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Francesco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La formazione del pensiero filosofico dalle origini a Platone VI-IV secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA II. Filosofia, cultura, scuole, tra Aristotele e Augusto IV-II secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA III. Pensiero, culture e concezioni religiose II secolo a.C. -II secolo d.C. LA FILOSOFIA ANTICA IV. Cultura, filosofia, politica e religiosità II-VI secolo d.C.
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FRANCESCO ADORNO IAFIWSOFIA ANTICA N. Cultura, filosofia, politica e religiosità ll -VI secolo d.C.
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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione agosto 1961 Prima edizione nell"'Universale Economica" ottobre 1992 ISBN 88-07 81138-3
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Parte prima
Cultura filosofica, politica e religiosità dal II al V secolo d. C.
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Capitolo primo
Da Diane di Prusa e Plutarco a Platino
l. Dione di Prusa. La politica culturale delflmpero nel Il secolo Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cultura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in funzione di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione morale, attraverso cui in un consapevole distacco dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel 114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio. Particolarmente interessanti sono le cosiddette orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica (XXXVI) e l'Euboica {Vll).
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in volta, si concreta come cortesia e generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8) .. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita sociale come misura e intelligente equilibrio, si capisce, in principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale, libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accusati di complotto contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al 96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli aveva disprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia dell'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e· di Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8
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di cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia davvero un male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo axii!J.IX, delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e costituzionalizzazione dell'Impero, che soffriva, relativamente alla fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la funzione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio antoniniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializzazione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'impero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cultura. Nel vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di elementi etnici e culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala maggiore, favorito dall'unità politica e amministrativa. E diventa quindi sempre meno sostenibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad assimilare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per prudenza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compromesso il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende militari, ma già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue-
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cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrnbito dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'opposizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne giustificassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibilmente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'impero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale ... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere imperiale alle condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, trad. it., Firenze, 1946, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Domiziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove partecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cittadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche dell'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la c@nvivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine cosmico, retto in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia-
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baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di. T raiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone ( 8e:<m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un " filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che- e sarebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo arbitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo parlato, quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'imperatore a quella che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia. • Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti
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presso il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminatamente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione e intelletto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scrivendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli con il massimo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orientali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforzamento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua importanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Imperatore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chiamato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distribuisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da
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Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affermatosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il principio dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati. Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia, piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per parentela, e gli altri li avete assoggettati a loro. Né .il mare né alcuna vasta distesa di terra possono impedire a uno di diventare cittadino romano; nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e rappresentava la propaganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant ") e molti furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica imperiale, abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli imperatori, che - per politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influenzato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel u secolo. 13
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Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni . nei confronti dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali dell'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu( ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filosofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quarantamila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo intervento fin( col divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato dall'autorità dell'imperatore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si assumeva cos( un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La decisione si collegava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo spirito anticristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giustiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione imperiale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possibilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cultura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale.
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2. Plutarco di Cheronea
Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò al platonismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della politica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto dall'imperatore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute autentiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale a quelli filosofico religiosi, polemici, critici, filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, Ad prineipem ineruditt~m, An seni Respublit'a gerenda sit, Praeupta gerendae Reipublit'ae, De uni11s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De
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mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il significato del "platonismo" e del "pitagorismo" di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misticismo e della teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Alessandria, maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto "plutarchea, "· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu "" ipis sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri quinque.
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riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epinomide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolarmente delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni : ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò è .assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immortale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distruggeranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene accantonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della concezione platonica, o come un approfondimento dd!' Aristotele interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-
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stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del "probabile" in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente - di ·certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvicinati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'aristocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egiziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della religione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'interpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egiziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nell'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi : Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpretazioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, credono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egiziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale, hanno un
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aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equilatero - alle quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro categorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il Determinato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus ], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia ... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costituisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a).
Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola religione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle religioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della politica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da imperatori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti.
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Iside è dea eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, come il nome stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli iniziati, poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea ... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [ sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene tramandato ... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali opinioni e riferiscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354 ], per usare la parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e. a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze, . tu lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'elemento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside
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(il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato del mito egiziano alla mitologia iranicocaldea e a certi testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, probabilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equilibrate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo che è mortale e morbosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplosioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del principio attivo che implica una passività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà
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molteplice, ché, pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura quantità; e se altrettanto ripugnante è l'ipotesi epicurea che spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile, irrazionale; l'unica possibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C
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I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia-
rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti ... (De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indicative, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone l'Ebreo - entro i termini della religione delfica, puntasse, si come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella chiara esigenza di Plutarco di costituire una possibile pace culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il termine tradotto con "superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, appunto, all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrionali. No, ma come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, parimenti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero sulla strada
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pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma .piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa materia, occorre soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neutra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logicamente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Platone rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene (l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e all'Horomazes zoroastriano) : Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale? L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibilmente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole consuete, il "poi," il "prima," il "sarà," l'"accadc" sono la spontanea confessione del suo non-essere. Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere ... Di contro, dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? - "~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che ~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo,
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né futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: "Tu sei" (d, e~), o anche, per Zeus, Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale l'interpretazione che Plutarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo e il terzo: Apollo, infatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire .che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle passioni, non è dato partecipare del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione di lui, . per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f);
=
2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). 3. Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Platone; Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da Platone "nutrice
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e ricettacolo comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo brama e lo persegue [ Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere migliore e offre a lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'immagine dell'essere nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf ,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui ... Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio "materia del profumo," l'oro "materia della statua"; e questi non sono privi di ogni difierenziazione. Persino riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li .adorni e li armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una immagine •della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intellettivo," IX, 1] ... lside gode di una eterna partecipazione del dio primordiale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli resiste ..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto semplice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza, potenzialità di
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assumere forme e qualita, e in tal senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni, nelle quali tuttavia non si esaurisce né si risolve il "padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il divino, in quanto perfezione è bene e che la materia in quanto mancanza e neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo le cose simiglianti a lui, resta .il termine cui tutto aspira, in un unico amore;· oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto, accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio, un'attività inspiegabile e perciò irrazionale, fonte appunto del male. È meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto, non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia sono possibili ... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione conveniente, li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla . materia e non all'anima quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella "infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a ], come intenderanno poi ciò che Platone asserisce, cioè che la· materia è senza forma e senza figura, priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli
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come causa e principio del male ciò che in se stesso è inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica" e anche "necessità spesso ribelle e riluttante a Dio ... " Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisamente, "anima sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a) ... Bisogna dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male ... (1027a). Là dove Tifone piomba ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costituirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando certi passi platonici, a porre la divinità come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasformazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici - : "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l distruzione ... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere (coeterna dell'essere, in quanto come l'essere condizione del reale) la materia - la éorporeità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima-
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nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e all'esistere - materiapotenza - una terza condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità è, dunque, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza dell'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può rendere conto dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si determina cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo terrestre e sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equilibrate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con Osiride [il divino) ... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside, 37Ia-b). Certamente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe, va perfino sotterra ... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della conservazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slanciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e
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nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espressione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco - nel suo tentativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione religiosofilosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose' ellenistiche ed orientali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la generazione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - all'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - e animate, nel perenne conflitto della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si. viene ad avere un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'altro lato volte all'essere, alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai Magi della setta di
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Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascensione propria della sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel .:ampo delle anime elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime appartenenti al grado demonico, purificate dopo lungo volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della divinità. Al contrario, talune, non riuscendo a dominare se stesse, scendono dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e fievole come un'esalazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione voluta, attraverso testimonianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al confine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei padri, che noi consideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'isosede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle cadenti ... ; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del tutto risulterebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di interpreti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traendolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compiacenza .per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta] •.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i
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dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passionale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la soluzione del significato da dare ai dèmoni chiarisce quanto sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione dell'Essere su,premo, puro intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne troviamo tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. sopra), in alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo ermetico (certo su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali, tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dall'altro lato in razionalità, in aspirazione all'ordine e .al divino (perciò l'anima non muore con il corpo, perché la morte può essere interpretata come eliminazione dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto medesimo, se da un lato spiegano la divinazione, i sogni profetici la possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei dèmoni stessi siano presenti, com'essi
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operino, come servano di mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari secondo cui si può direttamente operare sulle divinità, indicata, sia pur in un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti, accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnostiCismo giudaico). La nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'ignoranza. Un riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi, ma anche le anime ... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono... appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'ignoranza, e che essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a). L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza delle luci stellari, a loro volta riflessi della luminosità divina. Ad ogni modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un 'immagine, pura luminosità: "Le vesti di l side sono
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di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque, è rappresentata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla luminosità pura (divinità), scandendosi in un complesso di oscurità (corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità (anima), da un lato affermazione di sé per esistere, ma, dall'altro lato, nel suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e, perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad essere come lo specchio - in piccolo - dell'universo stesso. Si ripete cosi: in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità (anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina, la pura luminosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e razionale si scopre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e, perciò, da un lato come possibilità di ordinare e .guidare le nostre forze vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e presume che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquietudini e con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo dell' cbbrictà di Filone l'Ebreo : Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà irrazionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc
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facie in orbe lunae, 943a). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi ... ; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose future ... (De defectu oraculorum, 43lf-432c).
Anche se molte sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà, vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razionalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il "padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo appello a Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annullando l'essere nella esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo volontarismo e dinamismo, fondamento della vita morale, che non avrebbe luogo senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco, interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che l'intelligibile si coglie attraverso il conflitto, nell'atto in cui scoprendo sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e come dominio in unità di noi
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stessi, m quanto molteplicità di passioni. "L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone [Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le varie_ opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come un "lampo" e che si vede una "volta sola"; - esso, dunque, resta da un lato .:ome ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per cui, colto l'essere, attraverso l'educazione e l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sganciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nell'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di realizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragionevolmente) le passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da realizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva e anima sensitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una negaziDne delle passioni, in cui consistono le 36
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virtu etiche (vita pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu contemplativa in questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'accordo nel considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affezioni ed abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e perversi che la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti ignorato che ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami. Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione ... Platone ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia] ... L'anima umana che altro non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e proporzioni uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affezioni. Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelligenza, per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte irrazionale si divide in concupiscibile e irascibile] ... Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e irrazionale ... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma
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le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misurata l'attività naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4).
L'appello di Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici (epicureismo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpretazione dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si capisce cos( perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come potenzialità interpreti il Timeo in termini rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose, non è il divino che si traduce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vitalità della natura e sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici (il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi .di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie condizioni economiche, Plutarco vor-
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rebbe fosse data a tutti ("Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò che la loro fortuna permetterà di fare": De educ. puer., 11). Cos(, anche sul piano politico, l'appello di Plutarco è un appello a una possibile pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma. Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici, 824c) e come estremamente limitata sia oramai la possibilità di usare l'arte politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni, quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere nello Stato?": Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed eticità intesa aristotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e, dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e prudente; in una città vi sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi; e poi si possono suggerire e attuare riforme ... " (Precetti politici, 805a). Non solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio, .si deve mostrare cosa voglia dire essere uomo davvero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini ("Benevolenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco apprezzava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati complementari l'uno dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come 39
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entrambi avessero prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo salvandosi mediante la conoscenza, si prepari a ritrovare la propria patria, sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra d'esilio: • esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). 3. Retorica e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le scienze. Le • questioni." Medicina e metodo da Menodoto fl Sesto Empzrico
Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politicamente si irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione politica mutata, rispetto a quella che sta a .cavallo tra la seconda metà del I secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; potesse, su di un piano scettico, assumeado · posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143 e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine equestre, in relazione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco, che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones conviviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filosofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune orazioni e diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia.
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abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.· Di qui, accanto ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali: il titolo di due frammenti conservati è già abbastanza indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filosofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo delf Accademico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pamfile: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi mediante i quali dimostrare l'incoerenza delle varie filosofie, in una ripresa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri su la La fantasia catalettica, in cui si rimetteva ancora una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fondava la loro gnoseologia, del passaggio dalle strutture della ragione alle strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile (xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano retorico la tesi neo-accademica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e i contra, determinare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile, praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano retorico, in funzione politica, mediante cui convincere a una certa concezione, sia pur assunta come ipotesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro in che sen:so lo scetticismo metodologico abbia avuto una funzione preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le concezioni di sfondo poteva servire per determinare una certa visione (sia essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in sé) e a quella convincere in un abile uso delle tecniche retoriche; dall'altro lato, entro i termini di un effettivo sapere (e tale è il significato di scienza, già molto 41
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bene indicato da Seneca: cfr. sopra), la scepsi, intesa come ricerca critica, costituiva le basi delle possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo l'una ipotesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti culturali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il fenomeno dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della sponda orientale, nel ramo comasco del Lario . ("ti porto dalla mia terra natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipotesi che servono a spiegare il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la discussione e la possibile soluzione ("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no ("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie di racconti intorno a storie di fantasmi. Particolarmente interessante - anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino, quindi appariva uno spettro... " - e sulla quale il proprietario mise un affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno, ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla"; .la casa fu presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi, aveva saputo del 42
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fantasma; Atenodoro, pur cercando di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto, Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere aguzzare l'ingegno. L'argomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se tu, . come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza, poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico metodo di lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discussioni: a tale esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipotesi, base da un lato per una preparazione culturale generale e, dall'altro lato, per una discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali, in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite, .le opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia, matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana (esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che permettono una discrimina43
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zione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè ·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu strettamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure, rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permettessero un discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, raggruppate in questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o respinte a seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e soluzioni al commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristotele, degli Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e dell'altra interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel determinare venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e respinte, cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dall'Egitto, dagli ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici, insieme, per altro verso, alle sintesi che provengono dai commentatori di Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e introduzione, che proviene da alcuni commentatori della logica di Aristotele e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha principio la formazione del medievale "Platone teologo" e "Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla fine del 1 secolo a. C., .con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di contro ad ogni assunzione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che va da 44
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Enesidemo ad Agrippa (metà del I secolo d. C.), l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti fondamentali del metodo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis, che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indirizzi fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot ), fin dal m secolo a. C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti "pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei medici "metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea (seconda metà del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a. C.), prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'indagine metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apollonia il Vecchio (n a. C.), Glaucia di Taranto (n a. C.), Eraélide di Taranto (prima metà del I sec. a. C.) e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nicomedia. I "teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma" ; i "metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i "metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella metodologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggiamento di Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp.,
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63-64, in Deichgraeber, Die griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto, per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso erano anche i " metodici, " il cui atteggiamento nei confronti della pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto assunse le argomentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione "probabilista," ch'era in fondo la soluzione dei "metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie. In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati e fenomeni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo medico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezionali, raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge, per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" -che trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei "metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile," in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla distruzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerentemente, egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico, l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deichgraeber, Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre, Berlino, 1930, n. 293). In effetto Menodoto, rifacendosi alle istanze della scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza con questo, come risulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi simpatie per Menodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche Deichgraeber,
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op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una "descrizione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustificare la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si riferisce a Menodoto nella critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII, 32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un condiscepolo di Menodoto, Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40, 15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente assumendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza metodo logica e logicolinguistica dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empirico, vissuto tra la fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio (IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque, Sesto: 47
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Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma recisamente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se siano o non siano comprensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono · questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'indifferenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osservazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico adopera, senza presunzione dogmatica, la espressione " nulla. dò per certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'intende, comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241).
4. Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo
a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato
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nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie passioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio possibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quell'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto naturalistico e fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario dell'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ultimo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente :: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale dell'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov•idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa umalità, che .al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle :ondizioni che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i termini che abbiamo veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ultimi aspetti dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Platone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo, a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49
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capitoli divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di Platone ed esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appariva come il piu sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se non per l'Epitomè o Didascalico di Albino di Smirne, per l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento al T eeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il testo a cura del Freudenthal, in "Hellenist. Studien," III) e di una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV -VI); Teoria e contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VIIXXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV); Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non maestro di scuola) fu l'altro discepolo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~ incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel 125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{ l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica, astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viaggiato in Asia Minore, Apuleio si recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difendendo, con successo, molte cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato in tribunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare
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opere di grande importanza per una ricostruzione storica del platonismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo di interpretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di lavoro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in particolare) ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoicismo, in un recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di Platone
(rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Butidemo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll)) delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l).
E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~ )Alcune si presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di Platone e di trovarne la spiegazione (Epitomè, XXXVI).
E dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XImposta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudoAristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Hermagoras. Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. .
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utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive della filosofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dottrina di Platon~, I, 5, 190).
Se l'intento estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presentazione in un ordine sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento intrinseco nello scrivere una "monografia" su Platone: avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia sistematica, tale che non contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno, consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa salvare facendosi simile al divino. "La visione contemplativa (.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, intermediario il corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~, II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste diverse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità ... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano ... " (1, 3, 187). "Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di applicarlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una comune problematica, l'impostazione delle opere platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere su Platone, degli
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altri commenti ai dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di Cicerone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come durante il I e il n secolo d. C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomentazioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di .stoicismo da Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il corpo platonico e per il complesso delle interpretazioni di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che costituisse il complesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un certo complesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti platonici, ma anche il loro intento filosofico, l'importanza da essi data all'auctoritas. E ciò, ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Albino e di Apuleio, ma anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53
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raccolto e pubblicato in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del II secolo, insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al T eeteto. Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e salvare lo Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'interpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e perciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche esposte in funzione di una visione unitaria del tutto (il piu delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a compren54
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dere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnterpretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle possibili interpretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse dall'interpretazione metodologica del Platone del T eeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che permettendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugnabile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'interpretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per rendere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso convincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini aristotelici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo.
b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adrasto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale proposito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Alessandria e a Roma; nel 1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso.
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del n non sono rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il significato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio - vissuto presumibilmente nella seconda metà del I secolo- sappiamo che commentò le Categorie, il De lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R. E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale condizione mediante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui Aristotele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astronomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze matematiche utili a una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, commentò particolarmente i libri logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immobile e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56
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Su questa linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rimastici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare come l'interpretazione logica del platonismo (del resto, pare, tesi già sostenuta fin dal I secolo a. C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da Aristone di Aless;mdria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "strumento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'interesse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. Attraverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente corrette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formulata dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla struttura e l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica (vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave platonica, risolvendo il mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo). c) Il « platonismo 11 di Albino. T eone di Smirne. Entro questi termini si fa chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di cui già troviamo traccia fin dal I secolo a. C., ma che nell'Epitomè di Albino 6 ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione, analisi, induzione e sillogismo, 6
Sulla vita di Albino vedi sopra.
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significato del linguaggio), e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze (aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque, Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi, passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il termine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "portaimpressioni" (èx!l4yei:ov ), "ricettacolo universale," "nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat ), sostrato incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo [cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo· principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç .8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot) .... Le Idee sono le operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le Idee dunque esistono. ... Di qui anche il terzo principio che Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né partecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che perfino quando si propon-
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gono di concepire l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di colore che essi spesso vi aggiungono, è loro impossibile concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e concepiscono l'intelligibile in forma pura e semplice. D'altra parte, poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza interruzione l'intelletto del cielo intero ... Tale primo intelletto deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che consiste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico ... Dio è indicibile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire accidenti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfezione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qualcosa né un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa ... esso infine non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia ... : come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di concepire e agli oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contemplazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello ... ] (Epitomè, VIII- X).
Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di Platone relativa al rapporto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le contraddizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridiscende a tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si
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scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal!= senso Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione logica che rende pensabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura intelligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adrasto, si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astronomiche, ma non cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (C o n oscenze matematiche utili alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È anch'essa una introduzione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio diceva, riprendendo un termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone indicate come fondamentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geometria piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teoria musicale. Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sull'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice [Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono trascurare le matematiche (l).
L'opera di Teone, preziosissima per una ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per l'astronomia, è preT
Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne
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ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione dell'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordinando in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Aristotele a Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'" anima mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello pseudo-Aristotele).
d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti dello stoicismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche l'opposizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315 a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fiorito tra il 160 e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici (Discrepanze della Stoà rispetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata · TratttftO sulla differenza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano e Marco Aurelio.
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pretazione ch'essi davano da un lato delle categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie aristoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascendente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico. "Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingenerato. Ora, noi esortiamo quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone, non è stato generato, a non metterei nelle difficoltà... A tale tesi li ha indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér cui è necessario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio neppure il potere di fare il bene... " (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita umana ... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo ateismo relegando gli dèi dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con questo il suo ateismo ... " (in Eusebio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e dispersione e perciò come radice 62
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del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità, riflettendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim., 93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15, e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottolineare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due interpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica (e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà, che· presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende (onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento nell'interpretazione di Aristotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei commenti a Platone e ad Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contraddittoria per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca, scriverà finissime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni speciali").
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e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra .essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e soluzioni sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di Aristotele, che discorso scientifico è possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra a salti, o a interventi extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente metodologico della ricerca in una chiara determinazione del retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dall'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • naturalistico logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è. posta come presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le "forme," in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la "materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini, appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte dell'esposizione già fatta di Aristotele (cfr. vol. I), mentre va detto come al lume di questa interpreta8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria, sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui divenne scolarca alla morte di Sosigene.
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zione, sembra abbastanza chiara la celebre soluzione data da Alessandro alla questione del rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellettiva} non è separabile dal corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere, afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o "materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84, ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristotelici, la facoltà d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione, dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui, accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha, tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due aspetti· dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in questa o quella intellezione, di questo o quell'uomo, implica un'altra condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili, l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, appunto, in quanto tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è separata, nel senso che " separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro, seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28), in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori (&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65
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definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei platonici sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la polemica di Alessandro contro la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo intervento del divino, non solo sostanzializzano e antropomorfizzano dio, il che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle forme, in atto tutte le possibilità, è al di là del bene e del male, è termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella che i platonici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea Alessandro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti perfetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed effetto.
f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpocrazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei platonici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'aristotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica (e rifacendosi a Moderato di Cadi ce), dato ai tre aspetti con cui si presenta la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo, sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è impossibile ricostruirne con .certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso platonico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi-
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lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente senza l'essere, la condizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione dell'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò, .mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino all'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'incessante e intelligente vita per tutta la durata dei tempi... ": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentrantisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alterità, unità-dualità, afferra in sé il T( intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev., XIII, 17). · Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del significato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio 10 in 10
Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra.
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cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • intellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta, ... intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche dell'astronomia e della musica), quale si era venuto determinando nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti dell'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le articolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto connessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà appare come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini matematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività articolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disartico68
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lata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisibile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla misura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla possibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu descrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie" : A p., 55}, e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili : non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incorporea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, informes, nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; mentre un po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo : la prima è la condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intelletto, e come tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelligibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69
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cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possibile a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geometrici. Per il resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo trascende, in senso stoico-aristotelico .(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni ... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivelazioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie ... Non è funzione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati profumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa condizione, come in una specie di sonno, predire il futuro ... (Apologia, 43).
La credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tradizione, l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta, quando, attraverso l'iniziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di Albino,
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di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo il " platonismo, " curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbolica, sottolineando che la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme religiose di purificazione; Apuleio si mosse costantemente entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in regioni diverse, in particolari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, relativa all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la possibilità, o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascendenza del divino, in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dall'altro lato, i testi platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. VII lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini matematico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il discorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino quanto 71
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Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili,
è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non questo o quello, _ma un 't'( (ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo stoicismo, relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pensare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superessenza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la differenza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come condizione di tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologicamente si giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte impressioni sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso medesimo, e, metaforicamente, lo trascende, per cui lo si coglie intuitivamente, con l'intelletto (vouç, nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della immediata esperienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op« ... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel 11 Della vita di Celso, vissuto, sembra, in Egitto, nel u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~; ).6-yoç), conservatici da Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ
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secolo, noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. II
Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non si può .dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o .:h:6c; où8' bvO!J.ot
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non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile
(ik.,
VII, 45).
Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, persona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un Dio trascendente e Padre, perfetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio "platonico," insieme ad altre concezioni del divino, egiziane, ebraiche, siriache, in funzione di una teologia razionale, e, perciò, universale, che trovava i suoi termini nell'àmbito della rielaborazione in sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che, sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s. v.; anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n secolo. Pochissime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che, semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr. Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione Hardt, Ginevra, 1960, p. 6). ·Le testimonianze piu antiche, puntando sull'aspetto gnoseologico di Numenio, indicano Nurnenio come "pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5; XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p. 303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei .frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lecmans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri.
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Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza dubbio Numenio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-matematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello gnosticismo e dell'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai popoli che salirono in fama, riportandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo, Dell'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune testimonianze e brevi testi interpretati .da P rodo, da Calcidio, da Porfirio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Platone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi platonica del costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano venuti configurando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone problematico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomentativo di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 secolo). Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del reale, condizione
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dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al pensiero e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione platonica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo dio"), Numenio sostiene che non si giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile, per via negativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r( 8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto indefinibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non la si può supporre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita {ordinata) dall'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non venissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov ), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov ). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente bisogno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21). Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn) (fr. 16-17). lntelli76
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gibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intelletto e intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una obbiettivazione .visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere assoluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi partecipano in nessun altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>. -rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distinzione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla flui-
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dità della materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Avendo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV ). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno (1tchrnov ), di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Ti m., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26 L.). In effetto, per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un frammento, accanto ai tre dèi, DioDemiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso nell'immediatezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci, come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è determinabile entro .i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78
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in sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione non piu riferibile all'intelletto, per cui non è obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Ti m., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto s'incentra e attraverso questo risalire alla contemplazione mistica del primo Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo, Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del platonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una notevole influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II; Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl., VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimonianze citate). 79
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S.
li
Gnosi,"
li
Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici"
a) La "gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non :rolo come fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla questione se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato assai frammentario dei testi da .lui trasmessici e, in particolar modo, certo suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile "tragico," come dice Proclo (In Tim., 93 a sgg.), lasciano lo storico in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale, puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç ), sosteneva che Numenio fu un saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu approfonditi sia sul piano della tradizione platonico-razionalista (Gaio-AlbinoApuleio), sia sul piano della gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di scambi, che costituisce alla fine una sola e comune base culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo cristiano, eretico nei confronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in realtà, un tipo di gnosticismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si opporrebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di Albino (Epitomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d' &q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il punto': Albino, Epitomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell' lP"J(.L(ç 80
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(eremla: solitudine) in Numenio: Dio è lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun concetto finito permette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discorsiva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, precisamente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957, Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sempre la concezione orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni gnostiche, ermetiche, oracolari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella sua magistrale relazione su Numenio, tenuta agli ~ Entretiens sur l'antiquité classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le possibili soluzioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei rapporti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sull'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, sosteneva l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllanges Bidez ... Senza dubbio parlai allora, nel 1934, impressionato dalI'Agnostos T heos del Norden, di influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha condotto Numen io a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio, per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo,
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riallacciare esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di continuità dialettica? Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo, forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte, legato a quello della Materia come male assoluto e a quello della condizione umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male. Conseguentemente si immaginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti, degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bibbia ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di problemi. Plotino, attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del trattato II 9, al capitolo l, se la prende~. come ha mostrato Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il .&eb~ &pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è volta anche, e insieme, contro gli gnostici... Evidentemente, il problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che storicamente" (Puech, in Les Sources de Plotin, Entretiens, cit., pp. 36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gnosticismo" non può piu essere compreso solo ,come un'eresia del cristianesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basandosi sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un movimento, un fenomeno religioso, molto piu complesso ed esteso, certo anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo "), sia la religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente, diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosticismo" né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehrbuch d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma,
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1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Pimandro, Lipsia, 1904, ritiene lo gnosticismo di origine egiziana, rintracciando forti affinità con l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungsmysterium, Bonn, 1921, sostiene la derivazione iraniana dello gnosticismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro sincretismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis, Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia, 1924), aspramente combattuti da H Jonas (Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga, 1934-1954). "Il termine gnosticismo," scrive il Puech, "è usato in senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova religione e uno gnosticismo che esisteva prima .di essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cristiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state diverse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteggiamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'analisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente identiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di esperienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro,
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non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo "gnosticismo" prima era conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tradotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cristiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica dell'universo - che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana di Dio -, l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo, un'ellenizzazione della propria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne delineando nel II-III secolo da un lato la "filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movimento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente analizzabile, bens( di un'improvvisa illuminazione con cui ciò che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente gratuita, riservata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto, appunto, rivelata la
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"gnosi," agli "gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura superiori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli "hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa e la rigenerazione" (in Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" funziona quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol. graeca, VII, 1926), non può essere frutto di Dio né sua emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male. Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attraverso il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e necessarie, da quelle che regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta, determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità, sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.' In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi" spezzi la .catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi da ogni legge
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(morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gnostici," coloro che sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero," "abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali possano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto interessano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," potesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo sviluppo di una corrente del pensiero gnostico, quale si rivela chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione, forse Bardesane, da cui, proseguendo fin verso il vn secolo, si vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia "serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Valentiniani, Marcioniti, Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il racconto di 86
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Simon Mago/ 3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo, ascoltandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti paralitici e zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando la magia, e seduceva la gente di Samaria, spacciandosi per qualche cosa di grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel V angelo di Luca l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35], ·la potenza di Dio che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro perisca con te, poiché hai giudicato che si acquisti con il denaro il dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca, vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chiamata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe recato a Roma al tempo dell'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia ... " Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito ha conservato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31).
