Enzo Fileno Carabba
CON UN POCO DI ZUCCHERO
Romanzo
MONDADORI
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Enzo Fileno Carabba
CON UN POCO DI ZUCCHERO
Romanzo
MONDADORI
L'Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti delle immagini senza riuscire a reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.
(www.librimondadori.it )
Con un poco di zucchero di Enzo Fileno Carabba Collezione Scrittori italiani e stranieri ISBN 978-88-04-60736-6 © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.,Milano I edizione marzo 2011
PRIMA PARTE - Un soffio di ottimismo
Le principesse prigioniere Lo spirito di Camilla aleggiava sulle stanze. E anche quello di Giulia, se è per questo. Non che fossero Dio - una specie di Dio a due teste, eventualmente. Ma erano rinchiuse là dentro da così gran tempo che la realtà esterna si era indebolita. Uscivano solo per andare in taxi agli incontri culturali del giovedì, dove peraltro la maggior parte della gente dormiva. Erano due donne splendide, delicate, riccamente vestite. Due signore di antica bellezza. Principesse prigioniere del tempo. «Il tempo stinge» scherzava sempre Camilla con quel sorrisetto. E in effetti la loro pelle con gli anni si era fatta grigia. Ma c'è grigio e grigio, e il loro era un grigio perla. Vivevano nel lussuoso appartamento al primo piano, dominato dalla mente di Camilla, che determinava un ordine perfetto. Dentro, a parte alcuni divani coperti dai lenzuoli per non fargli prendere la polvere, era tutto molto bello e armonioso, lasciava pensare a una vita degna di essere vissuta, o perlomeno ne suscitava il ricordo. Fuori, le porte e le finestre erano blindate, sembravano attrezzate per respingere un attacco dei narcotrafficanti colombiani. Tutta quella corazza di sbarre e allarmi regalava un tocco di modernità. Al piano di sotto, invece, divampava il caos, e quello era il regno di Giulia. Anche se, dopo tanto tempo insieme, a volte le due personalità si confondevano. Può anche darsi che non fossero poi così vecchie, ma anni di clausura in due non passano invano. Non rispondevano mai al telefono, per nessuna ragione. A meno che non si trattasse delle telefonate di Piero, che erano annunciate da un segnale concordato. Erano andate avanti così per molto tempo. Chiuse là dentro, a parte i giovedì, giorno in cui per due ore sognavano altrove. Ora però era successo qualcosa che poteva ucciderle o stanarle: Piero era morto. Sì. Per quanto fosse più giovane di loro. Ed era su di lui che avevano sempre contato per i rifornimenti di pozione magica e quindi per una serena vecchiaia. E invece no. Stavano lì, nel salotto, annichilite. Le sbarre alla finestra facevano passare il sole pulviscolare di fine gennaio come alberi secchi. «Sono sempre i migliori che se ne vanno» disse Camilla, «ma dove vanno?» Non poteva fare a meno di scherzare. Ma non è che si divertisse più di tanto, erano solo le vestigia di un'antica civiltà che uscivano dalla sua bocca, balzando via dal rossetto leggero, una civiltà a volte giocosa a volte cinica. Giulia vide che la sua amica di sempre stava quasi per piangere. D'altra parte, anche Giulia stava quasi per piangere. Con Piero, se ne andava l'ultimo pezzo della vita di un tempo. Giulia guardò la crepa nella carta da parati. Recitò a memoria: «Chi fabbrica una fortezza /intorno a sé, s'illude/quanto, ogni notte, chi chiude /a doppia mandata la porta.» «Con tutto quello che abbiamo speso per l'allarme!» rispose Camilla. A parte queste loro tipiche schermaglie, in cui una faceva finta di scherzare e l'altra citava poesie, c'era una cosa che sapevano tutte e due: più che altro la dipartita di Piero poneva dei problemi pratici. Dopo una decina di minuti di silenzio Camilla osò affrontare la questione: «Come facciamo a trovare un sostituto?» «Dobbiamo andare fuori a cercare» sparò Giulia. E appena ebbe pronunciato queste parole le mancò il respiro: si rese conto dell'enormità di quello che aveva detto. Perché ormai da anni la verità che non osavano confessare era semplice: avevano paura di uscire. Al massimo ogni tanto facevano capolino in cortile. Il cortile era così piccolo che era un po' impegnativo chiamarlo cortile, più che altro era una specie di pozzo. Vi si accedeva da due porticine nell'appartamento al piano terra. E poi un conto era prendere un taxi il giovedì sera per sedersi tra coetanei addormentati. Un altro avventurarsi nella città selvaggia, ormai irriconoscibile, sconosciuta, alla ricerca di un sostituto di Piero.
«Ma cosa dici, sei impazzita?» disse Camilla, scandalizzata. «Come puoi pretendere che due signore facciano una cosa simile? Andare in giro come ragazzine!» Eppure Giulia colse un bagliore negli occhi di Camilla, dietro il velo di lacrime. Un bagliore che conosceva bene, e rivedeva dopo tanto tempo. Volle credere che fosse la stessa eccitazione che sentiva lei, dietro il dolore e la paura. Il desiderio di azione. «Non abbiamo scelta: dobbiamo uscire.» «Prima che il gioco resti» commentò Camilla. Dopo una vita insieme, Giulia non era ancora riuscita a decifrare del tutto il senso delle cosiddette frasi fiorentine di Camilla, che a volte le usava in un modo tutto suo. Ma quello doveva essere un sì. Un'onda di emozione le attraversò. Non avrebbero saputo dire se era speranza o sgomento. Stava iniziando una nuova avventura.
L'orco Suonò il campanello, era il tocco prepotente di Emiliano. Insisteva, come se fossero sorde. «È l'ora del pranzo» disse Camilla con un'ombra di debolezza nella voce. Ormai non c'era verso: Emiliano veniva quando gli pareva, a orari diversi, spesso assurdi, l'ora del pranzo la imponeva lui. Si parlava tanto delle giovani dell'Est schiave del racket della prostituzione, ma, a parte che quelle erano comunque assolutamente puttane, non si parlava mai delle mature nobildonne schiave dei rosticcieri. Aprirono il portone corazzato. La testa rossa dell'orco emerse dalle scale, sul pianerottolo, come un fungo malefico dal sottobosco, esibiva perfino delle macchie bianche che mutavano con l'umidità. Poi spuntarono quegli occhi dall'iride gigantesca, il naso che dilagava sulla faccia, gli orecchi troppo piccoli. La bocca brutale. Nell'insieme un bell'uomo. Portava un sacchetto di plastica pieno di cibo a carissimo prezzo. Erano cose di lusso: gamberoni e roba del genere. Alimenti deliziosi, una settimana prima. Ora facevano schifo, Il prezzo, però, no che non era avariato. L'orco spennava le principesse senza pietà, e le due non se ne rendevano conto, o non avevano scelta. I primi tempi, quando Camilla era rimasta vedova e Giulia era andata a vivere da lei, le due principesse si curavano molto di più. È vero che avevano dovuto licenziare i domestici, perché non potevano più permetterseli, avendo calcolato almeno altri dieci lustri di vita. Però non se la passavano male. Erano donne vitali, e Giulia cucinava molto bene. Andavano a fare la spesa personalmente, un'esperienza nuova che le esaltava. Ed esaltava anche i negozianti. Il fruttivendolo, dopo qualche anno, con le zucchine vendute alle principesse si era comprato una villa ai Caraibi, così aveva sentito dire Camilla da un'ex domestica. Pazienza, almeno era roba sana. Ma a poco a poco, mentre gli amici se ne andavano o perdevano di interesse, loro si erano ritirate sempre di più tra le ombre dell'appartamento, molto più vive e stimolanti: c'erano ricordi infrangibili, assolutamente vivi nel presente. Giulia passava gran tempo nel caos dell'appartamento di sotto, al piano terra. Avevano cominciato a farsi portare la roba a casa. Ed era andata a finire che il rosticciere era diventato il loro unico fornitore di alimenti. Il fatto che nonostante ciò si fossero mantenute in buona salute dimostra di quale tempra fossero dotate. «Una tempra d'altri tempi, cara» diceva Giulia. «Il morto è sulla bara» diceva Camilla. Voleva dire che la cosa era chiarissima. «Tenete, dolci signore» disse l'orco mimando un inchino grottesco e porgendo la busta di plastica a Giulia, visto che considerava Camilla la padrona di casa e Giulia una specie di domestica, o un'amica di passaggio. Le due lesbiche, le chiamava, anche se non era vero. Emiliano sorrise e uno schizzo di saliva piovve nell'occhio di Giulia: Emiliano riusciva a sputare anche quando sorrideva.
«Grazie» disse Giulia con assurdo entusiasmo, cercava di ingraziarselo e subito dopo se ne pentiva, perché sapeva che era inutile, anzi mostrare debolezza peggiorava la situazione. «L'altro giorno il fritto non era granché» osò dire Camilla, con il portamento altero di sempre. Emiliano si rabbuiò all'istante. Quando si arrabbiava succedeva una cosa strana, unica nel suo genere: il naso, che di solito stava spiaccicato su tutta la faccia, si contraeva, diventava una specie di ascia. Ebbero paura. Erano inermi nei confronti di quell'omo-ne avvezzo a truffare i turisti. Le barriere di classe che giustamente un tempo proteggevano le persone civili dai bruti non esistevano più. «Fanno trenta euro» decretò Emiliano senza rispondere con le parole alla critica sul fritto: adesso il naso si dilatava e si arricciava, gli orecchi sporgevano più del solito, gli occhi si allargavano, i peli delle sopracciglia si rizzavano come zampe di ragno. Sembrava addirittura che i denti si piegassero per l'indignazione. «Trenta euro» balbettò Giulia, era più del giorno prima. E aprì la busta di plastica bisunta vedendo che dentro non c'era poi molto. Tra l'altro, un tempo Emiliano presentava le sue porcherie in cesti di vimini, ora invece anche la busta di plastica doveva sembrargli troppo. «Ehi signorina, vuoi mangiare o no» disse l'orco, improvvisamente di buon umore. Poi indicando il pianoforte che si intravedeva nella penombra aggiunse: «Col pianoforte non si mangia, ah ah ah. Tanto sono i quattrini che fanno girare il mondo». Gli sembrava una battuta irresistibile, perché la ripeteva spesso. Era brutale e confidenziale: doveva esistere un sindacato dei rosticcieri che gli permetteva di spadroneggiare. «Se ne approfitta per via dell'età» diceva sempre Camilla. Diceva anche: «Quando ero giovane i giovani non contavano nulla, ora che sono vecchia i vecchi non contano nulla, c'è qualcosa che non mi torna, mi hanno imbrogliato, però una signora resta sempre una signora». «È che mi sembravano tanti trenta euro» disse Giulia a Emiliano, comunque gli consegnò un foglio da cinquanta. Emiliano lo intascò, «col ventre obeso e le mani sudate», come diceva Giulia, e poi rimase lì. Sembrava una statua di lardo. Le due principesse avrebbero voluto rientrare e mangiare, perché comunque la cosa bella era che con l'età non gli era venuto meno l'appetito. Ma quello rimaneva lì col grugno alzato, come un Benito Mussolini della gastronomia. «Lei mi ha dato un foglio da venti euro» disse, con un sibilo simile a un rutto. «Ma veramente, guardi, sono sicura che erano cinquanta» intervenne Camilla. Forse, in quanto "padrona di casa", il suo intervento avrebbe avuto maggiore autorevolezza. Si illudeva ogni volta, da troppo tempo. «Venti euro» ripeté inflessibile Emiliano. E fu così che il fritto andato a male venne a costare sessanta euro. Alle principesse ci volle qualche ora per riprendersi. Per fortuna innaffiavano quei cibi pessimi con gli ottimi vini della cantina di Ernesto, il marito di Camilla, ancora gliene rimanevano. Questi elisir portavano sempre una ventata di ottimismo. Decisero che dovevano reagire alla situazione sfavorevole. Dovevano attenersi al piano stabilito. «Domani andiamo nel grande mondo esterno» disse Giulia. «Inviti la lepre a correre» disse Camilla, ostentando una sicurezza che non era sicura di provare.
Nella città dolente In piazza Santa Maria Novella gli spacciatori stranieri lavoravano con una certa supponenza, come fosse un'attività che avevano inventato loro. «Ma cosa si credono questi negri del Marocco, qua si spacciava già al tempo del Vasari, che infatti costruì il corridoio vasariano per spacciare meglio» disse Camilla. «Ma che idioti, a parte che alcuni sono negri albanesi, ti faccio notare» puntualizzò Giulia. Così si spostarono in piazza Santo Spirito, di cui avevano sentito dire un gran bene.
Le due impeccabili signore stavano lì sulla scalinata della chiesa e osservavano l'andirivieni delle persone. In piedi, con portamento altero. In generale, erano un po' elettrizzate e un po' atterrite dalla novità del mondo esterno. Non sapevano neanche loro quale era la sensazione prevalente. Firenze era del tutto trasfigurata, se la guardavi ad altezza d'uomo: banche e negozi di scarpe sventravano le opere d'arte, irridevano la memoria e imbastardivano il futuro. «È come una bella donna con le gambe svuotate e riempite di pezzi di plastica» disse Camilla sistemandosi il cappellino leopardato. «Ma se alzi lo sguardo non è poi così cambiata» disse Giulia. «Neanche noi, se alzi lo sguardo» disse Camilla con una grande tenerezza verso se stessa. In realtà avevano parlato ancora, e lungamente, prima di decidersi a uscire davvero. «Ora che Piero è morto, il telefono non ci basta più» aveva insistito Giulia. «Forse potremmo provare a chiedere a Emiliano» aveva detto Camilla, senza crederci. «Ma sei pazza, cara» rispose Giulia scandalizzata. «Non sarà che hai paura di uscire?» la provocò. Proprio in quel momento Camilla si era resa conto che quello che provava non era propriamente paura. Quella casa era un serbatoio di ricordi. A Camilla bastava alzare i lenzuoli che coprivano i divani per tornare quella che era. Bella, sfolgorante, felice. E i ricordi avevano una tale potenza. Per questo le doleva allontanarsi. Ma si rendeva conto anche lei che la casa non bastava. Ci voleva anche tutto il resto. «Ma come andremo in giro?» chiese. «Ma in taxi, come vuoi andare» fu la risposta di Giulia. Camilla era un po' perplessa, vista la natura della missione. La mole vaporosa di Santo Spirito le sovrastava. «Non me la ricordavo così bella» disse Giulia. «Con quei due rigonfiamenti sembra che stia per spiccare il volo.» Adesso erano felici di essere fuori, si sentivano rinascere. Come certi funghi dell'olmo capaci di rivivere dopo un prolungato congelamento. Respiravano bene. Sarà stata la magia del luogo, una grazia dello Spirito Santo. La gente non era altrettanto bella. A dirla tutta faceva schifo, ma guardarla poteva essere divertente. C'era una ragazzina che muoveva passi veloci e parlava fitto al telefonino, più parlava fitto più accelerava, con aria di grande importanza. Muoveva il culo asfittico come l'avesse collegato alla Telecom. Sui muri si leggevano scritte grottesche, del tipo: "I nostri cervelli non sono in vendita". «Ma chi li compra» disse Giulia. «Cent'ori» disse Camilla. In questo caso voleva dire che il suo cervello valeva eccome. Le due principesse guardavano tutti, e non si può dire che non fossero ricambiate. Sembravano due sfolgoranti cipree tra ruvide patelle. Tutti osservavano incuriositi quelle due eleganti signore, bellissime, appena appena truccate, con dei cappellini miracolosi, impettite sulla scalinata della chiesa. Scrutavano piene di speranza i movimenti dei loschi individui nel buio rossastro dei lampioni. Erano eccitatissime. Ma dopo un po' l'eccitazione cominciò a smorzarsi. Non erano due persone fuori dal mondo. Erano due persone che per un lungo periodo avevano messo il mondo fuori. Prima di autorecludersi ne avevano vista di gente, avevano una vasta esperienza della vita. Nonostante le novità sopravvenute durante la reclusione, sapevano ancora giudicare chi gli stava di fronte. Non gli davano nessuna fiducia, quei tipi che vagavano nella piazza. Erano meno tracotanti dei negri di piazza Santa Maria Novella, ma non sembravano affidabili. «Secondo te, cara?» chiese Giulia. «Questi qua sono ottimi per rifornirci di tè» disse Camilla. In effetti l'aria losca delle ombre che transitavano nella piazza non era credibile. Erano loschi in modo troppo curato. Erano drogati finocchi figli di papà, da grandi - appurato che i loro cervelli non se li comprava nessuno - si sarebbero dedicati a fare carriera.
«Tra l'altro, questi di sicuro sono protetti dalle forze dell'ordine, altrimenti non potrebbero stare in questa piazza» osservò Giulia, che era sempre la più concreta delle due. «E noi alla nostra età non possiamo comprometterci, assolutamente.» «Eppure io non ne posso più» disse Camilla. Non fosse stato per la poca luce, si sarebbe visto che il suo volto cominciava a essere stravolto. Aveva bisogno della pozione magica: la classe è classe, ma anche la chimica ha le sue ragioni. «Sta' calma» le intimò Giulia con lo sguardo del grande condottiero. E recitò ispirata: «Forse conosceremo noi la piena /felicità dell'onda.» Con questi versi si riferiva alle sensazioni indotte dalla pozione magica. «Cara, sei tu la mia onda» disse deliziata Camilla. «Lo so» fu la risposta. Aveva parlato con tono sicuro, come sempre, per confortare l'amica di due vite. Ma anche lei segretamente vacillava. Comunque concluse: «Per conoscere la piena felicità dell'onda dobbiamo spostarci da qualche altra parte, qui non raccattiamo pallino». Avevano esagerato a fare le sbruffone. Era solo il timore di non sapere come comportarsi che gli aveva impedito di intavolare una contrattazione. Di solito Piero pensava a tutto, faceva arrivare tutto a casa. Un gentiluomo d'altri tempi. «Proviamo in piazza Dalmazia» aveva detto Giulia, «ne ho sentito dire un gran bene.» Ma neanche lì avevano trovato piena soddisfazione, tutto fumo e poco arrosto, o era sempre il solito timore che le bloccava. E così si erano spinte ancora più oltre, avanti avanti, nella periferia. Avanzavano a piedi nella città dolente. Casermoni che neanche sapevano esistessero. «Chi ha potuto fare questo?» diceva Camilla stupefatta. «C'è stata un'altra guerra e il nemico ha costruito invece di distruggere?» «Dev'essere una delle famose periferie degradate» disse Giulia, «le ho sentite nominare.» «Io non ce la faccio. Dovremmo smettere di cercare» fece Camilla. «Chi cerca trova e chi non cerca perde» sentenziò Giulia. «E questo?» chiese stupita Camilla, di solito era lei che tirava fuori frasi così. «Tipico detto fiorentino» le fece il verso Giulia. «Sarà, mai sentito.» Un'ora dopo stavano per risolvere il problema dell'approvvigionamento. Lo stradone si srotolava come la scia di una gigantesca lumaca verso la fine del mondo. «Lo sai dove porta?» chiese Camilla. «Non hai visto il cartello?» «È che per essere una ragazzina non ci vedo più tanto bene.» C'era una luna piena come al tempo degli etruschi. Aspettavano un ragazzo. «Come al primo appuntamento» aveva detto Giulia. Chissà perché gli era sembrato il tipo giusto. Intuito femminile, probabilmente. «Questo qua viene a pipa di cocco» aveva detto Camilla. «Cade a fagiolo» aveva fatto eco Giulia. Gli era parso un così bravo ragazzo che, nonostante la situazione non del tutto legale, non si erano affatto peritate di dirgli la zona del centro in cui abitavano, anche per rimarcare la differenza di classe che c'era tra loro e quel periferico degradato, il quale comunque non aveva colto la sfumatura. Il buon selvaggio di oltrelemura non si era mostrato stupito che due signore d'alto rango uscite da un'altra era come Veneri dal mare volessero concludere una transazione d'affari con lui in quel tempio del cemento. E neanche era parso diffidente. Aveva solo detto che lui non aveva quello che cercavano e sarebbe andato a chiamare un altro che ce l'aveva. Un tale Marco, in cui riponeva la massima fiducia. Le due avevano aspettato dieci minuti sull'unica panchina di un giardinetto spelacchiato, di fronte a un antro orrendo con l'insegna luminosa "Bar Eden", probabilmente autoironica. «Qui se chiedi un tè ti danno un topo morto da mettere nell'acqua calda tenendolo per la coda, al posto della bustina Twinings» aveva ipotizzato Camilla.
«Guarda che secondo me te lo danno vivo, cara» aveva risposto Giulia. Mentre Giulia guardava lo stradone, aspettandosi da un momento all'altro di veder spuntare la lumaca gigante di ritorno dalla fine del mondo, era tornato invece il ragazzo e aveva detto: «Il mio amico non c'è, faccio io». La cosa non quadrava mica per niente. Di colpo era sparita l'euforia dell'avventura ed era tornata quella consapevolezza di essere indifese. Era terribile, chiunque poteva approfittarsi di due povere vecchie, quando venivano meno le convenzioni sociali che le proteggevano. Il ragazzo era vago e ridacchiava a sproposito. Gli si erano gonfiati i brufoli e gli occhi, che poi erano molto simili. Era cambiato. In quei minuti doveva essersi fatto. Non era più rispettoso, per niente. Anzi. Invitava le due a seguirlo in un vicolo di cemento. Più che altro era un ordine. Le guardava e rideva, rideva così tanto, piegato in due sulla panchina. Ma non era una risata allegra, era una risata minacciosa. «Eccoci all'acqua» disse Camilla. Era più umiliante che con Emiliano. Questo qua era solo un ragazzetto che non aveva vissuto un decimo delle cose che avevano vissuto loro. Il mondo era in mano a persone deboli ma cattive. Almeno un tempo i cattivi erano forti. E com'era brutto, il ragazzetto. Erano tutti più brutti e più deboli di un tempo. Ernesto avrebbe potuto schiacciarlo con un mignolo, questo qua. Giulia era in piedi accanto a lui e muoveva i piedi per il freddo e per la paura. Il ragazzetto, certo uno studente modello in qualche istituto con la didattica sperimentale, stava ancora piegato senza respiro e diceva: «Ora mi seguite». Stava tirando fuori un coltello. Ma con calma. Sapeva che quelle due poverette non avevano scampo, come minimo le rapinava. Giulia ai suoi tempi era stata campionessa di nuoto, aveva condotto un'esistenza acquatica e faceva ancora ginnastica quotidianamente. "D'altra parte, finché sono viva sono ancora i miei tempi" pensò. Gli prese la nuca, e spinse in basso con tutte le sue forze. Quello una cosa del genere mica se la aspettava. Non fece in tempo ad apprezzare il contatto con gli anelli di classe che impreziosivano la mano di Giulia, e del resto sarebbe stato comunque inadeguato. Lo spigolo della panchina entrò in rotta di collisione con la bocca del ragazzetto e ci fu uno strano rumore. «Piglia e porta a casa» disse Camilla. Sulla panchina c'era una scritta volgarissima: "I piedi delle fiche sono boni". Il ragazzetto rotolò in terra senza un lamento, improvvisamente serio, ai piedi delle due signore disgustate. «Non ride più» osservò Giulia. «Non avrai esagerato?» si preoccupò Camilla. «È andato» disse Giulia frugandogli in tasca. «Andiamo anche noi.»
Il ritorno Due principesse prigioniere hanno bisogno di incantesimi. È stato giustamente detto che nella nostra epoca il rito viene trascurato. Non così per le due principesse. Era proprio il rito segreto a dar loro la forza di vivere recluse, o vivevano recluse per officiare il rito segreto, non lo sapevano neanche loro. Quello che sapevano era che, quando il momento veniva, Camilla diceva: «Le questioni più gravi vanno trattate con leggerezza». E Giulia rispondeva: «Quelle meno gravi vanno trattate con serietà». Era, questo dialogo fisso, una citazione proveniente da un lontano passato, da qualche altra vita. «Secoli fa...» sussurrava Camilla con civetteria riferendosi alla vita di prima, come se il tempo fosse un suo sottoposto. Poi diceva: «Tiriamo fuori l'argenteria». Disponevano i sacri strumenti e davano inizio alla parte concreta del cerimoniale. «Gradisci un poco di zucchero?»
«Lo sai» rispondeva Giulia. «L'importanza della tradizione» commentava Camilla. «Due povere donne alla deriva, in balia di se stesse» chiosava Giulia. Erano due naufraghe nell'oceano. La zattera cui erano aggrappate era l'appartamento. Il mare era Firenze tutta intorno. Gli oggetti dei tempi andati, affioranti nel salotto ombroso, le abbagliavano con il loro carico di ricordi. Eppure, appena si avventuravano nel cuore del rito, tutto tornava a essere presente. Un presente vivo invincibile. Era per essere invincibili che le due amiche si drogavano. Custodivano tutto l'armamentario in un cofanetto prezioso, che lo zio Cosimo (come minimo un prozio della nonna) aveva portato dall'India all'inizio del secolo. Non usavano mai termini come "droga", o "siringa", o roba del genere. Volgarità che non rendevano l'idea. «Passami la pozione magica» diceva per esempio Camilla a Giulia, che gestiva tutte le cose - anche quella cosa - dal punto di vista pratico. In realtà avrebbe potuto farlo anche Camilla, ma c'erano dei ruoli da rispettare. Piero faceva arrivare la pozione magica dal lontano Oriente. E loro fantasticavano che la pozione viaggiasse su carovane di cammelli attraverso luoghi favolosi, prima di giungere a loro, anche se sapevano benissimo che era più comodo portarla in aereo. Certo non potevano pensare di trovare la medesima ambrosia in piazza Santo Spirito o in piazza Dalmazia, ma per il momento erano disposte ad accontentarsi ricorrendo a sostanze magiche più comuni e meno divine. Non che fossero delle drogate vere, di quelle che fin da giovanissime rovinano la vita a sé e agli altri. Loro no. Non avevano mai dato disturbo a nessuno. Avevano cominciato a drogarsi da pochi anni, in tarda età. «Tanto non abbiamo nulla da perdere» aveva detto Camilla. «Gli uomini non ci interessano più, la bellezza e la salute ci stanno abbandonando.» «Veramente staranno abbandonando te» aveva ribattuto l'amica. Ma poi si era buttata con grande entusiasmo nella nuova avventura. Però è vero che erano belle. Quando erano giovani c'era in loro una specie di luccichio silenzioso e questo luccichio silenzioso con gli anni si era accentuato. Se pure un po' sepolto dalla natura che aveva fatto il suo corso. «La morte è una siringa vuota» disse Giulia contravvenendo per la prima e ultima volta al tacito patto di non nominare mai la parola "siringa". Era scossa dagli avvenimenti del giorno prima. «Riempila, cara» rispose Camilla. Un po' tremava. Anche lei non si era del tutto ripresa. «Sei ancora giù per il ragazzo che è andato a sbattere contro la panchina? Ho avuto una certa responsabilità nell'incidente» disse Giulia. «Sono cose che possono far venire l'esaurimento nervoso.» Più che altro parlava per sé. In fondo, non aveva mai ucciso un uomo, anche se poi quello era minorenne. «Neanche un po'. A volte non puoi fare la frittata senza rompere lo spacciatore» disse Camilla. Risero. E cominciarono il rito. Emiliano era in grado di fare più cose insieme. Ora per esempio si puliva il naso, incartava del prosciutto e stava pensando a quali avanzi andati a male propinare alle due lesbiche. Sua moglie gli urlava nell'orecchio che lui era troppo generoso, e aveva ragione. Doveva essere meno ingenuo. Tra l'altro la sua era una famiglia di intellettuali: il figlio studiava. A parte questo, cosa portare alle vecchie? Era incerto tra le triglie rancide e un gatto in umido chiamato coniglio. Stava quasi per decidersi quando vide un ragazzino con la faccia tutta distrutta e rabberciata scendere da una macchina. Emiliano era l'occhio del quartiere. Dopo il ragazzino scesero una donna, e altri due ragazzi più grandi con l'aria dei delinquenti abituali o delle fiamme gialle in borghese. Si misero a fare domande al fruttivendolo.
