JAMES PATTERSON ULTIMA MOSSA (Violets Are Blue, 2001) Dedico questo libro al mio amico Kyle Craig, che non lavora per l'...
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JAMES PATTERSON ULTIMA MOSSA (Violets Are Blue, 2001) Dedico questo libro al mio amico Kyle Craig, che non lavora per l'FBI ma, secondo me, ha un gran bel nome. Grazie anche a Jim Heekin, Mary Jordan, Fern Galperin, Maria Pugatch, Irene Markocki, Barbara Groszewski, Tony Peyser e alla mia cara Suzie. PROLOGO COME UN FULMINE A CIEL SERENO 1 Nulla comincia mai dove crediamo. E in effetti nemmeno questa storia ha avuto inizio con l'efferato omicidio di Betsey Cavalierre, agente dell'FBI nonché mia carissima amica. Sono stato io a pensarlo. Ma mi sbagliavo di grosso. Arrivai a casa di Betsey a Woodbridge, in Virginia, nel cuore della notte. Non c'ero mai stato, ma non ebbi difficoltà a trovarla. L'FBI e le ambulanze erano già sul posto: c'erano luci gialle e rosse che lampeggiavano ovunque, dipingendo sinistre strisce luminose sul prato e sulla facciata. Presi fiato ed entrai, con la testa che mi girava, barcollando. Salutai con un cenno Sandy Hammonds, un'agente dell'FBI alta e bionda, e mi accorsi che aveva pianto. Anche lei era amica di Betsey. Su un tavolino nel corridoio notai la rivoltella d'ordinanza, accanto a una comunicazione sull'esercitazione obbligatoria di tiro a segno al poligono dell'FBI cui Betsey avrebbe dovuto partecipare. Amara ironia. Mi feci forza e percorsi il corridoio che portava dal salotto alle altre stanze. Era una casa di quasi cent'anni, piena di mobili e oggetti in stile country, come piaceva a lei. La camera da letto era in fondo al corridoio. Capii immediatamente che l'omicidio era avvenuto lì. Tecnici dell'FBI e della polizia locale andavano e venivano come vespe infuriate intorno a un nido in pericolo, ma nella casa regnava un silenzio strano, minaccioso. Era una brutta faccenda. Bruttissima. Era morta un'altra collega. La seconda a venire brutalmente assassinata in due anni. E Betsey era molto più di una collega per me.
Come poteva essere successo? Che cosa voleva dire? Vidi il cadavere steso sul pavimento di legno e rimasi raggelato. Istintivamente mi coprii la faccia con una mano. Era nuda, la parte inferiore del corpo orrendamente insanguinata. Nella camera da letto non vidi né camicia da notte né pigiama. L'assassino l'aveva massacrata di coltellate, infierendo senza pietà. Avrei voluto coprirla, ma sapevo che non era possibile. Gli occhi castani di Betsey mi fissavano senza vedermi: li avevo baciati, come avevo fatto con il suo viso dolcissimo. Ripensai alla sua risata sonora e musicale e rimasi lì, impalato, a piangerla, in preda a una nostalgia indicibile. Avrei voluto girarmi dall'altra parte, ma non ci riuscivo. Non potevo lasciarla in quel modo. Mentre cercavo di dare una spiegazione logica a quello scempio, mi squillò il cellulare nella tasca della giacca, facendomi trasalire. Esitai: non volevo rispondere. «Alex Cross», dissi alla fine. Sentii una voce deformata da un filtro trapassarmi come una lama. Rabbrividii. «So chi sei e so dove sei. A casa della povera Betsey, che è stata massacrata. Non ti senti come una marionetta appesa a un filo, detective? Dovresti, perché lo sei», sussurrò il Mastermind. «Sei la mia marionetta preferita.» «Perché l'hai uccisa? Perché?» chiesi. Il mostro scoppiò in una risata meccanica che mi fece accapponare la pelle. «Dovresti arrivarci da solo, non ti pare? Sei il famoso detective Alex Cross. Hai risolto tutti quei casi importanti... Hai preso Gary Soneji, Casanova, Jack & Jill. Sei in gamba, no?» A voce bassissima, ribattei: «Perché non vieni qui? Stanotte, adesso? Visto che sai dove sono...» Il Mastermind rise di nuovo, questa volta pianissimo. «E se invece stanotte uccidessi tua nonna e i tuoi tre figli? So dove sono. Li hai lasciati con il tuo collega, vero? Credi che sia in grado di fermarmi? John Sampson non ha speranze contro di me.» Riattaccai e corsi fuori. Telefonai a Sampson, che rispose al secondo squillo. «Tutto a posto?» chiesi ansioso. «Tutto tranquillo, Alex. Nessun problema. Ti sento agitato, però: che cosa c'è? Cos'è successo?»
«Ha detto che verrà da voi. Da te, Nana e i ragazzi», risposi. «Il Mastermind.» «I tuoi sono al sicuro, amico mio. Nessuno gli torcerà un capello finché ci sono io. Che ci provi, se ne ha il coraggio!» «Stai attento, John. Io torno subito a Washington. Sii prudente, per favore. È un malato di mente. Non l'ha soltanto uccisa, ha infierito su di lei con un accanimento terrificante.» Appena finito di parlare con Sampson, mi precipitai verso la mia vecchia Porsche. Il cellulare squillò di nuovo prima che arrivassi alla macchina. «Cross», risposi senza smettere di correre, cercando di tenere il telefono vicino all'orecchio e alla bocca. Era di nuovo lui e rideva come un pazzo. «Rilassati, dottore. Hai il fiatone. Per stanotte non gli faccio niente di male, ti stavo soltanto prendendo per il culo. Volevo divertirmi un po' a tue spese. Stai correndo, vero? Be', continua pure, ma sappi che non correrai mai abbastanza. Non puoi sfuggirmi. È te che voglio, dottor Cross. Il prossimo sei tu.» PARTE PRIMA GLI OMICIDI DELLA CALIFORNIA 2 Il tenente dell'esercito degli Stati Uniti Martha Wiatt e il suo fidanzato, il sergente Davis O'Hara, stavano facendo jogging nel Golden Gate Park quando la nebbia della sera cominciò a scendere come una nube sulfurea su San Francisco. Alla luce del crepuscolo erano atletici, bellissimi. La prima volta che Martha sentì ringhiare alle proprie spalle pensò che qualcuno avesse lasciato libero un cane nella parte del parco che andava da Haight-Ashbury fino al mare, abbastanza lontano da non preoccuparla affatto. «Questo è sicuramente un bestione!» disse scherzosamente a Davis mentre affrontavano una ripida salita da cui si godeva una vista magnifica dell'imponente ponte sospeso tra San Francisco e la contea di Marin. Nel loro linguaggio, un «bestione» era qualsiasi cosa avesse dimensioni superiori alla norma - dagli aerei agli attributi sessuali ai canini... La nebbia stava per avvolgere il ponte e la baia nascondendoli completamente, ma per il momento la vista era splendida, incomparabile: era una
delle cose che più amavano di San Francisco. «Mi piace venire a correre qui, con il ponte, il tramonto e tutto il resto», commentò Martha con la sua cadenza regolare e rilassata. «Be', basta con il romanticismo: adesso ti faccio mangiare la polvere, O'Hara. Muovi le tue belle chiappe atletiche!» «Non giocare con me alla femminista da strapazzo!» ribatté lui, ma sorrideva, mettendo in mostra i denti più bianchi che Martha avesse mai visto o baciato in vita sua. La ragazza allungò il passo. Alla Pepperdine University era stata campionessa di corsa campestre ed era ancora in ottima forma. «E tu preparati a incassare con signorilità l'ennesima sconfitta», replicò lei. «Ride bene chi ride ultimo. Chi perde paga all'Abbey.» «Pregusto già una Dos Equis. Hmm, che sete!» Lo scambio di battute fu interrotto all'improvviso da un altro ringhio, molto più forte del precedente. E più vicino. Era impossibile che un cane avesse percorso tanta strada in così poco tempo. Forse c'erano due «bestioni» liberi nei paraggi. «Non ci saranno delle bestie feroci in questo parco?» chiese Davis. «Che so, un puma?» «Ma no! Che cosa dici? Siamo a San Francisco, non nel Montana.» Martha scosse la testa, mandando una pioggia di gocce di sudore tutto intorno. Poi le parve di sentire dei passi. Qualcuno che faceva jogging con un grosso cane? «Usciamo dal bosco, okay?» suggerì Davis. «Sono d'accordo. L'ultimo che arriva al parcheggio il cane se lo mangia.» «Battuta di cattivo gusto, tenente Martha. Io comincio ad avere un po' paura.» «Non mi risulta che ci siano bestie feroci in giro da queste parti, ma credo di aver appena visto un micino.» Udirono un altro ringhio, vicinissimo. Proprio alle loro spalle. Che guadagnava velocemente terreno. «Forza, togliamoci di qui! Di corsa!» disse Martha Wiatt. Adesso anche lei era un po' spaventata e si mise a correre più veloce che poteva, che nel suo caso voleva dire molto veloce. Un altro ringhio sinistro echeggiò nella nebbia sempre più fitta. 3
Il tenente Martha Wiatt aveva decisamente accelerato l'andatura, aumentando il distacco da Davis. Lei si dedicava al triathlon per divertimento. Lui invece lavorava in ufficio, ma accidenti se era in forma, per essere un passacarte! «Forza, forza, non mollare, Davis! Non restare indietro!» gli gridò senza voltarsi. Il fidanzato non le rispose. Martha pensò che stavano insieme da un anno e quello bastava per chiudere tutte le eventuali discussioni su chi dei due fosse più allenato, su chi fosse il vero atleta. Per la verità, non aveva mai avuto dubbi in proposito. Il ringhio successivo venne da un punto ancora più vicino, accompagnato da un rumore di passi pesanti sulle foglie. Stava per essere raggiunta. Ma da chi? «Martha! C'è qualcosa che mi insegue! Mio Dio! Corri! Corri, Martha!» le gridò Davis. «Scappa più lontano che puoi!» L'adrenalina le entrò in circolo. Chinò la testa come per affrontare l'ultimo scatto prima del traguardo e spinse con gambe e braccia, che si muovevano a tempo come pistoni di un motore in piena efficienza. Spostò il peso in avanti, da bravo corridore. Udì delle grida dietro di sé e si voltò, ma non riuscì a vedere Davis. Erano così terrificanti che fu tentata di fermarsi. Se Davis era stato aggredito, tuttavia, se gli era successo qualcosa di terribile, era meglio andare a chiamare aiuto. La polizia. Chiunque. Con le urla del fidanzato che le rimbombavano nelle orecchie, corse in preda al panico senza rendersi conto di dove andava. Inciampò in una pietra e rotolò giù per una discesa, andando a sbattere contro un albero. L'urto fu violento, ma se non altro la ragazza si fermò. Si rialzò stordita. Gesù, doveva essersi rotta il braccio destro. Tenendoselo con l'altro, riprese a correre goffamente. Arrivò a una delle strade asfaltate che attraversavano il parco. Davis aveva smesso di gridare. Che cosa gli era successo? Doveva andare a cercare aiuto. Vide avvicinarsi un paio di fari e si buttò in mezzo alla strada gesticolando come una pazza. In fondo siamo a San Francisco! «Fermatevi, per favore! Fermatevi! Ehi, ehi!» Alzando il braccio sano e gridando con tutto il fiato che aveva in gola, implorò: «Ferma! Ho bisogno di aiuto!»
Il furgone bianco proseguì a tutta velocità nella sua direzione, ma grazie a Dio all'ultimo momento si fermò. Scesero di corsa due uomini, che vennero verso di lei. L'avrebbero aiutata: sul cofano del furgone c'era il simbolo della Croce Rossa. «Aiuto! Vi prego! È successo qualcosa di grave al mio fidanzato!» Ma, d'improvviso, uno dei due uomini le sferrò un pugno e, prima ancora di capire che cosa stava succedendo, Martha stramazzò a terra. Batté il mento sull'asfalto e rimbalzò come una palla, inerte: il colpo era stato talmente forte che l'aveva quasi tramortita. Guardò su, cercando di mettere a fuoco, e subito se ne pentì, perché vide due occhi iniettati di sangue che la fissavano e una bocca spalancata. Anzi, no, due bocche spalancate terrificanti. Non aveva mai visto denti del genere in vita sua. Affilati come coltelli. Enormi. Se li sentì affondare nelle guance, poi nel collo. Com'è possibile? Martha gridò finché ebbe voce. Rotolò, si dibatté, prese a calci i suoi aggressori, ma fu inutile. Avevano una forza sovrumana. E ringhiavano. «Estasi», le sussurrò uno dei due all'orecchio. «Non è meraviglioso? Sei fortunata: tu e Davis siete stati scelti fra tutta la gente più bella di San Francisco.» 4 A Washington era una mattina limpida, perfetta. Be', quasi perfetta: ero al telefono con il Mastermind. «Pronto, Alex. Non senti la mia mancanza? Io tantissimo, dottore.» Quel bastardo mi faceva telefonate minatorie tutte le mattine da più di una settimana. A volte si limitava a insultarmi per parecchi minuti di seguito. Quel giorno sembrava decisamente più educato. «Come va? Hai grandi progetti per oggi?» mi chiese. In effetti sì, avevo in progetto di catturarlo. Ero a bordo di un furgone dell'FBI già in movimento, attrezzato per risalire alla fonte della telefonata. Di lì a poco lo avremmo localizzato. Avevo ottenuto un mandato per le intercettazioni ambientali e la società dei telefoni si stava occupando di rintracciare la chiamata. Io ero nel retro del furgone con tre agenti federali e il mio collega John Sampson. Eravamo partiti da casa mia, in 5th Street, non appena arrivata la telefonata, ed eravamo diretti a nord, sulla Interstate 395. Il mio compito era tenerlo in linea finché i tecnici non avessero finito il loro lavoro.
«Parlami di Betsey Cavalierre. Perché hai scelto lei invece di me?» domandai. «Oh, perché lei è molto, ma molto più bella di te. Fa più sangue», replicò il Mastermind. Uno degli agenti parlava in sottofondo e io cercavo di seguire entrambe le conversazioni contemporaneamente. «Non a caso si fa chiamare Mastermind. Con il telefono di Cross sotto controllo, dovremmo poter risalire immediatamente all'altro, e invece per qualche motivo non ci stiamo riuscendo.» «Ma perché?» chiese Sampson esasperato, avvicinandosi agli agenti. «Non saprei esattamente. Rileviamo posizioni diverse, che si spostano di continuo. Forse chiama da un cellulare ed è in macchina. Le chiamate dai portatili sono più difficili da rintracciare.» Vidi che stavamo imboccando l'uscita di D Street. Poco dopo entrammo nella galleria di 3th Street. Dov'era quel bastardo? «Tutto okay, Alex? Mi sembri un po' distratto», disse il Mastermind. «No, no. Ti seguo. Sono un piacere queste nostre conversazioni mattutine.» «Non capisco perché è così difficile, maledizione!», esclamò il tecnico. Perché si tratta del Mastermind, avrei voluto urlargli. Vidi il Washington Convention Center sulla destra. Il furgone procedeva a tutta velocità, in pieno centro. Superammo il Renaissance Hotel. Da dove diavolo mi stava chiamando? «Ci siamo, credo. Siamo vicinissimi», esclamò eccitato uno dei giovani agenti. Il furgone si fermò di colpo. Sampson e io tirammo fuori la pistola. L'avevamo beccato. Non riuscivo a crederci! Poi sentii gemiti e imprecazioni. Guardando fuori capii perché e scossi la testa, schifato. «Ma che scherzo di merda!» gridò Sampson tempestando di pugni la fiancata del furgone. Eravamo al 935 di Pennsylvania Avenue, davanti al J. Edgar Hoover Building, il quartier generale dell'FBI. «E adesso cosa facciamo?» chiesi all'agente che comandava l'operazione. «Dove diavolo è?» «Merda, il segnale è di nuovo in roaming. Fuori da Washington. Okay. Ora è di nuovo in città. Cristo, ora risulta all'estero!» «Ti saluto, Alex. Ma soltanto per il momento. Come ti ho già detto, sei il prossimo della lista», disse il Mastermind prima di riattaccare.
5 Il resto della giornata fu lungo, faticoso e deprimente. Ciò di cui avevo più bisogno, comunque, era una tregua con il Mastermind. Non so esattamente perché, dove o come avevo trovato il coraggio, ma quella sera avevo dato appuntamento a una donna, un avvocato della procura di Washington, Elizabeth Moore. Molto spiritosa e piacevolmente irriverente, grande e grossa, con un bel sorriso contagioso. Andammo a cena a Foggy Bottom, da Marcel's, un locale adatto per questo genere di incontro. Cucina francese con contaminazioni fiamminghe. La serata stava andando benissimo, o almeno così mi sembrava, ed ero abbastanza sicuro che anche Elizabeth fosse contenta. Quando il cameriere si allontanò, dopo aver preso l'ordinazione per il dessert e il caffè, Elizabeth posò delicatamente una mano sulla mia. Sul tavolo c'era una candela accesa, in un semplicissimo portacandele di cristallo. «Okay, Alex. Abbiamo superato tutti i preliminari. Finora tutto bene», disse. «Dov'è l'inghippo? Perché non può non esserci. Gli uomini migliori sono già tutti occupati, lo so per esperienza. Come mai sei ancora single?» Capivo benissimo che cosa intendeva, ma finsi di essere un po' perplesso. «Inghippo?» ripetei alzando le spalle. Poi sorrisi. Lei scoppiò a ridere. «Quanti anni hai? Trentanove? Quaranta?» «Quarantadue, ma grazie lo stesso.» «Finora hai superato tutte le prove...» «Tipo?» «Tipo scegliere un ottimo ristorante. Romantico, ma non troppo. Tipo passarmi a prendere puntuale. Tipo starmi ad ascoltare quando ti ho parlato di cose mie. Tipo essere belloccio... Non che questo abbia grande importanza, ma insomma...» «Inoltre mi piacciono i bambini e non mi dispiacerebbe averne altri», aggiunsi. «Ho letto tutti i romanzi di Toni Morrison. Sono un buon idraulico. So cucinare, se necessario.» «E l'inghippo?» ripeté lei. «Lasciamo perdere.» Il cameriere tornò con il dessert e, proprio mentre serviva il caffè a Elizabeth, si udì il bip del cercapersone che portavo alla cintola. Oh, Gesù. Fregato!
La guardai, seduta di fronte a me, e mi scusai. «Ti dispiace se richiamo? È importante. Ho riconosciuto dal numero l'FBI di Quantico. Faccio presto. Torno subito.» Andai nell'anticamera della toilette e con il mio cellulare chiamai Kyle Craig in Virginia. Eravamo amici da anni, ma da quando ero responsabile dei rapporti tra il Bureau e il dipartimento di polizia di Washington ci vedevamo un po' troppo per i miei gusti. Continuava a coinvolgermi nei peggiori casi di omicidio che capitassero all'FBI. Non ne potevo più delle sue telefonate. Che cos'era successo questa volta? Kyle sapeva che ero io a chiamare e non si degnò neppure di salutarmi. «Alex, ti ricordi quel caso cui abbiamo lavorato insieme circa quattordici mesi fa? Quello della ragazza scappata di casa che fu ritrovata appesa a un lampadario in una camera d'albergo? Patricia Cameron? Ci sono stati due omicidi analoghi a San Francisco, ieri sera al Golden Gate Park. Molto cruenti. I peggiori che abbia sentito da un po' di tempo a questa parte.» «Ehi, sono a cena con una donna bella e molto interessante. Ne parliamo domani. Ti chiamo io. Stasera sono fuori servizio.» Kyle rise. A volte mi trovava divertente. «Me lo ha già detto Nana. Un avvocato, giusto? Senti questa. Il diavolo incontra un avvocato e gli dice che lo può far diventare socio dello studio, ma soltanto se gli vende la sua anima e quella di tutti i suoi familiari. L'avvocato guarda il diavolo negli occhi e chiede: 'Dov'è l'inghippo?'» Dopo la barzelletta, Kyle si mise a raccontarmi più particolari di quelli che avrei voluto sapere sulle analogie tra gli spaventosi delitti di San Francisco e quello di Washington. Ricordavo benissimo la vittima, Patricia Cameron. Mi pareva di vedere ancora il suo volto. Scacciai l'immagine. Quando ebbe finito - e Kyle è esauriente, se non addirittura prolisso tornai da Elizabeth, che mi fece un sorrisetto triste e, scuotendo la testa, disse: «Credo di aver capito qual è l'inghippo». Mi sforzai di ridere, ma dentro di me ero sconsolato. «Francamente, non è sempre così.» Purtroppo è molto peggio. 6 L'indomani mattina, prima di andare all'aeroporto, accompagnai i ragazzi a scuola. Jannie ha otto anni e Damon ne ha appena compiuti dieci. Sono bravissimi, ma sono bambini: dai loro un dito e si prendono tutto il
braccio. Anzi, se possono, pure la spalla. Qualcuno, non ricordo più chi, ha detto: «I bambini americani soffrono di troppa madre e di troppo poco padre». Nel caso dei miei figli, vale esattamente il contrario. «Pensa che bello venire sempre a scuola in macchina», commentò Jannie mentre ci fermavamo davanti alla Sojourner Truth School. In sottofondo ascoltavamo un bellissimo CD di Helen Folasade Adu, in arte Sade. «Scordatelo. Sono ottocento metri a piedi da casa a scuola. Quando ero piccolo, nel North Carolina, tutte le mattine mi facevo otto chilometri in mezzo ai campi di tabacco.» «Ah, già, è vero. E ti sei dimenticato di dirci che li facevi scalzo», aggiunse Damon, in tono di scherno. «Giusto: grazie di avermelo ricordato. Andavo a scuola a piedi nudi in mezzo alle stoppie del tabacco.» I bambini risero e io con loro. Di solito sono simpatici. Li riprendo spesso con la videocamera, nella speranza di avere dei bei film da vedere quando saranno adolescenti. E anche perché ho paura che prima o poi mi venga l'RT, il Rincoglionimento Totale. Ormai è un'epidemia. «Domenica ho un concerto importante», mi ricordò in quel momento Damon. Da due anni canta nel Washington Boys' Choir ed è veramente bravo. Vuole diventare un altro Luther Vandross, o magari Al Green, o forse semplicemente Damon Cross. «Torno sabato, Damon. Fidati, non voglio perdermi il concerto.» «Ne hai già persi parecchi», mi fece notare, pungendomi sul vivo. «Quello era il vecchio Alex. Adesso hai a che fare con la nuova versione, riveduta e corretta. E comunque ne ho anche sentiti parecchi.» «Sei proprio buffo, papà», esclamò Jannie ridendo. Sono tutti e due intelligenti, e con la risposta pronta. «Sarò a casa per il concerto di Damon», promisi. «Date una mano alla nonna in casa. Ha quasi cent'anni, lo sapete.» Jannie alzò gli occhi al cielo. «Ne ha soltanto ottanta, come dice lei. E far da mangiare, lavare i piatti e occuparsi di noi le piace», aggiunse imitando la risatina maliziosa di Nana. «Le piace da matti.» «A sabato. Non vedo l'ora», sussurrai a Damon. Era la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità. Il Washington Boys' Choir era uno dei tesori nascosti della capitale, e io ero felicissimo che fosse così bravo da farne parte. Soprattutto, mi faceva piacere che amasse cantare. «Baci. E abbracci», dissi. Damon e Jannie fecero una smorfia, ma si avvicinarono. Mi chiesi per
quanto tempo ancora sarebbero stati disposti a farsi baciare sulla guancia e, già che c'ero, ne approfittai. Conviene cercare di far durare i momenti belli che si passano con i figli. «Vi voglio bene», dissi prima che scendessero dalla macchina. «Come si dice?» «Anche noi ti vogliamo bene», risposero all'unisono. «Per questo ti permettiamo di farci fare queste figure davanti a tutta la scuola e ai nostri amici», aggiunse Jannie tirando fuori la lingua. «È l'ultima volta che vi accompagno!» ribattei, facendo le boccacce anch'io prima che corressero via. Stavano crescendo troppo in fretta per me. 7 Dall'aeroporto telefonai a Kyle Craig, il quale mi disse che a Quantico stavano cercando casi in cui le vittime presentassero segni di morsicature, simili, cioè, a quelli già avvenuti dalle altre parti. Mi ripeté che era convinto che questo omicidio, oltre che terrificante, fosse importantissimo. Mi chiesi che cos'altro mi nascondeva, perché di solito sapeva più di quello che diceva. «Ti sei alzato presto e sei già al lavoro, Kyle. Questa faccenda ti interessa molto. Come mai?» «Be', è un caso unico. Non si è mai visto nulla di anche soltanto lontanamente paragonabile. L'ispettore Jamilla Hughes ti verrà a prendere all'aeroporto, se possibile. È lei che dirige le indagini. Dicono che sia molto competente. E una delle uniche due donne che lavorano alla Omicidi a San Francisco, perciò è probabile che sia abbastanza in gamba.» In aereo lessi e rilessi i fax che avevo ricevuto quella mattina sullo spaventoso duplice omicidio del Golden Gate Park. Gli appunti presi dall'ispettore Hughes sulla scena del delitto erano precisi e dettagliati ma, soprattutto, agghiaccianti. A mia volta, presi nota con il metodo che usavo sempre, in tutte le indagini. Vittime, uomo e donna, trovate morte, 3.20, Golden Gate Park, San Francisco. Perché lì? Visitare parco se possibile. Vittime appese per i piedi a una quercia. Perché appese? Per drenare il sangue? Motivo? Rito di purificazione? Espiazione spirituale? Cadaveri nudi e coperti di sangue. Perché nudi? Erotismo? Omicidio a sfondo sessuale o semplice violenza? Desiderio di esporre le vittime al
mondo? Per quale ragione? Profonde lacerazioni su gambe, braccia e torace uomo: apparenti segni di ripetute morsicature. Causa di morte: morsi!!! Donna con segni analoghi, meno profondi. Ferite da taglio prodotte con oggetto affilato. Morte per dissanguamento, emorragia classe IV: volume perso più del 40%. Sulle caviglie, dove sono state legate prima di essere appese, le vittime presentano puntini rossi che il medico legale ha chiamato petecchie. Le impronte dei denti sull'uomo sembrano di grosso animale. Possibile? Quale animale può aggredire in parco grande città? Improbabile. Sostanza bianca su gambe e pancia uomo. Sperma? Che gioco amano i killer? Sadomaso? Ripensai al caso simile avvenuto a Washington. Come avrei potuto dimenticarlo? Una sedicenne scappata da casa a Orlando, in Florida, era stata trovata mutilata e uccisa nella stanza di un albergo del centro. Si chiamava Patricia Dawn Cameron. Le analogie con gli omicidi californiani erano troppo evidenti per non prenderle in considerazione. La ragazza presentava segni di morsicature su tutto il corpo ed era stata appesa per i piedi al lampadario della camera. Il cadavere era stato scoperto quando il lampadario era crollato fragorosamente. Anche Patricia Cameron era morta dissanguata, per emorragia di classe IV, dopo aver perso quasi il 70 per cento del volume ematico. La prima domanda era ovvia. Cosa se ne faceva uno di tutto quel sangue? 8 Stavo ancora riflettendo su quegli strani, terribili morsi e su tutto quel sangue quando scesi dall'aereo e mi ritrovai nell'affollata sala arrivi del San Francisco International Airport. Mi guardai intorno in cerca dell'ispettore Jamilla Hughes. Mi avevano detto che era nera ed era una gran bella donna. Notai un uomo d'affari che leggeva l'Examiner vicino all'uscita. Il titolo a caratteri cubitali in prima pagina diceva: «Orrore al Golden Gate Park, due morti». Non vedendo nessuno ad aspettarmi, cominciai a cercare le indicazioni per andare in centro con i mezzi pubblici. Portavo soltanto un bagaglio a
mano: avevo promesso che sarei tornato a casa in tempo per il concerto di Damon, ed ero seriamente intenzionato a mantenere la promessa. L'avevo giurato. Mentre mi avviavo, vidi avvicinarsi una donna. «Scusi, è lei il detective Cross?» L'avevo notata un attimo prima che mi rivolgesse la parola. Aveva un giaccone di pelle nera, jeans e una maglietta blu cobalto. Subito dopo riconobbi, inconfondibile, la fondina sotto la giacca. Avrà avuto trentacinque anni, era bella, diretta e gentile, per essere un ispettore della squadra Omicidi, categoria di solito piuttosto brusca nei modi. «Ispettore Hughes?» chiesi. «Jamilla.» Mi porse la mano e mi sorrise. Un bel sorriso. «Piacere di conoscerti. Di solito diffido di tutti quelli che hanno a che fare con l'FBI, ma tu hai una tale reputazione... E l'omicidio di Washington era spaventosamente simile, vero? Quindi, benvenuto a San Francisco.» «Grazie.» Ricambiai il sorriso e le strinsi la mano. Aveva una stretta decisa, ma non troppo. «Stavo proprio pensando a quel caso», le dissi. «Gli appunti che hai preso sulla scena del delitto me l'hanno fatto tornare in mente. Purtroppo però l'assassino di Patricia Cameron non è mai stato identificato. Se vuoi aggiungerlo al file della mia cosiddetta reputazione...» Jamilla Hughes mi concesse un altro sorriso, sincero, ma non esagerato. Del resto non c'era nulla di esagerato in lei. Non aveva il look da poliziotta, il che probabilmente era un bene. Anzi, sembrava fin troppo normale per lavorare nella polizia. «Be', sarà meglio che ci sbrighiamo. Ho contattato uno specialista in odontoiatria veterinaria che ci aspetta all'obitorio. È amico del medico legale. Che ne dici, come inizio del giro turistico della città?» Scossi la testa ridendo. «Ma se sono venuto apposta! Ho letto da qualche parte che chi passa per San Francisco non deve perdere l'occasione di visitare l'obitorio comunale.» «Non è nelle guide, ma meriterebbe di esserci. È molto più interessante di qualsiasi giro sui cable car», replicò Jamilla. 9 Meno di cinquanta minuti dopo, Jamilla Hughes e io eravamo all'obitorio della famosa Corte di Giustizia di San Francisco, dove fummo raggiunti dal medico legale Walter Lee e dall'esperto di odontoiatria, il dottor Al-
len Pang. Quest'ultimo esaminò con tutta calma entrambi i cadaveri prima di pronunciarsi. Aveva già studiato le fotografie dei morsi scattate sulla scena del delitto. Era basso e completamente pelato e portava un paio di occhiali dalla montatura nera e dalle lenti molto spesse. A un certo punto vidi che Jamilla strizzava l'occhio al medico legale: credo che trovassero il dottor Pang un po' strano. Anch'io avevo l'impressione di avere a che fare con un tipo bizzarro, ma l'importante era che fosse scrupoloso e prendesse sul serio il compito che gli era stato affidato. «Okay, okay. Ora posso dirvi di che natura sono i morsi», dichiarò alla fine del suo esame voltandosi verso di noi. «Hai detto che avete preso le impronte dei segni, vero, Walter?» «Sì, abbiamo usato la polvere con cui rileviamo le impronte digitali. I calchi dovrebbero essere pronti tra un paio di giorni al massimo. Abbiamo anche eseguito dei tamponi per analizzare la saliva, naturalmente.» «Bene, bene. È l'approccio migliore, secondo me. Sono pronto a esporvi il mio parere, benché naturalmente sia soltanto una supposizione.» «Grazie, Allen», replicò Lee in tono pacato e dignitoso. Portava un camice bianco con il soprannome Dragon ricamato sul taschino. Era alto, sarà stato quasi uno e novanta, e doveva pesare almeno centodieci chili. Con la sua aria sicura di sé, mi spiegò: «Il dottor Pang è un amico, e mi è stato di grande aiuto in altre occasioni. È l'esperto di odontoiatria veterinaria dell'Animal Medical Center di Berkeley. Uno degli specialisti migliori del mondo. Siamo fortunati a poterci avvalere della sua consulenza in questo caso». «Lei è sempre molto disponibile, dottor Pang, grazie», aggiunse l'ispettore Hughes. «È stato gentilissimo a venire.» «Grazie», dissi unendomi anch'io al coro. «Non c'è di che», ribatté lui. «Non so esattamente da dove cominciare, a parte dirvi che questi due omicidi sono di grande interesse per me. Dai morsi sul corpo dell'uomo, molto profondi, sono relativamente certo che l'aggressione sia stata opera di... be', di una tigre. A morsicare la donna invece sono stati due esseri umani. Sembra quasi che gli assassini e il felino fossero insieme, come se facessero parte dello stesso branco. Straordinario. A dir poco inconsueto.» «Una tigre?» esclamò Jamilla dando voce all'incredulità che tutti provavamo. «È sicuro? Mi sembra impossibile, dottor Pang.» «Allen, spiegati meglio, per favore», disse Walter Lee.
«Dunque, come sapete, gli esseri umani sono eterodonti, ovvero dotati di denti con forma diversa e funzioni specializzate. Molto importanti sono i canini, che si trovano tra gli incisivi laterali e il primo premolare su entrambi i lati della mascella, e che servono per strappare il cibo.» Walter Lee annuì e il dottor Pang continuò. A quel punto si rivolgeva esclusivamente al medico legale. Incrociai lo sguardo di Jamilla, che mi strizzò l'occhio. Mi piaceva il fatto che avesse il senso dell'umorismo. Il dottor Pang era nel suo mondo. «A differenza degli esseri umani, alcuni animali sono omodonti, dotati cioè di denti che hanno tutti la stessa forma, dimensione e anche la stessa funzione. Questo non vale però per i grossi felini e in particolare per le tigri, i cui denti si sono evoluti in base alle abitudini alimentari della specie. In ciascuna arcata le tigri hanno sei incisivi appuntiti e taglienti, due canini molto affilati e ricurvi, e i molari, anch'essi simili a lame.» «E questo è importante ai fini degli omicidi?» chiese Jamilla. Anch'io avevo pensato di fare una domanda del genere al dottor Pang, ma in termini molto meno diplomatici. L'ometto annuì entusiasta. «Oh, sì, certo. Le tigri hanno mascelle robustissime, capaci persino di stritolare un osso, ma articolate soltanto in senso verticale: non si muovono lateralmente. Questo significa che la tigre può strappare e triturare il cibo, ma non masticare o digrignare i denti.» Accompagnò la spiegazione mimando i vari gesti con la bocca. Io deglutii e mi ritrovai a scuotere la testa. Una tigre coinvolta negli omicidi? Com'era possibile? Il dottor Pang smise di parlare, alzò un braccio e si grattò piuttosto energicamente la testa pelata, quindi aggiunse: «Quello che non riesco assolutamente a spiegarmi è che qualcuno sia riuscito a strappare la preda alla tigre dopo che questa l'aveva aggredita. Eppure dev'essere successo, perché altrimenti l'avrebbe sbranata completamente». «Straordinario!» commentò il medico legale dando una pacca sulla spalla al dottor Pang. Poi guardò Jamilla e me. «Non dovrebbe essere poi così difficile trovare una tigre a San Francisco, non vi pare?» 10 La grossa tigre bianca emise uno sbuffo, una specie di fischio soffocato, trattenuto, un risucchio che veniva dal fondo della gola, un suono quasi ultraterreno. Da un cipresso nelle vicinanze si alzarono in volo gli uccelli e
gli animali più piccoli scapparono via veloci. Era lunga quasi due metri e mezzo e pesava poco più di duecentosessanta chili. Le sue prede naturali erano maiali, cervi, antilopi, bufali d'acqua. In California non ce n'erano, ma in compenso c'erano un sacco di uomini. Il possente felino, apparentemente senza sforzo, spiccò un balzo veloce, agile. Il giovanotto biondo non tentò neppure di resistere. La tigre spalancò le fauci e le richiuse sulla testa dell'uomo. Avrebbe potuto stritolargli il cranio. L'uomo gridò: «Ferma! Ferma! Ferma!» La tigre, incredibile ma vero, si bloccò. Così. A comando. «Hai vinto tu», disse ridendo il ragazzo, e la accarezzò, mentre quella gli lasciava libera la testa. Poi il giovane fece un salto verso sinistra, agile e leggero, e la attaccò a sua volta, affondandole i denti nella pancia bianca e vulnerabile, coperta di morbido pelo. «Ti ho preso, baby! Hai perso! Ti ho in pugno.» William Alexander, in piedi a una certa distanza, osservava il fratello con un misto di curiosità e timore. Michael era bellissimo, straordinariamente aggraziato e atletico, di una forza incredibile. Aveva indosso una maglietta nera con le tasche e un paio di pantaloni corti blu cobalto. Era alto uno e novanta e pesava ottantatré chili. Era perfetto. Come lui, del resto. William si allontanò ammirando i monti verdi in lontananza. Amava moltissimo quel posto, la sua bellezza e la solitudine, la libertà di fare tutto quello che voleva. Provava una calma grande e profonda. Era un'arte che stava ancora perfezionando. Quando lui e Michael erano piccoli, in quel posto c'era una comune. I loro genitori erano hippy, spiriti liberi e avventurosi, amanti della libertà, grandi consumatori di droga. Avevano inculcato ai due figli l'idea che il mondo esterno fosse non soltanto pericoloso, ma anche sbagliato. La madre gli aveva insegnato che si potevano avere rapporti sessuali con chiunque, purché fossero consensuali, e quindi William e Michael erano stati a letto con la madre, con il padre e con molti altri membri della comune. La loro dissolutezza era degenerata al punto da farli finire per due anni in una casa di correzione penale. Dopo un arresto per possesso di sostanze stupefacenti, erano stati condannati per aggressione aggravata ed erano sospettati di aver commesso reati molto più gravi, per i quali mancavano però le
prove. Osservando il panorama, William rifletté sul concetto di immaginazione sfrenata. Giorno dopo giorno si stava lasciando alle spalle lo squallido bagaglio del proprio passato, e ben presto si sarebbe affrancato completamente dalla falsa morale, dall'etica e da tutte le altre insulse inibizioni che il mondo civile continuava a spacciare per necessarie. Si stava avvicinando alla verità. E Michael lo seguiva da vicino. William aveva vent'anni. Michael soltanto diciassette. Uccidevano insieme ormai da cinque anni e stavano diventando sempre più in gamba. Erano invincibili. Immortali. 11 Quella sera i due fratelli uscirono a caccia a Mill Valley, una cittadina della contea di Marin in una zona bellissima, con monti coperti di splendidi, rigogliosi sempreverdi e alberi di eucalipto. La casa di legno di sequoia era un centinaio di metri più avanti, in cima a una salita rocciosa che affrontarono senza sforzo. Un sentierino di cotto conduceva a un portone di legno a due battenti. «Dovremo andare via per un po'», disse William a Michael, senza voltarsi. «Il Sire ci ha affidato una missione. San Francisco è stato soltanto l'inizio.» «Ottimo», commentò Michael con un sorriso. «A me è piaciuto molto. Chi abita in quella bella casa in cima alla salita?» William alzò le spalle. «Semplici mortali. Non sono nessuno.» Michael si accigliò. «Perché non mi vuoi dire chi sono?» «Il Sire ha detto di non parlarne e di non portare la tigre.» Michael non pose altre domande. La sua obbedienza al Sire era totale. Il Sire diceva che cosa pensare, che cosa sentire e che cosa fare. Il Sire non rendeva conto a nessuno, non riconosceva altra autorità al di fuori di sé. Il Sire, come loro, disprezzava il mondo dei comuni mortali. E quello che avevano davanti, in cima alla salita, ne era un ottimo esempio. La villa aveva tutti gli accessori d'obbligo: un giardino a terrazze, curato e innaffiato ogni giorno, una vasca con i pesci rossi, e una casa di oltre
dodici vani per due sole persone. Che snobismo! William si diresse alla porta con passo deciso e Michael lo seguì. L'atrio aveva il soffitto alto sei metri, un ridicolo lampadario di cristallo e una scala a chiocciola. Trovarono marito e moglie in cucina intenti a preparare con gran cura la cena. «Yuppie in azione», commentò William, e sorrise. «Ehi!» esclamò il marito alzando le braccia. Era alto più di uno e novanta e aveva un bel fisico. Stava lavando la verdura come uno sguattero. «Che cosa diavolo volete? Fuori di qui.» «Tu devi essere l'avvocato rompiscatole», disse William puntando un dito contro la moglie, una donna sulla trentina, magra e con poco seno, i capelli biondi corti e gli zigomi alti. «Siamo venuti a cena.» «Anch'io faccio l'avvocato», replicò il marito in tono dispotico. «Non credo siate stati invitati. Anzi, ne sono sicuro. Fuori di qui! Capito? Andatevene subito!» «Hai minacciato il Sire», continuò William rivolto alla donna. «E lui ci ha mandato a vendicare l'affronto.» «Ora chiamo la polizia», disse lei con voce angosciata, i seni che si alzavano e si abbassavano sotto la maglietta. William notò che aveva un piccolo cellulare in mano. Da dove l'aveva tirato fuori? Dalle mutande? L'idea lo fece sorridere. In un balzo le fu addosso, mentre Michael con altrettanta facilità metteva fuori combattimento il marito. I due fratelli erano incredibilmente forti e veloci, e ne erano consapevoli. Fecero un ruggito, ma era soltanto una tattica per spaventare le vittime. «Abbiamo dei soldi in casa. Mio Dio, non fateci del male», gridò il marito con voce stridula, quasi da donna. «Non ci interessano i vostri luridi soldi. Non sappiamo che farcene. E non siamo serial killer», ribatté William. Addentò il collo rosa e succulento della donna, che subito smise di dibattersi e si abbandonò a lui. Lo guardò negli occhi e svenne, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia. William non rialzò la testa finché non si fu saziato. «Siamo vampiri», bisbigliò alla fine ai due cadaveri. 12
Il secondo giorno a San Francisco mi misi al lavoro alla Corte di Giustizia, vicino alla scrivania di Jamilla Hughes. Presenziai a due dei suoi briefing sugli omicidi del Golden Gate Park, che mi parvero esaurienti e molto professionali. Era davvero in gamba. Tutto, in quel caso, sembrava inspiegabile e privo di logica. Nessuno aveva ancora le idee chiare al riguardo e non erano state avanzate ipotesi valide, o perlomeno io non ne avevo sentite. L'unica cosa che sapevamo con certezza era che le vittime erano state assassinate in modo particolarmente raccapricciante. Ma questo succede sempre più spesso, di questi tempi. Verso mezzogiorno, ricevetti una telefonata al cellulare. «Soltanto un controllino», esordì il Mastermind. «Com'è San Francisco, Alex? Bella città, eh? Pensi di lasciarci il cuore? Ti sembra un posto adatto per morire? E che mi dici di Jamilla? Ti piace? Carina, vero? Proprio il tuo tipo. Hai intenzione di scopartela? Caso mai, ti conviene sbrigarti. Tempus fugit.» E riattaccò. Mi rimisi al lavoro e per due ore fui totalmente assorbito. Cominciavo a fare qualche piccolo passo in avanti. Verso le quattro, mentre guardavo dalla finestra il traffico dell'ora di punta a San Francisco - non troppo caotico, devo dire - parlai con Kyle Craig. Era ancora a Quantico, ma si stava occupando del caso a tempo pieno. Kyle era in una posizione tale da poter decidere quali indagini seguire di persona, e mi comunicò che gli omicidi di San Francisco rientravano nella sua scelta: ci saremmo trovati di nuovo a lavorare insieme. La prospettiva mi allettava. Con la coda dell'occhio vidi Jamilla che veniva verso la mia scrivania. Si stava infilando la giacca di pelle. Dove andava? «Aspetta un attimo, Kyle.» «Dobbiamo andare a San Luis Obispo», mi informò Jamilla. «Stanno per riesumare un cadavere. Credo che ci sia un nesso con gli omicidi del Golden Gate Park.» Comunicai a Kyle che dovevo scappare e lui mi augurò buon lavoro. Insieme con Jamilla presi l'ascensore per scendere nel garage sotto la Corte di Giustizia. Più la vedevo all'opera, più apprezzavo il suo senso pratico e soprattutto il suo entusiasmo. Molti detective dopo due o tre anni lo perdono, evidentemente lei no. Hai intenzione di scopartela? Caso mai, ti conviene sbrigarti.
«Sei sempre così carica?» le chiesi quando fummo sulla sua Saab azzurra, diretti verso la 101. «Più o meno sì. Questo lavoro mi piace. E duro, ma interessante e perlopiù onesto. Farei volentieri a meno degli aspetti più violenti, ma...» «Be', i cadaveri appesi per i piedi fanno venire la pelle d'oca anche a me.» Jamilla si voltò a guardarmi. «A proposito di pelle d'oca, mettiti la cintura. La strada è lunga e io adoro la guida sportiva. Non lasciarti trarre in inganno dall'aspetto innocuo della mia Saab.» Non scherzava. Stando alle indicazioni, da lì a San Luis Obispo c'erano 377 chilometri. Piovve forte per quasi tutto il viaggio, ma alle otto e mezzo eravamo a destinazione. «Sani e salvi.» Jamilla annuì e mi strizzò l'occhio mentre imboccavamo a tutta velocità l'uscita. San Luis Obispo sembrava un posto idilliaco, ma noi ci trovavamo lì per riesumare il cadavere di una ragazzina, morta dissanguata e appesa per i piedi. 13 San Luis Obispo è una città universitaria molto graziosa, perlomeno vista dall'esterno. Trovammo Higuera Street e la percorremmo fino a Osos Street, passando davanti a negozietti tipici, ma anche a uno Starbuck, una libreria Barnes & Noble e un Firestone Grill. Jamilla mi spiegò che a San Luis Obispo si poteva scoprire che ora era dai profumi e dagli odori che si sentivano nell'aria: nel pomeriggio, fumo di barbecue in Marsh Street e, di notte, l'aroma del grano e dell'orzo nei pressi della distilleria. La detective Nancy Goodes ci aspettava alla stazione di polizia del centro. Era una donna minuta, piacente, con una bell'abbronzatura da californiana e l'aria piuttosto autorevole. Oltre a contattare noi per la riesumazione, si stava occupando delle indagini sulla morte di due studenti del California State Polytechnic. Non sembravano esserci collegamenti con il nostro caso, ma non era da escludere. Come la maggior parte dei detective specializzati in omicidi, era oberata di lavoro. «Abbiamo tutte le autorizzazioni necessarie per la riesumazione», ci disse mentre andavamo al cimitero. Se non altro aveva smesso di piovere e, grazie ai venti di Santa Ana, faceva caldo. «Che cosa ci puoi dire sulla Richardson? Avevi seguito tu il caso, ve-
ro?» le chiese Jamilla. Nancy annuì. «Sì. Come tutti gli altri investigatori della città, peraltro: la tragedia destò grande scalpore nella zona. Mary Alice Richardson frequentava il liceo cattolico ed era figlia di un medico molto conosciuto e benvoluto. Era una brava ragazza, anche se un po' ribelle. Che cosa posso dirvi? Era come tutte le ragazzine di quindici anni.» «Che cosa intende per 'un po' ribelle'?» chiesi. La detective Goodes sospirò ed esitò a rispondere. Era chiaro che il caso l'aveva segnata. «Faceva molte assenze a scuola, a volte anche due o tre alla settimana. Era intelligente, ma prendeva pessimi voti. Bazzicava un brutto giro: rave party, magia nera, alcol, ecstasy, forse anche cocaina. Era stata arrestata una volta sola, ma aveva dato parecchi grattacapi ai suoi.» «Tu l'avevi vista, Nancy? Eri stata sulla scena del delitto?» Notai che Jamilla la trattava con grande rispetto e stava attenta a non usare toni aggressivi. «Purtroppo sì. È uno dei motivi per cui mi sono data tanto da fare per avere il permesso di riesumare il cadavere. Sono passati un anno e tre mesi, ma non dimenticherò mai, mai e poi mai lo stato in cui la trovammo.» Jamilla e io ci scambiammo un'occhiata. Non eravamo ancora stati edotti su tutti i particolari di quell'assassinio. Stavamo ancora raccogliendo informazioni. La Goodes continuò: «Mi parve subito chiaro che l'assassino voleva che la trovassimo. Il cadavere fu scoperto da due ragazzi che avevano lasciato la macchina in un posto molto frequentato dagli studenti del politecnico, ed erano andati a fare una passeggiata al chiaro di luna. Sono sicura che hanno avuto gli incubi per un pezzo, dopo lo spettacolo che si videro davanti quella sera. Mary Alice era appesa per i piedi a un albero, completamente nuda. Gli assassini le avevano lasciato soltanto gli orecchini e un piccolo zaffiro all'ombelico. Di certo non l'avevano uccisa per derubarla». «E i vestiti?» domandai. «Li trovammo in seguito: pantaloni da paracadutista, scarpe Nike, maglietta Chili Peppers. Che ci risulti, non mancava nulla.» Lanciai un'occhiata a Jamilla. «L'assassino non prende nulla per ricordo. Per un motivo o per l'altro, non ha bisogno di trofei. Almeno così pare. Singolare per un serial killer.» «Vero. Sono d'accordo al cento per cento. Sapete che cos'è la scarificazione?» replicò la Goodes. Annuii. «Mi è già capitato di vedere gente che si procura cicatrici, feri-
te... Perlopiù sulle gambe e sulle braccia, talvolta sul petto o sul dorso. Evitano la faccia, perché se si vede c'è il rischio che qualcuno li costringa a smettere. Di solito si tratta di una forma di autolesionismo.» «Esatto», confermò Nancy. «O Mary Alice si autoinfliggeva tagli da qualche mese o glieli faceva qualcuno. Fatto sta che aveva oltre settanta ferite sul corpo. Dappertutto, tranne che sul viso.» La Suburban bianca imboccò un viale di ghiaia e superò un cancello arrugginito in ferro battuto. «Ci siamo. Togliamoci il pensiero. I cimiteri mi fanno venire la pelle d'oca. Non ho nessuna voglia di fare quello che stiamo per fare: mi mette una tristezza...» Metteva tristezza anche a me. 14 Devo ancora conoscere una persona normale cui non venga la pelle d'oca se si trova al buio in un cimitero. E, siccome mi considero relativamente equilibrato, ero pietrificato. Nancy Goodes aveva ragione: la storia di quella ragazza, di quella giovane vita stroncata così tragicamente, metteva una gran tristezza. Il camposanto era ai piedi delle morbide colline di Santa Lucia. C'erano tre auto del dipartimento di polizia di San Luis Obispo ferme nei pressi della tomba di Mary Alice Richardson, e non lontano erano parcheggiati il furgone del medico legale e due malandati pick-up senza contrassegni. Quattro operai stavano scavando alla luce dei fari delle auto della polizia. La terra era umida, argillosa e piena di vermi. Quando la buca fu abbastanza profonda, arrivò anche una scavatrice meccanica. A tutti i presenti, me compreso, non restava che aspettare pazientemente intorno alla tomba. Per ingannare l'attesa bevemmo caffè, scambiammo quattro chiacchiere e qualche battuta sinistra, ma nessuno aveva voglia di ridere. Spensi il cellulare. Ci mancava soltanto una chiamata del Mastermind, o di chiunque altro, lì, in mezzo alle tombe. Verso l'una del mattino gli operai arrivarono finalmente alla cassa. Avevo un nodo allo stomaco, ma non distolsi lo sguardo. Jamilla, vicino a me, rabbrividì, ma strinse i denti. Nancy Goodes era andata a sedersi in macchina. Furba. Per sollevare la bara usarono un piede di porco. Si udì un rumore che
sembrava il gemito di un sofferente. La fossa era profonda circa un metro e ottanta, lunga due e quaranta e larga poco più di un metro. Né Jamilla né io aprimmo bocca, concentrati unicamente sulla riesumazione. Le ciglia mi battevano veloci alla luce forte dei fari, avevo il respiro affannoso e la gola asciutta. Ripensai alle foto del ritrovamento di Mary Alice. Quindici anni. Appesa per le caviglie con la testa a mezzo metro da terra e lasciata lì per parecchie ore. Il dissanguamento era stato quasi completo. Un'altra morte per emorragia classe IV. Morsi e coltellate. La vittima di Washington non era stata accoltellata. Che cosa significava? Perché quelle variazioni sul tema? Che cosa se ne facevano di tutto quel sangue? Forse preferivo non sapere le risposte agli interrogativi che mi mulinavano nel cervello. Sotto la bara vennero fatte passare consunte cinghie di tela grigia e finalmente, piano piano, il feretro venne riportato in superficie. Avevo il respiro sempre più affannoso e, tutto a un tratto, mi sentii in colpa: mi venne il dubbio che non fosse giusto disturbare quella povera ragazza nella tomba, che quello che stavamo facendo fosse un atto sacrilego verso una persona che aveva già subito fin troppe atrocità. «Lo so, lo so. È uno schifo. Anch'io mi sento come te», mi sussurrò Jamilla tra i denti, posandomi una mano sul braccio. «Però dobbiamo farlo. Non abbiamo scelta. Dobbiamo scoprire se gli assassini sono gli stessi.» «Già... Ma perché questo non basta a mettermi l'anima in pace? Mi sento completamente svuotato.» «Povera ragazza. Perdonaci, Mary Alice. Poverina», disse Jamilla. Un funzionario delle pompe funebri, che aveva acconsentito a partecipare, scoperchiò la bara. E indietreggiò come se avesse visto un fantasma. Mi feci avanti e trattenni a stento un urlo. Jamilla si coprì la bocca con le mani. Due degli operai si fecero il segno della croce e chinarono il capo. Davanti ai nostri occhi c'era Mary Alice Richardson con un lungo vestito bianco e le trecce bionde, che ci fissava come se fosse stata sepolta viva. Il cadavere era praticamente intatto. «C'è una spiegazione», disse il funzionario delle pompe funebri. «I Richardson sono miei amici e mi chiesero se si poteva fare qualcosa per conservare il più a lungo possibile la figlia. Quasi sapessero che quella non era l'ultima volta in cui sarebbe stata vista. Il grado di decomposizione di un corpo, una volta tumulato, varia molto a seconda degli ingredienti. Per im-
balsamarla usai una soluzione a base di arsenico, come si faceva un tempo. Giudicate voi stessi il risultato.» Tacque, mentre noi, con gli occhi sbarrati, continuavamo a fissare il cadavere. «Mary Alice è esattamente come il giorno in cui fu sepolta. Questa è la povera ragazza che fu assassinata così brutalmente.» 15 Rientrammo a San Francisco alle sette del mattino. Non so dove Jamilla trovò la forza per guidare da San Luis Obispo fino a casa, ma ci riuscì. Per tenerci svegli ci sforzammo di parlare quasi tutto il viaggio e ci facemmo persino qualche risata, ma io ero esausto e facevo fatica a tenere gli occhi aperti. Quando, arrivato in albergo, finalmente li chiusi, vidi Mary Alice Richardson stesa nella bara. Mi presentai alla Corte di Giustizia alle due del pomeriggio e trovai Jamilla Hughes che beveva un caffè alla sua scrivania; sembrava fresca e riposata. In ottima forma. Lavorava a quel caso con impegno pari, se non superiore, al mio. Speravo che servisse a qualcosa. «Non dormi mai?» le chiesi fermandomi un attimo e notando quanto era ingombra la scrivania. C'era anche la foto di un bell'uomo sorridente e mi rallegrai che almeno Jamilla trovasse il tempo per avere una vita sentimentale. Pensai a Christine Johnson, che adesso viveva sulla West Coast, e provai un grande rammarico. Christine non era più l'amore della mia vita, purtroppo: si era trasferita da Washington a Seattle, dove si trovava bene e aveva ricominciato a insegnare. La donna alzò le spalle. «Mi sono svegliata verso mezzogiorno e non sono più riuscita a riaddormentarmi. Forse sono troppo stanca. Il medico legale di San Luis Obispo dice che ci manda il rapporto entro stasera. Ma senti questa: ho appena ricevuto un'e-mail da Quantico. Ci sono stati otto omicidi in California e Nevada che presentano analogie con quelli del Golden Gate Park. Non tutte le vittime sono state appese per i piedi, ma tutte presentavano segni di morsicature. Il più vecchio dei casi risale a sei anni fa, per ora. Ma stanno cercando anche più indietro.» «In quali città?» domandai. Diede un'occhiata agli appunti. «Sacramento, la nostra rispettabile capitale. San Diego. Santa Cruz. Las Vegas. Lake Tahoc San José. San Franci-
sco. San Luis Obispo. È raccapricciante, Alex. Uno soltanto di questi omicidi basterebbe a non farmi dormire per mesi.» «Più il caso Cameron a Washington», aggiunsi. «Chiederò all'FBI di controllare anche sulla East Coast.» Mi rivolse un sorriso imbarazzato. «L'ho già fatto io. Ci stanno lavorando.» «Allora noi che ci stiamo a fare?» chiesi scherzando. «Quello che fanno i poliziotti quando non gli resta che aspettare. Mangiamo ciambelle e beviamo caffè», ribatté alzando al cielo gli occhi scuri. Nonostante il sonno arretrato era molto bella, un fascino spontaneo e naturale. Andammo a fare colazione dietro l'angolo, al Roma's, e parlammo delle indagini. Poi le chiesi quali casi aveva risolto. Pur essendo molto sicura di sé, non si dava arie, e questo mi piaceva. Quando ebbe finito la sua omelette con il pane tostato, prese a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo. Aveva parecchi tic e sembrava sempre piuttosto tesa. Capii che con la testa era già tornata al lavoro. «Che cosa c'è?» le chiesi. «Mi stai nascondendo qualcosa, o sbaglio?» Annuì. «Mi hanno telefonato dalla KRON-TV. Stanno per mandare in onda un servizio sugli omicidi della California.» Aggrottai la fronte. «E come l'hanno saputo?» Scosse la testa. «Chi lo sa? Sto per dare l'okay a un giornalista che conosco all'Examiner, che sarà il primo a pubblicare la notizia.» «Un momento», obiettai. «Sei sicura?» «Sicurissima. Mi fido di lui. Se non altro darà un taglio realistico alla faccenda. Adesso aiutami a decidere se c'è qualcosa che vogliamo che l'assassino legga sui giornali. È il minimo che il mio amico possa fare per noi.» Al rientro in ufficio ci aspettava una brutta notizia: l'assassino aveva colpito ancora. 16 Un'altra brutta storia. Altri due cadaveri appesi. Jamilla e io, non appena arrivati a Mill Valley, ci dividemmo sulla scena del delitto. Avevamo due modi diversi di lavorare, tecniche differenti, ma non so perché ero convinto che saremmo giunti entrambi alle stesse conclusioni. E che sarebbero state inquietanti lo si intuiva fin dai primi indizi.