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Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'incontro con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio," che incentratosi con gli "inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristianesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La gnose, trad. frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi," particolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e dell'ebraismo ellenizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella rivelazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il Cristo, venuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione "gnostica" dell'Universo, ove la redenzione umana di Cristo si trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi tratti dalle filosofie ellenistiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima, particolarmente impostato dalle filosofie e dai misteri greci. Per Simon Mago la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor (Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio, "tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie. Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom), sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome, ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthymesis). Da essi scaturisce il pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, mediante cui si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipendentemente dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88
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ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino, Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua immagine, hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e incorporeo non si è manifestato .come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo ..., il quale, l'ultimo degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non di persone, come era per Saturnilo, tornano Basilide e il piu notevole dei cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria, 14 morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte le possibilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli: il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa da cui proviene, rimane in Dio; il secondo figlio, che illumina le altre H Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli avrebbe ricevuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un Vangelo di Basilide e dei suoi Commentari (in 23 o 24 libri) restano alcune citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i frammenti di Basilide dr. Acta Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88; III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6.
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semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio . che rimane a fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma). L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza (" gnosis ") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte, che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e mediante sé e la "gnosi," conducendo l'uomo al Dio primo. Tale, sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/ 5 originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'impero. . Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis T heodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul .destino (ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il 180, e di cui si conservano una quarantina di frammenti, estratti da un suo commentario a San Giovanni),
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di Alessandria al tempo dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche (" ofitiche "), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda .delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano ricostruire vari sistemi valentiniani, nel suo insieme abbastanza chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn ), perfetto eone, tutto in sé compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice Ippolito, è il Dio di Valentino, in quanto tutto è in sé solitario, unico, senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito, Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia (charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie, delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto - prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia. Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zo~) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni], quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro.
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accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e Chiesa (Ecclesla). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quattro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla .sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Ecclesfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni... taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale, diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone l'incommensurabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade, emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso, all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui: protesa com'era sempre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è detta ... -Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si distolse (cosl) da quel rapimento contemplativo . ... Questo Confine (Horos) si chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore (Karpistés) ... Per mezzo suo la Sophia fu purificata e consolidata e restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthùmesis con l'Angoscia sopraggiunta, essa ... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis, insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e principio femminile . ... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa) per riguardo al Padre ... cioè Cristo e Spirito Santo ... e mentre il Cristo insegna [agli eoni l
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la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento, tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro comune, ... raccogliendo insieme ciascuno degli eoni ciò che v'era di piu bello e splendente ... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto, soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da tutti egli proveniva ... : ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui . ... Quanto poi a ciò che è fuori del Pléroma ... la Passione (Enthùmesis) della Sophia superiore, detta Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina], esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nell'ombra e nel vuoto ... come aborto ... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos: ... sopravvenne allora in essa un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta del Salvatore ... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [ Achamoth] aveva generato, cioè l'elemento spirituale [ Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma ... E dalla sostanza psichica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale... ; [quest'ultimo] creò le cose celesti e terrene, ... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui, ·il Demiurgo ... Creato il mondo, quest' [ultimo] creò anche l'uomo materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato dalla Madre ... Achamoth... è spirituale ... ; l'uomo spirituale, che era nato dalla Sophfa, seminato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme ... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale ... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello che è spirituale ... e questo ... è il "sale" e la "luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta conoscenza -gnosi- di Dio e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, antologia di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963).
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Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, venature diverse con cui si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, T eodato, Bardesane : Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, T olomeo (di T olomeo, conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la meditazione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitagorici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accantonate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di rinnovarsi, per .cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri. V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcio ne non è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tornato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am·
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aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcio ne, convinto della verità del suo V angelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di comunità particolari solidamente organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico successore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testimonianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive 'ha riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a non interpretare le Scritture .del Vecchio Testamento e del nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture in senso proprio e letterale... " (Leisegang, cit., p. 186). In realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di punizione. Cristo, dunque, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio "giusto" e punitivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento. Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;) in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena, apparte,nente alla setta marcionita.
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figlio del Dio buono, si rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio del Vecchio Testamento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo, e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è assolutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto, che salva . l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere" (gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottilmente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano dell'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Marcione della Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposizione che va considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione culturale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute sviluppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96
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ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigurate (il che, d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono). E qui particolarmente pensiamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale, il "ma ndeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta conosCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costituente nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto .limiti estremi, figura e perciò corporeità che presuppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio in vi~ sulla terra la gnosi della vita, personificata nel. profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il battesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere fondamentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero ... (in H. v. Glasenapp, Le religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una setta battista della bassa Babilonia,
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ma da essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/ 8 perché, insieme al "mandeismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il " manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo, ma un atteggiamento storicamente determinabile, fondato sul concetto di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi. b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso (piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso del II secolo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta -, piu un dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso perfetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimisticomagici della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit18 Mani, nato nel 216 d. C., a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, persiano, emigrato in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea, ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul principio del. 277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere
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tura, lo scriba di Osiride, del libro che mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si possono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita, afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura. Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, mediante cui si costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione, condizione della ricerca stessa, che, proprio per questo, non la si raggiunge mediante la ricerca. Simbolicamente, perciò, si 'può dire che tale intuizione è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti ( ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei sensi corporei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono Pimandro, il Niis della sovranità assoluta. So quello che vuoi, ed ovunque io sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti, comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai, "desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp. Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in .alcuni vi è un dualismo tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica di origine pitagorica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf, evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione,
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in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come rivelazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni dell'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno, comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ragione. E tale comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui, alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo è dato all'uomo d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che posseggono la conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso, che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I - Pimandro -, 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6) •.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice. Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano "essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano " materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7). Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio, che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici per chi sia preso dai sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100
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struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Universo nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si capisce cos( come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio, Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il Niis, donde derivano gli dèi e le ,anime; che la materia considerata a sé sia il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male (7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo, abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riunisCe in unità l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pensiero (rivelazione della divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità, risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e una in fine. T aie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi" (evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica).
La pura filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante' la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione, poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore, riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola, è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto, questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si risolve anche il male. e il limite, qualora esso sia visto come un momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per simboli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli
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altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella riduzione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'artista raggiunge nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere direttamente l'atto costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e Rinascimento, Bari, 1961 2 , p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile della morte : solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi, rifacendosi al Festugière, ha con molta precisione sottolineato ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara distinzione tra il Pimandro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero che non si deve dimenticare la sottile e profonda parentela sotterranea che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guardano, e si ascoltano e ci- ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della tecnica astrologica : cfr. T olomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2)" (Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Gli «oracoli caldaici." Sotto questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi,"
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propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLx
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daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sembra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894) presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo intelletto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i " due caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V ), che ti è necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riuscirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen-
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siero che assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellettuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee scaturiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.).
Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria immagine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identificarsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scintilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa" : p. 26 K.). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricondotte alla loro unità dalle anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos( il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fondamentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giamblico, a P rodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica
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universale, poste precise relazioni mimetiche tra ,tutte le cose, di far convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la rassomiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, immagini di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle simpatie, dei segni, dei simboli, dei rapporti correnti tra le cose, tra le luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità; l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale, operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui evocare l'anima, le potenze divine, rispecchiarle (di qui anche la suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo : I maestri dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni elementi ed altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cos( fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre la forma del modello" (da Festugière, La révél., cit., I, pp. 134 sgg.; anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman., 1960). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse
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l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur respingendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che dettero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirniglianze, ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica, che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa ... Quanto ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica vita universale - sorge per necessità di natura; le .cose, di per se stesse, aggiungono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qualcosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: regnano, nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estranee; inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contribuiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi naturalmente amano e gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attrazione tra di loro cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi
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atteggiandosi in una determinata posizione attirano su se stessi, senza rumore, inBuenze, appunto perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a voler supporre un mago siffatto fuori dell'universo, egli allora non potrebbe esercitare né ' le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire, il senso, per legge di consonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche nell'Universo, dottli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~ ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41).
6. La componente cristiana e la formazione delle "verità" cristiane nel
li secolo a) Apologisti e apologetica in greco: .da Quadrato e Aristide a Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo di Antiochia. Senza dubbio lento e faticoso fu, nel suo incontro con le componenti culturali del tempo, lo svolgimento e il costituirsi di quello che venne poi detto il "pensiero cristiano." Da principio fondato su elementi assai semplici (cfr. sopra), il Cristanesimo venne subito complicandosi e trasformandosi, o in quanto per giustificare se stesso abbia cercato di chiarire sé di fronte alle altre concezioni e filosofie circolanti e di fronte all'opposizione dello Stato (apologetica in sense largo e apologie nel senso giuridico del termine, cioè scritti giuridici rivolti all'imperatore o alle autorità per avere il riconoscimento legale della propria religione, ingiustamente accusata), o in quanto abbia, nell'àmbito dello stesso cristianesimo, rifiutato certe interpretazioni della figura del Cristo e della posizione di lui nell'economia dell'universo (la polemica di certi cristiani contro lo "gnosticismo," detto eretico), o, in quanto, infine, si sia cercato di giustificare su di un piano teoretico la propria fede ("gnosi cristiana," quale sulla fine del n secolo si delineerà, in Alessandria, con Clemente Alessandrino, nell'àmbito della prima scuola teologica cristiana). Certo, è su queste tre linee che va considerato il formarsi del pensiero cristiano lungo il corso del n secolo d. C. Non solo, ma vanno anche tenute presenti, per rendersi conto di non pochi equivoci, molte
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sfumature di linguaggio, la ripresa di termini che, ebraici in principio, tradotti in greco suonavano in ben diversa maniera, assumevano su di sé il peso di una tradizione e di significati the non avevano affatto in ebraico, quando non venivano ad evocare concetti opposti (vedi sopra San Paolo), e vanno insieme tenuti presenti gli ambienti culturali, le origini, le particolari formazioni dei singoli pensatori cristiani attraverso cui si è venuta svolgendo e costituendo quella che sarà la "filosofia cristiana" (sarà S. Agostino il primo a parlare di filosofia cristiana). E cosi, infine, non va scordato che gran parte della prima rielaborazione del Cristianesimo fu dovuta a precise situazioni politiche, all'esigenza e alla necessità da. parte di chi professava fede cristiana di chiarire la propria posizione in funzione di difese (apologie) impiantate in termini giuridici, e perciò sulla linea da un lato dello schema retorico della difesa, dall'altro lato del compromesso, della cautela e della propaganda. Abbiamo, per altro, già visto (cfr. sopra) come fosse possibile considerare da parte dello Stato costituito estremamente pericoloso il movimento cristiano e la sua istituzione in Chiesa, e come, con ragione, se considerati entro i termini della koinè religiosa di sfondo, propria della cultura tra il I e il n secolo d. C. (ivi compreso il significato dato agli dèi dal culto delle religioni tradizionali) i Cristiani venissero considerati atei, irreligiosi, e i loro culti e riti venissero considerati con sospetto (furono accusati di antropofagia e di unioni edipee); e come, infine, i Cristiani potessero venir considerati tali da voler sostituire allo Stato un nuovo Regno. Non solo, ma, per altro verso, la tesi cristiana del "nuovo patto" con Dio veniva a cozzare con la Legge della tradizione ebraica, per cui, a loro volta, gli ebrei di stretta osservanza, anche per non essere coinvolti coi cristiani nelle accuse loro rivolte dall'autorità costituita, ·tendono a scindere la propria religione da quella cristiana. Data tale situazione, la giustificazione della posizione cristiana, fondata su di un dato di fede non poteva non essere che giustificazione e difesa di quella fede stessa e, ad un tempo, di contro alle accuse (ateismo, idolatria, oscuri riti, magia, inimicizia nei confronti dello Stato), chiarimento alla luce del giorno di quello che è il Cristianesimo, perseguitato perché mal conosciuto (cfr. San Giustino, Apologia l, c. XIII). Tale difesa si viene cosi a svolgere su tre piani: nei confronti del politeismo della religione popolare, contro cui era possibile recuperare gli argomenti a favore dell'unità del divino propri delle posizioni per un verso stoiche (relativamente al mondo e all'ordine in cui si scandisce il mondo), per altro verso platoniche (il divino uno e trascendente, ragion d'essere ineffabile çlonde tutto scaturisce e a cui si giunge dalla con-
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templazione stessa dell'ordine delle cose e dei cieli) e filoniane (Dio uno e persona, volontà e creatore ex nihilo); nei confronti della cultura ebraica, contro cui andava dimostrata la realtà storica e umana del Cristo, da cui la storicità del "nuovo patto," che trasforma, abrogandola, la vecchia legge in amore, fondandosi sulle profezie del Vecchio Testamento; nei confronti dello Stato, contro cui si doveva sostenere che il regno nuovo era altro dal "regno" storico e politico. Entro questi termini gli esiti di tale giustificazione, puntando sui primi V an geli, sulle Lettere di San Paolo e sul Vangelo di Giovanni per ciò che riguarda il "nuovo patto," sull'interpretazione del platonismo e dello stoicismo da parte di Filone l'Ebreo, per ciò che riguarda particolarmente il rapporto tra Dio e il mondo secondo il Vecchio Testamento, potevano essere due: o conciliazione tra la nuova esperienza e l'antica cultura, mostrando che il Cristianesimo è l'inverazione ultima e definitiva, mediante il l6gos di Dio, incarnatosi in Cristo, di parziali rivelazioni del l6gos, dei semi di Dio, di cui avrebbero goduto Socrate, Eraclito, Platone, alcuni Stoici, correndo, per altro, il rischio di ridurre il nuovo al vecchio; oppure, di contro a tale pericolo, la dimostrazione dell'assoluta cesura tra concezione cristiana della vita, irriducibile al metro della "filosofia," per cui il Cristianesimo, in quanto fede, non ha nulla a che fare con la "filosoffa" (tra il tempio di Salomone e il portico di Atene vi è un abisso), anche se sul piano della ragione e, perciò, del mondo, di questo mondo, possono essere assunte posizioni platoniche, stoiche, anche epicuree, usando nei confronti della possibilità di oltrepassare queste ipotesi tutte le argomentazioni degli scettici. Di Quadrato (Ko8pi-ro<; ), vissuto tra la fine del 1 secolo e il principio del 11, che indirizzò un'apologia all'imperatore Adriano (117-138), non è rimasto che un brevissimo frammento citato da Eusebio (Hist, ecci., IV, 3). Pochissimo sappiamo, per altro, della prima apologia contro gli ebrei, composta verso il 140, da Aristone di Pella, intitolata Discussione di Giasone e di Papisco intorno al Cristo (Gizsone, cristiano, sosteneva, contro l'ebreo alessandrino Papisco, basandosi sulle profezie, che Gesu è realmente il figlio di Dio: cfr. Eusebio, Hist. ecci., IV, 6). Perdute sono andate anche le apologie di Milziade (sul 160-190 scrisse tre apologie: Contro i Greci, Contro gli Ebrei, Ai principi sulla propria posizione: cfr. Eusebio, Hist. ecci., V, 17, 5) e di Apollinare vescovo di Gerapoli (scrisse sotto Marco Aurelio un'Apologia contro i Greci, una Contro gli Ebrei e un'opera Sulla verità: cfr. Eusebio, Hist. ecci., IV, 26, l e 27). La prima apologia, in ordine di tempo, che possediamo per intero,
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anche se non nel testo originale (fu ritrovata in una traduzione siriaca e in un testo greco in cui fu interpolata la leggenda dei santi Barlaam e Giosafat), è l'apologia di Aristide, detto "filosofo ateniese," ricordato da Eusebio (Hist. ecci., IV, 3, 3) dopo Quadrato (cfr. anche S. Gerolamo, De viris illus., XIX e XX), indirizzata all'imperatore Antonino Pio (138-161) e, probabilmente, composta nel 140. Piu che alcuni testi sull'unità, perfezione, immobilità, innominabilità di Dio, che nella sua onnipotenza tutto in sé racchiude, e sulla possibilità di postulare Dio, ordinatore e regolatore del tutto, attraverso la contemplazione del movimento regolato e necessario che governa l'Universo (Apologia, I)....:.. motivi tutti di certo "platonismo" e "stoicismo" propri del I e del n secolo - storicamente importante è l'impostazione dell'Apologia di Aristide. In essa si vuole sostenere che solo i Cristiani, avendo attraverso il Cristo rivelata la verità, conoscono il vero Dio, lo servono non superstiziosamente, conducono una vita degna di lui (II e XV -XVI), per cui bisogna smettere di perseguitarli convertendosi alla loro dottrina (conclusione). L'accusa di ateismo, di politeismo, di immoralità, va, invece, rivolta contro i barbari che hanno onorato non Dio ma gli elementi e gli uomini famosi (III-VI), i Greci che sono stati politeisti (VIII-XIII), gli Ebrei che pur avendo avuto la rivelazione del vero Dio, piu che Dio hanno puerilmente adorato gli angeli (XIV). In effetto Aristide, ponendo Dio uno, perfetto, ignoto e non determinabile con un nome, né maschio né femmina, condizione e perciò causa prima di tutta la realtà che in lui si risolve, se da un lato si rifa alla Genesi, dall'altro lato, anche nella terminologia, usa argomenti propri dei platonici del I e del n secolo e del piu generico stoicismo. E se decisamente egli sostiene, dunque, che non vi è che un Dio e che, conseguentemente, gli elementi e gli astri non vanno assunti come divinità, se mai come manifestazioni di Dio, uguale per tutti - Barbari, Greci, Ebrei, Cristiani -, gratuitamente egli innesta in un universo che è quello che è, né buono né cattivo, dominato non da leggi frutto di dèmoni ribelli al divino (evidente è qui la polemica di Aristide nei confronti del primo gnosticismo), la rivelazione da parte del Cristo di quella verità e di quel Dio uno e perfetto che, per altro verso, egli ricava dalla tradizione platonica. Ha scritto il Gilson che con Aristide "la visione cristiana dell'universo è fissata nelle sue grandi linee: si potrebbe chiamare 'giudaico-cristiana' non inesattamente, poiché è quella stessa che il Cristianesimo aveva ereditato dal Vecchio Testamento. La nozione di un Dio unico, creatore dell'Universo, ne è il tratto dominante. Essa si è immediatamente imposta agli spiriti dei primi scrittori cristiani, poiché si ritrova espressa con inatteso vigore
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in questa stessa epoca, nel Pastore di Erma (circa 140-145): 'Innanzi tutto, credi che non esiste che un solo Dio, che ha creato e compiuto tutte le cose, ed ha fatto si che tutte le cose venissero all'essere dal nulla' (Precetti, I, 1). Questa formula della creazione ex nihilo era, per altro, essa stessa di origine biblica (Il Maccab., VII, 28), e doveva divenire il termine tecnico usato da tutti gli scrittori cristiani per designare il fatto medesimo della creazione" (E. Gilson, La philosophie au Moyen Age, Parigi, 1947 8 , p. 16). Non sembra si possa essere cosi: netti come il Gilson, perché, in effetti, il Dio di Aristide è pur sempre il Dio uno e ineffabile, atto in atto di tutta la realtà in atto in lui, da cui segue la realtà ("non il cielo contiene Dio, ma viceversa il cielo e tutte le cose che si vedono e non si vedono sono contenute in lui... Tutte le cose sussistono per opera sua": A p., I); essa stessa perciò una in Dio, cui platonicamente, o aristotelicamente, o per analogia, come per gli stoici, si potrebbe giungere indipendentemente dal Cristo; che, in tal senso, non viene affatto logicamente giustificato o va assunto in senso gnostico e puramente miracolistico. Ben altra, sotto questo aspetto, la giustificazione di San Giustino. San Giustino,18 nato a Flavia Neapoli, in Palestina, sul principio 11 Nacque nd primi anni del 11 ~lo a Flavia Neapoli, nella Siria-Palestina, da una famiglia di origine probabilmente latina (dice Giustino che suo padre si chiamava Prisco, nome chiaramente latino: .Apol., l, 1). Fin da giovane ebbe una forte inclinazione per gli studi filosofici. Passato attraverso lo stoicismo, il pitagorismo, il platonismo (cfr. Dilli. con Tri/., ll), abbracciò alla fine il Cristianesimo, facendosene predicatore e difensore. Fu prima ad Efeso (132-135), dove si finge essere avvenuto il Dialogo con Trifone, poi a Roma, dove si stabilf, aprendo una scuola, molto simile a quelle platoniche e stoiche, in cui insegnava la dottrina cristiana, assunta come l'unica filosofia. Fu a Roma che entrò in .violento contrasto con il cinico Crescente (c& . .ApologiD Il). Sotto la prefettura di Giunio Rustico (163-167) venne accusato di appartenenza al Cristianesimo (associazione politica)· e, non avendo voluto abiurare, venpe condannato a morte. Delle opere di Giustino si sono conservate due .Apologie e il Dialogo con Trijone. Eusebio (Hist. ecci., IV, 18) ricorda, accanto a queste, i titoli di altri scritti di Giustino: Discorso Ili Greci, Con/uttnrione dei Greci, DellD monGrchiD divina, Il sa/mista, Sull'DnimD; mentre Giustino stesso nella .ApologiD I, xxv1, 8, dice di avere scritto un SintagmD contro tutte le eresie (in questa opera, forse, si trovava compreso lo scritto Contro MDrcione, citato da Ireneo, .Adv. !JGeres., IV, 6, 2). Si dubita che. il Dialogo con Trifone sia stato dlettivamente scritto al tempo del soggiorno dj Giustino ad Efeso (Trifone, un ebreo colto, dice che aveva combattuto nella guerra civile giudaica di Bar Koceba, avvenuta tra il 132 e il 135), trovandosi nel Dialogo (CXX, 6) un accenno alla PrimD .Apologill, composta certamente tra il 150 e il 155. La 'PrimD .ApologiD fu indirizzata ad Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, al Senato e a tutto il popolo romano e fu composta, a Roma, tra il 150 e il 155; la SecontlG .Apologia, indirizzata al Senato, seguf di poco la prima e, composta probabilmente nel 155; è come una appendice alla prima, di cui ripete i motivi fondamentali (fu scrirta' in occasione dell'arresto e dell'uccisione di un certo Tolomeo, messo a morte insieme ati altri due cristiani, denunciato al prefetto di Roma Urbico da parte di un marito che accusava Tolomeo di aversli convertita la moglie al Cristianesimo). n Dialogo con Tri/one, nella sua polemica nei con&onti del giudaismo, si svolge,
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del n secolo, morto a Roma, martirizzato, nel 165 circa, su sua stessa confessione abbracciò il Cristianesimo in quanto esso gli si sarebbe presentato come l'unica filosofia, come l'unica posizione che davvero avrebbe risposto al desiderio di sapere, proprio di tutti gli uomini e che Giustino afferma consistere nel desiderio di conoscere la ragion d'essere di tutta la realtà, Dio, per cui chi realmente è filosofo non può essere né platonico, né stoico, né peripatetico, né pitagorico, ché la filosofia è 11 una scienza unica" (Dialogo con Trifone, II, 1). Poiché, d'altra parte, Giustino sostiene che solo nel Cristianesimo si riesce a cogliere in pieno la verità e che in esso solo si spiegano cose rimaste contraddittorie e perciò non vere, anche in Platone, che pure è l'unico che insieme a Socratt-. e a certi stoici di piu si avvicina ai Profeti dell'Anlico Testamento e al Cristianesimo, Giustino può giungere ad affermare che l'unica filosofia è il Cristianesimo (si badi che non .si dice che il Cristianesimo è una filosofia, né che esiste una filosofia cristiana) e che le altre sono vere, cioè filosofie, per quanto si avvicinano al Cristianesimo, all'unica "filosofia." "La filosofia è la scienza (btta't"'j!L"'l ) dell'Essere (-rou !lvt"o<;) e la conoscenza (yv~cnç) del vero; la felicità è la ricompensa di questa scienza e di questa sapienza (aocp(ot) •.• E Dio è colui che è sempre lo stesso, che non si modifica e che è causa dell'essere per tutto il resto" (Dialogo con Trifone, III, 4-5). Per questo, sottolinea Giustino, dopo avere seguito uno Stoico, il quale spiegava il mondo anche senza la causa prima, riducendo il divino allo stesso scandirsi della realt~, un Peripatetico, ch'egli abbandonò perché voleva esser pagato, e che perciò Giustino ritiene non vero filosofo, un Pitagorico, il quale sosteneva che fondamento del sapere sono la musica, l'astronomia, la geometria ("non si può giungere a contemplare l'essere se prima non si sono apprese queste scienze"), e che Giustino a sua volta abbandonò perché altro egli cercava dalla filodopo che Giustino ha narrato le tappe della sua formazione e della sua adesione al Cristianesimo (cc. I-VIII), su tre direttrici: l. limitazioni e imperfezioni dell'Antico Patto; 2. identità dd logos con il Dio del Vecchio Testamento, che parlò attraverso i patriarchi e i profeti, per incarnani poi nella vergine Maria; 3. significato del nuovo Patto, mediante ari si salvano tutte le gentes. • La Prim11 .A.pologill dopo aver sostenuto che non ~ giuridico condannare i Cristiani se non si provano le colpe di ~i sono accusati (cc. I-III), si svolge su due linee, mediante cui si vuoi dimostrare che i Cristiani non sono colpevoli: l. I Cristiani non sono atei, anche se negano una molteplicità di d~i e di idoli, non sono immorali, le loro riunioni non implicano consorterie ai danni dell'Impero (cc. IV-XID); 2. La dimostrazione: di tutto questo ~ chiara, allorcM si faccia conoseere in che consiste la filosofia dci Cristiani (cc. XID-LX) (quale sia la loro morale, quali i loro principi, chi sia il loro fondatore, quale la loro storia, quale il loro culto, quale l'iniziazione dci suoi adepti). - La Second11 .Apologia ripete, in breve, forse con pi6 forza, i motivi della prima: superiorità e completezza della filosofia dei cristiani rispetto alla filosofia precristiana; irreprensibilità della morale dei cristiani; sono i d~moni a far perse· guitare i cristiani.