Emiliano non li aveva mai visti prima. È vero che passavano continuamente fiumi di persone che non aveva mai visto prima, ma si trattava di turisti. Questi qua invece non erano turisti. E di sicuro non si informavano sul prezzo del cavolfiore. Cosa stavano cercando? Emiliano non uscì. Non voleva sembrare curioso. Aspettò che venissero da lui. Perché la questione era questa: il ragazzino della panchina non era affatto morto, si era solo un po' sfasciato la faccia. Aveva raccontato la cosa alla mamma, la mamma se l'era presa. Ma come potevano fare una cosa del genere al suo bambino, quelle streghe? E così lo sfasciato aveva ripensato al fatto che le due vecchie troie gli avevano detto dove abitavano, più o meno. Adesso si trattava di trovarle. Non avevano avvertito le forze dell'ordine perché non erano quel genere di persona, avevano una formazione diversa. E poi sarebbe stata dura spiegare cosa ci faceva lo studente modello con le due signore. Le autorità avrebbero d'istinto dato ragione alle vecchie. La questione era da chiarire in privato. Si erano portati dietro due amici di quelli che chiariscono bene le questioni. Le streghe dovevano pagare per il danno, e pagare parecchio. Le principesse deliberarono di uscire ancora: ci stavano prendendo gusto. Erano decenni che non uscivano per due giorni consecutivi. Sentivano dentro di sé tutta l'eccitazione dell'adolescenza. Non sapevano cosa le aspettava. Di solito il tempo passava di nascosto, invece ora era tornato a essere una cosa solida, dava soddisfazione. «Mi sento rinascere» disse Camilla respirando con voluttà. «O sangue mio come i mari d'estate!» recitò Giulia. Ogni tanto ritornavano sull'argomento del ragazzo della panchina, un pessimo fornitore. «Non bisogna piangere sul latte versato» diceva Giulia. «D'altra parte noi non abbiamo versato latte» diceva Camilla. «Brava cara!» Erano euforiche. Passavano davanti ai negozianti che anni prima avevano "tradito" per Emiliano. In passato gli avevano tolto il saluto per qualche torto subito, tipo una mela ammaccata o una busta di cibo per pesci con uno strappo. Ora invece li salutavano affabilmente, benevole verso i sudditi, e quelli le guardavano sbigottiti, come una doppia apparizione. D'altra parte i sudditi erano rimasti in pochi. Per lo più avevano chiuso, per far posto a sempre nuove banche. L'unica cosa immutabile era il mendicante cieco all'angolo, doveva essere immortale. Anche perché, come tutti i mendicanti ciechi, in realtà oltre a vederci benissimo era miliardario e quindi poteva permettersi cure all'avanguardia e trattamenti di mummificazione che gli conferivano quell'aria solenne. Erano così radiose che allungarono venti euro all'immortale. Si spinsero fino al negozio degli animali per comprare il cibo per i Lorocari. Di solito gli arrivava insieme alla pozione magica, sempre grazie a Piero. Infatti non è che fossero perfettamente sole in casa. Avevano un acquario dove nuotavano i Lorocari: tozzi pesci voraci che le due dame trovavano irresistibili, un po' perché erano il grande amore di Ernesto, il marito di Camilla. Ma anche perché rappresentavano una bellezza diversa rispetto a quella bellezza armoniosa nel cui culto erano state educate. Una bellezza più rude e selvatica. Passavano lunghe ore a guardare le lente evoluzioni dei Lorocari. Dopo un po', a forza di fissarli, forse grazie anche alla pozione magica, la testa di quei pesci diventava la testa di persone che avevano amato, tra cui Ernesto, e allora la cosa si faceva ancora più interessante. Non era pazzia, solo amore, nostalgia e sogno. E poi Ernesto anche da vivo era un nuotatore formidabile. Uno dei loro argomenti preferiti era la corretta alimentazione dei Lorocari. In verità i pesciolini sleppe da mezzo chilo l'uno - andavano pazzi per gli avanzi di Emiliano. Il che forse significava che mangiavano qualsiasi cosa. Erano pesci della taiga, capaci di sopravvivere in situazioni estreme, così
aveva detto il marito di Camilla quando li aveva portati da uno dei suoi viaggi in terre lontane. «Che schifo» era stato il commento della moglie. Ma poi, nella sua seconda vita, aveva imparato ad amarli. E in effetti negli anni i Lorocari si erano adattati a situazioni estreme: come la vita da ectoplasmi delle due principesse. I pesci avevano prosperato, dimostrando che la natura selvaggia, cioè in definitiva la vita, si trova benissimo anche tra i fantasmi, e ora anzi c'era il problema che l'acquario era troppo piccolo. E da tempo le principesse cercavano altre soluzioni per i Lorocari che nell'estasi della pozione magica assumevano le sembianze degli affetti. Quando li contemplavano non erano né sveglie né addormentate. E superavano il tempo. «Possessione sciamanica» diceva Camilla. «Trasumanar significar per verba / non si poria» diceva Giulia. Ora stavano tornando indietro, tutte giulive. Ripassarono dall'angolo presidiato dal mendicante. L'immortale probabilmente era il proprietario dell'intero palazzo e stava seduto là fuori a sorvegliare, o così per pigrizia e per vezzo. Alzò la testa, erano una decina d'anni che non lo faceva, di solito stava a capo chino. Le guardò e disse: «Attente, Senzafaccia vi cerca.» Probabilmente lo fece per riconoscenza, per via dei venti euro. Non che ne avesse bisogno, ma aveva apprezzato il gesto. Le due si guardarono senza comprendere il senso dell'avvertimento, ma capivano che era un avvertimento. L'immortale stava proprio sull'angolo. Sullo spigolo. Camilla sporse cauta il collo e li vide senza essere vista. Per primo riconobbe Emiliano. Ma non gli ci volle molto a capire chi era Senzafaccia. «Affrettiamoci» disse. Si mimetizzarono nella folla dei turisti, una giungla in movimento. Intanto cercavano di capire il significato di quello che avevano visto. «Quando vedi un morto che va in giro di solito vuol dire che è vivo» disse Camilla. «Per me questo burattino è già morto, ma se per caso non fosse morto vorrebbe dire che è ancora vivo» recitò Giulia. «Vivi o morti, i giovani di oggi sono idioti.» «Almeno quanto quelli di ieri, cara. Meno male che non dobbiamo preoccuparci delle cose di cui si preoccupano i giovani.» «Questi giovani drogati mi fanno schifo.» «Ma poi hai visto come si riducono, che aspetto trasandato? Con tutte quelle bende in disordine!» «Ma secondo te Emiliano gli ha detto dove abitiamo?» Avevano paura a tornare a casa ma erano stremate. E poi non potevano abbandonare i Lorocari. Emiliano non aveva resistito: era uscito casualmente e aveva intercettato i cercatori. Quando la madre premurosa di Senzafaccia gli aveva chiesto se sapeva dove abitavano le vecchie, Emiliano, stupefatto, aveva capito subito di quali vecchie parlasse. Però non aveva detto la verità: era rimasto sul vago, tra il sì e il no, come se stesse parlando di due nomadi. Non capiva cosa volevano da loro e temeva che intendessero rubargli l'osso. Era lui il padrone delle due vecchie, cristo! Se le era lavorate e aveva dei diritti, come gli diceva sempre sua moglie. Mentì. Disse che voleva saperlo anche lui, dio santo, dove abitavano esattamente quelle, perché con tutte quelle arie snob in realtà erano delle barbone e gli dovevano un sacco di soldi. Lui era un onesto lavoratore e non era giusto che gli rubassero il pane che si sudava con la fronte. «Ma ora vedrete che le troviamo.» Così disse, per prendere tempo e capire meglio. Sul fatto che il suo pane fosse sudato aveva ragione. Un trentenne lungo lungo, con aria scema ma furba, individuò le due vecchie nella folla. Gli si parò davanti. Raccontò una storia molto confusa e penosa. La morale era: potevano le due signore anticipare dei soldi? Lui gli avrebbe lasciato una scatola, poi sarebbe tornato a riprendere la scatola e gli avrebbe reso i soldi, anzi un po' di più, per il disturbo. Si rivolgeva a loro perché si vedeva che erano due persone per bene. Con tutti i delinquenti che c'erano in giro non si fidava di altri. E sorrise
amabilissimo. «Senta giovanotto, non è aria» disse Camilla. Ma il tipo non capiva la metafora. Allora Camilla spiegò meglio: «Dovresti levarti dalle palle». Quello realizzò e sparì. Giulia rimase a bocca aperta, affascinata dall'uscita dell'amica. «La risposta fa la signora» disse Camilla compiaciuta. Però non potevano vagare per l'eternità. Dopo un'altra mezz'ora non ne potevano più. Decisero di rischiare, di tornare a casa e di prepararsi all'assedio, sempre che quelli non fossero già lì e le stessero aspettando. «Andiamo» disse Camilla. «Sì, ma prima passiamo dal fabbro» disse Giulia.
L'attesa Se il primo piano era un placido lago di ricordi, il pianterreno, regno di Giulia, era un mare di ricordi in tempesta. Bisognava attraversarlo per raggiungere il minuscolo cortile. Tutto l'appartamento girava attorno a quel cortile, a cui era possibile accedere da due porticine, una di fronte all'altra, su lati opposti. Da tempo immemorabile erano chiamate porticina numero uno e porticina numero due, non si sa perché. I muri del cortile erano coperti di una sostanza nera e verde. Una sostanza viva, probabilmente un incrocio tra muschio e muffa. Il fabbro era confuso. Le due pazze lo avevano trascinato a casa con l'imperio di molto tempo prima, col piglio di quando l'intero quartiere si inchinava a un loro cenno. Ma l'appartamento al pianterreno testimoniava che qualcosa era mutato. Erano passati per miracolo: quel posto era un caos indescrivibile di stanze morte, sembravano i resti di un naufragio. Poi attraverso la porticina numero uno lo avevano fatto entrare in quel cortile simile a un pozzo e ora chiedevano una grata che lo coprisse come fosse un tetto. «Ma perché volete una grata simile?» Il fabbro -quell'uomo nerastro - stringeva le labbra e non riusciva a capacitarsi. «Ma per i ladri» rispose prontamente Giulia, «è già due volte che ci entrano in casa calandosi dall'alto.» «Ma perché allora volete che la grata protegga solo il pianterreno e non anche il primo piano, visto che abitate là?» Fece questa domanda cercando di essere paziente, come se più che una domanda fosse una spiegazione. «Le cose preziose le teniamo al pianterreno» gli disse Camilla, e gli strizzò l'occhio. La cosa non tornava, perché il primo piano era blindato. «È un trucco» rispose Camilla. Gli chiesero di rafforzare le porticine e di metterci delle guarnizioni di gomma che non facessero passare l'acqua in casa. Un passo decisivo nella loro guerra ai reumatismi. Poi basta, finestre sul cortile tanto non ce n'erano, al piano terra. Quei discorsi non avevano senso. Con la grata, che bisogno c'era di rafforzare le porte, e cosa importava se c'erano finestre o meno? Poi saltarono fuori con altri dettagli. C'era un buco da cui defluiva l'acqua, perché quando pioveva forte il cortile si allagava subito, con una velocità incredibile. Ebbene, gli chiesero di tapparlo, perché da lì arrivavano certi topi bruttissimi. Erano richieste assurde e contraddittorie: da una parte pretendevano che l'acqua non entrasse in casa, dall'altra volevano tappare il buco che la faceva defluire. Ma il fabbro aveva una mentalità matematica: se pagavano avevano ragione loro. E nonostante il naufragio qualche soldo doveva essergli rimasto. «Potrei venire la prossima settimana» disse. «Ma noi ne abbiamo bisogno adesso.» «Impossibile» ribatté pensoso carezzandosi i fluenti peli dell'orecchio con il metro. Ma quando Camilla con gesto soave tirò fuori il libretto degli assegni, il fabbro si risolse a fare tutto a velocità record, come gli chiedevano. Dopo tutto era di buon cuore. E poi quelle avevano una strana determinazione negli occhi. Chiamò i suoi figli e si sbrigarono.
La nottata passò. Senza che arrivasse nessuno. I pesci planavano quieti. Le principesse non dormivano. «Forse ti sei sbagliata e Senzafaccia non era lo spacciatore» disse Giulia. «Eccome se era lui.» «Forse non ci stanno cercando.» «Coraggio a dargliene: eccome se ci stanno cercando. Ma ci troveranno pronte, stai tranquilla.» «Certo cara.» Cercarono anche la pistola del nonno Ludovico, quella col manico di madreperla. «Non c'è» disse Giulia. «Sarà stata spostata con la guerra» disse Camilla. «Ma non ne avremo bisogno.» Non era male la sensazione dell'attesa. Si sentivano forti. Camilla suonava il pianoforte, Giulia guardava la carta da parati. Sia la musica che la carta da parati raccontavano loro di storie lontane. Parlavano. Ridevano. Ricordavano. Erano struggenti e sarcastiche. Pronte all'azione. «Secondo te quando arriverà?» disse Camilla. «Quando arriveranno, vorrai dire» ribatté Giulia, sempre pragmatica. «No, quando arriverà. Lei, intendo.» «Ah... Lei, intendi.» In realtà Giulia sorvegliava sempre, perché sapeva che sarebbe arrivata da una crepa nella carta da parati. «Sì, ormai non siamo più delle ragazzine.» «Ti ricordo che non lo siamo mai state, siamo sempre state delle signore, cara. E comunque, mi interessa di più capire quando arriveranno loro.» «Sì, ma Lei non potremo tenerla fuori con una grata.» «Così dicono.» «Potrebbe essere il nostro nuovo fornitore, visto che non riusciamo a trovarne uno degno della nostra classe.» Giulia si illuminò: «Potrebbe essere, sono sicura che Lei è piena di pozione magica.» «Se la roba è buona, non ne faremo una questione di prezzo» osservò Camilla con dolcezza. Così come si erano progressivamente ritirate dal mondo, allo stesso modo si erano ritirate da certe zone della casa. Nella battaglia contro il tempo, concedevano territori fisici, ma ampliavano i sogni. L'appartamento al primo piano era spazioso, ma le due principesse trascorrevano gran parte delle loro giornate in un'ansa del salotto dove avevano riunito le cose fondamentali: il pianoforte, l'acquario e la televisione. La carta da parati c'era già. Lo scrigno indiano dello zio Cosimo, che custodiva gli strumenti per officiare il rito della pozione magica, era a sua volta nascosto in uno scrittoio pieno intarsi e di cassetti. «Le buone cose di ottimo gusto» diceva Giulia. «Non faceva "le buone cose di pessimo gusto", la poesia di Gozzano?» chiedeva Camilla. «Gozzano era un barbone.» «Non è vero, fossi nata prima lo avrei assunto come arredatore.» «Sarebbe stato un errore, il tuo gusto è impareggiabile.» In quel loro rifugio i divani non erano coperti dai lenzuoli. La televisione era sempre accesa, senza audio. Un quiz condotto da Gerry Scotti dava la cultura alle masse. Poi apparvero dei tipi con bandiere verdi: non si capiva se erano leghisti o militanti di Hamas. Ogni tanto facevano ricorso alla pozione magica, quel poco che avevano sottratto a Senzafaccia. Guardavano i pesci, sperimentando ancora una volta la possessione sciamanica nel centro di Firenze, uno dei posti più adatti. Vedevano i loro mariti galleggiare nel tempo e chiedere cibo. L'ansa ombrosa che era il centro della loro vita aveva una finestra che dava sul cortile. «Ci pensi che nel Rinascimento riempivano d'acqua il cortile di palazzo Pitti e ci facevano le battaglie
navali? Con vere navi. E i Medici guardavano la battaglia dalle finestre» disse Camilla. Non era indifferente al lusso. Da bambina aveva letto queste parole in un libro di scuola: Il lusso sfrenato dei papi. Era il titolo di un capitolo. Nelle intenzioni dell'autore doveva essere una critica severa, ma nella sua mente di bambina era suonata come una cosa irresistibile. «Già» rispose Giulia, «dovremmo farla anche noi la battaglia navale. Potremmo riempire d'acqua il cortile con le sistole.» Chiamavano sistole i tubi di gomma, come tutti a Firenze. Il discorso della battaglia navale lo avevano già fatto infinite volte ma gli piaceva sempre fantasticare. In effetti erano piene di tubi di gomma, in bagno e in cucina. Risalivano al tempo in cui il cortile era pieno di piante, e ancora da laggiù saliva un profumo tetro. «Quelli arrivano, e non useranno le buone maniere» disse Giulia. «Quanto resisteremo?» Ma Camilla non la ascoltava, si era rimessa al pianoforte, suonava qualcosa di nuovo. Canticchiava, perfino. «Ma che roba è?» chiese Giulia. Di solito l'amica storpiava Chopin. Camilla senza interrompersi rispose: «È una nenia che la mia balia mi cantava da bambina. Me l'ero scordata, mi è tornata in mente ora, dopo tutti questi anni.» Per l'esattezza, non è che i pesci della taiga semplicemente mangiassero gli avanzi di Emiliano, così, di malavoglia. I Lorocari adoravano gli avanzi di Emiliano. Giulia guardava il modo in cui si contendevano una crocchetta bisunta. «Gli animali totemici divorano il nemico» diceva sempre Giulia. «Il morto è sulla bara» rispondeva Camilla. L'attesa non finiva mai. Non si sentivano più così forti. «Ma arriveranno?» chiese per la ventesima volta Camilla smettendo di suonare. «Arriveranno, arriveranno.» «Non pensavo che ci tenessimo così tanto alla vita, alla nostra età.» «Pensa per te, cara. Io sono di sei mesi più giovane.» Per cinque minuti stettero affacciate alla finestra, guardavano il cortile che pareva un pozzo. «Mi sembra tutto in regola» disse Camilla. «Ti ricordi quando era pieno di piante? Come sembrava più grande allora!» «Ere geologiche fa, bambina.» Più che altro guardavano la grata sotto di loro. «Che bella grata» disse Giulia come parlasse di un tramonto. «Pensi che reggerà?» «Vedrai di sì, prima che il gioco resti.» L'aveva appena detto che suonò il campanello.
Nel labirinto del tempo C'erano stati tempi più giusti, tempi normali, in cui al suono del campanello accorreva la cameriera. Ora facevano tutto loro. Perfino le pulizie. Nonostante l'antico benessere dovevano stare attente con i soldi. Era soprattutto Giulia che teneva i conti: secondo i suoi calcoli aggiornati avevano soldi per soli altri tre lustri di vita. «Altrimenti potremmo derubare quelli che cercano di truffare le vecchiette» aveva detto una volta Camilla, «nessuno ci denuncerebbe.» Era un'idea che dovevano rispolverare, se sopravvivevano. «Rita Rita, la nostra bellezza sfiorita» disse Giulia con aria ispirata. Ogni tanto diceva delle cose così, assurde, per divertimento, o per infondere coraggio a sé e all'amica nei momenti critici. «Pensa per te, e poi io mi chiamo Camilla» fu la risposta. Era concentrata sull'azione prossima ventura. Rimise con dolce calma la copertina sulla tastiera. Era una specie di sciarpa da pianoforte, fatta dalla
bisnonna. Poi chiuse il coperchio di legno. Avevano anche indossato le perle del Mare del Diavolo. Loro le chiamavano confidenzialmente perle del diavolo. Non che non fossero sempre eleganti, ma oggi di più: aspettavano visite. Il campanello suonò ancora. Rimbombava nella casa. Era il destino che bussa alla porta, ma un po' più isterico rispetto a quello della Quinta di Beethoven. «Dobbiamo andare» disse Giulia. «Sarà Lei o saranno loro?» «Potrebbero anche essere venuti insieme» sorrise Giulia guardando la crepa nella carta da parati. «Non facciamoli attendere troppo.» Salutarono con un cenno carico di sentimento i Loro-cari e andarono. Potevano anche non vederli mai più. Emiliano cominciava a spazientirsi. Quelle non aprivano. Che avessero capito tutto? Strano, visto che non aveva capito bene neanche lui. Era chiaro che i quattro a cui si era unito non volevano portare un regalo alle due galline pazze dalle uova d'oro. A occhio volevano dei soldi. Ma lui perché era lì? In prima fila, con il sacchetto del cibo a perfezionare l'inganno. Emiliano fu preso dal dubbio di aver sbagliato. Ma poi si ricordò che li stava aiutando perché non aveva scelta. Quella era gente che non scherzava, soprattutto gli amici della madre dello sfigurato. Non aveva scelta, li aiutava e al tempo stesso li controllava, dato che le due vecchie erano roba sua. E così se c'era da arraffare avrebbe arraffato. Invece di aprire il portone col pulsante accanto al citofono, come facevano abitualmente, le principesse scesero giù. Alla fine delle scale c'era il corridoio e in fondo il portone. Sulla destra c'era la porta dell'appartamento del pianterreno. «Signore, aprite, lo so che ci siete» risuonava la voce di Emiliano con un tono che secondo lui doveva risultare amichevole. Non capiva perché non aprivano. Certo non potevano sapere cosa bolliva in pentola. Cominciava a provare una certa apprensione, anche per gli sguardi obliqui dei suoi compagni. Non è che davvero quei quattro volevano pestare le galline? E se poi la polizia incolpava lui? No, impossibile che arrestassero uno con una rosticceria così ben avviata. Sentì la voce della vecchia sfiatata: «Sto arrivando, c'è il citofono rotto, arrivo, arrivo.» Sentiva il rumore dei piedi che strisciavano freneticamente. Le aveva in pugno, quelle vecchie. Era anche una rivalsa sociale. Rivolse un sorriso di trionfo alla madre del relitto, però quella rimase impassibile come i suoi due amici. Soltanto il ragazzetto sotto le bende ridacchiava tutto eccitato, come avesse sentito la parola "culo" durante una lezione scolastica. Non andarono subito ad aprire il portone. Camilla dischiuse la porta dell'appartamento del pianterreno: il regno lussureggiante di Giulia. Secondo la quale non era caotico, era ricco. Un regno a più strati, c'era di tutto. Dai tappeti berberi ai gusci di tartaruga marina. Sedie che spuntavano come scogli, armadi scuri che si ergevano come montagne. Lucerne. Ciarpame. Cose preziose. Cose incomprensibili. Pile di riviste. Un numero sorprendente di letti. Piantine bonsai secche, mummificate, chissà da quanto tempo. Corni di rinoceronte dell'avo esploratore, orologi a cucù. Qualsiasi cosa. E poi, sopra tutto, le conchiglie: splendevano appoggiate un po' ovunque, come sirene nella tempesta. «Aspetta me prima di metterti a correre, cara» disse Giulia con dito ammonitore. Si abbracciarono brevemente nell'ora fatale, con un'intensità senza smancerie. Se una delle due sentì le lacrime salire, non lo dette a vedere. «Stai attenta, bambina» rispose Camilla. «Ormai le abbiamo in pugno» disse Emiliano quando il portone cominciò ad aprirsi. La casa era la loro corazza, se ci entravi dentro erano inermi come grossi paguri. La banda dei quattro fremeva di impazienza. Ma Emiliano sapeva essere cauto. Vide solo la faccia della pagura Giulia, quindi la pagura Camilla doveva essere rimasta su. Bisognava essere gentili, o quella non avrebbe aperto la porta di sopra. «Oh, cara signora, buongiorno, ho qui degli amici che avrebbero piacere...» Ma non fece in tempo a finire la frase che Giulia si girò e schizzò via nel corridoio a una velocità
insospettata. Li lasciò tutti a bocca aperta. Non sapevano che Giulia faceva ginnastica tutti i giorni. Però la principessa aveva fatto in tempo a vedere il volto feroce e determinato della madre di Senzafaccia. Una ferocia ordinaria, da donna del popolo. «Dàgli» urlò la salariata della strada. Una specie di scimmia mascolina. Giulia raggiunse Camilla e disse: «Svelta, seguimi». Si buttarono nel caos dell'appartamento del pianterreno. Scavalcarono agilmente una montagna di antichi giocattoli e si ritrovarono davanti una specie di radura, uno spiazzo di terreno libero circondato dai resti delle maree del tempo come da una foresta. Dalla radura partiva un vialetto comodissimo: chiunque sarebbe andato di là, visto che la strada era sgombra. E infatti Camilla lo imboccò. «No» le disse Giulia tirandola per un braccio, «è un inganno. Vieni.» E la fece strisciare sotto un letto che avrebbe potuto ospitare un'orgia di ippopotami. Veramente quello non era il caos. Era un labirinto. Si inoltravano nel cuore del labirinto. Giulia si muoveva con sicurezza assoluta. Giulia era come il Minotauro e Camilla come Teseo, solo che il Minotauro e Teseo si intendevano benissimo. Camilla la seguiva piena di fiducia. Per anni aveva chiesto a Giulia di mettere ordine in quel ciarpame, e per mettere ordine intendeva buttare via, o al limite mandare i cristalli di Boemia ai bambini del Terzo Mondo. Ma ora era contenta che Giulia non l'avesse fatto. Avevano una paura che le esaltava. Se quella era la fine, era eccitante. Se Lei era entrata con Loro, non le avrebbe trovate piagnucolanti. Anche perché tra signore non sta bene, come diceva sempre Camilla. Comunque intanto scappavano, non era ancora finita. Per niente. I due solidi amici dell'impiegata dozzinale sorpassarono con una virile spallata Emiliano ed entrarono per primi nell'appartamento del pianterreno. Avevano un'aria temibile, sicura, e fecero subito vedere quello che sapevano fare inciampando nel tappeto persiano e battendo una boccata memorabile contro il canterano stile impero. La dentatura di uno di loro ne risultò notevolmente ridimensionata. Si vede che era un destino, perdere i denti, per Senzafaccia e i suoi amici. «Il tappeto dello zio Ale» ridacchiò Giulia, «ci inciampo sempre anch'io. Ma sono più agile nella caduta.» Più avanzavano più sembrava una giungla viva. Tutti quegli oggetti si erano imbevuti di vita, negli anni. E ora la rilasciavano lentamente, come radioattività. Per non parlare delle conchiglie, che erano l'anello di congiunzione tra la Vita e l'Arte. Per permettere i lavori del fabbro&famiglia Giulia aveva liberato un passaggio, una specie di sentiero nella foresta amazzonica. Ma dopo che la grata del cortile era stata piazzata e la porta rinforzata e tutto il resto era stato approntato, allora Giulia aveva rimesso tutto a posto. Gli antichi oggetti erano tornati a essere governati dalla natura, che per quella volta si era fatta rappresentare dalla sua mente, e quello era di nuovo un territorio selvaggio. Ma era un territorio selvaggio in cui lei si muoveva come Tarzan, o come Dersu Uzala. «Ma come fai» continuava a ripetere Camilla che non aveva più fiato. «Mi farai morire.» «No, quelli ti faranno morire se non ti sbrighi.» Ora la stava facendo strisciare sotto un canterano del XVIII secolo. I due che avevano battuto la boccata si erano rialzati inferociti, più che altro per l'umiliazione pubblica, visto che anche tutti gli altri inseguitori erano ormai nell'appartamento del pianterreno. Erano pieni di buona volontà. Ma non avevano metodo nell'inseguimento, non si aspettavano di dover agire in un posto simile, andavano a sbattere da tutte le parti. Anche perché gli oggetti che costituivano il labirinto avevano troppa classe per loro, troppa storia, e questo li disorientava. Erano entrati con l'irruenza e la sicurezza degli americani in Asia, e ora dovevano fronteggiare delle sorprese. Sbong! Risuonò una botta. Qualcosa di grosso era caduto su qualcosa di vuoto. E poi l'urlo mostruoso dell'orco: «Porca troia, tanto vi prendo, puttane!». «La Cassis cornuta» osservò Giulia un po' in apprensione. «Speriamo non si sia rotta.» Si trattava di una conchiglia da cinque chili posizionata in equilibrio precario sullo spigolo di un armadio.
I movimenti felini delle principesse non l'avevano fatta cadere, ma si vede che l'orco aveva scosso l'armadio. Ora si erano appiattite sotto una pelle di leopardo del Bengala portata un secolo e mezzo prima dallo zio Vanni (per loro anche gli avi erano zii). «Dobbiamo stare ferme» sussurrò Giulia. In effetti gli inseguitori si erano fatti furbi. Non si sentiva più il frastuono delle cadute e degli urti. Evidentemente volevano capire con l'udito dove fossero le due vecchie. All'inizio forse gli inseguitori volevano solo soldi. Ma ora di sicuro intendevano uccidere. L'orco stringeva il sacchetto del cibo, perché non conteneva solo cibo. Ma le due principesse stavano immobili e mute sotto il leopardo. Non è poi così facile strappare il cuore di Biancaneve. Solo che a Camilla sembrava che il cuore di Biancaneve le stesse per balzare via dal petto. Giulia le strinse la mano, come tra compagne d'asilo. Non si erano mai scambiate così tanti gesti di affetto in decenni di vita insieme. «Il cortile è vicino» disse Giulia. «Il cortile è vicino» ripeteva come una preghiera. E per un attimo Camilla ripensò ancora ai fastosi cortili rinascimentali in cui si combattevano le battaglie navali e le parve di aver sbagliato epoca, ma in fondo anche in questa poteva prendersi le sue soddisfazioni. Ancora rumori e imprecazioni, gente che cadeva e andava a sbattere. «Si sono separati, per avere maggiori probabilità di prenderci» disse con un filo di apprensione Camilla. «Ma ora sono anche più vulnerabili» suggerì Giulia. Ci fu un urlo più forte degli altri, terribile, una specie di barrito. «Ho sbattuto la faccia ho sbattuto la faccia» piagnucolava Senzafaccia. La voce violenta e ordinaria della madre, da un altro punto dell'appartamento, preoccupatissima, gli chiese come stava. Giulia sorrise: «Andiamo, sono lontani». Strisciarono via dalla pelle di leopardo, scavalcarono l'ottomana della trisavola Domitilla dai disinvolti costumi. E la porta era lì. Ancora pochi metri e avrebbero raggiunto il cortile. «È fatta» disse Camilla. «Sei una guida fantastica, dovresti lavorare per il Touring Club.» Un'ombra obesa si parò tra loro e la porta. «Voi siete fatte» tuonò il rosticciere. Evidentemente era più furbo di quello che sembrava. O era stato fortunato, come quando un'onda ti prende e ti fa attraversare indenne un labirinto di scogli. Quando si era unito al gruppo di Senzafaccia, Emiliano non aveva certo intenzione di sgozzare le galline dalle uova d'oro. Ma le cose cambiano. E la caccia nel labirinto aveva eccitato una regione selvaggia, sepolta nella sua mente. Oddio, neanche troppo sepolta. Ora l'orco aveva trovato un pugnale malese e lo stringeva come un insaccato, quasi senza rendersene conto. Se almeno Giulia fosse riuscita ad arrivare all'argenteria. Quei coltelli della nonna Letizia sarebbero finalmente serviti a qualcosa. Li lucidava tutte le settimana, le dovevano un po' di riconoscenza. La cassa era sotto l'ottomana della trisavola. Ma l'orco intuì l'intenzione e sbarrò il passo. Poi avanzò verso di loro. «È la fine, bambina» disse Camilla. «Addio, cara.» Poi Giulia pensò che c'era qualcosa che non tornava: Lei non poteva avere le sembianze di Emiliano, c'è un limite al cattivo gusto. E poi Lei doveva arrivare dalla crepa nella carta da parati. Era un tacito accordo tra vere signore, la cosa più solida che esista. Fu allora che vide la Tibia fusus. «Sulla riva del mare Jannawath vide le sue prime conchiglie e gli parvero fiori» sussurrò con un filo di speranza.