I due corpi erano appesi a testa in giù a una rastrelliera usata per le pentole di rame, nella cucina modernissima di una grande villa di lusso. Dawn e Gavin Brody dovevano aver passato da poco la trentina. Come le altre vittime, erano morti dissanguati. Il primo fatto curioso era che, sebbene fossero nudi, non erano stati derubati dei gioielli. Gli assassini avevano lasciato due Rolex, le fedi, un anello di fidanzamento con un grosso diamante e un paio di orecchini tempestati di brillanti. Evidentemente non erano interessati né ai preziosi né ai soldi, e forse volevano farcelo notare. Ma dov'erano gli indumenti delle vittime? Erano stati usati per pulire, per asciugare il sangue? Era per questo che gli assassini li avevano portati via? L'impressione era che i Brody, entrambi avvocati di grido, fossero stati sorpresi mentre preparavano la cena. C'era un significato simbolico nascosto? Un macabro senso dell'umorismo? Si trattava di una semplice coincidenza, o erano stati deliberatamente aggrediti proprio a quell'ora? Era un esempio di cannibalismo punitivo nei confronti dei ricchi? Insieme con noi, nella cucina, c'erano vari agenti della polizia locale e tecnici dell'FBI. Mi resi conto che il danno era già stato fatto: gli uomini di Mill Valley, per quanto bene intenzionati, probabilmente non avevano mai avuto a che fare con un omicidio di quel genere. Infatti sul pavimento di pietra grezza c'erano alcune impronte che quasi sicuramente non erano state lasciate né dagli assassini né dai padroni di casa. Jamilla, fatto il giro della grande cucina, mi raggiunse. Aveva visto abbastanza. Scuoteva la testa e non ci voleva molto per capire che cosa stesse pensando. Le tracce erano state irrimediabilmente confuse dalla polizia locale. «È così strano», mi sussurrò dopo un po'. «Questi assassini devono avere un tale odio dentro! Non ho mai visto nulla di simile. Tu hai mai visto una furia del genere, Alex?» La guardai negli occhi, ma non dissi nulla. Purtroppo l'avevo già vista. 17 L'articolo uscito in prima pagina sul San Francisco Examiner che descriveva l'escalation di omicidi sulla West Coast aveva già scatenato un putiferio. Quella sera William e Michael, guardando la televisione, rimasero im-
pressionati dalle loro stesse prodezze. Eppure si aspettavano di essere al centro dell'attenzione dei media. Anzi, ci contavano: faceva parte del piano. William e Michael erano speciali, erano la squadra scelta appositamente per compiere quella missione. Ed erano di nuovo in azione. Stavano cenando in una tavola calda di Woodland Hills, a nord di Los Angeles. La gente nel locale li notava. Era logico. Alti uno e novanta, con i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, il fisico asciutto e muscoloso, vestiti rigorosamente di nero, William e Michael parevano gli archetipi della gioventù moderna. Un incrocio tra bellezza ferina e portamento regale. Il telegiornale continuava. Gli omicidi erano la notizia principale e occuparono parecchi minuti, con interviste a gente spaventata di Los Angeles, Las Vegas, San Francisco e San Diego che rilasciava le dichiarazioni più insulse che si potessero immaginare. Michael si rabbuiò e lanciò un'occhiata al fratello. «Non hanno capito un cazzo! Idioti!» William mangiò un boccone del suo sandwich e alzò di nuovo gli occhi verso lo schermo. «I giornali e la televisione non capiscono mai niente, fratellino. Fanno parte del problema più generale. E sta a noi risolverlo. Come con i due avvocati di Mill Valley. Hai finito?» Il ragazzo trangugiò in un sol boccone quel che restava del suo cheeseburger al sangue. «Sì, e ho fame anch'io. Ho bisogno di nutrirmi.» Gli splendidi occhi azzurri erano velati. William sorrise e gli diede un bacio sulla guancia. «Andiamo, allora. Ho un bel programma per stasera.» Michael esitò. «Non dovremmo stare un po' attenti? La polizia ci sta cercando, no? Adesso siamo famosi.» William continuò a sorridere. L'ingenuità del fratello lo commuoveva e lo divertiva. «Siamo incredibilmente importanti. Siamo gli eroi del futuro. Vieni, fratellino. Abbiamo bisogno di nutrirci tutti e due. Ce lo meritiamo. A parte il fatto che la polizia non sa chi siamo. Non dimenticarlo mai: i poliziotti sono degli idioti incompetenti.» Al volante del furgone bianco, William riattraversò Woodland Hills, rammaricandosi di non aver portato la tigre. Ma quella volta il viaggio era troppo lungo. Entrò nel parcheggio di un centro commerciale esageratamente illuminato e osservò le insegne dei negozi: Wal-Mart, Denny's, Staples, Circuit City. C'era anche uno sportello della Wells Fargo. Li disprez-
zava tutti, dal primo all'ultimo, e disdegnava chi ci andava. «Non starai cercando una preda in questo posto?» esclamò Michael guardandosi intorno con aria preoccupata. William scosse la testa, facendo oscillare la coda bionda. «No, no, figurati. Questa gente non è alla nostra altezza, fratellino. Be', quella ragazza bionda laggiù, con i jeans aderenti, potrebbe anche andare bene.» Michael piegò la testa da una parte e si leccò le labbra. «Ma sì, dai! Come antipasto.» William scese dal furgone e si avviò verso l'altro lato del parcheggio con andatura scattante, testa alta e sorriso sulle labbra. Michael lo seguì. Insieme attraversarono il cortile dietro la banca e poi il parcheggio del ristorante Denny's, che a detta di William puzzava di fritto e di gente obesa. Michael cominciò a sorridere quando capì le intenzioni del fratello. Davanti a loro si stagliava una sobria insegna in bianco e nero, illuminata dall'interno, che diceva: POMPE FUNEBRI SOREL. 18 William impiegò meno di un minuto a forzare la porta di servizio. Era un gioco da ragazzi perché le misure di sicurezza erano minime. «Ci siamo quasi», disse al fratello. Stava cominciando a eccitarsi e, guidato dall'olfatto, si diresse verso la sala delle imbalsamazioni, dove scovò tre cadaveri conservati in una cella frigorifera. «Due maschi e una femmina», sussurrò. William li esaminò sommariamente. Erano morti da poco. Solo due erano già stati imbalsamati. Il ragazzo si intendeva di tanatologia e sapeva come venivano trattate le salme. Per l'imbalsamazione il sangue veniva drenato e sostituito con un liquido a base di formaldeide tramite sonde inserite nella carotide e nella vena giugulare. La fase successiva consisteva nello svuotare gli organi interni dai fluidi contenuti, dopodiché si effettuavano operazioni prevalentemente cosmetiche: le mascelle del cadavere venivano chiuse e bloccate con un filo, le labbra composte e sigillate con una specie di colla. Sotto le palpebre si inserivano delle semisfere per impedire al globo oculare di sprofondare nel cranio. William indicò la pompa che serviva per drenare il sangue e gli altri liquidi corporei e rise. «Stasera non ne abbiamo bisogno!» Era sveglissimo, estremamente attento. Si sentiva invincibile. Avendo un'ottima visione notturna, la luce di una lampada da tavolo gli era più che
sufficiente. Aprì uno dei frigoriferi, prese in braccio il cadavere non ancora imbalsamato di una donna sulla quarantina, e lo trasferì su un tavolo di ceramica. Guardò il fratello, si sfregò leggermente le mani e prese fiato. Avevano compiuto altri raid negli obitori e, pur non essendo paragonabili alla carne fresca, anche i cadaveri erano pur sempre prede appetibili. Oltretutto, la donna era in condizioni abbastanza buone per la sua età: era bella e decisamente più sexy di quella che avevano aggredito a San Francisco. Sul corpo c'era una targhetta con il nome: DIANA GINN. «Spero che non l'abbia già assaggiata qualche addetto delle pompe funebri», disse William al fratello. Ogni tanto capitava che un miserabile maniaco si improvvisasse becchino per approfittare a suo piacimento dei cadaveri, eseguendo esplorazioni assolutamente non richieste delle cavità vaginali e anali. Avere rapporti sessuali con il morto nella bara era un passatempo perverso assai più diffuso di quanto la gente pensasse. William si accorse di essere eccitato. Era un'esperienza senza pari. Salì sul tavolo e si piazzò sopra la donna. Il corpo nudo di Diana Ginn era cereo, ma, nella penombra, affascinante. Aveva le labbra bluastre, carnose. Si chiese come fosse morta, dal momento che non sembrava né malata né presentava ferite evidenti che facessero supporre un incidente. Le sollevò delicatamente le palpebre e la guardò negli occhi. «Ciao, tesoro. Sei bellissima, sai, Diana», le sussurrò con voce sognante. «E non è un complimento tanto per fare. Dico sul serio. Sei eccezionale, la regina di una notte come questa, degna di me e di Michael. Non ti deluderemo.» Le sfiorò le guance, poi il lungo collo e il seno ormai flaccido, studiando la rete intricata delle vene. Era stupenda. Gli stava facendo letteralmente girare la testa. Nel frattempo suo fratello le accarezzava i piedi ossuti e le caviglie sottili e risaliva con tocco amorevole lungo le gambe, gemendo piano, quasi volesse risvegliarla delicatamente da quel sonno profondo. «Ti amiamo», sussurrò Michael. «Sappiamo che ci senti. Sei ancora dentro il tuo corpo, vero? Lo sappiamo, Diana. Sappiamo esattamente come ti senti. Perché noi siamo non-morti.» 19
La straordinaria disciplina e l'impegno di Jamilla Hughes continuavano a impressionarmi. Che cosa la spingeva a lavorare tanto? Un segreto nascosto nel suo passato? Qualcosa di più manifesto e recente? Il fatto di essere una delle due uniche donne nella Omicidi di San Francisco? Tutte queste motivazioni messe insieme? Jamilla mi aveva raccontato che non prendeva un giorno di ferie da quasi due anni. Conoscevo il problema. Il giorno successivo accennai un paio di volte alla sua etica del lavoro, ma lei minimizzò con un cenno del capo. Gli altri investigatori della squadra la rispettavano molto: era una persona normale, che non si dava arie e non contava balle. Venni a sapere che aveva un nomignolo, Jam, che a mio parere le stava a pennello. Nel pomeriggio passai un paio d'ore a informarmi sulle tigri. Erano in corso indagini a tappeto in tutti gli zoo e gli allevamenti della zona, nel tentativo di identificare tutte le tigri che si trovavano in California. Per il momento, la pista migliore era quella della belva assassina. Tenevo un mio elenco personale di fatti e cose che per un motivo o per l'altro mi colpivano in modo particolare. Qualcuno era stato in grado di comandare e controllare il felino prima e dopo l'attacco mortale a Davis O'Hara nel Golden Gate Park. Un domatore? Un veterinario? Le mascelle di una tigre sono così forti da poter stritolare e polverizzare le ossa umane. Eppure c'era qualcuno che riusciva a staccare la tigre dalla sua preda. Tutte le specie di questi animali sono considerate in via di estinzione, ha progressiva scomparsa del loro habitat naturale e la caccia di frodo ne minacciano la sopravvivenza. Che gli assassini fossero ambientalisti? Le tigri vengono cacciate per via delle presunte virtù terapeutiche di molte parti del loro corpo, considerate preziose e, in alcuni casi, addirittura sacre. Hanno anche un significato magico in certe culture, soprattutto in alcune regioni dell'Africa e dell'Asia. Che questo fosse importante ai fini delle indagini? Avevo perso la cognizione del tempo e, quando smisi di scrivere, fuori stava già facendo buio. Vidi Jamilla nel corridoio: veniva verso di me. Aveva la giacca di pelle nera e sembrava in procinto di andare via. Si era messa il rossetto. Forse aveva un appuntamento galante. Era bellissima. «Tigre! Tigre! Divampante fulgore nelle foreste della notte», esclamò citando la famosa poesia di William Blake.
Risposi con l'unico altro verso che ricordavo: «Chi l'Agnello creò, creò anche te?» Dapprima mi guardò con aria pensosa, poi sorrise. «Che squadra: i detective poeti! Vieni, andiamo a berci una birra.» «Sono sfatto e ho ancora un paio di dossier da controllare. Credo che sia il jet lag.» Nel momento stesso in cui lo dicevo, mi chiesi perché diavolo stessi declinando l'invito. Jamilla alzò una mano. «Va bene, va bene. Bastava che dicessi: 'No, grazie, non sei il mio tipo'. Accidenti! Ci vediamo domattina. Ma grazie dell'aiuto. Sul serio.» La vidi sorridere mentre si girava e si allontanava nel lungo corridoio che portava agli ascensori. Ma poi mi accorsi anche che scuoteva la testa. Quando se ne fu andata, tornai alla mia scrivania con vista sulle strade di San Francisco e sospirai, scuotendo la testa a mia volta. Mi sentivo invadere da una stanchezza che mi era fin troppo nota. Ero di nuovo solo, e la colpa era soltanto mia. Perché avevo detto di no a Jamilla quando mi aveva proposto una birra? Mi era simpatica, non avevo altro da fare e non ero poi così sconvolto dal cambiamento di fuso orario. Ma il motivo era semplice e credevo di conoscerlo: negli ultimi due casi di omicidio avevo fatto amicizia con le due colleghe che mi erano state assegnate. Entrambe mi piacevano ed entrambe erano morte. Il Mastermind era ancora a piede libero. Era possibile che fosse a San Francisco in quel momento? Jamilla Hughes era al sicuro? 20 L'indomani mattina fui svegliato molto presto dal telefono della mia stanza d'albergo. Mezzo addormentato, tirai su il ricevitore. Era Jamilla e sembrava un po' affannata. «Ieri sera mi ha chiamato il mio amico Tim dell'Examiner. Ha un'informazione che potrebbe essere preziosa per noi.» Mi aggiornò rapidamente, riferendomi i particolari su un tentato omicidio che risaliva a molto tempo prima. La vittima era sopravvissuta e noi avremmo potuto parlarle. Jamilla e io eravamo di nuovo in partenza. Non mi chiese neppure se volevo andare con lei: evidentemente lo dava per scontato. «Ti passo a prendere tra mezz'ora, quaranta minuti al massimo. Andiamo a Los Angeles. Vestiti di nero, mi raccomando.»
La United Airlines ha un volo ogni ora da San Francisco a Los Angeles. Prendemmo quello delle nove, e circa un'ora dopo eravamo a destinazione. Chiacchierammo per tutto il viaggio. Prendemmo un'auto a noleggio e ci dirigemmo verso Brentwood, il quartiere dove era successo il fattaccio di OJ. Simpson. Ero gasato quanto Jamilla al pensiero di poter interrogare un testimone prezioso. Anche quelli dell'FBI sarebbero intervenuti. Dalla macchina la Hughes chiamò il suo amico giornalista, Tim. Non potei fare a meno di chiedermi se c'era del tenero fra di loro. «Hai scoperto altro che ci possa servire?» gli chiese. Rimase ad ascoltare e poi mi riferì. Erano cose che in parte sapevamo già. «La ragazza che stiamo per interrogare è stata aggredita da due uomini ed è riuscita a fuggire. È stata fortunata, fortunatissima. L'hanno azzannata più volte su petto, collo, pancia e viso. Le è sembrato che i due aggressori fossero sui quaranta, quarantacinque anni. Il fatto risale a circa un anno fa, Alex. Se ne è parlato molto sui tabloid.» Io mi limitai ad ascoltare in silenzio, con grande attenzione. Era un caso molto strano. Non avevo mai sentito nulla di simile. «Stavano per appenderla a un albero. Negli articoli che il mio amico è riuscito a trovare non si fa cenno a nessuna tigre. Un ispettore del dipartimento di Los Angeles ci aspetta alla stazione di polizia. Sono sicura che avrà altri particolari da darci. È stato lui a dirigere le indagini, all'epoca.» Si voltò a guardarmi. Mi doveva dire ancora qualcosa, qualcosa di buono. «Ma senti questa, Alex. Secondo la mia fonte, la ragazza è convinta che i suoi aggressori fossero vampiri.» 21 Facemmo conoscenza con Gloria Dos Santos alla stazione di polizia di Brentwood. L'edificio di cemento, a un solo piano, era anonimo come un ufficio postale. L'ispettore Peter Kim ci raggiunse in una saletta per colloqui non più grande di un metro e mezzo per due, insonorizzata e con le pareti imbottite. Era un giovanotto alto e magro, ben vestito, e mi sembrò più un manager californiano in carriera che un poliziotto. Lui e Gloria Dos Santos evidentemente si conoscevano e non si piacevano. Lei lo chiamò più volte «detective Fuhrman», finché lui non le disse che con OJ. Simpson non aveva mai avuto a che fare e che la piantasse. La Dos Santos portava un vestito nero molto corto, stivali neri e bracciali di cuoio, oltre a una decina di orecchini e anelli vari in punti strategici
del corpo. Aveva i capelli crespi e neri raccolti in alto sulla testa, con qualche ciocca che le ricadeva sulle spalle. Di statura non arrivava a un metro e sessanta. Aveva un viso duro, gli occhi truccati di viola e le ciglia coperte di mascara. Sembrava in buona forma fisica, come la maggior parte delle vittime che avevo visto fino a quel momento. Fissò prima Kim, poi me e per ultima Jamilla. Scosse la testa e fece una risatina. Non le eravamo simpatici. Niente di grave: nemmeno lei mi piaceva particolarmente. Con un ghigno beffardo chiese: «Si può fumare in questo buco? Tanto io lo faccio lo stesso. Se avete qualcosa in contrario, mi levo dai coglioni». «Allora fuma», le rispose l'ispettore. «Ma di qui non te ne vai, mettitelo bene in testa.» Tirò fuori dei semi di girasole e cominciò a sgranocchiare. Anche Kim era parecchio strano. La Dos Santos si accese una Camel e gli soffiò in faccia una gran nuvola di fumo. «Il detective Fuhrman sa le stesse cose che so io. Perché non vi fate raccontare tutto da lui? È intelligente, sapete. Chiedeteglielo. Si è laureato con lode alla UCLA.» «Ci sono alcune cose che non ci risultano chiare», le dissi. «Per questo siamo venuti fin qui da San Francisco. Anzi, per la verità io vengo da Washington.» «Allora ha fatto un sacco di strada per niente», ribatté Gloria, che evidentemente aveva sempre la risposta pronta. Si sfregò gli occhi come se stesse cercando di svegliarsi. «E chiaro che sei strafatta», intervenne Jamilla. «Ma a noi non interessa. Rilassati. Gli uomini che ti hanno aggredito erano violenti, vero?» La Dos Santos sbuffò. «Violenti? Mi hanno rotto due costole e un braccio. Mi hanno sbattuto per terra cinque o sei volte. Fortuna che a un certo punto sono rotolata giù per un dirupo. Quando mi sono fermata, ho alzato il culo e me ne sono andata.» «Nella prima deposizione dichiari di non averli visti bene, nessuno dei due. Poi sostieni che erano sui quaranta-cinquant'anni.» La ragazza alzò le spalle. «Non lo so. C'era la nebbia. È soltanto un'impressione. Quella sera ero stata al Fang Club di West Pico, che è l'unico posto dove si possono conoscere dei veri vampiri senza lasciarci la pelle. Almeno così dicono. All'epoca frequentavo un sacco di club gotici: lo Stigmata, il Coven 13, il Vampiricus a Long Beach. Lavoravo alla Necromane. Che cos'è la Necromane?» chiese, dando per scontato che non lo sa-
pessimo e stessimo per domandarglielo. E in effetti era così. «È una boutique per necrofili che vende autentici teschi umani, dita, o anche interi scheletri, se vi interessano.» «Non credo, grazie», rispose Jamilla. «Ma sono stata in un negozio del genere a San Francisco. Si chiama Coroner.» La ragazza la guardò dall'alto in basso. «Vuoi che ti dica che sei grande? Sei proprio una gran figa, eh? All'avanguardia.» Intervenni io. «Senti, Gloria, noi vogliamo soltanto aiutarti. Siamo qui per...» Mi interruppe. «Balle: volete che io aiuti voi. State indagando su un altro caso, giusto? Quegli strani omicidi di San Francisco, no? Guardate che so leggere. Di Gloria Dos Santos e dei suoi problemi non potrebbe fregarvene di meno. Eppure ne ho un sacco. Più di quanti credete. E a voi non ve ne fotte un cazzo!» «Sono state uccise due persone nel Golden Gate Park. Massacrate. L'hai letto? Pensiamo che possano essere stati gli stessi che hanno aggredito te», le dissi. «Be', allora cercate di mettervi in testa una cosa: quelli che hanno assalito me erano vampiri! Capito? So che per i vostri cervellini è difficile arrivarci, ma i vampiri esistono. Soltanto che se ne stanno ben lontani dal resto dell'umanità, voi compresi! Quelli che mi volevano far fuori erano due vampiri. Erano a caccia di prede a Beverly Hills. A Los Angeles succede tutti i giorni! Ammazzano la gente per bersi il sangue... dicono che si nutrono così. Sgranocchiano le ossa come se fossero polpette di pollo. Okay, vedo che non ci credete. Be', peggio per voi.» La porta della saletta si aprì senza fare rumore ed entrò un agente in divisa che bisbigliò qualcosa all'orecchio di Kim. L'uomo si rabbuiò e guardò prima noi e poi la Dos Santos. «C'è stato un omicidio in Sunset Boulevard, poco fa, in un albergo di lusso. La vittima è stata morsa e appesa.» Gloria Dos Santos fece una smorfia spaventosa, strinse gli occhi e, arrabbiatissima, si mise a urlare con tutto il fiato che aveva: «Vi hanno seguito fin qui! Non capite? Vi hanno seguito! Oddio, adesso sanno che vi ho parlato. Oh, Gesù, adesso vengono qui e mi ammazzano. E la colpa è soltanto vostra!» PARTE SECONDA SETE DI SANGUE
22 Siccome risolvere i casi più difficili con Kyle Craig mi è sempre piaciuto, fui ben contento quando mi disse che intendeva raggiungere, quel giorno stesso, me e Jamilla Hughes a Los Angeles. Tuttavia rimasi un po' sorpreso nel trovarlo già sulla scena del delitto a Beverly Hills. Il cadavere era stato trovato allo Chateau Marmont, l'albergo in cui era morto di overdose John Belushi. Con i suoi sette piani e la vista sul Sunset Strip, l'hotel sembrava un castello francese. Entrando nella hall, notai che era arredato con pezzi autentici degli anni '20, ma che l'effetto era decadente, più che antico. Raccontano che un boss della Columbia Pictures una volta disse a William Holden: «Se devi cacciarti nei guai, tanto vale tu lo faccia allo Chateau Marmont». Kyle ci accolse sulla soglia della camera. Aveva i capelli neri lisciati all'indietro e una leggera abbronzatura. Strano. Quasi non lo riconoscevo. «Ti presento Kyle Craig dell'FBI, Jamilla», dissi. «Prima di conoscere te, era il miglior investigatore con cui avessi mai lavorato.» Dopo che Kyle e Jamilla si furono stretti la mano, entrammo in quella che, più che una stanza, era una suite di due camere da letto, un soggiorno con caminetto e un'entrata indipendente da una stradina in salita. Lo spettacolo che mi trovai di fronte mi era tristemente familiare. Mi venne in mente una citazione molto pessimista di un filosofo, una considerazione cui io stesso ero giunto davanti a un sanguinoso omicidio nel North Carolina: «L'esistenza umana dev'essere un errore. Oggi è brutta e lo diventa sempre di più, finché non succede il peggio del peggio». La mia filosofia era un po' meno nera di quella di Schopenhauer, ma in certe occasioni sembrava che avesse proprio ragione lui. Il peggio del peggio era successo al dirigente ventinovenne di una casa discografica, Jonathan Mueller, e nel modo più atroce possibile. Presentava segni di morsicature sul collo, ma nessuna ferita da taglio, ed era stato appeso al lampadario in una delle due camere. La pelle era bianca e trasparente. Non doveva essere morto da molto. Ci avvicinammo. Il cadavere oscillava leggermente e gocciolava ancora. «I morsi più gravi sono tutti sul collo», dissi. «Sembrerebbero di nuovo sedicenti vampiri. Appenderli deve far parte del rituale, o forse è una sorta di firma.»
«Raccapricciante. Gli hanno succhiato il sangue, poveraccio. Sembra quasi un delitto a sfondo sessuale», mormorò Jamilla. «E forse lo è», dichiarò Kyle. «Secondo me prima di ammazzarlo lo hanno sedotto.» In quel mentre mi squillò il cellulare nella tasca della giacca. Non poteva esserci momento peggiore. Lanciai un'occhiata a Kyle prima di rispondere: «Potrebbe essere lui». Mi avvicinai il telefono all'orecchio. «Ti piace L.A., Alex?» mi chiese il Mastermind con la sua solita cantilena meccanica. «I cadaveri sono tutti uguali, ovunque tu li veda, vero?» Feci un cenno a Kyle, che capì subito con chi stavo parlando. Il Mastermind. Mi fece cenno di passargli il telefono. Glielo porsi e lo guardai bene in faccia mentre ascoltava in silenzio. A un certo punto corrugò la fronte, poi allontanò il cellulare dall'orecchio e disse: «Ha buttato giù. Quasi sapesse che tu non eri più in linea. Come fa, Alex? Come fa quel bastardo a sapere tante cose? Che diavolo vuole da te?» Fissai il cadavere che oscillava lentamente senza trovare nulla da dire. Assolutamente nulla. Mi sentivo svuotato anch'io. 23 Era già venerdì e ci trovavamo nel pieno di una vicenda sordida e intricata destinata a non chiudersi tanto presto. Nel pomeriggio dovevo fare una telefonata difficile: a casa mia, a Washington. Nana rispose al secondo squillo e subito rimpiansi che non mi avesse risposto uno dei bambini. «Sono Alex. Come stai?» «Non torni a casa per il concerto di Damon domani, vero? O te lo sei addirittura dimenticato? Alex, Alex, perché ci hai abbandonato? Non è giusto.» Voglio un bene dell'anima a Nana, ma a volte trovo che esageri un po'. «Perché non mi passi Damon?» ribattei. «Ne parlo con lui.» «Damon è un bambino, ma non lo sarà ancora per molto. Tra poco diventerà come te e non darà più retta a nessuno. Allora capirai che effetto fa non essere ascoltati. E ti garantisco che non ti piacerà», replicò Nana. «Mi sento già abbastanza in colpa. Non è il caso che tu me lo faccia pesare tanto, nonna.» «Certo che te lo faccio pesare. È il mio mestiere e lo prendo sul serio
quanto tu il tuo», ribatté. «Nana, c'è gente che muore qui. E se sono coinvolto in questo pasticcio è perché anche a Washington qualcuno ha fatto una fine spaventosa. Gli omicidi non sono finiti. Ci dev'essere un nesso che devo far venire alla luce, o perlomeno cercare di scoprire.» «Sì, c'è gente che muore, Alex, lo capisco. Ma altra gente cresce senza che il padre la segua quanto sarebbe necessario, tanto più che non ha nemmeno la madre. Te ne rendi conto? Non posso fare da madre e da padre a questi bambini.» Chiusi gli occhi. «Lo so. E sono d'accordo con te, anche se non ci crederai. Adesso, per favore, mi passi Damon?» insistetti. «Appena abbiamo finito di parlare, esco e vedo se riesco a trovare una madre per i miei figli. Ora che ci penso, sto lavorando con una collega molto simpatica. Ti piacerebbe.» «Damon non c'è. Ha lasciato detto, se chiamavi per dire che non torni, di dirti: 'Tante grazie'.» Scossi la testa e mio malgrado sorrisi. «Imitazione perfetta, Nana. Dov'è andato?» «A giocare a basket con i suoi amici. E bravo, sai. Credo che diventerà un ottimo centro. Te n'eri accorto?» «E agile e svelto. Certo che me ne sono accorto. Sai con chi è uscito?» «Sì che lo so. Tu, piuttosto, lo sai?» ribatté Nana. Era implacabile, quando ci si metteva. «E andato con Louis e Jamal. Se li sceglie bene, gli amici.» «Ora devo andare, Nana. Saluta Damon e Jannie da parte mia, per favore. E dai un bacio al piccolo Alex.» «Alex, vieni a salutarli e a baciarli tu», rispose. E riattaccò. Non l'aveva mai fatto. Non molto spesso, perlomeno. Rimasi inchiodato alla sedia a ripensare a quello che ci eravamo appena detti e a chiedermi se davvero ero così colpevole. Ero sicuro di passare con i miei ragazzi più tempo della maggior parte dei padri, ma era vero, come Nana mi aveva giustamente fatto notare, che i miei figli erano orfani di madre e stavano crescendo in fretta. Dovevo fare di più, non c'erano scuse. Richiamai casa varie volte, ma non rispose nessuno e immaginai che fosse una misura punitiva nei miei confronti. Alla fine, verso le sei, trovai Damon, appena rientrato da una prova del coro. Riconobbi la sua voce e accennai una canzoncina rap di Tupac che gli piaceva molto. Rise e capii che era tutto a posto: mi aveva perdonato. È un bravo bam-
bino. Non potrei desiderare di meglio. All'improvviso pensai a mia moglie, Maria, e mi rammaricai che non ci fosse più e non potesse vedere come cresceva bene nostro figlio. Damon ti piacerebbe moltissimo, Maria. Mi dispiace che tu non sia qui a godertelo. «Ho capito. Mi dispiace, Damon. Vorrei tanto poter venire a sentirti domani. Lo sai. Ma non posso farci niente, ragazzo mio.» Damon fece un sospiro teatrale. «Se i desideri avessero le ali...» Era uno dei detti preferiti della sua bisnonna. Erano anni che me lo sentivo ripetere, da quando avevo più o meno la sua età. «Fustigami», dissi. «No. Non è il caso, papà», rispose Damon con un altro sospiro. «So che hai da fare e che probabilmente è un lavoro importante. Soltanto che per noi a volte è dura. Sai com'è.» «Ti voglio bene e so che dovrei essere lì con voi, ma ti prometto che il prossimo concerto non me lo perdo». «Promesso?» «Promesso.» 24 Alle sette e mezzo di quella sera ero ancora alla stazione di polizia di Brentwood. Ero stanco e non vedevo l'ora di alzare la testa dal fascio di rapporti sui sadici omicidi avvenuti in nove città della West Coast, più quello di Washington. Quei casi mi facevano accapponare la pelle, e non certo perché credessi ai vampiri. Sapevo bene però che la gente a volte faceva cose strane e spaventose, tipo azzannare il suo prossimo, appenderlo, succhiargli il sangue o scatenargli contro una tigre inferocita. Per una volta non riuscivo nemmeno a immaginare come potessero essere gli assassini, non riuscivo a tracciarne un profilo psicologico. Né ci stava riuscendo l'unità di scienze comportamentali dell'FBI, come mi aveva confidato Kyle Craig. Uno dei motivi per cui era venuto in California era proprio quello. Lui stesso era sconcertato davanti a quegli omicidi senza precedenti. Verso le otto meno un quarto, Jamilla si alzò dalla sua scrivania in fondo alla stanza e venne verso di me. Era una bella donna, ma quella sera aveva l'aria veramente stanca. Chi lavora nella polizia sa che durante le indagini più difficili entra in circolo l'adrenalina, l'emotività prende facilmente il sopravvento e una semplice attrazione rischia di portare a conseguenze
molto problematiche. A me era già successo, e anche a Jamilla, a giudicare da come si comportava. Forse era per questo che andavamo così cauti. Si appoggiò alla mia scrivania e sentii un lieve profumo di acqua di colonia. «Devo rientrare a San Francisco, Alex. Sto andando all'aeroporto. Ho lasciato un sacco di appunti per te e per Kyle sui dossier che sono riuscita a controllare. Ma devo dirti che a me non sembra proprio che tutti gli omicidi siano opera delle stesse persone. Il mio contributo per oggi è questo.» «Perché dici così?» chiesi. In realtà anch'io condividevo la stessa opinione, per quanto non avessi argomenti su cui fondarla. La mia era più che altro una sensazione. Jamilla si grattò il naso, poi lo arricciò: a volte le sue smorfie erano proprio buffe. «Il metodo è diverso. Soprattutto se si confrontano gli omicidi più recenti con quelli di un anno o due fa. Nei primi casi gli assassini erano metodici e molto prudenti, mentre le ultime volte sono stati frettolosi, sciatti. E anche più violenti.» «Non posso darti torto. Leggerò con cura i dossier. E anche Kyle e i suoi a Quantico controlleranno tutto. C'è qualcos'altro che ti preoccupa?» chiesi. La Hughes rifletté, prima di rispondere. «Stamattina è arrivata una strana denuncia da un'impresa di pompe funebri di Woodland Hills. Potrebbe avere la sua importanza. Qualcuno ha fatto irruzione e abusato di uno dei cadaveri. Potrebbe essere un emulatore. Ti ho lasciato il dossier. Ma adesso devo correre, se non voglio perdere l'aereo... Fatti vivo, okay?» «Certo. Ti chiamo, stai tranquilla. Non ti libererai tanto facilmente di me.» Mi salutò con un cenno della mano e sparì in fondo al corridoio. Mi dispiaceva da morire vederla andare via. Jam. 25 Dieci minuti dopo che Jamilla se ne fu andata, davanti alla mia scrivania si presentò Kyle. Sembrava un professore universitario quarantenne, con i capelli arruffati e la giacca di tweed spiegazzata, appena uscito da una biblioteca dopo giorni e giorni di ricerche per un dotto articolo da pubblicare su qualche rivista di diritto penale. «Risolto il mistero?» gli chiesi. «Dai, che così salto sul primo aereo e
me ne vado stasera... A casa ce l'hanno tutti con me perché ho rimandato il ritorno.» «Non ho risolto un accidente», rispose in tono abbacchiato. Poi sbadigliò. «In compenso, mi è venuto un gran mal di testa... Mi sembra di scoppiare», si lamentò sfregandosi la testa con le nocche. «Credi ai vampiri?» chiesi. «O pensi che siano semplici invasati?» Kyle mi rivolse uno dei suoi sorrisi a denti stretti. «Oh, ho sempre creduto ai vampiri, io. Fin da piccolo, in Virginia e poi nel North Carolina. Vampiri, fantasmi, zombie e altre creature diaboliche della notte. Nel Sud tutti ci credono. Fa parte della nostra tradizione gotica, immagino. Per la precisione, la nostra specialità sono i fantasmi. A quelli ci credo senz'altro. Peccato che questa non sia soltanto una storia di fantasmi.» «Be', forse lo è. L'altra notte ne ho visto uno. Si chiamava Mary Alice Richardson. Quei bastardi l'hanno appesa e uccisa durante uno dei loro festini.» Verso le nove, Kyle e io uscimmo dalla stazione di polizia per andare a mangiare un boccone e farci un paio di birre. Ero contento di passare un po' di tempo con lui. Avevo dei brutti pensieri che mi ronzavano per la testa: sensazioni disparate, sospetti e una generale paranoia riguardo a quel caso. Più, naturalmente, l'assillo costante del Mastermind, che poteva sempre telefonare, mandare un fax o un'e-mail. Ci fermammo in un baretto che si chiamava Knoll sulla strada verso l'albergo. Sembrava un posto tranquillo per bere qualcosa e fare due chiacchiere. Kyle e io uscivamo spesso insieme, quando eravamo in giro per lavoro. «Allora ti trovi bene qui in California, Alex?» mi chiese Kyle dopo il primo sorso di Anchor Steam. «Sei contento? Reggi? So che non ti piace stare lontano da Nana e dai ragazzi, e mi dispiace. Ma non potevo fare altrimenti: questo è un caso grosso.» Ero troppo stanco per polemizzare. «Per citare Tiger Woods: 'Quella di oggi non è stata la mia partita migliore'. Sono a un punto morto, Kyle. Mi sembra tutto nuovo e tutto brutto.» Annuì e disse: «Non mi riferivo a oggi. Dicevo in generale. Nel complesso. Facendo un bilancio. Come ti va, Alex? Mi sembri teso. Ce ne siamo accorti tutti. Dal fatto che fai meno volontariato al Saint Anthony's, piccole cose del genere». Lo guardai negli occhi. Era un amico, ma era anche un gran calcolatore: voleva qualcosa. Che cosa? Quali pensieri gli attraversavano la mente?
«Nel complesso, sono scoppiato. No, sto bene. Sono contento dei ragazzi: il piccolo Alex è il miglior antidoto contro qualsiasi problema e Damon e Jannie crescono bene. Mi manca ancora Christine, e molto. Mi preoccupa la quantità di tempo che passo a indagare sui delitti più macabri e spaventosi che mente umana abbia mai concepito ma, a parte questo, sto bene.» Kyle ribatté: «Sei molto richiesto perché sei in gamba. La realtà è questa. Hai un fiuto, un'intelligenza emotiva, qualcosa che ti rende decisamente superiore». «Quasi quasi preferirei essere un po' meno in gamba. O forse non lo sono poi tanto. Questi omicidi hanno influito sulla mia vita sotto tutti i punti di vista. Ho paura che mi stiano cambiando troppo. Parlami di Betsey Cavalierre. Ci sono novità? Dev'essere saltato fuori qualcosa.» Kyle scosse la testa con espressione preoccupata. «Non abbiamo scoperto assolutamente nulla, Alex. Né su di lei né sul Mastermind. Quello stronzo continua a chiamarti a qualsiasi ora del giorno e della notte?» «Sì. Ma non nomina più né Betsey né l'omicidio.» «Potremmo mettere di nuovo sotto controllo i tuoi telefoni, se vuoi.» «Tanto è inutile.» Kyle continuava a fissarmi. Immaginai che fosse preoccupato per me, ma con lui era sempre difficile da dire. «Credi che ti stia tenendo d'occhio? Che ti segua?» Scossi la testa. «Chi lo sa? A volte mi sembra di sì. A proposito, volevo chiederti una cosa. Perché continui a coinvolgermi nelle indagini più incasinate, Kyle? Abbiamo indagato su Casanova a Durham, poi sul sequestro Dunne e Goldberg, sulle rapine in banca. E ora su questa merda.» Kyle rispose senza esitare. «Sei il migliore che conosca, Alex. Ci azzecchi quasi sempre. Ti butti nelle indagini con tutte le energie che hai. A volte risolvi il caso, a volte no, ma ci vai sempre vicino. Perché non vieni a lavorare con noi al Bureau? Dico sul serio. È un'offerta di lavoro che ti sto facendo.» Allora era lì che voleva andare a parare! Voleva che andassi a lavorare con lui a Quantico. Scoppiai in una gran risata. Anche lui rise. «Se devo dirti la verità, questa volta non mi sento per niente vicino alla soluzione, Kyle. Non so che pesci pigliare», ammisi alla fine. «Siamo soltanto all'inizio», obiettò lui. «L'offerta è sempre valida, a prescindere da come finisce questa storia. Voglio che tu venga a Quantico. Voglio lavorare a stretto contatto con te. Non c'è nulla che mi farebbe più
felice.» 26 Quello sì, che era un colpo di fortuna. Molto meglio di quanto si fossero aspettati o augurati. William e Michael seguirono i due stronzi della polizia dalla stazione di Brentwood sul furgone, tenendosi a ragionevole distanza. Se anche li avessero persi di vista, non sarebbe stato nulla di grave, perché sapevano in che albergo stavano. Sapevano dove trovarli. Sapevano persino come si chiamavano. Kyle Craig, di Quantico. Un uomo per i casi più scottanti. Un pezzo grosso del Bureau. Alex Cross, di Washington. Psichiatra e criminologo. William avrebbe voluto suggerirgli un nuovo proverbio: Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato. Era la verità, ma suonava un po' troppo come una regola, e lui detestava le regole, perché rendono prevedibili, limitano l'individuo, e fanno diventare meno liberi, meno autentici, meno se stessi. In ultima analisi, costituiscono un rischio. Premette leggermente il pedale del freno, indeciso. Forse non conveniva tendere un agguato ai due poliziotti e ammazzarli come cani. Lui e suo fratello avevano di meglio da fare, già che erano a Los Angeles. C'era un posto speciale in cui andavano sempre in quella città, la Church of the Vampire, riservata a coloro che cercano il «drago» dentro di sé. Era veramente una chiesa: grande, con i soffitti alti, piena di bizzarri arredi vittoriani, candelabri dorati, teschi e altre ossa umane, arazzi raffiguranti storie di famosi vampiri del passato. Era frequentata dai soliti, detestabili imitatori, ma anche da autentici vampiri. Come William e Michael. Vi succedevano cose molto eccitanti, erotiche e sadiche, dove il dolore più straziante si trasformava in estasi. Ripensando all'ultima volta che c'era stato, William si elettrizzò. Aveva trovato un ragazzo biondo di diciassette anni. Un angelo, un principe. Vestito completamente di nero. Aveva persino le lenti a contatto nere. Era di una bellezza straordinaria, da tutti i punti di vista. Per dimostrare a William che era un vero vampiro, si era bucato la carotide e aveva bevuto il suo stesso sangue. Poi aveva invitato anche lui a berne. Quando William e Michael lo avevano appeso, per dissanguarlo completamente, lo avevano fatto in segno di amore e di adorazione per quel corpo angelico e perfetto. Dovevano farlo, era il loro sadismo innato a
spingerli. William si riscosse da quei dolci pensieri quando i due poliziotti entrarono in un bar che si chiamava Knoll, poco lontano da Sunset Boulevard. Un locale senza pretese, assolutamente anonimo. Perfetto per loro. «Vanno a bere insieme. Cameratismo tra poliziotti», commentò William. Michael ridacchiò e alzò gli occhi al cielo. «Sono due vecchietti. Due smidollati. E per giunta, sdentati», disse divertito. William aspettò che Alex Cross e Kyle Craig fossero entrati, quindi disse: «No. Dobbiamo stare attenti con loro. Uno dei due è estremamente pericoloso. Lo sento». 27 Grazie a Tim, il contatto di Jamilla al San Francisco Examiner, finalmente avevo una pista da seguire. La caccia era cominciata, o almeno così speravo. L'indomani mattina presi la macchina e andai a Santa Barbara, circa centocinquanta chilometri a nord di Los Angeles, sulla Route 101. Era impressionante, e anche un po' deprimente, vedere come il cielo diventava più azzurro a mano a mano che ci si allontanava dalla città e dalla cappa di smog grigio e rossastro che la ricopriva. Avevo appuntamento con un certo Peter Westin alla Davidson Library della University of California, a Santa Barbara, che vantava la collezione più completa di opere su vampiri e vampirismo di tutti gli Stati Uniti. Westin era l'esperto cui Tim ci aveva consigliato di rivolgerci. Jamilla mi aveva preannunciato che era molto eccentrico, ma che era una fonte autorevolissima per l'argomento. Mi ricevette in un piccolo salotto privato adiacente alla sala di lettura. Dimostrava poco più di quarant'anni ed era vestito di viola e nero dalla testa ai piedi. Aveva persino lo smalto viola sulle unghie. Secondo Jamilla, era proprietario di un negozio di abbigliamento e gioielli in un piccolo centro commerciale che si chiamava El Paseo, in State Street, a Santa Barbara. Aveva i capelli lunghi e neri, con qualche filo d'argento, e l'espressione cupa e truce. «Sono il detective Alex Cross», mi presentai. Westin mi strinse la mano energicamente, smalto o non smalto sulle unghie. «Sono Westin e discendo da Vlad Tepes. Benvenuto tra noi. L'aria della notte è fredda e avrete bisogno di mangiare e riposarvi», esordì in tono esageratamente drammatico.
Ero divertito da quel discorsetto preparato. «Un'accoglienza degna del conte Dracula in un vecchio film.» Westin annuì e, quando sorrise, vidi che aveva una dentatura normale. Niente canini affilati. «In più di un film. Quello che le ho ripetuto è il saluto ufficiale della Transylvania Society of Dracula di Bucarest.» Chiesi subito: «Ne esistono sezioni anche in America?» «In America e in Canada. Più una in Sudafrica e una a Tokyo. Ci sono varie centinaia di migliaia di persone che si interessano attivamente di vampiri. Sorpreso, detective? Pensava che la nostra fosse una setta più modesta?» «Una settimana fa forse sì, ma ora non più», risposi. «Niente riesce a sorprendermi, ormai. Grazie per avere accettato di parlarmi.» Ci sedemmo a un grande tavolo di quercia. Westin aveva preparato una decina di volumi sui vampiri da farmi leggere o consultare. «Le consiglio soprattutto Bloodlust: Conversations with Real Vampires di Carol Page. È un'autrice molto seria. Lei sì che se ne intende», mi disse porgendomi uno dei libri. «Ha conosciuto di persona parecchi vampiri e ne descrive le attività in maniera accurata e obiettiva. Ha iniziato le sue ricerche da scettica. Come lei, immagino.» «Infatti: sono molto scettico», ammisi, e gli raccontai dell'ultimo omicidio avvenuto a Los Angeles. Westin mi esortò a chiedergli tutto quello che volevo sul mondo dei vampiri e rispose con pazienza alle mie domande. Appresi così che il vampirismo è una sottocultura diffusa in quasi tutte le grandi città e in molte località minori, quali Santa Cruz in California, Austin nel Texas, Savannah in Georgia, Batavia nello Stato di New York e Des Moines nell'Iowa. «Un vero vampiro è dotato fin dalla nascita di una capacità straordinaria», mi spiegò. «Maschio o femmina che sia, ha la facoltà di assorbire, incanalare, trasformare e manipolare l'energia del prana, ovvero la forza vitale. I vampiri seri hanno un forte senso della spiritualità.» «E come si spiega la necessità di bere sangue umano?» chiesi, affrettandomi ad aggiungere: «Ammesso che la si possa chiamare necessità». Westin rispose pacatamente: «Sembra che il sangue sia la fonte di prana più potente che si conosca. Se io adesso bevessi il suo sangue, assorbirei la sua energia». «Il mio sangue?» esclamai. «Sì. Lei mi sembra un buon soggetto.»
Pensai al raid notturno alle pompe funebri a nord di Los Angeles. «E il sangue dei cadaveri? Di gente morta da un giorno o due?» «Se un vero vampiro, o uno pseudovampiro, è disperato, può accontentarsi del sangue di un cadavere. Ma lasci che le spieghi come stanno le cose, detective. Nella maggior parte dei casi sono esseri infelici, bisognosi di attenzione e manipolatori. Spesso sono affascinanti, in parte proprio a causa del fatto che sono viziosi, pieni di desideri proibiti, ribelli e dotati di una grande forza e carica erotica, oltre che convinti di essere immortali.» «Lei continua a distinguere tra veri vampiri e imitatori. Perché?» «Molti dei giovani che frequentano gli ambienti del vampirismo sono semplici emulatori in cerca di esperienze forti e di un gruppo che risponda alle loro esigenze del momento. Esiste persino un gioco molto diffuso, che si chiama: Vampire: The Masquerade. Lo stile di vita dei vampiri attira soprattutto gli adolescenti, perché hanno una visione del mondo assai singolare, a parte il fatto che folleggiano sino a tarda notte. Anzi, sino alle prime luci dell'alba», concluse con un sorrisetto. Westin era decisamente disposto a parlare. Non capivo perché e mi chiesi fino a che punto prendeva sul serio il vampirismo. I clienti del suo negozio di abbigliamento in centro erano adolescenti in cerca di mise alternative. Anche lui era uno pseudovampiro? O faceva sul serio? «Il mito del vampiro risale a migliaia di anni fa», riprese. «È presente in Cina, in Africa, nell'America del Sud e in quella Centrale. E, naturalmente, nell'Europa Centrale. Per molti, qui negli Stati Uniti, si tratta di una forma di feticismo estetico, con connotazioni sessuali, teatrali e molto romantiche. Il vampirismo non fa discriminazioni tra uomini e donne, e anche questo contribuisce a renderlo attraente, al giorno d'oggi.» Pensai che era giunto il momento di passare dalle considerazioni generali ai recenti omicidi. «Che cosa pensa dei delitti, dei casi di violenza che si sono verificati qui in California e a Las Vegas?» Westin assunse un'espressione addolorata. «Ho sentito usare il termine 'vampiro cannibale' a proposito di Jeffrey Dahmer. E anche di Nicolas Claux, che forse lei non conosce. Era un impresario di pompe funebri di Parigi che negli anni '90 confessò una serie di omicidi. Dopo essere stato catturato, descrisse con notevole compiacimento di aver mangiato carne di cadavere. In Europa era famoso, lo chiamavano il 'Vampiro di Parigi'.» «Ha mai sentito parlare di Rod Ferrell?» chiesi. «Certo. C'è chi lo considera un eroe del male. Su Internet va molto. Ha ammazzato a randellate i genitori di uno dei membri della sua setta e quin-
di inciso sui cadaveri una serie di simboli misteriosi. So tutto di lui. Pare che avesse la fissazione di aprire le porte dell'inferno: era convinto di dover uccidere un gran numero di persone e consumarne l'anima per diventare abbastanza forte da spalancarle. Chi lo sa? Magari c'è riuscito», disse Westin. Mi fissò a lungo. «Lasci che le spieghi una cosa, detective Cross. È la pura verità e ritengo sia importante che lei la capisca: la percentuale di psicopatici e di assassini tra i vampiri non è più alta che tra la gente comune.» Alzai le spalle. «Mi piacerebbe controllare le statistiche. Comunque sia, nel frattempo uno o più vampiri, veri o presunti tali, hanno assassinato più di una decina di persone», ribattei. Westin parve rattristarsi. «Sì, detective, lo so. Per questo ho accettato di parlare con lei.» Non mi restava che una cosa da chiedergli. «Lei è un vampiro?» Peter Westin aspettò un attimo prima di rispondere: «Sì». Rimasi allibito. Era serissimo. 28 Quella sera a Santa Barbara il buio mi fece un po' più paura di quanto mi fosse mai capitato. Rimasi nella mia camera d'albergo a leggere un romanzo intitolato L'attesa di Ha Jin. Anch'io ero in attesa. Telefonai due volte a casa, non saprei dire se perché mi sentivo solo o in colpa per non essere andato al concerto di Damon. O forse Peter Westin mi aveva suggestionato con i suoi racconti, i suoi libri di vampiri e con lo sguardo allucinato di quegli occhi neri. In ogni caso, dopo avergli parlato, avevo cominciato a prendere molto più sul serio il vampirismo. Westin era un tipo bizzarro, sinistro, indimenticabile. Avevo la sensazione che ci saremmo incontrati, o almeno parlati, di nuovo. La paura non mi passò né quella sera né l'indomani mattina, quando sorse il sole sulle montagne di Santa Ynez. Quello che stava succedendo era terribile, dietro c'erano individui malati o chissà quale setta misteriosa, probabilmente legata alla sottocultura del vampirismo. Ma non era detto e, se non era così, la situazione era ancora più preoccupante, perché significava che brancolavamo nel buio più totale. Alle sette e mezzo mi misi in viaggio su un'auto a noleggio, nella nebbia fitta, canticchiando un piccolo blues di Muddy Waters che si adattava bene al mio umore.
Uscii da Santa Barbara e mi diressi verso Fresno, dove avevo in programma di incontrare un altro «esperto». Dopo un paio d'ore, presi la 166 a Santa Maria e proseguii verso est, attraverso la Sierra Madre, fino alla 99, che imboccai in direzione nord. Era la prima volta che visitavo la California, e mi piaceva molto. Sia il panorama sia i colori erano molto diversi rispetto alla East Coast. Viaggiavo a velocità di crociera ascoltando un CD di Jill Scott e meditando per lunghi tratti di strada sulla piega presa dalla mia vita negli ultimi due anni. Sapevo che alcuni dei miei amici stavano cominciando a preoccuparsi per me. Uno di questi era John Sampson, che pure non poteva definirsi catastrofista. Sampson mi aveva detto più di una volta che secondo lui correvo troppi rischi e mi aveva addirittura suggerito di cambiare lavoro. Sarei potuto andare all'FBI, era vero, ma non mi sembrava un gran cambiamento. Sarei anche potuto tornare a fare lo psichiatra a tempo pieno, aprendo uno studio o mettendomi a insegnare, magari alla Johns Hopkins, dove mi ero laureato e dove avevo tuttora parecchi contatti. Poi c'era il ritornello preferito di Nana: dovevo trovare una donna e sistemarmi, dovevo trovare qualcuno da amare. Non che non ci avessi provato. Mia moglie, Maria, era rimasta uccisa a Washington in una sparatoria di cui non era mai stato individuato il responsabile. Era successo quando Damon e Jannie erano molto piccoli, ma io non mi ero ancora ripreso del tutto, e forse non ce l'avrei mai fatta. Ancora adesso, se non mi controllo, provo un'angoscia sconfinata al pensiero di Maria e della sua fine assurda. Una tragedia che ha lasciato orfani Damon e Jannie. Mi sarebbe piaciuto risposarmi, ma forse non era destino che fossi fortunato due volte nella vita. Con Jezzie Flanagan non sarebbe potuta andare peggio. In seguito mi ero messo con Christine Johnson, insieme avevamo fatto il piccolo Alex, ma poi lei si era trasferita a Seattle. Stava bene, diceva, e aveva «trovato qualcuno». Continuavo a provare per lei sentimenti contraddittori: Christine aveva sofferto molto per me. La colpa era mia, non sua. Mi aveva detto chiaramente che non ce la faceva più a stare con un ispettore della Omicidi. Poi avevo cominciato a frequentare un'agente dell'FBI di nome Betsey Cavalierre. Che era stata assassinata. E il caso era ancora irrisolto. Avevo paura anche soltanto di bere un aperitivo con Jamilla Hughes. I fantasmi del passato stavano diventando troppi per me. «Bel detective!» borbottai tra me e me quando vidi l'indicazione per Fresno. Ero arrivato fin lì per parlare con uno che si intendeva di denti.