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sofia, Giustino accolse con entusiasmo la lezione di un platonico: "uno dei principali del mio tempo." "Lo frequentavo piu spesso che potevo e cosi: feci notevoli progressi: ogni giorno facevo dei passi avanti; l'intelligenza degli incorporei mi affascinava, al piu alto grado; la contemplazione delle idee dava ali al mio pensiero tanto che dopo un po' credetti d'esser divenuto sapiente (aotp6~) e fui anche abbastanza ingenuo da sperare di vedere a colpo Dio: tale è, infatti, il fine della filosofia di Platone" (Dial. con Trif., II, 1-6): Solo che, prosegue Giustino, lo stesso Platonismo cade in una grave aporia. Perché sia possibile sostenere la conoscenza di Dio bisogna ammettere che l'anima è essa stessa divina (cioè che struttura della ragione e struttura dell'essere coincidono), sostanzialmente divina, ingenerata, e' che perciò tutti gli animali sono divini, eterni, onde non si capisce come essi, in quanto divini, cadano nei corpi, e perché debbano trasmigrare e cosi: via; tanto meno ci sarebbe poi una libertà umana, mentre contraddittoria resta l'ipotesi da Platone espressa nel Timeo (Dial. con Trif., IV-VI). Nel Dialogo con Trifone, in cui Giustino riporta una discussione avuta con Trifone, un ebreo colto, tenuta ad Efeso nel 132-135 (Trifone dice d'aver partecipato alla guerra di Bar Koceba, avvenuta tra il 132 e il 135), certo molto posteriore (vi è nel Dialogo un accenno alla l ApologJ'a, senza dubbio composta tra il 150 e il 155, per cui si pensa che il Dialogo sia stato composto tra il 155 e il 161: cfr. Dial., CXX, 6), Giustino tenta di convincere gli ebrei della messianità di Gesu Cristo e che, appunto, pur fondandosi sulle verità parziali espresse dal V ecchio Testamento, il Cristianesimo è l'unica e vera filosofia, che non solo risolve in sé le profezie e le verità del Vecchio Testamento, ma anche le parziali verità espresse dalla cultura greca, ché tutte sono rivelazione dell'unico Dio, mediante il L6gos, per cui il Cristianesimo si presenta come la filosofia unica e perciò universale, entro cui tutti gli uomini possono raggiungere una universale pacificazione. Ora, pur mantenendo l'aspetto piu profondo del platonismo e dello stoicismo, nella ·loro aspirazione alla conoscenza dell'unica divinità, come causa e principio di tutto, il suo passaggio al Cristianesimo, dovuto a un suo colloquio con un vecchio santo cristiano, consiste nel fatto che la tesi cristianà, rivelata dal Cristo, con cui si compiòno le parziali rivelazioni dovute al L6gos di Dio, avrebbe risolto le aporie ancora implicite nel platonismo relativamente all'anima. Jn realtà l'anima non è ingenerata, né, come i corpi e tutta la realtà voluti da Dio, che sono in quanto frutto dell'opera divina - resta incerto in Giustino se la realtà sia stata costituita da Dio e:r nihilo -, l'anima è mortale o immortale per sé, ma come tutta la realtà è generata, cosi: lo è anche l'anima; ed essa è immortale solo se
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Dio lo vuole, cos( come se Dio lo vuole possono essere immortali anche i corpi. Si spiega cos(, secondo Giustino, una volta ammesso che l'anima è generata, da un lato la libertà stessa dell'uomo, dall'altro lato che l'anima, non essendo essa stessa vita e divina, può tornare a Dio e conoscerlo, non in quanto essa è razionale come Dio, ma in quanto è Dio che rivela all'anima la sua razionalità, il suo verbo. Senza il verbo perciò, senza l'illuminazione da parte di Dio non vi sarebbe ragione, che, a sua volta, può entrare in funzione solo in quanto tenda a illuminare la fede. La tua dottrina, disse il vecchio, è, dunque, quella che Platone nel Tirneo lascia capire relativamente al mondo, quando dice che è corruttibile perché prodotto (Dia/. con Trif., V, 4) .. , Ma se il mondo è generato, bisogna che lo siano anche le anime e che, dunque, esse non esistano per sé, per cui esse non sono immortali (Dia/ con Trif., V, 2) ... Ora, poiché tutto ciò che è da Dio e tutto ciò che sarà, è di natura corruttibile, tutto può sparire e non essere piu. Solo Dio è ingenerato e incorruttibile, ed è appunto questo che fa si che sia Dio, mentre tutto quello che vien dopo di lui è generato e corruttibile. Ecco perché le anime muoiono e sono punite, poiché se esse fossero ingenerate non peccherebbero, non sarebbero prese dalla follia, non sarebbero ora vili ora coraggiose, né andrebbero ad abitare un porco, un serpe o un cane, né, tanto piu, potrebbero es~re costrette, se, ripeto, fossero ingenerate ... Non solo, ma l'ingenerato non potrebbe essere molteplice. Supponendo, anzi, che vi sia una differenza tra piu ingenerati, non ne troveresti mai la causa, ma la tua mente, in quanto discorsiva, andando all'infinito, si fermerà a fatica, a caso, su un essere ingenerato che dirai causa del tutto. Questo è ciò che, dico io, è sfuggito a quei saggi uomini che furono Platone e Pitagora, che sono divenuti per noi il fondamento della filosofia? Io non mi curo affatto, disse il vecchio, né di Platone né di Pitagora s{ come per nulla mi curo di chi la pensa come loro. La verità è quella che ti ho detto. Lo puoi constatare. O l'anima è vita oppure. ha vita (~ ~Jiux.~ ~TOL ~c.>i} ~O'TLV '1) ~c.>~v lx_&L ). Se fosse vita, sarebbe un altro essere a farla vivere, non essa stessa, sf come il movimento mette in movimento un altro essere piuttosto che se stesso. Tuttavia che l'anima vive nessuno lo mette in dubbio. Ma se vive, non è perché sia vita, ma perché ha avuto una parte di vita: ora ciò che partecipa di qualcosa è diverso da ciò di cui partecipa. L'anima partecipa della vita, poiché la sua vita è Dio che la vuole (~nd ~1jv cxò-rljv ò &eòc; ~ooÀ&TCXL ). E cosi essa non parteciperà piu della vita, allorché Dio non vorrà piu ch'essa viva. La vita infatti non è una proprietà dell'anima, sf come lo è di Dio ... - A quale maestro, domando io, si può ricorrere, dove trovare un aiuto, se anche in Platone e in Pitagora non è la verità -. Nei tempi passati, rispose, ben piu antichi di tutti questi pretesi filosofi, vi sono stati uomini beati, giusti, amici di Dio, che parlavano per virtu del soffio divino (&c(cp 1tVCO(.tCXT1) e che davano all'avvenire oracoli che oggi si sono compiuti: profeti vengono chiamati... Non per dimo-
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strazione essi hanno parlato: al di sopra di ogni dimostrazione, essi erano i degni testimoni della verità; sono gli avvenimenti passati e presenti che costringono ad accettare ciò che hanno detto. I prodigi che hanno compiuto dimostrano che è giusto che sian creduti, essi che hanno glorificato il fattore [7tOt'l)'t"/jt;: sottolineiamo il termine usato da Giustino, in quanto, forse, egli, con esso, intendeva chiarire che Dio non è tanto il principio che dà forma, ma una volontà mediante cui ha realtà qualcosa che non è in natura, ma assume una propria natura· distinguendosi e prendendo una propria realtà indipendente dal suo fattore: si ricordi in tal senso la differenza posta da Aristotele tra pratica e poieeica] dell'Universo, Dio e Padre, essi che hanno annunciato il Cristo che proviene da lui, suo figlio [e qui va sottolineato che Cristo non vien dopo il Padre, ma è da Dio, e che nella terminologia del tempo ciò implica ch'egli stesso è Divino, e perciò verbo, l&gos, di Dio] ... Nessuno, perciò, può vedere né comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli dànno la capacità di comprendere ... - Un fuoco immediato illuminò allora l'anima mia, e fui preso d'amore per i profeti e per questi uomini amici del Cristo ..., trovando quindi che questa filosofia era la sola sicura e profittevole ... (Dial. con Trif., V, 4; VITI, 1).
Dio uno e anonimo dunque, ignoto se ad esso si vuoi giungere per le vie delle scienze e della mera razionalità, condizione dell'essere di tutta la realtà (in senso platonico e aristotelico), egli è il fattore (poieta) di tutto (interpretazione della Genesi· attraverso Filone l'Ebreo), che al tutto dà fondamento mediante se stesso, onde tutte le cose sono ed hanno una loro ragione, in quanto frutto della ragione (Myot; ), del verbo divino, per cui tutto e tutti fin dalla propria origine hanno, in quanto esistono, essere, in virtu del soffio divino, hanno, per virtu di Dio e per sua imperscrutabile volontà, un seme logico (tale il senso con cui vengono interpretati i l6goi spermatik6i degli stoici). Se tutto ciò da un lato spiega le parole del V ecchil!, Testamento, dall'altro lato spiega come già prima del Cristo i cosiddetti filosofi greci abbiano potuto, mediante ill6gos, avvicinarsi alla verità, che, tuttavia, nella sua compiutezza viene da Dio definitivamente rivelata mediante l'invio del Cristo - in cui si conciliano, nell'unica verità, tutte le concezioni filosofiche e religiose determinatesi nel tempo, prima della vita e della morte in terra del figlio di Dio, Verbo di Dio -. Prima di tutte le creature Dio generò da sé, come principio, una potenza razionale [cfr. Proverbi, VIII, 22] che è anche chiamata dallo Spirito Santo "gloria del Signore" [Esodo, XVI, 7, 10 sgg.] e talvolta "figlio" [Salmi, II, 7 sgg.], talvolta "sapienza" [Proverbi, VIII, l sgg.], talvolta "Dio" [Genesi, XVIII, l sgg.], talvolta • signore e ragione" [Genesi, XVIII, 33; Salmi, XXXII, 6 sgg.] e che una volta chiama se stesso • comandante su-
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premo" [Giosuè, V, 14] apparso in forma di uomo a Gesu figlio di Nave: e certo tutti i nomi gli convengono perché obh!!disce alla volontà paterna e perché è stato generato dal volere del Padre. E non vediamo accadere qualcosa del genere anche a noi? Quando noi pronunciamo una parola (Myo~) la generiamo, e, proferendola, non si ha un distacco, con l'esaurirsi in noi della ragione (Myo~) che parla (Àéy&Lv ). E cos{ vediamo da una fiamma nascerne un'altra, senza che quella da cui si accende diminuisca, ma rimane sempre uguale; e la fiamma che si è accesa dalla prima sta anche essa a sé e risplende senza diminuire quella dalla quale è stata accesa (Dial. con Trif., LXI, 1-2). Solo, dunque, attraverso la fede nella ragione di Dio, cioè nel Cristo, ragione e perciò verbo di Dio, assume un senso la ragione umana, tale in quanto, anch'essa verbo di Dio, che si è compiuto in Cristo ("noi imparammo che il Cris~o è il primogenito di Dio e che è la ragione, della quale partecipa tutto il genere umano; e coloro che vissero secondo ragione sono cristiani, anche se furono creduti atei; come tra i Greci Socrate, Eraclito e altri come loro; e tra i barbari, Abramo, Anania, Azario, Misael, Elia, e altri molti; e cosf, anche, coloro che nacquero prima e vissero senza ragione erano malvagi e nemici di Cristo e uccisori di coloro che vivono secondo ragione; ma quelli che vissero e vivono secondo ragione sono cristiani impavidi e tranquilli" : Apologia prima, 46). Con la venuta del Cristo, dunque, si compie anche la storia · dello sforzo umano di ricercare il vero: se l'anima umana è immortale e razionale non in sé, ma per volontà di Dio, i filosofi antichi stessi e i profeti, se hanno saputo usare ·la ragione, lo hanno potuto perché in essi si è diffuso ill6gos divino, perché Dio ha dato loro un s~e. razionale; solo che tale seminagione, che ha permesso di cogliere certe verità è stata parziale .ed ecco perché i filosofi in quanto non hanno conosciuto il Cristo non hanno potuto cogliere in pieno e conclusivamente la verità, abbandonandosi per il resto a interpretare fantasticamente le favole e i miti della cultura e della religione precedenti il Cristo. Solo che, tagliate via quelle favole, combattute le nuove favole, dovute ai dèmoni malvagi, nemici di Cristo e di Dio (e Giustino cosf si oppone all'interpretazione del Cristo da parte di Simon Mago, Saturnilo, Marcione), dimostrata agli Ebrei la necessità storica del Cristo, nel Cristianesimo si risolvono e acquistano il loro piu pieno significato sia la visione razionale dei Gentili, si!l le profezie e i racconti del V eà:hio Testamento, in un'universale pacificazione, volta al bene dell'umanità tutta, della salvazione dell'uomo, per cui è un dovere farsi testimo,; della fede in Cristo. Se questo si conosce, se si conosce la moralid insegnata dal V angelo, se ci si rende conto che il Cristianesimo non
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nega né le religioni, né le concezioni del passato, ma le invera, dovrebbero cadere da sé le accuse contro i cristiani, .l'odio di cui sono oggetto sia da parte ebraica (cfr. Dialogo con Trifone) sia da parte grecoromana (Apologia l e Apologia Il: l'Apologia l fu indirizzata ad Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio V ero, al Senato e a tutto il popolo romano e fu composta, a Roma, tra il 150 e il 155; la Apologia Il, indirizzata al Senato, segu( di poco la prima e, composta probabilmente nel 155, è come un'appendice alla prima, di cui ripete i motivi fondamentali: fu scritta in occasione dell'arresto e dell'uccisione di un certo Tolomeo, messo a morte insieme ad altri due cristiani, denunciato al prefetto di Roma Urbico da parte d' •m marito che accusava Tolomeo di avergli convertita la moglie al Cristianesimo). SI, certo, lo confessiamo, noi siamo gli atei degli dèi e dei dèmoni, ma crediamo nel Dio verissimo padre della giustizia, della saggezza e delle altre virtu e nel quale non è presente alcun male. E insieme a lui veneriamo, adoriamo col pensiero e in verità il figlio venuto da lui, che ci ha dato i presenti insegnamenti, e l'esercito degli altri angeli buoni che lo scortano e che gli assomigliano, e, infine, lo spirito profeti co ( ll VE:U(L~ -re: -rÒ 1tpO
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gnato appartiene a noi, ai cristiani. Dopo Dio, infatti, adoriamo e amiamo il Verbo (il Myoç) di Dio ingenerato e indiscorribile (&pp1J'tOç), che si è fatto uomo per noi, per guarirci dei nostri mali prendendovi parte. Gli scrittori hanno potuto vedere indistintamente la verità, grazie alla semenza del Verbo che è stato deposto in loro. Ma altro è possedere un seme ed una simiglianza proporzionata alle proprie capacità, altro lo stesso oggetto la cui partecipazione e imitazione procede dalla grazia che proviene da lui .. (Apologia seconda, XIII, 2-6). La nostra dottrina si dimostra superiore ad ogni insegnamento umano per il fatto che ciò che è razionale (ÀoyLx6v, loghik6n) è il Cristo, manifestatosi per noi corpo, ragione (l6gos, verbo) e anima. Tutto quello che di giusto, sempre, hanno proclamato e scoperto filosofi e legislatori, è stata loro faticosa conquista di scoperta c. di riflessione secondo una parte della ragione (l6gos, verbo). Ma siccome non erano arri vati a conoscere tutto della Ragiorie , (del Verbo, l6gos ), che è Cristo, spesso dissero anche cose in contraddiziohe con se stessi. E quelli che, vissuti prima di Cristo, si sforzarono con la ragione, per quanto possibile all'uomo, di considerare quanto si faceva e di mostrarne l'erroneità, furono trascinati in giudizio come empi e vani. Anzi, colui che di tutti costoro fu il piu coraggioso in questa ricerca, Socrate, fu imputato degli stessi crimini rinfacciati a noi. Si disse che introduceva nuove divinità e non credeva in quegli dèi che la città riconosce come tali [Platone, Apol., 24bl ... Contro i dèmoni malvagi Socrate incoraggiava gli uomini, con l'investigazione del l6gos, alla conoscenza superiore del Dio ignoto [ àgnostos T he6s: evidente reminiscenza del Dio ignoto di San Paolo, che nel discorso all'Areopago imposta la questione del rapporto tra l'antica cultura e l'esperienza cristiana in termini che potevano essere interpretati nel senso espresso da Giustino: cfr. Atti degli A p., 17, 33, e, sopra, il passo riportato l dicendo: " non è facile trovare il Padre e demiurgo di tutte le cose, e trovatolo, non è senza pericolo predicarlo a tutti" [Platone, Timeo, 28c l [dove va sottolineato che qui Giustino dice di Dio che è demiurgo, in quanto cita Platone, mentre quando non cita usa per Dio il termini= poietès, dando evidentemente a poietès il significato di "creatore" l· Questo il nostro Cristo lo fece in virtu della sua propria potenza ... e da lui furono convinti a morire per questa dottrina non solo i filosofi e gli uomini colti, ma anche quanti lavorano manualmente e la gente piu umile. Questa è forza wopria del Padre invisibile, non un fatto dovuto alla ragione umana (Apo"logia seconda, X, 1-8).
Nelle sue linee generali l'interpretazione data .da San Giustino del Cristianesimo è assai precisa. Egli si rifà da un lato al discorso di San Paolo nell'Areopago, che gli permette di recuperare il fondamento piu generico della filosofia platonica e di quella stoica (che seguitavano ad essere la visione di sfondo della cultura propria del tempo), dall'altro lato alla concezione del V ccchio Testamento propria di Filone l'Ebreo (ivi compresa gran parte dell'interpretazione allegorica). Giustino pone,
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dunque, Dio uno e indiscorribile, invisibile e innominabile, fattore (poièta) di tutta la realtà, senza, con questo, che Dio si risolva nella stessa realtà. Dio si manifesta mediante 'il proprio Verbo - che è la medesima ragione e parola di Dio, per cui attraverso il Verbo le cose assumono la loro ragione - e lo Spirito Santo, soffio divino. Dio ha fatto l'universo tutto ed ha sottomesso all'uomo tutto ciò che è sulla terra. Per sua legge divina, gli astri. del cielo, ch'egli chiaramente ha fatto per gli uomini, debbono concorrere alla crescita dei frutti della terra e al cangiamento delle stagioni. La cura di vegliare sugli uomini e sulle creature che sono sotto il cielo egli l'ha affidata agli angeli ... Ma gli angeli, violando quest'ordine..., hanno poi asservito il genere umano, sia con arti magiche, sia col terrore e i tormenti, sia facendosi off'rire sacrifici... Il fattore dell'Universo non ha nome, perché non è generato. Ricevere un nome, difatti, implica che vi sia qualcuno che sia prima e che, appunto, dia un nome. Questi termini Padre, Dio, Creatore [il termine è xT(
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terna a Dio la materia informe, o se anche la materia sia dovuta a un atto di Dio, per cui davvero la creazione è ex nihilo; non chiaro altresl è se il passaggio dall'Uno Dio all'uomo molteplice e limite sia dovuto a un atto di ribellione proprio dell'uomo, o, come senibra, a un atto di ribellione degli angeli, in una interpretazione di un test0 della Genesi (6, l sgg.) molto vicino all'interpretazione che di quello stesso passo dà Valentino (Valentino, in Ireneo, Adv. haeres., I, l, l, sgg.; San Giustino, Apologia prima, V, 2); e cosi si prestano ad equivoci interpretativi certe immagini usate da San Giustino, come l'immagine del rapporto tra una fiamma che accende un'altra senza che la prima si esaurisca nella seconda, per spiegare il rapporto tra la divinità e il suo l6gos (cfr. Dialogo con Trifone, LXI, 1-2) (immagine propria di certi testi platonici che interpretata nel senso platonico porterebbe ad altre conseguenze, anche nel rapporto Uno-molti in San Giustino, SI come è per Numenio di Apamea, il quale, appunto, usa la stessa immagine: "un lume, acceso da un altro lume, ha luce senza toglierla dal precedente": in Eusebio, Praep. ev., XI, 18). Di contro, vi sono in Giustino dei testi molto precisi, attraverso cui si delinea un complesso di motivi, che pur innestandosi sul fondo di vecchi contenuti, ne rinnovano il significato e dànno luogo a tutto un insieme di interpretazioni che costituiscono il nucleo della "filosofia cristiana," e ove soprattutto colpisce, in un rovesciamento della "pistis sophfa" gnostica, il motivo di una gnosi t:ristiana, cioè della sofia e della ragione che assumono un senso e una funzione chiarificatrice solo in quanto si poggino sulla fede, sulla rivelazione della ragione alla ragione dovuta all'intervento storico del Cristo. E qui particolarmente pensiamo a quei testi di Giustino da cui chiaramente appare: Dio volontà, egli unico Dio e fattore del tutto, poeta separato dalla sua poesia, in cui egli non si esaurisce; razionale il tutto, non per sua essenza o realizzazione di Dio, ma per volontà di Dio, egli ragione delle ragioni; non sostanzialmente divine le anime, né frammenti di Dio; le anime, generate, fanno, nell'uomo, un tutt'uno coi corpi, ed esse, come i corpi, potranno essere immortali per volontà di Dio; il Verbo di Dio ragione della realtà; il Verbo di .Dio, Cristo, fattosi uomo, natò dalla Vergine, per volere di Dio, attraverso cui si salva l'uomo, e mediante cui, realizzandosi le profezie del Vecchio Testamento, viene abrogato il vecchio patto, la vecchia Legge e si costituisce; per volere di Dio, la nuova alleanza; recupero di tesi platoniche, eraclitee, stoiche, in quanto corrispondenti alla rivelazione del Cristo, e all'esigenza umana di cogliere attraverso la realtà la ragion d'essere del tutto, Dio, interpretate in chiave giudaicocristiana, tanto che, talvolta, rifacendosi a Filone l'Ebreo, Giustino
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afferma che quanto di giusto si trova in Socrate, in Platone, negli Stoici,
è dovuto al fatto che in essi, parzialmente, Dio si è rivelato, dando loro "semi di verità," ma anche che Platone molte delle sue dottrine le ha ricavate, sia pur male interpretando, da una diretta lettura del Vecchio Testamento. A tale proposito, anzi, sembra di non poco interesse ricordare una pagina di Giustino in cui egli sostiene che la raffigurazione nella lettera X (cht), con cui Platone, nel Timeo (36b-d) rappresenta il movimento del "medesimo" e il movimento dell"' altro," mediante la tensione dei quali si manifesta, articolando il tutto in unità, l'" anima del mondo," Platone l'avrebbe ricavata da una diretta lettura della Genesi e dei Numeri. Nei Numeri (XXI, 8) si narra che al tempo della fuga dall'Egitto, allorché nel deserto gli Ebrei furono assaliti da serpenti velenosi, Mosè, per ispirazione e ordine di Dio, fece una croce di bronzo che innalzò sul tabernacolo, dicendo al popolo: "Guardate con fede questo segno e in esso sarete salvi." "Platone," dice Giustino, "lesse questo racconto, ma senza ben comprendere. Egli non vide che quel segno era una croce : credette che fosse una X (clu) e disse che dopo il primo Dio, la seconda potenza si era impressa nell'Universo a forma di x. E se Platone nomina anche la terza potenza, lo fa perché aveva letto in Mosè [Genesi, I, l, 2-3] che lo Spirito di Dio si muoveva sopra le acque. Il secondo posto Platone, dunque, lo dà al Verbo di Dio, ch'egli mostra imprimersi in una X (cht) nell'universo, e il terzo posto allo Spirito di Dio" (Apologia prima, LX, 3 sgg.), con cui si compie l'anima del mondo. Di qui, piu tardi, il passo ad interpretare lo Spirito Santo come "anima m un di" era breve. Taziano,20 "filosofo barbaro, nato in terra assira," com'egli stesso 20 Nato in Assiria, cioè nella Siria di là dal Tiri, nel 120 circa, Taziano ricevette da giovane un'educazione assai accurata di tipo ellenistico-enciclopedico. Rètore-sofista, maestro itin~rante, brillante conferenziere, Taziano ebbe sempre notevoli interessi per i problemi religiosi (non a caso si fece iniziare a piu misteri nella speranza di cogliervi la verità): profondamente lo colpirono i libri sacri degli Ebrei e le sacre scritture dei Cri· stiani (cfr. Discorso ai Greci, XXIX). Probabilmente abbracciò il Cristianesimo quando, giunto a Roma, frequentò la scuola di Giustino (cfr. sopra), del quale rimase discepolo fino alla morte, anch'egli, come Gimtino, entrando in polemica· con il cinico Crescente (cfr. Discorso ai Greci, XIX). Morto Giustino, secondo Ireneo (Haeres., I, 28, 1), Taziano s'inorgogll a tal punto per essere l'erede del maestro, che si credette superiore a tutti, tanto che, fondata una propria scuola, si distaccò anche dalla Chiesa (circa nel 172). Lasciata Roma, Taziano tornò in Oriente. Ignota è la data della sua morte. Delle molte opere di Taziano (Sugli animali, o Sugli esseri viventi, ricordata da Taziano in Discorso ai Greci, XV; Sulla natura dei d~moni, in Disc. ai Greci, XVI, è indicata come ancora da scrivere; Contro coloro che hanno parlato delle cose di Dio, citata in Disc. ai G,.., XL; Libro dei problemi, citata da Rodone, discepolo in Roma di Taziano, in Eusebio, Hist. ecci., V, 13, 8; Sulla perfezione secondo il Salvatore, citata da Clemente Alessandrino, Stromata, III, 13, in cui si condanna il matrimonio, e o:he, perciò, dev'essere stata scritta
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dice, nel suo Discorso ai Greci, 42, l'unica opera di lui rimasta, "ma educato prima nelle discipline dei Greci, poi in quelle che ora predico," cioè il Cristianesimo, nato tra il 120 e il 130 d. C., porta a estreme conseguenze la tesi - già presente in Filone e in Giuseppe ebrei -, ripresa da Giustino, che fu, in Roma, seguito da Taziano, secondo la quale il poco di vero che si rintraccia nel pensiero greco sarebbe stato dai Greci infidamente copiato dalle Sacre Scritture ebraiche. Taziano, anzi, esaspera tale motivo, fino a sostenere che tutta la cultura greca è da rifiutare in blocco, che nulla è greco, che tutto proviene dall'oriente. In realtà, Taziano, da quel retore e "filosofo itinerante" ch'era stato, puntando sull'ipotesi che tutto quel che di vero c'è nel pensiero greco è stato dai Greci rubato e ripreso dalle Sacre Scritture, accantona gli aspetti piu alti della filosofia greca, per sottolineare gli aspetti piu popolari, favolistici, banali di quella cultura, interpretando poi, proprio in chiave stoica e platonica ·- del platonismo e dello stoicismo del n secolo i testi delle Sacre Scritture, per rifiutare, passo passo, la teologia ellenica. Il giuoco di Taziano è il solito: accantonata come inesistente la filosofia greca, e prese di mira le favole poetiche (non a caso Taziano si sforza di far vedere che tutta l'educazione greca risale ad Omero), mostrare di contro alla puerilità del politeismo, dell'idolatria, della magia, cui è legata la superstizione del fatalismo, che la risposta al problema deldopo l'abbandono da parte di Taziano delia Chiesa, nel periodo in cui abbracciò l'encratismo) due sole sono pervenute: Il discorso ai Gr~ci (My~ nplx; "E>.Àl)vetç) e il Diatessaron (3LÒ: naacipoov r:òa.yyé.ÀLOV ). Il Discorso ai Greci, scritto probabilmente dopo la morte di San Giustino (cfr. c. XVIII), ma prima dell'uscita di Taziano dalla Chiesa, e perciò tra il 165 e il 171, ~. retoricamente, molto piu vivace delle opere di Giustino, e assai piu intransigente, tanto èhe è stato piu volte avvicinato all'atteggiamento di Tertulliano (ciò è dovuto, sembra, alla preparazione e alle tecniche retorico-dialettiche sia ~i Taziano che di Tertulliano). Nel Discorso, Taziano dopo una specie di introduzione (cc. I-IV), in cui si prega i Greci di non assumere posizione negativa nei confronti dei barbari, ossia dei cristiani, che in realtà sono superiori ad essi, espone (cc. V -XXX) le principali tesi dei Cristiani (16gos, resurrezione, angeli, demoni, anime, spirito, mondo) ben superiori se paragonate alle mitologie greche, per passare, infine (cc. XXXI-XLI), a dimostrare che le tesi cristiane sono di gran lunga piu antiche e autorevoli di quelle dei gentili. 11 Diatessàron (3Lò: ucracipoov r:òa.yySÀLOV, dià tessàron etlanghélion), cioè l'opera attraverso i quattro Vangeli, oppure la ''quarta," ossia l'accordo dei quattro Vangeli (i quattro Vangeli sono presentati in una trama continua) fu, forse, scritto in siriaco (certo un frammento in greco, recentemente ritrovato, cfr. M. J: Lagrange, lntroduction au Nouveau Testament, Parigi, 1936, pp. 627-33, ha fatto pensare che la· prima stesura sia stata in greco), ed ebbe gran successo presso le Chiese di lingua siriaca che l'adottarono per il servizio liturgico. L'opera >i può ricostruire, nel suo aspetto originario, attraverso una rielaborazione latina del 541-546 (ed. Rauke, Marbourg, 1868), una traduzione araba dell'xi secodo (ed. A. Ciasca, Roma, 1888 e 1934, e A. S. Mamardij, Beyrouth, 1935), un Commento di S. Efrem, in traduzione armena (ed. veneta 1836: cfr. P. E. Essabalian, Le Diatessaron de T., Vienna, 1937); citazioni testuali fatte da scrittori siriaci (Afrate, Efrem, lsho'dad de Merv, Dionisio 13ar Salibi).
