il tenone era della misura esatta e che era la mortasa a essere troppo piccola, l'altro controbatteva che la mortasa era perfetta al millimetro, ma che il tenone era stato fatto con i piedi e che l'intera traversa andava bene giusto per accenderci un fuoco. Dopo un breve attimo di disperazione, Temrai si alzò con fare tranquillo, trovò un coltello, un cesello e una tazza piena di fuliggine per tracciare segni, fece cenno a una coppia di spettatori che appartenevano a un'altra squadra e si mise al lavoro per ridurre il tenone alle giuste dimensioni. Quando la gente capì quello che stava succedendo cominciò a ridere e ad applaudire e la lite si calmò ben presto. «Va bene» disse Temrai con voce calma, raddrizzando la schiena e spolverandosi le mani. «Adesso ascoltatemi, perché non mi ripeterò due volte. Un altra scenata come questa e vi farò buttare tutti quanti nel fiume. Capito? D'accordo, allora proviamo a incastrare l'altra traversa.» Grazie al cielo la traversa posteriore si incastrava perfettamente e i montatori cominciarono a sorridere e a scambiarsi pacche sulle spalle, come se il lavoro fosse già completato. Temrai diede ordine che la smontassero. «Capo? Ma s'incastra benissimo, potete vederlo voi stesso...» azientemente Temrai spiegò che avevano ancora tutti gli altri componenti da incastrare e che questo sarebbe stato impossibile senza smontarla. «Prima controlleremo tutti gli incastri, pezzo per pezzo» disse. «Poi metteremo insieme il tutto e lo fisseremo con i cunei. Tutto chiaro?» Subito dopo fu il turno del rullo a verricello. Era risultato troppo grande per poter essere fabbricato su un normale tornio e Temrai aveva dovuto disegnare un tipo di tornio completamente nuovo per lavorarlo. Ne era
piuttosto orgoglioso perché era la prima parte di quel progetto che aveva ideato tutto da solo invece di limitarsi a copiare qualcosa che aveva già visto nella Città. Il rullo si incastrò perfettamente al proprio posto, ma era sette o otto centimetri troppo lungo; prima di essere della esatta misura dovette essere rimesso per due volte sul tornio e fresato. Poi fu la volta del sostegno a croce per i pali verticali; si incastrò in maniera accettabile ed ebbe bisogno solo di un minimo, abile ritocco. Con un sospiro di sollievo, Temrai ordinò che venissero martellati al loro posto i cunei di legno che bloccavano i tenoni nelle mortase. I montatori eseguirono e fecero un passo indietro. Quando la mollarono, la struttura non cadde a pezzi. Be', questo è a posto, mormorò Temrai a se stesso. Adesso pensiamo ai montanti. Solo quando fu messa mano ai due massicci blocchi di legno accuratamente sagomato e gli uomini di Kossanai li misero diritti, realizzò di essersi dimenticato qualcosa. Imprecò sottovoce. I montanti, che sostenevano il palo contro cui andava a sbattere il braccio della catapulta, secondo il progetto dovevano incastrarsi nelle mortase intagliate sulla faccia superiore dei due pezzi laterali, entro le quali sarebbero stati trattenuti da spranghe di ferro di due centimetri di spessore. Le mortase sembravano essere state tagliate in modo piuttosto preciso; e lo stesso valeva per i tenoni ricavati nella parte inferiore di ogni montante. Il problema che aveva trascurato fino a quel momento era come fare a sollevare i due massicci e pesanti montanti al di sopra dei pezzi laterali, in modo da poterli poi abbassare entro la loro sede (ammesso che si incastrino perfettamente; per adesso diamolo per scontato, va bene?) e fissarli con le spranghe. Si prese la faccia fra le mani e si massaggiò entrambi i lati del naso con i polpastrelli. Avrebbe dovuto fare ricorso a un qualche tipo di gru; oppure usare un'impalcatura e sollevare i due pali fino alla giusta posizione servendosi della forza bruta. Se la manovra non fosse stata perfetta e avessero fatto cadere uno di quei cosi in testa a qualcuno, sarebbe scoppiato un vero e proprio caos. Cercò di escludere dalla propria percezione il ronzio di impaziente eccitazione che proveniva dai gitanti felici e si sforzò di visualizzare il modo migliore di eseguire la manovra. Gru... Sì, quelle sarebbero andate bene. «Kossanai, voglio che facciate a pezzi il nuovo tornio e che portiate quassù le strutture ad A» disse. «Laskai, Morotai, procuratemi un paio di pali lunghi tre metri e di trentacinque centimetri di spessore, o comunque il più possibile vicino a queste misure; qualcosa di una certa flessibilità, ma
non troppo elastico. Panzen, mi serviranno dodici metri di corda, non del tipo eccellente che stiamo tenendo da parte per le macchine.» Appoggiando una contro l'altra le due strutture ad A e legandole strettamente in cima e in basso, costruirono una solida base per la gru. Uno dei pali fu poi sollevato e collegato in modo da funzionare da leva e quando Temrai chiese volontari per fare funzionare l'aggeggio un sacco di gente si offrì di aiutare. Lui personalmente si piazzò sulla struttura della gru e guidò con cautela l'inserimento del tenone nella mortasa; era dentro già per metà quando si bloccò. «Dannazione» disse. «Va bene, sollevatelo di nuovo. Così. Tenetelo fermo, per carità.» S'inginocchiò, infilando la testa direttamente sotto il montante sospeso e spruzzò un po' di fuliggine all'interno della mortasa in modo che quando avessero tentato di nuovo di inserire il tenone la fuliggine avrebbe marcato i punti in cui esso trovava resistenza. «Va bene, adesso riproviamoci. Giù... Tenetelo così. Bene, adesso di nuovo fuori e reggetelo bene.» Si girò verso il capo della squadra che lavorava alla gru. «Tenetelo fermo in questa posizione mentre limiamo un po' questo tenone. Saremo il più rapidi possibile.» Al quarto tentativo il tenone si incastrò del tutto. Kossanai scattò con un augure e un trapano per fare i buchi necessari alle spranghe, mentre la squadra addetta alla gru continuava a sostenere il peso del montante con le proprie funi. Temrai aveva scelto l'uomo giusto; Kossanai lavorava in fretta, ma con attenzione, apparentemente senza curarsi troppo di tutta la confusione e l'eccitamento. Gli ci volle mezz'ora per trapanare i due buchi e nel frattempo l'entusiasmo gioioso della squadra alla gru evaporò parecchio. «Inserite le spranghe» disse Temrai, afferrando un martello e incastrandole lui stesso al loro posto. «Ringraziando gli dei, le dannate sbarre s'inseriscono benone. Pasadai, infila le coppiglie in quelle sbarre, così possiamo fare a meno della gru.» Andò avanti così; dopo i montanti incastrarono i contropali di sostegno che li reggevano e poi in cima le traverse pesantemente imbottite che li univano e che sostenevano l'impatto del braccio della catapulta. A questo punto l'atmosfera vacanziera era sparita, lasciando il posto a una eccitazione tesa e impaziente mentre lentamente e incredibilmente la macchina cominciava a somigliare al disegno che Temrai aveva tracciato nel fango la settimana prima. Adesso finalmente la gente del clan stava cominciando a comprendere; lì di fronte a loro c'era una cosa che aveva l'aria di essere
reale: una cosa che avevano per davvero costruito loro e che avrebbe funzionato. Temrai si immaginò di riuscire ad avvertire il cambiamento di umore del clan; era come un bambino che stesse crescendo a incredibile velocità. Non era del tutto sicuro che la cosa gli piacesse. «Buon lavoro» disse quando i montatori fecero un passo indietro dalla struttura completata. «Adesso pensiamo ai vari fissaggi con il metallo e alle funi.» Supervisionò personalmente quella fase, perché era tuttora l'unico uomo del clan che comprendesse come il tutto potesse funzionare. Aveva assemblato con le sue mani i due meccanismi di arresto; uno per tenere la corda in tensione, l'altro per bloccare il verricello, in modo che potesse venire avvolto in più fasi. Non ebbero problemi con gli incastri; fece in modo che tutte le varie parti si combinassero più facendo ricorso alla forza di volontà che altro, ma comunque si combinarono. Mentre era impegnato con il bloccaggio della tensione, gli uomini di Kossanai portarono su il braccio della catapulta... Continua a sembrare solo un cucchiaio maledettamente grosso, ammise Temrai con se stesso... E lo tennero in posizione fino a quando Temrai non ebbe posizionato le funi. Non appena diede l'ordine un'altra squadra inserì leve negli appositi buchi del meccanismo per tenderle e diede inizio al lento lavoro di avvolgerle. Quelle corde finiranno per rompersi, lo so. Ma non fu così; né cedettero il meccanismo di bloccaggio, gli assi di quello che metteva le corde in tensione, o qualunque altra delle parti che avevano fatto scuotere dubbiosamente la testa a Temrai mentre le tuffava in acqua per temperarle. Alla fine la squadra addetta all'avvolgimento rinunciò al tentativo di costringere la ruota a fare un altro click; le leve vennero tolte e qualcuno legò il braccio al verricello. Era finita. Tutto ciò che restava da fare era di piazzare una pietra nella cavità del cucchiaio e lasciare scattare il meccanismo. Temrai si drizzò. Era esausto, sporco di fango e segatura, sanguinava da parecchi taglietti e si era sbucciato due nocche. Soprattutto, avrebbe tanto voluto non dovere dare l'ordine di lasciare scattare la catapulta. Tutti stavano fissando lui. Non può funzionare la prima volta. Niente funziona mai al primo tentativo. Dei, non possiamo sprecare tutta la nostra fortuna così all'inizio, ci serve per dopo. Che succede se il braccio si spezza o se i montanti sono troppo fragili e l'intero aggeggio riesce solo a ridursi in pezzi? Dovrei fare arretrare tutti quanti; se quella dannata cosa si spacca,
la gente potrebbe essere ferita dalle schegge di legno volanti. Se lo faccio, niente sarà mai più come prima. «Va bene» gridò. «Fate scattare il meccanismo.» L'uomo addetto a questo, un tizio che Temrai conosceva di vista ma non di nome, tirò con un colpo secco la corda che aveva in mano, che era collegata a una delle estremità del gancio accuratamente sagomato che connetteva il verricello al braccio. L'enorme cucchiaio di legno scattò in avanti, sbattendo contro le imbottiture di feltro che avvolgevano la traversa più alta, con lo stesso rumore dello schiaffo che la madre di un gigante avrebbe potuto dare a suo figlio. L'intera macchina fece un balzo di una ventina di centimetri in aria e poi atterrò nuovamente, come un gatto. E la pietra volò via. Temrai la osservò sollevarsi, rallentare, interrompere la corsa e cadere, guadagnando velocità a mano a mano che precipitava. Non cadde dove si sarebbe aspettato; finì un bel po' più a destra e quasi dieci metri più lontano e quando atterrò ne avvertì l'impatto attraverso le piante dei piedi. Cadde su un piccolo rialzo roccioso con un rumore secco e fragoroso che echeggiò fra le colline, rimbalzò e alla fine precipitò nel fiume con uno spruzzo, sollevando una cortina d'acqua molto scenografica. Seguì un silenzio di tomba. Dopo qualche minuto Kossanai e i suoi cominciarono a girare freneticamente intorno alla catapulta, osservando e controllando, dicendosi l'un l'altro con gioioso sbalordimento che questo e quell'altro erano ancora interi, che la tal sbarra non si era piegata e che quel tal ingranaggio non aveva ceduto; che funzionava. In nome degli dei, il dannato aggeggio funzionava davvero! Erano i soli che si muovessero o parlassero; il resto della folla guardava in silenzio, soppesando mentalmente il peso della pietra e la distanza che aveva coperto, immaginando la forza dell'impatto e cosa potesse provocare. Temrai riusciva quasi a sentire i loro pensieri: è una cosa con la quale bisogna andare cauti, perché c'è il rischio di fare male a qualcuno. Be', sì. Era proprio quello il punto, non era vero? O non ci avevano ancora pensato? Con uno sforzo Temrai si strappò al comune stato di trance e si diresse verso la catapulta. Il clan seguì ogni suo passo; era come se lo stare accanto a essa fosse un gesto politico, la dichiarazione di una nuova, letale politica. Temrai avrebbe voluto, nello stesso tempo, dirgli che era spiacente e rimproverarli per essere così molli e di corte vedute; avrebbe voluto ordinare loro di fare a pezzi la macchina e contemporaneamente si
sarebbe lanciato contro chiunque l'avesse anche solo sfiorata con intenti ostili. Non sapeva che cosa pensare. Soprattutto era spaventato. Di che cosa, Temrai? Non puoi certo pensare di mettere a sacco Perimadeia attaccandola con mazzi di fiori. Vuoi davvero saccheggiare Perimadeia? Uccidere tutta quella gente? Noi non facciamo questo genere di cose. Loro le fanno. Che male ti hanno mai fatto? Lentamente si guardò intorno, fino a che vide Kossanai che stava ribattendo con cautela un cuneo al suo posto con un martello di legno. «Qualche danno?» chiese. «No» rispose l'uomo più anziano. «A parte qualche cuneo e qualche chiodo che si è un po' smosso è solida come una campana. Ce l'abbiamo fatta, Temrai. Non è straordinario?» Temrai sorrise, allungò una mano e diede un colpetto al braccio della catapulta, come se fosse il suo cavallo favorito. «Tutto bene, allora» disse. «Adesso tutto quello che ci resta da fare è costruire altre trecento di queste bellezze, dopo di che potremo metterci in affari. Forza» aggiunse, alzando la voce in modo che tutti potessero sentirlo «non state lì in piedi imbambolati, abbiamo del lavoro da fare.» CAPITOLO DECIMO Una mattina presto un uomo attraversò a piedi il Ponte dei Mandriani ed entrò in città, tirandosi dietro una fila di somari pesantemente carichi di fichi secchi. Era stanco e non ne poteva più dopo avere perso una scarpa prendendo una scorciatoia attraverso un pantano per evitare un ponte su cui si pagava la gabella. I piedi gli facevano male, la svolta aveva allungato il viaggio invece di accorciarlo e anche se in effetti aveva evitato il pedaggio era stato costretto a passare la notte in una locanda squallida e cara da sfiorare l'estorsione, con il risultato che aveva speso il doppio di quello che sperava di risparmiare. Desiderava una bibita fresca e un bel bagno caldo più di qualunque altra cosa al mondo. Per quanto riguardava il bagno, era arrivato nel posto giusto. In città c'erano non meno di sette bagni pubblici fra cui scegliere, tutti quanti a una ragionevole distanza a piedi dal ponte. Dopo avere lasciato i somari a un amico, si diresse quindi direttamente verso il più vicino, pagò un mezzo di rame più un altro mezzo per una brocca di vino a buon mercato e passò il resto della mattinata godendosi quel lusso magnifico.
Il bagno lo rilassò e lo fece sentire ringiovanito, ma lo fece anche vergognare per lo stato incolto in cui erano i suoi capelli e la sua barba. Prima di andare al mercato a recuperare i somari e a montare la bancarella, si fermò quindi in una piccola bottega di barbiere, dove per caso c'era una sedia vuota proprio nel momento in cui lui passava davanti all'ingresso. Si accomodò sulla sedia, mise i piedi sul poggiapiedi e raccomandò al barbiere di fare del suo meglio. Un po' per effetto del vino e un po' per quello del bagno caldo, si sentiva a suo agio e di buon umore e il caso volle che si trattasse di quel genere di uomini che chiacchierano, quando sono felici. Era un'altra ottima ragione per farsi radere e tagliare i capelli, perché è universalmente noto che i barbieri, in base un sacro codice della loro antica e venerabile professione, sono costretti a stare ad ascoltare. Cominciò con un «Buon giorno» lo ampliò a un breve racconto del suo viaggio, lo allargò trasformandolo in un racconto dettagliato del suo viaggio, con particolari riferimenti ai pericoli degli acquitrini e ai costi iniqui dei ponti a pedaggio e delle locande, fece una digressione parlando della propria vita e della propria filosofia in materia di affari, parlò per quattro minuti, fermandosi solo il tempo necessario per respirare del nipote di sua moglie (che lei lo aveva obbligato a prendere come assistente e che non era più utile di un mastello per fare il burro) e stava per esprimere la propria solidarietà alla gente della città per i recenti problemi che aveva avuto con i clan delle pianure, quando il barbiere lo bloccò. «Problemi?» disse il barbiere. «Non ho sentito parlare di nessun problema.» Il mercante di fichi inarcò un sopracciglio. «Sapete, quegli aggeggi con cui si danno tanto da fare a monte del fiume. Tutte quelle cose che stanno costruendo.» «Quali cose?» «Volete dire che non ne avete sentito parlare?» Il mercante di fichi s'imbarcò immediatamente in una colorita descrizione di ciò che aveva visto mentre passava lungo la sponda opposta del fiume; alte piramidi di tronchi, il fiume pieno zeppo di zattere, gigantesche seghe, ogni genere di macchine dall'aria bizzarra, con gente che ci correva intorno gridando e scambiandosi ordini. E, aggiunse, tutte quelle catapulte. «Quali catapulte?» Le catapulte, naturalmente; quelle che i clan delle pianure stavano fabbricando lungo il guado vicino a cui lui era passato. Be', quando diceva
fabbricare voleva dire che quello che sembrava che stessero facendo fosse assemblarle, testarle... Sparavano qua e là dei pezzi di roccia maledettamente grossi, come una banda di ragazzini che si scambiasse palle di neve... Poi smontarle di nuovo e caricare i vari pezzi su tutta una serie di carri. Sicuramente, insistette, il barbiere doveva avere sentito parlare delle catapulte. Il barbiere gli chiese se fosse sicuro. Il mercante di fichi rispose che sicuro che era sicuro. Lo aveva visto con i suoi occhi, chiaro? Il barbiere gli chiese di ripetere tutto. Il mercante di fichi ripeté il suo racconto. «Oh, merda» disse il barbiere e immediatamente schizzò via con il rasoio ancora in mano, lasciando il mercante di fichi seduto nella sua sedia con mezza barba fatta e un asciugamano intorno al collo. La ragione per cui il barbiere prese tanto a cuore quella notizia era che da giovane, prima di diventare abbastanza grande da decidere di fare dell'altro, aveva passato diciotto mesi nelle pianure come un membro dell'esercito di Maxen, fino a quando non si era trovato sulla traiettoria delle freccia lanciata da un arciere dei clan ed era stato abbandonato per morto. Ci aveva impiegato due anni a tornare a casa e anche dopo tutti quegli anni gli capitava di rado di riuscire a dormire senza sognarsi quello che gli era accaduto. Quando sbucò all'improvviso in mezzo al mercato, agitando il rasoio e gridando: «I selvaggi stanno arrivando! I selvaggi stanno arrivando!» la gente della città arrivò a una ovvia conclusione, gli diede una botta in testa, gli tolse il rasoio e lo gettò in un deposito di carbone a smaltire la sbornia; un'anima gentile ebbe perfino la presenza di spirito di togliergli la borsa per evitare che si tagliasse con i bordi affilati delle monete mentre si agitava nella propria nebbia alcolica. Fu solo due o tre ore dopo, quando il proprietario del magazzino di carbone aprì il deposito per prelevarne un po' che il barbiere riuscì a scappare e a raggiungere, stavolta senza dare in escandescenze, il più vicino posto di guardia. Fortunatamente il sergente di guardia lo conosceva ed era disposto ad ascoltare ciò che aveva da dire; fu così che le prime indiscrezioni sui preparativi di Temrai raggiunsero la città di Perimadeia quattordici settimane dopo che l'aveva lasciata e aveva dato inizio all'impresa della sua vita. Il sergente, come molte delle guardie, faceva quel mestiere a part-time; cioè serviva da soldato un giorno ogni dieci e per il resto del tempo faceva
il locandiere. Quando ebbe finito di fare il suo rapporto (una cosa lunga; dovette continuare a ripetere le stesse cose a una serie apparentemente interminabile di ufficiali di un tipo o dell'altro, ognuno dei quali insistette per risentire poi la medesima storia dalla voce del povero barbiere terrorizzato), il suo turno era già finito da un bel po' ed era ora che facesse ritorno alla propria taverna, dove sua moglie e sua figlia sarebbero state certamente alle prese con la folla serale. Dopo una breve pausa solo per lasciare le armi al posto di guardia, si precipitò a casa, si legò rapidamente un grembiule intorno ai fianchi e cominciò ad asciugare brocche per il sidro. Tuttavia quando l'assalto al banco fu un po' diminuito ed egli ebbe avuto il tempo di tirare il fiato e di versarsi un paio di meritati bicchieri, non perse altro tempo nel rendere di dominio pubblico la ricca messe di notizie di cui aveva avuto la fortuna di essere messo a parte. Stavolta, visto che provenivano da un membro altamente rispettato della comunità e non da un barbiere ubriaco, la gente stette ad ascoltare. Poi, avendo ascoltato, fu presa dal panico. Sembra esistere una perversa legge di natura per cui quanto più grande è una città, tanto più velocemente si sparge una voce fra la popolazione. I clienti del taverniere, dopo essere corsi alle loro case per accertarsi che fossero ancora lì e che non fossero state saccheggiate da selvaggi vestiti di pelliccia, andarono a spargere la notizia fra tutti i conoscenti in cui si imbatterono. Dato che era più o meno l'ora della giornata in cui i cittadini avevano l'abitudine di farsi una passeggiata dopo cena insieme alla moglie e alla famiglia, intorno alla rispettiva piazza, non ci volle molto prima che le strade e le corti fossero piene di gente che correva disperatamente di qua e di là gridando a sua volta la notizia a tutti quelli che potevano non averla ancora appresa. Frattanto gli originali diffusori della notizia, rassicuratisi che le loro case non erano state date alle fiamme e che i loro beni e i loro cari erano ancora più o meno come li avevano lasciati, cominciarono a tornare sui propri passi e a dirigersi verso la parte alta della città alla ricerca di un edificio governativo davanti al quale manifestare, chiedendo che fosse fatto qualcosa. Ben presto le strade diventarono un luogo eccitante in cui stare, a mano a mano che la folla aumentava, le persone correvano da tutte le parti sbattendo le une nelle altre, le voci cambiavano ed evocavano dal nulla immaginari gruppi di selvaggi fuori dalle porte o magari già entro le mura, che stavano risalendo la cloaca massima o radendo al suolo il quartiere dei
conciatori, con il ferro e con il fuoco. Come al solito dispute e risse cominciarono a spuntare qua e là come funghi, qualcuno riuscì a fare scoppiare un incendio nel distretto dei tessitori di tappeti e un certo numero dei soliti opportunisti si avvantaggiò dello stato di caos generale per fare un po' di acquisti gratis. Il prefetto della Città ordinò di fare uscire la guardia per ripristinare l'ordine; ma siccome si era verso la fine del turno di giorno, le guardie se n'erano già andate tutte a casa e quelle del turno di notte o stavano cercando di avanzare lungo le strade piene di gente oppure si erano unite ad amici e vicini nel tumulto. Il prefetto della Città si rivolse allora al Luogotenente Generale, affinché inviasse della truppa regolare. Il Luogotenente Generale ricordò al prefetto della Città che a parte le sue poche guardie a tempo pieno, non esisteva un esercito regolare. Dopo averci pensato per un po', il prefetto, il Luogotenente e i rispettivi alti ufficiali raggiunsero senza dare nell'occhio il loro ingresso privato alla seconda città e si richiusero la porta alle spalle. La mattina successiva la città bassa offriva un ben triste spettacolo e i cittadini che durante il tumulto erano caduti ai lati della strada e avevano dormito lì, meritano di essere scusati se pensarono che in effetti la città fosse stata saccheggiata dal nemico mentre loro dormivano. Il fuoco si era sparso, partendo dal distretto dei tessitori di tappeti, e aveva messo a soqquadro quattro quartieri confinanti prima di raggiungere il fiume ed estinguersi da solo. Un notevole numero di negozi e di bancarelle aveva ricevuto la visita di allegre bande di gente che aveva approfittato della situazione e taverne e vinai erano stati i più bersagliati. Da tutte le parti c'era gente che gemeva e molti non si lamentavano né si muovevano più. Ora che la guardia cittadina fu riuscita a radunarsi in numero sufficiente e a trovare il coraggio di avventurarsi all'esterno, non era rimasto nessuno da arrestare a parte qualche ubriaco addormentato, così fu mandato un messaggio alle autorità che si erano rifugiate nella seconda città per informarle che ormai la situazione era sicura. Dopo di che si cominciò a cercare di mettere ordine in quel pandemonio. Uno dei pochi che era rimasto a casa tutta la notte e che non si era accorto di nulla che fosse fuori dal normale, era Bardas Loredan. Il giorno prima la sua classe aveva fatto l'esame finale per il diploma e tutti i suoi allievi l'avevano passato. Quel piccolo miracolo esigeva un minimo di celebrazione, che era cominciata intorno a mezzogiorno e durata fino a quando lo stesso Loredan, ultimo superstite dei gozzovigliatoli, non si era
svegliato in una taverna nel distretto dei fabbricanti di sapone più o meno nello stesso momento in cui il barbiere era riuscito a fuggire dal deposito di carbone. Loredan si era faticosamente trascinato fino a casa ed era crollato nel letto. La prima occasione in cui venne a sapere dei tumulti notturni fu quando si trascinò giù per le scale fino al panettiere sull'angolo, solo per scoprire che il negozio non esisteva più. Restò lì per un attimo a massaggiarsi gli occhi; poi per caso passò di lì un tizio che Loredan conosceva di vista e questi lo afferrò per un braccio. «Il panettiere» borbottò. «Che diavolo di fine ha fatto?» Il racconto che gli fu fatto era la quinta o la sesta variazione della versione originale e sosteneva che alcuni pazzoidi avessero sparso la voce completamente falsa che i selvaggi fossero alle porte e che questo aveva provocato una generalizzata anche se breve crisi di follia collettiva. Fu più che abbastanza per un uomo con un classico mal di testa da risveglio, ma una volta che ebbe accertato che i cosiddetti selvaggi erano i clan delle pianure, Loredan decise di andare in cerca di informazioni più precise. La cosa non si rivelò affatto facile, e aveva già ascoltato quattro o cinque versioni differenti, tutte in assoluta contraddizione fra loro e nessuna delle quali comunque gli sembrava convincente quando, svoltando un angolo, si trovò faccia a faccia con una squadra di quattro guardie in piena armatura e che reggevano archi con le frecce incoccate. «Bardas Loredan?» «Sì, sono io» ammise Loredan sbalordito. «Che cosa...?» «Stavamo cercando proprio voi» disse il caporale in tono truce. «Dovete venire con noi.» «Ma io non ho... Ho dormito tutto il tempo.» Fece un passo indietro. «Sentite, di che si tratta?» «Ordini» rispose il caporale. «Su, cercate di avere un'aria più vivace.» Pur essendo assolutamente certo che avere l'aria vivace, quella mattina fosse al di là delle sue limitate capacità, Loredan si sforzò di ubbidire e poco dopo si ritrovò in attesa davanti alla porta degli appartamenti del Patriarca. Stava per protestare quando la porta si aprì e un ufficiale che gli arrivava quasi alla spalla, splendidamente vestito, con un'armatura scintillante, gli ordinò bruscamente di andare con lui. Lo seguì su per svariate rampe di scale e lungo quasi un chilometro di corridoi fino a che non si fermarono davanti a una porticina, in un chiostro coperto che circondava un bel giardinetto verde con una fontana in mezzo. Lo splendido ufficiale bussò alla porta e poi spinse Loredan nella stanza.
All'interno era piacevolmente fresco e buio. Non era mai stato in quell'edificio prima, ma da quello che aveva sentito, dedusse che si trattasse di una delle case capitolari. Una volta che i suoi occhi si furono abituati a quella tenue luce, si accorse che all'interno c'erano più o meno quindici persone, alcune sedute sulle panchine di pietra che sporgevano dal muro, tutto intorno lungo la parete circolare, altre in piedi in mezzo al locale intente a parlare sottovoce. Riconobbe il prefetto della Città, un uomo basso e anzianotto con i capelli bianchi e ispidi, e un paio di ufficiali dello stato maggiore del Luogotenente Generale. Poi, in fondo, su un trono di marmo bianco, c'era il Patriarca Alexius, che parlava con un uomo alto e magro seduto alla sua destra. Alexius alzò lo sguardo, lo notò e gli fece cenno di unirsi a loro. Tuttavia, prima che Loredan potesse farlo, un altro ufficiale ancora più splendido lo prese per un braccio e lo condusse senza esitare alla presenza del prefetto. «Voi siete Loredan?» domandò il prefetto. Bardas annuì. «Grazie al cielo» rispose il prefetto. «Bene, andrò dritto al punto. Le voci a proposito di un attacco dalle pianure sono vere.» «Ah» si limitò a dire Loredan. «Per essere più precisi» continuò il prefetto, corrugando lievemente la fronte, come per fare capire che in qualche modo Loredan non corrispondeva alle necessarie caratteristiche «sembra che siano riusciti a procurarsi da qualche parte un grosso equipaggiamento pesante. Macchine da assedio, catapulte, non sappiamo esattamente cosa o chi è stato a procurargliele. Il punto è che stiamo prendendo questa minaccia molto seriamente e che quindi abbiamo deciso di lanciare un attacco preventivo.» «Scusatemi» lo interruppe Loredan. «Abbiamo chi, esattamente?» Il prefetto s'interruppe, come se gli fosse stata appena posta una domanda alla quale non sapeva rispondere. «Le autorità civili» disse infine. «Io, il Luogotenente Generale, i responsabili dei vari uffici, e naturalmente il Patriarca.» Aggrottò le sopracciglia e poi continuò. «Il nostro problema è che, come ben sapete, non abbiamo una forza di cavalleria pesante immediatamente disponibile da utilizzare per l'attacco. Ora, voi siete stato l'ultimo uomo a comandare la cavalleria pesante, così ci è sembrato logico coinvolgervi nell'operazione. Vi ho già assegnato un primo stato maggiore...» «Scusatemi...»
«E potete lavorare stando in una delle stanze che abbiamo occupato qui, fino a quando non vi sarà assegnato un ufficio permanente. La mia gente si occuperà del grosso del lavoro di reclutamento, ma voi avrete modo di dire la vostra al momento della selezione e naturalmente contiamo di coinvolgervi pesantemente nell'addestramento e nell'approvvigionamento di materiale, anche se ovviamente il controllo della spesa per gli acquisti dovrà restare affidato all'appropriato ufficio civile...» Loredan sollevò una mano. «Aspettate un minuto» disse. «Vi prego di rallentare. State seriamente suggerendo che io abbia qualcosa a che fare con la vostra spedizione?» «Amico, non siate stupido. Siete un ufficiale dell'esercito di Perimadeia. È vostro dovere...» Per Loredan non fu una grande idea lo scuotere vigorosamente la testa, dato lo stato in cui era. «No. Spiacente, ma la risposta è no. Non potete costringermi. Ho dato le dimissioni, ricordate?» Il prefetto sembrò sul punto di esplodere. «Colonnello Loredan» disse, e avrebbe avuto un'aria tremendamente marziale e autoritaria se la sua voce non fosse suonata così stridula «mi sembra che non stiate capendo. Vi ordino...» «Andate all'inferno» sbottò Loredan. Sbalordito, il prefetto fece un passo indietro, calpestando le dita di qualcuno che stava immediatamente alle sue spalle. «E non chiamatemi colonnello. Sarà meglio che vada a casa, prima che io perda la pazienza.» «Adesso state a sentirmi» squittì il prefetto. La gente stava cominciando a girarsi e a guardarli. Loredan si incamminò verso la porta, ma sulla sua strada c'era uno di quegli splendidi ufficiali. Loredan decise che non se la sentiva proprio di fare a pugni e si fermò. «Credetemi» disse «non sapreste che farvene di me. Sono passati dodici anni e poi guardatemi, sono uno straccio. Devono esserci centinaia dei vostri uomini...» E mentre parlava incrociò lo sguardo dello splendido ufficiale e vide la verità: non ce n'è neanche uno; solo questi pavoni e quelli che fanno le guardie ogni tanto. Oh, diavolo... «Fermi tutti, però» disse. «Che mi dite della guardia dell'Imperatore? Anzi, a questo punto che cosa mi dite dell'Imperatore? Non dovrebbe stare facendo qualcosa in proposito?» Ciascuno intorno a lui si fece improvvisamente silenzioso, come se avesse appena detto qualcosa di terribilmente sciocco. Stanno facendo del
loro meglio per non mettersi a ridere, realizzò. Che cosa ho detto? «Colonnello Loredan» disse il prefetto con un sospiro «non c'è nessun Imperatore. Non lo sapevate?» Era una cosa che lo faceva andare in bestia... Ma andava fatta e non c'era nessun altro di cui ci si potesse fidare per un lavoro ben fatto. Con un profondo sospiro Gannadius scalciò via le pantofole troppo strette, regolò lo stoppino della lampada e si sedette a fare i conti. Contabili: piccoli funzionari presuntuosi e confusionari... Per un attimo provò la tentazione di lanciare a sua volta una piccola maledizione. Una gamba fratturata o un periodo di cecità temporanea, giusto quello che bastava per tenerli alla larga senza che nessuno morisse e senza fare ricorso a mutilazioni permanenti... No, forse no. Se c'era una cosa che aveva imparato dall'ultima sciagurata vicenda, era che il Principio era un'arma dal costo eccessivo. Aprì il bauletto di legno di cedro in cui conservava i gettoni per contare, tirò fuori la borsa di velluto e ne fece scivolare i gettoni lucenti, che si impilarono. Era una serie vecchia e di valore che era appartenuta a suo nonno, un facoltoso mercante di lane; i gettoni erano di argento pregiato, piuttosto usati, ma ancora leggibili: delle piccole pozze di bianca luce lunare sullo sfondo di legno scuro del tavolo. Sulla faccia posteriore di ogni gettone c'era una figura allegorica femminile che rappresentava il Commercio, seduta su un trono con un paio di bilance in una mano e un corno dell'abbondanza nell'altra; una donna robusta avvolta in un abito trasparente, con il volto ormai abraso dopo che tre diverse generazioni si erano servite dei gettoni per le loro operazioni aritmetiche. Sull'altra faccia c'era il tradizionale stemma della città (la nave e il castello), con la scritta I PATTI PRUDENTI AIUTANO LA PROSPERITÀ in caratteri ornati che correvano lungo il bordo. Gannadius raccolse uno dei gettoni e lo studiò per un po'; c'era qualcosa di rassicurantemente solido e rispettabile nei gettoni del nonno, che in qualche modo riusciva a rendergli meno sgradevole un compito altrimenti abominevole. Con un mozzicone di gesso tracciò le linee sulla parte superiore del tavolo; cinque linee orizzontali, come i gradini di una scala a pioli, proprio sul piano dello scrittoio. Anche se non gli avrebbe fatto piacere che la cosa fosse risaputa, Gannadius si sentiva veramente a suo agio solo con il metodo di calcolo basato su linee-e-spazi: quello che veniva usato dai
mercanti, dai tavernieri, dai fattori e dalla gente di quel tipo. Gli scribi, gli studiosi e gli impiegati usavano un sistema molto più elegante e complesso, che implicava non soltanto linee e spazi, ma anche quadretti di differente colore su una lavagna permanente (di solito una vera opera d'arte), dei gettoni fissi con astrusi nomi tecnici e un concetto veramente complicato, chiamato l'Albero della Numerazione, di cui non era mai riuscito a capire un bel nulla. Per quanto lo riguardava, l'aritmetica era già una cosa abbastanza sgradevole senza bisogno di condirla di misticismo gratuito. Al confronto, il comune sistema di calcolo era un gioco da ragazzi. Ogni piolo della scala rappresentava un multiplo di dieci; la linea più in basso rappresentava le unità, la seconda le decine, la terza le centinaia e così via. Gli spazi fra le linee erano multipli di cinque; cinque, cinquanta, cinquecento, cinquemila. Si tracciava il primo numero che doveva venire addizionato lungo le righe e poi si tirava con il gesso una linea verticale giù lungo il lato destro e si tracciava il numero successivo; a questo punto si faceva il calcolo, si tracciava un'altra linea e si tracciava il terzo numero. Ci voleva molto più tempo che con il metodo professionale, ma il risultato era abbastanza a prova d'errore e quanto più ci si dedicava, tanto più il sistema sembrava diventare semplice. Avendo preparato il suo schema, aprì il libro contabile alla pagina intitolata Ricevute e cominciò a sistemare i gettoni... Registrazione: ricevute come acconto sugli affitti le seguenti somme: Ducas Falerin; - 2,659 Leras Beron; - 8,342 Duemila seicento e cinquantanove. Gannadius prese un certo numero di dischi e li dispose davanti a sé; quattro sulla linea più bassa, uno nel primo spazio, niente sulla seconda linea, uno nel secondo spazio, uno ciascuno sulla terza linea e nel terzo spazio, e finalmente due sulla linea delle migliaia; poi ricontrollò, tirò la linea e mise il successivo numero da addizionare nella colonna successiva. Una volta posizionato il secondo numero si concentrò sull'attività abbastanza semplice di fare la somma... Cantilenò i propri calcoli sottovoce, come un maniscalco superstizioso che recitasse incantesimi portafortuna mentre picchiava con il martello su un ferro di cavallo; via via smise di avere bisogno di riflettere e poté
lasciare che fossero gli occhi e le dita a fare il lavoro, i gettoni a tenere il conto. Senza quasi accorgersene finì la pagina degli affitti e si spostò a quella delle tariffe e delle decime, mentre la sua mente si staccava progressivamente dai conti, abbandonandosi a una piacevole trance soporifera. Resta comunque un incarico schifoso, non ci sono dubbi. Si era fatto trascinare in quell'impegno dalla prospettiva di una promozione; non aveva mai consentito a se stesso di diventare terribilmente ambizioso, soprattutto perché l'ambizione sfrenata alla lunga tendeva a diventare controproducente. Un uomo che si arrampica fino in cima alla scala prima di avere quarant'anni, non ha altra prospettiva davanti a sé se non quella di trent'anni da passare a impedire che un altro giovanotto altrettanto ambizioso gli succeda e Gannadius non aveva mai capito che gusto ci fosse. Era molto meglio avanzare lentamente e con sicurezza, coltivando durevoli alleanze e facendosi meno nemici possibile, facendo un buon lavoro che sarebbe stato ricordato invece che dedicarsi a giochetti politici, che erano altrettanti inviti a nozze per i cospiratori da chiostro e gli appassionati dei colpi di mano. Aiutando il Patriarca a raddrizzare una situazione assai compromessa aveva posto solide basi per la sua gratitudine e si era guadagnato un credito su cui avrebbe potuto costruire la mossa successiva della sua carriera con un grado ragionevole di tranquillità. Una mossa veramente strategica, degna di un esperto navigatore come lui. Be', quello per lo meno era il motivo per cui si era lasciato coinvolgere all'inizio. Senza dubbio aveva raggiunto il suo obbiettivo, ma adesso non sembrava più così importante come in partenza. Non c'era alcun dubbio che su un certo piano in tutta quella faccenda ci fosse un fascino intellettuale che lo intrigava enormemente; via via aveva riscoperto quella vibrante eccitazione che aveva provato quando era solo un giovane studente entusiasta, che si crogiolava in mezzo ai concetti più ostici e misteriosi. E nessuna falsa modestia, per favore; lui e Alexius si erano imbattuti in un aspetto del Principio totalmente nuovo, un'area che non era stata addomesticata e resa familiare da generazioni di studiosi meticolosi, intenti a scavarne fuori anche la minima scheggia di significato. Al contrario erano come due naufraghi, in un continente completamente sconosciuto; tutto quello che incontravano era nuovo e ignoto e avrebbe meritato di essere studiato una vita intera, se non fossero stati così occupati a salvare la pelle e a trovare il modo di tornare nuovamente a casa. Quello era il punto, ammise Gannadius con se stesso; sopra ogni altra
cosa, voleva che tutto fosse finito e risolto perché nel suo intimo era spaventato. Era più fortunato del suo collega, perché non era quello minacciato direttamente. Era stato Alexius a cadere malato e tuttora riusciva a malapena a camminare; Gannadius voleva disperatamente salvarlo, se solo gli era possibile. Poteva razionalizzare quel sentimento dicendosi che se Alexius fosse morto troppo presto lui non avrebbe mai avuto l'opportunità di incassare tutto il suo capitale di credito e riconoscenza, ragione per cui non sarebbe stato sicuro di essere il suo successore e si disse che anche quelle considerazioni avevano il loro peso, perché continuava a desiderare di diventare Patriarca un giorno, nel pieno della sua maturità. Forse invece dipende solo dal fatto che quell'uomo mi piace. Be', è così. Eppure anche questo non spiega del tutto la situazione. In tutto ciò c'è qualcosa di importante e devo scoprire che cos'è. Il che rendeva ancora più insopportabile del solito l'essere bloccato dietro un tavolo a spingere avanti e indietro una pila di gettoni, quando invece avrebbe voluto essere nella casa capitolare a sentire le ultime notizie e a cercare di capire quale potesse essere la connessione fra la faccenda che legava Alexius a Loredan e quella nuova minaccia alla Città. Sicuramente ce n'era una; doveva esserci, anche se per quanto si sforzasse non riusciva a immaginare quale fosse. C'era qualcosa, una chiave malevolmente obliqua in quello strano sogno di Alexius nel quale si era insinuato inavvertitamente; le nuvole di polvere che diventavano vele, quella ragazza dell'Isola, che era una vera persecuzione e lo confondeva e poi il fatto che Loredan avesse un fratello. Alexius non era riuscito a dedurne nulla di utile (avrei dovuto andare con lui e interrogare io stesso quell'avvocato; Alexius è troppo coinvolto emotivamente con tutta questa cosa per consentire che faccia le sue indagini da solo), ma la sua descrizione delle reazioni dello spadaccino quando l'argomento era stato sollevato lo avevano convinto ancora di più che il famoso fratello avesse un ruolo importante in tutta quella faccenda. Attribuire tutto a una serie di coincidenze sarebbe stato veramente miope. Tornò a concentrarsi sui conti... Fece la prova, intinse la penna nell'inchiostro e scrisse il totale delle ricevute; ventinovemila e novantasette pezzi d'oro, una somma fin troppo grossa per doverne rispondere. (E quale poteva essere la giustificazione per il fatto che un ordine contemplativo rastrellasse trentamila svanziche, per non dire del fatto che le spendesse…?)
Si fece forza e si dedicò ai costi di spedizione, che erano confusi, registrati in modo bizzarro e molto probabilmente sbagliati, per non parlare del fatto che erano vergati nella illeggibile grafia di Fratello Pelagius. La confusione era sufficiente da fare sì che il responsabile venisse tenuto lontano da qualsiasi posizione di responsabilità per il resto della sua vita. Registrazione; birra - 2/3 Registrazione; sidro - 1/2 Registrazione; pesce affumicato - 12/3 Registrazione; tre anelli d'argento portatovagliolo, finemente - 7/3 cesellati con il disegno di un cerbiatto Registrazione; pulitura delle latrine - 1/3 Registrazione; doghe per botti - 2/1 Registrazione; (illeggibile) - 9/2 Dodici e tre quarti di pesce affumicato per una settimana; avrebbero voluto chiarimenti su quello, sicuro come l'oro, e pensare che a lui il pesce affumicato non piaceva neanche. E se i controllori non fossero insorti davanti alla spesa di sette e tre quarti per tre anelli da tovagliolo, lo avrebbe fatto lui. Era ora che venisse fatto capire ai suoi fratelli in scienza che l'appartenenza all'Ordine non doveva venire considerata come un'autorizzazione a scimmiottare le follie della nobiltà. Sarebbe stato diverso se si fosse trattato dei suoi anelli da tovagliolo, ma non era così. Fece un puntino a margine e si segnò un appunto di gridare con qualcuno non appena ne avesse trovato il tempo. Registrazione; libri
- 5/3
Questo sembrava abbastanza più sensato, sempre che non si trattasse di un errore di Pelagius che soprapensiero aveva scritto "libri" invece di "stivali". Cercò di ricordarsi che cosa portasse ai piedi il fratello approvvigionatore; aveva notato che più di uno dei fratelli se ne andava in giro per l'edificio con ai piedi le scarpe a punta e a colori vivaci che erano l'ultimissima moda. Se avessero avuto un minimo di buon senso avrebbero indossato sandali fino a che la verifica dei conti di quell'anno non fosse stata del tutto completata.
Continuò a scorrere la pagina seguendo con la mano destra la colonna dei numeri e sistemando i gettoni con la sinistra. Molti di quei calcoli elementari avrebbe potuto farli anche a mente, limitandosi a segnare i subtotali di ciascuna settimana sull'immaginario pallottoliere che gli serviva per il calcolo principale. Riusciva a ricordare a cosa corrispondessero alcune delle uscite, per esempio: Registrazione; lassativi
- 12/1
che commemorava il terribile avvelenamento del cibo verificatosi quando il cuoco aveva voluto fare un esperimento con quei diabolici e costosissimi funghi importati; le voci successive erano: Registrazione; lavaggio delle latrine Registrazione; sostituzione (nuovo cuoco)
- 1/3 - 1/
L'ultima poteva essere presa come la dimostrazione del fatto che Pelagius aveva senso dell'umorismo. Gannadius emise un piccolo gemito ripensando ai funghi e continuò a scorrere la pagina. Registrazione; punte di freccia
- 5/1
Punte di freccia? In nome del cielo, che cosa avrebbero dovuto farsene di punte di freccia per il valore di cinque pezzi d'oro? Corrugando la fronte gettò un'occhiata alla data della registrazione. La scorsa settimana. Già, certo. La cosa aveva senso. L'Accademia, come gran parte delle istituzioni della città, era responsabile del mantenimento e dell'equipaggiamento di una compagnia di guardie. Ecco quindi il perché delle punte di freccia. Non c'era problema, purché nessuno si aspettasse mai che lui si vestisse di maglia di ferro e si mettesse a passeggiare su e giù sulle mura, magari sotto la pioggia. Gannadius ebbe un brivido e si chiese cosa stesse succedendo nella casa capitolare, dove avrebbe dovuto trovarsi invece di essere lì a fare addizioni. Il giorno prima il prefetto aveva annunciato che il corpo di spedizione di Bardas Loredan sarebbe stato pronto in tre giorni e si era detto sicuro che un deciso attacco preventivo avrebbe messo fine alla faccenda. Il prefetto era sembrato fiducioso; ma d'altronde lo sembrava sempre. Loredan da parte sua era invece sembrato depresso, contrariato,
imbarazzato e impaurito. Essendo completamente ignorante in materia militare, Gannadius non sapeva come interpretare quella situazione; per quanto ne sapeva lui quello era esattamente l'atteggiamento che avrebbe dovuto avere un comandante responsabile nell'imminenza di una importante spedizione. Il buon senso diceva, argomentò Gannadius fra sé e sé, che se uno ardeva dal desiderio di guidare un esercito, probabilmente quello era il motivo per non affidargliene nessuno. Quello e altri pensieri simili occuparono la sua mente in maniera così efficace che arrivò in fondo al calcolo delle spese senza quasi accorgersene. Adesso tutto ciò che gli restava da fare era sottrarre il totale delle spese da quello delle entrate e ricavarne la cifra della disponibilità di cassa, dopo di che avrebbe potuto considerare il lavoro fatto e andarsene a letto. Raccolse i gettoni, ridisegnò le linee e segnò i nuovi numeri. Sarebbe stato immensamente gratificante se, per una volta nella sua vita, il maledetto calcolo fosse tornato fin dalla prima volta. Inutile dire che non fu così; per le successive due ore e mezzo Gannadius si dimenticò tutto a proposito del Patriarca, di Bardas Loredan e dell'esercito, delle orde di barbari e degli antisociali prodotti collaterali della filosofia, mentre cercava di mettere ordine nei due gruppi di cifre e di costringerli a dare un risultato sensato, come una madre che cercasse di obbligare due figli a riconciliarsi dopo un litigio. Mentre spegneva finalmente la lampada e si buttava sul letto, dedicò un ultimo pensiero al suo collega e compagno di scoperte, tristemente afflitto da malattia; poi un'ondata di stanchezza lo travolse, per cui sbadigliò e si abbandonò al sonno. Gli esploratori trovarono Temrai che stava supervisionando il carico per la prima consegna di parti di trabucchi. I trabucchi si erano rivelati molto più facili da costruire delle catapulte a torsione, ma le loro dimensioni e il peso stavano creando tutta una serie di problemi inediti a cui Temrai era troppo stanco e sfinito per riuscire a trovare un'immediata soluzione. «Adesso che succede?» disse, non appena un uomo si materializzò alle sue spalle proprio mentre stava per mettere qualcosa sotto i denti per la prima volta in ventiquattro ore. «Sentite, se per caso è una cosa nella quale potete arrangiarvi...» «Messaggio dalle squadre di esplorazione.» L'uomo si rivelò essere Hedasai, fino a poco prima comandante ex officio dei cacciatori di anatre. Adesso che nel raggio di una settimana a cavallo non era rimasta una sola
anatra acchiappabile, era stato riassegnato con compiti di sentinella. A Temrai venne in mente che Hedasai non avrebbe dovuto trovarsi lì. «Beh?» Hedasai fece un attimo di pausa prima di rispondere. «Pensiamo che dovreste venire a dare un'occhiata voi stesso. Potremmo avere un problema.» Temrai alzò lo sguardo, dimenticandosi del pezzo di anatra salata che stringeva fra le dita. «Che genere di problema?» domandò. «Altri curiosi che vengono dalla foce del fiume?» «Crediamo che sia qualcosa di più. Da quello che si vede potrebbe essere un esercito.» Che cosa ridicola da dire, pensò Temrai. O è un esercito o non lo è; non è il genere di cosa che si può confondere con un'altra. Poi pensò, Oh, dei. «Be', suppongo che farò meglio a venire a vedere io stesso» disse. «Jurai, Modenai, ho bisogno di voi. Potete andare a prendere il mio cavallo e il mio arco? Ci vediamo accanto alle seghe.» Nessuno aprì bocca mentre guadavano il fiume e s'inerpicavano lungo la strada tortuosa che saliva fra le colline. Dal punto più alto, dove avevano eretto una torre di segnalazione, era possibile convincersi di riuscire a scorgere la guglia più alta della terza città; era uno splendido punto di osservazione ed era esattamente questo che Temrai aveva avuto in mente quando lo aveva scelto per installarvi l'area di costruzione. «Be'?» disse, prendendo fiato. Avevano dovuto smontare e condurre i cavalli a mano per l'ultimo chilometro e mezzo e negli ultimi mesi aveva passato troppo tempo seduto o comunque fermo. Dov'è questo vostro esercito? Hedasai puntò un dito. A una considerevole distanza, certamente più di venti chilometri, qualcosa scintillò al sole. Temrai aguzzò la vista; quella era frutto della sua immaginazione o era una nube di polvere? «Jurai» disse «tu sei quello con lo sguardo più acuto. Che cosa ne dici?» «Niente di buono.» Jurai si schermò gli occhi mettendo le mani a coppa e si concentrò. «Direi che si tratta di un grosso gruppo di uomini; cavalleria, dalla polvere che sollevano e dalla loro velocità. Ammesso che sappiano dove siamo, potrebbe essere qui in tre ore o giù di lì.» «Dannazione.» Temrai aggrottò le sopracciglia. Con sua grande sorpresa non provava molta paura, anzi molto poca paragonata alla rabbia. Di tutte le cose di cui non aveva bisogno, una era di certo una battaglia in campo aperto contro un esercito di cavalleria pesante proprio di fronte all'area di
costruzione, dove aveva duecento catapulte smontate e cinquanta trabucchi che dovevano essere montati per la verifica prima di essere smantellati di nuovo... Come se non avesse avuto già abbastanza cose di cui preoccuparsi. «Oh, va bene, faremo meglio a prepararci ad accoglierli. Modenai, torna al campo e di' agli uomini di sellare i cavalli e tenersi pronti. Hedasai, prendi i tuoi esploratori e vai con lui; non voglio nessuno in giro che possa essere avvistato da loro; voglio che si convincano che siamo incoscienti e stupidi. Jurai, tu vieni con me.» Improvvisamente sogghignò. «Sai come si faccia a preparare una battaglia? Io no.» «Non sapevi neanche come si costruisse una catapulta, prima.» Scesero lungo la strada fino a portarsi al di sotto della linea dell'orizzonte e se ne stettero seduti in silenzio per un buon quarto d'ora, cercando di memorizzare istintivamente il paesaggio e considerando le implicazioni di ciò che vedevano. Poi il volto di Temrai si distese in un sorriso. «È perfetto» disse. «Jurai, possiamo farcela se stiamo calmi e non ci sforziamo di mostrarci troppo furbi.» Jurai annuì. «So quello che farei se fossi il loro capo. Tu che cos'hai in mente?» «Be'.» Temrai cercò di raccogliere i suoi pensieri; se si fosse spiegato con qualcun altro, sarebbe servito a chiarire le cose nella sua mente e c'era sempre la possibilità che gli fosse sfuggito qualcosa di ovvio, che Jurai invece aveva notato. «È laggiù, con poco più che aperta campagna fra noi e lui, a parte queste colline. Ora, il nostro campo è sull'altra sponda del fiume, nella parte pianeggiante fra il fiume stesso e quella zona di altopiano; il che significa che per arrivare a noi deve attraversare il fiume e ci sono solo tre punti in cui può farlo.» S'interruppe e si massaggiò il mento. «C'è il guado principale, direttamente sotto di noi, dalla parte opposta rispetto alle propaggini orientali delle alture, con il molo e tutte le nostre seghe proprio accanto a esso. Poi c'è il punto in cui il fiume crea un'ansa, con quei due piccoli boschetti e infine quell'ultimo punto dove si può un po' avventurosamente guadare il fiume, che però è a quasi tre chilometri dal campo. Quello che penso che farà sarà di risalire senza dare nell'occhio il versante opposto di quest'altura, sperando di non venire avvistato prima di avere raggiunto il guado vero e proprio. Sei d'accordo?» Jurai annuì. «Bada bene» disse «se fossi lui e volessi fare le cose per bene, tenterei di usare in qualche modo il guado più a monte. Sarebbe un autentico crimine non cercare di giovarsi di tutta quella copertura naturale.»
Temrai rifletté sulla cosa per un minuto, cercando di mettersi nei panni dell'altro, chiunque esso fosse. «Penso che tu abbia ragione» disse «il che rende le cose ancora più facili per noi. Se decidesse di dividere in due il suo esercito nel momento in cui raggiungerà la punta orientale di quell'altura? Potrebbe mandare la parte migliore delle sue forze verso il guado più a monte affinché avanzi tenendosi al coperto dei due boschetti e della punta dell'altura, verso il lato del campo che si affaccia sul fiume... Vorrebbe dire che è convinto che ci sia più di una probabilità di riuscire a mettersi in posizione laggiù senza essere visto, dato che non ci aspetteremmo mai un attacco dal nostro lato del fiume. Poi, manderebbe avanti il resto dell'esercito attraverso il guado principale; noi secondo lui dovremmo caricare per bloccarlo lì e a quel punto la sua forza principale potrebbe saltare fuori da dietro l'altura sul nostro versante del fiume e prenderci alle spalle. Prima ancora di rendercene conto saremmo circondati e potremmo scappare solo tornando sui nostri passi e seguendo il fiume verso valle, mentre lui potrebbe prendere il controllo del campo e distruggere le macchine a suo piacere. Un buon piano.» Jurai annuì. «A patto che conti sul fatto che non lo abbiamo visto avvicinarsi» disse. «Comunque lo sapremo ben presto dalla direzione che prenderà. Non può guadare il fiume a valle del campo per quasi venti chilometri a quanto ne so.» «Questo mi giunge nuovo» annuì Temrai. «Ma nel caso in cui decidesse di fare così, questo gli forzerebbe la mano ancora di più. Dunque, ecco quello che faremo. Tu prendi, diciamo, due terzi degli uomini e li dividi in due gruppi, schierandone uno dietro ciascuno dei due boschetti. Gli tendi un'imboscata, attaccandolo davanti e dietro in modo che non gli resti altro da fare se non ritirarsi verso est, il che impedirà praticamente alla parte scelta delle sue forze di prendere parte al combattimento.» Temrai si alzò sulle staffe, fissando il terreno al di là dell'ansa del fiume e cercando di immaginarselo brulicante di uomini urlanti e di cavalli in preda al panico. «Vedrà questo e si farà convincere che tutti i nostri uomini siano da quella parte del pianoro e che il campo sia sguarnito. Si lancerà allora all'attacco del nostro campo il che, dal suo punto di vista, sarà un grosso sbaglio, perché invece io sarò alla testa di un terzo gruppo, dall'altra parte del fiume e proprio in mezzo al campo, pronto ad affrontarlo e la mia forza principale sarà su questo versante, appena un po' più a valle di dove ci troviamo adesso, pronta a balzare fuori e a tagliarlo fuori sorprendendolo alle spalle. Se fossimo veramente fortunati potremmo perfino riuscire a sorprenderlo
mentre sta attraversando il guado e schiacciarlo nel fiume attaccandolo da due lati.» Temrai si interruppe e fissò Jurai con gli occhi spalancati. «Dei, Jurai, che cosa succederà se le cose non dovessero andare così? Avremmo la nostra gente divisa in quattro diversi gruppi. La cosa non mi piace.» Jurai scrollò la testa. «Meglio che essere tutti ammassati nel campo» ripose. «E il tuo contingente ha a disposizione una porta secondaria se le cose dovessero andare storte; potresti semplicemente scappare lungo il fiume verso valle e sperare di essere più veloce di lui. Se mi trovassi nella sua posizione non credo che correrei il rischio di inseguire qualcuno a lungo. Lo stesso vale per il mio gruppo» aggiunse. «Possiamo sempre dividerci e correre verso est, poi tornare sui nostri passi dall'altra parte dell'altura e unirci a te più a valle.» Si morse il labbro inferiore e disse: «Sembra tutto un po' troppo perfetto, vero? O forse siamo solo dei tattici brillanti senza averlo mai saputo.» Temrai tornò a sedersi sulla sella, con gli occhi fissi su quella che ormai era decisamente una nuvola di polvere, lontano nella pianura. «Tu hai preso parte a delle battaglie» disse. «Com'è?» «Una gran confusione» rispose Jurai. «Per la maggior parte del tempo si ha paura, soprattutto perché non si capisce che cosa stia succedendo. Di solito, questo almeno vale per tutte le battaglie a cui ho partecipato, si comincia con una lunga e noiosa attesa, che è la fase in cui si diventa nervosi e si finisce per convincersi che qualcuno ci ucciderà e che ci farà male, e a dirsi che sarà impossibile mantenere i nervi saldi, a convincersi che ci si darà alla fuga non appena apparirà il nemico, facendosi disprezzare da tutti per questo. Be', insomma, sei praticamente in grado di ucciderti, risparmiando la fatica agli avversari, quando comincia l'azione. E per quella che è la mia esperienza, da quel momento in avanti non hai più né il tempo né la forza di avere paura; o sei in prima linea e cerchi disperatamente di sentire gli ordini in mezzo alle urla e di non perdere contatto con gli altri facendo nello stesso tempo quello che si suppone che tu debba fare, oppure sei tu che comandi e sei così impegnato a cercare di farti sentire, di tenere uniti i tuoi uomini facendogli fare nel contempo le manovre necessarie, che probabilmente non ti accorgeresti neanche se fossi colpito da abbastanza frecce da sembrare un porcospino. Poi c'è il combattimento vero e proprio; be', quello è un caos ancora peggiore. Puoi scordarti tutto il tuo addestramento con la spada e l'allenamento con l'arco e le frecce; scocchi dardi alla stessa velocità alla quale riesci a tendere la corda senza curarti di stare a mirare o, se lo fai, quello è proprio il
momento in cui la freccia ti scappa di mano o la corda si spezza, o il nemico cambia improvvisamente direzione e finisce in un attimo fuori portata. Quanto al corpo a corpo, sei lì che corri in avanti, di solito troppo velocemente per avere il minimo controllo di ciò che accade e, improvvisamente, c'è gente tutto intorno a te, dei tuoi e dei loro; se proprio vuoi, di solito puoi letteralmente attraversare un nugolo di gente che duella senza che nessuno cerchi di fermarti, perché anche gli altri sono spaventati e confusi quanto te e nessuno ha veramente voglia di battersi, se può evitarlo. Se decidi di combattere, non si tratterà di un duello regolare di cinque minuti. Dai dei colpi e ne ricevi e può darsi che uno dei due riesca ad andare a segno, nel qual caso o resti lì cadavere o passi a un altro avversario. D'altro canto se sei solo ferito puoi anche non accorgertene. Se ti fanno fuori, quasi certamente avviene per mano di qualcuno che non hai mai visto in vita tua. È uno sport maledettamente pericoloso, senza dubbio, ma non pensare che nulla in esso sia deliberato. Per il novantacinque per cento dipende dalla fortuna e per il restante cinque per cento dalla situazione generale. Ecco com'è una battaglia. Ti sono stato di qualche aiuto?» «No, sinceramente» rispose Temrai. «Mi ricorda molto di ciò che rammento di quando il campo fu attaccato al tempo in cui ero bambino, solo che allora non tentammo neanche di reagire. La cosa folle» disse in tono desolato «è che sono stato io a dare inizio a tutto ciò. Devo essere impazzito.» «Come piace a Vostra Maestà» rispose Jurai compito. «Torniamo al campo.» Quando il nemico apparve improvvisamente dal nulla e investì violentemente il retro della colonna, intrappolandoli metà dentro e metà fuori dal fiume e gettando l'intero esercito in un totale stato di confusione, tutto ciò che Loredan provò fu un vago senso di sollievo; il peggio era già successo, era improbabile che ci fossero altre sorprese sgradevoli; tutto quello che voleva fare adesso era combattere per trarsi d'impaccio e per quel giorno la cosa sarebbe finita lì. Già mentre gli uomini alla sue spalle balzavano di sella in mezzo all'acqua, morendo prima ancora di avere messo piede a terra, capì che non sarebbe stato ucciso; non lì, non in quel modo. Era stata quella calma, quella sensazione di non essere coinvolto, se non come spettatore; probabilmente dipendeva dal fatto che si era aspettato qualcosa del genere sin da quando avevano lasciato la città. Ora le cose stavano
andando nel modo previsto da lui e se non altro era perfettamente consapevole della sua situazione. Tutto cominciava ad avere un minimo di senso. Proprio come gli aveva sempre detto il vecchio: il nemico che puoi vedere è l'ultimo dei tuoi problemi. Il più grande e insolubile dei suoi problemi, vale a dire i suoi cinque cosiddetti co-comandanti, era stato risolto per lui. Due di loro sapeva per certo che erano già morti. Quanto agli altri tre, be', anche se erano ancora vivi non avrebbero potuto fare molto danno. Tirò con forza le redini verso sinistra, sollevò la spada e scelse uno dei nemici su cui sfogare la propria rabbia. Ovviamente, era stata tutta colpa sua. Se non si fosse piegato e non avesse accettato di farsi mettere alla testa di quella sciagurata avventura, nella speranza di venire sostituito al più presto da qualcun altro, non si sarebbe visto imporre cinque teste di cavolo il giorno prima di quello previsto per la spedizione, ognuna di loro convinta a quanto pareva di essere il vero comandante in capo, mentre gli altri cinque colleghi erano elementi puramente decorativi. Sei generali, che gridavano a pieni polmoni. In qualunque circostanza sarebbe stata una pura follia. Sei generali per comandare cinquemila volontari non addestrati, equivaleva a non avere la minima possibilità. L'uomo delle pianure cavalcò dritto contro di lui, abbassando la lancia. Loredan fermò il cavallo, stette a guardarlo mentre si avvicinava, fece fare uno scarto all'ultimo minuto alla propria cavalcatura e recise la spina dorsale del suo avversario appena sopra le spalle con un colpo secco del braccio, mentre quello gli passava accanto al galoppo. Qualcosa lo colpì una quindicina di centimetri sopra il ginocchio sinistro; sembrava una spada o un'ascia e la sua forza si esaurì contro la pesante maglia di ferro e la spessa imbottitura sottostante. Dannato, sciocco dilettante; non vibrare mai un colpo se non sei sicuro del risultato; la regola è: o uccidi o lasci perdere. Aveva già calcolato l'esatta posizione dell'assalitore prima che quello avesse il tempo di girarsi; il cavaliere nemico lo aveva quasi oltrepassato e gli volgeva la schiena, ma non era abbastanza lontano da potersi salvare da un affondo a braccio teso che gli centrò l'ascella proprio nel punto in cui c'era un varco nell'armatura di cuoio indurito, perfetta perché la lama potesse penetrare fino a raggiungere il cuore. Fu lo stesso slancio dell'uomo, che nel frattempo era già morto, a staccarlo dalla spada; Loredan lo tenne d'occhio il tempo necessario per vederlo cadere in avanti, poi spronò il cavallo e si lanciò verso un varco nella mischia. Non avrebbe
concluso nulla standosene lì seduto ad ammazzare gente e aveva bisogno di riflettere. Non poteva vederci molto bene, a causa di tutta la gente che aveva davanti, ma sembrava abbastanza evidente che erano stati presi in mezzo, attaccati davanti e di dietro e che il fiume scorreva profondo su entrambi i lati. Questo significava che non restava altro da fare che aprirsi una strada o di fronte o all'indietro. Molto probabilmente il grosso della forza del nemico era alle loro spalle, visto che quella sarebbe stata la loro logica via di ritirata. Nel qual caso, ciò che doveva fare era andare avanti, cercare di sfondare in direzione del campo e forse sbilanciarli andando a mettersi fra il campo e l'altura. Se solo fosse riuscito a tenere i suoi in movimento ci sarebbe perfino stata una speranza di essere più veloci della forza che avevano alle spalle e di arrivare addosso al gruppo nemico che aveva teso l'imboscata alle truppe schierate sulle ali, gettandolo nel panico; questo gli avrebbe permesso di radunare a monte del fiume ciò che restava della sua gente, e di uscire di lì con una parvenza di ordine. Una cosa per volta. Fece girare il cavallo e si aprì la strada in mezzo alla massa di uomini terrorizzati che costituivano il centro della sua colonna. Sarebbe stato difficile trovare una concentrazione di uomini più inutili, ma un numero sufficiente lo seguì e gli diede un minimo di impeto, quel tanto che occorreva perché ci fosse almeno una speranza di invertire il flusso della mischia, dirigendolo verso la sponda orientale del guado. Fortunatamente lo slancio del nemico stava diminuendo; cominciava a pensare di avere fatto abbastanza e che si trattasse solo di completare il lavoro. Uccise sette uomini e ne mutilò altri quattro prima di riuscire effettivamente a raggiungere la sponda davanti a sé. Il braccio destro gli faceva così male che faticava a respirare e gli sembrava che la testa gli si aprisse in due dopo avere ricevuto un colpo con qualcosa che non aveva identificato, su un lato dell'elmo. Il gruppo di uomini che lo stava seguendo si aprì un varco fra le linee nemiche... Più che di linee si trattava di una massa disordinata, fitta solo per effetto del numero, e che certamente non aveva più tanta voglia di combattere dopo essersi convinta di avere già vinto. Una volta vinto, perché correre il rischio di farsi uccidere? Pensavano anch'essi come dei dilettanti. Alla fine qualcosa di simile all'istinto di sopravvivenza spinse la sua colonna a superare il varco. Il nemico li lasciò passare, troppo preso dal proprio improvviso e inatteso panico per dare il via a ulteriori ostilità. Adesso voleva essere lasciato in pace e Loredan fu ben felice di acconten-
tarlo. Quando si guardò alle spalle e vide il fiume di cavalieri provati che stava emergendo dallo scontro al guado, notò con piacevole sorpresa che era riuscito a portare fuori dalla trappola quattro quinti dei suoi uomini. Gli altri poteva darli per morti; andassero al diavolo. Siamo ancora in affari, si congratulò con se stesso. Ora, diamoci da fare. Le sue supposizioni si rivelarono corrette. L'ultima cosa che il nemico si aspettava che facesse era attaccare, e quindi quando egli caricò fra l'estremità dell'altura e il più a sud dei due boschetti, si trovò davanti la strada spianata, dritto fino alla retroguardia dell'allegra congrega di tagliagole che stava circondando ciò che restava delle sue truppe. Una volta realizzato ciò che stava accadendo, i barbari se la filarono senza neanche fingere di tentare una resistenza, puntando verso monte per cercare di tagliarlo fuori dal guado più in alto, verso il quale erano convinti che volesse dirigersi per attraversarlo. Era una supposizione ragionevole per un pugno di dilettanti, ma sbagliata. Ciò di cui aveva più bisogno a quel punto dello scontro era tempo, spazio, pace e tranquillità; così facendo gliene avrebbero garantito un po', e in cambio avrebbe salvato la pelle. Non appena fu sicuro di avere radunato intorno a se tutti i suoi cavalieri ancora vivi, fece cenno di svoltare verso destra e guidò la colonna verso est alla massima velocità possibile. CAPITOLO UNDICESIMO Una volta realizzato di essere ancora vivo, Temrai aprì gli occhi e gridò. Dopo un minuto circa gli tolsero di dosso il corpo del cavallo morto e lo sollevarono dall'acqua. Si rese conto di essere scosso dai brividi come un uomo in preda alla febbre, ma non poteva farci niente. «Che cosa è successo?» ansimò. «Pensavo che avessimo vinto.» «È così» rispose l'uomo che lo stava sostenendo per il braccio destro. «Si sono allontanati dal campo e se la stanno dando a gambe. State bene?» Temrai annuì. «Che cosa è successo?» ripeté. «Ogni cosa è andata come volevamo e poi l'attimo dopo ci venivano addosso da tutte le parti.» Ebbe un fremito ricordando l'improvviso terrore che lo aveva paralizzato quando l'altro uomo, quello che aveva dato inizio a tutto, era sbucato attraverso un solido muro di guerrieri della sua guardia e aveva puntato dritto su di lui con un'espressione così calma, così serena che per un attimo lo aveva scambiato per la Morte stessa.