La Tibia fusus è una leggiadra conchiglia affusolata che ha una specie di lunga coda aguzza. Di solito vive nel Pacifico Centrale. Ma al momento un esemplare di Tibia fusus si trovava sul canterano della nonna Adelaide, un po' tarlato ma sempre magnifico. Emiliano si avvicinava sprizzando litri di sudore. Aveva un tremito, non si capiva se perché era furibondo o perché era incerto. Giulia brandì la Tibia fusus ed eseguì un movimento velocissimo, come quando faceva saltare i sassi sull'acqua dell'Adriatico selvaggio, circa sessant'anni prima. Certi ricordi sono infrangibili, a differenza degli occhi. Alla fine del gesto di Giulia, Emiliano si trovò una Tibia fusus ficcata nell'occhio e si mise a urlare come Polifemo. Una conchiglia così elegante era sprecata in un corpo schifoso come il suo. Ma a volte il gioco vale la candela, come diceva sempre il confessore particolare di Camilla quando era giovinetta, un religioso che coltivava un'idea tutta sua di candela. Ma non era quello il tempo per i dolci ricordi. Giulia si mise in tasca la perla della Tridacna che stava in equilibrio su una statuetta di Capodimonte. La perla della Tridacna non è pregiata, in compenso quella era più grossa di una palla da golf, come amava sempre dire Ernesto, prima di diventare un pesce della taiga. Scavalcarono il bestione arenato nella risacca di antichi stoini, Giulia aprì la porticina numero uno e il cortile era là, di fronte a loro come una terra promessa. La tentazione era quella di scappare tutte e due là fuori. Ma sarebbe stato il loro ultimo errore. Dovevano attenersi al piano. «Vai» disse Giulia a Camilla indicando il terrificante gorilla nero impagliato a fianco della porta. Mostrava i denti e teneva perennemente alzato in gesto di minaccia il braccio sinistro, infatti la maggior parte dei primati sono mancini. Giulia era appena uscita in cortile e Camilla aveva appena finito di nascondersi dietro il gigantesco gorilla, quando improvvisamente dalla collezione completa della "Domenica del Corriere" emersero le teste di Senzafaccia, la donna del popolo e i due energumeni muti. «Dàgli, dagli» urlava la salariata. «Non fargli chiudere la porta.» Ma non è che esci facilmente da una collezione completa della "Domenica del Corriere", è peggio delle sabbie mobili. Giulia ebbe il tempo di raggiungere la porticina numero due sul lato opposto del minuscolo cortile, aprirla e mettere un piede nel corridoio. Ma non poteva chiuderla: non era finita. Ora veniva il momento decisivo. Sia Camilla che Giulia dovevano fare ognuna la propria parte, alla perfezione. La prima a raggiungere il cortile fu la madre di Senzafaccia, rivelando una certa vitalità plebea. Zoppicava, doveva aver battuto il ginocchio in qualche spigolo. Poi arrivarono gli energumeni che inespressivi ma furibondi - quasi trascinavano Senzafaccia ormai piagnucolante e stremato. Giulia, sulla soglia della numero due, prese la perla della Tridacna e la scagliò contro l'energumeno più vicino. Era sicura di sé. Troppo: gli sfiorò la tempia ma non lo prese bene. Quelli ripresero ad avanzare verso di lei. Il cortile era così angusto che si chiese se avrebbe fatto in tempo a chiudere la porticina numero due. Comunque non era il momento, perché la numero uno era ancora aperta. Forse il momento non sarebbe arrivato mai, forse qualcosa era andato storto. Ma scappare e chiudere la numero due ora, con la numero uno ancora aperta, avrebbe significato condannare a morte Camilla. La cosa buona era che quelli non si erano accorti che Camilla era nascosta dietro il gorilla. Giulia doveva fare qualcosa. Tra poco l'avrebbero raggiunta. Bisognava prendere tempo, non sapeva come. Doveva giocare d'astuzia. Allora disse: «Basta, avete vinto!» Rallentarono. Lei continuò: «Sì, avete vinto vi dirò dove nascondiamo il tesoro!». Si fermarono, pietrificati dall'avidità. La parola "tesoro" non apparteneva al loro vocabolario abituale, ma qualcosa gli suggeriva che era collegata a un sacco di soldi. In quel momento l'orco rotolò nel cortile. Evidentemente la Tibia fusus, nonostante le apparenze
vistose, gli aveva inferto una ferita superficiale, oppure Polifemo aveva una resistenza formidabile. L'orco aveva appena finito di rotolare che la prima porta si chiuse dietro di lui. Sbam! "Camilla ce l'ha fatta" pensò Giulia con sollievo. L'amica al momento opportuno, cioè quando tutti erano nel cortile, aveva abbandonato la protezione del gorilla e aveva chiuso la porta numero uno. "Ora tocca a me" pensò. Quelli erano ancora lì, paralizzati dalle troppe sorprese. Giulia non gli lasciò il tempo di riprendersi: chiuse la numero due. Poi girò più volte la chiave, mentre Camilla dietro la numero uno faceva altrettanto. Non avrebbe mai dimenticato quel momento: il suono delle due serrature era meraviglioso, sembrava il Notturno opera 148 di Schubert. Non a caso un adagio postumo. Quelli adesso erano soli, nel minuscolo cortile, con le due porticine massicce chiuse e una grata metallica sopra di loro. I due energumeni tirarono fuori le pistole, ma era troppo tardi. «Siamo in trappola» disse la donna del popolo atterrita. Una frase assolutamente qualsiasi, neanche la morte in arrivo sembrava regalarle un briciolo di fantasia.
I fasti del Rinascimento Le due principesse si ritrovarono commosse nel corridoio e risalirono al primo piano. A giudicare dal rumore, gli energumeni esplodevano colpi all'impazzata. Quei brutti ceffi sembravano cacciatori toscani contemporanei all'inseguimento di un fagiano d'allevamento. Ma a cosa sparavano? Forse alle porte, nel tentativo di aprirle. Solo che erano appena state rinforzate dal fabbro. E poi magari quei due presi dall'agitazione non riuscivano neanche a colpire la serratura. Non è che fossero dei veri tiratori. Grandi e grossi, al massimo erano buoni a colpire i drogati sulle panchine da distanza ravvicinata. Ma neanche quelli. Le pistole più che altro gli servivano per far colpo sulle aspiranti veline della periferia, che in attesa di raggiungere la maggiore età battevano irretendo i turisti. Il marito di Camilla invece era in grado di colpire un camoscio da cinquecento metri di distanza. Comunque, quando le principesse furono nella loro stanza preferita, si sentirono più tranquille. «Uff» disse Giulia parlando a Camilla ma anche ai Lorocari, «è stato faticosissimo ma ce l'abbiamo fatta.» Camilla si sistemò il vestito, che si era un po' stropicciato nella foga dell'azione, e chiese: «Ritieni che i vicini avranno sentito gli spari?» I rapporti di buon vicinato le erano sempre stati a cuore, per quanto non fosse facile mantenerli. «Ormai si fanno tutti i fatti propri» disse Giulia. «E poi se li hanno sentiti meglio: possono testimoniare che siamo state aggredite. Due povere vecchie.» Erano distrutte, avevano avuto due giornate faticose. Tuttavia non potevano lasciare le cose in sospeso, per via dei rischi. E poi una signora non lascia cose in sospeso. «Allestiamo lo spettacolo rinascimentale, cara?» disse Giulia, che pregustava il gioco come una bambina. «Inviti la lepre a correre» disse Camilla. I prigionieri, laggiù nella gabbia, cominciavano a realizzare che per loro non si era messa tanto bene. Quando ti svapora la furia omicida, di solito emergono le preoccupazioni. Cercarono ancora di sfondare le porte. Niente. Cercarono di sfondare la grata. Niente. Sollecitati dalla salariata, presero a sparare al lucchetto della grata. «Arrivano dopo il semaio» disse Camilla. Infatti avevano scaricato le pistole con la sfuriata di poco prima. Che potevano fare? Senzafaccia si illuminò tutto. «Il cellulare» disse, «chiamiamo rinforzi.» La ragazza madre fu fiera della genialità del figlio: anni di studio all'Istituto Tecnico non erano passati
invano. Tutti quanti frugarono nelle tasche alla ricerca dell'arma finale: i cellulari. «Secondo te Lorenzo il Magnifico usava le sistole?» disse Camilla. «Lo escluderei, ma noi siamo l'evoluzione della specie.» L'ansa ombrosa del salotto era attraversata da tantissime sistole, come serpenti. Ogni rubinetto della casa - e in quella casa non mancavano i rubinetti - era stato collegato a una sistola, come previsto dal piano Alfa. «Bisogna che il piano Alfa funzioni, perché non disponiamo di un piano Beta» aveva detto Giulia qualche ora prima, durante il briefing. Insomma fecero penzolare le sistole dal davanzale della finestra, come capelli grassi di una principessa trascurata. Dopodiché aprirono i rubinetti. Quando si affacciarono per godersi lo spettacolo videro i prigionieri che armeggiavano goffamente coi cellulari. «Forza, prendine una» disse Giulia. Brandirono una sistola a testa e giocarono a "spegni il cellulare". «Quella contro i cellulari è una battaglia di civiltà» disse Camilla. Poi lasciarono aperti i rubinetti. «Eccoci all'acqua» disse Camilla. E per una volta l'espressione andava intesa alla lettera. «Meno male che Emiliano è rotolato nel cortile, prima, altrimenti non avresti potuto chiudere la numero uno» disse Giulia. «Sono io che l'ho fatto rotolare dentro» le chiarì Camilla, «sono una ragazza atletica.» «Hai avuto paura?» «E te?» «Cara, adesso non parliamo di queste cose.» Molte ore dopo, l'orco galleggiava a pancia in giù come un mammifero marino. «Grasso che cola» disse Camilla. L'acqua era alta, ma aveva tutta l'aria di voler salire ancora, niente da dire sull'acquedotto cittadino, per il momento arrivava al mento degli oranghi muti, mentre Senzafaccia e la donna del popolo si erano aggrappati alle sbarre e cercavano di respirare. Solo che le due principesse avevano ripreso una sistola a testa e giocavano a colpire il volto dei prigionieri. Per cui respirare non era facile. «Alla fine Lei è arrivata, ma non è venuta per noi» disse Camilla. «Ma è ovvio, cara, io l'ho invitata a entrare dalla carta da parati. Non si presenterà certo in un putrido cortile, quando si tratterà di noi. Cosa credi.» «Io per primo libererei il mio Ernesto, se sei d'accordo» disse Camilla. Giulia fece segno di sì, non c'era neanche bisogno di dirlo. Camilla afferrò il retino, lo calò nell'acquario e prelevò con attenzione religiosa il pesce della taiga più grosso. «Vai amore mio» gli disse, e dopo averlo baciato lo buttò nella gabbia piena d'acqua. Quello dapprima sembrò interdetto per la confusione e si rifugiò in un angolo, ma poi cominciò a nuotare a mezz'acqua, come per valutare la commestibilità di quanto gli stava intorno. «Ora sta a me» disse Giulia. E con tutto il sentimento possibile tirò su un bel pesce, un po' più piccolo del precedente, ma molto battagliero. Infatti anche se nella caduta andò a sbattere contro un ferro della grata non si scompose e sembrò adattarsi subito alla nuova situazione. E così, un pesce per volta, un caro a testa, liberarono nel cortile tutti i Lorocari. «Ora avranno più spazio» disse Camilla. «Secondo te hanno fame?» «Loro hanno sempre fame» rispose Giulia. «È giusto che l'animale totemico mangi il nemico, si legge in tutti i libri. E poi, con tutti gli avanzi di Emiliano che hanno mangiato in questi anni, rimane solo che
mangino Emiliano.» «Quello che non ammazza ingrassa» chiosò Camilla. Si immaginava che, dentro, l'orco fosse fatto di gamberi fritti e altri avanzi: la sua anima. Appena fosse stato aperto dai pesci, avrebbero visto l'anima cadere sul fondo. Camilla sorrise con affetto, vedendo i suoi cari che nuotavano, guidati da Ernesto: un condottiero e un pioniere, come sempre. Rimasero a guardare e applaudire, dall'alto, come dame rinascimentali. «Che spettacolo, ne valeva la pena» disse Giulia. «Il lusso sfrenato dei papi» commentò Camilla commossa. Per festeggiare stapparono uno Château d'Yquem. Dell'86, naturalmente. «Un soffio di ottimismo» sussurrò Camilla mentre brindavano. SECONDA PARTE - La vita è una severa maestra
Diavoli sul tetto Nella profondità del salotto i mobili si perdevano nell'ombra, verso lontananze misteriose. Ogni tanto si accendevano improvvisi chiarori. «Volare è il sogno dell'uomo» disse Giulia guardando fuori dalla finestra uno stormo che migrava faticosamente nel muro di pioggia. «Il mio è sorvolare» disse Camilla riscuotendosi e sollevando la testa. «Vorrei poter sorvolare su tante di quelle cose, su tutte le cose.» «E ora che facciamo?» domandò Giulia. «E così via.» Ogni tanto aggiungeva questo "E così via" ai suoi discorsi, senza che si capisse bene perché. «Che possiamo dire o fare, se non nulla? Non so dove battere le corna.» «Abbiamo causato la morte di diverse persone» disse Giulia continuando a guardare dalla finestra. Lo disse con tristezza ma anche con candore. «Non erano diverse, erano simili» ribatté Camilla. «È meno grave.» «Eh già.» Quel "eh già" era il segno che erano di nuovo in simbiosi, dopo molte ore che erano state separate. Il loro solido legame non escludeva litigi o distanze. Anzi, nel loro microcosmo binario avvenivano tempeste, separazioni e ricongiungimenti che un osservatore esterno avrebbe stentato a riconoscere. Dopo il brindisi, passata l'euforia, erano cadute in uno stato di prostrazione talmente profonda che pareva loro di inabissarsi in un liquido denso. Era una sensazione che conoscevano bene. L'avevano vissuta per anni. Il loro metabolismo rallentava, adattandosi a una condizione di chiusura fisica e mentale. Una specie di regresso biologico. Ma questa volta erano cadute per così dire in pozzi separati. Forse ognuna ripensava al proprio passato come a un sogno. Eppure quel sogno lontano, per quanto potente, non aveva la forza di cancellare del tutto le difficoltà del presente. Perché quando ti ritrovi con il cortile pieno d'acqua, e in quell'acqua galleggiano dei cadaveri, per quanto tu abbia uno spirito indomito e faccia di tutto per reagire con ottimismo, possono nascere delle difficoltà. Le due principesse cercavano di ritrovare il bandolo della matassa. Giulia guardava la carta da parati e ogni tanto - velandosi di improvviso languore - diceva qualcosa, come rispondesse a qualcuno che non c'era. Camilla stava al pianoforte senza suonare, solo un accordo ogni tanto. Mugolava una musica. Adesso Giulia alla finestra guardava la pioggia e Camilla dormicchiava sulla poltrona. La padrona di casa si alzò faticosamente e andò anche lei alla finestra blindata che dava sul cortile. Nella battaglia del giorno prima si era fatta male a un piede. «Piove che Dio la manda» disse soavemente. In effetti fuori, chiunque la mandasse, diluviava. Erano ore che la pioggia faceva rimbombare tutto. «Senti come viene, ci sono i diavoli sul tetto» disse Giulia. Camilla capì che si rivolgeva a lei e ne fu un po' sollevata, era seccante quando si rivolgeva a qualcun
altro che non c'era. Lo scroscio era davvero impressionante. Sembrava di passare sotto una cascata con tutta la casa trascinata da un esercito di tir. «Purché non sfondi il tetto» disse Camilla. «Avremmo dovuto blindare anche quello.» Giulia si augurò che i Lorocari non stessero prendendo freddo. «Potremmo dire "Siamo all'acqua"?» domandò. «Potremmo dirlo» acconsentì Camilla socchiudendo gli occhi e sorridendo appena. «La nostra nuova piscina» disse Camilla accennando al cortile. Aveva sempre trovato dozzinali le piscine. Ma disse quel "la nostra nuova piscina" con una punta di orgoglio. Da quando erano uscite in cerca di uno spacciatore proletario aveva ripreso a vivere, qualcosa si era riacceso in lei, ed era pronta ad adattarsi ai tempi nuovi e a fare qualche sacrificio: perfino avere una piscina. L'acqua del cortile ribolliva sotto la pioggia. «Sembra un bombardamento» disse Camilla. Il livello era salito. Sotto la grata galleggiavano i corpi dei quattro, come grosse boe. Tre rivolgevano la pancia verso il fondo. Senzafaccia invece, brutto com'era, rivolgeva la faccia al cielo. Sotto si intuivano le ombre robuste dei pesci della taiga. Per quanto tu possa essere una principessa che vive in un mondo di sogni e di chimere, viene il momento in cui le preoccupazioni terrene ti riacciuffano. Camilla indicò le boe. «Senti Giulia, dici che se la cosa si risapesse la nostra reputazione nel quartiere potrebbe risentirne?» Giulia meditò, la questione era ardua. «Credo di sì. Direi che ne risentirebbe nell'intera città. Verremmo disonorate.» «In fin dei conti, quello che abbiamo avuto non è altro che un problema con la servitù» ribatté Camilla. Era vero, ma quello era un mondo tremendamente complicato. La verità non bastava. Si sentivano assediate. Un'antica civiltà assediata da barbari dozzinali. «Mi verrà l'esaurimento nervoso» disse Camilla. Giulia raddrizzò il busto. «Se dobbiamo combattere, combatteremo.» A Camilla brillarono gli occhi. «E così via.»
Di nuovo fuori «Non ti sembra che Senzafaccia si sia mosso?» disse Camilla. «Sarebbe un miracolo se mangiassero i corpi» sospirò Giulia pensando con orgoglio alla voracità dei Lorocari. La questione dei cadaveri era una vera noia. Le principesse avevano vagliato varie possibilità ma non erano soddisfatte. Andare alla polizia neanche a parlarne, c'era il rischio che volessero interrogarle. «Se bruciassimo il palazzo?» aveva detto Giulia con gioia infantile negli occhi. Già si figurava la scena grandiosa. «Questo cancellerebbe le prove.» Per un fenomeno difficile da spiegare, Giulia era la più tecnica tra le due, era l'unica per esempio in grado di aprire una bottiglia di vino, e si narrava che una volta, nell'esistenza precedente, avesse cambiato la ruota a una macchina. Ciò non era in contrasto con una deliziosa tendenza alla vaghezza mentale. «Brava, e poi dove andiamo a vivere se bruciamo il palazzo? Ci ritroveremmo senza regno né re. Senza contare che piove: non verrebbe un bel fuoco. Non hai fatto il boy scout, cara?» Giulia non aveva mai fatto il boy scout e non raccolse la provocazione. «Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane» recitò con aria ispirata. Era il suo modo per non riconoscere che un rogo generale poteva essere un'idea eccessiva.
Camilla ogni tanto era un po' irritata da queste citazioni. Erano abbastanza inutili. Per parte sua, invece, cercava un suggerimento in qualche detto, fiorentino o non fiorentino (in fondo siamo tutti italiani!), serbatoio di ogni saggezza. «Chi ben comincia è alla metà dell'opera» sentenziò entusiasta. Il concetto non faceva una piega. «Ma non sappiamo da dove cominciare» disse sgomenta Giulia. L'acqua era dotata di vita propria, aveva quasi sommerso la grata. Ma il corpo di Senzafaccia per caso era finito in un punto in cui la grata faceva una gobba verso l'alto, certo per colpa dell'imperizia del fabbro, e con la faccia rivolta verso il cielo sembrava quasi che respirasse. «E se fosse vivo?» insiste Camilla con orrore. «Forse dovremmo fare qualcosa, incoraggiare la natura.» Ne parlarono serenamente. Cosa potevano fare? Calarsi sulla grata e affogarlo? Alla loro età? Col piede dolorante? Con quella pioggia da fine del mondo? E poi erano delle signore. Non erano assassine. Non fecero nulla. Camilla pose fine alle incertezze: «Sottraiamoci a questa visione spiacevole, andiamo in cucina.» La caffettiera emanava quel caratteristico odore di bruciato che avrebbe disgustato una volpe, una di quelle volpi puzzolenti che ogni tanto Ernesto portava a casa. La caffettiera del diavolo, la chiamavano. Sarebbe bastato cambiarle la guarnizione per tramutarla in una caffettiera ordinaria, ma era una possibilità che non prendevano in considerazione. La cucina non era particolarmente fornita, visto che di solito il cibo glielo portava il povero Emiliano. Ma c'era una scorta di caffè e biscotti che poteva bastare mesi. Giulia parlò: «Liberarci dei cadaveri, stornare i sospetti, trovare cibo.» In certi momenti le piaceva ribadire cose ovvie. «Mi piacciono queste necessità primordiali» disse Camilla. Per la pozione magica al momento potevano stare tranquille, Senzafaccia aveva lasciato loro in eredità una piccola scorta. Ma in prospettiva poteva diventare un problema. Dovevano trovare una fonte di approvvigionamento sicura, costante, come ai tempi di Piero, Dio l'abbia in gloria. Camilla, mentre sorbiva quel caffè sgorgato dall'inferno e mangiava i biscotti, ebbe un lieve soprassalto. «Cara, lo sai che giorno è oggi?» «Che giorno sarebbe» disse Giulia. «Giovedì!» Il giovedì pomeriggio, si tenevano gli incontri letterari e loro non mancavano mai, senza saper perché. «Come facciamo?» disse Camilla. «Diamine, proprio oggi che dobbiamo sbrigare queste faccende.» «Andiamo, sarà il nostro alibi» disse Giulia, con una di quelle illuminazioni di cui non si capiva il senso. L'astuzia era così vaga che apparve subito convincente. In verità, nonostante le recenti uscite eroiche, erano ancora incapaci di separare la propria identità dalla casa. Ma questo non bastò a fermarle. L'ombrello cigolava sotto il diluvio. «Due povere vecchie» disse Camilla. L'acqua ruscellava lungo il marciapiedi. Svoltato l'angolo Camilla strinse il braccio di Giulia con una forza inaspettata, che veniva da ere antidiluviane. «Che c'è?» disse Giulia. Poi lo vide. Davanti al negozio di Emiliano c'era la moglie di Emiliano, e accanto alla moglie di Emiliano c'erano dei poliziotti. Parlavano. «Torniamo indietro» disse Camilla. «Ma no, andiamo avanti» disse Giulia. «Se torniamo indietro se ne accorgono. Com'è che si dice? O la va o la specchia.» «O la spacca, Giulia, o la spacca.»
Camilla capì che Giulia aveva fatto apposta a sbagliare, per gratificarla un po' in quel momento difficile, e gliene fu talmente grata che acconsentì ad andare avanti. Nessuno le fermò.
Il tempo degli altri Per loro non era facile uniformarsi al tempo degli altri e degli orologi. Ma una volta fuori il loro metabolismo accelerava, tale è l'adattabilità dell'essere umano. A pensarci bene mancavano molte ore all'incontro del pomeriggio, non a caso era mattina. «Andiamo da lei» disse Camilla. «È l'unica che è rimasta.» Giulia capì subito a chi si riferiva l'amica. Si trattava di raggiungere una casa di riposo per anziani ricchi, dall'altra parte del fiume. Lì stava Lucrezia. «Purché sia ancora viva, e così via» disse Giulia. «E perché dovrebbe essere morta.» Non c'erano taxi, la civiltà si stava ritirando, sostituita dall'acqua. Decisero di attraversare il ponte a piedi. Procedevano a testa china, senza guardare il fiume, una dietro l'altra lungo lo strettissimo marciapiede del lungarno delle Grazie. Dall'Arno veniva un fragore immane. «L'acqua cheta rovina i ponti» disse Camilla. «Non mi sembra cheta.» «Rischiamo di buscarci una broncopolmonite» disse Camilla sistemandosi lo scialle. «O la tosse canina» disse Giulia. Non che sapesse bene cos'era la tosse canina, ma quelle due parole la atterrivano da sempre. Eccolo, il ponte. Per i loro parametri era un ponte di pessimo gusto, ma si adattarono a passarlo. Il rombo dell'acqua faceva tremare la strada. Alzarono la testa. Sui lungarni si aggiravano i mezzi dei vigili del fuoco, della protezione civile e della Croce Rossa. «Sfaccendati» disse Camilla. «Ma se esce il fiume questi cosa fanno?» chiese Giulia. «Nuotano» rispose Camilla. Stavano in due sotto l'ombrello. Cominciavano ad avere freddo. Prima non lo notavano, per via delle preoccupazioni legali, ma ora, in mezzo al ponte, l'umido e il vento le riportavano alla realtà. Tutto attorno a loro c'erano le tenebre. Giulia si degnò di guardare il fiume. «Hai visto come è alta l'acqua, cara? Tra un po' succede come nel '66. Ti ricordi il '66?» «Vagamente: uscì un po' d'acqua e poi fecero un sacco di storie perché non avevano voglia di lavorare. Non mi dirai che hai paura di un po' d'acqua.» Nonostante queste parole spavalde, attraversando il ponte Camilla non osava guardare sotto. Il rumore del fiume era impossibile da descrivere con le parole. «Guarda sotto» le disse Giulia, «io direi che potremmo andare più svelte.» Finalmente anche Camilla guardò. Le onde sembravano vive. In certi punti bollivano come il caffè nella caffettiera infernale e anche l'odore che ne veniva non era migliore. Più che fiume era un magma nero che trascinava tronchi e plastica. «Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo» disse Camilla, che voleva sempre fare la disinvolta. «Almeno portasse via l'associazione canottieri» disse Camilla. Suo marito Ernesto aveva fatto parte dell'associazione canottieri, secoli prima, e non c'erano mai stati dissapori. Ma i desideri di Camilla non sempre avevano una ragione spiegabile con banali ragionamenti. Viveva in un mondo dove erano più gli effetti delle cause. Giulia notò una fila di topi grassi che risaliva le sponde e si allontanava chissà dove. Alcuni si issavano con i sederoni su quel che rimaneva di una specie di spiaggetta. «Guarda come trottano» disse.
A monte, il fiume balzava dalla pescaia di San Niccolò come una lastra in movimento di ossidiana: nera, lucida. Sprigionava enormi dita di vapore e pulviscolo. Sacche d'aria calda si attorcigliavano poco sopra. Dietro le loro spalle, sulla sponda da cui erano venute, la sponda della Biblioteca nazionale, videro che oltre ai pompieri che si aggiravano vanamente c'erano altre persone che le guardavano e gesticolavano in modo grossolano. Uno era un vigile con dei baffi enormi. Sappiamo quanto i vigili possano essere ridicoli. Ma questo vigile baffuto mise loro paura: forse le forze dell'ordine avevano già scoperto il disordine nel cortile allagato. Ma tra loro non se lo dissero. «Ci staranno dicendo di sbrigarci, perché è pericoloso» sentenziò Camilla. Dall'altra parte del ponte, se lo ricordavano benissimo, c'era un bar, in una piazzetta un po' più in là. «Prendiamo un tè per riscaldarci?» disse Giulia. In realtà era anche una mossa astuta per depistare eventuali inseguitori. Il bar in effetti esisteva ancora ma davanti avevano messo dei ridicoli tendoni bianchi e il bello era che sotto, nonostante la pioggia, si assiepavano un sacco di giovani debosciati. Le due principesse si fecero coraggiosamente largo nella marmaglia. Alcuni in effetti non erano affatto giovani, ma si abbigliavano come giovani straccioni. «Questi hanno cent'anni per gamba» mormorò Camilla. Si erano sedute a un tavolino accanto alla stufa a fungo. Un posto di pessimo gusto. Ma come nascondiglio era perfetto. Certo dovettero sopportare delle conseguenze spiacevoli. Il tè era simboleggiato da due bustine scialbe. Loro che erano ormai abituate al gusto forte della caffettiera del diavolo non sentirono neanche il sapore. «Ma questi non lavorano?» disse Giulia facendo roteare lo sguardo. Camilla alzò le spalle. Non che fossero contrarie al fatto che qualcuno non lavorasse, loro per esempio non avevano mai lavorato. Ma erano contrarie al fatto che tipi come quelli non lavorassero. Se ne stavano lì, la mattina di un giovedì qualsiasi, a ubriacarsi, ma che mondo era? Nel tavolino accanto c'erano due ragazze straniere, chiassose. Con una loro coscia avresti potuto sfamare una tribù africana. Indossavano dei cappellini che avrebbero reso ridicola Greta Garbo. E quelle non erano Greta Garbo. Ci davano dentro coi tramezzini. «Che Dio gli conservi la vista, che l'appetito pare non gli manchi» fece Giulia. «Non starò qui un minuto di più» annunciò Camilla alzandosi e stringendo la borsetta. «Hai paura ti rubino la borsa che ti regalò Ernesto?» chiese Giulia. «Guarda che sono imbottite di dollari.» "Imbottite di dollari" lo aveva sentito in un telefilm. Camilla assunse la sua aria furba: «No, ma potrebbero mangiarsela, la mia borsa. Considera che è pelle di coccodrillo.» Poi si rivolse alle due americane perché non la facevano passare, con quelle coscione: «Yankee go home.» Il cameriere la guardò con uno sguardo che lei non capì. «Ma che ti metti a dire? E poi secondo me erano tedesche» chiese Giulia quando furono di nuovo fuori, due vecchie nella tempesta del tempo. «Mi è venuta così, cara, l'ho sentita dire e la volevo ripetere anche io. Mi ricorda qualcosa.» «Ah, i ricordi!» esclamò Giulia.
Nuove generazioni Paradossalmente giungere alla casa di riposo fu stancante. Perché si trovava in una via molto ripida. È vero che la pozione magica donava loro una forza incredibile, ma a tutto c'è un limite. «Lo fanno per far morire le povere vecchie» teorizzò Camilla. «Come quando il sindaco Gabbuggiani disse che i vecchi dovevano andare in bicicletta.» Giulia trainava Camilla per una mano, tenendo con l'altra l'ombrello. Emise una specie di fischio. Faceva sempre così sotto sforzo. Respirava con una specie di sibilo musicale. «Smettila» disse Camilla, «fischio chiama vento.»