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l'essere e di quale sia la ragion d'essere del tutto è data solo dal Cristianesimo, che si pone, dunque, come l'unica filosofia. Di contro alla demonologia gnostica, al dualismo gnostico e alla tesi gnostica che il mondo non è frutto dell;opera di Dio, ma dei dèmoni, del demiurgo malvagio e cosi via, e di contro all'opposta tesi stoica che l'Universo tutto è la manifestazione attraverso cui la stessa divinità si rivela, risolvendosi nello stesso tutto, Taziano, rifacendosi da un lato alla tesi propria di Filone l'Ebreo, dall'altro lato all'ipotesi sul divino propria di certi aspetti del platonismo del n secolo (cfr. sopra), sostiene con forza che proprio in quanto l'essere non si può porre che come fondamento dell'esserci, l'essere non può non essere che uno e perfetto - esso, quindi, perché indefinibile, è indicibile e ignoto -. Essendo, dunque, l'Essere uno e perfetto, in sé tutto compiuto, il mondo, la realtà esistente non è essere, né tanto meno ciò in cui si risolve per essere ' l'Essere, ossia Dio, ch'essendo l'Essere non può che essere uno, l'unico, il solo (monoteismo). Il mondo, perciò, l'esistente non è essere, ma ha essere. E poiché, di fatto, il mondo c'è, ci sono i cieli e il loro ordine, le leggi e i fenomeni, ivi compreso l'uomo, si deve sostenere che il tutto che è, c'è in quanto ha avuto essere da Dio, cioè in quanto è stato fatto da Dio, per sua volontà, e che tutto ciò che ora esiste era, prima di venire all'essere, potenzialmente in Dio, che è, appunto, l'essere compiuto, atemporale.
Il nostro Dio non si costltmsce nel tempo (oùx ~'X.~t aUOTcxatv lv x.p6v
), egli solo (f:L6voç) senza principio è principio di tutto. Pneuma è Dio, non realizzantesi nella materia (où 8t-fjxov 8r4 njç G>.."lç ), nia fondatore degli spiriti materiali e delle figure che si disegnano sulla materia; invisibile e intangibile, egli è divenuto padre dej sensibili e degli invisibili. Questo noi lo sappiamo attraverso la sua opera (8tà; njç 7tot-fja~Cù<; cxù-rou ), e la sua invisibile potenza l'afferriamo dalle sue fatture (-roi:ç 7tot'fjf:Lcxat ). [Non le creature, dunque, il le, la luna, gli elementi, lo spirito della materia, la stessa anima, sono da adorare, bensf il padre unico, Dio, anche se attraverso le creature]. In principio era Dio e noi abbiamo appreso che il principio è potenza di Verbo (Myou Mvotf:Lt'll ). E poiché il Signore di tutto è ad un tempo fondamento ed ipostasi dell'universo, non essendo ancora avvenuta la creazione (7to(1jatç ), era egli solo (f:L6voç ~v); ma in quanto ogni potenza delle cose visibili e invisibili era in lui per la potenza del suo Verbo, egli stesso e il Verbo che era in lui conteneva tutte le cose. E per atto volontario della sua natura ~mplicissima esce da lui il Verbo; e il Verbo non procede nel vuoto, ma diventa la prima opera generata dal Padre. E questo Verbo sappiamo che è il principio del mondo (Discor>o ai Greci, 4-5).
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Unico e solo, dunque, Dio è sempre in atto e avente in sé tutte le possibilità. Egli solo l'Essere, l'ipostasi del t_utto, prima che Dio desse luogo con un atto di volontà all'esserci, non c'era nulla. O meglio, tutto è sempre in Dio. Solo che in quanto esserci, le cose, le distinzioni, la materia stessa seguono da Dio ("la materia non è, come Dio, senza principio, né, se fosse stata principio, avrebbe la stessa potenza di Dio, perché è generata e non da altri, ma proiettata, 1tpo~e~À1JJLbnl, dal solo demiurgo dell'universo": Disc. ai Gr., 5; la materia, cioè, come già troviamo in Filone l'Ebreo e in alcune interpretazioni del 1-11 secolo del Timeo di Platone, non è realtà per sé, ma, in quanto condizione dell'esserci dellè cose, è, nell'Essere, idea dell'Essere, proiezione, appunto, del Verbo di Dio, in tal senso detto demiurgo, ché creatore resta Dio, creante il Verbo, il quale a sua volta dà luogo a tutto ciò ch'era già implicito in Dio. "La materia stessa fu da Dio prodotta si che in parte essa è concepita come sénza un proprio potere e senza forma prima che venisse distinta, e in parte, dopo avvenuta la divisione in essa, come ordinata e ben disposta": Disc. ai Gr., 12; per cui anche la materia vive dei l6goi e degli spiriti di Dio). Se Dio e il mondo sono cronologicamente insieme, ché il mondo non sarebbe senza Dio (egli .la ragione del mondo, il suo l6gos), e in Dio, in quanto perfetto ed essere assoluto, non si possono distinguere tempi, un prima e un dopo - per cui Dio ha sempre fatto tutto, ha sempre tutto voluto, e la sua volontà, la sua· potenza è il suo l6gos, che è, dunque, a un tempo in lui e fuori di lui -, logicamente Dio è prima del mondo, ché il mondo non può non seguire da Dio. E questo Verbo sappiamo che è il principio del mondo. Il quale poi proviene per distribuzione, non per divisione, poiché ciò che è diviso è separato dal primo, mentre quello che è distribuito col ricevere la volontaria distribuzione di dispensazione non ha prodotto nessuna deficienza in quello da cui è desunto. Come, infatti, da una sola fiaccola si accendono molti fuochi, e dalla prima fiaccola _per l'accendersi di molte altre non diminuisce la luce, cosf anche il Verbo procedendo dalla potenza dd Padre non ha reso privo di Verbo il genitore ... (Disc. ai Gr., 5). Senza dubbio ripresa da San Giustino, come subito dopo l'esempio del rapporto pensiero-parola, l'immagine della fiaccola è pericolosa : .essa può implicare l'esistenza per sé di ciò che, pur acceso dalla prima luce, è prima, per essere acceso, insieme alla prima fiaccola. Tale immagine tuttavia spiega chiaramente cosa voleva sostenere Taziano, cioè la non risoluzione, in senso stoico, di Dio nell'esistenza della realtà (per fiaccola Taziano poteva anche intendere una ~uce in sé che non diminuisce la sua
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intensità se si divide in due luci, e che non presuppone, pe · ~;·:enire piu d'una, nulla fuori di sé). Solo che, pur ammesso che Dio è l'Essere e che nulla è fuori di Dio, e che, dunque, resistenza è da. nulla, e che questo è dovuto ad un atto volontario di Dio, poiché Dio non è temporalità, il suo stesso atto volontario è sempre, per cui se,mpre in atto in Dio è il suo Verbo e, sempre, in atto, nel Verbo, tutte le possibilità, tutta l'esistenza che viene dal Verbo e da Dio. E per quanto l'esistente non sia Dio- come, pur derivando da una certa fi9mma, la fiamma che da quella si è distaccata, non è la prima fiamma - e Dio e il suo Verbo restino sempre tutti in atto, logicamente non v'è ,creazione, ma attuazione:: dell'esistente già potenzialmente in Dio, e perciò idea e complesso di idee nel Verbo, da un lato volto verso l'Uno Dio, dall'altro a realizzare nella materia-idea, proiettata di fronte a sé, le strutture della realtà tutta. Tale esito di tipo platonico sul piano del divino (in contrapposizione allo stoicismo) e di tipo stoico sul piano del mondo e della materia potenziale, che assume esistenza in quanto si determina mediante lo Spirito ad essa dato dal Verbo, per cui essa si costituisce a guisa di grande organismo vivente, sembra mettere in contraddizione non solo il motivo della creazione e il sottinteso motivo del Dio persona e volontà, ma anche tutto il seguito d_el discorso di Taziano. Tutta la costituzione del mondo e tutto quanto ha avuto realtà è stato fatto di materia, e la materia stessa fu da Dio prodotta sf che in parte essa è concepita come senza un proprio potere e senza forma, prima che venisse distinta, e in parte, dopo avvenuta la divisione in essa, come ordinata e ben disposta. Il cielo pertanto e gli astri che sono in lui sono fatti di materia; e la terra e tutto ciò che di vivente vi è generato hanno la medesima costituzione, cosi che comune è l'origine di tutto. Stando cosi le cose, nei prodotti della materia vi sono delle differenze, per modo che questo è piu bello, quest'altro bello sf, anch'esso, ma superato da un terzo che lo vince in bellezza. Poiché come la costituzione del corpo ha un'unica organi:i"zazione, e in ciò è la causa del suo essere, e, pur essendo cosi, vi sono in lui differenze di dignità - e altro è l'occhio, altro è l'orecchio, altro la disposizione dei peli e l'organamento delle viscere e la compagine delle midolla, delle ossa e dei nervi - e, benché l'un membro sia differente dall'altro, v'è tuttavia nella loro organizzazione un'armonia di concordanza, similmente anche il mondo, rgrazie alla potenza del suo fattore, pur possedendo parti quali .piu splendide e quali diverse da quelle, per volere del suo demiurgo fu fatto partecipe di uno spirito materiale ... (Disc. ai Gr., 12). Taziano, dunque, pone che tutto proviene dal Verbo di Dio, unica creatura di Dio, e che perciò tutto necessariamente segue dal Verbo, in sé già implicito in Dio. 1116gos, quindi, è ragione e parola del mondo,
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di tutto ciò che esiste; è il demiurgo che ordina, dandogli realtà e corporeità, il proprio mondo di idee. Esse, esistendo, si distaccano dal Verbo e da Dio, assumono, in quanto consapevolezza di sé, una realtà per sé stante, fuori dal Verbo e da Dio, finché, conoscendo, ritrovano in sé il soffio, lo Spirito divino che tutte le unisce, nell'unità del Verbo, ritornano all'unità del Verbo e quindi a Dio. Entro questi termini, tra Dio trascendente ed Ente e la realtà esistente, distacratasi da Dio mediante il Verbo, Taziano pone, prima opera del Verbo, gli angeli e l'uomo. Il Verbo celeste, spmto nato dallo spmto, e ragione da potenza razionale, a imitazione del Padre che lo ha generato, fece l'uomo immagine dell'immortalità, affinché, come l'incorruttibilità è in Dio, allo stesso modo l'uomo, partecipando a questa proprietà di Dio, possedesse anche l'immortalità. Ma il Verbo prima della formazione dell'uomo si fece artefice degli angeli, e ambedue queste specie di creature sono libere di sé (ocÙ't'e:!;ouo-Lo<; ), pur non possedendo la natura della bontà, la quale solo in Dio si trova, ed è raggiunta dagli uomini per la libertà del volere (Disc. ai Gr., 7). L'affermazione di sé dell'angelo piu vicino al Verbo e a Dio (Lucifero), in cui consiste l'atto di ribellione a Dio, implica la prima caduta, l'opposizione a Dio, cui segue, cominciata con l'angelo, una catena di decadenze che va dagli angeli stessi, che divengono dèmoni, all'uomo che si spezza negli uomini (di qui il male, il peccato, l'ignoranza, la credenza nel fato, nella magia, nell'astrologia, nella medicina astrologica e cosi via) (cfr. Disc. ai Gr., 7-11), i quali ultimi, volti, per ignoranza, agli dèi, agli idoli, agli angeli ribelli, ai demòni, sempre di piu, dimentichi del Verbo e dello spirito divino che tutta la realtà regge in unità ("v'è uno spirito nei luminari del cielo, negli angeli, nelle piante e nelle acque, negli uomini, negli animali, nella materia ... ": Disc. ai Gr., 12, 4), si involgono nelle tenebre, nella lorp corporeità, mortale s1 come l'anima loro, generata, e non piu conscia dello spirito. "Noi conosciamo due specie differenti di spiriti, di cui l'una è detta anima e l'altra è superiore all'anima e immagine e somiglianza di Dio: ambedue poi si trovano nei primi uomini, s! che in parte fossero materiali e in parte superiori alla materia ... Non immortale, o Greci, è l'anima di per sé, ma mortale; per altro può essa stessa anche non morire. Poiché muore e si discioglie con il corpo se ha ignorato la verità, ma risorge da ultimo, alla fine del mondo, insieme con il corpo per ricevere in castigo la morte nell'immortalità; e, d'altra parte, non muore, anche se temporaneamente si disciolga, qualora si sia procurata la conoscenza di Dio. Di per sé, infatti, è tenebra e nulla v'è in lei di luminoso, e ciò appunto significa .il detto: "la tenebra
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non riceve la luce" [Giovanni, l, 5]. Poiché non fu l'anima a salvare lo spirito, che anzi fu da lui salvata, e la luce ricevette la tenebra in quanto che il Verbo è la luce di Dio, e l'anima ignorante è la tenebra. Lasciata a sé sola declina verso la materia e muore con la carne; se invece ottiene la congiunzione con lo spirito di Dio, non resta priva di aiuto, ma s'innalza verso quelle regioni ove la guida lo spirito, poiché di questo è in alto la dimora, di quella sta in basso l'origine. Lo spirito è stato, dunque, da principio associato all'anima, ma lo spirito, come questa non voleva seguirlo, l'abbandonò ... (Disc. ai Gr., 12, 13). Sia la resurrezione finale dei corpi e delle anime (cfr. Disc. ai Gr., 6; 15, 2), sia la capacità data da Dio all'anima d'essere immortale (cfr. 13, l; 15, l; 20, 3), salvandosi per opera dello Spirito Santo (cfr. 20, 3; 13, 3-5; 25, 3), sembrerebbero dovute a un atto di grazia da parte di Dio e nella grazia stessa sembrerebbe consistere la libertà dell'uomo di cui parla Taziano (cfr. 11, 2; 15, 4), mediante l'opera del Verbo di Dio fattosi uomo (non è questo, tuttavia, che un mèro accenno: "non predichiamo sciocchezze quando annunciamo che Dio ha preso forma umana": cfr. 21, 1). Solo che, a tal proposito, Taziano è molto oscuro e oscillante - sf come è oscuro e oscillante rispetto al rapporto in cui si trovano Dio, il Verbo e lo Spirito Santo -, ed effettivamente la rivelazione appare piuttosto che come atto gratuito, fondato sull'autorità (fede) di Dio, come una intuizione intellettiva, un cogliere di là dalla dispersione sensibile, dovuta all'ignoranza, lo Spirito vitale, Spirito di Dio, che il tutto unisce, ed attraverso il quale, subordinato il Verbo, si coglie il Verbo, tornando all'unità di Dio (e qui sembra davvero che Taziano interpreti in senso docetista la figura del Cristo, che egli, almeno nel Discorso ai cristiani, non nomina mai). Non a caso, anzi, Taziano sottolinea che il Verbo, mediante lo Spirito, tende a volgersi verso gli uomini, attraverso gli ispirati, coloro in ç:ui predomina lo spirito, il pneuma, in opposizione a coloro in cui domina solo l'anima, la psyché ("lo spirito di Dio poi non è presso di tutti, ma disceso in alcuni che vivono secondo giustizia e' avvintosi con l'anima loro, per mezzo di predizioni annuncia ad altre anime le cose arcane; e quelle· che obbediscono a questa sapienza attraggono a sé lo spirito congenito": 13, 5). È, appunto, attraverso gli pneumatik&i che gli stessi psichici (cfr. anche 16, 2) si liberano dalle tenebre, dall'ignoranza, per ritornare, mediante lo Spirito, che fa in essi ritrovare quella scintilla divina, che è lo spirito superiore all'anima, al Verbo, alla luce, che è conoscenza (gnost). Sembra cosf chiaro in che senso, interpretata sotto questo aspetto la "buona novella," T aziano si sentisse attratto da certe suggestioni della
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"gnosi" valentiniana (si pensi particolarmente alla distinzione tra pneumatici e psichict), e, soprattutto, dalla tesi del ritorno dell'anima a Dio, mediante un accentuato ascetismo, un progressivo allontanamento dalla dispersione nella sensibilità e nella materia, conducendo una vita di purezza, attraverso cui ritrovare in sé la dimentic~ta scintilla divina, ~he è lo Spirito. Tali paiono le ragioni per cui Taziano, dopo la morte di Giustino (di cui, in Roma, era stato seguace) si allontanò dalla Chiesa, per aderire prima (nel 172 circa) alla gnosi di Valentino, e, poi, tornato in Oriente, per rinnovare la setta gnostica degli Encratiti, rafforzandone il rigorismo morale (castità assoluta, astensione dalla carne e dal vino). Se entro l'àmbito della difesa dalle solite accuse di ateismo, idolatria, immoralità, tradimento nei confronti dello Stato, si svolgono le apologie di Atenagora e di Teofilo vescovo di Antiochia, un particolare signifi.cato storico esse assumono qualora se ne veda la precisazione da un lato del concetto di Dio. e dall'altro lato del suo rapporto con il mondo, in una ripresa dei motivi di Giustino e di Taziano, ma ora, sembra, piu distinti e approfonditi, sia nei confronti della divinità e del rappqrto Dio-mondo propri della cultura ellenica, sia nei confronti della stessa elaborazione cristiana, in una delineazione e chiarificazione del rapporto tra ragione e fede, mediante cui, nella giustificazione della propria fede, si determina un tipo di "gnosi" che possiamo dire cristiana. Vissuto nella seconda metà del u secolo, Atenagora 21 di Atene, pia21 Scarsissime le notizie sulla vita di Atenagora: né Eusebio né San Girolamo lo citano, e appena degli accenni sono quelli che si trovano nelle altre fonti (Metodio, morto nel 311, IIcpl Mln'cX
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tonico, e, forse, per un certo periodo scolarca della scuola platonica di Alessandria (cfr. Filippo di Sida, il quale aggiunge che la scuola di Atenagora costitu1 il primo nucleo di quella che con Panteno e Clemente di Alessandria sarà la prima scuola teologica cristiana), puntando su Platone e interpretandone la teologia, di cQDtro all'opposizione violenta del retore Taziano nei confronti della filosofia greca, sostiene che il platonismo, si come le altre correnti filosofiche, è dovuto a un pensatore che, in certa misura, possiede la luce divina: solo che il platonismo, l'aristotelismo e le altre filosofie assumono il loro senso piu profondo se vengono inverate dal Cristianesimo. O meglio, se attraverso le vie della ragione si giunge a certe verità, alla dimostrazione che Dio è uno (Platone, Aristotele; cfr. Supplica per i Cristiani, 6), e, con Platone, perfino a cogliere gli attributi di Dio e a rendersi conto che Dio deve essere uno e trino (cfr. 23), la verità piena si coglie solo mediante la rivelazione attuantesi mediante la stessa parola di Dio. Di qui la polemica di Atenagora contro la scuola platonica del suo tempo, che non solo tradisce il senso riposto di Platone, ma, ritenendo assurdo il Cristianesimo, per orgoglio nega l'unica via attraverso cui giungere alla verità, in un riscatto delle stesse verità implicite in Platone. Entro questi termini si svolge La supplica per i Cristiani di Atenagora, indirizzata, nel 177 circa, agli imperatori Marco Aurelio e Commodo (di contro all'accusa di ateismo, dopo un breve esordio, cc. 1-3, si dimostra che i Cristiani non sono atei perché anzi sostengono l'esistenza di un solo e unico Dio, uno e tre ad un tempo: cc. 4-12; per cui facile è la critica della teologia pagana e del suo politeismo: cc. 13-30; di contro, poi all'accusa di incesto e di cannibalismo, dimostrata la propria fede nel Vangelo e in Dio, è facile la difesa: cc. 31-37). Nella Supplica, Atenagora, con un andamento piu dimostrativo di Giustino e di Taziano, dovuto probabilmente alla sua professione çi maestro di scuola, difendendo il Cristianesimo dall'accusa di ateismo, precisa, per la pr~a volta, il significato del Dio dei Cristiani in senso monoteistico, sostenendo per altro che a Dio si giunge solo già credendo in Dio ("è necessario comprendere Dio con Dio" : c. 7), per cui solo la fede illumina e dà un senso alla ragione, che, a sua volta, in quanto resa valida dalla fede, può giustificare e interpretare la fede (cfr. cc. 7 e 23). Che, dal principio," sia uno solo il Dio che ha fatto questo Universo, consideratelo nel modo seguente e cosi avrete anche la ragione della nostra fede (tv' lx7Jn XIXl -ròv ì.oy~a(.LÒV ~(.LWV 'tijç 7t(aTe:(J)ç ). Se da principio vi fossero stati due o piu dèi, o tra essi vi sarebbe stata unità e identità, o l'uno sarebbe stato separato dall'altro. Ma è impossibile che vi sia unità e Identità. In quanto dèi, non erano simili e non potevano essere simili
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in quanto erano senza un cominciamento: solo le cose che hanno un cominciamento hanno somiglianza con i loro modelli; quelle che non hanno avuto principio non hanno somiglianza, perché non derivano da un altro, né sono conformi ad un altro. Vi sia allora un solo Dio ... Dio non ha cominciato ad essere e non è passibile né divisibile; perciò
Dio uno ed unico, dunque, egli solo è il facitore del mondo ((.L6voç 6 1tOL'Yj-rljt; -rou x6cr(.LOU &e:6ç: c. 8); il mondo, già implicito in Dio, viene all'essere attraverso il Figlio di Dio, il L6gos, ma, in Dio, eterno, parola di Dio, che, in quanto tale, si distingue da Dio, restando in lui (si come la parola che è pensiero nel pensiero e ad un tempo, pronunciata, è realtà, suono, fuori del pensiero: "figlio di Dio, parola del padre in idea e in atto : ulòç ·TOU &e:ou Myoç -rou 1tC1tTpÒç èv t8éCf XCitL ève:p~tCf ": c. 10), "secondo il quale tutte le cose son fatte, rimanendo uno il padre e il figlio," nell'unica loro essenzialità (c. 10). Il Verbo, perciò, può dire: "Il Signore mi ha dato fondamento [lx-rtcrev, éktisen], perché dessi principio alle sue vie e alle sue opere" (c. 10. Cfr. Proverbi, VIII, 22, dove il testo ebraico ha mi possedette e non mi dette fondamento come nella traduzione dei "settanta," e poi in Filone l'Ebreo, De ebrietate, 8, e in Giustino, Dial. con Trif., 61, 3). In tal senso, perciò, il Verbo è creatura di Dio, che, dunque, dà realtà e ordine a tutto ciò ch'era già in Dio come infinita potenza. Entro questi termini s.i capisce come tutta la realtà sia creazione di Dio, che mediante il proprio L6gos dà ordine e realtà alle cose, per cui il Verbo assume, per immagine, la funzione del Demiurgo platonico, trovando di fronte a sé la materia informe da ordinare, materia che, d'altra parte, era, essa stessa, già implicita in Dio e sulla quale si riverbera, attraverso il Verbo, lo Spirito di Dio (Spirito Santo), che da lui "emana e a lui ritorna come raggio di sole " (c. 10), e che passa attraverso i profeti ("chi non potrebbe stupire nell'udire che vengono chiamati atei coloro che riconoscono Dio Padre e Dio Figlio e lo Spirito Santo, che ne dimostrano la potenza nell'unità e la distinzione nell'ordine?": c. 10: cfr. anche cc. 3, 4, 5). · Se, dunque, nella Supplica sembrano assai bene precisati il concetto di Dio (unico e trino, che dà realtà al tutto in sé implicito attraverso il proprio Verbo) e il motivo del rapporto tra ragione e fede, dov'è la fede stessa a dare una ragione alla ragione, in un altro trattato rimastoci di Atenagora, La resurrezione dei corpi, con molta finezza si determina chiaramente il significato di Dio non solo creatore, ma volontà e persona. Se Dio, unico, è l'Essere, in quanto perfezione assoluta e assoluta possibilità, e atto con cui dà realtà ed esistenza al tutto, non
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può essere delimitato da alcuna ragione o legge, che, evidentemente, sarebbe superiore allo stesso Dio, onde l'atto di Dio, oltre ogni ragione, è, appunto per questo, atto di volontà, di assoluta libertà; questo, dunque, rende non contraddittoria la fede in un Dio creatore del mondo, non solo ma dell'uomo, tutt'uno d'anima e corpo, fatto da Dio in funzione di se stesso, e libero, per cui neppure contraddittorio è che Dio, con un altrettanto atto di volontà, faccia risorgere non solo l'anima, ma anche i corpi, ché appunto l'uomo ~ un tutt'uno d'ani.ina e corpo, onde di fronte a Dio, al suo giudizio, non si trova l'Anima con l'A grande, ma questo e quell'uomo, nella sua particolare persona. "Ciò che ha ricevuto il pensiero e la ragione non è l'anima di per sé, ma l'uomo" : è perciò l'uomo ad essere salvato o condannato, l'uomo tutt'uno d'anima e corpo, non l'anima (La res. dei corp1). A tal proposito, una maggior precisazione l'abbiamo in Teofilo di Antiochia, 22 originario della Siria, passato al Cristianesimo attrattovi dalla lettura delle Sacre Scritture, eletto vescovo di Antiochia nel 169 circa, autore di molte opere, di cui sono rimasti tre libri .Ad .Autolico, composti, sembra, tra il178 e il182, per chiarire ad Autolico, un pagano colto, il significato e le ragioni del Cristianesimo. Dice, dunque, Teofilo: Qualcuno ci chiederà: l'Uomo nacque di natura mortale? Niente affatto. Immortale, allora? Neppure questo, sosteniamo! Si obbietterà allora: dunque non è stato creato affatto? Neppure questo diciamo. Affermo,- invece, che per natura non fu né mortale né immortale ... Non lo fece né mortale né immortale, ma dotato dell'una e dell'altra natura, perché potesse volgersi all'immor22 Molto poco sappiamo di Tcofilo. Sappiamo che n'\cque sull'Eufrate, che ricevette pna accurata educazione di tipo ellenistico e che abbracciò il Cristianesimo dopo aver letto la Bibbia ed aver conosciuto i Cristiani. Secondo Eusebio (Hist. ecci., IV, 24), Teofilo fu eletto vescovo di Antiochia nel 169. Nel 180 Teofilo era ancota vivo: nella sua Apologia, difatti, parla della morte di Marco Aurelio. Oltre un'apologia, intitolata. Ad Autolicum, in tre libri, pervenutaci, Tcofilo scrisse: un libro Contro l'eresia di Ermogene (cfr. Eusebio, Hist. ecci., VI, 24), uno gnostico che sembra non vada confuso con I'Ermogene contro cui sèrive. Tertulliano; un libro Contro Marcione (cfr. Eusebio, ib.); Opere di catechesi (cfr. Eusebio, ib.); Commenti ai Proverbi e ai Vangeli (citati da San Gerolamo, De vir. illustribus, 25); un'Armonia evangelica (citata da San Gerolamo, Epist., 121, 6, 15); Sulle origiiti degli uomini secondo la Bibbia (opera segnalata dallo stesso Teofilo, Ad Aut., Il, 28, 30, 31; III, 3, 19). I tre libri Ad Autolico vogliono essere una dimostrazione dd vero Dio, del significato della provvidenza, di chi siano i Cristiani, in che consista il tema della resurrezione (I libro); si viene cosi opponendo alla mitologia greco-romana e all'insegnamento molteplice dei poeti e dei filosofi la dottrina dei profeti e il racconto della Genesi sullè origini dd mondo e dell'umanità (II libro); si dimostra, infine, che i Cristiani, dati i loro fondamenti, non possono essere né immorali né appartenenti a sette segrete operanti illecite pratiche rituali, e che la verità dei Cristiani è piu autorevole di quella proclamata dai filosofi, perché piu antica (libro III).