Ricordava come fosse mancato completamente il tempo di reagire... L'uomo era già addosso a lui e il suo braccio aveva già vibrato il colpo prima che Temrai avesse avuto il tempo di decidere cosa fare, eppure tutto era successo così lentamente che aveva avuto il tempo di pensare a un mucchio di cose prima che la punta della spada dell'altro passasse da parte a parte il collo del suo cavallo e lui si sentisse cadere un po' alla volta verso l'acqua trascinato dal peso della bestia. Ricordava la straordinaria sensazione di calma e rassegnazione (oh, be', è così che va il mondo) subito dopo, mentre aspettava di andare a sbattere contro il greto sassoso del guado, già pronto a sentire gli zoccolo del nemico all'assalto che gli sfondavano il petto e il viso... E invece eccolo lì, vivo e senza ferite a quanto pareva, senza ossa rotte né sangue addosso che potesse dire suo. Proprio come aveva detto Jurai: un grande caos... «Dov'è Jurai?» chiese, sapendo già la risposta. «Non ce l'ha fatta» rispose l'uomo. «Lo stesso nemico che ha travolto voi lo ha ucciso. Credo che stesse cercando di salvare voi...» Un bel concetto, disse Temrai a se stesso, ma io ero lì, ricordi? Molto semplicemente, non è neanche riuscito a capire cosa l'abbia colpito, proprio come me. Sicché Jurai è morto. Be', dovrò pensare a questo problema più tardi. Dannazione, la battaglia non è neanche ancora finita, dovrei stare facendo qualcosa... «Sono ben lontani dal campo?» chiese. L'uomo annuì. «Per quanto riesco a vedere. Si sono precipitati verso il guado più a monte; forse riusciremo a raggiungerli là, non so. Volete stare qui a chiacchierare in mezzo al fiume o preferite che ci muoviamo?» Temrai acconsentì a lasciarsi trascinare fino alla sponda. Dovettero scavalcare corpi... Alcuni morti, molti di più ancora vivi, ma probabilmente che non era più possibile salvare. Quella era una cosa pessima; tutti quegli uomini, nel momento più disperato della loro vita che tendevano le mani verso di loro implorando aiuto perché erano troppo deboli per gridare e non riuscivano più a tirare fuori la voce, e loro che li scavalcavano come se si fosse trattato di cacca di cavallo in mezzo alla strada. «Mandate un messaggio, dite di interrompere l'inseguimento.» La voce di Temrai era aspra, come se stesse accusando qualcuno. «Voglio che tutti facciano ritorno al campo e poi ci daremo da fare per mettere un po' di ordine in questo scempio.» L'uomo che lo aveva disarcionato... Non aveva già visto prima la sua faccia? Possibile; dopotutto solo sei mesi prima stava lavorando nell'arse-
nale della Città; forse alcune delle lame che adesso giacevano abbandonate sull'erba le aveva fabbricate lui stesso, magari proprio quella che aveva ucciso Jurai e per poco non aveva chiuso il conto anche a lui. Sarebbe stata una buffa coincidenza; ma quel periodo gli sembrava così lontano nel tempo e nello spazio da avere assunto fattezze oniriche e lui era diverso da allora quanto la crisalide lo è dalla farfalla. Al diavolo tutte quelle considerazioni. In quel momento c'era del lavoro da fare. Qualcuno gli portò un nuovo cavallo... Oh, all'inferno, Tuono è morto, mio povero e vecchio amico e io non ci ho neanche pensato fino a questo momento; quando ero un bambino passavo la notte a piangere per la perdita di un cavallo... E lui si issò in sella, improvvisamente consapevole di lividi, muscoli doloranti, abrasioni, tagli, tutto nel punto in cui aveva picchiato sul greto sassoso del guado. Mentre si guardava intorno registrò inconsciamente i volti: ogni faccia riconosciuta era un altro pezzo che si era salvato dal caos, una lama in meno sulla sua coscienza nel momento in cui sarebbe stato costretto a fare un bilancio di quello che aveva deliberatamente messo in moto. Ma non c'era tempo per quel genere di cose in quel momento; c'era troppo da organizzare e un mucchio di questioni da risolvere prima che potesse dire che la giornata era conclusa. «Kossanai.» Il capo ingegnere era un triste spettacolo; inzuppato fino alle ossa, aveva una delle bretelle di sostegno del pettorale della sua corazza di cuoio indurito che penzolava strappata e, sotto, una ferita sanguinante. Ma era un uomo affidabile e si reggeva tuttora sui suoi piedi; poteva fare un po' del suo lavoro, tanto per cambiare. «Vai fino al guado più a monte, assicurati che stiamo ripiegando e che nessuno si sia messo all'inseguimento. Di' a chiunque sia al comando lassù che ho bisogno di quegli uomini qui subito.» Kossanai annuì e montò faticosamente in sella. «Stilchai, incaricati di raccogliere i feriti. Trova Nimren, dille di organizzare un ospedale. E incarica qualcuno di occuparsi dei prigionieri. Prima li raduniamo e meglio è, giusto in caso che ce ne sia qualcuno che non ha ancora capito che la battaglia è finita. Maltai, manda fuori qualche esploratore e cerchiamo di stabilire con certezza dove si trova ognuno, invece di tirare a indovinare.» Ci volle un po' di tempo perché gli esploratori ritornassero. Il nemico se n'era andato da un pezzo; aveva svoltato oltre l'estremità dell'altura ed era sparito verso valle, probabilmente diretto al guado che si trovava più giù. Nessuno aveva mostrato la minima inclinazione a inseguirlo. Pian piano cominciò ad affluire il conto delle perdite; per il nemico
novecento morti e altri trecentocinquanta uomini catturati, di cui circa la metà con ferite di varia gravità. Il clan aveva perduto solo centosette uomini e subito una settantina di feriti, di cui venti erano gravi. Comunque la si guardasse, era stata una gloriosa vittoria; e anche se avrebbe potuto essere ancora più gloriosa dal punto di vista delle reciproche perdite, nessuno sembrava avere troppa voglia di stare a rimuginarci. Al contrario; per la prima volta a memoria d'uomo il clan aveva battuto i dannati cavalieri della Città e li aveva volti in fuga in maniera inequivoca. Uomini e donne che erano stati cresciuti dalle loro madri con la minaccia di Maxen e dei suoi scorridori se non avessero ubbidito, avevano visto gli uomini neri della loro infanzia inchiodati e circondati, presi in trappola e pronti per essere macellati. Il fatto che in qualche modo il grosso fosse riuscito a filarsela prima che gli venisse effettivamente tagliata la gola, era qualcosa che il clan poteva permettersi di tralasciare; e inoltre quanti più sopravvissuti tornavano a casa a raccontare quella sconfitta, tanto maggiori sarebbero stati il panico e la confusione dei loro nemici. Un totale massacro sarebbe servito solo a rinforzare la loro determinazione e a rendere più arduo il lavoro che restava da fare. Quanto a Temrai, beh, avevano sempre saputo che aveva la stoffa del capo, no? Era bello sapere che avevano sempre avuto ragione, anche se la cosa non li sorprendeva. (Naturalmente c'era anche la nota discordante rappresentata dalle famiglie e dagli amici dei centosette morti e l'atteggiamento piuttosto ingrato dei feriti gravi, che avrebbero preferito riavere indietro le loro braccia e gambe piuttosto che essere avvolti dalla gratitudine riconoscente di un'intera nazione; Temrai si domandò se avesse già il tempo di occuparsi di questo aspetto della faccenda, ma decise che avrebbe dovuto aspettare fino al completamento delle sepolture e dopo che ci si fosse preso cura dei cavalli.) L'ultimo compito della giornata fu il completamento dello smontaggio degli ultimi sette trabucchi, in modo da non trovarsi troppo in ritardo rispetto al ruolino di marcia. Si presentò un mucchio di volontari ansiosi, che principalmente si misero fra i piedi degli ingegneri e resero il lavoro lungo il doppio di quanto sarebbe stato necessario. Una volta liberatisi di quel problema, tutti furono liberi di fare ritorno alle proprie tende e ai propri fuochi; a eccezione di Temrai e dei suoi luogotenenti, che dovettero dedicarsi al lungo e noioso compito di fare il bilancio della giornata e, soprattutto, di decidere come comportarsi in futuro. «Potrebbero ritentare» disse suo zio Anakai «ma ne dubito. Non imme-
diatamente, comunque. Saranno troppo presi a decidere di chi è la colpa, se conosco la gente della Città.» Parlava lentamente a causa della compressa di cotone pressato che si teneva contro una guancia; una freccia gli aveva aperto la gota per sette centimetri proprio all'altezza della bocca. Quasi certamente si era trattato di una freccia amica, dato che il nemico aveva scoccato ben pochi dardi. «Diamo pure per scontato che non tornino» confermò Ceuscai. «Dopo tutto ho avuto modo di osservarli bene. Non si sono neanche resi conto di quello che è successo.» Scrollò la testa, come se non riuscisse a credere a ciò che aveva visto. «Questo non poteva essere il loro vero esercito» continuò. «Per quanto ne sappiamo, potrebbe essersi trattato di una iniziativa privata; sapete quelle cose del tipo, Se l'Imperatore non muove un dito, ci penseremo noi. Non posso credere che il vero esercito della Città possa essere battuto con la stessa facilità con cui abbiamo sbaragliato questo.» Ceuscai non aveva subito particolari danni; aveva un ginocchio che gli faceva un po' male a causa di una brutta caduta da cavallo (era alla testa del gruppo che aveva teso l'imboscata al guado più a monte; l'incidente si era verificato quando si era trovato in mezzo alla massa dei suoi stessi uomini che si spingevano in avanti per massacrare il nemico circondato). Temrai fece un grugnito per dire che era d'accordo e annuì appena. «Penso che tu possa avere ragione sul primo punto» disse «non sono altrettanto sicuro per quello che riguarda il secondo. Che questo fosse o no il loro vero esercito, penso che dobbiamo aspettarci qualche tipo di tentativo di distruggere le macchine quando sbarcheremo i pezzi al campo finale, giù a valle. Almeno, è quello che farei io; colpirei duro e vicino a casa. Tuttavia, non possiamo darlo per certo. Da adesso in avanti dovremo basarci sul principio che possano piombarci addosso in qualunque momento, il che significa che dovremo sottrarre uomini alla fabbricazione e alla movimentazione delle macchine, per affidargli compiti di guardia. Questo ci farà rallentare... Non ci renderà anche ancora più vulnerabili?» «Non ti aspetti una spedizione punitiva?» lo interruppe Shandren. «Pensaci. Sono appena stati sonoramente battuti sul campo, quasi per la prima volta in vita loro. Non è probabile che vogliano pareggiare la partita, se non altro per la propria autostima? Dovranno pur fare qualcosa per risollevare il morale.» Anakai scosse la testa. «Molto più probabile che si sfoghino sulla loro stessa gente» disse. «Punire il Generale funzionerebbe, così loro potrebbe-
ro sentirsi di nuovo a posto e nello stesso tempo non dovrebbero correre il rischio di subire una seconda sconfitta. No, penso che se intendono intercettare le macchine è molto più probabile che tentino di farlo mentre viaggiano sull'acqua. Ci sono svariati punti in cui il fiume è piuttosto largo fra qui e il campo finale e sanno benissimo che abbiamo poca dimestichezza con le barche. Se inviano un po' di chiatte piene di soldati possono affondare le zattere o rimorchiarle con sé senza neanche arrivare a tiro di freccia. Se li inseguissimo lungo la riva, finiremmo o per cadere in un'imboscata o per lasciare l'area di costruzione sguarnita e vulnerabile a un attacco mordi-e-fuggi. A pensarci bene, sarebbe stata questa la cosa logica da fare invece dell'attacco che hanno lanciato; una ulteriore prova della tua teoria, Ceuscai, sul fatto che non si trattasse dell'esercito regolare.» «Io non credo che esista un esercito regolare» buttò là Temrai. «Ve l'ho già detto e nessuno mi ha dato retta.» Spostò il peso dal lato del corpo che gli faceva male prima di proseguire. «C'è un piccolo numero di guardie permanenti che vigila sulle mura e un altro gruppo di uomini a tempo parziale che in teoria dovrebbero essere addestrati e che invece non lo sono affatto. Quasi tutti considerano l'indennizzo che dovrebbe compensare il loro addestramento come una elemosina di stato per i bisognosi e i poveri, e gli altri come una specie di iscrizione a un club di bevitori. Oh, non voglio dire che non faranno del loro meglio quando le mura saranno effettivamente sotto attacco, solo che non li vedo proprio impiegati come un esercito da campo al di fuori della città. Sarebbe una pazzia e lo sanno benissimo.» «Può essere» ammise Ceuscai. «Ma anche questo attacco lo è stato.» Il bagliore del fuoco illuminava il cerchio di facce; dodici persone che si conoscevano bene e che stavano parlando con calma e razionalità di qualcosa che avrebbe potuto rivelarsi benissimo la fine del loro mondo. C'erano anche posti in cui avrebbe dovuto esserci qualcuno seduto, e che invece erano vuoti; quello di Jurai quale capo degli arcieri a cavallo e quelli di Pegtai e Sorutai come membri della casata del capo... Ho rotto il flauto di Sorutai quando eravamo bambini, e adesso non sarò mai in grado di farmi perdonare; andava matto per quel flauto e io glielo ruppi perché ero geloso. Come mi è venuto in mente di fare una cosa del genere?... Ma i vuoti potevano essere riempiti con persone altrettanto in gamba, faceva anzi parte dell'elenco delle cose che dovevano affrontare nella riunione di quella sera, insieme ai ringraziamenti formali agli dei per avere fatto in
modo che le loro perdite fossero così lievi. Sasurai aveva mai dovuto comportarsi in quel modo, si domandò Temrai. Aveva dovuto tirare avanti come se niente fosse successo, accettando una perdita perché tanto non c'era niente da fare e le cose comunque avrebbero potuto andare molto peggio? E che cosa stavano facendo i suoi amici in città, a mano a mano che arrivavano le prime notizie? Ci sarebbero stati novecento letti vuoti quella notte; sarebbero riusciti a rimpiazzarli senza il rassicurante conforto della vittoria a fare dire a tutti gli altri che comunque ne era valsa la pena? Morire per la propria gente è già comunque una cosa abbastanza brutta; morire per la propria gente e in più perdere, doveva essere orribile. «Vogliamo riassumere le cose?» disse Temrai, mascherando uno sbadiglio. «Non pensiamo che ci attacchino di nuovo, almeno per un po', ma è comunque prudente tenere a disposizione una forza mobile, giusto in caso. Non sono sicuro che sia la risposta giusta; una forza troppo piccola per fare una qualsiasi differenza è peggio di nessuna forza perché serve solo a sottrarre uomini al lavoro che stanno facendo. Il mio punto di vista è che non rischieranno un'altra umiliazione attaccandoci qui, ma che potrebbero tentare qualcosa contro il campo a valle, per il semplice fatto che è più vicino, molto probabilmente difeso da un gruppo più ristretto e, inutile negarcelo, è il luogo in cui si trovano o si troveranno presto tutte le macchine completate. Quindi ho deciso che terremo una forza piuttosto consistente giù al campo base, che ci servirà sia di guardia che come avamposto capace di dare un allarme tempestivo nel caso in cui un esercito di qualche consistenza si diriga da questa parte. Ceuscai, vorrei che tu considerassi la questione stanotte e domani mattina mi facessi sapere quanti uomini e quante provviste vuoi; quando saprò quello che intendi portare a valle con te, sarò in grado di riassegnare gli uomini che restano per coprire i posti mancanti.» Sbadigliò di nuovo e si stirò, lasciandosi sfuggire un gemito quando i suoi muscoli doloranti protestarono. «Penso che questo sistemi la faccenda, siete d'accordo? Bene, adesso dobbiamo colmare i posti vacanti di questo consiglio. Chi sono i vostri candidati?» In qualsiasi altra circostanza ci sarebbe stato un certo dibattito, un po' di politica, sarebbero stati scambiati favori e pagati debiti di riconoscenza; ma era troppo tardi in una giornata troppo sfinente perché qualcuno avesse la pazienza e la voglia di fare giochetti. Di conseguenza i candidati risultarono sensati e il dibattito, grazie agli dei, fu breve; nonostante ciò quando Temrai comunicò le sue decisioni, allo zio Anakai cominciava già a ciondolare la testa sul petto: la compressa di cotone intrisa di sangue gli
cadde di mano e finì sulla stuoia, rivelando la ferita in tutta la sua gravità e mostrando la primitiva sutura dei muscoli recisi, che era stata fatta in gran fretta usando del vecchio tendine masticato. Anche questo è colpa mia, rifletté Temrai; tutti i tendini che normalmente sarebbero stati usati dai chirurghi, erano stati requisiti dagli addetti alla fabbricazione degli archi per ricavarne corde e impugnature, sicché gli uomini di medicina erano stati costretti a srotolare vecchio tendine da mobili e attrezzi e a masticarlo per renderlo un po' più morbido, abbastanza da poterci cucire le ferite. Ecco una ulteriore cosa con cui dovremo fare i conti; non possiamo affrontare un'altra battaglia senza niente con cui affrontare i danni. Rifletté per un attimo sulla parola danni: un bel termine tecnico, adatto all'uso militare. Così non era necessario parlare di gente con il ventre squarciato e che ruscellava sangue, di persone senza braccia e senza gambe, con buchi sul corpo o a cui restavano cicatrici che spaventavano perfino i loro figli; dicevi danni e, dopo un po', cominciavi a parlare di perdite accettabili e di forze spendibili, e assai presto diventava tutto un gioco di scacchi, osservato dalla sommità di una collina; un gioco che faceva parte di tutta una serie di partite, di un vero e proprio torneo. Dopo di che cominciavi a chiederti perché i tuoi amici non usassero più con te il tono di sempre e iniziavi a preoccuparti di cospirazioni e tradimenti; e alla fine c'erano delle buone probabilità che tu dovessi preoccuparti davvero di cospirazioni e tradimenti. E pensare che c'era gente che voleva fare lavori del genere. Peggio ancora: c'erano posti dove la gente che desiderava dedicarsi a quel tipo di mestiere ne aveva la possibilità. Il che spiega perché comincino le guerre o, perlomeno, che cosa le scateni. «Il successivo argomento all'ordine del giorno» sentì se stesso dire «è un formale atto di ringraziamento agli dei per avere mantenute le nostre perdite a un livello accettabile. Zio, se tu volessi farci l'onore.» Loredan non era arrabbiato. Anzi, era grato per la pace e la quiete, felice di essere per conto suo. Si stirò, mise le mani dietro la nuca, tese le gambe e accavallò le caviglie. Il giaciglio di pietra era freddo, ma non in maniera insopportabile. Potrebbe finire per piacermi questo posto, disse a se stesso. Se avesse pensato che quella situazione era ingiusta, che non si meritava di essere lì, sarebbe stata tutta un'altra faccenda. Ma stando le cose come stavano... Come l'aveva chiamata il prefetto?... Colpevole negligenza,
mancata osservanza del dovere, grossolano errore di giudizio... Non si sentiva di obiettare proprio niente. Un migliaio di uomini morti o in mano al nemico solo perché lui era stato troppo impegnato a rimuginare il suo malumore per accorgersi che si stavano infilando in una trappola. Colpevole negligenza era un vero e proprio eufemismo; la situazione non avrebbe potuto essere più ovvia neanche se avessero inciso per terra a caratteri cubitali la parola TRAPPOLA. Se Maxen fosse vivo mi avrebbe strappato le budella con le sue mani, per quello che ho fatto. Già, ma Maxen era morto. Il che spiegava tutto. Sarebbe stata disposta un'inchiesta immediata, aveva detto il prefetto. Loredan sperava che non fosse troppo immediata. Un paio di settimane lì, immerso nella calma e nella penombra gli avrebbero fatto un mondo di bene; era meglio che si lasciasse alle spalle tutti gli orrori prima del momento in cui avrebbe dovuto venire allo scoperto e spiegarsi al popolo. Per il momento un giaciglio di pietra in una cella sotto la sala del consiglio era infinitamente preferibile al trovarsi nella casa capitolare con tutti che gli gridavano contro; poteva facilmente immaginare il panico che vi regnava, l'isteria che attanagliava la città, la plebaglia che invocava la testa di qualcuno, e i tumulti giù al porto mentre la gente si picchiava per un passaggio su una delle navi in partenza: uno splendido pretesto per un'altra notte di saccheggi e vandalismi e per buttare giù la porta del vicino antipatico. Quanto a ciò che sarebbe accaduto in seguito, non riusciva a raccogliere abbastanza energia da preoccuparsene. Forse sarebbe stato fatto uccidere, lì nella sua cella, o in un posto di guardia lontano da sguardi indiscreti, sulle mura. Era un tipo di morte che poteva accettare; per qualche motivo non era così deprimente come lo era stata l'idea di morire in un tribunale quando aveva dovuto considerare la prospettiva di affrontare Alvise per la maggior gloria del cartello del carbone. Quello sì che avrebbe avuto veramente poco senso: il suo ultimo pensiero sarebbe stato Dei, che cosa stupida. Ma in quel modo? Be', in quel contesto era una cosa abbastanza giusta. Era in debito di una morte con il popolo delle pianure. In questo modo era riuscito a riportare a casa quattro quinti dell'esercito e nonostante ciò avrebbe pagato il suo debito con il nemico. Qualcuno passò davanti alla sua porta nel corridoio esterno; rumore di stivali pesanti e un tintinnio metallico; chiavi probabilmente. C'erano altri prigionieri lì sotto oppure lui era l'unico? Altri nemici dello stato, lontani
dalla vista e dalla mente? Si chiese che cosa potessero avere commesso. Per finire in quelle celle era necessario essere dei delinquenti piuttosto al di sopra della media; la semplice pirateria, lo stupro o l'omicidio non erano abbastanza per garantirti alloggio e cibo gratis in quella città. Era bizzarro che non ci fosse alcun Imperatore, disse a se stesso, tuttora incapace di credere a ciò che aveva sentito. Il prefetto aveva trattato la cosa come un dato di fatto, come se stesse parlando dello gnomo dei denti o degli elfi del mal di testa, cose in cui si smetteva di credere dopo i sette anni. Secondo lui non c'era stato un Imperatore per l'intera durata della vita di Loredan... Ma quando eravamo bambini non raccoglievamo sempre i fiori per fare una ghirlanda da regalargli il giorno del suo compleanno? Che cosa se ne facevano di tutte quelle centinaia di ghirlande fiorite che venivano portate ogni anno, con una vera e propria cerimonia, al cancello della città alta? In qualche modo lo disturbava pensare che tutto quell'affetto era andato sprecato, come acqua rovesciata sulla sabbia. Quando Callelogus IV era morto senza eredi e la successione rischiava di diventare motivo di disputa fra tre distanti cugini, principi stranieri che non erano neanche in grado di parlare la lingua e i cui modi a tavola sarebbero già stati sufficienti a renderli totalmente inaccettabili per la città, il prefetto e gli altri anziani si resero conto che se il popolo non fosse stato informato del fatto che l'Imperatore era morto, nessuno lo sarebbe venuto a sapere e ciò che non sapevano non poteva fare loro alcun danno. Da allora la città alta era stata vuota, eccezion fatta per alcune persone che ne avevano cura e alcuni funzionari che avevano là i loro uffici; Callelogus aveva vissuto fino a novantasei anni e alla sua morte il diadema era passato a un nipote totalmente inventato, figlio di una sorella immaginaria che, teoricamente, si era sposata con uno sconosciuto principe in una terra lontana abbastanza tempo addietro da giustificare il fatto che nessuno se ne ricordasse. Nel frattempo il governo della città era rimasto saldamente nelle mani della gente la cui attività governa per davvero su tutte le città, in modo quieto e discreto: segretari di stato, funzionari, uomini della seconda città che sapevano come si riparavano le strade e che erano in grado di concludere accordi commerciali. Più Loredan ci pensava, più gli sembrava un ottimo sistema di governo. Dopotutto, avevano fatto un buon lavoro. Fino a quel momento, perlomeno. Dei, pensò Loredan, cosa succederebbe se la città dovesse cadere? Era impensabile; dopotutto le mura erano ancora in piedi e nessuno sarebbe mai riuscito a superarle. Ma aveva visto macchine da assedio nel
campo del clan, catapulte, trabucchi, sezioni di opere da assedio, coperture mobili per chi doveva manovrare arieti, pezzi di torri da assedio e non poteva fare a meno di pensare che se dei selvaggi nomadi che vivevano sotto delle tende erano riusciti a costruire cose del genere, dietro dovevano esserci una volontà e una determinazione che non si sarebbero lasciate scoraggiare dalla reputazione di inespugnabilità della Città. Quel pensiero disturbava Loredan assai più della prospettiva di morire. E tuttavia, si sarebbe trattato di un evento piuttosto equo, tutto considerato. Non era una questione di giusto o sbagliato; ammesso che quelle parole significassero qualcosa, non avevano niente a che spartire con il ciclo vitale di città e nazioni. La Città si era comportata nei confronti del popolo delle pianure in maniera simile a un leone verso un branco di gazzelle, ma era un gioco che funzionava nei due sensi. Se adesso era arrivato il turno dei clan di fare la parte del leone, voleva dire che era così che dovevano andare le cose. Non si poteva essere in disaccordo con una cosa del genere. L'unica cosa di buon senso da fare era andarsene e trovare un altro posto in cui vivere. Sentì altri passi fuori dalla porta, che venivano nella sua direzione e che si fermarono proprio sulla soglia. Una sottile lama di luce forò l'oscurità, poi si trasformò in un torrente abbagliante. Vide le sagome di due uomini disegnarsi nel vano della porta. «Quando avrete finito basta che mi lanciate un grido, Padre» disse una voce che Loredan riconobbe come quella del secondino. «Sarò proprio qui fuori.» La porta si richiuse, ma la luce non venne meno; era gialla e calda e proveniva da una piccola lampada. Svelò che l'altra sagoma apparteneva al Patriarca Alexius. Colto di sorpresa, Loredan mise le gambe giù dal pancaccio e si alzò in piedi. «Prego» disse «sedetevi.» «Grazie. Volentieri» rispose Alexius. Nella melodrammatica luce della lampada a olio sembrava un cadavere e gli ci volle un po' anche solo per trascinarsi all'altro capo della cella. «Così va meglio» disse. «Lasciate solo che recuperi il fiato, se non vi dispiace. Le scale» aggiunse. Loredan sedette sul pavimento e appoggiò la schiena al muro, in attesa che il Patriarca dicesse qualcosa. Non voleva essere maleducato, ma non era dell'umore giusto per mettersi a fare conversazione. «Sarete fuori di qui molto presto» affermò Alexius dopo un paio di minuti. «Abbiamo appena avuto una riunione piuttosto noiosa, con un
sacco di gente sciocca che diceva stupidaggini; la sostanza è che toccherà a me rivolgermi alla popolazione e dirgli di darsi una calmata e tornare a casa, e loro in cambio vi rilasceranno. Avete il tempo di farvi un bagno e di radervi prima della prossima riunione.» Loredan rimase a bocca aperta. «La prossima riunione?» ripeté. «Come, volete dire che sono ancora...» Alexius annuì. «Immaginavo che non sareste stato entusiasta della cosa, ma dobbiamo muoverci in una rete di compromessi. Vedete, abbiamo bisogno di un capro espiatorio per la sconfitta, ma abbiamo bisogno anche di un eroe in cui la gente creda.» Sospirò; i segni della fatica sul suo volto erano netti come il profilo del viso su una moneta appena coniata. «Quello sarete voi» continuò. «Dirò ai miei concittadini che i cinque generali responsabili del disastro sono quelli morti in battaglia; Bardas Loredan, d'altro canto, ha impedito che si trasformasse in una catastrofe, ha strappato quattro quinti dell'esercito alle fauci della morte e trasformato una umiliante sconfitta in una vittoria morale...» «Oh, per carità!» «Non siate ingrato» ribatté Alexius. «E poi è abbastanza vicino alla verità. E se proprio siete determinato a diventare un martire, vedrete che non vi mancheranno le occasioni. Non avete ancora sentito la parte divertente.» «Ditemi la parte divertente» rispose Loredan. Alexius ebbe un sussulto, assalito da un crampo che poi svanì. «Questa è l'idea di un compromesso che ha il nostro illustre prefetto» disse. «A una imprecisata data nel futuro, dovrete affrontare un processo in una corte di giustizia.» S'interruppe, poi riprese. «Fino ad allora, siete nominato Vice Luogotenente Generale, con la responsabilità di organizzare la difesa delle mura e della città bassa. Non ditelo» aggiunse immediatamente. «Credo che lo pensino anche tutti gli altri. Mostra semplicemente la fondatezza del detto: a che ci serve un Imperatore, quando siamo bravissimi a mostrarci imbecilli da soli?» «Sono convinto che si tratti della più colossale idiozia che abbia mai sentito in tutta la mia vita» disse Loredan chiudendo gli occhi. «Che cosa succede se rifiuto?» Alexius scosse la testa. «Non credo che vi sia consentito» disse. «Per metterla in altri termini, se non lo farete voi, non lo farà nessuno. Non gli è piaciuta la mia idea» aggiunse. «Un peccato. Era eccellente.» «Davvero? E quale era?»
«Volevo che vi nominassero Comandante in Capo» rispose Alexius. «Posso non capire niente di tattica e di battaglie, ma riesco a riconoscere un leader naturale quando ne vedo uno.» Loredan non rispose nulla. «E allora quando mi tirano fuori di qui?» chiese invece. «Non che io abbia fretta.» «Non appena avrò detto alla gente che siete un eroe. Fino ad allora, siete più al sicuro qui. C'è una folla di svariate migliaia di persone alla porta della seconda città, che chiede di vedere la vostra testa infilata su una picca. Se dovessero riuscire a sfondare...» «Capisco.» Loredan annuì. «Anche questa è una vostra idea?» Alexius fece cenno di no con la testa. «Uno di quei tipi con la faccia da topo dell'Ufficio Approvvigionamenti» rispose. «Sono una massa di sciocchi, ma alcuni di loro sono sorprendentemente furbi.» Si lasciò andare all'indietro e riposò il capo contro la parete. «Se non vi dispiace» disse «resterei qui fino al momento di andare a fare il mio discorso. È un posto piacevolmente tranquillo. Quanto siete aggiornato sulle ultime notizie?» «Non molto. Com'è la situazione là fuori?» «Tranquilla» disse Alexius. «Non c'è stata nessuna attività a monte del fiume; per quanto ne sappiamo stanno continuando a costruire macchine e a trasportarle giù per il fiume su delle zattere. Tutto quello che hanno fatto è stato di organizzare una scorta di cavalleria, tre o quattromila uomini, non di più, che vigila sul campo più a valle, dove sbarcano le macchine.» «Vuole dire che sono a non più di otto o nove chilometri dalla città» disse Loredan meditabondo. «Dei, vorrei che non avessimo organizzato quella stupida spedizione. È adesso che dovremmo fare sortite e naturalmente non lo faremo, per paura di cadere in un'altra imboscata.» Alzò lo sguardo. «Deduco che il Luogotenente Generale sia a capo delle operazioni all'esterno.» Alexius annuì. «Che fine ha fatto ciò che restava della cavalleria? Con quattromila uomini, a patto di riflettere su quello che facciamo stavolta, potremmo ancora fare a pezzi quelle macchine nel punto di sbarco senza troppi problemi...» «Non vorrà neanche sentirne parlare» rispose Alexius. «E ha qualche ragione dalla sua parte. Se dovessimo subire un'altra sconfitta, specialmente così vicino a casa, la città diventerebbe ingovernabile. Non potete immaginare quale sia la situazione nella città bassa.» «Quindi ce ne stiamo seduti e aspettiamo che ci assedino. Come ci regoleremo per le provviste e altre cose del genere? Non ci vorrà molto perché la notizia varchi il mare e allora avremo il porto pieno di gente che
vorrà venderci grano a prezzi folli.» «Folli o no, abbiamo autorizzato il prefetto a comprare tutto quello su cui riuscirà a mettere le mani. Non che cibo e altre riserve siano un problema; non c'è nulla che i clan possano fare per contrastare i rifornimenti via mare, quindi non c'è ragione perché i nostri commerci non debbano proseguire come prima. Ma rassicurerà la popolazione vedere che facciamo scorte e forse la gente la pianterà di saccheggiare i panifici.» Loredan scrollò la testa. «Gli piace saccheggiare i panifici» disse «è solo dopo che cominciano a lamentarsi, quando non possono più ordinare la loro abituale razione di pane per l'ottimo motivo che il negozio è stato dato alle fiamme.» Sorrise. «Sono situazioni come queste che tirano fuori il meglio delle persone. Che cosa stanno facendo a proposito del reclutamento? È stato già organizzato qualcosa?» «Non esattamente» rispose il Patriarca. «Per il momento abbiamo migliaia di anziani e di ragazzini che chiedono di arruolarsi come volontari, mentre la gran parte degli uomini abili è impegnata a sfasciare la città e a picchiare le guardie. E naturalmente tutti vogliono sapere perché il Patriarca non usa i suoi arcani poteri per allontanare il pericolo. Mi aspetto un mucchio di invettive in questo senso quando uscirò a tenere il mio discorso.» «Be', è probabile» ridacchiò Loredan. «A che cosa serve avere tutti questi maghi se non sono neanche capaci di lanciare qualche palla di fuoco e di trasformare i nemici in rospi? Uno si chiede da che parte stiano...» «Credo che il prefetto e il Luogotenente Generale me lo chiederanno molto presto» disse Alexius rassegnato. «Ho cominciato a pensare io stesso in questi termini, gli dei mi perdonino. Grazie alle mie recenti ricerche so parecchie cose in più sulle maledizioni e sul modo in cui funzionano. Mi è venuto in mente che se avessimo qui quella ragazza dell'Isola, quella che crediamo possa avere poteri naturali...» Loredan alzò entrambe le mani. «Lasciate perdere» disse. «Almeno se volete che lasci davvero questa bella e sicura cella.» «Pensavo che non credeste a questo genere di cose.» «Infatti» ripose Loredan. «Ma una cosa è un sano agnosticismo e un'altra è starsene lì a crearsi dei problemi. Non per la città, intendo. Per voi, personalmente. Avete un'aria che sembra siate morto la settimana scorsa e vi abbiano affidato all'apprendista dell'imbalsamatore perché facesse pratica.» Alexius scoppiò a ridere; più fragorosamente di quanto la battuta meri-
tasse. «Questa è la cosa più carina che qualcuno ha detto di me da molto tempo a questa parte» rispose. «Devo confessare che mi sono sentito molto meglio. Ma va bene comunque» aggiunse, abbozzando un sorriso «si tratta solo di una onesta, normalissima malattia e non di uno di quei misteriosi effetti collaterali da... Diciamo, causati dalla nostra piccola avventura nell'ignoto. Una malattia qualunque non mi preoccupa particolarmente.» Loredan annuì. «Il nemico che puoi vedere è l'ultimo dei tuoi problemi. Era uno dei modi di dire preferiti del mio vecchio comandante, possa riposare in pace la sua anima crudele. È un po' come la barzelletta dei due uomini che si trovano in mezzo al campo di battaglia; uno viene colpito da una freccia e cade per terra gemendo. L'altro dà un'occhiata all'impiumaggio della freccia e dice Va tutto bene, amico, è una delle nostre. Com'è quell'espressione che usano adesso per questi casi? Fuoco amico?» Alexius annuì. «È più o meno così che mi sento» disse. «Una indisposizione fisica può non essere piacevole, ma almeno senti che non sta deliberatamente cercando di danneggiarti, a differenza di quell'altra situazione.» Sospirò. «Immagino mi direte che si è trattato solo di una forma di autolesionismo e che dovrei smetterla di immaginare cose.» «No» rispose Loredan «perché dovremo lavorare insieme e ho ancora un minimo di tatto.» Si massaggiò il mento con aria pensosa prima di continuare. «A essere sinceri» disse «la prima volta che me l'avete raccontata, ho riflettuto un po' su questa storia. Continuo a non credere in questo Principio naturale e onnipervasivo di cui voi parlate... O, per essere più precisi, non sono neanche convinto che non ci sia... Solo che mi sembra qualcosa di troppo sfuggente per avere una qualche importanza...» «Normalmente è così» lo interruppe Alexius con un sorriso triste. «Quasi sempre, in effetti. Tutta questa storia delle maledizioni e delle benedizioni è solo un aspetto collaterale, irrilevante e di minima importanza, come una ghianda su una quercia.» Loredan annuì. «Dovrò prendere per buona la vostra parola su questo» disse. «Un'altra cosa alla quale non credo, però, sono le coincidenze; non nella percentuale nella quale dovremmo pensare che si sono verificate. Sono pronto ad ammettere che qualcosa stava succedendo; solo che sono anche convinto che nessuno di noi avesse la più pallida idea di che cosa fosse.» Alexius fece cenno di sì con il capo. «Su questo, mio scettico amico, sono perfettamente d'accordo con voi» disse.
«Ma perché non posso vederlo?» domandò Athli per la sesta volta. «Sono la sua assistente e lui ha una scuola da mandare avanti. Ho degli studenti che vogliono indietro il loro denaro. Se almeno voleste spiegargli perché non possono ricevere le lezioni per le quali hanno pagato...» L'impiegato aggrottò le sopracciglia. «Mi dispiace» disse «ma ci sono di mezzo importanti questioni di stato; assai più importanti» aggiunse in tono antipatico «dell'attività d'insegnamento del vostro collega. In effetti, vi consiglio di rifondere tutto il denaro che avete ricevuto come acconto senza aspettare ancora. Credo sia molto improbabile che il Colonnello Loredan abbia il tempo di riprendere la sua attività privata nel prossimo futuro.» Si alzò in piedi, per farle capire che l'udienza era conclusa. «E ora» disse «se volete scusarmi.» «Va bene» rispose Athli, senza muoversi dalla sedia. «Potete fargli avere una mia lettera e poi farmi avere la risposta? So che è in città» aggiunse. «L'ho visto tornare con i miei occhi. E non se ne sarebbe andato di nuovo senza farmelo sapere.» L'impiegato la studiò e soppesò con occhi da pesce lesso e notò che era giovane e attraente e che mostrava più interesse per il proprio principale di quanto fosse giustificato da un normale rapporto d'affari. Athli lesse sul suo volto ciò che stava pensando, si fece un appunto mentale di farlo assassinare in modo orribile non appena le fosse tornato comodo in futuro e decise di stare al gioco. Gli fece un sorrisetto malizioso. «Per favore» aggiunse. «Significherebbe molto per me, se lo faceste.» «Potrei essere in grado di fargli avere un messaggio» disse, con una nota di disprezzo nella voce, mescolata a una di vaga compassione. «Non sono sicuro per quello che riguarda una lettera, però; dovrebbe venire vagliata dal Comitato per la Sicurezza Nazionale, il che comporterebbe un inevitabile ritardo. Qualunque risposta da parte del Colonnello Loredan sarebbe egualmente soggetta...» S'interruppe e le rivolse un sorriso tetro. «Per concludere» disse «se per voi non va bene così...» «Andrà benone» rispose Athli con fermezza «Posso prendere in prestito la vostra penna?» L'impiegato sospirò e si sedette di nuovo. «Prego» disse. «Ma vi sarei grato se poteste sbrigarvi. Devo essere presente a una riunione che comincerà fra poco.» «Non vi farò perdere più di un minuto» disse Athli.
È solo per sapere se stai bene e se c'è qualcosa che vuoi che io faccia. Abbiamo abbastanza candidati da fare due classi adesso, probabilmente grazie alla pubblicità derivante dalle tue ultime imprese, sicché ho aumentato la retta di un terzo. Sono stata al tuo appartamento per accertarmi che fosse tutto a posto; e ho fatto montare da un fabbro un chiavistello sulla porta, per cui non meravigliarti se non riesci a entrare. Se me lo consentiranno ti farò avere la chiave. Stai allegro. Dev'essere divertente essere famosi. Esitò. Doveva aggiungere qualcos'altro? Voleva dirgli qualcosa che gli facesse intendere che capiva come si dovesse sentire. (Non che fossero vero e lo sapevano entrambi.) No, sarebbe solo riuscita a imbarazzarlo. Scrisse invece il suo nome, piegò il foglio di carta e lo porse all'impiegato. «Siete sicuro di esservi segnato il mio indirizzo?» chiese. «Sappiamo dove trovarvi» rispose l'impiegato con una certa enfasi che avrebbe dovuto infastidirla nella sua intenzione. «E adesso devo veramente...» Si lasciò sospingere fuori dall'ufficio e stette a guardare l'uomo che si allontanava a una specie di piccolo trotto pieno di sussiego, in direzione del chiostro principale. Poi rifece lentamente la strada fino alla porta d'ingresso. Non aveva niente da fare e tutta la giornata per farlo. Un'altra volta. Piuttosto che andare a casa ad annoiarsi decise di scendere al distretto dei cartolai a comperare qualcosa. Era tradizione che gli assistenti avessero una specie di culto per gli articoli di cartoleria; faceva bene anche agli affari, perché gli strumenti del lavoro di un assistente tendevano a renderlo più splendido ed elegante e i clienti davano per scontato che quanto più costosi fossero la penna e il calamaio di uno di loro, tanto maggiore fosse la qualità delle parole che ne sgorgavano. Athli adorava uniformarsi a quello stereotipo. Quando si fermava a pensarci non poteva non meravigliarsi per la quantità di denaro che aveva sperperato in cose del genere (anche se, usava rassicurarsi, dato che aveva sempre comperato solo cose di qualità, probabilmente avrebbe potuto recuperare senza problemi il denaro vendendoli, se fosse stato necessario). Il che le fece venire in mente un'altra cosa. È bizzarro, rimuginò mentre si dirigeva verso il quartiere dei droghieri passando per quello dei fabbricanti di sedie, il fatto che sembri non avere mai denaro. In base ai calcoli era una cosa priva di senso. Guadagno il
venticinque per cento di quanto guadagna lui e posso vivere in un bel quartiere della città e permettermi di spendere denaro per scrittoi intarsiati e numeratori d'argento massiccio. Lui vive nei bassifondi e non possiede nulla. So che va in giro a bere parecchio e questo gli costerà un po', salvo che sembra frequentare solo posti dove ci si può ubriacare fino alla morte al costo di un bicchiere di vino buono in una taverna decente; che cosa ne fa di tutto il suo denaro? Era strano lavorare con qualcuno per così tanto tempo e così a stretto contatto e in realtà non sapere niente di lui. Andiamo d'accordo; di fatto anzi ce la siamo sempre spassata un mucchio. Non ho mai conosciuto un uomo con cui mi riesca altrettanto facile parlare, uno che non crea mai problemi... Ma che cosa so veramente di lui? Era nell'esercito... Be', a questo punto naturalmente è una cosa che sanno tutti; in effetti, quasi tutti sanno più di quanto sapessi io prima che tutto questo cominciasse... Ed è cresciuto in una fattoria; ha un numero non specificato di fratelli e almeno una sorella. Non parla dei suoi genitori, quindi forse sono morti o forse semplicemente non gli piace parlarne. E naturalmente conosceva un sacco di gente fra quelli che svolgevano la sua stessa professione, ma non ho idea se avesse un amico. Naturalmente lui sa tutto di me... Non che ci sia molto da sapere. Sembra sempre piuttosto interessato quando gli racconto qualcosa e a quanto pare non riesce a capire perché non mi sia sposata e non esca con nessuno. In realtà, non credo che la cosa gli interessi davvero. Perché dovrebbe, dopotutto? Aggrottò la fronte, ricordando il sorrisetto pieno di sottintesi dell'impiegato. Naturalmente aveva torto, anche se sarebbe stata una bugiarda a negare che l'idea le era passata per la mente in un paio di occasioni. Ma mai seriamente; una relazione con un uomo che faceva quel mestiere non aveva un grande futuro. Peggio che innamorarsi di un marinaio; quelli almeno ogni tanto tornavano a casa. Non che facesse ancora quella professione; solo che adesso era il Colonnello Loredan e questo difficilmente poteva essere considerato un miglioramento. Si fermò di fronte a una bancarella che vendeva scodelle di legno dipinto piuttosto appariscenti. Se è destinato a essere il Colonnello Loredan per un certo tempo, rifletté, non insegnerà la scherma; e allora io cosa farò per mantenermi? Anche quello era bizzarro; quando Loredan lavorava nei tribunali, lei aveva sempre pronto un piano di emergenza, giusto in caso che fosse successo qualcosa. Ora invece non aveva idea di cosa fare. Non poteva mandare avanti lei la scuola e non sopportava l'idea di tornare a
fare l'assistente di qualche altro avvocato. Oh, dannazione, che cosa c'è che non va in me? Lentamente e deliberatamente Athli si rilassò; e nel farlo una voce piccola ma insistente, nel retro della sua mente, cominciò a cantilenare Quando tutto sembra perduto, compra articoli di cartoleria! Sembrava il migliore consiglio che avrebbe potuto ricevere. Decise di seguirlo. L'atmosfera nel distretto dei cartolai variava da una pittoresca confusione a un vero inferno in terra a seconda del momento della giornata e del periodo dell'anno, della disponibilità di articoli e della loro domanda, della prosperità dell'economia e dell'umore complessivo della città. La febbrile intensità dell'attività in corso sotto le tende fastose, rifletteva l'influenza dell'ultimo di questi fattori; impiegati, scribi, e assistenti di Perimadeia avevano deciso che probabilmente la fine era vicina, nel qual caso potevano anche indulgere ai propri desideri fintanto che avevano ancora del denaro ed esso valeva ancora qualcosa; e se non si fosse rivelata la fine del mondo, sarebbe stato un ottimo motivo per festeggiare, cosa resa ancora più perfetta dall'acquisto di qualcosa. I mercanti del distretto si erano mostrati all'altezza della situazione: Athli non aveva mai visto cose così belle e prezzi così alti. C'erano scrittoi e tavolette da calcolo in legno di rosa e lignum vitae, lussuosamente intagliate e con decorazioni di madreperla, avorio e lapislazzuli. C'erano calamai; dei, i calamai... Calamai d'argento, d'oro, con coperchietti tempestati di gioielli e altri con piedini di pietre preziose, calamai ingegnosi con piccole barrette per scuotere via l'inchiostro in eccesso una volta intinta la penna, calamai ricavati da zanne d'elefante o di tricheco, calamai a forma di rosa, di maialino, di figuretta umana inginocchiata, di teschio, di cavallo, di sedere di donna o di fanciullo e perfino che replicavano la corona cerimoniale del Patriarca. C'erano tavolette da scrittura in legno di cedro, istoriate e munite di cerniere, con la cera gialla e cremosa invitante come la sabbia della spiaggia quando la marea si è appena ritirata, che parevano gridare Comprami! Comprami! C'erano stili così belli da togliere il fiato e altri di una nauseante volgarità, penne ricavate da piume d'aquila e di pavone, così lunghe che sarebbe stato impossibile servirsene senza infilarsele in un occhio a ogni movimento. C'erano gettoni per la contabilità (in numero incalcolabile: grande battuta!) d'argento e d'oro, gettoni minuscoli per quelli che non volevano
farsi vedere e gettoni così grossi che probabilmente ci sarebbero voluti due uomini per sollevarli, fantasiosi gettoni con ogni immaginabile tipo di decorazione, compresi alcuni che furono rapidamente spazzati via prima che Athli potesse dargli un'occhiata (che rabbia!), gettoni lisci su cui abilissimi artigiani erano pronti a incidere il vostro nome, titolo e motto preferito mentre voi aspettavate, gettoni che costavano somme maggiori di quelle per calcolare le quali sarebbero stati usati. C'erano mezze-maniche, visiere, lenti d'ingrandimento per quelli che non ci vedevano bene, lampade e portacandele, pallottolieri e serie di bilancine portatili che venivano vendute nelle più deliziose scatolette d'avorio. Pergamena... Tutti i tipi di pergamena! Come potevano esserci al mondo abbastanza pecore da permettere di fabbricare tutta quella pergamena... E ogni millimetro quadrato era stato grattato accuratamente e reso liscio con la pomice, fino a diventare sottile e vagamente traslucido sicché ora la pergamena aveva l'aspetto di un cumulo di nuvole al tramonto. C'erano piccoli vasi d'inchiostro in polvere di tutti i colori immaginabili: turchese e cobalto, cremisi e porpora, verde giudiziario e nero governativo, azzurro da ciambellano, arancio da lavoro, blu militare, marrone marinaro, perfino l'incredibilmente costoso e altamente illegale oro imperiale... in teoria un impiegato avrebbe potuto subire il taglio della mano per essersene servito senza espressa autorizzazione; il trucco per aggirare il divieto consisteva nel diluirlo con una minima quantità di argento e vetriolo, che costava tanto quanto l'inchiostro d'oro e in più ti bruciava fino all'osso se te lo spruzzavi sulle dita. C'erano coltellini per fare la punta alla penna, con lame sottili come foglie e dieci volte più affilate di un comune rasoio di Perimadeia; ne esistevano anche versioni più grosse, che i giovani funzionari adoravano ostentare alla cintura e che rappresentavano il modo per aggirare la proibizione di portare armi nell'edificio del Consiglio. Dopo un po' Athli dovette smettere di guardare e mettersi a sedere, abbagliata da tutto quello scintillare e quel baluginare. Una delle cose di cui la gente della Città amava vantarsi davanti agli stranieri era che a Perimadeia quasi chiunque sapeva leggere e scrivere. Ciò che aveva visto oggi spinse Athli a chiedersi se le lettere non fossero in realtà una specie di vizio. Una volta ripreso fiato si diresse alle bancarelle di libri, dove era possibile comperare ogni genere di manuale sui moduli e raccolte di lettere per ogni occasione e adatte a qualunque vicissitudine della vita umana. Prese
un volumetto quadrato e aguzzò lo sguardo per leggere i minuscoli caratteri sulla copertina: Lettere da creditori a debitori Lettere da debitori a creditori Lettere dai più vecchi ai più giovani Lettere dai più giovani ai più vecchi Lettere di studenti poveri a zii ricchi, implorando assistenza Lettere da zii ricchi a studenti poveri, rifiutando assistenza Lettere da amanti (maschi) a donne sposate, scongiurandole Come sopra, ma in tono disperato Lettere da donne sposate agli amanti (maschi), di tono ambiguo Come sopra, ma incoraggianti Lettere da commercianti che richiedono cortesemente un pagamento Lettere da gentiluomini a commercianti, che chiedono con tatto di posporre un pagamento Lettere da amministratori di fattorie di stato ai commissari distrettuali, per chiedere il permesso di trasferire i maiali sui pascoli invernali di proprietà comune Lettere dai commissari distrettuali agli amministratori di fattorie di stato che negano l'autorizzazione a trasferire i maiali sui pascoli invernali di proprietà comune e rammentano a detti amministratori il loro impegno di procurare durante l'inverno adeguato cibo per i suddetti maiali Lettere di proposta di matrimonio Lettere di rifiuto di matrimonio Lettere all'amata minacciando il suicidio Lettere a un corteggiatore sgradito, incoraggiandolo a suicidarsi Lettere da ufficiali dell'esercito per informare i genitori della morte di un figlio Altre lettere meno impegnative Ogni voce aveva la prima parola del titolo evidenziata in inchiostro rosso, il numero di pagina, gli appropriati rimandi e in qualche caso delle aggiunte fatte a mano, che indicavano i punti in cui il precedente proprietario aveva aggiunto di sua spontanea volontà un po' dei suoi precedenti preferiti; il tutto per solo un quarto e mezzo d'oro, con la garanzia di non dovere mai più concentrarsi per pensare a cosa scrivere, per quanto bizzarre potessero essere le circostanze. Athli non riuscì a resistere e
quindi lo comprò dopo avere ottenuto uno sconto sul prezzo di mezzo quarto e praticamente costretto il proprietario della bancarella a regalarle una borsa per portarlo. Sedette su una panchina di pietra all'ombra di una tenda e stava per guardare cosa contenesse la sua guida come Lettera a una nipote nubile, declinando educatamente la richiesta di contribuire alla sua dote, quando un'ombra cadde attraverso la pagina e lei alzò lo sguardo. «Salve» disse una voce proveniente da quella che sullo sfondo della luce solare era solo una sagoma nera. «Scusatemi, ma voi non siete l'assistente di Mastro Loredan?» La voce era femminile, straniera e piuttosto piacevole; Athli sbatté le palpebre e cercò di aguzzare lo sguardo. «Vi conosco, credo» rispose. «Siete quella con i po... .» Si riprese appena in tempo e inghiottì il resto della parola "poteri naturali". «Siete la sorella del mercante, quella dell'Isola. Ci siamo incontrati in una taverna il giorno in cui Loredan si batté con Alvise. Vi chiamate Vetriz?» «Esatto» annuì Vetriz, sedendosi sulla panchina accanto a lei. «Curioso che ve lo ricordiate.» «È un'abilità necessaria nella mia professione» ribatté Athli dandosi un minimo di arie. Di norma, naturalmente, si sarebbe già completamente dimenticata di quella ragazza qualsiasi; ma il racconto che Loredan le aveva fatto della sua bizzarra conversazione con il Patriarca Alexius alle Scuole, non molto prima della spedizione di cavalleria, le aveva assai rinfrescato la memoria. Ora, ovviamente, era piena di uno strano miscuglio di repulsione istintiva e di insaziabile curiosità; a differenza di Bardas non nutriva il minimo dubbio sull'esistenza e il potere della magia e teoricamente quella ragazza non era, in qualche modo, la strega più potente del mondo? O qualcosa del genere, comunque. «Sono venuta a comperare un calamaio» disse Vetriz, con una traccia di sbalordimento nella voce. «Ma c'è una tale possibilità di scelta che non so da dove cominciare. A casa mia si trovano calamai semplicissimi e altri di forma un po' fantasiosa e questo è tutto.» Athli sorrise educatamente. «Basta che vi ricordiate di non pagare mai il primo prezzo che vi chiedono, e non correrete il rischio di fare grandi sbagli» disse; poi si ricordò che quella ragazza era la sorella di un mercante, probabilmente lei stessa abituata a trattare da parecchio; certamente non il tipo di persona che aveva bisogno di farsi insegnare tecniche di mercanteggiamento dall'assistente di uno spadaccino. «Per
quanto tempo vi fermate?» domandò. «Non ne sono sicura» rispose Vetriz. «Abbiamo portato un carico di conserva di frutta e i prezzi sono straordinari; per via dell'invasione, naturalmente. Se solo lo avessimo saputo avremmo caricato due navi. Comunque, abbiamo venduto la conserva immediatamente e mio fratello sta andando in giro cercando di decidere cosa portare indietro. Abbiamo passato tutto ieri e quasi tutto oggi a cercare della corda...» «Corda?» Vetriz annuì. «Corda» ripeté. «E arriva il momento in cui un magazzino pieno di corde arrotolate finisce per sembrare esattamente uguale a tutti gli altri, così Ven ha detto che avermi intorno, a sbadigliare con aria annoiata, non gli sarebbe stato di grande aiuto quando sarebbe venuto il momento di spuntare il migliore prezzo possibile, e che forse era meglio se fossi tornata alla locanda e lo avessi aspettato lì. Allora ho deciso di venire qui a comperare un calamaio.» «Capisco» disse Athli. «Be', non voglio trattenervi.» Sarà anche la più potente strega del mondo conosciuto, ma sta cominciando a darmi sui nervi. Vattene strega. «I meno costosi li vendono a quella bancarella là, vicino alla fontana, oppure ce ne sono di davvero carini, intagliati nell'avorio, nel negozio con la tenda bianca e rossa.» Vetriz si girò verso di lei e le sorrise. «È chiaro che siete esperta in questo genere di cose... Be', suppongo sia necessario, data la vostra professione. Vi darebbe molto fastidio consigliarmi? Altrimenti non sarò in grado di capire se sto facendo un buon affare o comperando della robaccia.» Se solo non fosse stata così smaccatamente consapevole di non avere assolutamente niente da fare, Athli si sarebbe inventata una scusa e se ne sarebbe andata. Stando le cose come stavano, avrebbe potuto accusare un po' di mal di testa senza neanche bisogno di mentire. Invece mormorò che, naturalmente, ne sarebbe stata felice e la precedette in direzione della bancarella meno costosa. Tuttavia, una volta che ebbe cominciato a consigliarla, si lasciò pian piano trascinare dall'eccitazione dell'acquisto. Domandato a Vetriz quanto avesse in mente di spendere più o meno, si era sentita indicare una somma che l'aveva indotta a dirottare immediatamente le loro ricerche all'interno del negozio con la tenda a strisce bianche e rosse; il delizioso brivido di fare un acquisto importante con il denaro di qualcun altro, ben presto cancellò del tutto la sua vaga antipatia per la ragazza. In effetti l'ascoltava con tanta attenzione e sembrava così
genuinamente interessata alle preziose informazioni che stava ricevendo, che Athli modificò via via la sua opinione. Un processo mentale che subì una notevole accelerazione quando Vetriz, dopo essersi assicurata un calamaio d'oro e madreperla estremamente desiderabile e di enorme valore pagandolo una somma solo moderatamente oscena, insistette nel volere comprare ad Athli un regalino a titolo di ringraziamento per il suo aiuto. Per il metro di Vetriz, un regalino consisteva in uno stilo cesellato e in una penna di zanna di tricheco il cui valore sarebbe bastato a nutrire un'intera famiglia per un mese. «Grazie» disse. «Sono molto belli.» «Prego» rispose Vetriz che sembrava genuinamente felice del fatto che la sua nuova amica avesse apprezzato il regalo. «Oh, non c'è un mucchio di cose bellissime? Credo che dovremmo portare Venart quaggiù e voi potreste consigliargli cosa comperare. A casa per cose come queste si può spuntare qualunque prezzo; sono sicura che ci garantirebbero un profitto molto maggiore che della vecchia corda ammuffita.» «Be'...» cominciò a dire Athli, visualizzando una nuova carriera come assistente all'acquisto di articoli di cartoleria. «Io però non avrei la più pallida idea di ciò che sarebbe più richiesto sull'Isola; non so quali cose gli piacciano.» Si massaggiò un lato della testa con i polpastrelli; quel mal di testa stava cominciando a infastidirla. «Credo che sia un genere di cose che è meglio lasciare a chi sa cosa sta facendo» disse, rendendosi conto nell'atto stesso in cui lo faceva, di essere probabilmente insultante. Vetriz scosse la testa. «Se devo imparare a fare affari, devo anche fare pratica» disse. «Propriamente parlando ho una quota del cinquanta per cento su tutto e Ven si occupa solo di amministrare anche la mia parte. So che non diventerò mai brava a trattare sacchi di farina e giare di olio o roba del genere, ma non c'è ragione per cui non dovrei specializzarmi in beni voluttuari; dopo tutto si tratta di un commercio tanto quanto lo è quello delle materie prime e probabilmente con maggiori margini di profitto. Adesso che ci penso, l'unica cosa che mi tratteneva era il non conoscere i mercati di qui.» S'interruppe, si girò verso Athli e le fece un gran sorriso. «Sapete, penso che sia stato il destino o qualcosa del genere a farci incontrare in questo modo. Che cosa ne dite? Voi mi darete consigli, io compererò le cose e divideremo il profitto in tre.» «Non sono sicura» disse Athli. A causa dell'emicrania, faceva sempre più fatica a concentrarsi; inoltre aveva la strana sensazione di essere forzata, o meglio di essere trascinata da una corrente che voleva portarla
con sé a valle, mentre lei invece voleva risalirla. D'altro canto sembrava una valida proposta commerciale (anche se non era sicura del valore del contributo che avrebbe dovuto dare lei). «Immagino si possa fare, se state davvero parlando seriamente. Ma non dovreste farvi dare un po' di denaro da vostro fratello, prima?» «A essere sincera» rispose Vetriz abbassando la voce e con un sorrisetto divertito «no. In nome del cielo non ditelo a Ven, ma in questo viaggio ho portato con me un po' del mio denaro, giusto in caso avessi trovato il modo di investirlo in qualcosa. È un po' che ci stavo pensando, almeno in termini generali. No, quello che penso che farò sarà di raccontare a Ven che tutte le cose comperate oggi sono per mio uso e piacere personale. Così se quando le rivenderò una volta a casa ci rimetterò dal punto di vista economico, non ci sarà mai bisogno che lo venga a sapere. E se invece ci guadagnerò, potrò reinvestire il denaro, meno la vostra percentuale ovviamente, e comperare altre cose la prossima volta che verremo qui; il che dovrebbe essere piuttosto presto visto il livello dei prezzi. Avanti, stringiamoci la mano come dei veri soci in commercio e stringiamo un patto.» «Va bene» disse Athli e mentre si stringevano la mano non poté fare a meno di chiedersi che cosa diamine stesse facendo. E da cosa dipende lo strano fascino che lega me e Loredan a questa gente? Ho incontrato questa ragazza solo una volta in precedenza, e ha già liberato lui da una maledizione e preso me come socio in affari. E Bardas non aveva detto qualcosa a proposito delle emicranie? Probabilmente riuscirei a ricordarmene se la testa non mi facesse così male. CAPITOLO DODICESIMO Loredan ricevette il messaggio proprio mentre lo stavano facendo uscire dalla cella perché potesse partecipare alla sua prima riunione del Consiglio in veste di Vice Luogotenente Generale. Lo lesse, sentendosi vagamente in colpa, lo ripiegò e se l'infilò nella cintura. Stavolta la casa capitolare era piena e c'erano ben poche facce a lui note. Si augurò che fosse un buon segno; anche se gli sconosciuti si fossero rivelati alla fine niente altro che dei semplici passanti che erano stati letteralmente raccattati per strada, non avrebbero potuto che rappresentare un miglioramento rispetto al Comitato per la Sicurezza Nazionale. Con suo enorme imbarazzo fu condotto immediatamente su per i gradi-
ni, al gruppo di sedie con braccioli e schienale, invece che verso i semplici sedili in pietra. Era il luogo in cui prendevano posto le autorità; ogni sedia recava incisa la carica del suo abituale occupante: Patriarca, Precettore Urbano, Capo degli Uffici, Archimandrita della Città, Archimandrita di Elissa e così via. C'era un posto vuoto, su cui era inciso Arcidiacono del Capitolo e, chiaramente, era lì che doveva sedersi. Si accomodò, domandandosi di sfuggita chi fosse l'Arcidiacono del Capitolo e cosa facesse per vivere, dopo di che si mise in attesa che qualcuno dicesse qualcosa. Il prefetto della città si alzò in piedi, si guardò intorno e fece un cenno ai due sergenti, che chiusero le porte e le sprangarono. «Penso che finalmente ci siamo tutti» disse. «Sono felice di potervi informare che il Colonnello Loredan ha accondisceso ad accettare il posto di Vice Luogotenente Generale, per cui possiamo cominciare ad affrontare l'argomento principale di oggi, che è abbastanza preciso: che passi dobbiamo fare per garantire la sicurezza della Città?» Si volse verso Loredan e annuì. «Colonnello» disse «a voi la parola.» Loredan attese un attimo, giusto in caso che il prefetto si fosse rivolto a un altro colonnello e poi si alzò in piedi. Gli tremavano un po' le ginocchia, ma poi si ricordò che fino a poco tempo prima quando gli era capitato di alzarsi in piedi in posti altrettanto affollati era perché un uomo con una spada potesse cercare di ucciderlo. Il peggio che poteva fare quella gente era lanciargli delle mele. Quel pensiero lo rilassò. «Signori» cominciò. Oh, dei, che cosa posso dire? «Immagino di dovervi ringraziare per avere avuto fiducia in me; non sono sicuro di condividerla, ma non stiamo a pensarci adesso. Il punto è, credo, che state chiedendomi, data la mia conoscenza delle abitudini dei clan, di suggerirvi modi per migliorare le difese della città. Be', ho un'opinione su questa materia se avete voglia di ascoltarla.» S'interruppe per un attimo, fece un respiro profondo e continuò. «Tutti in questa città» disse «siamo cresciuti nella convinzione che grazie alle mura e al porto non ci sia nessun vero motivo di temere attacchi da terra. Il popolo delle pianure non ci ama molto, forse a ragione, ma si tratta solo di un'orda di selvaggi che non ha una sola speranza al mondo di sfondare le mura o di scalarle e un assedio non funzionerebbe perché tanto continueremmo a ricevere tutti i nostri rifornimenti via mare e, dato che quelli dei clan non sanno un accidente di navi, tutto quello che dobbiamo fare è starcene tranquilli e aspettare che se ne vadano. Questo pensiamo tutti.» Si guardò intorno e annuì. «Non c'è granché di sbagliato nel pensarla
così» continuò. «E questa è la ragione per cui non ci siamo mai curati molto di avere un esercito da usare sul campo, perlomeno da quando abbiamo rinunciato all'idea di crearci un impero terrestre fra qui e le montagne di Salimb. C'era Maxen, naturalmente; fino a che è rimasto vivo ha tenuto i clan in un continuo stato di terrore, sicché non hanno mai osato avvicinarsi a meno di cento chilometri dalla città per paura di essere fatti a pezzi. Mi sembra di ricordare che ai tempi eravamo piuttosto soddisfatti della situazione. Be', è facile ragionare con il senno di poi, ma se non fosse stato per Maxen e i suoi scorridori adesso non saremmo alle prese con questo problema. I fatti sono, a quanto pare, che abbiamo a che fare con un giovane capo tutto fuoco e fiamme che vuole assicurarsi che nulla tipo Maxen possa mai più accadere, e intende farlo spazzandoci via dalla faccia della terra. Questo di per sé non sarebbe grave, solo che a quanto pare ha con sé gente della città che sta insegnando al suo popolo come costruire pesanti macchine da assedio e altro equipaggiamento. E questo sì che deve preoccuparci.» Nessuno muoveva un muscolo, sussurrava alla persona che aveva vicino o anche solo guardava fuori dalla finestra. Loredan era sorpreso e impressionato; forse avrebbero preso la cosa seriamente, dopo tutto. «Ora» continuò «io non sono certo uno studioso di storia, ma non riesco a ricordare neppure un'occasione in cui queste nostre magnifiche mura siano state messe alla prova da una forza d'attacco adeguatamente equipaggiata. Forse sono inespugnabili, forse no; molto semplicemente, non lo sappiamo. Propongo di provare a pensare che non lo siano e di tentare di pensare con la testa del nemico. Come ci regoleremmo se volessimo attaccare le mura di Perimadeia? Qualche suggerimento?» Si mise a braccia conserte e attese. Seguì un lungo silenzio mentre il suo pubblico cercava di determinare se si fosse trattato di una domanda retorica o no. Poi un uomo basso e massiccio, con la barba, si alzò da uno dei sedili sul fondo, più o meno dirimpetto a Loredan. Aveva un volto vagamente familiare; doveva essere una specie di ingegnere, a vederlo. «La risposta è abbastanza semplice» disse. «Ci sono tre possibilità. La prima, abbattere le mura. La seconda, scalarle. La terza, scavarci sotto un tunnel. Semplice a dirsi» aggiunse «ma non altrettanto a farsi, se capite cosa voglio dire.» Loredan annuì. «Va bene» disse. «Passiamole in rassegna una alla volta. Abbatterle: immagino stiate pensando a macchine a torsione come mangani, trabucchi e roba del genere, giusto?»
L'ingegnere annuì. «E arieti» disse. «Ma per potere usare degli arieti devono attraversare il fiume, il che vuole dire costruire una strada oppure fare navigare gli arieti giù per il fiume su dei pontoni. Nessuna delle due soluzioni è semplice, ma sono entrambe possibili.» «Giusto» disse Loredan. «E voi siete...?» «Leucas Garantzes, Vice Ingegnere Municipale» rispose l'uomo con la barba. «Responsabile della manutenzione delle mura, delle torri di guardia e delle macchine fisse, della cinta che guarda verso terra.» «Lieto di conoscervi» disse Loredan. «Ecco cosa voglio che facciate. Non so quanto siano effettivamente efficaci contro solide mura le macchine che scagliano rocce, quindi voglio un po' di dati e un po' di numeri: portata, capacità, ritmo di tiro, qualche indicazione di ciò che ogni classe di macchine può fare. Ora, non sappiamo nulla su ciò di cui dispongono effettivamente, ma possiamo basarci sul postulato che si tratti di copie di quelle adottate anche dal nostro governo. Quando sapremo cosa possono fare, sapremo di cosa abbiamo bisogno per contrastarne l'azione. Siamo d'accordo?» Garantzes annuì. «Vedrò che cosa posso fare» disse prima di rimettersi a sedere. Loredan fece un respiro profondo. «Stiamo cominciando ad andare a parare da qualche parte» disse. «Non c'è nessuno qui che possa procurarmi dei piani in scala delle difese?» Per un po' nessuno si mosse; poi un ragazzo molto giovane vicino alle prime file si alzò e disse: «Penso di potervi aiutare, su questo.» «E voi siete?» «Timoleon Molin» rispose il giovanotto. «Ufficio di Sorveglianza. In realtà mi occupo di drenaggi e precauzioni contro le piene, ma abbiamo un mucchio di mappe dettagliate in ufficio, che dovrebbero fare al caso nostro.» «Molto bene» disse Loredan e Molin si mise nuovamente a sedere con evidente sollievo. «Non c'è nessuno dell'arsenale?» L'uomo che si alzò era basso, calvo e zoppicava un po'. «Teodrico Tiron» disse. «Io fabbrico catapulte.» «Non potreste essere più adatto» disse Loredan con un cenno di approvazione. «Voglio che vi uniate a Timoleon, laggiù, e all'ingegner Garantzes e mi disegnate una carta delle mura che mostri l'area di tiro di tutte le macchine fisse che abbiamo già in posizione, indicando gli angoli ciechi e i posti in cui comunque potremmo fare qualcosa per migliorare la
copertura della nostra artiglieria. Se, come sembra, le loro macchine rappresentano una minaccia, la nostra migliore soluzione sarebbe di riuscire a distruggerle prima che riescano a farle funzionare.» Si girò verso sinistra. «Prefetto» disse «già che stiamo affrontando questo argomento, vorrei parlare con tutti i comandanti a tempo pieno delle squadre di lancio, per capire cosa sono in grado di fare al momento e studiare un qualche tipo di addestramento intensivo. Voglio che diventiamo capaci di colpire ciò a cui miriamo, altrimenti sprecheremo solo del tempo.» Fece una pausa per prendere fiato e ripassò mentalmente ciò che era stato detto fino a quel momento. «Adesso, a meno che qualcuno mi segnali qualcosa che mi sono scordato, possiamo dire di avere coperto la loro prima opzione. Passiamo a considerare la seconda: scalare le mura.» Mentre proseguiva riuscì ad avvertire il mutamento d'umore del Consiglio; dalla curiosità a una sorta di strabiliata accettazione di tutto il lavoro che veniva via via assegnato in modo così determinato; non poté fare a meno di chiedersi: Perché accettano tutto ciò come se si trattasse di perle di saggezza provenienti da un grande generale? Non si accorgono che sto improvvisando a mano a mano che procedo? O non gli era neanche passato per la mente di fare queste poche, elementari cose? In nome degli dei, perché all'improvviso dipende tutto da me? «Adesso passiamo alla distribuzione del cibo» si sentì dire. «So che abbiamo un bel po' di provviste da parte, e l'Ufficio del Prefetto le sta aumentando su vasta scala comperando sul mercato libero, quindi stiamo tranquilli; tuttavia penso che sarebbe di grande aiuto se sapessimo esattamente quanto gente dobbiamo nutrire e come abbiamo intenzione di organizzarci per quanto riguarda la distribuzione delle derrate. Non c'è nessuno qui dell'Ufficio del Cancelliere? Bene; ora, so che è passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che c'è stato un vero censimento...» Prova ad ascoltarti, vuoi? Da quando in qua sei un capo nato? Se vogliamo dire la verità, non sai proprio un bel niente a proposito delle scorte di grano. Il che, probabilmente, è il motivo per cui ha senso cercare di valutarle. E che fine hanno fatto tutti i politici? Perché nessuno discute quello che dico, in nome del cielo? La situazione deve essere veramente seria. Improvvisamente si rese conto di non avere più niente da dire. Si sentì in imbarazzo; non sapeva come concludere un discorso in maniera appropria-
ta, prima di rimettersi a sedere... Be', naturale che non lo so, sono uno spadaccino in nome degli dei... E non aveva idea di come rispettare la forma. Annuì per l'ennesima volta e si girò verso il prefetto. «Penso di avere detto tutto ciò che volevo» affermò. «Prefetto, a voi la parola.» Il prefetto si alzò in piedi, con l'aria di essere stato colto un po' di sorpresa. «Grazie, Colonnello Loredan» disse. «Be', a quanto pare abbiamo tutti un mucchio di lavoro da fare, perciò propongo di aggiornare la riunione a domani. Signori.» Abbassò la testa in un breve saluto e tutti quanti si alzarono e cominciarono a parlare tutti insieme; l'improvvisa esplosione di rumore e di movimento fecero pensare Loredan a uno stormo di cornacchie improvvisamente fatte scappare da un campo di frumento. Rimase dove era, sperando di essere lasciato in pace mentre cercava di dare un senso all'insieme. «Le mie congratulazioni, Colonnello.» Era quel dannato idiota del prefetto, che gli rivolgeva uno sguardo infuocato da sotto le sue spettacolari sopracciglia. «Siete riuscito a fare di voi stesso l'uomo più importante della città.» Fece una pausa, per massimizzare l'effetto delle sue parole. «Dopo di me, naturalmente. Spero che lo terrete sempre a mente.» Oh, bene, minacce. Ora riconosco questa città. «Se volete dare questo incarico a qualcun altro, caro prefetto» disse stancamente «accomodatevi pure. Io sto ancora cercando di capire dove sono andato a pescare tutte queste nozioni.» Il prefetto inarcò un sopracciglio. «Suppongo derivino dal tempo che avete trascorso nello stato maggiore del Generale Maxen» disse. «Dove, immagino, avete imparato a servirvi del buon senso nelle questioni amministrative.» «Ah.» Loredan non poté trattenersi dal sogghignare. «Quindi è questo che facevamo, secondo voi. Bizzarro; tutto quello che riesco a ricordare è di avere dormito molto per terra e combattuto gente. Comunque, immagino abbiate ragione; si tratta di semplice buon senso: riconoscere il fatto che non sappiamo come affrontare questa situazione e che quindi ci conviene provare a trovare la risposta prima che comincino i guai. È per questa ragione quindi che mi avete scaricato tutto ciò sulle spalle?» Il prefetto gli sedette accanto e gli parlò all'orecchio. «In parte» disse. «Si tratta soprattutto di una questione politica. Temo di essermi lasciato guidare dal cinismo; pensavo che lo aveste capito. La questione è piuttosto
semplice; un tempo eravate un ufficiale dell'esercito e adesso non siete nessuno. Se è proprio necessario dare a qualcuno un potere straordinario perché coordini le difese della città, una nullità politica ovviamente è la scelta meno azzardata.» Gli rivolse un sorriso sgradevole. «Non c'è nessuna probabilità che vi schieriate con una fazione o l'altra e che vi insediate come dittatore militare. Noi politici dobbiamo considerare queste cose, capite? E» aggiunse con tono improvvisamente cortese «avete l'aria di essere abbastanza competente. Come ho detto un momento fa, in fondo si tratta di usare soprattutto il buon senso.» Il prefetto si allontanò per parlare con qualcun altro, probabilmente inconsapevole del cumulo di sanguinose maledizioni che aveva accumulato in pochi minuti. Loredan lo aveva cancellato fermamente dalla mente e aveva deciso di tentare di scivolare fuori e scendere in città e magari anche di passare da casa per un paio d'ore, quando si accorse che Alexius stava facendogli dei cenni. Con un piccolo sospiro attraversò la stanza. «Il prefetto stava spiegandomi perché sono stato scelto per l'incarico» disse Loredan. «A quanto pare dipende dal fatto che sono un signor nessuno. Con uomini come lui al comando, mi chiedo con stupore perché non abbiamo cercato di risolvere il problema facendo ricorso alla diplomazia. Sarebbe un meraviglioso ambasciatore.» «In effetti non smetto mai di stupirmi di quanto siano furbi gli idioti in questa città» rispose Alexius. «Più o meno conosco Bolerun da quindici anni. Ha passato tutta la vita per arrivare a salire su un palcoscenico che gli consentisse di dimostrarsi un completo fallimento nel modo più pubblico possibile.» Loredan sembrava perplesso. «Bolerun?» chiese. «Meinas Bolerun. Il prefetto della Città.» «Oh.» Loredan fece spallucce. «Vedete? Non so neanche come si chiama questa gente. In effetti, non so neppure se è prefetto da anni e anni o se è stato nominato il mese scorso. Non credo che ci sia molta gente che lo sa, se è per questo.» Alexius si mise una mano davanti alla bocca per nascondere uno sbadiglio. «Se può consolarvi» rispose «ora del tramonto, stasera, tutti in città sapranno chi siete voi.» «No» rispose Loredan in tono tetro. «Non mi consola affatto.» Pur sentendosi un po' intontito, Venart riuscì a ritrovare la strada della locanda (segui il tuo naso fino a quando arrivi al fiume, seconda a destra e
poi immediatamente a sinistra) e chiese una piccola brocca di sidro. Aveva scoperto che la corda era molto più interessante di quanto non sembrasse. In effetti la corda si era rivelata un soggetto di così multiforme complessità che un centinaio di studiosi che avessero dedicato la vita ad approfondirlo non sarebbero mai riusciti a ottenere altro che una vaga e fuorviante ombra di comprensione di quel grande miracolo che era la corda. Quella di Perimadeia, perlomeno; a casa sua la corda era spessa, media o sottile, liscia o pelosa, da quattro soldi e di cattiva qualità, o buona ma costosa, e questo era tutto ciò che ti occorreva sapere, a parte la quantità di corda che volevi. Due interi giorni passati su e giù per le vie dei cordai, però, gli avevano aperto gli occhi con il risultato che adesso sapeva un po' meno di quando aveva cominciato, ma almeno era perfettamente cosciente della misura della propria ignoranza. Inoltre, non aveva comperato un solo metro di corda. La prima cosa che avrebbe fatto il giorno dopo, promise a se stesso, sarebbe stato di uscire a comperare della corda. Qualunque tipo di corda, purché a buon mercato. Dopo tutto, se lui non capiva niente di corda lo stesso valeva per la gente a cui intendeva venderla. D'altro canto, rifletté mentre appoggiava la brocca vicino al parafuoco perché si scaldasse, grazie alle sue visite guidate adesso sapeva qualcosa che prima non sapeva e la conoscenza non è mai sprecata. Adesso sapeva che c'erano corde di lino, corde di giunchi, corde fatte con un misto di lino e giunchi, corde ricavate dal pelo dei più diversi animali (solo che non si chiamavano corde, e in quel momento non riusciva a ricordare il temine giusto), corde di seta, che costavano sorprendentemente poco, e corde da pochi soldi che alla fine si erano rivelate più costose di quanto fosse disposto a spendere; soprattutto c'era corda da carico, che era quella che lui voleva comperare e che tutti cercavano di vendergli. Era solo un dettaglio incidentale, il prezzo, che aveva impedito fino a quel momento la conclusione dell'affare. Si versò metà della brocca di sidro e bevve un paio di sorsi, godendosi l'insolito sapore della noce moscata; una tipica raffinatezza cittadina che gli piaceva molto. C'era qualcos'altro, realizzò; qualcosa mancava. Per essere precisi, sua sorella. Mise giù la brocca e si alzò in piedi, incerto sul da farsi. Il suo primo pensiero fu che le fosse successo qualcosa; una ragazza innocente, tutta sola in una città decadente e sofisticata. Che cosa gli era venuto in mente di lasciarla andare in giro da sola? Proprio mentre stava per abbandonarsi
all'iniziale attacco di panico, una voce razionale dentro di lui gli fece presente che Vetriz non era esattamente innocente e che era un dato di fatto che Perimadeia fosse un posto molto più sicuro per andarci a spasso, specie di notte, dell'Isola. C'era anche il problema di dove cominciare a cercarla in un luogo di quelle dimensioni. Sedette di nuovo e bevve un altro sorso di sidro per schiarirsi la mente. Eravamo d'accordo che sarebbe venuta direttamente qui, e questo avveniva quattro ore fa. A questo punto o è morta o è a fare compere. In entrambi i casi, continuò la irritantemente razionale voce interiore, le probabilità di trovarla andandosene semplicemente in giro su e giù per la città erano deprimentemente esili. Era molto più sensato starsene a sedere, e restare calmi e tranquilli fino a quando fosse tornata indietro. Venart non trovò obiezioni fondate da fare; quindi rimosse dalla mente l'immagine di sua sorella che moriva dissanguata riversa in un vicolo (chiamando flebilmente il suo nome con il proprio ultimo respiro, manco a dirsi) e dette fondo al sidro, che sarebbe stato uno spreco lasciare lì dopo averlo pagato. Era un sidro particolarmente buono, robusto ma che non dava alla testa ed era sul punto di ordinarne un'altra brocca quando udì una voce alta, musicale e familiare provenire dall'altra stanza. Balzò in piedi, inciampò in un cane che dormiva, imprecò e aprì la porta. Si trovò davanti sua sorella; e insieme a lei c'era un'altra ragazza, carina e dall'aria vagamente familiare. Il senso di sollievo, la necessità di comportarsi in modo urbano davanti a una sconosciuta e una piccola brocca di ottimo sidro fecero svanire la sua ira fraterna; si unì a loro con aria allegra. «Ciao, Ven» disse Vetriz. «Scusa, ma ho perso completamente la nozione del tempo. Sono andata a fare compere.» «Lo avevo immaginato» rispose Venart in tono casuale. «E...» «Questa è Athli» continuò Vetriz. La ragazza carina gli rivolse un sorriso educato. «Ricordi, l'abbiamo incontrata in quella taverna... Il giorno che mi portasti in tribunale.» Ah, certo, ecco chi era. L'assistente dell'avvocato. «Salve» disse Venart. «Lieto di rivedervi.» Era proprio graziosa, disse poi a se stesso mentre Vetriz spiegava che si erano casualmente imbattute una nell'altra al mercato dei cartolai e che Athli era stata così gentile da aiutarla nei suoi acquisti, ragione per cui l'aveva invitata a cena. Venart convenne che era il minimo che potevano fare per sdebitarsi e fece qualche debole battuta sul fatto di salvaguardare la reputazione di ospitalità dell'Isola. Un'altra parte
di se stesso stava domandandosi se in quella città fosse normale che ragazze nubili andassero a cenare di notte nelle taverne con conoscenti occasionali; una riflessione futile, decise, dato che ne aveva davanti una che si accingeva a fare proprio questo. Fu una buona cena, come peraltro era giusto aspettarsi in uno dei migliori alberghi della città; un piatto di quaglie arrosto con rotolini di burro bianco e soffice, seguito da una triglia rossa di considerevoli dimensioni cotta nei capperi e con una salsa di vino e infine l'inevitabile portata principale di Perimadeia, la tavola: un foglio rotondo, piatto e sottile di pane non lievitato, esattamente del medesimo diametro del tavolo intorno a cui erano seduti, sul quale i ragazzi che servivano scodellarono mestolate di una mistura strana e colorata, pescandola da grandi pentoloni fumanti. Venart e Vetriz riuscirono a fatica a consumare un terzo del piatto fra tutti e due, mentre la loro ospite spazzolò senza sforzo tutto il resto. Anzi, finì molto prima di loro e cominciò a raccomandargli per dopo le palline di pasta dolce in salsa di mirtilli, mentre loro stavano facendo appello alle ultime forze per finire il pezzo di pane che stringevano fra le dita. Per quanto spesso possa venire in questa città, si disse Venart, non riuscirò mai ad abituarmi alla quantità di cibo che mangiano; il che avrebbe reso un assedio interessante oltre a farne la più allettante opportunità commerciale di tutta una vita. La prima cosa da fare era distrarre Athli prima che potesse tornare sull'argomento delle palline di pasta dolce. Di conseguenza Venart lanciò un attacco preventivo e le chiese come andassero le cose nella professione legale. «Oh, più o meno come sempre» rispose Athli. «A essere sinceri, non ci occupiamo più di legge, adesso. Quello che voglio dire è che Loredan si è ritirato e ha aperto una scuola di scherma, per insegnare ai giovani avvocati come tirare di spada, e che io gli faccio da assistente.» Aggrottò la fronte. «Be', anche questo è un po' superato al momento. Adesso sta lavorando per il Consiglio di Sicurezza» aggiunse, in tono un po' dubbioso. «Vedete, abbiamo organizzato un attacco contro il campo, dove stanno costruendo le macchine da assedio. Sfortunatamente è andato tutto storto e un sacco dei nostri sono stati uccisi. È stato soprattutto per merito di Loredan se le perdite non sono state ancora più gravi.» Vetriz alzò lo sguardo di scatto. «Che meraviglia» disse. «Oh, dei, che cosa ho detto. Scusatemi. Quello che volevo dire era che è meraviglioso che sia l'eroe del momento e cose del genere. Quando saremo tornati a casa
potremo dire a tutti che...» «Vi prego, scusate mia sorella» la interruppe Venart. «La porto con me durante questi viaggi solo nella speranza che scateni una guerra.» Gettò un'occhiataccia a Vetriz attraverso la tavola e continuò. «Quanto è seria la situazione, secondo voi? Dovunque io sia stato la gente ne parla come della fine del mondo, eppure si comporta come se non stesse succedendo niente. A parte i prezzi, naturalmente; e anche in questo caso, comunque, le persone si comportano come se tutta la faccenda fosso solo un modo per stimolare il commercio.» Athli si strinse nelle spalle. «Molto sinceramente, non saprei che dirvi» affermò. «Non siamo mai stati in una situazione del genere fino a oggi. È difficile immaginare che qualcuno sia in grado di superare le mura, tanto meno una massa di gente che, diciamocelo, è poco più di un branco di selvaggi.» «Detto questo, saremmo dei pazzi a prendere la cosa seriamente.» Girò la faccia e guardò da un'altra parte. «Dopo tutto, sono riusciti a far fare la figura degli scemi a quelli della nostra forza di spedizione. Adesso dicono tutti che è successo perché i nostri generali erano riusciti a fare una grande confusione e a farsi trascinare in un'imboscata, per cui l'accaduto non può essere considerato una prova della loro capacità di renderci le cose difficili nel caso noi si riesca a evitare di fare stupidi errori, se capite cosa voglio dire.» Venart annuì. «Be'» disse «suppongo che solo il tempo ci darà la risposta. Sapete molto di questo popolo delle pianure? Immagino di sì, visto che avete già avuto problemi con loro in passato.» «No, non un granché» ammise Athli. «La verità e che non siamo mai più che blandamente curiosi a proposito di nessuno, a parte noi stessi. Fino a poco tempo fa, non ci saremmo mai sognati che potesse succedere una cosa del genere. In effetti, ci siamo mostrati piuttosto amichevoli nei loro confronti. C'erano perfino alcuni di loro che vivevano e lavoravano qui... Dopo tutto qui arriva gente da ogni parte del mondo e noi non ce ne curiamo.» Venart annuì. «La leggendaria tolleranza di Perimadeia» disse in tono sentenzioso. «A quanto sembra non si è rivelata una buona politica, in questo caso. Dopo tutto se di base sono dei selvaggi e adesso stanno costruendo macchine da assedio, deve essere stato qualcuno di qui a insegnargli come fare.» In risposta a quella osservazione ebbe un'occhiata gelida. «Che cosa