Zanne, per la precisione. 29 Il negozio si trovava in una zona commerciale popolare nel centro di Fresno. Si chiamava Tattoo, Fang and Claws Parlor e aveva una vetrina disordinata, con una vecchia poltrona da dentista al centro. Sulla poltrona era seduta una ragazzina di quattordici o quindici anni al massimo, con il collo lungo e foruncoloso piegato in avanti, che trasaliva a ogni puntura dell'ago. Su uno sgabello alto c'era un giovanotto con una bandana gialla e blu sulla testa, che le stava facendo un tatuaggio. Scelse una boccetta tra un grande assortimento di inchiostri colorati che aveva a portata di mano. Mi vennero in mente i laboratori di pittura delle scuole. Per qualche minuto osservai l'operazione dalla strada, riflettendo su quanto dolore fisico doveva sopportare chi si faceva fare un tatuaggio. E su quanto dovevano aver sofferto le vittime di quei terribili omicidi. Sapevo come si fa un tatuaggio e osservai incuriosito l'artista avvicinare una lampada dallo stelo flessibile alla nuca della ragazza. Disponeva di due macchinette a pedale, una per i contorni e l'altra per le superfici e le sfumature, e di uno shader con quattordici aghi: più aghi si usavano, più efficace risultava la sfumatura. Un uomo di mezza età con i capelli a spazzola passando borbottò: «Pazzi loro, e pazzo anche lei che li sta a guardare». Tutti sono pronti a criticare, oggigiorno. Alla fine entrai e vidi il risultato del lavoro del tatuatore: un piccolo simbolo celtico verde e oro. Gli chiesi dov'erano zanne e artigli. Non aprì bocca, ma con un cenno della testa, anzi, del mento, mi indicò un corridoio sulla sinistra. Passai davanti a varie bacheche contenenti piercing per la lingua e l'ombelico, alcuni dei quali fosforescenti, grossi anelli articolati, occhiali da sole, pipe da oppio, sinistri monili, un poster che reclamizzava artigli in vari stili. Fuochino, pensai entrando nel corridoio, dove mi trovai faccia a faccia con l'esperto che cercavo. Mi stava aspettando e mi venne incontro non appena mi vide arrivare. «Benvenuto a destinazione, pellegrino. Sai, quando si va nei club di vampiri più interessanti e pericolosi, a Los Angeles, New York, New Orleans o Houston, si vedono denti aguzzi dappertutto. È uno spettacolo. E che
spettacolo! Travestimenti gotici, edoardiani, vittoriani, sadomaso... di tutto. Ma da queste parti il primo a fare denti su misura sono stato io. Ho cominciato a Laguna Beach e poco alla volta mi sono trasferito a nord. E ora, eccomi qui.» Mentre parlava, mi accorsi che aveva gli incisivi molto lunghi e affilati. Denti capaci di procurare gravi danni. Si chiamava John Barreiro ed era basso, magro da far spavento e vestito quasi completamente di nero, come Peter Westin. Probabilmente era l'individuo con l'aria più sinistra che avessi mai conosciuto. «Lei sa perché sono qui. Per via degli omicidi del Golden Gate Park», dissi. L'uomo annuì e fece un sorrisetto cattivo. «So perché sei qui, pellegrino. Ti ha mandato Peter Westin. Peter è un tipo convincente, vero? Vieni con me.» Mi portò in una stanzetta piena di roba nel retro del negozio. Le pareti erano blu scuro e le luci rosse. Barreiro era pieno di energia, irrequieto, e parlando gesticolava continuamente. «A Los Angeles c'è un Fang Club favoloso. Dicono che è l'unico posto dove si possono incontrare dei vampiri senza lasciarci la pelle. Al sabato e alla domenica ci saranno quattro o cinquecento persone, tra cui una cinquantina di veri vampiri. Ma le zanne le portano quasi tutti, anche gli emulatori.» «I suoi denti sono veri?» domandai. «Se vuoi provare, ti do un morso», ribatté con una risata. «Sì, sono veri. Me li sono fatti incapsulare e poi affilare. Mordo. Bevo sangue. Sono un autentico cattivo, detective.» Annuii senza la minima esitazione. Le caratteristiche c'erano tutte. «Prendendo una semplice impronta dei suoi canini, posso farle un paio di zanne su misura. Tanto per distinguersi dai suoi colleghi. Per distinguersi dalla massa.» Sorrisi e lo lasciai continuare. «Produco varie centinaia di paia di zanne all'anno. Incisivi superiori e inferiori. A volte anche doppi. Di tanto in tanto ne faccio un paio in oro o in argento. D'argento a lei starebbero benissimo.» «Ha letto degli omicidi avvenuti in California?» chiesi. «Sì, ne ho sentito parlare. Come no. Da amici e conoscenti come Peter Westin. Alcuni vampiri sono molto eccitati, perché pensano che si tratti di un segno che annuncia l'inizio di un'era nuova e la possibile venuta di un
nuovo Sire.» Lo interruppi. Quelle ultime parole mi avevano provocato un brivido improvviso. «I vampiri hanno un capo?» Gli occhi scuri di Barreiro si strinsero fino a diventare fessure. «No, no. Ma se lo avessero, non te lo direi.» «Allora lo hanno», ribattei. Mi fulminò con un'occhiata e ricominciò a muoversi irrequieto. Chiesi: «Sarebbe in grado di confezionare delle zanne di tigre, se un cliente glielo chiedesse?» «Sì. Mi è già capitato di farne.» All'improvviso si avventò su di me con uno scatto fulmineo. Mi afferrò per i capelli con una mano e per un orecchio con l'altra. Sono alto uno e novanta e molto più grosso di lui, ma mi colse impreparato. Era piccolo, eppure rapidissimo ed estremamente forte. Si avvicinò con la bocca spalancata alla mia gola, poi si fermò. «Non sottovalutarci, detective Cross», sibilò, prima di lasciarmi andare. «Allora, sicuro di non volere un bel paio di zanne? Te le faccio gratis. Magari le usi per autodifesa.» 30 William guidava il furgone bianco e impolverato nel deserto del Mojave a centosessanta chilometri all'ora, con la musica al massimo. Sfrecciava come il vento sulla Route 15 in direzione di Las Vegas, la loro tappa successiva. Il furgone era stata un'idea geniale. Era un'unità mobile utilizzata per la raccolta di sangue e aveva persino i contrassegni della Croce Rossa. Questo significava che lui e Michael erano autorizzati a prelevare sangue da chiunque si offrisse come donatore. «Mancano soltanto tre o quattro chilometri», disse William al fratello, che teneva una gamba nuda fuori del finestrino. «A cosa? Alla preda, spero. Mi sto stufando, ho bisogno di alimentarmi. Ho sete. Dove andiamo?» Michael faceva i capricci, da adolescente viziato qual era. «Non mi va Eminem. Dove andiamo?» «Fra poco lo vedrai», promise William, misterioso. «Ti piacerà. Te lo giuro.» Pochi minuti dopo si fermarono davanti a un centro di paracadutismo. Michael si tirò su a sedere e lanciò un urletto di gioia, battendo i palmi del-
le mani sul cruscotto. Era proprio un bambino. «Ho bisogno di velocità», gridò Michael, imitando Tom Cruise in Giorni di tuono. I due fratelli si lanciavano con il paracadute da quando erano usciti dal riformatorio. Era uno dei modi migliori - legali - per sballare e distrarsi dalla voglia di uccidere. Balzarono giù dal furgone ed entrarono insieme in un hangar che decisamente doveva aver visto tempi migliori. William diede venti dollari al pilota per fare un giro su un Twin Otter. Sulla pista ce n'erano due, ma soltanto un pilota e il centro era deserto. Il pilota era una ragazza mora che doveva avere più o meno l'età di William, ventidue o ventitré anni al massimo. Di corpo, era molto graziosa e sexy, ma aveva la faccia da topo e le guance butterate. Era evidente che Michael e William le piacevano. Peraltro, conquistavano sempre tutti. «Non avete tavole, quindi non siete qui per fare skysurfing. In che cosa vi volete cimentare?» chiese la ragazza con un forte accento del Sudovest. «A proposito, io mi chiamo Callie.» «A noi piace tutto», le rispose Michael, scoppiando a ridere. «Seriamente, Callie. Non scherzo. Ci piace fare tutto quello che vale la pena di fare.» «Non ne dubito», rispose la ragazza, sostenendo il suo sguardo per un momento. «Be', partiamo, allora», propose, apprestandosi a salire su uno dei due Otter. Meno di novanta secondi dopo, l'aereo sussultava sulla pista sconnessa. William e Michael, ridendo e gridando, si infilarono il paracadute. «Siete proprio esaltati, eh?» disse Callie. «Fate caduta libera? Siete matti da legare!» Parlava a voce altissima per farsi sentire e aveva una specie di raschio in gola che William trovava irritante. Le avrebbe volentieri piantato i denti nel collo, ma non era il momento giusto. «Fra le altre cose, sì. Portaci a sedicimila piedi», rispose William, anche lui urlando. «Dai, tredicimila bastano. Guarda che a tredicimila piedi la temperatura è poco sopra lo zero. Scende di un grado ogni mille piedi. A sedicimila si rischia l'ipossia. È troppo alto, per due ragazzini di primo pelo.» «Te lo diciamo noi che cosa è troppo. L'abbiamo già fatto», ribatté Michael un po' arrabbiato, scoprendo i denti. Ma forse Callie lo prese per un sorriso seducente: non sarebbe stata la prima volta che le capitava. William le diede altri venti dollari. «Sedicimila piedi», ribadì. «Credimi, l'abbiamo già fatto.» «Okay. Tanto le dita e le orecchie si congelano a voi», replicò Callie.
«Io vi ho avvertito.» «Siamo due creature a sangue caldo, non ti preoccupare. Tu, piuttosto, quanta esperienza hai come pilota?» La ragazza sorrise. «Be', lo vedrete da soli, no? Diciamo che non è la prima volta neanche per me.» William controllò l'altimetro per essere sicuro che non cercasse di fregarli. A sedicimila piedi di quota, l'Otter smise di salire. C'era poco vento e la vista era incantevole. Sembrava che l'aereo volasse da solo. «Non mi sembra una buona idea», li avvertì la ragazza. «Fa un freddo pazzesco, lì fuori.» «Sì che è una bella idea, invece! E anche questa!» gridò William. La prese lì dov'era. Le morse il collo con forza, piantandole i denti nella gola e cominciò a succhiare, a bere sangue a sedicimila piedi di quota. Era l'altezza giusta per l'erotismo più sadico. Callie gridò e scalciò, cercando di divincolarsi, ma invano. C'erano spruzzi di sangue dappertutto nell'abitacolo. William si sentiva potentissimo. La ragazza lottò con tanta furia che, nel cercare di alzarsi dal seggiolino del pilota, si lussò l'anca. Batté le ginocchia contro il pannello di controllo poi, di colpo, si fermò. I suoi occhi castani si annebbiarono e quindi si spensero. Si era arresa. Le bevvero avidamente il sangue, tutti e due. Furono rapidi ed efficienti, ma non riuscirono a svuotarla completamente, lì dov'erano. Non appena William aprì il portellone, fu investito da una folata d'aria gelida. «Dai!» gridò. E i due fratelli si lanciarono, in caduta libera. Non era giusto parlare di caduta, la sensazione era piuttosto quella di volare. Quando erano in orizzontale, galleggiavano a cento chilometri all'ora, ma non appena si mettevano in verticale precipitavano a centosessanta o forse addirittura a duecento. Era un'emozione incredibile, assolutamente straordinaria. I loro corpi vibravano come diapason, rinvigoriti dal sangue fresco di Callie. Era un'ebbrezza ultraterrena. A quella velocità, il minimo movimento di una gamba verso sinistra spostava violentemente tutto il corpo a destra. Si misero in verticale e ci restarono quasi fino alla fine. Aspettarono fino all'ultimo prima di tirare la cordicella. Era la cosa più divertente, rischiare la morte. Il vento li spingeva e li tirava di qua e di là. Era l'unico suono.
L'estasi. Non avevano ancora aperto il paracadute. Fino a quando avrebbero potuto aspettare? Quanto ancora? L'unico difetto, l'unica cosa che mancava per raggiungere la perfezione, per William, era l'assenza di dolore. Il dolore rendeva migliore qualsiasi esperienza. Era il segreto del piacere, che pochi conoscevano. Lui e Michael però lo sapevano benissimo. Tirarono la cordicella proprio all'ultimo momento. I paracadute si aprirono con uno strattone. La terra era ormai vicinissima. Atterrarono rotolando e si fermarono appena in tempo per vedere il Twin Otter che si schiantava e prendeva fuoco a uno o due chilometri di distanza, nel deserto. «Nessuna prova contro di noi», disse William soddisfatto, gli occhi pieni di piacere ed eccitazione. «È stato magnifico.» 31 Marea rossa. Era così che William chiamava la loro spedizione omicida. Adesso che lui e Michael erano partiti, niente li avrebbe potuti fermare finché non avessero portato a termine la missione. Niente: né la pioggia, né la neve, né l'FBI. Il furgone della Croce Rossa percorreva lentamente quella che un tempo era la strada principale di Las Vegas, Fremont Street. Passava inosservato tra le sgargianti insegne al neon, li rendeva invisibili. Come molti giovani uomini, William e Michael si sentivano invulnerabili. Nessuno li avrebbe mai presi, nessuno sarebbe riuscito a fermarli. Osservarono tutto con attenzione: le ridicole fontane davanti ai casinò e gli hotel, la cappella per i matrimoni con gli altoparlanti che trasmettevano Love Me Tender, i pullman colorati dei turisti, come quello che avevano davanti in quel momento, dell'Associazione Conciatetti e Impermeabilizzatori Uniti. «Questa è veramente una città da vampiri», dichiarò William. «Ne sento l'energia. Persino questi patetici vermi per strada devono sentirsi vivi, quando sono qui. E favolosa, così teatrale, scintillante, melodrammatica. Non ti piace da morire?» Michael batté le mani. «Mi sento in paradiso. Qui possiamo fare gli schizzinosi.» «Il piano è proprio questo», rispose il fratello. «Fare gli schizzinosi.»
A mezzanotte andarono nel Las Vegas Boulevard e si fermarono al Mirage, dove un'enorme insegna al neon pubblicizzava il DANIEL AND CHARLES MAGIC SHOW. «Dici che è una buona idea?» domandò Michael andando verso il botteghino, dentro l'hotel. William fece finta di non averlo sentito e scelse due dei posti migliori per lo spettacolo dei prestigiatori. Avevano entrambi una tuta di pelle nera e stivali da lavoro, ma a Las Vegas si poteva andare in giro vestiti come si voleva. Si accomodarono al loro tavolo appena prima che cominciasse lo show. Nel teatro tutto era spettacolare, esagerato. Il palco, enorme, era rivestito in velluto nero e sormontato da una struttura metallica alta dieci metri con schermi su cui venivano proiettate immagini che cambiavano continuamente. C'erano almeno cinque o sei tecnici delle luci, che davano l'idea di uno spazio grandioso. William si accese un sigaro con la candela sul tavolo. «Caro fratello, ora comincia lo spettacolo. Ricordati cosa dicevi prima: possiamo permetterci di fare gli schizzinosi.» L'ingresso dei due prestigiatori fu prevedibilmente spettacolare, con Daniel e Charles che volarono letteralmente sul palco, da un'altezza di almeno quindici metri. Poi scomparvero e il pubblico, incantato, proruppe in un applauso. Anche i due fratelli batterono le mani. William era impressionato dalla velocità dei macchinari di scena. Daniel e Charles riapparvero subito dopo con due elefanti, uno stallone bianco e una magnifica tigre del Bengala. «Sono io», sussurrò William all'orecchio del fratello. «Sono io la tigre. Sono a destra di Daniel. Farebbe meglio a stare attento.» Il sistema dolby surround trasmetteva Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. La colonna sonora era kitsch come tutto il resto. Un potente sistema di aerazione eliminava l'odore delle bestie e dei loro escrementi diffondendo nella sala un profumo abbastanza gradevole, una via di mezzo fra la vaniglia e la mandorla. Nel frattempo, sul palco, i due maghi discutevano. William si chinò verso la giovane coppia seduta al tavolo alla sua sinistra. Erano due ragazzi sui venticinque anni, molto belli. Li aveva riconosciuti perché partecipavano a una trasmissione televisiva di successo. Non sapeva decidere se era più bello lui o lei: entrambi erano molto sicuri di sé e disinvolti. Si chiamavano Andrew Cotton e Dara Grey: lo sapeva perché
quando aveva tempo leggeva i tabloid scandalistici. «Non è straordinario?» domandò ai due attori. «Adoro gli spettacoli di magia. Sono sempre così perversi e divertenti! Questo, poi, è uno spasso!» Dara gli lanciò un'occhiata con l'intento di metterlo a posto, ma non appena incrociò il suo sguardo, cambiò idea. William l'aveva già conquistata. Soltanto dopo si preoccupò di vedere com'era vestita: tubino blu elettrico, cintura vintage, scarpine ingioiellate, borsa ricamata Fendi. Molto, molto carina. Voleva succhiarle il sangue. Sarebbe stato bellissimo: una goduria. Adesso doveva sedurre il ragazzo. Il caro Andrew. Caro, carissimo Andrew. E poi avrebbero fatto baldoria fino all'alba. 32 I due maghi sul palco continuavano a battibeccare. William riportò lo sguardo sulle luci violente e il bisticcio a voce alta, e sorrise. Non riuscì a farne a meno: i prestigiatori facevano parte della serata. Una parte importante, a dire il vero. Essenziale. Daniel e Charles avevano una quarantina d'anni, una bellezza un po' primitiva e l'aria sicura di sé, specie agli occhi del pubblico di basso livello di Las Vegas. Daniel si rivolgeva alla sala come se fosse stato un avvocato che perora la sua causa davanti alla giuria, e brandiva una lunga spada luccicante, con cui sottolineava i punti salienti della sua orazione. «Noi siamo uomini di spettacolo, forse i migliori al mondo, nel nostro campo. Ci siamo esibiti al Madison Square e al Winter Garden di New York, al Magic Castle e al Palladium di Londra, al Crazy Horse di Parigi, ma anche a Francoforte, Sydney, Melbourne, Mosca e Tokyo, naturalmente.» Charles sembrava annoiato dallo sproloquio del partner e si sedette sul bordo del palco a sbadigliare senza pudore. «Non gliene frega niente del nostro curriculum vitae, Daniel», disse a un certo punto. «Questi ignoranti non sanno che differenza c'è fra Houdini, Siegfried e Roy. Fagli un trucchetto qualsiasi: sono qui per questo. I numeri di magia piacciono ai bambini e loro non sono altro che mocciosi. Su, fagli vedere uno dei tuoi numeri. Uno qualsiasi, facile facile.» Daniel gli puntò contro la spada e la agitò in maniera teatrale. «In guar-
dia, marrano!» William si voltò verso la coppia alla sua sinistra. «Questa parte è molto bella», sussurrò. «Credete a me.» Incrociò lo sguardo dell'attore, che si voltò in gran fretta dall'altra parte. Troppo tardi. Aveva soggiogato anche lui. Quel ragazzo aveva voglia di togliergli le mutande. E chi poteva dargli torto, peraltro? Mio Dio, che sete! Aveva bisogno di alimentarsi. Lì, subito, adesso. Nel frattempo Daniel si era messo a gridare contro Charles. «Ne ho abbastanza delle tue stronzate paternalistiche e piene di sussiego, compare. Mi sono stufato. Basta!» «Peccato, perché avevo appena cominciato a tormentare te e questi ignoranti!» disse William sottovoce, anticipando la battuta successiva. I due attori seduti lì a fianco risero. Ormai li aveva affascinati. Il povero Andrew non gli staccava gli occhi di dosso. Tutto a un tratto Daniel, sul palco, saltò addosso a Charles e gli piantò la spada nel petto. L'urlo di quest'ultimo fu molto realistico, straziante. Dal petto gli sgorgò un fiotto di sangue, che schizzò dappertutto. Il pubblico, scioccato, trattenne il respiro. William e Michael ridevano e ridevano e non riuscivano a smettere. Contagiarono anche la coppia a fianco. Alcuni spettatori li zittirono. Daniel intanto trascinava molto lentamente sul palco il corpo di Charles, per far vedere che era pesantissimo. Alta recitazione. Si fermò davanti a una sorta di grosso tagliere da macellaio e vi posò sopra il compagno. Poi prese un'ascia, la sollevò e gli tagliò la testa. In sala molti gridarono e alcuni si coprirono gli occhi. «Non fa ridere!» urlò qualcuno. William si sganasciava dalle risate, applaudiva e batteva i piedi per terra. Gli spettatori intorno a lui continuavano a zittirlo. Erano inorriditi, ma volevano vedere di più. Anche i due attori accanto a William ridevano. La ragazza gli batté amichevolmente una mano sul braccio. Daniel mise la testa di Charles in una cesta di vimini con gesti molto teatrali, quindi si inchinò verso il pubblico. Che finalmente si rilassò. William aggrottò la fronte e abbassò la testa. «La parte più bella è finita. Il resto è in calando.» Daniel portò la cesta di vimini dall'altra parte del palco, camminando molto lentamente. Poi, con gran cura, trasferì la testa di Charles su un grande piatto d'argento. «Fortuna che aveva un vassoio a portata di mano», commentò William
sottovoce, rivolto alla coppia. Daniel si voltò verso il pubblico. «Qualcuno ha già capito? No? Davvero? È morto.» «Bugiardo, non è vero!» gridò William dal suo posto. «E morto il vostro trucco, ma Charles è vivo e vegeto. Purtroppo.» A quel punto, la testa sul piatto d'argento si mosse. Charles aprì gli occhi e il pubblico andò in visibilio. Era un numero molto originale, e certamente eseguito alla perfezione. Charles urlò: «Mio Dio, cos'hai fatto, Daniel? Ti hanno visto tutti. Non potrai mai farla franca, assassino, con tanti testimoni oculari». Daniel fece spallucce. «Invece sì. Non interessa niente a nessuno, di te. Non piaci alla gente. Te lo sei meritato, Charles.» La testa sul vassoio parlò: «Una decapitazione pubblica? Aiutami, Daniel». «Qual è la parolina magica, Charles?» «Per piacere, per piacere, Daniel, mi aiuti?» Daniel coprì la testa con la cesta, la riportò al centro del palco e, con mille inchini e grande teatralità, la riattaccò al corpo. Charles si alzò in piedi e gli prese la mano. I due prestigiatori si inchinarono, l'uno a fianco all'altro. «Signore e signori, siamo Daniel e Charles, i prestigiatori più bravi del mondo!» gridarono a testa alta. L'applauso in sala fu lungo e sostenuto. Molti si alzarono in piedi a battere le mani e urlare. I due illusionisti si inchinarono più volte. «Pagliacci!» gridavano i due fratelli. Videro che due buttafuori si stavano avvicinando al loro tavolo. William si chinò verso Andrew Cotton e Dara Grey. «Vi piacciono la magia, il teatro, l'avventura?» domandò. «Io sono William Alexander e questo è mio fratello Michael. Ce ne andiamo da qualche parte insieme, a divertirci per davvero?» I due attori si alzarono. Mentre stavano andando via, arrivarono i buttafuori. «Vogliamo indietro i soldi del biglietto», disse loro William. «Daniel e Charles sono due impostori.» 33 «Da voi o da noi?» chiese William agli attori, cercando di sembrare il
meno minaccioso possibile. Non voleva perdere Andrew e Dara proprio adesso. Aveva un piano. «Dove alloggiate?» chiese la ragazza. Era incredibilmente sicura di sé, si credeva una diva, una dea. Una delle tante. Rispose William. «Al Circus-Circus.» «Noi siamo al Bellagio. Abbiamo preso una suite. Volete venire da noi? È molto bella, la migliore di Las Vegas. Abbiamo anche un po' di roba», propose Andrew. «Vi va?» «Potremmo fare delle cose divertenti», disse Dara passando le dita fra i capelli biondi di William. Avrebbe potuto ucciderla, per questo, invece le fece il baciamano. Era una creatura a sangue caldo, piena di vita. La suite era all'ultimo piano dell'hotel Bellagio e dava su un laghetto artificiale con fontane che sparavano acqua a decine di metri di altezza, a tempo di musica. Un brano di A Chorus Line. William pensò che era un grande spreco, tenuto conto del fatto che si trovavano in mezzo al deserto. Si diede un'occhiata in giro e rimase sorpreso nel trovare la stanza meno orribile di come aveva immaginato: non c'erano tappeti di nylon o pareti rivestite di acrilico, ma fruttiere e fiori freschi. Peccato che non avesse fame né di uva né di mele, però. Dara si sfilò il tubino appena oltre la porta. Era molto tonica e abbronzata. Si tolse anche il costoso reggiseno. Aveva seni piccoli ma sodi, con i capezzoli turgidi. Rimase con gli slip color avorio e le scarpe dal tacco alto. William sorrise di fronte a quell'artefatto tentativo di seduzione ed erotismo. Non si sarebbe sorpreso se in quel momento fosse sbucato dall'armadio un truccatore, e si chiese tutto a un tratto com'erano Brad Pitt e Jennifer Aniston a letto. Probabilmente una splendida noia mortale in tutte le sfumature del biondo. «Tocca a voi, adesso», disse in tono provocante Dara ai due fratelli. «Vediamo un po' che cosa avete da offrire. Datevi da fare.» «Vedrai che non ti deluderemo», disse William sorridendo, e cominciò a spogliarsi. Si sfilò lentamente gli stivali e quindi si slacciò la cintura della tuta di pelle nera. «Sicura di non volerlo fare tu?» domandò a Dara. Lei sgranò gli occhi. Anche Andrew era incuriosito. William sciolse la coda di cavallo del fratello, lasciandogli cadere i lunghi capelli biondi sulla schiena, poi lo baciò sulla guancia e sulla spalla e cominciò a spogliarlo. «Per la miseria», sussurrò Dara. «Siete bellissimi!»
Erano tutti e due nudi e ostentavano un'erezione. Erano abituati a farsi vedere nudi sin da bambini. E anche a fare sesso con gli sconosciuti. Dara si guardò in giro e disse: «Siete tanti, ma credo di essere all'altezza». Prese della coca dalla borsa. William la fermò, afferrandole la mano. «Non ne hai bisogno. Sdraiati sul letto. Fidati di me. Fidati di te stessa, Dara.» Come un prestigiatore tirò fuori da chissà dove quattro foulard di seta sui toni del rosso, dell'azzurro e del grigio, e legò Dara al letto. Lei si divincolò un pochino, fingendo di avere paura. Tutti la guardavano compiaciuti, e Michael mise un braccio intorno alle spalle di Andrew, che fino a quel momento si era tenuto un po' in disparte. Era alterato: aveva lo sguardo fisso. «Non vuoi metterti comodo?» gli sussurrò William. «Siamo fra amici, no?» Andrew prese un paio di manette da una borsa di pelle nera posata per terra. «Queste sono per te. È soltanto per gioco, okay?» Michael, ubbidiente, tese le braccia offrendo i polsi. «Soltanto per gioco», ripeté, ridendo. «Vedrai che bello», continuò Andrew, con la voce impastata. «Mi sento già pronto. Ci sono quasi.» «No, questo non è niente. Aspetta e vedrai», gli disse Michael. Successe talmente in fretta che quasi non sembrava possibile. Improvvisamente Michael chiuse le manette intorno ai polsi di Andrew e lo sbatté sul tappeto, immobilizzandolo. Con l'aiuto di William, lo imbavagliò con altri foulard di seta. Agirono in fretta: lo spogliarono e gli legarono anche le caviglie. «Fidati di noi, Andrew. Vedrai che bello. Non te lo immagini nemmeno», bisbigliò William. E osservò il fratello che gli mordeva il collo. Un piccolo assaggio. Soltanto un sorso. Un delizioso aperitivo. Gli splendidi occhi di Andrew Cotton si riempirono di panico e confusione. Uno spettacolo impagabile. Sapeva che stava per morire. Sapeva che la morte era vicina, vicinissima. Dara non vedeva quello che stava succedendo per terra. «Scusate, ma cosa state facendo voi tre? Ve la spassate? Vi state inchiappettando? Mi sento trascurata. Qualcuno venga da me.» William le si avvicinò, con il membro turgido e pulsante, il ventre piattissimo, un sorriso ammaliante, irresistibile, sulle labbra. «Ecco il diavolo tentatore», disse.
«Baciami, diavolo», gli sussurrò Dara, sbattendo le ciglia. «Scopami. Lascia perdere Andrew e Michael. Non sarai innamorato di tuo fratello, vero?» «Chi non lo sarebbe?» domandò William. Le si inginocchiò fra le gambe e si abbassò piano piano su di lei, abbracciandola. Tutto a un tratto Dara prese a tremare. Aveva capito, pur senza rendersene conto. Come molte delle vittime di William, uomini e donne, preferiva morire senza sapere che cosa aveva voluto dalla vita. William sapeva che lei si vedeva riflessa nei suoi occhi azzurri e si rendeva conto di non essere mai stata più desiderabile. E infatti lui la desiderava. La voleva più di qualsiasi altra cosa al mondo, in quel momento. Sentiva il suo odore di carne, di sapone, di profumo. Sentiva il sangue che le scorreva nelle vene. Le leccò dolcemente un orecchio, sapendo che Dara lo sentiva dentro. Era impossibile, ma era come se la lingua di William l'avesse sfiorata nell'intimo. A un certo punto, Michael depositò Andrew sul grande letto. C'era posto per tutti. Andrew era legato con i foulard e le manette e aveva un segno rosso sul collo. E un rivolo di sangue sul petto. Era già morto. Dara stava cominciando a capire. William aveva ragione: era molto meglio, senza coca. La toccava dappertutto ed era così caldo, bollente, esperto. Lo desiderava, lo voleva, era già vicina all'orgasmo. «Questo è soltanto l'inizio», le sussurrò William sfiorandole la gola. «Il tuo piacere è appena cominciato, te lo prometto, Dara.» Le leccò il collo profumato, la baciò ripetutamente, e poi le affondò i denti nella gola. Di bene in meglio. L'estasi del dolore. Morire così... Non lo capiva nessuno, se non all'ultimo momento. 34 Era successo di nuovo. Gesù. Altri due omicidi spaventosi. Un elicottero dell'FBI mi aspettava all'aeroporto di Fresno per portarmi a Las Vegas, dove salii su una macchina messami a disposizione. L'autista, un agente che si chiamava Carl Lenards, mi informò che il responsabile delle indagini, Craig, era già sul posto, e mi aggiornò brevemente. Il duplice omicidio era stato commesso al Bellagio, un hotel a cinque
stelle. Quando aveva aperto, nel 1998, era il più caro del mondo. Era elegantissimo e molto tranquillo. O, perlomeno, lo era stato fino ad allora. A differenza del resto di Las Vegas, non vi si trovavano donne nude e gangster con vestiti lucidi. All'altezza del Bellagio, Boulevard South era piena di auto della polizia e ambulanze, oltre ai furgoni di vari canali televisivi. Calcolai che dovevano esserci anche più o meno seicento curiosi assembrati davanti all'albergo. Ma perché tanta gente? Che cos'era successo di preciso? Sapevo soltanto pochi dettagli. Mi era stato riferito che i cadaveri erano dissanguati, ma che non erano stati appesi. Mentre mi facevo largo tra la folla, vidi una cosa che mi turbò ancor più dei due omicidi. Una decina di ragazzi e ragazze vestiti con redingote nere, cappelli a cilindro, calzoni di pelle, stivaloni neri. Uno di loro mi sorrise, mostrandomi due spaventosi canini affilati. Aveva lenti a contatto rosse, fosforescenti, e sembrava avermi riconosciuto. «Ciao, amico», mi disse con aria sprezzante. «Benvenuto all'inferno.» Non potevo fargli niente, perciò tirai dritto verso l'ingresso del Bellagio. Quei bizzarri giocatori di ruolo sembravano non avere problemi a farsi vedere sul luogo del delitto. Che fra di loro ci fossero anche gli assassini? Che ci stessero guardando? Che cosa si aspettavano di vedere? Che cosa volevano dire quegli omicidi? Speravo che la polizia di Las Vegas o l'FBI avessero filmato la gente fuori dell'hotel. Supponevo che Kyle ci avesse pensato. Ero lì per un motivo, per mettere insieme i particolari di un delitto che generalmente sfuggono ad altri poliziotti. Era stato Kyle Craig a chiedermi di intervenire. Lui sapeva in cosa ero bravo. E probabilmente conosceva anche i miei punti deboli. La suite in cui era stata uccisa la coppia era spaziosa e abbastanza di buon gusto, tenuto conto degli standard del posto. La prima cosa che si notava entrando nel bagno era la vasca di marmo accanto alla vetrata fumé con vista su un laghetto artificiale e giochi d'acqua. I due corpi erano nella vasca. Vidi spuntare la parte superiore della testa e i piedi nudi e, avvicinandomi, notai che presentavano morsi e ferite in più punti. Erano bianchissimi. Nella suite non c'era niente cui appenderli. Lo scarico era stato chiuso, ma sul fondo c'era pochissimo sangue. C'erano poliziotti dappertutto: troppi, per i miei gusti. Agenti del dipartimento
di polizia cittadino, paramedici, tecnici della Scientifica, un medico legale, la squadra investigativa del coroner e, naturalmente, l'FBI. Avevo bisogno di silenzio. Esaminai per qualche minuto i due cadaveri, pallidi e patetici. Come tutte le altre vittime trovate fino a quel momento, erano molto belli. Esemplari perfetti. È questo il motivo per cui li sceglie? E se non è così, perché allora? La ragazza dimostrava poco più di vent'anni. Era piccola, bionda, magra, probabilmente pesava meno di cinquanta chili. Aveva le spalle esili e i seni piccoli, maciullati dai morsi. Anche sulle gambe aveva dei segni spaventosi. L'uomo doveva avere più o meno la stessa età. Biondo, occhi azzurri, aria atletica, un po' provinciale, muscoli scolpiti, anche lui era stato morsicato e aveva ferite profonde alla gola e sui polsi. Non vidi lividi sulle mani che facessero pensare a una colluttazione. Non si erano difesi. Conoscevano gli assassini. «Hai visto quei dark, qui fuori?» mi chiese Kyle. «Quei guitti mascherati?» Annuii. «Eppure è pieno giorno. Non dovrebbero essere pericolosi. Sono quelli che stanno nascosti nelle cripte che ci interessano.» Kyle assentì, mi voltò le spalle e se ne andò. Dopo che se ne furono andati quasi tutti, rimasi nella suite alcune ore. È un rito, per me, un'ossessione. Mi sembra di doverlo ai morti. Mi fermai a guardare la vista che dovevano aver ammirato anche loro. Presi nota di tutto: le sfumature avorio, rosa e gialle nella stanza, gli specchi in cornice, illuminati dai faretti incassati, la frutta e i fiori freschi. Le vittime avevano disfatto i bagagli e messo via la loro roba. Controllai gli armadi pieni di vestiti firmati, scarpe con il tacco alto e alcune gonne. Costosi, chic, il meglio. L'ultima cosa che si aspettavano era di morire. C'erano pile di fiches dei casinò, il Venetian e il New York-New York, in bella vista sul comò. Gli assassini non le avevano prese. E nella borsa della donna c'erano anche due bustine di cocaina e una stecca di Marlboro Light. Lo hanno fatto per dirci che non gli interessano né soldi né droga? Che non gliene importa niente del gioco d'azzardo? Delle sigarette? Che a loro interessa uccidere? Soltanto il sangue? Nella borsa c'era anche un mucchietto di biglietti per le MGM Grand Adventures, gli spettacoli al Circus-Circus, le Folies Bergère del Tropica-
na, i maghi Siegfried e Roy. Souvenir? Una boccetta mezza vuota di Lolita Lempicka. L'uomo aveva alcune ricevute di ristoranti. Le Cirque al Bellagio, Napa, Palm, Spago al Caesar. «Non ci sono né biglietti né ricevute con la data di ieri», feci notare a Kyle. «Dobbiamo scoprire dove sono stati. Dove hanno incontrato gli assassini. Potrebbero aver fatto amicizia con loro da qualche parte e averli invitati nella suite.» 35 Mi squillò il cellulare nella tasca della giacca. Merda! Ma perché mi porto appresso questo aggeggio infernale? Che bisogno ha una persona sana di mente di essere sempre reperibile? Guardai l'ora, con il telefono in mano. Erano già le undici. Che vita di merda. Sapevamo che Andrew Cotton e Dara Grey erano andati al Rum Jungle a bere qualcosa e poi al Mirage a vedere uno spettacolo di magia. Erano stati visti chiacchierare con due persone, ma in sala era buio. Fino a quel momento non sapevamo altro. Dal tardo pomeriggio ero nella suite dove era stato commesso l'omicidio. Quel caso cominciava a farmi veramente paura. Erano crimini brutali, primitivi. Avevo letto di casi analoghi avvenuti a Parigi e Berlino. «Azzannati vivi», li definivano. Ma io non avevo mai visto di persona una cosa del genere. «Alex Cross», risposi al cellulare. Mi voltai verso la vetrata. La vista sul lago e sul deserto era incantevole, in totale contrasto con quella dentro la suite. «Sono Jamilla. Scusa, Alex, ti ho svegliato?» «Figurati. Magari fossi a dormire. Sono sul luogo di un omicidio, a Las Vegas. Sto ammirando il deserto. Anche tu stai facendo le ore piccole?» Mi faceva piacere sentirla. «A volte mi fermo in ufficio sino a tardi. Almeno così riesco a combinare qualcosa, quando tutti se ne sono andati a casa. Alex, volevo parlarti di questa storia degli 'azzannati vivi'.» Dalla voce intuii che non mi avrebbe reso le cose più facili. «Dimmi, Jamilla. Ti ascolto.» «Okay. Ho contattato i medici legali delle altre città in cui hanno colpito i vampiri. Credo che abbiamo trovato una traccia importante a San Luis
Obispo e a San Diego.» Ascoltavo con attenzione. «In tutti e due i casi i periti sono stati molto collaborativi. Abbiamo riesumato il cadavere di San Luis Obispo e anche Guy Millner, il medico legale di San Diego, ha fatto lo stesso. Non voglio tediarti con i particolari adesso, ma se vuoi te li faccio avere in albergo.» «Grazie, sì. Naturalmente non via fax.» «Senti che cosa abbiamo scoperto. In entrambi gli omicidi, i segni delle morsicature sono diversi da quelli di San Francisco e Los Angeles. Sempre procurati da denti umani, ma da individui diversi. Le prove sono incontrovertibili. Questo significa che ci sono almeno quattro assassini diversi in circolazione, Alex. Abbiamo infatti quattro diverse dentature.» Stavo cercando di dare un senso a quello che Jamilla mi aveva appena rivelato. «Parli dei cadaveri riesumati? Possibile che denti umani lascino segni sulle ossa?» «Sì. Su questo i medici legali erano d'accordo. Lo smalto dentale è la sostanza più dura di tutto il corpo umano. Inoltre, come sai, gli assassini potrebbero aver usato denti finti.» «Canini?» «Esatto. Le ossa della vittima di San Diego erano state addirittura rosicchiate. I segni erano chiarissimi.» «Rosicchiate?» Ero sbigottito. «Sei tu l'esperto, Alex. Immagino che quest'atto implichi un'azione decisa, ripetitiva e intenzionale, che giustifica la presenza di segni di morsicature. La vittima aveva superato i cinquant'anni e questo è importante perché, a quanto mi hanno spiegato, le ossa presentavano minore densità a causa dell'osteoporosi. Ecco il perché dei segni. Ma come si spiega tanto accanimento? Dimmelo tu.» Ci stavo pensando. «E se fosse per via del midollo? Il midollo osseo è fortemente vascolarizzato e quindi ricco di sangue.» «Oddio, che schifo!» esclamò Jamilla. «Sì, può essere. Fa ribrezzo, ma può essere.» 36 L'omicidio dei due attori portò il caso dei vampiri alla ribalta nazionale. Di colpo ci arrivarono centinaia di segnalazioni e troppe tracce fasulle da seguire: alla fine, sembrava che Dara Grey e Andrew Cotton fossero stati
visti in quasi tutti i club e gli hotel di Las Vegas. Ci mancava soltanto questo, a confondere le acque. Avevamo deciso di non divulgare la notizia secondo cui gli assassini potevano essere più di uno. Né la California né il Nevada erano pronti a questo. Kyle Craig decise di trattenersi un paio di giorni. Io feci lo stesso. Non che avessi molta scelta, peraltro. Il caso, già scottante, stava assumendo dimensioni abnormi. Ci stavano lavorando oltre mille agenti, fra polizia locale ed FBI. Poi gli omicidi smisero improvvisamente. Quella che ci era parsa un'escalation si interruppe, e gli assassini, che sembravano sempre più audaci e sicuri, sparirono improvvisamente dalla circolazione. O forse eravamo noi che non trovavamo più i cadaveri. Ero costantemente in contatto con gli esperti di Quantico, ma nessuno sembrava aver tracciato un profilo accettabile. Nemmeno Jamilla Hughes riusciva più a tirar fuori teorie e ipotesi interessanti. Eravamo a un'impasse. Gli assassini avevano smesso di uccidere. Ma perché? Che cos'era successo? La pubblicità li aveva spaventati? O era accaduto qualcos'altro? Dov'erano spariti? E quanti erano? Era ora che me ne tornassi a casa. Quello rimaneva il lato positivo della faccenda, e lo presi per quello che era. Kyle mi diede l'okay e tornai a Washington con la brutta sensazione di aver fallito e la paura che gli assassini la facessero franca. Arrivai in 5th Street. La facciata era un po' sbiadita, ma la casa sembrava accogliente come al solito. Mi ripromisi di pitturare l'esterno e anche di riparare le grondaie. In un certo senso, mi sarebbe piaciuto mettermi all'opera subito. A casa non c'era nessuno. Deserto assoluto. Mancavo da quattordici giorni. Il mio intento era fare una sorpresa ai ragazzi, ma probabilmente non era stata una grande idea. Ultimamente mi sembrava di non farne una giusta. Girai un po' per casa, osservando tutto e notando le piccole cose che erano cambiate durante la mia assenza. Il monopattino aveva la ruota posteriore rotta. La tunica bianca che Damon usava per cantare nel coro era appesa alla balaustra, dentro un sacco di nylon della lavanderia. Mi sentivo in colpa già per conto mio e la casa vuota e silenziosa non mi aiutava a stare meglio. Guardai le foto appese al muro. Quella del matrimonio con Maria, i ritratti di Damon e Jannie, alcune istantanee del picco-
lo Alex, una foto del coro che avevo scattato alla National Cathedral. «Daddy's home, Daddy's home», canticchiai per tirarmi su di morale. Era una canzone degli anni '60 che mi tornò alla memoria mentre controllavo le camere al piano di sopra. Non c'era nessuno. Il Campidoglio e la Biblioteca del Congresso erano abbastanza vicini a casa e sapevo che Nana a volte ci portava i ragazzi. Che fossero andati là? Sospirai e mi chiesi per l'ennesima volta se lasciare definitivamente la polizia. Il problema era che il mio lavoro mi piaceva. Anche se sulla West Coast avevo fatto cilecca, generalmente ero piuttosto bravo. Avevo anche salvato qualche vita, negli ultimi anni. L'FBI mi aveva coinvolto in alcuni dei casi più difficili. Siccome mi pareva che fosse il mio ego ferito a parlare, smisi di raccontarmi stronzate e lasciai perdere. Feci una doccia bollente, m'infilai una maglietta, un paio di jeans e le ciabatte. Mi sentivo molto più a mio agio, così, come se fossi ritornato nella mia pelle. Mi sembrava quasi di potermi illudere che i vampiri assassini fossero spariti dalla mia vita. Mi avrebbe fatto molto piacere, per la verità. Che ritornassero da dove erano venuti. Scesi in cucina e presi una Coca-Cola dal frigo. Nana aveva appiccicato alcuni dei capolavori dei miei figli sulla porta. Incontro galattico ravvicinato di Damon e Marina Scurry salva ancora una volta la situazione di Janelle. Sul tavolo della cucina c'era un libro. Dieci scelte sbagliate che rovinano la vita delle donne nere. Nana si era rimessa a leggere. Lo sfogliai per vedere se fra le scelte sbagliate c'ero anch'io. Uscii in veranda. Rosie, la gatta, dormiva sul dondolo di Nana e sbadigliò nel vedermi, senza accennare a venirsi a strusciare contro le mie gambe. Ero stato via troppo tempo. «Traditrice», le dissi. Andai a grattarle il collo e mi lasciò fare. Sentii dei passi e andai ad aprire. La luce dei miei occhi. Jannie e Damon mi videro e gridarono: «Chi è lei? Che cosa ci fa in casa nostra?» «Ah, ah, ah. Che ridere», replicai. «Su, venite a darmi un bacio. Svelti!» Mi gettarono le braccia al collo e a me si scaldò il cuore. Poi mi venne in mente una cosa cui avrei preferito non pensare: il Mastermind sapeva che ero lì? La nostra casa era ancora sicura? 37
La vita, a volte, sa essere bella e semplice, come dovrebbe essere sempre. In un'incantevole mattina di sole, partimmo tutti insieme per uno dei posti di Washington che ai miei figli piacevano di più: l'enorme, meraviglioso e molto istruttivo Istituto Smithsonian. Eravamo tutti d'accordo che lo Smitty, come lo chiamava Jannie da piccola, era la nostra meta preferita di quel giorno. L'unico problema era decidere quale parte visitare, una volta entrati. Dal momento che Nana sarebbe rimasta con noi soltanto un paio d'ore, per via del piccolo Alex, lasciammo scegliere a lei la nostra prima tappa. «Tiro a indovinare», disse Jannie, alzando gli occhi al cielo. «Il Museo di Arte Africana?» Nana le lanciò un'occhiata ammonitrice. «No, signorina Saputellis. In realtà preferirei andare nel padiglione dell'industria e dell'artigianato. È questa la mia scelta. Sorpresa, signorinella? Ti stupisce che Nana sia meno abitudinaria di quello che pensavi?» Intervenne Damon: «Nana vuole vedere la mostra dei fotografi neri. Ne hanno parlato a scuola. Pare ci siano delle belle foto di cowboy neri. È vero, Nana?» «E non soltanto», fece lei. «Vedrai, Damon. Vi sorprenderete e sarete orgogliosi di essere neri, e magari verrà voglia di scattare qualche foto anche a voi. Parlo anche con te, Jannie. E con Alex. Nessuno fa foto, in questa famiglia, a parte me.» Così iniziammo con il padiglione dell'industria e dell'artigianato, che era molto bello, come sempre. In sottofondo si sentivano il ronzio dei condizionatori e un gospel. Ammirammo i cowboy neri e molte altre fotografie eccezionali della Harlem Renaissance. Ci fermammo davanti a una foto di quattro metri per quattro che ritraeva dall'alto alcuni signori neri in giacca e cravatta e cappello a cilindro. Un ritratto indimenticabile. «Se mi trovassi davanti questa scena per strada, farei una foto anch'io», dichiarò Jannie. Finito di visitare il padiglione dell'industria e dell'artigianato, la demmo vinta a Jannie ed entrammo nell'Einstein Planetarium per assistere - sarà stata almeno la quinta volta - alla presentazione animata che spiegava l'importanza della Stella Polare. O forse era la sesta o la settima, non importava. Nana portò a casa il piccolo Alex, che era abituato a fare un sonnellino dopo pranzo, e noi girammo per il Museo Aerospaziale, visitando quelle
che Jannie chiamava «le sale piene di aerei e di treni che piacciono tanto a Damon perché è un maschio». In realtà piacevano anche a lei. L'aereo dei fratelli Wright sospeso sopra di noi era meraviglioso con le sue intelaiature di legno e le ali di tela bianca. Alla sua destra c'era il Breitling Orbiter 3, altra pagina importante della storia dell'aeronautica, il primo pallone aerostatico a fare il giro del mondo. E poi il modulo di comando dell'Apollo 11, che con le sue sei tonnellate e mezzo aveva reso possibile «un piccolo passo per l'uomo, un passo da gigante per il genere umano». Di fronte a queste cose si può essere cinici oppure decidere di apprezzarle. Io tendo a dar loro il giusto valore: è un atteggiamento che rende la vita più facile e più gratificante. Dopo aver osservato una serie di miracoli dell'aeronautica, Damon insistette perché andassimo a vedere Missione sulla Mir sullo schermo IMAX del Langley Theater. «Io da grande voglio andare nello spazio», dichiarò. «Ti do una bella notizia», replicò Jannie. «Ci sei già, nello spazio.» In onore di Nana ci fermammo al Museo di Arte Africana, dove i ragazzi si entusiasmarono nel vedere le maschere e le vesti cerimoniali e apprezzarono soprattutto la mostra temporanea di conchiglie di ciprea, braccialetti e anelli utilizzati come merce di scambio. Era un posto tranquillo, spazioso, pieno di colori, molto gradevole. L'ultima tappa fu la sala dei dinosauri nel Museo di Storia Naturale. Poi però Jannie e Damon sostennero che dovevamo assolutamente assistere al pasto della tarantola all'Orlon Insect Zoo. Sulle pareti dipinte in maniera da ricordare la foresta pluviale c'era scritto: GLI INSETTI NON EREDITERANNO LA TERRA: NE SONO GIÀ PADRONI. «Sei fortunato», disse Jannie per stuzzicare il fratello. «Sei già padrone della Terra.» Finalmente, intorno alle sei, attraversammo Madison Drive e andammo al Mall. I ragazzi erano taciturni, stanchi e affamati. Non ne potevo più neanch'io. Facemmo un picnic sotto gli alberi, ai piedi del Campidoglio. Era la giornata più bella che avessi passato da diverse settimane a quella parte. Non mi aveva telefonato nessuno. 38 Come aveva già fatto diverse volte, almeno una decina, il Mastermind
osservava Alex Cross e la sua famiglia. Amore uguale odio, pensava. Era un'equazione incredibile ma vera, verissima, il motore che muoveva il mondo. Alex Cross avrebbe fatto meglio a metterselo in testa. Cristo, era troppo ottimista, quell'uomo. Gli faceva venire i nervi. Se a qualcuno fosse saltato in mente di studiare il suo passato, avrebbe scoperto la chiave di tutto quello che era successo fino a quel momento. Il suo curriculum criminoso era uno dei più audaci della storia. Durava ormai da ventotto anni. Gli errori commessi si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano. Gli ingredienti fondamentali erano chiari: Disturbo della personalità di tipo narcisistico. Tutto cominciava da lì. E lì sarebbe finito. Megalomane. Sì, era proprio lui. Si aspetta di essere riconosciuto come essere superiore, capace di grandi realizzazioni. Nutre fantasie di successo, potere, intelligenza e amore illimitati. Sfrutta gli altri. Certamente: viveva per questo. Privo di empatia. Come minimo. Ma siete pregati di notare, dottor Cross e tutti voi che manifestate il desiderio di studiare il mio percorso lungo e tortuoso, questo è un disturbo della personalità, non una psicosi. Io ho un pensiero organizzato al limite dell'ossessivo. So elaborare piani complessi che soddisfano il mio bisogno di competizione, critica e controllo. Le tre C, insomma. Sono di rado impulsivo. Domande che dovreste porvi riguardo a me: Sono vivi i miei genitori? Risposta: sì, per modo di dire. Sono mai stato sposato? Risposta: sì. Fratelli o sorelle? Risposta: certamente. Nota bene. Visto che sono sposato, ho figli? Risposta: due splendidi esemplari di American Beauty. Sì, ho visto il film. Kevin Spacey è bravissimo. Mi è piaciuto un sacco. Sono attraente oppure ho difetti fisici visibili? Risposta: sì e sì. Adesso, li volete fare i compiti? Tracciate i triangoli di amore e odio nella mia vita. Dottore, ci sei dentro anche tu, naturalmente. E anche la tua famiglia: Nana, Damon, Jannie e Alex junior. Tutto ciò che ti è caro, che ti
rappresenta, è racchiuso in quei magnifici triangoli, nella mia ossessione. Allora dai, sbroglia la matassa, prima che sia troppo tardi sia per me sia per te. E per tutti i tuoi cari, ovviamente. Sono davanti a casa tua, in 5th Street, e mi sarebbe molto facile entrare, adesso. Per non parlare di quanto sarebbe stato facile ammazzarvi tutti allo Smithsonian. Lo Smitty, come lo chiama tua figlia. Troppo facile. Un'impresa da poco, come ho cercato di farti capire... Il telefono in mano al Mastermind squillava, chiamava, cercava qualcuno che andasse a rispondere. Lo lasciò continuare, pazientemente. Alla fine Cross rispose. «Sono megalomane», dichiarò il Mastermind. 39 Ritornai alle mie incombenze di Washington e mi beccai gli strali dei miei colleghi, che mi rimproveravano di lavorare troppo con il Federai Bureau, ultimamente. Non sapevano che mi era stato addirittura offerto di entrare nell'FBI e che stavo prendendo in seria considerazione la proposta. Ma il lavoro per le strade di Washington mi piaceva ancora troppo. Dopo una settimana decente, il venerdì sera avevo un appuntamento con una donna. Non è facile conoscere gente alla mia età, specie se si hanno dei bambini, ma io mi impegnavo. Pur avendo capito già da tempo che la cosa migliore che mi fosse capitata nella vita era stata sposare Maria e fare due splendidi figli con lei, volevo innamorarmi di nuovo, se possibile, sistemarmi e cambiare vita. Come molti altri, immagino. Ogni tanto sentivo le mie zie che mormoravano: «Povero Alex, non ha una fidanzata, vero? E tutto solo, poverino». Non era del tutto vero. Povero Alex un accidente. Avevo Damon, Jannie e il piccolo Alex. E anche Nana. Oltre a un sacco di amici a Washington. Sono uno che fa amicizia facilmente, come Jamilla Hughes. Fino a quel momento non mi era mai capitato di non avere nessuna donna con cui uscire a cena. Fino a quel momento. Macy Francis e io ci conoscevamo sin dall'infanzia e abitavamo nello stesso quartiere. Macy aveva studiato lettere e didattica alla Howard e alla Georgetown. Io ero andato alla Georgetown e quindi alla Johns Hopkins, dove mi sono specializzato in psichiatria. Circa un anno prima, Macy era tornata a Washington a insegnare inglese e ci eravamo rivisti a una delle feste di Sampson. Ci eravamo parlati per
quasi un'ora, quella sera, e mi ero accorto che era una persona piacevole. Ci eravamo ripromessi di vederci presto. L'avevo chiamata quando ero tornato dalla California. Ci eravamo dati appuntamento al 1789 Restaurant per un aperitivo e mangiare qualcosa. Era vicino a casa sua, a Georgetown. Il ristorante era in un edificio antico, in stile federale. Arrivai prima io, e Macy mi raggiunse poco dopo. Mi si avvicinò e mi diede un bacio affettuoso sulla guancia. Poi ci andammo a sedere al bar, che era molto accogliente. Mi piacquero il tocco rapido delle sue labbra e il profumo di agrumi che aveva sul collo. Indossava un dolcevita lilla senza maniche e una gonna nera aderente, scarpe di camoscio e orecchini di brillanti. A quanto ricordavo, Macy era sempre stata carina ed elegante. «Ti svelerò un segreto, Alex», mi disse dopo che avemmo ordinato un bicchiere di vino. «Quando ti ho visto alla festa di John Sampson, ho pensato: 'Alex Cross è più bello che mai' Mi dispiace, ma il mio primo pensiero è stato questo.» Scoppiammo a ridere tutti e due. Macy aveva denti bianchi e regolari e occhi castani acuti e intelligenti. Era sempre stata la prima della classe. «Anch'io ho pensato lo stesso di te», le confidai. «Ti piace insegnare? Ti trovi bene alla Georgetown? I gesuiti non ti danno fastidio?» Annuì. «Una volta mio padre mi ha detto che è una gran fortuna se nella vita si trova qualcosa che ti piace fare. E un miracolo se per farla si viene pure pagati. Pertanto mi reputo una donna molto fortunata. E tu?» «Be', non so se il mio lavoro mi piace o se ormai mi sono assuefatto. Però direi che, in generale, sono contento», risposi, serio. «Non fai altro che lavorare?» mi chiese. «Di' la verità.» «No... anche se... Be', certe settimane, sì.» «Questa settimana no, però? Almeno stasera sei libero.» «Mah, questi giorni sono stati abbastanza calmi. E stasera è tranquillissima. Mi piacerebbe che fosse sempre così», dissi, e scoppiai a ridere. «Infatti mi sembri sereno, Alex. Mi fa piacere rivederti.» Continuammo a chiacchierare. Agli altri tavoli qualcuno mangiava, ma l'atmosfera era rilassata. Capita spesso che i genitori degli studenti della Georgetown portino i figli al 1789 per una cena un po' speciale. Effettivamente è un posto particolare. Ero contento che ci fossimo visti lì: Macy aveva scelto bene. «Ho chiesto un po' di te alle mie amiche», mi confessò ridendo. «E mi hanno detto che Alex Cross non è 'disponibile'. Una ti ha accusato di esse-
re un nero che fa finta di essere bianco, ma le altre le hanno dato della visionaria. Io comunque lo chiedo a te...» Scossi la testa. «È strano come la gente abbia sempre bisogno di etichettare il suo prossimo. Non vivo sempre nello stesso quartiere? Se volessi fare il bianco, avrei almeno cambiato zona, ti pare?» Macy era d'accordo con me. «Sì, hai ragione. Non sono in tanti a capire che cosa vuol dire crescere lì. Pensa che a me hanno dato il nome di un supermercato. Ci credi?» «Certo che ci credo. Sono cresciuto lì anch'io, Macy.» Facemmo tintinnare i bicchieri e scoppiammo a ridere. «Fortuna che non mi hanno chiamato Bloomingdale.» Un paio di volte le proposi di cenare, ma Macy preferiva stare seduta lì a bere e chiacchierare. Io conoscevo la cuoca, Ris Lacoste, e adoravo la sua cucina. Avevo voglia di ordinare un pasticcio di granchio con insalata. Invece ordinammo ancora un paio di bicchieri e dopo un po' Macy cominciò a bere più in fretta di me. «Sicura di non voler mangiare qualcosa?» le domandai di nuovo. «Mi sembra di avertelo già detto, Alex», replicò. Poi si sforzò di sorridere. «Mi piace chiacchierare con te. Preferisco rimanere qui al bar. Tu no?» Anche a me piaceva conversare con lei, ma era da quella mattina a colazione che non mangiavo niente e avevo bisogno di mettere sotto i denti qualcosa di solido. Una bella minestra di fagioli neri, per esempio. Guardai l'ora e vidi che erano già le dieci e mezzo. Mi chiesi a che ora smettevano di servire la cena al 1789. Macy cominciò a parlarmi dei suoi matrimoni. Il primo marito era un fallito senza speranza e il secondo, di Grenada, più giovane di lei, ancora peggio. Parlava a voce alta e ogni tanto qualche testa si voltava verso di noi. «E così, a trentasette anni, mi è toccato ritornare a lavorare, benché non ne avessi nessuna voglia. Insegno al primo anno. Inglese e letteratura comparata. L'unica consolazione è che insegnare all'ultimo anno è ancora peggio.» Mi pareva di ricordare che quel lavoro le piaceva, ma forse avevo sentito male, oppure stava facendo dell'ironia. Io non parlavo praticamente più, e mi limitavo ad ascoltare. Alla fine Macy se ne accorse e posò una mano sulla mia. Era morbidissima. «Scusa, mi sono lasciata trasportare, Alex. Parlo troppo, vero? Me lo dicono in tanti. Mi dispiace.» «Non ci vedevamo da un sacco di tempo. Abbiamo tante cose da raccon-
tarci.» Mi guardò: aveva occhi bellissimi. Mi rincresceva che gli uomini l'avessero fatta soffrire, che avesse due matrimoni falliti alle spalle, ma succede anche alle persone migliori. Evidentemente Macy era rimasta segnata dalla sofferenza. «Ti trovo in forma», mi disse. «E, per essere un uomo, sai ascoltare. È importante, sai.» «Anch'io ti trovo bene, Macy. E mi piace starti a sentire.» Non mi lasciò la mano, anzi cominciò ad accarezzarla. Mi piaceva, a dire il vero. Il messaggio era chiaro. Si passò la lingua sul labbro superiore e si mordicchiò quello inferiore. Stavo cominciando a dimenticarmi il pasticcio di granchio e la minestra di fagioli neri. Macy mi guardava negli occhi. Eravamo adulti, single, e lei era decisamente attraente. «Abito qui vicino, Alex», mi disse. «Di solito non faccio così, ma... Vieni da me. Accompagnami a casa.» Così feci. Barcollava un po' e si impappinava nel parlare. Le misi un braccio intorno alla vita per sorreggerla. Viveva al pianterreno di una casa vicino all'università, con pochi mobili e le pareti verde chiaro. Aveva un pianoforte nero appoggiato a un muro. Mi cadde l'occhio su un articolo incorniciato su Rudy Crew. Le parole dell'educatore erano a caratteri abbastanza grossi: «Insegnare significa distribuire conoscenza. Il problema del nostro Paese è come viene distribuita questa merce particolare». Ci abbracciammo brevemente sul divano del salotto. Mi piacevano le sue carezze, i suoi baci, ma c'era qualcosa che non mi convinceva. Avrei preferito non trovarmi in quella situazione. Non quella sera, perlomeno. Macy non era nelle migliori condizioni di spirito. «E difficile trovare un uomo perbene», mi disse, avvicinandomi a sé. Parlava ancora con la voce strascicata. «Tu non ne hai idea. E così difficile. Un inferno.» In realtà sapevo anch'io per esperienza quanto era arduo trovare una persona con cui andare d'accordo, ma sorvolai. Magari un'altra volta. «Macy, io ora vado», le dissi a un certo punto. «Mi ha fatto molto piacere rivederti, davvero.» «Lo sapevo! Me l'aspettavo!» sbottò. «Okay, Alex, vattene. Non ti voglio rivedere mai più!» Prima che la rabbia lo cancellasse, avevo scorto nei suoi occhi qualcosa di bellissimo, quasi irresistibile. Ma era scomparso subito. Forse Macy sa-
rebbe riuscita a recuperarlo, oppure no. Quando scoppiò a piangere, capii che non aveva senso cercare di consolarla. Sarei sembrato patetico. Me ne andai da quella casa con il pianoforte nero e la bella frase di Rudy Crew appesa al muro. Macy non faceva per me. Non in quello stato, in ogni caso. Che serata deludente... Anche trovare una donna perbene è difficile, avrei voluto dirle. Mio Dio, quanto odiavo la ricerca di una partner. 40 Il ricordo della serata con Macy Francis continuò a turbarmi per giorni. Era come un motivetto triste che mi risuonava incessante nella testa. Non mi aspettavo che andasse a finire così. Non mi piaceva quello che avevo visto e sentito. Non riuscivo a dimenticare il suo sguardo, quel terribile misto di dolore, vulnerabilità e rabbia, così difficile da lenire. Il mercoledì sera, prima di uscire dal lavoro, mi misi d'accordo con John Sampson per andare a bere qualcosa al Mark, un locale vicino a 5th Street. Un bar di quartiere, con il soffitto di lamiera, il pavimento di legno, un lungo bancone di mogano e ventilatori che giravano lentamente sul soffitto. «Per la miseria, Sugar», esclamò Sampson quando arrivò e mi trovò seduto davanti a una birra chiara, a guardare il vecchio orologio a muro. «Non ti offendere, ma hai l'aria distrutta. Dormi di notte? E ancora da solo, vero?» «Mi fa piacere vederti», gli dissi. «Accomodati, beviamo una birra.» A quel punto John mi mise un braccio intorno alle spalle e mi abbracciò come un bambino. «Che cosa diamine ti succede?» Scossi la testa. «Non lo so, veramente. La caccia all'uomo sulla West Coast è andata malissimo. Voglio dire, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Non si sa niente nemmeno dell'omicidio di Betsey Cavalierre. L'altra sera sono andato a cena fuori con una donna, ed è stato un tale fiasco che ho giurato a me stesso di non riprovarci mai più.» Sampson annuì. «Ho capito l'antifona.» Ordinò una Bud al barista, un ex poliziotto che conoscevamo entrambi, Tommy DeFeo. «Il caso su cui lavoravo in California è finito nel modo peggiore, John. Gli assassini sono scomparsi nel nulla. E tu? Come va? Ti trovo bene. Il che è già molto per te.»