Era uno di quei detti che le venivano dalla buonanima di Ernesto, grande navigatore. Imponeva il divieto assoluto di fischiare a bordo, secondo l'idea che il fischio, appunto, chiama il vento. «Ma il vento c'è già» scherzò Giulia. «Potrebbe aumentare» disse Camilla seria. E lo stava facendo. La casa di riposo Villa Villabella era in effetti un bel posto, con una vista magnifica. Erano praticamente arrivate quando da dietro una macchina sbucò un negro che prese la mano di Camilla con la scusa di salutarla e poi non la mollava più, le voleva vendere dei libri di poesie negre. Per di più, a quanto pareva, le aveva scritte lui. «Stai calma, stai calma» le ripeteva. Camilla odiava quando qualcuno le diceva di stare calma perché era una cosa che non la calmava affatto. Lei d'altronde era calmissima. Desiderò infilargli la punta dell'ombrello in quel gigantesco nasone. «Non voglio quel libro e rivoglio la mia mano» sibilò. Il venditore colse qualcosa nei suoi occhi perché mollò la mano e girò i tacchi. Lo guardarono allontanarsi in discesa, di corsa verso un mondo migliore. «Guarda laggiù senza voltarti» disse Camilla con un filo di voce. Alla base della salita c'era un vigile, di spalle. Poteva essere lo stesso che gesticolava quando erano in mezzo al ponte. «Ci stanno cercando» disse Camilla. Entrarono nella casa di riposo proprio mentre il vigile si voltava. Chissà se aveva fatto in tempo a vederle. «Magari quel vigile voleva solo quel negro. Non lo sai che i vigili vanno a caccia di negri?» disse Camilla. Giulia quando voleva sapeva essere precisa. Forse perché secoli prima era stata sposata a un ingegnere. Ma una cosa sono i problemi tecnici, un'altra i rapporti umani. Per esempio Giulia quando parlava della sua discutibile figlia raggiungeva vaghezze impressionanti che potevano anche esasperare. Ma, anche adesso che l'infermiera alla reception la incalzava chiedendo cosa volesse, Giulia rispondeva solo cose come: «Oh... ma... be'... e così via». Camilla era rimasta indietro per spiare dal vetro della porta, aveva paura di veder apparire il vigile. Quando si sentì sicura raggiunse la reception e si rivolse all'infermiera, che pur non sembrando cattiva stava perdendo la pazienza. «Senti bambina, noi dobbiamo incontrare la nostra amica Lucrezia.» L'infermiera - una ragazza molto carina d'aspetto, a differenza delle infermiere di prima, che nella memoria di Camilla erano scelte tra ex lanciatrici di peso -la guardò come se non capisse. «Voglio sperare che Lucrezia», e qui aggiunse anche il cognome «non sia morta.» Lo disse con un piglio autoritario, come se l'eventuale morte dell'amica fosse da imputare all'infermiera assassina. La rabbia di Camilla stava montando. Camilla aveva sempre avuto la capacità di generare onde di rabbia, a volte quasi dal nulla. Ora l'antica personalità stava riaffiorando. Anche l'antica personalità di Giulia stava riaffiorando e con essa la capacità di calmare l'amica. Le mise una mano sul braccio prima che scattasse in frasi perfide che avrebbero segnato per sempre la vita dell'infermiera. La paramedica dovette intuire la natura delle forze che stava sfidando, smise di fare storie e indicò la strada. Lucrezia era più voluminosa di come la ricordavano, diciamo pure pachidermica, ma radiosa. Aveva un modo gentile, grazioso, quasi infantile, di occupare posto nel mondo. Aveva la pelle perfettamente liscia e un viso allegro. La poltrona sulla quale era assisa come una regina sembrava scricchiolare sotto tanta vitalità. «Ecco perché c'era quel cannibale appostato fuori, con tutto questo ben di Dio» sussurrò Camilla
mentre si avvicinavano. Si salutarono come se non fossero anni che non si vedevano. Camilla e Giulia furono sinceramente contente di rivedere un pezzo della loro vita passata, per di più un pezzo così grosso. Però dal punto di vista della soluzione del loro problema l'incontro si rivelò infruttuoso. Aspettavano dall'amica un consiglio geniale per risolvere la situazione. Questo perché ere geologiche prima Lucrezia era stata il loro oracolo, capace in effetti di consigli geniali. Ma stavolta niente, non diceva niente di risolutivo. È anche vero che pure loro dicevano poco. Si mantenevano sulle generali, non se la sentivano di rivelare i dettagli spiacevoli. Forse da quando avevano tirato fuori la testa dal guscio, da quando erano uscite dal letargo di morte e avevano ripreso a sperare e a camminare nel mondo, si aspettavano troppo da queste camminate. «Sai» diceva Camilla seduta sul divano, «abbiamo avuto dei problemi con la servitù. Poi la servitù ha avuto dei problemi. Non vorrei che dessero la colpa a noi.» Lucrezia sorrideva: «Oh cara, la rivoluzione sociale è venuta e noi non ce ne siamo neanche accorte. E ora siamo qui a preoccuparci di tutto. Solo quarantanni fa non me la sarei aspettata una situazione del genere. Ma bisogna prendere le cose con leggerezza.» Diceva cose così, non risolutive. Quasi squittiva di gioia, mentre parlava. E intanto c'era la polizia che le braccava! Lucrezia sedeva su una inqualificabile poltrona in pelle che in altri tempi avrebbe fatto dare immediatamente alle fiamme dalla servitù, ma questo poteva essere visto come un buon segno: l'alto grado di democratizzazione a cui erano giunte tutte loro. Una cosa positiva era l'atmosfera di quel posto: infinitamente migliore rispetto a come se l'erano immaginate. E questo Camilla e Giulia se l'erano dette subito, con uno sguardo. In precedenza, quando erano venute a trovarsi in posti simili, erano state attanagliate dall'angoscia. Ricordavano vecchi rimbambiti e bavosi seduti su seggioline di plastica a guardare l'eternità dentro la televisione. E sappiamo bene come l'eternità possa essere diseducativa e rimbambente. Invece sedevano con l'amica su comode poltrone (anche se in pelle) e la gente attorno a loro non era così rimbambita, anzi parevano tutti piuttosto attivi. C'erano sì alcuni che si trascinavano sulle stampelle, o stavano sulla sedia a rotelle, o si servivano di mezzi ridicoli per aiutare la deambulazione. Ma c'erano anche dei bei signori dall'aria dignitosa che sembravano in piena forma, anche se non più di primo pelo. Lucrezia indicò con rispetto un individuo che -questo sì - in effetti era messo male. Nel suo caso l'espressione "vecchio bavoso" sembrava avere una sua esattezza. «Si dice sia stato l'amante di una testa coronata» disse Lucrezia. «A me piaceva Stalin» ribatté Camilla con una delle sue tipiche frasi, anche se a lei di Stalin non gliene era mai importato nulla. Ogni tanto qualcuno veniva e interpellava rispettosamente Lucrezia, proponendole di andare da qualche parte. Ma lei faceva capire che non era il momento, che aveva da fare. Sembrava la regina del paese dei vecchi fascinosi. Inoltre le infermiere erano tutte carine. «Le infermiere sono tutte carine» disse Camilla. «Eh già, è per far piacere a questi vecchi maiali» disse Lucrezia con condiscendenza. Evocato da queste parole arrivò un signore alto vestito come un gentiluomo di campagna, sia pure un po' sdrucito; d'altra parte, si sa, la campagna sdrucisce. «Perdonate l'intrusione» disse con un lieve inchino. Poi, rivolgendosi più che altro a Lucrezia: «Venite alla conferenza?». Risultò che l'argomento era: "I satelliti di Marte sono di origine artificiale?". Ma Lucrezia gentilmente, dopo aver fatto le presentazioni, allontanò anche lui. Il giorno dopo, stando ai discorsi di un altro, ci sarebbe stato un concerto a Villa Villabella. Un quartetto abbastanza famoso. Lucrezia colse lo sguardo stupito delle principesse. Mostrò loro il calendario degli eventi, fece un largo gesto della mano e disse: «Noi siamo asserragliati qua dentro mentre fuori c'è il diluvio» e non si capiva se parlava di quel periodo piovoso o se stava facendo un discorso generale.
Per circa un'ora parlarono di quel mondo, il mondo della casa di riposo Villa Villabella. Lucrezia disse che fuori c'erano i barbari, che tutto era allo sbando. E loro avevano tirato su il ponte levatoio. Si sentivano come i monaci amanuensi che salvarono la civiltà nel medioevo. «E cosa fate per salvare la civiltà?» chiese Camilla, che con tutto l'affetto non poteva fare a meno di essere sarcastica. E a volte anzi il suo sarcasmo era una forma di sentimento benevolo. «Niente, ci mancherebbe altro» fu la risposta tranquilla, per niente offesa. Camilla paragonò il tè che stavano bevendo a quello bevuto sotto il tendone del bar pieno di giovinastri, e si disse che magari aveva ragione Lucrezia. «A me piacerebbe prendere un'astronave e partire con le persone migliori verso un'altra galassia» disse Lucrezia, sempre senza perdere il suo brio infantile. «Sarebbe un po' caro.» Giulia aveva assunto un'aria assente e beata e forse pensava a come si sarebbero trovati i Lorocari in un'altra galassia a bordo di un'astronave, dentro vasche sognanti. Non è che Camilla non fosse interessata alle astronavi, solo che a un certo punto le tornarono in mente le amarezze del loro rapporto con la servitù. Ma quando riportava il discorso sulla questione, Lucrezia sviava immancabilmente. Però, finito il tè, un'ombra passò sul volto di Lucrezia. «Evidentemente quel vostro salumiere, il buon Emilio...» «Emiliano» la corresse Giulia, sbalzata fuori dal sogno dei Lorocari in viaggio verso un'altra galassia, con lei al comando dell'astronave. «Insomma» diceva Lucrezia con quel sorriso mondano ma sincero, «mi sembra chiaro che il salumiere non aveva detto a sua moglie che sarebbe venuto da voi insieme a quegli altri delinquenti, altrimenti la polizia avrebbe già circondato l'edificio.» Le piaceva parlare di edificio circondato, come alla televisione. E anzi una volta le sarebbe piaciuto dire alle infermiere di Villa Villabella: «Circondate l'edificio!». D'altra parte le pagava. Camilla restò impietrita: nonostante le spiegazioni frammentarie, Lucrezia aveva capito molte più cose di quanto credesse. «Dici davvero?» chiese Giulia, svagatamente. «Ma sì, è sicuro: il salumiere non ha detto nulla alla salumiera.» «Sia benedetta l'incomunicabilità tra marito e moglie» disse Camilla. «Può darsi che la moglie sospetti e che vi abbia messo la polizia alle costole, questo nella peggiore delle ipotesi.» Ringalluzzita, Camilla tirò fuori gli altri dubbi che fino a quel momento non aveva osato dire ad alta voce per paura di trasformarli in realtà: com'era che i delinquenti non avevano fatto in tempo a chiamare soccorso al cellulare? Lucrezia la rassicurò: «Erano troppo sicuri di sé, non pensavano certo di poter essere sopraffatti da due povere vecchierelle. Quando gli sono venuti dei dubbi era troppo tardi.» Camilla sorvolò sulle due povere vecchierelle e ripensò a una lapide che aveva visto una volta in gita in montagna con Ernesto, sul Gran Sasso: "In montagna quando si chiede aiuto è troppo tardi". Quei brutti ceffi si erano trovati come in montagna. Poi analizzarono la questione del fabbro. Giulia aveva paura che il fabbro finisse per dire qualcosa. «Ma cosa?» chiese Lucrezia. «Forse che due signore non hanno il diritto di sistemare grate e inferriate a casa loro? Con tutti i malintenzionati! Non c'è niente che il fabbro possa dire. Almeno fino a quando non vengono trovati i corpi. Ma non li devono trovare, quei corpi.» Lucrezia era adorabile, era proprio come un tempo, miracolosamente immutata: capiva tutto senza bisogno di spiegazioni e riusciva sempre a trovare il centro delle questioni. Poi c'era la faccenda del rumore degli spari. Qualcuno poteva averli sentiti. «Ma se vivete in un quartiere di sordi!» disse Lucrezia, speciale anche nel tirarti su. Pensarono e ripensarono al modo di distruggere i corpi, anzi gli ingombri, come preferiva chiamarli Camilla. Ma nonostante il genio di Lucrezia non riuscivano a venire a capo del problema. E poi si avvicinava l'ora dell'incontro letterario: l'alibi, dal loro misterioso punto di vista. Comunque Lucrezia quando non trovava una soluzione si spazientiva, cambiava argomento. Si mise a
raccontare della sua grande casa colonica sulla collina, che i suoi figli scellerati avevano venduto a dei cinesi che urlavano e sputavano. Una cosa inaudita, in altri tempi non sarebbe stato possibile. Parlando della casa le venne in mente che anche Camilla un tempo aveva delle proprietà in campagna e che c'era un suo antico vassallo innamorato di lei. «Vassallo?» chiese Camilla. «Sì, quella specie di fattore. Perché non vi fate aiutare da lui?» Ma l'idea risultò debole. Era una cosa rischiosa, non era detto che in nome dell'antico amore quello fosse capace di tenere la bocca chiusa. Magari i tempi nuovi l'avevano corrotto e non sarebbe stato in grado di comprendere che due signore avevano il diritto di difendersi dai mascalzoni. «Il dovere, cara» disse Lucrezia inalberandosi di colpo, «il dovere.» Comunque l'idea del vassallo innamorato fu bocciata. Lucrezia era un vulcano di idee, cercò anche di convincerle che dovevano munirsi di un telefono cellulare, così sarebbero rimaste in contatto. Loro promisero di provare a pensare di comprarlo. Lucrezia tirò fuori un bigliettino dove segnò il suo numero. Anche Neri, quel distinto signore che le aveva invitate alla conferenza sui satelliti di Marte e che doveva essere molto amico di Lucrezia, a un cenno di lei si avvicinò e lasciò a Camilla e Giulia il suo numero, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Camilla infilò i due bigliettini nella borsetta, miracolosamente sfuggita alle fauci di quelle due straniere al bar. Poi si misero a parlare dell'Arno che cresceva a vista d'occhio e c'era il rischio di una nuova alluvione, lo avevano detto anche alla televisione. Erano molti giorni che in Casentino diluviava, ed era questo ad alimentare il fiume, più che la pioggia su Firenze. «Quella del '66 ebbe effetti positivi» disse Neri. «Vivacizzò la vita sessuale di noi giovani fiorentini, fino a quel momento abbastanza repressi, grazie a tutte quelle ragazze straniere che arrivarono dopo, in qualità di angeli del fango. Ci vorrebbe un'alluvione ogni due anni, al posto del servizio militare.» «Guarda che non c'è più il servizio militare» precisò Lucrezia. «Appunto.» Giulia, che amava apparire ingenua, disse: «Ma dopo tutti questi anni l'Arno sarà stato sistemato! Sarà impossibile una replica dell'alluvione del '66». Tutti risero della battuta. Quando venne il momento di accomiatarsi Lucrezia sentenziò: «I morti non torneranno vivi. Per il vostro problema c'è un'unica soluzione. Dovete dare la colpa a qualcun altro.» Detto così sembrava geniale. «Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare» osservò Camilla. Lucrezia le fece uscire da una porticina secondaria, per evitare le eventuali molestie delle forze dell'ordine. «Il buon pilota si conosce alle burrasche» disse Camilla mentre avanzavano sotto la pioggia schiacciante. «Ma è un detto fiorentino?» chiese Giulia nel frastuono. «No, ma è un detto.» Ormai Camilla citava detti di ogni tipo, convinta che qualsiasi detto contenesse una soluzione. «Siamo riuscite a far perdere le tracce» annunciò Giulia con aria astuta. In effetti non si vedevano vigili in giro. «Può darsi che si siano ritirati in buon ordine, dopo essersi informati sulla nostra classe sociale. Un conto è perseguitare due straccione, ma infastidire due signore come noi è un altro paio di maniche.» Alla fine della discesa c'era una piccola folla, sul lungarno Serristori. Fosse una di quelle famose ronde organizzate dal Comune per rendere più sicura la città? «Pare siano formate dai tipacci peggiori» disse Camilla. «Tassisti?» chiese Giulia. «Anche geometri.» E magari stavano proprio dando la caccia a loro. «Non vorrei che con la scusa della ronda ci stuprassero. Ho sentito che queste ronde vanno in cerca
di ragazze.» Ma no, erano voltati verso il fiume: lo guardavano, sia pure a distanza di sicurezza. A meno che non fosse il tipico trucco da ronda stuprante. «Tagliamo la testa al toro» disse Camilla. Le due principesse attraversarono la piccola folla a testa alta e puntarono verso il ponte. Tra la gente, riconobbero le due straniere coscione che rivolsero loro uno strano sorriso, dissero anche qualcosa di incomprensibile. Parlavano una lingua fatta di sputi. «Secondo me sono olandesi» disse Giulia. Un ventenne qualsiasi tutto impettito con una divisa ridicola cercò di fermare le principesse: «Ma non si può attraversare il ponte.» «Senti, giovanotto» scandì Camilla perentoria strizzando gli occhi, «non farti ingannare dalle apparenze: hai di fronte due specialiste in tracimazione urbana, siamo mandate dall'autorità di bacino per controllare l'acqua delle casse di espansione relativamente alle piogge in Casentino con pericolo di infiltrazione del greto.» La frase non aveva alcun senso, ma fu detta con una tale sicurezza che il babbeo le lasciò passare. Il babbeo, da parte sua, aveva usato la parola "ponte", e anche questo non aveva senso. Ormai quello più che un ponte era una strada appena sopra l'acqua. Tutto tremava e sopra non c'era nessuno, a parte loro. Si avventurarono. «Non ti sembra sia cresciuto?» «Un pochino, giusto un pochino.» Invece la spiaggetta su cui qualche ora prima salivano i topi grassi era del tutto sparita. E dei pioppi che nascevano da quella spiaggetta, ormai, si vedevano solo i rami più alti strapazzati in qua e in là come in un frullatore. Le elettrizzava trovarsi in mezzo a tutta quella massa in movimento, quella energia, sembrava loro quasi di esserne la fonte. A metà del ponte si fermarono. Il cielo diventò di colpo ancora più nero. «Guarda che bei passerotti» disse Giulia. C'erano dei gabbiani che volteggiavano in vortici bianchi. Con quelle onde non potevano dedicarsi alla pesca e allora si buttavano in picchiata sui topi in fuga. L'odore di nafta arrivava fino al cielo e li inebriava. Un elicottero militare faceva inutili giri sul fiume. «Non sanno come spendere i soldi» disse Camilla. «Chiudi l'ombrello» disse Giulia. Camilla obbedì, quando Giulia era così ispirata era bello darle retta. E stettero per qualche minuto in mezzo al diluvio universale. Si aggrapparono alla spalletta, perché tutto tremava. Stavano così ritte, immobili, con i gabbiani nella cascata di pioggia sopra e il fiume gonfio e ribollente sotto che sbatacchiava i tronchi e le barche sui piloni. Passò anche una capra morta, seguita in aria dai corvi. Ma loro non ci badavano. Alzavano il volto verso il cielo nero. In estasi. Giulia scivolò nei suoi sogni come sotto la superficie dell'acqua. «E adesso dove siamo?» disse dopo un minuto, risvegliandosi. «Nelle mani di Dio.»
Una buona dose di tranquillità Quando l'acqua ti scivola lungo la schiena e ti entra nelle ossa l'estasi ti esce dall'anima. «Non è acqua» disse Giulia. Era una cosa densa. Sembrava magma uscito dall'inferno, o anche asfalto fuso che scorreva sotto di loro come un nastro gigantesco. «Forse potremmo camminarci sopra e farci portare a Pisa» disse Camilla. Ma non era il caso di provarci: il nastro nero era pieno di gorghi e crateri. «Stai a vedere che è la volta buona che Firenze viene inghiottita» disse Camilla. Non poteva smettere di parlare così. Ciò non toglie che avesse paura. Ma quel viale nero pieno di gorghi di magnificenza diabolica esercitava anche un'attrazione ipnotica su di loro. Erano incantate dal fiume.
Passarono tronchi che correvano come alligatori pietrificati. Passò una barca senza barcaiolo. Passò un bidè velocissimo. Più che altro passavano sacchetti che si torcevano nella corrente. Passarono una ventina di paperelle di plastica, tutte insieme. Bidoni metallici. Poi Giulia intravide un oggetto in avvicinamento. Vide che si trattava di un passeggino di quelli dove si portano i bambini piccoli. Un'intuizione la visitò. Prese l'ombrello chiuso dalle mani di Camilla e manovrandolo con destrezza agganciò il passeggino che passava sotto di loro. «Ah ecco, lo dicevo io» esclamò trionfante tirandolo su. Nel passeggino c'era uno splendido bambolotto. Giulia, appassionata di bambole (forse per sostituire la figlia degenere) lo prese e lo strinse a sé come un neonato da cullare, sistemandolo sotto il cappotto. Erano ormai arrivate dall'altra parte del fiume quando videro che, dalla parte da cui erano venute, c'erano ancora quelle due straniere coscione a cui al bar Camilla aveva sussurrato «Yankee go home», che poi probabilmente erano tedesche e anche olandesi, secondo Giulia. Le due ragazze si erano avvicinate al ponte. Solo che loro non riuscivano a passare: il tipo con la divisa ridicola, che per Camilla e Giulia era stato un ostacolo irrisorio, per quelle due panzone si rivelò un ostacolo insormontabile. E meno male, le due immani vacche barbariche gesticolavano verso le sofisticate principesse di sangue puro, come per maledirle. Poi presero a indicarle a un vigile e a un carabiniere che erano appena arrivati. Ma le divinità del fiume erano ancora più furibonde e nessuno osò avventurarsi sul ponte. «Non c'è altra virtù che aver coraggio» recitò Giulia. Le due principesse si incamminarono, una dietro l'altra, sul marciapiede strettissimo che costeggia il parapetto. Erano sul divano e si riscaldavano sotto tonnellate di stole di visone e colli di volpe. La casa sembrava loro diversa, nuova, dopo che erano state benedette dalle divinità fluviali. L'attraversamento del fiume in tempesta aveva scavato un solco dentro di loro. Sentivano che c'era un "prima" l'attraversamento del fiume e c'era un "dopo". Un fiume in tempesta dà un nuovo senso perfino ai mobili di palissandro. Fiorivano nuovi chiarori nell'ombra. Ogni tanto le principesse si alzavano, sempre con qualche pelliccia sulle spalle, e andavano alla finestra interna per guardare le ombre dei Lorocari nuotare nel cortile. «Con queste pellicce addosso sembriamo due selvagge delle Ande» disse Camilla. «Ma che dici mai» replicò Giulia con voce flebile. Era lontana: stava provando a entrare in contatto coi Lorocari, per captare suggerimenti, ma i Lorocari non erano in vena di suggerimenti. «Quando tutto sarà finito, potremmo anche trasferirci a Villa Villabella.» «Quando tutto sarà finito ci trasferiamo al cimitero» disse Camilla. Mangiavano zollette di zucchero pakistano imbevute di acqua di Santa Maria Novella, per tirarsi su. Avevano sempre attribuito prodigiose virtù rianimatrici all'acqua di Santa Maria Novella, un liquido profumato che facevano cadere da un'elegante bottiglietta affusolata. «Tra qualche ora inizia l'incontro letterario» disse Giulia. In altri tempi quello era un evento noiosissimo per cui cominciavano a prepararsi fin dalla mattina. Si guardarono. Proprio non avevano voglia di andare, non ce la facevano. Non sembrava più un grande alibi. Forse quando l'avevano pensato erano ancora sotto l'effetto della pozione magica. Ora invece erano lucidissime. E poi le avverse condizioni atmosferiche avrebbero giustificato l'assenza. «Però, se andiamo, potremmo trovare qualcuno a cui dare la colpa, come dice Lucrezia. Prendiamo i vestiti asciutti.» Faticosamente si rivestirono. «Mi duole di nuovo il piede» si lamentò Camilla zoppicando. «Avrai preso un po' di umidità» ipotizzò Giulia mentre scendevano le scale. «Dare la colpa a qualcuno, dare la colpa a qualcuno» borbottava. «Il Piave borbottava calmo e placido al passaggio» si mise a canticchiare Camilla. «Mormorava» corresse Giulia, «era mormorava.» Le prese un immenso languore.
Nuovi progetti Dopo anni di immobilità e di routine tutti questi cambiamenti non erano affatto indolori. Il mondo esterno, la battaglia, il fiume in piena. Il tempo rinnovato. Era un po' come rinascere, o come reincarnarsi nel corpo di due vecchie. Una cosa più faticosa di quanto si pensi. Si sentivano inadeguate. Il motivo profondo delle loro uscite non era chiaro neanche a loro. Il motivo superficiale era ovvio: trovare qualcuno a cui dare la colpa dell'incidente. Ma sembravano non esserci soluzioni. Stavano percorrendo la solita via. «Ultimamente facciamo sempre gli stessi percorsi» disse Giulia. «Chi lascia la via vecchia per la nuova...» C'era un gruppetto di ragazzi con degli striscioni, urlavano e battevano dei tamburi contro lo straripamento del fiume. «Perché battono sui tamburi?» chiese Giulia. «Intendono spaventare le pantegane?» «Devono essere dell'associazione canottieri» disse Camilla. Aveva smesso di piovere. Per quella volta dell'alluvione non se ne faceva niente. Passarono di fronte al negozio del fabbro: quel quartiere aveva mantenuto alcune botteghe antiche, come fosse un paese. «Quel bravo fabbro» disse Giulia. Il fabbro non era tra i lazzaroni scansafatiche che discutevano a capannelli per strada su tracimazione e casse di espansione. Come vide le principesse uscì dal suo antro. Era vecchio, piccolo e nero. In verità era di carnagione chiara ma era così sporco - sembrava morchia - da diventare nero. Chiese se il lavoro che aveva fatto nel cortile andava bene e se non avessero bisogno di qualcosa. «No, buonuomo» rispose Camilla cercando di non far trapelare la sua emozione nel sentir menzionare il lavoro nel cortile. Chissà se i fabbri leggono nel pensiero, si chiedeva. Intanto il corteo di quelli contrari all'alluvione le aveva quasi raggiunte e Camilla notò la faccia di un giovane energumeno, grossa e piatta; sembrava fosse stata spiaccicata contro un muro. Ma soprattutto quella faccia gli ricordava qualcuno. Chi era? Giulia non doveva averlo notato perché continuava a parlare con il fabbro. «Sì, di qualcosa avremmo bisogno» disse Giulia. Camilla era sbalordita. Cosa le prendeva, alla sua amica? A volte Giulia covava delle sorprese. Di solito erano pazzie. «Non so se lei è la persona giusta» stava dicendo Giulia al vecchio fabbro ammaliato dalla sua bellezza, «ma forse potrebbe procurarci parecchi metri di corda.» Lo diceva con aria civettuola, come se la corda le servisse per rifarsi il trucco. Continuò con una serie di richieste incomprensibili. D'altra parte Giulia era stata moglie di un ingegnere. Se il fabbro era stupito da quelle richieste non lo dette a vedere. Giulia spiegò che quelle cose sarebbero servite ad aiutare la povera gente, in caso di alluvione. Infatti le principesse abitando in alto avrebbero potuto calare la corda e con un sistema di carrucole tirare su i bisognosi. Il fabbro si rendeva conto che la cosa non avrebbe mai funzionato, ma era colpito dall'altruismo di quelle donne. Le aveva avvicinate con lo stimolo del profitto, ma disse che avrebbe fornito il materiale quasi gratis. Giulia chiese al fabbro di lasciare il materiale davanti al portone. Tanto chi l'avrebbe rubato. «Ma come farete a portarlo su?» «Non si preoccupi, in qualche modo faremo» rispose Giulia. Non per niente faceva ginnastica tutti i giorni. Il fabbro tirò fuori l'insulso cellulare dal taschino e si appartò. Lui la corda non ce l'aveva. Doveva chiederla a un suo amico. Ora che erano sole Camilla si voltò verso Giulia spalancando gli occhi. «Ma sei impazzita? Che ti è preso?» «Bisogna dare la colpa a qualcun altro» rispose Giulia con un sorrisetto vago. In quei momenti era inutile insistere. Le principesse antiche erano in mezzo ai manifestanti. Proprio vicino a quello con la faccia
schiacciata - chissà chi era.. «Ati! Ati! Mai più morti affogati!» scandivano fieramente i manifestanti. E poi ancora: «Ate! Ate! Mai più opere d'arte rovinate.» Questa aveva meno ritmo. «Vedi i cattivi effetti dello studio su soggetti non predisposti?» ammonì Camilla. «Pessimi segnali, cara mia, pessimi segnali» rispose saggiamente Giulia. «Lo diceva sempre il povero Ernesto, questi qua sono molto più adatti al lavoro manuale, in cui troverebbero la felicità.» «Il popolo leva la testa.» «Lo decapitano?» Videro apparire la pizzicagnola, la moglie di Emiliano: costei si staccò dal marciapiede opposto e puntò su di loro. Mulinava le braccia e aveva quella terribile aria concreta che piace ai tempi astratti. Era una donna arcigna, grossa, cattiva, del tutto simile al marito. E quel mostro le stava puntando come un rinoceronte. Sapeva tutto. Era dunque finita. Camilla si sentì mancare, fu colta dall'antica soggezione, l'antica paralisi che le prendeva di fronte a Emiliano. Era impietrita. Strinse il braccio a Giulia che contemplava il cielo, persa in considerazioni meteorologiche sui demoni dell'aria e dell'acqua. «Che fai qui?» disse la pizzicagnola. La domanda era strana, come era strano che non guardasse in faccia né Camilla né Giulia. Camilla finalmente capì la situazione. La pizzicagnola stava dicendo a suo figlio, quel bove dalla faccia piatta (ecco chi era!): «Che fai qui, mentre tuo padre è sparito?». Lui spiegò che stava cercando il padre quando aveva incontrato questi amici di scuola. Aggiunse: «Ma dài mamma, sarà andato a puttane ad Arezzo e gli si sarà forata la gomma come l'altr'anno». Era un ragazzo dal cuore d'oro e stava cercando di rassicurare la madre. «Ma la macchina è in garage» rispose lei. «Sarà andato in taxi.» La pizzicagnola si era tutta intenerita, a sentire le ipotesi del suo cocchino. Gli sistemò il bavero della giacca perché non prendesse freddo. Poi però si rabbuiò: «È con questi discorsi che la polizia non ci prende sul serio. L'hai fatto anche a loro questo discorso?». «Ma no, mamma» la rassicurò con aria furba, «figurati. Ho detto che probabilmente era andato a controllare l'Arno a Rignano, dove abbiamo gli orti.» «Ma allora non lo cercano no, il tuo babbo!» disse la pizzicagnola. Tuttavia il dubbio che il marito fosse in effetti andato a Rignano a controllare gli orti le era venuto, magari era rimasto a dormire nella baracca e il telefono laggiù non prendeva. «Non sa dove battere le corna» disse Camilla a Giulia. In quel momento il fabbro rimise il telefono in tasca e fece cenno alle principesse di raggiungerlo. Le rassicurò. Il suo amico avrebbe portato la corda. E tutto il materiale chiesto da Giulia - che ora aveva smesso di essere disattenta - sarebbe stato pronto nel tardo pomeriggio. Se le due signore erano in casa lui avrebbe portato tutto su, altrimenti lo lasciava di fronte al portone. «Non mi vuoi ancora spiegare?» disse Camilla quando il fabbro fu rientrato nella spelonca da troglodita. «Aspetta e vedrai.» Mentre si allontanavano videro che la pizzicagnola e il figlio dalla faccia piatta confabulavano, cupamente eccitati. Il ragazzo le indicava. La madre gli abbassò la mano bruscamente. Ma il figlio continuò a fissarle con occhi furiosi. «Diamoci una mossa» disse Camilla. «Non mi piace quando mi guardano così.»
Incontri particolari Sbucarono in piazza Santa Croce, ariosa e solenne. E anche loro, contagiate dall'architettura, si sentirono ariose e solenni.