dovremmo fare?» ribatté Athli. «Tenere tutte le nostre conoscenze e abilità strettamente segrete per evitare che possano essere usate contro di noi? Siamo una nazione di commercianti e fabbricanti; se ci comportassimo così, moriremmo di fame. Lo stesso varrebbe se ci comportassimo da xenofobi. Voi dovreste apprezzare la cosa più di chiunque altro.» Un punto a suo favore, ammise Venart con se stesso; se non altro era stata abbastanza educata da non fare notare che quelli dell'Isola erano discendenti, al massimo di terza generazione, di una genia di pirati che aveva tentato svariate volte di attaccare la Città. Decise di cambiare argomento. «Parlando di commercio» disse «non è che per caso siete un po' esperta di corde?» Athli lo fissò e fece un risolino. «Abbastanza stranamente, sì» rispose. «Avevo un cliente regolare che commerciava in corde. Che cosa volete sapere?» Vetriz aveva lasciato che la sua attenzione si allentasse fin tanto che la conversazione aveva riguardato la politica; non appena cominciarono a parlare di corda (pelo di cavallo per la elasticità; il puro lino era meno costoso e quasi altrettanto valido, ma non bisognava lasciarsi convincere a comprare nulla fatto di quello che chiamavano filo da vela, perché in realtà non era puro lino) cominciò proprio a divagare. Ben presto, un po' per effetto del calore della stanza e un po' per il piacevole peso del cibo nello stomaco, cominciò a sonnecchiare... E improvvisamente si trovò da un'altra parte; una cosa abbastanza sconcertante, fino a che inconsciamente non registrò che si trattava di un sogno. Ciò che la confondeva di più era che continuava a trovarsi nella sala da pranzo dell'albergo, seduta a una tavola piena di briciole e pezzetti di cibo, e che c'erano Ven e la sua nuova amica, Athli, tuttora impegnati a parlare di corde e dimentichi di tutto il resto. Ma sedute intorno alla tavola c'erano anche altre persone, che riconobbe con facilità come se si trattasse di gente che conosceva bene. L'uomo alto con l'aria preoccupata era Bardas Loredan; be', lui effettivamente lo conosceva e anche, purtroppo, suo fratello Gorgas. Adesso che poteva vederli insieme l'aria di famiglia era evidente; non l'aveva notata in Gorgas prima, ma avevano lo stesso profilo e la stessa muscolatura possente nella mascella e, più palese di tutto, gli stessi occhi osservatori e sempre all'erta. Non c'era niente di romantico o anche solo di particolarmente attraente negli occhi di Loredan. Erano duri, ma non freddi, di un marrone piuttosto scuro (Athli aveva gli
occhi verdi, dannazione; certe ragazze avevano tutte le fortune) e nessuno dei due fratelli sembrava sbattere le palpebre con la stessa frequenza del resto della gente. Un'altra cosa curiosa; Gorgas le aveva detto che non rivolgeva più la parola a suo fratello più giovane e invece eccoli lì che chiacchieravano tranquillamente, esattamente nel modo in cui ci si aspetta che chiacchierino due fratelli. Era un peccato che non riuscisse a capire cosa stessero dicendo. Di qualunque argomento si trattasse, facilmente era più interessante della corda. E c'era una donna seduta a sinistra di Gorgas, fra lui e Ven; era anche lei una Loredan, con lo stesso naso e la stessa mascella (che su di lei non stava bene) e, inconfondibilmente, gli stessi occhi. Era più anziana di entrambi, ma troppo giovane per essere la loro madre, sicché Vetriz dedusse che era o una sorella maggiore, o una giovane zia. Probabilmente una sorella; la rassomiglianza era troppo marcata per dipendere da qualcosa di meno di una diretta linea di sangue. Non stava dicendo nulla e quando Vetriz decise di rivolgerle la parola, improvvisamente non c'era più. Vide al suo posto un giovanotto che non riconobbe affatto. Non aveva più di diciotto anni, ed era più basso, più biondo e più snello di tutti gli altri, con lineamenti piccoli e un po' tozzi che lo facevano sembrare ancora più giovane. Per qualche ragione sapeva che si trattava di un appartenente al popolo delle pianure e decise che si trovava lì nel sogno perché avevano parlato di loro e lei era caduta addormentata dopo una cena pesante. Lo studiò con interesse, non avendo mai incontrato prima un vero barbaro. A vederlo non era un granché e certo non aveva un'aria molto barbara; aveva i capelli un po' unti, ma ben pettinati... Magari il grasso era in realtà una specie di brillantina: non essendo in grado di sentire odori in quel sogno, non era in grado di dire se si trattasse di qualche tipo di olio profumato o pomata... E indossava una camicia dall'aria piuttosto ordinaria a maniche lunghe che, guardandola più da vicino, si rivelò essere di fine pelle di daino. Non riuscì a vedere cosa indossasse sulle gambe perché le teneva sotto il tavolo. A ogni modo, i suoi modi sembravano abbastanza civili; sedeva piuttosto composto, non aveva neanche messo i gomiti sul tavolo e sembrava prestare attenzione al grande dibattito sulla corda manifestando esplicitamente un educato interesse. Ha l'aria di un apprendista, decise Vetriz, che come segno di speciale benevolenza è stato autorizzato a cenare al tavolo del padrone. Non avendo nessun altro con cui parlare, decise di avviare una conversazione con il giovane barbaro. Sorrise e attirò la sua attenzione. Lui le
restituì il sorriso, con una certa galanteria. «Non ditemi che siete anche voi un appassionato di corda» si sentì dire. «Molte delle cose che dicono mi sfuggono» ammise. «Ma vale sempre la pena di ascoltare gente che parla di cose che conosce. Si può imparare parecchio in questo modo e la conoscenza non va mai sprecata.» Vetriz ridacchiò. «Parlate proprio come mio fratello» disse. «È uno dei suoi detti preferiti. In effetti, probabilmente è proprio per questo che ho sognato che lo citaste.» «Potreste benissimo avere ragione» replicò il barbaro. «Comunque, la corda è un argomento sul quale ho bisogno di imparare parecchio. Vedete, stiamo costruendo un mucchio di macchine a torsione, catapulte e quel genere di cose, ed è la corda che permette di piegare i bracci e di farle funzionare. Nessuno di noi ha la più pallida idea di quale sia il tipo di corda più adatto a questo scopo. Immagino che ci serva qualcosa di robusto e insieme di elastico.» «Ah.» Vetriz annuì. «Potrei esservi di aiuto in questo campo, perché proprio poco prima che perdessi interesse per i loro discorsi, quella ragazza stava dicendo a mio fratello che per la elasticità le corde migliori sono quelle di crine di cavallo... Ci capite qualcosa?» «Parecchio.» «Oh, bene, perché io invece non ci capisco nulla. Comunque, il crine di cavallo è il materiale migliore e, se non doveste trovarlo, il puro lino dovrebbe essere quasi altrettanto valido, mentre invece apparentemente bisogna evitare come la peste il filo da vela.» «Oh.» Il barbaro inarcò un po' le sopracciglia. «Questo è bizzarro, perché un uomo con cui mi è capitato di parlare all'arsenale mi ha detto che lui personalmente si serve proprio di spago da velai. Non che la cosa mi dica granché, perché non sarei in grado di riconoscere dello spago da velai neanche se ci faceste un cappio e mi ci appendeste per il collo.» Vetriz ridacchiò. «Che brutto pensiero» disse. «E adesso, se non vi dispiace, accantoniamo definitivamente l'argomento corda e parliamo di qualcosa d'altro, va bene? In effetti, vorrei farvi una domanda se la cosa non vi offende.» Il barbaro fece spallucce. «Prego» disse. «Va bene. Stavo proprio chiedendomi: che cos'è che non vi piace in questa città? Voglio dire, dovete proprio odiarla profondamente se vi prendete tutta questa briga solo per distruggerla. O il vostro popolo fondamentalmente si dedica proprio a questo genere di attività? È una
specie di componente fondamentale della vostra identità culturale?» «Niente affatto» ribatté il barbaro. «Voglio dire, ogni tanto combattiamo fra di noi, ma in linea di massima siamo gente piuttosto pacifica. Certamente non abbiamo una predilezione per il saccheggio e il massacro, a differenza dei vostri antenati; tutto quell'oro, argento, mobili e roba del genere sarebbero solo altrettanto peso morto da trasportare in giro, per noi. No, la questione con la Città è personale. È una cosa che deve essere fatta, tutto qui.» «Davvero?» Vetriz inarcò un sopracciglio. «E perché?» Il barbaro fece una smorfia. «Preferirei non parlarne» rispose. «Se proprio volete saperlo, perché non lo chiedete a quei due?» E prima che Vetriz avesse il tempo di chiedergli a quali due si riferisse anche lui era sparito e Venart stava scuotendola per una spalla (esattamente come aveva l'abitudine di fare quando erano bambini; una cosa che aveva sempre odiato) e dicendole di svegliarsi perché era tardi. «Non voglio svegliarmi» borbottò con voce assonnata, conscia che anche i fratelli Loredan erano spariti. «Quando è tardi si dorme. Ci si sveglia quando è presto.» Venart sospirò. «Come vi ho già detto» disse ad Athli, che stava sorridendo «dovete veramente scusare mia sorella. Dovrei smettere di portarla dappertutto.» Temrai, che stava sonnecchiando vicino al fuoco, si svegliò di colpo. «Crine di cavallo» disse. Zio Anakai gli lanciò un'occhiata da sopra il bordo della sua tazza. «Che cosa hai detto?» chiese. «Per le catapulte» spiegò Temrai. Scrollò la testa, sentendosi stordito; aveva bevuto troppo, decise. «Credo di essermene appena ricordato. Comunque è quello che dovremo utilizzare.» Anakai si strinse nelle spalle. «Sei tu il capo» disse. «Ed è un materiale di cui disponiamo in abbondanza, anche se ci vorrà un po' prima di persuadere la gente a lasciare che qualcuno si avvicini con un paio di forbici ai suoi preziosi purosangue.» Si massaggiò il mento. «Dovremo lanciare la moda delle criniere e delle code tagliate. Saranno d'accordo su qualunque cosa se sarà di moda.» «Buona idea» disse Temrai. Era vagamente consapevole di avere sognato; ma non ricordava mai niente dei sogni già un secondo dopo essersi svegliato. «Ci dedicheremo a questo come prima cosa domani
mattina» disse sbadigliando. «Per ora, penso che andrò a dormire. A quanto pare mi sono svegliato con una emicrania.» Zio Anakai sorrise. «Dormici sopra, allora» rispose. «Ti sei meritato una buona notte di riposo. Oh, a proposito, chi è Loriden?» «Non so» rispose Temrai aggrottando la fronte. «Dovrei saperlo?» «Continuavi a mormorare quel nome mentre dormivi. Ovviamente, deve trattarsi di qualche ragazza» aggiunse Zio Anakai con un sogghigno. «Dopo tutto è un nome da donna.» Temrai rifletté per un attimo, poi scrollò il capo. «Mai sentita» disse. CAPITOLO TREDICESIMO La mattina successiva, con la testa che gli ronzava e un mucchio di denaro alla cintura, Venart si diresse verso il distretto dei cordai. Era una delle cose che meritavano di essere viste a Perimadeia; un quartiere ampio, con vie spaziose; uno dei pochi posti della città dove era possibile vedere gli edifici senza avere in mezzo una interminabile processione di carri e carretti. Dato che c'era così poco traffico, vi regnava un'atmosfera pacifica, quasi da giardino pubblico, rovinata solo dal disgustoso odore della pece. Anche se le strade erano larghe, non era possibile camminare nel mezzo; bisognava avanzare rasente i muri cercando di non finire fra i piedi dei cordai mentre intrecciavano le loro matasse di corda, fissate a dei corti pilastri di legno da un lato all'altro della strada, unendo fra loro dieci, dodici e spesso addirittura trenta fili di cordicella sottile, per ottenere un'unica solida, affidabile fune. A prima vista il distretto aveva l'aspetto della ragnatela di un grosso e sudicio ragno. Alla luce delle nozioni recentemente acquisite, Venart aveva deciso di fare il suo ordine a un certo Vital Ortenan che ricordava essersi vantato della sua abilità nel fabbricare lunghe corde di crine di cavallo. Trovò Ortenan seduto fuori dalla sua bottega con i piedi appoggiati a una delle colonnine di legno e una tazza di sidro in mano. «Buon mattino» disse Venart in tono vivace. «Immagino vi ricordiate di me. Vorrei comperare della corda.» Ortenan lo fissò. «Sareste davvero fortunato» disse. «Scusate?» «Ho detto che sareste veramente fortunato se ci riusciste» rispose
Ortenan, grattandosi un orecchio. «Niente corda oggi, mi spiace.» Venart aggrottò la fronte. Conosceva quasi tutti i tradizionali trucchi per trattare sul prezzo, ma questo gli risultava nuovo. «Che cosa significa niente corda?» chiese. «Ieri ne avevate in negozio delle tonnellate.» «È vero» disse Ortenan. «Ieri. Poi, circa un'ora prima dell'orario di chiusura, si è presentato un gruppo di funzionari governativi e ha comperato tutto. Fino all'ultimo dannato millimetro.» Aggrottò le sopracciglia al pensiero. «Mi hanno dato un pezzo di carta su cui c'è scritto che sarò pagato in base alle tariffe ufficiali a tempo debito. In altre parole, mi hanno requisito la merce. Meraviglioso, vero?» «Ma...» Venart lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «E gli altri?» disse. «Certamente deve esserci qualcuno...» Ortenan scosse il capo. «Sono passati attraverso questo distretto come un branco di locuste» disse in tono tetro. «Ci hanno letteralmente ripuliti. Hanno detto che gli servivano corde per le catapulte» aggiunse, come se fosse la cosa più idiota che avesse mai sentito in vita sua. «Quindi, amico, temo sia il vostro giorno sfortunato. Avreste dovuto fare un contratto ieri, come vi avevo detto. Così voi avreste la vostra corda e io il mio denaro.» Venart rifletté per un attimo. «Va bene» disse. «Perché non fabbricate un altro po' di corda invece di starvene seduto lì? Vi hanno preso anche tutta la materia prima?» «No» rispose Ortenan. «Ma perché dovrei prendermi questa briga? Qualunque cosa fabbrichi deve automaticamente essere venduta al governo, altrimenti mi getterebbero in galera con un'accusa di sodomia... Sapete, per via del cosiddetto stato di emergenza.» Arricciò le labbra e sputò. «Be', sanno quello che devono fare. Quando vedrò un po' di soldi... Veri soldi, non questo pezzo di carta... Allora, forse, prenderò in considerazione l'idea di fare un altro po' di corda. Fino ad allora, possono andare a masturbarsi. La materia prima non marcirà solo per il fatto di starsene chiusa in magazzino una settimana.» Un breve giro del quartiere confermò ciò che Ortenan aveva detto. Non c'era niente da comperare, a parte qualche centinaio di metri di robaccia ammuffita e marcia che anche i funzionari governativi avevano rifiutato e Venart decise che non avrebbe saputo che farsene. Scornato, fece ritorno alla locanda. «Questa è una vera seccatura» disse Vetriz quando glielo raccontò. «Specie dopo che hai speso tanto tempo ed energie per informarti in
materia, quando invece se fossi solo entrato in un posto a caso e avessi comperato la prima cosa che ti capitava sotto gli occhi, adesso avresti qualcosa di molto simile a un monopolio della corda e potresti chiedere qualunque prezzo.» Venart inarcò le sopracciglia guardandola male, il che la fece ridacchiare. «Sono felice che trovi il tutto così divertente» scattò lui. «Spero solo che troverai motivo di continuare a ridere fino a farti scoppiare quella sciocca testolina anche quando torneremo a casa con le stive vuote.» «Ma non lo faremo, vero?» rispose Vetriz. «Tutto quello che dobbiamo fare è comperare qualcosa d'altro. O non ci avevi pensato?» Venart si sedette e sfilò lo stivale sinistro; ci si era infilato qualcosa che gli faceva male mentre ritornava dal distretto dei cordai. «Oh, sì, e cosa avresti in mente, per la precisione? O per caso hai fatto segretamente un'approfondita analisi del mercato mentre io ero in giro a spaccarmi la schiena per divertimento, solo per permetterti...» «C'è un mucchio di cose che possiamo comperare» disse Vetriz, con un'aria di sufficienza veramente irritante. «A patto di spuntare il giusto prezzo.» «Molto bene. Suggerisci qualcosa.» Vetriz annuì. «Arazzi» disse prontamente.» «Arazzi?» «Arazzi.» Si studiò le unghie per un po' prima di continuare. «Da dove arrivano tutti gli arazzi che ci sono sull'Isola?» Venart ci pensò per un attimo. «Blemmyra» disse. «Direttamente» aggiunse. «Molto bene. Ma quello che non hai notato, perché sei stato troppo impegnato a rimuginare su questo, quello e quell'altro a dodici trefoli di puro lino, è che gli arazzi di Blemmyra che vendono qui sono migliori di quelli che troviamo a casa nostra e costano un terzo.» «Oh.» Venart si grattò la testa. «Sei sicura?» chiese. «Sicuro che sono sicura. Ne stavo cercando uno ieri, per sostituire quel pezzo di straccio ammuffito che sta appeso al muro della mia stanza da letto. Per caso ho notato il prezzo e ho chiesto spiegazioni ad Athli, che mi ha spiegato come stanno le cose. Vedi, quelli di Blemmyra comperano tutto il loro vino nel Mesoge, ma spediscono loro stessi i barili, per risparmiare denaro e le doghe dei barili sono così meno costose qui che a casa loro perché gli Hesichiani le usano come zavorra sulle loro enormi navi da carico. Quindi le doghe per i barili costano quasi nulla a quelli di
Perimadeia, il che significa che possono permettersi di vendere gli arazzi che ricevono in cambio dalla gente di Blemmyra a un prezzo molto più basso di quello che paghiamo noi sull'Isola; e dato che sono molto più sofisticati di noi, insistono per avere i pezzi migliori e a noi restano gli arazzi scartati da quelli di Perimadeia.» Sbadigliò. «Si chiama commercio internazionale» disse con intollerabile supponenza. «Quando avrai finito di studiare i vari tipi di corda, faresti bene a informarti.» «Arazzi» disse Venart. «Fantastico. E hai provato a calcolare più o meno di quanti potremmo poi liberarci, una volta tornati nella nostra piccola, strana, stagnante patria? Non si tratta esattamente di un grande volume di vendite, non è vero?» «Potrebbe esserlo» ribatté Vetriz «se si trattasse di bel materiale e il prezzo fosse onesto. Non mi meraviglio che la nostra gente non voglia pagare un occhio per robaccia di seconda mano. D'altro canto, se si trattasse di arazzi come si deve...» Venart scosse la testa. «Non ho intenzione di scommettere il capitale che ci serve per lavorare su una teoria che tu e la tuo nuova amichetta avete elaborato mentre eravate in giro a fare compere» borbottò. «Quello che ho intenzione di fare è di andare a trovare quell'uomo, Bardas Loredan, se ci riesco.» «Loredan?» Vetriz alzò lo sguardo di scatto. «Perché?» «Perché è la sola persona che conosciamo nel governo» rispose. «Prova a pensarci, vuoi? Stanno comperando tutta la corda che esiste in città; ma molta di essa non è adatta per le catapulte, quindi presumibilmente rivenderanno sul mercato tutta quella di cui non sapranno che farsene. A meno che» proseguì con un sorrisetto furbesco «qualcuno non gli faccia prima un'offerta per tutto il lotto. Surplus di corda di proprietà governativa a pochi soldi, della migliore qualità, alla portata di un acquirente previdente... Il segreto del commercio internazionale sta nel essere capaci di vedere l'opportunità che si nasconde in seno a ciascun disastro. Più» aggiunse «un po' di conoscenza dei beni che si commerciano. Nel mio caso, la corda. Ci vediamo dopo, non andartene a zonzo.» Quando lo aveva spiegato a Vetriz era sembrato un argomento inoppugnabile. Era ancora un buon punto di vista ora che ebbe raggiunto gli edifici del Consiglio. Dopo che ebbe attesa un'ora fuori dall'ufficio di un funzionario solo per ricevere un cartellino che gli avrebbe permesso di vederne un altro che si trovava al capo opposto dello stesso edificio, non
era altro che un opinabile progetto e arrivò al punto in cui avrebbe scambiato volentieri tutti i suoi teorici guadagni futuri derivanti dall'affare della corda, per una mappa dell'edificio che indicasse chiaramente le uscite. Proprio in quel momento per poco non andò a sbattere contro qualcuno che gli sembrò di riconoscere. «Scusate» disse quello. «Non stavo guardando dove mettevo i piedi.» «Voi siete Bardas Loredan» rispose Venart. «Ero proprio venuto per incontrare voi.» «Be', eccomi qui» disse Loredan. «Credo di avervi già visto da qualche parte, ma non riesco a ricordare esattamente...» «Ci siamo conosciuti in una taverna» rispose Venart. «Ero con mia sorella. Avevate appena combattuto in giudizio contro un uomo di nome Alvise.» Loredan sorrise. «Ah, ecco» disse. «Mi sembrava che aveste qualcosa a che fare con una taverna, ma in genere cerco deliberatamente di dimenticare quasi tutti quelli che conosco nelle taverne. Che cosa posso fare per voi?» Improvvisamente lo slancio commerciale che aveva infuocato Venart, si spense. Quello che stava per suggerire era probabilmente illegale; certamente era un'idea di cattivo gusto e moralmente ripugnante. Era anche una mossa enormemente miope; aveva un contatto al massimo livello nel governo cittadino e adesso rischiava di alienarselo per scommettere sulla opportunità di spuntare un piccolo guadagno rapido su un carico di corda. Tuttavia, ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Fece un respiro profondo e si lanciò nelle sue considerazioni commerciali, facendo del proprio meglio per riempire il discorso di frasi tipo se pensate che sia una cosa possibile e a patto che sia tutto regolare. Alla fine si fermò e rimase ad aspettare che Loredan chiamasse le guardie, spostandosi nervosamente da un piede all'altro. «Be'» disse Loredan dopo un attimo «certamente mi aiuterebbe a tirarmi fuori da una posizione imbarazzante. Quei pagliacci dell'Ufficio del Quartiermastro dovevano soltanto fare un inventario, non portare qui carrettate di corda; sicché stavamo per l'appunto chiedendoci se restituire quella che non ci serve, il che non sarebbe affatto facile visto che non si sono presi la briga di segnare su ogni barile da dove proveniva ciascun lotto, o se pagare tutte le ricevute quando i cordai si fossero presentati a esigere il loro denaro. Tutte e due le ipotesi sono comunque problematiche, quindi vendere tutto il materiale in eccesso mi sembra una buona
idea.» S'interruppe. «Avete detto che volete comprare tutto il lotto o solo una parte? Per essere franco sarei molto più incline ad accettare la vostra proposta se in questo modo potessi liberarmi in una sola volta di tutta la corda in eccesso.» Venart si leccò le labbra, che nel frattempo erano diventate secche. «Sarei certamente interessato a comperare l'intero lotto» disse, ignorando deliberatamente le proteste che sentiva echeggiare nel retro della sua mente. «Naturalmente dipenderebbe molto dal... Be', dal prezzo.» Loredan annuì. «Dovremmo attenerci strettamente alle valutazioni dei funzionari» disse. «I requisitori del Quartiermastro danno un prezzo a tutto quello che poi dovremo pagare. Voi ci date quello e noi possiamo pareggiare i nostri libri contabili e dimenticarci che la cosa sia mai accaduta. A quanto ho capito la pratica abituale per gli acquisti governativi è quella di dividere in due la differenza fra il costo di produzione e il prezzo che il venditore avrebbe effettivamente spuntato vendendo il materiale sul mercato. Spero che vi vada bene, perché non oserei comunque scendere di più.» Tutta la corda inedia e grossa di Perimadeia, a meno del prezzo di mercato... «Va bene» mormorò Venart. «Sì, la proposta mi soddisfa.» Loredan sembrò veramente sollevato. «Una cosa in meno di cui debbo preoccuparmi, allora» disse, massaggiandosi le tempie come se avesse mal di testa. «Una vera fortuna che vi sia andato a sbattere contro. Oh, un'altra cosa. Se poteste farci avere un venticinque per cento diciamo all'acquisto e il saldo nell'arco di un mese, questo aiuterebbe a concludere l'affare. Sapete, nella mia mente comincio a confondere gli amministratori e i nemici. Mi terrorizzano entrambi, ma gli amministratori sanno dove abito.» Venart, che aveva già cominciato a valutare quanto rapidamente sarebbe riuscito a farsi dare il cento per cento della somma ipotecando la sua nave, deglutì a fatica e disse: «Questo non è un problema.» «Sicuro?» «Probabilmente potrei darvi un venticinque per cento anche subito, se la cosa può servire. Subordinato all'effettiva verifica del prezzo» aggiunse immediatamente. «Splendido» rispose Loredan. Chiuse gli occhi e li riaprì un attimo dopo, come se la luce lo infastidisse. «Ho un po' di emicrania mattutina» spiegò. «Sentite, se avete tempo possiamo andare immediatamente all'Ufficio del
Quartiermastro e fare preparare subito le carte. Vi va bene, o avete fretta di andare da qualche altra parte?» Gli dei benedicano i servizi governativi, disse Venart a se stesso mentre seguiva Loredan attraverso il labirinto da topi di corridoi e chiostri che era l'interno dell'edificio. Gli inefficienti, pasticcioni, inesauribilmente ricchi servizi governativi. Posso riuscire a vendere l'intero lotto prima ancora di dovere pagare il saldo. Mi domando se ci sia nessun altro bene di cui hanno del surplus? «Faranno la valutazione oggi» disse a Vetriz quando fu ritornato in albergo «e ci consegneranno il materiale domani. Ce lo porteranno addirittura giù ai moli con i carri e ce lo caricheranno a bordo. Incredibile, vero? E hanno accettato come acconto il contante che avevo con me, per cui non appena la corda sarà a bordo potremo tornare a casa e cominciare a venderla. Ha dell'irreale» aggiunse «il modo in cui è andata tutta la faccenda, è abbastanza da farmi venire voglia di credere ai miracoli.» «Oh, bene» rispose Vetriz. «Allora hai speso tutto il denaro?» «Naturale che ho speso tutto il denaro. Pensi che mi sarei lasciato sfuggire dalle mani un'occasione come questa solo per tenere un po' di soldi da parte?» Vetriz annuì. «Capisco» disse. «Il risultato è che ti sei accordato per comprare tutta la corda della città, salvo quella di buona qualità che si tengono perché serve per le catapulte e che non sai neppure quale sarà il prezzo. E adesso non ci è rimasto il becco di un quattrino per provare la mia idea a proposito degli arazzi. Fantastico. Sei tu l'uomo d'affari.» Per amore del quieto vivere Venart decise di fare finta di non avere sentito. «E se funzionerà» continuò «chissà, potremmo riuscire a ripetere l'operazione con qualcosa d'altro. Apparentemente l'Ufficio del Quartiermastro è praticamente fuori controllo; stanno accumulando materiale a destra, a sinistra e al centro e rifilando ricevute a tutti i mercanti. Prova solo a pensare a che cosa potrebbero requisire la prossima volta: legno, chiodi, ghisa...» «Hai detto che Loredan aveva l'emicrania?» lo interruppe Vetriz. «Cosa? Oh, sì, credo di sì. Probabilmente spiega perché voleva concludere tutto in fretta: in modo da potere andare a stendersi. Che cosa diavolo c'entra questo?» Vetriz fece spallucce. «Ero solo interessata, tutto qua. Mi pare di ricordare di avere avuto un brutto mal di testa il giorno che andammo dal
Patriarca.» «Uh? Be', sfortuna. Come mi dispiace. Probabilmente deve avere qualcosa a che fare con il tempo; ci sarà un temporale in arrivo o qualcosa del genere. Dannazione, Vetriz, pensavo che saresti stata contenta del contratto che ho concluso.» «Oh, ma lo sono, davvero» rispose lei in tono assente. «Molto ben fatto, e speriamo che non vada storto visto che ci è costato tutto il nostro denaro. È buffo che prima tu abbia parlato di miracoli. A quanto pare, stiamo attraversando un periodo fortunato.» Fece un sorrisetto. «Forse quel caro Patriarca ci ha fatto un incantesimo. Non sarebbe divertente?» Dalla sommità dell'altura che si affacciava sul nuovo campo, Temrai riusciva a vedere la Città. In uno strano modo era un po' come tornare a casa. Con una mano stava giocherellando con un paio di gettoni da contabilità; bottino strappato a una carovana di mercanti che avevano commesso l'errore di pensare che le voci sulla avanzata dei clan fossero le solite chiacchiere irresponsabili. Era stato un colpo di fortuna; una serie di gettoni e una tavola per fare i conti probabilmente una volta che la loro avventura fosse cominciata si sarebbero dimostrati altrettanto utili di cinquecento arcieri. Aveva imparato la base della contabilità mentre era in città; l'impiegato amministrativo dell'arsenale era stato più che contento di mostrare le sue conoscenze a qualcuno interessato. Una simpatica e assai utile caratteristica tipica di Perimadeia, era questa urgenza di divulgare utili conoscenze. Fra l'altro erano anche degli oggettini graziosi. Su una faccia c'era lo stemma della città; sull'altra, più o meno precisamente riprodotta, la vista che aveva davanti in quel momento: la Città in tutta la sua forza pittoresca, orgogliosa come un castellano dietro le sue mura impenetrabili, con il mare alle spalle e il fiume che fungeva da fossato e manteneva a distanza gli incontrollabili abitanti dell'interno. Be', disse a se stesso, terrò questi gettoni da parte, per il caso che qualcuno negli anni a venire desideri sapere che aspetto aveva la città prima che Temrai la radesse al suolo. Temrai; Temrai il cosa? Temrai il Grande, Temrai il Magnifico, Temrai il Terribile, Temrai il Crudele... Sarebbe stato contento di Temrai Primo o anche solo di Temrai e basta. Ma un Temrai e basta non avrebbe distrutto la più grande città del mondo. Ammesso che la cosa risultasse possibile, naturalmente. Non c'era
nessuna garanzia; il pensiero di potere fallire era quasi rassicurante, perché se avesse fallito non avrebbe dovuto diventare Temrai il Saccheggiatore di Città, Temrai il Macellaio. Perché non Temrai l'Ingegnere? Il suono di quell'appellativo gli piaceva assai più che non Temrai il Grande e certamente più di Temrai il Massacratore. Quanto a Temrai Che-cercò-di-ingoiare-un-boccone-troppogrosso-per-lui, non era certo quello il genere di immortalità che si augurava. Sotto di lui, davanti alla sua tenda, un gruppo di bambini stava intrecciano un tappeto (i tappeti, inzuppati d'acqua e gettati sopra le strutture delle torri da assedio, avrebbero contrastato i tentativi del nemico di darle alle fiamme con frecce incendiarie o, perlomeno, quello era il piano). Stavano lavorando su un grosso telaio verticale, seduti su un'asse appoggiata ai pioli di due scale in modo da potere venire alzata a mano a mano che il lavoro progrediva. I bambini passavano il filo della trama in mezzo alle file di nodi muovendo con precisione le piccole mani, assai più rapidamente di quanto avrebbe potuto fare un adulto. Davanti a loro l'anziana donna che sovrintendeva il lavoro cantava i vari punti che venivano dati e i bambini li ripetevano dopo di lei, come se stessero imparando una lezione. Anche se si trattava di un oggetto con compiti esclusivamente militari, destinato a essere trapassato e bruciato, la vecchia non poteva fare a meno di tracciarvi un disegno; probabilmente non conosceva nessun altro modo di fare il lavoro: ci sarebbe voluto più tempo a capire come farlo senza decorazioni che a tracciare il disegno. Temrai non poté fare a meno di convenire che si trattava di una situazione ben strana quando anche le vecchie, i bambini, e i tappeti andavano in guerra. Temrai il Tessitore di Tappeti... Si voltò e fissò di nuovo la Città, come se potesse liquefare quelle mura con la forza dello sguardo. Magari un giorno avrebbero sostenuto che fosse proprio questo ciò che era successo. Più o meno; e se i desideri avessero potuto trasformarsi in macchine da assedio, lui sarebbe stato un tronco grande e grosso. Per una sola mattina, aveva già sognato abbastanza a occhi aperti; c'era del lavoro da fare. Raccontacelo ancora, nonna; raccontaci come, quando eri una bambina, hai aiutato a tessere tappeti in modo che Temrai potesse saccheggiare la città... Sul lato del campo che dava sul fiume c'era qualcosa di cui sentiva di poter essere davvero orgoglioso; una fila di trabucchi ancora scintillanti per la pece che sarebbe servito a renderli impermeabili, impedendo così
che le giunture si gonfiassero e saltassero; Erano come un branco di cavalli selvaggi in un recinto, in attesa di essere domati, con i bracci dritti nell'aria e le cinghie che servivano a trattenere le pietre avvolte intorno, come bandiere ripiegate in attesa che venisse suonata la carica. Ciascuno di loro poteva lanciare una pietra di duecentocinquanta chili a quasi trecento metri di distanza, anche se il ritmo di tiro era lento in confronto a una macchina a torsione e ci voleva un numero decisamente elevato di uomini per tirare le corde che consentivano di sollevare la pietra da duecento chili che faceva da contrappeso. Le macchine a torsione sarebbero state pronte ben presto (non appena fossero riusciti a fabbricare le funi; oh, diavolo, come faremo a fare quelle dannate funi? Così tanto crine di cavallo e così poco tempo) e le varie parti che formavano arieti e torri erano ordinatamente impilate, pronte per il montaggio. Il resto dell'equipaggiamento, le cose che il nemico per il momento non doveva vedere, stavano scendendo lungo il fiume, tutte fatte su in teli in modo da nasconderne la forma. Ben presto avrebbero avuto quasi abbastanza frecce (di legno verde e con piumette d'anatra; saremo un esercito veramente comico), abbastanza archi, armature, cavalli, cibo, camice, stivali, cinture, elmi, spade, lacci per fissare gli elmi, terrecotte... Abbastanza di tutte le dannate cose che erano necessarie per fare una guerra. Ora aveva perfino qualcuno con l'incarico di contarli tutti quanti; ci sarebbe stato un vero e proprio censimento del clan, per la prima volta. Ben presto avrebbe fatto scattare la grande macchina che aveva costruito e caricato e niente sarebbe più stato come prima. Avrebbe potuto andare peggio, rifletté sobriamente. Avrei potuto abitare ancora nella Città al momento dell'attacco. Qualcuno alle sue spalle tossì educatamente; era il giovane... Non riusciva a ricordarsi il nome... Che stava disegnando le mappe. Sembrava molto orgoglioso del suo lavoro e a ragione: le informazioni erano disegnate con cura, in modo chiaro e netto, sulla pergamena; con un'occhiata si poteva valutare tutto quello che era necessario sulle caratteristiche del suolo. Gli rivolse un sorriso di incoraggiamento; il ragazzo lo ringraziò e si portò le mappe giù per la collina, verso la tenda del comando, dove il consiglio di guerra era in attesa. Era ora che li raggiungesse anche lui; un'altra riunione, la terza quel giorno... Ragazzo? Dei del cielo, quel giovanotto è più vecchio di me; eppure aveva un atteggiamento così deferente, così pieno di rispetto. In cosa mi sto trasformando esattamente, preso come sono da tutta questa storica
attività? Zio Anakai si alzò in piedi quando Temrai entrò, scostando il bordo della tenda. Quello sì che sembrava molto strano e neanche molto appropriato, ma Zio An lo aveva fatto istintivamente. Forse sa qualcosa che io non so, rifletté Temrai, decidendo di non lasciare che la cosa lo preoccupasse. Sedette sul pavimento, sbadigliò e chiese se ci fosse qualcosa da mangiare. «Qualunque cosa che non sia anatra salata» aggiunse, mentre Mivren si chinava per sollevare il coperchio del proprio cestino. «Mangiare troppo di una cosa buona, è cosa pessima; troppa anatra salata è una cosa... Forza, dev'esserci un po' di formaggio o qualcosa d'altro.» Qualcuno gli allungò un pezzo di formaggio e una mela. Assaltò il cibo mentre i responsabili dei vari dipartimenti riferivano i loro progressi. In linea di massima le notizie erano buone; problemi che solo ieri erano sembrati insormontabili, oggi parevano molto più risolvibili, le varie squadre di lavoro stavano riuscendo a cooperare e nessuno aveva ancora chiesto Perché stiamo facendo tutto ciò? I fabbricanti di frecce erano riusciti in qualche modo a trasformare il legno verde in aste accettabili, che avrebbero volato diritto. Proprio quando sembrava che stessero per rimanere senza pelli con cui costruire i tetti degli arieti e delle torri da assedio, una squadra di cacciatori di cui tutti si erano dimenticati da settimane era sbucata all'improvviso nel campo a valle con quaranta muli carichi di pelli non conciate di renna... Per pur caso si erano imbattuti in un branco di una specie di grosse renne che si facevano vive da questa parte delle pianure solo una volta ogni quaranta anni o giù di lì; le renne erano completamente disabituate a vedere uomini e stavano ferme a farsi riempire di frecce, fissando con vitrea perplessità le proprie simili che cadevano tutto intorno. Un altro gruppo aveva trovato una grande quantità di cespugli di vimini in un boschetto davanti al quale il clan era passato per anni senza mai realizzare che ci fossero; quella materia prima, perfetta per intrecciare scudi e cesti era in quantità maggiore di quella che avrebbero potuto usare in un'intera generazione. Una piena improvvisa da qualche parte a monte aveva provocato una deviazione del fiume; dove il letto era rimasto esposto all'aria per la prima volta da secoli, una squadra in esplorazione aveva trovato un deposito di argilla di prima qualità, perfetta per fabbricare i recipienti zigrinati e con le pareti sottili che Temrai aveva chiesto per questa sua arma segreta di cui nessuno poteva sapere ancora nulla. Proprio
quando stavano per rinunciare a immaginare come procurarsi un grosso carico di nafta, un loro gruppo di scorridori aveva teso un'imboscata a una carovana di mercanti che trasportava dieci carri pieni di quel materiale. Quando i mercanti non solo avevano realizzato che non sarebbero stati orribilmente uccisi, ma si erano anzi sentiti chiedere di fare al clan una stabile fornitura di nafta per un giusto prezzo, si erano mostrati entusiasti di cooperare; il risultato era stato un accordo decisamente soddisfacente: ambra grezza in cambio del combustibile e i mercanti avevano fatto la loro prima consegna al campo più a valle due giorni prima. Era abbastanza, rilevò qualcuno, da indurre a credere ai miracoli. Temrai stette a sentire tutte quelle buone notizie, ci pensò su per un po' e poi annunciò che a quel ritmo sarebbero stati in grado di trasferirsi tutti al campo da cui sarebbe stato lanciato l'assalto nel giro di un paio di settimane. Qualcuno sostenne che due settimane voleva dire precipitare le cose: non si poteva fare venti giorni? Qualcun altro disse che invece avrebbero probabilmente potuto rispettare la scadenza di due settimane se tutti si fossero dati veramente da fare. Ci fu una breve discussione; il compromesso raggiunto fu sedici giorni a partire da oggi, che avrebbe voluto anche dire luna piena, ideale per la marcia notturna che avrebbero dovuto affrontare se volevano garantirsi un'ulteriore possibilità di sorpresa. Con la luna piena, allora: d'accordo? E questo fu tutto; Temrai il Grande aveva parlato. E questo, disse Temrai a se stesso mentre la riunione si scioglieva, è il modo in cui succedono le cose. Bizzarro; suppongo di avere preso io la decisione, anche se ricordo che me ne stavo seduto con la bocca piena di formaggio quando qualcun altro ha detto «Con la luna piena, allora». E ora è deciso e in un modo o nell'altro quello che deve succedere, succederà. E sarà pur sempre tutta mia la responsabilità. Il merito o la colpa. Comunque vada. Scostò il bordo della tenda e sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce del giorno; un attimo dopo un uomo corse da lui per dirgli che era urgentemente richiesta la sua presenza per risolvere un problema tecnico con le manovelle di riavvolgimento dei mangani. Ah. Qualcosa d'altro da risolvere alla meglio. Questo era più da lui. Annuì, buttò via il torsolo della mela e chiese al messaggero di fargli strada. «E quello che cosa sarebbe?» chiese Loredan.
L'ingegnere gli rivolse uno sguardo ferito. «È il verricello dell'argano del ponte levatoio» rispose. «Funziona perfettamente. L'ho controllato personalmente appena l'altro ieri.» «Capisco» disse Loredan, colpendolo con un calcetto. La struttura di legno vibrò e se ne staccò qualche pezzo. «Fatelo riparare» disse stancamente. «Come si deve, questa volta. E non state a spiegarmi perché sarà difficile, perché tanto non lo voglio sapere.» Da lassù, in cima alla torre che proteggeva la porta del versante occidentale, riuscì a vedere un lampo di luce che proveniva da un'altura, sette o otto chilometri in lontananza lungo il fiume; la punta di una lancia o un elmo, o forse solo una pentola tirata a lucido, che aveva riflesso la luce del sole proprio mentre lui stava guardando in quella direzione. Fece una smorfia e con la mano mimò il gesto di togliersi il cappello per un saluto cortese. A parte alcuni residui lavoretti, come aggiustare l'attrezzatura che aveva appena notato e qualche altro rattoppo qua e là, erano pronti quanto avrebbero mai potuto esserlo. Da dove si trovava poteva vedere i muratori che stavano smantellando le impalcature intorno ai nuovi bastioni, audacemente scavati nella viva roccia di quella parte del letto del fiume; era stato un progetto coraggioso e ambizioso e a quanto pareva aveva funzionato (se non altro le mura non erano ancora crollate). Due catapulte su ciascun lato di quella nuova, semplice barriera di pietra avevano a disposizione un spazio di tiro molto più ampio e coprivano due notori punti ciechi, spostando in avanti con efficacia di un'altra settantina di metri la zona di sicurezza. Questo significava che qualunque cosa nel raggio di quattrocento metri dalle mura era a portata di tiro e non c'erano molti arcieri che in un torneo potessero scagliare frecce a più di trecento metri, tanto meno nel bel mezzo di una battaglia, con pietre da centinaia di chili che piovevano tutt'intorno. Si concesse un attimo per ammirare la nuova opera muraria; senza segni del tempo, con tutti i profili ancora affilati e non erosi, la malta fra i blocchi ancora un po' scura nei punti in cui non si era asciugata del tutto. Quei suoi bastioni erano la prima aggiunta importante alle mura da... Quanto? Un secolo? Un secolo e mezzo? Era bello pensare che nel giro di un altro secolo la gente li avrebbe indicati chiamandoli "le difese di Loredan" e magari qualcuno avrebbe raccontato ai visitatori stupiti e affascinati un po' della guerra combattuta da Loredan e come il nemico non avesse avuto nessuna possibilità fin dall'inizio...
Prova un po' ad ascoltarti! Stai perfino cominciando a pensare come uno del governo. S'inchinò e afferrò un battente di legno, che faceva parte dei pezzi necessari a montare una nuova macchina che doveva essere installata quel pomeriggio. Non riuscì a piegarlo; sarebbe andato bene. Si rialzò, guardò lontano, visualizzò l'arco di tiro da quel punto, cercò di immaginare come si sarebbe presentato il muro quando la macchina e la gru per tirare su le munizioni fossero state al loro posto, chiedendosi se sarebbe rimasto abbastanza spazio per accedere confortevolmente al camminatoio dei bastioni. Gli intasi da traffico sulle mura nel bel mezzo di un assalto, erano una complicazione con la quale non aveva intenzione di misurarsi in seguito. Come usava dire Maxen, la peggiore cosa che un generale possa dire è: non ci avevo pensato. Improvvisamente gli tornò in mente Maxen; così chiaramente che poteva quasi vederlo, come se fosse stato lì in piedi sulle mura accanto a lui. Ricordò il suo volto largo e un po' rotondo e la sua barba, che non cresceva mai più di un paio di centimetri, con una macchia quasi senza peli proprio in mezzo al mento, dove in pratica non crescevano affatto. Ricordò il suo modo di starsene in silenzio per un secondo, un secondo e mezzo dopo che gli avevi detto qualcosa; poi l'invariabile cenno del capo: un po' in avanti e un po' di lato, sempre il medesimo sia che tu gli avessi detto che il campo era appena stato attaccato sia che la zuppa era pronta. Si domandò che cosa avrebbe fatto Maxen se si fosse trovato al comando di quelle fortificazioni e si augurò che sarebbe stato in larga parte quello che aveva fatto lui, pur dubitandone. E poi pensò: tutto questo è colpa di Maxen, a volere dire le cose come stanno. Colpa di Maxen per avere fatto il suo lavoro nel modo migliore in cui poteva essere fatto stante le risorse che aveva a disposizione: per averlo fatto eroicamente bene; ma se quel lavoro non fosse stato necessario, se non avesse dovuto essere svolto affatto? Se adesso era sicuro nascondersi dietro le mura, allora doveva esserlo stato anche in passato: non c'era stato alcun bisogno di portare la guerra nelle pianure, non c'era stata ragione di fare quello che avevano fatto. Avevano smesso di farlo all'improvviso e non era successo niente; non si erano trovati tutto d'un colpo in ginocchio a strisciare davanti a selvaggi urlanti che, dopo avere abbattuto le porte, volevano portarsi vie le donne e le tovaglie di lino. Ma Maxen aveva fatto il suo lavoro, senza fare mai notare a nessuno che forse era superfluo; perché era questo che era Maxen, il solo e unico generale della Città. Era rimasto anni e anni nelle pianure, a gettare via la
sua vita e quelle di tanti altri solo perché non c'era niente altro che fosse capace di fare? Perché non riusciva ad accettare l'idea di dovere lasciare l'esercito a cinquanta anni suonati e di doversi trovare un vero lavoro? Che genere di uomo fa una cosa simile? Dedica la sua vita a distruggere quelle di altri solo perché è l'unico modo che conosce per guadagnarsi da vivere? Loredan considerò le implicazioni di tutto ciò. Sì, ma io mi sono ritirato. O almeno ci ho provato. Mi sono sforzato di piantarla con quel tipo di lavoro e adesso eccomi qui con le vite di tutta la città e di tutti i clan sul palmo della mano. Dei, se avessi ancora un po' di senso dell'umorismo troverei la cosa divertente. Sentì che c'era qualcuno dietro di lui; il tramestio di pesanti stivali. Riconobbe il rumore. «Quasi fatto» disse l'ingegnere, Garantzes, sbuffando per la fatica di avere salito le scale dal piano terra. Troppo sidro e troppo tempo passato davanti a un tavolo da disegno. Loredan realizzò con soddisfazione di avere salito i gradini due alla volta e di non essere neanche sudato. «Bene» rispose. «Appena in tempo, comunque.» Puntò un dito verso l'orizzonte dove si vedeva il baluginio di una luce. «Quanto ci vorrà perché tutte le nuove macchine siano in posizione?» Garantzes si strinse nelle spalle. «Dopodomani al più tardi. Sono tutte insieme e pronte a essere posizionate: nell'arsenale le stiamo producendo al ritmo di due al giorno; il vero problema sarà di trovare abbastanza mura da riuscire a piazzarle tutte. L'altro problema è che abbiamo solo due gru abbastanza grandi per sollevarle nelle rispettive posizioni.» Fece una risatina sommessa. «Dimenticate quello che ho detto, colpa di tutta questa confusione. Stiamo costruendo altre due gru, con un po' di fortuna saranno pronte domani.» Loredan annuì. «Dopodomani andrà bene» rispose. «Lo stesso vale per le palizzate.» Le palizzate erano state una sua idea, o meglio una cosa di cui aveva letto in un libro parecchi anni prima. Secondo il volume durante una battaglia navale, un secolo e mezzo prima, i pirati dell'Isola avevano fatto in modo che i marinai di Perimadeia non potessero abbordare le loro navi piazzando una serie di pali che in qualche modo sporgevano dalle fiancate di ciascuna vascello, lungo i quali avevano tirato dei pesanti cavi da lavoro, come fossero le assi orizzontali di una palizzata rispetto ai montanti. Il risultato era stato che le scale da arrembaggio dei marinai si erano inevitabilmente appoggiate ai cavi e non alle murate delle navi e che
tutti i tentativi di salire a bordo erano falliti. Loredan aveva immaginato che la medesima tecnica potesse servire a proteggere le mura dalle scale degli assedianti. Adesso c'era una fila di pali di quindici centimetri di diametro, lunghi ciascuno due metri, che si proiettavano in fuori rispetto al muro lungo la zona vulnerabile nella quale il nemico avrebbe potuto tentare di servirsi delle scale. Nei giorni successivi una catena di ferro sarebbe stata tesa lungo tutta la fila e gli operai dell'Ufficio del Lavoro stavano dibattendo ferocemente fra di loro per stabilire chi dovesse e chi non dovesse avere il dubbio privilegio di arrampicarsi come una scimmia lungo un palo di due metri, a decine di metri di altezza sopra il fiume, per fissare la catena ai supporti. «Faremo del nostro meglio» sospirò Garantzes. «Oh, già che ci penso, ho ricevuto un messaggio per voi da Filepas Nilot, dell'Ufficio del Quartiermastro.» Aggrottò la fronte. «Non so se ho capito bene, ma quello che credo che abbia detto è che è riuscito a procurarsi i due milioni di api che volevate e che sta accordandosi con i falegnami per fare preparare le tramogge domani.» Loredan sorrise. «Splendido» disse. «Be', allora credo che più o meno ci siamo. Ora tutto quello che ci serve è un nemico.» Tornò a girarsi verso il punto in cui aveva visto baluginare un lampo di luce. «E forse esattamente dove potrei mettere le mani su uno di loro.» Dopo che il capo ingegnere si fu allontanato, Loredan fece un giro della sommità della torre, cercando ancora una volta di visualizzare la città come l'avrebbe vista il nemico. Era un esercizio a cui si era dedicato tutti i giorni da quando era cominciata quella dannata faccenda; lo trovava producente, ma non riusciva a liberarsi dalla sensazione di essersi fatto sfuggire qualcosa. Per quello che ne sapeva lui, non c'erano punti deboli; tutto ciò che aveva fatto era stato rinforzare punti già forti. Eppure doveva esserci qualcosa che era sfuggito a lui, ma non all'altro o se no perché quello gli stava andando incontro con tanta esuberante confidenza? Dentro di sé voleva che l'attacco cominciasse, per avere il nemico sotto gli occhi (perché il nemico che puoi vedere è l'ultimo dei tuoi problemi); ma fino a che ciò non fosse successo sapeva di dovere continuare a soppesare, a cercare, a riflettere, fino a quando non avesse capito qual era il fattore mancante che lo avrebbe indotto a mandare se stesso a quel paese e a dire Ovviamente! Come posso essere stato così stupido! Avrebbe tanto voluto poterlo dire prima che il nemico fosse sotto le mura... Ma non ci riusciva. Ciò che riusciva a vedere, dal punto più alto delle
difese, era la forma delle mura verso terra, che formavano le due braccia di una V la cui punta era la torre di guardia della porta, in cima alla quale c'era lui e che si trovava dirimpetto alla foce del fiume, al punto in cui si biforcava per scorrere tutto intorno all'isola su cui sorgeva la città. Direttamente sotto la torre c'era il ponte levatoio del Ponte dei Mandriani, che scavalcava il braccio orientale del fiume a centocinquanta metri o giù di lì dal punto in cui il corso d'acqua si divideva e in cui era più stretto e profondo. Il ponte su questa sponda del fiume entrava nell'acqua negli ultimi venti metri di distanza dalla torre (esattamente la lunghezza del ponte levatoio), ma assai prima che il nemico vi potesse prendere posizione, quel ponte sarebbe stato ridotto a un ammasso di assi spezzate; il grande trabucco alla cui struttura stava appoggiato era posizionato per questo scopo ed era considerato la macchina più precisa presente sulle mura. Considerata la robustezza della torre di guardia e la profondità del fiume in quel punto, poteva cancellarlo come probabile zona focale dell'attacco. Una volta biforcatosi, il fiume su entrambi i lati diventava più largo; centocinquanta metri alla biforcazione, almeno duecento agli apici dei due bastioni, oltre duecentocinquanta metri nel punto in cui i due bracci confluivano nel mare. I bastioni erano piazzati in modo tale che il loro arco di tiro di quasi quattrocento metri coprisse tutta l'area in cui il fiume era largo meno di duecento e prima che qualsiasi attacco potesse cominciare, contava di riempire gli spalti dei bastioni con il maggior numero di macchine possibile, specie trabucchi a lunga gittata se fosse riuscito a procurarseli. Grazie alla sua principale innovazione, il segreto che non aveva condiviso con il Consiglio e nemmeno con la maggior parte degli ingegneri (e gli ingegneri erano gente di cui si fidava), sentiva di avere il controllo di un semicerchio di quasi cinquecento metri su entrambi i lati e quello era l'unico posto logico da cui lanciare un attacco. Quanto al resto delle mura, aveva torri ogni duecento metri e ben presto ciascuna sarebbe stata dotata di due macchine a torsione e di un trabucco, per non contare una guarnigione di cinquanta uomini, a parte gli addetti ai pezzi; e sotto le torri una macchina più piccola ogni trenta metri, montata su un carrello inclinabile che avrebbe reso possibile usarle per lanciare una pietra a duecentocinquanta metri, come a cinquanta. Non riusciva a vedere alcun punto debole lungo l'intera estensione delle mura di terra; o il fiume era troppo largo, oppure lui era in grado di creare un fuoco di sbarramento che copriva anche quasi cento metri dell'altra sponda, a cui nessuno sarebbe
stato in grado di sopravvivere. Aveva considerato anche le opzioni più improbabili. Aveva immaginato che il nemico fosse in grado di scavare un tunnel sotto il letto del fiume, di riuscire ad arrivare proprio sotto a una torre e di minare il muro; era impossibile, ma aveva provveduto anche a questa ipotesi; Aveva immaginato che fossero in grado di concentrare una percentuale di tiro a lunga gittata sulle mura sufficiente a distruggere tutte le macchine di uno specifico settore; con l'arsenale che fabbricava macchine al ritmo di due al giorno e lunghe gru quasi allo stesso ritmo, era in grado di rimpiazzare una macchina distrutta entro un'ora, giusto il tempo necessario agli ingegneri per issarne una nuova usando gli opportuni componenti, già pronti ai piedi di ciascuna torre e che potevano essere assemblati sul posto. Se fossero riusciti a lanciare palle di fuoco fin lassù, avrebbe avuto i suoi pompieri a portata di mano. Si era perfino baloccato con l'idea di soldati nemici catapultati sugli spalti con i trabucchi o che calavano sulla città usando ali artificiali fissate sulla schiena, e fatto piani di conseguenza. Certo, quello sì che sarebbe stato uno spettacolo... Aveva anche fatto l'ipotesi che puntassero semplicemente a logorarlo; masse di macchine che martellavano le mura giorno e notte, fino a che non fosse rimasto un solo bastione in piedi su cui piazzare catapulte, nulla su cui prendere posizione. Be', avrebbero potuto provarci, ma sarebbero rimasti delusi. Prima che polvere si fosse depositata, i suoi muratori avrebbero già eretto all'interno della breccia delle mura di contenimento con pietre a secco, rinforzate da strutture in legno su cui sarebbe stato possibile schierare macchine; e quanto ai materiali, dall'altra parte del mare c'era il mondo intero, che aspettava solo di sommergerli di legno e malta e di blocchi già pronti di concio, in cambio di denaro contante di Perimadeia che godeva di un universale rispetto. Un bambino di dieci anni sarebbe in grado di comandare la difesa di questa città; e donne e bambini potrebbero tenere queste mura per sempre, purché fossero abbastanza numerosi da fare funzionare gli argani delle catapulte. È tutto così impenetrabile, che non potrebbe passare neanche un filo di fumo. Il che, probabilmente, spiega perché sono così preoccupato; non c'è nulla di ovvio di cui preoccuparsi. Qualcosa di ovvio, sarebbe l'ultimo dei miei problemi. Sì. Già. Molto bene. Allora perché quel bastardo continuava ad avanzare?
Ironicamente, fu proprio mentre Loredan stava facendo la sua ispezione che un uomo si presentò alle sentinelle del campo di Temrai, portando con sé la conferma finale di cui Temrai aveva bisogno; non che fosse stato preoccupato, ma era bello potersi sentire perfettamente sicuri. Lo avrebbe trovato là, gli assicurò l'uomo. In tempo. Come specificato. Proprio come lo avevano discusso quel giorno che si erano incontrati in città per la prima volta. Temrai rispose di non averne dubitato neanche per un minuto, ed era vero. Al resto avrebbero pensato loro. L'uomo aveva un'aria dubbiosa. Temrai non si prese la briga di dargli spiegazioni. Non gli piaceva molto quella gente, anche se la riuscita dell'impresa dipendeva completamente da loro. Però se ne fidava. Si poteva dubitare degli dei, o dell'amore di una moglie, di una madre, di una figlia, della lealtà degli amici; ma quando c'era di mezzo il profitto ci si poteva sempre fidare. Una leva, basata su quell'unico, solido principio, stava per smuovere il mondo. «Ammettilo» disse Gannadius, la cui voce si udiva a malapena al di sopra del brusio delle varie conversazioni nella sala principale della taverna «stai regredendo. Questo è il genere di bizzarrie che mi aspetterei da uno studente del secondo anno, piuttosto che dal Patriarca dell'Ordine.» Il Patriarca dell'Ordine che è anche seriamente malato e terribilmente pieno di lavoro, avrebbe potuto aggiungere, ma non lo fece. Inutile dire quello che sapevano già entrambi. «È proprio per questo» disse Alexius rispondendo alla parte non espressa del rimprovero «che ho bisogno di un cambiamento. Questo lo è.» Ridacchiò da sotto la tesa molle e penzolante del suo ampio cappello. «Mi sto divertendo. È una distrazione.» «Mi sembra che tu abbia sempre detto che ti distrai anche troppo facilmente» replicò Gannadius, bevendo un sorso del vino forte e troppo acido. «Perché prendersi tutta questa briga per ottenere lo stesso risultato?» Alexius fece spallucce. «Porta pazienza» disse. «Sono venti anni che non venivo in un posto come questo. Inoltre» aggiunse, con un tono di voce che voleva essere autorevole «mi permette di verificare di prima mano l'umore della Città.» Gannadius non degnò quell'evidente insensatezza di una risposta. «Se qualcuno dovesse riconoscerti...» «Mi indicherebbe e direbbe: "C'è un vagabondo in quell'angolo che
assomiglia proprio al Patriarca". E i suoi amici risponderebbero: "Non essere ridicolo, il Patriarca non ha le orecchie così a sventola". La gente vede solo le cose che può affrontare.» Finì il vino e mise giù il bicchiere. «Un altro» disse «e poi basta. Temo che i tempi in cui potevo scolarmi cinque di questi e poi recitare a memoria le trentadue supposizioni cardinali, siano passati.» «Resta lì» sospirò Gannadius, alzandosi dal tavolo. «Se qualcuno cerca di parlare con te, dì che sei un lebbroso.» Forse Gannadius ha ragione, disse Alexius a se stesso; forse questa è una specie di seconda infanzia, provocata dalla tensione e dall'eccesso di responsabilità. Per il Patriarca abbandonarsi improvvisamente all'impulso di indossare degli abiti dozzinali e di andare a bere nella città basa, sia pure in una taverna ragionevolmente salubre come quella, era più o meno impensabile. Dovrei essere nella mia cella, sdraiato sulla schiena, a soppesare estrapolazioni di pura teoria e a fissare quei benedetti mosaici. Ma questo è un posto migliore in cui venire a schiarirsi le idee. Aveva bisogno di farlo. Il vino, il rumore o qualcosa di quel genere gli faceva pulsare la testa, ma ultimamente si era abituato alle emicranie, da quando era stato cooptato nel Consiglio di Sicurezza e doveva passare le sue giornate a fare sì che il prefetto e il Vice Luogotenente Generale non si accapigliassero. Correzione: a tenere il prefetto occupato mentre il Vice Luogotenente Generale faceva il suo lavoro. Era la cosa migliore che potesse fare per la sua città, lo sapeva e ci si era dedicato con più diligenza che a qualsiasi altra cosa in vita sua. Per fortuna nel frattempo c'era Gannadius a mandare avanti l'Ordine al posto suo. Grazie al fatto che era anche suo interesse. Adesso che era stato ufficialmente dichiarato Vice Patriarca la sua successione era sicura. E tuttavia dubitava che Gannadius desse tutta questa importanza alla cosa. Era una cosa curiosa, ma era sinceramente convinto che Gannadius, la cui compagnia aveva accuratamente evitato fino a poco tempo prima, fosse ora la cosa più vicina a un amico che aveva da quando era stato nominato Patriarca. Altra correzione: Bardas Loredan, l'uomo cui aveva lanciato una maledizione, era anch'egli un amico, con cui poteva parlare liberamente, ammettendo le proprie paure e preoccupazioni. Rimarchevole che così vicino alla fine della sua vita avesse scoperto, improvvisamente e abbastanza inaspettatamente, l'amicizia. Era come vederci per la prima volta a un'età alla quale tutti gli altri cominciavano a perdere la vista.
«Ecco e spero che ti ci strozzi» borbottò Gannadius, mettendogli rumorosamente davanti un bicchiere e poi sistemandosi goffamente al suo posto sulla panca. «Posso farti notare che se proprio ci tieni a bere quantità eccessive di vino da quattro soldi, è sufficiente aprire la dispensa dell'Accademia e servirsi. Gratis.» «Già e dove sarebbe il divertimento?» obiettò Alexius con dolcezza. «E, come ti ho appena detto, siamo qui con uno scopo. Nota l'aria di apparente normalità, l'assenza di agitazione e di panico. Chiaramente, il morale della Città è ancora incoraggiantemente alto.» Gannadius annusò l'aria. «Questi sciocchi non hanno ancora capito in quale sciagurato guaio ci troviamo. O se ne sono dimenticati, o hanno dato per scontato che le cose si siano risolte. Non è passato molto tempo da quando erano per la strada a tumultuare.» «Avemmo un tumulto quando ero al terzo anno» disse Alexius in tono sognante. «Un gruppo di matricole aveva rubato un maiale al mercato del bestiame, lo aveva dipinto di blu con dell'ocra presa negli uffici dei banditori e lo aveva vestito con gli abiti del Commissario per il Controllo del Commercio. Poi avevano inseguito la povera creatura per le strade della città fino a quando non erano andate a sbattere contro un drappello di ronda. Questo avrebbe dovuto porre fine alla cosa, quando noi... voglio dire, un gruppo di studenti reprobi che avevano bevuto troppo per celebrare la fine degli esami del terzo anno... passarono per caso da quelle parti, videro i loro compagni nelle mani di gente ostile e si lanciarono immediatamente al soccorso. Nessuno si fece male seriamente» aggiunse in tono difensivo «e l'ordine pagò i danni. Inoltre la cosa insegnò alle guardie una lezione sull'opportunità di usare con tatto la propria autorità quando avevano a che fare con giovani privilegiati, per di più ubriachi.» «Capisco» disse Gannadius freddamente. «E tu cosa faresti se una banda dei nostri allievi del primo anno combinasse una cosa del genere? Gli daresti un giorno di vacanza e li inviteresti a cena nel salone?» «Certamente no» ribatté Alexius. «Li caccerei dall'Ordine e li consegnerei alle autorità civili. Non possiamo sopportare comportamenti incoscienti di questo tipo.» «Sono felice di sentirlo.» Gannadius bevette un sorso di vino e fece una smorfia. «Se vuoi, puoi berti anche il mio. Ho già abbastanza mal di testa, senza bisogno di berne un altro.» Alexius lo fissò. «Anche tu?» «Perché? Hai...»
«Fin da quando siamo entrati. L'ho attribuito al vino dozzinale e all'ambiente, ma se anche tu ce l'hai...» «I nostri amici dell'Isola? Oh, non di nuovo, per favore. Non abbiamo già abbastanza cose con cui misurarci?» «Apparentemente no.» Senza dare nell'occhio, Gannadius diede un'occhiata circolare alla stanza. «Non li vedo» disse. «Deve essere colpa del vino. I mal di testa possono venire anche per cause naturali, sai» aggiunse «e sto facendo un complimento esagerato a questa robaccia definendola naturale. Penso che in questo liquido ci siano ben poche tracce di onesta uva fermentata.» Vide Alexius rilassarsi. «Sono sicuro che hai ragione» disse. «Troppo cattivo vino e una immaginazione iperattiva. Forse a questo punto dovremmo tornare a casa.» Si alzarono, cercando di farsi notare il meno possibile; nella loro ansia di travestirsi avevano finito per assumere l'aspetto di un genere di persone che di solito non erano benvenute in locali di quella classe e farsi gettare per la strada non era esattamente il modo migliore per non dare nell'occhio. Probabilmente sarebbe andato tutto bene se Alexius non fosse inciampato su una piccola sacca di pelle che qualcuno aveva appoggiato per terra fra due tavoli, andando a cadere contro la schiena di un avventore che proprio in quel momento stava tornando al suo posto con una brocca piena di sidro bollente. Quando il contenuto della brocca gli si riversò su una gamba l'avventore lanciò un urlo di dolore e si girò di scatto. «Razza di idiota» sbottò. «Guarda cosa hai fatto.» Alexius balbettò qualche parola di scusa, ma non a voce abbastanza alta da risultare udibili. L'avventore lo afferrò per il collo. «Ti rendi conto che mi hai rovinato i pantaloni» continuò. «E qualcuno dovrà pagarmeli.» «Naturalmente» disse Gannadius nel suo tono più conciliante, messo alla prova in centinaia di confronti all'Università. Sfortunatamente si era dimenticato che la sua più affettata voce diplomatica, andava poco d'accordo con il suo travestimento. L'avventore difficilmente avrebbe potuto non notare la discrepanza, anche perché Gannadius peggiorò la situazione abbandonandosi a una profusione di rassicurazioni forbite mentre allungava una mano verso la borsa che teneva dentro una manica. Prima che il gesto fosse completato l'avventore lo aveva afferrato per un polso e gli aveva storto dolorosamente il braccio.
«Chi diavolo siete?» domandò. Svariate teste cominciarono a girarsi. «È importante?» Alexius si guardò intorno per vedere chi avesse pronunciato quelle ultime parole e vide una figura massiccia che stava proprio alle spalle dell'avventore; un tipo grosso, alto e calvo, con un accento straniero, ma familiare. Molto familiare, in effetti. «Il signore ha detto che ti paga» continuò lo straniero. «Adesso comportati civilmente.» L'avventore lasciò andare il braccio di Gannadius e si strinse la testa fra le mani, come se gli facesse male. «Va bene» disse «non è necessario che nessun altro ficchi il naso nella faccenda. Basta che mi diano i miei soldi...» Gannadius gli diede una somma che sarebbe bastata per vestirlo di ermellino da capo a piedi, afferrò Alexius per un gomito e lo spinse fuori, nell'aria fresca della notte. «Dannazione, Alexius, sapevo che questa sciocchezza ci avrebbe messo in guai seri. Sarebbe stato così facile che ci riconoscessero...» «È quello che è successo» rispose Alexius stancamente. «Oh, non ti preoccupare, non saremo lo zimbello della città ora di domani, se è a questo che stai pensando. Ma siamo stati decisamente riconosciuti, puoi esserne sicuro.» Si rese conto di stare in piedi in mezzo a una pozzanghera di qualcosa che non era solo acqua e fece un passo per uscirne. «Avanti, andiamo a casa prima che ci venga in mente qualcosa di ancora più stupido da fare.» Si avviò lungo la strada con un passo molto più veloce e sicuro di quanto Gannadius avrebbe creduto possibile, come se fosse troppo preoccupato per ricordarsi della sua infermità. Gannadius si affrettò a seguirlo. «È troppo semplice limitarsi a dire che siamo stati riconosciuti» sibilò «ma non puoi cavartela così. Da chi, in nome del demonio?» «Dal nostro salvatore» rispose Alexius. «Quell'uomo grosso e calvo.» Sospirò. «Pensaci» aggiunse. «Credevo veramente che le cose si stessero risolvendo per conto loro. Invece abbiamo assistito a malapena alle prime battute.» «Alexius, se hai intenzione di cominciare a comunicare con me come un oracolo, ti abbandonerò come una causa persa. In nome del cielo, spiegati.» Il Patriarca gli rivolse un sorriso lugubre. «Gannadius, mi sorprendi, ti ho sempre considerato un osservatore. Ero sicuro che tu lo avessi
riconosciuto.» «Riconosciuto chi? Quello calvo, intendi? Mi sembrava avessi detto che era stato lui a riconoscere noi.» «È così.» Alexius s'interruppe un attimo per riprendere fiato. «Lui ha riconosciuto noi e io ho riconosciuto lui. E, siccome non credo alle coincidenze fino al punto di idolatrarle, posso solo concludere che in un modo o nell'altro ha fatto in modo che andassimo in quella taverna.» Scosse la testa tristemente. «Immagino questo spieghi la mia improvvisa urgenza di andare a bere in una taverna dopo venti anni. Mi domando come abbia fatto.» «Alexius...» «Era in quel sogno che abbiamo condiviso. Davvero non ti ricordi?» Alexius fece un respiro profondo ed esalò lentamente attraverso il naso. «Quello era Gorgas Loredan.» CAPITOLO QUATTORDICESIMO Preparare una guerra voleva dire più commerciò. Più commercio significava più cause. Più cause volevano dire più avvocati. E, dato che il ricambio nella professione era necessariamente frequente, i nuovi avvocati appena diplomati avevano la loro opportunità di sostenere una causa in tribunale per la prima volta più precocemente del solito. Siccome la giustizia deve essere vista per poter essere fatta, l'elenco dei processi veniva affisso alla porta del palazzo di giustizia tutte le mattine, quattro ore prima del primo giudizio, per dare al pubblico con un certo anticipo notizia dei casi che sarebbero stati decisi e offrirgli così la possibilità di esercitare il diritto civico di assistere ai vari procedimenti e fare le proprie scommesse. Dato che Venart e Vetriz erano tornati in patria portando con sé abbastanza corda da legare l'Isola alla Città svariate volte, Athli non aveva niente di particolare da fare. Quando le capitò di passare davanti al palazzo di giustizia e di gettare un'occhiata all'elenco e ai nomi degli avvocati, modificò immediatamente i suoi programmi per la giornata e si unì alla coda. C'era una certa avvocatessa che avrebbe fatto quel giorno la sua prima apparizione, alla cui carriera Athli era personalmente interessata. Il caso riguardava una questione piuttosto complicata a proposito di un carico di fagioli. Il querelante sosteneva che il convenuto (un capitano che aveva stipulato un contratto per trasportare i suddetti fagioli da Perimadeia
a Nissa per la somma più precisamente specificata nei documenti allegati), aveva omesso di comportarsi con la dovuta cura e attenzione nello stivare i suddetti fagioli per il viaggio, tanto che i suddetti fagioli si erano inumiditi con il risultato di germogliare, il che li aveva resi privi di valore e aveva impedito al querelante di rispettare l'impegno di fornire i suddetti fagioli a un acquirente di Nissa, con la conseguenza che il querelante aveva perduto il guadagno derivante da quel contratto e il valore dei suddetti fagioli e, come se non bastasse, poteva essere citato dal suddetto acquirente per danni. Il convenuto da parte sua affermava che i suddetti fagioli erano germogliati a causa della negligenza del querelante, che li aveva chiusi dentro dei barili pieni di fessure e chiusi malamente. Questo senza contare che un paragrafo del contratto del querelante con la succitata terza parte diceva che il rischio del trasporto dei fagioli passava alla succitata terza parte al momento della partenza della nave da Perimadeia e che, di conseguenza, il suddetto querelante non era venuto meno al rispetto di alcun contratto e non aveva subito danno alcuno per mano del convenuto anche nel caso in cui (il che peraltro non veniva ammesso) il convenuto fosse stato negligente nello stivare i suddetti fagioli. Mentre questa tiritera veniva letta ad alta voce dai cancellieri, il pubblico sedeva in educato silenzio, rotto solo da qualche sommesso colpo di tosse o dal furtivo rumore di qualcuno che masticava una mela. C'era una gran folla; donne avvocato non erano una vera e propria novità in tribunale, ma non erano neanche uno spettacolo di tutti i giorni e in città era girata la voce che questa avvocatessa fosse anche giovane e carina. Sulla base di questa voce, parecchi grossi mazzi di fiori e cestini di frutta erano già stati consegnati all'ingresso secondario del tribunale. Non semplicemente carina, disse Athli a se stessa; di una bellezza abbagliante. La ragazza... Anche in quel momento Athli non riuscì a ricordarsi il nome, pur avendolo riconosciuto immediatamente non appena lo aveva visto scritto sull'elenco... Per l'occasione si era vestita con il tradizionale costume di corte degli avvocati maschi, non come si abbigliavano abitualmente le spadaccine, e l'assistente dell'avvocato del convenuto aveva tentato di sollevare sulla cosa un'obiezione al giudice, prima che i fischi e i boati di disapprovazione degli spettatori avessero sommerso le sue parole. Il giudice, un ex avvocato che Athli conosceva, aveva minacciato di fare sgomberare la corte se fosse continuata quella confusione, ma aveva respinto l'obiezione. Il processo quindi stava per cominciare.
L'avvocato della difesa fu il primo a mettersi in guardia, adottando la posizione rannicchiata e con le ginocchia piegate, tipica della scuola cittadina. Athli lo conosceva; non era un novizio e godeva la reputazione di avere un energico stile di scherma, che si affilava tanto al filo della lama quanto alla punta. Era di media altezza, ma le spalle larghe e gli avambracci robusti lasciavano capire che doveva essere capace di usare il polso in modo veloce e con forza. La ragazza si mise in guardia secondo la vecchia scuola, dritta in piedi, con le caviglie quasi unite e il braccio che reggeva la spada dritto davanti a se; la punta rimase ferma e non vibrò di un millimetro. Athli si mise in tasca il torsolo della mela che stava mangiando e sedette con la schiena più dritta. La cosa si annunciava interessante. La donna seduta accanto a lei, un tipo di mezza età, grasso e con un vestito vistoso, le diede di gomito. «Un quarto d'argento su quello zoticone» sussurrò. «L'ho visto all'opera la scorsa settimana ed è un fenomeno.» «Affare fatto» rispose Athli mentre l'avvocato della difesa faceva un mezzo salto e un mezzo passo in avanti, sollevando la spada e cercando di spostare lateralmente quella dell'avversaria, in una parata preventiva che le avrebbe lasciato un fianco scoperto. La ragazza lo osservò avanzare; all'ultimo momento fece una rapida rotazione del polso insinuando la propria lama all'interno della parata e facendo nello stesso tempo un passo verso sinistra. Fu una mossa intelligente; adesso lui era completamente fuori linea rispetto a lei e se la ragazza avesse avuto la forza fisica per deviare completamente il suo colpo, avrebbe potuto contrattaccare e mettere fine alla cosa lì e subito. Stando le cose come stavano fu lui a contrattaccare; lei evitò il colpo con facilità ricorrendo al solo gioco di piedi, ma non aveva abbastanza allungo per restituirlo. Si rimise in guardia; l'avversario fece lo stesso. Naturalmente aveva ottenuto una specie di vittoria morale, ma come a Loredan piaceva tanto dire le vittorie morali non nutrono le cornacchie. La partita era ancora aperta. Nel successivo scambio l'avvocato della difesa dimostrò un po' più di intelligenza. Dato che stava utilizzando la scherma della vecchia scuola, era ovvio che la ragazza sarebbe stata ad aspettare che fosse lui ad avanzare; una scelta logica, dato che lui era più grosso e più forte. L'uomo però non lo fece, immaginando che la sua inesperienza l'avrebbe indotta ad attaccare semplicemente per allentare la tensione. La ragazza tuttavia rimase immobile, la punta della sua spada fissa come una stella in un limpido cielo notturno e alla fine fu lui a perdere la pazienza per primo.
Decidendo di scommettere sulla sua inesperienza abbassò deliberatamente un po' la guardia, mostrandole un'apertura. Certamente la ragazza ne avrebbe approfittato, lui sarebbe stato pronto e questo avrebbe posto fine alla faccenda. La fanciulla però non ci cadde. Anche dal punto in cui era seduta Athli riusciva a vedere il sudore che cominciava a imperlare la fronte dell'uomo; il viso della ragazza, invece, era pallido ma asciutto come un foglio di carta e i suoi occhi erano fissi sulla spada dell'avversario, proprio come dovevano essere. Era quasi come vedere Loredan tirare di scherma, realizzò Athli; quella concentrazione totale sulla striscia d'acciaio stretta nel pugno dell'avversario, quella immobilità all'erta che implicava l'ostinato rifiuto di basarsi su intuizioni prima che la spada dell'altro si fosse mossa. Se mi desse la schiena, pensò Athli, potrei perfino scambiarla per lui. Il confronto di caratteri era ormai al limite. L'avvocato della difesa abbassò un po' di più la guardia, provocatoriamente, come una donna che sollevasse maliziosamente la gonna oltre il ginocchio. La ragazza lo ignorò, e continuò a fissare la sua lama lungo il filo della propria. Il pubblico stava cominciando a mormorare (non aveva speso soldi per venire a vedere due tizi che restavano immobili) quando l'uomo richiuse la guardia e fece un bell'affondo ortodosso, in linea retta, angolando la lama verso il basso per renderle il più difficile possibile la parata. Il successivo sviluppo fu molto rapido. La ragazza fece due passi verso destra, ruotando su se stessa e spostandosi dalla sua linea: lo schema fondamentale della vecchia scuola. Quel movimento la portò troppo fuori portata perché potesse tentare un contrattacco, ma le consentì di ruotare il braccio e di deviare la spada dell'avversario scoprendone in questo modo il lato destro in modo che non potesse rimettersi facilmente in posizione in tempo per parare. L'uomo arretrò, cercando di entrare con la spada nella sua guardia, così da potersi servire della superiore forza fisica del proprio polso per equilibrare lo svantaggio derivante dalla sua posizione. Ma prima che potesse anche solo sfiorare la spada della ragazza con la sua, se la ritrovò dentro la propria guardia; il contrattacco che si aspettava non si era verificato e si trovò a cercare di parare una lama che non c'era. Prima che avesse il tempo di portarsi fuori pericolo facendo un passo indietro, la lama della ragazza lo centrò al petto, appena sotto l'ascella destra. L'uomo arretrò, staccandosi dalla spada che l'aveva trafitto, cadde per terra e morì. «Oh» disse la donna grassa. «Dannazione.» Si strinse nelle grosse spalle
rotonde, infilò una mano in una manica e ne tirò fuori un quarto d'argento piuttosto usurato. «Lascia o raddoppia sul prossimo caso?» chiese speranzosa, sempre stringendo la moneta. Athli scosse la testa e allungò una mano per ricevere il denaro. Poi si alzò e uscì dal tribunale. Quando raggiunse la strada stava tremando lievemente. Fantastica pubblicità per la scuola, disse a se stessa. Mi domando se sia alla ricerca di un assistente... Fu solo la forza dell'abitudine che la condusse alla solita taverna, proprio dietro l'angolo. Aveva appena assistito a un processo e quindi aveva sete e aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Era la prima volta che entrava in quella osteria da sola e anche se non si trattava del tipo di posto in cui una donna non accompagnata si aspettava di avere dei problemi, si sentì un po' in apprensione fino a quando non vide una figura femminile seduta per conto suo a un tavolo vicino alla finestra. Un attimo dopo realizzò di chi doveva trattarsi. Per puro caso, ero lo stesso tavolo a cui aveva l'abitudine di sedere con Loredan; lontano dall'affollamento della zona che stava fra il locale sul retro e quella stanza, e comodo nel caso di tagli e ferite da medicare grazie alle antiche stratificazioni di ragnatele sul muro. Era una consapevole imitazione, o solo l'inconscio istinto della spadaccina aveva spinto la ragazza ad accomodarsi proprio lì? La prossima volta che lo vedrò glielo racconterò. Si divertirà. Naturalmente non c'era alcuna necessità che la raggiungesse a andasse a fare conversazione: non ne aveva neanche voglia. Ma restò lì in piedi a guardare in direzione della ragazza un minuto di troppo. Lei alzò lo sguardo, la notò e la riconobbe. Le buone maniere impedivano ad Athli di cavarsela andandosene silenziosamente. Avanzò verso di lei. «Salve» disse sorridendo. «Ti ho appena visto all'opera in tribunale. Ben fatto.» La ragazza fece meccanicamente un cenno di ringraziamento. Aveva davanti a sé un minuscolo bicchiere di vino, la misura più piccola disponibile nella taverna. Athli le chiese se ne avrebbe gradito un altro. Fece cenno di no con la testa: il minimo movimento necessario per farsi intendere. Era abbastanza stupefacente pensare che, sia pure soprattutto scherzosamente, Athli aveva preso in considerazione la possibilità di farle da assistente. Decise di perseverare ancora per un attimo. «Il tuo primo caso, immagino» disse. «Un cliente piuttosto importante per una fanciulla alle prime armi.»
«È un mio parente» rispose la ragazza, girando la testa dall'altra parte e guardando fuori dalla finestra. «Da parte di mio padre. E non è che si aspettasse che dovessi fare davvero qualcosa; era sicuro di riuscire a raggiungere un accordo prima che il caso arrivasse in tribunale.» Tornò a voltare la testa e stavolta fissò Athli dritto negli occhi. «Nessuna delle due parti voleva che finisse in un processo» proseguì. «Volevano continuare a fare affari insieme e questo contrasto era solo un dannato impedimento.» Nonostante tutto, Athli era intrigata. «Che cosa non ha funzionato, allora?» domandò. «Sapevo che il caso sarebbe stato cancellato dall'elenco, allora sono andata dai funzionari del tribunale e ho ottenuto che la causa venisse anticipata. Il preavviso è stato così breve che non hanno avuto il tempo di trovare una conciliazione. Così ho potuto duellare.» «Capisco» rispose Athli lentamente. La ragazza le indirizzò un risolino. «Uno dei vantaggi di non avere un assistente» disse «è che posso fare cose del genere.» «Be', farà certamente bene alla tua carriera» rispose Athli. «Adesso non dovresti avere problemi a trovare lavoro.» La ragazza fece spallucce. «Ho bisogno di fare pratica» disse. «Gli esercizi a scuola sono una bella cosa, ma ho bisogno di apprendere lo spirito del vero duello. Sono convinta che uccidere gente in un tribunale per un po' di volte non possa che migliorare il mio temperamento.» Era un atteggiamento ragionevole per una professionista e non era la prima volta che Athli sentiva quel genere di considerazioni, ma mai poste in modo tanto crudo. Comunque trovò il suo modo di porsi abbastanza rivoltante e decise di non dire nulla. «Voi eravate un'assistente, vero?» continuò la ragazza, distogliendo ancora una volta lo sguardo. «Quindi dovreste intendetene. Se volessi del lavoro da parte dell'ufficio del Procuratore di Stato, dovrei cercare prima di procurarmi un caso che mi vedesse opposta a qualche avvocato in particolare? Per come la vedo io, se mi concentro su certi avvocati il Procuratore mi noterà molto più in fretta che se mi limito in generale a cercare di fare pratica.» Athli ci pensò per un momento e suggerì un paio di nomi; avvocati rinomati che selezionavano il lavoro e chiedevano parcelle salate. «Se dovessi battere uno di loro» proseguì «certamente diventeresti famosa. E ovviamente il Procuratore è sempre alla ricerca di nuovi avvocati.» S'interruppe, non volendo conoscere veramente la risposta alla domanda
che era sul punto di farle. «Perché vuoi lavorare proprio per il Procuratore? La paga è buona, ma niente di speciale, guadagneresti di più con il diritto commerciale. Anzi, essendo una donna probabilmente troveresti quello dei divorzi un campo ottimale in cui praticare.» La ragazza scosse la testa, facendo volare uno dei pettini che le trattenevano i capelli. Cadde sul tavolo con un colpo secco. «I divorzi sono una perdita di tempo» disse. «Grazie per quei nomi; li terrò a mente.» Athli sentì un grande bisogno di andarsene e decise di assecondarlo. «Beh» si costrinse a dire «ancora una volta: ben fatto. E buona fortuna.» Si alzò. «Ovviamente tutte quelle lezioni extra non sono andate sprecate.» Sentendo quelle parole la ragazza alzò lo sguardo di scatto. «No» disse «e intendo assicurarmi che continuino a non esserlo. Arrivederci.» Pronunciò l'ultima parola con il tono di un ufficiale dell'esercito che avesse detto Rompete le righe! e Athli si allontanò senza voltarsi indietro. Aveva deciso di non dire niente a Loredan; dopotutto quelle cose non lo riguardavano più e aveva una città da difendere. Inoltre si rese conto di non ricordare anche in quel momento il nome di quella dannata ragazza. Il campo nemico spuntò sotto le mura della Città una mattina come un fungo o un gonfiore sospetto sottopelle, non notato fino a quel momento. Più tardi il Consiglio di Sicurezza decise che dovevano avere fatto furtivamente navigare le proprie zattere lungo la corrente fino alla gola attraverso la quale il fiume tagliava le basse colline, a un paio di chilometri dalla biforcazione. Poi, durante la notte, in qualche modo erano riusciti a superare l'ultimo tratto con il buio pesto, a sbarcare l'equipaggiamento e a montare il campo a poche centinaia di metri dal Ponte dei Mandriani; tutto nel più profondo silenzio, montando le tende al tatto senza un rumore o una scintilla di luce. Pratica, supponeva il Consiglio, che rendeva perfetti, senza contare che per dei nomadi montare e smontare un campo doveva essere una specie di seconda natura. Comunque fosse, era stata un'impresa notevole. Questo è ciò che venne detto retrospettivamente. Quando la prima luce di una giornata grigia e piuttosto fredda illuminò una vasta distesa di sagome spettrali grigie e marroni che parevano essere scaturite dalle colline sulla sponda sinistra del fiume, la reazione della città fu assai meno sobria. Questa volta, tuttavia, non ci furono folle urlanti né tumulti; neppure la corsa disperata verso il porto che tutti si aspettavano e che Loredan si era
attentamente preparato a fronteggiare quando aveva fatto i suoi piani. Fu tanto meglio; perfino i suoi piani non avevano contemplato la possibilità che il nemico molto semplicemente una bella mattina fosse già lì. Comunque la città si dimostrò tranquilla in misura quasi inquietante, con gruppetti di gente in giro per la strade quasi in attesa che succedesse qualcosa, senza però sapere esattamente di che genere. Loredan apprese la cosa per la prima volta quando qualcuno che non conosceva irruppe nella piccola e fredda stanza del corpo di guardia della seconda città di cui si era servito come camera da letto fin da quando era tornato dalla spedizione di cavalleria. Si svegliò di colpo e stava cercando a tentoni di afferrare l'elsa della sua spada, quando l'intruso parlò. «Abbiamo compagnia» disse l'uomo. Loredan si dimenticò della spada e si concentrò sullo sforzo di aprire gli occhi. La notte precedente era andato a letto tardi per cercare di chiarire alcune discrepanze nella contabilità del Quartiermastro. «Che cosa?» biascicò. «Cosa sta succedendo?» «Sono qui. Il nemico. Sono accampati davanti alle porte. Signore» aggiunse l'uomo, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento. «C'è immediato bisogno di voi.» Loredan mise giù le gambe dalla panca di pietra che usava come letto. «Chi diavolo sei tu?» chiese. «Sono il Capitano Doria della compagnia di guardia. Con rispetto, signore, venite o no?» Loredan lo studiò con espressione tetra, attraverso gli occhi che funzionavano ancora malamente. «Va bene, Capitano» disse. «Portate pazienza solo un minuto, il tempo di vestirmi. Qualunque cosa ci abbia fatto il nemico, non merita di essere accolto con lo spettacolo del sottoscritto senza pantaloni.» Mentre cavalcava attraverso la città bassa, superando una serie ininterrotta di facce sollevate a fissarlo, ebbe la sensazione di essere in ritardo per qualche importante cerimonia che non poteva proseguire senza di lui; il suo matrimonio, per esempio, o il suo funerale. Era conscio di non essersi rasato, di avere i capelli in disordine e che i suoi vestiti avevano l'aria di non essere stati cambiati da una settimana (il che era vero). Mentre si inerpicava sulla torre di guardia accanto al ponte sentì una fitta al fianco e arrivò in cima stranamente a corto di fiato. «Va bene» ansimò, appoggiandosi per un attimo alla struttura di un trabucco. «Cosa sta succedendo?»