Mi fece un gestaccio. Poi mi puntò un dito fra gli occhi. «Io sono sempre in forma, capito? Non cambiare discorso, comunque. Che cosa c'è sotto?» «Per la miseria, sai che non mi piace parlare dei miei problemi, John. Raccontami di te.» Cercai di ridere, ma lui rimase serio. Mi guardò, rimase zitto e aspettò che parlassi io. «Saresti un discreto strizzacervelli, immagino», gli dissi. «A proposito, sei andato dalla Finally, ultimamente?» Adele Finally è la mia psichiatra. Anche Sampson è stato da lei un paio di volte. E molto in gamba, ne siamo convinti tutti e due, e siamo suoi accaniti sostenitori. «Macché. E arrabbiata con me, dice che non mi impegno abbastanza, che non accolgo il dolore. Roba così.» John annuì e sorrise poco convinto. «E perché?» Feci una smorfia. «Non ti ho detto che sono d'accordo con lei.» Bevvi un sorso di birra. Avevo ordinato una Foggy Bottom: non era male, e poi mi piaceva l'idea di dar lavoro a una birreria locale. «Quando mi sforzo di accogliere il mio cazzo di dolore, mi trovo di fronte al solito conflitto tra il lavoro e la vita che mi piacerebbe vivere. Mi sono perso un altro dei concerti di Damon, mentre ero in California. Continuo a commettere gli stessi errori.» Sampson mi diede una pacca sulla spalla. «Non è la fine del mondo, sai? Damon sa che gli vuoi bene. Ogni tanto gli parlo. Per lui non è più un problema. Sei soltanto tu che devi fartene una ragione.» «A furia di indagare su omicidi terribili, ho l'impressione di essere cambiato, in questi ultimi anni.» John annuì. Era d'accordo con me: quella risposta gli piaceva. «Sei un po' esaurito, insomma.» «Più che altro mi sento intrappolato in un incubo che non vuole finire a nessun costo. Troppe coincidenze. Il Mastermind che ce l'ha con me, mi minaccia. Non so come fare a fermarlo.» Mi guardò negli occhi. «Hai parlato di coincidenze, Sugar. Con il piccolo particolare che tu non credi alle coincidenze.» «È proprio questo che rende la cosa ancor più spaventosa. Se vuoi sapere la verità, credo che qualcuno ce l'abbia veramente con me, e da un sacco di tempo, e chiunque sia, mi fa più paura dei vampiri. Continuo a ricevere strane telefonate, John. Tutti i santi giorni. Una voce maschile. E non riusciamo a risalire alle chiamate.» Sampson si passò una mano sulla fronte. «Adesso fai paura anche a me. Ma chi può avercela con te? Chi osa prendersela con l'Ammazzadraghi?
Dev'essere un cretino.» «Credimi. È tutt'altro che cretino.» 41 Sampson e io restammo al Mark più di quanto avremmo dovuto. Bevemmo un sacco di birra e ce ne andammo soltanto all'ora di chiusura, verso le due. Fummo abbastanza furbi e prudenti da lasciare le macchine nel parcheggio e tornare a casa a piedi. C'era una luna bellissima. Mi ricordava i tempi in cui eravamo bambini, in quella stessa zona, e andavamo a piedi dappertutto. Al massimo prendevamo un autobus, se proprio eravamo in vena. Mi accompagnò fino a casa e proseguì verso Navy Yard. La mattina dopo mi alzai presto per andare a recuperare la macchina prima di entrare in ufficio. Nana e il piccolo Alex erano già in piedi. Bevvi mezzo bricco di caffè, sistemai il bambino nel passeggino e lo portai con me. Era una bella mattina limpida, e per strada non c'era nessuno. Erano le sette. Vivevo in 5th Street da trent'anni, da quando Nana vi si era trasferita da New Jersey Avenue. Mi piaceva. Era il quartiere della famiglia Cross. Non so se sarei mai riuscito ad andarmene. «Papà è stato con lo zio John, ieri sera», gli dissi, chinandomi verso di lui, mentre spingevo il passeggino bianco e blu. Una signora molto carina ci superò, diretta al lavoro, e mi sorrise, come se fossi stato l'uomo migliore del mondo perché ero in giro con mio figlio a quell'ora del mattino. Non ci credetti nemmeno per un secondo, ma l'idea mi lusingava lo stesso. Il piccolo Alex ha nove mesi ed è un bambino sveglio, che osserva con grande interesse la gente, le macchine e le nuvole che gli corrono sopra la testa. Adora andare in giro sul passeggino e a me piace portarcelo, parlargli e cantargli canzoncine. «Vedi il vento che muove le foglie?» gli dissi, e lui alzò la testa. Era impossibile sapere quanto capiva, ma sembrava reagire nella maniera giusta. Anche Damon e sua sorella erano così, alla sua età, benché Jannie da piccola blaterasse in continuazione. Era rimasta una chiacchierona e voleva sempre avere l'ultima parola - e anche la penultima - come sua nonna e, pensandoci bene, come sua madre Maria. «Adesso mi devi dare una mano», dissi chinandomi verso il piccolo Alex. Mi guardò e sorrise. Certo, papi, nessun problema.
«Devi tenermi insieme per un po'. Devi darmi qualcosa di importante su cui concentrarmi. Posso contare su di te?» Alex continuava a sorridere. Ma certo, papi. Conta su di me. Lo sai che ci sono. Appoggiati pure. «Bravo, Alex, sapevo di poter fare affidamento su di te. Tu continua semplicemente a fare quello che fai. Sei la cosa più bella che mi sia capitata da un bel po'. Ti voglio bene, piccolo.» Mentre gli dicevo queste cose, mi sentii avvolgere dagli stessi sentimenti della sera prima, come se la nebbia fredda salisse dal fiume Anacostia. Coincidenze, ricordai. Da due anni a quella parte mi erano capitate un sacco di cose brutte. Un vero periodaccio. L'assassinio di Betsey Cavalierre, il Mastermind, i vampiri. Avevo bisogno di un po' di pace, di una boccata d'aria fresca. Quando arrivai in ufficio, quella mattina, mi aspettava un messaggio. C'era stato un altro omicidio. I vampiri avevano colpito ancora. Cambiando le regole del gioco, però. Questa volta era successo a Charleston, nel South Carolina. Gli assassini erano tornati sulla East Coast. PARTE TERZA MORTE NEL SUD 42 Presi il primo volo per Charleston e arrivai poco prima delle dieci del mattino. La notizia dell'omicidio era sulle prime pagine del Post and Courier e di USA Today, a caratteri cubitali. Percepii incertezza e paura negli spazi luminosi, asettici e pieni di negozi dell'aeroporto. La gente sembrava nervosa e stanca. Molti avevano l'aria di non aver dormito la notte. Sono certo che alcuni pensavano che, se i misteriosi assassini potevano colpire nel cuore di Charleston, potevano farlo altrettanto facilmente nella sala d'aspetto o nel ristorante di un aeroporto. Non si sentivano più al sicuro da nessuna parte. Noleggiai un'automobile e andai al Colonial Lake, in città. Due persone che facevano jogging, un uomo e una donna, erano state uccise intorno alle sei della mattina precedente. Erano sposati da quattro mesi soltanto. Le analogie con il caso del Golden Gate Park erano inequivocabili.
Non ero mai stato a Charleston, ma avevo letto vari libri ambientati in quella città. Mi accorsi subito che era bellissima. In passato era stata molto ricca grazie al cotone, al riso e agli schiavi, naturalmente. Il riso era il prodotto più esportato, ma i proventi maggiori derivavano dagli schiavi che arrivavano nel porto di Charleston e venivano poi venduti in tutto il Sud. I proprietari delle piantagioni avevano case in città, nelle quali si recavano per feste, concerti e balli in maschera. Anche gli antenati di Nana erano stati sbarcati a Charleston e lì erano stati venduti. Trovai posteggio in Beaufain Street, una via molto bella costeggiata da case in stile vittoriano. Notai alcuni giardini all'inglese. Non era il posto adatto per omicidi tanto efferati: troppo bello, troppo idilliaco. Era proprio questo ad attirare gli assassini, la bellezza? Ma la inseguivano per amore o per odio? Che cosa stavano cercando di dirci con i loro delitti? Qual era la loro oscura fantasia, la loro horror story? Se la popolazione di Charleston era sospettosa e impaurita da questi fatti, nelle strade intorno al Colonial Lake regnava il terrore. La gente si scambiava occhiate diffidenti e gelide. Nessun sorriso, neanche l'ombra della tipica ospitalità del Sud. Avevo lasciato un messaggio a Kyle dandogli appuntamento al lago, che era circondato da ampi sentieri con panchine in ferro battuto. Il giorno prima doveva essere stato un luogo incantevole e tranquillo, ma quella mattina all'incrocio fra Beaufain e Rutledge c'era una zona isolata da nastro giallo e piantonata da poliziotti che controllavano chiunque passasse, come se gli assassini potessero tornare. Dopo un po' che giravo, vidi Kyle che mi aspettava sotto un grande albero, e gli andai incontro. Era una mattinata tiepida, e dal mare soffiava una brezza che sapeva di pesce e salmastro. Kyle era vestito come al solito: completo grigio, camicia bianca, anonima cravatta azzurra. Notai che assomigliava più che mai al drammaturgo e attore Sam Shepard. Aveva l'aria stanca e afflitta, e doveva provare lo stesso stress cui ero sottoposto io. Anche lui sembrava turbato, dagli omicidi o da qualcos'altro. «Doveva essere così anche ieri mattina, a parte che l'omicidio è avvenuto più presto», dissi avvicinandomi. «Nessuno ha visto niente? Possibile che non ci fossero testimoni, in un posto così, come ho letto sul verbale della polizia?» Kyle sospirò. «In realtà un testimone c'era. Ha visto due uomini uscire di corsa dal parco. È un vecchietto di ottant'anni e passa. Dice che gli era sembrato che avessero gli abiti sporchi di sangue, ma ha pensato di essersi
sbagliato. Finché non ha trovato i corpi.» Mi guardai intorno di nuovo. Il sole era forte e dovetti proteggermi gli occhi per non rimanere abbagliato. Gli uccelli cinguettavano sui rami. Il parco era aperto, tutto era in vista. «Hanno agito in piena luce: bei vampiri», borbottai. Kyle mi scrutò. «Non starai cominciando a credere a questa fesseria, vero?» «Credo che esistano persone che vivono da vampiri. E che alcune siano convinte di esserlo veramente. Si fanno affilare i canini e sono molto violente. Certo che, se fosse vero che possono assumere sembianze animali, il testimone di ieri avrebbe visto scappar via due pipistrelli, anziché due uomini», risposi. «Era una battuta, Kyle. Che cos'altro ha dichiarato il vecchietto, comunque?» «Niente di importante. Gli sono sembrati molto giovani. Vent'anni, trenta. Non è stato molto preciso. Camminavano a passo svelto, ma non si sono allarmati, vedendolo. Ha ottantasei anni, Alex, e sembra un po' frastornato da tutta l'attenzione di cui è oggetto.» «In ogni caso, questi assassini sono molto coraggiosi. Oppure completamente stupidi. Mi chiedo se sono gli stessi che abbiamo cercato di catturare in California e nel Nevada.» Kyle s'illuminò. Gli era venuta in mente una cosa. «A Quantico sono stati svegli tutta la notte. Come al solito. E hanno tirato fuori un elenco di una decina di città sulla East Coast in cui risultano omicidi insoluti che potrebbero essere collegati a questi.» «In che periodo sono stati commessi?» domandai. «È questo il bello. È possibile che la cosa vada avanti da un sacco di tempo. I casi non erano mai stati messi in relazione prima d'ora. Coprono un periodo di undici anni.» 43 Quella sera, Kyle e io andammo a cena con un'amica a Charleston. Aveva organizzato tutto Kyle, che aveva anche prenotato al ristorante The Grille di North Tyron. Kate McTiernan non era cambiata molto dall'ultima volta che ci eravamo visti a Durham e Chapel Hill, nel North Carolina. L'assassino Casanova l'aveva rapita a Chapel Hill, ritenendola la donna più bella del Sud degli Stati Uniti.
Kate non era soltanto bella, ma anche molto intelligente. Adesso faceva la pediatra e stava pensando di specializzarsi in chirurgia. Quando ci raggiunse al tavolo, Kyle e io stavamo parlando animatamente della strategia da adottare nelle indagini. «Salve, ragazzi.» Kate aveva lunghi capelli scuri e vivaci occhi azzurri. Aveva un fisico da atleta, ma sapevo che nell'intimo era una donna molto tenera. «Basta così», ci disse. «Lavorate troppo. Stasera siamo qui per divertirci.» Non appena la vedemmo, Kyle e io saltammo subito in piedi, sorridendo come due scemi. Ne avevamo passate di tutti i colori insieme e ci ritenevamo fortunati a essere sopravvissuti per ritrovarci a quell'improbabile cena a Charleston. «Che coincidenza. Ero a un congresso medico fuori città», ci spiegò, sedendosi al nostro tavolo. «Alex non crede nelle coincidenze», ribatté Kyle. «Be', non importa. Siamo di nuovo insieme. Per intervento divino o quant'altro. Sia lode al Signore», disse Kate sorridendo. «Sei di buon umore», osservò Kyle. Sembrava piuttosto euforico anche lui. «Sono felice di rivedervi. È stata una bellissima sorpresa. E comunque, sì, è un periodo in cui sto bene. La primavera prossima mi sposo. Thomas me lo ha proposto ufficialmente due sere fa.» Kyle si congratulò con lei e io chiamai il cameriere e ordinai una bottiglia di champagne per festeggiare la bella notizia. Kate ci parlò di Thomas, disse che era un uomo molto in gamba. Aveva una piccola libreria molto intellettuale nel North Carolina. E faceva anche il paesaggista. «Naturalmente sono un po' di parte, ma, visto che in genere sono un tipo incontentabile, credo che sia bravo sul serio. È un uomo eccezionale. Come stanno Nana e i bambini? E Louise, Kyle? Su, raccontatemi un po' di voi. Mi siete mancati.» Alla fine della cena eravamo tutti di buon umore, un po' per via dello champagne e un po' per la compagnia. Avevo già notato che Kate aveva la capacità di rasserenare le persone, compreso Kyle, che di solito è un orso. Non le aveva staccato gli occhi di dosso tutta la sera. Verso le undici ci abbracciammo e baciammo. «Dovete assolutamente venire al mio matrimonio», disse Kate battendo un piede per terra. «Tu, Kyle, porti Louise. E tu, Alex, la tua nuova fidan-
zata. Promesso?» Promettemmo. Anche perché non ci lasciò alternative. Poi la accompagnammo alla macchina, una vecchia Volvo azzurra che usava per fare le visite a domicilio. «Mi è sempre piaciuta», sussurrai. «Piace molto anche a me», ribatté Kyle, continuando a guardarla finché non fu scomparsa. «È una donna eccezionale.» 44 Stavamo cominciando a unire i puntini e a intravedere un disegno, finalmente. Speravo di riuscire a risolvere il mistero dei vampiri il prima possibile. Il pomeriggio del giorno dopo, l'FBI ci comunicò le dodici città sulla costa orientale degli Stati Uniti in cui dal 1989 in poi erano stati commessi omicidi con caratteristiche simili a quelli su cui stavamo indagando. Scrissi i nomi su una delle mie schede, poi lessi l'elenco e meditai. Che cosa avevano in comune quelle città? Atlanta Birmingham Charleston Charlotte Charlottesville Gainesville Jacksonville New Orleans Orlando Richmond Savannah Washington Erano tante, forse troppe. Ed era spaventoso il fatto che gli omicidi fossero distribuiti in un lasso di tempo tanto lungo. Poi redassi un elenco delle città in cui erano state denunciate aggressioni da parte di presunti vampiri, che non si erano concluse con la morte delle vittime. Studiai la lista, ancora più lunga della prima, e cominciai a deprimermi. Sembrava un groviglio inestricabile.
New York City Boston Philadelphia Pittsburgh Virginia Beach White Plains Newburgh Trenton Atlanta Newark Atlantic City Tom's River Baltimora Princeton Miami Gainesville Memphis College Park Charlottesville Rochester Buffalo Albany L'unità Crimini violenti di Quantico era al lavoro giorno e notte. Kyle e io eravamo abbastanza sicuri che sarebbero saltate fuori altre città e forse anche reati commessi prima del 1989. Ad Atlanta, Gainesville, New Orleans e Savannah risultavano omicidi commessi in almeno due anni diversi, ma la situazione peggiore, fino a quel punto, era a Charlotte, nel North Carolina, dove erano stati commessi tre omicidi molto sospetti nel 1989. Era possibile che tutto fosse cominciato lì. L'FBI aveva inviato alcuni agenti in ciascuna delle dodici città identificate e una task force a Charlotte, Atlanta e New Orleans. Con ciò conclusi le mie indagini a Charleston senza essere arrivato a molto. Per il momento, i media non erano al corrente dell'elenco di città in cui sembrava avessero colpito gli assassini, e noi speravamo di tenerli all'oscuro il più possibile. Quella sera andai allo Spooky Tooth, l'unico locale nei dintorni di Char-
leston frequentato da dark e presunti vampiri. Trovai un gruppo di giovani, perlopiù studenti sotto i vent'anni. Parlai con il padrone e gli feci qualche domanda sulla clientela del suo night-club. Erano decisamente arrabbiati e inquieti, ma non sembravano degli assassini. Tornai a Washington il pomeriggio successivo. Ci tenevo. Alle sette e mezzo Nana, Jannie, il piccolo Alex e io andammo al concerto del coro di Damon. Furono bravissimi. Damon era uno dei solisti. Cantò The Ash Grove. «Ti rendi conto di che cosa ti sei perso?» mi disse Nana nell'orecchio. 45 William e Michael erano contenti di essere arrivati nel Sud. Era selvaggio e libero come loro. E, soprattutto, erano in perfetto orario sulla tabella di marcia. Savannah, Georgia. William percorse Oglethorpe Street e fermò il furgone davanti al famoso Colonial Park Cemetery, poi imboccarono Abercom Street e Perry Street, attraversando Chippewa Square e Orleans Square. William disse a Michael: «Savannah è costruita sui suoi morti. Gran parte della città è sorta sui cimiteri». Gli spiegò inoltre che era stata risparmiata dalla guerra civile ed era una delle città meglio conservate del Sud degli Stati Uniti. A William piaceva molto, ed era contento di dover fare una vittima lì. Pregustava già l'idea di alimentarsi a Savannah e di portare a termine la missione. Affascinato dalla bellezza del centro storico, smise di far caso ai nomi delle strade. C'erano eleganti palazzi del periodo federale, chiese del XIX secolo, ferro battuto, greche e fiori dappertutto. Ammirò le case più famose: Green-Meldrim, Hamilton-Turner, quella di Joe Odom. «Che bella città. Non mi dispiacerebbe viverci. Non credi che un giorno o l'altro dovremmo fermarci da qualche parte? Non ti piacerebbe?» «Ho fame. Fermiamoci subito», rispose Michael, ridendo. «Forza, scegliamo il meglio che Savannah ha da offrirci.» William parcheggiò in una strada che si chiamava West Bay e finalmente scesero a sgranchirsi gambe e braccia. Videro arrivare due ragazze con la maglia del Savannah College of Art and Design e blue jeans tagliati. Avevano gambe lunghe e affusolate e la pelle abbronzata. Sembravano spensierate. «Possiamo donare il sangue?» chiese la più bassa di statura, con un sor-
riso seducente. Dimostrava sedici o diciassette anni, aveva il piercing sul labbro e i capelli tinti di rosso ciliegia. «Sei proprio un bel bocconcino», le disse Michael guardandola negli occhi. «Sono un sacco di cose», replicò la ragazza, lanciando un'occhiata all'amica. «Ma di certo non un bocconcino. Non credi, Carla?» L'altra annuì e alzò gli occhi verdi al cielo. William le squadrò da capo a piedi e pensò che potevano trovare di meglio: quelle due vagabonde non erano alla loro altezza. «Mi dispiace, ma siamo chiusi», le rispose. Fu educato e sorrise cordialmente, in maniera quasi accattivante. «Magari più tardi, ragazze. Perché non ripassate stasera? Che cosa ne dite?» La ragazza più bassa ribatté, un po' offesa: «Se fate così, di donatori non ne troverete mica tanti. Dicevamo per dire». William si passò le dita fra i lunghi capelli biondi, sempre sorridendo. «Lo so, lo so. Anch'io dicevo per dire. Siete due belle ragazze. Devo sentirmi in colpa? Come dicevo, magari ci si vede più tardi. Naturalmente vi faremo un prelievo: è per una giusta causa.» William e Michael decisero di fare due passi verso il fiume e la Riverfront Plaza. Non fecero molta attenzione a mercantili, rimorchiatori o al Savannah River Queen, un battello a vapore pieno di festoni. Non degnarono neppure di uno sguardo la statua, imponente e bronzea, di una ragazza che salutava con la mano i marinai in partenza: preferivano osservare gli uomini e le donne che passeggiavano. Stavano cercando una preda, benché sapessero che era pericoloso colpire in pieno giorno. C'era un mercato delle pulci e alcuni artisti locali avevano attirato una discreta folla, composta perlopiù di soldati e di donne, alcune molto graziose. «Voglio prendermi qualcuno. Qui, in questo bel lungofiume del cazzo», dichiarò William. «Quello lì va bene», replicò il fratello indicando un giovane con una maglietta nera e blue jeans sfrangiati. «Mi accontenterei anche di uno spuntino: che ne dici di quella bimbetta succulenta che gioca con la sabbia? Hmm. Almeno lei non ha l'odore dolce e stucchevole che si sente dappertutto.» William apprezzò il senso dell'umorismo del fratello. «Quello che senti è profumo di praline. Ma questa città è famosa anche per i barbecue. Molto speziati, pare», rimarcò. «Non ho voglia di manzo o maiale», protestò Michael arricciando il na-
so. «Be', potremmo mangiare un boccone in fretta... Vedi qualcuno che ti piace? Dai, scegli.» Michael glielo indicò. «Perfetto», sussurrò William. 46 Orrore. C'era stato un altro omicidio spietato nello stile dei vampiri. A Savannah. Kyle e io ci precipitammo in Georgia a bordo di un Bell Jet nero che avrebbe fatto felice Lord Fenner. Kyle non voleva mollare il caso. E non voleva mollare nemmeno me. Dall'elicottero la vista della città e del suo porto era molto suggestiva, con i palazzi d'epoca, i caratteristici quartieri dei negozi e il fiume che si snodava fra le paludi dorate prima di sfociare nell'Atlantico. Perché gli omicidi venivano commessi in località così belle e piene di gente? Perché proprio lì? Doveva esserci un motivo che fino a quel momento ci era sfuggito. Gli assassini seguivano certamente un filo conduttore, una fantasia. Ma quale? Una berlina dell'FBI ci stava aspettando per portarci alla cattedrale di San Giovanni Battista in East Harris Street, nel centro storico. C'erano auto della polizia ovunque, fra le case costruite prima della guerra civile. E un sacco di ambulanze. «Abbiamo bloccato le autostrade tutto intorno alla città», mi disse Kyle mentre sfrecciavamo nel traffico cittadino. «Questa è la cosa più bizzarra e orribile che sia capitata a Savannah dall'omicidio che ha ispirato Mezzanotte nel giardino del bene e del male di John Berendt. Dovrebbe attirare un bel po' di turisti, però. Ti pare? Forse il tour dei vampiri finirà per diventare più famoso di quello del romanzo.» «Non credo che sia il genere di turismo auspicato dalla gente del posto», osservai. «Kyle, ma che cosa succede? Gli assassini uccidono sotto il nostro naso. Stanno cercando di dirci qualcosa. Colpiscono nelle città più belle degli Stati Uniti, nei giardini pubblici, negli hotel di lusso, adesso persino in una cattedrale. Vogliono che li prendiamo? O si ritengono invincibili?» Kyle guardò le guglie della chiesa davanti a noi. «Forse tutte e due le cose. Sono d'accordo con te, comunque. Per motivi che non riesco a capire, corrono rischi spaventosi. Ma è proprio per questo che siamo qui. Tu sei
uno psichiatra, no? Dovresti capire come funzionano le loro menti malate.» Non riuscivo a togliermi dalla testa che quegli assassini volessero farsi beccare. Ma perché? 47 Kyle e io scendemmo dalla macchina e ci avviammo a passo svelto verso la cattedrale, sui cui portali campeggiava uno stendardo bianco e oro con la scritta: UNA FEDE, UNA FAMIGLIA. Le guglie della chiesa si innalzavano sulla città di Savannah. Lo stile era gotico francese, con grandi archi e intagli e vetrate colorate. L'altare era di marmo italiano. Mi guardai intorno attentamente, ma non notai nulla di particolare. L'omicidio era stato scoperto meno di due ore prima. Kyle e io eravamo saliti in elicottero subito dopo la comunicazione da parte della polizia di Savannah. Le televisioni avevano già diffuso la notizia. Sentii odore di incenso. Vidi la vittima non appena entrai e non riuscii a trattenere un gemito, colto da un'ondata di nausea. Era un ragazzo di ventun anni, come ci era stato riferito dalla polizia, studente di storia dell'arte alla University of Georgia. Si chiamava Stephen Fenton. Gli assassini non gli avevano portato via né portafoglio né denaro né niente, a parte la maglietta. La cattedrale era grande e probabilmente poteva contenere un migliaio di fedeli. La luce che filtrava dalle vetrate creava motivi colorati sul pavimento. Anche da lontano mi accorsi che Fenton era stato sgozzato. Il corpo, a torso nudo, era muscoloso e tonico, come quello delle altre vittime. Giaceva ai piedi della tredicesima stazione della Via Crucis. Per terra c'erano alcune macchie di sangue quasi asciutte. Gli hanno succhiato il sangue qui in chiesa? Voleva essere un sacrilegio? Un macabro rito? Che cosa c'entra la Via Crucis? Kyle e io ci avvicinammo al cadavere. Nella navata era già stato predisposto un sacco mortuario. I tecnici della Scientifica di Savannah stavano lì, inquieti e arrabbiati, ansiosi di fare il loro lavoro e andare via. Li stavamo facendo aspettare. Il medico legale era intento a esaminare il corpo. Kyle e io ci inginocchiammo. Mi infilai un paio di guanti di plastica. Kyle non li usava quasi mai: toccava raramente le prove sul luogo del delitto. Mi ero sempre chiesto perché, ma di solito aveva un gran fiuto.
Se eravamo tutti e due tanto capaci, però, come mai non avevamo idea di dove fossero andati gli assassini e di quando avessero intenzione di colpire ancora? Era quella la domanda che mi tormentava di più, ogni volta che vedevo una delle loro vittime. Che cosa significava quella carneficina? «Sono impulsivi», mormorai a Kyle. «Sospetto che abbiano meno di trent'anni. Potrebbero averne venti o poco più. Magari anche meno. Non mi sorprenderei se fossero addirittura adolescenti.» «Sono d'accordo. Non sembrano avere paura di niente.» Kyle parlava piano e osservava le ferite di Stephen Fenton. «Sembra quasi che sia stato aggredito da una bestia feroce. Una tigre, come in California. Adesso anche sulla East Coast. Il problema è che non sappiamo veramente né quand'è cominciata questa catena di omicidi, né quanti assassini ci sono o se colpiscono anche fuori degli Stati Uniti.» «E questi sono tre problemi, tre interrogativi cui dobbiamo dare una risposta. I tuoi agenti continuano a interrogare i frequentatori di club di vampiri e di dark? Hanno provato su Internet? Ci sarà pure qualcuno che sa qualcosa.» «Se lo sanno, stanno zitti. Ho sguinzagliato oltre trecento agenti a tempo pieno, Alex. Non possiamo reggere a lungo questo ritmo.» Alzai lo sguardo verso la stazione della Via Crucis. Gesù, deposto dalla croce, era fra le braccia della madre. Corona di spine, crocifissione, ferite, sangue. Era il sangue il punto in comune? La vita eterna? Non sapevo che cosa pensare. A Santa Barbara, Peter Westin mi aveva detto che alcuni vampiri hanno un forte senso della spiritualità. Era stato un omicidio rituale o casuale? Forse avrei dovuto parlare di nuovo con lui. Sembrava il più informato di tutti coloro che avevo consultato a proposito dei vampiri fino a quel momento. La vittima indossava un paio di pantaloni beige e scarpe da ginnastica Reebok, nuove. Esaminai le ferite sul collo. Aveva profondi tagli anche sulla spalla sinistra e nella parte superiore del torace. Uno degli assassini se non tutti e due - doveva essere arrabbiato, furioso. «Perché gli hanno preso la maglietta?» domandò Kyle. «Anche a Marin era successo.» «Forse era zuppa di sangue», risposi, continuando a esaminare le ferite. «Questi sono decisamente segni provocati da denti umani. Ma la modalità d'attacco è animalesca. La tigre dev'essere un modello, un simbolo, un elemento importante. Che cosa vorrà dire?» Il cellulare di Kyle squillò. Quando rispose pensai subito al Mastermind,
che mi chiamava continuamente. Kyle stette a sentire per circa venti secondi, poi si voltò verso di me. «Dobbiamo andare subito a Charlotte. C'è stato un altro omicidio, Alex. Hanno colpito di nuovo. Sono già nel North Carolina.» «Ma come... Ma che cosa diavolo stanno facendo?» Corremmo fuori della cattedrale come se avessimo il diavolo alle calcagna. 48 Ogni tanto un omicidio o una serie di omicidi colpisce e sconvolge particolarmente l'opinione pubblica. Gli efferati delitti del mostro di Milwakee, Jeffrey Dahmer, l'uccisione di Gianni Versace e delle successive vittime di Andrew Philip Cunanan, e le gesta del più spietato serial killer russo, Andrei Chikatilo. Adesso questa carneficina sulle due coste degli Stati Uniti. Fortunatamente avevamo l'elicottero dell'FBI per trasferirci al più presto da Savannah a Charlotte. Mentre eravamo in volo, Kyle contattò i suoi agenti a terra, che avevano circondato una fattoria abbandonata a una trentina di chilometri da Charlotte. Non lo avevo mai visto tanto agitato ed eccitato da un caso, nemmeno quando indagavamo su Casanova o sul Visitatore Gentiluomo. «Forse stavolta riusciremo nel nostro intento», mi disse. «Finché non arriviamo noi, da quella casa non esce nessuno. Speriamo bene.» «Già. Ma non sono convinto che siano gli stessi assassini.» Avevo smesso di tirare conclusioni azzardate. Perché proprio Charlotte? Sarebbe stato il quarto colpo nella stessa città. Tutte le piste portavano nel North Carolina. Ma perché? Kyle ascoltò un nuovo rapporto dagli agenti sul posto e quindi mi riferì i particolari più interessanti. «I genitori di un diciassettenne di Charlotte sono stati aggrediti nel sonno, ieri sera. Ammazzati di botte. Nella camera è stato ritrovato un martello a granchio. I cadaveri presentavano segni di morsicature. Sembra che le vittime siano state azzannate da un grosso animale o da un individuo con canini metallici molto aguzzi.» Kyle alzò gli occhi al cielo. Continuava a non credere ai vampiri. «Il figlio è scappato in un casolare abbandonato vicino al Loblolly River, fuori Charlotte. A quanto sappiamo, sembra che il rudere sia un ritrovo di ragazzi, anche molto giovani. È un pasticcio, Alex. Finché non arri-
viamo noi, non si muove nessuno. Il problema è che molti sono minorenni.» Dieci minuti dopo, atterrammo in un campo pieno di fiori selvatici a circa cinque chilometri dal casolare in cui forse si era rifugiato l'assassino. Sembrava una scena alla Bonnie and Clyde. Arrivammo nel bosco fitto intorno alla casa dopo le cinque. Stava per imbrunire. La casa era a due piani, di legno, nascosta da glicine e cespugli di mirto. Per terra c'erano pigne, noci e grosse bacche che mi fecero tornare in mente la mia infanzia. Ero cresciuto nel Sud, ma non avevo conservato bei ricordi, purtroppo. Mio padre e mia madre erano morti giovani, prima di compiere quarant'anni. La mia terapista aveva una teoria secondo cui io ero convinto che sarei morto giovane perché così era successo ai miei genitori. Anche il Mastermind sembrava pensarla così. E forse avrebbe fatto avverare la mia paura quanto prima. Il tetto del casolare era a punta, con un lucernario rotto. I muri esterni erano bianchi e scrostati, ma abbastanza ben conservati, mentre le tegole di amianto erano rotte in diversi punti e lasciavano intravedere la carta catramata sottostante. Era un posto che faceva venire i brividi. I federali erano molto preoccupati al pensiero che la maggior parte dei ragazzi dentro la casa era minorenne. Non sapevano esattamente quanti erano o se avevano precedenti penali. Non c'era nessuna prova che fossero coinvolti negli omicidi. Alla fine si decise che, se non fossimo stati scoperti prima, avremmo aspettato di vedere se entrava o usciva qualcuno nel corso della serata e poi avremmo fatto irruzione nel casolare. La situazione si stava facendo spinosa, soprattutto dal punto di vista politico, e le conseguenze, se fosse rimasto ucciso o ferito un minorenne, avrebbero potuto essere gravi. Peraltro, nei boschi sembrava tutto tranquillo. Il casolare era stranamente silenzioso, tenuto conto del fatto che supponevamo fosse pieno di ragazzini. Non si sentivano né risate né musica, e nemmeno odore di cibo. Si vedevano tremolare luci fievoli. La mia paura era che l'assassino se ne fosse già andato. Che fossimo arrivati troppo tardi. 49 Mi sentii bisbigliare qualcosa nell'orecchio: era Kyle. «Andiamo, Alex. È ora di muoverci.»
Il segnale di irrompere nel casolare venne dato alle quattro del mattino. Kyle dirigeva l'operazione. Aveva autorità anche sugli agenti del posto. Io andai con una decina di agenti con la giacca a vento blu. Nessuno si sentiva sicuro e ci avvicinammo guardinghi al limitare del bosco, a settantacinque metri dalla casa. Due cecchini appostati a una trentina di metri dalla casa segnalarono via radio che dentro c'era silenzio. Troppo silenzio? «Sono ragazzini», ci ricordò Kyle prima di entrare. «Ma proteggete prima di tutto voi stessi.» Strisciammo per terra fino all'altezza dei due cecchini e quindi corremmo verso il casolare, facendo irruzione da tre parti. Kyle e io passammo dalla porta principale, gli altri dai lati e dal retro. Lanciammo un paio di granate stordenti Flashbang. Al pianterreno si alzarono delle urla. Strilli acutissimi. Erano ragazzini. Per il momento, niente spari. La scena era irreale, caotica. Erano una ventina, fumati, quasi tutti in mutande o nudi. Dormivano per terra. Non c'era elettricità, soltanto candele. C'era puzza di urina, di marijuana, di muffa, di vino da quattro soldi e di cera. Alle pareti erano appesi poster degli Insane Clown Posse e di Killah Priest. L'atrio, che era minuscolo, e il salotto davano su una sala grande. I ragazzi dormivano su coperte stese per terra, oppure direttamente sul pavimento di legno. Ma adesso erano svegli e arrabbiati. «Porci! Sbirri, toglietevi dalle palle!» Gli agenti ne stavano svegliando altri al primo piano. Volò qualche cazzotto, ma nessuno sparo. Non c'erano feriti, almeno fino a quel momento. La sensazione era di sconforto, di fallimento. Un ragazzo si mise a gridare con tutto il fiato che aveva in corpo e mi si lanciò addosso. Sembrava non aver paura di niente e aveva gli occhi rossissimi: lenti a contatto colorate. Aveva la schiuma alla bocca e ringhiava. Lo immobilizzai, lo ammanettai e gli dissi di darsi una calmata, se non voleva prenderle sul serio. Dubitavo che pesasse più di sessanta chili, ma era più forte e muscoloso di quanto sembrasse a prima vista. L'agente vicino a me non fu altrettanto fortunato, perché una ragazza molto robusta, con i capelli rossi, lo morse sulla guancia mentre lui tentava di fermarla e poi lo azzannò sul petto. L'agente gridò, cercando di scrollarsela di dosso, ma quella teneva duro, come un cane che non vuole mollare l'osso di cui si è impossessato. La strappai via io e la ammanettai con i polsi dietro la schiena. Indossa-
va una maglietta nera con la scritta BUON NATALE DEL CAZZO e aveva serpi e teschi tatuati dappertutto. Mi gridò in faccia: «Sei un pezzente! Mi fai schifo!» «Quello che cerchiamo è in cantina!» mi urlò Kyle. «L'assassino si chiama Irwin Snyder.» Lo seguii in una cucina in uno stato desolante e oltre una porta di legno sbilenca che conduceva in cantina. Avevamo le pistole in pugno. Consapevoli di quanto era stato rapido e violento quando aveva ucciso, non avevamo nessuna voglia di affrontarlo. Spalancai la porta e Kyle, io e altri due agenti scendemmo, con grande cautela, tre scalini malfermi. Era buio. Il silenzio era totale. Un agente puntò la torcia nella cantina. A quel punto vedemmo l'assassino. E lui vide noi. 50 In un angolo in fondo alla cantina era accovacciato un ragazzo robusto, con un lurido giubbotto di pelle con le borchie e jeans neri. Ci stava aspettando. Aveva in mano un piede di porco. Saltò su e cominciò a sferrare colpi in aria ringhiando. Doveva essere Irwin Snyder, il ragazzo che aveva ucciso i suoi genitori. Era giovanissimo, aveva soltanto diciassette anni. Che cosa gli era preso? Aveva i canini dorati, lunghissimi, e lenti a contatto rosse. Sul naso e sulle sopracciglia aveva almeno dodici cerchietti d'oro e d'argento. Era molto muscoloso e alto più di un metro e ottanta. Era stato un bravo giocatore di basket, prima di lasciare la scuola all'improvviso. Continuava a ringhiare nella nostra direzione. Aveva i piedi in una pozzanghera, ma sembrava non accorgersene. Gli occhi infossati, lo sguardo vitreo. «Indietro!» gridò. «Non avete idea della merda in cui vi siete cacciati. Idioti! Uscite di qui, bastardi!» Continuava a far roteare il piede di porco, che era pesante e arrugginito. Noi ci bloccammo. Io volevo sentire che cosa aveva da dire. «Perché siamo nella merda?» gli domandai. «Io so chi sei», mi urlò, con la schiuma alla bocca. Era furioso, completamente stordito dalla droga. Era pronto ad ammazzare. «Chi sono?» gli chiesi. Come poteva saperlo veramente? «Sei Cross, cazzone. Ecco chi sei», rispose, scoprendo i denti. Aveva un sorriso da folle. La sua risposta mi inquietò. «E voialtri siete stronzi cani
dell'FBI. Dovete morire! Creperete tutti. Cross qui non ci deve venire.» «Perché hai ammazzato i tuoi?» chiese Kyle dalle scale. «Per liberarli», ribatté il ragazzo in tono di scherno. «Adesso sono felici come uccellini nel cielo.» «Non ti credo», replicai. «Balle.» Continuava a ringhiare. «Allora non sei proprio cretino, Cross.» «Perché li hai azzannati con quei denti di metallo? Che cosa rappresenta la tigre, Irwin?» gli chiesi. «Lo sai già, altrimenti non me lo chiederesti», replicò, scoppiando in una risata sinistra. Aveva i denti gialli e macchiati di nicotina, i jeans luridi, sporchi di cenere. Dal giubbotto di pelle mancavano un sacco di borchie. La cantina puzzava di carne marcia. Che cosa avevano fatto là sotto? Quasi quasi avrei preferito non saperlo. «Perché hai ammazzato i tuoi genitori?» gli domandai di nuovo. «Li ho eliminati per liberarmi», gridò. «Li ho fatti fuori perché seguo la Tigre.» «E chi è la Tigre? Che cosa rappresenta?» Mi lanciò un'occhiata di sfida. «Lo vedrai molto presto. E rimpiangerai di averlo fatto.» Mollò il piede di porco e si infilò una mano nei jeans. Io gli saltai addosso. Irwin cercò di colpirmi con uno stiletto, ma io mi scansai. Non fui abbastanza veloce, però, e mi ferì sul braccio. Provai un bruciore lancinante. Snyder ululò trionfante e mi si avventò contro un'altra volta. Era rapido, atletico, scattante. Riuscii a togliergli di mano lo stiletto, ma lui mi morsicò sulla spalla e cercò di avvicinarsi al collo. Nel frattempo erano intervenuti Kyle e gli altri. «Maledizione!» imprecai. Gli mollai un pugno in faccia, ma lui mi addentò una mano. Mio Dio, che male! Gli agenti federali faticarono a immobilizzarlo, beccandosi una serie di insulti e minacce. Avevano paura che mordesse anche loro. «Adesso sei uno di noi. Sei uno di noi! Ora puoi incontrare la Tigre», gridò, ridendo. 51 Mi faceva male la testa, ma passai le quattro ore successive a interrogare Irwin Snyder nel carcere di Charlotte, in una saletta spoglia, dai muri bian-
chi, talmente piccola che mi dava la claustrofobia. Per oltre un'ora Kyle rimase con me, ma non riuscii a cavare nulla al ragazzo. Poi chiesi a Kyle di lasciarci soli: Snyder era incatenato e mi sentivo abbastanza tranquillo. Mi chiedevo come si sentiva. Mi pulsavano sia la mano sia il braccio, ma la faccenda era troppo importante perché desistessi. Irwin era stato informato del mio arrivo. Ma chi glielo aveva detto? Cos'altro sapeva? Come faceva quel giovane assassino di Charlotte a essere collegato agli altri omicidi? Snyder era di un pallore malsano, aveva il pizzetto e le basette. Mi fissava con gli occhi scuri, vivaci e abbastanza intelligenti. A un certo punto posò la testa sul piano di formica del tavolo e io lo presi per i capelli e lo costrinsi ad alzarsi in piedi. Mi insultò, poi chiese di vedere il suo avvocato. «Fa male, eh?» dissi. «Non farmelo fare un'altra volta. Tieni su la testa, non è ora di dormire. Questo non è un gioco.» Mi fece un gestaccio e posò di nuovo la testa sul tavolo. Intuii che si era comportato così a scuola e a casa per anni, senza che nessuno osasse dirgli niente. Ma con me non attaccava. Lo tirai su per i capelli unti un'altra volta, anche più forte della prima. «Forse non mi hai capito. Parli la mia stessa lingua? Tu hai ammazzato i tuoi genitori a sangue freddo. Sei un assassino.» «Avvocato!» gridò. «Avvocato? Avvocato? Mi stanno torturando! Questo poliziotto mi picchia! Avvocato! Avvocato! Voglio il mio avvocato, cazzo!» Gli afferrai il mento con la mano libera e lui mi sputò addosso. Lo ignorai. «Stammi bene a sentire», gli dissi. «Apri le orecchie. Qui dentro non c'è nessun altro dei tuoi compagni. Sono tutti nel posto di polizia in città. Non ti sente nessuno. E comunque non ti sto picchiando. Ma tu mi devi parlare.» Gli tirai ancora i capelli, con forza ma stando attento a non stappargliene una ciocca. Snyder strillò, ma sapevo che non gli avevo fatto molto male. «Hai ucciso tuo padre e tua madre con un martello a granchio. Mi hai morsicato due volte. E puzzi da far schifo. Non mi piaci per niente, ma dobbiamo parlare.» «Ti converrebbe farteli vedere, quei morsi, brutto maiale», mi schernì. «T'ho avvertito.» Continuava a fare il duro, ma, quando accennai a prenderlo un'altra volta
per i capelli, trasalì e indietreggiò. «Come facevi a sapere che stavo arrivando a Charlotte? Come fai a sapere come mi chiamo? Dimmelo.» «Chiedilo alla Tigre, quando la incontri. Vedrai che succederà prima di quanto credi.» 52 Era chiaro che Irwin Snyder non poteva aver commesso gli omicidi precedenti. Era uscito dal North Carolina soltanto una o due volte nella vita, e la maggior parte dei suoi contatti con il mondo esterno avveniva attraverso Internet. E naturalmente era troppo giovane per avere a che fare con assassini commessi undici anni prima. Quel diciassettenne aveva ucciso i suoi genitori, però, e non mostrava il minimo rimorso. Era stata la Tigre a dirgli di farlo. Non ero riuscito a estorcergli altro: si rifiutò di dirmi come era entrato in contatto con la persona o la setta che avevano tanto potere su di lui. Mentre interrogavo Snyder e gli altri ragazzi fermati nel casolare, mi cominciarono a prudere e a fare male la spalla e la mano. I morsi mi avevano lasciato dei buchi dai quali era uscito poco sangue. Quello sulla spalla era il più profondo, benché avessi la giacca, e aveva lasciato un segno molto chiaro, che era stato fotografato alla stazione di polizia. Non ero andato al pronto soccorso perché avevo troppo da fare, ma nel giro di un po' di tempo il dolore divenne insopportabile. A fine mattinata non riuscivo più a chiudere le dita e con ogni probabilità non sarei stato in grado nemmeno di sparare. Adesso sei uno di noi, mi aveva detto Irwin Snyder. Mi chiedevo a quale gruppo, cellula o setta appartenesse. Dov'era la Tigre? Era una persona sola o più di una? Presi parte a una riunione con FBI e polizia di Charlotte che durò fino alle otto di quella sera senza che ci avvicinassimo di un millimetro alla soluzione del mistero. L'FBI stava scandagliando la Rete alla ricerca di messaggi che facessero riferimento alla Tigre, o alle tigri in generale. Tornai a Washington dopo la riunione e in aereo riuscii a dormire un po'. Non abbastanza, però. Non appena entrai in casa, squillò il telefono. Ma chi diavolo... «Sei di nuovo a casa, dottor Cross? Mi fa piacere. Bentornato, allora. Mi sei mancato, sai? Sei stato bene a Charlotte?»
Posai la cornetta e corsi fuori. Non vidi nessuno. In 5th Street era tutto tranquillo, anche se questo non escludeva che il Mastermind si nascondesse vicino a casa mia. Come faceva a sapere che ero tornato? Corsi per la strada e scrutai nel buio. Non vedevo nessuno, anche se forse lui vedeva me. Qualcuno doveva certamente avermi pedinato. Ed era lì fuori, a spiare. «Sono tornato», gridai. «Vienimi a prendere. Chiudiamo la questione adesso, avanti! Su, forza, facciamola finita. Sono qui, bastardo!» Silenzio. Poi sentii dei passi alle mie spalle e mi voltai di scatto. Non era il Mastermind. «Cosa succede, Alex? Quando sei arrivato? Con chi stai parlando?» Era Nana. Mi sembrò piccolissima e molto spaventata. Mi si avvicinò e mi abbracciò. 53 La mattina dopo, quando mi svegliai verso le sei, stavo malissimo. Intorno alle ferite la pelle era calda e arrossata. Mi pulsava tutto. Il morso sulla mano spurgava ed era molto gonfio. Non andava per niente bene. Stavo male ed era l'ultima cosa al mondo di cui avevo bisogno, in quel momento. Presi la macchina e andai al pronto soccorso del St. Anthony's Hospital, dove per prima cosa mi misurarono la febbre: trentanove e mezzo. Il medico che mi visitò era un pakistano molto alto, che si chiamava Prahbu. Sarebbe potuto essere uno dei figli del film East Is East. Disse che probabilmente si trattava di un'infezione da stafilococco, un batterio comunemente trovato nella saliva. «Come si è procurato questi morsi?» mi domandò. Immaginai che la mia risposta non gli sarebbe piaciuta, ma gliela diedi lo stesso. «Durante una colluttazione con un vampiro», gli dissi. «Dico sul serio, detective Cross. Chi l'ha morsicata? Io sono una persona seria e penso di meritare una risposta seria. Ho bisogno di sapere com'è avvenuto l'incidente.» «Ma io non sto scherzando. Faccio parte della squadra che indaga sui delitti dei vampiri. Sono stato morsicato da un tizio con i canini di metallo.» «D'accordo, come vuole.» Mi fecero analisi del sangue, VES e una coltura del pus che usciva dalle ferite. Mi dissero che mi avrebbero comunicato in seguito i risultati, e io
feci presente al dottor Prahbu che avevo bisogno di una copia del referto. L'ospedale non me la voleva rilasciare, ma alla fine riuscii nel mio intento e spedii un fax a Quantico. Mi dimisero prescrivendomi un farmaco che si chiama Keflex e raccomandandomi di tenere sollevato il braccio e disinfettarlo con il Domeboro ogni quattro ore. Quando arrivai a casa, stavo troppo male per fare qualsiasi cosa. Mi coricai e ascoltai Elliot in the Morning alla radio. Nana e i ragazzi mi stavano vicino. Avevo una nausea mortale e non riuscivo né a mangiare né a dormire o a concentrarmi su niente, a parte il doloroso pulsare della spalla e della mano. Per qualche ora delirai. Adesso sei uno di noi. Finalmente mi addormentai, ma mi svegliai verso l'una del mattino. L'ora delle streghe. Mi sentivo ancora peggio. Avevo paura che suonasse il telefono e che fosse il Mastermind. C'era qualcuno con me, nella stanza. Tirai un sospiro di sollievo quando mi accorsi di chi era. Jannie era seduta sulla sedia, al mio capezzale, a vegliarmi. «Anche tu mi sei stato vicino quando ero malata, l'anno scorso. Dormi, papà. Riposati. E non provarti a diventare un vampiro, okay?» Non le risposi. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola. Mi addormentai di nuovo. 54 Nessuno se l'aspettava, ed era per questo che era così bello, così meraviglioso. La fine di Alex Cross. Era ora. Anzi, forse era già tardi. Cross doveva morire. Il Mastermind si era introdotto in casa sua, era un'esperienza emozionante e straordinaria, proprio come immaginava. Non si era mai sentito così potente. Era in piedi nel salotto buio, alle tre del mattino appena passate. Aveva vinto la battaglia. Aveva trionfato. Cross era uscito sconfitto dallo scontro. L'indomani tutta Washington avrebbe pianto la sua dipartita. Poteva fare qualsiasi cosa: da dove cominciare? Aveva voglia di sedersi e pensarci su. Non c'era nessuna fretta. Dove si sarebbe seduto? Be', certo, sullo sgabello del pianoforte nella veranda. Il posto in cui Cross si rilassava, evadeva dalla routine quotidiana, in cui giocava con i suoi figli, stupido sentimentale che non era altro.
Il Mastermind fu tentato di suonare qualche accordo, magari un pezzo di Gershwin, per dimostrare a Cross che era più bravo di lui anche al piano. Aveva voglia di annunciare la propria presenza in maniera teatrale. Era stupendo, fantastico. Avrebbe voluto che quella notte non finisse mai. Ma era davvero la cosa migliore da fare? Dovevano essere ore indimenticabili, da assaporare per sempre. Un ricordo importante per lui, e per lui soltanto. C'erano due triangoli che spiegavano il suo rapporto complesso con Alex Cross e li visualizzò proprio lì, seduto tranquillamente in veranda a godersela come non mai. Cristo, sorrideva come uno scemo. Era felice, davvero felice. Il Mastermind AMORE Il Cattivo (suo fratello)
Il Padre (Alex Cross) Il Mastermind AMORE
Le Donne di Alex (nonna, fidanzate)
Il Fratello (Alex Cross)
Era un modello psicologico veramente riuscito nella sua concisione e chiarezza: spiegava tutto quello che stava per succedere. Persino il dottor Cross l'avrebbe approvato. Era il perfetto triangolo della famiglia disastrata. Avrebbe anche potuto andarlo a spiegare ad Alex in quel momento. Appena prima di ucciderlo. S'infilò guanti e soprascarpe di plastica, controllò che la pistola fosse carica: era tutto a posto. Andò di sopra. Il Visitatore Gentiluomo, il Mastermind, Svengali, Moriarty. Conosceva bene la casa del detective, non aveva bisogno nemmeno di accendere la luce. Non fece nessun rumore. Nessun errore. Nessuna traccia, nessun indizio per la polizia locale o l'FBI. Che morte incredibile per Cross e la sua famiglia. Che colpo. Che idea.