Dopo la tregua meteorologica le anime del purgatorio si stavano di nuovo agitando. Non in forma di pioggia (quelle sono le anime dell'inferno), in forma di vento. «Rimette al brutto» disse Camilla. «È stata la quiete in mezzo alla tempesta» disse Giulia. L'acqua veniva da sotto, sgorgava dai tombini come da sorgenti di montagna. Di solito all'incontro letterario del giovedì ci andavano in taxi. Ma non ci fu verso di trovarlo. «Sembra di essere a Roma» disse Camilla. «Eh, la capitale» sospirò Giulia. Per qualche anno aveva abitato a Roma, lì era nata la figlia dal cuore di pietra. E Giulia ricordava ancora con nostalgia la città. Ma non i suoi tassisti. «Non ti senti seguita, cara?» disse Camilla. «Per niente» rispose Giulia, ma quando si voltò vide il figlio della pizzicagnola che faceva i suoi bisogni contro il lato sinistro della chiesa, proprio sul porticato. «Secondo me ci sta seguendo. Questi bruti sono furbi: avrà dei sospetti.» «Potrebbe anche essere uno stupratore, tipo quelli delle ronde» disse Giulia. «Ho sentito che è una cosa diffusa. Andiamo al centro della piazza, saremo al sicuro dalle violenze.» «Se solo ci fosse un taxi.» «Comunque io ho un coltello nella borsa.» Quando furono nel centro della piazza le nuvole si spalancarono nel cielo sopra alla chiesa e Giulia lo prese come un segno che la sua idea era giusta. Ma ancora non se la sentiva di spiegarla a Camilla. Doveva essere una sorpresa. Si erano sedute su una panchina di pietra. Guardavano gli edifici sporgenti nell'aria. Erano stanchissime, soprattutto Camilla, per via del piede. Se ne stavano lì accasciate. C'erano dei momenti in cui si sentivano inermi, prossime alla morte. Ma poi qualcosa le spingeva avanti. Come due navi nella tempesta. «Sembriamo due barbone» disse Camilla. «Secondo te dove andremo, dopo?» disse Giulia. La domanda colse Camilla di sorpresa, non la capiva bene. «Dico, andremo in paradiso o all'inferno?» Giulia aveva di queste sterzate, di questi dubbi improvvisi. In tutti quegli anni non avevano mai parlato di religione e anzi i preti non le entusiasmavano. E ora se ne usciva con quella domanda. «In paradiso cara» rispose Camilla, «in paradiso. E dove andare sennò. Sarebbe inconcepibile una destinazione diversa.» Raggiunta questa certezza stettero per un po' sulla panchina come due fagotti: ma due fagotti destinati al paradiso. Passò un energumeno che sembrava un calciante in ricognizione. Degli studenti fuori corso assiepati davanti una taverna per alcolisti impotenti smisero di fumare come turchi e indicarono il cielo: «Un'aquila, un'aquila». Camilla alzò la testa e riconobbe subito la linea del falco. Non per niente era la vedova di un grande esperto. Il rapace volteggiava sopra la chiesa come fosse mandato da Dio. Un tempo non sarebbe stato possibile: un falco che pattuglia lo spazio aereo sopra piazza Santa Croce. «Con tutti i piccioni che ci sono si ingrassa» disse Camilla. «Come è cambiata Firenze» sussurrò Giulia, sgomenta e ammirata. «Guarda là» disse Camilla indicando la chiesa. Giulia aveva già visto. Una strana coppia era uscita dal portone della chiesa. Erano un uomo e una donna. Scendevano la breve scalinata. Venivano verso di loro. Erano giovani, sui trent'anni, lei anche meno, lui magari di più. Erano diversi, nel portamento e nei vestiti, dai fuoricorso che affollavano la taverna. La ragazza era minuta, capelli neri e carnagione scura, il ragazzo ero grosso e dava sul bianco, come colore dominante, anche perché non aveva capelli. «Che siano fornitori di pozione magica?» disse Giulia.
«Se mia nonna aveva la puleggia era un tram» disse Camilla. La ragazza parlò: «Gesù vuole conoscere proprio voi, stasera, volete entrare in chiesa a conoscere Gesù?» Le due povere donne ne avevano viste tante ma restarono basite. «Gesù vuole conoscere proprio noi?» chiese Camilla. «Sì, sì, proprio voi» confermò la ragazza con una luce negli occhi. «Ma perché?» incalzò Camilla. Si vede che la domanda non era prevista perché la ragazza non rispose. Le due principesse cercarono di dire che dovevano andare a un incontro letterario ma effettivamente di fronte a un incontro con Gesù quello letterario scompariva. La cosa strana, notarono dopo un po', era che a parlare era solo la ragazza. Il ragazzo stava due passi indietro. Pregava per la riuscita del loro incontro, come spiegarono successivamente i due portavoce di Gesù. «A raccontarlo non ci crederebbero, le amiche del bridge.» Giulia aveva ragione, a parte che le amiche del bridge erano scomparse dalle loro vite da molti anni. «Paion novelle» disse Camilla. Comunque per qualche oscuro motivo - forse una leggera disperazione di fondo - accolsero l'invito: entrarono in chiesa a conoscere Gesù. Erano secoli che non entravano in Santa Croce. La prima sorpresa fu che l'ingresso era gratuito, mentre avevano sentito dire che ormai l'ingresso nelle chiese era a pagamento. «Si vede che per stasera offre Gesù» disse Camilla. La seconda sorpresa fu che c'era un altare posticcio, abbastanza vicino all'entrata. «Lo abbiamo messo noi» spiegò la ragazza. Vide l'espressione dubbiosa delle due principesse e si affrettò a precisare: «Con il consenso e l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, naturalmente». Mentre l'altro continuava a pregare, la ragazza spiegò che facevano parte di un gruppo volontario chiamato i Portatori della Parola. Un gruppo di ragazzi cattolici che portavano il Vangelo per le strade. «E nelle piazze» disse Giulia. «Oh sì, anche nelle piazze» confermò la portatrice. Si trovavano ogni due giovedì in Santa Croce. Prima stavano dentro la chiesa. «Facciamo una adorazione eucaristica particolare. Il santissimo sacramento viene messo sull'altare da un sacerdote. Ma non è l'altare principale, come appunto avete correttamente notato.» «Caspita se l'abbiamo notato» disse sgranando gli occhi Camilla, che tra l'altro aveva avuto uno zio vescovo. «È un altare provvisorio» continuò quella senza scomporsi, pareva imperturbabile di fronte alle sollecitazioni esterne. Come fosse dotata di un suggeritore interno. «È un altare provvisorio, addobbato così come vedete, e ci piace metterlo vicino all'ingresso. Per avvicinare Gesù ai viandanti. Prima di uscire alla ricerca del prossimo stiamo qui due ore per liberarci dai nostri problemi e dalle nostre sofferenze. Per liberarci da noi stessi. Perché» e qui la sua voce e il suo volto si impennarono «noi vogliamo portare fuori Gesù, non noi stessi. E così usciamo in missione, contattiamo le persone, come abbiamo fatto con voi.» «Ci vuole un bel coraggio» osservò Camilla. «Certo» rispose la ragazza. «Tra l'altro non fa parte del mio carattere conoscere le persone in questo modo. Ma sono chiamata dal Signore. Certe cose non le decidi da te, ti vengono donate.» «E ora che si deve fare?» disse Giulia come una scolaretta. «Ora incontriamo Gesù.» Il ragazzo continuava a pregare e indicava l'altare provvisorio. Anche la ragazza indicò l'altare provvisorio. «Ma lì non c'è nessuno!» disse Giulia. «Non essere ingenua, per favore» la rimbrottò seccamente Camilla dandosi l'aria di vedere Gesù. «Eccolo» disse la ragazza trionfante, quando furono vicinissimi all'altare. Indicava due cesti. «Questo è "Gesù parla"» disse indicando il primo cesto. «E questo è "Gesù ascolta"» disse indicando il secondo. «Qui si mette male» mormorò Camilla alla sua amica, a bocca chiusa. Era anche un po' ventriloqua. I due cesti erano pieni di bigliettini, spiegò la ragazza. Bisognava prendere un bigliettino dal cesto
"Gesù parla", per sapere cosa ti diceva Gesù. E poi, nel cesto "Gesù ascolta", bisognava lasciare un bigliettino con una richiesta. Camilla non si tirò indietro. Però voleva sbrigarsi, cominciava a sentirsi a disagio. «Prendiamo un bigliettino in due» disse. Infilò la mano nel primo cesto e tirò fuori un bigliettino. Lo aprì e c'era scritto: "Segui la parola." Lo fece leggere a Giulia che tutta emozionata interpretò: «Lucrezia... segui la parola di Lucrezia, questo vuol dire!» «Sono indovinelli da risolvere, è come la "Settimana Enigmistica"» disse Camilla, che un tempo era un'accanita risolutrice di rebus. «Gesù usa il linguaggio della "Settimana Enigmistica".» I due Portatori della Parola erano emozionati anche loro, vedendo che quella vecchia stramba aveva trovato la chiave di lettura del biglietto. Certo, non sapevano chi fosse questa Lucrezia, probabilmente una santa martire. « Ora sta a te» disse Camilla, «mettiamo un biglietto con la nostra richiesta a Gesù?» «La nostra richiesta a Gesù?» domandò Giulia, che molto spesso reagiva a una domanda con un'altra domanda. In questo caso non sapeva che chiedere, a Gesù. Avrebbe desiderato un suggerimento. I due ragazzi le porsero una penna e un foglietto. Erano organizzati. Ma Giulia in preda all'emozione stava già frugando nella borsetta. Le sue dita incontrarono il coltello. Allora presa dal panico, senza saper perché, lo tirò fuori e lo lasciò cadere nel cesto. Il ragazzo e la ragazza rimasero pietrificati. La ragazza sbiancò, il ragazzo divenne verde e con un fil di voce biascicò: « Sia lodato Gesù Cristo.» « Sempre sia lodato» disse Camilla. E poi si rivolse all'amica: «Vieni cara, ora possiamo andare». Prese Giulia sotto braccio e la trascinò verso l'uscita, con una certa fretta ma anche con gran dignità.
Il secondo fiume «Ma cosa mi combini, sciagurata? Non lo sai che buttare coltelli in chiesa può essere considerato un comportamento sospetto? Ti ricordo che siamo inseguite dalle forze dell'ordine.» «Sarà...» rispose Giulia con un bel sorriso. Era ancora sotto l'effetto dell'incontro con Gesù ascolta e Gesù parla. Aggiunse: «È bello sentire chi ha opinioni diverse dalle nostre.» «Sì, per deriderle.» Scendevano la breve scalinata del sagrato. Camilla, col piede dolente, si aggrappò a Giulia che raddrizzò la schiena e spronò: «Non facciamo come Manzoni, che è morto cadendo dalla scalinata di San Felice.» Il figlio di Emiliano non era in vista, per fortuna. In compenso c'era un tipo allampanato coi denti marci e un pessimo odore. Dovevano essere in presenza di uno spacciatore nordafricano, integrato benissimo nel tessuto cittadino. «Se in futuro ci servissimo da lui?» «Troppo vicino a casa» disse Giulia, «sarebbe sommamente imprudente.» Quello non le considerava. Era un burocrate dello spaccio, privo di fantasia, non poteva vederle come potenziali clienti. Si limitò a rivolgere loro un'occhiataccia, per far capire chi era il padrone della piazza. «Vai in chiesa, Gesù ti aspetta, figliolo» gli disse Camilla con il suo tono più dolce. «Vuole incontrare proprio te.» Il tipo spalancò la bocca in una specie di grido silenzioso. Gesù lo aveva preso in contropiede. «Tiriamo innanzi» disse Camilla. «Mi sa che è tardi per l'incontro letterario» cambiò nuovamente discorso Giulia, era bravissima a svicolare. Sgusciava tra gli argomenti come se nuotasse. «Tardissimo. Poi, ti dirò, questi incontri culturali mi hanno stancato.» Effettivamente gli incontri degli ultimi quindici anni le avevano deluse. «Ti ricordi di quello che diceva che lui descriveva la vita vera perché parlava di un operaio? Non capirò mai perché un operaio è più vero di un principe. E poi sono stufa di affermati professionisti che in realtà sono serial killer. Perché mai un affermato professionista
dovrebbe fare il serial killer? È provato che i serial killer allignano soprattutto tra i geometri, oltre che tra i tassisti e i droghieri naturalmente.» Venivano a presentare i libri certi ragazzini semianalfabeti che, si vedeva benissimo, non avevano mai sparato in vita loro. «Meno la gente sa sparare più le piace scrivere di gente che spara» sentenziò Camilla. Ernesto, che sapeva sparare, non avrebbe mai descritto un omicidio. «Sarà» rispose Giulia soavemente. Lei aveva trovato più noioso di tutti un tipo opposto di scrittore: aveva spiegato per due ore che è una brutta cosa appartenere alla criminalità organizzata. Che male ci sarà a organizzarsi? Un fiume in piena è una forza che attrae. Quando sei vicino non pensi ad altro. Spariscono problemi secondari quali la fame del mondo, la violenza, le iniquità sociali, la persecuzione delle signore di buona famiglia. Niente. Rimane solo il fiume in piena, che si dilata, si torce e schiuma e - chiaramente - è vivo e furente. E così le due principesse, guidate da un pensiero superiore che le colmava di desiderio, andarono verso la Biblioteca nazionale. Quando furono là davanti, nella piazzetta che dà sul fiume, piazza Cavalleggeri, il rombo era fortissimo. Più potente di prima. Si sarebbe detto che avessero aperto le porte dell'inferno, e che quello fosse il rumore delle cascate di fuoco da cui si tuffano i diavoli per sfuggire ai canti insopportabili provenienti dal paradiso. «È meglio della televisione» osservò Camilla. Dalla pescaia di San Niccolò uscivano dita di schiuma che salivano verso il cielo come per ghermirlo e tirarlo giù. Anche se il livello dell'acqua per la verità era calato, notò Giulia. Ora non avrebbe potuto prendere un passeggino con un ombrello. Gli alberi che sorgevano dalla spiaggetta del lungarno Serristori (luogo d'elezione dei topi grassi) erano per un terzo fuori dall'acqua, anche se non si capiva quanto avrebbero potuto resistere ancora allo sballottamento. Alla spalletta, a una decina di metri dalle principesse, c'era un po' di gente accalcatissima, una trentina di persone. Stavano attorno a un tipo munito di un lunghissimo gancio. Il tipo col gancio si sporgeva dalla spalletta e protendeva il gancio verso il fiume, tenendolo con la destra. Le due principesse si avvicinarono al curioso assembramento. L'assembramento le lasciò passare. Dovevano sembrare curiose loro stesse, agli occhi di quelle persone. «Pescate coccodrilli?» chiese Giulia. Non ebbe risposta. «Non arriva, non arriva, siamo a posto!» urlò tutto contento il tipo che protendeva il lungo gancio. «Non siamo più le più pazze di Firenze» disse Giulia. In quel momento per l'esultanza il tipo col gancio perse l'equilibrio e - grazie alle gambe corte e alla lunga pancia a cocomero - stava per ribaltarsi e andare di sotto. Mentre gli allocchi attorno a loro non si accorgevano di niente (dalla lentezza delle loro reazioni Camilla giudicò che dovevano essere lettori di thriller) i riflessi di Camilla, allertati dalla pozione magica, dall'incontro con Gesù e dai demoni del fiume, reagirono all'istante. Con la mano un po' adunca (ma pur sempre una mano da signora) artigliò le chiappe da lavoratore sedentario del tipo che brandiva il lungo gancio verso le acque. La faccia che apparve era una faccia barbuta, da pazzo estroverso. Ma Camilla guardava la pancia a cocomero, per lei era quella la vera faccia di quell'individuo. «Grazie signora, grazie, è esattamente in momenti come questi...», poi non seppe come definire quei momenti e ribadì che lui ringraziava. Spiegò che era il direttore del personale della Biblioteca nazionale, e che - la tradizione e l'esperienza lo dicevano -finché il gancio non arrivava all'acqua non c'erano problemi, non c'era da fare nulla, la situazione era sotto controllo. Quei signori attorno a lui facevano parte della squadra di volontari. A casa ognuno di loro conservava delle scatole vuote e ora le avevano portate dentro la Biblioteca. Se la situazione volgeva al peggio dovevano prendere tutti i volumi che si trovavano sotto la linea nera, inscatolarli e portarli ai piani superiori, sopra la linea nera. La linea nera era il livello massimo raggiunto dalle acque nell'alluvione del '66.
Quell'uomo parlava senza badare molto agli ascoltatori, altrimenti avrebbe notato la faccia scettica di Camilla, che disse: «Magari il fiume non se lo ricorda il livello massimo, e sale più su, si sa che i fiumi hanno problemi di memoria.» «Fiume del tempo, cosa ricordi?» recitò Giulia. «Non ci sono problemi, ragazzi» insisteva il direttore del personale, ora si rivolgeva ai volontari. «Il gancio non arriva a toccare l'acqua.» Camilla lanciò un'occhiata ai ragazzi e a Giulia. Le due si intesero subito. Tra quei ragazzi non ce n'era uno sotto i cinquant'anni a occhio e croce. Avessero dovuto muoversi velocemente con degli scatoloni pieni di libri, mentre il fiume li inseguiva voglioso di contatti umani, ci sarebbe stato da ridere. «Il morto è sulla bara?» azzardò Giulia. Camilla concesse un grazioso cenno di assenso. Il direttore del personale disse: «Insomma per ora non ci sono problemi, non facciamo nulla. L'acqua sta scendendo.» I volontari defluirono nell'imponente edificio della Biblioteca nazionale. Le due principesse restarono al parapetto a guardare l'Arno che si contorceva come un drago di fango. «Rimane sempre un bel torrente» disse Camilla con affetto materno, come l'avesse fatto lei. «L'acqua è scesa, ma il rombo è aumentato, è strano» dice Giulia. «Mannò, figurati» disse Camilla, «è impossibile.» «Invece è proprio così» disse una robusta voce maschile alle loro spalle. Era una voce conosciuta. Anche la faccia lo era: apparteneva a Riccardo Bosi. Lavorava alla Nazionale e molti anni prima era stato proprio Ernesto, il marito di Camilla, a fargli avere quel posto. Per cui Riccardo Bosi aveva mantenuto una certa riconoscenza anche verso la vedova. Si incontravano per caso, che è il sistema migliore. Bosi aveva attraversato in pieno gli anni Settanta e si vedeva. La stessa cosa non si poteva dire delle due principesse. Ma nei rari incontri avvertivano una misteriosa confidenza. Spesso Bosi spiegava alle due principesse la grandezza di Frank Zappa. «Dovremmo comprarcelo un disco di questo Frank Zappa» aveva detto una volta Giulia dopo una conversazione con Bosi. Ma stavolta Bosi sembrava più interessato al fiume. Disse che sotto l'Arno scorreva un fiume sotterraneo molto più grande, che era risaputa questa cosa. «Però non si sa neanche dove sfocia» spiegò. Il rombo così forte derivava dal fatto che, se anche l'acqua dell'Arno era un po' calata, quella del fiume sotterraneo era aumentata. Il fiume sotterraneo passava in una grande caverna, per cui rimbombava. E tutta Firenze poggiava sulla volta di roccia della grande caverna. «Non lo dice nessuno» abbassò la voce Riccardo Bosi, «ma qua se viene un terremoto e si rompe la volta rocciosa (roba di pochi metri) tutta Firenze sprofonda.» Riccardo Bosi era fatto così, ti travolgeva con un fiume di parole, però interessanti. Le due principesse lo sapevano e non ne erano contrariate, anzi. «Se Firenze rischia di essere inghiottita dalla terra, credo che dovremmo prendere in considerazione l'idea di trasferirci in collina, cara, che ne pensi?» chiese Camilla. Sentendo quell'uomo parlare di Firenze che sprofondava sottoterra qualche dubbio a Giulia era venuto. Ma non su Firenze, su quell'uomo. «Chissà se si droga» chiese Giulia sottovoce. Le due principesse avevano un modo particolare di parlare senza farsi capire dagli altri. «Magari questo bravo giovanotto potrebbe aiutarci per la pozione magica, ora che Piero non c'è più» continuò Camilla. «Il fiume sotterraneo sta salendo» diceva il Bosi, «se sale ancora qua siamo fritti.» «Siamo all'acqua» corresse Camilla. Alla lunga le spiegazioni di storia naturale la stancavano. «Ma cosa mi dici di quel signore col gancio?» «Già, cosa ci dici?» fece eco Giulia. «È davvero convinto che quello del gancio sia un metodo valido, crede nella tradizione. Ma se arriva
l'onda improvvisa lo vede, se è un metodo valido. Per di più questa piazzetta tra il fiume e la Biblioteca è in discesa, sembra fatta apposta per un'inondazione.» Proprio in quel momento passarono dei tipi indaffaratissimi. Indossavano strane tute e guardavano il fiume camminando veloce, come per incutergli soggezione. Non funzionava. «Guarda, anche i marziani sono venuti a vedere il fiume» disse Giulia con entusiasmo infantile. «Sarà la protezione civile» disse il Bosi con quella noncuranza che gli era propria quando non desiderava cambiare argomento. Una noncuranza davvero signorile, anche se era di umili origini. Ma certe cose sono un dono di Dio. Magari anni prima aveva chiesto quella noncuranza buttando un bigliettino nel cesto "Gesù ascolta" e Gesù lo aveva accontentato. Comunque il Bosi trascurò i marziani e continuò il suo discorso. Disse che era una follia che avessero costruito una biblioteca proprio a pochi metri da un fiume così pericoloso, notoriamente soggetto a piene storiche e alluvioni ricorrenti. «È per via della biblioteca di Torino» disse Giulia. Lei per qualche anno aveva abitato a Torino con l'ingegnere. Raccontò che all'inizio del Novecento il direttore della biblioteca, in un momento di difficoltà personale, aveva dato fuoco alla biblioteca stessa. Probabilmente qui a Firenze hanno pensato che costruire una biblioteca vicino all'acqua fosse un'idea strategica, nel caso che il direttore avesse un momento di difficoltà personale. Il Bosi disse di sì, tra l'altro era anche lui di Torino: era arrivato a Firenze molti anni prima passando dal Pakistan. Spiegò che i costruttori andavano capiti, prima di quella di Firenze non esisteva un caso al mondo di biblioteca alluvionata. Di solito era il fuoco, anche senza bisogno di un direttore con difficoltà personali, a distruggere le biblioteche. Proprio perché era un caso unico era accorsa tanta gente a Firenze. «Metti che tu sia un polinesiano con l'intenzione di acculturare il tuo atollo» commentò Camilla, «ti interessa sapere cosa può fare l'acqua quando irrompe in una biblioteca.» «E poi con lo scioglimento dei ghiacci polari tutto ciò è molto attuale» disse Giulia. Il Bosi disse che ora doveva rientrare, era pur sempre in orario di lavoro e doveva stare al suo posto. «Peccato, si stava così bene» sospirò Giulia, come se invece che sull'orlo di un cataclisma fossero in un comodo salotto a prendere il tè. Però si fecero dare il numero di cellulare, ormai ne avevano ben tre: una specie di piccola collezione. «Perché, avete il cellulare?» chiese Bosi un po' stupito. «No» rispose Camilla. Bosi non osò chiedere spiegazioni e le salutò con tutta la devozione che può mostrare un seguace di Frank Zappa. Erano di nuovo sole. Una parte del cervello era costantemente in cerca di qualcuno a cui dare la colpa dell'incidente in cortile ma scartarono l'idea di attirare in casa il Bosi perché raccontava delle cose così assurde che doveva essere un bravo ragazzo. C'era sì l'idea segreta di Giulia ma sinceramente Camilla dubitava che fosse una buona idea, la immaginava come una di quelle fantasticherie in cui l'amica era solita perdersi, incurante di quei dettagli plebei che decretavano il successo. La stessa Giulia in cuor suo cominciava a dubitare. Spesso si sentivano irrilevanti per il resto del mondo. Ma uno spettacolo come quello - con i gorghi che morivano e rinascevano e i gabbiani impazziti sopra di loro - le riportava alla vita. Per un attimo ci furono solo acqua, sedimenti e due anime. «Siamo ancora al centro dell'universo» disse Giulia. «Non ci siamo mai spostate cara.» «Perché rifacciamo di continuo lo stesso percorso?» chiese Giulia mentre tornavano a casa. Ancora una volta i reali motivi delle loro azioni tendevano a sfuggirle. «Chi lascia la via vecchia per la nuova...» cominciò sicura Camilla, poi si scoraggiò. «Non lo so, bambina.» «Non pensi che Lei potrebbe arrivare nuotando sulle acque in piena, e così via?» «Scherzi, vero? Forse arriverà in questo modo, ma non per noi.»
«Sicura?» «Il morto è sulla bara.» Caverna o no, fiume sotterraneo o meno, il rimbombo saliva al cielo. «Tu sciogli/ancora i groppi interni col tuo canto. /Il tuo delirio sale agli astri ormai» recitò Giulia ispirata come non mai. I gabbiani componevano solenni figure biancheggianti sopra il nero del cielo. Videro lo spacciatore che usciva dalla chiesa, salutato allegramente dai due ragazzi Portatori della Parola. Prima di sparire nei vicoli, il ceffo col collo storto rivolse alle principesse un cenno di saluto. «Vedi che Dio c'è?» disse Giulia. «A volte» rispose Camilla. «A volte.» Per il resto, tutti facevano le stesse cose. «Ma non sono un po' esagerati?» chiese Giulia. Intendeva dire che con il disastro che si andava preparando era un po' strano che quasi tutti i negozi fossero aperti, i turisti in giro a fotografare le opere d'arte e così via, la routine consueta. Ma le persone attorno a loro, che razza di persone erano? Non sentivano il rimbombo del fiume? Non vedevano i topi grossi come gatti che si allontanavano in processione, a testa bassa, come monaci trotterellanti? Ogni tanto la processione si infilava in un tombino, ma dopo qualche centinaio di metri usciva da un altro tombino, perché si vede che sotto l'acqua era troppa o troppo violenta anche per loro. Le persone attorno, chiunque fossero, se anche sentivano e vedevano, se addirittura fotografavano e filmavano, lo prendevano come uno spettacolo. Erano tutti turisti, anche quelli che non si erano mai mossi dalla città. Non sapevano quanto sarebbe stato coinvolgente, lo spettacolo. Le principesse incrociarono nuovamente la manifestazione di protesta contro le piene dell'Arno. Ma non videro il figlio di Emiliano nel gruppo: una conferma che quel bove le stava pedinando. C'erano un sacco di vigili in giro e le due si nascondevano sotto l'ombrello per non essere riconosciute da quello baffuto che le inseguiva. «E se stavolta troviamo per davvero la casa circondata dalle forze speciali?» chiese Giulia. «Di sicuro non impiegheranno elicotteri: avrebbero problemi a manovrare nelle strade strette e sarebbero facile preda della nostra guerriglia» disse Camilla. «Andiamo a casa bambina, dove altro potremmo andare?» E poi, potevano forse abbandonare i Lorocari? «Questo mai.» «Allora andiamo.» «E andiamo e così via.» E andarono veramente. In effetti non incapparono in elicotteri in assetto da guerra. In ogni caso si sforzarono di avere un atteggiamento mimetico. «È tutta una questione di mentalità» teorizzò Camilla. Avevano la nausea per la stanchezza. Erano distrutte, da tutto quel girare a vuoto. La vita era davvero una severa maestra. E non era facile seguire le spiegazioni. «Cosa è quella cosa laggiù?» chiese Giulia quando arrivarono in vista del portone. TERZA PARTE - La conquista della santità
Una visitatrice Qualcuno c'era ad aspettarle. Si presentava come il più derelitto fagotto che mai avesse sonnecchiato appoggiato a uno zaino, ma era una ragazza. Stava sul gradino di pietra, serena, davanti al portone, con enorme disinvoltura. Le gambe le teneva piegate, con le ginocchia sulla corda e le altre cose lasciate lì dal fabbro, come richiesto qualche ora prima dalle principesse. «Ha bisogno di qualcosa signorina?» le chiese Camilla quando furono a due metri di distanza. Dovette ripetere la domanda perché quella indossava una cuffia da musica. Alla fine se la tolse e sollevò la testa. Aveva un ciuffo stirato di sbieco che le copriva un occhio ed era pallida. Mostrò un bellissimo sorriso. «Questa è una di quelle che fingono di leggerti il contatore del gas e ti rubano i risparmi, te lo dico
io» sussurrò Camilla, ma non tanto piano da non farsi sentire dalla ragazza. La quale invece - sorda o furba - sembrò non aver sentito. Valutò velocemente le due donne, poi i suoi occhi si puntarono su Camilla. «Zia!» esclamò con entusiasmo. Si alzò in piedi con un solo movimento, come srotolandosi verso l'alto, mostrando un'elasticità invidiabile su quelle gambe esili come giunchi. Fece per abbracciarle, con uno slancio che sembrava davvero ingenuo. Le due si irrigidirono come pesci pietra, tanto che la ragazza non osò varcare la linea invisibile che le separava. «Potremmo farla fuori e vendere gli organi?» disse Giulia, ma notò subito lo sguardo di disapprovazione di Camilla. Piuttosto potevano darla in pasto ai Loro-cari, poverini. «Certo è una sfrontata» osservò Giulia. Forse qualche loro personalità latente faceva sul serio. Ma più che altro dicevano quelle cose esagerate perché erano preoccupate, la prospettiva di finire nelle mani di una truffatrice le impauriva. Disse di chiamarsi Francesca e di essere la nipote di Ginevra. Ginevra era una preistorica sorella di Ernesto. «La figlia della figlia di Ginevra, nientepopodimeno» commentò Camilla. Per essere una truffatrice era ben informata. Francesca disse che Ginevra era morta, che sua mamma era morta, che tutti erano morti, e in definitiva loro erano le ultime parenti che le rimanevano. «Una storia davvero lacrimevole» disse Giulia. Francesca raccontò che in casa parlavano spesso di Camilla, la zia Camilla era un mito in casa. E così lei, ora che non aveva più nessuno, aveva deciso che voleva conoscere ciò che restava della sua famiglia, e soprattutto questa mitica zia di cui tanto aveva sentito parlare nella sua infanzia che le pareva già di conoscerla. Le principesse percepirono subito in lei un fondo di tristezza reale. D'altra parte con quell'orecchino alla bocca era normale che fosse triste. Ma era molto vivace, spostava il peso da una gamba all'altra, non stava mai veramente ferma. Disse che era lì per aiutarle, sicuramente alla loro età un aiuto faceva comodo. Questa notazione non piacque alle principesse ma non dissero nulla. La risposta fa la signora, ma a volte anche il silenzio fa la signora. Insomma risultò che la ragazza era venuta per conoscerle, passare qualche giorno da loro e aiutarle a mettere in ordine la casa. Nel frattempo avrebbe visitato Firenze, un suo sogno da sempre. «Allora, mi fate almeno vedere la casa?» chiese allegramente. Giulia già pregustava la reazione gelida e imperiale della padrona di casa. Cosa avrebbe detto Camilla? Cosa avrebbe fatto? «Cara, cosa fai impalata» disse invece Camilla all'amica. «Apri il portone.» Francesca - o come si chiamava veramente - batté le mani e fece un saltino per l'entusiasmo. Poi si girò per prendere lo zaino. Giulia guardò l'amica con sgomento. Come era possibile che stesse facendo entrare quella sconosciuta in CASA? Era sconcertata dalla irritante disinvoltura della ragazza ma ancora di più dalla reazione pacifica di Camilla. Negli ultimi venti anni non aveva mai fatto nulla di paragonabile. «Non possiamo stare qui sulla soglia» si giustificò assurdamente Camilla, «tutti ci stanno guardando. Non facciamoci notare.» Chiese alla ragazza il favore di aiutarle a portare dentro la roba lasciata dal fabbro, poi lasciò fare tutto a lei. Quando si furono richiuse il portone dietro le spalle e Francesca ebbe posato la corda e le altre cose nel corridoio, Camilla la fermò con un gesto imperioso e disse: «E ora parliamoci chiaro, bambina. Non so chi sei.» Quella cercò di protestare: glielo aveva detto chi era. «Non so chi sei» ripete Camilla con voce tagliente, chiudendo gli occhi. «Ma so che non entrerai in casa nostra. Però, per questa notte», riaprì gli occhi «puoi dormire qui nel corridoio, vicino al portone. In cambio ci aiuterai a sistemare questa roba» e indicò le cose portate dal fabbro, «ti dirà Giulia come
fare. La zia Giulia» sottolineò con un sorrisetto. «E domani vai via e visiti Firenze. Sei d'accordo?» Francesca sembrò interdetta ma poi recuperò un po' del suo entusiasmo. «Me lo aveva detto la nonna che siete tipe strane» commentò, come se strane fosse il complimento più bello del mondo. Giulia sorrise gratificata perché Camilla si era fidata del suo progetto senza conoscerlo.