Poi si accorse che il Consiglio era lì quasi al completo; il prefetto, il Luogotenente Generale, il gruppo di responsabili dei vari uffici che non si era mai curato di individuare; perfino Alexius e il Capo Governatore delle Scuole di Scherma. Come al solito, borbottò fra sé: il Generale è sempre l'ultimo a sapere le cose. Gli fecero spazio sugli spalti e poté guardare di sotto. In un primo momento scambiò le forme grigie per bassi banchi di nebbia, come quelli che talora si formavano sul fiume; ma era la stagione sbagliata dell'anno e poi aveva già visto le tende dei clan. «Bene, bene» disse con molta calma. «Mi domando come abbiano fatto ad arrivare qua.» Il Capitano della torre di guardia gli riferì ciò che era accaduto a bassa voce e Loredan annuì. «È possibile» rispose. «Una buona notte di lavoro se è così che sono andate le cose. Sono impressionato.» «Pensiamo che sia il solo modo in cui possono esserci riusciti» mormorò il Capitano. «Le implicazioni...» «Mi sono chiare» annuì ancora Loredan. «A proposito, perché stiamo tutti sussurrando?» Ironicamente sembrava la cosa più ragionevole da fare; non fate alcun rumore, potreste svegliarli. «La gente in città dice che può essere stato fatto solo ricorrendo alla magia» disse il prefetto, lanciando una rapida occhiataccia in direzione del Patriarca. «Stiamo zittendo questo tipo di chiacchiere, naturalmente; hanno un terribile effetto sul morale.» Fece una pausa e gettò uno sguardo all'impressionante spettacolo che aveva davanti; a giudicare dalla sua espressione era possibile che il prefetto condividesse la teoria dell'intervento magico. «Qualcuno dovrà darmi una spiegazione di come questo sia potuto succedere» aggiunse. Loredan lo ignorò. «A nessuno è venuto in mente di chiedergli che cosa vogliono?» disse. «Credevo che fosse ovvio» disse il Luogotenente Generale con voce strascicata. «Non credo che siano qui per cercare di venderci dei tappeti.» «Vale la pena di fare un tentativo» ribatté Loredan senza scomporsi. «Alla peggio potremo dare una bella occhiata a questo loro famoso, giovane capo. Mi piacerebbe vedere che faccia ha.» Smise di parlare e si massaggiò il mento, passando il pollice sui peli ispidi della barba non rasata. «Tanto per restare in argomento, qualcuno di voi ne ha visto uno in carne e ossa? Mi pare che siano ancora a letto.» Si guardò intorno. «Dov'è Garantzes? È qui?» Il Capo Ingegnere fece un passo avanti. Dannazione, come faceva ad
avere un'aria così azzimata e marziale a quell'ora del mattino? «Capo Ingegnere» chiese «a che distanza da qui direste che sono quelle tende?» L'ingegnere aggrottò la fronte. «Ottocento metri» rispose «forse un pelo meno. Ben fuori portata se è a questo che stavate pensando.» «Esatto.» Loredan annuì. «Peccato. Comunque, visto che siamo qui, possiamo dargli lo stesso il buon giorno.» Fece un cenno al Capitano della torre di guardia. «Fate mettere in carica quel nuovo trabucco per favore. Il più rapidamente possibile. E mandate qualcuno giù a prendere una pietra da una dozzina di chili e uno di quei grossi cesti di vimini con i lacci per chiudere il coperchio.» Cercare di mirare a un punto preciso con una pietra di poco peso, usando un trabucco per coprire una distanza doppia di quella propria della sua normale operatività, era un esperimento che Loredan non aveva pensato di fare. Fortunatamente, il campo era un bersaglio molto grosso. La pietra volò via dal braccio e dalla cinghia di pelle, perdendo per strada il cesto (che era servito solo a renderla della giusta dimensione perché potesse venire lanciata pulitamente dal trabucco), raggiunse un'altezza quasi impossibile, poi cominciò a precipitare e atterrò con effetti distruttivi su un carro vuoto appena all'interno dell'estremo limite occidentale del campo. L'effetto fu piuttosto soddisfacente. Il botto e il rumore del legno che si sfasciava fecero accorrere uomini da tutte le tende vicine; peccato che fossero troppo lontani per vedere le loro facce, ma il modo in cui restarono per un attimo immobili prima di ricominciare a correre in tutte le direzioni fu abbastanza eloquente. Si erano sentiti sicuri di essere largamente fuori portata ed ecco lì la prova che non lo erano. Ci volle un bel po' prima che si rendessero conto che si era trattato di una pietra molto piccola e che non ne era stata tirata nessun'altra. A quel punto si calmarono. Adesso, con un po' di fortuna, andranno a svegliare il capo, disse Loredan a se stesso. Potremmo perfino scoprire qual è la sua tenda. Non vedo perché dovrebbe potersene stare comodamente a nanna se io non posso. «Temrai» disse una voce agitata nel suo sogno «hanno cominciato a tirarci addosso.» Si svegliò, sollevò la testa, aprì gli occhi. Non era più un sogno; c'era un giovane che non riconobbe in piedi metà dentro e metà fuori dalla tenda. «Che cosa significa tirarci addosso?» chiese con voce roca. «E chi diavolo mi ha lasciato dormire? Ci sono così tante cose che dovrei stare...»
«Stanno tirando rocce contro il campo» lo interruppe il ragazzo, agitato. «Da quella grossa torre che sovrasta il ponte. L'ho visto con i miei occhi.» Temrai balzò dalla sua sedia nel giro di una manciata di secondi. «È impossibile» disse. «Siamo molto fuori portata. Sicuramente non possono avere nessuna macchina così potente.» Il ragazzo gli fece strada. Il campo sembrava già un nido di formiche subito dopo che il primo getto di acqua bollente lo ha centrato. Quando lo vide avanzare la gente che stava correndo di qua e di là si bloccò sul posto e divenne lugubremente silenziosa. Dei, mi stanno dando la colpa, pensò, accelerando il passo. Eppure è impossibile. Niente potrebbe lanciare una pietra da duecento e passa chili a più di ottocento metri di distanza; deve essersi trattato di un trabucco e comunque è impossibile costruirne uno con un braccio abbastanza robusto da sostenere il contrappeso, per non parlare dello sforzo devastante a cui sarebbe sottoposta la struttura. Dovrebbe essere una macchina alta come una montagna; non era possibile trovare alberi abbastanza alti da poterla costruire. «Là» disse il ragazzo eccitato e Temrai vide che gli stava indicando un carro. Non era esattamente un bello spettacolo; un fianco era a pezzi, un assale spezzato e la ruota posteriore da quel lato aveva perso un paio di raggi. «Be'?» disse Temrai. «Là!» ripeté il ragazzo. Temrai guardò più attentamente e notò che c'era una piccola pietra parzialmente confitta in terra accanto a esso. Per un attimo restò lì a fissarla, chiedendosi se potesse esserci un collegamento. Poi capì che cosa era successo. «È tutto qui?» domandò sollevato. Tutti lo stavano fissando. «Beh» continuò «datele un'occhiata. Non è altro che un ciottolo paragonato alle pietre che i trabucchi tirano veramente. Rifletteteci, volete? Ci vogliono venti minuti per mettere in tensione una di quelle macchine e il meglio che potrebbero fare con una pietra di questa misura sarebbe di ucciderci uno alla volta. Diventerebbero vecchi prima di essere riusciti a causarci un danno di qualche rilevanza.» Continuarono a fissarlo. Nessuno osò dirlo... Sì, ma immagina che sia io il prossimo colpito da una di quelle rocce... Ma non ce ne fu bisogno. Temrai si avvicinò, sollevò la pietra e poi la lasciò ricadere. Stava soprattutto pensando a quello che aveva appena detto; danno di qualche rilevanza: un'espressione militare che significava migliaia di morti invece
che centinaia. Non era passato poi così tanto tempo da quando una singola vecchia strappata dalla corrente mentre guadavano un fiume costituiva un disastro nazionale. «Va bene» disse «ecco cosa faremo.» Il secondo colpo della guerra volò oltre le mura della città, sfiorando gli spalti di pochi centimetri, andò a cadere in un canale di scolo e si piantò in un mucchio di sterco di cavallo fino alle piumette bianche e blu. Era una freccia scagliata dall'arco di un arciere a cavallo che si muoveva rapidamente e che avanzando a zig zag si era spinto fin sotto i bracci delle catapulte montate sulle mura, fino all'estremità del ponte dirimpetto a quello levatoio. Aveva scoccato la freccia al galoppo, fatto ruotare il cavallo su se stesso con un gesto spettacolare ed era tornato indietro. Nessuno gli tirò contro, fece scattare una catapulta o gli gridò anche solo semplicemente delle parolacce. Le torri della città sembravano indifferenti alla sua impresa quanto gli alberi di una foresta alle evoluzioni di uno scoiattolo. «Che scopo aveva tutto questo?» chiese qualcuno rompendo il silenzio. «Una bravata» rispose qualcun altro, tirando con cautela la freccia fuori dallo sterco prendendola per l'impiumaggio e allungandola a braccio teso a un impiegato dell'Ufficio Reperti. «Andate a metterla in qualche museo» disse con disgusto. «Uno di questi giorni potrebbe valere qualcosa, se prima lavate via la cacca.» Loredan annuì. «Il primo round è nostro comunque» disse. «Abbiamo vinto lo scambio iniziale di gesti inutili e melodrammatici. Adesso che abbiamo la loro attenzione, andiamo a vedere se hanno voglia di parlare.» Mentre il Consiglio di Sicurezza litigava su quale dovesse essere la composizione dell'ambasceria, giù nella pianura cominciarono ad accadere delle cose. Una fila di grosse zattere apparve sul fiume e ciascuna approdò il più vicino possibile al campo. Le zattere erano cariche di blocchi di legno e non occorreva essere un ingegnere per riconoscere i componenti di una serie di macchine a torsione. Qualcuno sulle mura se ne accorse e la notizia venne trasmessa a Loredan che abbandonò i diplomatici che blateravano e salì di corsa le scale che conducevano in cima alla torre più vicina. «Bene» disse. «Possiamo fare qualcosa in proposito. Corri al porto e fai tenere pronte tre chiatte leggere per un'azione immediata. Possiamo affondare quelle zattere lì dove si trovano; o meglio» aggiunse «possiamo
rimorchiarne un paio più a monte e farle capovolgere in modo da bloccare il fiume. Vedremo come se la caveranno se dovranno portarsi tutta quella roba sulla schiena per sei o sette chilometri.» Aveva appena finito di parlare quando qualcuno lo tirò per una manica e puntò un dito. Una delle zattere era stata tirata a terra sulla sponda destra del fiume, non molto più in su del ponte. Mentre Loredan guardava l'equipaggio sbarcò una estremità di una spessa, pesante catena. Altri uomini scesi dalla stessa zattera cominciarono immediatamente a segare una grossa quercia che cresceva vicino all'acqua. Diavolo, mormorò Loredan fra sé, mi hanno anticipato di nuovo. Si accingono a bloccare il fiume con quella catena in modo da impedirci di arrivare alle zattere. «Ditegli di lasciare perdere le chiatte» gridò giù per le scale. «Questa gente è più furba di quanto pensassi.» L'ambasceria cavalcò attraverso il ponte; dieci membri del Consiglio scortati da trenta uomini della cavalleria pesante, con un capitano della guardia che avanzava in testa reggendo la bandiera bianca. «Spero che conoscano il significato della bandiera bianca» mormorò nervosamente il Luogotenente Generale. «Noi lo sappiamo, ma loro?» «Be', non ne ho idea, no?» mormorò il prefetto. «Fareste meglio a chiederlo a Loredan, è lui che conosce questa gente.» Loredan fece finta di non avere sentito; che si preoccupassero pure, forse li avrebbe indotti a stare tranquilli mentre lui tentava di parlamentare. Non che avesse grandi speranze di successo. Non sembrava probabile che quel grande esercito splendidamente equipaggiato avesse fatto tutta quella strada e fatto tutta quella fatica solo per negoziare tariffe più favorevoli sui beni che esportava. Per quanto lo riguardava c'era solo una cosa che gli interessava ottenere, ma che avrebbe potuto risultare cruciale per la difesa della città. Voleva vedere l'altro uomo. Perché il nemico che hai visto è l'ultimo dei tuoi problemi. L'avvicinamento dell'ambasceria causò agitazione nel campo, proprio quando il clan stava cominciando a calmarsi dopo lo shock provocato dalla pietra fatta scagliare da Loredan. Un altro ragazzo... uno diverso stavolta... arrivò di corsa nella zona di sbarco, dove Temrai stava supervisionando le manovre di scarico insieme agli uomini cui ne aveva affidato la responsabilità. «Uomini a cavallo» disse il ragazzo, ottenendo in questo modo l'attenzione di tutti i presenti. «Sono quaranta e vengono da questa parte.»
Fu Zio Anakai a rompere il silenzio. «O oggi stanno risparmiando le risorse, oppure vogliono parlare» disse. «Portano una bandiera bianca?» Il ragazzo sembrò incerto. «Non so» rispose. «Credo che abbiano una bandiera, ma non ho visto di che colore.» «Una bandiera bianca significa che vogliono parlamentare» spiegò Temrai. «È una specie di primitiva credenza di Perimadeia... Un po' come l'idea che il lembo di una vecchia camicia fissato a un'asta possa renderti invulnerabile alle frecce. Un giorno o l'altro mi piacerebbe metterla alla prova in modo scientifico.» Zio Anakai ridacchiò. «Hai intenzione di parlarci?» chiese. «Non mi sembra che la cosa abbia molto senso.» Temrai, che era piegato sulle ginocchia e stava tracciando un diagramma nel fango con un bastoncino, si raddrizzò e si pulì le mani sulle brache. «Al contrario, Zio An» disse. «Questo è un colpo di fortuna che non mi aspettavo. Ci offre l'opportunità di dare una buona occhiata a quelli con cui dovremo misurarci.» Uno dei montatori inarcò un sopracciglio. «Vuoi dire che ci sono i loro capi, là fuori? Perché non li ammazziamo adesso? Gli facciamo fuori l'intero alto comando prima ancora che la battaglia cominci.» Temrai scosse la testa. «In questo modo torneremmo al punto di partenza, dovremmo batterci contro generali di cui non sapremmo niente. No, andiamo a parlargli, facciamoci un'idea di come ragionano. Comportatevi bene tutti quanti. Ricordate, orecchie aperte e bocche cucite.» I due gruppi si incontrarono proprio di fronte al campo. Per non farsi soverchiare numericamente, Temrai condusse con sé quindici consiglieri, cinquanta cavalieri e tre bandiere bianche, fabbricate in fretta e furia con del lino frutto di una scorreria. All'ultimo momento diede di gomito a suo cugino Kasadai e sussurrò: «Tu sei me, d'accordo?» «Che cosa?» «Fai finta di essere me. Non voglio che sappiano chi sono. Va bene?» Kasadai si strinse nelle spalle. «Sei tu il capo. Che cosa devo dire se mi chiedono qualcosa?» «Quello che ti pare. Grazie Kas.» Temrai scivolò in una delle file posteriori, si abbasso il cappello di pelo di lontra un po' di più sul viso e lasciò che Kasadai cavalcasse da solo in testa al gruppo. Quando le due rappresentanze s'incontrarono Loredan diede di sproni, mollò le redini e si mise a braccia conserte. «D'accordo» gridò ad alta voce. «Chi di voi scimmie comanda qui?»
Dopo appena un attimo di esitazione Kasadai fece avanzare il cavallo. Si schiarì la gola. «Sono Temrai Tai-me-Mar» disse con sussiego «figlio di Sasurai. Che cosa vuoi?» Loredan gli rivolse un sorriso carico di disprezzo. «No, non è vero» disse. «Sei troppo vecchio. Il nuovo capo è un ragazzino con il naso ancora sporco di moccio, lo sanno tutti. Devi essere tu, con quel topo morto in cima alla testa. Vieni qui dove possiamo parlare senza bisogno di urlare.» Dopo un lungo silenzio imbarazzato Temrai avanzò. «Io sono Temrai» disse. «Tu chi sei?» Loredan lo fissò con gli occhi socchiusi. «Ti ho già visto da qualche parte» disse. «Con i nomi sono un disastro, ma non scordo mai una faccia. Ora ci sono: sei il ragazzo imbranato dell'arsenale, quello che mi ha rotto l'insegna.» Temrai annuì appena e i suoi occhi rimasero gelidi come l'acciaio in inverno. «È esatto» disse. «Anch'io mi ricordo di te. Sono felice di scoprire che i miei nemici sono comandati da un ubriacone.» Loredan fece una risata. «Bella battuta» rispose. «Bisogna che me la ricordi. Comunque, bando alle chiacchiere. Vi consentiremo di ritirarvi in buon ordine a due condizioni. La prima è che bruciate tutte le macchine che avete ammassato laggiù prima di andarvene. La seconda, che tu mi dia quello che mi devi per la mia insegna. D'accordo?» Stava cercando di continuare a fissarlo negli occhi, di piegare l'altro con la forza del suo sguardo; ma non era una cosa facile. In quel momento avrebbe preferito che Temrai lo stesse fissando da dietro una spada sguainata, anche se lui fosse stato disarmato. Avrebbe saputo esattamente in che situazione si trovava. Ma gli occhi del ragazzo erano scoraggiantemente immobili, privi del minimo fremito, come la punta della spada di quella ragazza dalla testa dura quella notte, alle Scuole. «Anch'io non dimentico mai una faccia» disse finalmente Temrai. «Dato che non hai avuto la cortesia di dirmi il tuo nome, dovrò ricordarmi della tua. Spero di incontrarti di nuovo.» Loredan sbadigliò. «Credo di dovere interpretare queste parole come un no» rispose. «Peccato. Non avete una sola probabilità e un mucchio della tua gente finirà per morire. Non che me ne importi nulla; ma anche qualcuno dei miei si farà male e quello lo avrei evitato volentieri se avessi potuto. Ah, beh, ricadrà sulla tua testa.» «Accettato» disse Temrai. «Un'ultima cosa, però» continuò Loredan «visto che ti ho qui e proba-
bilmente scapperai prima che io abbia l'opportunità di catturarti, ragione per cui potremmo non incontrarci più... Per pura curiosità, perché state facendo tutto questo?» Temrai lo fissò a lungo in silenzio prima di rispondere. «È una questione personale» disse alla fine. «Personale? Tutto qui? Stai conducendo la tua tribù a morte certa perché ce l'hai su con noi per qualche motivo?» Temrai annuì. «Tutto qui» rispose. «Anzi, ti ringrazio per avermelo fatto tornare in mente. Stavo cominciando a farmi anch'io la stessa domanda; ora vedo che ricordo perfettamente la risposta.» Loredan fece girare parzialmente il cavallo. «Continua, allora» disse. «Non potrebbe interessarmi di meno. Ma ricorda che mi sei sempre debitore di un'insegna.» «Avrai il dovuto» disse Temrai. «Provvederò personalmente.» Bisogna dare atto al prefetto che attese fino a quando furono fuori portata dall'udito del gruppo di Temrai prima di lanciarsi all'attacco. «A che diavolo di gioco pensavate di stare giocando?» sibilò furioso. «È questa la vostra idea di diplomazia...» «Era un gambetto» rispose Loredan senza scomporsi. «Un'apertura aggressiva, un po' come mettersi in guardia al modo della scuola cittadina. Ho scoperto quello che volevo scoprire.» «Sono davvero felice» ribatté il prefetto. «Magari potreste condividere queste preziose informazioni anche con noi, perché sia dannato se ho capito cosa abbiamo ottenuto laggiù. E che cos'erano tutte quelle sciocchezze sul fatto che vi deve un'insegna?» Loredan accennò un sorriso. «E la pura verità» sospirò. «E sono cinque quarti che non vedrò tanto presto. Volete sapere che cosa ho saputo? Ve lo dico. Primo, non esiste nessun traditore che abbia venduto segreti dell'arsenale al nemico; più o meno sei mesi fa quel ragazzo lavorava nell'arsenale come fabbricante di lame. Adesso sappiamo perché. Credo che possiamo dire di avergli insegnato tutto quello che sa.» Il prefetto cominciò a dire qualcosa, ma poi desistette. Loredan annuì. «Secondo» proseguì «il ragazzo è sveglio. È anche molto maturato; beh, suppongo che diventare capo del clan faccia questo effetto a un giovane. Chiunque sia capace di mandare a memoria tutte le specifiche delle nostre principali attrezzature militari e poi di fare costruire una collezione di macchine come la loro a una tribù di nomadi che non ha mai fatto niente del genere, è chiaramente un tipo da non prendere alla leggera. Ora questo
basterebbe da solo a giustificare la nostra uscita.» Il prefetto si morse un labbro e annuì. «Sono d'accordo» aggiunse. «Bene. Ora il terzo punto. Una bella lezione di storia per voi. Dodici anni fa Maxen attaccò la carovana del capo (avvenne quando il padre di questo ragazzo, Sasurai, era al comando) e spazzammo via quasi tutta la sua casata. A essere onesti pensavamo di averla sterminata, di avere ucciso tutti i suoi parenti viventi in un colpo solo, il che faceva parte della politica di destabilizzazione perseguita da Maxen; non lasciando nessun ovvio erede al trono in vita, il risultato era la guerra civile quando fosse morto il capo. Evidentemente non li abbiamo eliminati tutti perché l'uomo che ha fatto finta di essere il capo ha detto di chiamarsi Temrai, figlio di Sasurai. Inoltre, quando ho chiesto al vero capo perché stesse facendo tutto questo mi ha risposto che era una questione personale.» Loredan si succhiò il labbro inferiore con aria pensosa. «E non stava scherzando. Se è il figlio di Sasurai, abbiamo ucciso tutta la sua famiglia a parte lui e il suo vecchio. Il punto fondamentale è che non ha alternative. Deve fare ciò che sta facendo e il clan lo sa. Il che significa che non finiranno per annoiarsi e andarsene se non conquistano la città al primo assalto.» Scrollò la testa. «Avevo già immaginato che tutto questo avesse a che fare con la guerra condotta da Maxen. Ma fino a questo momento non avevo realizzato che il problema fosse così serio.» «Niente altro?» chiese il prefetto. «Qualcosa. Il nostro ragazzo non si fa impressionare dalle spacconate e non perde la pazienza. È bene saperlo. Per quanto posso giudicare ha il pieno controllo della situazione; c'erano parecchi dignitari laggiù, ma nessuno ha aperto bocca a parte Temrai. Vuole dire che faranno tutti quello che gli dirà di fare. Potremmo provare a immaginare se esista un modo per cambiare le cose, qualcosa che potremmo fare per farglieli rivoltare contro, ma non ci conterei molto.» Non appena furono rientrati in città Loredan mandò a chiamare Garantzes e gli disse di abbattere il ponte al di là di quello levatoio. Subito dopo quattro catapulte a torsione furono fatte scattare dal bastione orientale e il ponte diventò un ammasso di pali spezzati e brandelli di assi. Fu un impressionante dimostrazione di balistica e Loredan si augurò che Temrai vi avesse assistito. D'altro canto avvertì che era piuttosto deprimente il pensiero che il primo gesto di distruzione della città fosse avvenuto per suo esplicito ordine. Si augurò che non fosse un segno di quello che li aspettava.
«Di tutte le cose stupide e codarde da fare» ruggì il Luogotenente Generale «la peggiore era proprio distruggere il ponte, così adesso non possiamo fare sortite. Non ci resta altro da fare che stare seduti dietro le mura a guardarli mentre montano le loro macchine senza il minimo disturbo. È criminale.» «Non credo che potremo vedere granché stando dietro le mura» rispose sua figlia. Il resto della famiglia fece uno sforzo per non mettersi a ridere. «Non essere sciocca» disse il Luogotenente. «Hai capito perfettamente cosa voglio dire.» Strappò la crosta da un pezzo di pane, schiacciò la mollica fino a farne un grumo duro e gli diede un morso. «Non mi meraviglierei se dietro a tutto questo ci fosse del denaro che ha cambiato di mano» aggiunse in tono melodrammatico. «Ma mi sembrava...» Sua moglie si interruppe e ricominciò a cucire. «Allora?» «Lascia perdere. Solo una cosa che probabilmente ho frainteso.» «Lascia che sia io a giudicare.» «Be'» disse lei, aguzzando la vista per infilare nel tessuto il sottile ago d'osso «mi sembrava solo che fossi stato proprio tu a insistere... dimostrando molto buon senso, secondo me... che dopo la... come si chiama... forza di esplorazione, o di spedizione o comunque si chiami... Insomma, che dopo il disastro che avevano combinato, non avremmo fatto uscire più nessuno dalle mura per combatterli e che invece ce ne saremmo stati seduti ad aspettarli. Mi sembrava che tu avessi detto proprio così» aggiunse. «Lehan, cara, riesci a ricordare quello che aveva detto papà?» Lehan, che aveva sette anni, annuì con aria grave. «Credo di sì» rispose. «Più o meno quello che ricordi tu, comunque.» Il Luogotenente Generale aggrottò la fronte. «Non è affatto la stessa cosa» rispose, senza smettere di masticare il suo pezzo di pane. «Una cosa è andare là fuori per cercare un altro scontro in campo aperto e un'altra fare una sortita mentre stanno costruendo le loro dannate macchine da assedio. Privarci della possibilità di una manovra come questa, è stata una pura follia.» «Ma avevi detto che tanto le loro macchine non avrebbero mai funzionato» obiettò Lehan. «Avevi detto che era puro buon senso capire che una torma di selvaggi ignoranti...» «Non è questo il punto. Il punto è che il momento migliore per attaccarli è adesso, mentre sono ancora deboli e disorganizzati e hanno le menti
occupate dallo scarico delle macchine. E quell'idiota...» Naturalmente il Luogotenente Generale non era un osservatore imparziale. Era il capo della fazione della Riforma in seno agli schieramenti politici cittadini, mentre il prefetto (il bersaglio delle sue invettive: per quanto lo riguardava Loredan era solo un agente del prefetto) capeggiava la fazione Popolare. Anche se agli occhi di uno straniero ignorante le due fazioni erano assolutamente indistinguibili la rivalità fra di esse era veramente feroce e la precaria tregua che aveva più o meno funzionato da quando era scoppiata l'emergenza cominciava a fare saltare i nervi di tutti i membri del Consiglio. Comunque la discussione in corso a casa del Luogotenente Generale era lo specchio di ciò che in città stava dicendo ciascuno, salvo che l'uomo della strada tendeva a schierarsi a metà fra le due posizioni; derideva il governo per la sua codardia che lo aveva spinto a distruggere il ponte, ma sottoscriveva di tutto cuore il punto di vista che le mura fossero imprendibili e che molto presto i selvaggi si sarebbero stufati e se ne sarebbero andati. «Dovrebbero fare qualcosa» disse Staracius, il diacono anziano, mentre uscivano dal chiostro dell'Accademia Cittadina dopo cena. «Tu sei intimo del Patriarca, Gannadius. Dovresti darti da fare perché spinga per qualche azione. È ora che al punto di vista dell'Ordine venga data la considerazione che merita.» «Oh?» Gannadius inarcò un sopracciglio. «Perché? Siamo un'organizzazione di filosofi e scienziati, impegnati in astruse ricerche metafisiche. Perché dovremmo avere un'opinione di qualche valore su come combattere una guerra?» Staracius lo guardò con espressione perplessa. «Debbo dire» affermò «che come capo effettivo dell'Ordine adesso che Alexius è così preso dai suoi nuovi doveri, non sembri curarti particolarmente della nostra posizione nella comunità. O delle nostre responsabilità, se è per questo. In tempi come questi abbiamo l'obbligo di essere di guida, di dare consigli. Dovremmo stare facendo di più...» «Forse.» Gannadius guardò ostentatamente da un'altra parte. «Quindi, suppongo, tu appartieni al partito degli inceneriamoli-con-la-magia. Temo di non avere molto tempo da perdere con questo tipo di approccio.» «Come sai perfettamente, la cosa non ha niente a che fare con la magia.» «È questo però che la gente dice che dovremmo fare» gli fece notare Gannadius. «Fare a pezzetti i selvaggi con una maledizione. Arrostirli con
palle di fuoco o trasformarli in rospi e riempire il cielo di gru affamate. Mi piacerebbe tanto sapere come fare.» «Adesso stai anche cominciando a parlare come Alexius» disse Staracius in tono di disapprovazione. «Con tutto il dovuto rispetto, ho sempre avuto la sensazione che nel suo carattere ci fosse un fondo di disinvoltura che non si accordava con la migliore tradizione propria del suo ufficio.» «Vuoi dire che ha senso dell'umorismo? Be', forse hai ragione e forse è qualcosa che si sviluppa gradualmente quando ci si trova ad avere la responsabilità dell'Ordine. Ricordo distintamente un tempo in cui dicevo le stesse cose che dici tu ora.» Quelle parole ottennero l'intento di offendere il diacono abbastanza da liberarlo di lui e Gannadius poté raggiungere il suo ufficio senza più essere molestato. Lo aspettava l'allegra prospettiva di una notte di lavoro amministrativo più un bel po' di letture accademiche da affrontare, se poi voleva fare una pausa. Ricordava come Alexius si fosse sempre lamentato di quelle cose e come lui si fosse inalberato, per il fatto che uno con una simile carica avesse da recriminare sul lavoro da svolgere. Era passato veramente tanto tempo. Chiuse la porta, mise il chiavistello e accese la lampada con la candela che aveva in mano. La luce gialla e densa proiettava ombre pesanti negli angoli della stanza e il fumo dello stoppino spuntato male gli faceva bruciare gli occhi. Sarebbe stato bello andare subito a dormire, ma se lo avesse fatto tutto il lavoro lo avrebbe atteso allo stesso posto il mattino. Si sedette e prese un foglio di carta in cima alla pila. Minute di una riunione del Comitato Congiunto delle Facoltà sugli incarichi e sui finanziamenti. Scorse la pagina e vide il proprio nome sotto Si sono scusati per l'assenza e cominciò a tradurre gli appunti della minuta in vere e proprie parole a mano a mano che procedeva nella lettura. I termini sulla pagina avevano un loro senso ma in un certo modo non riusciva a capire come qualcosa di tutto ciò potesse avere rilevanza per lui o essere correlato ad alcunché che potesse interessare ad altri. Il mondo era andato troppo avanti dall'ultima volta che aveva partecipato a una riunione di finanziamento. Ormai erano passati tre giorni, e fino a quel momento non era successo nulla. Da entrambi i lati delle mura l'aria era satura del rumore di martelli, seghe, asce, argani e dell'eco delle imprecazioni; da entrambi i lati uomini issavano corde, trascinavano tronchi, conficcavano cunei e spalmavano colla nelle mortase, tagliavano pietre, gridavano ordini, si riunivano e
qualcuno cercava di risolvere l'ultimo disastro imprevisto. Eppure la distanza fra il campo e le mura era sempre la stessa e nessuno aveva osato avanzare nel tratto intermedio a parte qualche uccello e qualche cane randagio. Non aveva più avuto occasione di parlare con Alexius fin dalla prima mattina; il Consiglio di Sicurezza era più o meno in sessione continuata, anche se non capiva esattamente cosa avessero da discutere. Ogni tanto si domandava se non si fossero fatti portare un paio di tavoli per giocare a dadi e uno di quegli organi ad acqua... Insomma tutto ciò che serviva per una festa come si deve. Per qualche ragione, tuttavia, la sua mente continuava a tornare alla loro sfortunata spedizione nella taverna e all'uomo che Alexius aveva affermato essere Gorgas Loredan. In un primo momento aveva attribuito la cosa alla quantità piuttosto straordinaria di vino dozzinale e di produzione industriale che il Patriarca aveva ingerito; l'idea che quel tizio, anche se era il fratello del Vice Luogotenente Generale, fosse riuscito ad attirarli in un'osteria solo per potergli dare un'occhiata, era sembrata a Gannadius troppo eccentrica per poter essere presa in considerazione. Perché curarsene? E anche ammesso che avesse fatto tutto quello che sosteneva Alexius, con ciò? Eppure il Patriarca era sembrato convinto che Gorgas Loredan fosse il presagio di qualcosa di molto negativo, per loro due e forse anche per l'intera città. E adesso la cosa sta preoccupando anche me. Mi chiedo se ci fosse niente di vero... O si tratti solo di un altro argomento interessante su cui meditare? Molto meglio di queste cose noiose? Per interrompere il corso dei suoi pensieri si alzò e accese il fuoco nel caminetto della stanza. Ultimamente cominciava a provare un certo piacere nel fare quel genere di cose per conto suo (strano; non molto tempo prima considerava il fatto di non dovere fare con le sue mani quel tipo di cose come una delle dimostrazioni di avere conseguito qualcosa nella vita). Si dilungò nel farlo, stando attento a disporre la legna nel migliore dei modi. Una volta acceso il fuoco e controllato che avesse preso, tornò a sedersi, non alla sua scrivania, ma nella confortevole sedia imbottita riservata ai visitatori, appoggiando i piedi su una grossa cassapanca di legno di cedro. Aveva i fogli delle minute in mano e li stava fissando, ma senza leggerli. Ben presto cominciò a sentire le palpebre pesanti e lasciò che si chiudessero... ... Solo per trovarsi di fronte a un diverso camino, che emanava molto calore e ardente al punto da dare fastidio; era a parecchi metri, ma la pelle
gli bruciava per l'eccessivo calore. Era come essere in una forgia, solo che si trovava all'aperto, non all'interno. In effetti, era l'edificio in sé a essere in fiamme. Guardò più da vicino e riconobbe l'arsenale; non che conoscesse bene il posto, anche se una volta, quando era uno studente del secondo anno e aveva del tempo da perdere, c'era andato a curiosare. Pareva stare bruciando dalle fondamenta; e davanti a esso c'era un uomo chino su un'incudine, che sembrava usare le fiamme dell'incendio per lavorare e stringeva in mano un piccolo martello mentre con l'altra reggeva con un paio di pinze una striscia di metallo di un rosso ardente. Era... «Gorgas Loredan?» L'uomo calvo girò la testa e annuì con un'espressione affabile. «Salve» disse. «Strano vedervi qui. Vi dispiacerebbe darmi una mano un momento?» «Naturalmente no» rispose Gannadius. «Cosa volete che faccia?» «Fate andare il soffietto mentre mescolo il fluido per la saldatura» rispose Gorgas. «Non è faticoso, ma se il metallo diventa troppo freddo non riuscirò a fare la saldatura come si deve.» «Come devo fare?» «Muovete questa impugnatura su e giù, pompando... Così, perfetto. Tenete un ritmo regolare... Andrà benissimo.» «D'accordo.» Gannadius abbassò l'impugnatura e tornò a sollevarla. «A proposito» disse «com'è che capisco tutti questi termini tecnici? Non ho mai saputo niente del lavoro del fabbro.» «La conoscenza non va mai sprecata» rispose Gorgas, voltandogli la schiena. Versò una piccola quantità di polvere bianca su una lastra di ardesia, ci sputò sopra e la mescolò con un legnetto fino a ricavarne una pasta. «Questa è roba che vale» disse «e va usata con cura. Non c'è niente altro che si possa usare per la saldatura con l'argento.» «Ah» rispose Gannadius, togliendosi il sudore dagli occhi con una manica. «Credevo che non sapessimo come usare l'argento per questo.» «È così» disse Gorgas «ma la gente delle pianure lo sa. Materiale meraviglioso. Ecco, così dovrebbe andare. Mi pare che abbia raggiunto la giusta consistenza: una via di mezzo fra lo sputo e il muco. In qualunque altro modo non attacca. Continuate a pompare mentre completo l'opera.» Gannadius annuì e continuò a fare funzionare il soffietto. «Il mio amico Alexius sospetta che ci siate voi all'origine di tutto questo» affermò mentre pompava. «Personalmente non saprei... Voi cosa ne dite?»
«Penso che Alexius potrebbe avere ragione» rispose Gorgas. Ma non sarebbe molto più semplice chiederlo a mio fratello, invece di continuare a lambiccarvi il cervello e a perderci il sonno? «È vero» rispose Gannadius. «O a questo punto potreste dirmelo voi stesso.» Gorgas sorrise. «Vorrei tanto esservi di aiuto» affermò «ma sono solo un sogno, una specie di rutto, una emissione di vapori intestinali scaturita dal vostro subconscio. Se non sapete voi la risposta, come posso conoscerla io?» «Ah, ma non è così» ribatté Gannadius. «Se le cose stessero come dite voi, non potrei sapere tutte queste cose sul fluido per la saldatura con l'argento e sulla necessità di mantenere il metallo della esatta sfumatura rosso ciliegia, per essere sicuri che la saldatura funzioni! Non sono cose tratte dalla mia memoria; quindi, lo stesso vale per voi. Il che significa che potete rispondere alla mia domanda.» Gorgas annuì. «Un buon punto. Ovviamente avete imparato un paio di cose da quando avete cominciato a frequentare il nostro stimato Patriarca. Oppure...» Gorgas sollevò il capo e fece un sogghigno; sembrava rosso ardente nel bagliore delle fiamme. «... Vi sto manovrando, come sostiene Alexius. Forza dunque: visto che siete così acuto, ditemi quale delle due ipotesi è quella giusta.» «Perché la città è in fiamme?» chiese Gannadius. «Non ne ho idea.» Gorgas era chino sulla striscia di metallo incandescente e stava avvicinando con delicatezza la barretta d'argento per la saldatura al nucleo. «Su questo argomento dovreste consultare mia sorella. È lei l'intelligentona di famiglia.» «Non sapevo che aveste una sorella» disse Gannadius, svegliandosi di soprassalto quando la pila di fogli gli scivolò dal grembo, cadendo sul pavimento. Qualcuno stava bussando alla porta. Emise un grugnito, raccolse i documenti (che adesso erano tutti mescolati e in disordine) e disse: «Avanti.» Il viso di una ragazza apparve nel vano della porta; non la conosceva. «C'è qualcuno che vuole vedervi» disse. «Dicono di essere vostri amici. Sono stranieri» aggiunse, sottolineandolo. «Come? Oh, falli salire qui, ti dispiace? Questi stranieri hanno un nome, o è troppo strano perché tu riesca a pronunciarlo?» «Oh, non glielo ho chiesto» rispose la ragazza, dopo di che il suo volto
sparì di nuovo. Gannadius si fregò gli occhi, cercando di scacciarne il sonno, riflettendo sull'enfasi con cui la ragazza aveva pronunciato la parola stranieri. Era come se avesse voluto sottintendere che i visitatori erano agenti dei clan ai quali si accingeva a consegnare le chiavi della città, oppure maghi incredibilmente potenti che erano venuti ad aiutarlo a preparare una magia veramente devastante grazie alla quale ben presto i selvaggi sarebbero stati ricacciati nell'oblio; probabilmente, decise, sospettava entrambe le cose. Stava vergognandosi di avere anche solo vagheggiato la seconda ipotesi quando la porta si aprì di nuovo e vide Vetriz e Venart fermi sulla soglia. Venart si schiarì la voce. «Vorrei dire innanzi tutto» annunciò «che è stata solo un'idea di mia sorella.» La ragazza gli lanciò un'occhiata infastidita da sopra la spalla e sedette su un angolo della scrivania. Venart rimase dov'era, vicino alla porta. «Vi prego, entrate» disse Gannadius. «Volete qualcosa da bere? Prego, servitevi pure.» «Oh, grazie.» La ragazza si sporse sulla scrivania, prese al volo la brocca e un bicchiere e se lo riempì. «Mmm... Delizioso» disse. «Che cos'è?» Gannadius sorrise. «Specialità della casa» disse. «È vino dolce del sud, con miele e cannella e andrebbe bevuto caldo. Suonerò per chiederne dell'altro.» «Grazie» disse Vetriz, ignorando lo sguardo di suo fratello. «Mi dispiace di esservi piovuta addosso in questo modo, vedo che siete occupato. Ma volevamo vedere il Capitano Loredan...» «Colonnello Loredan» mormorò suo fratello. «Colonnello Loredan, e nessuno sembra sapere dov'è. Ven è andato nel suo ufficio, ma non era là e gli impiegati non sono stati di nessun aiuto, allora Athli... la sua assistente, che adesso però è in affari con noi... ha casualmente menzionato il fatto che il Colonnello era in eccellenti rapporti con il Patriarca Alexius di questi giorni, e noi siamo andati a trovarlo per vedere se per caso sapesse dove si trova il Colonnello, ma quando abbiamo chiesto a palazzo...» «In portineria.» «... Hanno detto che forse lo sapevate voi, visto che adesso lo sostituivate mentre era impegnato con l'invasione e tutto il resto. Fra l'altro, non è una cosa veramente terribile?» «Terribile» rispose Gannadius con un sorriso. «Vero? Comunque, quello che stavamo chiedendoci è se, purché non vi
rechi troppo disturbo, non potreste fare avere un messaggio al Patriarca, dicendogli di riferire al Colonnello che siamo tornati in città... Siamo arrivati proprio questa mattina... E che se ci potesse dedicare cinque minuti...» «Vetriz» gemette Venart. «Piantala.» «Oh, piantala tu. Pensate che sia possibile?» continuò imperterrita. «Se poteste ve ne saremmo molto grati.» Qualcuno bussò alla porta; di nuovo la ragazza di prima. Gannadius le ordinò di portare una grossa brocca di vino caldo e speziato e tre bicchieri puliti. La ragazza annuì, diede una lunga occhiata ai due isolani e se ne andò. Esitante, Gannadius si sfiorò la fronte con i polpastrelli. Non gli faceva male. Meditò sulla cosa per un po' e prese una decisione. «Non vedo perché no» rispose. «Venart... È così che vi chiamate, vero?... Sedete, vi prego. Penso che il vino vi piacerà. Sì, dovrei essere in grado di fare arrivare un messaggio al Colonnello Loredan. Naturalmente potrebbe volerci un paio di giorni. Come capirete, dopo i recenti sviluppi...» «Oh, va benissimo» rispose Vetriz. «Dobbiamo comunque restare qui almeno una settimana per caricare il resto della corda... Ven ha comperato dal governo tutta la corda in eccesso, un ottimo affare. È per questo che vogliamo vedere il Colonnello. Vedete, l'ultima volta che siamo stati qui ha accennato al fatto che erano a corto di doghe di legno di cedro stagionato per fabbricare archi e mentre eravamo in patria siamo riusciti a procurarcene una notevole quantità... Un ordine cancellato in realtà, ma questo vi prego di non dirlo al Colonnello.» «Naturale» annuì Gannadius con fare cospiratorio. «Sono sicuro che ne sarà entusiasta. Naturalmente se voleste risolvere la questione in fretta invece di aspettare di potere vedere il Colonnello personalmente, penso che l'Ufficio del Quartiermastro abbia il potere di fare acquisti senza bisogno di coinvolgerlo direttamente.» Vetriz sorrise. «Oh, lo sapevamo già. Ma quando hai un contatto nelle alte sfere di una organizzazione può solo giovare trattare direttamente con lui. Non è quello che continui a dirmi, Ven?» Venart, che sedeva quasi sul bordo di una sedia dura dallo schienale diritto, annuì senza dire una parola. Per una volta a quanto sembrava era perfettamente felice di lasciare che fosse sua sorella a parlare.
«In cambio» disse Gannadius «forse sareste così gentili da fare qualcosa per me.» Vetriz non stava più nella pelle dalla contentezza. «Be', ma naturalmente» rispose. «È qualcosa che volete che vi procuriamo?» Gannadius scosse la testa. «Ha piuttosto a che fare con le circostanze del nostro ultimo incontro» disse. «Devo confessare che io e Alexius non siamo stati del tutto sinceri con voi.» «Come, volete dire... È assolutamente affascinante! State parlando di magia, vero? Oh, dimenticavo che non devo chiamarla così.» Di nuovo si sentì bussare alla porta; la ragazza che portava il vino. «Grazie, ci serviremo da soli» disse Gannadius con fermezza. La ragazza se ne andò, palesemente delusa. «Sicuro di non volervi unire a noi, Venart?» chiese Gannadius. «No grazie, davvero. Il vino speziato mi fa venire sempre mal di testa.» Gannadius riempì di vino due bicchieri e ne passò uno a Vetriz. «Andrò dritto al punto» disse. «Quando Alexius e io abbiamo tentato quell'esperimento, la prima volta che ci siamo visti, Alexius vi ha detto alla fine che si era rivelato fallimentare. Non diceva la verità. C'era...» Esitò, fissando il fondo del bicchiere. «Qualcosa laggiù» continuò. «Qualcosa in cui nessuno di noi due si era mai imbattuto prima, il che probabilmente spiega perché non ne abbiamo parlato. Suppongo che ci avrebbe procurato solo imbarazzo; dopotutto, dovremmo essere degli esperti in queste materie. E forse abbiamo pensato tutti e due di essercelo immaginato, non so» aggiunse con espressione perplessa. «Pensandoci bene, tuttavia, sono sicuro che ci fosse qualcosa; quindi, se foste d'accordo, vorrei ripetere l'esperimento.» Smise di giocherellare con il bicchiere e lo appoggiò prima di rovesciare tutto il vino. «Devo anche dirvi che non credo che Alexius approverebbe; ma per essere sincero, adesso che dobbiamo affrontare questa emergenza, penso che qualunque strada che possa anche solo ipoteticamente dare dei risultati debba essere esplorata; e se si rivelasse un vicolo cieco, poco male.» Gli occhi di Vetriz erano grandi, rotondi e luccicanti come un raggio di sole riflesso in distanza da un vetro. «Oh, sì» disse «tentiamo. Non vorrai fare il noioso su questo, vero Ven? Perché se c'è veramente qualcosa che possiamo fare, penso che glielo dobbiamo visto quanto sono stati collaborativi su ogni cosa.» «Fai quello che vuoi» disse Venart rassegnato. «Immagino vi riferiste a mia sorella» aggiunse rivolto a Gannadius. «Se non ricordo male io mi
addormentai.» Gannadius si massaggiò il mento. «Apparentemente in quella occasione tutto suggerì che fosse vostra sorella ad avere... uhm... effetto sulle cose. Ma potrebbe non significare nulla. Vedete, sono convinto che chiunque di voi due abbia il potere non abbia tuttavia coscienza alcuna di quello che sta facendo. Su queste basi, potreste altrettanto facilmente essere voi.» Venart fece spallucce. «Sono a vostra disposizione, allora, se pensate che possa essere d'aiuto.» «Splendido.» Gannadius sorseggiò il suo vino. Ancora nessuna traccia di mal di testa. «Forse gioverebbe se vi spiegassi brevemente come opera il Principio in questo campo... O perlomeno come pensiamo che operi. Come ho detto un attimo fa, questo è un terreno completamente nuovo anche per noi.» Cominciò a spiegare ma pur sforzandosi di mantenere il discorso semplice e ragionevolmente vivace, il risultato fu inevitabilmente un monologo piuttosto astruso pieno di lunghe e strane parole; d'altronde la stanza era confortevolmente calda e il vino forte e dolce e prima ancora di capire dove fosse... Si trovò in piedi su uno dei nuovi bastioni fatti costruire da Loredan, apparentemente nel bel mezzo di una battaglia; tutto intorno a lui c'erano uomini che correvano, portando corde, leve, ceste di nuove frecce con pezzetti di paglia ancora infilati nelle piumette, scavalcando i corpi di uomini morti e di altri che non lo erano, ma che gemevano o piangevano e alcuni di quei feriti erano uomini della Città e altri selvaggi delle pianure. Di quando in quando sentiva il camminatoio vibrare sotto i suoi piedi; immaginò che pesanti pietre andassero a colpire le mura sotto il livello degli spalti. C'era una grossa macchina alla sua sinistra, un trabucco e un gruppo di uomini indaffarati, alcuni dei quali si arrampicavano su un lato della struttura, altri sedevano sulle traverse, altri ancora allungavano corde e attrezzi ai primi e ai secondi. Dal legno spuntavano frecce la cui asta guardava in fuori, verso la pianura e altre frecce superavano le mura ogni tanto, alcune rimbalzando sulla pietra e altre invece cadendo verso le strade sottostanti. C'erano arcieri sulle mura, dritti in piedi per potere piegare i loro lunghi archi rigidi; sembravano non curarsi delle frecce che arrivavano, ma Gannadius vide uno di loro cadere a terra con una freccia che gli spuntava da un orecchio e un altro mollare improvvisamente l'arco e afferrare l'asta di una freccia che gli si era infilzata in un avambraccio. Due uomini corsero verso di lui e lo aiutarono a scendere per le scale, mentre un terzo raccoglieva il
suo arco e cominciava a scagliare frecce. Gannadius si guardò intorno, cercando di scorgere Vetriz o Venart o chiunque altro conoscesse, ma senza successo. Una freccia gli passò talmente vicino che ebbe la sensazione di avere sentito l'impiumaggio accarezzargli una guancia. Fu terrificante, ma accadde così velocemente e senza rumore che all'inizio scambiò il dardo per un refolo di vento o per un insetto. Dannazione, pensò, e adesso che cosa faccio? Devo essere entrato in questo sogno per conto mio. Tornò a guardarsi intorno, ma era difficile vedere qualcosa con tutti quegli uomini che correvano di qua e di là. Probabilmente era arrivato in un momento cruciale... Sembrava essere proprio quello il modo in cui funzionava la cosa: ti trovavi in un momento topico, un punto di svolta che ti consentiva di prendere il controllo della situazione e, così facendo, di mutare il corso degli eventi. Avrebbe voluto capire qualcosa di tattica militare, manovre e roba del genere. Ai suoi occhi era tutto solo un caos spaventoso; se stava accadendo qualcosa di fondamentale, non aveva la più pallida idea di che cosa fosse. Il che non era d'aiuto; per quanto ne sapeva, avrebbe potuto sfuggirgli completamente o, peggio, per pura ignoranza avrebbe potuto modificare le cose in senso negativo. Supponi che fosse il momento in cui la battaglia avrebbe avuto la sua svolta decisiva a favore della Città e che lui cambiasse le cose solo perché non sapeva quello che stava facendo? Qualcuno stava correndo su per le scale; Bardas Loredan, con i capelli inzuppati di sangue e un arco in mano. Istintivamente Gannadius fece un passo indietro per lasciarlo passare, anche se in base alla logica Loredan avrebbe dovuto poterlo attraversare. «La catena» ansimò. «Chi di voi pagliacci si è dimenticato di sollevare le catene? Dei, ci toccherà farlo in mezzo a questo inferno. Va bene; tu e tu, preparatevi a strisciare lungo i pali e a issare le corde. Io mi occuperò di questo punto: tutto quello che dobbiamo fare è infilare la catena sui ganci e poi fissarla.» Gli uomini a cui si era rivolto fecero un passo indietro guardandolo terrorizzati, senza spiccicare parola. Loredan ne afferrò uno per un braccio, ma quello riuscì a divincolarsi. «In nome del cielo, qualcuno deve farlo» gridò. «Piazzeranno le scale contro le mura da un minuto all'altro.» Una freccia sibilò a un passo da Gannadius, colpì la maglia di ferro di
Loredan appena al di sopra dell'anca e rimbalzò. I due uomini si voltarono e scapparono. Tutto considerato, Gannadius non trovò il coraggio di biasimarli. Oh, dei, sta per provare a farlo lui stesso. Gannadius si concentrò, cercando di immaginare in che modo esattamente avrebbe dovuto cambiare il corso degli eventi. Poi si disse: Già, e immagina che Loredan ci riesca e che questo sia quello che salva la città? Se lo fermo, saremo tutti ammazzati. Oh perché non so che cosa fare? Loredan era già sugli spalti, con una gamba fuori e guardava giù per cercare di individuare il palo. Gannadius trattenne il respiro. Fai qualcosa! disse a se stesso... «Salve.» Era la ragazza dell'Isola, Vetriz e stava gentilmente scuotendolo per una spalla. «Vi siete addormentato» disse. «Che cosa?» Gannadius aprì gli occhi. «Santo cielo, è vero. Mi dispiace. Che cosa stavo dicendo?» Completò la sua spiegazione; poi tutti e tre cercarono in ogni modo di addormentarsi senza riuscirci. Quando la cosa cominciò a diventare imbarazzante Gannadius ringraziò molto i suoi visitatori, promise ancora una volta di inoltrare il loro messaggio e li accompagnò alla porta. Poi sedette sul bordo del letto, bevve sistematicamente tutto il resto del vino (che ormai era gelato) e si sdraiò sulla schiena, sentendosi poco bene. Era esausto. Non aveva neanche la minima traccia di mal di testa. Era un uomo molto preoccupato. CAPITOLO QUINDICESIMO La mattina successiva Temrai diede ordine di aggiogare i muli e di fare avanzare la prima batteria di trabucchi. Mezz'ora dopo che si erano spinti nella zona alla portata delle catapulte da cinquecento metri di gittata, tutte e cinque le macchine erano altrettanta legna da ardere e il terreno era cosparso di pezzi di legno, pietre, muli e uomini morti. In risposta erano riusciti a tirare un unico colpo che era andato a finire nel fiume. Pallidissimo in volto e facendo del suo meglio per non fare capire alla sua gente che stava tremando, Temrai ordinò di fare avanzare le due successive batterie simultaneamente. L'attacco era cominciato. Sette macchine sopravvissero alla successiva pioggia di pietre scagliate
dal bastione orientale; ci voleva tempo per caricare i trabucchi e lanciare di nuovo, diciamo venti minuti fra una scarica e l'altra, abbastanza tempo se lo avessero saputo sfruttare. Fece avanzare altre dieci macchine e sulle mura a nessuno era rimasto alcunché con cui bersagliarle. Quando alla fine arrivò, la successiva scarica dalla città distrusse altre due macchine, ma stavolta gli uomini di Temrai avevano quindici trabucchi pronti a restituire la cortesia. Gridò loro di non essere precipitosi e di ricordarsi del mirino. In risposta gli fecero dei gesti che volevano chiaramente dire: non importunarci, abbiamo da fare. La prima macchina lasciò partire il colpo e la pietra colpì il muro da qualche parte vicino alla base. Il clan emise un grande grido di entusiasmo, ma Temrai urlò di stare zitti. Gli addetti aggiustarono la traiettoria dando un precisamente calcolato numero di giri alla manovella. Un'altra macchina fece partire il colpo e la pietra volò oltre le mura mancandole di un metro e mezzo o due. Gli altri addetti mollarono le manovelle di un paio di giri. La terza macchina scattò e stavolta il clan ebbe davvero qualcosa per cui gridare di gioia. «Vicino» gridò Temrai «ma vicino non va ancora abbastanza bene. Continuate così e prima o poi colpiremo quelle dannate catapulte.» Riuscirono a colpirne una prima della successiva scarica dal bastione, che a sua volta distrusse un'altra delle macchine di Temrai e centrò con una pietra la squadra di addetti di un secondo trabucco. Non era davvero un bello spettacolo; uno degli uomini rimasti sotto la pietra era ancora miracolosamente vivo e gridava implorando aiuto. Temrai ordinò a un gruppo di uomini di avanzare; alla fine riuscirono a fare rotolare la pietra da una parte, ma nel frattempo l'uomo era morto. Nel frattempo il duello di balistica continuava; ogni pietra che mancava una macchina di quelle sul bastione colpiva qualcosa d'altro, mentre i colpi a vuoto provenienti dalla città aprivano solo delle buche nel terreno. È così che devono andare le cose, disse Temrai a se stesso, ma ci vorranno ore e ore prima di potere stabilire se la tattica funziona. Oh, be'. Per lo meno non ci stiamo rendendo completamente ridicoli. Quella truce attività continuò per lungo tempo. Da un certo punto di vista era una cosa assurda; gli addetti lavoravano in modo febbrile, tirando corde e caricando a mano le pietre, cercando di mantenere in linea i muli che tendevano le funi che sollevavano il contrappeso, facendo sì che non si scomponessero in preda al panico quando gli cadeva una pietra vicino e sforzandosi di farli muovere nel modo giusto per tutto il resto del tempo, e il resto dell'esercito stava a guardare, come altrettanti spettatori in un
tribunale di Perimadeia, mentre gli uomini ai trabucchi faticavano e morivano. Una volta superato l'impulso di fare ritirare i suoi uomini dalla zona pericolosa, Temrai cominciò a trovare il tutto simile a uno degli eventi più noiosi di una qualsiasi sessione di giochi funerari. C'era lo stesso strano contrasto; sforzi frenetici e disperati nell'arena, silenzio e immobilità della folla, un occasionale fruscio di piedi stanchi per l'essere stati troppo tempo fermi nello stesso posto, e qua e là addirittura il rumore di qualcuno che masticava una mela o brandelli di conversazione su un argomento che non c'entrava nulla con ciò che stava accadendo. Lo scambio di colpi era ancora in una fase abbastanza iniziale, quando Temrai realizzò come fosse possibile assicurarsi un vantaggio e ordinò agli addetti di spostare le macchine più lontane le une dalle altre. Aveva notato che sebbene i suoi uomini avessero centrato solo due catapulte su dieci serie di lanci, le macchine della città lanciavano più lentamente e con meno accuratezza di prima. Ci aveva pensato su e capito che anche se i loro colpi non distruggevano catapulte cadevano comunque quasi tutti sui bastioni e che gli spalti erano così pieni di macchine e di uomini che era quasi impossibile che una pietra cadesse laggiù senza colpire qualcosa. Ciò che i suoi trabucchi stavano facendo era uccidere o ferire gli addetti della città: gli uomini addestrati che sapevano come fare funzionare al meglio le catapulte. Al loro posto subentravano uomini che ne sapevano meno del popolo di Temrai su come si manovrasse una di quelle macchine, da cui la scarsa qualità dei tiri. Se era così, valeva la pena di distanziare i trabucchi. Funzionò; le pietre che andavano a segno e spaccavano legno o ossa erano solo colpi di fortuna, la pratica dimostrazione della legge delle probabilità. I suoi uomini, invece, stavano migliorando di minuto in minuto. Anche a quella distanza il rumore dell'impatto delle pietre poteva essere udito distintamente; un solido e doloroso thump, un rumore di pietra sbriciolata che parlava di danni, sordo come l'impatto della testa nuda di un cavaliere con il suolo quando viene disarcionato da un cavallo in corsa. Era facile immaginare la forza del colpo, perché quando arrivavano le pietre scagliate dalla città, facevano tremare la terra; stare a guardarle mentre arrivavano aveva un suo orribile fascino; le si vedeva diventare sempre più grandi e si cercava di immaginare dove sarebbero cadute, tentando di interpretarne le traiettorie curve e irregolari; qualche volta ci si azzeccava, qualche volta no. Temrai stette a guardare un uomo che a sua volta stava tenendo d'occhio una pietra in caduta libera; si allontanò di corsa da dove si trovava, si fermò, tornò indietro, poi corse di nuovo avanti
con la testa voltata e gli occhi fissi sulla roccia che precipitava; si bloccò, attese, tornò sui suoi passi, aspettò di nuovo e all'ultimo momento fece un balzo di lato; riuscì a sbagliare completamente sicché la pietra gli cadde proprio in testa, cancellandolo dalla faccia della terra in modo così totale che era difficile credere che fosse mai stato lì. Il braccio di uno dei trabucchi si spezzò, con un rumore secco e assordante; priva improvvisamente di ancoraggio la cinghia scattò all'indietro flagellando gli addetti con una terribile frustata. Nessuno fu ucciso, ma braccia e gambe si fratturarono come i rami di un albero morto, cedendo all'improvviso sotto il peso del corpo. Subito degli uomini scattarono in avanti, cercando di afferrare la pietra, di spostarla; gli uomini imprigionati sotto urlavano... No, ferma! State facendola rotolare dalla parte sbagliata! Mi state maciullando, toglietemela di dosso... Poi accorsero altri uomini, finendo per intralciare il primo gruppo che era andato in soccorso. Una pietra colpì il terreno a tre metri da loro più o meno; ne centrò un'altra caduta in precedenza e la spezzò; schegge di pietra dai bordi affilati lacerarono la pelle e fratturarono le ossa. E mentre sempre più gente accorreva per aiutare, un addetto con le mani sanguinanti perché la corda gli aveva strappato tutta la pelle e i capelli fradici di sudore, agitò le braccia e gridò: «Portate via di qui tutta questa gente!» I soccorritori si fermarono confusi, non sapendo cosa fare. Qualcuno gridò Attenti, ne sta arrivando un'altra! e prima che avessero il tempo di muoversi una pietra cadde sibilando, si piantò nel terreno a cinque metri da loro mozzando di netto un piede all'uomo che aveva lanciato il grido di avvertimento. Anche lui abbassò lo sguardo, troppo sorpreso per gridare; cercò di muoversi, cadde in avanti. E per tutto questo tempo Temrai stette a guardare, senza muoversi e senza dire una parola. Sulle mura era tutto un incubo di grida, sangue e polvere di pietra. C'erano grossi buchi nel camminatoio, un trabucco a pezzi pendeva appeso solo per il contrappeso che era rimasto impigliato sugli spalti, mentre l'intera struttura si dondolava nel vuoto. Gli uomini scavalcavano i corpi e saltavano sopra le fenditure, si arrampicavano per slegare corde e rimettere al loro posto cunei che le vibrazioni dei colpi avevano smosso, perdevano la presa su leve e chiavi inglesi che cadevano oltre il parapetto. I responsabili delle macchine combattevano con pinze e martelli per raddrizzare ganci che si erano piegati, mentre i capitani cercavano di ignorare il movimento e il rumore e di concentrarsi sulla mira, oppure gridavano ai
propri uomini di riallineare una catapulta che si era mossa rispetto al suo posto. L'ingegnere Garantzes era in ginocchio e stava combattendo con una corda annodata servendosi di un pugnale decisamente troppo sottile per quello scopo, mentre Loredan andava da una macchina all'altra cercando di rendersi utile e finendo invece continuamente fra i piedi di qualcuno. Vide uomini buttare corpi giù dal camminatoio a calci per farsi un po' di spazio, addetti che urlavano e imprecavano contro gli uomini inesperti che avevano preso il posto di quelli morti, che invece avevano saputo il fatto loro. Udì grida salire dal basso quando la corda avvolta intorno a una manovella si spezzò e una pietra da duecentocinquanta chili ricadde all'indietro sulla squadra di lancio. Stette a guardare mentre un uomo perdeva una scarpa e la osservava impotente cadere giù dal camminatoio, poi appoggiava il piede nudo sulla pietra tagliente del parapetto sbrecciato senza neanche abbassare lo sguardo mentre gli tagliava la pelle come un coltello, concentrando invece la sua attenzione su un nottolino di fermo che si era stortato e che stava cercando di rimettere a posto mentre la sua squadra reggeva la massa quasi insostenibile del contrappeso; se avessero mollato o la corda si fosse spezzata il verricello ruotando gli avrebbe maciullato la mano o la pinza sarebbe schizzata via e gli si sarebbe piantata fra le costole come una freccia. È perché non riesco a vedere il nemico, disse a se stesso. Probabilmente la situazione sembrava peggiore di quanto non fosse. Così non va. Se continuiamo così, finiremo per perdere. Fai qualcosa. Una pietra aveva spazzato via i primi sei gradini della scala e ora era costretto a sedersi e a scivolare sul sedere per arrivare al primo gradino superstite. Sulle scale c'erano dei feriti che erano riusciti a trascinarsi fino a lì e si auguravano che bastasse per essere al sicuro. Li scavalcò, ma mise giù male un piede e finì per pestare la mano a qualcuno; non c'era tempo di scusarsi e neanche di girarsi indietro. Arrivò in fondo alla scala e camminò rapidamente (nessuno doveva vederlo correre) su per la strada che conduceva in città. Era come se qualcuno avesse tirato una riga attraverso la strada; la guerra finisce qui. Dall'altro lato della linea la gente faceva compere, sedeva sulla soglia intenta al suo lavoro (un ciabattino che stava tagliando del cuoio alzò lo sguardo per fissare l'uomo sporco, impolverato e
macchiato di sangue che stava passando in armatura davanti alla sua porta), come se a poche centinaia di metri non ci fosse un piccolo inferno; come se tutto quello che occorresse fare fosse allontanarsi, voltare la schiena, non sentirsi parte di ciò che accadeva. Come no. Entrò nella sala del Consiglio e puntò dritto verso il prefetto che era seduto sotto una finestra, con una pila di documenti sparpagliata davanti a sé. Questi alzò gli occhi... Come sembrava splendidamente pulito in confronto il suo abito bianco... E cominciò a dire qualcosa. «Dobbiamo uscire e fare una sortita» disse Loredan. «Possiamo usare una nave, uscire dal porto e arrivare fino alla catena, sbarcare uomini e cavalli sulla riva occidentale. Avranno zattere sul fiume; possiamo catturarne un paio più a monte, traversare e prenderli alle spalle usando le colline per nasconderci. L'importante è colpire i loro addetti, e a questo scopo possiamo anche sacrificare il gruppo che mandiamo fuori.» Il prefetto scosse la testa. «Non se ne parla neanche» disse. «Niente sortite, niente combattimento uomo a uomo. Eravamo tutti d'accordo.» Loredan fece un respiro profondo. «Ci stanno facendo a pezzi sul bastione orientale» disse. «E se perdiamo quello, perdiamo la zona di controllo dei cinquecento metri di gittata. Ho bisogno di quella sortita.» Il prefetto si strinse nelle spalle. «Ho avuto i miei dubbi su quei bastioni fin dall'inizio» disse. «Adesso è ovvio che non sono stati una buona idea. Dobbiamo accantonare l'esperimento come poco pratico e tornare all'originale piano di difesa basato sulle vecchie mura.» Loredan riuscì a controllarsi. «Se perdiamo la zona di controllo» disse «potranno mettere in campo anche le loro macchine più piccole e allora saranno in grado di scacciarci anche dalle vecchie mura. E saremo a portata di tiro degli archi. Hanno molti più arcieri di noi e archi che tirano più lontano. Se riusciamo a spazzare via le squadre di addetti ai trabucchi ridurremo il loro volume di tiro e avremo la possibilità di uscire dalla situazione insostenibile che si è creata sul bastione; potremo rispondere e la zona sarà salva. Vi prego, mi serve il tempo necessario.» Il prefetto rifletté per un momento. «Quanti uomini vi servirebbero?» «Cento, centocinquanta. Sarà un'azione basata sulla velocità e la sorpresa più che sul numero; l'intero dannato clan è là fuori che osserva lo spettacolo stando ai margini della zona.» «E pensate di riuscire ad arrivare in posizione senza essere visto? Non vedranno i vostri uomini sbarcare? Non si chiederanno cosa stiano
combinando? E certamente avranno dei distaccamenti stabilmente piazzati a guardia delle zattere.» Loredan fece spallucce. «Forse» disse. «Personalmente penso che le probabilità di batterli come un tappeto e riportare i ragazzi in città per ora di cena siano molto esili, ma a meno che non vogliate consentire a Temrai di prendere il controllo del bastione entro stanotte, dobbiamo cercare di fare qualcosa. Se avete un'idea migliore, sarò felice di ascoltarla.» «Ci sono gli arcieri a cavallo mercenari» disse una voce alle spalle di Loredan; Liras Fanedrin, che occupava una qualche carica di rilievo nell'Ufficio Ratifiche. Loredan non aveva ancora capito che cosa facesse esattamente l'Ufficio Ratifiche. «Sono sacrificabili e ha l'aria di essere il loro tipo di lavoro.» Loredan scosse la testa. «I mercenari non partecipano a missioni suicide» disse. «Dovranno essere soldati della Città.» Il prefetto aveva l'aria seccata. «Oh, va bene» sospirò. «Liras, riguarda il tuo dipartimento. Che mi dici della nave?» «No, si tratta di un altro dipartimento.» Fanedrin fece un cenno di diniego. «La requisizione di navi è compito dell'Ufficio Approvvigionamenti, non nostro» ribatté. «Affidate il compito a Teo Oliefro. Mi è sembrato di vederlo qui intorno un attimo fa.» Si voltò verso Loredan e disse: «Avete idea di chi mettere al comando? Ci vorrà uno in gamba, ma non troppo.» Loredan stava per obiettare; aveva dato per scontato di guidare lui stesso la sortita, dato che era al comando. Non gli era neanche venuto in mente di mandare qualcun altro. «Piras Muzin» disse. «Farà quello che gli verrà ordinato e non ha abbastanza immaginazione per capire che non tornerà mai indietro.» Sacrificabile... Già, come gli avvocati in tribunale. Se si trattasse di scegliere fra me e Muzin in una corte di giustizia, non esiterei un secondo. E fra l'altro se andassi io, alla fine mi salterebbero i nervi e me la batterei. «Buona scelta» disse Fanedrin. «Farete meglio a dargli gli ordini al più presto. Dovremmo essere pronti a muovere nel giro di un'ora.» Fanedrin e il prefetto si allontanarono e Loredan si lasciò cadere sulla sedia sotto la finestra. Improvvisamente si sentiva molto stanco e non aveva nessuna voglia di dovere tornare sulle mura, dove le pietre cadevano sfasciando tutto e niente sembrava andare per il verso giusto. Sarebbe stato bello potere rimanere un po' lì; era molto più facile pensare a come risolvere le cose stando in pace e in silenzio e poi lassù non poteva fare
niente di utile. Quanto a Piras Muzin... Be', tutti i giorni moriva qualcuno e non era certo colpa sua. Gli serviva un po' di tempo, per rattoppare il bastione, portare via le macerie, rimpiazzare le macchine sfasciate, fare in modo di potere ricominciare dall'inizio. La testa gli scoppiava; rumore, polvere, paura e sfinimento. Una bevuta sarebbe stata una bella idea. Anzi, non sarebbe stata una buona idea. Era già abbastanza pericoloso stare sulla mura senza bisogno che gli girasse anche la testa. Si alzò in piedi finché ne aveva ancora la forza e si diresse lentamente verso la torre di guardia. Non poteva perdersi il divertimento. Piras Muzin, un uomo con cui Loredan aveva parlato sei o sette volte, fece tutto molto bene. Era stato a capo di una delle ali di cavalleria durante il disastro del guado e aveva guidato scrupolosamente i suoi uomini attraverso il varco nelle linee nemiche che era stato aperto da Loredan, si era reso utile nello sventare l'imboscata al successivo guado più a monte, era rimasto in contatto con il grosso per tutta la ritirata, fino al ritorno in città. Sarebbe stato un efficiente ufficiale regolare, sia pure in una posizione verso il basso della catena di comando, se avesse combattuto con l'esercito di Maxen. Dalla torre di guardia sembrava tutto un gioco e Loredan, durante l'attesa, si divertì a calcolare il punteggio. Temrai era ancora in vantaggio, ma il suo ritmo di tiro era rallentato; era difficile a dirsi da quella distanza, ma pareva che i suoi addetti avessero dei problemi perché dopo un così lungo uso continuato le macchine cominciavano a cadere a pezzi. Le catapulte della città reggevano un ritmo migliore e più regolare ma solo un colpo ogni quindici riusciva ad andare a segno. Il nemico centrava circa un colpo ogni venti, ma un buon terzo dei suoi colpi colpivano comunque il bastione o cadevano lì intorno e perfino i tiri chiaramente sbagliati andavano in ogni modo a colpire le mura. Era bizzarro fare lo spettatore una volta tanto; cominciava a capire perché la gente si divertisse a stare a vedere certi spettacoli. Si domandò se qualcuno degli altri uomini che erano sul bastione insieme a lui sarebbe stato interessato a una piccola scommessa. Quando arrivò il momento, l'azione di cavalleria fu breve e non particolarmente spettacolare. Muzin fece esattamente ciò che gli era stato ordinato; i suoi uomini sbucarono da dietro la protezione offerta dalle colline e cavalcarono in mezzo alle squadre di lancio, menando dalla sella colpi di spada a destra e a sinistra contro uomini che non si aspettavano
niente del genere, agendo con la stessa velocità ed efficacia di contadini che tagliassero il fieno. Almeno metà di loro continuarono fino a quando non furono raggiunti dalla cavalleria di Temrai; il resto cercò di scappare ma non ne ebbe il tempo. Benché la cosa fosse sostanzialmente irrilevante e non facesse parte della missione si batterono molto bene contro quelli delle pianure prima di essere sopraffatti. Tutto fu in linea con le migliori tradizioni della cavalleria. E, una volta risolta la scaramuccia, le pariglie di muli avanzarono e tirarono i trabucchi lontano dalla zona di tiro. Delle trentacinque macchine nemiche che erano state utilizzate, diciotto funzionavano ancora o potevano essere riparate. Gettando un'occhiata d'insieme al bastione, Loredan vide i bracci di nove catapulte che si stagliavano contro il cielo; nove su sedici, neanche così male dopotutto. Ovviamente, domani sarebbe stato un altro giorno. Loredan sbadigliò e si stirò; niente riposo per lui quella notte, almeno fino a quando il bastione non fosse stato rattoppato nella misura in cui era possibile e non fossero state issate altre macchine, per rimpiazzare le perdite. Aveva già deciso dove rimediare le catapulte da usare in sostituzione; quattro dal bastione occidentale, una dal posto di guardia e altre due direttamente dall'arsenale con la pece ancora umida. Avrebbe dovuto organizzare delle squadre che radunassero tutte le pietre scagliate dal nemico che potevano essere riutilizzate; molto probabilmente, dal punto di vista delle munizioni, la giornata si era conclusa con un netto profitto per la città. Il problema maggiore sarebbe stato rimpiazzare gli addetti esperti; avrebbe dovuto svuotare gli altri punti di difesa, certamente quasi tutto il lato occidentale se voleva essere sicuro di avere abbastanza uomini sotto mano da rimpiazzare le perdite del giorno dopo senza dovere rallentare il ritmo di tiro. D'altro canto, Temrai avrebbe dovuto affrontare lo stesso problema. Tutto considerato, quindi, un giorno piuttosto equilibrato; nessuna delle due parti aveva conquistato vantaggi significativi e praticamente era tutto da rifare. Ah, be'. Perlomeno non ci siamo resi completamente ridicoli. Avrebbe voluto restare più a lungo lassù in cima, lontano da tutto, ma un messaggero inviato da Garantzes lo richiamò sul bastione: problemi con danni strutturali che richiedevano una decisione strategica. Camminò lentamente e scoperse che salire le scale gli costava un grosso sforzo. Quando fu a due terzi dell'ascesa notò un lungo taglio attraverso il
ginocchio sinistro dei suoi pantaloni e una larga macchia di sangue che aveva macchiato il tessuto. Si fermò per esaminare la ferita, della quale fino a quel momento non si era neanche accorto. Era un taglio lungo e profondo, piuttosto pulito e provocato da qualcosa di estremamente affilato, probabilmente una scheggia di pietra. Doveva essere successo parecchie ore prima perché il sangue sulla pelle era secco e cominciava a staccarsi. Annotò mentalmente di curarsene più tardi, se ne avesse avuto il tempo. «Andiamo male» riferì Garantzes. «Tutta questa sezione del muro ha subito un martellamento infernale, solo gli dei sanno cosa la tiene ancora in piedi. Possiamo puntellarla con dei pali e cercare di intervenire con la malta, ma la cosa da fare sarebbe buttarlo giù ed erigerlo di nuovo.» «Ma certo» disse Loredan stancamente. «E magari potresti chiedere al nemico di reggerti la scala mentre lo fai.» Garantzes non trovò la battuta particolarmente divertente. «La sola cosa che mi viene in mente» disse «è di abbattere qualche altra sezione di muro e di usare i blocchi per costruire un muro interno che serva a sostenere questo qui. Naturalmente ci vorrebbe del tempo, ma sarebbe dannatamente più veloce che non fare tagliare nuovi blocchi, anche se in città abbiamo tutta quella pietra grezza. Se costruiamo a secco risparmieremo altro tempo: possiamo usare le gru dei trabucchi per sollevare i blocchi. Se mi dedico a questo lavoro giorno e notte e con abbastanza mano d'opera, potrei fare un lavoro decente in un paio di settimane.» Loredan scosse la testa. «Pensaci» disse. «La mia supposizione è che cercheranno di spostare nuovamente le loro macchine nella zona di tiro durante la notte, in modo da potere ricominciare i lanci alle prime luci dell'alba. È questo tutto il tempo che hai.» «Impossibile. In questo caso il mio consiglio è di fare portare via da qui tutte queste macchine entro stanotte; così quando il bastione domani crollerà non trascinerà con sé il meglio della nostra artiglieria.» Quindi era stato tutto inutile; l'eroica carica di cavalleria, il fatto che Piras Muzin avesse dato la vita per la Città, soprattutto lo sforzo fatto per erigere i bastioni. Adesso avrebbe dovuto dare l'ordine di riportare giù le catapulte che erano state appena issate e di rimetterle al loro posto sulle vecchie mura, rinunciando al vantaggio della zona di controllo di cinquecento metri e invitando il nemico ad avvicinarsi abbastanza da potere spazzare via i difensori dalle mura a colpi di freccia. Non c'era altro da fare. «Va bene» disse.