L'ordine in cui ucciderli gli venne mentre saliva le scale. Sì, ne era certo. Il piccolo Alex Jannie Damon Nana e per ultimo Cross. Arrivò in fondo al corridoio e rimase un istante ad ascoltare, prima di aprire la porta della camera da letto. Silenzio perfetto. Spinse piano piano. Cosa c'è? Sorpresa! Oddio! Non gli piacevano le sorprese. Lui voleva ordine, precisione. Voleva avere il controllo assoluto di tutto. La bambina, Jannie, era seduta accanto al letto del padre. Dormivano tutti e due. Gli stava facendo la guardia. Lo proteggeva. Li osservò per un po', novanta secondi circa. La luce accanto al letto era accesa. Cross aveva una spalla e una mano bendate e sudava nel sonno. Era ferito, malato. Non era lui. Non era un valido nemico. Sospirò, deluso. Che tristezza. Che disperazione. No, no, no! Era tutto sbagliato! Non andava bene per niente. Tutto sbagliato! Tutto da rifare! Chiuse piano la porta della camera, quindi scese la scala e uscì. Nessuno si sarebbe accorto che era stato lì. Nemmeno il grande detective. Come al solito, nessuno sapeva niente di lui. Nessuno sospettava nulla. Era il Mastermind, dopo tutto. 55 Quella notte mi svegliai varie volte. A un certo punto mi parve che in casa ci fosse qualcuno. La sensazione era foltissima, ma non ebbi la forza di alzarmi. Al mattino, dopo aver passato quattordici ore a letto, mi sentivo meglio e riuscivo quasi a pensare lucidamente. Ero ancora spossato, però, avevo tutte le giunture dolenti e la vista appannata. Sentii della musica a basso volume in casa. Erykah Badu, una delle mie cantanti preferite. Bussarono alla porta della camera. «Chi è? Entrate pure, sono presentabile.» Era Jannie con la mia colazione su un vassoio di plastica rossa: uova in camicia, porridge, succo d'arancia e una tazza di caffè bollente. Sorrideva,
tutta fiera di sé. Anch'io le sorrisi, pensando: Mia figlia! Era un vero tesoro, quando voleva. «Non so se te la senti già di mangiare, papà. Ti ho portato la colazione, se ne hai voglia.» «Grazie, amore. Sto un po' meglio», risposi, e riuscii a mettermi a sedere sul letto e a sistemarmi un paio di cuscini dietro la schiena con la mano sana. Jannie portò il vassoio vicino al letto, me lo posò con cautela sulle ginocchia e si chinò per baciarmi la guancia ruvida. «Qui c'è qualcuno che ha bisogno di farsi la barba.» «Come sei gentile oggi», le dissi. «Lo sono sempre, papà. Ti fa piacere un po' di compagnia? Ti stiamo a guardare mentre mangi. Stiamo bravi. Non piantiamo grane, okay?» «Proprio quello di cui ho bisogno», dissi. Jannie tornò con il piccolo Alex in braccio e Damon al seguito, che mi salutò con il pollice alzato. Si sedettero sul letto e, come promesso, stettero bravissimi: era la miglior medicina per me. «Mangia, che diventa freddo. Stai diventando troppo magro», mi raccomandò Jannie in tono scherzoso. «Sì, sì. Magro. Scheletrico», convenne Damon. «Squisito», commentai con un sorriso tra un boccone e l'altro di uova e pane tostato, che masticavo con cura sperando di riuscire a digerire. Intanto accarezzavo la testa al piccolo Alex. «Ti hanno avvelenato, papà?» s'informò Jannie. «Che cosa ti è successo esattamente?» Sospirai e scossi la testa. «Non lo so, tesoro. È un'infezione che si può prendere quando ti mordono.» Jannie e Damon fecero una smorfia. «Nana dice che hai la setticemia. È come avere il sangue avvelenato», sentenziò Damon, che evidentemente si era documentato. «Se lo dice Nana... In questo momento non sono proprio in grado di contraddirla», replicai per chiudere l'argomento. E mi chiesi se mai lo sarei stato. Guardai l'ingombrante fasciatura che mi copriva quasi tutta la spalla destra. La pelle intorno alla garza era di un giallo malsano. «Mi è entrato qualcosa di brutto nel sangue, ma ora sto bene. Mi sto riprendendo.» Ma mi tornarono in mente le parole di Irwin Snyder: Adesso sei uno di noi.
56 Quella sera riuscii ad alzarmi e Nana mi ricompensò con pollo in casseruola accompagnato da panini dolci e mele al forno. Mi sforzai di mangiare e, con mia sorpresa, vidi che ce la facevo benissimo. Dopo cena misi a letto il piccolo Alex e verso le otto e mezzo tornai in camera mia. Tutti diedero per scontato che ero stanco e che non mi ero ancora ripreso del tutto. Invece non riuscii a prendere sonno subito. Avevo troppi brutti pensieri per la testa. A torto o a ragione, mi sembrava che ci stessimo avvicinando alla soluzione degli omicidi. Ma forse era soltanto un'illusione. Lavorai per un paio d'ore al computer, concentrandomi senza difficoltà. Ero sicuro che dovesse esserci qualcosa che legava tra loro le città dove erano avvenuti gli omicidi. Sì, ma che cosa? Che cosa continuava a sfuggire a tutti? Cercai tutto e niente: controllai gli itinerari delle compagnie aeree che facevano scalo in quelle città, poi gli orari degli autobus e anche dei treni. Probabilmente era inutile, ma non si sa mai. E comunque non avevo altro da fare. Cercai le grandi aziende che avevano la sede o una filiale in quelle città e vidi che ce n'erano parecchie presenti in tutte, ma non mi pareva di arrivare da nessuna parte. Federai Express, American Express, Gap, Limited, McDonald's, Sears e JC Penney erano praticamente dappertutto. E con questo? Avevo almeno una guida di ognuna delle città in cui erano avvenuti gli omicidi e le studiai fino a mezzanotte passata, senza cavare un ragno dal buco. Il braccio aveva ricominciato a farmi male e mi stava venendo il mal di testa. Il resto della casa era immerso nel silenzio. Decisi di controllare le trasferte delle squadre sportive, gli spostamenti di circhi e luna park, di autori che presentavano libri e di musicisti in concerto. E, a un certo punto, quando stavo per spegnere il computer, scoprii qualcosa nel settore dell'entertainment che mi sembrò interessante. Cercai di mantenere la calma, ma il cuore cominciò a battermi più forte. Lessi le informazioni sulla West Coast e poi sulla East Coast. Tombola. Forse. Avevo trovato l'indizio che cercavo: uno spettacolo che veniva rappresentato durante l'inverno e l'inizio della primavera sulla West Coast e che poi si spostava sulla costa orientale. Fino a quel momento le città toccate dalla troupe e gli omicidi coincidevano. Gesù! Erano in tournée da quindici anni.
Ero quasi certo di aver trovato un nesso con gli autori degli omicidi. Due maghi. Di nome Daniel e Charles. Gli stessi che Andrew Cotton e Dara Grey erano andati a vedere la sera in cui erano stati assassinati a Las Vegas. Sapevo persino dov'era in programma il loro prossimo spettacolo. Probabilmente erano già sul posto. New Orleans. Telefonai a Kyle Craig. 57 Undici anni di omicidi irrisolti portavano a questo. A New Orleans, in Louisiana. A un night-club che si chiamava Howl. A due maghi di nome Daniel e Charles. Non ero ancora in condizioni di viaggiare, così rimasi a Washington. Mi dispiaceva moltissimo non essere a New Orleans, perché ero sicuro di perdere un'occasione straordinaria, ma c'era Kyle e pensai che, se voleva compiere l'arresto di persona, non lo si poteva biasimare. Sarebbe stato un passo decisivo per la sua carriera. Era un caso importantissimo. Quella sera, a New Orleans, tra la folla che assisteva al primo spettacolo di Daniel e Charles erano mescolati cinque o sei agenti dell'FBI. Il locale si trovava vicino al terminal crociere di Julia Street. Di solito vi si esibivano gruppi musicali, e anche quella sera tra le pareti di mattoni riecheggiavano blues e jazz. Alcuni turisti tentarono di portarsi da bere nei bicchieri di plastica da Bourbon Street, con il solo risultato di farsi vietare «a vita» l'accesso al night. Dalle macchine di seconda mano e dalle poche auto sportive ferme nel parcheggio si poteva intuire che il locale era molto frequentato da studenti dei college Tulane e Loyola. Sulla folla chiassosa e irrequieta aleggiava una densa nuvola. Tra gli spettatori, parecchi erano giovanissimi. I proprietari del night-club erano stati denunciati per aver servito alcolici a minorenni, ma evidentemente trovavano più comodo corrompere la polizia di New Orleans che far rispettare la legge nel locale. Tutt'a un tratto, calò il silenzio. Una voce esclamò: «Oh, merda! Guarda là!» Sul palco, coperto da strati e strati di velluto nero, era comparsa una tigre bianca.
Senza guinzaglio, domatore o altro. Il pubblico, prima tanto chiassoso, adesso taceva. Il grosso felino alzò pigramente la testa e ruggì. Una ragazza in canottiera rosa shocking seduta in platea lanciò un grido. La tigre ruggì nuovamente. Dalle quinte uscì una seconda tigre, che andò a fermarsi accanto alla prima, guardò il pubblico e ruggì. La platea era molto vicina al palco e gli spettatori cominciarono ad alzarsi e a fuggire, portando con sé le bottiglie di birra. In quel momento dal fondo della sala, dietro il pubblico, si alzò un inconfondibile ruggito. Tutti rimasero paralizzati: quanti felini a piede libero c'erano nel night? E dove? Che cosa diavolo stava succedendo? Rispetto al palcoscenico illuminato, i lati della sala erano immersi nel buio: scappare da quella parte era un rischio. I riflettori si spostarono da sinistra a destra, quindi da destra a sinistra. Le luci erano forti, quasi accecanti, e diedero l'illusione che il palco si fosse spostato. Dalla folla si levò un brusio spaventato. Le tigri erano sparite! Al centro del palco adesso erano comparsi due maghi vestiti di nero e lamé dorato. Sorridevano; anzi, sembrava quasi che ridessero del pubblico atterrito. Il più alto dei due, Daniel, prese la parola. «Non abbiate paura. Siamo Daniel e Charles, i prestigiatori più bravi del mondo! E ora ve lo dimostreremo. Che la magia abbia inizio!» La folla cominciò ad applaudire, a fischiare e a ululare. Quella sera erano in programma due spettacoli della durata di un'ora e mezzo ciascuno. C'erano agenti dell'FBI infiltrati tra il pubblico. C'era anche Kyle Craig. Altri uomini erano di guardia fuori. Daniel e Charles si concentrarono per una serie di trucchi che definirono «omaggio a Houdini», poi eseguirono anche l'illusione della «vedova allegra» di Carl Hertz. Il pubblico diede segno di apprezzare, e alla fine quasi tutti gli spettatori uscirono dal night impressionati, ripromettendosi di tornare e di raccomandarlo agli amici. A quanto pareva, succedeva ovunque Daniel e Charles si esibissero, da una costa all'altra degli Stati Uniti. A quel punto toccava all'FBI. Dopo il secondo spettacolo, Charles e Daniel furono accompagnati fino a una limousine color argento che li aspettava con il motore acceso in un vicolo dietro il teatro, che la polizia aveva circondato. C'era molto rumore e confusione: Daniel e Charles litigavano.
Quando la limousine uscì dal vicolo, un gruppo di auto dell'FBI la seguì in mezzo al normale traffico del centro di New Orleans a quell'ora di notte e quindi fuori città, verso il lago Pontchartrain. Kyle Craig si tenne in contatto radio per tutto il viaggio. La limousine si fermò davanti a una villa del periodo precedente la guerra civile, dove era in pieno svolgimento una festa privata. Nel grande giardino punteggiato da querce secolari riecheggiava a tutto volume della musica rock. Numerosi invitati si trovavano fuori della villa, nei prati in discesa affacciati sul lago, le cui onde luccicavano nel buio. L'autista scese e aprì una delle portiere posteriori con fare teatrale. Sotto gli occhi increduli di vari agenti dell'FBI, dalla limousine scesero con un balzo due tigri bianche. Daniel e Charles non erano in macchina. I maghi erano scomparsi. 58 Daniel e Charles erano in un piccolo club privato in una casa di Abita Springs, a circa ottanta chilometri da New Orleans, un locale che non veniva mai citato né nelle pagine degli spettacoli del Times-Picayune né in nessuna delle guide periodiche che si trovavano nella hall di quasi tutti gli alberghi della Louisiana. George Hellenga li accolse con grande eccitazione ed entusiasmo. Era un omone con le guance butterate, le sopracciglia nere e folte, gli occhi infossati e resi scurissimi da lenti a contatto che li facevano sembrare completamente neri. Hellenga, che pesava quasi centoquaranta chili, indossava un completo di pelle nera comprato in un negozio Big & Tall di Houston. Fece un inchino ai due maghi e mormorò che era onorato della loro visita. «Lo credo bene», ribatté secco Charles. «Abbiamo lavorato tutto il giorno e siamo stanchi. Sai perché siamo qui. Sbrighiamoci.» Al di fuori dei teatri, spesso era Charles a parlare per tutti e due, soprattutto se si trattava di rivolgersi a patetici tirapiedi e nullità come George Hellenga, il quale si affrettò ad accompagnarli al piano di sotto. I padroni erano loro. Lui era uno schiavo e come lui c'erano legioni di altri che, in moltissime città, aspettavano e speravano di avere occasione di servire il Sire. Scendendo le scale, Daniel sorrise: aveva visto il prigioniero, lo schiavo, e lo trovava di suo gradimento. Gli si avvicinò: era un ragazzo di diciotto o diciannove anni al massimo. Gli disse: «Eccomi qui. Piacere di conoscerti. Sei straordinario». Era alto
quasi uno e novanta, aveva i capelli biondi tagliati molto corti, braccia e gambe agili, e splendide labbra carnose, messe in evidenza da sottili anelli d'argento. «Fa il broncio. È triste. Liberalo, poverino», ordinò Daniel allo schiavo Hellenga. «Come si chiama?» «Edward Haggerty, Sire. Fa il primo anno alla Louisiana State University. E vostro servo», disse George Hellenga, tremando visibilmente. Aveva i polsi incatenati al muro di mattoni. Indossava soltanto un tanga argentato e un braccialetto d'argento alla caviglia. Era una creatura eccezionale, snella, tonica, perfetta da ogni punto di vista. George Hellenga guardò il Sire con aria preoccupata. «Se lo sleghiamo, c'è il rischio che scappi, signore.» Daniel aprì le braccia e strinse a sé il bel giovane come se fosse un bambino piccolo, baciandogli le guance, la fronte e le splendide labbra rosse. «Non scappi, vero?» gli chiese con voce bassa e suadente. «No», rispose il ragazzo, anch'egli sottovoce. «Voi siete il Sire e io non sono nulla.» Daniel sorrise. Era la risposta perfetta. 59 Il telefono squillò molto presto, la mattina dopo. Mi affrettai a rispondere. Era Kyle che, con voce lenta e pacata, mi disse che la notte precedente Daniel e Charles erano svaniti nel nulla. Era arrabbiatissimo con i suoi agenti. Non l'avevo mai sentito così fuori di sé. Per il momento non erano stati denunciati omicidi a New Orleans e dintorni. Verso le sei del mattino, i due illusionisti erano rientrati a casa loro nel Garden District. Dov'erano stati tutta la notte? Che cos'era successo? Qualcosa dovevano aver fatto. Rimasi a Washington anche quel giorno, convalescente dall'infezione. Studiai Daniel e Charles e ne tracciai un profilo provvisorio, da confrontare con quello che stavano preparando i colleghi di Quantico. La prima informazione importante era che i maghi si erano esibiti a Savannah, a Charleston e a Las Vegas. Ero in contatto con due tecnici che erano riusciti non soltanto a trovare una corrispondenza fra le tappe della tournée e circa la metà dei delitti, ma anche ad accertare che Daniel e Charles erano effettivamente presenti nelle varie città all'ora in cui erano avvenuti gli omicidi. Un'altra informazione preziosa era che le tigri viaggiavano al seguito della
troupe soltanto quando si fermava per almeno una settimana nello stesso posto. A New Orleans erano in cartellone per le tre settimane successive e possedevano anche una casa, nel Garden District. Comunicai i dati che avevo raccolto fino a quel momento a Quantico perché venissero aggiunti a quelli di cui l'FBI già disponeva, e mandai tutto quanto via fax a Jamilla Hughes a San Francisco. Stava facendo il possibile per venire anche lei a New Orleans, ma il suo capo non aveva ancora dato l'okay definitivo alla trasferta. Interpellai Kyle al riguardo e lui, dopo aver tergiversato un po', mi promise che avrebbe richiesto ufficialmente la collaborazione dell'ispettore Hughes. In fondo, tutto era nato dal caso che lei aveva segnalato. Cominciavo a stufarmi di stare chiuso in casa: mi sembrava di essere di sorveglianza in un posto - la mia camera da letto - in cui non c'era nulla da sorvegliare. L'unica consolazione era che trascorrevo molto tempo con il piccolo Alex e riuscivo a vedere di più Damon e Jannie, ma mi sentivo frustrato e tagliato fuori dal vivo delle indagini. Quel pomeriggio andai al St. Anthony's per farmi visitare dal dottor Prahbu, il quale con una certa riluttanza mi autorizzò a tornare a lavorare, raccomandandomi però di non strafare, almeno per qualche giorno. «Perché non vuol dirmi come ha fatto a procurarsi quelle morsicature?» mi chiese di nuovo. «Gliel'ho già detto», ribattei. «Sono stati dei vampiri nel North Carolina.» Lo ringraziai e tornai a casa per preparare la valigia. Ero un po' malfermo sulle gambe, ma non vedevo l'ora di essere a New Orleans. Questa volta Nana non protestò neppure, quando le annunciai la mia partenza, ma sapevo che era arrabbiata perché ero stato male. Quel pomeriggio, non appena arrivai al New Orleans International Airport, presi un vecchio taxi giallo e mi feci portare in centro. Alla reception dell'albergo, il Dauphine Orleans Hotel, trovai un messaggio. Aprii la busta con una certa esitazione, ma erano buone notizie: Jamilla Hughes era partita per New Orleans. Il testo era tipico: Arrivo a New Orleans e li sbattiamo dentro. Puoi scommetterci. 60 Jamilla e io ci incontrammo al Dauphine Hotel quella sera stessa. Indos-
sava jeans, una maglietta bianca con le tasche e una giacca di pelle nera. Sembrava riposata e pronta a tutto; anch'io mi sentivo piuttosto in forma. Cenammo insieme - bistecca, uova e birra - nel ristorante dell'albergo. Come al solito, trovai molto piacevole la sua compagnia: riusciva sempre a farmi ridere, e io a far ridere lei. Alle dieci e mezzo prendemmo la macchina e andammo all'Howl. Daniel e Charles avevano in programma due spettacoli: uno alle undici e uno all'una. E poi? Che avessero in serbo un'altra sparizione misteriosa? Eravamo gasatissimi, sicuri di riuscire a sbatterli dentro. Purtroppo, però, ci mancavano ancora le prove del fatto che fossero proprio loro gli assassini. Avevamo a disposizione oltre duecento uomini, tra FBI e polizia di New Orleans. Qualcosa doveva succedere. Era probabile che Daniel e Charles azzannassero di nuovo qualcuno entro breve. Era venerdì sera e, quando arrivammo, il night era quasi pieno. C'erano altoparlanti ovunque, sul soffitto e alle pareti, da cui usciva musica a tutto volume. Il pubblico era indisciplinato, composto prevalentemente da giovani che bevevano birra, fumavano e ballavano avvinghiati. In mezzo agli studenti dal look più normale si notavano vari dark. I due tipi di pubblico si guardavano in cagnesco, e l'atmosfera era tesa. Un fotografo della rivista OffBeat era già in posizione davanti al palco, in attesa dell'inizio dello spettacolo. Jamilla e io ci sedemmo a un tavolino e ordinammo una birra. C'erano almeno dieci o dodici agenti dell'FBI all'interno del locale. Kyle era fuori su un'auto della sorveglianza. La sera prima era entrato anche lui, ma non era un tipo che si confondeva facilmente in una folla di giovani alla moda: si vedeva lontano un miglio che era un poliziotto. Mi bruciava già la gola per il fumo di sigaretta e tutto il profumo che aleggiava nell'aria, ma dopo un sorso di birra mi sentii meglio. Il braccio e la mano mi facevano ancora male, ma avevo la mente lucidissima ed ero decisamente più in forze di prima. Ero contento di trovarmi di nuovo con Jamilla, sempre prodiga di saggi consigli. «Kyle ha messo alle calcagna dei maghi sei squadre di sorveglianza, ventiquattr'ore su ventiquattro», le dissi. «Questa volta non li perderanno di vista, me l'ha giurato.» «All'FBI pensano che siano davvero loro gli assassini?» domandò. «Non hanno nessun dubbio? Dici che possiamo sbatterli dentro e buttare via la chiave?» «Immagino che qualche dubbio ci sia, ma minimo. Non si sa mai che
cosa pensa veramente Kyle. Comunque sì, credo sia convinto che siano loro. Anche i tecnici di Quantico la pensano così, e io pure.» Mi osservò da dietro la bottiglia di birra. «Tu e Kyle siete molto legati, eh?» Annuii. «In questi ultimi anni ci siamo occupati di parecchi casi insieme e abbiamo lavorato bene. Ma non posso dire di conoscerlo veramente.» «Non ho mai avuto una gran fortuna con l'FBI», osservò lei. «Ma è un problema mio, immagino.» «Uno dei miei compiti è tenere i contatti tra il Bureau e il dipartimento di polizia di Washington. Kyle è molto in gamba. È soltanto un po' ermetico, a volte.» Jamilla bevve un sorso. «A differenza di un'altra persona, che adesso è seduta a questo tavolo.» «A differenza di tutt'e due le persone sedute a questo tavolo», la corressi, e scoppiammo a ridere. Jamilla guardò verso il palco. «Che cosa aspettano? Dove sono? Dobbiamo cominciare a battere i piedi per terra perché escano fuori e ci mostrino qualcuno dei loro trucchi? Ce lo fanno vedere di che cosa sono capaci o no?» Non fu necessario battere i piedi: un attimo dopo, uno dei due maghi si presentò sul palcoscenico. Era Charles, e aveva l'aria da assassino. 61 Charles aveva un body nero aderentissimo e stivali di pelle che gli arrivavano alle cosce, un orecchino di brillanti a un lobo e uno dorato nel naso. Osservò il pubblico dall'alto in basso soffermandosi a lungo, con occhi pieni di odio e disprezzo, su ciascuno degli spettatori. Mi parve che guardasse in particolare me e Jamilla, almeno due volte. Anche lei ebbe la stessa impressione. «Sì, anche noi ti teniamo d'occhio, stronzo», disse lei alzando la bottiglia di birra come per brindare. «Secondo te, quei due vermi sanno chi siamo?» mi chiese poi. «Chi lo sa? Sono in gamba. Non si sono ancora fatti beccare.» «Ho capito. Ma spero che gli venga un tumore allo stomaco e facciano una fine lenta e atroce. Alla vostra salute.» Alzò di nuovo la bottiglia. Charles si chinò e si rivolse a una coppia di giovanissimi seduti a un ta-
volo vicino al palco. Aveva il microfono. «Che cos'avete da guardare, storditi? Attenti, se no vi trasformo in due rospi. Così fate un passo avanti nella catena alimentare.» E fece una risata profonda, di gola, che mi parve eccessivamente sgradevole, esagerata. Ma il pubblico rise e applaudì. La buona educazione non esiste più, al giorno d'oggi. Essere maleducati è diventato chic, la sfacciataggine è considerata in. Mi voltai verso Jamilla. «Interessante, questo suo modo cannibalesco di ragionare.» Un paio di minuti dopo si presentò sul palco il secondo mago, senza farsi annunciare da nessun effetto speciale, cosa che mi sorprese. Avevo sentito dire che lo spettacolo contemplava meraviglie sonore e stroboscopiche, ma quella sera no. Come mai avevano cambiato stile? Per noi? Sapevano chi eravamo? «Per i non addetti ai lavori, io sono Daniel. Charles e io facciamo spettacoli di magia dall'età di dodici anni e viviamo in California, a San Diego. Siamo bravi. Possiamo farvi vedere la 'scomparsa del mago', uno dei trucchi preferiti di Houdini, oppure 'l'armadietto delle spade', la 'vedova allegra' di Carl Hertz, la 'sparizione con il drappo di seta' di DeKolta. Io sono invulnerabile, sono in grado di fermare con i denti una pallottola sparata da una Colt Magnum, e Charles anche. Non siamo speciali? Non vorreste essere come noi?» Dalla platea si levarono urla e applausi. La musica era più bassa, si sentiva soltanto il ritmo delle percussioni in sottofondo. «L'illusione che state per vedere è la stessa di cui si serviva Harry Houdini per concludere i suoi spettacoli a Parigi e a New York. Noi la usiamo per cominciare. Che altro vi devo dire?» Le luci si spensero di colpo. Il palcoscenico era assolutamente buio. Alcune donne tra il pubblico lanciarono gridolini di finto terrore, ma perlopiù la gente rideva, anche se un po' nervosamente. Che cosa avevano intenzione di fare quei due? Jamilla mi diede una gomitata. «Non aver paura. Ci sono qua io a difenderti.» «Grazie.» Sul palco comparvero tanti puntini luminosi, quindi si accesero di nuovo i riflettori. Per circa un minuto non successe nulla. Poi entrò in scena Daniel a cavallo di uno stallone bianco impennato, coperto di lustrini blu dalla testa ai piedi, con un cappello a cilindro in tin-
ta, che si tolse per salutare il pubblico entusiasta. «Devo ammettere che fa il suo effetto», disse Jamilla. «Decisamente spettacolare. Che cosa succederà adesso?» Otto uomini e donne in impeccabili uniformi bianche si disposero intorno a Daniel, seguiti da due tigri bianche. L'effetto era straordinario. Due donne aprirono un enorme ventaglio orientale, nascondendo alla vista il mago e il suo destriero. Avevo gli occhi incollati al palcoscenico. «Gesù! Che cos'è?» mormorò Jamilla. «Imitano Harry Houdini, come ha spiegato all'inizio. E ci riescono benissimo.» Quando le due donne richiusero il ventaglio, Daniel era sparito, e Charles era comparso in groppa al cavallo bianco. «Gesù!» esclamò di nuovo Jamilla. «Come hanno fatto?» Con chissà quale trucco da trasformista, Charles era di nuovo vestito di nero e lamé. Il sorriso che aveva stampato sulla faccia era di un'arroganza ai limiti dell'incredibile e rivelava il più totale disprezzo per il pubblico, che pure sembrava al settimo cielo. Uno sbuffo di fumo e tutta la platea rimase nuovamente sbalordita. Daniel era di nuovo sul palco, vicino a Charles e al suo destriero. L'illusione era stata eseguita in modo magistrale. Gli spettatori si alzarono in piedi e applaudirono entusiasti, tra fischi e urla assordanti. «E questo è soltanto l'inizio!» esclamò Daniel. «Il bello deve ancora venire!» Jamilla mi guardò e piegò gli angoli della bocca all'ingiù. «Alex, questi sono davvero in gamba, e te lo dico dopo aver visto Siegfried e Roy. Perché si esibiscono in postacci come questo? Perché sprecano il loro tempo qui?» «Perché gli va bene così», risposi. «Perché è qui che cercano le loro vittime.» 62 Jamilla e io assistemmo a tutti e due gli spettacoli quella sera, e restammo impressionati dalla calma e dalla sicurezza dei due illusionisti. Dopo il secondo spettacolo, Daniel e Charles andarono a casa e, a detta degli agenti di guardia nei dintorni, ci restarono. Non capivo. E Jamilla neanche. Rientrammo al Dauphine verso le tre di notte. Due squadre dell'FBI rimasero a sorvegliare la casa di Daniel e Charles fino al mattino. Comin-
ciavamo a sentirci frustrati e confusi. Stavamo facendo lavorare un sacco di gente. Mi sarebbe piaciuto invitare Jamilla a bere una birra da me, ma non lo feci: era troppo complicato, almeno per il momento. O forse invecchiando stavo diventando più fifone. O più saggio. No, più saggio no. Alle sei ero di nuovo in piedi e prendevo appunti nella mia camera d'albergo. Stavo scoprendo cose che avrei preferito non sapere, e non soltanto sull'illusionismo. Ormai sapevo che, nello strano mondo dei vampiri, la zona circostante la residenza principale di un sire, principe o anziano si chiama dominio. FBI e polizia di New Orleans sorvegliavano la parte del Garden District in cui vivevano Daniel Erickson e Charles Defoe. La loro casa si trovava in LaSalle Street, vicino a 6th Street. Era di pietra grigia e doveva avere almeno una ventina di stanze. Si trovava in cima a una collina e aveva un muro di cinta alto e robusto che ricordava i bastioni di un castello. Era dotata di una grande cantina sotterranea, cosa rara in quella zona piatta e paludosa. Nessuno dei membri della task force era disposto ad ammettere di credere nei vampiri, ma tutti sapevano che era stata commessa una serie di omicidi brutali e che Daniel e Charles ne erano i probabili esecutori. Jamilla e io passammo i due giorni successivi a sorvegliare la casa, il dominio, facendo i doppi turni. Fu una noia mortale. A volte, durante gli appostamenti, mi viene in mente una scena del Braccio violento della legge in cui Gene Hackman è fuori al freddo mentre gli spacciatori francesi sono a cena in un ristorante di New York. È così, proprio così, a volte per sedici o diciotto ore di seguito. Se non altro eravamo in un bel posto: LaSalle Street e il Garden District, dove a metà Ottocento vivevano i baroni dello zucchero e del cotone, erano molto ben conservati. La maggior parte delle case dell'epoca era bianca, ma alcune erano dipinte in delicati colori pastello che ricordavano il Mediterraneo. Ai cancelli di ferro battuto erano appesi cartelli informativi destinati ai numerosi turisti che visitavano la zona a piedi. Ma, anche in compagnia di Jamilla Hughes, era pur sempre un appostamento. 63 Durante le lunghe ore trascorse in LaSalle Street, Jamilla e io scoprimmo che riuscivamo a parlare praticamente di qualsiasi cosa, e fu così che
ingannammo il tempo toccando argomenti che andavano dalle barzellette sui poliziotti agli investimenti finanziari, passando per il cinema, l'architettura gotica, la politica e anche esperienze personali. Jamilla, per esempio, mi raccontò che suo padre se n'era andato di casa quando lei aveva sei anni. Le raccontai a mia volta che i miei genitori erano morti giovani tutti e due per una combinazione letale di alcolismo e tumore ai polmoni, cui probabilmente si erano sommati esaurimento e disperazione. «Ho lavorato due anni come psichiatra. Come libero professionista. All'epoca nella mia zona di Washington erano in pochi a potersi permettere una terapia, e io non potevo certo lavorare gratis. La maggior parte dei bianchi si rifiutava di andare da uno strizzacervelli nero. Così sono entrato nella polizia con l'idea di restarci soltanto per un po'. Non immaginavo che mi piacesse, ma, una volta cominciato a lavorare, non sono più riuscito a smettere. È diventata una vera passione.» «Cos'è stato a farti innamorare del lavoro di detective?» Sapeva ascoltare, era interessata. «Ricordi un episodio o qualcosa di particolare?» «In effetti, sì. Erano stati ammazzati due uomini nel quartiere in cui sono cresciuto e vivo tuttora. Era considerato un delitto maturato nell'ambiente della droga, il che significava che nessuno ci avrebbe sprecato tempo. All'epoca a Washington era normale. Anzi lo è ancora.» Jamilla annuì. «Succede in certe zone di San Francisco, temo. Ci piace pensare che la nostra sia una città illuminata, e in certi casi lo è, ma c'è anche gente molto brava a voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere. È uno schifo.» «Fatto sta che io conoscevo le vittime ed ero quasi certo che non fossero coinvolte nel traffico di stupefacenti. Lavoravano entrambi in un piccolo negozio di musica. Può darsi che fumassero un po' d'erba, ma niente di più.» «Ho presente i tipi.» «Così mi misi a indagare per conto mio, con l'aiuto di un mio amico detective, John Sampson. Seguii il mio istinto e scoprii che uno dei due usciva con una donna che frequentava il boss del quartiere. Continuai a scavare, sempre seguendo l'istinto, e scoprii che era stato il boss ad ammazzare i due uomini. Risolvere quel caso fu per me decisivo: mi accorsi che ero bravo, forse per via della formazione che avevo, e che mi piaceva fare giustizia. O forse semplicemente sentirmi nel giusto.» «Eppure sembri una persona equilibrata. Hai dei figli, una nonna, degli amici...» commentò Jamilla.
Lasciammo cadere il discorso per non giungere all'inevitabile conclusione, ovvero che eravamo tutti e due single. Non c'entrava con il nostro lavoro. Se soltanto fosse stato così semplice... 64 Una certezza rassicurante del lavoro di polizia è che capita molto raramente di indagare su delitti con caratteristiche mai viste o mai sentite. Quella volta, però, gli omicidi erano davvero diversi dal solito: apparentemente casuali, spietati, si succedevano da oltre undici anni con modalità che cambiavano ogni volta. La difficoltà principale era dovuta al fatto che gli assassini potevano essere più di uno. La mattina seguente, Kyle e io ci incontrammo per parlare delle indagini. Lui era di pessimo umore e io non vedevo l'ora di andarmene. Confrontammo le rispettive teorie e lamentazioni, dopodiché raggiunsi Jamilla nel Garden District. Arrivai con una scatola di ciambelle, facendomi prendere in giro sia da lei sia da alcuni dei federali appostati nei pressi, i quali però si servirono volentieri, tanto che nel giro di pochi minuti sparirono tutte. «I due maghi sembrano tipi casalinghi», commentò Jamilla con la bocca piena. «È ancora giorno. Probabilmente sono a riposare nelle loro bare», ribattei. Lei sorrise e scosse la testa, con gli occhi scuri che brillavano divertiti. «Ti sbagli. Il più basso, Charles, è stato tutta la mattina a lavorare in giardino. Non ha paura del sole, credi a me.» «Allora forse il vero vampiro è Daniel. Il Sire, il più potente tra i due.» «Charles ha parlato un sacco al telefono. Sta organizzando una festa in casa. Senti questa: un ballo mascherato. Ognuno si traveste come preferisce: leather, rubber, dark, vittoriano, ognuno secondo i suoi gusti. A te cosa piace?» mi chiese. Risi e ci pensai un attimo. «Più che altro jeans, velluto a coste. Ho un giaccone di pelle. Un po' consumato, ma mi dà l'aria da duro.» Jamilla rise. «Secondo me faresti un figurone, vestito da principe gotico.» «E tu? Hai qualche gusto particolare?» «Be', confesso che possiedo due giacche e un paio di pantaloni di pelle e un paio di stivaloni neri che non ho ancora finito di pagare. Sono di San
Francisco, sai. Una ragazza deve stare al passo con i tempi.» «Vale anche per noi maschietti.» Fu un'altra lunga giornata. Restammo di guardia alla casa fino al tramonto. Verso le nove arrivarono due agenti dell'FBI a darci il cambio. «Andiamo a mettere qualcosa sotto i denti», proposi a Jamilla. «I canini?» ribatté lei, ed entrambi scoppiammo a ridere in maniera un po' forzata. Siccome non volevamo allontanarci troppo dalla casa dei maghi, decidemmo di andare al Camellia Grill in South Carrollton Avenue, vicino al fiume. Da fuori sembrava una piccola casa colonica; dentro era accogliente, con un lungo bancone e gli sgabelli fissati al pavimento. Fummo serviti da un cameriere in giacca bianca e cravatta nera. Ordinammo caffè e omelette, che erano enormi, soffici e leggere. Jamilla prese anche fagioli rossi e riso. Eravamo a New Orleans... Mangiammo bene, il caffè era ottimo e la compagnia molto piacevole. Tra di noi c'era una simpatia reciproca, se non qualcosa di più. Anche le pause nella conversazione erano prive di imbarazzo, oltre che rare. Un mio amico una volta ha detto che l'amore è trovare una persona con cui si riesce a parlare fino a tarda notte. Trovo che sia una buona definizione. «Nessuna chiamata», disse Jamilla controllando il cercapersone mentre finivamo di bere tranquillamente il caffè dopo cena. Avevo sentito dire che a volte c'era la fila davanti al Camellia, ma quella era un'ora morta. «Chissà che cosa combinano quei due in quella casa così grande e sinistra. Secondo te, Alex, che cosa fanno gli assassini psicopatici nel tempo libero?» Ne avevo studiati abbastanza per dire che non c'erano regole fisse. «Certi sono sposati, magari anche felicemente, se chiedi alla moglie. Gary Soneji aveva una figlia, Geoffrey Shafer tre bambini. La cosa più spaventosa è quella: che un marito, un vicino di casa, un padre, tutt'a un tratto si riveli essere uno spietato assassino. Eppure succede. L'ho visto con i miei occhi.» Jamilla bevve un sorso del secondo caffè. «I vicini parlano bene di Daniel e Charles. Li trovano eccentrici ma simpatici e - senti questa - dotati di grande senso civico. La casa è intestata a Daniel, che l'ha ereditata dal padre, il quale era a sua volta un eccentrico. Faceva il pittore. Si mormora che i maghi siano gay, anche se spesso sono stati visti in compagnia di donne giovani e belle.» «I vampiri non fanno discriminazioni tra uomini e donne. Me l'ha spie-
gato Peter Westin», osservai. «Pari opportunità anche tra gli assassini, che possono essere di entrambi i sessi. Eppure c'è qualcosa che non mi quadra, una lacuna logica che non riesco a colmare. Anzi più di una.» «Le tappe delle tournée corrispondono a molte località in cui si sono verificati gli omicidi.» «Lo so. Non voglio negare le prove che abbiamo raccolto finora.» «Però hai una delle tue famose intuizioni...» «Non so se sia una famosa intuizione, ma c'è qualcosa che non mi torna. Questa storia non sta in piedi. Mancano degli elementi. Ed è questo che mi preoccupa. Perché tutt'a un tratto Daniel e Charles sono diventati così poco prudenti? Sono riusciti a passare inosservati per anni e adesso hanno decine di agenti dell'FBI che li sorvegliano giorno e notte!» Finimmo il caffè, ma restammo al tavolo. La sala era piena a metà e si sarebbe affollata soltanto all'orario di chiusura dei bar. Nessuno ci faceva fretta e noi non avevamo nessuna voglia di tornare alla noia dell'appostamento. Jamilla mi interessava per molti motivi, ma il principale era probabilmente che in lei vedevo riflessa gran parte della mia esperienza di vita. Eravamo entrambi dediti al lavoro di polizia, avevamo una vita piena, con amici e parenti, e tuttavia in un certo senso eravamo dei solitari. Perché? «Tutto bene?» mi chiese con aria preoccupata. Di solito riconosco a naso le persone di buon cuore, e lei lo era. Non avevo dubbi. «Avevo la mente altrove», risposi. «Ma ora sono di nuovo qui.» «Dove vai, quando parti per il mondo dei sogni?» «A Firenze», risposi. «Credo che sia la città più bella del mondo. Almeno per me.» «Dunque un momento fa eri in Italia?» «Per la verità stavo pensando alle somiglianze fra la tua vita e la mia.» Jamilla annuì. «Ci ho pensato anch'io. Chissà cosa ne sarà di noi. Dici che siamo condannati a ripetere sempre gli stessi errori, Alex?» «Be', prima di tutto arresteremo due assassini incalliti qui a New Orleans. E non mi sembra poco, no?» Jamilla allungò una mano e mi accarezzò la guancia, dicendo con aria malinconica: «Proprio come pensavo: non c'è speranza». 65 Il Mastermind guardò con il binocolo Alex Cross scendere dalla mac-
china. Cross e la bella Jamilla Hughes si erano presi una pausa per cenare ed erano tornati in servizio. Stavano facendo amicizia? Si sarebbero innamorati a New Orleans? Un innegabile punto debole di Cross era proprio il bisogno di essere amato, no? Ma adesso il detective stava scendendo di nuovo dalla macchina. C'è qualcosa che disturba il grande Cross. Forse gli è venuta voglia di fare due passi dopo mangiato. O magari vuole riflettere ancora un po' sul caso e ha bisogno di solitudine. E un solitario, proprio come me. Era incredibile. Stava andando tutto storto. Seguì Cross in una traversa buia fiancheggiata da modeste case del primo Novecento tipiche di quella parte di New Orleans. Inspirò l'aria che profumava di caprifoglio, gelsomino e gardenie. Cento anni prima, il profumo dei fiori serviva a mascherare il tanfo dei vicini macelli. Il Mastermind conosceva la storia e sapeva un sacco di cose. Seguì Cross tenendosi a distanza di sicurezza e riflettendo. Aveva buona memoria e sapeva usare le proprie informazioni. Udì lo sferragliare del tram di St. Charles Avenue, che correva sui binari pochi isolati più in là e copriva il rumore dei suoi passi. La passeggiata in compagnia di Cross lo divertiva moltissimo. Pensò che quella sarebbe anche potuta essere la notte fatale, e la sola idea gli provocò una scarica di adrenalina. Si avvicinò sempre di più. Sì, stasera. Qui, ora. Quasi si aspettava che Cross si voltasse a guardarlo. Sarebbe stato bello: ironico, perfetto. Una dimostrazione del fatto che Cross aveva un grande intuito ed era un avversario degno di lui. Imboccò una traversa per aggirarlo. Adesso era a pochi metri da lui. Poteva raggiungerlo in un attimo. Cross si fermò davanti al Lafayette Cemetery, soprannominato «la città dei morti». Oltre i cancelli c'erano lussuose cappelle e tombe di famiglia. Anche il Mastermind si fermò, assaporando ogni secondo. Sulla cancellata era affisso un cartello del dipartimento di polizia di New Orleans che diceva: IL CIMITERO È SORVEGLIATO. Il Mastermind nutriva seri dubbi in proposito, ma, in ogni caso, che importanza aveva? Se ne faceva un baffo, lui, dei piedipiatti. Il detective si guardò intorno, ma non vide il Mastermind nell'ombra. Forse era il momento giusto... Anche se avesse opposto resistenza, non gli sarebbe importato: era sicuro di vincere. Osservò Alex Cross e pensò che
stava per esalare l'ultimo respiro. Che idea! Cross voltò le spalle al cimitero e imboccò una strada secondaria, diretto all'auto di pattuglia, da Jamilla Hughes. Il Mastermind fece uno scatto, ma poi tornò indietro: Cross non sarebbe morto quella sera. Nella sua infinita pietà, aveva deciso di risparmiarlo. Motivo: quella strada era troppo buia. Non sarebbe riuscito a guardarlo negli occhi mentre lo uccideva. 66 L'indomani mattina avvenne un fatto sorprendente, che secondo me nessuno di noi si aspettava. Io rimasi scioccato, esterrefatto. Ci trovavamo nell'ufficio dell'FBI a New Orleans, per il briefing mattutino: eravamo una trentina in una grande sala asettica con vista sulle acque fangose del Mississippi. Alle nove Kyle si rivolse alla squadra che era stata di guardia alla casa nelle ventiquattr'ore precedenti, dopodiché cominciò ad assegnare i compiti per quel giorno, specificandone tutti i particolari. Era tipico di Kyle essere chiaro, preciso, efficiente e non commettere mai né errori né sviste. Credeva di aver finito, quando si alzò una mano: «Scusi, signor Craig, non ha nominato me. Che cosa devo fare io oggi?» Era Jamilla Hughes, e dal tono della voce non sembrava affatto contenta. Kyle stava già raccogliendo i suoi appunti e mettendo alcuni fogli in una grossa valigetta nera. Alzò a malapena la testa e rispose: «Lo chieda al dottor Cross. Sta a lui decidere». Era una risposta eccessivamente brusca anche per uno come Kyle. Rimasi sorpreso dal suo modo rude, dalla sua mancanza di tatto. «Mi prende in giro?» esclamò Jamilla alzandosi in piedi. «Trovo la sua risposta inaccettabile, signor Craig. Tanto più detta con quel tono irritante e altezzoso.» Tutti gli agenti federali presenti la guardarono, perché in genere nessuno osava rispondere per le rime a Kyle Craig. Correva voce che fosse destinato alle cariche più alte all'interno del Bureau e molti sostenevano meritasse di far carriera, essendo certamente il più intelligente di tutto l'FBI, oltre che il più impegnato. «Senta, non ho niente contro il detective Cross, ma l'inchiesta è stata aperta anche grazie al mio contributo, dopo gli omicidi avvenuti nella mia giurisdizione», continuò Jamilla. «Non voglio né applausi né pacche sulle
spalle, grazie, ma sono venuta fin qui per dare una mano e quindi voglio partecipare alle indagini ed essere trattata con un minimo di rispetto. Peraltro, non posso fare a meno di notare che c'è una sola altra donna in tutta la task force. Non è il caso che se ne scusi», concluse respingendo con un cenno della mano eventuali giustificazioni di Kyle prima ancora che le avesse espresse. Kyle non perse la calma. «Come i presunti vampiri, ispettore Hughes, io non faccio discriminazioni tra uomini e donne e apprezzo molto il lavoro che ha svolto nelle prime fasi delle indagini. Ma, come le ho detto, per le sue mansioni di oggi si deve rivolgere al dottor Cross. Se non le va, può anche tornarsene a casa. Grazie a tutti», disse facendo il saluto militare alla squadra. «Buona caccia. E speriamo che oggi sia il giorno giusto.» Rimasi molto sorpreso dalla reazione di Kyle, ma anche da come si era infiammata Jamilla. Quando venne verso di me dopo la riunione, mi sentii a disagio. «Mi ha fatto talmente incazzare... Grr...» esclamò scuotendo la testa e facendo una smorfia. «Io avrò un brutto carattere, ma lui ha torto marcio. Quell'uomo ha qualcosa di strano, non mi piace per niente. Perché ce l'ha con me? Gli rode che lavoro con te? Allora, che cosa facciamo oggi, dottor Cross? Io non ho nessuna intenzione di andarmene soltanto perché uno stronzo mi prende a pesci in faccia.» «Si è comportato male, è vero. Mi dispiace. Vediamo che cosa si può fare adesso.» «Non essere accondiscendente», ribatté Jamilla. «Non lo sono affatto. Sei tu che devi scendere dal piedistallo.» La rabbia per il diverbio con Kyle non le era ancora passata. Replicò: «Te lo dico io: a quello non piacciono le donne. È un tipico maschio fanatico delle tre C: competizione, critica e controllo». «Su, dimmi che cosa pensi veramente di Kyle. E degli uomini in generale.» Finalmente Jamilla accennò un sorriso. «Penso, e mi pare che sia un giudizio piuttosto obiettivo e pacato, che il tuo presunto amico abbia un bisogno assurdo di tenere tutto sotto controllo e si comporti come un perfetto cretino. Quanto agli uomini, dipende dai singoli casi.» 67 I veri vampiri erano arrivati e si credevano invulnerabili. William e Mi-
chael capirono che l'incantevole città di New Orleans era nelle loro mani non appena attraversarono il ponte. Erano due giovani principi dai capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, camicia nera, pantaloni neri e stivali di pelle lucidissimi. Se tutto fosse andato come doveva, e non poteva essere altrimenti, la loro missione sarebbe terminata lì. Attraversarono il French Quarter a bordo del furgone della Croce Rossa guidato da William, in cerca di una preda. Percorsero lentamente tutte le vie più famose - Burgundy, Dauphine, Bourbon, Royal, Chartres Street ascoltando musica a tutto volume. Alla fine scesero, si avviarono a piedi lungo Riverwalk ed entrarono nel centro commerciale, che a William diede letteralmente il voltastomaco per la mediocrità, la banalità, la totale stupidità che vi imperavano: Banana Republic, Eddie Bauer, Limited, Sharper Image, Gap. «Che cosa vuoi fare?» chiese al fratello. «Guarda che schifo di negozi! Pensare che è una città così bella...» «Prendiamo qualcuno in questa merda di centro commerciale. Potremmo nutrirci nei camerini di Banana Republic, per esempio. L'idea mi piace.» «No!» esclamò William afferrandolo per un braccio. «Abbiamo lavorato troppo. Secondo me abbiamo bisogno di un diversivo.» Non potevano fare altre vittime, non lì. Non così vicino al dominio di Daniel e Charles. Ci voleva davvero un diversivo. Così William si rimise al volante e uscirono da New Orleans, presero la Interstate 10 ed entrarono nella vera Louisiana. William trovò quello che cercava dopo circa un'ora di viaggio. La parete di roccia era alta soltanto una sessantina di metri, ma era molto ripida e per scalarla ci voleva una grande concentrazione: la minima svista e precipitavi. Ed eri morto. I fratelli decisero di affrontarla slegati, ovvero nella versione più estrema del free climbing, senza né corde né protezioni di alcun tipo. «Siamo due veri sestogradisti!» gridò ridendo Michael quando furono a metà altezza. I sestogradisti erano gli arrampicatori più abili, i migliori, e ai fratelli piaceva considerarsi tali. «Sì!» fece eco William. «Ci sono arrampicatori audaci e arrampicatori rapaci.» «Ma soltanto noi siamo sia l'uno sia l'altro!» replicò Michael con una sonora risata. L'impresa si rivelò più ardua di quanto non sembrasse: la parete richiedeva la padronanza di molte tecniche diverse, dall'arrampicata in camino a
quella in placca, in cui dovevano schiacciarsi contro la roccia e tenersi con le mani ad appigli piccolissimi. «Adesso viene il bello!» urlò Michael con tutto il fiato che aveva. Si era dimenticato le prede e la sete, non pensava ad altro che ad arrampicare e a sopravvivere. Soltanto i più forti ce la fanno. Poco dopo si trovarono di fronte a una scelta irrevocabile: erano arrivati a un punto tale per cui, se fossero andati avanti, non sarebbero più potuti tornare per la stessa via da cui erano saliti. Non restava che arrivare fino in cima. O arrendersi subito. «Che ne dici, fratellino? Decidi tu per tutti e due. Che cosa ti suggerisce l'istinto?» Michael rise così forte che dovette afferrarsi alla parete di roccia con tutte e due le mani per non cadere. Guardò giù e vide che, se fosse precipitato, per lui sarebbe stata morte certa. «Non provarti nemmeno a pensare di tornare indietro. Non cadremo, fratello. Mai. Non moriremo mai!» Arrivarono in cima alla parete, da dove si vedeva tutta New Orleans. Ormai era la loro città. «Siamo immortali! Non moriremo mai!» gridarono al vento. 68 Guardai le grandi querce dalla folta chioma, poi le magnolie e i banani dalle foglie a ventaglio del Garden District. Non avevo altro da fare. L'appostamento continuava. Jamilla stava cominciando a diventare ripetitiva, e io anche, malgrado ci scherzassimo sopra. Il sedile posteriore dell'auto era pieno di giornali. Avevamo letto il Times-Picayune da cima a fondo. «Non abbiamo nessuna prova concreta che leghi Daniel o Charles a nessuno dei delitti commessi finora. Da nessuna parte. Tutto quello che abbiamo sono prove indiziarie o speculazioni, ipotesi merdose e basta. Ti pare, Alex? Secondo me è così.» Probabilmente parlava tanto per parlare, ma non aveva tutti i torti. «I conti non tornano. Quei due non possono essere così bravi. È impossibile che non sbaglino mai.» Eravamo a quattro isolati di distanza dalla casa di LaSalle Street, dal dominio. L'avremmo potuta raggiungere nel giro di pochi secondi, nel caso fosse successo qualcosa. Ma per il momento non era successo assolutamente nulla. Il problema era quello. Daniel e Charles uscivano raramente dalla loro bella villa ottocentesca, e soltanto per andare a fare shopping o a mangiare in qualche ristorante di lusso del centro. Come prevedibile, ave-
vano buon gusto. Cercai di rispondere alla domanda di Jamilla. «Hai ragione a dire che non siamo in grado di dimostrare alcun legame tra loro e i primi omicidi, ma lo sai anche tu che dopo un po' di tempo diventa quasi impossibile trovare testimoni o prove inequivocabili. Quello che non capisco è perché non abbiamo trovato niente neanche nei casi più recenti.» «Lo stavo pensando anch'io. Abbiamo dei testimoni a Las Vegas e a Charleston, ma nessuno che abbia riconosciuto le foto di Daniel e Charles. Perché? Che cosa ci sfugge?» «Forse non sono loro gli esecutori materiali degli omicidi. Forse prima uccidevano di persona, ma ora non più.» «Ma non bevono il sangue delle vittime? Perché le uccidono, altrimenti? Sono sacrifici simbolici? Fanno parte di qualche mito antico o inventato di sana pianta? Gesù, Alex, che cosa stanno facendo questi due mostri?» Non sapevo come rispondere né alle sue né alle mie domande. E purtroppo nessun altro aveva risposte. Così continuammo a stare seduti in macchina nell'afa ad aspettare che Daniel e Charles facessero la loro mossa successiva. Se erano così prudenti e così in gamba, perché li avevamo individuati? Perché eravamo lì? 69 William lo trovava ridicolo. Mio Dio, che spasso! Impagabile. Osservava i poliziotti che, a turno, sorvegliavano la casa degli orrori di proprietà di Daniel e Charles. Troppo divertente. Il giovane principe passò in LaSalle Street fumando una sigaretta, altero e sicuro di sé, senza paura, convinto di essere superiore a chiunque da qualsiasi punto di vista. Michael stava riposando e lui aveva deciso di andare a fare due passi. Che bellezza! Magari avrebbe incontrato qualcuno dei personaggi famosi che vivevano nel Garden District, tipo il favoloso Trent Reznor dei Nine Inch Nails, o uno dei coglioni della casa del Grande Fratello. C'erano due anonime Lincoln parcheggiate lungo il marciapiede. Si chiese se Daniel e Charles le avessero notate e sorrise, scuotendo la testa. Chissà cosa diavolo credevano di fare quei due. Senza dubbio erano prudenti, perché uccidevano da anni e anni. E con questo? Prima o poi qualcosa doveva succedere. Proseguì fino all'angolo e svoltò in direzione sud. Quasi tutte le case a-
vevano una veranda protetta da rampicanti. A un certo punto vide un bell'esemplare di maschio, un ventenne a torso nudo, con i pettorali che luccicavano di sudore, e si tirò su di morale. Stava lavando una BMW decappottabile color argento come quella di James Bond. La vista di quel fisico perfetto, il getto d'acqua e l'auto dalla carrozzeria lucente lo eccitarono all'istante. Ma si controllò e proseguì per la sua strada. Poi, poco più in là, scorse una ragazza. Avrà avuto quattordici anni ed era seduta davanti a una casa ad accarezzare un gatto persiano. Era molto carina, sensuale. I lunghi capelli castani le scendevano sulle spalle, arrivando a sfiorarle il seno. Portava una canottiera che le lasciava scoperta la pancia e, sopra, un top impalpabile stampato a pelle di serpente; jeans blu scuro molto aderenti, con la vita bassa, svasati al punto giusto. Vari orecchini d'oro e d'argento, anelli alle dita dei piedi, braccialetti multicolori. Una tipica teenager, ma di una bellezza eccezionale, sfacciata. Proprio come lui. William si fermò e con un sorriso accattivante disse: «Bel gatto!» La ragazza alzò gli occhi, dello stesso verde intenso di quelli del persiano, e lo squadrò da capo a piedi. William capì di aver fatto colpo. Gli succedeva sempre, sia con gli uomini sia con le donne. «Perché tirarsi indietro?» le chiese, continuando a sorridere. «Se vuoi una cosa, prendila. Sempre. Ti offro questa perla di saggezza. Una piccola lezione omaggio.» «Ah, perché tu sei un maestro?» ribatté lei restando dov'era. «Non lo sembri per niente.» «Sono un maestro, ma anche un discepolo.» La desiderava: non soltanto aveva un corpo stupendo, ma anche l'istinto giusto. Era sexy e smaliziata. A differenza di molti giovani, che sprecano il talento e le potenzialità che hanno, sapeva usare le proprie doti. Non disse altro, non sorrise, ma non distolse neppure lo sguardo. A William quella sicurezza di sé piacque, come pure il modo in cui gli occhi verdi cercavano di prendersi gioco di lui senza riuscirci del tutto. Gli piaceva anche che stesse con il petto in fuori, quasi fosse la sua unica arma contro di lui. Ebbe voglia di avvicinarsi e prenderla lì, subito, morderla, bere il suo sangue e vederlo zampillare sulle assi imbiancate a calce della veranda. No. Non adesso, non ancora, non qui. Mio Dio, quanto si detestava, quanto detestava non essere se stesso. Voleva esercitare il suo potere,
sfruttare i propri doni. Alla fine si incamminò. Ci volle tutta la sua forza di volontà, tutto il suo coraggio, per lasciare lì quella meravigliosa creatura seduta in maniera così invitante. Proprio in quel momento la ragazza si decise a parlare. «Perché ti tiri indietro?» gli gridò, ridendo senza pietà. William sorrise, quindi si voltò e tornò verso di lei. «Sei fortunata», disse. «Sei stata scelta.» 70 Prima o poi qualcosa doveva succedere. Alle sette del mattino ero seduto da solo a un tavolino davanti al Café Du Monde, di fronte a Jackson Square, e facevo colazione con frittelle spolverate di zucchero e caffè di cicoria osservando le guglie della St. Louis Cathedral. In lontananza si udivano le sirene dei battelli che scendevano sul Mississippi. Sarebbe stato bello, se non fossi stato troppo frustrato e pieno di rabbia per godermelo. Avevo addosso una tensione terribile, che non sapevo come scaricare. Avevo affrontato un sacco di indagini difficili in vita mia, ma quello sembrava il caso più intricato di tutti. Quei macabri omicidi si susseguivano da oltre undici anni, ma ancora non era chiaro né quale disegno nascondessero né quale fosse il movente. Non appena arrivato negli uffici dell'FBI ricevetti l'inquietante notizia della scomparsa di una quindicenne che abitava a poca distanza dalla casa dei due maghi. Poteva essere semplicemente scappata di casa, ma a me sembrava poco probabile. L'allontanamento risaliva a meno di ventiquattr'ore prima. Era stata indetta una riunione. Andai al piano di sopra per saperne di più e anche per chiedere come mai non ero stato avvertito prima. Quando entrai nella sala, percepii la frustrazione di tutti i presenti. Era difficile immaginare una situazione più spinosa: credevamo di aver individuato gli assassini, ma non potevamo arrestarli, e adesso sembrava che avessero colpito di nuovo sotto il nostro naso. Mi sedetti vicino a Jamilla. Tutti e due avevamo una tazza di caffè bollente in mano e l'edizione del mattino del Times-Picayune, che non accennava alla ragazza scomparsa. Evidentemente la polizia di New Orleans non si era mossa fino a quella mattina.