Le carrucole In certi momenti, nell'ansa di quiete ombrosa del salotto, dove regnavano il pianoforte e la televisione col volume a zero, il mondo tornava a essere una distesa uniforme davanti a loro. Un oceano con gli orologi rotti. Camilla faceva risuonare accordi solitari. Come pesci galleggianti a mezz'acqua. Per lei le immagini mute della televisione non erano altro che un'estensione fantasmatica del pianoforte. E Giulia guardava la carta da parati, sognando: per lei la televisione non era altro che un bagliore laterale. Aveva una tale riserva di sogni. Si staccava dal proprio corpo, camminava su ponti luminosi e arrivava ai tempi trascorsi, alle persone perdute, così vivide dentro di lei da farle pensare che davvero ci fosse qualche mondo in cui erano ancora vive, e non più realisticamente trasformate in grossi pesci della taiga. Ripensava alle cose che erano accadute. «E anche a quelle che avrebbero potuto accadere e non l'avevano fatto, accidenti a loro» recitò ad alta voce. «Un'altra citazione, cara?» Giulia con una delle sue sterzate cambiò subito argomento: «Ora non resta che sperare nel fiume», e chiuse gli occhi sospirando. Era piena notte. La ragazza dormiva nel corridoio a pianterreno, stillante umidità. Un corridoio così signorile non doveva averlo mai visto, la truffatricella. Per quanto, a dire la verità, non sembrava venire dal popolo. Anche per questo l'avevano fatta entrare. Le due sonnecchiavano, a tratti, ma non dormivano. In generale erano secoli che non dormivano ma sonnecchiavano. Nel caso particolare la cosa era accentuata dal fatto che i preparativi avevano messo in circolo mostruose energie, o forse era la pozione magica. La ragazza le aveva aiutate con incredibile entusiasmo, come se fosse stato un grande gioco. Materialmente aveva fatto quasi tutto lei. Aveva un'aria così esile. Invece era forte. «La usi come nipote di fatica» aveva detto Camilla a Giulia che impartiva gli ordini. Francesca non discuteva le istruzioni e faceva pochissime domande. D'altra parte lei lo sapeva che la zia Camilla era strana, era anzi di una stranezza leggendaria, un mito di famiglia, aveva detto Francesca eccitatissima. Stando ai suoi racconti, la sua famiglia non la esaltava affatto, l'unica eredità positiva erano le descrizioni della zia Camilla. «Strana io!» disse Camilla a Giulia quando Francesca non sentiva. «Ma non si è vista? Con quella felpa coi teschietti rosa! Certo che come truffatrice è particolare. Quale truffatrice si sobbarcherebbe tutte queste fatiche?» «Non pensi più che sia una truffatrice» fece Giulia dubbiosa. «Se è una truffatrice è brava.» «Perché l'hai fatta entrare?» Oltre a rispondere a una domanda con un'altra domanda Giulia aveva un'altra caratteristica: se era lei a porre domande le ripeteva a oltranza. Era la quinta volta che glielo chiedeva e ogni volta Camilla dava risposte un po' diverse. Succedeva che si facessero domande e si dessero risposte all'infinito, come se non si arrivasse mai a un punto fermo. «Non lo so neanche io, mi è venuto così» disse Camilla. «Eri una donna dagli impulsi improvvisi, generosi, ti ricordi?» «Ha qualcosa quella ragazza... fin da subito... non sarà Lei?» Quando alla televisione sentivano di qualche povero vecchio truffato della pensione stavano sempre dalla parte del truffatore. Apprezzavano anche il tipico religioso, prete o frate, che abusa delle credenti con la scusa di cacciare il demonio dal corpo. Chiodo scaccia chiodo, dicevano. Eran cose che le facevano tornare di buonumore.
Viceversa gli individui che volevano il bene le avevano sempre infastidite. Una volta che avevano incontrato un boy scout che voleva aiutarle ad attraversare la strada Camilla aveva fatto finta di non capire cosa volesse: «Fai parte di un gruppo neonazista?» gli aveva chiesto. Quello ci era rimasto malissimo. Per lei, chissà perché, qualunque adulto portasse i pantaloni corti faceva parte di un gruppo neonazista. Francesca almeno si era presentata subito come una truffatrice. «Del resto Lei non è altro che questo, non trovi? Una truffatrice» disse Camilla. Prima di andare a dormire c'erano stati i lavori. Giulia aveva finalmente spiegato a Camilla il piano segreto. Si trattava di lasciare che la natura facesse il suo corso. Ora, in natura non ci sono porte, è risaputo. Per cui quelle che ostacolavano andavano aperte. Ma da lontano: da vicino non sarebbe stato prudente. Soprattutto per quanto riguarda la porta decisiva: la porticina numero uno, quella che collegava il pianterreno al cortile tramutato in acquario. Il portone principale dava meno problemi, perché nonostante fosse pesantissimo e blindato poteva essere aperto con un pulsante che era dentro casa, accanto al citofono. L'importante era farlo al momento giusto. Per la porticina numero uno fecero così: legarono alla maniglia una corda, la corda del fabbro piccolo e sporco ammaliato dalla loro bellezza. Attraverso un sistema di carrucole la corda arrivava agli appartamenti del primo piano, residenza delle principesse. Il risultato era che la porticina numero uno poteva essere aperta tirando la corda direttamente dal salotto di casa. Chiaramente per far passare la corda non poterono chiudere del tutto la porta degli appartamenti del primo piano, la lasciarono socchiusa, ma bloccata col catenaccio, così Francesca non poteva entrare in casa loro in piena notte e fare qualche sorpresina. Avevano fatto tutto secondo le indicazioni di Giulia, non a caso moglie di un ingegnere. «Ora si tratta solo di aspettare» disse Giulia nel cuore della notte. «Sei sicura che succederà?» «E perché no? Verrà a pipa di cocco» fu la disarmante risposta. «La cosa importante è non aprire le porte troppo presto, è tutta una questione di tempo. Di acque in entrata e acque in uscita. Metteranno in confusione il pianterreno ma pazienza. Ci libereremo di un po' di cianfrusaglie.» Per un attimo tacque. Impressionata dall'enormità di ciò che aveva detto. Ti senti un po' strana, quando comandi la devastazione del tuo regno. Neanche Camilla disse nulla, fece solo un cenno. Giulia riprese: «Noi quando vediamo che il momento si prepara apriamo il portone col pulsante. Poi stiamo alla finestra che dà sulla strada. Appena vediamo che la natura ci viene in soccorso con tutta la sua potenza (ma non prima!) tiriamo la corda dal salotto e in questo modo apriamo la porticina numero uno.» «E amen» concluse Camilla. «E così via» confermò Giulia.
Bussano nella notte Giulia apriva e chiudeva la lucente scatola cinese dello zio Tancredi, col coperchio scorrevole. Era scesa a prenderla nell'appartamento del piano di sotto: la giungla dei tesori. Le aveva fatto una certa impressione, quando era giù, pensare che oltre a quei muri c'era l'acqua. La scatola era intarsiata: un drago, che simboleggiava l'aggressività; e un rapace, che stranamente simboleggiava la bontà. Bisognava trovare un equilibrio tra le due cose. E loro per il momento propendevano troppo verso la bontà. Questa era la loro debolezza. La scatola era piena di soldi. In generale, era il lussureggiante appartamento del pianterreno a essere pieno di soldi: ve ne erano nelle conchiglie, soprattutto nelle buccine e nei cimatidi. Ve ne erano nel grammofono. Nei gusci delle tartarughe giganti. Vi erano soldi - ma anche perle e pietre preziose perfino nel tasso impagliato e nel pesce palla. Ultimamente però si erano verificati fenomeni inquietanti. Succedeva di trovare vuote scatole un tempo piene. Poteva anche darsi che, a forza di usarli, quei soldi stessero finendo. Era una cosa su cui riflettere.
Giulia richiuse il coperchio per la ventesima volta. «Arriverà?» chiese Camilla. «Lei?» «No, Lui.» «Questa cosa che sta arrivando...» mormorò Giulia. «Sì?» «Arriverà. Le cose che stanno arrivando non le puoi fermare, altrimenti non starebbero arrivando.» Il ragionamento non faceva una grinza. Erano le due di notte quando Francesca bussò. Ma prima avevano udito il suo passo sulle scale, nonostante il rumore della pioggia e dei fulmini. Un passo stranamente pesante. Camilla sentendo i passi pesanti era stata presa da una paura terribile, come negli incubi. Un terrore che la squassava dall'interno. Ma non aveva detto niente. «Non sarà davvero Lei?» chiese Giulia, la voce le uscì debole. Camilla aveva ripreso il controllo: «Stammi a sentire: ha detto che il suo sogno era visitare Firenze. Non credo che Lei abbia come sogno quello di visitare Firenze.» «Oh, ma sono cose che si dicono, anche per cortesia» ribatté Giulia, rassicurata dal tono perentorio dell'amica. «Chiunque sia, di certo non sarò io a farla entrare» disse Camilla. E anzi andò a prendere la pistola col manico di madreperla del trisavolo avventuriero Carlo Pallavicino Romolaico. «Non serve colpirla nel cuore, perché la morte mai non muore» recitò Giulia. «Ma figurati se non muore» disse Camilla innervosita, «ma fammi il piacere. E smettila con le citazioni. Dipende dalla mira.» Sapeva essere concreta in certi momenti. «E comunque semmai le sparo in fronte» aggiunse. «Zie?» disse Francesca. Già le chiamava zie, al plurale! «Zie, siete lì dietro?» Erano lì, dietro la porta socchiusa, ma non avevano tolto il catenaccio né avevano intenzione di toglierlo. La corda correva tra i loro piedi e proseguiva sul pianerottolo. «Sì» rispose Camilla con calma grandissima e solenne. Giulia si spostò di lato fino ad affacciarsi allo spiraglio. Francesca stranamente aveva portato con sé il suo grosso zaino, ecco perché aveva un passo così pesante. Solo il sacco a pelo mancava, evidentemente lo aveva lasciato nel corridoio a pianterreno. «Volevo chiedervi una cosa» disse Francesca, «... perché abbiamo fatto tutti quei lavori?» «Fresche l'ova» disse Camilla. Le veniva in mente ora di chiederlo? Era davvero una ragazza intrisa di particolarità. Giulia, artista della risposta evasiva, disse che era un modo di stare meglio. «Ah, una specie di ginnastica Pilates?» «Oh sì, una specie. Le carrucole negli ultimi venti anni hanno fatto passi da gigante.» Questa era una frase di Ernesto, un po' rimaneggiata. Ernesto quando nei salotti non sapeva che dire ricorreva alla frase "L'anestesia negli ultimi venti anni ha fatto passi da gigante". Era difficile ti obiettassero qualcosa a una frase del genere, a meno che tu non avessi la sfortuna di incappare in un anestesista. E così ora Francesca, a meno che non fosse un'esperta in carrucole, non sarebbe tornata sull'argomento. In quel momento Camilla si spostò di lato e scivolò alle spalle di Giulia. E così Francesca dallo spiraglio vide l'arma che impugnava. Spalancò la bocca. La richiuse. «Perché mi punti quella pistola, zia?» Doveva essere un po' disturbata, per reagire così. «Considerala una forma di prudenza. Tieni presente che difficilmente sbaglio un colpo, non sono come i cacciatori di oggi o come i lettori di thriller. E tu cara perché hai fatto la fatica di portati su quel grosso zaino?» «Io non mi separo mai dal mio zaino. E voi perché mi avete raccomandato di non entrare nell'appartamento al pianterreno? Quella porta socchiusa e quella corda mi fanno un po' paura.»
Giulia pensò che a volte la cosa migliore è la sincerità: «L'appartamento dà sul cortile che è pieno d'acqua e di cianfrusaglie. Quella corda non serve solo per fare ginnastica. Vogliamo sgombrare il cortile senza che la gente se ne accorga. Sai come sono oppressive le regole comunali su queste questioni degli sgomberi. Burocrazia e burocrazia! Sono giorni che chiamiamo inutilmente non so quale numero azzurro.» Camilla la guardò malissimo. Prima di tutto il numero avrebbe dovuto essere verde. Ma più che altro Giulia un attimo prima aveva fornito un'altra spiegazione. Ora confessava praticamente la verità. Odiava questi improvvisi sbalzi della sua amica. Ma al tempo stesso li amava. Camilla aggiunse un dettaglio che sul momento le parve decisivo: «Sai, si tratta di acque illegali.» Francesca rimaneva lì, davanti alla porta, tenendo la mano sinistra sullo zaino poggiato in terra. Spostava il peso da una gamba all'altra più velocemente del solito. Camilla continuava a tenerla blandamente sotto tiro. Ma la ragazza non appariva più particolarmente turbata da questo dettaglio. Se ne stava lì, col suo ciuffo sbilenco. Aveva davvero molte facce, come un prisma umano: ora sembrava un po' impertinente un po' imbarazzata. «Poi ci sarebbe un'altra cosa» disse Francesca, «devo andare in bagno.» Questa non se la aspettavano. Non ci avevano pensato. In effetti non poteva mica farla nel corridoio al pianterreno. Esaminarono la possibilità che aprisse il portone e la facesse per strada, ma la scartarono in quanto non era una cosa dignitosa. «E allora?» si chiese Giulia. «La notte è lunga.» «Prima che il gioco resti.» «Potremmo darle il vaso da notte della zia Elvira» fece Giulia illuminandosi. «Il pitale istoriato con le scene di caccia alla volpe?» Anche questa idea fu scartata: la zia Elvira non sarebbe stata contenta. Quello era il suo vaso. Metti che esistessero i fantasmi, la zia Elvira era capacissima di perseguitarle per l'eternità, a causa di uno sgarbo del genere. C'era la possibilità di farle usare un bagno del lussureggiante appartamento al primo piano ma non la menzionarono nemmeno, ad alta voce, di fronte alla ragazza, perché quell'appartamento era la loro cassaforte e se Francesca era quella maledetta truffatrice ladra che sicuramente era allora non era il caso di farla entrare proprio là. Su questo le due principesse si intesero con un'occhiata. «Posso vedere la casa, soprattutto il bagno?» Quella ragazza aveva il dono dell'insistenza. «Va bene, entra» disse Camilla.
Dentro la roccaforte Giulia tolse il catenaccio e la ragazza entrò portandosi dietro lo zaino. Camilla per un po' continuò a tenerla sotto tiro ma a un certo punto decise di riporre la pistola nella tasca della vestaglia. «Non fare mosse false» le disse, anche se non sapeva bene quali fossero le mosse false. La scortarono al bagno. Mentre Francesca era dentro Giulia mise la scatola cinese sul pianoforte. Non c'è niente di più normale di una scatola cinese su un pianoforte e Francesca non l'avrebbe notata. Quando la ragazza uscì dal bagno ci fu un po' di imbarazzo perché non si sbrigava ad andarsene. Addirittura profanò l'ansa ombrosa del salotto e notò immediatamente la scatola cinese sul pianoforte. La prese con agile mano. «Giù le zampe» disse Camilla. La ragazza interdetta posò la scatola. «La scatola col drago e l'aquila» squittì, «me ne parlava sempre la nonna Ginevra. Devi essere un drago e un'aquila allo stesso tempo, mi diceva.» «Sono insegnamenti che si imprimono nella mente di una tenera bambina» osservò Camilla. Ma in cuor suo era sbigottita. Quella era un'informazione che una truffatrice difficilmente avrebbe potuto
procurarsi. Un conto era appurare che la sua defunta cognata si chiamava Ginevra, raccogliere qualche informazione e imbastirci un racconto generico per intortare due vecchie sceme. Ma quella storia della scatola cinese la conoscevano solo in famiglia e in Cina. Anche Giulia parve annuvolata dagli stessi dubbi. Francesca mostrava una considerevole resistenza agli sgarbi. Forse aveva davvero molte sofferenze famigliari alle spalle, come il suo aspetto - e quei teschietti rosa sulla felpa - lasciavano intuire. D'altra parte Ginevra, con le sue durezze e le sue ansie, non era la persona più adatta per essere una dolce nonna. Qualunque fosse il motivo, Francesca non si era impressionata più di tanto, per il fatto di essere stata accolta con le armi, o perlomeno sembrava aver assorbito il colpo. Anche quel "Giù le zampe" non l'aveva ferita. Però aveva un istinto sicuro per fare quello che non doveva. Avrebbe potuto benissimo, se non andarsene, perlomeno affacciarsi alla finestra che dava sulla strada, se proprio doveva affacciarsi alla finestra. Invece scelse quella che dava sul cortile allagato. «Che c'è qua sotto?» chiese con voce piatta. «Nulla, non c'è nulla» rispose assurdamente Giulia. In quel momento dal cortile si levò un suono, una specie di ululato rantolante. La ragazza spalancò gli occhioni da bambina: «Sentite?» Come potevano non sentire. Sembrava l'ultimo canto della pantegana. Evidentemente Senzafaccia era ancora vivo e aveva raccolto le ultime forze (almeno c'era da sperarlo che fossero le ultime) per un richiamo disperato rivolto ai suoi simili. C'è il cortile allagato, chiarì Camilla, senza pronunciarsi sull'origine del suono raccapricciante. Ma la ragazza non mollava. Aveva una testardaggine che rasentava l'ottusità. Quando una persona di classe capisce che un'altra persona non desidera parlare di un certo argomento allora la persona di classe desiste, dal parlare di quell'argomento. Ma quella nulla. Non desisteva. «Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire» commentò Camilla, ma si pentì subito. «Appunto» rispose la ragazza che aveva inteso la frase a favore suo. «Mi arrendo, alzo le mani» disse Camilla ricadendo a sedere sul divano. «Ora ti spiego tutto.» Vide il terrore spalancarsi negli occhi di Giulia. «Devi sapere...» cominciò, ma non sapeva come continuare. Tutto il volto di Francesca esprimeva un'attesa radiosa, primordiale, come quello di un bambino di tre anni. «Devi sapere che sotto Firenze c'è una grande caverna, dentro cui scorre un fiume sotterraneo, molto più grande dell'Arno. Non senti questo rimbombo?» Francesca lo sentiva. «È il fiume sotterraneo che è in piena, altro che piena dell'Arno. La piena dell'Arno è un'inezia secondaria in confronto. Se succede qualcosa alla volta di pietra della caverna, Firenze sprofonda. Del resto, lo meriterebbe.» Fin qui il discorso filava, a giudicare dalla faccia di Giulia. Ma ancora non si vedeva il nesso con i suoni raccapriccianti che sgorgavano dal cortile e quella maledetta ragazza, così pignola e puntigliosa, non avrebbe mancato di rilevarlo. Le nuove generazioni non conoscevano lo slancio della fantasia libera. «Ma cosa c'entra questo col cortile?» chiese Francesca, che restava ostinata alla finestra. «Benedetta ragazza» fece Camilla, «cosa c'entra col cortile!» «Già, cosa c'entra col cortile» fece eco Giulia, tanto per assecondare l'amica. «Dal fiume sotterraneo salgono delle pantegane grosse, ma veramente enormi, ecco cosa c'entra.» «Pantegane giganti» la aiutò Giulia. «Pantegane giganti, esattamente. In grado di divorare un cane. Non so come hanno trovato il modo di raggiungere il nostro cortile allagato. Ed emettono questi richiami, magari sono in amore.» «Affascinante» mormorò Francesca. «Affascinante un corno» disse Camilla. «Ci è sparita la bicicletta dal cortile, e io dico che se la sono
portata via loro. Ma soprattutto con questi bramiti delle pantegane giganti non riusciamo a dormire. È un vero inferno.» «Ma non vi siete rivolte al Comune?» «Il Comune, buono quello!» sbottò Camilla, che pronunciò la parola "Comune" con ribrezzo, come se fosse il nome di una donnina allegra. «Già il fatto che si chiami Comune lo rende una cosa volgare» osservò Giulia. «Vedi cara, credo che il Comune sia più che altro un luogo di fornicazione» ipotizzò Camilla con la massima naturalezza. «Escludo che si preoccupino di cose come le pantegane giganti e lo sprofondamento di Firenze al centro della Terra.» «Ma posso vederle le pantegane giganti? Mi piacerebbe tanto» disse Francesca e fece per aprire la finestra. «No!» Camilla estrasse la pistola col manico di madreperla dalla vestaglia e gliela puntò alla tempia. «Non aprire. È pericoloso.» «Anche quella è pericolosa, zia» disse Francesca indicando la pistola. «Due povere vecchie devono cautelarsi, cara. E impara ad aspettare la risposta, quando fai una domanda.» In effetti però la reazione era sembrata eccessiva anche a lei, in questo caso. Un effetto della televisione, probabilmente. Rimise la pistola in tasca. Si avvicinò al pianoforte. «Ora te ne devi andare, torna a dormire nel corridoio.» Carezzò il pianoforte da cui uscì, accennata, una vecchia melodia. Era un tango di famiglia, per così dire. Francesca abbandonò la finestra, si girò verso il pianoforte e cominciò a cantare a bassa voce quella vecchia canzone, che ormai nessuno conosceva più al mondo, se non le due principesse. Giulia e Camilla rimasero come sospese nell'aria. Ma la mano di Camilla continuò a suonare.
Ponti di luce Dopotutto, forse era davvero una loro nipote. (Tecnicamente una nipote di Camilla, ma a questo punto nel cammino della vita si consideravano consanguinee.) Una nipote che le vedeva come persone particolari, leggendarie. Una nipote che non aveva altri parenti al mondo. Una nipote sofferente (con una nonna come Ginevra chi non lo sarebbe!), col ciuffo sull'occhio, pallida, le gambe esili, la felpa nera con i teschietti rosa, l'orecchino alla bocca. Una nipote un po' perturbata ma non grossolana. E che per tutti questi motivi, e chissà quali altri, non si lasciava impressionare da comportamenti che altri avrebbero trovato impressionanti. E anche quest'ultima caratteristica le conferiva un'aria di famiglia. Probabilmente Francesca le aveva aiutate nel lavoro delle carrucole per uno spiccato senso della famiglia, tutto qui. «Con tutto il nostro sarcasmo a volte non capiamo le cose» disse Giulia. «Ci sono persone che hanno bisogno di affetto.» Si riferiva a Francesca ma anche a se stessa. Mentre Camilla suonava il tango, Giulia e Francesca accennarono un passo di danza. Quei loro movimenti non si potevano definire corretti, dal punto di vista di un istruttore di tango. Ma in quel momento non c'erano istruttori di tango nei paraggi e risultò tutto molto bello. Si libravano in aria, su quei ponti di luce che di solito solo Giulia riusciva a vedere. Giulia era piena di grazia e di soavità. "D'una soavità che il cor dilania" avrebbe detto lei. Ora tutte e tre vedevano i ponti di luce. Camilla abbandonò il pianoforte e si sedette sul divano insieme a Francesca, mentre Giulia sedeva sulla poltrona. Stavano lì, come vecchie signore. Di nuovo creature terrestri. Ma ancora la luce scivolava sui loro volti levigandoli. Francesca tirò a sé lo zaino e fece per aprirlo. "Eccoci, siamo all'acqua" pensò Camilla. Sembrava molto pesante quello zaino, magari era pieno di armi, o di teste mozzate. L'idea che fosse una truffatrice era un po' sfumata dalla sua mente, dopo il ballo. Ma non era sfumata quella che potesse essere pericolosa. Metti che fosse una pazza serial killer. Se ne sentivano di quelle storie. Già vedeva il
titolo sul giornale: "Finta nipote massacra finte zie che, idiote, l'hanno lasciata entrare in casa". Poteva anche darsi che fosse sia una nipote sia una pazza. I tipi strani non mancavano in famiglia. Magari era venuta a vendicare chissà quale torto subito dalla cara Ginevra, quella vecchia scimmia isterica. «Ho qui qualcosina per voi» cantilenò Francesca piena di gioia, affondando il braccio nello zaino che avrebbe potuto contenere un cadavere. "Anche, per esempio" pensò Giulia, "il cadavere fatto a pezzi della moglie di Emiliano." «Ecco qua.» Francesca porgeva un sacchetto colmo di cioccolatini fondenti, farciti di chissà che. Quella ragazza era piena di deliziose sorprese. Solo dopo averne mangiati due, a Giulia venne in mente che dovevano essere avvelenati. Con tutto quello che avevano trangugiato negli ultimi anni dovevano essersi immunizzate. Infatti dopo averne mangiati circa dieci a testa erano ancora vive e non mostravano sintomi di alcun tipo, se non una certa sazietà. «Siamo state proprio bene» disse Camilla che cominciava ad affezionarsi a quella misteriosa ragazza. Anche se, essendo misteriosa, non la capiva. Ora pensava una cosa e subito dopo ne pensava un'altra, a proposito di Francesca, in un'altalena continua. E poteva ancora essere Lei. «Ma tu perché sei qui?» «Sono qui per voi» disse Francesca sistemando il ciuffo nero di sbieco a coprire l'occhio. "O l'orbita vuota" pensò Giulia. L'iride dell'occhio scoperto brillò come un fiorellino azzurro nel latte. "Ha detto 'Sono qui per voi'" pensò con un tremito Camilla. Quelle parole rotolarono come palle di fuoco nella sua mente. Le interpretò come una conferma che era Lei, le parve una frase adatta. Ma quando rispose la sua voce non vacillò, suonò anzi amabile. «E non potresti ripassare?» «Mah, ripasserò di sicuro.» Camilla si stupì, non sapeva che Lei fosse così accomodante. Nei film e nei libri se si fissava per un giorno e un'ora poi non cambiava idea neanche con le cannonate. «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» recitò Giulia, che ormai leggeva nel pensiero dell'amica. «Una ladra nella notte, io direi una ladra» corresse Camilla. Francesca, se era Lei, finse di non capire e fece la faccia di chi è escluso dalla conversazione. «Ora a nanna nel corridoio» disse Camilla. Chiunque fosse, nessuno poteva permettersi di bivaccare in casa loro senza consenso. «Sì, sono molto stanca, è stata una bellissima serata, grazie di tutto.» Prese lo zaino senza sforzo apparente (aveva una forza mostruosa) e se ne andò verso il suo sacco a pelo, enormemente soddisfatta. Un po' sbiaditi, nell'aria ardevano ancora i ponti di luce.
Arriva Lui Alle quattro del mattino Giulia era affacciata alla finestra aperta sul cortile e attraverso le sbarre sbriciolava biscotti per i Lorocari che con le loro boccucce, in verità piuttosto robuste, spuntavano parzialmente dall'acqua. Non ci sarebbe stato nessun bisogno di sbriciolarli, ma era un gesto di affetto che la faceva sentire in comunicazione con loro. Quel gesto era straziante: sapeva che era l'ultima volta che dava il cibo ai Lorocari, in ogni caso. Evitava di guardare l'angolo in cui si era rintanato Senzafaccia, al momento silenzioso (forse dormiva). E cercava di non considerare gli altri. Da morti continuavano a essere ciò che erano stati da vivi: uno spettacolo sgradevole. Avvertì un mutamento nell'aria. Era una donna acquatica, per tanti anni era stata per mare e aveva vissuto col mare una speciale sintonia. «Sta arrivando» disse. «Sei sicura?» chiese Camilla sollevandosi sul divano. «Coraggio a dargliene» azzardò Giulia. «Non imparerai mai» disse Camilla. «Sei sicura o no?» «Sicura.»
«Allora prepariamoci.» Camilla aprì la finestra che dava sulla strada e si sporse: doveva avvistare l'onda di piena da lontano, perché la porticina numero uno doveva essere aperta prima del suo arrivo davanti al portone del loro palazzo. In base ai loro calcoli, abbastanza fantasiosi, la porticina numero uno e il portone dovevano essere aperti venti secondi prima del passaggio dell'onda. Giulia teneva la corda - sarebbe stata lei a tirare, al segnale di Camilla - e guardava il cortile. Ora sia la finestra che dava sul cortile sia quella che dava sulla strada erano spalancate e tra le due finestre correva il vento, che scompigliava loro i capelli. «Che riscontro» disse Camilla. «Sembra di essere sul K2.» Erano emozionate, nuovamente zampillanti di energia. Ma non solo perché stavano entrando in azione. Di lì a poco avrebbero saputo se il loro sistema funzionava: se erano salve o erano perdute. E c'era un altro motivo ancora, che rendeva la loro emozione così terribile e intensa. Comunque andasse, questo era l'addio ai Lorocari, dopo una vita insieme. Camilla prima di appostarsi alla finestra di sua pertinenza si era affacciata al cortile e aveva mandato un bacio a tutti, soprattutto a Ernesto. Poi era corsa via perché a quanto diceva Giulia il fiume poteva arrivare da un momento all'altro, ma anche perché le veniva da piangere. E non voleva piangere davanti ai Lorocari, a Ernesto non sarebbe piaciuto. Quello era l'addio. Il vero addio finale. Perlomeno era l'addio ai Lorocari in forma ittica. Magari si sarebbero incontrati ancora. Ma certo non sarebbero più stati grossi pesci della taiga. C'era così tanto amore in lei, amore compresso, che rischiava di frantumarla dall'interno. Camilla dalla finestra vide due ragazze e due ragazzi per strada, probabilmente tornavano da una notte brava. Le due ragazze indossavano un basco rosso e i due ragazzi un basco nero. Una cosa veramente ridicola. «Ci mancavano solo quei rompiscatole spagnoli» bofonchiò. Non voleva testimoni in giro in un giorno come quello. Gli fece segno di andare via e loro le rivolsero un cenno di saluto. Poi Giulia e Camilla si guardarono e seppero che avevano pensato entrambe la stessa cosa: la ragazza. Se la lasciavano nel corridoio non aveva scampo. Sarebbe stata travolta. Erano così piene d'amore che questa prospettiva le turbò. «Prima che il gioco resti verrà spazzata via» disse Camilla. «Falla salire.» «Ma vedrà tutto» osservò Giulia, «capirà tutto.» «La faremo stare qui fuori. Vai, sbrigati. Se vedo arrivare l'onda tirerai la corda lo stesso, dal pianerottolo, senza bisogno di sorvegliare il cortile.» Allora Giulia corse alla porta, tolse il catenaccio e si affacciò al pianerottolo. Cominciò a urlare a Francesca di salire su. Sicuramente la ragazza ci avrebbe messo un sacco prima di svegliarsi e capire le istruzioni. Invece Francesca rispose quasi subito, come se fosse già sveglia. «Devo salire su?» urlò. Camilla disse a Giulia: «Dille di spalancare il portone, così guadagniamo tempo e non avremo bisogno di usare il pulsante.» Giulia trasmise l'ordine e un minuto dopo Francesca era lì sul pianerottolo. Cosa aveva in quelle gambe sottili? «Zie, mi avete fatto salire e ora non mi fate entrare?» chiedeva senza capire. Giulia le risocchiuse la porta in faccia e mise il catenaccio. Poi andò alla sua postazione. «Buongiorno bambina!» urlò Camilla a Francesca. «Mi dispiace averti svegliata così ma tra poco si scatenerà l'inferno.» Le piaceva usare espressioni come "si scatenerà l'inferno". «L'hai portato lo zaino?» Francesca l'aveva portato, ma aveva lasciato nel corridoio il sacco a pelo. «Di' addio al tuo sacco a pelo, bambina, bisogna sempre rinunciare a qualcosa nella vita» disse Camilla.