«È un peccato» osservò Garantzes in tono pensoso. «Se avessimo avuto una serie di bastioni come questo lungo tutte le mura, quella sì sarebbe stata un'idea dannatamente buona. Uno solo è servito unicamente a offrire loro un preciso bersaglio a cui mirare.» Rimuovere le catapulte senza fare crollare il muro richiese gran parte della notte. Uno degli uomini di Garantzes si schiacciò una gamba (aveva gridato Tenete! alla gente che calava le corde, ma non lo avevano sentito) e un altro appoggiò un piede su un tratto di muro che non esisteva più e si fratturò un braccio e svariate costole. Quando il sole sorse rivelò le sagome di una fila di trabucchi piazzati all'interno della zona di tiro, con i bracci già in tensione e le cinghie caricate. Temrai diede l'ordine e la linea avanzò. Grazie al censimento Temrai sapeva esattamente quanti uomini stavano avanzando con lui verso la città; tremila, i migliori arcieri del clan, ciascuno dotato di due faretre con venti frecce ciascuna. Centoventimila frecce (di legno verde, con le piumette d'anatra) che i suoi uomini avrebbero dovuto essere in grado di lanciare in meno di dieci minuti. Una volta Temrai aveva sentito un'amica di sua madre lamentarsi di avere preparato un pranzo speciale per il compleanno di qualcuno: beh, ci aveva messo un giorno e mezzo per preparare ogni cosa, ma tutto era stato mangiato in meno di un'ora; tutto quel tempo e quella fatica per preparare qualcosa che era sparito così in fretta e subito dopo era già dimenticato! L'ultima scarica di pietre lanciata dai suoi trabucchi gli volò sopra la testa come uno stormo di anatre, tracciando sul terreno una ragnatela di ombre sottili che indicavano nella loro corsa dove sarebbero andati a cadere i proiettili. Un po' arretrati rispetto allo schieramento degli arcieri c'erano i muli da carico che trasportavano le macchine a torsione. Molto presto le catapulte sulle mura avrebbero cominciato a lanciare e stavolta lui non sarebbe stato a distanza di sicurezza a guardare lo spettacolo. Alzò lo sguardo verso le nuvole, cercando di interpretarle. La pioggia avrebbe complicato enormemente le cose; le corde degli archi si sarebbero bagnate, le macchine impantanate, le torce si sarebbero rifiutate di accendersi, le armature di cuoio avrebbero assorbito acqua e cominciato a gonfiarsi, e l'acqua sarebbe ruscellata all'interno delle armature stesse facendo sentire miserabile ogni uomo dello schieramento, mentre la pioggia sarebbe andata negli occhi degli arcieri al momento di prendere la mira. Le nuvole erano basse, grosse e grigie; non appena avessero
raggiunto le colline, c'erano buone possibilità che mollassero il loro carico inzuppando ogni cosa. Stava ancora guardando in alto quando la prima pietra cadde fischiando. La osservò, notando come la traiettoria si arcuasse e la discesa diventasse sempre più a picco. Un colpo chiaramente mancato, che sarebbe caduto almeno venti metri davanti a loro. Probabilmente serviva a calcolare le distanze. Ormai c'erano quasi; riusciva a notare particolari degli uomini sulle mura che prima non poteva vedere. Teoricamente erano loro ad avere un vantaggio come lunghezza di tiro, dato che lanciavano dall'alto verso il basso, ma Temrai conosceva gli archi della città; archi lunghi ricavati da un unico pezzo di legno, molto diversi dai piccoli archi molto ricurvi e fatti di più parti di cui si serviva il clan. In pratica il vantaggio dovuto all'angolatura era più o meno completamente cancellato dalla migliore fattura dei loro archi, così come il fatto che la gente della Città di solito usasse frecce troppo rigide per essere accurate, veniva pareggiato dalla circostanza che loro erano stati costretti a fabbricare le frecce con legno non stagionato e a usare penne inadatte per gli impiumaggi. Era come se qualcuno cercasse deliberatamente di equilibrare le probabilità... Noi abbiamo più uomini, loro sono al coperto e hanno migliori armature; noi abbiamo il sole negli occhi e loro il vento contrario; noi siamo nel giusto, loro stanno difendendo le loro case e le loro famiglie. Si stava rivelando una guerra accuratamente pianificata e costruita con precisione. Le catapulte della città non ci misero molto ad aggiustare il tiro. La prima scarica accurata aprì varchi lungo tutta la linea, chiari come impronte nella neve fresca. Temrai ordinò l'alt e diede degli ordini; incoccare una freccia, tendere, mirare, lanciare, ripetere il ciclo in modo fluido e senza mai fermarsi. Scagliò la prima freccia all'unisono con i suoi comandi, sperando di avere valutato correttamente l'elevazione. Lo sforzo fisico lo assorbì al punto da distrarre la sua mente da ciò che stava accadendo. Testa ferma; aspetta di sentire la corda che ti sfiora il naso e le labbra, la tua mano a contatto con la punta del mento. Al comando tirare! rilasciare le dita della destra, in modo che la corda scatti facilmente e senza interferenze. Dopo avere lanciato mantenere la posizione per il tempo di un battito cardiaco prima di lasciare che la destra corra alla faretra alla ricerca della freccia successiva. Soprattutto, fissa il bersaglio e non l'arco, tieni gli occhi fissi sul tuo obbiettivo lontano, il punto remoto dove devono verificarsi gli effetti di tutti i tuoi sforzi.
Laggiù, sulle mura, le frecce sarebbero cadute come pioggia, anonime e impersonali, niente a che vedere con una faccenda intima come bucarsi vicendevolmente la pelle a distanza ravvicinata con un'arma affilata. Lì, sulla linea dei duecento metri c'era ancora la sensazione ingannevole di prendere parte a un grande gioco, un evento spettacolare, con le mura che facevano da bersaglio e il pubblico intorno. Giochi funerari; che divertimento sarebbe stato potere assistere ai propri. Una faretra era già vuota; Temrai si guardò intorno e vide che i suoi stavano affrettandosi; ancora ventimila frecce da tirare: abbastanza per fare durare la guerra un altro minuto. Partecipanti e spettatori; a Temrai vennero in mente i processi che si facevano in città. Era andato a vedere un paio di cause, seduto talmente indietro da non riuscire neanche a vedere le facce degli avvocati e gli era sembrato un modo bizzarro di regolare le questioni d'affari in una città che, per il resto, aveva risolto tutto tanto brillantemente. D'altro canto era vero che per ottenere un verdetto inappellabile niente era meglio di un giudizio basato su un duello. Accanto a lui un uomo mollò l'arco e cadde in ginocchio, con l'asta di una freccia che gli spuntava dal lato destro del petto. Un colpo ben lungo; l'arciere lottava per respirare, domandandosi perché inalasse, ma soffocasse lo stesso. Si voltò verso Temrai, il suddito verso il suo signore, e aprì la bocca, ma non ne uscì nulla eccetto uno sbocco di sangue. Prima che Temrai potesse dire qualcosa cadde in avanti sulla faccia, restando un po' sghembo a causa della freccia che gli sporgeva dal petto. Poi qualcuno allungò a Temrai una manciata di frecce, che lui infilò a fatica nella faretra perché le punte delle nuove si impigliavano nell'impiumaggio delle altre. Solo gli dei sanno se stiamo ottenendo qualcosa. Un minuto le mura sembrano vuote, un minuto dopo pullulano di teste. Il braccio destro e la schiena cominciavano a fargli male e ogni volta che lanciava la corda andava a sbattergli contro l'avambraccio sinistro, sempre nello stesso punto, facendolo sussultare. Un vero lavoraccio; prima che se ne fosse accorto, la faretra era vuota e Temrai lasciò il suo posto e avanzò per andare a raccogliere qualche freccia nemica (più lunghe e rigide delle loro, con impiumaggio di oca o pavone e punte sottili e triangolari che attraversavano le armature in modo molto efficiente). Mentre si chinava una pietra andò a colpire esattamente il punto in cui si era trovato fino a poco prima. Poi una goccia di pioggia gli bagnò il dorso di una mano.
«Ci mancava solo questa» masticò amaro Teofíl Leutzes, capitano degli arcieri delle mura orientali. «Corde umide, impiumaggi bagnati, e poi quando c'è umidità questi archi hanno l'abitudine di spezzarsi.» Fece un cenno a un uomo alla sua sinistra. «Manda dei messaggeri lunghe le linee, che tutti si affrettino a mettere della cera sulle corde, prima che cominci il diluvio. Non che spero che lo facciano davvero, naturalmente» aggiunse. «Tutto quello che vogliono è esaurire le mie frecce nel minore tempo possibile e mettere la testa al riparo.» Ben presto la pioggia cominciò a cadere a larghe gocce, scivolando giù per i bordi posteriori degli elmetti e dritta nel collo degli arcieri, rendendo appiccicaticci i loro guanti di cuoio e viscide le impugnature degli archi. Loredan si alzò il cappuccio sopra l'elmo e cercò riparo sotto la struttura di una catapulta. La pioggia è bagnata in guerra come in pace e solo uno sciocco ci si espone meno che non sia obbligato. Stava andando malissimo. Sostanzialmente il problema era sempre lo stesso; il nemico era sparpagliato mentre i suoi uomini erano tutti accalcati. La copertura offerta dalle merlature non serviva a niente dato che le frecce arrivavano dall'alto e cadevano di traverso, come gocce di pioggia in un giorno ventoso. Alcuni degli uomini avevano due e anche tre aste di freccia che gli sporgevano dall'armatura; voleva dire che le frecce a punta larga del clan erano riuscite a penetrare la maglia d'acciaio, ma non l'imbottitura sottostante; infatti continuavano a tirare, troppo preoccupati di non sprecare tempo per strapparsi le frecce di dosso. Le catapulte scagliavano pietre a intervalli sempre più lunghi via via che altri addetti venivano colpiti e il loro posto veniva preso da uomini non addestrati. E adesso la pioggia; c'era troppo bagnato per tenere accesa una torcia. Il camminatoio era scivoloso, il che rallentava gli uomini cui toccava teoricamente il compito di fornire di continuo agli arcieri nuove scorte di frecce. Gli argani che issavano i barili di frecce sulla torre giravano anch'essi lentamente; era troppo facile che una corda scivolasse fra le dita bagnate di qualcuno, facendo precipitare un pesante barile sulla testa degli uomini che lo stavano sollevando. La cosa peggiore era che non gli veniva in mente nessun modo per migliorare la situazione; era un tipo di guerra lento e a distanza che non poteva essere accelerato né consentiva di afferrare la vittoria con qualche gesto di brillante eroismo. Si trattava solo di un duro, sporco lavoro sotto la pioggia. Per quello che serviva, rifletté Loredan, avrebbe anche potuto restarsene a casa, nella sua fattoria. «Stanno trascinando avanti qualche cosa d'altro» gridò una voce sopra la
sua testa. Un giovane entusiasta che si era arrampicato fino alla traversa di una macchina non più operativa, per poterci vedere meglio. Era già un po' che stava lassù. Le frecce sembravano evitarlo, come gatti diffidenti che non volessero sedere sulle ginocchia di uno sconosciuto. «Non riesco a vedere cos'è, ma è qualcosa di grosso e massiccio; hanno dovuto aggiogarci almeno trenta muli.» «Vieni giù di lì» rispose Loredan. «Sei in cerca di guai? Scopriremo di cosa si tratta anche troppo presto, senza bisogno che tu rischi la pelle.» «Va bene, scendo fra un minuto. Penso che possa essere una specie di torre, piegata su un fianco. O forse anche un ponte. Un ponte avrebbe più senso di una torre.» Ah, già, l'ultimo problema: come pensavano di fare ad attraversare il fiume? Per quel giorno non aveva intenzione di smettere di piovere. Si trattava di quella pioggia fitta e decisa che fa correre la gente per la strada con il cappotto tirato sulle testa e che la fa rifugiare sotto i portoni o sotto gli alberi. La terra sotto i piedi aveva già la consistenza collosa di mollica fradicia e rendeva ogni passo uno sforzo. Sulle alture più basse delle colline che sovrastavano la torre di guardia, Temrai aveva trovato rifugio sotto un improvvisato riparo di pelli. Teneva in mano il pezzo di pergamena su cui aveva disegnato il piano di ciò che avrebbe dovuto succedere in seguito, ma la pioggia aveva cancellato da tempo i segni tracciati con il carbone, lasciandolo con un pezzo di pelle sottile e fradicio, che non serviva a un bel nulla. Non importava; sapeva quello che avrebbe fatto. Alle sue spalle il fiume, prima del punto in cui si biforcava, era pieno di zattere; centoventisei per la precisione, ognuna lunga quattro metri e larga tre. Sollevò un braccio e gli uomini sulle zattere cominciarono a spingerle avanti, puntando verso la catena stesa attraverso la biforcazione del fiume. Sarebbe bello se funzionasse. Be', lo scopriremo fra poco. Da dove era seduto avrebbe dovuto godere di una buona visuale dello scontro sotto le mura, ma c'era così tanta pioggia nell'aria che riusciva solo a intravedere sagome e vaghi colori, ma nessun preciso dettaglio degli uomini e delle macchine. Comunque, da tutti i punti di vista, sembrava che le cose andassero bene. Ormai aveva più di diecimila arcieri ai piedi delle mura e il tiro di risposta dalla città era sporadico e flebile. Quasi tutte le catapulte della
città avevano smesso di lanciare mentre le sue, insieme ai trabucchi stavano sistematicamente sbriciolando una sezione delle mura di un centinaio di metri, che sovrastava il punto più stretto del fiume. A differenza del bastione che avevano attaccato il giorno prima (un lavoro fatto di recente, mal disegnato e peggio costruito) le mura principali erano troppo solide e massicce per essere abbattute con le catapulte; ma i suoi uomini si stavano concentrando sullo spazzare via spalti e camminatoi, sull'abbattere le torri e sul demolire le merlature che, altrimenti, il clan avrebbe dovuto scavalcare quando fosse venuto il momento. «Va bene» disse e fece cenno a uno dei messaggeri che sedevano con aria miserabile mezzo dentro e mezzo fuori dal riparo. Il povero ragazzo era fradicio fino all'osso e l'acqua gli ruscellava sulle guance come se stesse piangendo. «Vai laggiù e digli di abbassare la catena. Corri. Poi torna subito qui.» Il giovane annuì e scattò, scivolando e vacillando mentre cercava di scendere di corsa lungo l'altura fangosa. Dei, scivolerà e si romperà l'osso del collo e noi saremo costretti a stare qui più a lungo. «Rallenta e guarda dove metti i piedi» gridò dietro al ragazzo che però era già troppo lontano per sentirlo. «Stanno abbassando la catena!» gridò il giovane da sopra la testa di Loredan, ancora miracolosamente vivo ed entusiasta come sempre. Per qualche attimo Loredan non riuscì a capire di cosa stesse parlando... Catena? Quale catena? Oh, quella catena. Dei benedetti, stavano abbassando la catena e quello era il modo in cui contavano di attraversare il fiume. Dovevano essere pazzi. Speriamo... Si guardò intorno, alla ricerca di qualcuno che potesse portare un messaggio, ma erano tutti impegnati a scagliare frecce e poi a schiacciarsi sotto magri ripari di pietra e di legno per sottrarsi alla pioggia di quelle nemiche, a cadere, a morire. Loredan era sul punto di muoversi lui stesso quando ebbe un'idea. «Tu» disse. «Vieni giù di lì. Ho bisogno che tu vada a portare un messaggio.» «Arrivo» rispose il ragazzo. «Solo un attimo...» Poi un corpo cadde pesantemente a una decina di centimetri dai piedi di Loredan, con una freccia piantata nel petto. Dannazione, pensò.
Qualcuno gli passò davanti per andare a vedere come stesse l'uomo caduto. Loredan lo afferrò al volo. «Quello è morto» disse. «Porta un messaggio giù al porto. Ho bisogno di uomini armati in piccole barche... Piccole, bada bene, devono essere in grado di superare il braccio occidentale del fiume, oltre il bastione... per intercettare le zattere che scenderanno la corrente. Massima priorità. Se qualcuno ti fa problemi, spaccagli i denti. Capito?» L'uomo lo fissò con un'espressione sconvolta. «Non posso andare» disse. «Sono un ingegnere, non un portaordini.» «Sbrigati o ti butto giù dalle mura.» L'uomo esitò ancora per un attimo, poi scattò e si buttò per le scale, metà scendendole metà scivolando. Dovette arrampicarsi su travi spezzate e una pila di macerie per raggiungerle; la torre che le sovrastava aveva ricevuto parecchi colpi di troppo e stava cadendo a pezzi, seminando il camminatoio di blocchi di pietra e pezzi di malta. Dovevano essere impazzito. Ma fino a quel momento tutto ciò che avevano tentato aveva funzionato, mentre quello che lui aveva tentato si era rivelato un disastro, quindi chi era da criticare? L'uomo che aveva costretto a fare da messaggero doveva avere svolto bene il suo compito perché quattro chiatte con poco pescaggio, barche da ostriche stando all'aspetto, apparvero da dietro il bastione occidentale e si lanciarono immediatamente contro la massa di zattere che si urtavano l'un l'altra, rovesciando uomini come vasi di chicchi di grano che si fossero rotti cadendo sul pavimento. Temrai li vide e imprecò, immediatamente consapevole del suo errore... In qualche modo aveva dato per scontato che una volta piazzata la catena la minaccia dal porto sarebbe cessata per sempre. Nella sua mente avrebbe dovuto esserci un passaggio senza problemi dal momento in cui la catena era stesa attraverso la biforcazione al momento in cui sarebbe stata tesa fra la base della torre di guardia e le rovine del ponte. Non aveva immaginato che potessero apprestare delle barche e uscire dal porto così in fretta. C'era una zattera che era più grande delle altre, lunga dieci metri e costruita con tronchi che si era preoccupato personalmente di selezionare. Su di essa era montata una grossa fila di strutture a forma di A, che reggevano l'enorme ariete da cui così tante cose sarebbero dipese. Costruire quella zattera era costato moltissimo lavoro; per non dire dei calcoli necessari a valutare l'altezza che l'ariete avrebbe dovuto avere per essere a livello della porta e non delle fondamenta di pietra che reggevano
il ponte levatoio. C'erano volute ore per costruire e incastrare le coperture protettive che difendevano la squadra addetta all'ariete di sopra e di lato da pietre e frecce, facendo dell'insieme qualcosa di abbastanza solido da funzionare, ma nello steso tempo che potesse essere sollevato. Adesso la sola cosa che poteva fare era stare a guardare mentre soldati nemici sciamavano sulla zattera, come formiche su del cibo rimasto su un tavolo. Avevano già ucciso la squadra di addetti all'ariete; adesso stavano facendo a pezzi la zattera stessa, tagliando le funi che la tenevano insieme, tagliando le corde che fissavano l'ariete, spingendo i resti della zattera lontano dalle altre, in una zona d'acqua aperta, in modo che gli uomini di Temrai non potessero tentare di bloccarli. Ben presto tutto cominciò a sfasciarsi. Due delle chiatte raccolsero gli uomini da ciò che restava della zattera o dall'acqua, mentre le altre due facevano sbarcare i propri equipaggi vicino alle rovine del ponte sul lato della terraferma. Non c'era niente che qualcuno potesse fare per fermarli; quando vi arrivarono i suoi uomini, il gruppo nemico aveva già tagliato i cavi che trattenevano la catena e quel meraviglioso, brillante artefatto era scivolato in acqua, andando perduto per sempre. C'erano altre barche in arrivo, che stavano girando intorno al bastione occidentale con i ponti gremiti di uomini. Temrai inviò un altro messaggero; fate affluire dal campo tutte le riserve, voglio che quelle barche siano spazzate via, non importa quanto costi. Improvvisamente tutto stava andando storto a causa di un singolo errore, come quando una catasta di legno crollava semplicemente perché si sfilava un ciocco dalla base. Quando la zattera cominciò ad affondare, Teoblept Iuven si guardò intorno e realizzò di non avere nessun posto dove andare. Era rimasto fino all'ultimo per essere sicuro, insistendo nel volere tagliare lui stesso l'ultimo nodo; siccome in fondo aveva dato per scontato che non ne sarebbero mai usciti e che sarebbero morti tutti, gli era sembrato una perdita di tempo e uno spreco di energie pensare a una via di fuga. Se ne stava in equilibrio come un acrobata su un tronco ballonzolante, sentendosi piuttosto sciocco, vittima del suo stesso successo. Aveva spezzato la spada nel tagliare gli ultimi tratti di cavo; l'antica Frascanum d'incredibile valore che era appartenuta alla sua famiglia fin dagli inizi della specie umana non era stata concepita per tagliare la legna e segare funi (abbiamo gente che svolge questo tipo di lavoro per conto nostro) e aveva dovuto segare gli ultimi centimetri del cavo con il
mozzicone che gli era rimasto in mano. Imprecò e tirò indietro il braccio per scagliarlo nel fiume, poi cambiò idea. Adesso c'erano uomini sulla sponda del fiume, arcieri nemici. Erano arrivati di corsa, scivolando, slittando e cadendo nel fango. Quando si fermarono per tendere gli archi e prendere la mira, li vide manovrare goffamente, con le mani rese scivolose dal bagnato. Decise che era ora che se ne andasse da lì. Anche se c'erano ben poche probabilità che fosse in grado di nuotare per più di un metro con tutta la ferraglia che aveva addosso, era meglio annegare che starsene lì a fare da bersaglio. Forse. Si mise in posizione per fare un bel tuffo dal tronco, ma nel farlo gli scivolò un piede e precipitò nel fiume a faccia in avanti. Istintivamente mantenne la presa sul mozzicone di spada, fino a quando il peso della sua armatura non cominciò a tirarlo a fondo più velocemente di quanto lui riuscisse a tenersi a galla scalciando e nuotando con i piedi. Il fiume gli sommerse il volto prima che avesse il tempo di chiudere la bocca. Così finiva il suo primo comando che, ne era certo, gli era stato affidato solo perché era uno Iuven e perché era stato un allievo della scuola di scherma di quello che adesso era il Comandante in Capo, Bardas Loredan; non aveva esperienza, nessuna abilità naturale, nessuna innata attitudine al comando che giustificassero il fatto di avergli affidato una missione così importante. Aveva fatto il suo dovere, però, e quindi forse, dopotutto, avevano scelto l'uomo giusto. Quando la sua testa finì sott'acqua per la seconda volta gli venne in mente che avrebbe potuto migliorare la sua situazione se si fosse sfilato la dannata armatura. Più o meno ci riuscì; la classica maglia di ferro della guardia cittadina aveva le fibbie sul fianco, dove potevano essere raggiunte da chi la indossava, ma i nobili avevano scudieri che li aiutavano a indossare l'armatura, sicché le sue fibbie erano in alto sulla schiena. Quando la sua testa sbucò dall'acqua per la quarta volta, una freccia s'infilò nell'acqua a una trentina di centimetri dal suo naso; capì l'antifona, prese aria e si immerse di nuovo, scalciando e nuotando fino a quando non si fu messo (così sperava) in direzione ovest. Puntò dritto verso la riva. Quando non riuscì più a trattenere il respiro, dette un colpo di piedi verso l'alto e sbucò di nuovo alla luce e all'aria, incapace di pensare ad altro che al dolore che provava al petto e al disperato bisogno di respirare. Qualcosa gli urtò un braccio; girò la testa e vide una mano tesa, il fianco di una barca. Stupefacente; lo stavano salvando. Un uomo di mezza età, robusto, con i capelli grigi e ispidi incollati dalla
pioggia a un lato della testa, lo afferrò per un polso, tirò e per poco non gli slogò una spalla. Con l'altra mano Iuven cercò di afferrarsi al bordo della barca, ma non c'era niente a cui tenersi. «Va tutto bene» gridò l'uomo «ti ho preso.» Poi accadde qualcosa e Teoblept Iuven realizzò di avere improvvisamente difficoltà a respirare, il che non aveva senso adesso che era fuori dall'acqua. Urtò qualcosa con un braccio; era come avanzare in un bosco, con rami e rametti che ostacolavano il cammino. Aveva una freccia piantata nel petto. Oh, pensò. Poi chiuse gli occhi e morì. Un vero successo, disse Loredan a se stesso mentre osservava le sei o sette barche superstiti che tornavano indietro; abbiamo affondato l'ariete e ci siamo liberati della catena... E abbiamo anche ucciso un sacco di uomini, sebbene nel posto da cui venivano ce ne siano ancora tantissimi. Non siamo riusciti a fare niente a proposito della flottiglia del resto delle zattere, ma ci sono altre iniziative che possiamo prendere in proposito. In teoria, perlomeno. La cosa più importante era che la pioggia aveva un po' rallentato, ora; in quella stagione dell'anno raramente pioveva per più di un'ora o due... (Solo un'ora o due? Mi sembra di essere qui da tutta la vita. Avevo un'esistenza prima che tutto ciò cominciasse? Immagino di sì, se no sarei troppo giovane per fare il Generale.) ... E non appena avesse smesso del tutto sarebbe stato pronto a tirare fuori la sua sorpresa, l'unica cosa che aveva ancora di riserva e che poteva davvero fare la differenza. Aveva un brutto crampo alle gambe, per essere stato piegato troppo a lungo e tutto intorno c'erano pozzanghere di acqua piovana arrossata dal sangue. Uscì dal riparo della struttura della catapulta, scavalcò il corpo dell'osservatore che era stato ucciso e si diresse verso le scale. Dannazione. Si guardò intorno e vide Garantzes. L'ingegnere era seduto sulla struttura di una macchina, con la schiena appoggiata ai montanti, non morto come aveva pensato Loredan in un primo momento, ma profondamente addormentato. «Sveglia.» «Uh?» Gli occhi di Garantzes si aprirono di scatto. «Che cosa...?» «La catena» disse Loredan. «Fate alzare la catena finché siamo ancora in tempo. Se intendono usare quelle zattere come base su cui appoggiare le scale...»
Garantzes scosse la testa. «Sarebbe una perdita di tempo» affermò. «Hanno ridotto questo pezzo di muro a un cumulo di macerie e dubito che ci siano più di una dozzina di pali ancora al loro posto. Non abbiamo nulla a cui appendere la catena. Mi dispiace.» «Oh, al diavolo.» Loredan aggrottò la fronte. «Be', non potete improvvisare qualcosa? Prendere dei pali e fissarli in modo che sporgano dagli spalti? Abbiamo quella maledetta catena, vale la pena che la usiamo.» L'ingegnere fece un respiro profondo, come se si preparasse a controbattere, poi annuì. «Vedrò cosa posso fare» disse. «Gli dei sanno che ci sono fin troppi pezzi di palo in giro che potremmo usare con tutte queste macchine sfasciate; il vero problema è come fissarli alle mura in modo che non si stacchino. Lasciate fare a me, mi farò venire in mente qualcosa.» «Bene.» Loredan lo lasciò e scavalcò cumuli di macerie per arrivare all'imboccatura della scala. «E liberate l'accesso a queste scale» gridò, pur dubitando fortemente che Garantzes fosse in grado di sentirlo. Adesso non sentiva più i crampi, ma aveva un forte mal di testa. Non importava; avrebbe avuto tempo più tardi di sentirsi miserabile. Aveva smesso di piovere. Le zattere sbattevano le une contro le altre come pecore in un recinto per la tosatura. Fortunatamente sulle mura non era rimasto quasi nessuno che potesse intralciare dall'alto il lavoro delle squadre; avevano già abbastanza problemi a combattere con l'innata malignità delle cose inanimate senza bisogno che qualche altro essere umano cercasse deliberatamente di complicargli la vita. L'idea era buona e semplice. Fissare una serie di robusti cavi alle mura e tenderli attraverso il fiume fino all'altra sponda, poi attaccare le zattere a questi cavi davanti e dietro e le une alle altre sui lati. Il risultato sarebbe stato una specie di pavimento artificiale galleggiante sull'acqua su cui sarebbe stato possibile appoggiare le scale per scalare le mura, fissando l'estremità in basso dei montanti entro delle cavità prefabbricate. Una volta fatto questo e bloccate le scale alla base con chiodi di ferro, le scale potevano venire sollevate e appoggiate alle mura. Era una buona idea. Poteva funzionare. Non era necessariamente destinata al fallimento. Quando l'avevano provata in condizioni di relativa calma sul fiume più a monte, aveva sostanzialmente funzionato. Avevano trovato un punto in cui il fiume scorreva fra due colline rocciose, sulle quali avevano potuto
esercitarsi a martellare nella pietra chiodi ai quali fissare i cavi, erano riusciti a tendere questi ultimi per bene, a mettere le zattere in fila e a fissarle ai cavi e fra loro. Ritenevano di essere arrivati al punto di potere svolgere la manovra anche al buio. Osservando il confuso intrico di zattere e lo scomposto agitarsi delle varie squadre, Temrai si domandò se fosse proprio quello che non andava bene: non erano al buio. Ovunque posasse lo sguardo c'erano uomini che ingarbugliavano corde, facevano cadere attrezzi in acqua, spezzavano pali oppure li mollavano, cadevano in acqua e dovevano essere recuperati dai compagni. Grazie agli dei abbiamo svuotato le mura, mormorò a se stesso. Se ci fossero difensori che ci gettano pietre in testa non avremmo una sola possibilità. Aveva fatto avvicinare il cordone di arcieri fino alla sponda del fiume, a non più di un centinaio di metri dalle mura; a quella distanza e avendo abbastanza frecce a disposizione, se fosse sorta la necessità avrebbero dovuto essere in grado di colpire bersagli individuali. Aveva lasciato indietro gli addetti alle macchine, invece; non c'era niente che i trabucchi potessero fare e che non fosse alla portata degli arcieri e l'ultima cosa di cui aveva bisogno erano un paio di pietre da duecento chili che cadessero troppo vicino e finissero per affondare qualche zattera. Era già abbastanza preoccupante la possibilità che qualche freccia rimbalzasse sulle mura e ricadesse in testa alle squadre sottostanti. Proprio quando stava cominciando a pensare di fare ritirare le zattere e di ricominciare tutto da capo il giorno dopo, venne alzata la prima scala, lunga, esile e instabile come un puledro appena nato, che però ricadde al suo posto. Quasi immediatamente venne ributtata indietro; rimase sospesa in aria per un interminabile attimo, poi ricadde e andò a sfasciarsi contro la riva del fiume, finendo in mille pezzi non appena toccò il suolo. Ma quasi prima che avesse completato la sua caduta, la seconda scala era stata sollevata e poi una terza accanto a essa; poi altre due vennero messe perpendicolari mentre le prime due si appoggiavano alla catena che correva tutto intorno alla sommità del muro. Una bella idea quella della catena, ma realizzata malamente. I pali improvvisati a cui era stata fissata, molto semplicemente non potevano reggere lo sforzo; si spezzarono, si piegarono lateralmente o caddero di sotto, riuscendo solo a rallentare le scale e anzi facendo sì che si appoggiassero al parapetto senza colpirlo con troppa forza, che avrebbe potuto
danneggiarle. Gli uomini che dovevano arrampicarsi erano pronti a sciamare su per le scale e ad affrontare il nemico faccia a faccia dentro la sua stessa città, per la prima volta. Era... Non era finita ancora. Loredan grugnì, barcollando un po' sotto il peso di una giara di terracotta dai fianchi lisci. Non c'era granché da afferrare per sostenerla, il che rendeva difficile reggerla. Sarebbe stato imbarazzante se l'avesse lasciata cadere... Molti anni prima aveva letto in un libro a proposito di un composto liquido fatto di zolfo, asfalto e nafta che, in teoria, avrebbe dovuto incendiarsi con grande facilità e restare acceso (così affermava il libro) perfino in acqua. Poteva venire dato alle fiamme e poi versato dalle mura di una città, oppure messo dentro recipienti di terracotta, incendiato e lanciato con le catapulte in modo che i recipienti atterrando si spaccassero spandendo dappertutto il liquido infuocato; poteva addirittura venire spruzzato a getto attraverso il beccuccio di un soffietto appositamente progettato, incendiandosi nel momento dello spruzzo grazie a una torcia o a una sbarra di ferro incandescente, fissate in un apposito supporto proprio davanti al beccuccio. Si poteva inzuppare di liquido degli stracci e poi avvolgerli intorno a pietre della grandezza di un pugno, riempiendone infine il cucchiaio di una catapulta, dando fuoco al tutto e lanciandolo in modo che creasse una ampia e letale rosa di rocce incendiarie, in grado di dare alle fiamme un intero campo nemico. Una volta che qualcosa era stato impregnato con il liquido, l'acqua non poteva estinguere il fuoco; calpestarlo voleva dire darsi fuoco al piede e cercare di spegnerlo con una coperta equivaleva a farla incendiare. Fino a che tutto il liquido fosse stato combusto, nessuno poteva fare niente. Il libro proseguiva dando suggerimenti su come maneggiare il liquido senza correre rischi; dopo avere creato il composto bisognava metterlo in giare di pietra coperte di pelli appena conciate e gli uomini che le maneggiavano dovevano avere guanti e vestiti impregnati di talco; per accenderlo bisognava usare una torcia fissata all'estremità di un lungo palo e stare il più lontano possibile... Il libro conteneva anche chiare e concise istruzioni su come annientare eserciti nemici distruggendone a martellate dei modellini di creta; su come creare il panico oscurando il sole grazie a un incantesimo; su come rinforzare il proprio esercito indebolito riportando in vita i morti più
recenti grazie ad arcane magie e all'uso della fecola dell'arundinacea. Non era considerato una lettura obbligatoria per gli aspiranti giovani ufficiali e generalmente veniva tirato giù dallo scaffale da giovani novizi che avevano sentito dire che in uno degli ultimi capitoli c'erano dei disegni di donne nude. Comunque, una volta scoperto cosa fosse la nafta e dove fosse possibile comperarla, aveva messo una squadra di addetti a fare esperimenti per ottenere il composto variando la quantità e la purezza degli ingredienti. Il risultato era stato stupefacente; tanto che aveva avuto la tentazione di andare a riprendere il libro e di sperimentare qualcun'altra delle sue raccomandazioni. Lanciare il liquido con le catapulte aveva finito per rivelarsi una soluzione poco pratica. I vasi avevano un'allarmante tendenza a rompersi nel momento del lancio, a incendiare la macchina e a riversare una pioggia di tizzoni ardenti sugli addetti. In conseguenza non aveva neanche fatto prove con le pietre piccole avvolte in stracci inzuppati. Aveva invece dato ordine al Quartiermastro di comperare tutte le materie prime su cui fosse riuscito a mettere le mani e commissionato ai vasai la produzione di recipienti dalle pareti sottili e con lunghi colli stretti, che si potessero riempire di stracci ai quali poi dare fuoco. Era uno di questi che adesso stava freneticamente tentando di non fare cadere, mentre un addetto avvicinava al collo una torcia accesa. «Pronti» disse l'addetto mentre lo straccio si incendiava e cominciava ad ardere furiosamente a pochi centimetri dalla faccia di Loredan. Imprecando spinse il recipiente all'estremità degli spalti, lo fece sporgere e poi lasciò andare. «Il prossimo» disse. Improvvisamente la squadra di una delle zattere sembrò vestita di fiamme. Tutti gli uomini erano avvolti dal fuoco dalla testa ai piedi, come torce. Urlando sbattevano gli uni negli altri, scivolavano, cadevano, si rialzavano a fatica, sempre in preda alle fiamme. Alcuni furono consumati dal fuoco quasi immediatamente e ricaddero come neri tizzoni a forma di uomo in mezzo alle fiamme che danzavano sul ponte della zattera. Altri invece si lanciarono in acqua, andarono sotto e riaffiorarono ancora avvolti dal fuoco. Alcuni erano ancora vivi quando si arrampicarono sulle zattere vicine, le cui squadre cercarono di ricacciarli a colpi di lancia e li tennero
comunque a distanza con i pali usati per spingerle. Scoprirono a loro spese che il fuoco aveva attaccato egualmente la zattera e adesso gli ardeva intorno ai piedi. Intanto altri recipienti venivano gettati dalle mura; quando si spaccavano spandevano altro fuoco, spruzzandolo dappertutto sicché la superficie dell'acqua era coperta di fiamme sibilanti. Le scale presero fuoco e ricaddero in testa agli uomini sottostanti; le squadre delle zattere che non si erano ancora incendiate stavano cercando disperatamente di tagliare i cavi e di segare i nodi che tenevano insieme i pezzi di quell'isola artificiale, per poi allontanarsi prima di venire raggiunti dal fuoco. Le fiamme lambirono le mura, innalzandosi quasi fino agli spalti. Si alzarono nubi di fumo nero che sembrarono incombere sulla scena, tanto che Temrai dalla sua posizione elevata riuscì a malapena a intravedere bagliori di fuoco e frammenti di movimento, le sole cose che potessero aiutarlo a interpretare i suoni che arrivavano dal fiume: le grida, le urla, il cozzo delle zattere. Era come se una invisibile pestilenza stesse diffondendosi in modo incontrollabile e gli uomini sulla riva impedivano alle squadre delle zattere di sbarcare, quasi temessero che il contagio potesse dilagare. Alcuni uomini si tuffarono dalle zattere, nuotarono per svariati metri sott'acqua e tornarono in superficie solo per scoprire di essere sbucati nel bel mezzo di una cortina di fuoco che gli bruciava i capelli bagnati e gli scivolava lungo il viso, bruciandogli gli occhi e penetrandogli nei polmoni quando respiravano. Alcuni degli arcieri avevano cominciato a scagliare frecce contro le zattere, o per liberare gli uomini in fiamme dalla loro pena o per impedirgli di cercare di tornare a riva. Altri recipienti stavano cadendo, anche se le zattere su cui cadevano erano già in fiamme; quando si spezzavano tutto il contenuto s'incendiava immediatamente, creando grandi colonne di fiamme ruggenti che si alzavano alte nell'aria. Si sollevavano nubi di vapore che si mescolavano a quelle di fumo e alla fine una specie di sudario traslucido nascose lo spettacolo, come se fosse calato il sipario. Molti pensieri attraversarono la mente di Temrai mentre stava a guardare; fra essi quello che qualcuno in città aveva letto lo stesso libro che aveva letto anche lui e la magra consolazione che l'arma segreta di riserva che non aveva ancora avuto il tempo di sviluppare a modo poteva, abbastanza evidentemente, essere fatta funzionare. CAPITOLO SEDICESIMO
«Bene» disse Loredan cercando di togliersi il talco dalle mani «basta così. Riportate nei magazzini il resto di questa roba e in nome degli dei siate prudenti. Voi due, voglio l'elenco delle perdite. Voi altri fate l'inventario delle catapulte che funzionano ancora o che comunque possono essere riparate. Quanto a voi fate pulire qui e portate via quei morti. Garantzes...» S'interruppe. «Nessuno sa dov'è Garantzes? L'ultima volta che l'ho visto...» Qualcuno fece il gesto di passarsi l'indice sulla gola. Loredan aggrottò la fronte. «Oh» disse. Non c'era tempo di chiedere come fosse successo, se era morto eroicamente in difesa della città o se aveva solo perso l'equilibrio ed era caduto dalle mura; l'ingegnere avrebbe continuato a essere morto anche più tardi, quando avrebbe potuto occuparsi della cosa. «In questo caso, dov'è Faneron Boutzes? È ancora vivo? Ah, eccovi. Bene, da adesso siete Capo Ingegnere. Voglio un rapporto sui danni strutturali alle mura e voglio sapere in quanto tempo potete rattopparle. Se qualcuno mi vuole, sarò al Consiglio.» Miracolosamente qualcuno aveva trovato il tempo di sgombrare l'imbocco delle scale e lui riuscì a scendere senza inciampare. Se fosse riuscito a convincere i suoi piedi a portarlo in cima alla collina e attraverso la porta d'accesso alla seconda città fino alla casa capitolare, li avrebbe ricompensati mettendosi a sedere. Era stata una di quelle giornate. Ce la siamo vista brutta, ma siamo ancora qui. Non ci siamo resi ridicoli. E domani è un altro giorno. Era una strana sensazione attraversare la città in pieno pomeriggio e non vedere nessuno per strada. Dove erano finiti tutti quanti? C'erano un mucchio di case nella città bassa di Perimadeia, e nonostante ciò Loredan aveva sempre sospettato che non ce ne fossero abbastanza per ospitare le migliaia di persone che vedeva abitualmente per strada. Nel suo subconscio aveva sempre immaginato che lavorassero a turni; la gente del giorno andava a casa più o meno quando quella della notte usciva e in qualche modo si scambiavano le case. Qualche anima coraggiosa stava cominciando a sporgere il naso dalle persiane. Un solitario cardatore aveva aperto la porta del suo negozio e stava ostentatamente sistemando un paletto in una morsa di legno. Quando attraversò il quartiere degli argentieri udì delle voci da dietro la porta
chiusa di una taverna che aveva frequentato qualche volta. Alcuni cani agitarono la coda, mentre annusavano qua e là; un cavallo trascinava lentamente le redini nell'acqua che era traboccata da una grondaia intasata. Passò davanti a un'altra taverna, una delle sue favorite. Servivano del buon sidro, non economico ma neanche troppo costoso e un vino dolce mezzo distillato e micidiale, che ti riduceva a domandare a perfetti sconosciuti chi tu fossi e dove vivessi. Probabilmente era meglio che fosse chiusa. Mi è consentito di frequentare osterie? si domandò. È dignitoso che il Comandante in Capo entri a bersi un goccetto sulla via del ritorno dalla guerra? Probabilmente no. Ah, be'. Avrebbe trovato qualcosa da bere una volta arrivato alla casa capitolare (doveva smettere di pensare a essa come a casa sua). Magari anche del cibo e un posto dove sdraiarsi per dormire un po'. Sarebbe stato bellissimo, solo che domani era un altro giorno. Quando raggiunse la casa capitolare la trovò quasi deserta. C'era qualche impiegato, gente con compiti specifici che non poteva interrompersi per fare due chiacchiere. Chiese dove fossero andati a finire tutti gli altri; il prefetto, il Luogotenente Generale, i capi dei vari dipartimenti. Un impiegato alzò lo sguardo, si strinse nelle spalle e disse di non averne idea; qualcuno di loro poteva essere sceso presto al porto per evitare la folla di scalmanati che cercavano un passaggio su una nave qualunque, altri si erano allontanati in fretta quando era arrivata la notizia che le zattere erano state liquidate... Probabilmente avevano raggiunto i propri uffici per occuparsi di questioni importanti. Gli altri, per quanto ne sapeva, potevano anche essere andati a celebrare. Dopo tutto si era trattato di una vittoria, o no? Loredan aggrottò le sopracciglia. Vittoria? Lo era stata? Be', immaginava che si potesse dire di sì. «Quindi nessuno ha bisogno di me per qualcosa?» chiese. «Non so» ribatté l'impiegato che non voleva sbilanciarsi e assumersi la responsabilità di dire al Comandante in Capo che poteva riposare per il resto della giornata. «Sto solo facendo copie di queste minute, come mi hanno ordinato di fare.» «Giusto» disse Loredan. «Se qualcuno viene a cercarmi, ditegli che può trovarmi nei miei quartieri.» Decise che questo aveva un suono abbastanza militaresco. Quando aprì la porta della stanza nel posto di guardia in cui aveva dormito dall'inizio dell'emergenza, fu investito da una sensazione di
sollievo, da un senso di calma e, naturalmente, di colpa per essersela svignata quando c'era certamente qualcosa che avrebbe potuto fare. Nessuna di queste emozioni durò a lungo, però. Non fece tempo ad appoggiare le gambe sul pianale di pietra che cadde addormentato. Loredan non ricordava mai i suoi sogni dopo essersi svegliato, quindi non ci furono problemi. Due ore e mezzo dopo si svegliò trovandosi di fronte qualcuno che strascicava i piedi avanti e indietro. «Svegliatevi» stava dicendo. «Tutti vi cercano.» Dei, quanto gli sarebbe piaciuto che per una volta qualcuno non gli parlasse come se fosse stato soltanto un intrattenitore stipendiato. «Precedetemi» borbottò. «Arrivo fra un minuto.» «Il prefetto vuole vedervi immediatamente» rispose il messaggero. «È importante.» Loredan si baloccò con l'idea di fargli attraversare la stanza a calci, ma non era sicuro di averne la forza. Praticamente ogni giuntura del suo corpo scricchiolava come un cardine arrugginito. «Va bene» sospirò. «Posso lavarmi la faccia e le mani, prima o devo continuare ad avere l'aspetto di uno ripescato dal letamaio di un fabbricante di salsicce?» «Mi hanno detto che era una questione urgente» rispose l'uomo. «E questo un'ora fa. Venite.» Come temeva, il prefetto era tutt'altro che felice di avere dovuto aspettare. Aveva scelto di incontrare Loredan in uno dei chiostri laterali che si irradiavano dalla casa capitolare come i raggi di una ruota e quando Loredan lo raggiunse stava passeggiando avanti e indietro con una smorfia feroce sul viso. «Non vi sto criticando» furono le sue prime parole. «So che la situazione era grave e sono convinto che abbiate fatto quello che vi sembrava meglio per la città. Ma ha causato una vera e propria sollevazione sul fronte politico.» Loredan sedette su un leone di pietra e sollevò una mano. «Scusatemi» disse «ma di che cosa state parlando?» Il prefetto lo fissò come se lo avesse sorpreso a sonnecchiare in classe. «Di quel fuoco magico che avete usato come arma» rispose. «Temo che usandolo ci siamo consegnati nelle mani dell'opposizione.» Lanciò a Loredan un'occhiata di rimprovero. «Se perlomeno mi aveste avvisato prima, avrei potuto preparare la strada, fare un po' di lavoro preventivo.» «Continuo a non capire di cosa stiate parlando.»
Il prefetto lo squadrò. «Quel dannato fuoco. Dicono che non avreste dovuto usarlo in questo modo. In parte perché si tratta di magia, il che è come agitare un panno rosso davanti agli occhi di un toro, per quanto riguarda la lobby Razionalista, ma soprattutto perché è inumano. Usandolo, ci comportiamo anche noi come dei selvaggi. Parlano di implicazioni, di possibili rappresaglie. Temo che abbiamo veramente stuzzicato un nido di calabroni nel Consiglio.» Loredan aprì bocca; ma non c'era scopo di dire le cose che avrebbe voluto dire. La richiuse e restò seduto, immobile. «Ho fatto del mio meglio» proseguì il prefetto. «Volevano che l'uso del fuoco fosse immediatamente bandito, ma abbiamo trovato un compromesso: non lo utilizzeremo più senza prima una formale autorizzazione da parte del Consiglio e anche allora solo entro certi rigidi e definiti limiti... Dove credete di stare andando?» Stancamente, Loredan tornò a sedersi. «Vi prego» disse «lasciate che vada a lavarmi e a mettere qualcosa nello stomaco. Credo di avere bisogno di vomitare ed è una cosa molto difficile a stomaco vuoto.» Il prefetto fece un sorrisetto ironico che in altre circostanze avrebbe potuto benissimo costargli la vita. «Speravo che vi sareste mostrato ragionevole» disse. «Dopo tutto, abbiamo già avuto in passato i nostri contrasti, ma negli ultimi giorni avete fatto un buon lavoro e mi auguravo di potervi risparmiare questo, senza contare l'imbarazzo che la cosa ci provocherà.» Loredan fece appello agli ultimi brandelli di pazienza, ma non ce n'erano più. Si alzò lentamente e cominciò ad allontanarsi. «Vi sollevo dal comando» disse il prefetto alla sua schiena. «Con effetto immediato. Mi dispiace, ma questa storia della stregoneria, aggiunta al fiasco della spedizione di cavalleria...» Loredan si voltò. «Eravate d'accordo» disse. «Avete convenuto che fosse necessario ammazzare i loro addetti...» «Non l'ultima, quell'altra. Prima che il clan arrivasse qui.» Il prefetto si mise a braccia conserte. «Sono spiacente» disse «ma credo che la sola via d'uscita da questo ginepraio sia di anticipare il processo alla prima data accettabile. Poi, dando per scontato che vinciate…» «Processo?» Loredan sembrava non capire. «Quale processo?» Il prefetto sembrò sul punto di perdere la pazienza. «Il vostro processo, amico. Per colpevole negligenza nella conduzione della spedizione. Se potrò, cercherò di persuadere l'Ufficio del Procuratore ad aggiungere anche
queste nuove accuse di stregoneria in modo che tutto possa essere risolto con un solo giudizio.» Sospirò. «Non sarà facile, perché da un punto di vista formale sono giurisdizioni diverse, ma date le circostanze potrebbero accettare.» «Stregoneria» ripeté Loredan. «Capisco.» «Ne sono felice» disse il prefetto in tono tagliente. «Comunque, se riuscissimo ad anticipare la data, allora... Ammesso che vinciate, come ho detto... Saremmo nella posizione di potervi fare riavere il comando nel giro di una settimana o due, ammesso di riuscire a convincere il Consiglio a ratificare la cosa. Mi auguro apprezziate il fatto che sto rischiando il collo per voi, Loredan. Farete meglio a ricordarvene la prossima volta che deciderete di prendere la legge nelle vostre mani.» Loredan rifletté per un attimo. «Se sono sollevato dal comando» disse «significa che posso tornare a casa?» «Immagino di sì» rispose il prefetto. «Potete fare quello che diavolo vi pare, a patto di lasciare libero il vostro ufficio e la stanza in cui dormite entro le prossime tre ore; e, naturalmente, perdete il vostro diritto di prendere parte alle riunioni del Consiglio. Avremo bisogno di sapere dove raggiungervi, ovviamente, in caso il Consiglio vi voglia per qualche ragione. Se volete un consiglio, tornate a occuparvi della vostra scuola di scherma, mettetevi in forma e allenatevi per il processo. Se doveste perdere, la cosa si rifletterebbe molto negativamente su di noi.» «Cercherò di ricordarlo» disse Loredan nell'allontanarsi. «Penso che sia ora di tornarcene a casa» disse qualcuno. C'erano quattro facce nuove nel consiglio di guerra all'interno della tenda di Temrai, e di due di loro non sapeva neppure il nome. Scosse la testa. «No» disse. «Temrai.» Zio Anakai si chinò in avanti e gli appoggiò una mano su un braccio. «È stato un disastro. Siamo stati nettamente battuti. Abbiamo perso le zattere, le scale e l'ariete, per non parlare dei più di mille e quattrocento morti. Continuare, molto semplicemente, non è una delle opzioni se vuoi rimanere il capo di questa tribù.» «Restiamo» disse Temrai in tono tranquillo. «Continuiamo fino alla vittoria. Questo è quanto.» «Temrai.» Sua zia Lanaten, che aveva settant'anni ed era quasi cieca gli si inginocchiò accanto gemendo per lo sforzo. «Non è necessario. Hai fatto
del tuo meglio, nessuno ti farà una colpa se non tenterai l'impossibile. Perimadeia non può essere conquistata, è protetta dalla magia. Non puoi combattere gli dei.» «Al diavolo la magia» borbottò Temrai, chiudendo gli occhi. «Non era magia, era una formula presa da un vecchio libro. L'ho letto anch'io. Ma quando stavo a Perimadeia non fabbricavano quella roba, ne sono sicuro.» «Un libro?» domandò qualcuno. «Vuoi dire che è qualcosa che si può produrre e che non c'è niente di magico?» «Naturale» rispose Temrai. «È solo nafta, pece e zolfo. Perché pensate che abbia comperato tutte le scorte di quella porcheria su cui sono riuscito a mettere le mani?» Zio Anakai inarcò di scatto un sopracciglio. «Pensi di essere anche tu in grado di produrre questo fuoco liquido?» disse. «Naturalmente. Chiunque può produrre qualunque cosa se ha le conoscenze e gli strumenti adatti. È solo questione di provare e sbagliare fino a quando non si azzeccano le proporzioni.» «Quindi potremmo usarlo anche noi contro di loro» disse qualcun altro. «Lo faremo?» Temrai annuì. «Sì, al momento giusto» disse. «Quello che conta adesso è che so come possiamo proteggerci da esso nel futuro molto più efficacemente di quanto non abbiamo fatto oggi. È solo questione di tempo.» «Temrai, mille e quattrocento persone sono morte oggi.» Stavolta era Ceuscai e aveva un tono irritato; sta cominciando a darsi un po' troppe arie, disse Temrai a se stesso. «Sono più di quanti muoiano in un intero anno in condizioni normali.» «Siamo in guerra, Ceuscai. La gente muore in guerra, capita.» «Non in questo modo e numero, no.» Adesso Ceuscai era decisamente arrabbiato. Temrai ricordò che era alla testa degli arcieri: doveva avere avuto un posto in prima fila per lo spettacolo di ciò che era accaduto sulle zattere. Comunque, stava parlando a sproposito. «Temrai, non mi interessa se non era magia. La gente è convinta che lo fosse e non riuscirai a fargli cambiare idea. La perderai, Temrai. Non puoi aspettarti che combattano contro gli dei, contro tutto quello in cui credono. In nome del cielo, ragazzo mio, dovresti rendertene conto da solo.» Temrai si alzò. «Il consiglio è sciolto» disse all'improvviso. «E adesso ho del lavoro da fare, come tutti voi del resto.» Quando se ne furono andati tutti si lasciò cadere sul letto e si mise in posizione fetale a occhi spalancati. Si sentiva come un uomo che avesse
fissato direttamente il sole; vedeva lampi e macchie di colore intenso sulla retina quando li chiudeva. Le conseguenze del fissare il sole svaniscono prima o poi; ma quei colori dipendevano dall'avere visto bruciare le zattere e dubitava che se ne sarebbe mai liberato. Quel pensiero gli fece ricordare altre fiamme, altra gente avvolta dal fuoco; immagini nitide nella sua mente di gente che correva in mezzo a file di tende, con gli abiti e i capelli che ardevano e un'espressione di terrore e dolore intollerabile sul volto e nella voce, mentre cavalieri correvano avanti e indietro spargendo il fuoco, peggiorando deliberatamente la situazione invece di essere d'aiuto come certamente avrebbe fatto un normale essere umano. Ricordava di avere assistito a quello spettacolo da sotto un carro, che stava bruciando anch'esso, ma che era l'unico posto dove forse i cavalieri non lo avrebbero visto e lui avrebbe preferito mille volte bruciare che dovere affrontare la perfida malevolenza di quegli uomini dall'armatura nera. Ricordava soprattutto il volto di un uomo illuminato dal bagliore del fuoco: il cavaliere che si era fermato, seduto in sella a osservare, tranquillo e rilassato come se fosse seduto in poltrona, una mano leggermente appoggiata alle redini mentre con l'altra reggeva una torcia accesa. Non era rimasto lì per più di un minuto, ma che a lui era sembrato interminabile... Anzi, che forse non era ancora finito. Nella mente di Temrai l'orrore assoluto che lo aveva invaso mentre se ne stava sdraiato sullo stomaco a fissare il cavaliere pregando che non voltasse la testa e lo vedesse, mentre il calore delle fiamme sopra di lui gli ustionava la pelle della schiena e le lacrime gli scorrevano sul viso come era accaduto con la pioggia quel mattino, era chiarissimo. Era strano dopo tutti quegli anni essere finalmente in grado di dare un nome a quel volto che ricordava tanto bene: Colonnello Bardas Loredan, attuale comandante dell'esercito di Perimadeia. Metti l'acciaio fra le fiamme e guardalo cambiare colore; passare dall'arancio, al marrone, al porpora, al blu, al verde, al nero. Secondo alcuni fabbri con cui aveva parlato c'è un momento in cui all'acciaio incandescente succede qualcosa. Se lo si rende abbastanza caldo la flessibilità si trasforma in tagliente durezza ed è a quel punto che l'abilità sta nel temperarlo, nel lavorarlo con abbastanza perizia e cura che l'acciaio rimanga solido, senza diventare friabile. È un'impresa delicata, un perfetto equilibrio fra fuoco e acqua; anche se alcuni fabbri preferivano temperare in una specie di olio e altri usavano il sangue. Il sangue, dicevano, metteva
qualcosa nell'acciaio nel momento cruciale della tempratura, un tocco extra di durezza all'esterno del metallo che non intaccava la flessibilità e l'elasticità del nucleo. L'assalto era fallito, lo ammetteva. Con le sue pietre e le sue frecce poteva costringerli a stare nascosti dietro il parapetto, così come un tempo si era nascosto lui, ma per colpa del fuoco non poteva attraversare il fiume. Avrebbe potuto lanciare fuoco liquido a sua volta, bruciando la loro casa, le loro donne e i loro bambini, costringendoli a correre con le schiene e i capelli in fiamme, ma se lo avesse fatto sarebbero mancati i cavalieri e allora cosa sarebbe il fuoco senza cavalieri? Dopo tutto, se vale la pena di fare una cosa, vale la pena di farla bene. Quindi avrebbero dovuto starsene lì, seduti sotto le mura, in attesa che cambiasse qualcosa. Intanto la gente dentro la città e in particolare il Colonnello Bardas Loredan avrebbero avuto anche loro un lunghissimo minuto in cui restare immobili. Anzi, rifletté, ricordando quanto lungo fosse già stato quel minuto, non c'era nessuna vera ragione perché dovesse mai finire. Mentre tornava al posto di guardia Loredan si fermò alle cucine, aspettò che nessuno stesse guardandolo e si infilò sotto la giubba una sacco vuoto per la farina. Si dimostrò più che sufficiente per le cose che aveva nella sua camera da letto (una camicia, strappata e sporca di sangue, che sarebbe andata bene solo come straccio per pulire; un paio di stivali; una coperta di proprietà dello stato, abbastanza meno vecchia e lisa di quella che aveva a casa; una tavoletta di scrittura, con bottiglia d'inchiostro e vari fogli di carta; una serie di semplicissimi dischetti di bronzo per la contabilità; un pettine di osso da pochi soldi a cui mancavano sette denti; un rotolo di bende, frequentemente lavate). Si gettò su una spalla il sacco mezzo pieno e lasciò il posto di guardia, dirigendosi verso la residenza del Patriarca. «È malato» rispose il segretario, in risposta alla sua domanda di vedere Alexius. «Troppo malato per ricevere visitatori. Gli dirò che siete stato qui.» «Non c'è problema, glielo dirò io stesso. Da che parte avete detto che è la sua camera?» Il segretario gli sbarrò la strada. «Non potete entrare» disse. «È vietato. Per la Sicurezza dello Stato. Il Patriarca Alexius è impegnato in un importante lavoro per il Consiglio di Sicurezza.» Loredan guardò il segretario dall'alto in basso e poi lo spinse da parte con gentile fermezza.
«Avete fatto del vostro meglio» disse in tono incoraggiante. «Adesso toglietevi di mezzo prima che vi spezzi un braccio.» Dovrò perdere l'abitudine a essere obbedito, disse a se stesso, prima di cominciare a rendermi veramente insopportabile. Il povero ragazzo stava solo cercando di fare in modo che Alexius potesse riposare in pace. In effetti ora che Loredan ebbe individuato la sua porta e bussato, il Patriarca era già sveglio da una mezz'ora. «Non vi secca se sono piombato qua in questo modo, vero?» chiese. «È solo che c'è una cosa che voglio dirvi.» Il Patriarca gli disse di accomodarsi. «Vi prego di scusarmi se non mi alzo, ma mi sento un po' fragile dopo tutta questa agitazione. C'è del vino nella brocca e del pane in quel cestino; temo che sia un po' raffermo, ma...» «Dei supremi del cielo!» esclamò Loredan. «Cibo. Mi ricordo del cibo; quando ero giovane avevamo l'abitudine di mangiarlo. Ne volete un po'?» aggiunse parlando con la bocca piena. «No, no. Servitevi voi. Quando è stata l'ultima volta che avete fatto un pasto come si deve, comunque?» Loredan i strinse nelle spalle. «Sembrate mia madre. Come vi sentite? Niente di serio, spero.» Alexius scosse la testa. «Sono solo esausto» disse. «Quando sono tornato dalla riunione del Consiglio, quella vecchia zia del mio segretario mi ha spedito a letto, come se fossi stato un bambino di cinque anni con la febbre. E poi» ammise «mi sono addormentato. Dall'aspetto che avete, un po' di riposo farebbe bene anche a voi.» «Sono d'accordo» disse Loredan. «Fortunatamente sono di nuovo un civile, così posso dormire quanto voglio. Mi hanno licenziato» spiegò «per come ho gestito la difesa. È stata la cosa più carina che il governo di questa città abbia mai fatto per me» aggiunse, prendendo un'altra forma di pane e spezzandola in due. «È buono questo pane. Evidentemente quando si vive nei quartieri alti della collina la parola raffermo ha un significato diverso che per la gente comune.» «Volete dire che siete stato sollevato dal comando? Questo è oltraggioso.» Alexius cominciò a mettere le gambe giù dal letto. «Andrò a incontrare il prefetto immediatamente. Di tutte...» «Vi prego.» Loredan alzò una mano, cercando di deglutire il pane che gli riempiva la bocca. «Non fatelo. Se il potere e la gloria sono questo, sono lieto che se li tengano.»
«Non è a voi che stavo pensando» rispose Alexius. «Pensavo alla Città. Chi farà il vostro lavoro? Se quell'idiota di prefetto pensa anche per un solo momento...» Loredan ridacchiò. «Penso che dare l'incarico a chi mi sostituirà fosse l'ultima cosa a cui stesse pensando» lo interruppe. «Il poveretto stava lottando per la propria sopravvivenza politica.» Raccontò ad Alexius ciò che era successo, compresa la ferma convinzione del prefetto che il fuoco liquido fosse frutto di stregoneria. «Che è poi la ragione per cui ho pensato che fosse meglio parlarvene» aggiunse. «Se i suoi nemici stanno usando questa scemenza del pubblico oltraggio che hanno concertato per perseguitarlo, potrebbe tentare di scrollarsela di dosso scaricandola su di voi oltre che su di me. Ho l'impressione che ritenga che le accuse non siano tanto una cosa da cui difendersi, quanto da condividere con il maggior numero di persone possibili.» Alexius fece un suono di spregio, quasi fuori luogo per un uomo nella sua eccelsa posizione. «Ho paura che abbiate ragione» disse. «Be', faccia come vuole. Ho detto al popolo per venticinque anni che non pratichiamo la magia e continuerò a dirglielo perché è vero. Fra l'altro, non esiste il reato di stregoneria nel diritto di Perimadeia; è così, no? Siete un avvocato, dovreste sapere queste cose.» Loredan scosse la testa. «È la mia assistente che conosce la legge» rispose «io mi limito a uccidere la gente. O meglio lo facevo. Ma per quanto ne so, avete ragione; perlomeno nei dieci anni che ho passato nella professione non ho mai sentito niente del genere. Naturalmente non l'ho detto al prefetto perché se lo avessi fatto sarebbe andato a spremersi le meningi per trovare qualcosa d'altro di cui accusarmi.» Si accomodò meglio sulla sedia, cercando di ignorare i dolori alle ginocchia e alle cosce dovuti alla stanchezza. «Non mi preoccupano né lui né le sue dannate accuse» proseguì. «A essere sinceri non sono più preoccupato da niente. Tanto per cominciare, sono troppo stanco.» Alexius si sdraiò e fissò per un po' i mosaici sul soffitto. «Dunque pensate che il pericolo sia passato?» chiese. «Hanno rinunciato a tentare un assalto diretto.» Loredan annuì. «Per il momento» rispose. «Dovranno costruire del nuovo equipaggiamento prima di potere tentare di nuovo; scale, un altro ariete, macchine e roba così. Inoltre dovranno pensare a un modo per proteggersi dal fuoco liquido.» Ridacchiò. «A patto naturalmente che non li avvertiamo che ne abbiamo bandito l'uso» aggiunse. «E per quello che
ne so, non c'è proprio niente che si posa fare contro quella roba. Be', non è proprio così. Si potrebbero usare grosse coperture di pelle per impedire che ti cada direttamente in testa, ma credo che funzioni meglio in teoria che in pratica. Provate a immaginare di dovervi arrampicare su una scala tenendo sopra la testa un ombrello in fiamme.» «Quindi quale pensate che sarà la loro prossima mossa?» «Non ne ho idea» ammise Loredan. «Nei loro panni, probabilmente tenterei di trovare qualcuno all'interno della città disposto ad aprirmi le porte in cambio di una grossa somma di denaro. Solo che lo avrei fatto fin dall'inizio invece di inscenare tutto quel caos con le zattere e di costruire tutte quelle catapulte.» Alexius sbadigliò. «La cosa che ancora non capisco è perché stanno facendo tutto questo. È vero, hanno un legittimo risentimento nei nostri confronti, ma vecchio di più di dieci anni. Perché aspettare così a lungo?» Loredan non rispose; finì invece il pane e lo buttò giù con le ultime due dita di vino. «Penso che adesso andrò a casa» disse. «E domani farò meglio ad andare a vedere se ho ancora una scuola da fare funzionare. Con un po' di fortuna, nel giro di qualche mese tutto questo ci sembrerà solo un orribile incubo.» Venart era in piedi sul molo e fissava la sua nave senza dire una parola. «Avrebbe potuto andare peggio» disse sua sorella per la decima volta quella mattina. «Avrebbero potuto usarla per uscire dal porto e in quel caso non avremmo carico, né nave, né modo di tornare a casa. In questo caso...» «In questo caso invece» rispose Venart con amarezza «abbiamo ancora la nave. E tutta la mia bella corda è da qualche parte in fondo alla baia.» «Non puoi davvero biasimarli» disse Vetriz. «Se tu pensassi che la tua città sta per essere saccheggiata da un nemico fanatico e senza pietà e per caso ci fosse una nave in porto che potesse portarti in salvo...» «La nave è assicurata» disse Venart. «Il carico no. E anche se avessero voluto rubare la mia nave, non ci sarebbe stato alcun senso nel gettare il carico fuoribordo. Avrebbero impiegato meno tempo a scaricarlo semplicemente sul molo.» «Oh, beh, ormai è fatta. Siamo ancora vivi e possiamo tornare a casa. Davvero, non c'è più una sola ragione al mondo per cui dovremmo ancora indugiare qui.» Venart buttò un sasso in acqua con un calcio. «Qualcuno dovrà risarcir-
mi» disse alla fine «anche se dovessi fare causa per ottenerlo.» Si massaggiò il mento pensosamente. «Che ne diresti se facessi due chiacchiere con Bardas Loredan? Sono sicuro che capirebbe che non ci si può aspettare che sopportiamo noi la perdita. Dopo tutto la sola ragione per cui eravamo qui era di rifornirli di scorte di cui avevano disperato bisogno...» «Ven.» «Non cominciare con il tuo Ven. È denaro tuo tanto quanto mio.» Gli venne in mente un modo migliore di mettere la faccenda. «Se si trattasse solo del mio denaro potrei anche permettermi di prenderla con filosofia, ma poiché c'è di mezzo anche il tuo capitale, come amministratore fiduciario ho un dovere...» «Ven.» Venart la ignorò. «Sono sicuro che Loredan ci aiuterà» disse. «Mi è sembrato veramente una persona d'onore. Se glielo chiediamo con gentilezza...» «Non è più il comandante. Lo hanno cacciato via.» «Che cosa?» Venart aggrottò la fronte. «Oh, dannazione. Va bene, allora, che ne dici del tuo amico Patriarca? Sono sicuro che se dovesse metterci una parolina...» «Oh, stai zitto, Ven, prima che ti butti in acqua; ne ho abbastanza di stare qui. Voglio tornare a casa.» Venart gettò un'altra occhiata alla sua nave come per assicurarsi che fosse sempre lì. «Che cosa ha fatto per farsi mandare via?» chiese. «Credevo che fosse l'eroe del momento.» Vetriz fece spallucce. «Lo pensavo anch'io» convenne. «Ma come continuo a dirti, questa gente non è come noi.» Cominciò ad allontanarsi e Venart dovette correre per raggiungerla. «Potrebbe essere ancora in grado di usare la sua influenza» disse ansimando. «Non può essersi inimicato l'intero governo.» «A ben pensarci» disse Vetriz «potremmo chiedergli se vuole venire con noi. E anche quella sua assistente, Athli. Mi è simpatica e ha buon senso. Un altro impiegato, poi, potrebbe sempre farci comodo.» Venart la squadrò. «Non puoi stare parlando seriamente» disse. «Tutto il nostro capitale d'investimento sta marcendo sul fondo del porto e tu mi parli di aumentare il personale. A volte penso che tu viva in un mondo tutto tuo.» «Be', potremmo almeno offrirgli un passaggio fino all'Isola. Ammesso che vogliano venirci, ovviamente. Potrebbero preferire rimanere qui a
vedere che succede. Però dovremmo chiederglielo.» Venart le lanciò un'occhiataccia. «E immagino tu voglia che offra passaggi gratuiti anche al Patriarca e ai suoi amici. Voglio dire, perché loro no?» «Ottima idea. Anche se non penso proprio che accetteranno.» «Vetriz» disse Venart con un tono di voce quasi implorante «possiamo guadagnare dei bei soldi per ogni passaggio sulla nave; l'ultima cosa che vogliamo fare è riempire questa dannata imbarcazione di gente che conosciamo a malapena offrendogli passaggi gratuiti. Vorrebbe dire gettare via l'unica occasione di riavere indietro almeno un po' del nostro denaro.» Continuarono a discutere la questione sulla via del ritorno alla locanda e alla fine arrivarono alla conclusione che avrebbero chiesto a Loredan, Athli, Alexius e Gannadius se volevano un passaggio gratuito fino all'Isola. «E se si offrono di pagare» aggiunse Vetriz «rifiuteremo. Prendi anche solo un quarto di rame da uno di loro e te lo farò mangiare.» «Va bene» disse Venart brontolando. «Ma prima gli chiederemo se possono fare qualcosa per farci indennizzare della perdita di tutta quella corda. Dannata merce» aggiunse iroso. «Vorrei tanto non averla mai presa in considerazione.» «Ah, beh» disse Vetriz, sottolineando volutamente le sue parole con un sorrisetto ironico. «Se avessimo fatto come dicevo io e comperato arazzi l'ultima volta che siamo stati qui...» Così, dopo un pasto volutamente frugale e poco costoso, andarono a cercare Athli, che avrebbe saputo dove trovare Loredan. Non la trovarono a casa. «Fantastico» disse Venart, dopo che ebbero picchiato un po' di volte alla porta e spiato attraverso le persiane. «Adesso cosa suggerisci di fare?» «Potremmo aspettarla qui» rispose Vetriz. «O potremmo andare a trovare il Patriarca. Probabilmente sa dove vive Loredan.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Chi?» domandò Alexius. Il ragazzo ripeté i nomi; sbagliando la pronuncia di entrambi. «Oh, loro.» Scambiò uno sguardo con Loredan. «Fateli entrare» disse. «Vediamo cosa vogliono.» «Vorrei restare, se non vi dispiace» disse Loredan quando il ragazzo si fu allontanato. «Sono quelli che secondo voi hanno questi strani poteri?» «La ragazza» rispose Alexius. «So bene che siete scettico. Non so che
farci d'altronde; circa il fatto che siano in città. Se ho ragione su di lei... Be', staremo a vedere.» Loredan ridacchiò. «In realtà» disse «ha tutto a che fare con la corda.» «Corda?» «Gli ho venduto un intero lotto di corda in eccesso che avevamo requisito per errore» spiegò Loredan. «Probabilmente è venuto a prendere la parte di merce che non era riuscito a caricare la volta scorsa.» Gli passò per la mente un pensiero. «Spero che non sia successo niente alla loro nave» disse. «A quanto ne so le cose hanno preso una piega piuttosto agitata giù al porto, ieri.» Alexius annuì. «Be'» disse «se fosse successo qualcosa alla loro nave, questo aprirebbe una bella falla nella mia teoria. Una strega che non è in grado di proteggere le sue proprietà non è davvero un granché.» «Pensavo che foste tenuti a non chiamarle...» La porta si aprì. «Oh, dimmi se non è fortuna questa!» disse Vetriz ad alta voce. «Eccoli qua tutti e due. Due piccioni con...» «Patriarca» disse Venart in tono formale, facendo un cenno del capo verso Alexius. «Colonnello Loredan. È veramente una fortunata coincidenza. Se poteste dedicarci un minuto...» «Possiamo avere un po' di vino, per favore?» disse Alexius al ragazzo prima che avesse il tempo di scappare via. «E qualcosa da mangiare anche. Grazie.» Si alzò su un gomito. «Vi prego di scusarmi» proseguì «ma sono stato dichiarato ufficialmente malato e non mi è consentito alzarmi, neanche per ricevere i visitatori. Accomodatevi, se trovate una sedia.» Vetriz sedette immediatamente sul bordo del letto, e solo per un pelo non si accomodò sui piedi del Patriarca. Suo fratello fece finta di non accorgersene e rimase in piedi. «Scusate per l'irruzione» disse Vetriz «ma stiamo per fare ritorno a casa e ci chiedevamo se per caso voleste venire con noi.» Né Alexius né Loredan seppero cosa rispondere. L'idea di lasciare la città non aveva sfiorato la mente di nessuno dei due fino a quel momento. Era come ascoltare una nuova, strana teoria sulla natura dell'universo; qualcosa di troppo estremo e radicale per accettarlo, eppure troppo plausibile per ignorarlo. «È un'offerta molto generosa» mormorò Alexius. «Io...» S'interruppe e si fissò le mani appoggiate sul lenzuolo. «È un'offerta molto generosa. Davvero.» «E lo stesso vale per Athli, naturalmente» continuò Vetriz. «E per il vostro collega Gannadius, Patriarca. È qui oggi o è tornato ai suoi...»
Non riusciva a ricordare la parola giusta. «Quartieri» azzardò. «È un'idea davvero interessante» disse Loredan in tono gentile. «Siete sicuri? I passaggi verso altre terre devono essere una merce di grande valore di questi tempi. Credevo che poteste chiedere qualunque prezzo.» Venart aprì bocca per dire qualcosa, vide l'occhiataccia di sua sorella e la richiuse. «Abbiamo bisogno di saperlo abbastanza in fretta, però» disse Vetriz. «Speriamo di partire domani mattina presto.» Esitò, si grattò un lato della testa con i polpastrelli e continuò. «Se volete, dormiteci su e noi terremo quattro posti liberi per voi sulla nave, giusto in caso decideste di venire.» Venart emise un sordo gemito, che lei ignorò. «Spero lo facciate» aggiunse. «Voglio dire, è stato meraviglioso il modo in cui ieri avete reagito e avete respinto l'attacco, davvero, ma...» All'improvviso fece un sorriso radioso. «È tutto quello che volevamo dirvi. Non ci fermiamo ad aspettare il vino, grazie lo stesso. Arrivederci.» «Ma...» disse Venart mentre sua sorella apriva la porta. «Oh, non importa. La nostra nave è attraccata al molo nord» aggiunse, voltandosi per seguirla. «Si chiama Scoiattolo. Non dovreste avere alcun problema a trovarla, è la sola nave da carico con un doppio castello di poppa in tutto il porto.» Alzò una mano in un vago gesto di saluto, si accorse che Vetriz era già sparita e le corse dietro, chiudendosi la porta alle spalle. «Be', se non è stato meglio questo di un combattimento di galli» disse Alexius, dopo un lungo attimo di silenzio. «Che cosa ne dite, Bardas?» Loredan si massaggiò la fronte con il palmo di una mano prima di rispondere. «Come va la vostra testa?» chiese. «Io... Dei del cielo, avete ragione. Sta montando una specie di sorda e pesante emicrania, come se stesse per scoppiare un temporale. Non me n'ero accorto finché non ne avete parlato, ma la sento chiaramente. Voi come state?» Loredan fece una smorfia. «Vorrei tanto avere passato la notte brava che giustificherebbe un mal di testa come questo» rispose. «Naturalmente, continuo a non credere a una sola parola. Che ne dite della loro offerta? Pensate che si tratti di coscienza sporca?» Alexius alzò il capo di scatto. «Questa era una battutaccia» disse «specialmente provenendo da uno scettico come voi.» «Voglio tenervi allegro. Pensate di accettare?» Alexius scosse la testa. «Vent'anni fa forse lo avrei fatto. O anche dieci. Adesso, però, il viaggio probabilmente mi ucciderebbe. Comunque mi
sembrava aveste detto che un assalto diretto non avrebbe avuto effetto.» Loredan scosse la testa. «Se dovessi andare» disse «non sarebbe per paura della gente delle pianure. Solo che non c'è nulla che mi trattenga qui a parte la prospettiva di un processo per colpevole negligenza. Come vedete, potrei anche accettare.» «Oh» disse Alexius. «Penso che farò meglio a informare Gannadius dell'offerta. È più giovane di me e ha ancora ambizioni, cose che vuole fare. Sono sicuro che potrei procurargli un incarico in una delle case dell'Ordine sull'Isola.» Loredan annuì. «Questo mi fa venire in mente che devo dirlo alla mia assistente» disse «visto che l'offerta è estesa anche a lei. Dannazione» aggiunse. «Proprio quando pensavo di avere finalmente l'occasione di andare a dormire..» Si alzò, facendo una smorfia a causa della rigidità di tutte le sue giunture. «Se dovessi decidere di andare» disse in tono imbarazzato «suppongo... Be', statemi bene Alexius. In circostanze diverse avremmo potuto conoscerci meglio, salvo che se la situazione fosse stata differente non avremmo mai avuto la minima occasione di incontrarci. Abbiate cura di voi.» Alexius annuì. «Anche voi» disse. «In fondo alla mia testa c'è la sgradevole sensazione di avere interferito nella vostra vita in misura tale che, se rimaneste qui, non sarei mai in grado di rimettere le cose a posto. Magari questa opportunità vuole proprio dire che ci ha pensato qualcun altro... O qualcosa... Mi piace pensare che sia così. Se deciderete di andare, ne avrò la prova.» «Ne deduco che siate dell'opinione che dovrei.» Alexius fece spallucce. «Non chiedetelo a me» disse. «Un'altra delle cose che non so fare è predire la fortuna.» Subito dopo che Loredan se ne fu andato il ragazzo di prima tornò con vino e dolcetti per quattro. Appoggiò comunque il vassoio e chiese se servisse niente altro. «Sì, se aspetti un attimo» rispose Alexius, che aveva il capo chino sullo scrittoio. «Voglio che tu faccia una corsa all'Accademia Cittadina e dia questo all'Archimandrita Gannadius il prima possibile. Dallo direttamente a lui e a nessun altro, per favore; digli che è importante. Puoi farmi questo favore?» Il ragazzo fece cenno di sì con decisione, e gli occhi gli scintillarono all'idea di una occasione per stare un'ora o due fuori dal palazzo. Subito dopo che si fu allontanato, Alexius lo sentì correre giù per le scale.
Entusiasmo, pensò. Anch'io ne avevo un po' un tempo. E guarda dove mi ha portato. Athli non era a casa, il che era una seccatura. Restò a girare intorno a casa sua per una mezz'ora o giù di lì, con la fastidiosa sensazione di attirare l'attenzione... Mi sento come un sedicenne innamorato, e dire che non facevo questo genere di cose neanche quando avevo davvero sedici anni... Poi desistette e si diresse dal panettiere all'angolo che stava cautamente alzando la serranda. «Vi conosco, non è vero?» disse la negoziante mentre gli consegnava uno sfilatino appena cotto, ripieno di fette di formaggio e bacon. Loredan annuì. «È possibile» disse. «Lavoravo per il governo, prima.» «Ah, ecco» disse la donna facendo schioccare le dita. «Pesi e misure. Un tempo non avevate l'abitudine di venire da queste parti a controllare i pesi e le misure... Oh, ormai devono essere passati dieci anni.» «Bizzarro che ve lo ricordiate» rispose Loredan parlando con la bocca piena di pane. La donna lo fissò e si spostò camminando lateralmente, fino ai vari strumenti di misura del negozio. «Fate ancora quel lavoro?» chiese. «Non preoccupatevi» rispose Loredan. «Ho solo finito prima, oggi.» «Oh.» La donna notò l'armatura sotto il mantello. «Vi hanno richiamato, vero?» Loredan annuì. «Sta succedendo a tutti» continuò lei. «Una vera vergogna, se volete la mia opinione.» Loredan annuì. «Colpa del Generale» disse. «Quale? Quello che è stato esonerato o quello nuovo?» «Entrambi» insistette Loredan, allungando una mano per ricevere il resto. Finì il panino fuori dal negozio, poi fece un po' di ricerche finché riuscì a trovare una taverna aperta. Non si sentiva più così stanco ora che aveva mangiato qualcosa e trovava l'idea di un goccetto davvero attraente. Quella che trovò era un posto piccolo e abbastanza squallido che non frequentava da anni. Gli sembrò sempre uguale. «Ehilà, guardia» disse l'oste, versandogli del sidro pallido e torbido in un boccale di corno dall'aria usurata. «Scommetto che avete visto un po' di azione in questi ultimi due giorni.» «Da bastarmi per un bel po' di tempo» ribatté Loredan, allungandogli una moneta. «Alla vostra salute.» Lui e l'oste erano le uniche due persone nel locale. Loredan glielo fece notare.