Non avevo mai visto Kyle così arrabbiato. Era letteralmente furioso e camminava avanti e indietro passandosi nervoso la mano destra fra i capelli. Non potevo biasimarlo. La collaborazione tra la polizia locale e l'FBI era indispensabile per il buon esito delle indagini, ma il dipartimento di New Orleans era venuto meno ai patti, incrinando i rapporti di reciproca fiducia. «Per una volta, sono d'accordo con Craig», disse Jamilla. «I colleghi di qui hanno veramente esagerato.» «Potevamo cominciare le ricerche ore fa», convenni. «È un pasticcio, e non può che peggiorare.» «Se stasera riuscissimo a intrufolarci nella casa durante la festa, potrebbe essere la nostra grande occasione. Che ne dici? Io ci proverei», mi bisbigliò Jamilla. «Gli invitati saranno tutti in maschera, no? Almeno, io ho capito così. Qualcuno di noi deve provare a entrare in quella casa. Bisogna fare qualcosa.» Kyle ci lanciò un'occhiataccia e disse: «È possibile avere un po' di silenzio quando gli altri parlano?» «Quando lui parla», mi sussurrò Jamilla. Mi chiesi come mai avesse preso tanto in antipatia Kyle, benché fosse innegabile che lui si comportava in modo strano. La tensione delle indagini lo stava logorando, c'era qualcosa che lo teneva sulle spine. «Digli quello che pensi», le consigliai. «Ti darà ascolto. Soprattutto adesso che è scomparsa quella ragazza.» «Ne dubito, ma che cosa può farmi? Licenziarmi?» Si voltò sulla sedia e guardò Kyle. «Secondo me dovremmo cercare di intrufolarci nella casa durante la festa di stasera. Anche se non ce la facessimo, che cosa abbiamo da perdere? La ragazza potrebbe essere là dentro.» Dopo un attimo di esitazione, Kyle disse: «Okay. Andiamo a vedere che cosa c'è in quella casa». 71 Soltanto a New Orleans poteva succedere una cosa simile. Passai parte del pomeriggio a procurarmi due inviti per la festa, poi Jamilla e io preparammo il travestimento. Il ballo cominciava a mezzanotte, ma avevamo sentito dire che la maggior parte della gente sarebbe arrivata verso le due. Quando intorno alla villa cominciò a esserci un certo movimento, per noi la serata era già stata lunga. Aspettammo fino alle due passate per av-
vicinarci alla casa. Parte degli invitati erano studenti universitari, altri anche più giovani, ma la metà era sulla trentina e oltre. Qualcuno arrivò a bordo di limousine o altre auto di lusso. Le mise erano decisamente eccentriche: giacche a coda di rondine e cappelli a cilindro che erano autentici pezzi d'antiquariato, abiti da sera vittoriani in velluto, corsetti, bastoni e tiare. I gotici fasciavano i loro corpi androgini in velluto e pelle nera, con pizzi bianchi e neri per qualcuna delle signore, piercing e orecchini ovunque, anelli all'ombelico, collari con le borchie, rossetto nero e grande abbondanza di mascara sia per gli uomini sia per le donne. Occhi rossi ci fissavano dappertutto. Era difficile distogliere lo sguardo. Da altoparlanti nascosti fuori della casa uscivano le note di una canzone intitolata Pistol Grip Pump. Canini affilati e sangue finto dappertutto. Alcune donne avevano fasce di velluto viola o nero intorno al collo, presumibilmente per nascondere il segno dei morsi ricevuti. In casa la scena divenne ancora più interessante e sinistra. Gli ospiti si chiamavano usando titoli altisonanti: Sir Nicholas, Lady Anne, baronessa, principe William, maestro Ormson. Una donna dal fisico statuario squadrò Jamilla con aria strafottente: era coperta di fondotinta color bronzo e portava soltanto un perizoma color bronzo. L'odore ferroso del sangue si mescolava a quello del fumo, del cuoio e a quello acre dell'olio delle torce accese qua e là lungo le pareti. Jamilla aveva un look da dura pienamente in carattere: si era messa un vestito nero aderente, stivali e calze nere che le davano un'aria quanto mai sexy. Si era comprata un rossetto nero e delle polsiere in cuoio, e mi aveva aiutato a scegliere il mio costume: una giacca a coda di rondine che sfiorava il pavimento, cravatta molto larga, pantaloni e stivali neri fino al ginocchio. Nessuno fece particolarmente caso a noi e, dopo aver perlustrato il piano terra, scendemmo insieme con la folla nel seminterrato. Sui muri di pietra c'erano torce accese dappertutto, il pavimento era di pietra e terra battuta e l'aria era fredda, umida e odorava di muffa. «Gesù, Alex!» mi bisbigliò all'orecchio Jamilla. Mi prese per un braccio e mi tenne stretto. «Se me lo raccontassero, non ci crederei.» Anch'io stentavo a credere ai miei occhi. Molti dei presenti avevano lunghi canini terrificanti. Le uniche fonti di luce erano torce accese e finti candelabri. Alle pareti erano inchiodati teschi umani sicuramente autentici. Cominciai a guardarmi intorno in cerca di una via d'uscita, in caso di
emergenza, e vidi che non sarebbe stato facile squagliarsela in fretta: il sotterraneo era sempre più affollato e cominciava a darmi un senso di claustrofobia. Mi chiesi se stava per morire qualcuno e, se mai, chi. In quel momento una voce annunciò: «Il Sire è qui. Inchinatevi». 72 Nella cavernosa sala sotterranea scese un silenzio carico di tensione. Ebbi la sgradevole sensazione di essere in procinto di assistere a qualcosa che non avrei dovuto vedere. Un attimo dopo, Daniel Erickson e Charles Defoe fecero la loro entrée. Nella loro eccentricità bohémien, i due illusionisti davano un'impressione di estrema regalità. L'assemblea dei fedeli chinò disciplinatamente la testa. Charles era a torso nudo, con pantaloni aderentissimi e stivali di cuoio che mettevano in evidenza il suo fisico possente e molto sensuale. Daniel portava una redingote nera aderente, con pantaloni neri e fazzoletto di seta al collo. Era muscoloso, ma aveva la vita sottile. Davanti a loro, trattenuta da una pesante catena, c'era una tigre bianca del Bengala. Jamilla e io ci scambiammo un'occhiata. «Sempre più interessante», mormorò lei. Daniel si fermò a parlare con alcuni dei ragazzi presenti. Mi ricordai che le vittime dei primi omicidi erano tutte di sesso maschile. La tigre era a meno di tre metri da me. Che ruolo aveva in tutto ciò? Era soltanto un simbolo? E di cosa? Charles raggiunse Daniel vicino al muro in fondo e gli bisbigliò qualcosa, poi risero e si guardarono intorno. Daniel prese la parola, con voce forte e chiara e l'aria di chi si aspetta di essere ascoltato, sicuro di sé e della propria presenza carismatica. «Io sono il Sire. Che assemblea viva e vibrante!» esclamò. «Sento l'energia che circola nella sala. Mi eccita. La forza raccolta qui stasera non conosce limiti. Abbiate fiducia in essa. Abbiate fiducia in voi stessi. Questa è una notte speciale. Venite con me nella stanza accanto. Passate di livello, se avete fede. O, meglio ancora, se non ne avete.» 73 Non avevo mai visto nulla di simile. In silenzio, con gli occhi sgranati, Jamilla e io entrammo in una sala ancora più ampia, illuminata da candela-
bri, perlopiù elettrici. Molti dei presenti ostentavano candidi denti aguzzi. La tigre bianca aveva cominciato a ruggire. Non potei fare a meno di pensare ai corpi straziati dai morsi. Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato. Che cosa stava succedendo in quella cripta sinistra? Qual era il vero scopo di quella riunione notturna? Chi erano gli esseri demoniaci accorsi là sotto a centinaia? Daniel e Charles erano accanto a due giovani alti e belli che indossavano una lunga veste di raso nero. Avranno avuto vent'anni, se non meno. Due giovani dèi. Tutti si fecero avanti per vedere meglio. «Sono qui per ungere due nuovi principi vampiri», annunciò Daniel con grande solennità. Il tono era lo stesso che usava sul palcoscenico. «Inchinatevi!» Una donna nelle prime file gridò: «I nostri principi! Principi delle tenebre! Vi adoro!» «Silenzio!» intimò Charles. «Portate via quell'idiota. Cacciatela.» Le luci tremolarono e poi si spensero completamente. Le fiamme delle poche torce vere furono soffocate. Presi per mano Jamilla e insieme ci spostammo verso il muro più vicino. Non vedevo nulla. Mi sentii gelare. «Che cosa diavolo sta succedendo, Alex?» «Non lo so. Stiamo vicini.» Al buio la situazione degenerò rapidamente. Udimmo delle grida, lo schiocco di una frusta non lontano da noi, poi fu la follia. Il caos. Il terrore. Jamilla e io sfoderammo la pistola, ma era così buio che non potevamo fare nulla. Passarono un minuto o due, che, al buio pesto, sembrarono eterni. Insopportabilmente lunghi. Avevo paura di essere accoltellato, oppure azzannato. In lontananza si sentì entrare in funzione un generatore. Le luci tremolarono e finalmente si riaccesero. Poi si spensero di nuovo. E si riaccesero definitivamente. Abbagliato, vidi aloni di luce colorata e poi... I maghi erano scomparsi. Qualcuno gridò: «C'è stato un omicidio! Oh, mio Dio, sono morti tutti e due!» 74
Mi feci largo tra la folla, che, in preda allo shock, non oppose resistenza. E vidi i cadaveri. I due ragazzi con la veste nera erano stesi a terra in una pozza di sangue. Erano stati pugnalati e sgozzati. Ma dov'erano Daniel e Charles? «Polizia!» gridai. «Non toccateli. State indietro!» Le persone più vicine ai cadaveri arretrarono. Mi chiesi se volessero bere il sangue versato. Non era quello il rituale? Non era questo che era successo alle vittime precedenti? «Sono soltanto due! Due sbirri!» urlò qualcuno. «Attenzione o sparo!» gridò Jamilla con voce forte e chiara. «State indietro, ho detto. Dove sono Daniel e Charles?» gridai. Siccome la folla avanzava minacciosa, sparai un colpo in aria che riecheggiò nel sotterraneo aumentando la confusione. La gente cominciò a precipitarsi verso le scale. Ma nessuno sarebbe riuscito a sfuggirci: fuori ad aspettarli c'erano gli agenti dell'FBI. Jamilla e io riuscimmo a introdurci in un corridoio sotterraneo, molto stretto e illuminato solo da candele. Probabilmente era da lì che, quando si erano spente le luci, erano arrivati Daniel e Charles. Soltanto loro potevano sapare di quel passaggio segreto. C'erano tante piccole stanze l'una vicino all'altra che si affacciavano sul corridoio polveroso, disposte in un modo da ricordare le antiche catacombe. Il senso di soffocamento era lo stesso: l'aria umida sapeva di muffa, l'atmosfera era deprimente e dava i brividi. «Tutto okay?» chiesi, voltandomi a guardare Jamilla. «Per ora sì. Anche se comincio a non poterne più di questo posto», rispose in tono scherzoso. Ma si guardava intorno con aria preoccupata. Sentii Kyle che ci chiamava. I federali dovevano essere entrati. «Cosa c'è laggiù, Alex? Vedi niente?» «Per il momento, no. Daniel e Charles sono spariti quando si sono spente le luci. Non c'è traccia di loro.» Avanzavamo con cautela, controllando tutte le stanze. La maggior parte era adibita a magazzino, ma alcune erano completamente vuote, umide e sinistre come loculi. Probabilmente era tutta scena, ma facevano paura per davvero. Aprii con un calcio l'ennesima porta e mi affacciai a guardare insieme con Jamilla, che spalancò la bocca senza riuscire a urlare. «Oh, Gesù, Alex! Che cosa diavolo è successo?»
Allungai una mano e mi tenni al suo braccio. Non riuscivo a credere ai miei occhi, non volevo crederci. Sentii che mi cedevano le ginocchia. A terra c'erano Daniel e Charles, morti ammazzati. Ero senza parole. Anche Kyle, entrato in quel momento, taceva inorridito. Ci avvicinammo, pur sapendo che non c'era più niente da fare per i due poveretti, che erano stati sgozzati e azzannati selvaggiamente. Ma chi era adesso il Sire? PARTE QUARTA CACCIA ALL'UOMO 75 Nel tardo pomeriggio del giorno seguente, Jamilla doveva tornare a San Francisco. Praticamente ammise che non riusciva a raccapezzarsi e che non ne poteva più di quel caso. La accompagnai all'aeroporto e, benché ci rendessimo conto che stava diventando un'ossessione, parlammo delle indagini per tutto il tragitto. Gli avvenimenti della notte precedente avevano cambiato tutto. Avevamo individuato i presunti assassini, ma questi erano stati assassinati a loro volta: la vicenda si era ulteriormente intricata. A quel punto poteva succedere qualsiasi cosa. Se non erano necessariamente intelligenti, non si poteva dire che i colpevoli non fossero fantasiosi. «E adesso che cosa farai, Alex?» mi chiese Jamilla mentre entravamo nel parcheggio dell'aeroporto. Risi. «Già. Che cosa faccio?» «Dai, hai capito benissimo.» «Penso che resterò qui ancora un giorno o due per vedere se posso dare una mano. Tutti quelli che si trovavano nella casa e che non sono riusciti a scappare sono in stato di fermo e vanno interrogati. Un lavoraccio. Qualcuno deve pur sapere qualcosa.» «Ammesso che si riesca a farli parlare. Credi che la polizia di New Orleans adesso collaborerà? Perché finora se n'è ben guardata.» Sorrisi. «Lo sai anche tu che gli agenti della polizia metropolitana a volte sono testardi, ma otterremo quello che ci serve. Al massimo ci vorrà un po' più di tempo. Credo che sia anche per questo che Kyle mi ha chiesto di restare.» Nel sentir nominare Kyle, Jamilla si rabbuiò. Ma forse le dispiaceva par-
tire. «Devo tornare a casa, però non ho intenzione di arrendermi. Il mio amico Tim dell'Examiner sta scrivendo un altro articolo sugli omicidi in California. In fondo è partito tutto da là. Pensaci.» «Undici anni fa, se non di più», dissi. «Ma chi erano i primi assassini? Daniel Erickson e Charles Defoe? Qualche altro membro della setta? Esiste una setta?» Jamilla allargò le braccia. «A questo punto non ne ho la più pallida idea. Ho l'elettroencefalogramma piatto. Adesso salgo in aereo e dormo finché non atterriamo.» Facemmo ancora qualche commento sulla stranezza di quella vicenda, poi le chiesi di Tim. «È soltanto un amico», rispose. Ci stringemmo la mano sul marciapiede davanti alle partenze dell'American Airlines. Jamilla si avvicinò e mi diede un bacio su una guancia. Le misi una mano dietro la nuca e la abbracciai per pochi secondi. Ci conoscevamo da poco, ma ne avevamo passate di tutti i colori insieme. Avevamo persino rischiato la vita. «Alex, è stato un onore conoscerti», disse staccandosi da me. «Grazie delle ciambelle e di tutto.» «Fatti viva», replicai. «Promesso?» «Promesso. Ti chiamerò. Contaci.» Poi l'ispettore Jamilla Hughes si voltò ed entrò nel terminal affollato del New Orleans International Airport. Sapevo che mi sarebbe mancata. La consideravo già un'amica. La guardai allontanarsi, poi tornai negli uffici dell'FBI di New Orleans e mi rituffai nel lavoro, rivedendo con Kyle tutto quello che avevamo fatto sino ad allora, e poi ripassandolo di nuovo per essere proprio sicuri che fosse davvero il casino che sembrava. Insieme giungemmo alla conclusione che non avevamo neppure una teoria plausibile sulla fine di Daniel e Charles. Brancolavamo nel buio. Nessuno dei presenti alla serata parlava. Forse nessuno aveva visto niente. «Chiunque sia stato a ucciderli, sta cercando di dimostrarci la sua superiorità. Nei confronti dei due maghi e nei nostri. Dal punto di vista fisico e mentale. E anche della spietatezza», dissi. Ma non ne ero del tutto convinto, stavo semplicemente riflettendo ad alta voce. «Secondo me, non è un caso che la faccenda sembri un po' un gioco di prestigio», mi fece notare Kyle. «Non pare anche a te, Alex, che ci possa essere un nesso con la magia?» «Sì, ma non si è trattato di un trucco. Daniel e Charles sono morti, e non
soltanto loro. In tutti questi anni ci sono state un sacco di vittime.» «Siamo a un'impasse. È questo che stai dicendo?» «Sì. E non mi piace per niente», risposi. 76 Quella sera lavorai fino a tardi nell'ufficio dell'FBI. Tanto per cambiare. Verso le nove cominciai a sentirmi solo, teso, agitato. Telefonai a casa, ma non c'era nessuno. Mi preoccupai un po', finché non mi ricordai che era il compleanno di mia zia Tia e che Nana aveva organizzato una festa nella sua nuova casa di Chapel Gate, a nord di Baltimora. Mi ero dimenticato di comprare un regalo per Tia. Maledetti compleanni. Anzi, maledetto me. Benché mi fossi trasferito a Washington da bambino, mia zia non aveva mai dimenticato il mio compleanno. Mai. Per l'ultimo mi aveva regalato l'orologio che avevo indosso in quel momento. Telefonai nel Maryland e parlai con quasi tutta la famiglia. Mi dissero che mi stavo perdendo un'ottima torta alla cannella con le noci e mi chiesero dov'ero e quando tornavo. Non ero in grado di dare una risposta soddisfacente. «Non appena posso. Mi mancate tutti. Non sapete quanto mi dispiace non essere lì con voi.» Decisi che prima di rientrare al Dauphine dovevo passare a casa dei maghi. Dovevo? Sì, era un mio bisogno. Dovevo farlo. Perché sono un tipo eccessivamente scrupoloso. C'erano due poliziotti di guardia alla porta, con l'aria annoiata e inutile: di sicuro loro non erano eccessivamente scrupolosi. Mostrai il tesserino e mi lasciarono entrare. «Nessun problema, detective Cross.» Non avrei saputo spiegare perché, ma avevo la sensazione che ci fosse sfuggito qualcosa in quella casa. La Scientifica ci aveva lavorato per ore, e io pure, senza trovare nulla di concreto. Però non mi piaceva essere di nuovo lì, nel dominio. Attraversai l'atrio e il soggiorno dall'arredamento barocco, ascoltando il rumore dei miei passi che riecheggiava nelle stanze vuote e continuando a chiedermi: Che cosa ci è sfuggito? Che cosa mi è sfuggito? La camera da letto principale era al piano di sopra. Non era cambiato nulla dall'ultima volta. Cosa diavolo ci ero tornato a fare? La grande stanza era piena di quadri moderni, alcuni appesi, altri semplicemente appoggiati alle pareti. I due illusionisti dormivano in un letto, non nelle bare che ave-
vamo trovato nei sotterranei della villa. Mentre frugavo ancora una volta nell'armadio, mi imbattei in qualcosa che prima non avevo visto. Ero certo che non ci fossero, quando avevo perquisito la stanza l'ultima volta: tra le scarpe c'erano due bamboline in miniatura fatte a immagine e somiglianza di Daniel e Charles. Erano piene di tagli sulla gola, sul petto e sul viso. Uguali a quelli che avevamo trovato sui due maghi uccisi. Da dove erano spuntati quei due macabri pupazzi? Che cosa volevano dire? Che cosa stava succedendo a New Orleans? Chi si era introdotto nella casa dopo che avevamo messo i sigilli? Fui tentato di chiamare Kyle, ma lasciai perdere, non so nemmeno io perché. Avrei preferito non tornare nelle gallerie sotterranee da solo, e tantomeno di notte, ma già che ero lì mi parve meglio dare un'altra occhiata. In fondo c'erano due poliziotti di guardia alla porta, no? Che cosa ci era sfuggito? Un eccidio di inaudita violenza che andava avanti da almeno undici anni. I due principali sospetti erano stati ammazzati. E qualcuno aveva messo nella loro camera due bambole a loro immagine e somiglianza. Scesi nel seminterrato e da lì nelle gallerie che si diramavano in varie direzioni sotto la casa. New Orleans si trova circa due metri e mezzo sotto il livello del mare e probabilmente la cantina e le gallerie erano sempre umide. Le pareti trasudavano. Sentii raspare e mi fermai. C'era qualcosa o qualcuno nel sotterraneo. Estrassi la mia Glock dalla fondina da spalla e tesi le orecchie. Niente. Poi lo sentii di nuovo. Topi, pensai. Probabilmente non è nulla di strano. Anzi, quasi sicuramente. Però dovevo controllare. Il mio problema era quello, no? Dovevo andare a vedere, dovevo indagare, non potevo girarmi e andarmene. Che cosa stavo cercando di dimostrare a me stesso? Che non avevo paura di niente? Che non ero come mio padre, il quale aveva abbandonato tutto e tutti nella vita, compresi i suoi figli e se stesso? Continuai ad avanzare lentamente, senza far rumore, tendendo le orecchie. Udii un gocciolio proveniente dalle gallerie buie. Con il mio vecchio Zippo accesi alcune delle torce appese alle pareti del
tunnel. Avevo un sacco di brutti pensieri in testa: vedevo i cadaveri sbranati, immaginavo la scena dell'aggressione a Daniel e Charles, ripensavo ai morsi che mi avevano dato a Charlotte. Adesso sei uno di noi. La rabbia, la follia di quegli omicidi si era manifestata in tante città. Da dove scaturiva? E dove si trovavano gli assassini in quel momento? Non li sentii arrivare, non vidi muovere nulla. Fui colpito due volte. I miei aggressori uscirono velocissimi dal buio. Uno mi si avventò alla testa e al collo, l'altro mi afferrò per le ginocchia. Fu un lavoro di squadra, compiuto con grande efficienza. Caddi a terra rimanendo senza fiato, colpii quello che mi aveva placcato afferrandomi per le gambe e sentii uno schianto come di ossa che si spezzano, seguito da un grido. Lo sconosciuto mi lasciò andare. Mi alzai, ma avevo il secondo aggressore sulla schiena. E sentii che mi mordeva! Gesù, no! Imprecai e lo sbattei contro il muro una volta, poi un'altra. Chi diavolo erano quei due pazzi scatenati? Chi era la sanguisuga che avevo sulle spalle? Finalmente il bastardo mi mollò. Mi girai di scatto e gli sferrai un colpo alla testa con il calcio della pistola, quindi lo colpii di nuovo con un gancio sinistro. Si afflosciò come un sacco. Ansimavo, ma non avevo nessuna intenzione di mollare. I due erano quasi immobili. Li tenni sotto tiro e intanto accesi un'altra candela, pensando che la luce aiuta sempre. Vidi un ragazzo e una ragazza di sedici o diciassette anni al massimo, con occhi che sembravano buchi neri. Il ragazzo sarà stato almeno un metro e ottanta, forse più. Aveva una maglietta bianca sbrindellata e un paio di jeans neri larghi e malconci. La ragazza era circa uno e sessanta di statura, aveva i capelli neri unti, con alcune ciocche rosse, e i fianchi larghi; non soltanto quelli, per la verità. Mi toccai il collo e mi accorsi con una certa sorpresa che non avevo ferite. «Siete in arresto, maledetti succhiasangue», gridai. 77
Vampiri? Assassini? Killer? Che cos'erano quelle due creature perverse? Si chiamavano Anne Elo e John Masterson, detto «Jack», e fino a circa sei mesi prima avevano frequentato una scuola cattolica a Baton Rouge. Erano scappati di casa. Avevano diciassette anni. Ragazzini. Quella notte passai tre ore a cercare di interrogarli e altre quattro la mattina seguente, ma la Elo e Masterson non volevano parlare né con me né con nessun altro. Si rifiutarono di spiegare che cosa facevano dentro la villa del Garden District e perché mi avevano aggredito, o se erano stati loro a mettere le due sinistre bamboline nell'armadio dei maghi morti. Si ostinavano a guardare con aria torva oltre il tavolo di legno della saletta per gli interrogatori. I genitori furono avvertiti e invitati a presentarsi, ma i due ragazzi non vollero parlare neppure con loro. A un certo punto, Anne Elo disse al padre: «Mi fai schifo». Mi chiesi in che modo il culto dei vampiri soddisfacesse i suoi bisogni, la sua terribile ira repressa. Nel frattempo stavamo interrogando anche molti partecipanti al ballo in maschera. La caratteristica comune a tutti era che facevano lavori normalissimi a New Orleans: erano baristi e cameriere, concierge di alberghi, programmatori, attori, alcuni addirittura insegnanti. La maggior parte, nel timore che le loro frequentazioni poco ortodosse venissero a conoscenza di colleghi e datori di lavoro, finì per parlare. Purtroppo nessuno ci disse nulla di eclatante su Daniel e Charles o su chi li aveva uccisi. Fu una nottata molto movimentata alla stazione di polizia. Più di venti tra detective della Omicidi e agenti dell'FBI erano impegnati negli interrogatori. Ci scambiammo appunti e dati biografici dei sospetti dopo aver evidenziato le incoerenze e ci accanimmo contro coloro che mentivano in maniera più evidente. Stilammo anche un elenco dei testimoni che avevano l'aria di poter cedere più facilmente se sottoposti a pressione e li facemmo interrogare da più persone: li mandavamo in cella, li richiamavamo senza dar loro il tempo di riposarsi e ricominciavamo daccapo. «Basterebbe avere qualche bel tubo di gomma», disse uno dei detective locali mentre aspettavamo che Anne Elo venisse tirata fuori dalla cella per la sesta volta di seguito. Si chiamava Mitchell Sams, era un nero sulla cinquantina, obeso, tosto e cinico, molto in gamba. Quando Anne Elo si presentò nella saletta, sembrava una sonnambula, uno zombie: aveva due profonde occhiaie scure e le labbra screpolate e incrostate di sangue. Sams attaccò subito. «Buongiorno, gioia: che piacere rivederti! Bel colo-
rito, davvero. Sei un po' sbattuta, o sbaglio? Ma dire sbattuta è poco. Lo sai che parecchi dei tuoi amici, compreso quel miserabile del tuo fidanzato, sono già crollati?» La ragazza rivolse lo sguardo vacuo verso il muro di mattoni. «Guardate che io sono una che se ne sbatte di tutto», disse. Decisi di provare una tattica che mi era venuta in mente un paio d'ore prima e che avevo già sperimentato con alcuni altri. «Sappiamo chi è il nuovo Sire», le comunicai. «È tornato in California. Non è qui. Non può né aiutarti né farti del male.» La ragazza rimase impassibile, ma incrociò le braccia e s'ingobbì leggermente. Le avevano ricominciato a sanguinare le labbra, forse perché se le era morsicate. «Me ne sbatto.» In quel momento un detective della polizia di New Orleans si precipitò nella stanza. Aveva gli occhi cisposi, due aloni bagnati sotto le ascelle e la barba lunga: insomma, aveva l'aria esausta. Come lo capivo... «C'è stato un altro omicidio», disse a Sams. «Un altro cadavere appeso per i piedi.» Anne Elo batté le mani lentamente, a tempo. «Bene», disse. 78 Mi recai sulla scena del delitto da solo, in preda a una sensazione sempre più intensa di straniamento e irrealtà. Gli ingranaggi del mio cervello giravano lenti e metodici. Che cosa dovevamo fare, adesso? Non ne avevo la minima idea. Maledizione, ero sfinito. La casa era una dépendance di una delle dimore storiche del Garden District, una ex rimessa per le carrozze con un balcone al primo piano che sarebbe stata ideale per un bed and breakfast, circondata da magnolie e banani e da una delle molte elaborate recinzioni in ferro battuto del French Quarter. Sul posto era già accorsa circa la metà del dipartimento di polizia metropolitana, oltre a un paio di ambulanze con la luce lampeggiante sul tetto. E stavano arrivando anche i giornalisti del turno di notte. Il detective Sams, giunto sul posto un paio di minuti prima di me, mi venne incontro nel corridoio del primo piano, davanti alla camera da letto dove era avvenuto l'omicidio. In quella casa tutto era rifinito con cura, dai soffitti al corrimano delle scale, dalle modanature lungo le pareti alle porte. Chi aveva arredato quella casa aveva gusto e, a quanto pareva, una gran
passione per il Mardi Gras: ai muri erano appese moltissime piume e perle, maschere colorate e costumi carnevaleschi. «Brutta roba, ancora peggio di quanto pensassimo», mi disse. «La vittima è una collega, Maureen Cooke. Lavorava alla Buoncostume, ma stava dando una mano nelle indagini su Daniel e Charles, come quasi tutto il resto del dipartimento.» Sams mi accompagnò nella camera da letto della detective: era piccola ma graziosa, con il soffitto azzurro cielo. Una volta qualcuno mi aveva detto che quel colore serviva per tenere lontano gli insetti. Maureen Cooke era rossa di capelli, alta e magra, sulla trentina. L'avevano appesa per i piedi al lampadario. Aveva lo smalto rosso alle unghie ed era completamente nuda, a parte un sottile braccialetto d'argento al polso. C'erano strisce insanguinate su tutto il corpo, ma nessuna pozza per terra o da nessun'altra parte. Mi avvicinai. «Che tristezza!» mormorai. Una vita spezzata, così, senza motivo. Un'altra collega morta. Guardai Mitchell Sams, che aspettava che dicessi qualcosa. «Non è detto che gli assassini siano gli stessi», dissi scuotendo la testa. «Le morsicature mi sembrano diverse, più superficiali. È cambiato qualcosa.» Feci un passo indietro e osservai la camera di Maureen Cooke. C'erano alcune foto famose: le prostitute di Storyville immortalate da E.J. Bellocq. Strano, ma non poi così tanto, per una detective della Buoncostume. Due ventagli orientali incorniciati sopra il letto, che era sfatto. O ci aveva dormito quella notte, o non lo aveva rifatto il giorno precedente. Il mio cellulare squillò. Premetti un pulsante con il pollice, confuso, stordito. Avevo assolutamente bisogno di dormire. «L'hai già trovata, dottor Cross? Che cosa ne pensi? Dimmi qual è secondo te il metodo migliore per fermare questi assassini. A questo punto devi esserci arrivato.» Il Mastermind. Come faceva a saperlo? Mi ritrovai a urlare nel telefonino: «Ti sbatterò dentro, stronzo! Ecco a che punto sono arrivato!» Riattaccai e spensi il telefono. Mi guardai intorno. Kyle Craig era sulla soglia e mi osservava. «Tutto a posto, Alex?» mormorò.
79 Arrivai in albergo alle dieci e mezzo del mattino con la tachicardia, troppo stanco e troppo teso per riuscire a dormire, e trovai un messaggio per me: l'ispettore Hughes aveva telefonato da San Francisco. Mi stesi sul letto e richiamai Jamilla a casa. Chiusi gli occhi. Avevo voglia di sentire una voce amica, e la sua più che mai. «Forse ho una buona notizia per te», mi annunciò. «Nel tempo libero bella questa, eh? - ho dato un'occhiata a Santa Cruz. Perché proprio Santa Cruz, mi chiederai. Perché sono arrivate parecchie denunce di scomparsa di persone mai più ritrovate. Troppe, Alex. Ho fatto un po' di conti e ho deciso che c'è sotto qualcosa. Qualcosa che quadra con il resto della storia.» «Santa Cruz era sulla nostra lista», osservai, cercando di far mente locale. Non ricordavo dove si trovava esattamente. «Dalla voce sembri stanco. Stai bene?» mi chiese. «Sono rientrato in albergo pochi minuti fa. E stata una nottataccia.» «Allora fatti una bella dormita. Tutto questo può aspettare. Buonanotte.» «No, tanto non riesco a dormire. Dimmi di Santa Cruz. Sono curioso.» «Allora, ho parlato con il tenente Conover del dipartimento di Santa Cruz. È stata una conversazione molto interessante, ma anche preoccupante. Sanno benissimo che le scomparse sono troppe, com'è ovvio, e da un anno a questa parte hanno notato che svaniscono nel nulla anche animali domestici e bestiame vario. Nella zona ci sono un sacco di ranch. Naturalmente nessuno crede ai vampiri, ma Santa Cruz ha una certa fama: i giovani la chiamano la capitale dei vampiri degli Stati Uniti.» «Devo vedere i dati che hai raccolto finora», le dissi. «Adesso cerco di dormire un po', ma voglio leggere tutto quello che ti mandano da Santa Cruz. Puoi inoltrarmelo?» «Il mio amico Tim dell'Examiner mi ha promesso di farmi avere tutto. Oggi è il mio giorno libero: magari vado a fare un giro da quelle parti.» Sgranai gli occhi. «Non da sola, mi raccomando. Portati Tim. Stai attenta.» Le raccontai della fine che aveva fatto Maureen Cooke a New Orleans. «Non andarci da sola. Non sappiamo ancora con chi abbiamo a che fare.» «Mi porterò qualcuno», promise, ma non sapevo se crederci o no. «Sii prudente, Jamilla. Ho dei brutti presentimenti.» «Sei soltanto stanco. Dormi. Sono maggiorenne e vaccinata, sai.» Parlammo ancora un po', ma avevo la sensazione che Jamilla non voles-
se darmi retta: come la maggior parte dei bravi detective, era testarda. Chiusi di nuovo gli occhi, mi assopii e subito dopo caddi in un sonno profondo. 80 Jamilla ripensò a una frase di un romanzo di Shirley Jackson che le piaceva molto, La casa degli invasati, da cui era stato tratto un film piuttosto deludente. «Qualunque cosa vagasse sin lì lo faceva in solitudine», aveva scritto la Jackson. Era più o meno la sensazione che aveva in quell'indagine. E anche nella vita in generale, negli ultimi tempi: le sembrava sempre di vagare, e in solitudine. Salì sulla sua fida Saab impolverata e si mise in viaggio per Santa Cruz, stringendo il volante con un po' troppa forza. Le formicolavano le dita e il torcicollo le dava sempre più fastidio. Non riusciva a rassegnarsi all'idea che quegli efferati assassini fossero ancora a piede libero e potessero continuare a uccidere finché qualcuno non li fermava. Forse toccava a lei farlo. Aveva cercato di convincere il suo attuale fidanzato ad accompagnarla, ma Tim stava seguendo una manifestazione di ecologisti in bicicletta per conto dell'Examiner. A parte il fatto che non era sicura di voler passare tutta la giornata con lui. Tim era affettuoso, ma non era... Be', non era Alex Cross. Così si accingeva a uscire dalla Route 1 ed entrare a Santa Cruz da sola. Da sola. Come al solito, maledizione. Per farsi coraggio pensò che Tim sapeva dov'era e che, oltre a essere maggiorenne e vaccinata, era anche armata fino ai denti. Brr, denti, pensò, rabbrividendo all'idea dei canini dei vampiri e della fine atroce fatta dalle loro vittime. Santa Cruz le era sempre piaciuta, però. Nell'89 era stata l'epicentro del terremoto di Loma Prieta - 6,9 scala Richter, sessantatré vittime - ma si era ripresa con coraggio, rifiutando di arrendersi. La maggior parte delle costruzioni era nuova, antisismica, di non più di due piani. Santa Cruz era pura California. Passando, vide un surfista alto e biondo scendere da una Volkswagen con una tavola legata sul tetto. Stava mangiando un trancio di pizza e si dirigeva verso la libreria. Pura California. C'era gente di tutti i tipi: ex hippy, giovani imprenditori del settore hightech, turisti, surfisti, studenti. Un'atmosfera che a Jamilla piaceva molto.
Dove si nascondevano i maledetti vampiri? C'erano veramente? Sapevano che lei era a Santa Cruz, pronta a stanarli? Si confondevano tra quella folla immensa? La sua prima meta era il dipartimento di polizia. Il tenente Harry Conover rimase di sasso nel vederla arrivare: probabilmente per lui l'idea che un detective si prendesse la briga di fare tanta strada per lavoro era inconcepibile. «Ti ho detto che ti avrei passato tutto quello che trovavo sui dark e sui presunti vampiri. Non ti fidavi?» le chiese scuotendo la testa dai ricci biondi piuttosto lunghi e alzando al cielo gli occhi castani. Conover era alto, atletico, sui trentacinque. Più o meno come lei. Jamilla capì subito che era un donnaiolo e che si credeva bellissimo. «Certo. Ma avevo un giorno libero e, siccome questo caso non mi lascia dormire, ho pensato di venire a dare un'occhiata di persona. Sempre meglio della posta elettronica, no, Harry? Che cos'hai per me?» Intuì che stava per dirle di lasciar perdere e godersi la giornata di vacanza. Se lo era sentito dire altre volte, e forse non era neanche sbagliato. Ma in quel momento, con quel caso per le mani, non aveva nessuna intenzione di seguire il suo consiglio. «A quanto sta scritto su certi rapporti, sembra che alcuni dei presunti vampiri di questa zona vivano in una specie di comune. Sai mica dove?» domandò. Conover annuì, fingendosi interessato. In realtà stava cercando di capire che tipo era. E le guardava le tette. «La notizia non è mai stata confermata», rispose. «Tanti giovani convivono, naturalmente, ma non so di nessuna comune. Ci sono un paio di locali molto chiacchierati, tipo il Catalyst e il Palookaville. E tante case affittate a studenti in fondo a Pacific Street.» Jamilla non si arrese. «Supposto che siano in gran numero, dove pensi che potrebbero stare?» Conover sospirò e non nascose un certo fastidio per la sua insistenza. Era chiaro che non era il tipo che si sbatte più di tanto per il lavoro. Se fosse stato un suo subordinato, Jamilla l'avrebbe fatto trasferire subito e Conover l'avrebbe accusata di essere prevenuta nei confronti degli uomini. Non era vero. Quello che detestava di lui era la pigrizia, la mediocrità. Dal suo lavoro dipendeva la vita di molte persone. Non se ne rendeva conto? «Forse nell'entroterra. O magari a nord, verso Boulder Creek», disse finalmente Conover in tono strascicato. «Non saprei proprio.» Me l'aspettavo.
«Dove cominceresti a cercare?» insistette Jamilla. Se non fossi uno sbirro da tre soldi. «Io non farei grandi ricerche su una cosa come questa. È vero che parecchia gente è scomparsa inspiegabilmente, ma succede un po' in tutta la California. I giovani d'oggi sono più ribelli di quanto eravamo noi alla loro età. Secondo me non succede nulla di particolarmente grave a Santa Cruz, e tutte quelle storie sulla capitale dei vampiri degli Stati Uniti non me le bevo proprio. Non è vero. Dammi retta. Non ci sono vampiri a Santa Cruz.» Jamilla annuì, fingendo di essere d'accordo, e disse: «Penso che comincerò dall'entroterra». Conover le fece il saluto militare. «Se finisci di inseguire fantasmi prima delle sette, chiamami. Potremmo andare a bere qualcosa insieme. Hai detto che è il tuo giorno libero, giusto?» Jamilla fece di sì con la testa. «Certo. Se finisco prima delle sette. Grazie della collaborazione.» Idiota. 81 Adesso era veramente incazzata. Chi non lo sarebbe stato? Era lì a farsi il mazzo in una città che non rientrava nemmeno nella sua giurisdizione. Parcheggiò la Saab in una stradina del centro, vicino al Metro Center, di fronte all'Asti Bar. Guidando lo aveva perso di vista, ma nelle vicinanze c'era il San Lorenzo River. Almeno a giudicare dall'odore. Non appena scesa dalla macchina, vide arrivare due ragazzi che le andarono incontro a passo svelto e la affiancarono, uno da una parte e l'altro dall'altra. Jamilla trasalì. Sembravano comparsi dal nulla. Biondi, con la coda di cavallo, notò. Studenti? Surfisti? Speriamo bene. Erano muscolosi, ma non palestrati. Robusti di natura, si sarebbe detto. Le vennero in mente statue di Eros, Ermes, Apollo. Corpi dalla muscolatura ben definita, virili, statuari. «Avete bisogno di qualcosa? State cercando la spiaggia?» disse. Il più alto dei due rispose in tono estremamente sicuro di sé, per non dire arrogante: «No, affatto. Non siamo surfisti. A parte il fatto che siamo di qui. E lei, piuttosto?» Avevano entrambi gli occhi di un azzurro molto intenso, vivissimo. Uno dimostrava al massimo sedici anni. Si muovevano lentamente, con gesti
deliberati che non le piacquero per niente. Per la strada non c'era nessuno che potesse eventualmente intervenire. «Sapreste dirmi dov'è la spiaggia?» I due le si erano avvicinati ancora di più. Troppo: così non poteva né muoversi né estrarre la pistola senza urtarli. Portavano jeans e maglietta neri e scarpe da montagna. «Vi dispiace scostarvi un po'?» disse alla fine. «Scostatevi, capito?» Il più grande dei due sorrise. L'incavo tra il labbro superiore e il naso era una fossetta tonda, molto sexy. «Mi chiamo William. E questo è mio fratello Michael. Ci stava per caso cercando, ispettore Hughes?» Oh, no! Gesù! Jamilla cercò di estrarre la pistola dalla fondina che portava sotto la giacca, ma i due la afferrarono e gliela portarono via come se fosse una bambina. La velocità e la forza con cui agirono la lasciarono esterrefatta. La strattonarono e le misero le manette. Dove se le erano procurate? A New Orleans? Le avevano prese alla detective assassinata? Parlò di nuovo il più grande. «Non gridare o ti tiro il collo», sussurrò come se niente fosse. Ti tiro il collo. L'altro aprì la bocca per dire qualcosa, proprio davanti a lei: aveva due lunghi canini appuntiti. «Chi va a caccia di vampiri, dai vampiri vien cacciato.» 82 La imbavagliarono e la caricarono di peso sul sedile posteriore di un pick-up. Misero in moto e partirono con uno scossone. Jamilla cercò di fare attenzione a tutti i particolari del viaggio. Contò i secondi e poi i minuti, riconobbe dalle frenate e dalle partenze ai semafori le strade che percorsero in città e poi, quando presero velocità, immaginò che avessero imboccato la Route 1. Poi affrontarono un tratto molto accidentato, forse su una strada sterrata. Calcolò che in tutto il viaggio fosse durato una quarantina di minuti. La portarono dentro un edificio, una specie di ranch o di fattoria. Sentì delle risate. Ridevano di lei? Avevano i canini affilati. La depositarono su una branda in una stanzetta e le tolsero il bavaglio. «Sei venuta a cercare il Sire», le bisbigliò quello che aveva detto di chiamarsi William, avvicinandosi alla sua faccia. «Hai commesso un gravissimo errore. Uno sbaglio che pagherai con la vita.» Fece un sorriso raccapricciante e Jamilla ebbe la sensazione che la stesse
prendendo in giro e, al tempo stesso, che cercasse di sedurla. William le sfiorò la guancia con le dita lunghe e sottili. Le accarezzò delicatamente la gola e la guardò negli occhi. Inorridita, Jamilla avrebbe voluto scappare, ma non poteva: c'erano dieci o dodici vampiri che la fissavano bramosi di sangue. «Non so niente di nessun Sire», disse. «Chi sarebbe questo Sire? Spiegatemi.» I fratelli si guardarono e si scambiarono un sorriso malizioso. Qualcun altro rise sguaiatamente. «Il Sire è colui che comanda», rispose William. Calmissimo, estremamente sicuro di sé. «Su chi comanda?» chiese. «Su chiunque sia disposto a seguirlo», continuò William, e di nuovo rise, apparentemente molto divertito. «Sui vampiri. Su altre persone come Michael e me. Su moltissima gente, in moltissime città. Non hai idea di quante. Il Sire detta chiare regole su cosa pensare, cosa fare e simili. Il Sire non risponde a nessuna autorità. Il Sire è un essere superiore. Cominci a capire? Ti piacerebbe conoscerlo?» «È qui?» domandò lei. «Dove siamo?» William continuò a guardarla dall'alto in basso. Era un ragazzo pieno di fascino. Di un fascino perverso. Si chinò e le disse: «Sei tu la detective. Il Sire è qui? Dove ti trovi? Dimmelo tu». Jamilla aveva voglia di vomitare, si sentiva mancare l'aria. «Perché siamo qui?» chiese, per continuare a farli parlare e tenerli occupati più a lungo che poteva. William alzò le spalle. «Oh, siamo sempre stati qui. Questa una volta era una comune di hippy che sognavano la California, piena di sostanze psicotrope e di musica di Joni Mitchell. I nostri genitori erano hippy. Essendo isolati dal resto del mondo, dipendevamo gli uni dagli altri. Tra mio fratello e me c'è un legame fortissimo. Ma non contiamo nulla. Siamo qui per servire il Sire.» «Il Sire viveva nella comune?» Il ragazzo scosse la testa e la guardò serio. «Qui ci sono sempre stati vampiri. Vivevano per conto loro e lasciavano in pace gli altri, a meno che qualcuno non li andasse a cercare.» «Quanti ce ne sono?» William guardò Michael, scrollò le spalle robuste e tutti e due risero. «Milioni! Siamo ovunque!»
Tutt'a un tratto, William emise una specie di ruggito e le saltò alla gola. Jamilla non poté fare a meno di lanciare un urlo. Il vampiro si fermò a pochi centimetri e ruggì di nuovo, poi imitò un gatto che fa le fusa e con la lingua le sfiorò la guancia, le labbra, le palpebre. Jamilla non riusciva a credere a quello che le stava succedendo. «Adesso ti appendiamo e beviamo il tuo sangue fino all'ultima goccia. La cosa straordinaria è che ti piacerà morire, Jamilla. Sarà l'estasi, vedrai.» 83 Tornato a Washington, mi concessi un giorno di meritato riposo. E perché no? Avevo passato pochissimo tempo con i miei figli ultimamente, e poi era sabato. Nel pomeriggio, Damon, Jannie e io andammo alla Corcoran Gallery of Art. Le due piccole pesti all'inizio non volevano venire, ma una volta entrate nel museo rimasero affascinate e non volevano più andare via. Tipico. Verso le quattro, quando tornammo a casa, Nana mi disse che dovevo chiamare Tim Bradley del San Francisco Examiner. Lasciatemi in pace, pensai. Concedetemi una tregua. Adesso mi tocca pure chiamare l'amico di Jamilla? «È urgente, ha detto», mi riferì Nana. Stava preparando due torte con le ciliegie, tanto per ricordarmi quanto si sta bene a casa. In California era l'una. Telefonai a Tim Bradley in ufficio. Rispose al primo squillo. «Bradley.» «Sono il detective Alex Cross.» «Salve. Aspettavo la sua chiamata. Sono un amico di Jamilla Hughes.» Fin lì c'ero arrivato. Lo interruppi. «Le è successo qualcosa?» «Anche lei è preoccupato, detective? Sapeva che ieri è andata a Santa Cruz?» «Me l'ha accennato. E andata con qualcuno? Le avevo consigliato di non andarci da sola.» Tim rispose un po' brusco, sulle difensive. «No. Jamilla dice sempre che è maggiorenne e vaccinata. E che ha la pistola.» Scossi la testa, corrucciato. «Allora che cosa c'è? Perché mi ha telefonato? Cos'è successo?» «Non lo so, ma di solito Jamilla è prudente, puntuale. Invece non l'ho più sentita, benché fossimo rimasti d'accordo che mi avrebbe chiamato ieri sera. Adesso sono passate altre quattro ore da quando mi sono deciso a te-
lefonare a lei, dottor Cross, e comincio a preoccuparmi. Probabilmente non è nulla di grave, ma ho pensato che lei fosse la persona più informata... Su questo caso.» «Lo fa spesso?» chiesi. «Cosa? Indagare nei giorni liberi? Sì, è da lei. Ma se Jamilla mi promette di telefonarmi, lo fa.» Non volevo metterlo più in agitazione di quanto già non fosse, ma ero preoccupatissimo. Pensai che già due mie colleghe erano state uccise e che non avevamo ancora scoperto il colpevole. Il Mastermind sosteneva di aver ucciso Betsey Cavalierre. Poi Maureen Cooke a New Orleans... Cos'era successo all'ispettore Jamilla Hughes? «Chiamerò la polizia di Santa Cruz. Jamilla mi ha dato un nome e un numero di telefono. Conover, se non ricordo male. Me lo sono scritto da qualche parte. Lo chiamo subito.» «Bene. Grazie, detective. Mi terrà informato?» disse il giornalista. «Gliene sarei molto grato.» Promisi di farlo e poi cercai di mettermi in contatto con il tenente Conover alla sede della polizia di Santa Cruz. Non era in servizio, ma insistetti e nominai Kyle Craig. Controvoglia, mi diedero il suo numero di casa. Non appena alzarono la cornetta, sentii in sottofondo una canzone che mi parve degli U2. «Pronto? Stiamo dando una festa in piscina. Se vuoi, vieni anche tu, altrimenti richiama lunedì», disse una voce maschile. «Ciao e arnvederci.» E buttò giù. Rifeci il numero e dissi: «Tenente Conover, per favore, si tratta di un'emergenza. Sono il detective Alex Cross e chiamo per via dell'ispettore Jamilla Hughes del dipartimento di polizia di San Francisco». «Oh, merda», sentii esclamare. Poi: «Sono Conover. Mi ripete il suo nome?» Spiegai chi ero e che ruolo avevo nella vicenda il più concisamente possibile, con la netta sensazione che Conover fosse ubriaco o quasi. Era il suo giorno libero, d'accordo, ma in California non erano ancora le due del pomeriggio. «È andata nell'entroterra in cerca di vampiri», mi disse ridendo sprezzante. «Non ci sono vampiri a Santa Cruz, detective. Dia retta a me. Sono sicuro che sta bene. A quest'ora sarà tornata a San Francisco.» «Ci sono stati più di venti morti azzannati finora», replicai nel tentativo di far ragionare Conover, o perlomeno di attirare la sua attenzione. «Appe-
si per i piedi, completamente dissanguati.» «Le ho detto tutto quello che so, detective», ribatté lui. «Immagino che dovrò mandare un'auto di pattuglia», aggiunse poi. «Sarà meglio. Io nel frattempo chiamerò l'FBI. Che non esclude l'esistenza di vampiri, o presunti tali. Quand'è stata l'ultima volta che ha visto l'ispettore Hughes?» Conover esitò. «Chi se lo ricorda? Vediamo, saranno passate quasi ventiquattr'ore.» Riattaccai. Quell'uomo non mi piaceva per niente. Poi mi sedetti a ripensare a tutto ciò che era successo dalla prima volta che avevo visto Jamilla. Quel caso mi faceva girare la testa: era così esagerato da tutti i punti di vista, così fuori dagli schemi... E la presenza del Mastermind non faceva che peggiorare le cose. Telefonai a Kyle Craig e poi all'American Airlines, quindi a Tim Bradley per dirgli che stavo per partire per la California. Santa Cruz. La capitale dei vampiri. Jamilla era nei guai. Me lo sentivo. 84 Durante il volo per la California, mi resi conto che da due giorni il Mastermind non mi assillava più. Era strano, e mi chiesi se anche lui era in viaggio. Que pasa, Mastermind? Che fosse sul mio stesso aereo per San Francisco? Mi tornò in mente una vecchia barzelletta sulla paranoia, Un uomo dice al suo psichiatra: «Tutti mi odiano». Lo psichiatra risponde: «Ma no, mica tutti la conoscono». Ero teso come una corda di violino. A un certo punto mi alzai e andai avanti e indietro nel corridoio controllando gli altri passeggeri senza trovare neanche una faccia sia pur lontanamente nota. Il Mastermind non era a bordo. E non c'era nemmeno nessuno con i canini affilati. Stavo perdendo la testa. Al San Francisco International Airport trovai ad aspettarmi alcuni agenti dell'FBI, che mi dissero che Kyle stava per arrivare da New Orleans. Ultimamente aveva insistito molto per convincermi a entrare nel Bureau, il che dal punto di vista economico sarebbe stato senza dubbio vantaggioso per me: gli agenti federali guadagnano molto più dei detective. Anche l'orario di solito è migliore. Mi ripromisi di parlarne con Nana e con i ragazzi non
appena risolto quel caso. Speravo che non ci volesse più molto. Ma che cosa me lo faceva pensare? Uscii dall'aeroporto in compagnia di tre agenti a bordo di un fuoristrada blu scuro. Ero seduto dietro, vicino a quello di grado più alto, che si chiamava Robert Hatfield, il quale mi aggiornò su quanto era stato scoperto fino a quel momento. «Abbiamo individuato la casa dove si trovano alcuni dei cosiddetti vampiri. È un ranch sulle alture a nord di Santa Cruz, non lontano dal mare. In questa fase, non sappiamo se l'ispettore Hughes sia prigioniera là dentro. Non è stata avvistata.» «Che cosa c'è nella zona?» gli chiesi. Hatfield era un tipo giovanile dall'età indefinibile - poteva avere da trentacinque a cinquant'anni - ed era in forma, con i capelli a spazzola e l'aria di uno che tiene al proprio aspetto. «Niente di speciale. Campagna. Ci sono alcuni grossi ranch, rocce, rapaci, puma...» «Niente tigri?» «Strano che chieda delle tigri. Una volta nel ranch che le dicevo c'erano molti animali feroci: orsi, lupi, tigri. Avevano persino un paio di elefanti. I proprietari li addestravano, perlopiù per film e spot pubblicitari. Erano hippy. Il ranch aveva la licenza del dipartimento degli Interni e aveva clienti del rango di Tippi Hedren e Siegfried e Roy.» «Gli animali sono ancora nella tenuta?» «Non più. I proprietari originari sono scomparsi quattro o cinque anni fa e nessuno ha comprato la terra. Sono circa una ventina di ettari, pressoché inutilizzabili, come vedrà.» «E gli animali che fine hanno fatto?» «Alcuni sono stati comprati da altri addestratori che forniscono animali rari agli studi cinematografici. Alcuni pare che se li sia presi Brigitte Bardot, altri lo zoo di San Diego.» Mi misi comodo e riflettei. Non volevo crearmi eccessive speranze, ma mi chiesi se i vecchi proprietari non avessero lasciato una tigre nel ranch e mi venne in mente una possibilità, forse remota, ma piuttosto interessante. In Africa e in Asia vi era la credenza che i vampiri assumessero forma di tigre e non di pipistrello. E le tigri fanno decisamente più paura dei pipistrelli, come i cadaveri straziati che avevo visto. A parte il fatto che Santa Cruz aveva una reputazione da mantenere in quanto capitale dei vampiri. Passammo una fattoria e poi una piccola azienda vinicola, ma, a parte questo, non c'era un granché da vedere lungo la strada. L'agente Hatfield mi spiegò che d'estate le colline prendevano un colore marrone dorato che
ricordava molto il veld africano. Cercavo di non pensare a Jamilla e a cosa poteva esserle capitato. Perché era andata da sola? Che cosa la spingeva a correre certi rischi? Le stesse motivazioni che muovevano me? Se fosse morta, non me lo sarei mai potuto perdonare. Alla fine lasciammo la strada principale. Non vedevo né case né costruzioni di alcun genere, ma soltanto colline spoglie. Un falco si librava leggero nel cielo azzurro. Il panorama era silenzioso e sereno, molto bello. Imboccammo uno sterrato e proseguimmo per circa un chilometro e mezzo lungo una strada sassosa e dissestata. Superammo la recinzione di un pascolo. Per un centinaio di metri la strada correva lungo una staccionata che s'interrompeva e dopo un po' ricominciava. A un certo punto trovammo sei veicoli parcheggiati ai lati dello sterrato. Erano tutti fuoristrada. Accanto a uno di essi c'era Kyle Craig con le mani sui fianchi, che sorrideva come se avesse un segreto straordinario da rivelarmi. E infatti era proprio così. 85 «Secondo me, è proprio quello che cercavamo», mi disse mentre mi avvicinavo. Mi strinse la mano, come faceva sempre: era un tipo molto formale. Mi parve più calmo e controllato rispetto alla volta precedente. «Vieni che ti mostro una cosa.» Lo seguii lungo la staccionata fino a un cancello rotto, dove mi indicò la figura sbiadita di una tigre, marchiata a fuoco nel legno. Era quasi invisibile, ma era una tigre. Forse avevamo trovato la tana. «Nella casa c'è un gruppo di gente agli ordini del Sire. Anzi, del nuovo Sire. Non siamo riusciti a stabilire chi sia, ma sappiamo che il precedente era il mago Daniel Erickson. Due membri del gruppo sono appena tornati da New Orleans. Comincia a combaciare tutto.» Lo guardai e scossi la testa. «Come hai fatto a scoprire tutte queste cose? Quando sei arrivato, Kyle?» Quante cose mi hai tenuto nascoste? E perché? «La polizia di Santa Cruz ci ha contattato e io mi sono precipitato qui. Hanno beccato uno dei 'non-morti' mentre lasciava il ranch. È un pesce piccolo, uno che ha appena abbandonato gli studi, meno coinvolto degli altri. Ci ha raccontato tutto quello che sapeva.»