«Tu stai lì sul pianerottolo, stai pronta ad aiutarmi con la corda» disse Giulia a Francesca. Ma dentro di sé pensava: "E se mi fossi sbagliata? E se non arrivasse nulla? Può darsi che tutti questi anni tappata in casa abbiano distrutto il mio istinto". Fu in quel momento che Camilla avvistò l'onda. La vide voltare l'angolo come un tir impazzito, solo molto molto più grosso. E più impazzito. «Sta arrivando, ragazze.» E intonò una nenia preistorica, che le cantava la sua balia. Le sembrò di essere appena nata.
La liberazione "Vedi un po' se è il momento di cantare" pensò Giulia, e prese a tirare la corda con tutte le sue forze. Ma qualcosa faceva resistenza. Infatti guardando nel cortile vide che laggiù non succedeva niente. «La corda è incastrata sotto la porta» urlò Francesca, partecipando con intensità a quel gioco incomprensibile. Le principesse si sentirono morire. La via in cui era apparsa l'onda era una via lunga, l'onda era lontana, ma non sembrava una di quelle onde che se la prendono con calma. «Siamo perdute» disse Giulia. «Taci!» le intimò Camilla con una forza selvaggia negli occhi. Ma pensava che non avrebbero fatto in tempo ad aprire la porticina numero uno prima dell'arrivo dell'onda, e così rischiava di capitare un ingorgo di corpi proprio di fronte al loro portone, chissà cosa avrebbe pensato la gente. Poi l'onda svoltò in una stradina secondaria, per il gioco delle pendenze, si vede. Intanto Giulia tirava con tutte le loro forze. Era tutta scarmigliata, sembrava una zingara. «Tira te» urlò Giulia a Francesca, che essendo sul pianerottolo era oltre al punto in cui la corda si era incastrata. «No!» disse Camilla. Se l'Arno non arrivava e qualcuno vedeva l'acqua coi corpi uscire dal loro portone erano perdute. «Cosa?» chiese Giulia. Ma ormai era troppo tardi. Francesca aveva tirato la corda che si era disincastrata da sotto la porta. «Meno male» disse Giulia tutta sudata. «Cosa dicevi? Sta funzionando?» chiese ansiosa. Camilla non rispose nulla, era terrea. Giulia guardava il cortile. Il meccanismo aveva funzionato: la porticina numero uno si era spalancata davvero. Nel cortile si stava formando una specie di gorgo. Un movimento. Le ombre dei Lorocari danzavano nel gorgo nero. Grande era il dolore dell'addio. Per quanto tu sappia che quel momento verrà, non sei mai pronto. Però il cortile ci metteva più tempo del previsto a svuotarsi, pensava Giulia. In pochi istanti l'onda sarebbe arrivata. Ma quei pochi istanti duravano un po' troppo. «L'onda ha preso un'altra strada» confessò Camilla. Ma ormai la porticina numero uno non poteva essere richiusa. «Il dado è tratto» concluse con compostezza femminile. Fissava la strada, come una condanna. C'erano dei tubi rossi di plastica piantati nell'asfalto. Per quei lavori dei lavoratori, si vede. Li guardava con una intensità desolata. Erano finite. In quel preciso momento il fiume eruppe con forza mostruosa proprio da dove sembrava impossibile: usciva esultante da quei tubi rossi, con una pressione che sembrava generata dalla sofferenza delle principesse. Probabilmente era finito sottoterra per poi risalire. O era un altro ramo del fiume, o proprio l'altro fiume, quello che scorre sotto l'Arno come uno squalo sotto una remora. Fatto sta che l'acqua zampillava selvaggiamente dalla vecchia strada. Poi arrivò nuovamente l'onda, sembrava quella di prima. Svoltò nella strada da una stradina secondaria e questa volta venne giù diritto. Ormai tutto era innescato. «Come va? Cosa stiamo facendo?» chiedeva Francesca dal pianerottolo. Ma le principesse non rispondevano. Camilla fissava affascinata l'onda larga e densa che travolgeva ogni cosa, Giulia guardava il gorgo in accelerazione nel cortile. Già i Lorocari non si vedevano più: anche quando sei un'anima reincarnata in un pesce della taiga senti il richiamo della libertà.
Ora anche i corpi dei persecutori venivano risucchiati. Solo quello di Senzafaccia resisteva. Giulia non osava guardarli, ma con la coda dell'occhio vide che si era impigliato alla grata. A meno che non fosse aggrappato. Bisognava fare qualcosa. Se alla fine di tutto restava quel tipo appeso alla grata, ne avrebbero avute di cose da spiegare. Le forze dell'ordine non sarebbero state disposte a credere che ce l'avesse portato l'Arno. Erano talmente prive di fantasia! Giulia udì una specie di ululato e pensò venisse da Senzafaccia. Un secondo ululato rispose al primo, nonostante il rombo dell'acqua. Doveva essere un cane chiuso in qualche appartamento. Solo la penna di un poeta potrebbe descrivere ciò che vide Camilla. L'acqua che irrompeva fuori dal portone di casa, sulla strada, un attimo prima che arrivasse l'onda. Il cozzo. La forza della fusione. Un attimo di sospensione e poi la corsa che riprendeva. Con i corpi dei persecutori e i Lorocari che immaginò Camilla -correvano verso il mare. «To', piglia e porta a casa» disse. E solo la penna di due poeti potrebbe descrivere quello che vide Giulia: Senzafaccia che finalmente si staccava dalla grata e l'acqua che finiva di sparire in un ultimo sussulto del gorgo. «Come tutto si è fatto un'altra cosa» disse Giulia. Rimanevano lì, annichilite, sconvolte, estasiate. Camilla alla finestra che dava sulla strada trasmutata in fiume. Giulia alla finestra sul cortile ormai svuotato e gocciolante, con la corda ancora in mano. Le mura del palazzo tremavano. L'acqua ha le sue leggi e fa i suoi capricci. Il cortile non rimase vuoto per molto. Dopo poco fu di nuovo invaso. Non avevano pensato a un metodo per richiudere il portone, anche perché questo metodo non esisteva. Francesca sentì il rumore del fiume nel corridoio, ma non capiva. «Che succede? Cosa abbiamo fatto?» continuava a chiedere con insistenza giovanile, senza ottenere risposta.
Una breccia nel cuore «Abbiamo fatto pulizia, cara» disse Camilla quando si furono riprese dal meraviglioso e terrificante spettacolo. Le principesse, abbandonate le loro postazioni, avevano fatto entrare Francesca in casa, tanto non c'era più niente di compromettente da vedere: il cortile era pieno di acqua che, dal punto di vista delle due principesse, era pulita. «Abbiamo sgombrato» ripeteva Camilla, «abbiamo fatto le pulizie di Pasqua.» «Ma non è Pasqua» rispose Francesca un po' stravolta. «Noi anticipiamo.» Francesca prese un'aria assennata e compunta: «Me lo diceva la nonna che eravate particolari, ma certo siete molto particolari. Penso che sia anche un vostro modo di vincere lo shock.» «Ne abbiamo vinti tanti di shock» disse Giulia. «Comunque non preoccupatevi: sono sicura che nel cortile non c'era niente di prezioso.» A Giulia sembrò di cogliere un'ombra di malizia in queste parole. «Su questo ti sbagli» disse Camilla con un sorriset-to. Era quasi tentata di dirle la verità. Forse Francesca era davvero sangue del suo sangue e meritava di sapere. Ma si trattenne. Del resto, non è detto che la verità sia importante. «Siamo assediate dall'acqua» disse Francesca, che voleva riportare le due zie coi piedi per terra. Perché il loro atteggiamento la disorientava e la metteva un po' a disagio. Ma non era facile. «Già, assediate dall'acqua» fece eco Camilla, a giudicare dalla faccia radiosa sembrava che l'assedio la rendesse felice. «E se l'acqua salisse le scale?» disse Giulia, a cui questo dubbio prima non era venuto neanche per sogno. «Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo» disse Camilla. «Le scale sono troppo alte. Questo
fiume fa sempre così. Fa lo sbruffone ma poi si ritira. Ora andate a chiudere le finestre o ci prendiamo una polmonite.» Una volta chiuse le finestre il mondo sembrava normale. Si sentivano solo le pareti che tremavano e l'onda che correva sulla strada come un serpente colossale. Le tre donne stavano alla finestra, dietro il vetro. L'acqua e la nafta trasportavano gruppetti di macchine che dopo aver travolto un cartello stradale cozzavano una contro l'altra, come avessero furia. In due di quelle macchine c'erano anche delle persone, che suonavano furiosamente il clacson pretendendo soccorsi. Pagavano le tasse, loro. Allora Camilla gridò: «La corda!». Uscirono sul pianerottolo e scesero le scale fin dove fu possibile, perché poi iniziava l'acqua. In quel punto tagliarono la corda e la portarono in casa, ne legarono un capo alla gamba del divano e - riaperta la finestra - la lanciarono giù. Le macchine continuavano a passare. Quando ne passava una con automobilista a bordo gli gridavano di aggrapparsi, di salire in casa loro, ma ci sarebbe voluto Tarzan. «È difficile che ci riescano» disse Francesca. «Lo so» disse Camilla. «E allora perché lo facciamo?» «Più che altro è per la forma» spiegò Camilla. «Una questione di educazione.» Passò anche una suora, a bordo di una macchina bianca. Le suore vanno sempre su una macchina bianca. «Si aggrappi sorella, si aggrappi» le gridarono quasi ridendo. La suora provò a tirare fuori il braccio dal finestrino ma non ci fu verso. «Tua!» disse Giulia toccando Camilla, in uno slancio infantile che la diceva lunga sulle sue risorse vitali. Solo ora, rilassandosi, si guardarono intorno e videro che c'era tanta altra gente nelle loro condizioni: persone affacciate alle finestre dei palazzi, che urlavano alle due donne (Francesca stava un po' indietro rispetto a loro) di farsi coraggio e di resistere, presto sarebbero arrivati i soccorsi. Un elicottero volteggiò sui tetti, il turbinio dell'aria faceva fremere le tegole come farfalle moribonde, ma loro finsero di non curarsene. «Bene ragazze, siamo sulla cresta dell'onda. Penso sia ora di fare colazione» disse Camilla. Erano in cucina. Dalla finestra con le inferriate filtravano raggi di cielo nero e l'odore indescrivibile del fiume, più potente - se possibile - di quello della caffettiera infernale. Era saltata la luce, il telefono, tutto. Perfino la televisione era saltata. «Sta saltando il mondo» disse Camilla allegramente. «Siamo isolate» disse Francesca preoccupatissima. «Non è una novità per noi, cara» disse Camilla. «Siamo cautamente pessimiste» aggiunse Giulia citando l'ingegnere. Il fiume aveva perso l'irruenza giovanile del primo attacco, ma non la propria forza profonda. L'edificio continuava a tremare. Le tazze col caffè ballavano sul tavolo per questa energia esterna che a ben vedere non aveva neanche più la forma di un fiume: era una forza che si irradiava con decine di tentacoli. «Questo frastuono mi confonde le idee» disse Giulia. Fecero colazione attingendo alla riserva di biscotti, ma anche allo zaino di Francesca, che sembrava inesauribile. La ragazza tirò fuori dei dolcetti tondi che le due principesse non avevano mai visto. Venivano da un paese che non avevano mai sentito nominare. «Be', chissà, devono aver scoperto un nuovo continente» disse Giulia con svagatezza. «A proposito, ma tu da dove vieni cara?» «Da Ferrara, come la nonna Ginevra.» «Ah, Ferrara, gli Estensi...» disse Giulia con partecipazione. Camilla aveva deposto la pistola col calcio intarsiato di madreperla. "Non posso stare sempre con questa pistola puntata" si era detta, "sarebbe ridicolo, oltre che stancante."
In realtà erano intenerite dalla truffatrice. Quando in un cuore chiuso da tempo apri una breccia allora è come un'alluvione di affetti. E poi ora che i Lorocari non c'erano più, e nuotavano chissà dove per le vie della città, verso l'oceano, Camilla e Giulia erano particolarmente vulnerabili. Avevano bisogno di qualcosa, non sapevano bene di cosa. Per esempio avevano bisogno che quella ragazza stesse un po' lì con loro, anche se era evidente che prima o poi avrebbe dovuto andarsene. Al colmo della confidenza, le illustrarono il metodo Barlonghi. Il metodo Barlonghi - a cui attribuivano grande valore - era un celebre sistema per far galleggiare i biscotti nel caffè senza inzupparli troppo. Barlonghi era un amico dell'ingegnere, passato alla storia per questo metodo. Un segreto riservato a pochi. Francesca era onorata. Tornate in salotto, chiacchierarono di tante cose, si raccontavano storie di famiglia. Stavano al tavolo col panno verde. Fuori non c'era più vento. Ora le acque avevano un loro ordine e i soccorritori giravano sui gommoni chiamando la gente col megafono e invitando alla calma. «Questi soccorritori!» disse Camilla, «quando mi si dice di stare calma mi innervosisco.» Lei e Giulia si affacciarono alla finestra che dava sulla strada. I soccorritori vedendo le due donne le invitarono a non farsi prendere dal panico. Presto sarebbero venuti a prenderle. «Pescate?» chiese Giulia ai soccorritori. «Digli che non compriamo nulla» suggerì Camilla. «Avete bisogno di qualcosa?» chiese Giulia. L'omone del megafono, col suo giubbotto fluorescente, sembrava allibito. «Non dovete avere paura» disse Camilla. «L'acqua, come viene, se ne va. Comunque se volete arrampicatevi su questa corda e salite su da noi, così vi salvate. Una pelliccia per riscaldarsi non si nega a nessuno.» L'omone era confuso, non era così che dovevano andare le cose. Erano tanti anni che aspettava un disastro del genere, e ora che finalmente era capitato c'erano due vecchiette che di fronte a tutti gli dicevano di non avere paura. Ribadì di stare calme e fece segno al tipo che guidava il gommone di andare oltre. «Ma che rottura» disse Camilla tornando verso il divano. È vero che i Lorocari non c'erano più e che la presenza della truffatrice in qualche modo le rallegrava. Ma non passi secoli di solitudine per poi darti alla socialità sfrenata. Arrivò un momento in cui si sentirono soffocare. Quando la ragazza si alzò per andare nuovamente al bagno - ma quanto ci andava! -, Giulia disse che secondo lei non era una truffatrice ma non era neanche una loro parente, semplicemente voleva installarsi lì. «Non è così, ha detto cose che un'estranea non avrebbe potuto dire» disse Camilla. Giulia fu molto colpita da queste risposta. Comunque Camilla rassicurò Giulia: «Appena torna le dico di andare via. Ci rimarrà un po' male ma pazienza, si deve abituare alla vita. La vita è una severa maestra». Furono dunque molto sorprese quando la ragazza di ritorno dal bagno disse che doveva andare via. Le colse in contropiede. Si sedette sul divano e con un gran sorriso, risistemandosi il ciuffo sull'occhio, disse: «Mi piacerebbe portarvi con me.» Questa frase fece correre un brivido lungo la schiena di Camilla. Quella ragazza aveva qualcosa di strano. Forse era Lei. Camilla si disse che non era pronta per seguirla. «Ma tesoro, abbiamo stili di vita troppo diversi!» esclamò. Aveva usato apposta l'espressione "stili di vita", se fosse stata Lei avrebbe dovuto reagire, sentirsi scoperta. Camilla la spiò con la coda dell'occhio. La ragazza non mostrò di aver colto la battuta. Se era Lei aveva una faccia tosta incredibile. «Hai ragione zia. Ma tornerò» promise. «Cara, sei deliziosa.» Non aggiunse altro: se era solo una ragazza non voleva essere scortese, se invece era davvero Lei era inutile essere poco signorili con una personalità di quel calibro. Un grosso nome nel suo campo.
Poche ore, molti addii Doveva andar via. Restava da trovare il modo. Passeggiare per strada era escluso. Francesca avrebbe voluto prendere uno di quei gommoni che passavano, calandosi giù con la corda. «Mi piacerebbe essere soccorsa» ridacchiava. Come fosse una cosa paradossale. Ma le principesse scartarono l'idea. Non sapevano bene perché, ma sembrava loro che così facendo avrebbero attirato l'attenzione sulla casa e - anche se ora erano libere, perché il fiume aveva liberato il cortile - non sembrava loro il caso. Infatti Giulia disse proprio: «Non è il caso, Francesca.» Lo disse con una tale serietà che la ragazza non osò obiettare nulla, nonostante quella del gommone dei soccorritori le sembrasse la soluzione ideale. «Se non puoi andare giù devi andare su» osservò Giulia. Nella sua vaghezza, aveva dei grossi lampi di sintesi. «Il lucernario!» esclamò Camilla. Il lucernario si trovava dalla parte opposta del salotto, una regione remota in cui si recavano raramente e che non visitavano neanche con lo sguardo, dato che il salotto aveva una singolare forma a U. In quella regione remota che si perdeva nelle ombre i divani erano ancora coperti dai lenzuoli. «Ti piace questo secrétaire di palissandro?» disse Giulia. Le piaceva dire palissandro. C'era una scala in legno che conduceva sul soppalco, e da lì si raggiungeva facilmente il lucernario, a essere giovani e agili. Come loro. Erano tutte e tre sul soppalco, avevano aperto il lucernario e le loro teste spuntavano sul tetto. Viste da fuori e da lontano, erano come tre naufraghe nell'oceano dei tetti rossi. Ed è così che le vide il prete che era salito sul campanile della chiesa vicina per considerare la situazione storica. Perché non c'era alcun dubbio che quella situazione fosse storica. Il prete notò quelle teste galleggianti sui tetti rossi, mentre più sotto l'acqua del fiume immortale si stava ritirando. Cominciava a tornare nel suo letto. Francesca era un po' dubbiosa. «Ma una volta sul tetto dove vado?» Le due principesse, ora che l'addio era deciso, avevano fretta di liberarsi di lei. Non la capivano fino in fondo. Chiunque fosse. «Di tetto in tetto puoi arrivare ovunque, cara» disse Camilla. Le suggerì di andare verso Santa Croce e di calarsi nel chiostro, da cui poteva raggiungere facilmente la Biblioteca nazionale. Camilla lo sapeva perché era una cosa che diceva sempre Ernesto, una cosa facile da fare. Lei prima non aveva mai capito perché uno avrebbe dovuto fare una cosa del genere, ma ora sì. Evidentemente Ernesto vedeva nel futuro. Era un uomo dalle molte virtù. Giulia espresse dei dubbi sulla fattibilità del percorso: «Figurati, questa ragazza non è mica una scimmia, e così via.» Camilla insistette che da qualche parte sarebbe pure sbucata. L'enigmatica ragazza acconsentì. Tanto l'acqua ormai stava defluendo. E poi, una volta alla Nazionale, poteva aspettare un po' ai piani alti, e se proprio voleva scendere non era certo un posto in cui sarebbero mancati i soccorritori. «Nell'attesa puoi leggere i libri» osservò Giulia. Francesca regalò loro altri dolcetti stranissimi, venuti da chissà che mondo. Si abbracciarono brevemente. Erano commosse. La ragazza si issò sul tetto. Aveva raggi dorati negli occhi. Le passarono la giacca a vento e lo zaino e la ragazza, risistemata la cuffia da musica, partì, con passo cauto ma abbastanza sicuro. Proprio in quel momento, certo per volontà del caso, le nuvole si aprirono e si allargò in cielo uno di quei soli improvvisi che ti sorprendono. E così loro la videro sparire nella luce. Anche il prete che considerava la situazione storica dal campanile vide quella figura camminare nella luce e gli parve un angelo con lo zaino. Magari era lì che teneva le ali quando non le usava. «In poche ore molti addii» disse Camilla.
Tra le colonne d'oro Erano tornate nel salotto. Giulia guardava l'acquario vuoto di pesci. Pieno di riverberi. «Rieccoci nella morta gora del tempo.» «Non mi sembra morta per niente, cara» ribatté Camilla. «A proposito, secondo te era lei?» «Lei chi?» «Non fare la stupida: lei Lei.» «Per me era una scroccona.» «E allora perché se ne è andata?» «Ha visto che non tirava aria.» Camilla sorrideva, come covasse una risposta. Giulia si affacciò alla finestra che dava sulla strada. «Aleggiamo sulle acque» disse. Camilla rimaneva al pianoforte e accennava accordi dalla Traviata. «Noi aleggiamo, ma le acque continuano a diminuire?» chiese Camilla con indifferenza. «Continuano» rispose Giulia. In realtà il calare del livello del fiume nella strada non era costante. C'erano dei sussulti. Come ora per esempio: un rigonfiamento delle acque passava proprio sotto la finestra. Come quando passa una nave al largo. Probabilmente dipendeva da un gioco di correnti che rimbalzavano in modo anomalo nelle vie della città, un luogo non concepito - a causa della miopia degli amministratori - per far rimbalzare correnti. Questo rigonfiamento portava con sé, in superficie, una fila di libri galleggianti. Filavano come galeoni fantasma: quando vedi un galeone fantasma tu non puoi credere ai tuoi occhi e invece quello continua ad andare. Lo stesso accadde a Giulia. Niente di più probabile che quei libri venissero dalla Nazionale. L'onda di piena era stata bella grossa, altro che quella del '66. E doveva aver liberato un sacco di libri nella natura. «Dovrei rimettermi a leggere.» «Lo dici sempre» rispose Camilla scettica. Poi continuò, più accomodante: «Le grandi alluvioni servono a questo. Bloccata in casa, senza televisione, cos'altro puoi fare. Ti ricordo che abbiamo anche una buona scorta di candele». Giulia avrebbe voluto prendere uno di quei libri. "È il destino che li porta" pensava. Ma erano troppo in basso. Anche a recuperare il retino dello zio Brunaccio - ma chissà dov'era - non ce l'avrebbe fatta. Lo zio Brunaccio era un uomo imponente che aveva un retino lunghissimo, con cui saltellando dava la caccia alle farfalle, quando non andava a cercare funghi. Sosteneva di essere stato in tutti i luoghi mosso dai suoi tre amori: la pastasciutta, i funghi e le farfalle. Ma, anche ammesso che Giulia riuscisse a recuperare il retino abbastanza in fretta prima che la fila dei libri fosse passata, calcolò che non era abbastanza lungo. Per cui si limitò a veder passare la processione. Giulia ruppe il silenzio: «Perché hai cambiato idea su di lei?». «Come? Lei chi?» «Non fare la stupida: lei Francesca.» «Ho cambiato idea, cara?» Camilla inarcò le sopracciglia, sapeva farlo come un personaggio da romanzo. «A un certo punto hai smesso di pensarla come una truffatrice. L'ho visto benissimo.» «In effetti. Mi è venuta in mente una cosa.» «Cosa.» «Vieni.» Percorsero il corridoio senza finestre. Era quasi buio: a parte una luminescenza vagamente abissale che proveniva dalla cucina, la luce elettrica non era ancora tornata. Arrivarono in una di quelle stanze dove non andavano mai. Era la biblioteca di Ernesto e lì era ancora più buio, perché c'erano le persiane chiuse da decenni e la luce della cucina non arrivava. Camilla procedendo a tentoni riuscì a raggiungere la finestra e aprire le tende pesanti, con frange e nappe. Poi le persiane. La luce indugiò per un attimo prima di entrare, forse per educazione: erano anni che non entrava in quella stanza. Poi irruppe come un fiume e alluvionò le due principesse che ne rimasero abbagliate.
Muovendosi sollevavano colonne di polvere, ma per effetto della luce erano colonne di polvere d'oro. La stanza riemergeva dal passato. Camilla si muoveva nel passato come nel presente: con decisione. Andò dietro una poltrona e prese un quadretto appoggiato in terra insieme ad altri quadri. Quando lo tirò su, la cornice si sbriciolò tra le sue mani. «Guarda, questa è la nonna di Ernesto, la trisnonna di Francesca, da giovane.» «Prima che il tempo fugasse le veneri» mormorò Giulia. La fissava affascinata. A parte il fatto che la nonna di Ernesto non indossava felpe nere coi teschietti rosa, e non aveva uno zaino, e non aveva un ciuffo di sbieco sull'occhio, e neppure un orecchino alla bocca, per il resto era identica a Francesca. «Non era un'imbrogliona, e non era neanche Lei» concluse Giulia. «Era nostra nipote.» Ma Camilla voleva sempre avere il controllo della situazione e fingeva di cambiare idea più volte nel corso di una discussione. Aveva fatto vedere a Giulia quell'immagine proprio per provare quella tesi, che Francesca era la loro nipote. Ma ora sterzò: «Mia cara, il fatto che sia davvero mia nipote non esclude che sia un'imbrogliona, e neanche che sia Lei. Che ne sappiamo noi?» «Bah» disse Giulia. «Comunque resta una brava ragazza, anche se un po' svitata» concluse Camilla. E rimasero così, tra le colonne di polvere d'oro, a contemplare quell'immagine, antica e nuova. Stavano ferme. Ma tutto attorno le colonne d'oro danzavano per loro.
Appuntamento nella realtà Quella notte dopo tanto tempo si immersero in un sonno autentico. Invece che dormicchiare in salotto, una sulla poltrona l'altra sul divano, dormirono insieme nel letto matrimoniale. Quando si svegliarono stavano bene. Però non sapevano cosa fare. Si sentivano leggere, completamente vuote. Dopo colazione, con tutta calma, si affacciarono alla finestra del salotto che dava sulla strada e constatarono che il fiume si era ritirato. Certo aveva lasciato il segno. «È peggio dell'altra volta» disse Camilla. «Mah, mi sembra come l'altra volta.» «Allora siamo noi che siamo peggiorate.» La strada sotto di loro era spalmata da uno spesso strato di fango nero su cui galleggiavano macchine ribaltate come tartarughe, biciclette, motorini, caschi, ombrelli, scarpe, una pecora. E soprattutto sacchetti di plastica, la specie dominante sul pianeta. Un tronco di pioppo aveva sfondato il bandone di un garage. La gente cominciava a uscire e si riversava per strada affondando nel fango. C'era un silenzio di malaugurio. Erano quasi tutti attoniti, muti. Sembravano zombie. Anche a causa del passo goffo provocato dalle gambe che faticavano nella colla nera. «Chissà il negozio di Emiliano» disse Camilla. «Già, poverino.» «Penso a quella povera vedova. Noi che abbiamo dialogato con Gesù, preghiamo.» «Preghiamo per chi.» «Ma per il negozio! Il negozio non ha colpa. Preghiamo perché finisca in mani migliori. È così vicino a casa che fa un gran comodo. Dopo tutti i disservizi di cui siamo state vittime, se non cambia la proprietà sarebbe inconcepibile tornare a servirsi da loro.» «Ah be', hai ragione.» «Preghiamo.» Ma non sapevano bene come fare per cui lasciarono perdere. È il pensiero quello che conta. Giulia fece ginnastica coi suoi pesini da polso, una ginnastica basata su movimenti inventati da lei. Camilla suonava. È difficile spiegare come ti senti quando attorno a te c'è il disastro: te ne rendi conto, eppure qualcosa ti dice che non è nulla di importante. Sei un po' sollevato, un po' angosciato. Erano anni che si
sentivano così. Sembrava che tutti gli avvenimenti fossero repliche, che qualche divinità maligna le avesse trasportate in un mondo governato dalla banalità. Anche gli incontri letterari del giovedì erano per loro incontri sul plagio. Poi magari succedeva qualcosa: come l'arrivo di Francesca, o la danza delle colonne di polvere dorata, e allora avvertivano una specie di miracolo che sbocciava nelle più assurde o difficili circostanze. Avrebbero voluto prolungare questo miracolo all'infinito - perché lo sapevano che c'era, che era reale -, estenderlo a tutto, ma tendeva a sgusciare dalla mente. Certo per loro debolezza. Ed è per questo, per rafforzare la presa sul miracolo, che quella bella mattina le due principesse, di fronte all'acquario vuoto, ma pieno di memorie, rinnovarono il rito della pozione magica. Lo facevano sempre in perfetta sincronia, frutto dell'intesa e dell'esperienza. Presero anche dei funghetti secchi che gli aveva regalato Piero, prima di morire, e che non avevano mai avuto il coraggio di provare. Ma erano giorni speciali. Era il caso di strafare. «Entriamo in un'altra dimensione, bambina?» scherzò Camilla. «Va bene, usciamo dal sogno e così via» disse Giulia. «Ci troviamo tra dieci minuti, nella realtà» disse Camilla.