«Non so neanche perché mi sono preso la briga di aprire» rispose il taverniere. «Nessuno mette piede fuori di casa, caso mai i selvaggi dovessero cominciare improvvisamente a scorrazzare per le vie. Non che sia molto probabile, dico bene?» aggiunse. Loredan si strinse nelle spalle. «Non chiedetelo a me» rispose. «L'ultima cosa che ho sentito è che ne avevano avuto abbastanza per ora, dopo che il Generale aveva usato quella diavoleria del fuoco liquido.» Il taverniere annuì. «Bel lavoro, quello» disse. «Era ora che i maghi cominciassero a fare qualcosa per guadagnarsi la pagnotta. Notte dopo notte la gente ha continuato a domandarsi perché gli stregoni non facessero niente. Avremmo dovuto immaginare che avrebbero tenuto la magia di riserva, per quando sarebbe servita veramente.» «Grand'uomo il Patriarca» disse Loredan. «Alla sua salute» ripose l'oste, facendo un brindisi con un altro boccale che aveva appena riempito. «Se volete il mio parere, però» continuò abbassando la voce «c'è sotto di più.» Sul volto di Loredan si disegnò un'espressione interessata. «Davvero?» Il taverniere annuì. «Ho sentito dire che fino all'ultimo il prefetto e il Generale hanno impedito deliberatamente al vecchio Alexius di intervenire, perché hanno interesse che l'emergenza duri il più a lungo possibile.» «Ma va.» «Vi ripeto quello che ho sentito» insistette l'oste. «La cosa ha senso, però: loro due da soli governano la Città... Perché non vorrete venirmi a dire che almeno fino ad adesso l'Imperatore abbia gestito qualcosa... Ho una mezza idea che lo abbiano imprigionato da qualche parte.» «È terribile» disse Loredan. «Altroché se è terribile. E adesso, non appena i bastardi sono stati sconfitti, guardate che succede. Il Generale viene mandato via, così da un momento all'altro. Be', a me sembra ovvio...» «Cosa?» «Ha perso la battaglia per dividersi le spoglie» disse il taverniere. «La mia impressione è che il Colonnello Comesichiama stesse diventando un po' troppo avido e stesse cercando di mettere fuori gioco il prefetto. Dopo di che, il momento successivo... Wham!» «Non lo immaginavo un tipo così» confessò Loredan. «Messa così, però, in effetti la cosa sembra avere senso.» Sorseggiò un po' del sidro, che era orribile. «Più senso dell'altra spiegazione, in ogni caso.» «Prendete la questione della corda, per esempio» continuò l'oste. «A-
vremmo dovuto capire allora quello che stava succedendo. Solo che non si pensa mai che questo genere di cose succedano davvero, capite?» «Quale questione della corda? Ricordate che ultimamente sono rimasto un po' a corto di notizie.» «Oh, è stato un po' di tempo fa» rispose l'oste. «Sembra che il Colonnello Comunquesichiami sia andato in giro a requisire tutta la corda della città e poi l'abbia rivenduta sottobanco e soprattutto sotto prezzo a dei suoi compari che vengono dall'Isola.» Fece un sogghigno pieno di sottintesi. «Se volete il mio parere, è a questo che è servita tutta la storia dell'emergenza, a cominciare da quando sembrò che avessero fatto un gran pasticcio con quella spedizione di cavalleria. Non vorrete venirmi a dire che se ci avessimo provato veramente, non saremmo stati in grado di rimandare quei selvaggi a casa loro a calci.» Loredan bevve un altro po' di quell'orribile sidro. «Non mi è mai piaciuta la faccia di quel tipo» disse. «Guarda caso, prima era un avvocato.» «Be', questo spiega tutto. Un'altra porzione dello stesso?» «Grazie, ma preferirei provare il vino.» «Rosso della casa? O, se preferite, ho qualcosa di speciale.» «Rosso della casa andrà benissimo.» Il vino, benché pessimo, era un pochino meno imbevibile del sidro e Loredan si fermò per un altro paio di bicchieri, imparando nel frattempo molte altre cose su quello che era successo veramente là, nella città alta. Poi decise di tornare a casa prima che il vinaccio del taverniere riuscisse là dove Temrai e tutti i suoi uomini avevano fallito. La strada di casa passava davanti all'abitazione di Athli, per cui decise di fare un ultimo tentativo. Stavolta, lei c'era. «Salve» disse Loredan. Athli lo fissò e per un attimo Bardas pensò che stesse per lanciarglisi al collo. Ma non lo fece. «Salute a te» rispose invece. «Ti hanno licenziato, a quanto pare.» «Sono sospeso per cattiva condotta. Ho un messaggio per te.» «Entra a bere qualcosa» disse Athli. Era stato altre volte a casa sua, ma diverso tempo prima. Si era dimenticato di quanto fosse ariosa e ospitale, con i muri bianchi tirati a tempera e gli arazzi allegri e colorati, i mobili semplici ma di buona fattura, il pavimento asciutto e pulito. Ovviamente c'è gente che vive così, disse a se stesso. A cui piace che tutto sia bello. Se fossero costretti a vivere in una caverna, metterebbero dei fiori in un vaso per rallegrare il posto.
Sedette su un angolo del camino, mentre Athli staccava due coppe d'argento da altrettanti ganci e li riempiva, servendosi di una brocca. «Qual è il messaggio?» disse, porgendogliene uno. «Qualcosa di bello?» Loredan annuì. «Penso di sì. Ricordi quei due tipi dell'Isola? Venart e Vetriz?» «Strano che me li nomini. Stavo per parlartene io fra un attimo.» «Be', ci hanno offerto un passaggio gratuito per lasciare la Città» disse Loredan. «La loro nave salpa domani all'alba; se vogliamo, possiamo prenderla.» «Oh.» Athli era in piedi davanti al camino e stringeva la coppa con forza. «Tu hai deciso di andare?» «Non sono sicuro.» Loredan sorseggiò il vino; un po' dolce per i suoi gusti, ma niente a che vedere con quello ignobile della taverna. «Sono molto tentato. Tu che ne dici? E cosa volevi dirmi a proposito di quei due?» Si chinò un po' in avanti. «Evidentemente, ti sei imbattuta nuovamente in loro dopo l'ultima volta che ci siamo visti.» Athli annuì. «Non solo» disse. «Abbiamo deciso di metterci in affari insieme.» «Dei del cielo. E come è successo?» Athli glielo spiegò, mentre Loredan ascoltava con grande attenzione. «Comincio a farmi delle domande su quei due» disse Bardas, quando lei ebbe finito. «A quanto pare ultimamente non possiamo fare un passo senza inciampare in loro.» «Anch'io ho pensato che fosse una ben strana coincidenza» convenne Athli. «Comunque, cosa pensi di fare?» «A proposito della loro offerta?» Loredan chinò la testa sulla coppa, fissandone il fondo. «Ho detto al Patriarca che non avevo paura di affrontare il processo» disse. «Ho mentito. Mi sento come se avessi già fatto almeno un duello di troppo. Mio padre usava dire che la fortuna è come una maledetta grossa roccia, in bilico su un'altura a picco sulla tua casa; non è una buona idea scuoterla troppo.» Scrollò la testa. «Non che voglia dire qualcosa, in questo caso. Magari se decido di andarmene una tempesta affonderà la nave e morirò affogato, mentre se fossi rimasto tranquillo sarei arrivato a cento anni. Sempre ammesso che io ci tenga a vivere fino a cento anni» aggiunse «il che non è. Non hai ancora deciso niente?» Si guardò intorno. «Tu sì che hai qualcosa che ti lasceresti dietro» disse. «Cosa, questo?» scoppiò a ridere Athli. «Sarebbe stato bello avere
l'opportunità di vendere tutto e recuperare il mio denaro, ma all'inferno: dopotutto non sono altro che oggetti.» «Quindi hai deciso di andare?» «Non lo so.» Sollevò lo sguardo. «Vado se tu vai.» Loredan si sentì a disagio. «Devono esserci parecchi quattrini investiti qui dentro» disse. «Sembri avere buon occhio nel fare acquisti.» «Sono sempre la solita ruvida donna d'affari» disse Athli in tono brusco. «A proposito...» Esitò, poi riprese: «Posso farti una domanda? Personale.» «Dipende. Puoi provarci.» «D'accordo.» Fece un respiro profondo. «Com'è» disse «che guadagnando circa il decuplo di me, vivi come un maiale e sembri sempre in bancarotta? Senza offesa, ma da un punto di vista matematico non ha senso. È una domanda che mi sono posta spesso.» Loredan distolse lo sguardo e Athli pensò: Ecco fatto, adesso l'ho offeso. Ma un attimo dopo Bardas tornò a guardare verso di lei, senza che la sua espressione si fosse particolarmente alterata. «Mando molti soldi a casa» disse. «Forse te l'ho già detto: ho una famiglia piuttosto numerosa. Tre fratelli e una sorella... I miei genitori sono tutti e due morti ormai, ma due dei miei fratelli sono ancora alla fattoria. Quando ho potuto, li ho sempre aiutati. Glielo devo, capisci.» «Li hai aiutati» ripeté Athli. «Esatto. Mio padre era un piccolo mezzadro; in effetti era più che altro un contadino, che coltivava quello che consumava e con il feudatario che prelevava un sesto su tutto, nella stragrande maggioranza dei casi la situazione non era delle migliori. Così ho comperato la terra. Abbastanza perché tutti e tre potessero avere una vita decente. Come ho già detto, tutto considerato era il minimo che potessi fare.» Continua a non avere senso, rifletté Athli. Se i fratelli si sono tenuti la fattoria e Bardas se n'è andato per trovare la sua strada nel mondo, le cose non avrebbero dovuto andare esattamente all'opposto? Loro si sono tenuti tutto e lui ha cominciato con niente. «Capisco» disse. «Questo spiega tutto, immagino. Devono essere piuttosto ricchi i tuoi fratelli, a quest'ora. Quelli che sono rimasti» aggiunse. Loredan annuì. «Sono anche dei bravi agricoltori a quanto ne so» disse. «Non che abbia spesso loro notizie. Comunque è questa la risposta alla tua domanda. Molto banale, molto ordinaria, nessun grande mistero.» «Non parli mai della tua famiglia.» «No, è vero. Non la trovo un argomento di conversazione molto interes-
sante. Hai un altro po' di questo vino, o vuoi conservarlo per quando sarai vecchia?» «Scusa» disse Athli. «Prego, serviti.» Aspettò che si fosse riempito la coppa, poi riprese a parlare. «Quindi non stai pensando di tornare alla tua vecchia casa? Alla fattoria, voglio dire.» Loredan fece cenno di no con la testa. «Bisogna lavorare troppo per vivere in una fattoria» disse. «Per non parlare dell'odore e delle capre in salotto. Sono troppo vecchio per mettermi a lavorare.» «Che cosa ne dici dell'Isola, allora? Hai deciso?» «Penso che tu faresti bene ad andare» rispose Loredan. «So che ieri li abbiamo respinti, ma sono sicuro che ci riproveranno e che continueranno finché ci saranno riusciti. Penso che la Città cadrà e piuttosto prima che non dopo.» Suo malgrado, Athli si sentì turbata; sentirgli dire così, in tono quasi casuale, ciò che lei come chiunque altro aveva sempre temuto, pur sapendo nello stesso tempo, sapendo con certezza che non avrebbe mai potuto accadere. «Lo pensi davvero?» fu la sola cosa che riuscì a dire. Loredan annuì. «Non immagini quanto maledettamente vicini ci siano andati ieri» rispose. «Se non fosse stato per il fuoco liquido, nessuno di noi sarebbe qui a raccontarlo adesso. Sono così numerosi; non ci eravamo mai neanche immaginati che potessero essere così tanti. E cosa non hanno imparato... Le macchine, l'organizzazione, tutto. L'ultima volta che ho avuto a che fare con loro erano... Be', suppongo fosse giusto chiamarli dei selvaggi, anche se non nel senso in cui quasi tutti usano la parola. Erano primitivi; come se non desiderassero niente di più di ciò che avevano già, che è un atteggiamento apprezzabile, detto fra noi. Adesso hanno imparato a fabbricare cose, proprio come noi... Non credere a nessuno di quelli che sostengono che gli sono state date o che le hanno comperate da qualche parte: quel ragazzo, Temrai, è venuto qui e ha imparato come costruire tutto quello che poteva servirgli per conquistare la Città. È un giovanotto davvero sorprendente. Merita di vincere, proprio come noi... Comunque» continuò «la sola cosa che gli sbarra la strada è il fuoco liquido. Se riuscirà a trovare il modo di proteggersi, siamo finiti. Visto quello che è stato capace di fare fino ad adesso, non credo che gli ci vorrà molto tempo. E anche se non dovesse riuscirci, ha così tanti uomini che potrebbe semplicemente passare attraverso qualunque quantità di proiettili fossimo in grado di lanciargli, se fosse disposto a subire le perdite necessarie. E io penso che lo sia. È un buon capo, ma per qualche ragione conquistare
questa città è fondamentale per lui. Ho visto il modo in cui ha continuato a gettare macchine nella mischia dopo che i nostri trabucchi avevano trasformato la sua prima ondata in altrettanta legna da ardere. Alla fine tutto si riduce al fatto se siamo disposti a morire per la nostra città, tanto quanto loro sono disposti a farlo per il loro capo. E da questo punto di vista, credo che siamo finiti.» Athli annuì lentamente. «Quindi hai deciso di andartene.» «Non è quello che ho detto.» «Ma se la Città cadrà certamente...» Loredan si chinò in avanti fino a che il suo viso fu a pochi centimetri da quello di Athli. «Penso che tu faresti bene ad andare» disse. «Non dico che sia la tua ultima occasione o niente del genere, anche se sarà comunque molto meglio che pigiarsi più tardi sulla tolda di una nave carica di profughi, quando il nemico sarà già sulle mura. Sarei...» S'interruppe, fece un respiro profondo e riprese: «Sarei molto più contento sapendoti lontana da qui. Hai delle doti che ti consentiranno di guadagnarti da vivere ovunque tu vada. Adesso hai anche degli amici sull'Isola, non avrai alcun problema a farti una nuova vita. Che cosa ti trattiene qua, a parte tutti questi bei mobili?» «Andrò se verrai anche tu» disse. Loredan si scostò e aggrottò la fronte. Athli avrebbe voluto allungare una mano per trattenerlo, ma non lo fece. «Potremmo aprire una scuola sull'Isola» disse «proprio come quella di qui, salvo che penso che non avremmo concorrenza. E quanto al fatto che adesso abbia degli amici laggiù, la cosa vale anche per te. Per qualche motivo quei due sembrano averci presi in simpatia; non saremmo dei semplici rifugiati che devono ripartire da zero: conosceremmo altra gente, con il loro aiuto.» Cercò di incrociare lo sguardo di Bardas, che però lo teneva fisso nel fuoco. «Non vorrai veramente restare qui? Restare e farti ammazzare da eroe, quando tanto non resterebbe nessuno a poterlo ricordare? Hai sempre detto di non avere tempo per gli eroismi.» «Non essere stupida» disse Loredan in tono gentile. «Per quale diavolo di ragione dovrei tenerci a farmi ammazzare? Gratis» aggiunse. «Per denaro sarebbe diverso.» «Bene, allora. Andiamo insieme.» Cercò di sorridere. «Sarebbe divertente, noi due insieme. Come una volta.» Stavolta Loredan alzò lo sguardo e la fissò, ma Athli non vi lesse nulla a parte un vago riflesso del fuoco del camino nelle sue iridi. «È questa la tua
idea di divertimento, vuoi dire?» borbottò. «Oh, be'. Ognuno ha i suoi gusti.» Athli cercò di rimanere calma, di non perdere il controllo. «Be', non andrò se tu resterai» disse. «È quello che nella mia professione si chiama codice deontologico. Una caratteristica irrinunciabile per l'assistente di un avvocato.» Loredan finì il suo vino e si alzò in piedi. «Non ho detto che non ho intenzione di andare» affermò. «Solo che non ho ancora preso una decisione.» Appoggiò la coppa su un tavolo e prese il mantello. «Nel tuo messaggio non avevi scritto qualcosa a proposito di un chiavistello che avevi fatto mettere alla mia porta?» Per un attimo Athli sembrò non capire. «Oh, dei, già. La chiave. Aspetta che la prendo.» Aprì un cassetto di un piccolo, squisito scrittoio e ne tirò fuori un sacchettino di tela. «Ecco» disse, tendendoglielo. «È un po' rigido, devi appoggiarti con forza alla porta prima di girare la chiave.» «Grazie» rispose Loredan. «Quanto ti devo?» Stava per rispondere: Non fa niente. «Cinque quarti» disse invece. «Se vuoi puoi continuare a dovermeli fino a domani.» «No, credo di averli in moneta.» Contò la somma e gliela consegnò; Athli si aspettò quasi che le bruciassero il palmo della mano, nel prenderli. Appoggiò il denaro su un tavolo; Bardas si diresse alla porta. «La nave si chiama Scoiattolo» disse. «Molo nord, una nave da carico con il castello di poppa a due piani. Se fossi in te, ne approfitterei.» «Ci penserò» rispose Athli. Loredan uscì. CAPITOLO DICIASSETTESIMO «Attento.» Gannadius si guardò intorno. «Come?» disse. «State attento. Ingombrate il passaggio.» «Oh. Certo.» Gannadius si spostò lateralmente di qualche passo per lasciare passare gli uomini. «Scusate» continuò. «Non sono mai stato su una barca prima.» Lo guardarono senza dire nulla e proseguirono nel loro lavoro che aveva qualcosa a che fare con il tirare delle funi. Per quanto Gannadius era in grado di giudicare, gran parte delle manovre a bordo della nave includevano il tirare qualche corda, o l'annodarla o il mollarla.
Una volta assicuratosi di non stare più intralciando l'equipaggio e quindi mettendo in pericolo la nave, ricominciò a fissare l'orizzonte. Aveva spesso sentito gente descrivere il modo in cui appariva la Città vista dal mare, ma non per questo si era sentito particolarmente ispirato a fare quell'esperienza in prima persona. Ora che era lì a fissarla, non riusciva a capire quale fosse la fonte di tanto entusiasmo. «Bella, non è vero?» «Sì, abbastanza» rispose in modo automatico. «Molto... Imponente» azzardò «vista da questa angolatura.» L'uomo accanto a lui si appoggiò alla murata e tenne gli occhi fissi sulla metropoli che gradualmente si allontanava. «La Tripla Città» disse. «La lacrima degli dei, una perla che risplende fra il biancheggiare delle onde marine. Perimadeia la Remota, Perimadeia la Splendente, culla di belle donne, porta sull'infinito.» Gannadius borbottò in risposta qualcosa di educato. A lui la città sembrava un pan di zucchero mal lievitato; ma riconosceva le definizioni a cui stava ricorrendo l'altro, gli epiteti tradizionali e i cliché di cui ciascuno si riempiva la bocca, senza stare a pensare al loro significato. In effetti, per essere strettamente accurati, il passo originale tratto dal Ritorno a Casa di Phyzas diceva culla di donne meravigliose, non belle; ma tutti lo citavano erroneamente a parte i pochi che avevano davvero letto quella ode grondante di retorica. «È davvero un peccato» disse l'uomo. «Purtuttavia, quando il tempo di qualcosa è esaurito, è esaurito.» Alzò gli occhi e studiò l'espressione di Gannadius. «È la prima volta che navigate, vero?» Gannadius annuì. «Vi ci abituerete» disse l'uomo. «Prima o poi. Il trucco sta nel non combattere la nausea. Dopo avere vomitato un paio di volte, vi sentirete molto meglio, credete a me.» C'era molta gente sul ponte a dare un'ultima occhiata alla Città mentre scompariva lentamente oltre la linea dell'orizzonte; come una nave alta e orgogliosa che stesse gradualmente affondando, disse Gannadius a se stesso. Che paragone deprimentemente adatto. A onta di ciò che aveva detto il suo vicino non sentiva nessuna nausea (non si sentiva neanche bene, ma non aveva nausea). Non era neanche travolto dal dolore e dal pathos di tutta quella situazione. La sua sensazione dominante, si disse, era l'incredulità davanti all'idea di stare forse guardando la Città per l'ultima volta.
«Io» disse l'uomo «sono di Scona di origine, ho vissuto nella Città solo per cinque anni. Siete mai stato a Scona? No, scusate, ovviamente no. Un posto miserevole, Scona. Ma almeno non c'è gente in giro che cerca di darla alle fiamme ogni cinque minuti.» «Pensate che a Perimadeia andrà a finire così?» L'uomo scoppiò a ridere. «Farei davvero la figura dello sciocco se andasse diversamente, visto che ho tirato fuori seicento pezzi d'oro per un passaggio su questa bagnarola. Perché, non ne siete convinto? Immagino di sì, se no che ci fareste qui?» «Per essere sincero sto andando ad assumere una nuova carica sull'Isola, quindi avrei dovuto partire comunque» disse Gannadius. «Capisco.» L'uomo non ebbe bisogno di dargli del bugiardo e neanche di sottintenderlo. «Un colpo di fortuna. Che mestiere fate?» «Lavoro per una banca» rispose Gannadius. «Davvero? Quale banca?» Gannadius esitò: gli stava bene. Così imparava a essere un codardo e a non dire la verità. «È una piccola banca di famiglia» rispose «di cui certamente non avrete sentito parlare. La Boredan» aggiunse quasi soprappensiero. «La Boredan? Con la B?» «Esatto. La Banca Boredan. Come ho già detto siamo molto piccoli, teniamo un basso profilo...» L'uomo lo squadrò. «Scommetto che ci si stanca e nausea ad avere che fare in continuazione con i soldi degli altri» disse. «Dev'essere un lavoro insopportabile.» «Lo è» rispose Gannadius, guardando fisso davanti a sé. «E voi?» chiese. «Che lavoro fate?» «Oh, sapete» disse l'uomo. «Lettere di credito, polizze di scambio, quel genere di cose. Il tipico scambio commerciale al minuto. Tuttavia è strano che esista una Banca Boredan e io non ne abbia mai sentito parlare. Pir Hiraut» aggiunse «tendendo la mano.» Magari potremmo fare un affare insieme, un giorno o l'altro. Gannadius strinse la mano dell'altro... Aveva una stretta che pareva una morsa... E fece un ampio sorriso. «Sicuro... Voglio dire, sì, dobbiamo valutare le possibilità» disse. Fu colto da un'ispirazione; si portò una mano alla gola ed emise un gorgoglio strozzato. Ridacchiando l'uomo gli augurò buona fortuna e si allontanò. «La prossima volta» disse un'altra voce, questa volta alla sua sinistra
«fingete di essere un mercante. Di qualcosa di noioso, come il pesce essiccato. A nessuno viene mai voglia di parlare di lavoro con un mercante di pesce secco.» Gannadius sorrise con aria contrita. «Avete... sentito?» Vetriz annuì. «Avreste dovuto dirgli che siete uno stre... Un membro dell'Ordine» affermò. «È veramente molto rispettato sull'Isola, sapete? Davvero avete una istituzione, là?» Gannadius fece cenno di sì. «Altroché. Ma è poco più di un consolato che cura i nostri interessi finanziari; non vi si insegna e si fa anche assai poca ricerca. Comunque, è un incarico. Meglio che sbarcare come un profugo squattrinato.» «Questa gente non mi da l'impressione di essere squattrinata» gli confidò Vetriz. «In caso contrario non sarebbero su questa nave. Penso scoprirete che c'è più di un vero banchiere, come d'altronde commercianti, avventurieri e altra gente di quel tipo; persone la cui vita non era tutta rinchiusa entro le mura della Città.» Appoggiò i gomiti alla murata e il mento alle mani. «Immagino sia questa la ragione per cui hanno scelto di andarsene» aggiunse. «Capiamoci, non abbiamo avuto problemi a riempire la nave, ma non c'era neppure una coda poi così lunga. Molta gente non è interessata ad andarsene, non ora che l'assalto è stato respinto.» Gannadius fece spallucce. «Spero abbiano ragione» disse. «E se sarà così aspetterò un poco e poi cercherò di tornare a casa dando meno nell'occhio possibile e di riguadagnare il posto che avevo nella gerarchia dell'Ordine. Naturalmente ho perso la mia occasione di diventare Patriarca, ma a essere onesti non me ne importa molto. Non è la vita meravigliosa che tutti pensano sia.» Vetriz corrugò le sopracciglia. «Lui è rimasto, però» disse. «La salute di Alexius non gli avrebbe mai consentito di viaggiare» rispose Gannadius. «Riesce a nasconderlo in qualche modo, ma non sta affatto bene.» Gannadius rimase silenzioso per un attimo, chiedendosi se avrebbe mai rivisto il suo amico. Non avevano avuto il tempo di salutarsi; gli aveva scritto poche righe su una tavoletta che poi aveva affidato alle mani di un messaggero, ma non era assolutamente la stessa cosa. Se ne rammaricò. Qualunque cosa si avvicinasse a una genuina amicizia era qualcosa di estremamente raro agli alti livelli della gerarchia, qualcosa di inaspettato. Avendola incontrata, gli dispiaceva di perderla di nuovo. Ma l'idea di andarsene... di scappare... era stata irresistibile. E siccome grazie alla improvvisazione dell'ultima ora da parte di Alexius, poteva
farlo con un minimo di onore e un incarico, sarebbe stato un folle a lasciare cadere una simile opportunità. La città era quasi completamente scomparsa; si vedeva ancora solo il candore accecante della Città Alta, che rifletteva la luce del sole. Fece tornare in mente a Gannadius la vecchia leggenda della Città Perduta di Myzo, il magico regno insulare dalle favolose ricchezze, che suscitò l'ira degli dei e venne fatto sprofondare fra le onde un milione di anni prima, quando gli dei esistevano ancora e permettevano che accadessero cose del genere. Di questi tempi, ovviamente, la geografia non era altrettanto pronta a piegarsi a una domanda di poetica giustizia... O così pensava la gente della Città. Be', forse. Sentendo che un qualche gesto si imponeva, sollevò le mani all'altezza delle spalle, con i palmi rivolti verso il remoto bagliore bianco fino a quando non fu definitivamente scomparso, poi le lasciò ricadere lungo i fianchi. «State dicendo addio?» «Solo un po' di melodramma» rispose. «Ho passato così tanto tempo a insegnare che continuo ad avere un debole per il senso dello spettacolo, anche quando è del tutto fuori luogo. Sapete, è la prima volta che mi allontano così tanto dalla Città in tutta la mia vita. E ho quarantaquattro anni» aggiunse. «Immagino che dovrei sentirmi perduto, ma non è così.» «Mi fa piacere sentirvelo dire» rispose Vetriz. «Avrete un sacco di tempo in seguito per sentire nostalgia di casa.» Lo lasciò e attraversò il ponte, per vedere come se la stesse cavando l'altra sua nuova amicizia. Vetriz aveva cercato di consolarla, ma le lacrime erano una cosa che l'aveva sempre turbata e che non sapeva come affrontare; di conseguenza l'aveva lasciata sola perché si riprendesse. «Mi dispiace» disse Athli. «Non volevo metterti in imbarazzo. È solo che...» Lasciò la frase a metà, con gli occhi sempre fissi sull'orizzonte. «Credevi davvero che sarebbe venuto? All'ultimo minuto?» Athli scosse la testa. «Oh, non si tratta di questo» disse. «Ma lasciare la Città, senza sapere se esisterà ancora quando tornerò...» Vetriz non disse nulla; non era sicura di credere a quello che Athli stava cercando di sostenere, ma non c'era modo di conoscere la verità. Sapeva di essere eccessivamente incline a vedere storie romantiche degne di un
romanzo anche dove non ce n'era traccia al di fuori della sua immaginazione. D'altro canto quella era una situazione nella quale si poteva ragionevolmente supporre che la sua interpretazione istintiva fosse quella giusta. Comunque, non erano affari suoi. «Sarà ancora là» disse «aspetta con fiducia. Dovrà esserci per forza se vogliamo metterci nel commercio dei beni voluttuari. Non possiamo permettere che una vecchia, stupida guerra intralci un'ottima intuizione economica.» Athli sorrise. «Specie una che tuo fratello disapprova.» «Esatto.» Nel dirlo, Vetriz realizzò di stare dicendo il contrario di ciò che pensava. In qualche modo era certa che la Città sarebbe caduta, prima o poi. Non era una cosa su cui aveva voglia di concentrarsi abbastanza a lungo da razionalizzare l'iniziale intuizione, tuttavia; anzi, era un argomento pensare al quale le dava letteralmente il mal di testa. Ne era certa e questo era quanto; proprio come l'ultima volta che aveva visto la prozia Alamande (novantadue anni, piegata dall'artrite, che da dieci anni aspettava la morte come un viaggiatore impaziente può aspettare un traghetto): aveva avuto la netta sensazione che fosse per l'ultima volta, l'occasione giusta per un addio formale. Non era particolarmente affezionata alla prozia Alamande e non lo era neppure alla Tripla Città di Perimadeia (un posto abbastanza gradevole da visitare, ma in cui non avrebbe mai voluto vivere). Forse bisognava essere distaccati per avere la giusta prospettiva; comunque era quella la ragione per cui aveva ceduto all'impulso di cercare di portare via di là tutti i suoi nuovi amici, conducendoli in salvo. Era un peccato che il Patriarca non fosse andato con loro; e anche Loredan, ovviamente. Ma la cosa non l'aveva sorpresa; erano entrambi uomini con un forte senso dell'onore e del dovere, non i tipi da filarsela. Uomini! pensò. Venart era sul castello di prua e scrutava il mare con impazienza, alla ricerca dei punti di riferimento che lo avrebbero ricondotto a casa. Andò a raggiungerlo, sentendosi improvvisamente felice di essere chi era e che le cose peggiori di cui dovesse preoccuparsi fossero un carico di corda finito in fondo a un porto e la prospettiva di perdere un buon mercato. «In verità» disse Venart un po' più tardi «potrebbe rivelarsi una... Dannazione, qual è l'opposto di una benedizione a metà? Una benedizione travestita, o perlomeno un'opportunità. Certo, perdiamo un mercato e
anche uno molto buono. Ma non è la fine del mondo; c'è ancora un intero pianeta là fuori che vuole comprare e vendere e se non potrà più farlo a Perimadeia, dovrà farlo altrove. Questa potrebbe essere la grande occasione che l'Isola ha sempre atteso; voglio dire, non è passato così tanto tempo da quando eravamo noi a tentare di distruggere la Città, e proprio per questa ragione.» «Ah» disse Vetriz. «Allora va tutto per il meglio.» Venart fece schioccare la lingua. «Sì, so che suona cinico e senza cuore e, credimi, mi dispiace veramente per loro, anche se volendo essere sinceri fino in fondo è una disgrazia che si sono tirati addosso da soli, lasciando libero accesso al nemico che ha potuto imparare a costruire catapulte e altre cose, senza che nessuno gli facesse mai neppure una domanda. Resta comunque il fatto che dobbiamo guadagnarci da vivere...» Vetriz annuì. «Quindi pensi che potremmo essere sull'orlo di una nuova, meravigliosa opportunità?» chiese. «È possibile. È possibile.» «Splendido.» Vetriz sorrise felice. «Quindi, con tutto questo nuovo lavoro che si svilupperà dalle nostre parti, la cosa più sensata da fare è prendere un altro impiegato. Lo dirò ad Athli, ne sarà contenta.» «Vetriz...» Venart risparmiò il fiato per un lungo, rassegnato sospiro. La verità era che una volta che sua sorella si era convinta che una cosa dovesse accadere, il più delle volte succedeva. L'unica cosa sensata da fare era accettare la situazione e cercare un modo per mitigare i costi che ne sarebbero necessariamente conseguiti, senza che lei se ne rendesse conto. Di fronte a sé immaginò di vedere una grande strada dritta che conduceva a casa. Tornare in patria con un ricco carico e soldi in tasca, che una volta arrivato gli sarebbero stati di grande utilità. Non era chiedere troppo. Per come vanno gli assedi, la situazione avrebbe potuto essere assai peggiore. Ci sono assedi durante i quali i difensori muoiono di fame; dove un topo morto o una cornacchia cambiano di mano per il prezzo di un barile di farina di frumento di prima scelta e dove per effetto della generale disperazione, si diffondono tetre dicerie su tombe violate e atti di cannibalismo, come funghi nel buio; ce ne sono altri nei quali il campo degli assedianti è posto in mezzo a paludi cariche di miasmi, ai piedi di una città ben munita e piena di scorte e in cui le guardie sulle mura vanno avanti e indietro cenando, con passo tranquillo, mentre la fame e la febbre
decimano i loro nemici; ce ne sono altri ancora durante i quali gli assedianti lanciano con trabucchi carcasse in putrefazione nella città per spargere pestilenze o dove i trabucchi della città lanciano pane raffermo nel campo del nemico per sbeffeggiare la sua fame. Alcune città soffrono due assedi; il nemico fuori e la pestilenza dentro. A volte l'epidemia si diffonde da un nemico all'altro, sicché da entrambi i lati delle mura gli uomini evaporano, come pioggia su una pietra bollente. Un caldo soffocante opprime i difensori in estate, ghiaccio e neve perseguitano gli assedianti d'inverno. Tutto considerato, un assedio può essere una faccenda spiacevole per ogni parte coinvolta. Una guerra che ristagni, raramente giova a qualcuno. Non era così per l'assedio di Perimadeia, ammesso che potesse essere definito un vero assedio. Sì, la gente della Città non poteva avventurarsi all'esterno dal lato di terra, ma in realtà chi avrebbe voluto farlo? Il Ponte dei Mandriani era quello di cui si erano sempre serviti gli stranieri per entrare e uscire dalla Città; la gente di Perimadeia, ammesso che viaggiasse, andava e veniva servendosi del porto. Quanto alle merci che arrivavano via terra, chi ne aveva bisogno? Si trattava di cibo e qualche materia prima, nulla che non potesse arrivare via mare e anche se significava pagare qualcosa in più, il danno poteva essere compensato da un modesto aumento dei prezzi. Una volta diventato chiaro che non ci sarebbe stato un altro assalto, che le zattere sul fiume non stavano trasportando i componenti di nuove macchine, scale, arieti, la gente della Città cominciò a perdere gradualmente interesse; in effetti, a parte la prosecuzione del dibattito sulla liceità o meno di avere utilizzato il fuoco liquido (che le fazioni politiche riuscirono a mantenere vivo, come le fiamme di una lampada continuamente rifornita), gli abitanti rimossero l'assedio dalle proprie menti e si rimisero al lavoro. Anche il popolo di Temrai si trovò ad adagiarsi nella comodità di una specie di routine. La terra davanti alla Città non era stata seminata per oltre una decade, il che ne faceva un ottimo pascolo per il bestiame. L'acqua abbondava e dopo la frenetica attività della costruzione delle macchine e del loro trasporto, una pausa fu la benvenuta. C'erano ancora cose da fare. Stavano ricostruendo il ponte di fronte alla torre di guardia, dovevano costruire e impiumare altre frecce fabbricandone anche le punte e riparare e rinforzare le armature. Che fosse per aumentarne l'abilità o semplicemente per tenere i suoi uomini occupati, Temrai comunque aveva organizzato gare settimanali di tiro con l'arco, con bei premi per i vincitori, mentre gli
ultimi dieci fra i perdenti dovevano sottoporsi a un ciclo obbligatorio di allenamento; questo dava loro qualcosa di cui parlare e su cui scommettere e in qualche modo aiutava a riparare i danni che la battaglia delle zattere aveva arrecato al suo rapporto con il proprio popolo. Ben pochi dei suoi si chiedevano ancora quale sarebbe stata la fase successiva; il punto di vista generalmente accettato era che stessero tutti aspettando che succedesse qualcosa e che fino ad allora, avrebbero potuto esserci posti peggiori nei quali erigere il campo per qualche mese. Pareva quasi che si stesse stabilendo un clima amichevole. La gente della Città scommetteva sulle gare di tiro con l'arco del clan, discuteva nelle taverne, davanti a un bicchiere di sidro speziato della forma in cui erano i vari campioni e concorrenti, osservava la vita del clan e vi trovava cose apprezzabili, come sempre aveva fatto nei suoi rapporti con gli stranieri. Il clan stava abituandosi alla vista delle mura; ma era impossibile vivere a lungo ai loro piedi senza cominciare a rispettare chi ci stava dietro e a interrogarsi sul tipo di gente che era in grado di erigere un'opera così grandiosa e perfetta. Alcuni del clan sedevano per ore a guardare le navi sull'acqua, chiedendosi che effetto facesse essere trasportati lontano, in mezzo a quella stupefacente distesa vuota e azzurra dentro un piccolo guscio di legno, fino a raggiungere un altro paese, un altro luogo simile a questo eppure diverso in modi che non riuscivano neppure a incominciare a immaginare. C'erano perfino alcuni uomini al campo che pensavano, e a volte lo dicevano anche, che non fosse una buona idea quella di distruggere la Città. Ridurre deliberatamente in macerie una realtà del genere sarebbe stato uno spreco, e cosa poteva esserci di peggio che sprecare qualcosa? Erano molto pochi, tuttavia. La maggior parte della gente delle pianure non ci pensava affatto, troppo indaffarata in altre cose. Loredan riaprì la sua scuola di scherma e ben presto ebbe una classe al completo. Le cause tendevano tuttora ad aumentare e la richiesta di avvocati era più intensa che mai; c'erano poi quelli che si iscrivevano senza avere intenzione di praticare la legge, ma solo per imparare a tirare di scherma. Assunse un nuovo assistente, un uomo di una sessantina d'anni che faceva le somme, raccoglieva le rette e teneva i libri contabili. Combinò la vendita dei mobili di Athli e diede la disdetta dell'affitto, ottenendo anche un certo rimborso, poi trovò un corriere affidabile e le spedì il ricavato sull'Isola. Tre settimane dopo ricevette una ricevuta vergata nella sua limpida grafia, accompagnata da una formale nota di ringraziamento, copiata dal solito libro di precedenti corrispondenze
d'affari. Lo Scoiattolo fece ritorno con un carico di legna per ricavarne archi e di piume di pavone, ripartendo con tre posti rimasti vuoti; la gente continuava a lasciare la Città, ma il prezzo di un passaggio era calato di un terzo. Venart venne da solo; cercò di vedere Loredan per trasmettergli un messaggio, ma non c'era e la persona per conto della quale agiva da messaggero, non gli aveva dato nulla di scritto. Portò una lettera di Gannadius al Patriarca e ne venne via con le braccia piene di libri, pergamene nuove, penne e due bottiglie di vino estremamente buono (una per lui, per ringraziarlo di avere fatto quella commissione). Alexius non era più a letto e aveva riassunto bene o male la sua funzione di Patriarca, adesso che il Consiglio di Sicurezza si riuniva solo una volta alla settimana. Disse a Venart di portare i suoi saluti a Vetriz e di chiederle di trovare sullo Scoiattolo, la prima volta che fosse tornata a Perimadeia, il posto per un paio di barili di pere sciroppate. I dottori gliele avevano assolutamente vietate, ma che ne sapevano loro? E poi che gusto c'era a essere un mago se non si poteva mangiare quello che si voleva? Il prefetto, il Luogotenente Generale e i loro colleghi del governo tornarono al loro lavoro con rinnovato vigore dopo la vacanza forzata dovuta all'emergenza. Era un momento eccitante per loro, pieno di opportunità; durante la precaria sospensione delle ostilità fra le fazioni, un enorme numero di armi politiche era stato preparato e messo da parte, sicché quando il governo riprese la sua normale attività, entrambi gli schieramenti avevano avuto solo l'imbarazzo delle scelta circa i temi su cui dibattere e scontrarsi. Per la prima settimana, più o meno, il confronto fu abbastanza equilibrato, ma non ci volle molto perché diventasse evidente che i Radicali del Luogotenente Generale stavano gradualmente avendo la meglio sui Popolari del prefetto, grazie soprattutto a due argomenti che accesero immediatamente l'immaginazione del Consiglio e di cui quindi non fu più possibile liberarsi; il fallimento dell'iniziale spedizione di cavalleria e l'uso non autorizzato del barbaro e disumano fuoco liquido. Per quanto riguardava il prefetto, il suo peggiore nemico era il tempo. Fra meno di un mese avrebbe dovuto essere riconfermato nella sua carica dal Consiglio; con i Radicali che chiedevano il suo sangue come maggiore responsabile di entrambi i disastri, la cosa avrebbe potuto dimostrarsi più complessa della pura formalità che avrebbe dovuto essere. C'erano
precedenti di allontanamento di un prefetto... Anche se bisognava ammettere che l'ultimo caso risaliva a oltre un secolo prima; il che peraltro serviva solo ad aggiungere pepe alla faccenda, perché era un ben misero consigliere quello che non aspirava a fare la storia. La sua sola forma di difesa, realizzò, poteva essere l'attacco. Spostando la colpa sulle spalle del Colonnello Loredan (che naturalmente era stato Vice Luogotenente Generale, pur rispondendo direttamente all'Ufficio del Prefetto), poteva mettere le cose in modo da essere sicuro di trascinare il Luogotenente Generale con sé, se proprio fosse caduto. Questo avrebbe provocato una situazione esplosiva, senza possibilità di tornare indietro; ma una volta che fossero stati allontanati entrambi non avrebbero avuto altra alternativa che quella di collaborare per fare revocare l'allontanamento (i suoi consulenti giuridici stavano già studiando come sottrarsi ai laccioli della costituzione e avevano promesso di fargli presto un rapporto) e restaurare la situazione precedente. Il modo migliore di ottenere questo risultato sarebbe stato quello di fare celebrare il prima possibile il processo a Loredan. «Non posso crederci» mormorò Ceuscai. «Leggilo di nuovo.» Temrai annuì e si avvicinò al naso il pezzo di pergamena. La luce nella sua tenda era appena appena sufficiente per leggere, ammesso che la grafia fosse chiara. «Bardas Loredan al Capo Temrai: Saluti» recitò. «Ricorderai certamente che c'è un contratto in sospeso fra di noi. Vorresti essere così gentile da indicarmi quando potremmo incontrarci, sotto protezione di un salvacondotto, per discutere come tu possa assolvere ai tuoi obblighi? Attendo la tua risposta con grande interesse.» «È impazzito» disse in tono reciso Zio Anakai. «Probabilmente è conseguenza dell'essere caduto in disgrazia e dell'essere stato sollevato dal comando. Se fossi in te getterei quel messaggio nel fuoco.» «Deve essere davvero impazzito se pensa che accetteremo di seguire il vecchio costume del combattimento fra campioni» convenne Ceuscai. «Tanto per cominciare, non abbiamo nessuno prova che questa sfida sia stata ratificata dal suo governo.» Temrai sollevò il capo. «Chi ha parlato di combattimento fra campioni?» disse. I membri del consiglio di guerra si guardarono l'un l'altro. «È certamente lì che vuole andare a parare» disse qualcuno. «Un modo un po' contorto di mettere la cosa, lo so, ma cos'altro ci si può aspettare da un pazzo
lunatico?» «Questo non c'entra niente con la guerra» disse Temrai. «È una questione personale. Vuole che gli fabbrichi una spada.» La tenda divenne silenziosissima. «Ne sei sicuro?» chiese Zio Anakai. «Non voglio mancarti di rispetto, ma mi sembra un po' troppo da leggere fra le righe di una lettera piuttosto corta...» «Per essere sinceri» disse Temrai «ha ragione. Oh, avanti, devo avervi raccontato questa storia. No? Era l'argomento a cui stava riferendosi quando abbiamo giocato ai diplomatici, quella volta che lo abbiamo incontrato. Vi ricordate?» Ceuscai corrugò la fronte. «Ricordo che ci furono un mucchio di chiacchiere di cui non capii niente a proposito di un'insegna e di qualcosa che gli dovevi» disse. «Ma se ci hai spiegato cosa volessero dire, allora dovevo essere addormentato.» «Oh.» Sul viso di Temrai si disegnò un sorrisetto. «Sarà meglio che vi informi, allora. Avevo già incontrato questo Loredan quando vivevo in città; beh, per essere precisi è accaduto la notte in cui la lasciai. Io e Jurai stavamo cavalcando lungo la strada che porta al ponte quando questo Loredan mi sbucò improvvisamente davanti, ubriaco fradicio, e io... uhm... lo travolsi. O meglio, fu il mio cavallo a farlo. Non si fece male, ma devo ammettere che una sua proprietà fu danneggiata. Un'insegna appena dipinta. Apparentemente di un certo valore. Lui insistette perché gliela pagassi e, per una ragione o quell'altra, promisi di rimborsarlo fabbricando una spada per lui. Quindi, come vedete, strettamente parlando è nel suo pieno diritto.» Cadde nuovamente il silenzio. «Tutto questo sta diventando ridicolo» disse alla fine Ceuscai. «Smettila di scherzarci su, Temrai. Dai quasi l'impressione di volere prendere in considerazione la cosa.» Temrai si grattò la testa. «Forse sì» disse. «Forse no. Sono in dubbio, a dirti la verità.» Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente. Assordato, Temrai alzò una mano per imporre il silenzio. «A proposito del fatto di incontrarlo, voglio dire» proseguì. «Provate a pensarci, per favore, invece di farvi scoppiare il cervello strillando. Quest'uomo era il Comandante in Capo della Città, ma adesso è caduto in disgrazia. Secondo le ultime notizie, sta per essere mandato sotto processo; se parla seriamente a proposito di questa faccenda della spada, forse è per
quello che gli serve.» S'interruppe, per fare sì che ciascuno cogliesse le implicazioni di ciò che aveva detto. «In altre parole» continuò «è scontento, nutre un forte rancore nei confronti dei governanti della Città, magari è anche un po' pazzo. E non siamo stati tutti d'accordo, appena una settimana fa, che il solo modo in cui avremmo potuto entrare a Perimadeia sarebbe se qualcuno ci avesse aperto le porte dal di dentro?» «Capisco» disse Anakai a mezza voce. «Quindi pensi che in realtà lui punti a questo?» «È possibile. E anche se non fosse ciò che ha in mente al momento, non c'è motivo per cui non dovremmo riuscire noi a fargli venire questa idea. O qualcuno di voi conosce qualche altra persona con un forte motivo di malcontento e che sia abbastanza pazza da tradire la Città e anche nella posizione di potere mettere le mani sulle chiavi delle porte?» «Be', lui per esempio non lo è più» obiettò qualcuno. «Hai appena detto che è stato sollevato dal comando.» «Saprà certamente come fare ad aprire le porte» rispose Temrai in tono fiducioso. «Avanti, vale la pena di provarci. Non siete d'accordo?» Il consiglio di guerra soppesò la cosa. «Provate a considerare questa ipotesi» suggerì qualcuno. «Ecco il Comandante in Capo caduto in disgrazia, con l'onore e la reputazione a pezzi, a cui non è rimasto più niente per cui vivere; è venuto meno al suo dovere verso la Città e non ha più niente da perdere. Perché non fare un estremo tentativo? Perché non cercare di diventare un eroe nazionale assassinando il capo del clan? Sarebbe una missione suicida, ma per quanto lo riguarda sarebbe sempre meglio che venire messo a morte dalla sua stessa gente.» Temrai annuì. «È perfettamente possibile» disse. «Il che spiega perché, se dovessimo decidere di incontrarlo, voglio che i migliori arcieri lo tengano sotto tiro dal primo istante in cui metterà piede nel campo. Alla peggio, potremo sempre rimandare la sua testa ai governanti della Città dicendo che era venuto da noi offrendosi di tradirli. Questo darà loro un mucchio di motivi per preoccuparsi.» Anakai lo fissò con aria pensosa, aggrottando la fronte. «Hai già preso la tua decisione, vero?» disse. «Vuoi davvero incontrare questo lunatico. Temrai, è l'uomo che ha fatto rovesciare fuoco liquido sulle zattere. Non voglio insultarti chiedendoti se te ne sei dimenticato.» «Stava solo facendo il suo dovere» rispose Temrai senza scomporsi. «Così come noi stavamo solo facendo il nostro cercando di piazzare le zattere ai piedi delle mura. Se vuoi discutere di etica, possiamo farlo più
tardi, anche se personalmente preferirei una partita a scacchi.» Seguì altro silenzio e nell'aria aleggiò un commento inespresso: non è stato mai così, è cambiato, forse la guerra comincia davvero a dargli alla testa. «E se invece volesse veramente che tu gli fabbricassi una spada?» chiese qualcuno alla fine. «Lo faresti?» «Non so» rispose Temrai, fissando l'uomo dritto negli occhi. «Forse voglio che quest'uomo resti vivo e non si faccia ammazzare in un tribunale. Inoltre non ho mai fabbricato una spada da processo, prima: tecnicamente parlando sarebbe un esperimento interessante. E considera anche questo» continuò, appoggiando il mento sulle mani. «Supponi che vinca la sua causa e torni in auge. Supponi che abbia indietro il suo comando. E poi immagina che si sappia in giro che ha vinto il duello usando una spada fatta personalmente per lui dal capo del nemico. Penso che i nostri amici dall'altra parte del fiume potrebbero veramente farsi a pezzi fra loro, su uno scandalo del genere.» «E noi non saremmo costretti a misurarci con il loro migliore generale» aggiunse qualcuno. «È una buona idea.» «Siete tutti impazziti» borbottò Anakai. «O si tratta di un trucco o del delirio di un pazzo, o di una forma veramente insolita di scherzo. Non siete neppure sicuri che la lettera provenga veramente dal Colonnello Loredan.» Temrai sorrise e sbadigliò. «È vero» disse «ma se mi fossi lasciato fermare da tutte le cose che non sapevo, tanto per cominciare non avremmo mai iniziato questa guerra.» Restò seduto immobile per qualche attimo, poi riprese. «Vi dirò qualche cosa d'altro» disse poi. «Sono pronto a scommettere che l'uomo che ha portato questo messaggio... sta aspettando in una tenda, circondato da dieci uomini pronti a farlo a pezzi se solo si gratta il sedere... è lo stesso Loredan. Chi altro avrebbe potuto trovare, disposto a correre questo rischio per lui?» Ceuscai scrollò la testa, come se stesse cercando di svegliarsi da uno strano sogno. «Be', lo riconosceremmo se lo vedessimo. Perché non lo facciamo portare qui e non scopriamo come stanno le cose?» «Giusto. Perché no?» ridacchiò Temrai. «Vai a prenderlo, Ceuscai. E ricordati di portare con te molte guardie.» Loredan sedeva in mezzo al cerchio di guardie, cercando di non pensare alle frecce puntate su di lui. Era la prima volta che si trovava all'interno di una tenda del popolo delle pianure; ne aveva viste tantissime, ma sempre
dall'esterno. Erano progettate in modo intelligente, realizzò, in modo da essere efficienti e confortevoli. Il pesante feltro tratteneva il calore mentre l'olio e il lardo spalmati sul lato esterno proteggevano dalla pioggia. I montanti erano abbastanza robusti da poterla sostenere anche durante una violenta tempesta di vento, di quelle che caratterizzavano la primavera nelle pianure, ma potevano essere montati e smontati facilmente e con rapidità da un uomo pratico. A differenza di molte case di città erano adeguatamente ventilate in modo che il fumo del fuoco centrale potesse uscire invece di intasare l'interno e accecare i presenti. Certo, come lui sapeva meglio di molti altri prendevano fuoco con grande facilità; bastava tagliare i tiranti e buttare una torcia e nessuno aveva la minima speranza di uscirne vivo. Curioso che quella gente così pragmatica non avesse mai trovato una soluzione a un difetto così evidente. A quanto sembrava il fuoco era il loro tallone d'Achille. «È molto gentile da parte tua accettare di incontrarmi» disse in tono gentile. «Un uomo occupato come te.» Temrai si strinse nelle spalle. «Non ci capita tutti i giorni di ricevere visite da autorevoli nemici che hanno perso la testa» rispose. «Dunque, di che cosa si tratta veramente?» Tutti nella tenda erano ansiosi di sentire la risposta di Loredan. Si prese il suo tempo, gustandosi il tepore del fuoco. Era ancora bagnato dopo avere attraversato il fiume a nuoto e con i capelli fradici incollati alla fronte non aveva un'aria particolarmente misteriosa o minacciosa. Sembra più anziano di quanto avrei pensato, disse Temrai a se stesso, ma è senza dubbio lo stesso uomo, quello dei miei ricordi. L'idea che se la cavasse, che facesse una morte pulita in tribunale, per una sola stoccata, senza sapere che la sua città era stata distrutta e la sua gente fatta a pezzi, era qualcosa a cui Temrai non voleva neanche pensare. Incontrare finalmente il suo unico vero nemico dopo tanti anni e poi vederselo sfuggire al momento di consumare la vendetta, avrebbe reso tutta quella avventura senza senso. Dopo tutto era stato proprio quel primo fugace incontro all'ultimo minuto, quando stava per lasciare la Città e ogni parte di lui urlava di risparmiarla, che lo aveva spinto fino a lì: che gli aveva fatto capire che quella cosa orribile andava comunque fatta. «Scusa» disse Loredan. «Evidentemente non mi sono espresso abbastanza chiaramente nella mia lettera. Un tempo hai detto che avresti fabbricato una spada per me. Me ne serve una con una certa urgenza. Tutto qua.» «Capisco.» Temrai si grattò il mento, con fare pensoso. «Di che genere
di spada stiamo parlando?» «Una spada da processo» rispose prontamente Loredan. «Sai come si fa? È un lavoro abbastanza da specialisti.» Temrai annuì. «Conosco i principi generali» disse. «Ma non sarebbe molto meglio per voi comperarne una in città? Le antiche sono le migliori credo, ma a quanto ne so ci sono diversi maestri armaioli anche adesso che realizzano prodotti di prima classe. Sono sicuro che potreste ottenere una spada assai migliore da loro, che da me.» Loredan scosse la testa. «Ho un problema» disse. «Queste dannate lame continuano a spezzarmisi in mano. È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui l'acciaio viene reso incandescente nel momento in cui i tagli vengono saldati al nucleo; il modo in cui viene fatto in Città rende le lame fragili e suppongo che ci sia qualcosa nel mio modo di duellare che le sottopone a uno sforzo straordinario proprio nel punto in cui sono più deboli. Ne avevo una bella collezione, ma tutte le migliori mi si sono spezzate in mano nell'arco degli ultimi sei mesi. Per essere precisi, l'ultima se n'è andata ieri mentre stavo allenandomi. Vedi, molto presto dovrò difendere la mia vita in un tribunale e ho un brutto presentimento su come andrà a finire. È una cosa che ha a che fare con il mio possibile avversario: una questione piuttosto complicata e non voglio annoiarti con i dettagli. Il punto è che la tua tecnica con la lega d'argento produce lame molto meno fragili e non conosco nessuno in Città che sappia usarla. Perciò» concluse, mettendosi a braccia conserte «eccomi qua.» Temrai annuì di nuovo. «E che cosa vi fa pensare che abbia intenzione di fare qualcosa proprio per voi, di tutte le persone che ci sono al mondo? Dovete ammettere che tutta questa faccenda è estremamente bizzarra.» «Oh, ho pensato che magari lo avresti fatto» rispose Loredan senza scomporsi. «In ogni caso valeva la pena di chiedertelo. Il mio vecchio comandante...» «Il Generale Maxen?» «Esatto, il Generale Maxen. Be', lui diceva sempre: quando non puoi fidarti dei tuoi amici, prova con i nemici. Di solito aveva ragione.» Temrai fece un respiro profondo, trattenne il fiato per un attimo e poi esalò. «Forse siete pazzo» disse «o estremamente stanco della vita. O forse siete venuto qui per salvare il vostro onore compromesso uccidendomi, come sospettano i miei consiglieri. In realtà, speravo che foste venuto per vendicarvi della vostra città.» «In che modo? Facendo un patto con te e spalancandoti le porte?»
Loredan inarcò un sopracciglio. «Un'altra cosa che Maxen diceva spesso era: mi piace il tradimento, ma detesto i traditori. Voglio essere onesto con te» continuò. «La cosa mi era passata per la testa. Ma non credo che lo farò. Grazie lo stesso.» Temrai lo fissò per qualche tempo, poi disse: «Va bene. Da quello che so non sareste comunque più nella posizione di farlo, per cui non insisterò. Per la stessa ragione, non vedo perché dovrei prendermi la briga di farvi uccidere. Vi suggerisco di andarvene prima che cambi idea.» Loredan fece cenno di no con la testa. «Ti ho chiesto di fare una cosa per me» disse. «Come nemico e perché me lo devi. È imbarazzante doverlo ammettere, ma credo che la mia vita possa dipendere da questo.» «Ma guarda.» Temrai lo studiò per un po'. «Non riesco a credere che stiamo facendo davvero questa conversazione» osservò. «Continuo ad aspettare di svegliarmi da un momento all'altro e scoprire che è tutto un sogno.» «Di recente hai sofferto di emicranie?» «No. Perché?» «Era solo una domanda. Si tratta di una lunga storia.» «Abbiamo una cura molto efficace per il mal di testa» disse Temrai. «Corteccia di salice bollita nell'acqua. Una volta raffreddata, si beve l'acqua.» Loredan annuì. «Lo so» rispose. «Allora?» «Sapete, sono quasi tentato di farlo» disse Temrai. «È chiaro che la vostra abitudine di bere troppo alla fine vi ha offuscato il cervello, ma vedo gli ingredienti di una splendida leggenda. Un grande capo deve sempre fare cose inaspettate e fantasiose. Meghtai, fai scaldare una forgia e trovami almeno una dozzina di vecchi ferri di cavallo e un po' di lega.» Loredan osservò Temrai attraverso una cortina di fuoco mentre il giovane capo mescolava il fluido speciale, gettando ogni tanto un'occhiata di lato per osservare i vari cambiamenti di colore dell'acciaio. Il metallo che teneva avvinte le barre incandescenti destinate a diventare i tagli al nucleo, emanava un bagliore aranciato, ma il cuore della spada era ancora di un porpora scuro. «Il trucco» osservò Temrai «sta nel temperare i tagli e nel lasciare invece che il nucleo si raffreddi lentamente. Bisogna fare ogni cosa nel giusto ordine» continuò, sputando nel fluido per renderlo più liquido. «Siete interessato a tutto questo o vi sto annoiando?» aggiunse dopo un
attimo. «Niente affatto» rispose Loredan «è affascinante. E la conoscenza non è mai uno spreco.» Temrai ridacchiò. «In un'altra occasione vi insegnerò a costruire una macchina da assedio» disse. «Ci siamo quasi; guardate quel colore arancione profondo, quasi attraente.» Fece un cenno con il capo agli uomini che facevano funzionare i soffietti, i quali aumentarono il ritmo delle pompate, facendo accendere il metallo fra le fiamme di un ulteriore bagliore. «Il fluido raffredda il metallo, naturalmente» aggiunse, togliendo l'acciaio dal fuoco con un paio di tenaglie «sicché bisognerà rimetterlo nel fuoco prima di cominciare la saldatura vera e propria. Nell'arte del fabbricare spade, la pazienza è una virtù... Come in quella di condurre assedi.» Il fluido sibilò e fece delle bolle nello scivolare sui punti di giuntura, lasciando sul metallo arancione delle piccole macchie grigie, come nuvole al tramonto. Quando giudicò che fosse pronto, Temrai avvicinò alle giunture stesse la barretta di lega e stette a guardare l'argento fuso che scompariva entro le infinitesimali fessure fra le diverse parti della spada. «Si scioglie nel modo giusto solo se la temperatura è appropriata» disse «e in caso contrario si tratta solo di una perdita di tempo. Il fluido aiuta, ma è il giusto calore la cosa fondamentale.» Nel bagliore delle fiamme il volto di Temrai sembrava emanare una luce aranciata, dello stesso cromatismo del metallo che stava lavorando. Loredan si asciugò il sudore dalla fronte con una manica. «Ha preso» dichiarò Temrai. Alzò il capo e fissò Loredan negli occhi. «Se il puzzo del sangue e della polvere di ossa bruciati ti fa stare male, questo è il momento di fare un bel passo indietro. Può fare rivoltare lo stomaco se non ci si è abituati.» Sparse sulla lama la polvere d'osso e vi versò abbondante sangue, assicurandosi che il filo della lama ne fosse completamente coperto su entrambi i lati. Loredan aveva già sentito quell'odore e non si spostò di un centimetro. Non appena l'acciaio lampeggiò vermiglio attraverso la crosta grigia e marrone, Temrai sollevò la lama dall'incudine e chiese che gli fosse portato il recipiente per la tempratura, un lungo mastello di legno pieno per metà di acqua. «Se è un po' salata è meglio» disse. «In effetti, siamo fortunati a essere così vicini al mare. Devo dire che questo è un luogo veramente ideale per un'attività del genere. Forza» aggiunse, infilando cautamente l'acciaio nel
mastello e tirando indietro di scatto la testa quando se ne sprigionò una nuvola di vapore bollente. «Un altro consiglio; quando temperi una lama, continua a muovere il metallo su e giù nell'acqua o alla fine ti ritroverai con delle infinitesimali fratture che però vanificheranno tutto il lavoro. Ecco fatto» concluse tirando fuori il metallo. Temrai tagliò ripetutamente l'aria con la nuova lama in un gesto teatrale e alla fine la tenne davanti al viso, esaminandola attentamente. «Andrà benone» disse. «Ora la riscaldiamo di nuovo, la raffreddiamo un'altra volta, ma usando dell'olio che agisce più lentamente dell'acqua e il lavoro è finito. Non è poi così difficile da imparare» aggiunse «una volta capito perché debba essere per forza fatto proprio in questo modo. Come tante altre cose nella vita.» «È proprio così» rispose Loredan. «Grazie, è stata quasi una lezione pratica.» Temrai sorrise, asciugandosi il sudore dal viso. «È stupefacente quello che si può imparare semplicemente stando a osservare la gente mentre fa il suo lavoro. A proposito» continuò «non ho fabbricato questa spada usando vecchi ferri di cavallo perché sono un tirchio; è il migliore materiale che conosco per ricavarne acciaio da lame. C'è qualcosa nel fatto di essere continuamente calpestato e percosso che rende il metallo particolarmente resistente e duro. Per l'elsa dovrai arrangiarti» concluse, avvolgendo la lama in un cencio. «È troppo tardi per andare in giro a lavorare osso e a mettere insieme pelle e legature. Siete servito.» Il fabbro porse la spada allo spadaccino, tenendola per la punta e offrendogliela dalla parte dell'impugnatura. Loredan la prese e ne saggiò l'equilibratura, poi l'alzò e la osservò lungo il filo, per verificare che fosse perfettamente dritta. Alla fine della lunga striscia d'acciaio poteva vedere Temrai che lo osservava, come se fosse il suo avversario in una causa giudiziaria. «Grazie» disse «è un gran bel lavoro. Per essere un primo tentativo, è davvero notevole.» «Mi piace fare le cose bene fin dalla prima volta» rispose Temrai. «E fare cose che non ho mai fatto prima. Pensate che adesso siamo pari?» Loredan annuì. «Per quanto mi riguarda, sì» disse. «Immagino che sarete contento di non essere più in debito con me.» «Era il meno che potessi fare per un nemico» disse Temrai. «Adesso andatevene da questo campo prima che vi faccia crocefiggere.»
CAPITOLO DICIOTTESIMO «Non può essere» disse la moglie del carradore. «Lo è.» «Non può essere.» Corrugò la fronte e aguzzò lo sguardo. «È a letto, non lascia mai il suo palazzo...» «Alloggio» la corresse il marito. «L'abitazione del Patriarca si chiama il suo alloggio.» «Comunque si chiami. Comunque di sicuro non può essere lui.» Guardò di nuovo. «Certo ci assomiglia» ammise. «Be', eccoti servita, allora.» «Non significa che sia proprio lui. Voglio dire, che motivo avrebbe il Patriarca di lasciare il letto mentre è seriamente malato, solo per assistere a un processo?» «Ah.» Il carradore abbassò la voce. «A quanto ne so è amico di questo Loredan. Durante il periodo dell'emergenza sono diventati grandi amici. Dicono che anche lui sia implicato» aggiunse in un sussurro furtivo. Sua moglie sembrava sconvolta. «Ma va là» disse. «Il Patriarca Alexius?» «Così ho sentito dire.» «Non credo a una sola parola.» Sua moglie studiò la figura sull'altro lato della galleria riservata al pubblico per un paio di minuti, senza quasi badare ai dolcetti al miele che stava masticando nel frattempo. «Sei sicuro?» chiese alla fine. «Be', naturalmente non c'è nessuna prova concreta, anche se ho sentito dire...» «Ed eccolo lì, bello come il sole» mormorò sua moglie scandalizzata. «Come osa mostrare la faccia in pubblico...» Una volta ogni tanto le liste dei procedimenti appese alle porte delle corti di giustizia producevano quella che poteva essere descritta solo come una occasione da sogno; una combinazione di temi e di partecipanti così perfetta che difficilmente avrebbe potuto essere migliore se fosse stata scelta su richiesta della gente. Era proprio uno di quei casi; l'affascinante ed enigmatica spadaccina che era stata recentemente nominata Pubblico Ministero Generale, contro il famoso Colonnello Loredan per un'accusa di tradimento: il che voleva dire che il prefetto della città avrebbe presieduto personalmente il tribunale, vestito con il sontuoso manto tradizionale e un
plotone di guardie in divisa da parata intorno e, ciliegina sulla torta, che l'ingresso sarebbe stato libero... Manco a dirlo, tutti i dignitari della città erano presenti; il Luogotenente Generale, che in virtù del suo rango era autorizzato a sedere nel palco personale dell'Imperatore, circondato dai capi di tutti gli uffici di stato e da uno sciame ronzante di funzionari e impiegati vestiti magnificamente; l'alta gerarchia dell'Ordine, compreso lo stesso Patriarca (ma dov'era l'Archimandrita della Città, di recente fatto Vice Patriarca e che negli ultimi tempi era stato compagno inseparabile del Patriarca stesso? Si diceva che fosse fuggito dalla Città oppure che fosse stato mandato in esilio con il pretesto di un incarico oltremare a causa di ciò che sapeva sul coinvolgimento clandestino del Patriarca in qualunque misfatto di cui si pensava che si fosse macchiato il Colonnello Loredan; l'affare si complicava). Per il popolo della Città, il cui morale di recente era stato così tristemente abbattuto dalle durezze dell'emergenza, quello spettacolo di pompa civica e giustizia, offerte gratuitamente, era proprio quello che ci voleva, perché gli ricordava la severa maestà e lo splendore di Perimadeia, la forza delle sue istituzioni e l'indiscutibile rettitudine della sua causa e delle sue leggi. In un momento in cui era della massima importanza che i cittadini si sentissero a posto con se stessi e verso la Città, l'evento perfetto si era improvvisamente materializzato, quasi come se fosse stato pianificato in quel modo da qualche divinità animata da spirito civico. «Come si chiama?» sussurrò la moglie del carradore. «Il Pubblico Ministero Generale, voglio dire.» «Non chiederlo a me» rispose il marito. «Immagino ne abbia uno, ma non ricordo di averlo mai sentito pronunciare.» Nel salone d'ingresso squillarono le trombe, segnalando a tutti i presenti nel tribunale di alzarsi in piedi. Il magnifico soffitto a cupola stava ancora echeggiando il suono, come un amante del vino buono che stesse assaporando una marca speciale, quando la porta principale si spalancò e il prefetto fece il suo ingresso nella corta alla testa di una processione. Per onorare l'occasione aveva ordinato un insieme totalmente nuovo di insegne ufficiali; un fluente mantello di tessuto d'oro con guarnizioni intorno al collo e guanti con finiture di lontra ed ermellino; inoltre una tiara ricamata con fili d'oro e d'argento. In una mano reggeva la spada di stato, con le sue sontuose decorazioni e nell'altra il libro delle ordinanze. Camminò con lenta e misurata dignità verso il posto che gli era riservato, raccolse l'abito
intorno alle ginocchia e sedette. Attorno a lui il suo seguito riempì il resto dei banchi come un quarto di sidro versato in una brocca da una pinta, ma senza troppo spintonare e dare gomitate per contendersi i pochi posti disponibili, mentre il prefetto e il Luogotenente Generale si scambiavano sguardi avvelenati e il resto degli spettatori sprimacciava i cuscini e si metteva comodo. Una volta sistemata l'importante questione del protocollo e quando gli uscieri ebbero zittito la folla, il prefetto aprì la borsa dei documenti e fece un cenno con il capo al cancelliere; il vecchio e miope Teofano, che era stato seduto in quella corte a vedere avvocati che morivano, ogni giorno per mezzo secolo. Teofano recitò le accuse della città di Perimadeia nei confronti del prigioniero Bardas Loredan, già noto come Colonnello Loredan, ma senza alcuna autorizzazione a servirsi di quel grado; il quale mentre era al comando di una forza di spedizione contro il nemico che minacciava la nazione, a causa della sua negligenza e incapacità di esercitare la dovuta cautela aveva consentito che il nemico infliggesse alla suddetta forza di spedizione una severa sconfitta, conclusasi con la perdita di novecento e diciassette vite e ferite a danno di altri duecentoquarantotto soldati fra quelli che formavano la suddetta forza, per non parlare della perdita di cavalli e proprietà dello stato e dei privati per un ammontare complessivo di dodicimilatrecento e otto pezzi d'oro; inoltre, mentre comandava le difese della Città con la carica di Vice Luogotenente Generale, il detto Loredan aveva fatto deliberatamente (ma senza autorizzazione del Consiglio) approntare, e poi utilizzato, un'arma non ammessa e nella fattispecie un composto incendiario, tendendo così a fare inferocire il nemico e ad esacerbare l'esistente stato di guerra fra il suddetto nemico e la città e il popolo di Perimadeia; inoltre il suddetto Loredan, mentre esercitava la carica di cui sopra, aveva adempiuto ai suoi doveri in modo negligente e incauto, con il risultato che il suddetto nemico aveva gravemente danneggiato le suddette difese, ucciso settecento e sessantuno cittadini, ferito altri trecentonovantasei cittadini e causato danni alla proprietà sia dello stato che dei privati, per una somma pari a due milioni trecentoquarantanovemilacinquecentoquarantanove pezzi d'oro; inoltre il suddetto Bardas Loredan, quando incombevano su di lui i doveri e le responsabilità della suddetta carica di Vice Luogotenente Generale, aveva fraudolentemente e illegalmente requisito beni privati e nella fattispecie corda, per un valore complessivo di ottomila e quattrocento pezzi d'oro;
inoltre, mentre su di lui incombevano i suddetti doveri e le suddette responsabilità, aveva illegalmente venduto proprietà dello stato valutate a dodicimila pezzi d'oro a una terza parte, per la somma di diecimila pezzi d'oro, a proprio esclusivo vantaggio e a detrimento dello stato. Quando Teofano ebbe finito, seguì un silenzio appropriatamente sbalordito. Poi il prefetto si schiarì la voce e chiese chi compariva per lo stato. Una ragazza alta e sottile, di non più di diciassette anni d'età, con un viso affilato e pallidi occhi azzurri si alzò in piedi e disse alla corte il proprio nome e i dettagli delle sue qualifiche professionali, aggiungendo di essere il Pubblico Ministero Generale della Città. Poi rivolse un inchino al prefetto e si rimise a sedere. «Molto bene» disse il prefetto. «Chi compare per il prigioniero, Bardas Loredan?» Dopo un attimo un uomo di statura appena al di sopra della media, rasato di fresco e con i capelli scuri, si alzò e si girò verso la corte. «Io, mio signore» disse, con voce di un'ottava troppo bassa. Alzò lievemente il tono nel dare il suo nome: Bardas Loredan, istruttore di scherma, che compariva per rappresentare se stesso. «Molto bene» ripeté il prefetto e cominciò a leggere le deposizioni. «Si rivelarono più lunghe e complicate della norma, espresse nella mistica lingua degli assistenti degli avvocati, e mentre la sua voce continuava a risuonare monotona gli spettatori sedevano in un silenzio ipnotizzato, cercando di allentare la tensione e studiando i volti degli avvocati, dando ogni tanto di gomito al vicino per indicargli con le dita le percentuali e la somma delle loro scommesse.» Seduto al suo posto, nelle file posteriori della galleria per il pubblico, Alexius rinunciò a cercare di seguire la tiritera legale e si concentrò sullo sforzo di impedire che gli si chiudessero le palpebre. La voce del prefetto era terribilmente noiosa e Alexius sentiva il sonno che si impadroniva lentamente di lui. Cercò di resistere, ma... ... Si raddrizzò, scoprendo di essere esattamente dov'era prima, seduto in tribunale sotto il soffitto a cupola, circondato dalle file di banchi di pietra che facevano cerchio intorno al pavimento sabbioso dell'arena; davanti a lui c'era la piattaforma dei giudici e i pulpiti di marmo all'interno dei quali gli avvocati attendevano di essere chiamati. Riusciva a vedere la schiena di Loredan e sopra la sua spalla la fanciulla per conto della quale un tempo aveva sognato proprio quello stesso sogno; adesso era più vecchio, era cresciuto, in qualche modo gli sembrava improvvisamente bello, il che lo
fece sentire a disagio. Vedeva la luce rossa e blu che proveniva dal grande rosone riflettersi sulla lama della sua spada, una lunga e sottile striscia di acciaio che appariva più corta solo per effetto della prospettiva, tanto da apparire come un prolungamento della sua mano: un singolo dito puntato. Vide Loredan avanzare, con l'abituale ed elegante economia di movimenti; e la ragazza reagire, parare di rovescio e in alto. Ora stava chinandosi in avanti, senza quasi muovere il braccio, eccezion fatta per la rotazione del polso che aveva rimesso in linea la spada. La spalla di Loredan si abbassò quando cercò di parare con la sua lama, ma era un attimo in ritardo, il classico errore dell'uomo troppo fiducioso in se stesso. Dato che Loredan gli volgeva la schiena non poté vedere l'impatto né dove avesse colpito la lama; ma lo vide lasciare cadere la propria spada, barcollare all'indietro e cadere piegando il busto; era già morto prima che la sua testa colpisse rumorosamente il pavimento. La ragazza restò immobile e la lama della sua spada adesso era puntata direttamente contro Alexius, i suoi occhi fissi in quelli del Patriarca al termine dello stretto nastro d'acciaio la cui punta era sospesa nell'aria, immobile, senza traccia di vibrazioni... Alexius cercò di afferrare il momento, quella manciata di minuti che aveva appena visto per la seconda volta; lo strinse, lo tenne come un maniscalco che cercasse di controllare la zampa posteriore di un cavallo nervoso mentre gli applicava allo zoccolo un ferro incandescente e l'aria si riempiva di fumo e odore di bruciato... ... E si svegliò, sentendo la voce del prefetto che continuava a leggere in tono monotono. La donna seduta accanto a lui gli stava dando di gomito. «Vi eravate quasi addormentato» sibilò. «Non vorrete perdervi il grande duello.» Sorrise ringraziandola e sedette più dritto, cercando disperatamente di ricordare se fosse riuscito ad afferrare quel pugno di minuti e, se sì, cosa ne avesse fatto. «Cinque quarti sulla ragazza» sussurrò la donna. «Due a uno.» Alexius considerò la cosa per un momento. «Fatto» sussurrò di rimando, frugando nella manica per cercare il denaro. Il prefetto diede il segnale e i due spadaccini si misero in guardia. Esattamente nello stesso momento sollevarono entrambi le spade, assumendo la posizione della vecchia scuola, sicché fra di loro si creò un nastro continuo d'acciaio, che li univa da mano a mano e da occhio a occhio. Per un periodo che sembrò lungo una vita, mantennero la
posizione, con le braccia tese ma assolutamente immobili, tanto che le punte delle spade non si spostarono di un capello. Un minuto, un minuto e mezzo, due minuti; avrebbero potuto essere un istruttore e la sua allieva intenti al più vecchio e arduo di tutti gli esercizi, che rafforza i muscoli e insegna alla mente a restare paziente, ma all'erta. Tre minuti... Alexius cominciò ad avvertire un forte mal di testa. Si massaggiò le tempie, chiuse gli occhi, li riaprì; poi cominciò a provare dolore anche al petto e alle braccia e si piegò in avanti, cercando inutilmente di respirare. Proprio quando pensava di essere sul punto di svenire sentì una mano appoggiarglisi sul braccio; di colpo il dolore svanì, la mente gli si schiarì, i polmoni gli si riempirono d'aria... «State bene?» chiese l'uomo alla sua sinistra; un uomo alto e robusto, calvo e con uno strano accento. «Per un momento mi avete fatto preoccupare.» Alexius fece cenno di stare bene; poi riconobbe... «Gorgas Loredan» disse. «Esatto» rispose l'uomo. «Strano che conosciate il mio nome.» Io... «Zitto. Hanno cominciato.» Gorgas Loredan stava guardando attentamente davanti a sé. «Siete uno che ama scommettere, per caso?» «Qualche volta.» «Cinque quarti sul nostro ragazzo. Due a uno.» Oh, va bene, pensò Alexius. «Andata» disse. Poi abbassò lo sguardo sulle due piccole sagome sotto di sé. Loredan gli volgeva la schiena; adesso stava attaccando, elegante e parco nei movimenti. La ragazza parò di rovescio, in alto e contrattaccò. Loredan abbassò una spalla per parare, realizzando subito di essersi mosso in ritardo, ma proprio all'ultimo momento... ( Ah, disse Alexius a se stesso) ... Riuscì a fermare la punta della spada della sua avversaria con il paramano dell'elsa, sollevando il gomito al punto da farsi quasi male e ruotando completamente il polso. La lama mancò il suo corpo e gli strappò solo la camicia; poi Loredan ruotò il braccio arretrando e trasformò la sua parata in una risposta da cui era quasi impossibile difendersi; la ragazza fece un passo lateralmente; menò due veloci botte in avanti mentre con uno sforzo toglieva il proprio corpo snello dalla linea della spada di Loredan e nello stesso tempo cercò freneticamente di coprirsi con la propria. Prima di affondare il colpo Bardas realizzò che lei aveva fatto abbastanza per proteggersi; lo interruppe e si spostò di lato a sua volta per
rispondere ai suoi movimenti, deviando preventivamente la sua lama prima che avesse avuto il tempo di chiudere del tutto la parata. Stavolta, quando avesse contrattaccato, lei non avrebbe saputo dove spostarsi. Ma era un insegnante troppo bravo per avere trascurato di insegnarle come affrontare emergenze di quel genere. La ragazza fece un balzo all'indietro dal punto in cui si trovava, proprio come le aveva insegnato, e finse una botta alle ginocchia di Loredan per indurlo a parare basso e a scoprirsi il petto e la testa. A sua volta Bardas anticipò la finta, iniziando a fare la parata che lei si aspettava e poi modificandola in un'altra che bloccò efficacemente il suo colpo: un fendente corto al viso, inferto soprattutto con il polso. Dopo la parata fece un passo indietro, abbassando la punta della spada per coprire il proprio arretramento. La fanciulla gli girò intorno in cerchio, facendo a sua volta un passo indietro verso destra per impedirgli di assumere la posizione che avrebbe voluto, ma aveva male interpretato i segnali. Invece di fare un affondo, farselo parare e in questo modo scoprirsi per un contrattacco, Loredan piegò le ginocchia fino a che la mano sinistra tesa sotto di sé sfiorò il suolo e simultaneamente menò un grande fendente all'altezza delle caviglie. La ragazza riuscì a saltare la lama appena in tempo, solo per scoprire al momento dell'atterraggio che la lama di Loredan era puntata verso il suo cuore e lei non aveva alcuna speranza di bloccare il colpo in tempo. Gettando la testa all'indietro si buttò di lato; invece di trapassarla la lama le si infilzò in un fianco, qualche centimetro sopra l'anca. Era una spada molto affilata per cui il dolore fu minimo, ma era la prima volta che veniva ferita e fu presa dal panico. Senza neanche cercare di muovere i piedi o di rimettersi in equilibrio, menò un fendente disperato; Loredan deviò il colpo dalla propria faccia con la parte più spessa della lama, facendo un passo indietro a sinistra e ruotando la spada in modo da minacciare il suo fianco indifeso. Poi, abbassando appena il braccio e con una netta torsione del polso, le colpì la mano destra centrando le dita strette intorno all'elsa della spada e mozzandogliele appena al di sotto delle nocche. La spada della ragazza cadde per terra con clangore e Loredan fece un passo indietro per vibrare il colpo finale; esitò... Il calcio fu violento. Bardas riuscì a spostarsi all'ultimo momento e a incassarlo quasi del tutto su una coscia. Prima che avesse avuto il tempo di rimettersi in posizione la ragazza si era allontanata di più di tre metri e stava freneticamente cercando di impugnare la sua spada con la sinistra. Dannazione, pensò Loredan, odio combattere da mancino. Arretrò di un
paio di passi e assunse la guardia della scuola cittadina, con le ginocchia piegate e la spada angolata con la punta verso l'alto. Le aveva insegnato i rudimenti del combattimento con la sinistra, ma naturalmente la ragazza era in netto svantaggio anche senza calcolare il dolore e il turbamento dovuti alla ferita. Avrebbe dovuto essere abbastanza facile farla finita, a patto che non commettesse l'errore di sottostimarla. Si obbligò a rilassarsi e lasciò che il corpo pesasse pienamente sulle ginocchia. La fanciulla attaccò, tentando di colpirlo con un fendente laterale alla testa. Fu abbastanza facile farselo passare sopra e poi fare un affondo; anche per lei non fu difficile deviare il colpo e arretrare, usando i piedi per mettersi fuori pericolo, proprio come le era stato insegnato. Loredan rimase dov'era; adesso il tempo giocava contro di lei, sapeva che doveva farla finita in fretta, prima che la perdita di sangue la rendesse troppo debole. Loredan sentì qualcosa sotto un piede e decise di non sapere di cosa si trattasse. Lei attaccò di nuovo; un finto colpo all'altezza degli occhi, ma Bardas sapeva già che lo avrebbe trasformato in uno di taglio, mirato al suo avambraccio, quindi mosse la testa all'indietro e parò; dopo avere respinto il colpo rispose con un violento fendente corto verso il suo collo. La ragazza si aspettava il contrattacco (come le era stato insegnato), ma riuscì a malapena a frapporre la sua lama. Già mentre vibrava la botta Loredan vide mentalmente quale sarebbe stata la sua mossa successiva, il rapido e corto affondo al cuore della ragazza che lei non sarebbe mai stata in grado di parare... Le loro lame si scontrarono e si udì un crack. Quella di Loredan si era spezzata una ventina di centimetri sopra l'elsa. Oh, mondo maledetto, pensò; e, senza neanche pensarci, si spostò d'un balzo sul piede destro vibrando nel contempo un gran colpo con il pugno sinistro e centrandola in piena faccia. Mentre la testa della ragazza si girava violentemente da un lato per effetto del colpo, Loredan sentì il suo naso che si fratturava; poi lei cadde all'indietro come un sacco pieno di sassi e piombò al suolo a braccia spalancate, cadendo sopra alla propria spada e spezzandone la lama. Peccato, disse Bardas a se stesso. Era solo un prodotto moderno, ma assomigliava a una Mesteyn dell'ultima serie, e valeva almeno il prezzo di una bevuta. Abbassò lo sguardo sull'impugnatura che stringeva nella mano destra, sulla linea grigia della frattura trasversale, notando che il nucleo aveva ceduto proprio nel modo in cui era successo con tutte le altre spade.