«Il Sire è là dentro?» «Sembra di sì. Il ragazzo non l'ha mai visto, perché non fa parte della cerchia degli intimi. I due che erano a New Orleans però ci sono. Secondo lui, sono stati loro a uccidere Daniel e Charles. Dice che sono completamente matti.» «Be', questo mi pare credibile.» Osservai il ranch più in basso, tra i rami dei pini e dei cipressi. «E Jamilla Hughes?» Kyle distolse lo sguardo. «Abbiamo trovato la sua auto in città, Alex. Ma di lei nessuna traccia. Neanche il ragazzo che abbiamo interrogato sapeva niente di lei. Però ha detto che ieri notte si sono sentiti dei rumori strani. Ha pensato che qualcuno si fosse intrufolato nella proprietà, che fosse la polizia, ma poi è tornata la calma, secondo lui. Non abbiamo prove che Jamilla sia qui.» «Posso parlargli?» Kyle guardò dall'altra parte, come se non volesse rispondermi. «La polizia di Santa Cruz lo ha portato via. Per vederlo dovresti tornare in città. L'ho interrogato io. Pensa che gli ho fatto paura!» Kyle si comportava in modo strano, ma sapevo che capiva la mente dei criminali meglio di tutti gli altri agenti dell'FBI o poliziotti con cui avevo lavorato nella mia carriera. I suoi sottoposti erano convinti che prima o poi sarebbe arrivato ai vertici del Bureau. Io però mi chiedevo se fosse disposto ad abbandonare il lavoro sul campo. «So che sei in pensiero per l'ispettore Hughes e forse potremmo anche fare irruzione subito, ma secondo me conviene aspettare. Voglio entrare in azione dopo mezzanotte, Alex, o meglio ancora, prima dell'alba. Non siamo nemmeno sicuri che sia là dentro.» S'interruppe e guardò la casa in lontananza. «Voglio scoprire se vanno a caccia in gruppo. Ci sono interrogativi cui dobbiamo trovare una risposta. Quali sono le motivazioni di questi mostri? Che cosa li spinge a uccidere? E poi voglio essere sicuro di beccare il Sire, questa volta.» 86 Fu una notte agitata e interminabile quella ai piedi delle montagne di Santa Cruz. Non vedevo l'ora che fosse tutto finito, o forse che cominciasse. Scoprimmo subito alcune cose interessanti. La donna avvocato che era stata uccisa a Mill Valley era stata coinvolta in una causa relativa a quella tenuta. Molto probabilmente era per questo che era finita appesa a testa in
giù insieme con il marito. Al riparo degli alberi e delle rocce circostanti osservai il ranch con il binocolo fino a che non mi fecero male gli occhi. Alle undici non era ancora uscito nessuno. Non sembrava nemmeno che ci fosse qualcuno di vedetta. O erano matti, o terribilmente sicuri di sé. O forse innocenti. Forse avevamo sbagliato tutto un'altra volta. Cercavo di non preoccuparmi troppo per Jamilla, ma invano: continuavo a immaginare il peggio. Ma cos'aveva in testa Kyle? Che cosa sapeva e non mi diceva? A mezzanotte uscirono due uomini con una tigre. Li osservai con il visore a raggi infrarossi. Ero quasi certo di averli già visti a New Orleans, al ballo in maschera. Si diressero verso i campi piatti e aperti dietro la casa. Uno si mise carponi e poi si rotolò nell'erba insieme con la tigre. Giocavano? Oddio, che stranezza. Mi venne in mente che al Golden Gate Park la tigre era stata allontanata dalla sua preda. Una ventina di minuti dopo, gli uomini portarono la tigre in un recinto dietro il ranch, abbracciandola come se fosse un grosso cane giocherellone. Le luci nell'edificio principale e nella dépendance rimasero accese fino alle due. Si sentiva della musica ad alto volume. Dalla casa non era uscito nessuno per andare a caccia. Non sapevamo né se Jamilla era ancora dentro, né se era viva o morta. Io rimasi sveglio a osservare. Non sarei riuscito a riposare comunque, nemmeno per un'ora. L'FBI continuava a raccogliere informazioni sugli occupanti del cosiddetto dominio. Ma cosa diavolo stavano facendo? L'identità del Sire non era ancora stata scoperta, ma avevamo trovato qualcosa sui due ragazzi biondi con la coda di cavallo. William e Michael Alexander erano figli di una coppia di ex hippy che avevano lavorato al ranch addestrando bestie feroci. La madre era zoologa. I ragazzi erano cresciuti lì e avevano grande dimestichezza con gli animali. Avevano studiato a Santa Cruz rispettivamente fino all'età di nove e dodici anni, e quindi erano stati istruiti privatamente. Le rare volte in cui andavano in città indossavano tuniche marocchine e giravano scalzi. Erano considerati intelligenti, ma molto riservati ed eccentrici. Da adolescenti avevano avuto guai con la giustizia ed erano stati in riformatorio per aggressione aggravata. Ma avevano precedenti anche per spaccio di droga e furto con scasso. Verso le tre del mattino, Kyle mi raggiunse sulla roccia da cui osservavo il ranch. «Mi sembri un po' pallido», gli dissi.
«Eh, già. È stata una lunga notte. Un lungo mese, per la verità. Sei preoccupato per lei, vero?» mi chiese. Sembrava un osservatore distaccato, calmo e controllato. Tipico di Kyle: intelligenza e calcolo. «Non so niente di più, Alex. Ti ho detto tutto.» «Mi vedo ancora davanti il cadavere di Betsey Cavalierre. Non voglio assistere mai più a una scena del genere. Sì, sono preoccupato per Jamilla. Tu no? Che cosa pensi?» «Se è ancora viva, non vedo perché dovrebbero ammazzarla proprio adesso. Vuol dire che la stanno tenendo prigioniera per qualche motivo.» Se è ancora viva. Mi diede una pacca sulla spalla. «Fatti un sonnellino», mi suggerì. «Riposati un po'.» E se ne andò. Ma quando mi voltai dalla sua parte, mi accorsi che mi stava guardando. Mi appoggiai a una quercia e mi coprii con la giacca. Fra le tre e le tre e mezzo dovevo essermi assopito, perché vidi Betsey Cavalierre e la mia amica e collega Patsy Hampton, che era morta ammazzata anche lei, e alla fine Jamilla. Oh, Cristo, adesso basta! È troppo... Sentii la presenza di qualcuno vicino a me e aprii gli occhi. Era Kyle. «E ora di andare. Finalmente troveremo risposta a qualcuno dei nostri interrogativi.» 87 Il ranch era a quattro o cinquecento metri di distanza, ma il terreno che ci separava dalla casa era troppo aperto per avvicinarci senza essere visti. Era lì che era stata uccisa Jamilla? Kyle mi sussurrò: «Potrebbe essere ancora viva». Era come se mi avesse letto nel pensiero. Cos'altro sapeva? Cos'altro mi nascondeva? «Stavo pensando ai due fratelli», dissi. «Non sono mai stati attenti prima perché non sono mai stati costretti a esserlo. I maghi invece sono stati estremamente prudenti: hanno ammazzato per anni senza mai farsi prendere e nemmeno sospettare di nessuno degli omicidi che hanno commesso.» «Pensi che sia stato il nuovo Sire a incastrare Daniel e Charles?» «In parte sì, ci giurerei. I due fratelli hanno colpito nelle stesse città in cui si esibivano i maghi: il Sire voleva che noi ce ne accorgessimo. Era una trappola per Daniel e Charles.» «Ma perché allora ucciderli a New Orleans?» «Non lo so. Forse i due fratelli sono psicopatici, o forse hanno ricevuto
ordini dall'alto. Dovremo chiederlo al Sire.» «Sono convinti che niente e nessuno li possa fermare. Ma si sbagliano», dichiarò Kyle. «Noi li fermeremo.» In quel momento fummo colti di sorpresa: la porta della casa si aprì e uscirono diversi uomini vestiti di scuro. I due fratelli non c'erano. Si diressero verso uno spiazzo erboso dov'erano parcheggiati pick-up e furgoni. Salirono a bordo di alcuni, misero in moto e andarono davanti alla casa. Kyle prese il walkie-talkie e allertò i cecchini appostati tra gli alberi e le rocce. «Tenetevi pronti.» «Kyle, non scordarti di Jamilla.» Non mi rispose. La porta si riaprì e uscirono alcune ombre, a due a due, nascoste da grossi mantelli con il cappuccio. In ogni coppia una delle due persone teneva una pistola puntata alla tempia dell'altra. «Merda», sussurrai. «Ci hanno scoperto.» Non era possibile riconoscere nessuno, o dire se tra le figure incappucciate c'erano degli ostaggi. Cercai di capire qual era Jamilla, di riconoscerla dal modo di camminare. Non sapevo né se era fra loro né se era ancora viva. Avevo il cuore gonfio: da dov'ero non riuscivo a vedere se c'era. «Tutti insieme! Ora!» disse Kyle alla radio. «Forza, forza!» Le ombre incappucciate si muovevano verso i mezzi che le aspettavano. Uno degli ostaggi improvvisamente cadde per terra. Soltanto uno. «È lei», esclamai. «Prendete quello che le sta vicino!» ordinò Kyle. Partì un colpo e una delle figure incappucciate stramazzò a terra. Corremmo tutti verso la casa, giù per la ripida discesa. Vennero sparati alcuni colpi nella nostra direzione, ma per fortuna nessuno rimase ferito. In un primo tempo gli agenti federali non risposero al fuoco, poi si sentirono degli spari provenienti dall'alto. Alcune figure incappucciate caddero a terra, morte o ferite, altre alzarono le mani in segno di resa. Io fissavo quella che credevo fosse Jamilla. Si era rialzata, ma barcollava, stentava a mantenere l'equilibrio. A un certo punto le scivolò all'indietro il cappuccio e vidi che era proprio lei. Guardava verso le montagne, con le mani alzate. Mi misi a correre più forte, scrutandomi intorno alla ricerca dei fratelli. E del Sire. Andai verso Jamilla, che si stava massaggiando i polsi. Tremava. Le
diedi la mia giacca. «Stai bene?» «Non lo so. Mi hanno appeso a una trave, Alex. Una scena incredibile. Non puoi nemmeno immaginare... Credevo di morire.» Aveva gli occhi lucidi. «Dov'è il Sire?» le chiesi. «Forse è rimasto dentro. Credo che ci sia un'altra uscita.» «Vado a vedere.» Mi fece di no con la testa. «No, aspetta! Vengo con te. Te lo devo.» 88 Jamilla e io perquisimmo l'edificio principale del ranch e controllammo nella dépendance. Non trovammo nessuno. Erano scappati tutti. Non c'erano né William né Michael Alexander, né tantomeno il misterioso Sire. Jamilla continuava a tremare, ma non voleva tornare indietro. «Sicuro che i due fratelli non fossero fuori con gli altri?» mi domandò. «Biondi, con la coda di cavallo...» «Se c'erano, Kyle ormai li avrà presi. Ma non credo. Controlliamo in quella costruzione più piccola. Cosa c'è dentro, lo sai?» Jamilla scosse la testa. «Non mi hanno fatto fare il giro del ranch, quando sono arrivata: mi hanno sbattuto subito nei sotterranei. E mi hanno appeso a una trave, tanto per gradire.» Aprii la porta della costruzione e vidi alcune caldaie e una pompa. C'era un forte odore di urina. Scorsi un topo che sgattaiolava in un buco nel muro, ma quel che vidi un attimo dopo mi fece molta più paura. Per terra, contro il muro in fondo, c'erano due cadaveri. Due ragazzi giovani, completamente nudi, con piercing sulla faccia e sui capezzoli. Mi chinai a guardarli meglio. «Sembrano due ragazzi di strada. Non hanno più una goccia di sangue in corpo.» Avevano segni di morsicature sul collo, in faccia e sugli arti, ed erano bianchi come l'alabastro. Distolsi lo sguardo dai loro occhi vitrei, fissi su di me. Non potevo più fare niente per loro. Fra serbatoi d'acqua, caldaie e macchinari vari notai una botola arrugginita. Mi avvicinai e mi chinai per guardare meglio. Non era chiusa. La sollevai. Buio. Silenzio. Cos'altro c'era laggiù? Chi? Lanciai un'occhiata a Jamilla e puntai la torcia elettrica nel buio. Il buco era grande abbastanza per potercisi calare dentro. Vidi degli scalini di metallo. Un tunnel.
Poi delle orme sul fondo di terra. Orme di più persone. «Vai ad avvertire Kyle. Chiama rinforzi.» Jamilla partì di corsa. Io guardai nell'abisso e mi chiesi se qualcuno là sotto mi stava guardando a sua volta. 89 Aspettai più a lungo che potei, ma poi non ce la feci più e mi calai piano piano nel pozzo. Ci entravo comodamente. Cominciai a scendere i gradini di metallo. Ce n'erano parecchi, ripidi e traballanti. Puntando la torcia di qua e di là, vidi un pavimento di terra battuta, lamiera ondulata sulle pareti, lampadine rotte. Davanti a me si apriva una galleria. Non sentendo rumori di sopra, mi avviai lentamente, guardingo. Avevo la torcia in una mano e la Glock nell'altra. Continuavo a voltarmi indietro nella speranza di veder arrivare Kyle e Jamilla. Ma dove si erano cacciati? Vidi una carcassa poco più avanti e trattenni il fiato. La illuminai. Vidi un occhio, aperto e senza vita. Era un cerbiatto morto, di cui restavano soltanto la testa e le spalle. Mi venne in mente di aver letto da qualche parte che le tigri divorano le loro prede cominciando dal dorso e mangiano tutto, anche le ossa. Intorno alla carcassa c'erano delle impronte. Sembravano di due tipi, ma la luce era così scarsa che non riuscivo a vedere bene. E c'erano anche orme di felino. Oh, Gesù! Continuai ad andare avanti, cercando di abituarmi alla penombra. Il fondo della galleria era cosparso di cocci di vetro. Qualcuno aveva rotto deliberatamente tutte le lampadine appese al soffitto. Quando sentii il ruggito, sussultai e a momenti lasciai cadere di mano la torcia. Non fu una gran reazione, da parte mia, lo ammetto, ma non mi era mai capitato di trovarmi in un posto sconosciuto insieme con una bestia feroce. L'eco del ruggito rimbombò tra le pareti della galleria, inaspettato e terrificante. Non sapevo cosa fare. Sentii la tigre ruggire una seconda volta e rimasi impietrito. Non riuscivo a spostarmi di un millimetro. Avrei voluto tornare indietro, ma non credevo di potercela fare, a quel punto. Non potevo pensare di correre più veloce di una tigre. Né in quella galleria né altrove. Nell'oscurità impenetrabile c'era una bestia feroce che mi osservava. Presi in considerazione l'ipotesi di spegnere la torcia, ma decisi che era
meglio vederla arrivare. Mi concentrai, fissai il buio davanti a me e restai immobile, come se potesse servire a qualcosa. Tenevo la Glock puntata davanti a me. Non sapevo se era possibile abbattere una tigre con un colpo di pistola, non ero pratico di quel genere di cose, ma nutrivo forti dubbi. Non vedevo niente, ma immaginavo benissimo i trenta denti affilati che aveva in bocca. Ricordavo le ferite delle vittime del Golden Gate Park. Sentii una voce. C'era qualcuno alle mie spalle. «Alex? Dove sei, Alex?» Jamilla. Tirai un sospiro di sollievo. «Ferma», le bisbigliai. «Non fare assolutamente nulla. La tigre è qui.» Non osavo muovermi. Non ero nemmeno sicuro di riuscire a farlo, peraltro. Era tutto fermo. Non credevo che la tigre fosse spaventata quanto me, tuttavia. C'era anche il Sire? I due fratelli? Chi altri? «Alex?» Era Kyle. Parlava a voce bassissima. Ma se l'avevo sentilo io... «Sta' fermo dove sei, Kyle. Dammi retta. Non ti muovere, a meno che tu non mi voglia morto.» Accadde tutto in un attimo. Fu spaventoso. La tigre spiccò un balzo, così veloce che vidi soltanto un'ombra, una sagoma che mi si precipitava addosso. Saltò nel fascio di luce della torcia, muscolosa, scattante, con le fauci spalancate e gli occhi più feroci e brillanti che avessi mai visto. Puntò dritta su di me, come un proiettile mortale. Fu un balzo straordinariamente atletico, una dimostrazione di forza incredibile. Sembrava volare verso di me, inarrestabile. Non avevo scelta, non avevo alternative, non avevo il minimo margine di errore. Non avevo nemmeno il tempo di pensare. Agii e basta. Premetti il grilletto e sparai tre colpi in rapida successione. Mirai alla testa e al petto, o almeno così speravo. La tigre continuò ad avanzare, senza rallentare minimamente. Non basta un colpo di pistola a fermare una bestia di quelle dimensioni, vero? Non sapevo come difendermi, non potevo scappare, non potevo nascondermi. Mi colpì con estrema violenza, sbattendomi a terra come un fuscello. Mi aspettavo di sentirmi azzannare da un momento all'altro. Non so se gridai, non so che cosa feci, so soltanto che non avevo mai avuto così paura in tutta la mia vita. Ma l'animale proseguì. Andò oltre. Era assurdo, incomprensibile. A pochi metri di distanza udii un tonfo. Era caduta per terra. Avevo sparato a
una tigre, e l'avevo uccisa. 90 «Oh, merda! Oh, merda!» esclamò Jamilla. Poi sorrise. «Gesù, non ci credo.» Guardò la bestia feroce che un attimo prima aveva cercato di sbranarmi, adesso crollata ai suoi piedi. Mi sforzai di tirarmi su e di muovere le gambe. Percorsi la distanza che mi separava da Jamilla e Kyle a piccoli passi. La tigre giaceva in mezzo alla galleria, immobile. «Sono qui sotto i 'ragazzi perduti'?» chiese Kyle in un sussurro. «E il Sire?» «Non ho visto nessuno. Soltanto orme e la tigre. Andiamo», dissi alla fine. La galleria era molto più lunga di quello che immaginavo. Non ero sicuro nemmeno della direzione in cui stavamo andando. Verso la strada? Le montagne? Il mare? «Ho piazzato degli uomini lungo tutto il perimetro della proprietà, che sarà cinque o seicento metri. Purtroppo siamo pochi per un'area così vasta», osservò Kyle. «Peccato.» Non replicai. Ero ancora sotto shock, avevo il batticuore e temevo di svenire. «Alex?» disse Jamilla. «Ci sei? Stai bene?» «Datemi soltanto un minuto. Fra un momento starò di nuovo benissimo. Andiamo avanti.» Poco dopo vedemmo un bagliore. Era incoraggiante. Ma dove saremmo spuntati? «Non si riesce a capire quanto è lontana l'uscita», commentai. «Né cosa c'è tra qui e la luce.» Sfiorai qualcosa con un fianco. Poi lo sentii anche con la spalla. Feci un salto all'indietro e rabbrividii. Era una valvola che sporgeva dalla parete della galleria. Non era niente, ma mi ero preso lo stesso un grande spavento. Poi riuscii a vedere fuori, anche se soltanto parzialmente: due cipressi inclinati dal vento, una striscia di cielo grigio. Non era distante, trenta o quaranta metri. Di solito la parte più pericolosa di un'incursione è quella iniziale. In quell'occasione, invece, era uscire dalla galleria buia. Mi voltai verso Jamilla e Kyle: «Vado prima io».
Sapevo di essere un tiratore migliore di Kyle ed ero fisicamente più forte di Jamilla. O perlomeno così credevo. Inoltre, eravamo abituati a fare in quel modo da diversi anni: dopo Gary Soneji, Casanova, Geoffrey Shafer, adesso toccava ai fratelli Alexander e al loro Sire. Vado sempre per primo. Per quanto ancora resisterò? Perché faccio questo? «Non ti dimenticare che sono uomini anche loro», mi ricordò Jamilla. «Sanguinano come tutti.» Avrei voluto crederle. Avanzai rapido e silenzioso e all'imbocco della galleria esitai. Presi fiato. Uno, due, tre... Via! Non so perché, ma uscendo alla luce gridai con tutto il fiato che avevo in gola. Non pronunciai parole. Lanciai un urlo e basta. Forse in realtà so anche il perché: avevo paura di quei due assassini, della loro setta spietata, del Sire. Avranno anche sanguinato come tutti, ma non erano umani. Non erano come noi. Mi trovai in un avvallamento fra le colline. Non vidi nessuno. Nessuna traccia recente. Eppure dovevano essere passati di lì per forza. La tigre doveva pur essere stata condotta nella galleria da qualcuno. Jamilla e Kyle mi seguirono fuori. Gli lessi negli occhi che erano delusi, stanchi e confusi. Ne sentii il rumore, prima di vederlo. Un pick-up nero stava scendendo giù dal pendio e puntava dritto contro di me. Potevo tornare nella galleria oppure tenere testa ai due assassini biondi a bordo. Li guardai in faccia e non mi mossi. 91 Le facce degli assassini brillavano, dietro il parabrezza del camioncino. Puntai la pistola, con la mano più ferma che potevo. Anche Jamilla e Kyle erano pronti ad aprire il fuoco. Il camioncino non accennava a rallentare, come sfidandoci a sparare. Raccogliemmo la sfida e il parabrezza andò in frantumi, mentre le pallottole rimbalzavano sul tettuccio e sul cofano. Gli spari erano assordanti e l'odore di cordite foltissimo. A un certo punto il pick-up inchiodò e ripartì in retromarcia, a tutta velocità. Io continuai a sparare, mirando al ragazzo alla guida del pick-up che si allontanava a tutta velocità in retromarcia, sbandando a destra e a sinistra. Mi misi a correre su per la salita con le gambe pesanti, come se avessi
avuto le suole di piombo. Non potevo lasciarmeli scappare. Avevamo fatto troppa strada per catturarli. Quei due avrebbero continuato a uccidere. Erano folli mostri. E lo era anche quello che li aveva mandati in missione. Jamilla e Kyle stavano arrancando dietro di me in mezzo all'erba, come al rallentatore, mentre il pick-up slittava e sbandava. Speravo che si ribaltasse. Sentii grattare il cambio e mi accorsi che improvvisamente avevano messo la marcia avanti. Ci stavano venendo addosso, e stavano prendendo velocità. Mi inginocchiai, presi bene la mira e piantai altre tre pallottole nel parabrezza già pieno di buchi. «Alex, togliti di lì!» mi gridò Jamilla. «Spostati, Alex! Subito!» Il camioncino continuava la sua corsa, ma io non mi mossi. Sparai verso l'uomo alla guida una volta, due. Ormai stava per investirmi. Era così vicino che mi parve di sentire il calore che emanava dal radiatore. Avevo la faccia e il collo sudati. Irrazionalmente pensavo che i vampiri si potessero uccidere soltanto piantandogli un paletto nel cuore, bruciandoli o distruggendo il dominio in cui riposavano durante il giorno. Ma io non credevo ai vampiri. Credevo nel male, però. L'avevo visto troppe volte, ormai. I due fratelli erano due assassini perversi. Nient'altro. Mi gettai da una parte un attimo prima di essere investito dal pick-up e gli corsi dietro giù per la discesa. Speravo che si ribaltasse. E, infatti, così avvenne. Provai un irresistibile desiderio di urlare. Rimbalzò pesantemente su una fiancata, poi sul tetto, e quindi rotolò giù finché non si arrestò su un fianco, vacillando. Dal motore si alzava fumo nero. In un primo momento, non scese nessuno. Poi vedemmo spuntare il minore dei due fratelli, con la faccia sporca di nero e di sangue. Non disse nulla. Ci fulminò con lo sguardo e poi ringhiò come un animale. Sembrava impazzito. «Non costringerci a sparare», gli gridai. Non parve sentirmi. Era accecato dalla rabbia. Michael Alexander aveva canini affilati, lunghissimi e sporchi di sangue. Il suo o di qualcun altro? Aveva gli occhi rossi. «Avete sparato a William! Avete ammazzato mio fratello!» ci urlò. «Lo avete ucciso. Lui, che era migliore di tutti voi messi insieme!» Ci caricò, ma io non ebbi il coraggio di sparare. Michael Alexander era
pazzo, non era più responsabile delle proprie azioni. Continuava a ringhiare, con la bava alla bocca. Roteava gli occhi, aveva lo sguardo feroce. Era teso allo spasimo. Non potevo ammazzare quell'adolescente tormentato. Mi preparai a bloccarlo. Speravo di riuscire ad atterrarlo. A quel punto Kyle sparò. Un unico colpo. Centrò Michael nel naso, aprendogli un foro nero al centro della faccia. Non ci furono né sorpresa né sgomento: soltanto l'oblio. Si accasciò a terra, morto. Avevo sbagliato sul conto di Kyle: era un ottimo tiratore. Era un professionista, pieno di sorprese. Dovevo rifletterci, ma non in quel momento. All'improvviso sentii un'altra voce. Veniva da dentro il pick-up. C'era qualcuno in trappola. William? William era ancora vivo? Mi avvicinai al camioncino con la massima cautela, la pistola in pugno. Il motore continuava a fumare. Avevo paura che esplodesse. Tra le lamiere contorte vidi William, con la faccia spappolata. Era certamente morto. Poi mi trovai di fronte gli occhi più incattiviti e arroganti che avessi mai visto. Li riconobbi subito. Pensavo che niente ormai potesse più scioccarmi, ma mi sbagliavo. «Allora sei tu», dissi. «Li avete uccisi e sarete uccisi. Morirete. Morirai, Cross!» minacciò una voce. Davanti a me c'era Peter Westin, l'esperto di vampiri che avevo conosciuto qualche settimana prima a Santa Barbara. Era ferito, pieno di tagli e sanguinante, ma era perfettamente padrone di sé, benché gli stessi puntando contro una pistola. Era freddo, superiore, sicuro. Mi ricordai di quando, seduto di fronte a me alla Davidson Library di Santa Barbara, mi aveva detto di essere un vero vampiro. A quel punto gli credevo. Finalmente trovai le parole per dirlo: «Sei tu il Sire». 92 Provai più volte a interrogare l'inquietante e surreale Peter Westin in prigione, quella sera a Santa Cruz. Kyle stava cercando di farlo trasferire sulla East Coast, ma io dubitavo che ci riuscisse. La California non l'avrebbe mollato facilmente. Westin indossava una camicia di velluto nero con le maniche lunghe e un paio di pantaloni neri di pelle. Era bianco come un cencio, e sulle tempie gli si vedevano le vene azzurrine sotto la pelle semitrasparente. Aveva labbra carnose e più rosse del normale. Non sem-
brava del tutto umano ed ero abbastanza sicuro che fosse un look studiato per far paura. Era estenuante stare nella stessa stanza con lui. Jamilla e io ne avevamo parlato brevemente e anche a lei faceva lo stesso effetto. Westin non aveva nessuna delle qualità normalmente associate all'essere umano: coscienza, socievolezza, emotività profonda, empatia. Era come se fosse completamente asservito al suo ruolo di Sire: un mostro, un vampiro, un assassino che succhiava il sangue alle proprie vittime. «Non cercherò di farti paura adottando le solite tecniche da interrogatorio», gli dissi pacato. Westin non mi stava nemmeno a sentire. Era annoiato? Indifferente? Troppo intelligente? Era una persona molto diversa dal normale, arrogante, superiore, uno che si notava nella folla, dotato di indubbio fascino. Aveva uno sguardo straordinariamente penetrante. Mi aveva fregato a Santa Barbara, fingendosi un innocuo studioso capace soltanto di raccomandare libri sui vampiri. Inclinò la testa da una parte e mi guardò negli occhi. Stava cercando qualcosa, anche se non sapevo che cosa. Ressi il suo sguardo e questo lo irritò. «Va' all'inferno», mi disse a un certo punto. «Che cos'hai nella testa, Peter?» gli chiesi dopo un po'. «Pensi forse che sono indegno di interrogare uno come te?» Sorrise, con un'ombra di calore. Volendo, sapeva essere affascinante. Me n'ero accorto in biblioteca, a Santa Barbara. «Anche se ti parlassi, anche se ti raccontassi tutto quello che provo e in cui credo, tu non mi capiresti. Ti confonderei ulteriormente le idee.» «Mettimi alla prova», lo sfidai. Sorrise, ma non aggiunse altro. «So che ti mancano William e Michael. Non vuoi darlo a vedere, ma li amavi. Questo almeno l'ho capito. So che provi sentimenti profondi.» A quel punto Peter Westin annuì quasi impercettibilmente. Fu un gesto regale. Sì, William e Michael gli mancavano. Avevo ragione. Gli dispiaceva che fossero morti. «È vero, detective Cross. Provo sentimenti più profondi di quanto pensi. Non ne hai idea. Non puoi nemmeno immaginare come ragiona uno come me.» Basta, non disse altro. Il Sire non aveva altro da dire. Noi poveri mortali non potevamo capire. Lo lasciai così. L'interrogatorio era finito.
PARTE QUINTA ULTIMA MOSSA 93 Mi sentivo meglio, un po' più sollevato. Il caso sembrava risolto, finalmente. Peter Westin era in prigione. Avevamo fatto tutto il possibile contro la sua strana setta. Le pressioni erano finite e così, speravamo, gli omicidi. Jamilla era partita la sera prima. Ci eravamo ripromessi di tenerci in contatto e sapevo che era vero. Stavo andando all'aeroporto, a prendere il volo da San Francisco per Washington. Ero contento di tornarmene a casa. Stavamo continuando a raccogliere dati, ma avevo il timore che non saremmo mai riusciti a farci un quadro completo di quella setta inconsueta e spietata nata in California. Succedeva spesso, alla Omicidi, di non riuscire a scoprire tutto quello che si sarebbe voluto. È un dato di fatto della professione di detective, anche se in televisione e al cinema non se ne parla mai. Probabilmente il finale sarebbe più frustrante, se fosse più realistico. Peter Westin aveva conosciuto Daniel e Charles quando si erano esibiti a Los Angeles. Aveva già i suoi seguaci a Santa Cruz e a Santa Barbara, ma si era finto fedele e sottomesso finché non si era sentito abbastanza forte da soppiantarli e diventare il Sire. Allora aveva mandato William e Michael Alexander a fare quello sporco lavoro in vece sua. Pareva contasse seguaci in quasi cento città, specie da quando la Rete aveva accorciato le distanze fra le persone. Ma c'era qualcosa che non mi convinceva. Non riuscivo bene a capire cosa, ma il tarlo continuò a rodermi fino a San Francisco. Sudavo freddo. Ma perché? Siccome dovevo aspettare quarantacinque minuti, scesi dall'aereo. Mi passavano per la testa un sacco di brutti pensieri. Mi sentivo teso, irritabile. Continuavo a pensare ai primi omicidi commessi a San Francisco. E a quello stronzo del Mastermind. Jamilla era a San Francisco. Ma questo era un altro discorso. Che cosa non mi convinceva? A un certo punto credetti di aver capito. Forse l'avevo sempre saputo. Chiamai Jamilla in ufficio e mi dissero che si era presa un giorno di ferie.
La chiamai a casa, ma non mi rispose. Forse era andata a correre, com'era sua abitudine. O forse era uscita con Tim Bradley dell'Examiner. Non erano fatti miei. Però... Dov'era? Le era successo qualcosa o ero io che stavo esagerando? Decisamente lavoravo troppo. Non era proprio il caso di ridurmi così. Assolutamente. Ma non potevo correre rischi. Andai subito al banco dell'American Airlines e cancellai la prenotazione per Washington. Chiamai Nana e le dissi che mi dovevo trattenere in California ancora qualche ora e sarei tornato in serata. «Ho paura che stia per succedere qualcosa a una persona», le spiegai. «Sì. A te», mi rispose lei. «Addio, Alex.» E riattaccò. Aveva ragione a volere che tornassi, ma avevo ragione anch'io a preoccuparmi dell'incolumità di Jamilla. Noleggiai un'automobile, con il sospetto di aver perso la testa. Mi vennero in mente le parole di Charles Manson: La paranoia è una forma estrema di conoscenza. Avevo sempre pensato che Manson avesse torto su tutta la linea, ma forse sull'argomento aveva qualcosa da insegnare. Jamilla Hughes era in pericolo. Era una sensazione che non riuscivo a togliermi di dosso e nemmeno a ignorare, ammesso e non concesso che volessi farlo. Era troppo forte, netta, inquietante. Ero noto per avere un istinto infallibile e non potevo non seguirlo. Pensavo alla mia ex collega Patsy Hampton, che era stata uccisa. A Betsey Cavalierre, che era stata uccisa. A Maureen Cooke di New Orleans. Da quando lavoravo alla Omicidi avevo smesso di credere nelle coincidenze. Ciononostante non avevo nessun motivo di credere che un assassino psicopatico volesse far fuori Jamilla Hughes, in California. Però me lo sentivo. Una forma estrema di conoscenza, Il Mastermind era vicino, lo sentivo. Aspettavo la sua chiamata. Ero pronto a incastrarlo una volta per tutte. Prontissimo. 94 Andai dall'aeroporto fino a casa di Jamilla incurante dei limiti di velocità. Provai a chiamarla dalla macchina, ma continuava a non rispondere.
Sudavo freddo. Non avevo mai seguito il mio istinto fino a quel punto. Cercavo di trovare la soluzione migliore. Una possibilità era chiamare il dipartimento di polizia di San Francisco, ma non mi piaceva. I poliziotti sono creature logiche e diffidano degli istinti altrui. La mia esperienza in fatto di psicopatici mi avrebbe reso credibile a Washington, ma non in California. Altrimenti avrei potuto chiamare l'FBI, ma decisi di evitarlo per diversi motivi. Legati all'istinto anche quelli, e sui quali volevo rimuginare ancora un po'. Avevo deciso di parcheggiare a un isolato di distanza da Texas Street, dove abitava Jamilla, ma prima salii fino in cima a Potrero Hill e feci un giro delle strade circostanti. Le case erano molto varie: dalle villette di legno dei primi del Novecento ai condomini di tre o quattro piani in cemento e alluminio. Si vedevano la baia, le banchine del Pier 84 e, in lontananza, Oakland. Passai davanti a New Potrero Market, J.J. Mac's, il North Star Restaurant. Era in quella zona che abitava Jamilla. Ma dov'era lei? Il traffico era intenso e speravo che la mia auto a noleggio non desse nell'occhio. Mi aspettavo di vedere Jamilla per strada con le borse della spesa o in tenuta da corsa dopo aver fatto jogging. Ma non fu così. Maledizione, dove si era cacciata? Non che non avesse diritto a prendersi un giorno di ferie, naturalmente. Non capivo di che cosa avessi paura esattamente, ma sapevo che mi ero sentito così per Patsy Hampton prima e per Betsey Cavalierre poi. Mi erano morte ammazzate due colleghe in due anni. E io non credevo nelle coincidenze. Patsy Hampton era stata assassinata da un diplomatico inglese che si chiamava Shafer, di questo ero abbastanza sicuro. L'assassino di Betsey non era ancora stato scoperto, ed era proprio questo che mi preoccupava. Continuavo a pensare al Mastermind. In qualche modo ormai io facevo parte della sua storia, del suo mondo fantastico. Ma come? E perché? Avevo ricevuto una sua telefonata una sera d'estate: Io sono quello che voi chiamate il Mastermind. È un nome che mi va a genio. Io sono davvero una mente superiore... Oh, divertiti a casa di Betsey Cavalierre. Io me la sono proprio goduta. L'aveva pugnalata selvaggiamente, persino in mezzo alle gambe. Odiava le donne, questo era evidente. Avevo conosciuto soltanto un altro assassino altrettanto misogino: Casanova, nel North Carolina. Ma ero sicuro che era morto e non poteva aver ucciso Betsey. Eppure c'era qualcosa che mi face-
va tornare in mente i fatti del North Carolina. Qual era il nesso? Trovai un posto e parcheggiai in salita a due isolati di distanza da casa di Jamilla, vicino a 18th Street. Abitava in una casa in stile vittoriano ristrutturata di recente, con i caratteristici bovindi che si vedono spesso a San Francisco. Molto bella, accogliente. Sugli alberi c'erano graziosi cartelli che annunciavano: AMICI DEL VERDE CITTADINO. La chiamai per l'ennesima volta dal cellulare. Nessuna risposta. Avevo il cuore che batteva all'impazzata e sudavo freddo. Dovevo fare qualcosa. Suonai il campanello, ma non mi rispose nessuno. Ma dove diavolo era? Sulle aiuole ordinate lungo il marciapiede c'erano altri cartelli: QUARTIERE SORVEGLIATO PER LA VOSTRA SICUREZZA. Speravo che fosse vero. Pregai il Signore che fosse così. Tornai alla macchina, irrequieto. Ero sempre più impaziente e nervoso. Riflettevo su chi poteva essere il Mastermind, pensavo all'omicidio di Betsey, a Casanova, al Visitatore Gentiluomo, a Kate McTiernan, che era stata rapita nel North Carolina. Ma perché mi veniva in mente proprio in quel momento? Qual era il nesso? Non riuscivo a scacciarmi dalla testa quei delitti efferati e orribili. No, Jamilla no. Non poteva succedere di nuovo. Non volevo che capitasse qualcosa anche a lei. Mentre ero lì che mi tormentavo, mi squillò il telefono. Risposi subito. Era lui. Stava giocando al suo gioco crudele. Sembrava vicinissimo. «Dove sei, dottor Cross? Credevo tornassi a casa dai tuoi pargoletti. Forse avresti dovuto, sai? Hai finito il tuo lavoro qui. Non ti resta altro da fare. Niente di niente. Non vorrai che succeda qualcosa a Nana o ai bambini, no? Sarebbe la cosa peggiore, non credi? La cosa peggiore in assoluto.» 95 Telefonai subito a Nana a Washington. O non era in casa o era ancora arrabbiata con me: in ogni caso non mi rispose. E dai, tira su la cornetta, per favore... Riprovai più volte, ma senza risultato. Su, forza, rispondi. Rispondi, rispondi! Avevo la fronte e il collo sudati. Era il mio incubo peggiore, la mia paura più terribile diventata realtà. Che cosa potevo fare, da San Francisco? Chiamai Sampson e gli chiesi di correre a casa mia a controllare e poi ri-
chiamarmi subito. Non provò nemmeno a discutere. «Mando una pattuglia immediatamente. Sarà là fra pochi minuti. Vado anch'io e ti richiamo, Alex», mi promise. Mi sedetti in macchina ad aspettare con ansia la telefonata. Mi venivano pensieri orribili, immaginavo le cose più atroci, ma non potevo fare niente né per Jamilla, se era nei guai, né per la mia famiglia a Washington. Pensavo al Mastermind e a come si era comportato in passato. Cominciava con la provocazione, la beffa e poi, quando meno me l'aspettavo, colpiva al cuore. Quando meno me l'aspettavo. Fatti, non parole. Omicidi efferati. Sapeva che non ero tornato a Washington: sapeva anche con certezza che ero a San Francisco? Non riuscivo a trovare la lucidità di cui avrei avuto bisogno. Era possibile che fosse lì, nella strada dove abitava Jamilla? Mi stava osservando? Si era dimostrato in gamba abbastanza da seguirmi senza farsi notare. Che si preparasse alla resa dei conti? Mi squillò di nuovo il cellulare. Trafficai con i pulsanti, con il cuore in gola. «Cross», dissi. «Tutto okay, Alex. Sono a casa tua con Nana e i ragazzi: stanno tutti bene. Sono qui con me.» Chiusi gli occhi e tirai un sospiro di sollievo. «Passami Nana. Se dice che non mi vuole parlare, insisti. Ho bisogno di decidere con lei cosa fare da adesso in poi.» 96 Sampson promise di restare con Nana e i ragazzi fino al mio ritorno. Non c'era nessuno di cui mi fidavo di più, nessuno al mondo con cui sarebbero stati più sicuri, ma io continuavo a non essere tranquillo. E questo mi pesava tremendamente. Non me la sentivo di ripartire dalla California prima di aver rintracciato Jamilla ed essermi assicurato che stesse bene. Alla fine chiamai Tim Bradley all'Examiner. Non sapeva dove fosse e nemmeno che si fosse presa un giorno di ferie. Forse era andata fuori città per distrarsi. Forse voleva dimenticare per un po' di essere una detective. Iniziavo a pensare di aver sbagliato a fermarmi a San Francisco. Più re-
stavo lì davanti a casa di Jamilla, più me ne convincevo. Ero troppo esaurito: forse il mio istinto mi aveva tradito. Ogni volta che prendevo in considerazione l'ipotesi di andarmene, però, mi tornava in mente la sera in cui ero andato a casa di Betsey Cavalierre e l'avevo vista morta. E comunque il mio istinto non mi aveva mai tradito, in tanti anni di lavoro. Avevo sempre dato retta alle mie sensazioni, all'intuito, all'esperienza passata. Ma forse la mia era soltanto cocciutaggine. Rimasi al mio posto, a sorvegliare la casa di Jamilla. Scesi dalla macchina un paio di volte per sgranchiimi le gambe, poi ritornai in macchina ad aspettare. Mi sentivo ridicolo, ma non volevo cedere. Chiamai di nuovo Sampson. A casa mia era tutto okay. Un altro ispettore della Omicidi che conoscevo, Jerome Thurman, aveva raggiunto Sampson in 5th Street. Contro il Mastermind era meglio essere in due. Sarebbero bastati? A un certo punto vidi Jamilla arrivare a bordo della sua Saab. Battei le mani, poi diedi un pugno sul cruscotto. Per fortuna era viva. Finalmente era arrivata! Parcheggiò poco distante da casa sua, in Texas Street, e scese dalla macchina con una sacca da ginnastica della University of San Francisco. Avrei voluto correrle incontro e gettarle le braccia al collo, ma rimasi dov'ero. Aveva la coda di cavallo, una maglietta azzurra e un paio di pantaloni della tuta grigi. Stava bene. Non le era successo niente. Il Mastermind non l'aveva ammazzata. Guardai dal parabrezza per accertarmi che non la stesse seguendo nessuno. Una parte di me avrebbe voluto ripartire subito per Washington, ma continuavo a pensare a Betsey Cavalierre e a cosa le era successo dopo aver lavorato con me. Ma perché? Perché se la prendeva con le mie college? Avrei quasi preferito non sapere niente. Le diedi il tempo di rientrare in casa e la chiamai dal cellulare. «Risponde la segreteria telefonica di Jamilla Hughes. Per favore, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.» Porca miseria, quanto odiavo quegli aggeggi! Io non l'avevo. «Jamilla, sono Alex Cross. Chiamami, per favore: è importante...» «Ciao, Alex. Dove sei? Come stai?» Mi accorsi dal tono che sorrideva e mi sembrò che il suo umore fosse completamente fuori posto, per come mi
sentivo io. «Stai attenta, ti prego», continuai, e le spiegai perché ero preoccupato per lei. Alla fine dovetti capitolare e dirle che ero sotto casa sua. «Be', ma allora vieni su», mi disse. Non c'erano né recriminazioni né sorpresa nella sua voce. «Mi sembra che la tua sia una reazione esagerata, ma parliamone. Penso che sia meglio, no?» «No, senti, preferisco stare qui ancora un po'. Spero che tu non mi prenda per pazzo. L'assassino di Betsey Cavalierre ha continuato a telefonarmi, dopo averla uccisa. Potrebbe essere qui a San Francisco. Betsey è morta subito dopo che avevamo chiuso il caso cui lavoravamo insieme, e la Cooke è morta dopo l'assassinio dei due maghi a New Orleans.» Questo le diede da pensare. «Be', Alex, ti sento molto agitato, ma ti capisco. Capisco benissimo. E mi commuove che tu ti sia fermato a San Francisco per proteggermi. La fine della collega che lavorava con te in effetti mi fa venire i brividi.» Stavo meglio, ora che sapevo dov'era Jamilla e che le avevo parlato. Dopo la telefonata, rimasi in macchina a sorvegliare la strada. Nel corso degli anni avevo imparato a seguire il mio istinto anche quando si scontrava con la logica e con quello che pensavano tutti gli altri. Non so quante volte avevo pensato alla morte di Betsey e mi ero domandato chi l'aveva uccisa, ma in quel momento mi posi per l'ennesima volta quella domanda. Rimasi lì appostato per parecchie ore. Jamilla e io ci parlammo un paio di volte. Voleva che salissi da lei, ma io le dissi di no. «Lasciami fare a modo mio.» Si stava facendo tardi, però, e io cominciavo a dare segni di cedimento. Vidi le luci in casa di Jamilla spegnersi. Buon per lei. Almeno uno di noi si comportava in maniera normale. Continuai ad aspettare. Avevo una sensazione brutta, orribile, che non riuscivo a scrollarmi di dosso. E nello stesso tempo era come se non volessi affrontare la realtà, guardarla in faccia: avevo tutti gli elementi, ma non volevo metterli insieme nel modo corretto. Mi ero fidato del mio istinto, ma non mi aveva portato da nessuna parte... Poi lo vidi. E tutto acquistò una nuova prospettiva. Di colpo tutto fu chiaro, tutti i pezzi del puzzle combaciavano. Non soltanto l'omicidio di Betsey, ma anche quello di Casanova, la vicenda di Kate McTiernan, il fatto che fosse sempre stato un passo avanti a me. L'assassino era lì, sotto casa di Jamilla. Il Mastermind era a San Francisco.
Ne ero sicuro, e il solo pensiero mi faceva accapponare la pelle, oltre a riempirmi di delusione, di tristezza, di confusione. Mi veniva da vomitare. Era Kyle Craig. Osservava la casa di Jamilla, preparandosi ad aggredirla. Era folle, malato. Era il Mastermind. Ed era venuto fin lì per ucciderla. Come potevo impedirglielo? 97 «Jamilla, sei sveglia?» chiesi a voce bassissima, tesa. Avevo i brividi. Peggio di così non poteva andare. Tenevo d'occhio Kyle. Stava osservando la casa di Jamilla, il bastardo. «Adesso sì. No, dormivo. Dove sei, Alex? Non dirmi che sei ancora lì fuori, ti prego. Ma cosa diavolo sta succedendo?» «Stammi a sentire. Il Mastermind è sotto casa tua, lo vedo da qui. Penso che cercherà di entrare, fra poco. Voglio venire su senza farmi vedere. C'è una porta di servizio?» E poi le dissi chi era. Ebbe un accesso d'ira e inveì contro Kyle. «Lo sapevo che aveva qualcosa che non andava, ma non fino a questo punto. Dobbiamo fermarlo, quello stronzo. Non me ne frega niente se è una mente superiore.» Mi spiegò dov'erano l'ingresso di servizio e la scala antincendio che mi avrebbe portato fino a casa sua. Mi diressi di corsa da quella parte, tenendomi nell'ombra. Non credevo che Kyle mi avesse visto, o almeno lo speravo, ma era pur sempre il Mastermind. Era in gamba, era forse il più furbo di tutti i criminali cui avevo dato la caccia. Sapeva sorvegliare una casa molto meglio di me. Non commetteva errori. O, perlomeno, non ne aveva ancora commessi. Trovai facilmente la porta di servizio e corsi su per le scale, cercando di non fare rumore. Non sapevo dov'era Kyle in quel momento. Quando arrivai al piano, trovai la porta di casa di Jamilla socchiusa e mi sentii morire. «Jamilla?» Si affacciò subito. «Entra, Alex. Adesso siamo noi ad averlo in pugno. Non il contrario.» Entrai di corsa. Le luci erano spente, ma vedevo il salottino, la cucina e la porta che conduceva sulla terrazza. C'era una panchina. Kyle non c'era più. Era passato all'azione. Jamilla non sembrava impaurita, ma perplessa e arrabbiata. Aveva e-
stratto la pistola d'ordinanza ed era pronta a tutto. Non credo che avessi assimilato del tutto l'enormità di quello che avevo appena scoperto. Sembrava tutto irreale, incredibile. Ero nervoso, agitato. Kyle Craig era stato mio amico, avevamo lavorato insieme a decine di casi. «Ma perché è lì fuori, Alex?» mi chiese alla fine Jamilla. «Perché ce l'ha con me? Non capisco. Che cosa gli ho fatto?» La guardai negli occhi, esitante, poi mi decisi: «Non ce l'ha veramente con te. Non credo, almeno. Io sono il bersaglio. Questa è una cosa fra Kyle e me. Sono diventato parte delle sue fantasie, delle storie che si racconta giorno dopo giorno. Sta cercando di dimostrare a se stesso che è migliore di me. Deve dimostrare che è lui il Mastermind, la mente superiore». 98 Il Mastermind aveva già fatto la sua mossa, pur sapendo che era soltanto un mezzo passo avanti verso la realizzazione del suo piano. Si era tirato indietro. Era a sei isolati dalla casa di Jamilla Hughes, oltre il Jackson Playground. Da lì poteva vedere la casa, il bovindo, la terrazza. Gli piaceva imporre la propria volontà sul mondo in maniera non negoziabile, affermare il proprio ego. Lo faceva da oltre dieci anni e nessuno l'aveva mai preso, nessuno aveva mai nutrito il minimo sospetto. Cross era entrato nella casa, rendendo tutto o molto più difficile o molto più facile. Presto avrebbe dovuto prendere un'altra decisione: gli conveniva rischiare o cambiare tutto? Da anni conduceva una doppia vita che gli costava molta fatica. Aveva sempre fatto quello che voleva, ovunque voleva, ogni volta che gli saltava il ghiribizzo. Si era goduto la sua libertà. Quanti altri potevano dire di aver gustato quel frutto proibito? Aveva fatto sia la guardia sia il ladro. Ma adesso, forse, era venuto il momento di cambiare qualcosa. La sua vita era diventata troppo sicura, troppo prevedibile. Gli piacevano le sfide, in quello era come Casanova e il Visitatore Gentiluomo, due assassini di grande talento che aveva conosciuto bene, e che operavano uno nel North Carolina e l'altro nel Sud della California. Era d'accordo con Casanova sul fatto che l'uomo è cacciatore per natura. E infatti lui cacciava, e uccideva uomini e donne con uguale piacere. Ma non bastava. Kyle dava la caccia anche agli assassini, eliminava i concorrenti, li batteva al loro stesso gioco.