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talità e, ubbidendo al comando di Dio, potesse ricevere da lui per ricompensa l'immortalità e diventare Dio. Se invece si fosse volto a opere di morte, disubbidendo a Dio, sarebbe stato egli stesso causa della sua morte. Giacché Dio creò l'uomo libero e padrone della sua volontà ... (Ad Autolico, II, 27; cfr. anche I, 13). Con Teofìlo di Antiochia, inoltre, si precisa il rapporto Dio-mondo in maniera netta. Teofìlo, approfondendo certe suggestioni implicite sia in Giustino, sia in T aziano, sia in Atenagora, con tutta chiarezza afferma, rifacendosi, per altro, all'accenno che già si trova nei Maccabei (II, 7, 28) e in Erma (Pastore, Precetti, l, 1), che nulla è al di fuori di Dio, l'Essere, l'Unico, e che la realtà, in quanto tale, è stata costituita da Dio, per un atto di sua volontà, ex nihilo. "Dio ha prodotto tutte le cose dalla non esistenza all'esistenza" (Ad Autolico, I, 4), mediante il Verbo, che è ad un tempo la sua ragione e la sua potenza (cfr. Ad Auto/., II, 10-13). Quando volle creare ciò che aveva stabilito, generò proferendolo questo Verbo, primogenito di tutto il creato, né perciò Dio fu privato, ma avendolo generato era sempre creato con il Verbo suo (Ad A~t., II, 22). Ecco perché le Sacre Scritture e coloro che sono ispirati dallo Spirito Santo, ci insegnano, e fra essi Giovanni: "Nel principio il Verbo era ed il Verbo era presso Dio," mostrando cosi che in principio Dio era solo e il Verbo in lui. Quindi aggiunge "il Verbo era Dio. Ogni cosa è stata creata per mezzo· suo e nessuna cosa è stata fatta senza· di lui " (Ad Aut., II, 22) ... La potenza di Dio si rivela nel creare dal nulla quel che vuole ... (Ad Aut., II, 5) ••• Dio ha creato l'universo dal nulla. Poiché nulla è a lui contemporaneo, ma egli, che è bene a se stesso, che non ha bisogno di niente, che esiste prima di tutti i . secoli ha voluto creare l'uomo per essere conosciuto da lui... (Ad Aut., II, 10). Dio, uno e perfetto, che ha in sé il proprio pensiero (il Verbo interiore, il l6gos endiathetos, con- un'espressione propria degli stoici) e la propria saggezza (Spirito Santo), mediante essi, dando loro reaftà, con atto di volontà, proferendo il Verbo (il l6gos proforik6s, altra espressione propria degli stoici) dà fondamento a tutta la realtà ("Dio ha fatto l'Universo con il suo Verbo e la sua Saggezza": Ad Aut., I, 7), senza che il Verbo e lo Spirito Santo, pur assumendo una propria persona, neghino la stessa persona di Dio, uno e, come dice T eofìlo per la prima volta, trino (-rptoct;, triàs). "I tre giorni che hanno avuto luogo prima degli astri sono immagini della triàs di Dio, del suo Verbo e della sua Saggezza" (Ad. Aut., II, 15).
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.t\'fenu interessanti - se non su di un piano di politica e di polemica popolari, in funzione di un'azione diretta sulla religiosità delle classi meno elevate, e sull'azione giuridica svoltà dai tribunali verso chi si professava cristiano - sono gli attacchi di tutti i primi apologisti e apologeti nei confronti del politeismo delle religioni ellenico-romane, dei loro culti e miti - non a caso ci si rifà alle religioni piu primitive e aurorali -, e la critica alle filosofie del passato, basandosi sul luogo comune della "contraddizione dei filosofi" (si confronti Taziano, Disc. ai Gr., 25; Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, III, 2, 3; ma in particolar modo il dtotcrop(LÒt; -r&v l~Cù cptÀocr6cpCùv, Lo schermo dri filosofi esterni, cioè dei non cristiani, di Ermia filosofo, del n secolo, un pamphlet mediante il quale, mettendo in contraddizione le varie filosofie tra di loro, si vuoi dimostrare che l'unica e vera filosofia è la cristiana, che diverrà il metodo tipico di tutte le storiografie dogmatiche). Di notevole interesse storico, invece, attraverso San Giustino, Taziano, Atenagora, San Teofilo vescovo, è il rintraccio della faticosa e tortuosa delineazione e graduale precisazione di quelli che saranno i motivi fondamentali della "filosofia cristiana" : significato dato alla ragione in quanto resa valida dalla stessa ragione di Dio, operante per mezzo della ragione, del Verbo divini, mediante cui è possibile rendere conto della fede in un Dio (teoreticamente ignoto e inesprimibile), uno e trino, persona e volontà, che, per sua volontà, ingiudicabile, ha dato esistenza alla realtà tutta e all'uomo, posto al centro dell'universo, non centro metafisico ma morale. b) lreneo e la delineazione di una «gnosi" crtstJana. Ippolito. La problematica di Tertulliano. Su questo piano - rifiutata la tesi platonica dell'anima consustanziale all'essere che è, per cui strutture della ragione e strutture della realtà coincidono - assunto, quindi, per feqe nell'autorità divina, rivelantesi attraverso il Verbo e lo Spirito Santo, che tutto è dovuto a un atto gratuito di Dio, non piu, dunque, ragion d'essere del tutto, non piu ragione e legge necessaria, ma persona, signore, si capisce come da un lato si vedesse di malocchio l'interpretazione dei testi sacri (Antico e Nuovo Testamento) da parte dei cosiddetti "gnostici" e come, dall'altro lato, si tendesse a convincere gli stessi " filosofi," platonici e stoici in particolare, che l'unico criterio di verità, la condizione stessa perché sia possibile la "gnosi," la conoscenza, non può non fondarsi che sulla "rivelazione," sulla presenza del "16gos" divino, che illumina la ragione e dà ragione alla ragione. Su questa via sembra chiaro in che senso, proprio in quanto tutto è frutto di un atto di Dio, ivi compresa la materia, ordinata poi e costituita in forma
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dalla volontà di Dio mediante la sua ragione e la sua parola e da Dio ispirata, si potesse recuperare e accettare non poche delle tesi platoniche e stoiche, in contrapposizione al dualismo e al pessimismo di certe correnti "gnostiche." Non solo, ma posto che il mondo è il frutto di un atto di volontà di Dio, si pone anche che, perciò, in sé il mondo non è né bene né male, non è il frutto di un dèmone maligno, che tra Dio e il mondo non vi sono infiniti intermediari, inutilmente moltiplicabili, e che attraverso il mondo, il suo ordine, si coglie, sia pure per via ipotetica, l'esistenza del suo facitore e poeta. Il mondo, dunque, non è frutto di un dèmone cattivo, e il male iion ha una realtà per sé, ma è dovuto a un atto di libera affermazione di sé da parte degli angeli e dell'uomo (Adamo, fatto a immagine e simiglianza di Dio), che in tale affermazione decadono da Dio, dalla zona di simiglianza a Dio, per cui una volta caduti, tanto piu vogliono, tanto piu si affermano, esistono, tanto piu si allontanano da Dio, divengono limite, corporeità, anime corpose, onde, solo mediante un imperscrutabile atto di Dio - che non ha perché, altrimenti sarebbe necessario, naturale - è possibile il riscatto, il ritorno alla simiglianza a Dio. Di qui, ora, entro i termini della predicazione paolina, e dei motivi fondamentali delineatisi con Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, l'interpretazione del Verbo, fattosi, nel tempo, carne, uomo, per volontà di Dio, il Cristo inviato da Dio a riscattare l'uomo, che muore in croce per l'uomo, e mediante cui gli uomini, facendosi Cristo, ricostituendosi unità nel corpo di Cristo (Chiesa: l'unica Chiesa), possono salvarsi e con Cristo risorgeranno. Se non sappiamo quanto valida sia l'ipotesi del Bardy (Dictionnaire de théologie catholique, s. v. Théophile d'Antiochie, col. 535), secondo cui il pochissimo posto dato a Cristo Salvatore, negli scritti di Aten:i.gora, di T aziano, di T eofilo, è dovuto al fatto che componendo essi apologie nei confronti dei pagani, bisognava, "prima di far conoscere il Salvatore ai pagani, spiegare bene la dottrina cristiana sull'unità di Dio, rispondere alle loro difficoltà in proposito e respingere gli errori dell'idolatria, s( come bisognava far valere la santità dei costumi cristiani, ben lungi dall'essere colpevoli di antropofagia, incesti ed altri simili delitti"; certo è che nei confronti degli ebrei e degli "gnostici," diveniva fondamentale puntare sul Cristo, interpretato non metaforicamente, ma come reale figura, Verbo di Dio fattosi uomo in un certo momento della storia. Attraverso il Cristo, dunque, e la sua Chiesa (la tradizione) è rivelata la verità. In tal senso "gnosi" diviene la "rivelazione," lo stesso Cristo. Di qui la lunga polemica contro l'altra interpretazione del Cristo e della tesi cristiana, fuori della Chiesa costituitasi, o meglio contro quelle interpretazioni del Cristo e del rap-
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porto Dio-mondo, che nelle conclusioni venivano a negare la funzione storica del Cristo, sottolineando la malvagità del mondo dovuto a un demonio e la realtà per sé della materia, risolvendo la "fede• in conoscenza ("gnosi") e non fondando la conoscenza sulla fede in Cristo e sull'autorità di Dio, rivelatosi, storicamente, con il Cristo. E allora ci rendiamo conto dell'importanza data, nella lotta contro le interpretazioni gnostiche del cristianesimo, alla tradizione della Chiesa. Tale sembra il significato dell'opera di Egesippo, nato in Palestina nel 110 circa, morto verso il 180, che, per quel poco che ne sappiamo, dopo un viaggio che lo condusse dalla Palestina, alla Grecia, a Roma, visitando le varie Chiese per verificarne l'uniformità dell'insegnamento, in Roma formò la lista di successione dei vescovi fino ad Aniceto. Nei suoi Memorabili, in cinque libri, andati perdÙti e dei quali abbiamo qualche frammento in Eusebio, delineava contro gli gnostici quale era, sulla base dell'insegnamento della Chiesa ufficiale, la vera "gnosi," rivelata attraverso il Cristo e i suoi successori: "ecco perché Egesippo, nel suo viaggio, s'interessava tanto alla dottrina delle Chiese ed alla successione dei vescovi, la quale ne garantiva l'integrità" (G. Tixeront, Manuale di Patrologia, trad. it., Torino, 1922, p. 79). Analogamente lreneo23 (vissuto tra il 135 e il 202), di Smirne, di famiglia cristiana, uditore da giovane, in Smirne, di San Policarpo (dr. sopra), allora vescovo di quella città, attraverso Policarpo, ch'era stato in contatto con 23 Nato nel 135-140 a Smirne, di cui era vescovo Policarpo (cfr. sopra), Ireneo, da giovane, ascoltò il celebre vescovo, alla cui autorità egli fece poi sempre appello, insieme a quella di molti "presbiteri" d'Asia, con i quali dice d'essere stato in contatto. Abban· donata l'Asia - non sappiamo per quale motivo - nel 177 circa ~ in Gallia, a Lione, prete di quella Chiesa, il cui vescovo era San Potino. Delegato dai Cristiani prigionieri in Lione di presentare al vescovo di Roma Eleutero una lettera sul montanismo (cfr. Eusebio, Hut. ecci., V, 4, 2), Ireneo, allora in Roma, sfugg{ alla morte. Tornato a Lione morto martirizzato Potino, Ireneo fu eletto vescovo della città. Nel 190-191 intervenne presso il vescovo di Roma Vittore sulla questione della Pasqua, affinché fosse evitata la rottura ua la Chiesa di Roma e le Chiese di Asia. Probabilmente mori nel 202 circa, vittima di una persecuzione, in Lione, conuo i Cristiani. Due sono le opere pervenute di Sant'Ireneo, la Esposizione e confutazione della falsa gnosi ("E>.eyxoç xcxl clvatTpo1ri) orijç ljlcu8ww(J.OU ~acwç), piu nota sotto il titolo abbreviato AdtJersus haereses (Contro le eruie), ·e un trattato intitolato Dimostrazione della predicazione apostolica ('En!acL~~ TOU linoOTOÀLXOU X7JPUy!J4TOç), ritrovato in una uaduzione armena, del VII o dell'vm secolo. Conservatici da Eusebio possediamo alcuni frammenti di altre opere di Ireneo, perdute: Della monarchia, o che Dio non è l'autore del male (~ una lettera ad un certo Fiorino, un tempo amico di Ireneo, come lui uditore di Policarpo, in Asia, che, piu tardi, era passato alla gnosi: cfr. Eusebio, Hist. ecc/., V, 20, 4-7); Del/'og •oade (un trattato conuo l'ogdoade di eoni di Valentino, di cui Eusebio, Hut. et:t:l., V, 20, l, 2, riporta la conclusione); Sullo Scisma (indirizzato a Blasto, amico di Fiorino: cfr. Eusebio, Hist. ecci., V, 20, l e 15); Sulla sciemra (''libro molto breve, ma utilissimo conuo i Greci": Eusebio, Hut. ecci., V, 26); Discorsi ditJersi (probabilmente omelie e prediche: Eusebio, Hist. ecci., V, 26); Lettere al tJescOtJO di Roma Vittore e ad altri tJescotJi (Eusebio, Hist. ecci., V, 23-24).
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gli Apostoli (" Policarpo non solo era stato istruito dagli Apostoli, non solo aveva conversato con molti di coloro che avevano veduto il Cristo, ma erano stati gli stessi Apostoli che lo avevano stabilito in Asia in qualità di vescovo della chiesa di Smirne, ed egli ha sempre insegnato ciò che aveva appreso dagli Apostoli, ciò che viene trasmesso nella Chiesa e che, dunque, è solo vero": cfr. Eusebio, Hist. ecci., V, 20, 4-6), si fece assertore della tradizione apostolica. Ireneo, dal 178 vescovo di Lione, sucèesso al vescovo e martire San Potino, poteva, riferendosi alle interpretazioni del Cristo e del Cristianesimo da parte degli "gnostici," sostenere che la vera "gnosi" (gn6sis alethés) era quella avutasi attraverso la rivelazione del Cristo, il Verbo di Dio fattosi uomo, e che falsa era la "gnosi" (pseud6nymos gn6sis) degli gnostici, delineando cosr la possibilità di una gnosi fondata sulla rivelazione storica e sulla fede (di qui il titolo della maggiore opera di lreneo: Esposizione e confutazione della falsa gnosi, piu nota sotto il nome di Adversus haereses, in cinque libri, di cui abbiamo estesi frammenti in greco, un'antica traduzione latina, del m-Iv secolo, assai letterale, e alcuni brani in traduzione armena e siriaca). Ireneo, dopo avere esposto le varie dottrine gnostiche di T olomeo, di Valentino, dei Valentiniani, di Basilide, di Marcione e cosr via (I libro: l'occasione a scrivere il libro, che nelle prime intenzioni doveva essere assai breve, fu dovuta al desiderio di un amico che gli aveva chiesto un'esposizione degli errori degli gnostici), confuta (II libro), sul piano della pura ragione e della dialettica, le varie concezioni gnostiche ponendole in contraddizione per dimostrarne la non razionalità e quindi, proprio sul piano gnostico, l'impossibilità di una vera conoscenza ("gnosi") e, conseguentemente, l'assurdità, per giungere al principio, e per comprendere perché Dio è quello che è, perché abbia creato, come abbia creato e cosr via, di moltiplicare gli intermediart andando all'infinito. Piu logico è, perciò, riconosciuti i limiti della ragione sul piano ontologico, assumere come pe<-ché l'assoluto atto gratuito di Dio, lo scaturire del mondo da un "non perché," testimoniato da un lato dall'esserci del mondo, dall'altro lato dalla rivelazione del Cristo, per cui la vera gnosi è possibile solo i.n quant'o chiarificatrice della fede e determinante i limiti della ragione (dal III al V libro si espone la dottrina cristiana). Quanto, dunque, è pm s1curo e piu logico riconoscere subito ciò che
è vero, che il Dio, che ha fatto il mondo quale è, è solo Dio e che non v'è altro Dio all'infuori di lui; che lui stesso ha tratto da sé il modello e la forma di ciò che è stato fatto, piuttosto che perdersi in empi giri per arrestare alla fine il pensiero ad un solo essere e confessare che tutto quel che è
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stato fatto viene da lui!... Allorché tutte le Scritture, i Prqfeti e i Vangeli, apertamente, senza equivoci e sf da essere compresi da tùtti, benché non tutti credano, proclamano un solo Dio, ad esclusione di tutti gli altri, che ha tutto creato con il suo Verbo, le cose viventi e invisibili, ciò che è nei cieli, sulla terra, nelle acque e sotto ·la terra, come abbiamo mostrato con le stesse parole della Santa Scrittura; allorché la creazione di cui facciamo parte attesta essa stessa, con lo spettacolo che presenta, che uno solo è il suo autore; uno solo chi la dirige, quanto appaiono sciocchi ed ottusi coloro che chiudono gli occhi a tanta luminosa evidenza, non vogliono vedere la chiara verità, ma, forzando se stessi, pensano, mediante complicate finzioni, di avere ciascuno trovato un Dio a modo suo ... Unico è il Dio che, col Verbo e la Sapienza [Spirito Santo], ha fatto e ordinato ogni cosa; e questi è il Demiurgo, che ha consegnato questo mondo al genere umano. Certo egli è, per la sua grandezza, sconosciuto a tutti quelli che da lui sono stati creati ..., ma per il suo amore egli è sempre conosciuto, attraverso colui per cui ha fatto essere ogni cosa. t questi il suo Verbo, il nostro signore Gesu Cristo, che negli ultimi tempi è diventato uomo fra gli uomini, per ricongiungere la fine con il principio, cioè l'uomo con Dio... (Aàv. haeres., IV, 20, 4, 6).
Relativamente a Dio, uno, persona e volontà, avente in sé tutte le possibilità, cui dà realtà mediante il Verbo e la sua sapienza; relativamente alla realtà creata, evidentemente non piu perfetta come Dio suo creatore, mediante cui la ragione, illuminata dalla ragione di Dio, pu~ risalire fino a postulare l'esistenza di Dio; infine, relativamente all'uomo creatura di Dio, da Dio creato in posizione privilegiata, centro morale dell'Universo, fatto libero e tale che se vuole può tornare a Dio, o farsi bestia; lreneo ricapitola ed enuclea motivi già tutti delineatisi nel corso del u secolo da Giustino a Teofilo. L'aspetto che invece Sant'lreneo ha precisato per conto suo, sulla base di San Paolo, è la posizione storica del Cristo, il Cristo "ricapitolazione" e nodo del dramma dell'uomo, caduto con Adamo, e della storia, scandentesi tra Adamo e Cristo, da un lato della caduta e dall'altro lato del possibile ritorno a Dio, mediante Cristo, in una finale visione millenaristica (" nel rinnovamento del tutto l'uomo abiterà veramente nella città di Dio": A4v. haeres., V, 35, 2). Secondo la promessa di Dio [Salmo, 131, Il; Efes., l, 10] viene suscitato dal seno della schiatta di Davide un Re Eterno, che in sé ogni cosa riassume. In sé egli· ha riassunto l'antica creatura, giacché, come per la disobbedienza di un solo uomo il peccato poté introdursi e, attraverso il peccato, si affermò la morte, cos{ per la disobbedienza di un solo uomo la giustificazione subentrata rende un frutto di vita agli uomini che un tempo erano morti. E come quegli che era il primogenito, Adamo, ebbe il suo corpo tratto dalla terra arida e ancora vergine [Genesi, 2, 5-7] - Dio non aveva
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ancora fatto piovere sulla terra e l'uomo non l'aveva ancora lavorata - e fu plasmato dalla mano di Dio, cioè dal Verbo di Dio - " tutto fu fatto per mezzo di lui " e " Dio prese del fango dalla terra e plasmò l'uomo, " -, cosi il Verbo in persona, ricapitolando in se stesso Adamo e nascendo da Maria ancora Vergine [Luca, I, 29] veniva a nascere in un modo che riassume il modo di generazione di Adamo. Ed è per questo che l'Evangelista Luca, esponendo la genealogia di Cristo e risalendo da nostro Signore sino ad Adamo ..., ricongiunge il punto di arrivo con il principio, e mostra che è lui quegli che ha ricapitolato in sé tutte le genti uscite da Adamo e disperse nel mondo e tutte le lingue e la schiatta umana con Adamo stesso. Per questo da Paolo [Romani, 5; 14] Adamo fu chiamato "figura di colui che doveva venire, " poiché il Verbo, creatore del tutto, aveva in anticipo formato per sé con riguardo.al figlio di Dio la condizione futura del genere umano. Dio aveva formato dunque prima l'uomo animale [Adamo], perché fosse salvato J.. quello spirituale [Cristo] (Ad v. haeres., III, 21, 9-10, 22, 3).
In termini ancora piu precisi, in un suo breve libro, posteriore all'Adverms haereses, La dimostrazione della predicazione apostolica (cfr. 99 dov'è citato l'Adversus haereses), ritrovato nel 1904 in una traduzione armena del vu secolo circa (vedi Bibliografia per le traduzioni), dedicato ad un amico, un certo Mru;ciano, Sant'lreneo riassume e precisa i motivi dell'unità e unicità di Dio, persona e volontà, che, mediante il suo Verbo e la l>Ua Sapienza, crea direttamente l'universo tutto, dando realtà a ciò che in lui è già ab aeterno implicito, compresa la materia, insistendo da un lato sulla figura storica del Cristo, perno della storia umana, dall'altro lato sull'uomo, decaduto con Adamo, ma essere privilegiato rispetto al tutto, per il quale tutto è stato fatto, e a cui, attraverso Cristo e la sua Chiesa, per grazia di Dio è resa la possibilità di tornare uno in Dio, salvandosi. ... Tale, o Marciano, la predicazione della verità, tale l'immagine della nostra salvezza, tale il cammino della vita, che i profeti hanno annunciato, che il Cristo ha stabilito, che gli apostoli hanno trasmesso e che la Chiesa, su tutta questa terra, trasmette ai propri figli [cfr. Adv. haeres., V, prefazione]. Bisogna mantenersi sul cammino della vita con ogni cura mediante una volontà buona e rendendoci cari a Dio con opere buone e un sano modo di pensare, e c.iò è possibile qualora non si pensi esistere un Dio Padre all'infuori del nostro creatore, come s'immaginano gli eretici: essi disprezzano il Dio che è, e di ciò che non è fanno un idolo; si creano un padre al di sopra del nostro creatore, credono di aver trovato essi stessi qualcosa di piu grande della verità. Tutti costoro sono, in realtà, empi e bestemmiatori del loro creatore e padre, come abbiamo dimostrato nell'Esposizione e confutazione della pseudo-gnosi. Altri, a loro volta, disprezzano la venuta del Figlio di Dio e l'economia della sua Incarnazione che gli Apo-
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stoli hanno trasmesso e di cui i profeti avevano fatto conoscere prima ch'essa san·bbe stata la ricapito/azione della nostra umanità ... ; costoro saranno posti nel numero degli increduli. Altri non accettano i doni dello Spirito Santo e respingono !ungi da sé il carisma profetico, mediante cui l'uomo, quando ne è irrorato porta come frutto la vita di Dio ... Costoro non sono di alcuna utilità a Dio, poiché non possono portare alcun frutto ... Gloria alla Santissima Trinità e all'unica divinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, provvidenza universale, nei secoli, amen... (Dimostrazione della predicazione apostolica, 98-1 00).
Senza dubbio, entro i termini del costituirsi del pensiero e della dottrina del Cristianesimo, l'opera del vescovo di Lione, Sant'lreneo, ha un'importanza capitale. Storicamente essa ha, da un lato, determinato e precisato i motivi salienti assunti dalla Chiesa ufficiale; dall'altro lato, la posizione data da lui al Cristo, la funzione data alla tradizione ed aii'insegnamento della Chiesa, la precisazione che la ragione umana nulla può se non attraverso la stessa rivelazione del Cristo, hanno delineato due possibili esiti: o la negazione, polemica, di tutto lo sforzo della filosofia al di fuori del. Cristianesimo, la quale, in questo tempo, su di un piano strettamente logico aveva buon giuoco nel dichiarare assurda, contraddittoria, la tesi Cristiana di un Dio persona e volond, creatore, che si fa uomo (si confronti, . in particolare, Celso), e a cui, da parte cristiana, si fa risalire la deviazione degli gnostici nell'interpretazione della figura del Cristo, dicendo che filosdfia ed eresia si identificano (in tal senso, per quel poco che abbiamo, sembra si sia mosso il maggior discepolo di lreneo, Sant'lppolito, vissuto tra il 170 e il 250; e il primo dei grandi apologisti e pensatori cristiani in lingua latina, Quinto Scttimio Fiorente Tertulliano, vissuto tra il 160 e il 240 circa); o, entro i termini della rivelazione, il tentativo di mostrare, rifacendosi a San Giustino per un verso, per altro verso a Filone l'Ebreo, la funzione della filosofia, che, posta a fianco del Vecchio Testamento, assume per i Gentili lo stesso significato che per gli Ebrei aveva, appunto, la Legge, e che viene usata per rendere conto della fede, per avviare i non credenti a rendersi conto della veriti cristiana (tale la funzione data alla filosofia dal primo maestro della scuola teologica di Alessandria, Clemente Alessandrino, vissuto tra il 150 e il 215). Sant'lppolito 24 prende le mosse da una posizione strettamente fidei24 Scarse sono le notizie su lppolito. Nato, sembra, nel 170-175, non si sa dove, certo nel 212 circa era a Roma, prete e maestro famoso, dove Origene lo ascoltò. In quell'epoca era vescovo di Roma Zefirino (198-217), il quale sembra non scorgesse il pericolo implicito nella tesi "monarchistica" - Dio unico, non trino - , sostenuta non solo a Smirne da Noeto, ma anche in Roma da alcuni discepoli di Noeto, Cleomene, Epigono e Sabellio e bene accolta dallo stesso segretario di Zefirino, Callisto. lppolito,
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stica sul piano delineatosi da San Giustino ad Ireneo, ove soprattutto si insiste sul motivo del Dio persona e volontà. ("se Dio avesse voluto, avrebbe potuto far Dio un uomo invece del LSgos": Philosophumen,7, come Tertulliano, combatté a fondo il "monarchismo"; non solo, ma Ippolito accusò di eresia Callisto. Alla morte di Zcfirino, eletto vescovo di Roma Callisto (218), Ippolito mantenne contro di lui la sua posizione, tanto che non lo riconobbe vescovo; d'accordo con la tesi sostenuta da Ippolito, molti fedeli lo elessero, per proprio conto, vescovo di Roma (lppolito è il primo antipapa della storia). La presenza, in Roma, di due vescovi durò dal 218 al 235 (anche dopo la morte di Callisto I, morto nel 227, e di Urbano I, morto nel 233, cui successe Ponziano, 233-238), fino alla persecuzione di Massimino, rivolta, in particolare contro i capi della Chiesa. Arrestati sia il vescovo Ponziano sia Ippolito, furono ambedue deportati in Sardegna, dove morirono nel 238 circa. Ippolito, prima di partire per la Sardegna, si riconciliò col vescovo di Roma, riconoscendone l'unica autorità. Il corpo di Ippolito fu piu tardi ricondotto a Roma e sepolto sulla via Tiburtina, mentre quello di Ponziano nel cimitero di San Callisto (nella D~positio martyrum, nel catalogo liberiano del 354, si legge: Ippoliti in Tiburtina ~~ Pontiani in Callistt). t appunto sulla via Tiburtina che nc1 XVI secolo fu ritrovata una "statua seduta di Ippolito," certo del m secolo, preziosissima perché su di un lato del basamento vi è scolpito un elenco delle opere di Ippolito (altri elenchi di opere di lui si trovano in Eusebio, San Gerolamo, Teodoreto, Fozio). Anche se non intiera, l'opera maggiore di Ippolito che ci è pervenuta sono i cosiddetti Philosophumena (il titolo originario sembra fosse xat~à: natcrrov atlpé~wv l>.cyxot;: Confutazion~ di tu//~ l~ ~ui~). ritrovata nel 1842 (attribuita a Origene, a Tertulliano, a Gaio di Roma, a Novaziano, è stata ora con certezza attribuita ad Ippolito). Il piano ·dci Philosophum~na è il seguente: esposizione di tutti i sistemi degli antichi filosofi e delle opinioni dei greci; esposizione dei sistemi degli eretici, per dimostrare ch'essi hanno attinto dai Greci, e che la loro eresia consiste, appunto, nell'aver proseguito la filosofia antica negatrice della vera conoscenza di Dio (i libri I-IV si occupano dei filosofi: perduti sono andati il II e il m libro: preziosa fonte dossografica, particolarmente per i presocratici resta il I libro; i libri V-VIU si occupano delle eresie cristiane fino a quella degli encratiti; il IX libro è contro il monarchismo di Noeto e di Sabellio, e vi si narra la polemica contro Zefirino e Callisto; il X libro è dedicato alla conclusione). Di ùn'altra opera di Ippolito contro le eresie, Confutazion~ ahbreviata di tr~ntadu~ ~~si~. (l:Wt'cryJ.14 xat~ti atlpé~wv ~·) abbiamo dei passi conservati nello Pseudo-Tertulliano, in Filastrio, e in Santo Epifanio, mentre abbiamo un solo frammento di un libro Contro No~to· e un accenno allo scritto Contro Art~mon~ (cfr. Eusebio, Hist. ~~cl., V, 28, 1). Sappiamo inoltre che Ippolito scrisse Contro Mart:ion~, Sui ~arismi, Sul Vangelo di San Giovanni ~ suii'Apocaliss~. Commenti ali~ Sacr~ Scrittur~ (a parti della Genni, dei Num~i; del D~ut~onomio, di Ruth, del J libro dei &, dei Salmi, d'Isaia e di Ezuhi•le; per intero ai Prov"bi, aii'Ecd~siast~, al Cantico tiri Cantici, a Dani~l~ ~ Zauaria; a parte pochi frammenti, ci è rimasto molto del commento del Cantico e per intero il Comm~nto a Dani~l~, che è .del 204; sembra che lppolito abbia commentato anche alcuni passi del Nuovo T~stam~nto, e per intero, secondo San Gerolamo, Vir. ili., 61, l'Apoealisu). L'unica opera intera che possediamo di [ppolito è una Dimostrazion~ s~eontlo l~ Sacr~ Scrittur~ di ci3 eh~ riguarda il Cristo ~ l'Anticristo, nota sotto il titolo De Antichristo, composta nel 200 circa. Altri titoli di opere di Ippolito, di cui non abbiamo che scarsi frammenti o citazioni sono: Contro i Gr~ci o contro Platon~ ~ dei/'Univ"so; Di Dio e della resurrezione della carne, probabilmente da identificare con il Discorso della resurrezione all'imP"atrice Mamm~a; Esortazione a s~v"ina; Dimostrqzione contro i Giudri (si dubita sia di Ippolito}; Cronacht!; Epoca d~lla Pasqua e Canon~ Pasquale (una parte delle tavole pasquali è scolpita sulla cattedra su cui poggiava la statua di Ippolito); Bisogna digiunare il sabato?; Si d~t·~ far~ la Comunione ogni giorno?; l canoni di lppolito (se ne ha una traduzione araba, ma si dubita siano di Jppolito); Odi su tutt~ le Scritture. Per le edizioni, cfr. Bibliografia.