Ce n'è abbastanza da convincere un uomo dell'esistenza della stregoneria, pensò amaramente; poi lasciò cadere il moncone sul pavimento. Poggiò il palmo della mano sul pomello del suo pugnale. Adesso avrebbe dovuto veramente concludere il lavoro; ma all'inferno, nessuno lo pagava per questo. Avrebbe voluto dire un verdetto di assoluzione per mancanza di prove invece che con formula piena, ma l'effetto pratico sarebbe stato esattamente lo stesso. Certo la differenza non era tale da giustificare lo sgradevole sforzo di chinarsi e tagliarle la gola, sporcandosi le maniche e le mani di sangue. Era libero di andare ed era già rimasto lì anche troppo a lungo. Scavalcando il corpo della ragazza, uscì dal tribunale in un silenzio di tomba. Alexius si voltò verso la donna alla sua destra. «Non l'ha finita» disse quella. «Credo significhi che tutte le scommesse non hanno valore.» Alexius continuò a fissarla. «Vi dico io che cosa facciamo» disse la donna. «Lascia o raddoppia sul prossimo caso.» «Non mi fermo per la prossima causa.» Lei sospirò e frugò nella borsa, tirandone fuori dieci monetine d'argento. Alexius la ringraziò e si voltò, per pagare il debito che aveva alla sua sinistra, ma il posto era vuoto. Gli uscieri stavano portando fuori la fanciulla. La gettarono su una sedia vicino all'uscita; come se gli fosse venuto in mente solo all'ultimo momento, uno di loro le strinse un laccio intorno al polso per fermare l'emorragia. Poi la sollevarono in due prendendola sotto le ascelle e la portarono fuori dalla porta. Gli spettatori cominciarono a mugugnare; un bel duello rovinato dal comportamento per niente professionale di uno che avrebbe dovuto essere un istruttore, per di più. Che razza di esempio era quello, da dare agli avvocati di domani? La gente cominciò a borbottare che voleva indietro il suo denaro, ma poi si ricordò che l'ingresso era gratuito. In qualche modo, questo la fece sentire ancora più frodata. Di nuovo seduto al suo solito posto, fuori dai piedi e vicino alla finestra, Loredan si versò un bicchiere di vino forte e lo bevve d'un fiato. Le nocche gli facevano male, si era fatto qualcosa al polso destro e aveva dolori dappertutto. Che dannata perdita di tempo, disse a se stesso. Per lo meno è finita. Sarà bello non avere più questa cosa sospesa sulla testa. C'era sempre la possibilità che lei si mettesse nuovamente alle sue
calcagna; ma con solo il pollice rimasto attaccato alla mano destra, non avrebbe più fatto la spadaccina e stando a quello che aveva capito dalle parole di Alexius circa le sue contorte motivazioni, non aveva mai preso in considerazione l'ipotesi di farlo assassinare o di ucciderlo in modo illegale. Quanto al prefetto e al Luogotenente Generale, sperava ardentemente che questo mettesse fine alla cosa. Capiva abbastanza di politica per capire che un verdetto di assoluzione per mancanza di prove in fondo era un'ottima seconda scelta per entrambe le fazioni. Significava che il prefetto non era né accusato né totalmente esente da sospetti e che lo schieramento del Luogotenente non aveva dimostrato la sua tesi, ma non aveva neanche perso la faccia. Entrambi i contendenti avrebbero visto con favore la caduta nell'oblio della vicenda e di Loredan con essa. Il che gli andava perfettamente bene. Sarebbe stato interessante vedere che effetto avrebbe avuto il risultato del duello sulle iscrizioni alla sua scuola. Poteva essere positivo o negativo, o anche nullo. Era un peccato che Athli non fosse lì; era sempre stato di grande aiuto potere parlare con lei dopo un processo, avere qualcuno con cui bere, sapendo che non avrebbe mai detto cose sbagliate. Stando le cose come stavano, pensò, sarebbe rimasto lì a bere fino a quando si fosse sentito abbastanza male da avere voglia di tornare a casa. Soppesò l'idea di andare a trovare Alexius... Certamente sarebbe stato interessato a sapere come fosse andata a finire e inoltre avrebbe tenuto d'occhio quanto beveva senza darlo a vedere, in modo da far sì che scolasse abbastanza vino da diventare allegro, senza per questo ubriacarsi in modo abbrutente. Ma per qualche ragione non gli sembrava appropriato andare a fare visite, così poco tempo dopo avere mozzato le dita di qualcuno. Almeno per tutto il resto della giornata non sarebbe stato una persona con cui fosse opportuno che il capo dell'Ordine intrattenesse relazioni. La notizia che era ancora vivo avrebbe potuto benissimo aspettare fino a domani. Alla faccia del clan e della loro tanto decantata lega d'argento. Si versò dell'altro vino... Mezzo bicchiere stavolta, perché non c'era nessun bisogno che si ubriacasse se non ne aveva voglia. Finisci la brocca, poi mangia qualcosa e vai a casa; passa il resto della giornata sdraiato sul letto a fissare il soffitto, sentendoti depresso e annoiato. La perfetta conclusione di una perfetta giornata. Aveva già svuotato tre quarti della brocca e quasi preso la decisione di ordinarne un'altra, quando un'ombra cadde sul tavolo. Alzò lo sguardo e riconobbe uno degli impiegati dell'Ufficio del Prefetto, un giovane basso e
grasso il cui nome cominciava per B. «Eccovi» disse l'impiegato. «Vi ho cercato dappertutto.» «Siediti» grugnì Loredan «o vatti a prendere un bicchiere e unisciti a me.» L'impiegato corrugò la fronte. «Non ho tempo per questo» disse «e neanche voi. Dovete andare a rapporto dal prefetto nel suo ufficio, immediatamente.» «Davvero?» Loredan si appoggiò pesantemente a un bracciolo della sedia. «E perché mai dovrei sognarmi di fare una cosa del genere?» «Perché ve lo sto dicendo io» ribatté l'impiegato. «E perché siete ancora sulla lista dei riservisti, il che significa che siete obbligato a ubbidire agli ordini del vostro ufficiale superiore.» Loredan fece una smorfia. «Fatemi causa» disse. «Scusate, ma non sono proprio dell'umore giusto. E poi, per quale diavolo di ragione dovrebbe volermi vedere? Pensavo si augurasse che io scomparissi dalla sua vista.» L'impiegato sospirò e si sedette, dopo avere asciugato le gocce di vino che si erano rovesciate sul tavolo usando una manica. «Al contrario» disse. «Sarò franco con voi; il prefetto conta di rimediare ad alcuni dei danni politici da voi causati a questa amministrazione facendo del risultato di oggi un'occasione di rivincita. Pensa che restituendovi la carica di Vice Luogotenente Generale, renderà chiaro alla città che il suo giudizio su di voi è stato giusto fin dall'inizio, e...» Loredan si alzò in piedi. «Dite al prefetto da parte mia» disse «grazie, ma grazie no. È molto gentile da parte sua, ma io ho già un lavoro e non ne voglio un altro. Arrivederci.» «Sembrate convinto di potere scegliere» disse l'impiegato. «Se non vi presenterete al più presto all'Ufficio del Prefetto, non avrò altra alternativa che autorizzare il vostro arresto come disertore.» Ridacchiò. «La diserzione è un crimine per cui si può essere giustiziati senza processo, in tempo di guerra. Se, come sembrate pensare, il prefetto vuole liberarsi di voi, sarebbe il modo più efficace.» Loredan sospirò e si rimise a sedere. «Questa cosa non può almeno aspettare fino a domani?» gemette. «Non sono dell'umore giusto per mostrarmi rispettoso verso i miei superiori. Chissà, magari domani a quest'ora potrei essere abbastanza annoiato e depresso da avere voglia di continuare questa ridicola sciarada.» «Avete avuto i vostri ordini, Colonnello» disse l'impiegato. «Se proprio dovete finite il vostro vino, dopo di che vi accompagnerò personalmente
giusto in caso non ricordaste la via.» Oh, va bene disse Loredan a se stesso. Non che avessi niente altro da fare. «Dopo di voi» disse in tono educato. Ora che ebbe raggiunto casa sua, Alexius era esausto. L'ultima rampa di scale che saliva dal salone principale fino alla porta delle sue camere rappresentava uno sforzo che quasi non si sentiva di affrontare. Il dolore al petto e alle braccia era completamente scomparso e la testa non gli doleva, ma si sentiva come se avesse appena passato le ultime quarantotto ore sulle banchine, a scaricare sacchi di grano. Voleva mangiare qualcosa, berci un po' su e poi andare a dormire. Si era tolto gli stivali e stava per sdraiarsi quando il ragazzo che si occupava di lui entrò. «Qualcuno vuole vedervi» disse. «Un altro straniero.» Alexius imprecò mentalmente. «Nome?» sospirò. Il ragazzo sembrò perplesso. «Beh» disse «ha detto di chiamarsi Loredan, ma non è il Colonnello. E, come ho detto, è uno straniero.» «Ah. In questo casa sarà meglio che tu lo faccia entrare.» E, poco dopo, Gorgas Loredan fece il suo ingresso nella stanza. «Non c'è problema» disse, quando Alexius gli indicò una sedia. «Non sono venuto a riscuotere la mia vincita. Anzi, se ho capito esattamente le regola un verdetto di assoluzione per mancanza di prove annulla tutte le scommesse, ragione per cui siamo pari.» Alexius pensò alla donna grassa che era stata seduta alla sua destra, ma non disse nulla. Gorgas si accomodò sulla sedia, incrociando i piedi e mettendosi le mani intrecciate dietro la nuca. C'era un'indubbia somiglianza. Si notava soprattutto nella mascella e nello sguardo; ma fondamentalmente consisteva soprattutto nel modo molto simile in cui occupavano lo spazio nella stanza più che non in una caratteristica fisica palesemente condivisa. «Che cosa posso fare per voi?» chiese gentilmente Alexius. Gorgas sorrise. «Come vi sentite, a proposito?» chiese. «Prima, in tribunale, ho temuto che aveste un attacco di cuore.» «Molto meglio, grazie» rispose Alexius. «Un po' stanco, ma questo è tutto. Dunque, come posso esservi d'aiuto?» «Vorrei vedere mio fratello» disse Gorgas «ma non so dove viva. Dato che siete la persona più vicina a un suo amico che ci sia in città, ho pensato
di venirlo a chiedere a voi. Non sto abusando del vostro tempo, vero?» aggiunse. «Se il momento non vi è comodo, posso tornare più tardi.» Alexius scosse la testa. «Niente affatto» disse. «Non c'è momento migliore di questo; non ho niente di particolarmente urgente di cui occuparmi. Mi scuserete se non mi alzo, però.» Gorgas inclinò il capo in avanti. «Naturalmente» disse. «Se solo poteste darmi il suo indirizzo...» Alexius si domandò quale fosse la cosa migliore da fare. Rifiutarsi sarebbe stato imbarazzante, e anche peggio se Gorgas avesse avuto un brutto carattere. D'altro canto, dal poco che era riuscito a capire, i due fratelli non si parlavano più da parecchio tempo. Se si trattava di un tentativo di ristabilire relazioni diplomatiche, probabilmente non sarebbe stato di nessun aiuto a Loredan impedendo a Gorgas di incontrarlo. Ammettilo, la verità è che sei curioso. Anzi, curioso era un eufemismo; era già stato sicuro, anche prima del miracolo di guarigione fatto da Gorgas Loredan in tribunale, che egli fosse in qualche modo profondamente coinvolto in qualche aspetto del mistero in cui si era trovato coinvolto la notte in cui aveva tentato di lanciare la maledizione. Fino a quel momento, apparentemente era riuscito a impedire che le disastrose conseguenze del suo gesto nuocessero a qualcuno, a parte se stesso e la ragazza. Per quanto ne sapeva, Gorgas poteva volere l'indirizzo di suo fratello per andare là e ucciderlo. «A essere sincero» disse «non so dove si trovi in questo momento. Per un certo periodo ha abitato nel posto di guardia della seconda città, ma di recente ha traslocato.» Ecco fatto; sono riuscito a essere reticente senza dire apertamente una bugia. Funzionerà, mi chiedo? «Oh» rispose Gorgas «mi sorprendete. Ero sicuro che sapeste l'indirizzo.» Alexius vide la propria mezza bugia riflessa negli occhi di Gorgas. Dannazione, non mi crede. Comunque fosse, ormai aveva preso una decisione e non l'avrebbe cambiata. «Sono terribilmente spiacente» rispose. «Se la cosa può esservi di aiuto posso sempre cercare di fargli avere un messaggio. L'ho conosciuto quando facevamo entrambi parte del Consiglio di Sicurezza, capite; posso verificare se qualche altro membro è ancora in contatto con lui, anche se devo dire che lo trovo piuttosto improbabile.» «Capisco. Be', è una vera seccatura. Volevo parlargli prima di partire, capite. È passato molto tempo... La verità è che sono parecchi anni che non
ci parliamo.» Gorgas Loredan sbadigliò, coprendosi la bocca con il dorso di una delle sue grosse mani piatte. «Ho fatto qualcosa per cui non mi ha mai perdonato. È da allora che desidero cercare di rimettere le cose a posto, ma fino a oggi mi era mancata l'occasione.» I suoi occhi fissavano il Patriarca con uno sguardo fermo e brillante, come se fosse stato un avvocato che ne affrontava un altro in un aula di giustizia. «Forse se ve ne parlassi, capireste perché sono così ansioso di vederlo e questo potrebbe schiarirvi la memoria.» Alexius annuì, imbarazzato dal fatto che la sua bugia fosse risultata così trasparente. «Se pensate che possa essere d'aiuto» disse. «Non è una storia molto piacevole» proseguì Gorgas «e temo di fare la parte del cattivo in questa vicenda. Dovrò correre il rischio che voi non vogliate aiutarmi per nulla dopo che avrò finito.» Alexius si rese conto di essersi quasi piantato le unghie nel palmo della mano sinistra, e si domandò cosa lo rendesse così teso. Come se non lo avesse saputo. «Vostro fratello in effetti è mio amico» disse lentamente. «Anzi, do un grande valore alla sua amicizia. Mi farebbe molto piacere poterlo aiutare. Se, come dite, la vostra intenzione è di riaggiustare qualcosa che lo ha tormentato per molti anni, vi darò una mano. Se invece deciderò che è meglio che restiate fuori dalla sua vita, non lo farò.» «Mi sembra giusto» disse Gorgas tranquillamente. Si chinò in avanti, raddrizzando la schiena e appoggiando i pugni sulle ginocchia. Alexius notò quanto fossero larghe le sue spalle e massicci i suoi polsi. Il fratello maggiore di Bardas, in tutti i sensi. Ma benché intorno a Gorgas Loredan ci fosse indubbiamente un'aura di minaccia... quasi, a costo di sembrare melodrammatici, una selvaggia vitalità che aveva l'odore del male... Alexius non riuscì ad avvertire nessuna malizia diretta contro Bardas, o contro di lui. Se avesse dovuto giudicare lì e in quel momento, avrebbe concluso che quello strano, sgradevolmente affascinante omone era veramente affezionato al fratello che non vedeva da tanto tempo; di certo sinceramente preoccupato per lui e interessato al suo benessere. Be', perché no? Anche le persone cattive a volte amano i propri fratelli. E qualunque cosa fosse ciò che avvertiva nel sommovimento... no, nella ferita... che quell'uomo provocava allo scorrere placido del Principio, non si trattava di male nel senso di una forza distruttiva e puramente negativa. Gorgas Loredan non era una bella persona, ne era sicuro; ma in lui c'era dell'altro oltre a questo. In lui c'era un'ambivalenza che faceva pensare Alexius a un'arma; uno strumento costruito solo per fare del male e
arrecare danni, ma indifferentemente in grado di assolvere alla propria funzione al servizio del bene o del male, a seconda di chi per caso lo impugnava. Poi realizzò, in modo sostanzialmente intuitivo: quest'uomo non è totalmente padrone di se stesso, anche se è possibile che non ne sia consapevole. «Bardas vi ha mai raccontato niente a proposito della sua famiglia?» chiese Gorgas. «Qualcosa» rispose Alexius. «So che vostro padre era un mezzadro.» Gorgas annuì. «Nel Mesoge» disse. «Strettamente parlando la nostra fattoria era considerata un maniero per via delle sue dimensioni, ma in realtà si trattava soprattutto di montagne e foreste; solo un quarto della terra serviva a qualcosa. Eravamo in quattro, tre fratelli e una sorella. Nostra madre morì quando io avevo otto anni: una specie di infezione ai reni, credo. Nostra sorella è la maggiore; ha un anno più di me e io ne ho due più di Bardas; poi c'è Clefas, che ha un anno meno di Bardas.» S'interruppe e sorrise. «Avete il quadro, o volete che vi ripeta tutto un'altra volta? In realtà non è poi così importante.» «Continuate, per favore.» Gorgas chinò il capo in un cenno d'assenso. «Come gran parte delle fattorie del Mesoge la nostra era di proprietà di una delle antiche casate cittadine; i padroni della nostra terra appartenevano alla famiglia Ferian. Immagino sappiate chi sono. Credo siano parecchio decaduti nell'arco degli ultimi anni, ma quando noi eravamo bambini erano ancora una potenza da non sottovalutare.» «Ne ho già sentito parlare» disse Alexius. «Beh.» Gorgas fece un profondo respiro, come se si preparasse a fare uno sforzo. «Circa diciotto anni fa, quando vivevamo ancora tutti alla fattoria, il figlio del padrone e un suo cugino vennero a trascorrere una vacanza in campagna. Dicevano di volere comperare cavalli da corsa, ma credo che la verità fosse che la città scottava un po' troppo per loro, per cui avevano pensato di starne alla larga per un po'. Sapete, come fanno di tanto in tanto i rampolli della nobiltà. Finirono ben presto il denaro e si ridussero a farsi ospitare dai mezzadri; poco divertente per loro e ancora meno per noi. Nel giro di una settimana furono stufi marci; niente da fare tutto il giorno a parte bighellonare per la fattoria come le capre, o darsi a lunghe passeggiate. Bevevano molto e corteggiarono alcune delle ragazze locali, ma le trovarono tutte in fondo poco appetitose e dopo un po' le lasciarono perdere.»
«Salvo» continuò Gorgas, corrugando un po' la fronte «mia sorella. Lei gli piaceva; non era una gran bellezza o cose del genere, ma era vivace e aveva un forte senso dell'umorismo, che la rendeva un po' più simile alle ragazze a cui erano abituati a casa. Il fatto che detestasse e disprezzasse profondamente suo marito non fu d'aiuto... Era un uomo abbastanza gradevole, ma un vero contadino dalle scarpe in su e non potevano avere figli, il che la irritava. Comunque, questi ragazzi di città cominciarono a ronzarle continuamente intorno. Gallas, su marito, non sembrava curarsene molto; era ovvio che non è che succedesse granché e comunque sarebbe stato necessario mettergli in fuga i maiali e dargli fuoco alla barba come minimo, per fargli perdere la pazienza o almeno attirare la sua attenzione. A nostro padre e a Bardas, però, la cosa non piaceva affatto. E io...» Gorgas distolse lievemente lo sguardo. «Volevo lasciare il Mesoge e andarmene in città, più di qualsiasi altra cosa al mondo. Quando quei due giovani sciocchi fecero la loro apparizione, vidi improvvisamente un'opportunità.» Per un po' stette lì seduto, in silenzio, senza muoversi; poi, improvvisamente, ricominciò a raccontare. «Era abbastanza evidente che anche mia sorella condivideva la stessa idea» disse «perché appena realizzò che i due ragazzi erano interessati a lei, cominciò a prenderli al laccio, ma senza mai passare per davvero il limite; il messaggio era che sarebbe stata ben contenta di giocare a qualunque gioco volessero, ma solo se l'avessero portata in città con sé. Sfortunatamente i due ragazzi erano troppo tonti per capire il suo giochetto; per come la vedevano loro, li stava menando per il naso e la cosa non gli piaceva; troppo complicato per le loro menti sempliciotte e comunque la situazione non valeva lo sforzo. Le fecero capire chiaramente che se non avesse fatto la carina con loro, si sarebbero spostati nella successiva fattoria, più su nella valle. Nostra sorella non aveva intenzione di mollare se non in cambio di ciò che voleva; l'adulterio per l'adulterio non è mai stato uno dei suoi vizi. Intanto io vedevo la mia occasione di abbandonare l'agricoltura scivolare via, se non avessi fatto qualcosa in proposito e in fretta. Fu il giorno in cui annunciarono la loro partenza. Nostro padre fece chiaramente intendere di essere entusiasta di vederli andare via; lo stesso fecero Bardas e Clefas e nostro cognato Gallas, che per una volta mostrò una vaga traccia di spina dorsale. Nostra sorella si allontanò con aria enigmatica e i due ragazzi sedettero nel portico ad aspettare che i loro cavalli venissero sellati. Per quanto mi riguardava era allora o mai più. Andai da loro e cominciai a compatirli... In modo
obliquo, ovviamente... Per come mia sorella li aveva trattati. Risposero che al mondo ce n'erano altre mille come lei, o qualcosa del genere. Io ribattei che si arrendevano troppo facilmente; avevano interpretato male tutti i segnali, insistetti: non serviva stare ad aspettare che si concedesse come una brava ragazza compiacente, dovevano prendere quello che volevano. Diedi loro l'impressione che fosse quello il modo in cui lei si comportava abitualmente e li convinsi che aveva atteso la loro iniziativa ed era perplessa quanto loro per quella inazione. Naturalmente mi credettero e dissero che se le cose stavano così era tutta un'altra faccenda, e perché non gliene avevo parlato prima? Poi chiesero se avessi idea di dove potesse essere andata. Ora, io sapevo che era andata lungo il fiume per fare il bucato, per cui cercai di spiegargli come trovare il posto. Dissero di non avere capito niente delle mie indicazioni, quindi perché non gli mostravo io stesso la strada? Risposi che per me andava benone e ci allontanammo; ero convinto di avercela fatta, di essermi finalmente guadagnato il salvacondotto per la città. «Lei era là, proprio come avevo immaginato. Dapprima cercarono di mostrarsi gentili; ma quando mia sorella capì che non avrebbe ricavato niente in cambio cominciò a diventare villana, a insultarli e poi, quando il giovane Ferian cercò di afferrarla, lo colpì abbastanza violentemente al viso con una pietra, facendolo sanguinare. Questo fece perdere la testa ai due ragazzi, che smisero del tutto di mostrarsi gentili. Be', mi dissi che potevano cavarsela senza di me e stavo per andarmene quando, con orrore, vidi arrivare della gente; mio padre, Bardas e Gallas, che avevano sentito urlare, stavano arrivando di corsa con delle zappe in pugno. La cosa non mi stava bene per niente; l'ultima cosa al mondo che volevo era che i miei futuri padroni venissero picchiati, o spiegassero esattamente da chi avevano avuto quelle false informazioni. Forse mi feci prendere dal panico; ma no, sono troppo indulgente con me stesso. Sapevo esattamente cosa stavo facendo. Come sempre, in ogni momento della mia vita. «I ragazzi avevano legato i loro cavalli vicino al punto in cui mi trovavo e uno di essi aveva un arco e una faretra legati alla sella. Li afferrai e mi nascosi dietro una roccia; quando mio padre e gli altri mi passarono davanti di corsa tirai contro Gallas e lo uccisi sul colpo. L'idea era di indurli a pensare che si trattasse di un'imboscata tesa da dei banditi e spaventarli; avrebbe anche potuto funzionare... Erano cose che capitavano ogni tanto... Solo che Bardas mi vide e gridò il mio nome. Capii che a quel punto non avevo alternative, che non c'era niente altro da fare. Avrei
dovuto ucciderli tutti e più tardi cercare di inventarmi una storia. Così scagliai frecce anche contro Bardas e mio padre... Pensai di averli uccisi entrambi, ma fui incauto... Poi scesi al fiume e feci fuori il giovane Ferian. L'altro... Vi ho detto il suo nome? Cleras Hedin... Se la dette a gambe e a quel punto mi trovai in difficoltà. Dovevo beccare anche lui, ma dovevo anche sistemare mia sorella. La mia idea era di fare sembrare che avessimo sorpreso gli stupratori in flagrante e che ne fosse seguito uno scontro generalizzato, di cui ero l'unico sopravvissuto. La cosa non sarebbe stata in piedi se non avessi eliminato tutti e adesso uno era già a metà della valle e mia sorella era in piedi nel fiume tutta insanguinata e stava urlandomi contro. «A quel punto mi feci prendere veramente un po' dal panico; tirai contro Sis, detti per scontato di averla fatta fuori e poi mi precipitai sulle tracce del giovane Hedin. Mi erano rimaste solo due frecce a quel punto e lo mancai con entrambe, sicché alla fine mi toccò raggiungerlo e ammazzarlo con un bastone. Quando tornai al fiume scoprii con ben poco entusiasmo che due corpi mancavano all'appello; quello di Bardas e quello di mia sorella. Seguii la traccia di sangue verso casa, ma non appena svoltai da dietro la collina vidi Clefas e altri che correvano verso di me con degli archi in pugno e decisi di ridurre i danni e filarmela. Arrivai ai cavalli dei ragazzi, balzai in sella e non mi fermai fino a che non fui un bel po' lontano. E quella fu l'ultima volta che vidi casa mia, o uno dei miei fratelli.» Sollevò lo sguardo e fece un sorriso tetro. «Vi avevo avvertito: non è una storia molto piacevole» disse. «Sono il cattivo della storia in modo piuttosto evidente, ma nessuno dei sopravvissuti ne uscì proprio profumato di rose. Volete che continui?» «Intendete dire che c'è dell'altro?» disse Alexius. «Oh, sì. Sicuro? Bene, allora. A proposito, il seguito è ovviamente sentito dire, basato su ciò che mia sorella mi ha raccontato da allora. Sono portato a credere che mi abbia detto la verità. Anche lei non è un granché come persona, ma non mi risulta che abbia mai detto una vera e proprio bugia. Apparentemente, una volta posatosi il polverone e seppelliti tutti i corpi... Bisogna dire che i Ferian si mostrarono magnanimi sulla intera vicenda: accettarono la responsabilità per lo stupro e i due omicidi vennero perciò considerati una sorta di compensazione, mentre gran parte della famiglie nobili avrebbero fatto impiccare tutti i sopravvissuti senza pensarci due volte, quindi onore a loro... Come stavo dicendo, una volta
che tutti furono seppelliti e i feriti furono guariti, Bardas cominciò a dare addosso a nostra sorella, dicendo che era tutta colpa sua, perché era una gran puttana. Ovviamente era arrabbiato; e dato che io non ero là e i due ragazzi di città era morti entrambi, lei era la più ovvia candidata per il suo risentimento. Quando dopo un po' saltò fuori che era incinta perse veramente il controllo e cercò di buttarla fuori di casa. Be', Clefas non era d'accordo, così Bardas se ne andò lui in preda all'ira e senza stare a pensarci si arruolò nell'esercito. Clefas e mia sorella si aspettavano di rivederlo nel giro di un mese, ma apparentemente fu preso sotto l'ala dal fratello di nostra madre, Zio Maxen, che era stato un soldato tutta la sua vita e aveva fatto carriera fino a diventare Generale. Così, dopotutto, Bardas non tornò sui suoi passi; e questo fece veramente arrabbiare Clefas, che adesso doveva fare da solo il lavoro di sei uomini per mandare avanti la fattoria e riuscire a pagare l'affitto. «Anche lui cominciò a prendersela con nostra sorella e aveva il brutto vizio di sottolineare il suo punto di visto con manrovesci piuttosto che con argomentazioni e ragionamenti. Lei sopportò fino a quando era ormai sul punto di partorire; poi una notte Clefas alzò troppo il gomito e la assalì con un coltello. Dopo ciò, pensò fosse meglio sgombrare e il solo posto in cui potesse andare era in città, dove sperava di riuscire a ottenere qualcosa dalla famiglia del padre morto di suo figlio, gli Hedin.» Gorgas alzò lo sguardo e fissò Alexius negli occhi. «È sempre stata adamantina sul fatto che fosse il ragazzo Hedin e non il giovane Ferian il padre del bambino. Non ho problemi a credere alla sua parola su questo; dopotutto, dovrebbe saperlo e come ho già detto non è il tipo che racconta bugie. Be', la famiglia Hedin non si dimostrò affatto magnanima, come avevano fatto i Ferian. Nothas Hedin cominciò la sua carriera come orafo, diversificò poi nell'attività bancaria ed era arrivato da poco in cima alla scala sociale. Credo che i suoi ragazzi conoscessero i figli dei Ferian per via delle gare di cavalli; Nothas Hedin era un miserabile vecchio demonio, ma quando si trattava di cavalli usava spendere come se non ci fosse un domani e i Ferian erano uguali. Comunque, non si dimostrarono felici della situazione, ma accolsero mia sorella e le dissero che poteva restare da loro fino alla nascita del bambino, dopo di che l'avrebbero mandata da qualche parte oltremare dove si sarebbero presi cura di lei, ma nessuno vedendola sarebbe stato costretto a ricordare tutti i problemi che aveva causato. «A quel tempo anch'io ero arrivato in città e mi guadagnavo bene o male da vivere, accompagnandomi a un pugno di altri reietti che facevano cose
sporche per denaro. Non si poteva chiamarci assassini, perché non eravamo abbastanza abili. Picchiavamo gente in vicoli scuri, davamo fuoco a negozi, cose del genere. Comunque; quasi per caso scoprii che mia sorella era in città e il mio primo pensiero fu che era venuto il momento di andarmene. Non mi ero particolarmente preoccupato che gli Hedin e i Ferian potessero catturarmi per vendicarsi di ciò che avevo fatto, perché naturalmente non mi facevo chiamare Gorgas Loredan e fino all'arrivo di Sis non c'era nessuno in città in grado di riconoscermi. A quel punto, però, ne avevo avuto abbastanza di viaggi e avventure da bastarmi per un po', perciò decisi di restare e di stare a vedere cosa sarebbe successo. Cominciai a ronzare intorno a una delle cameriere di casa Hedin per carpirle notizie e ciò che scoprii fu che sebbene Sis non fosse proprio entusiasta di me, il che era abbastanza ragionevole, era arrabbiata soprattutto con Bardas e Clefas; con Bardas in maniera particolare. Così presi il coraggio a quattro mani e andai a trovarla. Penso che fu così colta di sorpresa dal fatto di vedermi, che si dimenticò di gridare all'assassino sanguinario fino a quando ebbi avuto l'opportunità di farla ragionare; così, dopo un po' di recriminazioni reciproche, tanto per salvare la forma, stabilimmo una sorta di tregua armata. Dopo tutto, eravamo l'uno per l'altra la sola cosa rimasta simile a una famiglia e poi avevamo sempre avuto una specie di rapporto speciale, fino da quando eravamo bambini. Non voglio dire che si sia trattato esattamente di un perdono... Tutto dimenticato... No. Ma aveva il bambino a cui pensare e io mi sentivo abbastanza in colpa per l'intera faccenda e volevo veramente che qualcuno non mi odiasse a morte, così convenimmo che avrei fatto del mio meglio per aiutarla e che avremmo provato a cercare il modo di rendere il futuro un po' meno grigio per entrambi. «Per tagliare corto: riuscii a mettere insieme un po' di denaro... è meglio che non sappiate come... e partimmo per l'Isola. Dopo essersi tormentata per un po', Sis decise di lasciare il neonato alla famiglia Hedin, che peraltro era felice di crescere il bambino come uno di casa, a patto che mammina promettesse di andarsene e di non tornare mai più. Sul momento Sis si arrabbiò parecchio, ma convenimmo che un neonato ci avrebbe terribilmente intralciati, considerando il tipo di affari in cui contavamo di metterci. Devo dire questo di mia sorella: una volta che ha deciso quello che deve essere fatto, non si lascia mai intralciare dal sentimento. Così raggiungemmo l'Isola e ci mettemmo nel giro del prestito di denaro; ce la cavammo benissimo, dopo un inizio abbastanza sconvolgente. Quanto a
ciò che ci consentì di svoltare l'angolo, quella è un'altra storia, che peraltro qualche altra volta potrebbe interessarvi, Patriarca, perché in qualche modo ha a che fare con il vostro tipo di lavoro. Comunque, dopo un po' ci rendemmo conto che le cose filavano, le nostre vite si stavano sistemando e in un modo o nell'altro eravamo riusciti a uscire sempre brillantemente da tutte le situazioni a rischio; la situazione non era male, tutto considerato. Fu allora che tutti e due decidemmo che il nostro... Come vogliamo chiamarlo: il nostro patto di non-aggressione di fronte al comune nemico, vale a dire la Vita? Qualcosa del genere... Il nostro accordo, se volete, aveva più o meno esaurito la sua utilità e che sarebbe stato nell'interesse di entrambi dividersi e andare ciascuno per la sua strada, fintanto che eravamo ancora in rapporti decenti. Fu una buona idea, credo. Quando si sente che sta montando un grosso guaio proprio davanti a sé, la cosa migliore è togliersi dalla strada prima che le pietre comincino a volare. «Ci spostammo a Scona e mettemmo in piedi una vera e propria banca, perfettamente rispettabile e di alto profilo. Devo ammettere che nella nostra famiglia è lei quella con il cervello. Anche io non me la cavo male, ma lei ha trasformato questa attività in un vero successo e a quanto ne so possiede praticamente tutto e tutti su quel versante della baia. L'unico pesce grosso in un piccolo stagno, forse, ma pur sempre non male per la figlia di un contadino del Mesoge. E, come le ricordo di tanto in tanto, se non fosse stato per me potrebbe benissimo essere ancora nella capanna di Gallas a coltivare cavoli e mungere capre. Non lo ammette mai, ma almeno non mi lancia più cose addosso quando lo dico.» Alexius sedeva immobile, come un coniglio davanti a un serpente. La mera presenza di quell'uomo era inquietante e affascinante insieme. «E che ne è stato del bambino?» disse alla fine. «Il figlio di vostra sorella, quello che si è lasciata dietro?» «Si tratta di una bambina, in realtà. Era proprio per parlare di lei che volevo vedere Bardas, anche se ho la sgradevole sensazione di essere un po' troppo in ritardo.» Sospirò. «Mi sorprende che mi abbiate fatto questa domanda, devo dire. Pensavo che non appena avreste sentito il nome...» Improvvisamente la gola di Alexius si inaridì. «Hedin» disse. «Chiamarono la ragazza Iseutz» continuò Gorgas. «Non era il nome che avrebbe voluto darle sua madre, ma volevano qualcosa un po' più di alta classe. Comunque, la crebbero insieme al fratellino del giovane ucciso. Il suo nome era Teofil.» «Teofil Hedin. Iseutz Hedin.» Sul volto di Alexius si dipinse una smor-
fia di orrore. «Oh, dei, quella ragazza...» Gorgas annuì con fare lugubre. «L'ironia della cosa» disse «sta nel fatto che non sa niente di Bardas e me e di tutto il resto della storia. Per quanto la riguarda, Bardas è l'uomo che ha ucciso il suo caro zio Teofil, l'unico che le abbia mai voluto veramente bene. Terribile, vero? Quando si parla di sorte, buona o cattiva, ho sempre la sensazione che la mia famiglia ne sia stata in balia più di quanto sarebbe ragionevole.» «Oh, dei» ripeté Alexius. «È sua nipote.» «Fortunatamente» disse Gorgas «è ancora viva. Più per fortuna, che per il suo buon senso» continuò, scrollando la testa. «È colpa mia se le cose sono arrivate a questo punto; non appena scoprimmo quello che stava succedendo mi precipitai qui, ma la prima volta che sono venuto a conoscenza di questo sciagurato duello è stato quando ho visto l'avviso sulla porta del tribunale.» Alexius era piuttosto dubbioso su cosa fosse meglio fare. Tanto per cominciare, voleva sapere come avevano fatto a scoprirlo. Avrebbe voluto parlare del sogno che aveva fatto durante la lettura delle deposizioni, dei dolori alla testa, al petto e alle braccia che si erano manifestati all'improvviso e altrettanto all'improvviso erano spariti; tutta una serie di piccoli punti che sembravano puntare in una precisa direzione. Avrebbe voluto chiedere a Gorgas se conosceva due isolani di nome Venart e Vetriz. Avrebbe voluto scoprire cosa esattamente del lavoro di sua sorella poteva interessargli perché in qualche modo aveva a che fare con il suo tipo di lavoro. Non fece nessuna di queste cose. «Avete detto che volevate che facessi avere un messaggio a Bardas» disse, nel tono più neutrale che riuscì ad assumere. «Che cosa volete che gli dica?» «In realtà non ne sono sicuro» confessò Gorgas, grattandosi la testa. «Immagino che dovrebbe essere informato a proposito di Iseutz: su chi è veramente e questo genere di cose. Forse sarebbe stato meglio se gli fosse stato spiegato prima che le tagliasse tutte le dita della mano destra; o forse no, non so. Magari se fosse stato al corrente, gli sarebbe costato la vita.» Si chinò in avanti e continuò con molta determinazione. «Io amo mio fratello, Patriarca. L'ho sempre amato. Eravamo affezionati; non quanto lo eravamo io e mia sorella, ma siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme da bambini. In queste situazioni non puoi fare a meno di amare una persona anche se finisci per odiarla nello stesso tempo. Se avete un fratello o una sorella, forse mi capite. Riconosco che fare la pace con Bardas sarà
estremamente difficile, dato che quasi tutto questo disastro è colpa mia; non ho cercato di nascondervelo fin dall'inizio, ricordate. Non mi faccio illusioni su me stesso. Ma non sono un uomo cattivo, Alexius, solo un uomo che un tempo ha fatto delle cose cattive. Forse ne faccio anche adesso, di tanto in tanto. Ma se c'è qualcosa che posso fare per mio fratello, voglio farla. Idealmente, vorrei convincerlo a lasciare questa città finché c'è ancora tempo; vorrei che venisse con me se gli va, o che andasse in qualunque altro posto di suo gradimento. Mi preoccuperei volentieri di fare in modo che non debba mai più avere bisogno di denaro o altro. Cercherei perfino di mettere pace fra lui e mia sorella, anche se dubito che sarebbe mai possibile. Qualunque cosa; dovete credermi, di certo non voglio nuocergli in alcun modo.» Di colpo si alzò in piedi. Alexius avrebbe voluto trattenerlo, ma non fece il minimo tentativo. «Allora che cosa volete che gli dica?» ripeté. «Sempre ammesso che riesca a mettermi in contatto con lui, cosa che non posso garantirvi.» Gorgas si leccò le labbra prima di rispondere. «Ditegli della ragazza» disse alla fine. «Ovviamente potrebbe non crederci. Se lo farà, probabilmente penserà che glielo ho svelato adesso solo per farlo soffrire, ma non c'è niente che io possa fare in proposito.» Esitò, poi riprese: «Ditegli che vorrei che ci fosse pace fra di noi, se non altro perché è mio fratello e mi manca. Ditegli che gli voglio bene, Patriarca Alexius. Penso che più o meno sia tutto.» Gorgas si diresse rapidamente alla porta, la aprì e se la richiuse alle spalle. Quando fu uscito nella stanza sembrò esserci un grosso spazio vuoto, un mutamento che fece venire in mente ad Alexius il modo in cui operava il Principio e gli usi che se ne potevano fare in certe occasioni, a vantaggio del bene o del male. Restò seduto a lungo, ripensando a ciò che gli era stato detto, cercando di ricavarne qualcosa che lo aiutasse a dare un senso a molte cose che erano successe a lui e ad altri, nell'arco degli ultimi mesi; per una strana coincidenza, più o meno dal periodo in cui si sapeva per certo che Temrai fosse già arrivato in Città. Pensò a Bardas Loredan che giaceva mezzo morto in mezzo ai corpi dei suoi familiari e ricordò un sogno che aveva fatto durante l'emergenza in cui gli era sembrato di vedere Loredan che cavalcava attraverso un accampamento in fiamme con una torcia in pugno, apparentemente alla ricerca di qualcuno in mezzo a corpi di donne e bambini, e un bambino che aveva a fatica riconosciuto come Temrai da piccolo, nascosto sotto un carro e intento a osservarlo. Dietro a
tutto questo c'era un'unica semplice cosa; riusciva a visualizzarla in termini generali, poteva quasi assaporarla, eppure continuava a eluderlo. Si alzò in piedi e andò a guardare su una mappa dove fosse Scona, ma la cosa non fu di nessun aiuto. In momenti come quello, realizzò, gli mancava Gannadius; pensò al suo amico assente, che adesso era sull'Isola... Sull'Isola grazie all'intervento di quello che era praticamente uno sconosciuto, che aveva fatto in modo di sottrarlo al pericolo, insieme all'assistente di Loredan che a sua volta era stata una specie di amica e compagna dello spadaccino. Si interrogò anche su questa anomalia. Tutti quei problemi, tutte quelle domande, avrebbero dovuto fargli venire un mal di testa, ma non era così. Ditegli che gli voglio bene, Patriarca Alexius... Che cosa straordinaria da dire: un uomo che aveva assassinato suo padre e suo cognato e tentato di uccidere suo fratello e sua sorella dopo avere cercato di provocare lo stupro di quest'ultima. Credeva a ciò che Gorgas aveva detto: non c'era motivo di dare per scontato che anche un uomo così non potesse amare: non c'era nulla di cui fosse incapace. In effetti, aveva idea che Gorgas fosse in grado di fare praticamente qualunque cosa decidesse, in un modo o nell'altro. Un uomo interessante, non c'era da sbagliarsi. Alla fine passò dai pensieri al sonno e non fece brutti sogni. CAPITOLO DICIANNOVESIMO Il clan stava ancora lavorando duramente, ogni uomo, donna o bambino, ma più per evitare la noia che perché ci fosse davvero bisogno di ciò che fabbricavano. Bozachai, il capo dei fabbri, si era lanciato nell'impresa di sostituire le tradizionali armature di cuoio con cotte di maglia e i suoi uomini passavano le giornate a produrre pesante filo metallico, a piegarlo e a fabbricare anelli metallici per le cotte. Alle donne e ai bambini era stata data la noiosa incombenza di unire gli anelli fra loro. In un primo momento Bozachai aveva insistito perché ciascun anello venisse saldato, ma dopo un po' tutti convennero che non valeva la pena di fare un simile sforzo e fu presa la decisione di soprassedere. Tilchai, a capo dei costruttori di archi, cercò di copiare le balestre della Città, prendendone a modello un certo numero che erano state catturate durante la sfortunata spedizione di cavalleria. Mentre la versione dell'arma tipica del clan utilizzava corno, legno e tendini, la versione cittadina era
basata su bracci fatti di ferro, spessi nel mezzo come il pollice di un uomo e che andavano rimpicciolendo verso le estremità, fino ad avere le dimensioni di un mignolo; l'esperimento si dimostrò futile. O i bracci d'acciaio si spezzavano, o risultavano molli e deboli e dopo i primi tiri non erano più in grado di lanciare le frecce oltre i quaranta o i cinquanta metri. Temrai cercò di rammentarsi in che modo temperassero il ferro per le balestre nell'arsenale, ma i suoi ricordi non erano abbastanza precisi. Si trattava di un'impresa comunque inutile; le balestre cittadine erano così rigide che ci voleva un'apposita leva di legno per tirare indietro la corda e fissarla ai due ganci del grilletto e nel tempo che ci voleva per un'operazione del genere un arciere con un normalissimo arco era in grado di scagliare dieci frecce e di spedirle più dritte e più lontano. Ogni giorno saltavano fuori nuovi problemi. Il pascolo per il bestiame stava impoverendosi nell'arco di spazio intorno all'accampamento che poteva essere considerato sicuro. Un anomalo colpo di freddo uccise tre quarti delle api del clan il che significò un'immediata scarsità di idromele e l'impossibilità di trattare la carne affumicata. Fu necessario bere latte e yogurt non addolciti. Il salgemma con cui conservare la carne e la corteccia di quercia che serviva a conciare il cuoio diventavano ogni giorno più difficili da trovare. I gruppi di cacciatori dovevano spingersi sempre più lontano per trovare daini e uccelli selvatici, il che significava più uomini distolti dal campo e più consumo di bestiame domestico di quanto fosse normale per quel periodo dell'anno. Ci furono alcune epidemie localizzate ma virulente, che prendevano soprattutto lo stomaco; solo in pochi morirono, ma il morale nel campo calò e non si riprese del tutto neanche quando la malattia fu debellata. I fabbricanti di corda avevano rasato i cavalli quasi fino alla pelle, ma quelli di archi e quelli di catapulte continuavano a costruire armi e macchine che non sarebbero servite a nulla per mancanza di corde con cui farle funzionare. Il ponte di fronte alla torre di guardia era stato ricostruito nonostante la particolare accuratezza degli arcieri di Perimadeia che era costata la vita a cinquanta uomini, ma nessuno sapeva in che modo utilizzarlo. Eppure nessuno proponeva di mollare e andarsene; neanche sotto voce o con accenni ambigui. La conquista della Città aveva smesso da parecchio di essere un'eccitante avventura, ma il clan si era calato nell'atmosfera di un tradizionale assedio che avrebbe potuto tranquillamente reggere in eterno se quello fosse stato il tempo necessario a terminare l'impresa. Alcune famiglie avevano già cominciato a erigere muri di pietra per
riparare le tende e i recinti degli animali. Alcuni avevano addirittura fatto i primi esitanti passi verso l'aratura del suolo, con la prospettiva di coltivare il cibo invece di allevarlo o cacciarlo. E nessuno aveva obiettato che seminare era una perdita di tempo dato che non sarebbero stati lì al momento di raccogliere i frutti. Tutti davano automaticamente per scontato che il campo sarebbe stato ancora nello stesso posto sei mesi dopo. Potremmo costruirci a nostra volta una città, a questo punto, e farla finita così, rifletté Temrai, mentre attraversava l'accampamento diretto a una riunione del consiglio di guerra che senza dubbio sarebbe risultata inutile. Dopo tutto sarebbe stata veramente l'ironia finale se dopo poco più di due anni, due città in tutto simili si fossero specchiate l'una nell'altra dalle due sponde del fiume; gli abitanti si sarebbero distinti solo per l'accento e il colore dei capelli. A quel punto sarebbe stato impossibile, e anche futile, domandarsi chi stesse assediando chi o chi avesse vinto la guerra. Non c'era ragione di affrettarsi... la riunione era fissata per mezzogiorno... quindi Temrai fece una deviazione verso il fiume, per vedere come stesse sviluppandosi il progetto della ruota ad acqua. Anche quello era indizio di una insidiosa attesa di permanenza, ma Temrai non riusciva a non appassionarsene solo per questo. Non poteva fare a meno di ricordare la mola per tritare le ossa che era stata una delle prime cose che aveva notato arrivando in città. L'idea che il suo popolo adesso fosse in grado di fabbricare per se stesso una cosa così notevole lo riempiva di orgoglio. Trabucchi e catapulte erano risultati quantomeno ambivalenti, ma una ruota ad acqua poteva essere solo una novità positiva. Mentalmente riusciva già a vedere mulini permanenti costruiti accanto ai guadi e ai ponti usati tradizionalmente dal clan per fare ritorno nelle pianure: pronti all'uso per quando la migrazione annuale li avrebbe condotti da quelle parti... Ammesso naturalmente che fossero riusciti a fare funzionare quel prototipo. Ma non era una cosa difficile da costruire paragonata ad alcune delle macchine che erano riusciti a fabbricare con niente altro che qualche semplice attrezzo, un mucchio di legname e la determinazione a pensare che nulla fosse impossibile. Il disegno lo aveva fatto lui, basandosi ovviamente sul modello cittadino ma adattandolo in modo da potere utilizzare i materiali che erano disponibili. La struttura era costituita da poco più che quattro strutture ad A recuperate da dei trabucchi distrutti, le quali sostenevano il palo principale, che era stato ricavato dal tronco di un albero particolarmente alto e dritto. Il legno che avevano usato per i raggi della ruota era
anch'esso di recupero; tutto ciò che restava della prima generazione di zattere, le poche che erano scampate al fuoco. Adesso utilizzavano zattere migliori copiate da un classico modello della Città, tenute insieme molto più solidamente da due pali incrociati inseriti in mortase e fissati. Le pale della ruota ad acqua erano componenti della struttura di alcune macchine a torsione, fortemente modificati e i chiodi che le fissavano erano stati ricavati fondendo punte delle frecce lanciate dalla Città. Temrai notò che perfino sulle mura della Città c'era un gruppetto di osservatori apparentemente interessati e si domandò se ci fosse nulla che potessero apprendere da quel progetto che era profondamente convinto fosse un netto miglioramento rispetto a quello originale. Quando realizzò le implicazioni di quel corso dei suoi pensieri, li scacciò immediatamente; certo, sarebbe stato bello che per generazioni la gente della Città avesse chiamato le ruote ad acqua ricavate dal suo progetto Le Ruote di Temrai, ma questo avrebbe sempre voluto dire ammettere il fallimento. Per quanto riguardava la Città, non ci sarebbero state altre generazioni. Trovò quel pensiero stranamente deprimente. Il gruppo di muli che doveva sollevare la ruota in posizione cominciò a muoversi. Dopo uno scricchiolio allarmante la ruota si sollevò da terra e salì lentamente in aria fino a quando un carpentiere che se ne stava immerso fino alle ginocchia nel fango del fiume non lanciò un grido ai conduttori dei muli e gli animali si fermarono. La ruota era una ventina di centimetri troppo in alto, per cui era necessario fare arretrare i muli di qualche passo. Si trattava tuttavia di una manovra di precisione piuttosto difficile da attuare con dei muli che camminavano all'indietro; dopo molti sforzi, incitamenti e parolacce i conducenti riuscirono a fare arretrare le bestie recalcitranti, ma invece di fare abbassare la ruota di una ventina di centimetri, la calarono di più del doppio. Ovviamente non andava bene; quindi i muli furono fatti nuovamente avanzare con il risultato questa volta di sollevare la ruota di quaranta centimetri di troppo. «Vedi?» si lamentò in modo teatrale Mentakai, il capo carpentiere responsabile del progetto. «Ancora un po' di questa manfrina e diranno che è una cosa impossibile. Non è una cosa facile, in nome del cielo, è stupido aspettarsi che funzioni al primo tentativo. Bisogna insistere, fino a che si riesce ad azzeccare l'altezza giusta.» Temrai fece schioccare la lingua per esprimere la sua solidarietà e stette
a guardare lo spettacolo. I conducenti fecero nuovamente arretrare le bestie (qualcuno intanto aveva scoperto che il modo migliore per fare arretrare i muli lentamente era di coprirgli la testa con qualcosa; questo voleva dire trovare capi di vestiario della giusta forma e misura e, cosa ancora più difficile, convincere i proprietari a separarsene). A un certo punto, comunque, l'uomo immerso nel fango fino alle ginocchia gridò «Ci siamo!» con lo stesso grado di eccitazione e sollievo che ci si aspetterebbe in un uomo che abbia appena assistito alla nascita di un figlio. Immediatamente squadre di uomini piazzate in mezzo alle strutture ad A fecero forza su delle corde fissate ai raggi della ruota e la guidarono in posizione sul palo principale come se fosse la cosa più facile del mondo. Tutto ciò che restava da fare era che i fabbri piantassero i chiodi che avrebbero mantenuto la ruota al suo posto; non ci sarebbero stati problemi... Quel tipo di fissaggi era una procedura abituale nella costruzione delle macchine a torsione e ormai ognuno di loro era diventato un esperto. Stavano per fare spostare i muli per andare a legarli a qualche distanza, quando un problema che nessuno aveva notato divenne fastidiosamente ovvio. Avevano montata per prima la ruota sbagliata. Mentakai imprecò sottovoce. «La mia solita fortuna» disse. «Vedrai: adesso faranno un altro paio di tentativi tanto per fare vedere che sono volonterosi e poi smonteranno tutto dicendo che non può funzionare. Non ci hanno neanche provato ad applicarsi veramente.» Temrai aggrottò la fronte. «E se smontarla fosse la cosa più giusta da fare?» chiese poi ad alta voce. «Immagino non ci sia modo di saperlo, se prima non si è fatto almeno un tentativo.» «Non ti ci mettere anche tu» borbottò Mentakai. «Si tratta di un banalissimo errore, provocato dalla fretta e dalla mania di buttarsi a capofitto nelle cose senza stare a pensarci un po' su prima. Non dimostra nulla.» C'erano dei concetti in quel ragionamento che potevano essere benissimo applicati ad altre attività umane, realizzò Temrai, compreso il saccheggio di città. «Immagino che faremo meglio a cercare di rifare tutto per bene. Digli di sfilare la ruota.» Togliere la ruota si dimostrò ancora più arduo che metterla in posizione; tanto per cominciare, si era messa immediatamente a girare in modo continuo e pericoloso. Alla fine ci riuscirono... Mezzogiorno era passato da un bel po', realizzò Temrai, ma che importava? Potevano tenere la riunione
senza di lui, non è che avessero veramente qualcosa da dirsi... E la seconda volta riuscirono a inserire la ruota giusta in modo abbastanza agevole, grazie alla pratica che avevano fatto prima. Tuttavia quando cercarono di rimettere su la ruota ad acqua, le cose si complicarono; svariate corde si spezzarono e anche la giuntura di una delle strutture della gru si spaccò; gli uomini a furia di sguazzare nell'acqua del fiume erano fradici dalla testa ai piedi e l'umore cominciava a farsi nero, mentre gli spettatori facevano commenti divertiti. Alla fine, quando la ruota fu a posto e cominciò a girare ci fu una sensazione di esausto sollievo, più che di giubilo. Comunque era stato un successo... Di più, una conquista, che certamente giustificava tutta quella fatica... Qualcuno gridò: «Attenti!» ma ora che gli uomini ebbero realizzato cosa stava succedendo, fu troppo tardi. Tre pietre da centinaia di chili, lanciate dai trabucchi della torre di guardia, fischiarono nell'aria e raggiunsero il bersaglio; una cadde nel fiume sollevando una cortina di spruzzi che sembrò arrivare fino al cielo; la seconda centrò in pieno la ruota ad acqua frantumandola e schiacciandola, distruggendo le strutture ad A, spezzando in due il palo principale e spalmando il corpo di Mentakai su ciò che restava della sua realizzazione; la terza investì le prime file di spettatori, uccidendo un uomo e una donna e frantumando entrambe le gambe a un ragazzino. Sembrarono destinati a restare tutti paralizzati per sempre. Poi qualcuno gridò, degli uomini corsero avanti e cercarono di spingere con le spalle la pietra sotto cui era rimasto imprigionato il ragazzo, il resto della folla ondeggiò, in dubbio se aiutare i soccorritori o fuggire al riparo in caso stesse arrivando qualche altra pietra. Temrai si fece strada in mezzo ai carpentieri che parevano impietriti al loro posto con gli occhi fissi sulla rovina di ciò che fino a poco prima era stata una ruota ad acqua, e cominciò a gridare ordini, a mandare a chiamare guaritori e una squadra di addetti che portasse lì cinque trabucchi per una salva di risposta; l'attività lo aiutò a cancellare le ombre che gli avevano riempito la mente... Immagini del campo in fiamme e delle zattere che bruciavano sull'acqua si erano mescolate a quelle di una mulino per triturare le ossa, appena dall'altra parte del muro se ricordava bene, anch'esso sfasciato e distrutto; e nelle sue viscere affioravano le ossa di centinaia, migliaia di uomini, donne, bambini, della Città e del clan, che continuavano a cadere meccanicamente sulla mola, che girava ancora. Riuscirono a sollevare la roccia abbastanza da tirare via il ragazzo; era
ancora vivo e aveva la bocca spalancata in un grido, ma da cui non usciva alcun suono. Qualcuno disse che l'uomo e la donna che erano morti erano i genitori del ragazzo; Temrai ne prese nota e lo archiviò nella sua mente per il futuro. Il primo dei cinque trabucchi fu messo in posizione e i muli vennero staccati dai ganci di traino della struttura e aggiogati al contrappeso; fecero gli ostinati e opposero resistenza, per cui ci furono imprecazioni e staffilate in aggiunta al caos generale; poi qualcuno si rese conto che non avevano portato nessuna pietra da lanciare e qualcun altro suggerì di usare una delle due che erano già lì, allora un terzo sostenne che il suggerimento era veramente di cattivo gusto; a questo punto Temrai guardò verso la torre di guardia e disse agli addetti di lasciare perdere il suo ordine di rispondere al fuoco, dato che non c'erano indicazioni che il nemico stesse ricaricando e che in quel momento avevano già abbastanza da fare, senza bisogno di dare il via a un combattimento. «Per me?» chiese il Colonnello Loredan perplesso. La guardia annuì. «Un tizio lo ha lasciato circa un'ora fa» disse. «Non ha voluto dire il suo nome. C'è anche una lettera.» «Oh. Oh, be'. Grazie, potete andare.» La guardia salutò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Di nuovo nella sua miserabile stanzetta nel posto di guardia della seconda città; gli stessi muri tetri, lo stesso giaciglio di pietra. Loredan osservò l'involto di tela che teneva in mano, fece spallucce e lo gettò sul letto. Qualcosa di metallico tintinnò contro la pietra. Lo avrebbe aperto più tardi, dopo essersi tolto quegli odiosi stivali. Perché qualcuno dovrebbe farmi un regalo? si domandò, mentre si sfilava lo stivale sinistro da un piede bollente e sudato. Benché fosse già in ritardo per una riunione si concesse il lusso di sedersi e di muovere le dita finalmente liberate dagli stivali, prima di infilare i sandali. Non poteva essere qualcosa di utile, come un bel paio di pantofole di feltro? Si tolse anche il mantello ancora inzuppato dall'improvvisa pioggia del pomeriggio e prese l'altro che possedeva; era come un vecchio amico, sformato e frusto, ma che aveva ormai preso perfettamente la forma del suo corpo dopo anni di frequentazioni. Non era l'abbigliamento più adatto per una udienza con il prefetto, ma se lo avessero licenziato non gli sarebbe interessato granché. Anche le brache e la camicia erano umide, ma non aveva il tempo di cambiarseli. Il calore del camino nella sala d'attesa
del palazzo del prefetto li avrebbe asciugati più che in fretta. Si passò rapidamente il pettine fra i capelli; di più non poteva fare. Dunque avrebbe aperto il suo regalo e poi avrebbe dovuto andare. Non occorreva essere un genio per capire che cosa ci fosse nell'imballo di tela; era stretto, pesante, lungo circa un metro e conteneva qualcosa di metallico. Qualcuno gli aveva mandato una spada. Gliene serviva una, su questo non c'era dubbio. Era imbarazzante per il Vice Luogotenente Generale, ufficiale al comando delle difese di Perimadeia, essere l'unico uomo sulle mura con un fodero vuoto alla cintura. Tagliò la corda con un coltello e rimosse la tela; poi per un bel po' rimase seduto immobile, a fissarla. Un'autentica Guelan. Di più: una autentica spada larga Guelan... Ne esistevano ancora a malapena cinque... Non una più comune, anche se sempre letale e di valore, spada da processo delle tante sulle quali il grande armaiolo aveva costruito la sua reputazione. Eppure era indubitabilmente una Guelan, lo seppe prima ancora di sfilare dal fodero la lama corta e pesante e vedere sul ricasso l'inconfondibile e non copiabile punzone. Nessuno aveva mai fabbricato spade militari meglio del grande Liras Guelan. Le imitazioni degli altri armaioli, al confronto, erano solo patetici aborti, buoni giusto per tagliare legna o aprire barili. Nessuno, né prima né dopo, era riuscito a riprodurre quella precisa armonia di peso ed equilibratura che ne faceva la cosa più simile alla perfezione per il combattimento a due mani o a una mano sola, per fare affondi o menare fendenti. La leggenda voleva che occorresse una abilità speciale per potersi servire di una Guelan (e per la prima volta, mentre reggeva la spada fra le mani, si rese conto che non si trattava di una fantasia); se si cercava di usarla come una spada ordinaria, il suo peso e le sue proporzioni (lunga impugnatura, lama corta) ti tradivano. Se cercavi di ricorrere alla forza, se centuplicavi gli sforzi fisici, l'arma diventava sempre più inaffidabile fra le tue mani. Ma se ti servivi del peso invece di lottare per averne ragione, allora sarebbe sembrato che fosse la spada stessa a guidarti, unendo la propria forza a ogni colpo in apparente contraddizione con tutte le leggi della fisica. Dovevi lasciare che una spada larga di Guelan combattesse per te, dicevano; sapeva esattamente ciò che stava facendo e tutto ciò che doveva fare chi la impugnava era tenere salda in mano l'impugnatura e godersi lo spettacolo. Bardas Loredan aveva i suoi dubbi sulla gente che diventava lirica
parlando di armi mortali; tuttavia sentì di potere fare un'eccezione in quel particolare caso piuttosto eccezionale. Per tutta la durata della sua vita militare e professionale, manco a dirsi, ne aveva sognata una (anche se non avrebbe mai potuto usarla come avvocato, perché fuoriusciva dalle dimensioni prescritte per l'uso legale), e adesso eccone lì una, il suo peso evidente, ma non opprimente per i muscoli dell'avambraccio, come un falco campione di caccia, che si fosse degnato di posarsi per un attimo sul suo polso. Deve essere costata una fortuna. Si ricordò della lettera. Non volendo mettere giù la sua nuova, meravigliosa proprietà anche solo per un attimo, si destreggiò goffamente per riuscire a spezzare il sigillo e aprire il foglio piegato in quattro. Bardas, sono certo che tu abbia ricevuto il mio messaggio e la successiva lettera, quindi è chiaro che non vuoi vedermi. Non posso dire di esserne sorpreso. Lo capirei se tu non volessi accettare da me questo regalo (anche se saresti un maledetto sciocco; non puoi credere ai problemi che ho avuto per trovare una spada del genere e quando l'ho rintracciata il proprietario non voleva vendermela). Tienila quindi; non si può farle colpa per i peccati di chi te l'ha regalata e sono sicuro che troverai il modo di farne buon uso. Le ho raccomandato di vegliare su di te; è per questo che doveva essere per forza una Guelan... Non si dice che abbiano un proprio spirito? Questa, cerca di non romperla. Con tutto il mio affetto, Gorgas Loredan Bardas Loredan fissò la lettera, poi la spada, poi di nuovo la lettera, poi ancora una volta la spada. Le armi, lo sapeva, erano oggetti ambivalenti, in grado di fare il male e il bene, o entrambi, e perfino entrambi nello stesso tempo, incapaci di capire l'uso che si faceva di loro, o di curarsene. Lo stesso, rifletté Loredan, si poteva dire degli avvocati, uomini che combattevano e uccidevano in nome della giustizia, per una causa che non era la loro. L'arma nelle loro mani e l'abilità con cui quelle mani la usavano decidevano ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, ciò che era buono e ciò che era cattivo; chi quel giorno era più forte e più veloce prevaleva su
chi era più lento e debole e se un attimo prima del duello il querelante avesse assunto le posizioni del convenuto e viceversa, non per questo l'esito sarebbe stato diverso. Forse è questo che sono diventato, pensò Loredan, o forse è ciò che sono sempre stato: un'arma in mano a qualcun altro, creata per uccidere e ferire, ora a vantaggio del bene, ora del male, a seconda della mano che per caso mi muove. E la Guelan... Non si diceva che avessero un proprio spirito indipendente?... Forse significava qualcosa, specie il fatto che gli arrivasse proprio in quel momento quando era l'avvocato che difendeva la città di Perimadeia, cui erano affidate la sua sicurezza e la legittimità della sua causa. Deve essergli costata una fortuna... Sì e nel corso degli anni lui è costato a me; forse in qualche modo non ha fatto altro che usarmi, come tutti gli altri, anche se non riesco a immaginare a che scopo. Sono state le sue azioni ad avere determinato tutto quello che ho fatto da quel giorno vicino al fiume quando mi abbandonò per morto e mi rubò la vita a cui avrei avuto diritto. Se spera di potermi comperare con questa... Però: una spada larga Guelan; non poteva essere gravata dei peccati di chi l'aveva regalata, come l'avvocato non era responsabile per le azioni dei suoi clienti. Soprattutto, gli avevano detto quando aveva fatto il giuramento alla cerimonia di iscrizione all'albo, un avvocato combatte per la giustizia e la giustizia è la sua unica cliente. E una spada taglia pelle e carne per conto dell'uomo che la impugna; così come un uomo è una spada in pugno alle circostanze della sua vita, alle cose successe nel suo passato che lo hanno reso ciò che è e alle loro conseguenze nel presente che deve affrontare e con cui deve misurarsi. Accettare quella spada da suo fratello non era molto diverso dal raccogliere dal pavimento del tribunale quella dell'avversario che aveva appena ucciso. In un certo senso se l'era guadagnata; e ora che era sua, il suo passato non importava più. Dei, riuscirei a convincere me stesso di qualunque cosa pur di tenermela. Vale più di quanto ho guadagnato in dieci anni di professione. E che cosa diavolo significa «con tutto il mio affetto»? Improvvisamente Loredan si ricordò dell'incontro per cui era gravemente in ritardo. Fu con un atto consapevole e non per mero istinto che si slacciò la cintura, la fece passare attraverso i due anelli del fodero e se la strinse di nuovo in vita; e in quell'istante respinse il senso di sollievo implicito nella autogiustificazione che si era dato: mi sono sempre limitato a seguire delle istruzioni; me lo hanno fatto fare gli altri; non è dipeso da me. Bardas Loredan era come una spada piatta Guelan: armi di tale qualità
da avere un proprio spirito autonomo... Bene, bene, disse a se stesso mentre usciva precipitosamente dalla stanza piccola e fredda e attraversava di corsa il chiostro, diretto verso la casa capitolare, se alla fin fine devo proprio vendermi l'anima, meglio tenerla in famiglia che cederla per quattro soldi al cartello del carbone. Ma quella considerazione non risolveva il problema; la decisione finale avrebbe dovuto venire rimandata fino al momento in cui avesse avuto tempo di ponderarla, magari alla luce di maggiori dati. CAPITOLO VENTESIMO «Sarei più contento se avessi almeno una vaga idea di ciò che sta succedendo» mormorò Ceuscai. Il debole bagliore della luna si rifletteva sulla nuvola creata dal condensarsi del suo fiato, come se le sue stesse parole si fossero congelate per il freddo della notte. «Già non mi piaceva il progetto delle zattere, questo mi garba ancora meno.» Steso accanto a lui, sdraiato al riparo di un carro, Temrai osservò le torce ardere sulla torre di guardia e fu scosso da un brivido. «Deve trattarsi di una faida familiare» rispose «della quale non è necessario che siamo informati e comunque di cui poco m'importa. La mia unica preoccupazione è che si tratti di una trappola.» «Molto probabile» disse l'uomo alla sinistra di Temrai. «Onestamente, puzza come un pezzo di formaggio marcio. Il fratello del Generale nemico viene da noi e ci dice che aprirà le porte e abbasserà il ponte levatoio a mezzanotte... Per gli dei, Temrai, a cosa altro sei disposto a credere? Alla vecchia che imprigiona i venti in un paniere? Alla fata dei dentini?» Temrai aggrottò le sopracciglia, anche se nessuno se ne accorse. «Se la situazione dovesse sembrare anche solo lontanamente sospetta, non ci muoveremo» disse. «Ma se questa trappola di cui parlate include l'apertura delle porte e l'abbassamento del ponte levatoio, allora è una trappola che mi va a genio.» «Possono aspettarci dall'altra parte con qualunque cosa: buche mascherate, olio bollente, catapulte, un'intera compagnia di arcieri pronta a scoccare non appena spuntiamo...» Come minimo, disse Temrai a se stesso. Se i primi centro uomini a oltrepassare le mura andranno più lontani di cento metri, sarò veramente sbalordito. Ma tutto questo rientra nelle Perdite Accettabili. Potremmo perdere mille uomini nei primi novanta secondi e ancora essercela cavata
meglio del previsto... «Ehi» sussurrò Ceuscai «guardate.» «Che io sia dannato» mormorò qualcuno un po' più lontano. «Le porte si stanno aprendo.» Effettivamente c'era stato un lieve cambiamento nella natura dell'ombra che si disegnava sotto la torre di guardia. Temrai trattenne il respiro. Nel giro di pochi secondi avrebbe dovuto dare l'ordine di avanzare, se non voleva sprecare quella opportunità. Una volta dato l'ordine, c'era una forte probabilità che le sue forze potessero effettivamente entrare nella città e cominciarne la conquista. Provò a immaginare che una volta dentro, tutto andasse secondo i piani; un distaccamento avrebbe assalito la torre e conquistato le catapulte, impedendo che potessero tirare sul ponte; altri due distaccamenti si sarebbero impadroniti delle torri ai lati, tagliando le linee di comunicazione sulle mura e impedendo ai difensori di lanciare frecce sui suoi uomini mentre questi entravano dalle porte; un folto gruppo avrebbe stabilito una testa di ponte proprio all'interno di queste ultime; poi, se i principali rinforzi dalla Città non fossero ancora sopraggiunti (tre minuti per tutta l'operazione, quattro se fosse stata opposta resistenza sulle mura), si sarebbero aperti a semicerchio seguendo la base delle mura, con l'obbiettivo di circondare i rinforzi quando fossero apparsi e tagliargli la ritirata verso il labirinto di stradine e piazzette della città bassa. Se il piano avesse funzionato la città sarebbe stata squartata come la carcassa di animale appena tirata giù dallo spiedo, divisa in porzioni affrontabili, che i singoli distaccamenti avrebbero potuto facilmente digerire. Temrai aveva immaginato il piano un po' come una battuta di caccia al coniglio con le reti nelle pianure. Anzitutto mettersi fra i conigli che stanno brucando e la loro tana prima che ti vedano o ti sentano, e piazzare le reti. Poi accendere una luce e fare rumore facendo in modo che la selvaggina fugga verso il buio in cerca di rifugio, dritta nello strumento della sua distruzione. Poi a piacimento e in maniera metodica acchiappare i conigli dalle reti e torcergli il collo. Messa in questa termini, l'impresa sembrava abbastanza lineare. Una volta dato l'ordine non sarebbe stato più in controllo. Sempre ammesso che fosse mai stato davvero in controllo in questa circostanza, tanto per cominciare. «Andiamo» disse, strisciando in avanti sui gomiti fino a quando non si fu sporto dal carro di tutta la testa. «Buona fortuna a tutti, ci vediamo a Perimadeia.»
Gorgas Loredan scavalcò il corpo di una delle guardie e poggiò tutto il suo peso sulla leva dell'argano. Il ponte levatoio era massiccio; era stato costruito deliberatamente così, proprio perché un uomo da solo non fosse mai in grado di abbassarlo. Lo sforzò gli fece dolere i muscoli del petto e della schiena; molto presto il peso del ponte avrebbe avuto la meglio e lui avrebbe dovuto mollare e saltare di lato, per evitare di essere sbattuto da qualche parte dalla ruota dell'argano mentre ruotava. A quel punto non avrebbe più avuto nessuna possibilità di tornare sui suoi passi; ancora qualche centimetro e Perimadeia sarebbe inevitabilmente caduta. Si bloccò e si sfilò dalle spalle la faretra che gli ricadeva sulla schiena; sentiva tutto il peso della cinghia e ci sarebbe mancato solo che la ruota dell'argano vi si impigliasse una volta superato il punto di non ritorno. A volere essere onesti, quel punto era stato raggiunto e superato molti anni prima. Aveva abbattuto a colpi di freccia tutte le guardie che era riuscito a individuare; quattro per la precisione, il che quadrava con quanto aveva osservato le notti precedenti. Se il popolo delle pianure avesse fatto la sua parte, era pronto e in attesa dall'altra parte, entro i prossimi sei minuti ci sarebbero già stati invasori nella Città; la loro irruzione gli avrebbe offerto l'opportunità di filarsela, di raggiungere il porto e di salire sulla nave che lo stava aspettando. Se tutto andava come doveva, sarebbe già stato al largo prima che la Città realizzasse di stare morendo. Improvvisamente sentì che la ruota gli sfuggiva di mano perché il peso aveva soverchiato la sua forza. Mollò tutto e fece rapidamente un passo indietro; l'argano continuò a girare per conto suo. Il suono che emetteva, una specie di mormorio metallico, sembrò orribilmente rumoroso nel silenzio della notte... Lo sentiranno fino alla seconda città, pensò, bisognerebbe essere morti per non sentirlo e capire cosa sta succedendo. Soppesò mentalmente quel momento; l'ultima opportunità di cambiare idea era sfumata: era l'attimo in cui il suicida si sentiva sfuggire lo sgabello da sotto i piedi o capiva di non potere più riguadagnare l'equilibrio sul parapetto. In un certo senso era un conforto; oh, be', era troppo tardi per farci qualcosa ormai, quindi perché stare a preoccuparsi? L'argano ruotava come il timone fuori controllo di una nave. Lavoro eseguito; con successo; nessuna lancia fra le costole o freccia nella schiena. È ora che mi levi di qui. Per una volta ho fatto tutto per bene.
Un grumo d'ombra si addensò davanti a lui e divenne un uomo; una guardia, che stava andando a rilevarne un'altra della ronda. Stava correndo con lo sguardo fisso davanti a sé e non si curò neanche di Gorgas Loredan. Che andasse Dure; non aveva senso ingaggiare un duello arrivati a quel punto. La guardia lo notò, esitò, smise di correre giusto il tempo necessario per gridargli: «Qualcuno ha aperto le porte! Vai a cercare aiuto, presto!» Poi scomparve nel buio proprio mentre il ponte levatoio arrivava in fondo alla sua corsa, rimbalzava e si stabilizzava. In distanza vide delle torce avvicinarsi, proprio da dove l'ombra proiettata da un edificio rendeva più buia una stradina. Sulle mura qualcuno gridò. Improvvisamente apparvero degli uomini sotto l'arcata della porta, che correvano e si sparpagliavano. Una freccia centrò la guardia che cadde morta al suolo. È ora che mi levi da qui. Adesso stavano volando più frecce; Gorgas le sentì sibilare quando gli passarono accanto. Da qualche parte alle sue spalle sentì rompersi il vetro di una finestra. Ci fu una breve esplosione di frasi gridate, ben presto inghiottita dal rimbombare sordo dei passi sulle tavole del ponte levatoio. Udì in lontananza altre grida e quattro o cinque volte il clangore di spade che si incrociavano. Ecco il primo rivolo d'acqua che appare dalla parte sbagliata del canale. Sto esaurendo il tempo per andarmene. Devo sbrigarmi. Dovrei essere già lontano. «Che cosa sta succedendo?» gridò qualcuno. Gorgas guardò per vedere chi fosse; una guardia con una lanterna corse verso le sagome degli uomini riuniti vicino alla porta. «Che cosa sta succedendo?» chiese di nuovo alla prima persona in cui si imbatté, la quale sfoderò una spada corta e lo trafisse. Altre frecce fischiarono; dovevano stare tirando a casaccio, non c'era abbastanza luce per vederci. Per una volta, ho fatto le cose per bene. Fuori da piedi, adesso. Ci sono sempre tante ragioni per favorire la distruzione di una grande città: vendetta per un torto insopportabile; puro e semplice vantaggio, per esempio quando una rilevante e ambizioso potere commerciale decide di preferire di non restituire il capitale di un ingente prestito che ha ricevuto e che ora rischia di strangolarlo; una insopprimibile ripugnanza per tutto ciò che la città rappresenta; o semplicemente perché il grigio delle sue mura stona con il verde dell'erba e l'azzurro del mare. Alcune città sono state tradite per il prezzo di venti acri di terreno sassoso, o per amore, o semplicemente perché esistevano. Saggi uomini dell'Ordine di Alexius
spesso dibattevano l'ipotesi che le città fossero per loro stessa natura delle abominazioni, dei bubboni che il corpo della terra prima o poi curava da sé. Ci sono città che sono state bruciate fino alle fon(lamenta da dei pazzi o da dei bambini che giocavano con esca e acciarino o perché il lembo di una tenda è stato spinto da un soffio di vento nel portello rimasto aperto del forno di un panificio. Alcune città sono state distrutte e ricostruite così tante volte che gli operai che scavano un pozzo per una latrina devono passare attraverso una dozzina di diversi strati di fondamenta e polvere, come attraverso quelli di una torta. Gorgas Loredan aveva le sue ragioni, fra le quali la vendetta, l'odio, e uno sviluppatissimo acume commerciale. Più precisamente, stava facendo quello che gli era stato ordinato. Tutte ottime spiegazioni per chiunque avesse voluto analizzare la patologia delle sue azioni, ma Gorgas sapeva: sapeva di stare agendo per la migliore e più solida delle ragioni, la stessa per la quale aveva fatto ogni cosa da quando aveva lasciato il Mesoge. Per la famiglia. Stavano arrivando altre guardie che reggevano torce e lanterne. Una si bloccò e cadde in avanti. Altre cercarono di avanzare, crollarono morte; ci fu una salva di imprecazioni e le guardie arretrarono. Una sarebbe certo corsa al posto di guardia della seconda città per svegliare il Vice Luogotenente Generale, il quale avrebbe afferrato la spada e l'elmo e sarebbe arrivato di corsa, gridando ordini che nessuno sarebbe stato in grado di eseguire. Sarebbe arrivato di corsa, dritto in braccio al nemico che avanzava. Gorgas Loredan fece un respiro profondo e cominciò a correre, non verso il porto ma su per la collina. Se fosse stato abbastanza veloce avrebbe potuto arrivare prima e sarebbe stato in tempo per intercettare suo fratello. Alle sue spalle, mentre correva, udì altre grida sulle mura; non era gente della città che si domandava sbalordita cosa stesse succedendo, ma gente del clan che gridava segnali e conferme ansiosamente attese. Una freccia colpì il suolo dietro di lui e schizzò via, facendogli venire in mente un cane alle sue calcagna. Irrilevante; nessuna freccia avrebbe colpito Gorgas Loredan quella notte, perché Gorgas Loredan aveva cose importanti da fare, non poteva permettersi di innalzare il numero delle prime perdite. Mentre correva le tempie cominciarono a pulsargli; che razza di momento per un'emicrania, disse a se stesso cercando di ignorarla. Qualcuno scrollò Loredan per una spalla ed egli si svegliò.