Il Lorocaro Nel pomeriggio affacciandosi alla finestra videro che il cielo si era avvicinato alla terra. «Si vede che le alluvioni lo abbassano» osservò Giulia. C'era un silenzio tetro. Decisero di uscire di nuovo, nonostante i notevoli disagi a cui andavano incontro. «Ormai uscire per noi è diventata una specie di droga» disse Camilla. «Andiamo a sporcare i panni in Arno» ribatté Giulia. Prima di scendere si affacciarono sul cortile per essere sicure che fosse veramente vuoto. Ancora non ci credevano completamente e controllavano spesso. Lo era. I corpi erano spariti e anche i Lorocari. Anche il cortile adesso era il regno del fango nero. Un libro era arrivato fin là, si era impigliato nella grata. Giulia decise che lo avrebbe recuperato, quello era un dono per lei. Alla base delle scale iniziava quella melma oscura, ma loro ci si immersero con noncuranza. Si erano vestite di tutto punto, ma senza scarpe coi tacchi. Indossavano degli stivali di pelle provenienti da Tallin che «non si sfilerebbero neanche a camminare in un lago di colla» aveva detto Camilla. Percorsero a fatica il corridoio e arrivarono alla porta del pianterreno. Camilla durava una fatica enorme, ma non sentiva più male al piede. Forse per effetto della pozione magica, o forse Francesca era davvero un angelo e l'aveva risanata. Mentre aspettava Giulia che era andata in cortile a prendere il libro impigliato nella grata le venne addirittura il dubbio di essere già morta. Anche perché non era abituata a stare senza Giulia. Ma rifiutò categoricamente l'idea che l'Aldilà potesse essere un simile pantano maleodorante. Giulia tornò tenendo stretto il libro portato dal destino. «Che libro è?» chiese Camilla. «Non lo so, non voglio ancora saperlo.» Fuori alcuni avevano smesso di essere attoniti. Qualche zombie lavoratore si era messo a urlare e a piangere e a lamentarsi. «Vedi cosa vuol dire l'attaccamento ai beni materiali» disse Camilla. «Quando l'acqua è poca la papera non galleggia» azzardò Giulia. «Proprio così» la incoraggiò Camilla, come a dirle che non aveva sbagliato il detto, ma non aveva una faccia convinta. Firenze era una grande palude da cui sorgevano dei ruderi sobri e leggiadri. Aveva un suo fascino. Anche perché ora la palude era illuminata dal sole. I cani ululavano. «Non è brutta così, la città, ma è scomoda» disse Giulia tirando per la mano Camilla. Di nuovo stavano puntando verso il fiume, senza neanche dirselo, attratte da una forza superiore. «Purché tutto questo fango non faccia crollare la volta della caverna su cui poggia Firenze» osservò
Camilla che si sforzava di essere pragmatica. Mentre le due principesse passavano, la gente che non era distratta dalla disperazione le guardava stupefatta. «Siamo sempre uno spettacolo» si compiacque Camilla. «È per via della nostra bellezza.» Quando, stravolte e affannate, arrivarono per l'ennesima volta in vista della Biblioteca nazionale si aspettavano di trovare gli angeli del fango. Visto che tutto era una replica, ci dovevano essere i primi giovani accorsi a salvare i tesori di carta. Poi ne sarebbero arrivati altri, molti altri, da tutte le parti del mondo. Questo gli avrebbe anche dato modo di familiarizzare, ai giovani maschi e alle giovani femmine, per non parlare delle familiarizzazioni contro natura. Ma intanto che familiarizzavano avrebbero salvato qualche tomo prezioso per il buon proseguimento della civiltà umana. «Non li vedo» disse Camilla. «Ma chi.» «I giovani.» «Saranno già dentro.» Dall'imponente edificio della Biblioteca cadevano ancora pezzi di cornicione. Atterravano come bombe, vista l'altezza. E allora le principesse procedevano col naso alzato, per sfuggire al bombardamento. "Si vede che l'energia del fiume sotterraneo non è spenta" pensò Camilla. Aggirarono un groviglio di tronchi e macchine che si era fermato nella strettoia. In cima al groviglio c'era una gondola, Giulia fece una faccia stupefatta. «Per i turisti stranieri Firenze o Venezia non fa differenza» disse Camilla. «Potremmo vendere torri di Pisa» disse Giulia. «Diventeremmo ricche.» Arrivarono alla piazzetta dei Cavalleggeri, che separa la Biblioteca dal fiume. Il fiume in effetti era tornato al suo posto e faceva finta di nulla. Come quei cani che prima azzannano poi si rimettono tranquilli. Anche se certo era ancora un mostro spaventoso. «Ma un mostro che sta al suo posto» disse Camilla. Diceva sempre le sue frasette ma aveva il viso affilato dallo stravolgimento. Cominciava ad arrivare gente che si dava da fare, anche qualche giovane. Entravano e uscivano dalla Biblioteca. «Mi sembrano sconclusionati» disse Giulia. «Fanno più danni che altro.» La spiaggetta e gli alberi che un tempo stavano sull'altra sponda non esistevano più. «Dici che Senzafaccia è vivo?» Mentre percorrevano gli ultimi metri che le separavano dalla spalletta Giulia dette voce a un dubbio che era di tutte e due: «E Francesca sospetterà qualcosa?». Ma questi dubbi vennero cancellati dal fiume. Si affacciarono: quel mondo sempre nuovo sotto di loro le rapì. Chi non ha visto i propri fantasmi galoppare sotto la superficie delle acque non ha visto nulla. Non se lo dicevano, ma sapevano cosa stavano facendo, entrambe: cercavano con gli occhi le ombre dei Lorocari nell'acqua e nel fango. Sapevano che erano lì, da qualche parte. Non potevano credere che fossero morti. Erano già morti una volta, quando erano uomini. È vero che durante il tragitto da casa le principesse avevano visto dei pescetti imprigionati nella melma, ma quei pescetti non avevano la sapienza dei Lorocari. Fissarono il fiume talmente a lungo che poco a poco il fiume stesso diventò un grande Lorocaro.
Angeli del fango «Signore, cosa fate qui? È pericoloso, il fiume potrebbe uscire di nuovo. Per non parlare del grande fiume sotterraneo. Venite dentro, signore.»
Voltandosi si trovarono di fronte un gigantesco uomo nero: era il Bosi, il bibliotecario che attraversati gli anni Settanta - era arrivato da Torino passando dal Pakistan. Solo che era coperto dal fango dell'inferno. Non potevano spiegargli che cercavano con gli occhi le ombre dei Lorocari per cui non risposero nulla di preciso. Giulia disse: «Passavamo di qui». La risposta era discutibile, ma quello che aveva di buono il Bosi è che non si stupiva mai delle stranezze altrui. Probabilmente lui stesso aveva condotto un'esistenza particolare, sia pure in modo diverso rispetto alle principesse. Ma coloro che hanno condotto un'esistenza particolare si capiscono, c'è un qualche fiume sotterraneo che li unisce. Dentro la Biblioteca perfino il grande atrio centrale era stato visitato dal fiume. Il Bosi le fece accomodare sulle scale che portavano al primo piano, lì erano al sicuro. Consigliò loro di salire ancora. Poi si scusò e si rituffò nell'azione, promettendo che sarebbe ripassato a vedere come stavano. «Un ragazzo di buon governo» disse Camilla. Non salirono affatto. Attorno a loro c'era già un sacco di gente che si dava da fare. Si tuffavano nel fango, recuperavano qualche libro e lo portavano al primo piano passando accanto alle principesse, o lo appoggiavano sulle scale proprio vicino a loro. Poi ritornavano a tuffarsi a pesca di libri, là sotto o chissà dove, e riapparivano ad appoggiare il pescato sulle scale delle principesse che ritte là sopra esercitavano una qualche forza di attrazione sui salvatori di libri. A vederle veniva spontaneo pensare che avessero un ruolo importante. Si poteva credere che dirigessero le operazioni. Si misero a sedere sugli scalini. In capo a mezz'ora Giulia e Camilla erano circondate da montagnole di libri. Ogni tanto ne spostavano uno per darsi un contegno. Erano come un sole - un doppio sole - che esercita la sua attrazione gravitazionale sui corpi celesti alla deriva. I libri e gli angeli venivano a loro sempre di più e sempre più velocemente. Un sole, o un buco nero. «Che spettacolo» disse Camilla, sinceramente ammirata. In effetti quella unione di forze era bellissima. «Gli angeli del fango» disse Giulia con voce sognante. «Però sono invecchiati anche loro.» «Come "anche", bambina, che vuoi dire? I giovani oggi non hanno tempo» disse Camilla, «questi qua sono tutti pensionati, te lo dico io.» Ecco perché la gente attorno a loro non sembrava trovarle fuori posto, perlomeno non più di tanto, a parte forse quel loro abbigliamento da signore, che si stava rivelando poco pratico. «Una lontra» disse Camilla, indicando una creatura che nuotava nel fango in una zona poco frequentata dell'atrio centrale sotto di loro. Procedeva col muso di fuori, come quelle signore che nuotano male. «Ma cosa dici, è una nutria.» «Nutria, lontra, per me non fa differenza.» Qualsiasi cosa fosse, non era sola. Ne emersero tre o quattro. Poi si rituffarono. Sembravano giocare. Sorprese loro stesse da quell'inatteso divertimento. «Guarda come se la spassano» disse Camilla. «Non tutto il male viene per nuocere.» Poi indicò dei vecchi che venivano verso di loro reggendo un volume gigantesco. «Angeli del fango: pensionati, o vecchi puttanieri» osservò con tenerezza.
Una condottiera nelle tenebre Le due principesse tremavano per il freddo, l'umidità, la stanchezza e l'esaltazione. Visto che a quanto pareva erano il centro di un sistema gravitazionale, decisero di cogliere la palla al balzo. Presero a dirigere i lavori. Davano ordini e le persone li eseguivano. Sentivano di avere un ruolo e questo risvegliava - soprattutto in Camilla - un'emozione antica. C'era in loro - soprattutto in Camilla -un'autorità naturale che avevano esercitato per secoli in società. Poi l'autoreclusione aveva sopito questa autorità. Ma non l'aveva distrutta. Tutto attorno regnava un tale caos che nessuno si rendeva conto se gli ordini di Camilla e Giulia avessero un senso o meno. Non lo sapevano neanche loro. «Voi andate di là» dicevano.
«Salvate la collezione settecentesca.» Cose così, a caso. «Ci sarà pure una collezione settecentesca, voglio sperare» sussurrò a denti stretti Camilla. Quando ripassò, il Bosi si complimentò con le due principesse per la loro azione. Era sinceramente ammirato. Il Bosi era in compagnia dell'addetto alla sorveglianza, quell'uomo panciuto che controllava il livello dell'Arno con un lungo gancio. «Oh, la signora che mi ha salvato la vita mentre stavo per cadere in acqua» disse la pancia. Era stravolto anche lui, come tutti, sgranava gli occhi, ma sembrava quasi di buon umore. Non aveva l'aria di ricordarsi di quando aveva detto che il fiume non era particolarmente preoccupante. Seguendo il Bosi e l'addetto alla sorveglianza salirono le scale grigie i volontari della squadra delle emergenze, quei poveri vecchi, ognuno con il suo scatolone pieno di libri. Sembravano molto affaticati. «Questi schiattano» disse Camilla. In una zona meno allagata dell'atrio centrale, piena di sedimenti affioranti, fecero la loro comparsa ulteriori angeli del fango che avevano superato da tempo gli errori e le illusioni della giovinezza. «Ma non ti sembra di conoscere quello laggiù?» chiese Giulia. Indicava una figura alta ed elegante. «Ma figurati cara, ti pare?» rispose Camilla senza neanche guardare. L'antica abitudine di rispondere alle domande con un'altra domanda aveva ormai riagguantato anche lei. Invece aveva ragione Giulia: quello era Neri, il distinto amico di Lucrezia. Poco dopo faceva il suo ingresso nella zona emersa dell'atrio centrale anche Lucrezia. La cosa sorprendente è che fece il suo ingresso seduta. «Ma chi è quel pachiderma?» chiese Camilla. «Ma è Lucrezia» fece Giulia. «Ma è meraviglioso» disse Camilla, che improvvisamente non la vedeva più come un pachiderma ma come una signora luminosa. Rimaneva il fatto che il suo ingresso era un po' strano. Lucrezia stava su una sedia a rotelle portata a braccio da due infermieri colossali. Anche in lei si doveva essere risvegliata l'antica autorità (del resto mai sopita, nel suo caso) perché si mise a impartire ordini a tutti quelli che venivano dietro di lei: tutte persone della casa di riposo Villa Villabella, a occhio e croce. «Ma cosa ci fa sulla sedia a rotelle?» chiese Giulia. «È sempre stata una tale pigra!» Si sbracciarono dalla loro postazione sulle scale. «Cara? Cara?! Cara!» urlavano. Ma Lucrezia era tutta presa e non si accorgeva di loro. «Andiamo noi da lei, mi sono stufata di marcire qui, tra l'altro è di una scomodità inaudita.» «E l'aria è pessima, ha qualcosa che mi irrita la gola.» Le principesse si fecero largo tra le pile di libri gocciolanti, che ormai formavano un labirinto da cui spuntavano solo le loro teste. «Continuate senza di noi, ormai avete capito come si fa» disse Camilla ai volontari che annaspavano nel brodo primordiale di acqua, fango, nafta e carta. «Sembrano lavoratrici nelle risaie» disse a Giulia. «Incredibile che la gente si dia così da fare per questi vecchi libri.» «Si vede che hanno tempo da perdere.» Le principesse camminavano sugli isolotti di sedimenti. L'edificio tremava. In lontananza giocavano le nutrie. Neri salutò con educazione, come se si trovassero a teatro. «Arrivi dopo il semaio» disse Camilla a Lucrezia. Abbracciarono l'amica e le chiesero spiegazioni su quella sedia a rotelle. Lei glissò, non sembrava attribuire alla cosa eccessiva importanza. Capirono solo che era immobilizzata da tempo e che quando erano andate a trovarla a Villa Villabella non se ne erano rese conto perché le aveva accolte su una poltrona. Ma era una donna vitale e non badava ai dettagli. Ora poi era tutta presa dal salvataggio della cultura e della città e, avendo appreso che i nuovi angeli del fango erano per lo più sopra i sessant'anni,
si era buttata nella mischia. Aveva fretta di agire. Ma non era donna da scordarsi i problemi delle amiche. «Avete poi trovato qualcuno a cui dare la colpa?» «Sì, l'abbiamo trovato» rispose Camilla senza entrare nel dettaglio. Si accomiatarono e la videro allontanarsi con i suoi accoliti in un corridoio buio. «Lì l'acqua sarà profonda almeno mezzo metro.» «Sarà piena di lontre» disse Camilla. «Nutrie, sono nutrie.» «Non ha nessuna importanza cara.» La videro sparire di spalle, mentre gesticolava come un direttore d'orchestra, con gli infermieri che la spingevano. «Che donna» disse Camilla.
Divise! «Chissà se Francesca è riuscita a passare dai tetti.» «Ma certo che è riuscita» disse seccamente Camilla. «Mah... comunque dovrebbe scendere proprio dalle scale su cui stavamo noi.» «Ma che dici bambina, questo posto è l'apoteosi della scala. Può scendere da qualsiasi parte.» Però il loro sguardo tornò alle scale grigie, alla postazione tra le pile di libri da cui loro avevano diretto i lavori di recupero. Videro delle teste conosciute. Ma non quella di Francesca. C'era la testa del Bosi. La testa dell'uomo del gancio. E soprattutto la testa del vigile coi baffoni che le aveva inseguite fin dall'inizio perché probabilmente - chissà come - quell'uomo diabolico, come lo sono tutti i vigili, aveva intuito la verità e stava dalla parte dei delinquenti. «Scappiamo» disse Camilla. «O siamo perdute.» Sui lungarni c'era una bolgia eccitata. Per la verità non erano tutti vecchi. «Questi se la sono presa comoda e ora sono qui per compiere atti di sciacallaggio, è chiaro» disse Camilla. Erano vestiti nei modi più assurdi. «Sono vestiti da alluvione» disse Giulia. «Secondo loro» rispose Camilla alzando il naso all'insù. «Ci vorrebbe un pifferaio magico per portare tutta questa gente nella caverna sotterranea.» C'erano due inutili elicotteri che volteggiavano. «Ne vedessi venire giù uno, una volta» disse Giulia soavemente. Puntarono a piazza Santa Croce ma quando stavano svoltando a destra un pezzo di cornicione venne giù e si schiantò proprio davanti a loro con un orrendo tonfo nella fanghiglia. Questo le divise per un attimo. E siccome proprio in quel momento stava arrivando una gran folla da piazza Santa Croce, non si capiva se formata da turisti o soccorritori, le due principesse si trovavano separate. C'erano anche un sacco di cinesi. Sembrava facile ritrovarsi. «Stai attenta che questi sputano» fu l'ultima cosa che Giulia sentì dire a Camilla prima di rendersi conto che erano separate sul serio. Sballottata dalla gente, fu lì lì per mettersi a piangere. Si sentiva in balia di forze incomprensibili. Camilla reagì con l'antica veemenza. Cercava di disperdere la folla con l'autorità. Ma quelli non la ascoltavano. Troppo erano presi dalla fatica di camminare nel fango nero e dallo sforzo di scattare fotografie. Camilla e Giulia, ciascuna a suo modo, erano perfettamente sole e disperate come non lo erano mai state in tutta la loro vita. Camilla pensò che forse Lei non era una singola entità ma una folla densa, e le parve terribile. Strinse i pugni e gli occhi. In ogni caso, non si sarebbe arresa tanto facilmente. Giulia ricacciò indietro le lacrime e andò in direzione opposta rispetto al flusso della gente che le
faceva paura, come per una sfida ai suoi stessi pensieri.
Il crocifisso arenato A volte, quando sei in mare e ti senti perduto, un'onda che sembra indipendente rispetto alla direzione della corrente ti prende e ti porta a riva senza danneggiarti in modo particolare, magari depositandoti seduto su uno scoglio. Lo stesso successe a loro. Non furono portate su uno scoglio ma rimbalzando tra le persone si ritrovarono tutte e due oltre la strettoia piena di gente. La folla le risputò nella piazza. La separazione era durata qualche minuto al massimo, eppure a loro era sembrata un'eternità. Ma certo non intendevano farla lunga. «Che sollievo, cara» disse Camilla. «Sei qui» constatò Giulia commossa. Si abbracciarono brevemente, appena un accenno di abbraccio, quasi involontario. «Andiamo a casa?» chiese Giulia. «Andiamo. E sbrighiamoci, magari quel maledetto vigile ci sta seguendo.» Ma non era facile sbrigarsi nella fanghiglia. Inciamparono. Caddero. Si rialzarono ansanti e piene di lividi. «Come rondini cadute nel fango» commentò Giulia. La piazza era piena di cani sbucati da chissà dove. Una luna enorme sembrava poggiare sul magma. «Vieni, di qua si cammina meglio, il fango non è alto» disse Giulia trascinando l'amica sulla scalinata della chiesa. Si appoggiarono al basamento della statua di Dante. «Almeno serve a qualcosa.» Poi lo videro. Più in basso, accanto alla fiancata destra della chiesa, c'era un crocifisso arenato. Essendo dipinto su sfondo d'oro luccicava nel paesaggio desolato. Sembrava una di quelle balene che per qualche misterioso motivo perdono l'orientamento e puntano verso riva. La base era conficcata nella melma, e per tutto un lato vi era adagiato dentro. Ma la figura del Salvatore, su fondo d'oro, era quasi tutta visibile, a parte i piedi. Il crocifisso era circondato dai rottami e da gente che non sapeva cosa fare, come fosse di fronte davvero a un misterioso animale arenato nel bassofondo. «Si vede che il fiume lo ha portato» disse Camilla con la disinvoltura della donna di mondo. «Strano che all'andata non l'abbiamo visto.» «Eravamo troppo impegnate ad avanzare a testa china nel fango, è più stancante di quanto non si dica.» Restarono lì, appoggiate alla statua arcigna del sommo poeta, a guardare il crocifisso arenato circondato di gente attonita. Dato che era inclinato su un lato sembrava quasi che nuotasse e fosse però sul punto di staccarsi dai rottami che lo circondavano per poi continuare a nuotare nell'aria. Verso il cielo lavato dal diluvio. «Finalmente vi ho trovato, signore» disse una voce estremamente sgradevole alle loro spalle. Si voltarono sapendo già chi era: il vigile baffuto. Aveva il piglio imperioso che caratterizza ogni vigile. Quella presenza inopportuna apriva loro le porte del carcere, come si dice nei film. Giulia porse i polsi per le manette. Il vigile mise nelle sue mani una specie di documento. Era forse così che oggigiorno si procedeva all'arresto? Si consegnava un foglio su cui era scritto: "Sei in arresto"? «Ma è la mia carta di identità!» si intromise Camilla. «Sì signora, l'ha persa» disse quello, deferente e fiero. «Le deve essere caduta. Avrei dovuto portarla al comando, ma ho preferito riportargliela di persona per evitarle lungaggini burocratiche.» «Oh, grazie infinite giovanotto! Che sbadata che sono» rispose Camilla, con una certa civetteria, a quel tricheco peloso, sollevata e sorpresa dalla piega inaspettata presa dalla situazione.
Ma le sorprese non erano ancora finite. C'era della gente che le indicava.
Sante subito Richiamate dal crocifisso arenato giunsero un sacco di persone del quartiere. Le due principesse si sentivano circondate. Il cerchio si strinse sotto di loro, alla base delle scale. Dalla piccola folla sbucò il Bosi, il bibliotecario che era venuto da Torino passando dal Pakistan e che doveva essere uscito per prendere una boccata d'aria, infatti dentro la Nazionale, alla lunga, si respirava male, l'acqua sporca esalava qualcosa di soffocante. Appoggiò il piede su una sedia ribaltata e cominciò a gridare: «Sono angeli del fango! Sono angeli del fango! Loro hanno capito come fare a salvare i libri.» A quel punto fu come quando una diga cede. Ognuno, nella piccola folla, vedendo quelle due vecchie stremate ed eroiche, trovò che aveva qualcosa da dire e che lui l'aveva sempre saputo che erano delle sante. Tutti le indicavano. Da un groviglio di biciclette piantate nel fango sbucarono le due ragazze con le quattro coscione che avrebbero sfamato una tribù africana, quelle a cui nel bar all'aperto Camilla aveva detto «Yankee go home» anche se probabilmente erano tedesche, per non dire olandesi. Con il loro italiano improbabile si misero a spiegare che quelle due donne meravigliose lo avevano capito prima di tutti ciò che stava per succedere, infatti avevano suggerito loro di scappare, di andare a casa. Avevano le lacrime agli occhi per la commozione di fronte al miracolo e alla lungimiranza delle vecchie sante. Poi volle parlare un vigile appoggiato a una lavatrice. Non era il tricheco peloso che aveva restituito la carta di identità a Camilla. Era quello che loro avevano visto alla base della salita mentre stavano per entrare a Villa Villabella, quando il venditore negro di poesie negre aveva intralciato la strada e l'avevano maltrattato. «Nel momento del pericolo si sono fermate per dare dei soldi a un nero» urlò il vigile senza baffi. «Nel momento del pericolo hanno fatto l'elemosina!» Poi prese la parola un carabiniere, in equilibrio su ima ruota enorme, doveva essere la ruota di un camion. Affermò di averle viste mentre transitavano in mezzo al ponte e Giulia con l'ombrello aveva recuperato il passeggino. «Hanno strappato un bambino alla furia delle acque!» urlò il carabiniere. La vicinanza della chiesa, o la speranza che ci fosse un operatore televisivo, dettava a tutti parole alate. «Hanno strappato un neonato alla furia delle acque!» ripete il carabiniere, perché forse la parola bambino non aveva commosso a sufficienza. «Oh!» disse la piccola folla. Nessuno si chiese dove era finito il bambino, o pensarono fosse stato restituito ai genitori. Arrivò il fabbro, quell'uomo sporco, piccolo e ammaliato dalla loro bellezza. Disse: «Hanno aiutato un sacco di povera gente, buttando la corda dalla finestra, ve lo dico io, le ho viste io, date retta a me.» Le due principesse erano così stupefatte che non reagivano. Stavano lì impietrite. La gente lo prendeva per un atteggiamento ieratico, un misto di santità e di modestia. La folla non smetteva di vedere in loro la fonte di ogni bene. «Vedi la mentalità moderna» sussurrò Camilla. La ragazza e il ragazzo Portatori della Parola, quelli del cesto "Gesù parla" e del cesto "Gesù ascolta", dissero, in particolare fu la ragazza a parlare (l'altro pregava): «Hanno deposto il coltello, e questo è un chiaro messaggio di pace.» Anche questa piacque molto all'assembramento che acclamava. Lo spacciatore coi denti marci, il ceffo col collo storto che avevano invitato a entrare in chiesa esclamò: «Mi hanno fatto incontrare Gesù! Sì! Mi hanno detto di entrare in chiesa e io ho incontrato Gesù che voleva parlare con me. Ed era vero!» I Portatori della Parola sorrisero compiaciuti. «Hai visto?» disse Camilla contenta, abbandonando per un attimo l'atteggiamento ieratico, che subito
recuperò, a meno che non fosse un principio di assideramento alla mandibola. Il direttore del personale, quella pancia a cocomero che girava con un gancio per controllare il livello del fiume, giurò che lui era stato salvato da quelle mani sante (indicava Camilla e le sue mani, per la verità un po' adunche) mentre stava per precipitare nel fiume. I ragazzi che manifestavano contro l'iniquità degli straripamenti raccontarono che le due sante avevano detto che il popolo doveva levare la testa. Il Bosi intervenne di nuovo e - contagiato dal clima generale che lui stesso aveva suscitato - alzò il tiro rispetto al discorso di prima: affermò che erano le uniche salvatrici della Biblioteca nazionale. Voleva in qualche modo battere gli altri. I volontari del gruppo di pronto intervento, quelli che portavano le scatole, confermarono. I ragazzi col basco, quelli spagnoli che erano passati sotto la finestra di casa poco prima dell'onda di piena, parlarono. Venne fuori che erano di Teramo. Dissero che Camilla li aveva esortati a scappare. Una veggente, garantirono. La suora che era passata sull'automobile bianca, trascinata dalla corrente, raccontò che le avevano buttato una corda per aiutarla. «Una corda venuta dal cielo» disse. L'omone del gommone, quello col megafono, riferì che le due principesse avevano rifiutato di mettersi in salvo per lasciare spazio ad altri bisognosi, e che anche solo sentire la loro voce gli aveva infuso un coraggio soprannaturale. Al margine della piccola folla era arrivata anche Lucrezia, accompagnata dagli infermieri sfiniti. Evidentemente erano pagati parecchio bene. O forse Villa Villa-bella le apparteneva. Anche lei confermò l'alta statura morale di Camilla e Giulia: lei lo sapeva da sempre. Neri, lì accanto, faceva elegantemente cenno di sì. Dalla chiesa sbucò il prete, quello che considerava la situazione storica. A mani giunte disse che lui dal campanile aveva visto un angelo uscire dalla finestra della casa delle due principesse e allontanarsi nella luce. «Questi preti sanno tutto di tutti, sanno anche dove abiti. Evidentemente vuole recuperarci come parrocchiane» mormorò Camilla. «Ho sentito dire che la gente non va più in chiesa.» Alcuni cominciarono a urlare: «Il fiorino d'oro, il fiorino d'oro.» Proponevano per le sante la massima onorificenza cittadina. «Penso sia ora di tagliare la corda» sussurrò Camilla a Giulia, che se ne stava lì beata. In effetti la situazione, se da una parte era molto gratificante, dall'altra era talmente assurda da essere instabile. Quello era un attimo di commozione generale, dovuto anche all'alluvione. L'evento catastrofico le aveva in qualche modo aiutate, non solo a pulire il cortile, ma anche suscitando nelle persone scioccate il bisogno di qualche presenza eroica, e il caso aveva scelto loro. Ma non poteva durare a lungo. Era rischioso. Metti che a qualcuno venisse in mente di chiedere dove era finito il bambino che avevano salvato e altri dettagli del genere. Bisognava uscirne. Anche perché ora tutti tacevano. «Il lago del silenzio» mormorò Giulia che poi senza perdere la sua espressione beata indicò il crocifisso arenato e alzò la voce: «E ora tiriamolo fuori dal fango e portiamolo in chiesa.» La piccola folla, sentito l'ordine della santa, puntò sul crocifisso arenato. «Dio aiuti quel crocifisso» disse Camilla. «Comunque brava, ora che non badano più a noi andiamo via.» «Come?» chiese Giulia. «A questa maniera» rispose Camilla e semplicemente prese a scendere le scale. Puntarono verso casa, mentre Dante le guardava più arcigno del solito. Ma a Camilla parve di cogliere un cenno di compiacimento nei suoi occhi di marmo. Per di più la statua, coprendole, impedì alla folla di notare che se ne stavano andando. Il cielo era pieno di corvi. I cani ululavano alla luna che era sempre più grande sul lago di fango. C'era una sola persona che non si era diretta verso il crocifisso e le guardava con un gran sorriso. Riconobbero Francesca. Era seduta su un piccolo autobus ribaltato. Sotto l'autobus c'era un capriolo,
trascinato da chissà dove. Francesca era radiosa e accennò un applauso verso le zie. Anche un lieve inchino. Si spostò perfino il ciuffo dall'occhio, e videro che non c'era un'orbita vuota ma un bellissimo occhio normale. «È davvero un angelo» disse Giulia. «E non del fango.» «Per carità.»
Ancora insieme «Voglio dormire cent'anni» disse Camilla mentre varcavano il portone. «Rischia di venirmi l'esaurimento nervoso.» Quando passarono davanti a ciò che restava della porta del pianterreno, Giulia attraversò l'appartamento sconvolto, quasi a occhi chiusi. Non voleva vedere il suo regno devastato. Raggiunse il cortile, ancora pieno di pozze d'acqua. Lo sapevano: non c'era attimo in cui - tutte e due -non pensassero ai Lorocari. Giulia, con l'occhio esperto della donna acquatica, colse un movimento nella pozza più grande. Sentì un'emozione immensa. Si avvicinò. C'era un pesce. Si inginocchiò. Non era un Lorocaro, era un pescetto molto più piccolo. Ma era qualcosa. Un segno. Più di un segno. Non poteva essere lì per caso. Era un dono lasciato dai Loro-cari: un nuovo Lorocaro. Allora tuffò la borsetta nell'acqua come una rete e prese il pesce. Mentre si rialzava si rese conto che anche Camilla era entrata nel cortile, aveva visto tutto e aveva le lacrime agli occhi. «Come è bello» disse. Salirono in casa più in fretta possibile e fecero scivolare il pesce nell'acquario vuoto. Quello apparve un po' stordito, cadeva verso il fondo a pancia all'aria, ma poi con un guizzo improvviso si rigirò e si fermò a mezz'acqua, guardandosi attorno interessatissimo. «Starai bene qui, grazie di essere venuto» disse Giulia. Il pavimento tremò un po'. «È il fiume sotterraneo che si assesta» disse Camilla con noncuranza. Si rilassarono nell'ansa ombrosa del salotto, una sul divano l'altra sulla poltrona. Sotto un cumulo di pellicce. «E così via» disse Giulia. Ora che erano delle eroine e delle sante, si sentivano pronte a perdonare l'umanità. Erano distrutte ma stavano abbastanza bene. La felicità terrena era lì, a portata di mano. Ringraziamenti Ringrazio Alessandra e Gianni Brunacci, che mi raccomandarono un'alluvione particolare; Silvia Rabito, che mi parlò dei suoi progetti per la vecchiaia; Marco Vichi, che stimolò le principesse; Francesca Mirale, che ipotizzò l'esistenza di una nipote; Gigliola e Valentina Grazzini, per la filosofia dei detti fiorentini; Riccardo Subri, un uomo che ha visto tutto, ma l'Arno sotterraneo l'ha sentito; Carlo, che pur essendo mio fratello minore ha un po' un rapporto di paternità con questo libro.