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X, 33), e sulla distinzione del Padre dal Figlio, che sono due persone (pr6sopa), anche se costituenti una sola potenza (dynamis, che ora ha anche il significato di natura); tale distinzione, voluta dal Padre, ha fatto si che il l6gos inespresso, esprimendosi, divenisse altro da lui, pur derivando da lui, dando, insieme allo Spirito Santo ("non possiamo pensare un solo Dio se non crediamo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo") realtà al mondo e, mediante il Cristo, incarnatosi, rendendo di nuovo libero l'uomo di divenire, se vuole, Dio ("sii seguace di Dio e coerede di Cristo, invece di seguire gli istinti e le passioni, e sarai diventato Dio": Philosoph., X, 33). Se la tesi semisubordinazionistica di Ippolito era dovuta al pericolo ch'egli vedeva nella tesi monarchistica seguita in Roma con un qualche interesse dal Papa Zefirino prima, poi dal Papa Callisto, favorevoli all'insegnamento di Noeto in Smirne, e dei suoi discepoli, in Roma, Cleomene, Epigono e Sabellio - tanto che il vescovo Ippolito dal217 al 235 costitui in Roma una chiesa dissidentesuo atteggiamento fideistico, poggiato sulla rivelazione, lo portava nella sua polemica contro la "gnosi," a negare ogni significato a tutta la filosofia antica, sostenendo .che da un'analisi delle varie filosofie si poteva dimostrare come l'eresia "gnostica" fosse tale in quanto derivava, appunto, dalla filosofia. Troppo spesso, forse, per amor d'effetto si è, senza tenere nel debito conto che tra Giustino e Tertulliano corre mezzo secolo circa, contrapposta la posizione di Giustino - conciliante, si è detto, nei confronti della filosofia antica, recuperata però, risolta, inverata dal Cristianesimo, l'unica e "vera" filosofia - e la posizione di Tertulliano, che ritiene l'esperienza e la fede cristiane irriducibili ai metri e ai criteri del pensiéro classico. Bisogna, certo, tenere presente, nel ricostruire il pensiero di Tertulliano, ch'egli si formò in Cartagine, dov'era nato, alla scuola di. retorica, che fu soprattutto un grande avvocato, esperto in ogni tecnica oratoria, uomo di cultura ampia, dotto in latino e in greco, conoscitore dei testi filosofici e dei testi dell'apologetica greca, ch'ebbe un temperamento estremamente inquieto, problematico, polemico ("povero me," esclama nel De patientia, "che continuamente sono arso dalla febbre dell'impazienza": De pat., 1). Ma soprattutto non va scordato ch'! Tertulliano si fece cristiano nel 190-195 circa, quando già, nei confronti del pensiero greco-romano e dell'interpretazione gnostica del Cristo, si erano delineati, da San Giustino a Sant'Ireneo, i motivi fondamentali del pensiero cristiano, e, basilari, si erano impostate le tesi del Dio creatore e persona, libertà e volontà, del Cristo, figlio di Dio, fatto uomo per volontà del padre, realtà concreta e storica, mediante il quale e mediante
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la cui parola soltanto assume ragione la ragione umana. Non solo, ma non vanno scordate, a tale proposito, su di un piano puramente logico e culturale certe conclusioni della filosofia platonica, di quella stoica e di quella epicurea nel n secolo, al cui lume l'ipotesi cristiana di un Dio creatore e volontà, libertà (e perciò stesso irrazionalità), di un Dio che si fa uomo, che muore sulla croce, di gente che in nome di quel Dio, di un Dio padrone, si fa uccidere, proclama l'avvento di un nuovo regno e cosi via, appare come un'ipotesi assurda, irrazionale e, dunque, non vera (si ricordi in particolare Celso). Sotto questo aspetto, superstiziosi, fanatici e in temperanti (estremamente pericolosi nei confronti dello Stato costituito), immorali, non avendo alcuna capacità di interiore misura, comprensione per le altrui posizioni e comprensione di quello che nell'ordine del tutto è il posto che a ciascuno compete entro i termini di una morale aristocratica e da saggi, appaiono i cristiani, ad un tempo gente povera di spirito, illogica e perciò prepotente, intollerante e piena d'ostentazione. "Come pronta dev'essere un'anima," esclama Marco Aurelio, "tanto se debba sciogliersi subito dal corpo, quanto se dovrà spegnersi, oppure dissiparsi o perdurare viva in altra condizione! E tale prontezza, perché possa dirsi proveniente da giudizio, non deve essere prodotto di uno sforzo pervicace di volontà, come fanno i Cristiani; ma deve prevenire da retta ragione e accompagnarsi a profonda gravità; se vuole poi riuscire a infondere persuasione in altri, deve rifuggire da ogni posa e da ogni ostentazione" (Ricordi, IX, 3).
7. Pensiero e mltura nella seconda metà del Il secolo a) Epicurei, cinici, sofisti. Su di un piano strettamente· religiosoteologico, Celso poteva, dunque, con ragione, ritenere pio convincente e, perciò, pio verace l'ipotesi del "platonismo" quale si era svolto da un Moderato di Gades e un Nicomaco di Gerasa a un Albino, sostenendo - e Celso aveva altrettanto ragione e acutamente aveva compreso il significato del Cristianesimo - che la forza rivoluzionaria del Cristianesimo consisteva nella sua posizione anticulturale, nella sua capacità di oltrepassare i divieti di tutta una strutturazione logica rarefatta, convincendo, piuttosto che gli uomini di .cultura, gl'incolti, gli operai, le donne, i fanciulli, dando loro una fede operativa, un senso della vita (cfr. Celso, in Origene, Contra Celsum, VII, 45, 49, 59, 60; IV, 14, 18, 3, 5, 23, 78 sgg.; III, 44, 59, 65, 71: puntuale è la polemica nei confronti di Giustino, di Taziano, di Atenagora). "Essi non possono e non vogliono guadagnart che persone prive di spirito, senza
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giudizio e senza virtu, donne, fanciulli e schiavi" (in Origene, Contra Celsum, III, 44). Cosi, per altro verso, come termine di rottura contro la superstizione e il dogmatismo della concezione cristiana, ~a anche per una ·ripresa di contatto con il senso della vita e delle possibilità umane, svincolate dal determinismo, cui, per ragioni politiche, propendeva la classe al potere, particolarmente contro l'inutilità di un Dio persona e creatore, la tesi epicurea prendeva un nuovo significato, sia pur assunta come ipotesi, e anche se, talvolta, come sembra, interpretata· in senso stoico, in quanto se ne sottolinea la tesi della seminalità. Sotto questo aspetto non poco indicativa della presenza di una polemica vivace e,_ perciò, della forza di un epicureismo in atto è una pagina dell'Ottavio del cristiano Minucio Felice, in cui Minucio fa dire a un certo Cecilio, con ogni probabilità portavoce dell'epicureismo: Dato che dalla origine prima del mondo i principi seminali di tutte le cose si siano aggregati per un concentramento di natura, che bisogno c'è di ammettere l'esistenza di un Dio creatore? ... L'uomo e ogni altro essere vivente devono la loro nascita, la loro vita, la loro facoltà di crescere a una spontanea combinazione di atomi, nei quali dovranno di nuovo l'uomo e tutti gli animali risolversi, dissiparsi e disperdersi; allo stesso modo ritornano alla loro origine e si riducono agli stessi principi che formarono le cose tutte quante, senza bisogno alcuno né di un artefice, né di un giudice, né di un creatore (Ottavio, V, 7).
Anche in questo breve t~sto è presente il significato intimo e politicamente piu pericoloso dell'epicureismo: la possibilità di un mondo umano, costruito dagli uomini, indipendentemente da quello che è l'ordine in sé del tutto, in un preciso appello a liberarsi: dal timore di Dio, dalla superstizione religiosa. In tale quadro sembra rientrare l'atteggiamento epicureo, antidogmatico e antimistico di un certo Diogeniano, di cui poco o nulla sappiamo, vissuto nel n secolo, noto per alcuni frammenti conservati da Eusebio (cfr. Praep. ev., VI, 7, 44 sgg.). Entro questi termini, nella sua polemica politica, nella sua confutazione della religione tradizionale, l'epicureismo poteva essere il maggior concorrente, anche sul piano popolare e per la sua semplicid., del Cristianesimo, che, non a caso, lo combatteva con le stesse armi del pensiero ellenistico. Se, poi, da un lato, nel n secolo, l'epicureismo assumeva un suo mordente nei confronti della fede (sempre dogmatica e perciò superstiziosa) in un Dio assoluto da cui tutto dipende (sia esso il dio dei platonici, o degli stoici, o dei Cristiani), non ragionevolmente accettato - sembra che a questo mirasse il fa144
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vore concesso all'epicureismo prima da Pomedio, da Aufidio Basso, da Pollio Felice, nel 1 secolo, poi, nel n secolo da Plotina, moglie di Traiano e madre di Adriano, da Marco Aurelio,. che ne restaurò la scuola ad Atene, e, quindi, da Antonio e da Pudenziano, citati come epicurei da Galeno -; dall'altro lato l'epicureismo, ancora nel n secolo, si presentava come un appello alla possibilità di liberarsi_ vivendo secondo i detti di Epicuro e di Lucrezio, dalla falsità della vita quotidiana e politica, in mondi a parte, ponendo come condizione una liberazione del tutto da strutture antologiche precostituite - e tale, certo, fu l'atteggiamento di quel signore che fu Diogene di Enoanda, tra la Pisidia e la Licia, che, com'è noto, fece incidere su di un muro di un portico di Enoanda una sintesi dei motivi piu salienti della tesi epicurea, in particolare insistendo sul motivo del "clinamen," sulla rottura del fato, sulla capacità umana di costruirsi i propri mondi, sulla misura, frutto di una personale conquista. D'altra parte, su questo stesso piano, si accantonano coerentemente le varie ipotesi sul!:; struttura della realtà, teoreticamente tutte possibili e accettabili, se mantenute al livello di spiegazioni scientifiche di aspetti particolari della realtà, come fu il caso delle grandi sintesi di Claudio Tolomeo per l'astronomia e l'astrologia, di Galeno per la medicina, di Sesto Empirico per la logica, piu tardi di Pappo per la geometria e di Diofanto per la matematica,26 ma capaci, se dogmaticamente assunte, di degenerare in atteggiamenti fa:natici, esclusivisti, intolleranti, negatori di ogni vivere sociale. Ci rendiamo conto cos{, sulla linea iniziatasi con Dione Crisostomo, entro il mutato clima politico sotto gli Antonini, di come si potesse riassumere l'atteggiamento pratico, piu che teoretico, di un Seneca e di un Epitteto, e di come ne scaturisse una posizione spregiudicata nei confronti di ogni religiosità e dogmatismo, estremamente severa verso se stessi, ma apertissima nei confronti 211 Per la vita di Sesto Empirico, di Galeno e di Tolomeo si veda oltre. Diofanto di Alessandria, probabilmente fiorito nella seconda metà del 111 secolo, fu "il piu grande scrittore greco di algebra, uno dei piu grandi algebristi di tutti i tempi, detto il padre dell'algebra" (G. Sanon, lntroduction to the History of Science, I, Baltimora, 1927, p. 336). Della sua Aritmetica in 13 libri restano 6 libri; restano anchè alcuni frammenti di un suo trattato sui Numeri poligonali. Perduti sono i Porismi. Interessante storieamente è ricorùare che quasi nulla fu l'influenza del pensiero di Diofanto nella cultura del suo tempo. Pappo di Alessandria, fiorito probabilmente sotto Diocleziano, fu uno dei piu notevoli studiosi di geometria, autore di una Collezione maumatica, in 8 libri, di cui restano larghe parti dei libri n- vm. Importante per una ricostruzione della storia della geometria, l'opera di Pappo è soprattutto interessante per il rigore del metodo e per alcune soluzioni di problemi geometrici, implicanti una logica che, in altra situazione storica e culturale, avrebbe potuto modifieare non poche concezioni filosofiche. Perduta è un'opera di Pappo sulla Geografia ecumenica. Compose anche commenti agli Elementi di Euclide (il commento al libro X è pervenuto in traduzione araba), all'Almagesto e agli Armonici di Tolomeo.
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degli altri, di un Enomao e di un Demonatte, effettivamènte cinici, se teniamo presenti gli esiti della logica quale fu impostata da un Antistene, ma lontanissimi dalla rigidezza e da certa ostentazione e popolarità del cinismo tradizionale (cui, forse, per come ci appare attraverso Luciano di Samosata, il piu vicino fu Peregrino Proteo, disprezzato, appunto, da Luciano per il suo fanatismo, e che Aulo Gellio, invece, presenta come "uomo gravè e costante," Notti Attiche, 8, 3).26 Per presentare l'atteggiamento di queste personalità, insieme a quelle di certi retori come Massimo di Tiro, dello stesso Luciano di Samosata; di Filostrato di Lemno, di Nigrino, particolarmente importanti come testimonianza di movimenti culturalmente spregiudicati, insofferenti di ogni astrattezza teoretica, ironizzanti la figura del filosofo di professione, con barba e in divisa di filosofo sf, ma chiacchieroni e lontanissimi dal senso della vita, basti qui riportare alcuni passi del Demonatte di Luciano. Demonatte nacque nell'isola di Cipro da una distinta famiglia per il rango che occupava e per le sue ricchezze. Ma superiore a questi vantaggi e sentendosi trascinato verso le altre regioni del bene, si dette alla filosofia, senza esservi spinto da Agatobulo [fiorito in Egitto verso il 120 d. C.], dal suo predecessore Demetrio [cfr. sopra] o da Epitteto [cfr. sopra]. Viveva intellettualmente con loro e seguiva inoltre le lezioni di Timocrate di Eraclea [fiorito verso il 130 d.C.), _uomo illuminato, pieno di sapere e di eloquenza. Ma, come dicevo, non furono questi maestri a chiamarlo allo studio della saggezza. Vi fu portato, fin dalla sua giovinezza, da un'inclinazione naturale verso la virtu e per un innato amore per la filosofia; e disprezzando tutti i beni di questo mondo, si votò tutto alla libertà e alla 28 Di Enomao, nativo di Gadara, vissuto nella prima metà del n secolo, non possediamo che due frammenti (in Eusebio, Praep. ev., V, 18 sgg.; VI, 6 sgg.) di una sua opera intitolata roiyr(I)V ljl(l)pli (Smascheramento dei ciarlata111), in cui con acuta intelligenza e spregiudicatamente dimostra l'assurdità logica degli oracoli, .l'impostura delle credenze religiose (non a caso Giuliano l'Apostata, nel suo scritto contro i cinici, dirà che Enomao "non crede piu a nulla di bello, di serio, di buono," riducendo l'anima a una "condizione ferina"), rivendicando all'uomo la libertà di giudizio e critieando cosi, con forza, il concetto del fato stoico. Nato a Cipro, Demonatte visse nel 11 secolo; di lui non sappiamo se non ciò che n~ ha detto Luciano (cfr. sopra, il testo). • Di Peregrino Proteo, vissuto nel n secolo, sappiamo che, ritenendo valido nell'insegnamento solo l'esempio - in tal senso, in questa sua rottura contro ogni tipo di cultura e di dottrina ~ il piu vicino all'antico cinismc. tipo quello di Diogene di Sinope - , dimostrò, con atteggiamenti talvolta intemperanti, il suo sentimento religioso: passò a·nche attraverso il Cristianesimo (il primo "cappuecino" della storia, ~ stato detto), finché, sempre per dare esempio, morf sul rogo durante le feste olimpiche del 165 o del 167 (si confronti soprattutto Luciano, Sulla fine di Peregrino). - A Roma, infine, dovettero circolare molte di queste figure di filosofi popo· lari, tra i quali sono ricordati: al tempo di Vespasiano, Ostilio; al tempo degli Antonini, Crescente, noto per la sua polemica contro Giustino e Taziano; Onorato, che andava in giro vestito di pelli di orso.
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franchezza, conducendo una vita retta, pura, irriprovevole, con la sua prudenza c: la sua sincerità filosofica offrendo un esempio a chi lo vedeva o l'ascoltava ... Nutrito dei migliori poeti, ch'egli conosceva quasi tutti a memoria, aveva la parola esercitata, conosceva tutte le scuole filosofiche, non superficialmente o per averle toccate, secondo il proverbio, con la punta delle dita, ma avendole approfondite... Egli non si rinchiuse in un solo genere di filosofia, ma li riunl quasi tutti, senza fare mai sapere a quale scuola dava la preferenza. Sembrava, comunque, adottare la dottrina di Socrate, anche se, per il suo aspetto esteriore, l'indolenza della sua vita, sembrava avvicinarsi al filosofo di Sinope. Solo ch'egli non deformò mai il suo modo di vivere per farsi ammirare e per attirare su di sé gli sguardi altrui. Si vestiva come tutti, aveva i tratti di tutti, nemico di ogni ostentazione, conversava · con tutti, in privato o in pubblico ... Mai lo si sentiva gridare, discutere con violenza, abbandonarsi alla collera, quando doveva rimproverare. Perseguiva i vizi, ma perdonava i colpevoli. La sua dolcezza produceva un cangiamento totale; si diveniva piu pronti ad agire bene, piu gai, piu pieni di speranza. Voleva che si prendessero a modello i medici che guariscono le malattie, ma che non se la prendono contro i malati. Credeva che dell'uomo è errare, ma che di un dio o di un uomo simile a un dio è saper correggere l'errore. Grazie a questo modo di vivere non aveva bisogno di nessuno, ma si adoperava per i propri amici a tempo giusto [aiutandoli a vivere, riconducendoli a una giusta misura: "Voi non vedete," diceva, "che tra poco cesseranno tutti i vostri dolori: Foblio dei beni si come l'oblio dei mali, una libertà senza limiti ben presto .ci prenderà tutti"]. Amava molto ricondurre i fratelli alla concordia, ristabilire la pace tra gli sposi, pacificare i cittadini. Tale era il carattere della sua filosofia, dolce, amabile e piena di letizia ... Egli era, dunque, amico di tutta l'umanità: bastava essere uomo per non essergli affatto estraneo ... Egli perciò non si allontanava se non da coloro i cui errori gli toglievano ogni speranza di guarirli. Tutto quel che diceva, tutto quel che faceva, sembrava ispirato dalle Grazie e da Venere, e sempre, come dice il poeta comico [Eupoljs]: "Sulle sue labbra la persuasione aveva sede ... " Domandandogli un giorno in che consiste la felicità, disse: "Non è felice che l'uomo libero... e libero è chi non ha né timore né speranza ... In realtà le cose umane non meritano né speranza né timore: tutto finisce, il dolore come il piacere ... " Peregrino, detto Proteo, gli rimproverava di ridere troppo e' di beffeggiarsi degli uomini: "Demonatte," gli diceva, "tu non fai che il cane." "Né tu l'uomo, o Peregrino," rispose Demonatte ... (Demonatte, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 20, 21).
b) Lo "stoicismo" di Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, riso!-
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vere se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso meditare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'imperatore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva .preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qualcuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volusio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estremamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può
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accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben piccolo il loro valore ... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo ... (Il, 15). Il tempo dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immancabile corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17). Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV, 33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da quella dovrà provenire... (IV, 36). La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15). Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere ... (IV, 48; anche V, 33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore, sono vacuità, marciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito finiscono col piangere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1).
Per altro verso, invece, quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180.
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alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfondimento di se stessi, da un continuo scavare· dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere con intellettuale luce d'azione ... è l'esperienza del divino e dell'umano (III, 1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si rivolge e si rende quale vuole ... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive sono le cose che dipendo_no da noi ... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco Aurelio a lungo meditato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte, in un atteggiamento opposto - che non modifica nulla se non se stessi -, in un amore per tutte le cose (" l'unica cosa che rimane a chi è buono, come propria caratteristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di una mente e d'una funzione che è divina ..., la funzione, !"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto" : VI, 39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano·
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presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - identici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemonico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può ritirarsi ... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scorgere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto importanti, la devi togliere via ... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza ... ; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'universale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto possiede razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio dell'uomo prendersi cura di ogni uomo ... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47).
O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà : irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, determinati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razionalmente; ha una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto -, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte mormorando, ma veramente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti,
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a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attraverso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali" : l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logicodottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avversione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho imparato ad esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale dell'uomo (ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli compete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sudditi" : I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assumc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai
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contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e incerto... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto... " : III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, individualmente insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelligente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo particolare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7).
Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizzazione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino,
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sia questa stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "egemonico" è un momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza" : VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e ciò spetta a ciascuno di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se stesso, la propria razionalità, in un amore di sé che è amore degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, n concetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razionalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'essenza dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre
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come ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razionalità, intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivissuta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula ..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi destinate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che .la durata ne sia eterna; ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il lamento funebre": X, 34), li comprendiamo come a noi vincolati, li vogUamo per quel che sono, li accettiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità di portare ordine e misura in sé,· di volta in volta obbiettivando il valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra, .ma sono tutte uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile, dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra parte, tu sei uomo proteso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana comunità" : XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel mondo per reciproco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di
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sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovrebb'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico. eterno; in tale consapevolezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che non/ si ha non si può perdere" : Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra consapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, appunto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Viviamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpretazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffrendone o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo.
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Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lunghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via trascorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica' egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni? ... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arrivato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia- · scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fragile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferiscono al presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici dell'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te assegnata nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi ... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza
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dovuta al caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della dissoluzione, qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annientamento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in tempesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interiorità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antropomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun cittadino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si
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venne realizzando da Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi stoici - la legge universale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sudditi" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29). Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi "pater " dell'umana famiglia, in una, in fondo, vissuta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29). c) La preparazione culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmosfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicureismo, la consapevolezza di Marco Aurelio, .del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere dialetticamente confutate, che permettessero una deduzione, una spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come logica matematica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro
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cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi storicamente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m secolo d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cittadini dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo, rispondente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricordare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua ricostruzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pareri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philosophorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v secolo -, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudoPlutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'autore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo-
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lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi frammenti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a T eofrasto, che venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico "); ciò poteva portare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con.cezione, se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle " successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, dell'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra concezione, e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo aspetto, evidentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto
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come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una ricostruzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le V it~ di Diogene Laerzio, " è stato detto, " sono una esposizione della filosofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo28 Diogene Lacrzio visse, proba~mente, nella prima metà del 111 secolo: nel secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Diogene nei codici piu ant!< h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~ ... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedicato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Carneade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pitagora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. IV
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rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sempre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'attività speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espressione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratterizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri filosofi ... : è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Introduzione a I Presocratici, l, T orino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'ammiratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sottolineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientificamente valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la presentazione oggettiva di piu correnti . di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente scettica, con particolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o altra.
d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolomeo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni appartenenti alla natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei commentatori di
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Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato storico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il pericolo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /poti posi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondimento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodologico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'antichità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29 Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indirizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esattezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato (Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro: critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti, intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç ( kythenas ), che non sappiamo cosa significhi (il Brochard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo").
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organica da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susseguitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in particolare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dialetticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddittorietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incomprensibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discussione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attraverso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'indirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto empirico), per· cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confessione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avrebbero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come gli aristotelici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare gli Scettici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le
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percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giudizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemorativi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al "procedimento sillogistico" e alla "analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteostoico sia, infine, sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte quelle scienze che fondano la loro costruzione su di un "sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia generale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben determinati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della
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ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Menodoto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dottrinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la polemica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico dell'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di dati osservati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo, ipotipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere matematico, geografico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere medico e operativo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non presentano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'esperienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo,
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presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi probabili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possibile di far concordare le ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che possono convenire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò ad Alessandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo raccogliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni, servendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico " sapere," ma applicando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria. T olomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risultati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifrazione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movimenti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtllemlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima, .Al maghesm}, il titolo di .Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com 'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico.
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ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conservatoci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) T olomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei dati vengono spiegati l'uno in relazione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s
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diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'armonia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristoteliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati dell'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona educazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà .sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il prenome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Mettiamo tra parentesi quadre quelli della cui autenticità si dubita: Sull'ordine dei proprllibri , (Depl ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀLY) ; Dei propri li br. (De:pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v) ; L'ottimo medico è anche filosofo (0-rL 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p( Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl -Mt,; ~) ; l costumi dell'animo sepono i tHnperamenti del corpo ( 0-rt -rat!t; -roii a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; Miit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL) ; DÙiposi e cura delle passioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;}; Medicina empirica (Dcpl Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi empirica ('Tmmmatt,; l:~mtptx-1)) ; Le parti della medicina (De:p -rwv Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv) ; Introduzione dialettica o lnstitutio logica {Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -rv) ; Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL) ; Commenti sulla natura dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;tv); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;év YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp'
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dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippocrate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli "autori"). Dal suo lavoro, sul piano piu strettamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma importanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distinzione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disordine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finalistica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, prevalendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ro npO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci-rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v}; L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov) [Le settimane: Ilcpl i()3o!Lii8c.>v]; Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v} ; Indagini anatomiche (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11} ; Gli elementi secondo l ppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); Sui temperamenti (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L }; [Se l'animille sia qual è nell'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;) ; Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç} ; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v) ; Sull'eserciflio della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou) ; Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"} ; Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç} ; Sulle facol~ degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v} ; Sulla compotiflione dei farmaci (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v) ; La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l ; Sui rimedi da pre'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v} ; Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v) ; Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~ l ; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç .&cpatncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudj l; [Uso dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i simulatori di malattie].
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vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta presente la sua formazione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambizioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affascina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in generale (filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Alessandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chirurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da giovanissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi relativi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di fisiologia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo
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che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estremamente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva, dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altrimenti rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enumerazione), le condizioni che permettono di dare un senso, cioè di dominare e ordinare i dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemorativi" - fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessariamente l'altro; la stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geometria aritmetica e logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto progressi, istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi apparivano chiaramente vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [... lacuna], ritenni fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geometriche; e infatti riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e .perciò stesso non solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della logica formale di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come,
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dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vitalità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza come "spirito cerebrale" (pneuma psichico ), · come "spirito vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocratica - dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in un'armonica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza precisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.