«Muovetevi!» sibilò una voce da dietro l'alone della lanterna. «Sono qui. Qualche bastardo ha aperto le porte.» Loredan sbatté le palpebre. Aveva ancora la testa ovattata dal sonno e gli faceva male. «Di cosa diavolo stai parlando?» farfugliò. «Chi...?» «I selvaggi» rispose la voce. «Muovetevi, forza! Stanno occupando tutte le mura.» Loredan balzò dal letto e cercò a tentoni gli stivali. «Come hanno fatto a entrare?» chiese. «Hai detto...» «Qualcuno ha aperto le porte. Un traditore. C'è mezza compagnia di guardie che sta tentando di bloccarli al mercato dei vasai e questo è tutto.» I suoi piedi non volevano saperne di infilarsi negli stivali; le caviglia sinistra era incastrata a metà strada e non riusciva a ricordare cosa si dovesse fare in questi casi. Si sfilò lo stivale e ricominciò da capo. «Qualcuno ha fatto uscire la riserva?» domandò. «E la guarnigione di quel distretto? Certamente...» «Non lo so, come potrei? Vengo direttamente dalla porta... Stavo per montare in servizio.» Chiunque fosse, gli allungò l'elmo. «No, prima la cotta di maglia» sbottò Loredan. «E dov'è?» «Là, nell'angolo.» Qualcuno aveva aperto le porte; qualcuno della Città aveva deliberatamente aperto le porte. Doveva esserci un errore... Mentre lottava con le cinghie della cotta di maglia cercò di pensare con chiarezza a ciò che doveva fare. Allertare la riserva e la guarnigione del distretto; ogni unità aveva un'area di schieramento che le era stata assegnata proprio per quella eventualità; si era adoperato in modo che ognuno sapesse dove andare e cosa fare. Avrebbe avuto bisogno di messaggeri... «Molla tutto» disse «e vai all'Ufficio dei Corrieri. Dovrebbero esserci almeno dieci portaordini in attesa. Li voglio tutti nel cortile qui sotto fra due minuti. Avanti, corri e lascia qui la lanterna...» Le ultime parole gli uscirono troppo tardi; di chiunque si trattasse, era già partito di corsa portandosi via la luce. Loredan imprecò e individuò l'elmo e la spada al tatto. La spada, ovviamente, era la Guelan a lama larga... Sì, credo nelle coincidenze. Ma non in questo caso. Che cos'altro gli sarebbe servito? Tavolette di cera e uno stilo; ma lì non ne aveva. Le mappe e le piante erano tutte nell'ufficio del funzionario a
capo del dipartimento, per venire copiate. Il capo dello staff, allora; qualcuno lo aveva avvertito di ciò che stava accadendo? Non poteva certo darlo per scontato, ma avrebbe dovuto aspettare fino a quando avesse trovato altri portaordini; mobilitare la riserva e la guarnigione erano le prime priorità. E poi altri messaggeri sarebbero serviti per fornirgli accurati rapporti su ciò che stava effettivamente accadendo. Dannazione, quando aveva istituito l'Ufficio dei Corrieri, per qualche motivo aveva stabilito che dieci sarebbero stati sufficienti. È questo il tuo problema, Bardas; non rifletti mai abbastanza. Che altro? Si spremette le meningi mentre correva in cortile. Quando apparvero i portaordini gli comunicò le loro destinazioni e stette a guardarli mentre sparivano di corsa nell'oscurità. Fortunatamente il suono delle voci e il rumore dei passi di corsa attirarono alcuni passanti, impiegati del Dipartimento Approvvigionamenti per la maggior parte. Li cooptò come messaggeri e li mandò alla ricerca dei vari capi dipartimento. Se sono già sulle mura, cosa potrà impedirgli di farsi strada nella Città? Dipendeva da quanti ce n'erano e dal fatto se stavano avanzando su un fronte unico o su due. Se non avessero incontrato resistenza a livello del suolo avrebbero potuto arrivare alla scala successiva e sorprendere da due diverse direzioni qualunque difensore. Avrei dovuto fare dei piani specifici per un'eventualità come questa; ma chi si sarebbe mai immaginato che qualcuno potesse aprire le porte? I vari capi dipartimento fecero la loro comparsa in cortile, correndo qua e là e urtandosi l'uno nell'altro; Il Capo Ingegnere fu il primo, accompagnato dal suo ufficiale più alto in grado; tutti e due avevano l'elmo e indossavano la cotta di maglia su lunghe camice da notte fuori moda; il capo degli arcieri e suoi quattro luogotenenti erano perfettamente armati ed equipaggiati; dei quattro capitani della fanteria (guardie, guarnigioni, riserva e ausiliari) qualcuno aveva l'armatura e qualcuno no, qualcuno era con gli aiutanti e qualcuno senza, il Capo Funzionario del Dipartimento Lavori Pubblici arrivò con il Quartiermastro. Il Dipartimento Approvvigionamenti non aveva un capo al momento, perché il funzionario era stato promosso alle Dogane, e si trattava di un incarico di nomina politica... Il secondo per importanza dopo quello di prefetto. Per ultimo comparve il Luogotenente Generale, con la splendida armatura da parata ancora sporca di grasso per lucidare, sicché polvere e foglie secche avevano cominciato ad attaccarglisi alle gambe e alle caviglie. In tutta fretta Loredan spiegò la situazione e dette i suoi ordini. Nessuno
fece obiezioni; quasi tutti sembravano sapere cosa fare. Mise il prefetto a capo delle mura, lasciò il Luogotenente Generale a organizzare la difesa della seconda città e fu finalmente libero di andare. Quando raggiunse l'ampia via che scendeva la collina si mise a correre. Di fatto lasciò il posto di guardia più o meno quando Gorgas lo raggiunse. Nel buio e nella confusione non si riconobbero l'un l'altro. Metrias Corodin era un fabbricante di strumenti scientifici e anche uno bravo. Di giorno lavorava in un negozio piccolo, ma adeguato al secondo livello della balconata occidentale nella piazza dei fabbricanti di strumenti, torturandosi gli occhi per tracciare i segni delle varie calibrature sulle scale graduate degli strumenti e rovinandosi le dita con la lampada da saldatura. La sera era il sergente della ronda di guardia del suo distretto; era una funzione sociale come tante altre, un onore fattogli dai suoi vicini in premio di una vita utile e industriosa. Quell'incarico gli piaceva; qualche ora alla settimana di movimento, un po' di scartoffie, una buona scusa per fare poi delle riunioni durante le quali la gente poteva parlare di lavoro, scambiarsi notizie e condividere un paio di brocche di sidro. L'addestramento non era particolarmente faticoso; da giovane era stato una specie di atleta e non era così fuori forma da farsi problemi per una mezz'ora di ginnastica o una mattinata di manovre, anche se da quando gli avevano consegnato la cotta di maglia, aveva dovuto aggiungere un paio di buchi alle cinghie. Adesso si trovava di fronte una fila di uomini nervosi e con gli occhi pesti, schierati all'ingresso della piazza dei fabbriferrai. La sua piccola compagnia era schiacciata fra i fabbri e i fabbricanti di chiodi, due quartieri popolosi che vantavano ciascuno svariati sergenti. Per una questione di anzianità e di etichetta fra corporazioni, tuttavia, si trovava al comando della difesa della città bassa. Fino a quando non arriveranno i veri soldati, rassicurò se stesso, il che certamente avverrà molto presto. Da qualche parte davanti a lui, a una distanza indeterminata si udivano dei suoni inquietanti: grida, urla, lo sporadico cozzare del metallo sul metallo. Qualcosa si dirigeva da quella parte, e aveva l'orribile sensazione che fosse un combattimento. Cercò di ricordarsi la teoria di base: l'Arte della Difesa Urbana di Ninas Elius, lettura obbligata per gli ufficiali della guardia nell'arco degli ultimi centoventi anni. Le azioni difensive in uno spazio limitato contro un nemico che avanza... Riusciva a ricordare quando si era concentrato su
quella sezione mentre si preparava per l'esame come guardia semplice vent'anni prima... Devono essere condotte in due fasi, che comprendono l'uso distruttivo degli arcieri e l'effetto di ostruzione ottenibile con una linea di fanteria. L'aveva imparato a memoria, sì, ma non si era mai fermato a pensare cosa potesse significare. Tira frecce contro i bastardi, prima, e poi picchia sodo con le spade immaginava. Sembrava la cosa più giusta da fare. Mentre scrutava nel buio davanti a sé imprecò contro la sua miopia e gli anni passati piegato sul banco di lavoro, che gli avevano fatto stortare le gambe e piegalo la schiena. L'elmo era troppo largo, benché sua moglie lo avesse imbottito all'ultimo momento con una sciarpa di lana, e con i paraorecchi abbassati era sicuro di sentire meno della metà del normale. L'effetto distruttivo degli arcieri... Be', era ora di prepararsi a fare qualcosa in proposito. Nervosamente, con voce più acuta e gracchiante di quanto avrebbe voluto, dette ordine di tendere gli archi e si accinse a fare lo stesso. Lo aveva provato migliaia di volte, ma quella notte dovette ritentare per tre prima di riuscirci nel modo giusto. Il rumore era più vicino, abbastanza a ridosso da consentirgli di valutare dove si svolgesse lo scontro; appena dentro il quartiere degli idraulici, dove i fabbricanti di cisterne avevano i loro negozi. Cercò di immaginare la scena, ma senza riuscirci; selvaggi assetati di sangue stavano sciamando davanti a botteghe che conosceva da quando era un bambino e l'idea era così incongrua da risultare quasi comica. Diede l'ordine di stare pronti a tirare. Il suo arco era quasi nuovo. La primavera precedente, quando era cominciata la stagione dei tornei era stato costretto ad ammettere che il suo vecchio arco, che nonostante i venticinque anni di età era ancora solido come il giorno in cui lo avevano fabbricato, cominciava però a diventare troppo pesante per lui e così si era rassegnato a comperarne uno nuovo. Anche questo, a volere essere sinceri, era ancora troppo rigido ma un uomo doveva sempre salvare comunque il suo orgoglio. Sentiva la corda secca contro i polpastrelli... Se ne vergognava, ma si era dimenticato di darle la cera; adesso non avrebbe potuto che prendersela altro che con se stesso se si fosse spezzata. Quanto alla freccia, aveva istintivamente scelto la peggiore della faretra, lievemente piegata e con l'impiumaggio un po' usurato; volava sempre verso sinistra e un po' troppo in alto, ma conosceva abbastanza bene i suoi difetti. Quasi certamente quella sarebbe stata l'ultima volta che la scagliava; c'erano cose più importanti da fare in una
battaglia che raccattare le frecce, dopo tutto. L'idea di puntarla deliberatamente contro qualcuno gli risultava bizzarra; non aveva passato gli ultimi quindici anni come ufficiale istruttore, raccomandando agli arcieri di non puntare mai un arco contro qualcuno, in qualunque circostanza? C'era del movimento sotto l'arco davanti a lui... Troppo buio per riuscire a vedere qualcosa, a parte una generica impressione di corpi in movimento, di un'ondata di uomini che avanzavano decisi, ma cauti non conoscendo il terreno. Non uomini della Città, comunque. Senza guardarsi intorno arretrò fino ad allinearsi con i suoi uomini e sentì la propria voce dare l'ordine di mirare e scagliare... (La resistenza dell'arco contro il polso sinistro; una fitta dolorosa alla schiena quando le scapole si congiunsero. Cercò un preciso bersaglio contro cui mirare, ma senza trovarlo; c'era solo un'informe linea d'ombra che avanzava a una settantina di metri da lui, dall'altra parte della piazza.) ... Tendere e mollare; rilassò le dita e la corda schizzò via, frustandogli l'interno dell'avambraccio sinistro, dove era protetto dal bracciale. Cercò di seguire il percorso della sua freccia, ma si perse in mezzo a tante altre e adesso la sua voce stava di nuovo gridando: Incoccare, tendere l'arco, mirare, scagliare! e lui stesso eseguiva i movimenti a tempo con gli ordini, come se fosse di nuovo un ragazzino tenuto d'occhio dal sergente di turno. Sentì un muscolo protestare nell'avambraccio sinistro, ma non c'era tempo di preoccuparsene, doveva andare a tempo con i comandi (incocca, tendi, mira, scaglia) per non perdere clamorosamente il ritmo, diventando così lo zimbello del quartiere... Una sagoma gli comparve improvvisamente davanti sbucando dalle tenebre e si rivelò per quella di un uomo; basso, robusto, di mezza età impugnava una lancia con entrambe le mani e aveva gli occhi pieni di terrore mentre si scagliava contro di lui partendo da non più di venti metri di distanza. Dunque è questo l'aspetto del nemico, realizzò nell'abbassare la mira. Rilassò le dita. Vide la freccia colpire il bersaglio, l'asta svanire nel petto dell'uomo fino a che solo le piumette rimasero visibili; vide l'uomo avanzare ancora di due o tre passi, fino a che le gambe gli si piegarono e cadde in avanti, sulla faccia; dietro di lui ce n'era un altro... Aveva abbastanza tempo per incoccare un'altra freccia? si chiese freddamente, mentre ogni secondo sembrava diventare lungo come un'intera esistenza. Forse, ma se si fosse sbagliato non avrebbe mai avuto il tempo di estrarre la spada. Lasciò cadere l'arco (il mio arco bello e nuovo, e qualcuno finirà certamente per calpestarlo) e portò una mano alla
cintura cercando l'impugnatura della vecchia spada regolamentare che era appartenuta a suo padre... (era un oggetto orribile, grosso e pesante, ripugnante per le mani di un uomo abituato a guadagnarsi da vivere con lavori di precisione; l'addestramento con la spada era obbligatorio, ma lui non si era mai impegnato molto; era già abbastanza doversi segare le dita fino all'osso con la corda di un arco, senza farsi venire anche i calli ai palmi delle mani con il cuoio di una impugnatura)... la quale uscì dal fodero con un rumore stridente. Se la sentì ingombrante e pesante in mano mentre il nemico avanzava, puntando proprio contro di lui. Ha gli occhi chiusi, notò Corodin sbalordito. Quel finocchio sta caricando a occhi chiusi. Il povero bastardo deve essere terrorizzato. Reggeva una spada dalla lunga impugnatura, ma dalla lama corta e a un solo taglio, che teneva alta sulla testa come un'insegna. Metrias Corodin, il fabbricante di strumenti, lo lasciò avanzare; e quando fu abbastanza vicino da essere a tiro sporse in fuori la lama e lasciò che il povero selvaggio spaventato ci si infilzasse da solo; a quel punto gli era abbastanza vicino da sentire l'aria sfuggire dai polmoni squarciati prima che l'uomo cadesse a terra costringendo Corodin ad abbassare il braccio e facendogli sfuggire nel contempo la spada di mano. Ormai a mani vuote alzò lo sguardo sul terzo invasore, che correva dritto contro di lui proprio come quell'altro, con una lancia fra le mani e lo stesso terrore dipinto sul volto. Era troppo tardi per recuperare la spada, ma ci provò lo stesso e la sentì cominciare a smuoversi proprio quando la punta della lancia dell'altro fu a un palmo da lui, tanto vicina che perfino i suoi occhi miopi la vedevano benissimo, fino a notare i freschi segni lasciati dalla affilatura sul metallo a forma di foglia. Si preparò a essere trafitto e in quell'interminabile secondo pensò Mi domando se faccia molto male, ma stava ancora aspettando quando l'uomo accanto a lui nella fila si chinò in avanti e deviò la lancia, vibrando poi un colpo che squarciò lo stomaco del selvaggio, facendolo urlare di dolore. Corodin era grato al suo vicino... Dei, sotto quel grosso elmetto arrugginito c'era Gidas Mascaleon, un tecnico da quattro soldi, una vera vergogna per tutta la professione... Ma prima che avesse avuto il tempo di dire grazie, un altro invasore ferì Gidas al volto, mozzandogli il naso quasi alla radice e mentre l'uomo era paralizzato dalla sorpresa e dal dolore, gli piantò la spada nel petto uccidendolo. Corodin intanto aveva liberato la sua spada e si guardò intorno cercando di individuare l'uomo che aveva ucciso il suo vicino, che però sembrava
essere sparito. Non aveva il tempo di trovarlo; un altro di loro era proprio lì davanti e gli correva incontro, ma era rallentato perché doveva scavalcare i gruppi di uomini morti e morenti che stavano cominciando ad accumularsi ai piedi dei difensori. Mentre Corodin lo osservava l'uomo sembrò perdere convinzione; c'era anche paura nei suoi occhi, ma soprattutto stava riflettendo, ponderando se il suo assalto avesse qualche possibilità di riuscire. Rimase per un momento immobile, incombendo sul corpo di un ferito; era un ragazzo alto e magro, con un accenno di barba e braccia snelle e muscolose che uscivano dalle maniche troppo larghe della cotta di maglia: un ragazzo di buon senso che capì che l'attacco era abortito e quindi si voltò e scappò dalla parte da cui era arrivato. «Abbiamo tentato tre cariche» disse l'uomo, un giovane comandante di prima linea. «Non c'è speranza, non riusciamo a colpirli.» «Perché diavolo ti sei intestardito?» ansimò Temrai. «Togli di mezzo i tuoi uomini, di modo che possa spazzarli via con i miei arcieri.» Bastarono quattro serie di frecce (incocca, tendi, mira, scaglia) e poi i pochi rimasti in piedi cedettero e scapparono, lasciando la strada libera per un centinaio di metri. Quando i suoi avanzarono Temrai provò una gelida rabbia nei confronti del giovane comandante il cui errore era costato la vita di così tanti dei suoi uomini, ma la ignorò, concentrandosi sulla strada che aveva davanti, cercando disperatamente di ricordare la topografia, se ci fosse qualche punto più avanti che potesse nascondere un'imboscata, com'erano disposte le strade, se ci fosse un'altra strada ampia parallela a quella che potesse consentire al nemico di prenderli di lato o alle spalle. Ogni volta che uno dei suoi cadeva avrebbe voluto correre da lui, proteggerlo, allontanare il suo corpo dal pericolo, giusto in caso fosse rimasta in lui una scintilla di vita. Ma la cosa non era più nelle sua mani adesso, non poteva permettersi il lusso di cedere ai suoi sentimenti più nobili e alla sua natura cavalleresca, non quando la responsabilità di tutto ciò che stava succedendo era sua. Non avrebbe potuto correre avanti, nel fitto dello scontro, neanche se avesse voluto. Mi sembra tanto una scusa, disse a se stesso, ma sapendo che non era così. Dove diavolo era il nemico? Avevano attraversato tre piazze e nessuno aveva tirato neanche una freccia. Niente aveva ostacolato la loro avanzata a parte alcuni carri parcheggiati. Una trappola? O stavano cercando di organizzare i loro uomini altrove? Forse avevano deciso di abbandonare quel distretto per organizzare una difesa più efficace in un punto più
vantaggioso? C'era una mappa da qualche parte, ma non ricordava chi fosse l'ultimo a cui l'aveva vista in mano; peraltro avrebbe dovuto ricordarsi la zona. Si guardò intorno e urlò, furioso perché nonostante ciò che aveva ordinato, la fila non avanzava parallela. L'ala destra era rimasta indietro e il centro era troppo avanti. Dei, se li avessero attaccati in quel momento... Giù di qua, borbottò Loredan fra sé, oltre le stalle e quella taverna che vende frittelle di montone; dovremmo sbucare di fronte alla sede della corporazione dei fabbricanti di cinture, il che andrebbe benone. Ammesso che siano avanzati con la velocità che mi immagino e che io non abbia sbagliato qualche svolta, a causa del buio. Eccoci; ma siamo troppo in anticipo, dobbiamo dargli il tempo di arrivare qua dopo avere superato i difensori che bloccano l'accesso al distretto dei fabbricanti di candele. Allora li potremo attaccare da dietro e frontalmente così loro non avranno abbastanza spazio per girarsi, né per usare gli archi. Almeno in teoria. Grande cosa la teoria. Si fermò e alzò una mano; dietro di lui la colonna si bloccò. Contò lentamente fino a cinquanta... Perché cinquanta? Be', un numero valeva l'altro... Prima di abbassarla di nuovo e svoltare l'angolo che immetteva sulla via principale, che era piena di gente. Sembrava il giorno della parata della Marina, a guardare da dietro. Chiunque fosse non dovette accorgersi di nulla; e poi fu al suolo, con Loredan che lo scavalcava seguito da una frotta di soldati che si affrettò ad allargarsi fino a occupare tutta la larghezza della strada. Solo qualche nemico si era girato per fronteggiarli quando furono abbastanza vicini da entrare in contatto, e il seguito fu solo uno sporco, duro lavoro, che impegnava le braccia e le spalle: era come piantare pali o spalare terra per arginare un fiume in piena. Si poteva quasi avvertire le ondate di panico che si diffondevano dal punto in cui Loredan e i suoi uomini si stavano aprendo la strada verso il centro, dove i nemici erano così fitti che la loro preoccupazione maggiore era quella di non farsi infilzare dalle punte acuminate dei compagni che seguivano. Fu un po' come guardare qualcosa sciogliersi, come vedere della materia solida liquefarsi al calore. Dei, dopo tutto era una trappola e io ci sono caduto. Temrai cercò di guardarsi alle spalle e di valutare la portata del disastro, ma c'erano troppe teste in mezzo. Riuscì solo a vedere teste, spalle e una foresta di punte di
lancia. Ma avvertì il panico che scorreva attraverso l'esercito mentre gli uomini di retroguardia spingevano in avanti per cercare di allontanarsi il più possibile da un pericolo che non riuscivano a loro volta a vedere. Sembrava non esserci alcuna via d'uscita, a meno che miracolosamente un'altra parte del suo esercito passasse di lì e assalisse alle spalle quelli che gli avevano teso l'imboscata. Qualcuno stava tirandolo per un braccio. Girò la testa. «...Attraverso le case» stava dicendo l'uomo. «Dobbiamo sganciarci passando attraverso i muri delle case; sono solo di legno e mattoni.» Dapprima sembrò solo un mormorio senza senso, ma poi Temrai afferrò ciò che l'uomo stava cercando di dirgli. Più o meno dall'altra parte della strada rispetto a dove si trovavano, sul lato sinistro della via, c'era una fila di casette in rovina. Se le ricordava e gli tornò in mente di avere sentito dire che erano state abbandonate a se stesse dal proprietario che le aveva comperate come investimento, anticipando uno sviluppo edilizio di quella parte della via principale. Dall'altra parte rispetto ad esse, se ricordava bene, c'era una lunga strada che curvava intorno alla via principale come un arco rispetto alla sua corda. Erano abbastanza numerosi da riuscire ad abbattere i muri e poi sarebbero stati in salvo e anzi la battaglia avrebbe potuto essere ruotata di novanta gradi. Forse sarebbe perfino riuscito ad attuare a sua volta una manovra di aggiramento. «Fallo» gridò, cercando di sovrastare il rumore. «Prendi tutti gli uomini possibili. E fai in fretta, per carità.» Senza attrezzi o equipaggiamento e senza una idea precisa di cosa dovessero fare, si scagliarono contro i muri della casette, abbattendo le porte a calci, svellendo le persiane, attaccando con le asce l'intonaco morbido. Quando i muri cominciarono a cedere la massa umana premette in avanti come un branco di cavalli imbizzarriti. Qualcuno, più o meno una dozzina di uomini, rimase sepolto dalle macerie; ma gli altri si aprirono la strada come erbacce che si facessero largo fra le fessure di un pavimento. Non appena gli uomini cominciarono a sbucare dall'altra parte, Temrai sentì la tensione rilassarsi; non erano più intrappolati. Non ebbe altra alternativa che seguire il flusso, chiedendosi mentre lo faceva quanti dei suoi sarebbero stati lasciati indietro, a farsi massacrare mentre cercavano invano di infilarsi nei varchi aperti nei muri. Troppi, decise e smise di pensarci. Il Patriarca Alexius si svegliò al suono delle grida e della gente che
correva. Dapprima pensò che l'edificio fosse in fiamme... Non sarebbe stata la prima volta... Ma il rumore era diverso. Cercò di cogliere qualche parola in mezzo alle urla incoerenti. Qualunque cosa stesse succedendo, sembrava grave. Il buon senso suggeriva che fosse l'ora di balzare dal letto e mettersi qualcosa addosso, ma per qualche ragione Alexius rimase dove si trovava. Il confuso vociare non sembrava avere ancora alcun senso, inoltre si era svegliato con l'emicrania. Chiuse gli occhi, solo per un attimo... ... E vide un banco da lavoro in un lungo e ampio laboratorio. A quanto pareva era in una zona buia del locale, ma vicino alla porta aperta c'era moltissima luce; due uomini stavano fissando quello che aveva l'aria di essere un arco completato a metà appeso a un gancio infisso nel muro. ... Il più giovane, poco più di un bambino, reggeva con fermezza l'arco sul gancio con entrambe le mani, mentre il più anziano (che era Bardas Loredan) stava attaccando un peso alla corda. Doveva essere di parecchi chili, perché Loredan sbuffò nel sollevarlo dal pavimento e nel reggerlo con entrambi gli avambracci mentre vi legava l'estremità della corda. «Tienilo ben fermo» disse e, con cautela, tolse le braccia di sotto lasciando che il peso penzolasse dalla corda. L'arco sul gancio si piegò di conseguenza e Alexius notò che sul muro era tracciata una sorta di scala graduata. L'estremità delle due punte dell'arco, piegate per effetto del peso, raggiunsero una linea. «Quaranta chili» disse il ragazzino, dopo avere osservato la scala. «Loredan annuì, slegò il peso e lo rimise gentilmente per terra.» «Dobbiamo diminuire lo spessore dalla parte della pancia» disse. «Tiralo giù e fissalo a un morsetto, poi prendimi il raschietto piccolo.» Il ragazzino fece quello che gli era stato detto, chiedendo: «Perché dalla pancia? Il legno è più spesso sul dorso, non dovremmo assottigliare quello, piuttosto?» Loredan scosse la testa mentre il ragazzo gli allungava una lama di una ventina di centimetri con una impugnatura che finiva ad angolo retto su entrambi i lati. «Stai dimenticando la teoria di base» disse «circa il dorso e la pancia. Farai meglio a recitarmela un'altra volta, così ti tornerà in mente.» Il ragazzino sospirò. «La conosco» disse con un'espressione ferita. «Stavo solo dicendo che sul dorso c'è una strato di legno spessissimo; quindi perché non assottigliarlo?» Senza alzare lo sguardo, Loredan scrollò il capo. «Ti stai dimenticando
di quello che ti ho spiegato a proposito del durame e dall'alburno» disse. «Niente affatto» ribatté il ragazzino. Loredan sorrise. «Tanto per rinfrescarti la memoria, proviamo a metterla così: Lord Temrai...» Alexius vide una traccia di turbamento affiorare sul viso del ragazzo. «... È l'alburno, perché era giovane e piegò il clan inducendolo a fare qualcosa che, in teoria, non avrebbe dovuto essere capace di fare. Piegandolo, gli ha impresso potere.» «Non mi piace questo esempio» disse il ragazzino. «Se non ti piace, vuole dire che ti giova. Ora, il Patriarca Alexius è il durame, perché era vecchio e fu piegato quando la Città cadde, ma poi riprese la sua posizione originale, tutta la forza dell'Ordine fu concentrata in lui; ed è così che ha conquistato il suo potere, che è infinitamente più grande di quello del clan.» «Ah» disse il ragazzino. «Adesso credo di avere capito.» Poi spalancò gli occhi nuovamente perché qualcuno aveva aperto la porta e gli stava gridando qualcosa. «Cosa?» farfugliò. «Parla, non...» «Il nemico» ripeté il giovane sulla soglia «è in città. Qualcuno ha aperto le porte. I selvaggi stanno conquistando la Città.» «Oh» rispose Alexius. «Ecco la spiegazione.» Aggrottò la fronte, chiedendosi perché avesse pronunciato quelle parole. «Sappiamo che cosa dovremmo fare?» Il giovane fece spallucce. «I precettori e i bibliotecari vi vogliono vedere il prima possibile» disse «per decidere se cercare di nascondere la biblioteca o di seppellirla.» Strusciò nervosamente i piedi. «Avete ancora bisogno di me, Patriarca, o posso andare?» Alexius scosse la testa. «No, corri pure via» disse. «Se fossi in te andrei a casa, prima che tua madre si preoccupi.» Il giovane annuì con gratitudine e si richiuse la porta alle spalle, lasciando di nuovo Alexius al buio. Il Patriarca si mise a sedere sul letto e tastò con le dita dei piedi alla ricerca delle pantofole. La prima cosa da fare era vestirsi e andare a incontrare i precettori e i bibliotecari; ma la cosa aveva senso, ora che la Città stava per cadere? Non c'era alcuna speranza di salvare la biblioteca, fatta di oltre centomila libri ordinati in oltre duemila scaffali. Quanto a salvare se stesso, sarebbe stato uno sforzo assolutamente futile; lo sforzo di correre al porto per cercare un posto su una nave lo avrebbe ucciso altrettanto efficacemen-
te di una freccia. Se avesse pensato di essere in grado di aiutare a organizzare una efficiente evacuazione ci si sarebbe impegnato volentieri, ma la verità era che sarebbe solo riuscito a essere di intralcio. Se solo ci fosse stata un po' di luce, avrebbe potuto passare le sue ultime ore o forse minuti, ammirando i giustamente famosi mosaici sul soffitto e usandoli come strumento per concentrarsi e compiere un'ultima meditazione. Ma non ce n'era; e non aveva la minima intenzione di andare a tentoni nel buio solo per trovare il suo acciarino. Ah, al diavolo; i mosaici non gli erano mai particolarmente piaciuti, comunque. Le palpebre ricominciarono ad abbassarglisi e si abbandonò al torpore, ma la porta si spalancò di nuovo e la luce irruppe nella stanza dalle scale. Non era il giovane di prima e neanche un guerriero delle pianure con un coltello gocciolante sangue in ogni mano; era qualcuno che conosceva: se solo fosse riuscito a collegarlo a un nome... «Patriarca Alexius? Patriarca? Scusatemi, siete qui dentro?» Spalancò gli occhi. «Salve» gridò. «Chi è là?» Il bagliore di una lanterna illuminò il volto dell'uomo. «Sono io, Venart. Vi ricordate? Ci siamo conosciuti un po' di tempo fa, quando eravate...» «Sì, sì naturalmente.» Alexius lo fissò, chiedendosi se fosse un altro dei suoi sogni. «Prego, entrate» aggiunse. «Che cosa posso fare per voi?» Era una conversazione assurda da fare nel bel mezzo del saccheggio della propria città, rifletté, ma qualunque interruzione alla sua veglia di morte era comunque benvenuta. «Mia sorella» disse Venart. «Lei... Be', mi ha mandato a prendervi.» «Oh.» La cosa avrebbe avuto molto più senso se si fosse trattato di un sogno, ma chiaramente non lo era. Sentiva l'odore dell'olio che ardeva nella lanterna e Venart, con il volto pallido per l'imbarazzo mescolato a un sano terrore, era evidentemente lì per davvero. «È stato... Molto gentile da parte sua.» «Ha insistito» rispose Venart. «È una cosa che mi turba davvero. Sembrava quasi che sapesse cosa stava per succedere.» Fissò Alexius per un attimo. «Patriarca» disse poi «scusatemi se vi sembra una domanda sconveniente, o contro la vostra etica o che altro, ma sono preoccupato. È una strega? Non mi sarebbe mai passata per la testa un'idea simile, ma pensando a tutte le cose che avete detto la prima volta che siamo venuti qui e poi dopo questo...» Non lo è; ma forse so chi invece lo è. «Vi prego» rispose Alexius «non chiedetemelo. La cosa che ho appreso nei miei recenti studi sull'argomento
e che non ne so ancora praticamente niente.» Si fregò gli occhi con le nocche e aggiunse: «Se abbiamo intenzione di scappare dalla Città, non dovremmo cominciare a muoverci? Immagino che non sarà un'impresa facile.» «Come? Oh dei, sì, dobbiamo andarcene subito.» Venart si voltò a metà e poi si bloccò. «Voi... Non avete intenzione di portarvi dietro molta roba, immagino? Penso che dovremmo evitare di caricarci di borse e oggetti pesanti.» Alexius rifletté per un attimo. «Non credo ci sia nulla di cui ho veramente bisogno» disse. «Se foste così gentile da allungarmi i miei vestiti, sono là, sull'appendiabiti.» «Niente libri o roba del genere?» Libri d'incantesimi, grimoires, strumenti magici, ampolle d'ottone, vasi di vetro contenenti il mio demone familiare? «No» confermò Alexius. «C'è un mucchio di cose che porterei volentieri, ma nessuna di cui non possa fare a meno. È bello potere dire una cosa del genere alla mia età, non credete?» Quando si misero in movimento, Alexius era serenamente convinto di non riuscire a sopravvivere neanche fino alla porta della seconda città, tanto meno oltre. Ma le strade erano abbastanza tranquille; in distanza si udivano vagamente suoni inquietanti, ma nessuno era un chiaro grido di agonia e sulla città bassa non aleggiavano bagliori rossastri. Indicò lui la strada dopo la porta, sperando che i suoi ricordi delle stradine secondarie che conducevano al porto fossero ancora abbastanza accurati e affidabili dopo venti anni. «Come avete fatto ad arrivarci? Ai miei alloggi, voglio dire? Siete arrivato prima che tutto cominciasse, o...» «Sì» disse Venart (che stava sbuffando, dovendo fare uno sforzo per tenere il passo del Patriarca). «Stavo cenando a tarda ora al mio albergo quando ho sentito le prime notizie e quindi sono venuto immediatamente da voi. Adesso» aggiunse «dovrò lasciarvi ai moli... Ci sarà una barca che vi condurrà a bordo della nave, ammesso che non sia stata rubata... perché devo tornare indietro e andare a prendere qualcun altro. O devo provarci, perlomeno.» Venart era quasi alle lacrime, notò Alexius quando passarono sotto una luce. Aveva l'espressione di un uomo tormentato da un enorme problema non provocato da lui: un problema che sapeva che stava per capitargli addosso e che avrebbe potuto benissimo evitare; era la classica rabbia disperata di chi grida a se stesso non-è-giusto, tanto più temibile
della normale ira o della paura. «Loredan?» domandò Alexius. Venart annuì. «Anche se non so davvero come potrò trovare il Generale nel bel mezzo della battaglia, tanto meno convincerlo a mollare tutto e venire con me...» «Sono certo che farete del vostro meglio» disse Alexius con una nota di fermezza, come se stesse incoraggiando un bambino a fare qualcosa che non voleva fare, ma che sarebbe stata positiva per lui. «Vedrete che ci riuscirete» aggiunse, ed era sincero. Ormai erano a poche centinaia di metri dal porto; ma adesso dovevano per forza abbandonare le stradine secondarie e unirsi alla massa di gente che affollava il corso principale. Non fu in alcun modo un percorso piacevole; la folla era numerosa: donne e bambini, oltre che uomini, e tutti spingevano e sgomitavano, mentre su entrambi i lati della strada gli inevitabili opportunisti si abbandonavano all'ultima opportunità di saccheggiare i migliori negozi. Qualcuno aveva rovesciato dei carri e le merci sparse non favorivano il flusso delle persone. Stregoneria, mormorò Alexius a se stesso quando realizzò che la folla si accavallava e spingeva tutto intorno a loro, ma senza mai ostacolarli, senza che nessuno gli pestasse anche solo un piede. Non c'era nulla di preciso contro cui puntare il dito e che potesse essere legittimamente definito qualcosa di sovrannaturale, ma c'erano sempre spazi e varchi nel muro di gente, esattamente nella direzione in cui loro volevano andare. «La barca non è proprio attraccata alle banchine» disse Venart in un sussurro roco. «Sarebbe stato come invitare la gente a impadronirsene. Ho detto ai barcaioli di nascondersi sotto le arcate del molo lungo, dove penso che nessuno possa vederli. Badate, non mi aspettavo un'esplosione di panico di queste proporzioni.» Quasi per caso il movimento della folla li spinse proprio verso il molo lungo. Qualche idiota aveva fatto scoppiare un incendio, accidentalmente o deliberatamente, in uno dei magazzini, e la luce che si rifletteva sull'acqua era sufficiente a rendere visibile un lungo tratto del porto. «Là» sibilò Venart. «Oh dei, c'è della gente che sta cercando di salire a bordo, proprio come temevo. Venite.» Alexius vide una barca con sei remi per lato, che si teneva a una quindicina di metri dal molo. Tutto intorno, nell'acqua, c'erano uomini e donne che nuotavano; alcuni stavano tentando di arrampicarsi sulla barca e i rematori li stavano respingendo a colpi di remi e perfino con i calci. Venart
gridò e fece dei cenni; per caso uno dei rematori alzò lo sguardo, lo vide e gridò qualcosa ai suoi compagni. Si fecero largo a fatica fra i nuotatori, usando molta determinazione e si diressero verso il punto in cui si trovavano Alexius e Venart. «Questa sarà la parte più complicata» mormorò Venart. «Immagino non siate in grado di nuotare.» «No, in effetti no.» «Peccato.» Diversa gente stava guardando la barca avvicinarsi e alcuni stavano spintonando per mettersi in prima fila. In effetti furono proprio le spinte e gli sgomitamenti alle loro spalle che, a un certo punto, fecero cadere in acqua Venart e Alexius, risolvendo un problema, ma creandone un altro. Alexius sentì l'acqua richiudersi sopra la sua testa. Ah, be' pensò, immagino che valesse comunque la pena di provarci. Ma sapevo che non sarebbe andata a finire bene. Poi sentì che qualcosa lo afferrava con forza per un braccio e fu trascinato (sempre sott'acqua) verso la direzione nella quale gli sembrava di avere visto la barca. Dato che praticamente si considerava già morto, naturalmente poteva permettersi di affrontare la situazione con filosofia... ... Fino a quando la prima boccata d'acqua non gli riempì i polmoni e fu preso dal panico, proprio nello stesso istante in cui la sua testa riaffiorava dall'acqua e molte mani lo afferravano e lo issavano; ci fu un suono sordo quando colpì il fondo della barca, poi qualcuno gli premette il petto... Stava cercando di ucciderlo? No, era qualcosa che serviva a fargli espellere l'acqua che aveva nei polmoni. Era tutto piuttosto sgradevole e quando la vista gli si oscurò e perse conoscenza, la cosa non gli dispiacque. CAPITOLO VENTUNESIMO Il prefetto asciugò il sangue che gli era colato negli occhi e guardò giù dalle mura, verso la torre di guardia che sovrastava il ponte e poi alzò lo sguardo verso il punto in cui prima sorgeva il bastione fatto erigere da Loredan. Da entrambi i lati poteva vedere grossi contingenti nemici, ciascuno dei quali soverchiava per numero la forza che era riuscito a raccogliere intorno a sé ai piedi della sedicesima torre. In altre circostanze avrebbe potuto legittimamente dirsi soddisfatto. Quattro attacchi simultanei da entrambe le direzioni, effettuati da forze
superiori, erano stati respinti con perdite minime dei difensori. Quelle degli attaccanti erano state pesanti... Ma che importanza aveva? Cosa contava quanti ne avevano uccisi, visto che continuavano ad avanzare? Avendo valutato la situazione e fatto i preparativi possibili, il prefetto prese atto delle sue condizioni, che non erano buone. Aveva preso un colpo d'ascia appena sopra l'orlo dell'elmo; la lama non era penetrata, ma il bordo tagliente di un pezzo di elmo gli aveva procurato una profonda ferita alla fronte e il sangue che colava gli rendeva difficoltosa la vista. Una freccia scagliata a distanza ravvicinata lo aveva colpito alle costole; anche in questo caso la cotta di maglia aveva deviato il colpo, ma il violento impatto gliene aveva fratturato almeno una, forse due, e respirare era diventato doloroso. Si era anche slogato una caviglia e stirato un muscolo della spalla parando un fendente di un avversario molto più forte di lui. Comunque, era ancora vivo. Era almeno mezz'ora che sapeva che avrebbe finito per morire. La sconfitta è un processo graduale; comincia con la speranza che le cose possano migliorare, si sviluppa nella percezione che la situazione non è favorevole e che bisogna fare qualcosa per raddrizzarla, poi gradualmente l'enfasi si sposta da: sembra che siano in vantaggio a potremmo ancora vincere se riuscissimo a tirare fuori qualcosa dal cappello. Infine, una dopo l'altra le possibilità di salvezza si cancellano e si arriva al punto in cui il cervello accetta che realisticamente l'esito può essere uno solo. Da quel momento in avanti conta poco se lo schieramento sconfitto si batte coraggiosamente fino all'ultimo o resta semplicemente lì a farsi massacrare. Il nemico avanzò per la quinta volta; Perché non hanno usato gli arcieri per spazzarci via? si domandò il prefetto. Era buio e in effetti non c'era abbastanza luce per individuare bersagli specifici, ma una fila di uomini pigiati tutti insieme sul camminatoio rappresentava un bersaglio che qualunque arciere era in grado di colpire a occhi chiusi. Vedendo il nemico venire avanti... Camminando, non di corsa, il che diede alla cosa un aria di calma innaturale, quasi un senso di serenità... Il prefetto strinse l'elsa della spada e promise a se stesso di fare del suo meglio, visto che quella era la sua ultima opportunità. Oh, be', ci siamo. Un uomo si materializzò dall'ombra, una sagoma sotto un copricapo di cuoio che stringeva in pugno un'alabarda. Il prefetto parò, realizzò che il colpo era stato una finta, capì che era troppo tardi per fare qualcosa. Adesso era stretto contro il parapetto, ancora vivo, ma improvvisamente
troppo debole per riuscire a muoversi. L'uomo avanzò e lo scavalcò, pronto ad affrontare chiunque altro si fosse messo sulla sua strada; non si curò più del prefetto che ormai era come fosse già morto e di cui quindi non occorreva più preoccuparsi. Non credo che me la caverò, stavolta. Mi domando se... Io... Loredan avanzò, caricò il peso sul piede in avanti e fece un affondo. L'altro era squilibrato e non avrebbe potuto opporre una parata efficace neanche se avesse saputo come fare. I primi venti centimetri della lama penetrarono appena sotto la gola. Si sfilò dalla spada cadendo all'indietro e lasciò spazio al successivo avversario. Ammazzare gente va benissimo, rifletté Loredan con amarezza, ma stiamo perdendo. Avrebbero potuto tentare di risalire la collina, ma anche se fossero riusciti a raggiungere la porta della seconda città, a chiudersela alle spalle e a guarnire la cinta di mura, sarebbe stata solo questione di tempo. Si sarebbero trovati intrappolati in un assedio in spazi inferiori e in condizioni meno vantaggiose, senza nessuna prospettiva di ricevere rifornimenti o di essere soccorsi. Il massimo che avrebbero potuto sperare di ottenere difendendo la seconda città, sarebbero state delle condizioni di resa un po' meno onerose. Quindi, al diavolo, si disse Loredan; non posso fare di più. La sola cosa che mi resta da fare è tentare di arrivare alle banchine e filarmela. Era più facile a dirsi che a farsi. Non si trattava solo di decidere di non avere più voglia di giocare; doveva trovare il modo di sottrarsi al combattimento e aggirare la collina. Quasi certamente era troppo tardi, nel qual caso tanto valeva che abbassasse la spada e la facesse finita. Ma era una cosa contraria all'istinto che aveva acquisito in oltre dieci anni di attività professionale. C'era una sola possibilità che gli veniva in mente, e se non avesse funzionato era finita. D'altro canto non è che avesse molte alternative. Menò un ampio fendente molto alto e mentre il suo più diretto avversario si dibatteva in preda al panico con mezza faccia squarciata, si lasciò cadere sulle ginocchia, con il viso a pochi centimetri dallo strato di corpi che copriva il suolo. Loredan cominciò a scavalcarli avanzando a quattro zampe, mettendo una mano sulla faccia di qualcuno, poi un ginocchio,
spingendosi innanzi, scivolando su morti e morenti. Andò avanti così per quelle che gli sembrarono delle ore, scavalcando teste e calpestando dita tese. Eppure doveva farlo, e se nessuno avesse guardato in basso e tutti avessero continuato a dare per scontato che lui non fosse altro che l'ennesimo morente che si contorceva per terra, c'era una possibilità che riuscisse perfino a cavarsela. Arrivò in un punto in cui non c'erano più corpi e decise che era ora di rialzarsi. Lo fece e si trovò faccia a faccia con un guerriero del clan, un ragazzo di circa sedici anni che lo fissò inorridito. Loredan lo colpì con una ginocchiata ai testicoli e proseguì, infilandosi in mezzo ad altri due nemici... ...A quanto pareva, si trovò fuori dalla battaglia. Nessuno si era girato a guardarlo, tanto meno lo aveva seguito. Restò un attimo fermo a riprendere fiato, poi ripartì di corsa mettendosi al riparo dietro un'arcata. Forse me la caverò. Forse. Troppo presto per dirlo, comunque. Comunque, la prossima è la parte più facile. Scrutò nell'oscurità oltre l'arco. Di lì si accedeva a una via secondaria che passava dietro ai vecchi magazzini della frutta e sbucava dalla parte opposta rispetto al cortile dei fabbricanti di spilli; girando a destra e superando la via dei cesellatori si arrivava a una taverna e da lì, andando a sinistra, oltre l'arcata e fino alla congiunzione con l'estremità occidentale del corso dei cordai avrebbe dovuto arrivare proprio dietro gli edifici della dogana. Non aveva fatto venti metri nell'oscurità quando inciampò in qualcosa, cadendo in avanti. Picchiò un fianco, ma con una rapida giravolta fu di nuovo in piedi nel giro di un secondo, con la spada in pugno in una classica posizione di guardia a due mani. In qualunque cosa avesse inciampato, aveva emesso un gemito. Aveva tre opzioni: ucciderlo per evitare di essere seguito, lasciarlo lì, o investigare. Mentre cercava di decidere, gemette di nuovo. Oh, al diavolo, borbottò Loredan sottovoce. «Chi è là?» disse. Nessuna risposta a parte un altro gemito fioco. Chiedendosi cosa in nome degli dei stesse pensando di fare, rimise la spada nel fodero, si chinò e tese una mano. Toccò un volto, liscio, morbido, una ragazza o un bambino. «Che cos'hai?» sussurrò. «Una freccia» rispose una voce femminile. «Puoi alzarti?»
Un gemito. Loredan sospirò. Era una complicazione di cui avrebbe fatto volentieri a meno. «Lo considererò un sì» disse. «Vieni.» In qualche modo riuscì a mettersi un braccio della sconosciuta intorno alle spalle, poi fece forza sulla schiena e le ginocchia e la sollevò. Non era molto pesante. «Adesso cammina» disse. «Per favore. Se non lo fai, sarò costretto a lasciarti qui.» «Ci proverò» disse la fanciulla. «È difficile.» «Certo» rispose Loredan. «Se fosse facile chiunque sarebbe in grado di farlo e allora che scopo ci sarebbe? Forza, ti reggo. Cerca di tenerti un po' anche tu, se ci riesci.» «Non posso.» «Sì, lo so, è difficile, ma come ti stavo dicendo...» «Non posso» ribadì la ragazza. «Non ho le dita.» «Che cosa?» «Non ho le dita.» Niente dita, niente dita. Chi conosceva in quella città che fosse femmina, giovane, snella e senza dita? Oh, in nome di tutti gli dei... Gorgas Loredan si inginocchiò dietro le scale che conducevano a una balconata di negozi, in attesa che gli uomini lo superassero. Erano circa dodici (in altre parole, troppi) e avevano un carro. Con suo grande disappunto la processione si fermò a dieci metri di distanza dal suo nascondiglio. La scorta (adesso erano abbastanza vicini perché potesse notare con certezza che si trattava di gente delle pianure) accese torce da una lanterna che pendeva dal carro e cominciò a esplorare l'area circostante. Gorgas cominciò a sentirsi decisamente nervoso e aveva ormai preso la decisione di scattare di corsa sperando che avessero troppo da fare per inseguirlo, quando smisero di curiosare e, dopo essersi divisi a coppie, cominciarono a scaricare i barili. L'idea di un rapido scatto continuava ad allettarlo. Era vero che c'era un arciere seduto al posto di guida, con una freccia incoccata e pronta, ma sembrava ragionevole pensare che avesse funzioni prettamente difensive. Che vantaggio avrebbe ricavato dallo sprecare una preziosa freccia per tirarla dietro a un civile in fuga e poi con così poca luce? Decise di cominciare a correre dopo avere contato fino a cinque.
Era arrivato a quattro, quando due selvaggi fecero rotolare un barile fuori da una bottega e ne fecero uscire una coppia di bambini, un ragazzino e una ragazzina, rispettivamente di circa sei e dieci anni, che dimostrando un istintivo buon senso scapparono in due direzioni diverse, ma l'arciere ruotò sul posto di guida, tenne sotto mira la ragazzina e la trafisse con una freccia all'altezza dei reni dopo che ebbe coperto circa venti metri, poi prese un'altra freccia, la incoccò e con un unico movimento fluido centrò il ragazzino al collo a quasi quaranta metri di distanza, proprio mentre stava per raggiungere la stradina nella quale anche Gorgas aveva progettato di lanciarsi. Lo scatto di corsa a cui aveva pensato non pareva più una prospettiva così invitante. Gorgas imprecò sottovoce. Il tempo passava e lui aveva cose da fare e un mucchio di strada da coprire. Detestava il genere di cose che si accingeva a fare e il tipo di gente che aveva la tendenza a farle, tuttavia in casi estremi si arrivava a un punto in cui l'eroismo diventava il comportamento più logico e sicuro. Il più silenziosamente possibile si mise in posizione, prese una freccia dalla sua faretra (dannazione: gliene erano rimaste solo tre), la incoccò, tese l'arco e tirò. Anche con poca luce fu un colpo abbastanza banale e Gorgas era un ottimo arciere. Comunque tirò un sospiro di sollievo quando la freccia colpì il bersaglio e l'uomo delle pianure si accasciò su un fianco, cadendo dal carro. Gorgas incoccò un'altra freccia mentre si alzava in piedi, vacillando un po' perché gli si erano intorpidite le gambe. Solo uno degli altri selvaggi si era reso conto di cosa fosse successo; fra il momento in cui vide il colpo e quello in cui aprì bocca per chiamare i compagni, Gorgas era già più vicino al carro di ciascuno di loro. Udì svariate grida e il rumore metallico delle spade estratte dai foderi mentre balzava agilmente al posto di guida, mollava l'arco e afferrava la lunga frusta. Al carro erano aggiogati dei muli; pensò che non avrebbero ubbidito, il che sarebbe stato imbarazzante. Invece ebbe fortuna, una piacevole novità. Prima ancora di accorgersene ebbe svoltato l'angolo e stava filando. Una delle prime cose che fece fu di mettersi in testa il copricapo dell'arciere che aveva ucciso, il che servì a fare sì che nessuno dei gruppi di uomini del clan in cui si imbatté successivamente, prendessero nota di lui. Via via cominciò a sentirsi più fiducioso e smise di stare continuamente all'erta, con il risultato che non si avvide di un uomo che, scivolato fuori da
una stradina laterale mentre lui la oltrepassava, si era aggrappato al retro. Se ne accorse solo quando quello lo sorprese alle spalle, lo spinse fuori dal carro e afferrò le redini. Atterrò pesantemente, picchiando una spalla e spezzando le ultime due frecce che gli erano rimaste. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe provato dolore, ma data la situazione si preoccupò solo di afferrarsi a sua volta al retro e di tenere la testa bassa per non farsi scorgere, dato che il suo aggressore aveva tirato le redini e fatto fermare il carro. Il ladro, chiunque fosse, era balzato giù e si era di nuovo infilato nella stradina dalla quale era sbucato. Gorgas sogghignò; bell'atleta il suo assalitore, ma un autentico idiota. Strisciò in avanti, sedette al posto di guida e prese le redini. Questione di un minuto... C'era stato qualcosa di familiare nel modo in cui l'uomo era saltato giù dal carro. Gli aveva fatto venire in mente un altro carro, un vecchio e cigolante carro per il fieno con un assale frontale tutto storto; lui, Clefas e Sis erano in basso e passavano i covoni, mentre suo padre e Bardas erano a bordo e li afferravano, stivandoli e cercando di farcene stare molti di più di quanto sarebbe stato normale, per evitare di dovere fare un altro viaggio... «Bardas?» chiamò. «Sei tu?» L'uomo era sul punto di lanciarsi nuovamente sul carro, ma si bloccò come se fosse andato a sbattere contro un muro. «Gorgas?» L'uomo calvo sorrise tanto apertamente che il bagliore del fuoco dall'altra parte della strada si rifletté sui suoi denti. «Che fortuna» disse. «Ero proprio venuto a cercare te.» «Gorgas?» «Be', non startene lì impalato, sali su questo dannato carro.» Bardas Loredan sembrò ripiegarsi su se stesso, come un sacco di grano bucato mentre il suo contenuto si sparge sul pavimento. Era riuscito a fare fronte a tutto il resto, perfino allo shock di inciampare nella sua ex-allieva e nemica giurata in una buia stradina secondaria. Ma questo era qualcosa che non poteva reggere; non dopo tutte le altre cose che gli erano successe. Adesso capiva la ragione del mal di testa e anche del modo relativamente facile in cui era riuscito ad arrivare fino a lì. Cominciava a desiderare di non esserci riuscito. «Bardas» disse l'uomo sul carro «non abbiamo tempo. Metti il sedere su questo sedile e andiamo, finché abbiamo ancora una possibilità di farcela.»
Bardas aveva quasi deciso quale fosse la cosa giusta da fare, quando improvvisamente si ricordò della ragazza, che giaceva sanguinante nella stradina alle sue spalle. Chiuse gli occhi e mormorò un'imprecazione. La lettera di Gorgas aveva menzionato una nave; la nave poteva portare la fanciulla via di lì se fosse stata ancora viva e se Gorgas fosse stato davvero in grado di cavarsela e aveva una nave che lo aspettava. Ancora una volta, non aveva scelta. Una volta, una volta sola, gli sarebbe tanto piaciuto essere in grado di decidere per se stesso. Un giorno, chissà. «Hai davvero una nave che ti attende?» chiese. «Non è una bugia?» «Se è ancora là, il che diventa ogni minuto meno probabile.» «Giusto» disse Bardas. «C'è una ragazza ferita gravemente nella stradina qui dietro. Aiutami a caricarla sul carro e portala in salvo. Mi hai capito bene?» «Dobbiamo proprio farlo? Senza offesa, Bardas, ma ti sembrano il posto e il momento?» Avrebbe dato qualunque cosa per il piacere di dargli un pugno in faccia e sentire qualcosa che si rompeva, ma non poteva. «Stai zitto» disse. «Vieni qui.» Grazie al cielo l'ombra proiettata dagli alti edifici che aveva alle spalle era troppo fitta perché riuscisse a vedere chiaramente il volto di Gorgas. Era sicuro che non lo avrebbe sopportato. Nella fattispecie vide solo un'indistinta sagoma maschile afferrare la ragazza per i piedi, mentre lui la sosteneva sotto le ascelle. Arrancarono fino al retro del carro e la depositarono all'interno. Poi la luce di una lanterna le illuminò il viso e Gorgas disse: «Dei, Bardas, è incredibile.» «Che cosa?» «Stavo cercando anche lei.» Sollevò la testa e la luce gli cadde sul volto. «Ovviamente non sai chi è, non è vero? Bardas, questa è tua nipote.» No. Che cosa ha detto? Tutto questo non finirà mai? «Non ti sto prendendo in giro, sai» disse Gorgas. «È tua nipote Iseutz. La figlia di Niessa.» Bardas cominciò ad arretrare, inciampò in una buca, perse l'equilibrio e cadde, atterrando sul sedere. «Mi dispiace dovertelo rivelare in questo modo» stava dicendo Gorgas. «Ovviamente dev'essere una notizia abbastanza sconvolgente. Ma non abbiamo tempo, Bardas. Se vuoi svenire, fallo quando saremo a bordo di quella maledetta nave.» Bardas Loredan scosse la testa, più o meno la sola parte del corpo che
era ancora in grado di muovere. «Non ho intenzione di salire su nessunissima nave con te, Gorgas. Resterò qui a farmi uccidere, solo per il gusto di farti dispetto. Adesso sparisci dalla mia vista, tu e tua...» «Nipote» disse Gorgas. «E tu salirai su questo carro, anche se dovessi caricartici di peso.» Bardas sorrise; o perlomeno schiuse le labbra lasciando affiorare i denti. «Prima devi prendermi» disse; poi si girò e cominciò a correre. Aveva fatto sì e no quindici metri quando il sasso lo centrò alla testa. Dal posto di guardia della seconda città il Luogotenente Generale aveva una splendida vista dell'incendio; probabilmente la migliore della Città. Il fuoco nella città bassa era l'incubo che aveva sempre perseguitato chiunque occupasse una carica di responsabilità a Perimadeia. Molto semplicemente, se cominciava a diffondersi non c'era niente che nessuno potesse fare. Il posto era sempre stato come un torcia, pronta ad accendersi. Una volta che le fiamme avevano preso il sopravvento si muovevano più velocemente di quanto un uomo potesse correre. Il punto critico ormai era stato superato; non c'era niente altro da fare se non aspettare che l'incendio si esaurisse da solo. La tradizione voleva che il rischio che la città bassa andasse a fuoco, fosse la ragione per cui era stata fondata la seconda città: un alto muro per tenere le fiamme lontane dagli edifici più importanti, dalle case dei cittadini facoltosi, dalle biblioteche dell'Ordine, dagli uffici in cui erano conservati gli archivi più indispensabili. Il muro avrebbe fatto ancora una volta il suo dovere, anche se il fuoco liquido aveva scatenato un inferno senza precedenti. Il Luogotenente Generale non sapeva se questo lo facesse sentire meglio o peggio. Significava che nonostante l'incendio che aveva appiccato, il nemico avrebbe ereditato la seconda città completamente intatta. La parte migliore di Perimadeia, la sua bellezza e opulenza, sarebbero sopravvissute. La sua popolazione, no. Due ore prima il nemico aveva forzato le porte della seconda città con un ariete improvvisato, ma altamente efficiente, ricavato dal palo principale di un mulino ad acqua inaugurato di recente. Un grido dal basso avvertì il Luogotenente che il nemico aveva lanciato un nuovo attacco. Ormai i difensori erano schiacciati nel posto di guardia, con appena cinquanta metri per lato di mura ancora sotto il loro controllo: tutto ciò che della Città era ancora soggetto all'autorità del governo di Perimadeia.
Era un regno che si poteva attraversare in quindici passi. Sotto di sé notò che il nemico sembrava intento a ruotare un paio di macchine a torsione strappate ai difensori (ah, già, i due ulteriori mangani che aveva ordinato per rimpiazzare quelli distrutti e che avrebbero dovuto essere messi in posizione il pomeriggio successivo. Adesso erano in mano al nemico, che sembrava li stesse caricando con dei barili di medie dimensioni). Il Luogotenente Generale annuì. Evidentemente i barili erano pieni di fuoco liquido. Un modo rapido e definitivo di sbloccare quella difficoltà tattica. Il primo barile fu un fallimento, perché andò a sfasciarsi senza fare danni contro la sommità degli spalti. Be', quasi senza fare danni. Un buon numero di persone, compreso il Luogotenente Generale fu avvolto dal fuoco liquido. Il secondo barile funzionò benissimo e gli uomini del clan stettero a guardare affascinati mentre i capelli e le barbe dei difensori prendevano improvvisamente fuoco. Dopo, fu solo questione di minuti. «Tutto fatto» riferì un comandante quando il muro fu sgombro. «Cosa facciamo adesso?» Zio Anakai che in tutta la sua vita non aveva mai visto nulla di simile alla seconda città non riuscì a cancellare una nota di rimpianto dalla voce quando comunicò quali erano gli ordini di Temrai. «Bruciate tutto» disse. «Ogni cosa che si incendi. Ma non prima di avere oltrepassato quella porta lassù, che conduce alla... Come si chiama? La Città Alta? Comunque sia. Non dovreste metterci molto a varcarla, a quanto pare non ha neanche una guarnigione. Quindi date alle fiamme la Città Alta per prima e poi questa.» Quando rinvenne Loredan era sdraiato sulla schiena su un pagliericcio, a bordo di un carro in movimento. Per un momento pensò di essere da tutt'altra parte (magari aveva sognato); poi ricordò tutto, anche troppo chiaramente. Girò la testa e vide il profilo della schiena di Gorgas disegnarsi sullo sfondo di un cielo allarmantemente sanguigno. La cosa che sentiva sdraiata sotto la sua gamba sinistra era il corpo di una ragazza, apparentemente sua nipote o ciò che ne restava. Anche senza bisogno di controllare sapeva che era ancora viva. Era una delle cose più indisponenti di quelle pesti di esseri con poteri naturali, o perlomeno della varietà più perniciosa:
Potevi dargli botte in testa, tagliargli le dita, trapassarli con una freccia, sbatterli di qua e di là come covoni di grano, non c'era nessuna speranza di ammazzarli. Erano quelli che sopravvivevano sempre, in un modo o nell'altro. Gorgas non stava guardando dalla sua parte; teneva gli occhi sulla strada davanti a sé e seguiva un carro del tutto identico, su cui era caricato un gruppo di soldati nemici che stava venendo spostato ora che il lavoro era fatto e si poteva lasciare che il fuoco lo concludesse. Era così che se la sarebbe cavata, fosse dannata la sua anima odiosamente scaltra; sarebbe riuscito a scivolare fuori dalla città in mezzo a un convoglio di carri nemici. Poi tutto quello che avrebbe dovuto fare sarebbe stato trovare una scialuppa o una piccola zattera e remare fino a raggiungere la sua famosa nave. La cosa che mi fa veramente imbestialire è che io non sarei mai stato abbastanza furbo da pensare a questo trucco. Al diavolo. Badando a tenere la testa bassa Loredan strisciò sul fondo del carro fino a quando i suoi piedi penzolarono nel vuoto dalla parte posteriore. Poi si spinse con le mani fino a scivolare fuori e atterrò faccia avanti sulla dura terra. Sarai furbo, ma non mi hai ancora preso, disse a se stesso mentre si rigirava e in qualche modo trovava la forza di alzarsi in piedi. Mentre si chinava, nascondendosi dietro il pilastro di un'arcata, intravide la testa di suo fratello sullo sfondo di un incendio, quasi avesse delle fiamme per copricapo. Se solo fosse stato sicuro che quella era l'ultima volta che vedeva Gorgas Loredan, sarebbe stato un uomo felice. Vorrei anche essere finalmente padrone del resto della mia vita. La Città non poteva più essere salvata, quindi i suoi obblighi in quella direzione, ovviamente erano venuti meno. Le sue probabilità di uscirne vivo erano minime, il che lo liberava dagli obblighi nei confronti della famiglia. Athli era al sicuro. Alexius... Be', sarebbe stato bello avere cercato di fare qualcosa, ma ormai il vecchio era certamente morto. Era libero di scegliere cosa fare nella sua ultima mezz'ora: non doveva accontentare nessun altro a parte se stesso. Se voleva, poteva assalire il primo distaccamento in cui si fosse imbattuto e morire combattendo. Oppure poteva buttare giù la porta di una taverna e ubriacarsi. Poteva sedersi in mezzo alla strada e meditare sull'infinito. Non contava niente quello che avrebbe deciso di fare. A meno che non avesse deciso di tentare di scappare. Era futile, senza dubbio. Non aveva nessuna possibilità. D'altro canto
partiva dall'accettazione dell'idea di morire (e stava prendendola anche molto bene, bisognava dire) e la sfida intellettuale sarebbe stata stimolante, se non altro. Decise di provarci. A parte ciò che pensava di lui come uomo, l'idea di suo fratello Gorgas non era cattiva; Ormai poteva scordarsi le banchine, ma se fosse riuscito a tornare fino al Ponte dei Mandriani e magari perfino a trovare un cavallo, una volta arrivato dall'altra parte del fiume avrebbe potuto andare ovunque: a ovest, a est o a sud via terra, oppure a nord, se fosse riuscito a farsi dare un passaggio da una nave... (Non ho soldi, dannazione; sarà meglio che raccatti tutto quello che trovo di valore, per procurarmi cibo, vestiti e magari un passaggio). L'istinto gli disse che avrebbe fatto bene ad affrettarsi: la mossa più logica per Temrai a quel punto era quella di fare uscire dalla città i suoi uomini, bloccare il ponte levatoio e lasciare bruciare la gente rimasta intrappolata entro le mura. Nel qual caso la cosa da fare era arrivare al ponte prima dell'orario di chiusura. Sarebbe stato più veloce seguire le vie secondarie, ma poteva dimostrarsi una scelta controproducente. Il fuoco avrebbe reso le stradine quasi impraticabili a causa dell'altezza degli edifici sui due lati; meglio quindi seguire i corsi principali. Correre sarebbe stata un buona idea, ma un uomo che corre si fa sempre notare. Avrebbe dovuto accontentarsi di camminare spedito. Raggiunse l'arcata che separava il quartiere dei fabbricanti di tubi da quello dei cordai senza trovare ostacoli e avanzò verso il successivo colonnato; lì dovette affrettarsi perché il tetto di paglia stava cominciando a bruciare e Loredan fece appena in tempo ad attraversarlo prima che crollasse; tutto andò bene, tuttavia: adesso si trovava in uno spazio aperto, non minacciato dal fuoco e, se necessario, avrebbe potuto agevolmente scappare. I fabbricanti di corde avevano eretto una ingegnosa, ma futile barriera fatta di cavi, in mezzo alla quale fu costretto farsi strada usando la spada. Qualche entusiasta gli sparò contro con una balestra da una finestra a un piano alto di un edifico, senza dubbio pensando che fosse un nemico. Lo mancò. Qualcun altro gridò, Fermi è uno dei nostri! e Loredan riprese il cammino. Sarebbe stato pericoloso rettificare l'errore, peraltro naturale. Come avrebbe potuto sapere che non sono più uno dei loro, ma solo uno di me stesso? Il divertimento ricominciò quando abbandonò il corso e oltrepassò l'arcata dei profumieri, entrando nella piazza al di là. Il distretto era un
posto molto pericoloso, con tutte quelle distillerie di alcool e le scorte di oli aromatici e Loredan ci arrivò più o meno contemporaneamente alle fiamme. Su tutti e quattro i lati della piazza gli edifici esplodevano come palle di fuoco, ma riuscì a passare cavandosela con qualche graffio. Benché il tempo stringesse sempre di più, dedicò tre minuti a recuperare dalle mani di un guerriero del clan morto una significativa collezione di perle. Se non altro sarebbero servite a risolvere il problema dei soldi, anche se si sentiva le tasche scomodamente piene. Si stava avvicinando alla sua meta. Non c'era molto fuoco ormai, ma gli uomini delle pianure erano numerosi. Fortunatamente non si trattava di squadre dedite al saccheggio; quasi tutti erano troppo presi dal tentativo di superare l'orrendo ingorgo creato dai carri pieni di feriti o di guerrieri che venivano evacuati. Cercò Gorgas con lo sguardo, ma senza vederlo. Impadronirsi anche lui di un carro era fuori discussione con tutti quei soldati nemici intorno e anche cercare di avanzare tenendosi ai margini del flusso di traffico non sembrava un'idea così brillante. Va bene, avrebbe voluto dire che sarebbe avanzato sotto i maledetti carri. Significava strisciare sulle mani e sulle ginocchia, ma il tempo non era più un problema. Le porte non sarebbero state chiuse prima che tutti i carri fossero usciti. Avrebbe potuto continuare ad avanzare gattoni fino a che non fosse stato sul ponte, poi tutto quello che avrebbe dovuto fare sarebbe stato scivolare fuori, lasciarsi cadere nel fiume senza dare nell'occhio e nuotare fino a riva. Non si sentiva a suo agio. Più che lo spazio limitato o il dolore alle mani e alle ginocchia, ciò che lo turbava era la generale sensazione di impotenza. Se qualcuno lo avesse scorto, non avrebbe avuto scampo. Dopo tanti anni passati a fare l'avvocato il combattimento in sé non gli faceva paura, ma trovarsi circondato da nemici sapendo di non avere alcuna possibilità di reagire era una sensazione nuova e sgradevole. Eppure ormai non può essere molto lontano. Altri duecento metri e sarò... Smise di strisciare e restò perfettamente immobile. La luce non era intensa, ma il bagliore delle torce e l'incendio sullo sfondo producevano una illuminazione che fu sufficiente a fargli scorgere un cospicuo contingente di nemici che stava avanzando lentamente lungo la fila dei carri. Da ciò che riusciva a vedere dedusse che stessero cercando qualcosa o qualcuno... Bottino nascosto, fuggitivi rannicchiati nel retro. Spesso si
chinavano su un ginocchio e davano uno sguardo sotto i carri. Pessima notizia. Pregando che la sua intuizione fosse corretta, Temrai passeggiò lungo la fila di carri mentre i suoi uomini continuavano a cercare. Sapeva di stare tenendo tutto in sospeso, che la porta era ancora aperta mentre invece avrebbe dovuto essere già chiusa almeno da un'ora, ma era la sua guerra e la responsabilità di averla scatenata ricadeva interamente sulle sue spalle, perciò si sarebbe concesso di continuare a cercare il Colonnello Bardas Loredan. Fino a che non lo avesse trovato, nulla sarebbe stato deciso. Vide qualcosa avvolto in tela di sacco nel retro di un carro e immediatamente lo punzecchiò con la spada. Quando ebbe tagliato le robuste fibre, la lama tintinnò contro dell'argento e un calice finemente lavorato cadde fuori dallo squarcio. Altro bottino, nonostante i suoi severi ordini; ma non aveva tempo di curarsene in quel momento. Tagliò il resto del sacco e rovesciò l'argenteria rubata in mezzo al fango. E se fosse già morto? Se fosse morto e io non fossi stato lì? Se fosse morto all'inizio, quando c'era ancora qualche possibilità di salvare la Città e non avesse mai visto l'incendio, le donne e i bambini con i capelli in fiamme? Sarebbe stato come avere organizzato la più bella festa di compleanno di tutti i tempi per un ospite d'onore che non si era mai fatto vedere. Oh, dei, se gli è successo qualcosa non me lo perdonerò mai... Qualcuno gli stava parlando, da dietro la sua spalla sinistra; era la voce di Ceuscai che riferiva che i suoi uomini avevano forzato le porte della Città Alta e che tutta Perimadeia era in mano loro. «Brucia ogni cosa» disse secco Temrai. «E niente saccheggio. Capito? Voglio che ogni cosa sia data alle fiamme.» Per una volta, Ceuscai rinunciò a discutere. «Quando chiudiamo le porte?» «Quando avremo finito» rispose Temrai. «Porta via i tuoi uomini. Voglio che tutti siano pronti a partire non appena avrò finito qui.» Si voltò e fissò Ceuscai con occhi che traboccavano paura. «Non hai nessuna notizia del Colonnello Loredan, vero? Nessuno ha riferito di averlo visto uccidere, o catturare?» Ceuscai fece cenno di no con la testa. «Ho fatto interrogare tutti i sergenti» rispose. «Nessuno lo ha visto o ne sa qualcosa. È per questo che...» «Sei ancora qui?»
Ceuscai chinò le spalle e se ne andò. Un gruppo di uomini che aveva finito di appiccare incendi come ordinato, fece ritorno. Temrai li mise a controllare i carri. «E cercate bottino» aggiunse. «Se ne trovate, voglio i nomi dei responsabili. Non portiamo niente con noi che provenga da questa città. Voglio che sia chiaro.» Gli uomini non sembrarono per niente felici, ma nessuno osò aprire bocca. La ricerca continuò e quanto più tempo passava, tanto più aumentava la morsa che serrava lo stomaco di Temrai. Per qualche motivo si era convinto che sarebbe stato tutto molto lineare: che praticamente la prima cosa che avrebbe visto entrando in città sarebbe stata il Colonnello Bardas Loredan, magari in piedi in mezzo al corso principale con la spada in pugno, che lo sfidava a singolar tenzone. Forse era riuscito a scappare... Chiuse gli occhi. Se Loredan era fuggito, in nome degli dei come avrebbe mai potuto giustificare tutto ciò, quelle migliaia di persone bruciate, quella orribile distruzione senza significato? C'era di che fare impazzire un uomo; radere al suolo un'intera città e distruggere una nazione solo per uccidere un singolo individuo e poi vedere proprio quell'individuo riuscire a sfuggire... Scacciò l'idea dalla sua mente. Gli dei che gli avevano concesso Perimadeia, non gli avrebbero mai fatto una cosa del genere. Si chinò a scrutare sotto un carro e vide un paio di occhi fissare i suoi. Era un ragazzino di dieci o dodici anni, aggrappato goffamente con le braccia e le gambe troppo lunghe e con dipinto in viso quel tipo di terrore che Temrai conosceva così bene. Nei suoi occhi a Temrai sembrò di vedere un riflesso di ciò che lui stesso aveva visto tanto tempo prima, quasi stesse contemplando i propri più sgradevoli ricordi. Hai visto tua madre bruciare? si chiese. I tuoi fratelli e le tue sorelle divorati dal fuoco, fino a diventare solo ossa calcinate, come le rovine di una città? Sentì la pietà artigliargli i visceri, come un gatto che si arrampicasse all'interno di una tenda in preda alle fiamme. Prese una freccia, la incoccò e mirò al ventre del ragazzino: Sono diventato un uomo crudele, pensò, ma non così crudele da lasciarti vivere con questi ricordi... Qualcuno gridò all'improvviso il suo nome. Attento, Temrai! Poi provò un terribile dolore mentre qualcosa lo colpiva alla schiena e a un lato della testa. L'arco gli cadde di mano e lui si piegò in avanti, cadendo per terra
rannicchiato. La voce era stata quella di Ceuscai; alzò lo sguardo e lo vide e fra lui e Ceuscai vide la schiena di un uomo dall'aria familiare... Il Colonnello Bardas Loredan. ...Che stava roteando una spada con entrambe le mani mentre Ceuscai manovrava l'asta della sua lancia per parare il colpo. Temrai vide che Ceuscai aveva fatto un movimento sbagliato, ma non ebbe tempo di fare o dire nulla; La lama di Loredan lo colpì sotto la mascella destra e gli tranciò il collo con un rumore denso, quello che fanno i macellai quando squartano le carcasse dei daini per prepararli alla cottura dopo la caccia. La testa di Ceuscai cadde dalle spalle e restò appesa solo per un brandello di carne non recisa, penzolando dietro quella sinistra; poi Ceuscai cadde gesticolando e Loredan si girò per fronteggiare lui. ...Era come un incubo che a volte lo aveva perseguitato, nel quale l'uomo che adesso sapeva chiamarsi Colonnello Loredan scopriva il ragazzino nascosto sotto il carro, smontava, si avvicinava, incombeva su di lui, poi si chinava allungando un braccio (un braccio così lungo che sembrava potere arrivare ovunque) e lo afferrava per un polso per quanto si dibattesse, tirando fino a sentire la spalla che usciva dalla sua sede naturale, fino a quando il braccio si strappava. Poi lo afferrava per il collo o per l'altro braccio e lo faceva a pezzi metodicamente, come i bambini staccano i petali dei fiori. Alla fine di lui non restava nulla, a parte quel qualcosa che stava sognando il sogno... «Alzati» disse Loredan. Temrai cercò di strisciare all'indietro e di infilarsi sotto il carro; vedeva uomini dietro le spalle di Loredan, che correvano in suo aiuto, ma come nei sogni erano troppo lontani. Non c'era il tempo. Adesso Loredan lo aveva afferrato per i capelli; tirò e d'un colpo Temrai fu in piedi. Il Colonnello lo costrinse a girarsi e gli torse un braccio dolorosamente dietro la schiena, costringendolo a non muoversi per paura di spezzarselo. Sentì qualcosa di freddo e affilato sotto il mento. «Fai un passo indietro o ti taglio la gola!» stava gridando Loredan. «Bene. Adesso, per una volta nella tua vita, fai qualcosa di utile e di' ai tuoi uomini di andarsene.» Temrai cercò di ubbidire, ma riuscì solo a emettere un suono strozzato. Non era mai stato così terrorizzato. Era il momento peggiore di tutta la sua vita. «Tu, sotto il carro» stava gridando Loredan «vieni fuori, ti porto con me. Se qualcuno lo sfiora anche solo con un dito, ammazzo il vostro capo.» Temrai vide del movimento con la coda dell'occhio; il ragazzo contro
cui aveva puntato una freccia per risparmiargli il dolore di sopravvivere, stava alzandosi dal fango e adesso era in piedi, spaventato a morte e senza sapere cosa fare. «Vieni qui» echeggiò la voce di Loredan. «Prendi il coltello dalla mia cintura e metti la punta sotto un'ascella di questo bastardo... Piano, in nome degli dei, è la nostra assicurazione sulla vita: se cercano di catturarci, il loro capo muore.» Dei, come sembrava calmo, come era bravo in queste cose; quanto era stato stupido, realizzò Temrai, anche solo provare a misurarsi con quell'uomo che chiaramente incarnava la Morte stessa. Per tutti quegli anni aveva sognato a occhi aperti una grande battaglia, spade contro spade come in un processo secondo la legge di Perimadeia, con la Giustizia che all'ultimo momento guidava la sua mano e confermava la rettitudine della sua causa. Che stupido... «Calma» gli sussurrò Loredan a un orecchio. «Fai quello che ti dico e andrà tutto bene. Adesso faremo una passeggiatina fino al ponte. Capito? Muoviti.» Gli torse appena il braccio, abbastanza da farlo gridare se avesse avuto ancora un filo di voce; poi sentì il ginocchio di Loredan che lo spingeva avanti. Era totalmente in balia del suo nemico. Sapeva che Loredan poteva spezzarlo in due come un bastone, o tagliargli la testa, o mozzargli gli arti uno a uno senza che lui potesse farci niente. Aveva così tanta voglia di sopravvivere; o perlomeno di non morire così, ucciso dal Colonnello Bardas Loredan. Loredan era in grado distruggerlo, di mozzargli la testa, di bere il suo sangue e divorare la sua anima; era la Morte in persona, il Diavolo, tutti gli orrori dell'universo. In lui si incarnava tutto lo scempio che Temrai il Saccheggiatore di Città, Temrai il Massacratore, aveva scatenato nel mondo... «Così» gli sussurrò la voce di Loredan all'orecchio, in modo quasi intimo. «Stiamo andando benissimo. Non ti piace quando le storie hanno un lieto fine?» Sembrava che l'intero clan fosse lì a guardare e che tutti facessero un passo indietro quando loro passavano, perché ad onta di tutto, delle macchine e del fuoco e dei milioni di frecce che aveva fatto fabbricare e scagliare, non c'era potere sulla terra, tanto meno una nazione qualunque, che potesse fronteggiare l'orrore del Colonnello Loredan, il mangiatore di anime, il portatore di Morte e Giustizia, la terribile forza che proprio la sua cieca follia aveva sguinzagliato nel mondo. Quanto a ciò che sarebbe
successo quando il mostro avesse finito di giocare con lui, non riusciva neanche a immaginarlo; un estremo dolore o un tormento senza fine... «Piano» sbottò Loredan. «Adesso avanti e niente colpi di testa. Ragazzo tieni fermo quel coltello. Se gli fai anche solo un graffio, siamo fritti tutti e due. Bene, adesso ci giriamo insieme. Quando dico di voltarsi...» Fu una manovra complicata e ridicola, un po' come l'avanzata laterale di un granchio; poi Temrai si trovò di fronte il clan, la fila di carri e una splendida vista della città in fiamme. Vuole che veda quello che ho fatto prima di uccidermi, disse Temrai a se stesso, perché lui è la Giustizia ed è tutta colpa mia. Si sentì scorrere sangue sul volto, a causa di un taglio al cuoio capelluto; gli gocciolava in un angolo dell'occhio, costringendolo a sbattere le palpebre. Adesso erano sotto l'arco della torre di guardia e stavano camminando all'indietro verso il ponte levatoio. Vide il bagliore del fuoco riflettersi sull'acqua; stavano cercando goffamente di scavalcare i corpi degli uomini morti. «Tu arrivi fino a qui, Temrai» sussurrò Loredan. «Grazie per l'aiuto. Sai, mi ricordi un po' me quando avevo la tua età. Tu...» Stava parlando al ragazzino, adesso: quello che si era nascosto sotto il carro. «Sai nuotare?» Il giovanetto disse che pensava di potercela fare. «Bene. Allora rimetti il coltello nella mia cintura e salta.» «Sì, signore.» «Non stare lì impalato...» Temrai sentì il rumore del tuffo; poi ci fu un'altra terribile fitta di dolore al braccio e Loredan ricominciò a sussurrare, così da vicino che sembrò che la voce fosse dentro la sua testa. «Dovrei ucciderti, ma non ho mai dato alcun valore alla vendetta. Perché non provi a rifletterci?» Poi una violenta spinta alla schiena lo fece cadere in avanti sulle tavole del ponte e nell'acqua sottostante udì il rumore di un altro tuffo. Adesso c'era gente tutto intorno a lui, che lo aiutava ad alzarsi, che gridava, che portava torce e lanterne e scagliava frecce nell'acqua. Temrai si liberò dalla mani che lo sostenevano e guardò verso il fiume, ma non vide traccia di nessuno; c'era qualche corpo che galleggiava, ma non era quello di Loredan. Sta nuotando sott'acqua, pensò Temrai. O il peso dell'armatura lo ha trascinato a fondo e lo ha fatto affogare. No, non essere stupido, non può morire. È svanito o ha messo le ali ed è volato via. Se n'è andato e io sono ancora vivo...
«Lasciate perdere» disse. «Fate uscire tutti dalla Città, chiudete le porte e distruggete il ponte. Voglio farla finita.» I polmoni gli scoppiavano e tutte le giunture gli facevano male. La cotta di maglia era come un uomo che lo avesse afferrato e cercasse di trascinarlo sul fondo; stavolta non c'era via di scampo, sarebbe morto... Era veramente ironico che dovesse succedere proprio ora, dopo una così brillante fuga... «Sveglia» disse una voce sopra di lui. «Va tutto bene, state solo sognando.» Aprì gli occhi e vide il volto del ragazzino che aveva salvato, quello che si era nascosto sotto il carro. «Che succede?» farfugliò, cercando di scacciare il sonno. Dietro la testa del ragazzo il cielo era azzurro e c'erano dei gabbiani che volavano in cerchio. «Va tutto bene» ripeté il ragazzo ridendo. «Siete salvo. Siete a bordo di una nave, ricordate?» Loredan si mise a sedere e fece una smorfia; si era dimenticato che gli facevano male tutti i muscoli. «Scusa» disse «devo avere avuto un incubo o qualcosa del genere.» Il ragazzino sorrise. «Guardate» disse, indicando l'orizzonte. «Siamo arrivati.» Aguzzando la vista, Loredan vide il profilo di una città, delle alte mura, delle torri, delle cupole: la luce del sole strappava riflessi al tetto dorato di un grande tempio. Era un posto di cui aveva già sentito parlare, uno di quei posti da c'era-una-volta che tutti dicono esistere, ma nel quale non avrebbe mai pensato di andare. E adesso era lì. Era più piccolo di quanto avrebbe immaginato. «Come vi sentite?» chiese il ragazzino. «Penso che la febbre sia passata, ma il capitano dice di conoscere un buon dottore, in caso vi serva. È stato molto gentile, non è vero?» Loredan annuì con un'espressione tetra. «Già» rispose. Intuì che il tono della sua voce stava facendo preoccupare il ragazzo e gli rivolse un sorriso rassicurante. «Non preoccuparti» disse «andrà tutto bene. Ho dei parenti qui, che si prenderanno cura di noi.» Si alzò in piedi, muovendo le gambe intorpidite e studiò la città in lontananza. Il grosso edificio con il tetto d'oro probabilmente era il Grande Tempio. Perfino lui ne aveva sentito parlare. Era l'unico edificio della città che tutti conoscevano.
Si voltò e guardò la vela maestra della nave, con un simbolo dipinto nel centro. Il marchio della compagnia a cui apparteneva l'imbarcazione gli era piuttosto familiare, anche se in quel contesto appariva strano: era un arco teso con sette frecce intorno. «È meravigliosa» disse il ragazzino, schermandosi gli occhi con una mano mentre fissava la città in lontananza. «Ho sempre desiderato venire a Scona.» QUI SI CONCLUDE IL PRIMO ROMANZO DELLA «SAGA DELLO SPADACCINO». FINE