Conosceva Casanova già anni prima di catturarlo insieme al dottor Cross. Aveva giocato con lui e anche con il Visitatore Gentiluomo. Il collezionista. Kyle si era addirittura innamorato di una delle vittime, la giovane Kate McTiernan. Aveva ancora un debole per la dolce, cara Kate. Era stato molte cose per così tante persone, aveva interpretato così tante parti... Ed era soltanto all'inizio. Era stato il Mastermind, ma aveva anche contribuito all'arresto dell'uomo che tutti credevano il Mastermind. Chi meglio di lui era in grado di ordire un mistero e al tempo stesso di svelarne un altro? Aveva ucciso a Baltimora, a Cincinnati, a Roanoke in Virginia, a Philadelphia, finché non si era stufato di quelle città e dei ruoli minori che vi interpretava. Era il marito di Louise, il padre di Bradley e Virginia. Era un uomo di punta dell'FBI, ma adesso aveva un problema: temeva di essere stato scoperto. Anzi ne era sicuro, benché li ritenesse una massa di idioti incompetenti. Con una vita così camaleontica, Kyle Craig a volte non sapeva più nemmeno chi era. Era ora di chiudere la partita con Alex Cross. Aveva sentito il bisogno di tormentarlo e di prendersi gioco di lui, di dimostrargli che poteva manovrarlo a suo piacimento, ma forse si era lasciato trasportare un po' troppo uccidendo Betsey Cavalierre, uno dei suoi stessi agenti. Non che avesse potuto evitarlo, peraltro: la Cavalierre si era insospettita nel corso delle indagini sul Mastermind e quindi doveva sparire. Doveva morire. Adesso toccava a Cross. Era un uomo fiducioso, leale, e questo era il suo difetto, il suo punto debole. Ma prima o poi avrebbe capito, se non l'aveva già fatto. E, naturalmente, l'istinto aveva suggerito ad Alex di proteggere Jamilla Hughes. Cross aveva bisogno di essere buono, protettivo, eticamente corretto. Che spreco intellettuale... Peccato che non si fosse dimostrato un avversario migliore. Alex l'aveva visto sotto casa di Jamilla Hughes. E adesso? Doveva avere l'adrenalina alle stelle, e questa era una cosa buona. Gli restava poco tempo per decidere. Che fare? Erano tutti e due nell'appartamento della Hughes. Craig era in vantaggio. E non aveva nessuna intenzione di perderlo. Fece la sua mossa. 99
«Sai, Alex, Kyle Craig non mi è mai piaciuto», disse Jamilla mentre aspettavamo al buio, nel suo appartamento. «Mi è sempre sembrato così freddo, quasi meccanico. E poi odia le donne, me ne sono accorta subito.» «Invece purtroppo a me Kyle piaceva. È stato astutissimo. Ha persino cercato di rintracciare le chiamate del Mastermind, quando eravamo insieme. Devo cercare di capire bene che tipo di personalità ha. Non credo che sia psicotico. È organizzato, sa gestire piani elaborati. Per una volta, mi auguro che mi chiami.» «Sta' attento a cosa ti auguri», mi ammonì Jamilla. Eravamo seduti vicino alla libreria del salotto, sul parquet. Jamilla aveva anche una panca per fare ginnastica. Un modello vecchio, niente di eccezionale. Accanto c'erano manubri da due e da cinque chili, riviste e supplementi del Chronicle. Speravo che Kyle non potesse vedere dentro l'appartamento, che non avesse né un binocolo né un visore notturno, magari montato sul fucile. Sapevo che era un ottimo tiratore, me n'ero accorto quando aveva sparato a Michael Alexander. Quell'uomo aveva un sacco di qualità. In ogni caso, ci tenevamo a distanza di sicurezza dalle finestre. «Mi gira la testa, se penso a cosa ha combinato finora. E mi chiedo quante cose non conosciamo», disse Jamilla. «Se lo catturiamo, ce le dirà. Sono sicuro che si vanterà di quello che ha fatto. Se verrà qui stasera, probabilmente scopriremo tutto.» «Pensi che sappia che sei qui?» Sospirai e alzai le spalle. «È probabile. Forse ha deciso di scoprire le sue carte stanotte. Di una cosa sono sicuro: non farà quello che ci aspettiamo. Il Mastermind ti coglie sempre di sorpresa. È l'unica caratteristica costante del suo modo di operare.» Discutemmo se chiamare o no rinforzi. Jamilla era contraria, pensava che Kyle si sarebbe spaventato. Voleva noi due, giusto? E noi due avrebbe avuto. Vuoi continuare a prendermi in giro? Avanti, bastardo, fatti sotto. Sono qui, Kyle. E così rimanemmo seduti al buio. Era quasi piacevole. A un certo punto Jamilla mi prese per mano e ci avvicinammo, appoggiandoci l'uno all'altra. L'attesa era lunga. «Almeno stiamo comodi», mi sussurrò. «Rispetto a certi appostamenti...» «Casa dolce casa, no?» Mancavano pochi minuti alle quattro, quando sentimmo dei rumori fuori
della porta. Jamilla si voltò e mi guardò. Puntammo la pistola. Per la prima volta presi in considerazione l'ipotesi di sparare a Kyle, un uomo che fino a poco prima avevo ritenuto un amico. L'idea non mi piaceva e il fatto di non riuscire a immaginare come avrei reagito mi faceva paura. Sentimmo un rumore di passi sulla terrazza. Da un certo punto di vista ero sollevato: la resa dei conti che Kyle tanto desiderava finalmente era vicina. Il mondo fantastico in cui si illudeva di vivere da tempo aveva preso il sopravvento, o almeno così pensavo. Forse ormai la sua era diventata una psicosi. E questo ci avrebbe messo in una posizione di vantaggio. «Sta' attenta», sussurrai a Jamilla, sfiorandole il dorso della mano. «Cerca di vedere le cose dal suo punto di vista. Kyle pensa di trovarci esattamente dove vuole trovarci.» Scassinò la serratura della portafinestra con gesti rapidi ed esperti, senza il minimo sforzo. Evidentemente aveva già fatto un giro di ispezione e sapeva dell'esistenza della scala antincendio e della terrazza. Si udì il lieve rumore della serratura che scattava. Ma dopo non successe niente. «Tutto bene», bisbigliò Jamilla. «Stavolta vinciamo noi.» Aspettammo nell'ombra, vicino alla portafinestra. Dopo un po' questa si aprì lentissimamente e Kyle entrò, avanzando verso di noi accucciato. Non ci aveva visto, ma noi lo vedevamo. Lo colpii con tutto il mio peso, con tutta la mia forza. Lo mandai a sbattere con violenza contro il muro, facendo vibrare la casa. Dagli scaffali caddero libri e soprammobili. Mi sorpresi quasi di non aver sfondato la parete. Gli sferrai una gomitata sul mento, più forte che potei. Lo feci con gusto. Kyle era muscoloso, forte, ma io ero pieno di adrenalina. Gli mollai un destro sulla mascella, lo colpii al plesso solare. Lo feci piegare in due. Stavo per colpirlo di nuovo, quando Jamilla accese le luci. Mi sentii salire il sangue alla testa. Non era Kyle Craig. 100 «Giù! Sta' giù! Sotto la finestra!» gridai a Jamilla. Avevo paura che Kyle le sparasse da fuori. Probabilmente era appostato all'esterno della casa, e sapevo che era un ottimo tiratore. Jamilla seguì il
mio consiglio e si sdraiò per terra, con la faccia rivolta verso di me e l'uomo che avevo aggredito e che mi guardava con aria confusa. Ma chi era? Che cosa era successo? Cosa voleva? Dov'era Kyle? Jamilla gli puntava contro la pistola d'ordinanza, con mano straordinariamente ferma. L'uomo perdeva sangue dal naso. Era robusto, sui trent'anni, scuro di pelle, con i capelli corti. Non capivo più niente. «Ma chi sei? Che cosa sei venuto a fare qui?» gli urlai. «FBI», rispose quello con un filo di voce. «Sono un agente federale. Metti giù quella pistola. Subito.» Jamilla alzò la voce. «Sono della polizia di San Francisco e non ho nessuna intenzione di mettere giù la pistola. Che cosa ci fai in casa mia?» gridò. Mi sembrava di leggerle in faccia quello che pensava: non era bello. «Avanti, parla!» L'uomo scosse la testa. «Non sono tenuto a rispondere alle vostre domande. Ho il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni, con il distintivo e il documento d'identità. Sono dell'FBI, per amor del cielo!» «Stai giù!» gridai. «Potrebbero sparare da fuori. È stato Kyle Craig a mandarti qui?» domandai. Capii la risposta dalla faccia che fece, ma si rifiutò di confermare o negare. «Ve l'ho già detto, non sono obbligato a rispondere.» «Voglio proprio vedere», replicò Jamilla. Feci l'unica cosa che potevo, date le circostanze: chiamai l'FBI. Arrivarono quattro agenti della sede di San Francisco alle cinque appena passate. Continuavamo a stare lontani dalle finestre, benché dubitassi che Kyle fosse ancora nei paraggi, o addirittura a San Francisco. Il Mastermind era sempre un passo avanti. Avrei dovuto saperlo che non avrebbe fatto quello che ci aspettavamo. Gli agenti, esasperati, provarono per alcune ore a mettersi in contatto con Kyle Craig. Non riuscendoci, si agitarono e cominciarono a dare credito alla mia storia, secondo cui dietro anni di efferati delitti poteva esserci Kyle. Era stato lui a mandare l'agente a casa di Jamilla. Gli aveva ordinato di introdurvisi furtivamente, perché era stato assassinato un ispettore della polizia di San Francisco e Alex Cross era in quella casa. Poi la situazione si fece scottante. Per colpa mia. 101
Alle sette e mezzo del mattino, ero al telefono con Ronald Burns, il direttore dell'FBI. Dal suo tono cauto e diffidente mi resi conto che non mi avrebbe chiamato da Washington, se non avesse avuto le prove che la faccenda era davvero grave. Io ero confuso e addolorato, ma mi sembrava una reazione sana. Il folle era Kyle Craig, non io. «Mi dica quello che sa, direttore», lo pregai. «Io conosco bene Kyle, ma lei dev'essere sicuramente al corrente di cose che io ignoro. Me ne parli. E indispensabile che abbia un quadro completo della situazione.» Burns non rispose subito. Rimase in silenzio a lungo. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che era amico di Kyle, o perlomeno lo era stato. Ci eravamo ingannati tutti per un sacco di tempo. Eravamo stati fregati, traditi da una persona di cui ci fidavamo. Alla fine disse: «Probabilmente la cosa risale al periodo del Collezionista, o forse ancora prima. Lei sa che Kyle ha studiato alla Duke University. Conosceva Will Rudolph, il Visitatore Gentiluomo, dai tempi dell'università. Durante le indagini potrebbe aver ucciso la giornalista Beth Lieberman del Los Angeles Times, che sapeva troppe cose su Will Rudolph». Chiusi gli occhi e scossi la testa. Avevo partecipato anch'io a quelle indagini. Sapevo che Kyle aveva fatto la Duke University, ma non che conosceva l'assassino che aveva terrorizzato tutta Los Angeles. Benché in quel periodo avessi nutrito qualche sospetto su di lui, Kyle aveva sempre alibi perfetti. Adesso capivo il motivo. «Perché non mi ha mai detto niente?» domandai a Burns. Stavo cercando di capire qual era la posizione ufficiale dell'FBI. Fino a quel momento mi pareva incomprensibile. «Abbiamo cominciato a sospettare di Kyle soltanto dopo l'omicidio di Betsey Cavalierre. Neanche allora avevamo lo straccio di una prova, tuttavia. Non sapevo se Kyle era un possibile assassino o il miglior agente del Bureau.» «Cristo santo, avremmo potuto parlarci! Avremmo dovuto farlo. Adesso rischiamo di lasciarcelo sfuggire. Avrebbe dovuto dirmelo. Spero che almeno adesso si sia deciso a mettere le carte in tavola.» «Senta, Alex, lei ne sa tanto quanto noi, se non di più. Spero che sia, lei a dirci tutto, adesso.» Finito di parlare con Burns, chiamai Sampson a Washington. Gli spiegai gli ultimi sviluppi della storia. Aveva fatto trasferire Nana e i bambini dalla casa di 5th Street in un luogo di cui soltanto lui e io eravamo a conoscen-
za. «Tutto bene lì?» chiesi. «Si sono ambientati?» «Stai scherzando, vero, Alex? Nana è inferocita come non l'ho mai vista prima. Se Kyle Craig dovesse venire a cercarla, penso che avrebbe la peggio. I ragazzi stanno bene, comunque. Non sanno cosa succede, ma hanno intuito che non è una bella situazione.» Lo misi di nuovo in guardia. «Non li lasciare nemmeno per un minuto, nemmeno per un secondo, John. Tornerò a Washington con il prossimo volo. Non so come potrebbe mai scoprire dove siete, ma non bisogna sottovalutare Kyle Craig. È a piede libero ed è pericoloso. Non so perché, ma vuole fare del male a me e alla mia famiglia. Se riesco a capire il motivo, forse posso fermarlo.» «E se non ci riesci?» La sua domanda restò senza risposta. 102 Dovevo salutare di nuovo Jamilla Hughes. Ogni volta facevo un po' più fatica. Ne avevamo passate di tutti i colori insieme, in pochissimo tempo. Mi feci promettere che per qualche giorno sarebbe stata estremamente prudente, a costo di sembrare paranoica, e finalmente salii sul volo che mi avrebbe riportato a casa. Le telefonate misteriose erano altrettanto misteriosamente finite, ma anche questo segnale mi preoccupava. Non sapevo dove fosse Kyle, né cosa stesse facendo. Mi stava ancora tenendo d'occhio? Mi aveva seguito fino a Washington? Non avrei dovuto indulgere in simili pensieri, ma lo facevo. Non riuscivo a smettere. Mi stava guardando da un binocolo mentre camminavo a Chapel Gate, nel Maryland, a una trentina di chilometri da Baltimora, diretto a casa di mia zia Tia? Come faceva a sapere che ero lì? Be', Kyle era un professionista, sapeva un sacco di cose. Avrebbe potuto fregare sia me sia Sampson? No, questo non lo credevo. Ma non ne avevo l'assoluta certezza. I ragazzi erano contenti della vacanza fuori programma, e la zia Tia probabilmente li stava viziando come aveva fatto con me da piccolo. «Non è niente, non è niente», dice sempre servendoti una fetta di torta calda a metà pomeriggio o presentandoti un regalo inaspettato. Nana si dimostrò più comprensiva di quanto avevo immaginato. Ma forse le faceva piacere pas-
sare un po' di tempo con la sua «sorellina». Zia Tia era più giovane di Nana, avendo «soltanto» settantotto anni, ma era in gamba, vestiva alla moda ed era una cuoca favolosa. Quella sera le due sorelle avevano preparato penne al gorgonzola, broccoli e torta alla cannella con le noci. Mangiai come se fosse la mia ultima cena. Poi giocai e chiacchierai con i ragazzi fino alle undici, molto più tardi di quanto fossero abituati a fare di solito. Non erano angioletti, certo, ma generalmente con loro passavo momenti più belli che brutti. O forse tendo a conservare soltanto i ricordi migliori. E perché non dovrei, comunque? Sono i miei figli e li amo più della mia stessa vita. E questo vorrà pur dire qualcosa. Tornai a Washington il mattino dopo. Alla mia famiglia era stata assegnata una squadra di agenti dell'FBI. Era il genere di attenzione di cui avrei preferito non aver mai bisogno. Francamente, avevo una paura fottuta. Quel pomeriggio andai a una riunione nella sede dell'FBI e scoprii che oltre quattrocento agenti erano stati assegnati alle indagini su Kyle Craig. Fino a quel momento i media non avevano intuito niente, ma Burns raccomandò la massima cautela. Ero d'accordo con lui. Volevo che lo prendessimo il prima possibile, prima che uccidesse di nuovo. Ma con chi se la sarebbe presa adesso? Chi avrebbe cercato di uccidere? 103 «Christine, sono Alex», dissi, con lo stomaco stretto dall'ansia. «Scusa se ti disturbo, ma è molto importante.» Di questo, almeno, ero sicuro. Mio Dio, quanto avrei preferito non dover fare quella telefonata. «E per il piccolo Alex? Sta bene?» mi chiese. «Nana?» «No, no. Tutti bene.» Era una mezza verità. Seguì un silenzio breve, imbarazzato. Christine e io eravamo stati sul punto di sposarci, poi lei mi aveva piantato, perché non poteva sopportare di vivere con un detective della Omicidi. Troppe brutture. Come quella che stavo per comunicarle. «Alex, è successo qualcosa, vero? È tornato Geoffrey Shafer?» Sembrava spaventata e mi dispiaceva per lei. Geoffrey Shafer era il pazzo assassino che l'aveva rapita. «No, Shafer non c'entra.» Le dissi di Kyle Craig. Lo conosceva, le era simpatico e mi resi conto che si sentiva tradita. I mostri con cui avevo a che fare per lavoro l'aveva-
no già fatta soffrire abbastanza: non riusciva a perdonarmelo, e io non potevo darle torto. A volte non riuscivo a perdonarmelo io stesso. Parlando con Christine mi ricordai di quanto l'avevo amata. Forse la amavo ancora. «Non hai un posto in cui nasconderti per un po'? E importante che tu vada via di casa», le dissi alla fine. «Mi dispiace molto, ma Kyle è estremamente pericoloso.» «Oh, Alex, sono venuta qui perché era un posto sicuro. E lo era, prima che tu ripiombassi nella mia vita.» Disse che sarebbe andata a stare da un'amica fidata. Le chiesi di non dirmi al telefono né il nome dell'amica né dove stava. Mi salutò piangendo. Mi sentivo in colpa per quello che era accaduto. La telefonata con Christine aveva riportato a galla tutto ciò che non era andato bene fra noi. Subito dopo chiamai Jamilla, con la scusa di raccomandarle ancora una volta la massima cautela. Ma forse avevo soltanto voglia di parlare un po' con lei; del resto avevamo vissuto insieme gran parte di quella vicenda. Purtroppo non la trovai in casa. Lasciai un messaggio dicendo che ero preoccupato, esortandola a essere prudente. Chiamai tutte le persone cui tenevo di più, tutti quelli che avevano avuto rapporti con Kyle. Avvertii un paio di amici detective, Rakeem Powell e Jerome Thurman, della polizia di Washington. Mi pareva poco probabile che Kyle se la prendesse con loro, ma non potevo esserne certo. Chiamai il mio contatto al Washington Post, Zachary Scott Taylor, che era anche uno degli amici migliori che avevo. Voleva intervistarmi, ma gli dissi di non venire. Kyle era geloso degli articoli che Zach aveva scritto su di me, non gli piaceva per niente. Me lo aveva detto chiaro e tondo. «È una cosa seria», gli spiegai. «Non sottovalutare la pazzia di quest'uomo. Sei sulla sua lista nera, e non è una bella cosa.» Parlai con Scorse e Reilly dell'FBI, che avevano lavorato con me durante il sequestro di Maggie Rose Dunne e Michael Goldberg. Sapevano che era in atto una caccia all'uomo, ma fino a quel momento non si erano preoccupati per la propria incolumità. Adesso lo erano. Chiamai mia nipote Naomi, che era stata rapita da Casanova. Faceva pratica presso un avvocato a Jacksonville, in Florida, e viveva con un bravo ragazzo che si chiamava Seth Samuel Taylor, con il quale aveva in programma di sposarsi entro la fine dell'anno. «Quell'uomo adora rovinare la felicità del prossimo. Stai attenta. So che mi darai retta.» Telefonai a Kate McTiernan nel North Carolina. Ricordavo la cena con
lei e Kyle. Che avesse qualche significato recondito? Chi poteva sapere che cosa frullava nella testa di quell'uomo? Kate promise di stare in guardia e mi ricordò che era cintura nera, ormai. A Kyle era sempre piaciuta, e glielo ricordai. Più parlavo con lei, più ansia mi veniva. «Non commettere imprudenze, Kate. Kyle è la persona con la mente più malata che io abbia mai incontrato.» Contattai Sandy Greenberg, un'amica dell'Interpol che aveva lavorato con Kyle in diverse occasioni. Rimase scioccata nel venire a sapere che era un assassino, e mi promise di essere cauta. Si offrì anche di darmi una mano, se era possibile. Kyle Craig era uno spietato omicida. Aveva lavorato con me, era stato mio amico. O almeno così avevo creduto. Non riuscivo a farmene una ragione. Non del tutto, perlomeno. Cercai di scrivere un elenco dei potenziali bersagli di Kyle. 1. Io 2. Nana e i ragazzi 3. Sampson 4. Jamilla Mi resi conto che stavo redigendo l'elenco dal mio punto di vista, non dal suo. Provai a farne un altro. 1. Tutti i membri della sua famiglia 2. Io e la mia famiglia 3. Il direttore Burns 4. Jamilla 5. Kate McTiernan Rimasi nella casa vuota a chiedermi che cosa aveva intenzione di fare. Stavo diventando matto, mi sembrava di girare in tondo senza arrivare a niente. Kyle era capace di tutto. 104 Finalmente Kyle Craig richiamò. «Li ho uccisi e non provo niente. Assolutamente niente. Tu sì, invece,
Alex. In un certo senso la colpa è tua. Anzi è esclusivamente tua. Io non li avrei nemmeno uccisi, se non fossi stato costretto a farlo per mandare avanti questo racconto dell'orrore. Ormai è fuori del mio controllo, devo ammetterlo.» Quella terribile confessione arrivò alle cinque e un quarto del mattino. Dormivo da tre ore quando era squillato il telefono. Mi vennero i sudori freddi e il cuore prese a battermi all'impazzata. «Chi hai ucciso? Dimmelo. Chi? Dimmelo.» «Che differenza fa? Intanto sono morti, massacrati. Persone cui tenevi. Non puoi farci niente, ormai. Immagino che io potrei aiutarti. Non è quello che volevi sentirti dire? Renderebbe la cosa più interessante per te? Più equa?» Scoppiò in una risata irrefrenabile. Cristo santo, non aveva mai perso il controllo in mia presenza. Lo lasciai andare avanti. Per adularlo. Era questo che voleva, di cui aveva bisogno, no? Chi aveva ucciso? Chi era morto? Aveva parlato di più persone. Aveva detto di averle massacrate. «Abbiamo sempre lavorato in squadra. In un certo senso questo è il mio momento di gloria: catturarmi da solo. Ci ho pensato, in realtà. Me lo sono immaginato. Quale sfida può essere più interessante di questa? A me non ne viene in mente nessuna. Io contro me stesso.» Scoppiò a ridere. Dovetti farmi forza per non chiedergli di nuovo chi aveva ammazzato: l'avrei fatto arrabbiare e basta, magari avrebbe riattaccato. Eppure non riuscivo a smettere di pensarci. Avevo una paura terribile. Christine? Kate? Jamilla? Qualcuno dell'FBI? Chi? Oddio, chi? Abbi pietà, abbi un briciolo di compassione. Dimostrami che sei umano, stronzo. «Non sono un luminare della psichiatria come te, ma voglio azzardare comunque una teoria», continuò Kyle. «Io credo che tutto questo odio sia causato da una gelosia tra fratelli. Non ti sembra plausibile? Sai, Alex, io avevo un fratello minore. Nacque al culmine del mio complesso di Edipo, quando avevo due anni soltanto. Mi rovinò il rapporto con i miei genitori. Vuoi controllare, Alex? Consultarti con Quantico? Potrebbe essere importante.» Era così calmo, mi stava prendendo in giro, sia come detective sia come psichiatra. Mi tremavano le mani. Non ne potevo più. «Chi hai ucciso stavolta?» gridai nel telefono. «Chi?» Kyle mi spezzò il cuore. Mi descrisse gli omicidi che aveva appena
commesso nei minimi dettagli. Capii subito che mi stava raccontando la verità. Poi riattaccò, mentre io gli auguravo di bruciare per sempre all'inferno. Presi la macchina, con gli occhi lucidi, sconvolto, e attraversai Washington. Mi aspettava una scena raccapricciante. 105 No, no, no! Non ero preparato. Fu come una coltellata, una stilettata al cuore. Avrei voluto urlare. Kyle mi aveva fatto soffrire moltissimo, ma voleva farmi capire che il peggio doveva ancora arrivare. Quello era soltanto l'inizio. Rimasi ammutolito e immobile nella camera da letto di Zach e Liz Taylor, due fra i miei amici più cari. Avevo gli occhi velati dalle lacrime. Ero andato a casa loro decine di volte, a feste, a cene, a chiacchierare fino a notte fonda. Zach era il padrino del piccolo Alex. La mia unica consolazione era che erano morti in fretta. Probabilmente Kyle, per paura che lo catturassimo, aveva deciso di entrare e uscire il più in fretta possibile dall'appartamento nel quartiere di Adams-Morgan. Fatto sta che li aveva uccisi con una pallottola in testa, senza soffermarsi a mutilare i cadaveri. Il messaggio mi parve chiaro: Loro non c'entrano. È una faccenda tra noi due. A Kyle non importava niente di Zach e Liz Taylor. Forse era quella la cosa peggiore, il fatto che riuscisse a uccidere con tanta indifferenza per odio nei miei confronti. Era soltanto l'inizio. Il peggio doveva ancora arrivare. Non c'erano segni di rabbia o di passione, in quella camera da letto. Era come se, una volta entrato, ci avesse ripensato. Oh, Kyle, abbi pietà di noi. Presi nota mentalmente di tutto, senza nemmeno bisogno di scrivere. I particolari mi rimasero indelebilmente impressi nella memoria. Non me li sarei scordati finché campavo. Gli aveva sparato alla tempia. Dovetti farmi forza, per guardare. Mi venne in mente che mi erano sempre sembrati molto innamorati e che Zach una volta mi aveva detto: «Liz è l'unica persona al mondo con cui riesco a fare lunghi viaggi in auto senza annoiarmi». Quella per lui era la prova del nove: avevano sempre qualcosa da dirsi. Nell'osservarli, mi sentii un grande vuoto dentro. Non c'erano più. Che tragedia, che orrore...
Mi avvicinai alla vetrata che dava sulla strada. Mi sembrava tutto irreale. Vidi la tenda del Café Lautrec, che era chiuso, e pensai a Kyle che stava scappando, a cosa doveva pensare, a dove era diretto. Volevo prenderlo, fermarlo. No, anzi, volevo ucciderlo, fargli più male che potevo. Mi venne vicino un tecnico della Scientifica, Ed Lyle. «Condoglianze. Cosa dobbiamo fare, detective? Siamo pronti a cominciare.» «Schizzi, riprese video, fotografie», gli risposi. Anche se in realtà erano superflui. Non avevo bisogno di immagini, e nemmeno di prove. Sapevo già chi era l'assassino. 106 Arrivai a casa verso l'una del pomeriggio. Avevo bisogno di dormire, ma non riuscii a stare fermo per più di un paio di ore. Mi alzai e passeggiai nervosamente per casa. Passavo di stanza in stanza. Avevo la sensazione di dover fermare un terribile disastro incombente e non sapevo da che parte cominciare. Pensavo in continuazione alle possibili vittime di Kyle: i miei familiari, Sampson, Christine, Jamilla Hughes, Kate McTiernan, mia nipote Naomi, i parenti di Kyle. Non riuscivo a smettere di pensare a Zach e Liz. Erano stati stroncati nel fiore degli anni, e per causa mia. Alla fine riuscii a vomitare e fu la cosa migliore che mi capitò quel giorno. Rigettai anche l'anima, poi diedi una manata allo specchio del bagno. Quello stronzo di Kyle era sempre un passo avanti a tutti, giusto? Era così da anni. Era sicuro di sé, delle proprie capacità, compreso il potere di sfuggirci ogni volta. A chi toccava, adesso? Chi avrebbe ucciso? Chi? Chi? Ma come faceva a sparire dopo gli omicidi? Come faceva a mescolarsi tra la folla, a rendersi invisibile, con tutti quelli che lo stavano cercando? Era ricco. Kyle aveva pianificato di accumulare parecchi risparmi per interpretare il Mastermind. Che cosa aveva in mente, adesso? Lavorai fino a tardi, quella notte, al computer che tenevo vicino alla finestra della camera da letto. E se fosse stato lì fuori a spiarmi? Non pensavo che rischiasse tanto, ma non potevo neppure escluderlo. Era capace di fare una strage. Se era questo il suo piano, dove avrebbe colpito? Washington? New York? Los Angeles? Chicago? La sua città na-
tale, Charlotte, nel North Carolina? O forse in Europa, magari a Londra? La sua famiglia era al sicuro? Sua moglie? I suoi figli? Avevamo fatto le ferie insieme a Nags Head, un'estate, ed ero andato a trovarli in Virginia un paio di volte, nel corso degli anni. Sua moglie Louise mi era affezionata. Le avevo promesso di cercare di prenderlo vivo, se possibile. Ma adesso mi chiedevo se avevo veramente voglia di tenere fede a quella promessa. Che cosa avrei fatto se mi fossi trovato a faccia a faccia con Kyle? E se avesse fatto del male ai suoi genitori, visto che tendeva a dare al padre la colpa di tanti suoi comportamenti? William Hyland Kyle era un generale dell'esercito, faceva parte del consiglio di amministrazione di diverse società molto importanti di Charlotte e teneva conferenze per dieci o ventimila dollari a botta. Era molto autoritario e da piccolo aveva picchiato regolarmente il figlio, gli aveva insegnato a odiare. Gelosia tra fratelli, aveva detto Kyle. Era sempre stato molto competitivo nei confronti del fratello più piccolo, Blake, morto nel 1991 in un incidente di caccia. Che l'avesse ucciso Kyle? E il maggiore, che abitava nel North Carolina? Mi considerava forse una sorta di fratello minore? Che vedesse in me Blake? Sin dall'inizio era stato chiaro che era in competizione con me, che aveva cercato di controllarmi. Le mie donne forse avevano costituito una minaccia per lui, una variante estremizzata della gelosia. Era per questo che aveva ucciso Betsey Cavalierre? E Maureen Cooke a New Orleans? E Jamilla? Mi ripromisi di riflettere soprattutto su un aspetto del problema, su un triangolo familiare disfunzionale in cui eravamo presenti sia io sia Kyle. Era sempre un passo avanti a tutti. O, almeno, lo era stato fino a quel momento. Se se la fosse presa con suo padre o suo fratello, l'avremmo avuto in pugno, perché erano sotto protezione a Charlotte e l'FBI li teneva sotto controllo. Ma Kyle non poteva non saperlo. E non avrebbe fatto una mossa così stupida. Crudele, sì, ma non stupida. Era sempre un passo avanti a tutti. Mi sembrava che la chiave di tutte le sue fantasie fosse proprio quella: non essere mai prevedibile, restare sempre un passo avanti a noi, se non due. Ma come poteva riuscirci, soprattutto adesso? Mi venne un pensiero terribilmente sconfortante: che Kyle avesse un complice all'interno dell'FBI.
Ero appena riuscito a prendere sonno quando squillò il telefono. Erano le tre del mattino. Maledizione. Ma non dormiva mai? Tirai su la cornetta, la riabbassai e staccai il telefono. Adesso basta, Kyle. Vai all'inferno! Sarei stato io a stabilire le regole, da quel momento in poi. Era la mia partita, non la sua. 107 La mattina dopo bevvi troppo caffè nero e pensai all'ultimo caso cui avevamo lavorato insieme. Che cosa rappresentavano, nella fantasia di Kyle, Daniel e Charles, Peter Westin, i fratelli Alexander? La macabra storia cui stava dando forma coinvolgeva anche me. Mi aveva chiesto di prendere parte alle indagini, aveva usato il lavoro per tenermi sotto controllo. Era questo che voleva? Cercai di mettere insieme dal punto di vista psichiatrico i pezzi del puzzle, nella speranza di capirci qualcosa di più. Non era detto che funzionasse, naturalmente. Con Kyle non si poteva mai sapere. Se aveva l'impressione che un modello fosse troppo lineare, lo spezzava; se, come probabile, era consapevole dei propri disturbi mentali, poteva sfruttarli a suo favore. Verso mezzogiorno chiamai Martin Craig, il fratello maggiore di Kyle, un radiologo che abitava vicino a Charlotte, dove ritenevamo che Daniel e Charles avessero incominciato a uccidere. Che Kyle li avesse conosciuti prima ancora? Possibile? Il dottor Craig fu molto disponibile, ma alla fine ammise che lui e suo fratello non si parlavano da dieci anni. «Ci siamo visti al funerale di Blake. E mi sembra che quella sia stata l'ultima volta. Non vado d'accordo con lui, detective Cross. È una cosa reciproca. Ho l'impressione che Kyle non vada d'accordo con nessuno.» «Vostro padre era particolarmente severo con lui?» gli domandai. «Kyle l'ha sempre sostenuto, ma a dire il vero io non me ne sono mai accorto. E nemmeno mia madre. Kyle racconta un sacco di storie. Si faceva sempre passare per il grande eroe o la vittima da compatire. Mia mamma diceva che aveva un ego inferiore soltanto a quello di Dio.» «E lei che cosa ne pensa? È d'accordo con sua madre?» «Be', mio fratello non credeva in Dio e non era inferiore a nessuno.» Il rapporto fra i tre fratelli si era sempre basato sulla competizione, e Kyle era convinto che Martin e Blake fossero i preferiti. Kyle giocava nel-
la squadra di basket della scuola, ma Martin era molto più bravo di lui e inoltre suonava il basso nella band del quartiere e aveva una vita sociale invidiabile. Sul quotidiano locale era persino uscito un articolo a proposito dei tre fratelli cestisti, che parlava specialmente di Blake e Martin. Avevano studiato tutti e tre alla Duke University, ma Martin e Blake avevano scelto medicina e Kyle, contro il parere del padre, giurisprudenza. Dal momento che era stato lo stesso Kyle a tirare in ballo la gelosia tra fratelli, mi sembrava plausibile che il suo delirio avesse avuto origine proprio da lì. «Senta, Martin», dissi alla fine. «Secondo lei è possibile che Kyle abbia ucciso vostro fratello Blake?» «Blake morì in un incidente di caccia», rispose, perplesso. «Vede, detective Cross, mio fratello era un uomo estremamente attento e responsabile, quasi quanto Kyle. Non credo che si sia sparato per sbaglio. Io sono profondamente convinto che Kyle abbia a che fare con la sua morte. È per questo che non gli parlo da dieci anni. Mio fratello è Caino, per me. Ho sempre pensato che fosse un assassino e voglio che lo fermiate. Voglio vederlo sulla sedia elettrica. È la fine che merita.» 108 Nulla comincia mai dove crediamo. Continuavo a ripensare a quanto Kyle aveva insistito per farsi intervistare dai quotidiani e dalle televisioni dopo la cattura di Peter Westin, nei pressi di Santa Cruz. Voleva i riflettori puntati su di sé. Voleva prendersi il merito di tutto, essere la star. E, in un certo senso, c'era riuscito. Concepii una mossa che aveva ragionevoli probabilità di metterlo in difficoltà. Contattai l'FBI e ne parlai con Burns. Mi diede l'okay. Alle quattro di quel pomeriggio venne indetta una conferenza stampa nell'atrio della sede dell'FBI. Il direttore Burns tenne un breve discorso e quindi mi presentò annunciando senza mezzi termini che avrei condotto io le indagini per catturare Kyle Craig, il quale sarebbe certamente stato consegnato alla giustizia. Indossavo un giaccone di pelle nera e lo abbottonai fino in cima prima di avvicinarmi ai microfoni. Volevo fare tutto il possibile perché la trappola funzionasse. Dovevo ostentare sicurezza, arroganza. Dovevo essere la star al posto di Kyle. Ero io il capo, in quella caccia all'uomo, non lui. Lui era la preda. Fra il ronzio delle telecamere e i flash incessanti, mi sentivo addosso lo
sguardo cinico dei giornalisti che mi tempestavano di domande, aspettandosi risposte che io non ero in grado di dare. Ero molto nervoso. Parlai con voce grave e profonda. «Mi chiamo Alex Cross, sono un detective della squadra Omicidi di Washington e negli ultimi cinque anni ho lavorato a stretto contatto con l'agente speciale Kyle Craig. Lo conosco molto bene.» Riferii alcuni particolari del nostro passato, cercando di darmi delle arie, di fare il detective psichiatra. «Kyle mi ha aiutato a risolvere alcuni casi di omicidio. Era un ottimo braccio destro, una spalla veramente importante per me. Un lavoratore instancabile, un autentico stacanovista. Penso che lo cattureremo presto. In ogni caso, Kyle, se sei all'ascolto, ti prego di starmi bene a sentire, ovunque tu sia. Costituisciti. Ti aiuterò io. Ti ho sempre dato una mano. Fidati di me, è l'unica possibilità che ti resta, ormai.» Mi interruppi e guardai le telecamere. Poi mi allontanai lentamente dai microfoni. I flash scattavano in continuazione: ero io la star, adesso. Proprio come speravo. Il direttore Burns concluse la conferenza stampa esprimendo il proprio impegno per garantire la sicurezza della cittadinanza e spiegando l'entità dell'operazione messa in piedi dall'FBI. Infine mi ringraziò per il lavoro che stavo svolgendo. In piedi a fianco a lui, continuavo a fissare le telecamere: sapevo che Kyle mi stava guardando. Ed ero sicuro che era furibondo. Gli stavo mandando un messaggio chiaro, lo stavo sfidando. Vienimi a prendere, se ci riesci. Non sei più tu la mente superiore, ormai. Sono io. 109 Non mi restava che aspettare, così andai a trovare Nana e i ragazzi la mattina dopo. Mia zia Tia aveva una casa di legno dipinta di giallo, con le imposte di alluminio bianche, in una strada tranquilla di Chapel Gate, che lei considerava «campagna». Quando arrivai in automobile, non vidi l'FBI e mi parve un buon segno. Evidentemente stavano lavorando bene. L'agente speciale incaricato di proteggere i miei familiari si chiamava Peter Schweitzer e aveva un'ottima reputazione. Mi venne ad aprire e mi presentò gli altri sei agenti che si trovavano in casa di mia zia. Abbastanza rassicurato, andai da Nana e i ragazzi. Sembravano tutti con-
tenti di vedermi, persino Nana. Stavano facendo colazione in cucina. Tia stava preparando salsicce e pancake. Mi gettò le braccia al collo per prima, poi anche gli altri mi abbracciarono. Devo ammettere che tante attenzioni mi facevano piacere. Avevo bisogno di affetto. «Sono sempre felici di vederti, Alex.» Tia rise e batté le mani, come faceva sempre. «Lo credo: non c'è mai», ribatté Damon un po' polemico. «Questo lavoro è quasi finito», dissi, sperando che fosse vero, anche se non ci credevo realmente. «Be', almeno qui fate tre pasti al giorno», aggiunsi poi ridendo, e abbracciai Tia. Mi sedetti a fare colazione anch'io e mi trattenni un'oretta. Parlammo tutto il tempo, ma senza mai accennare alla situazione difficile e paurosa che stavamo vivendo. «Quando possiamo tornare a casa?» domandò Damon. Mi fissarono tutti in attesa di una risposta. Persino il piccolo Alex mi guardava. «Non voglio mentirvi. Prima dobbiamo trovare Kyle Craig. Poi potremo tornare a casa.» «E sarà tutto come prima?» chiese Jannie. Mi resi conto che era una domanda trabocchetto. «Meglio di prima», risposi. «Voglio cambiare molte cose. Ve lo prometto.» 110 Partii per Charlotte con il volo delle dieci del mattino. Volevo andare nel North Carolina a trovare i parenti di Kyle. Chissà che non fosse là anche lui. Non me ne sarei sorpreso. Il padre, William, preferì non farsi trovare, quando arrivai nella tenuta in cui erano cresciuti Kyle e i suoi fratelli. Era splendida, con una grande casa di pietra e di legno circondata da oltre sedici ettari di terreno. Uno dei dipendenti mi confidò che soltanto ridipingere la staccionata intorno al pascolo era costato uno sproposito. Parlai con Miriam Craig sulla terrazza sul retro, che dava su un giardino di fiori di campo e un ruscelletto. Sembrava molto tranquilla e mi stupii, anche se forse me lo sarei dovuto aspettare. La signora Craig mi raccontò molte cose riguardo alla sua famiglia. «Mio marito e io non avevamo idea, non immaginavamo che Kyle avesse questo lato oscuro, sempre che le accuse terribili che gli sono state mosse siano vere», dichiarò. «È sempre stato distante, riservato, introverso, se così si può dire, ma niente ci ha mai fatto pensare che fosse così tormenta-
to. Era molto bravo sia a scuola sia nello sport. E suona il piano con una sensibilità non comune.» «Non lo sapevo», replicai. Eppure Kyle aveva fatto spesso commenti sul fatto che io suonavo. «Voi lo lodavate per come andava bene a scuola o nello sport? Forse i ragazzi hanno più bisogno di sentirsi approvati di quanto pensiamo.» La signora Craig parve risentita. «Non voleva sentirsi dire che era bravo. Ribatteva 'lo so' e se ne andava. Era come se lo deludessimo insistendo su cose che per lui erano ovvie.» «I suoi fratelli erano più bravi di lui?» «Be', avevano pagelle migliori, questo sì, ma erano molto bravi tutti e tre. E, secondo certi insegnanti, Kyle era il più intuitivo. Credo anche avesse il QI più alto, centoquarantanove, se ben ricordo. Soltanto che non si applicava in tutte le materie. Aveva un carattere molto forte già da bambino.» «Ma non ha mai dato segno di avere dei problemi seri?» «No, detective Cross. Mi creda, ci ho pensato molto.» «E suo marito è dello stesso parere?» «Sì, è d'accordo con me. Ne abbiamo discusso proprio ieri sera. L'idea di parlare con lei lo metteva in imbarazzo: ha preferito non esserci. Vede, mio marito è un uomo molto orgoglioso. E ha ragione di esserlo, perché è veramente in gamba.» Subito dopo andai dal fratello di Kyle. Mi ricevette in un immacolato studio medico di Charlotte. «A me Kyle è sempre sembrato caustico e crudele. So che anche Blake la pensava così», mi confidò, bevendo un tè. «In che senso crudele?» domandai. «Oh, non ha mai torturato bestiole o roba del genere. Anzi lui ama molto gli animali. A scuola era molto violento, però, sia verbalmente sia fisicamente. Un vero rompiscatole. Non era simpatico a nessuno. Non aveva amici, che io ricordi. Strano, no? Kyle non ha mai avuto un vero amico. Voglio dirle una cosa, detective: nei primi anni del liceo mio padre lo faceva dormire in garage, da quanto si rendeva insopportabile.» «Mi sembra un castigo molto severo», commentai. Fino a quel momento non avevo scoperto niente di illuminante. Kyle non mi aveva mai parlato di quel castigo, e nemmeno la signora Craig vi aveva accennato. Aveva soltanto detto in modo un po' generico che suo marito era un uomo in gamba.
«Io non la penso così, detective. Secondo me era la giusta punizione, anzi, forse avrebbe meritato di peggio. L'avrebbero dovuto mandare via di casa a tredici anni. Era un mostro, glielo assicuro. E lo è ancora, a quanto sembra.» 111 Con chi se la sarebbe presa adesso? Quella domanda mi ossessionava. Non riuscivo a smettere di pensarci. Quando tornai a casa, quella sera, mi venne in mente di andare a Seattle. Avevo un cattivo presentimento. Più di uno, per la verità. Dovevo andare o no? Kyle avrebbe cercato di uccidere Christine Johnson? Sapeva dove colpire per farmi più male. Mi conosceva molto bene. E invece io continuavo a non capire niente di lui. Sarebbe andato da Christine o da Jamilla? Riuscivo a immedesimarmi abbastanza in lui? Era sempre un passo avanti a tutti, lo stronzo. Forse invece sarebbe venuto a cercare me. Forse bastava che restassi in th 5 Street ad aspettarlo. Un dubbio mi rodeva come un tarlo: che cosa stava sfuggendo a tutti noi che lo cercavamo? Che cosa voleva Kyle più di qualsiasi altra al mondo? Quali erano le sue motivazioni? Chi compariva sulla sua lista nera, a parte me? Kyle voleva imporre la propria volontà, ma adorava anche i piaceri più squisiti e proibiti. In passato aveva agito spinto dalla sete di sesso, stupro, denaro - milioni di dollari -, vendetta. Andai a letto all'una e mezzo, ma non riuscii a dormire, tanto per cambiare. Non appena chiudevo gli occhi mi vedevo davanti la faccia di Kyle, sprezzante e sicuro di sé. Era l'uomo più arrogante che avessi mai conosciuto. Forse era anche il più malvagio. Pensavo a tutto il tempo che avevamo passato insieme, alle nostre chiacchierate filosofiche, a mille ricordi. Accesi la luce sul comodino e scrissi qualche appunto. Kyle era metodico e logico, ma sapeva sorprendermi con tattiche e strategie assolutamente imprevedibili. Pensai all'incursione di Santa Cruz. Gli omicidi dei vampiri mi sembravano già lontanissimi. Aveva voluto che stessi al suo fianco, che capissi che era un eroe. Era quello il punto, no? Aveva bisogno che vedessi quanto era bravo. Voleva catturare Peter Westin da solo. Di colpo mi sorse spontanea una domanda. Una domanda molto intelligente.
Dov'è che Kyle non riusciva a imporre la propria volontà? Qual era la sua fantasia più oscura, il suo sogno, il suo desiderio più segreto? In che cosa era rimasto frustrato fino ad allora? Il peggio doveva ancora arrivare. Con Zach e Liz Taylor aveva soltanto cominciato. Si accingeva a compiere una strage? Mi venne in mente una fantasia particolare che Kyle mi aveva raccontato una sera, alla fine di uno dei casi peggiori cui avevamo lavorato insieme. Mi ricordai una cosa che aveva detto e non riuscii più a togliermela dalla testa. Presi il telefono, sperando che non fosse troppo tardi. Avevo capito chi sarebbe stata la sua prossima vittima. Oh, no, Kyle. No! 112 Forse stavo impazzendo. Presi la macchina e guidai per quasi sei ore sulla Interstate 95, diretto a Nags Head, nel North Carolina. Continuavo a cambiare canale all'autoradio per tenermi sveglio e intanto pensavo che Kyle non voleva che quella storia finisse, perché si stava divertendo troppo. Era il suo momento di gloria. Ero già stato da quelle parti con Kate McTiernan, e anche Kyle c'era già stato, quando eravamo impegnati nelle ricerche di un sadico assassino che si chiamava Casanova, che aveva tenuto prigioniere otto donne nei boschi vicino a Chapel Hill. Kyle era nella mia stessa squadra. O forse mi ero soltanto illuso che lo fosse, perché in realtà era complice di Casanova. Ormai lo avevo capito. Arrivai alle isole Outer Banks poco prima del tramonto. Mentre andavo verso il mare, mi vennero in mente alcune strane cose: le paste del mercato di Nags Head, le lunghe passeggiate con Kate McTiernan a Coquina Beach, le splendide spiagge del Jockey's Ridge State Park. Ricordavo quanto avevo ammirato Kate. Eravamo rimasti amici e ancora adesso ci sentivamo un paio di volte al mese. Per Natale e per i compleanni mandava sempre bei regali ai miei figli. Lavorava al Regional Medical Center di Kitty Hawk e viveva con un libraio, con cui stava per sposarsi. Abitavano a Nags Head, a pochi chilometri di distanza da dove mi trovavo in quel momento. Kyle aveva un debole per Kate. Una volta me l'aveva fatto capire: «Potrei innamorarmi di quella donna, se non fosse per Louise e i figli. Potrei
mollare tutto, per lei. Forse dovrei. Kate riuscirebbe a farmi felice, a salvarmi». Ero certo che fosse lei la sua prossima vittima. Forse la stava già spiando. Gli rodeva non poterla avere, essere stato rifiutato da lei. E sapeva anche che io le volevo molto bene. L'unica cosa di cui non ero sicuro era se si trovava già a Nags Head o stava per arrivare. Avevo avvertito Kate, ma quando mi misi in viaggio la richiamai per raccomandarle di andarsene il più lontano possibile, anche se era cintura nera di karate e sapeva difendersi. Ero deciso a piazzarmi a casa sua e a tendere un agguato a Kyle. Credevo che ormai spiare Kate non lo soddisfacesse più. Se fosse arrivato, sarebbe stato per ucciderla. Trassi un respiro profondo e imboccai la strada verso il centro di Nags Head, un posto a me familiare, sereno e bello, dove sembrava impossibile che potesse succedere qualcosa di brutto. Ciononostante, continuavo a pensare che il peggio doveva ancora arrivare. Era per questo che Kyle aveva ucciso Zach e Liz Taylor: aveva stabilito un modello. I Taylor erano soltanto un avvertimento. Percorsi una stradina che serpeggiava fra dune di sabbia spazzate dal vento, pronto a notare qualsiasi segno della sua presenza. Il numero 1021 era una villetta a due piani in riva al mare. Pittoresca, elegante, nello stile di Kate. Se Kyle fosse riuscito nel suo intento, non me la sarei mai perdonata. Sul tetto sventolava una bandiera scozzese e anche questo era tipico di Kate. Su mio consiglio, aveva lasciato la Volvo nel viale davanti a casa e qualche luce accesa. Mi sembrarono un faro nella notte. Forse anche per Kyle era così. Davano l'impressione che in casa ci fosse qualcuno. E infatti c'era. Mi sembrava tutto irreale, avevo i nervi tesi allo spasimo e la pelle d'oca. Il mio sesto senso mi diceva che Kyle era vicino. Lo sapevo, me lo sentivo. E se mi fossi sbagliato, invece? Stavo perdendo la testa? Non sapevo nemmeno che cosa temere di più. Misi la macchina in garage e chiusi il portellone. Avevo il cuore stretto e il fiatone. Non riuscivo nemmeno più a pensare lucidamente. Entrai in casa. Perdevo l'equilibrio. Barcollavo verso destra. Il telefono squillò. Tirai fuori la Glock e controllai la cucina per vedere se c'era Kyle. Non vidi nulla. Almeno per il momento.
Ma dov'era? Il peggio doveva ancora arrivare. Mi sarei fatto trovare pronto, questa volta? 113 Presi il telefono che suonava e battei il ginocchio contro il tavolo della cucina. «Ti ho cercato dappertutto, Alex.» Kyle era calmo, sicuro di sé. Non aveva scrupoli, nessun senso di colpa. La sua arroganza mi stupì, nonostante tutto. Avrei voluto averlo davanti per poterlo prendere a schiaffi. «Be', mi hai trovato. Congratulazioni. Non posso nascondermi da te. Sei tu la mente superiore, Kyle.» «È vero. Mi hai fatto preoccupare, collega. Avrei voluto dire addio in modo civile e appropriato. Al termine di questa nostra avventura me ne andrò. È quasi finita. Uh, che sollievo!» «Vuoi dirmi dove sei?» gli chiesi. Tacque per circa mezzo secondo e io sentii una scarica di adrenalina. Avevo le gambe molli e di colpo mi venne paura di quello che Kyle poteva aver già fatto. «Immagino che non ci sia niente di male a dirtelo. Lasciami pensare un attimo. Dunque, dunque. C'è sangue dappertutto, Alex, questo te lo posso dire. Straordinario, un capolavoro. Una vera carneficina. Questa volta ho superato me stesso. E ho superato anche Gary Soneji, Shafer, Casanova. La mia opera migliore. E se lo dico io... Sono molto obiettivo, in queste cose, come tu ben sai.» Avevo il batticuore e mi girava la testa. Avevo paura di svenire e mi appoggiai al bancone della cucina. «Dove sei, Kyle? Dimmi dove sei. Dove cazzo sei?» «Forse a casa di tua zia Tia, appena fuori Baltimora», rispose, scoppiando a ridere come un pazzo. «Chapel Gate. Carino, questo posto.» Mi sfuggì un gemito e mi cedettero le ginocchia. Rividi la mia famiglia, Nana, Jannie, Damon, Alex. Dovevo stare con loro. Come aveva fatto a eludere la sorveglianza dell'FBI? E di Sampson? Era impossibile. Non poteva esserci riuscito. «Menti, Kyle.» «Tu dici? E perché dovrei? Pensaci. A cosa servirebbe?» Il peggio deve ancora venire. Devo chiamare Tia. Non avrei mai dovuto
lasciarli soli. Sentii un urlo terrificante sopra di me, in cucina. Ma cosa... Alzai gli occhi e rimasi di stucco. Kyle si calò dalla botola della soffitta, con un punteruolo nella destra e il cellulare nella sinistra. Cercai di proteggermi con un braccio, ma non fui abbastanza veloce. Mi aveva colto di sorpresa. Non avevo pensato a controllare anche lassù. Mi conficcò il punteruolo nel torace, con una strana angolazione. Provai un dolore terribile e caddi per terra. Me lo aveva piantato nel cuore? Stavo per morire? Era così che sarebbe finita? Kyle mi mollò un pugno in faccia. Sentii un rumore di ossa che si spezzavano e temetti che mi avesse sfondato lo zigomo sinistro. Alzò il pugno per colpirmi di nuovo. Aveva la forza dei pazzi scatenati e mi voleva punire, perché ero un personaggio importantissimo, nelle sue fantasie. Era folle, malato! Non riuscivo a capacitarmi di quello che aveva fatto. Una voce dentro di me suggerì: Portalo fuori: trova il modo di attirarlo all'esterno! Il secondo pugno mi sfiorò soltanto perché mi spostai abbastanza da sfuggirgli. Stavo vivendo un incubo. Il manico di acciaio del punteruolo mi usciva dal petto. Con una mano afferrai Kyle per il cappuccio della giacca a vento e con l'altra i capelli, e lo strattonai, riuscendo a togliermelo di dosso per un momento. Non so come, riuscii ad alzarmi e a tirare su anche lui. Eravamo senza fiato. Mi sentivo sempre più debole. La mia camicia si stava inzuppando di sangue. Nonostante tutto, riuscii a sbattere Kyle contro la credenza di Kate. La urtò con la testa, mandando in frantumi le ante di vetro. Lo tirai indietro e si ferì la faccia sulle schegge di vetro appuntite. Volevo fargli male, per Betsey Cavalierre, Zachary Taylor e sua moglie, e tutti gli altri poveretti che aveva ucciso. Quel mostro senza cuore aveva mietuto sin troppe vittime. Maledetto Mastermind. Maledetto Kyle Craig. Gridò: «Gli occhi! Gli occhi!» Finalmente gli avevo fatto male. Gli sferrai un micidiale gancio sulla fronte, ripetutamente, tenendolo in piedi per poterlo colpire di nuovo. Non volevo mollare e continuavo a picchiarlo, a infierire. Non so nemmeno io dove trovavo la forza. Volevo continuare a malmenarlo per tutto quello che aveva fatto, per gli omicidi che aveva commesso, per la sua crudeltà, i suoi tradimenti, perché mi aveva ossessionato tutto quel tempo, aveva fatto soffrire la mia famiglia e tante
altre persone. Aveva perso i sensi e, quando lo mollai, stramazzò sul pavimento della cucina. Gli crollai addosso, stanco, senza fiato, terrorizzato e dolorante. E adesso? Ero fuori di me. Chi ero? Che cosa stavo diventando? Quanto mi avevano cambiato tutti i brutali omicidi che avevo visto? Mi allontanai dal corpo accasciato per terra, con il punteruolo sempre piantato nel petto. Dovevo togliermelo, ma sapevo di non poterlo e non doverlo fare da solo. Dovevo andare all'ospedale. Forse si sarebbe occupata di me la dottoressa Kate McTiernan. Feci una telefonata. Era molto importante. Era soltanto l'inizio, no? Certo. Il Mastermind e io eravamo finalmente soli. Dovevamo dirci un sacco di cose. Aspettavo da tempo un'opportunità come quella. E forse anche lui. 114 Mi faceva un effetto stranissimo essere lì vicino a Kyle e rendermi conto di non avere idea di chi era veramente. Kyle era uno psicopatico crudele e ossessivo che mi perseguitava da anni e aveva ucciso troppe persone, molte delle quali a me care. «Bastardo», sussurrai fra i denti. Il primo caso cui avevamo lavorato insieme era un duplice sequestro a Washington. Ci avevo scritto su un libro, e Kyle era uno dei personaggi di Ricorda Maggie Rose. In seguito mi aveva aperto la strada in maniera che collaborassi alle indagini su un sequestratore che si faceva chiamare Casanova e colpiva nel triangolo della ricerca, nei pressi della University of North Carolina e della Duke. Era in quell'occasione che avevamo conosciuto Kate McTiernan. Kyle mi aveva sempre tenuto stretto, da allora. Era stato lui a farmi nominare responsabile dei rapporti fra l'FBI e il dipartimento di polizia di Washington. Allora non avevo capito il perché, ma ora sì. Aveva ripreso conoscenza e mi osservava con uno sguardo beffardo e falsamente compassionevole. Mi disse: «Lo so, lo so che fa male. Pensavi che fossimo amici, che fossimo vicini». Non dissi nulla, ma lo guardai negli occhi gelidi. Che cosa vi leggevo? Nulla, a parte odio e sdegno. Era incapace di provare colpa o compassione. Poi fece un sorrisetto. Mi venne voglia di prenderlo di nuovo a pugni e lui scoppiò in una risata. Ma cosa c'era da ridere? Che cosa sapeva che io ignoravo? Cos'altro aveva fatto?
Batté le mani. «Bravo, Alex. Mi stai ancora studiando, vero? Dovresti ricordarti che ti ho battuto tutte le volte.» «A parte questa», gli ricordai. «Questa volta hai perso tu.» «Sei sicuro?» domandò. «Sei davvero convinto di avermi in pugno? Come fai a esserne sicuro, collega? Non puoi.» «Invece sì, ne sono certissimo, collega. Vorrei farti due o tre domandine, chiarire un paio di punti. Tu sai che cosa voglio sapere.» Continuava a sogghignare. Certo che lo sapeva. «Ti riferisci al North Carolina? Hai nutrito qualche sospetto sul mio conto perché ho fatto la Duke insieme con il Visitatore Gentiluomo. Bravo, Alex. Sì, conoscevo sia lui sia Casanova. Per la miseria, se li conoscevo. Ho ucciso con loro. Ma non mi hai incastrato, detective Cross. Poi ci sono state le rapine alle banche. Il Mastermind all'opera. E, naturalmente, ho fatto fuori la bella Betsey Cavalierre. È stato un bel divertimento. L'ho fatto per te, Alex.» Lo guardai in quegli occhi spietati e domandai con voce roca: «Ma perché?» Kyle alzò le spalle indifferente. «È così che si vince la partita, infliggendo più dolore possibile per poi assistere alla sofferenza, al tormento. Dovresti vedere che faccia hai in questo momento. Impagabile. Una meraviglia. Non voglio la tua compassione, dottor Cross, ma mi hai mai visto a torso nudo? Ti rispondo io: no. Perché ho un sacco di cicatrici. Mio padre, il grande e rispettato generale, membro di tanti consigli di amministrazione, mi ha picchiato per anni. Era convinto che fossi cattivo, capisci? E aveva ragione. Papà sa sempre tutto. Suo figlio era un mostro. Che cosa ne deduci sul conto di quest'uomo?» Sorrise. O forse la sua era una smorfia. Chiuse gli occhi. «Tornando all'agente Cavalierre, stava indagando su dove mi trovavo durante le rapine e i sequestri commessi dal Mastermind. Furbetta, la ragazza. E non era neanche male. Le piacevi molto, Alex. Ti considerava un bell'uomo, un bel negrone tutto per lei. Non potevo sopportare una cosa simile. Era un pericolo per me, una rivale. Mi segui, Cross? Sto andando troppo veloce per i tuoi gusti? Eppure è tutto molto logico, ti pare? L'ho pugnalata. E stavo per fare lo stesso con la tua amica Jamilla. Chissà che non lo faccia, uno di questi giorni.» Gli puntai la Glock alla testa. Mi tremava la mano. «No, Kyle. Non credo che lo farai.» 115
Era la conclusione cui tutti gli sporchi giochi ideati da Kyle in quegli ultimi anni inevitabilmente portavano. Con la mano tremante, gli avvicinai la pistola alla fronte. A essere sincero, non sapevo ancora se avrei sparato o no. «Speravo proprio che arrivassimo a questo. Che uno dei due prendesse il controllo della situazione. Il bello viene adesso. Cosa farai?» Premette la testa contro la canna. «Dai, Alex. Se mi uccidi così, vuol dire che ho vinto io. Mi piace, in fondo. Così l'assassino sei tu.» Lo lasciai parlare. Era il Mastermind, aveva la mania di tenere gli altri sotto controllo. «Vuoi sapere la verità più brutale?» mi fece. «Ce la fai? Pensi di riuscire a sopportarla?» «Su, illuminami. Penso proprio di riuscire ad accettarla, Kyle. Voglio sapere tutto.» «Va bene, allora. Quello che ho fatto io è quello che vorrebbero fare tutti gli uomini. Ho messo in atto le fantasie più segrete, i sogni più perversi di ognuno di noi. Controllo l'ambiente che mi circonda. Non seguo le regole create dai miei cosiddetti pari, ma vivo una mia vita fantastica. Agisco soltanto nel mio stesso interesse. È il sogno di chiunque, credimi. Perciò smettila di fare tanto la brava persona. Mi irrita.» Scossi la testa. «Sai una cosa, Kyle? Io non voglio questo. La tua è una fantasia da adolescente egocentrico.» «Risparmiami la tua psicologia da strapazzo, ti prego. E comunque non ci credo: il rischio, la caccia all'uomo attirano anche te... Sono anche la tua vita, non te ne rendi conto? Ma Cristo santo! A te piace da morire dare la caccia alle persone. Lo adori!» Ci guardammo per alcuni minuti. L'odio fra noi era quasi palpabile, ormai. Poi Kyle scoppiò di nuovo in una risata grottesca, assurda. Rideva di me. «Continui a non capire, vero? Sei proprio un cretino, un minus habens. Non hai nulla in mano, non hai una sola prova a mio carico. Sarò di nuovo a casa fra pochi giorni, libero di fare quello che mi pare. Immagina quante possibilità. Tutto quello che mi salta in testa. Non è un pensiero consolante, Alex? Vecchio amico, collega, io volevo che tu sapessi chi sono, cosa faccio. Non c'è gusto, se nessuno lo sa. Io ho voluto che succedesse tutto questo. L'ho voluto disperatamente e, soprattutto, l'ho fatto succedere. Una volta che mi avranno rimesso in libertà, tu saprai che mi aggiro, che aspet-
to, che spio... Vedi, ho vinto anche stavolta. Volevo che mi prendessi, imbecille. Che cosa credevi?» Lo guardai negli occhi e fu come un gioco da bambini: chi avrebbe abbassato lo sguardo per primo? Chi avrebbe sbattuto le palpebre per primo? Alla fine gli strizzai l'occhio. «Guarda che t'ho fregato», gli feci notare. «Hai commesso il tuo primo, grosso errore. Non hai pensato a tutto. Ti sei dimenticato un particolare importante, Mastermind. Quale? Tu che hai una mente superiore dovresti arrivarci. Pensaci...» Mi allontanai da lui. Adesso ero io a sorridere, a sogghignare. Lo guardai negli occhi e lo lasciai riflettere. Mi rendevo conto che brancolava nel buio. «Guarda bene.» Presi il cellulare dalla tasca e glielo mostrai. Volevo che vedesse che era acceso. «Ho fatto il mio numero di casa prima che cominciassimo a parlare. Tutto ciò che ci siamo detti è registrato sulla mia segreteria telefonica. Ho la tua confessione, Kyle. Tutto registrato, parola per parola. Hai perso, brutto figlio di puttana. Hai perso, mente superiore.» A quel punto saltò su e fece per avventarmisi addosso, ma io lo colpii. Gli sferrai il miglior pugno della mia vita, o perlomeno così mi sembrò. Cadde a terra, rimbalzò e perse alcuni incisivi. E fu così che apparve su tutti i giornali dopo la sua cattura: il grande Mastermind senza i denti davanti. 116 Finalmente potevo riposarmi e smettere di fare il poliziotto per un po'. Kyle Craig si trovava in una cella di massima sicurezza nel carcere di Lorton. Il procuratore distrettuale era sicuro di avere prove sufficienti per condannarlo. L'avvocato di New York che Kyle aveva assunto a caro prezzo sosteneva che il suo cliente era innocente ed era stato incastrato. Straordinario. Il processo sarebbe stato uno dei più seguiti a Washington e in tutto il Paese. Il fatto era che non avevo nessuna voglia né di pensare a Kyle e al suo processo, né di occuparmi di altri psicopatici. Non andavo a lavorare da diverse settimane e mi faceva piacere. Stavo benissimo. La ferita al torace stava guarendo bene e non mi dispiaceva troppo che mi restasse una cicatrice come souvenir. Passavo più tempo che potevo a casa. Avevo quasi finito di ridipingerla. Ero stato a due concerti di Damon. Ormai ci avevo
preso gusto. Facevo allenamento con Jannie, leggevo La casa meravigliosa e Il gatto col cappello al piccolo Alex, prendevo lezioni di cucina dalla miglior cuoca di Washington, o almeno così si vantava Nana, e avevo molto tempo per me. Parlai con Christine Johnson un paio di volte, senza litigare. Le dissi che le avrei spedito le foto più belle del piccolo Alex. Jamilla Hughes stava per venire a Washington per un seminario e aveva promesso di passare a trovarmi. Stava bene, era contenta della sua vita, e io non avevo nessuna intenzione di rovinargliela. Erano le undici passate e suonavo il piano. La casa di 5th Street era silenziosa, tranquilla: dormivano tutti tranne me. Non squillava il telefono e già questa era una benedizione. Non bussavano alla porta per comunicarmi cattive notizie, cose che non avevo nessuna voglia di sentire né in quel momento né forse mai più. Non mi stava spiando nessuno. O, se lo stavano facendo, non mi davano fastidio. Mi concentrai e riuscii anche a suonare discretamente alcuni pezzi. E domani? Domani sarebbe stato un grande giorno. Stavo per rassegnare le dimissioni dalla polizia. E mi era successa un'altra cosa buona: mi stavo innamorando. Ma questa è un'altra storia, da raccontare un'altra volta. FINE