8. Il Cristianesimo tra la fine del II e il principio del III secolo a) Tertulliano e Minucio Felice. Nel delineare la componente cristiana e nel seguire il costituirsi delle "verità" cristiane nel corso del n secolo, dicevamo che la netta presa di posizione di Tertulliano 82 82 Quinto Settimio Fiorente T ertulliano, nato a Cartagine nel 15 5-160 circa da una famiglia non cristiana (il padre era centurione nell"esercito proconsolare), fu da giovane accuratamente educato: oltre ad approfondirsi nella lingua e nella retorica latine, studiò il greco tanto da poterlo parlare e scrivere, e frequentò le scuole filosofiche. Studiò anche medicina. Si specializzò infine nel diritto. Fu· giureconsulto ed avvocato provetto (forse con lui va identificato il Tertulliano di cui nel Digesto sono conservati alcuni frammenti). Per ragioni di studio e di professione, sui venticinque anni circa, venne a Roma. A Roma abbracciò il Cristianesimo e di esso si fece avvocato. Nel 195 lasciò Roma per tornare a Cartagine. Secondo San Gerolamo (De viris illustribus, 53) Tertulliano a Cartagine
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nei confronti della cultura e del modo di pensare non solo delle scuole, ma di tutto l'ambiente greco-romano, non va considerata solo in rapporto all'atteggiamento apparentemente conciliante di San Giustino, o sarebbe stato ordinato prete. Gli storici ne dubitano (''di fatto, alcune delle sue opere, come il De oratione, il De baptismo, il Dt: poenitentia, somigliano non poco ad omelie che sarebbero state pronunciate dinanzi all'assemblea dei fedeli": G. Bardy, Dict. dt: Théol. catholiqut:, s. v.). Dal 203 al 212 circa egli entrò, a grado a grado, in conflitto con la Chiesa ufficiale di Cartagine, sottolineando sempre di piu l'azione dello Spirito Santo nella Chiesa, il significato delle profezie, delle visioni, delle estasi, un sempre piu accentuato rigorismo morale, che lo avvicinano all'eresia montanista. Verso il 213 sembra che Tertulliano sia passato definitivamente al montanismo. L'ultima sua opera è il Dt: pudicitia, che si ritiene scritta al tempo del pontificato di San Callisto (217-222). Poiché San Ger.o!amo (De vir. ili., 53) dice che Tertulliano mori vecchissimo, si è posta la data della sua morte tra il 240 e il 250. Certo, al tempo di San Cipriano, vissuto tra il 210 e il 258, si parla di Tertulliano come figura del passato. Si è cosi pensato ch'egli sia morto tra il 220 e il 225. Le moltissime opere di Tertulliano sono state divise in tre grandi periodi: l. Pmodo ortodosso; 2. Pmodo umimontanista; 3. Pmodo montanislll. l. Periodo ortodosso: Libt!r ad amicum philosophum (perduto: composto prima del 197); Ad martyru (composto tra il 197 e il 203); Ad nationes (del 197 circa: apologia in due libri); Apologt:ticum (della fine del 197: apologia indirizzata ai governatori delle province con particolare riguardo a quello d'Africa; l'opera piu celebre di Tertulliano, senza dubbio storicamente, giuridicamente, filosoficamente importantissima); De testimonio animae (composto nel 200 circa: vi sviluppa il motivo, già accennato nell'Apologetico, 17, dell'anima naturalmente cristiana); De sputaculis (del 200: in nome della morale cristiana, vi si condannano gli spettac"li, particolarmente quelli del circo); De praescriptione haereticorum (del 200 circa); De oratione (composto tra il 200 e il 206); De baptismo (composto tra il 200 e il 206); De patit:ntia (tra il 200 e il 206); De paenitentia (tra il 202 e il 206); De eu/tu feminarum (203-206); Ad u:rorem libri duo (203-206); Advt!rsus Ht!rmogenem (gnostico che contrapponeva Dio alla materia eterna); Advt!rsus fudaeos (200-206); De censu animae (200-205: perduto, piu volte citato da Tertulliano stesso: Adv. Mare., 2; De anima, l, 3, 21, 22, 24); De fato (200-205: perduto; citato nel De anima, 20); Advt!rsus Apt!lleiacos (perduto, citato nel De carne Christi, 8: vi si combattevano le opinioni di Apelle seguace di Marcione); IN paradiso (perduto: citato nel De anima, 55 e nell'Adv. Mare., V, 12); De spe fidt!lium (perduto: citato nell'Adv. Mare., III, 24). 2. Periodo semimontanista: De virginibus velandis (206 circa); Advt!rsr.s Marcionem (in 5 libri: i primi quattro furono composti tra il 207 e il 208; il quinto tra il 210 e il 211; una delle opere piu importanti di Tenulliano); De pallio (composto nel 209 circa); Advt!rsus Valentinianos (del 209-211); De anima (209-211: opera di grande importanza); Dt: carne Christi (209-211: opera importante contro il docetismo); De resu"utione carnis (209-211); De e:rhortatione castitatis (210 circa); De corona (211 circa: in difesa di un soldato cristiano, che, dopo la morte di Settimio Severo e l'avvento di Caracalla si era rifiutato di accettare la corona; il servizio militare è contrario alla morale cristiana); De idolatria (211-212); Scorpiace (211-212: rimedio contro il morso dello scorpione, contro gli eretici gnostici); Ad Scapulam (composto nel 212, dopo la morte di Geta, dopo un'eclisse di sole avvenuta il 14 agosto del 212; lettera indirizzata a Scapula, proconsole d'Africa, che aveva condannato alcuni cristiani). 3. Periodo montanista: De fuga in pt!rsecutione (opera nettamente montanista, in cui si condanna chi fugge in tempi di persecuzione, o, peggio, offre denaro per sfuggire alle condanne); Advt!rsus Pra:rean (scritto dopo il 212, contro il monarchismo modalista di Praxea; opera di grande importanza; è il piu antico trattato di teologia sulla trinitA); De monogamia (scritto dopo il 213).; De it!iunio advt!rsus psychicos (del 215 circa); De ecstasi libri septem (del 215 circa: perduto); De pudicitia (ultima opera di Tenulliano, forse contro il papa Callisto).
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alla concezione classica, assunta in blocco, come unica. Di fronte alle religioni ufficiali e popolari del suo tempo, Tertulliano aveva buon giuoco a difendere la superiorità della religione cristiana; di contro ad esse poteva riprendere gli argomenti sull'unità di Dio dei "filosofi" (cfr., ad esempio, Apol., XVII; XLVII, 5 sgg.), ch'erano stati, del resto, già seguiti dagli altri apologisti, e sull'anima naturalmente religiosa (cfr. Apol., XVII, XXI, XLVI-XLVIII; De spect., II; De anima, d'intonazione stoica) ed aspirante a ritornare all'unico.Dio da cui è venuta; in tale aspirazione e dramma umano, T ertulliano, non a caso, si è potuto sentire vicino a Seneca, saepe noster (De anima, XX). Di fronte alle discussioni delle scuole, alla cultura impegnata ad analizzare i pro e i contra, alle ricerche che scientificamente determinano da un lato i limiti e le possibilità dd giudizio, e, dall'altro lato, impegnano l'uomo entro l'arco della stessa vita umana, di qua e di là dalla quale è filosoficamente il nulla; di fronte al razionalista e allo scettico, Tertulliano, spirito estremamente inquieto, rètore, uscito dall'ottima scuola di Cartagine, passato attraverso le scuole del suo tempo, è pur convinto delle "ragioni" dello "scetticismo," della ipoteticità di ogni concezione sul piano teoretico, convinto della preclusione, entro i termini della logica, ad ogni passaggio oltre le trame e le realtà costituite dallo stesso discorso umano, ed in cui si perde l'uomo concreto, la sua concreta vita, il suo stesso esserci umano. Ma proprio per questo, Tertulliano allo scettico e al razionalista, allo scienziato e allo "gnostico" che distrugge coi filosofi la realtà dell'uomo, con tutta la forza della sua passione e della sua disperazione umana, proprie diremmo della condizione umana entro i termini in cui era considerato l'uomo e la stessa natura dalla concezione greca, si rivolge esclamando: "Non distruggere l'unica speranza della umanità intera!... Il figlio di Dio è stato crocifisso: non è vergogna, poiché è vergogna. Il figlio di Dio è morto : bisbgna crederci, proprio perché non ha senso. Sepolto è risorto: è certo perché è impossibile" (De carne Christi, V). E altrove aveva detto: "Di queste cose anche noi ridemmo un tempo. Siamo infatti dei vostri: si diviene, non si nasce Cristiani" (Apol., XVIII, 4). Quando Tertulliano nel 190/195 venne in Roma, da Cartagine, dove era nato da un centurione romano nel 155/160, e dove si era formato nella retorica ed entro l'àmbito della cultura e della ricerca proprie del suo tempo, divenendo un ottimo giurista ed avvocato, e quando, in Roma, colpito dal coraggio dei Cristiani che si facevano uccidere per la propria fede, abbracciò il Cristianesimo, divenendone apologista e apologeta - fino, per il suo rigore dialettico-sofistico e retorico e per la sua passione, a riconoscere poi nel "montanismo" il significato piu genuino del Cristianesimo, - in realtà si erano oramai delineati da
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San Giustino a Sant'lreneo i motivi fondamentali della fede cnshana, che, nel loro complesso, vengono ripresi da T ertulliano. Già sappiamo, per altro, che tali tesi -Dio creatore ex nihilo, libertà e volontà; Cristo, un Dio che si fa uomo, che muore in croce, che viene per salvare l'uomo; l'uomo centro dell'economia dell'universo e di Dio .:._ erano state dichiarate assurde, irrazionali, irriverenti nei confronti di Dio, pericolose politicamente. Entro questo ambiente culturale, proprio della seconda metà del n secolo assume un suo significato storico la polemica di T ertulliano e la sua difesa del Cristianesimo, sia nei confronti dei "filosofi" sia nei confronti della "gnosi" (particolarmente contro il "docetismo" e il "marcionismo "). In realtà, Tertulliano, con abilità, contrappone, retoricamente, a un tipo di ragionamento e di logica (che poteva essere quella di Aristotele o quella di uno stoico, o quella di un Celso o di un Sesto Empirico) altro tipo di ragionamento. Egli, cioè, riconoscendo le ragioni degli "scettici" e le ragioni di un Celso, poteva, su quel piano, sostenere l'assurdità dei motivi proprt del Cristianesimo; solo che se, allora, i motivi propri del Cristianesimo sono non convincenti perché assurdi, tutte le posizioni, su di un certo piano, qualora si affermino dogmaticamente, sono assurde. Se è, dunque, vero che sul piano di una certa ragione non è possibile cogliere l'Essere senza ridurlo alle dimensioni dell'umano discorso, per cui su di esso bisogna sospendere il giudizio, onde, appunto; diviene puramente ipotetico discorrere di Dio, dell'anima, del tutto entro cui tutto si risolve, anche l'uomo, togliendo all'uomo ogni valore e speranza, non è allora piu contraddit· torio sostenere - e nulla lo vieta - che non si può trovare alcuna ragione al principio, alcun perché, proprio per il fatto che il principio e ciò che da lui viene non hanno perché, non hanno "ragione," scaturiscono cioè non da una nect:ssità, ma da un atto di libertà, di volontà assoluta, appunto perciò irriducibile al metro della ragione intesa come definitoria e giudicante. E allora, la coscienza, la rivelazione di questo assurdo, la consapevolezza che ogni giudizio sull'essere ~ su tutto resta puramente ipotetico, e che altrettanto ipotetico è risolvere anche l'uomo nell'unità razionale del tutto, perdendo definitivamente l'uomò, implica che questa stessa consapevolezza non è dovuta alla nostra ragione - che ne sarebbe impotente, - ma ad una gratuita presenza extraumana, per cui il mio credere non è frutto di un ragionamento che non può non restare che dialettico e possibile, ma di una rivelazione, la cui autorità (i libri sacri, il Cristo, ciò che la Chiesa di Cristo insegna) mi fa credere in ciò che logicamente è impossibile, dando luogo ad un tipo di ragionamento il cui criterio è la fede, essa stessa divenendo la ragione. Tertulliano, dando a "ragione" il significato ch'essa storicamente aveva assunto
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(capacità propria a tutti gli uomini di criticare e perciò di esprimere o sospendere il giudizio), ma sottolineando, ad un tempo, che il fondamento, il contenuto della ragione non è dovuto alla ragione, ma ad un'intuizione, alla rivelazione, mediante un vero e proprio paralogismo scambia il significato di "criterio" da criterio inteso come condizione razionale che permette il giudizio (o il non giudizio) a "criterio" inteso come rivelazione storica di un contenuto, il cui principio non è né razionale né irrazionale, ma volontà e libertà, cioè oltre la necessità, onde ciò che da esso scaturisce ed è voluto, se determinato entro i termini della "ragione, " appare come assurdo, come non " vero," come "impossibile." Solo che, appunto per questo, proprio perché non riducibile alla ragione umana, perché impossibiie, è dovuto ad una volontà extraumana, extrarazionale, al Dio volontà e libertà dei Cristiani. Sembra allora chiaro in che senso T ertulliano sostenesse, nella sua polemica, che la "verità" non si coglie razionalmente (donde la sua ripresa, non solo con i primi apologisti, ma con le posizioni scettiche, del motivo delle "varie" verità dei filosofi: cfr. Apol., XLVII, 59), ch'essa non è oggetto di "conoscenza," che Dio è inconoscibile, e che, invece, la " verità" si coglie nel miracolo, nell'" impossibile" : la verità non si conosce; nella verità si crede, e il suo criterio è l'" impossibile" : "CertUin est quia impossibile est" (De carne Christi, V). "Qualia enim decet esse opera divina, nisi super omnem admirationem? Nos quoque ipsi miramur, sed quia credimus. Ceterum incredulitas miratur, non credit" (De baptis., II). Entro questi termini si capisce come piu tardi si sia riassunta tutta la tesi di T ertulliano nella celebre espressione, mai scritta da Tertulliano, "credo quia absurdum est." Ciò è giusto, solo che, in realtà, la frase indica una questione nata dopo Tertulliano, cioè la questione del rapporto ragione-fede, che in T ertulliano non è ancora posta, se non nel senso che la ragione, intesa come criterio, è la stessa fede, che non può essere che quella fede, che si fonda sulla autorità della parola di Dio (e qui va sottolineato che in Tertulliano non si trova il termine absurdum, ma il termine impossibile, il che, sul piano delle discussioni dialettico-sofistiche, sembra molto indicativo). Tale, dunque, la giustificazione, mediante un'argomentazione propriamente retorica - dicevamo "paralogistica" - dell'opzione per i motivi cristiani elaboratisi da San Paolo a San Giustino a Sant'Ireneo, e la cui rivelazione si è scandita dal Vecchio al Nuovo Testamento, facendo perno in Cristo e, dopo di lui, sull'autorità della Chiesa di Cristo e sulla tradizione (" lsta Ecclesia legem et prophetas cum evangelicis et apostolicis litteris miscet; inde potat fidem": De praescript., XXXVI). Di qui la non assurdità, la razionalità dell'" assurda" e "irrazionale" fede cristiana, di quella intuizione, storicamente determinatasi,
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~enza di cui la stessa ragione non ha ragione, resta irrazionale e per cui, dunque, l'unico "criterio," l'unica regola si fonda sulla "fede" (rcgula fidci: cfr. "Dc pracscr., XIII e XXXVI; Dc virg. vcl., I; Advcrsus Praxcan, I). Irrazionale, allora, da questo punto prospettico, appare ogni sforzo razionale che non si fondi su quella "fede," la possibilità di dedurre da un principio a sua volta posto razionalmente; irrazionale il sillogismo di Aristotele o il giungere, aristotelicamente, attraverso la dialettica, a un principio non piu dialettizzabile e perciò posto come verace ("disgraziato Aristotele, che dette agli uomini la dialettica, artefice del costruire e del distruggere, versipelle nelle opinioni... " : Dc pracscript., VII), o il sillogismo ipotetico degli stoici, o il procedimento scettico; e se per filosofia si intende quella certà "filosofia" che s'era venuta precisando come sapere in generale, e studio delle condizioni di un certo sapere, e nello stesso campo cristiano la risoluzione della fede nella conoscenza ("gnostici"), sembra chiaro in che 'senso Tertulliano, proprio in quanto assume, da Paolo a Giustino e a Ireneo, i motivi tipici del Cristianesimo, potesse rifiutare la "filosofia" (quella filosofia), la "ragione" (quella ragione), su questo piano riprendendo la confutazione di Ireneo contro gli "gnostici," gli "eretici," in particolare contro Marcione e i docetisti, eretici perché sedotti dalla filosofia e dai filosofi, "patriarchi delle eresie" (Dc anim., III).
La verità [rivelata dalle Sacre Scritture] tanto piu era semplice, tanto piu l'umano atteggiamento critico (humana scrupolositas) disprezzava di porvi fede, vacillava, e fu cosi che [nonostante molti poeti e filosofi abbiano attinto alla fonte dei profeti] resero incerto anche ciò che avevano trovato di certo. Avendo, infatti, trovato soltanto Dio, non ne parlarono cosi come l'avevano trovato, ma discussero intorno ai suoi attributi, alla sua natura, alla sua dimora. Gli uni lo dettero incorporeo, altri· corporeo, come i platonici e gli stoici; altri composto di atomi o di numeri, come Epicuro e Pitagora; altri ancora di fuoco come sembra di Eraclito; i platonici dicono che si prende cura del mondo, gli epicurei lo vogliono ozioso e disoccupato e, per cosi dire, negativo nei confronti delle cose umane; posto dagli stoici fuori del mondo e, a guisa di tornitore, ne farebbe girare dall'esterno la mole; posto dai platonici nell'interno dd mondo, ove, a guisa di timoniere, prende posto all'interno della nave che conduce. Cosi pure intorno al mondo stesso variano le opinioni: se sia sempre esistito, se sia destinato a scomparire o a rimanere; cosi pure litigano intorno alla natura dell'anima, che alcuni vogliono divina, altri dissolubile; secondo. il proprio sentimento ciascuno vi ha aggiunto o mutato qualcosa. E non v'è da meravigliarsi, se il genio dei filosofi ha sfigurato i nostri vecchi documenti: usciti dalla loro scuola, certi uomini hanno snaturato con le loro argomentazioni personali, conformemente al punto di vista dei filosofi, anche il nostro piccolo recente libro, e da una sola via hanno tratto una folla di sentieri obliqui e inestricabili. Ciò noi diciamo,
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perché la notoria varietà della nostra setta, non ci faccia ritenere simili a quei filosofi, e dalla varietà si cerchi di stabilire un indebolimento della verità. Prontamente noi opponiamo ai nostri falsificatori, che la sola regola della fede è quella che proviene da Cristo che l'ha affidata ai propri compagni: è facile provare che quegli interpreti discordanti sono di parecchio posteriori ai compagni di Cristo (Apologet. XLVII). Neppure nella scienza o nella disciplina possiamo essere messi sullo stesso piano vostro. Infatti Talete, questo principe dei fenici, essendo stato interrogato da Creso intorno alla divinità, che cosa annunziò di positivo, eludendo piu volte con dei rinvii la risposta? Un semplice operaio cristiano l'ha trovata e la fa conoscere, e poi afferma con i fatti tutto ciò che si va ricercando intorno a Dio. Platone, invece, dichiara non essere facile scoprire il creatore dell'universo, e, scopertolo, esser difficile farlo conoscere a tutti... E allora, in che cosa sono simili il filosofo e il Cristiano, i discepoli della Grecia e quelli del Cielo? ... (Apologet., XLVI).
Ora, l'esperienza nuova di una rivelazione della verità, che proviene direttamente dalla volontà imperscrutabile di un Dio unico, persona e creatore, che ha parlato agli uomini mediante i suoi profeti prima, poi attraverso il figlio suo, il Cristo, e con Cristo mediante la Chiesa, tale esperienza implica che la verità rivelata è unica, e che unica è la regola della fede, insegnata da un'unica Chiesa ("corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae unitate et spei foedere" : un corpo solo è la Chiesa, di cui tutti i membri sono uniti dal legame della fede, l'unità della disciplina, la concordia della speranza); unica è perciò, sull'autorità della Chiesa (costituita da quelle fondate dagli Apostoli), l'interpretazione del Cristo, realmente figlio di Dio realissimo, realmente vissuto, realmente morto in Croce, realmente risuscitato, che realmente, lavando l'uomo dal peccato di Adamo, ha fatto si che gli uomini, rifacendosi Cristo, in Cristo (la Chiesa) si salvino e con lui resuscitino. Solo, dunque, nell'unica Chiesa, universale in quanto corpo unico nell'unica fede in Cristo, il nuovo Adamo, l'uomo nuovo attraverso cui l'uomo può tornare ad essere simile all'unico Dio, è depositata la verità, la regola della fede: e la Chiesa, unica nella unica fede, è quella, pur costituitasi in molte comunità, fondata dallo stesso Cristo e dai suoi Apostoli. Visitate le Chiese apostoliche, quelle in cui ancora si innalzano le cattedre degli apostoli, ove le loro lettere autentiche fanno rivivere l'eco delle loro voci, l'immagine delle loro persone. Siete vicini all'Acaia? Avete Corinto; abitate in Macedonia? Avete Filippi e Tessalonica. Andate in Asia: troverete Efeso. Se siete alle porte dell'Italia, avete Roma, la cui autorità si offre a noi affricani. Felice Chiesa, cui gli apostoli hanno lasciato in eredità tutta la loro dottrina con il loro sangue, dove Pietro è associato alla passione
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del Signore, e Paolo riceve con la spada la corona di Giovanni il Battista, dove l'apostolo Giovanni gettato nell'olio bollente ne esce sano e salvo e si vede relegato in un'isola. Vediamo ciò che Roma ha ricevuto, ciò che ha insegnato, ciò che ha intessuto con le Chiese d'Africa (De praescript., XXXVI; cfr. Adv. Mare., IV, 5).- Regola della fede ... è credere in uno e solo Dio, unico fondatore (conditor) del mondo, il quale, ex nihilo, tutto ha prodotto mediante il Verbo suo che tutto precede, tale Verbo, chiamato Figlio suo, variamente ravvisato dai Patriarchi, nel nome di Dio che sempre ha risuonato nei profeti, trasmesso dallo Spirito di Dio e per miracolo (virtus) nella Vergine Maria, fatto carne nell'utero di lei e da essa nato, è venuto all'esistenza come Gesu Cristo; egli ha, quindi,. predicato la nuova legge e la nuova promessa del regno dei cieli, compf miracoli (virtutes), fu crocifisso e ·risuscitò nel terzo giorno, assurto in cielo siede alla destra d~l Padre, ha inviato in sua vece la potenza dello Spirito Santo, che si faccia guida dei credenti; tornerà in piena chiarezza a dare ai Santi il frutto della vita eterna e delle celesti promesse, e a condannare i malvagi al fuoco perpetuo, dopo che malvagi e santi saranno risuscitati e avranno ripreso la propria carne (De praescr., XIII}: Nella opzione di Tertulliano per il Cristianesimo, rivelatosi attraverso il Cristo e la sua Chiesa, e perciò nella opposizione di lui ad ogni interpretazione che si allontani da quella delle Chiese apostoliche, sembra chiaro come Tertulliano riprenda i motivi propri del Cristianesimo elaborati da San Paolo ad lreneo. Sotto questo aspetto nulla di nuovo troviamo in Tertulliano: se non - in una interpretazione di. molti termini greci - una precisazione, nel suo discorso latino, di molti termini che diverranno poi, assumendone tutto il peso - da cui non si può prescindere - i termini propri del linguaggio cristiano (e qui particolarmente pensiamo al termine persona, assunto da Tertulliano per intendere l'unità di Dio, non negata dalla Trinità dei suoi tre aspetti, aventi ciascuno la stessa sostanza di Dio, appunto delle sue tre "persone": cfr. Adv. Prax., II; e al termine trinitas, per la prima volta usato in latino); e se non, per altro verso, una precisazione, lucidissima e netta, di quei motivi che sopra abbiamo detto, con particolar riguardo all'unità e trinità di Dio e alla realtà concreta di tutto ciò che, per volontà di Dio, ha avuto essere. Di qui, anzi, di contro al tentativo di reinterpretare secondo il metro del pensiero classico il significato del Dio e del Cristo (donde da un lato il Marcionismo e dall'altro lato il "docetismo"), sembra chiaro in che senso Tertulliano sostenesse, coerentemente, che né Dio, né il Cristo, né l'animar né l'uomo sono concetti, sono traducibili in termini di pensabilità. Di qui, appunto, da un lato il suo insistere sulla semplicità della dottrina cristiana, qualora non sia oscurata dalla critica delle scuole, per cui il
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Cristianesimo non è frutto di cultura e di scuole, ma risponde alle esigenze naturali di ogni uomo (si cfr. il motivo dell'anima natura/iter christiana), colto o incolto che sia, accomunando gli uomini in un'unica fede; e, dall'altro lato, l'insistere di Tertulliano non sul Dio ragion d'essere del tutto, condizione della pensabilità, in termini ipotetici, ma su Dio essere realissimo, che dà realtà vera e propria a tutto ciò ch'egli ha voluto, anche alla materia, che perciò in sé è bene, onde il rapporto tra Dio e il mondo non è un rapporto di necessità, ma di contingenza. Realissime perciò sono le prime creature di Dio, gli angeli, siccome la seconda creatura, l'uomo, creato tutt'uno d'anima e corpo (" vocabulum homo consertarum substantiarum duarum quodam modo fibula est, sub quo vocabulo non possunt esse nisi cohaerentes": De res. carn., XL) e creato, per volontà, di Dio, libero, cioè tale da volere sé, ribellandosi a Dio (Adamo), oppure, ora, attraverso il Cristo, di volere Cristo, con Cristo risorgendo e tornando a Dio nella sua interezza d'anima e di carne, in senso paolino (la caduta da Dio, dovuta ad Adamo, il male non sono perciò, né per gli angeli né per l'uomo, necessari, non sono dovuti alla realtà per sé di un principio negativo, ma sono dovuti alla volontà). Entro questi termini, entro questa polemica di Tertulliano, volta contro il pericolo di svuotare la realtà di Dio e il Cristo, crediamo vada considerata la netta affermazione di T ertulliano, secondo cui non solo è corporea l'anima, non solo sono corporei gli angeli, per cui angeli e uomini sono persone, ma corporeo è anche Dio, in una ripresa da parte di Tertulliano, sia pur in un atteggiamento lontanissimo da quello stoico, delle ragioni per cui certi stoici (T ertulliano cita in particolare il medico "metodista" Sorano: De anima, VI), avevano sostenuto la corporeità del tutto; alla fine, perciò, mediante Cristo, in Cristo ricompostosi uno l'uomo, sarà possibile la resurrezione della carne (ma di qui anche la rivalutazione della sensibilità). Tutto ciò che è, è un corpo sui generis. Nulla è incorporeo se non ciò che non è (De carne Christi, XI). Chi negherà che Dio sia corpo, sebbene Dio sia spirito? Lo spirito è infatti un corpo sui generis con una sua effigie (Adv. Prax., VIII). E in principio Dio era solo, nulla era fuori di lui, tutto era in lui: "Ante omnia Deus erat solus... Solus autem quia nihil aliud extrinsecus praeter illum. Ceterum ne . tunc quidem solus: habebat enim secum quam habebat in semetipso rationem suam" (Ad v. Praxean, X). Dio, che è l'Essere, ha in· sé tutto, ed egli, nell'atto in cui vuole, per ragioni imperscrutabili (le sue ragioni), proferendo il proprio Verbo, quella "sua ragione," dà realtà, mediante il Verbo e il proprio Spirito 182
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nel Verbo (cfr. Adv. Prax., XII: Secunda persona Sermo ipsius et tertia Spiritus in Sermone), che sono, dunque, due aspetti dell'unica persona di Dio, a tutto ciò ch'egli vuole, e che era implicito in lui, non proferito nel proprio Verbo improferito (Adv. Prax., VI). Posto, dunque, che tutto assume realtà attraverso il Verbo e lo Spirito di Dio, evidentemente il fondamento di Dio, la sua sostanza, è, ad un tempo, lui stesso, il Verbo (fondamento che realizza il tutto implicito in Dio) e lo Spirito (" unius autem substantiae et unius status et unius potestatis, quia unus Deus, ex quo et gradus isti et formae et species in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti deputantur": Adv. Prax., II). In tal senso Tertulliano, rispondendo ai monarchisti, che, per timore del politeismo, negavano la trinità, precisa il significato dell'unità e trinità dell'unica sostanza di Dio, affermando che le tre persone, tre aspetti dell'unica sostanza, non negano l'unità e unicità di Dio. Non figlio ancora, finché il Verbo è non proferito in Dio, il Verbo è figlio di Dio nell'atto che Dio decide di proferirlo, onde, proferito, insieme allo Spirito, il figlio assume una sua persona, una sua esistenzialità, rimanendo entro Dio, ma diverso dal Padre, assumendo cosf, rispetto alla sostanza prima, una sostanzialità identica a quella del Padre, ma limitata rispetto a lui, si come il raggio rispetto alla sua fonte luminosa (cfr. Adv. Prax., XXVI). Sotto questo aspetto si capisce come dopo la formulazione, nel simbolo Niceno (325), della identica sostanza del Padre e del Figlio, si potrà dire che Tertulliano fu un subordinazionista o un modalista (ma dopo, naturalmente). È stato detto dal Bardy (cfr. Dictionnaire de Théologie Catholique, s. v. Tertulliano), che Tertulliano insiste sull'unità di Dio, aggiungendo subito che tale unità non impedisce una certa economia; Tertulliano, con questo termine, che gli sta a cuore, indica una distribuzione, una comunicazione dell'unità, fonte della trinità. L'economia non divide l'unità, la distribuisce solamente in tre persone, numericamente distinte tra di loro: "Duos quidem defìnimus Patrem et Filium, et iam tres cum Spiritu Sancto secundum rationem oeconomiae quae facit numerum" (Adv. Prax., XIII). Queste tre persone sono ugualmente Dio: "Et Pater Deus et Filius Deus et Spiritus Sanctus Deus et Deus unusquisque" (Adv. Prax., XIII). Le tre persone non sono unus, ma unum, perché vi è tra di loro unità di sostanza e non unità numerica: "Ego et Pater unum sumus ad substantiae unitatem, non ad numeri singularitatem" (Adv. Prax., XXV). Tutte queste formule, ed è facile trovarne molte altre simili nell'Adversus Praxean, sono definitive. Tertulliano ha realizzato nella Teologia della trinità un progresso sensibile; è giunto al consustanziale e ha trovato la formula: Tres personae, una substantia, che resterà sempre quella della Chiesa latina (Bardy, cit., Tome 15, I"" partie, coL 151). 183
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Realissimo, dunque, è Dio, "corporeo" in quanto esistente e persona, e da lui, per un atto di sua volontà, attraverso il Figlio e lo Spirito Santo, si costituisce tutto ciò ch'egli vuole, per sua ragione, e che, dunque, assume realtà, viene all'esistenza, è corporeo, in essenza essendo già nella ragione di Dio. Corporeo Dio, corporee le sue creature, dagli angeli all'upmo, persone anch'esse. L'uomo, perciò, non alberga in sé l'anima, frammento della sostanza divina, ma è un tutt'uno (fibula) d'anima e corpo, per cui anche l'anima, in quanto reale, personale, creatura di Dio, venuta alla "esistenza" è corporea. Definiamo l'anima nata dal soffio (jlatus) di Dio, immortale, corporea, avente una figura (effigiata), sostanza semplice, sapiente per sé, variamente procedente, libera per sua volontà (libera arbitris), soggetta agli accidenti, per sua proprietà mutevole, razionale, dominatrice, divinatrice, emanante da una prima [anima] (De anima, XXII). Dio, dunque, ha creato con Adamo l'uomo, il primo, unico uomo (la prima anima); da Adamo, con il suo peccato, dovuto ad un atto di sua volontà, dovuto cioè all'anima sua, libera arbitrii, che con ciò si è come ammalata, infettata, nascono gli uomini, la cui anima è, perciò, derivando per trasmissione (ex traduce) da quella di Adamo, infetta · (come, appunto, per un tralcio di vite - tradux derivante da transduco- che si allunga e dà luogo a nuove viti); come per ereditarietà si infettano i corpi, cos1 per ereditarietà, tutti gli uomini, nati da Adamo, tutti sono infetti (" totum genus de suo semine infectum, suae etiam damnationis traducem fecit" : De test. an., III), finché, attraverso illogos, fatto, per volontà di Dio, uomo (carnale, dunque, e corporeo), non infetto, con Cristo si lava (di qui il significato del Battesimo, l'esigenza di battezzare anche i bambini, infetti, appunto, per la loro condizione umana) il peccato originario, e, mediante il Cristo, se l'ani,ma, rifatta libera e sana con il battesimo, vuole farsi simile a Dio, si salverà con Cristo e con Cristo risorgerà in Dio, come unità, come uomo, come persona, unità d'anima e carne (resurrezione della carne). Ita omnis anima eousque in Adam censetur, donec in Christo recenseatur, tamdiu immunda quamdiu recenseatur (De anima, XL). Nec mors nostra dissolvi posset nisi domini passione, nec vita restituì nisi resurrectione ipsius (De bapt., XI). Non possiamo ora soffermarci, né sarebbe il luogo, sulle discussioni di Tertulliano nel precisare i sacramenti (battesimo, matrimonio, penitenza) e neppure sulla discussione di Tertulliano relativa alle norme provenienti non piu dai sacri libri, ma dalla tradizione. E cos1 non è
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il caso di soffermarci sul passaggio di T ertulliano al montanismo, sicuro dal 210 in poi, ché in realtà, in campo teologico, egli non si scostò molto dai motivi delineati al tempo delle sue opere cosiddette cattoliche (basti pensare all'Adversus Praxean, del 212, che è certo il piu antico trattato di teologia sulla trinità). suo passaggio al montanismo fu dovuto, soprattutto, ad un esasperato rigidismo morale che lo portò a lodare in campo morale il fiero ascetismo in uso nelle comunità montaniste, fino a ritenere fiacca la Chiesa ufficiale nei confronti dei costumi delle donne, nell'ammettere che un cristiano faccia il servizio militare, nell'ammettere le seconde nozze e cosi via (cfr. particolarmente: De virginibus velandis, De corona, De exhortatione castitatis, De monogamia, De pudicitia)~ "Psichici," egli dirà, nell'ultima fase del suo pensiero (cfr. De jejunio adversus psychicos) gli aderenti alla Chiesa, non "pneumatici," non davvero toccati dallo· Spirito Santo. Solitaria e scontrosa la sua vecchiaià (cfr. Sant'Agostino, De haerq, 86), isolato in atteggiamenti mistici e polemici, ·sembra che Tertull~ano non abbia scritto piu nulla dopo il 222. circa (De pudicitia) e che, alla fine, si sia distaccato anche dal montanismo.
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Che c'è di comune tra Atene e Gerusalemme? Tra l'Accademia e la Chiesa? Tra gli eretici e i Cristiani? La nostra dottrina viene dal portico di Salomone che insegnò che bisogna cercare Dio in semplicità di cuore. Tanto peggio per chi ha dato alla luce un cristianesimo stoico, platonico, dialettico! Noi piu non abbiamo curiosità dopo Cristo Gesu: non abbiamo piu bisogno di cercare dopo l'Evangelo (De praescriptione haeretic., VII).
Si è a lungo discusso sulla questione se Minucio Felice 88 (forse africano, vissuto tra la fine del n secolo e il principio del m secolo, esercitante l'avvocatura sotto Marco Aurelio) abbia nel suo Octavius subito 88 Marco Minucio Felice, probablime.Dte di origine a&icana, vissuto tra la fine del secolo e il principio del m, stabilitoli a Roma per tempo vi esercitò l'avvocatura: stoico, sarebbe passato, abbiaataDZa tardi, al Cristianesimo (cfr. Otlllllio, 1). L'Otlllllio ~ l'unica opera di Minw:io rimaataci. Non ~ un'apologia in lleiiSO atretto: ~ un dialogo attraveno cui si vuoi convincere il lettore a convertirai al Criatiaoaimo; una narrazione, fatta dall'autore .stesao, di come Ottavio, ora morto, ·converti al Criatianesimo Cecilio Natale, probabilmente un epicureo. Il dialogo si finge svolto ad Ostia, in riva al mare: l'occasione ne ~ il fatto che Cccilio piame.Dte aaluta una statua di Scrapide; di qui la diacussione sullà vera reli&iooe (Introduzione: cc. 1-4). Cecilio . espone prima la propria tesi (Pane 1: cc. 5-13); Ottavio, quindi,· espone la tesi cristiana, confutando passo a passo gli argomenti di Cccilio (Pane II: ·cc. 14-38), finché Cecilio, .-iconoscendosi convinto di errore, si dichiara convertito al Cristianesimo (Conclusione: cc. 39-41). Certamente scritto dopo il 175 (nell'Ott.Wio si parla di Frontone come di persona ormai paaaata), a seconda che si ritenga l'Apologetico di Tertulliano influenzato dali'Ottavio o I'OIIavio dall'Apologetico di Tertulliano, I'Ottallio ~ stato detto composto prima del 197, o dopo il 197 (la data sicura in eu i T ertulliano scrisse l'Apologetico). 11
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l'influenza dell'Apologeticum di Tertulliano - da un punto di vista giuridico l'Apologeticum è, certo, molto piu· solido anche se molto piu irritante, e per la sua intolleranza, rispetto alle altre religioni, tale da non essere accettato dalla tolleranza romana, e perciò politicamente e giuridicamente discutibile, - o se, viceversa, sia stato Tertulliano a ricavare argomenti dall'opera di Minucio Felice. Risolvere la questione sarebbe importante per determin~e la data in cui Minucio scrisse l'Octavius. Come che sia, è indubbio che, sia pur vicino all'.Apologeticum, particolarmente per la regula fidei e per i motivi tipici del Cristianesimo (oramai, del resto, assai diffusi), l'Octavius si svolge su di un artificio retorico-letterario che delinea una possibilità d'incontro, in realtà molto piu tollerante. Scritto assai bene, in un andamento volutamente ciceroniano, ove di Cicerone si riprende, di contro alla tesi epicurea, il motivo della provvidenza, e del tutto ordinato (cfr. particolarmente il De natura deorum ), l'Octavius, sul piano della dialettica piu diffusa nelle scuole, contrappone due discorsi, l'uno scettico-epicureo (per bocca di Cecilia), l'altro stoico-ciceroniano. che, potendosi risolvere entro i termini della concezione cristiana, tende a dimostrare che come il discorso di Cicerone era piu convincente nei confronti della tesi epicurea, cosi ora, inverata la tesi stoico-platonica dalla rivelazione del Cristo, piu convincente è il discorso sulla concezione cristiana. Non a caso cosi, molto abilmente, Minucio presenta i due discorsi contrapposti come due pacati ragionamenti, ove, riconoscendo le ragioni dell'uno e dell'altro si dovrebbe dare la palma a quello che risolve in sé anche il primo. Già tutta la introduzione prepara a dimostrare la pacatezza e ragionevolezza della discussione, con le belle pagine sull'incontro di Ottavio (cristiano, amico di Minucio) e di Cecilio (pagano) lungo la spiaggia di Ostia, già lido di moda, su di W) morbido arenile, di fronte al mare calmo, dopo una placida passeggiata igienica, mentre alcuni ragazzini si divertono a far rimbalzare ciottoli levigati sulla superficie dell'acqua. Cecilio ripropone la tesi diffusa dell'impossibilità di cogliere la ragion d'essere del tutto, donde l'ipotesi di una realtà' che scaturisce dal caso, 'dall'incontro fortuito di atomi o di semi, o, per lo meno, da meccaniche leggi di natura, per cui; sul piano religioso conviene affidarsi alle religioni dei padri, pur sapendo ch'esse hanno un valore puramente cultuale, pur sapendo che gli dèi sono invenzioni umane, ma invenzioni da cui deriva l'umanità dei costumi. Poiché, dunque, tutti i popoli conservano ferma e concorde la fede negli dèi immortali, sebbene ne sia incerta la ragione e l'origine, io non posso tollerare alcuno di coloro che, rigonfi di tanta audacia e di una non
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so quale scienza irriverente, cercano di dissolvere e infirmare una dottriha religiosa cosi antica, cosi utile, cosi salutare (Ottavio, VIII). Non mettetevi a pronunciar giudizi sulla divinità: serbiamo fede negli antichi, i quali, in tempi di civiltà ancora rozza, e proprio sul pnmo nascere delle religioni, meritano di avere gli dèi come cittadini e come re (Ottavio, VI).
I cristiani, invece, con la storiellina del loro Dio creatore, del Cristo, uomo e crocefisso come un qualsiasi delinquente, della resurrezione dei corpi e dell'anima (speranza di uomini vili), non solo sono irriverenti versò la divinità e irrispettosi delle altrui credenze e intolleranti, -ma se da un lato con i loro culti segreti, con le loro segrete riunioni, confermano il sospetto che facciano davvero cose illecite (incesti, assassinii, e cosi via), appunto da tenere nascoste, dall'altro lato confermano il sospetto della loro asocialità, per altro abbandonandosi al fato, ché, in effetti, se tutto deriva da Dio, tutto è da lui voluto, tutto è fatale, e all'uomo nulla è concesso; neppure il dubbio è concesso, il dubbio fonte della ricerca e della scienza ("la coscienza della propria imperizia è segno infatti della propria saggezza..., e ciò perché non si cada in superstizioni da pinzochere, o non si distrugga addirittura ogni sentimento religioso": Ottavio, XIII; per tutto il discorso di Cecilio cfr.: V-XIII). Se per il discorso di Cecilio, molto abilmente Minucio sfrutta una certa linea culturale, la piu spregiudicata ed avversata (dal socratismo, inteso come soluzione della vita sullo stesso piano della vita umana, allo scetticismo, dalle tesi accademiche a quelle ciniche), per il discorso di Ottavio, Minucio sfrutta i topoi della corrente culturale piu conservatrice (i t6poi di tutta la precedente apologetica cristiana, ricavati d'altronde dai topoi classici sull'ordine dell'universo che implica un intelligente facitore, che provvidenzialmente ordina il tutto, sulla bellezza della figura umana, eretta e con gli occhi volti alle cose del cielo, le solite citazioni dal Timeo di Platone, in realtà dal De natura deorum di Cicerone, e cosi via). Minucio ripercorre la linea dell'interpretazione del divino uno e intelligente, che dà realtà al tutto provvidenzialmente. Non a caso egli, prendendo le mosse da Talete, Anassimandro, Anassimene, cita in particolare il Platone del Timeo, gli stoici, usa le argomentazioni di Cicerone contro gli epicurei, cita Virgilio ("che dire del mantovano Marone? Non aflerma egli forse piu chiaramente, piu esattamente ed in una forma che piu si avvicina alla verità, che, fin dall'origine, uno spirito interno di vita alimenta il cielo e la terra e tutte le rimanenti parti del mondo, e una intelligenza tutte le pervade e le muove, e che da essa proviene la schiatta degli uomini, degli animali, e di qualunque altra specie di esseri viventi? Lo stesso Virgilio in altro
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luogo chiama dio codesta intelligenza e codesto spirito. Eccone le precise parole: 'Poiché dio passa .attraverso tutte le terre, le distese del mare ed il cielo profondo, da lù\ traggono origine gli uomini e gli animali, da lui la pioggia e il fuoco!' Ebbene: che altro diciamo anche noi che sia la divinità, se non intelligenza e ragione e spirito? Passiamo in rassegna, se non ti dispiace, le varie dottrine dei filosofi: avrai modo di osservare che questi sebbene differiscano l'uno dall'altro per la forma del loro ragionamento, tuttavia nella sostanza si accordano e cospirano ìn questa sola opinione" : Ottavio, XIX). Chiaro è in Minucio Felice l'intento retorico di mostrare come il Cristianesimo non rompa contro una certa cultura e una certa conce· zione, ma, innestandovisi e recuperandone i motivi convenienti, le inveri, risolvendole in sé, attraverso la rivelazione di Dio, purificando anzi i costumi, adorando l'unico e solo Dio in purezza di cuore, in una religiosità che non è solo accettabile dagli uomini di cultura, ma anche, e soprattutto, dai semplici, in una libertà - in contrasto col fatalismo stoico, di cui non può essere accusato il concetto della predestinazione cristiana, - che, dataci da Dio, consiste o nel non voler vivere secondo i dettami della rivelazione, o nel seguire quelle filosofie, ispirate dai dèmoni, che risolvono l'uomo entro lo stesso orizzonte umano (le filosofie, appunto, che Minucio fa risalire a Socrate). Noi teniamo viva la speranza della futura felicità con la fede nella maestà di Dio ognora presente. Cosi risorgeremo beati, e ora già viviamo nella contemplazione di ciò che è di là da venire. Per il. che, se la veda lui quel buffone dell'attico Socrate con la sua confessione d'ignoranza, sebbene sia salito in gloria per la testimonianza di un fallacissimo dèmone; Arcesilao e Carneade e Pirrone e tutta la pleiade degli Accademici facciano pure le loro deliberazioni, e anche Simonide proroghi ~ll'infinito la decisione del suo quesito: noi disprezziamo la prosopopea di questi filosofi... (Ottavio, XXXVIII). - [Approviamo, invece, le opinioni di quei filosofi che sostengono essere Dio la ragion d'essere del tutto]: .essi sono circondati da una piu luminosa aureola di gloria; ammettono l'esistenza di un Dio solo, quantunque lo designino con ùDa molteplice varietà di denominazioni, tanto che si potrebbe credère, o ·che, ai nostri giorni, i Cristiani siano filosofi, o che già fin dai tempi piu antichi i filosofi siano stati Cristiani (Ouavio, XX).
b) La Scuola di Alessandria: Clemente Alessandrino e la "gnosi" cristiana. Minucio Felice ricalca non a caso modelli classici, particolarmente assunti dalla medìazione latina, reinterpretandoli entro 1 termini della concezione cristiana piu vaga, lasciando da parte, abilmente, le questioni piu scottanti dello "scandalo" cristiano. Altro è l'intento di Minucio: la possibilità, sul piano della credenza in un unico e solo
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Dio, di recuperare una certa linea della cultura classica, dimostrando che, entro quella, può essere accettata la rivelazione delle ragioni di Dio ("e perché dovremmo essere ingrati, perché invidiosi di noi stessi, se la verità divina si è maturata nell'età nostra?": Ottavio, XXXVIII), per cui quella cultura, quei filosofi e quei poeti possono servire, come preparazione, anche ai Cristiani, in una comune esigenza. Sotto questo aspetto particolarmente significativo è l'Ottavio, la cui abilità retorica rispecchia l'ambiente culturale (quello romano) per il quale ·Minucio ha scritto. Se l'opera di Tertulliano mette in luce l'aspetto piu nuovo della esperienza cristiana, irriducibile al metro del giudizio della logica aristotelica, stoica, o scettica, ribaltando il concetto di ragione e sostenendo che il canone, la regola della stessa ragione è la fede, fede nell'autorità di Dio, rivelatosi attraverso i Patriarchi, i Profeti, il l6gos suo figlio e il Cristo incarnato, proprio tale ribaltamento, l'aver sottolineato che la ragione non si fonda sulla ragione, ma su di una illuminazione rivelante, e che il criterio della ragione è la fede, porta, invece, in altro- ambiente, per un pubblico colto e di scuola, ad un'apologetica diversa, o meglio ad una dimostrazione della validità del Cristianesimo, che rientra nei termini delle discussioni filosofiche proprie di questa età, particolarmente in Alessandria. In una scuola di Alessandria, di fronte a un pubblico qualificato, in un ambiente in cui si discute Platone e Aristotele, in cui fiorisce la "gnosi ebraica" e la "gnosi eretica," in cui è vivo l'incontro tra la concezione ebraica e la concezione ellenistica operato da Filone l'Ebreo, in cui ancora sono raffinatamente coltivate le singole scienze e, ad un tempo, s'incontrano le piu varie religioni e misteri, questa è la via su cui si è posto il "maestro " Clemente 34 : nato, sembra, ad Atene, sul 3• Secondo Epifanio (Hat!r., 32, 6), per alcuni Tito Flavio Clemente sarebbe nato ad Atene, per altri ad Alessandria. In realtà sembrerebbe nato ad Atene tra il 145 c il 150 circa, da genitori non cristiani (il padre, probabilmente, doveva discendere da qualche liberto del console suo omonimo). Uomo di notevole cultura c di vasti interessi, prima di fermarsi in Alessandria Clemente visitò l'Italia, la Siria, la Palestina, iniziandosi anche ai misteri greci. In Alessandria, incontrò Panteno, capo della scuola catcchetica dal 180: in lui, dice Clemente, trovò l'iniziatore al vero mistero, il mistero del Cristo, del 16gos di Dio (cfr. Stromata, I, c. 1). Verso il 190 entrò a far parte del corpo' insegnante della scuola di Pantcno, e, sembra, alla morte di Panteno (200), gli successe nella direzione della scuola. In Alessandria Clemente insegnò fin verso il 203: nel 203, la persecuzione di Scttimio Severo lo costrinse ad abbandonare la scuola e Alessandria. A Clemente, riapertasi la scuola, successe il suo discepolo Origcnc. Clemente, intanto, si rifugiò a Cesarea, dove, con tutte le sue forze, cercò di mantenere viva cd attiva quella Chiesa, priva del suo vescovo Alessandro, che, dal 203, era stato messo in carcere. Da una kttera di Alessandro, anc.ora in prigione, diretta a Clemente, suo vecchio maestro, sappiamo, appunto, dell'opera svolta da Clemente a favore della Chiesa di Cesarea (nella lettera si prega Clemente di far avere la lettera stessa agli abitanti di Antiochia). La lettera di Alessandro è del 211 circa. Liberato nel 212 Alessandro divenne vescovo di Gerusalemme
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150 d. C. circa, da famiglia non cristiana, formatosi entro l'àrnbito della cultura non cristiana, uomo di vaste e molteplici conoscenze, iniziatosi anche ai misteri di Eleusi, fermatosi, dopo aver viaggiato per l'Impero, ad Alessandria, presso il cristiano Panteno, in cui trova l'iniziatore al vero mistero, quello del Cristo, l6gos di Dio. Senza dubbio Clemente nel suo Protrettico non poche volte ricalca i luoghi comuni dell'apologetica greca, in particolare sfruttando motivi e tesi della Supplica per i Cristiani di Atenagora. Sappiamo, ora, che Atenagora (cfr. sopra), platonico, fu, per un certo periodo, scolarca della scuola platonica di Alessandria, e che sostenne come attraverso le vie della ragione si giunge a certe verità (alla dimostrazione, con Platone e Aristotele, che Dio è uno: cfr. Supplica per i Cristiani, 6), e, con Platone, perfino a cogliere gli attributi di Dio e a rendersi conto che Dio deve essere uno e trino (cfr. Suppl. per i Crist., 3); solo che, alla fine, la verità piena si coglie mediante la rivelazione, attuantesi attraverso la stessa parola di Dio e il Cristo. Se su questo piano Atenagora poteva sostenere d'essere il vero interprete di Platone, cercando di convincere al Cristianesimo, nulla vieta di supporre che in Alessandria la scuola platonica si sia spezzata in due modi di interpretare Platone e la. tradizione platonica, o meglio che una scuola platonica si sia sganciata dalla origi(cfr. Eusebio, Hist. e~cl., VI, c. 11). Eusebio (Hist, e~cl., VI, 14), poi, ricorda una lettera indirizzata ad Origene, in cui si parla di Clemente come già mono, e poich~ si dice anche che la lettera è anteriore ad un viaggio fano da Origene a Roma sotto Caracalla, si è ritenuto che la lettera sia dd 217 circa. Clemente, dunque, dovrebbe esser mono tra il 211 e il 217. · Di Clemente, accanto alle tre grandi opere, Il Protretti~o ( Ilptnpclt'T\X~ 7t~ "Eì.À'I)IIott;: EsorttUtione ai Greci), il Pedagogo (IIe~L3ocy61y6t; ), in tre libri, gli Stromata (Twv XGtTd: rljv IIÀ1)67j cpr.Àoaocplocv yv61anxwv u7tOf1.111)111)!LiiT6111 aTP61!LOC-n:rc;: T t~ppeti di ~ommenti gnostici, ucondo la vera filosofia), in sette libri (ddl'ottavo libro non sono rimasti che frammenti), si sono mantenuti frammenti dei seguenti scritti: lpotiposi ('17tOTU7twae~), dei cui otto libri, annotazioni c chiose a diversi passi della Sacra Scrittura, in forma allegorica, sono conservati frammenti in Eusebio (Hist. e~~l., I, 12; Il, l, 9, 15; VI, 14) in Eucumenio (Commentaria in A~lll Apostolum), e in Cassiodoro (De institutione, l, 8: lungo frammento in traduzione latina); Quis dives salvetur (Quale ri~~o si salvi), un'omdia su Marco, X, 17-31 (conservata quasi per intero). Eusebio (Hist. ecci., VI, 13, 9) cita alcune opere di Clemente non pervenuteci, se non in qualche frammento: Sulla Pasqua (Ilcpl TOU Ilciaxoc composto in occasione di uno scritto di Mditone di Sardi); Ai giudaizzanti (Ilp6ç ToÙc; tou8a.(~o11Tott;); ;·.·ortazione alla pazienza, ovvero ai nuovi battezzati ('O 7tptnpC7tTtxÒt; 7tpÒt; U7tOfi.O\rijll f) 7tpÒt; -roUc; 11E61CMl ~c~a.=,ajdvouc;); Sul digiuno (Ilcpl ll'l)aTE(cu;); Sulla ~alunnia (Ilep( XGt=>.txl~t;). Sono, invece, giunti alcuni estratti di testi gnostici e di altri autori antichi che dovevano far parte di opere di Clemente: Estratti dagli smtti di Teodoto; Antologia di smtture . profeti~he. Il Protretti~o
fu, ceno, composto prima dd Pedagogo (l'uno e l'altro tra il 188 e il 200). Gli Stromata furono composti dopo: dal 203 circa in poi. Il libro VIII degli Stromata, di cui sono giunti frammenti, è un trattatello di dialettica rdativo al metodo logico, alle definizioni e alle prove, ai generi e alle specie (cfr. Ch. de Wedel, Symbola ad Clementis Alezandrini Stromatum librum Vili interpretandum, Berlino, l 905 ).
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naria, proseguendo come scuola di teologia cnsnana, ove si preparavano gli ascoltatori a rendersi conto della verità cristiana e dove, perciò, era necessario usare le tecniche della convinzione razionale, e che di tale scuola il primo scolarca sia stato Panteno, e che in essa abbia insegnato, appunto,· Clemente. Non è che un'ipotesi. Di fatto sappiamo che in Alessandria fu aperta una scuola catechistica ufficiale, in cui si preparava al battesimo dando una prima istruzione religiosa e che tale scuola fu detta il "Didascaleo " cristiano. In una lista antica dei suoi maestri figura, storicamente per primo, dal 180 circa, Panteno (dd quale non sappiamo altro), poi Clemente (dal 190 al 203 circà), quindi Origene. Anche se in realtà, come hanno cercato di mostrare il Bardy (Aux origines de l'École d'Alexandrie, "Rech. de Se. Relig.," 1937, pp. 65 sgg.; Pour l'histoire de l'Éc. d'Alex., Parigi, 1942, pp. 80-109) e il Mondésert (Introduzione al Protrettico di Clemente, "Sources Chrétiennes," Parigi, 1949), Clemente non ha mai esercitato, in Alessandria, una funzione ufficiale di catecheta (le sue opere, perciò, pur nate in seno a quella scuola, non sarebbero corsi di catechismo), certo è che egli insegnò in quella scuola. Quella scuola, cosf, può avere proseguito - assunta una nuova figura - la scuola platonico-cristiana iniziatasi con Atenagora. Invece, la scuola platonica non cristianizzata doveva seguitare in polemica con la nuova: di qui uscirà Plotino - non sembra un caso il suo atteggiamento polemico nei confronti dell'interpretazione cristiana della gnosi di Dio e del significato dato dai Cristiani al Dio persona - e, forse, anche quell'Origene detto platonico, del quale nulla sappiamo, ma che non è azzardato far l'ipotesi che sia l'Origene cristiano, cosf profondamente platonico, passato alla scuola cristiano-platonica, al "Didascaleo." Il perno, su cui ruotano tutto il discorso di Clemente e il suo inse· gnamento, poggia sul significato dato a ragione e a filosofia da Filone l'Ebreo, e sul rapporto scienze-filosofia-sapienza sempre di Filone (non a caso da Clemente citato piu di trecento volte). Filone (cfr. sopra), interpretando in chiave ebraica, il motivo platonico che il discorso umano si fonda su di un dato intuitivo, non razionale, aveva sottolineato che, se anche non si può conoscere Dio, all'unità di Dio si giunge attraverso la rivelazione dello stesso Dio. La "sapienza" è possibile in quanto viene dallo stesso Dio, è rivelazione del 16gos divino. Filone cosf concludeva che le singole scienze sono "ancelle" della filosofia e che la filosofia è "ancella" della sapienza, dell'unica sapienza divina, in un chiaro rovesciamento di quello che era stato il concetto di sapienza proprio del mondo antico. Come lo studio delle scienze nel loro insieme (enciclopedia) - scriveva Filone - prepara alla filosofia, cosf la filosofia serve da introduzione alla 191
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sapienza, poiché la filosofia è di fondamento all'acquisizione della sapienza, e la sapienza è scienza delle divine e delle umane cose e delle loro cause. Come, dunque, la cultura enciclopedica è ancella (3ou):l)) della filosofia, cosi la filosofia è ancella della sapienza (De congressu erudit., 79-80). Cosi, al principio degli Stromata di Clemente leggiamo: Le singole scienze preparano, in realtà,, a ricevere la parola di Dio e contengono ciò che in tempi diversi è stato dato a ciascuna generazione nel suo interesse; è tuttavia avvenuto che alcuni, ubriacati dalla bevanda delle ancelle, hanno dimenticato la padrona, · che è la filosofia. Alcuni di loro sono invecchiati nello studio della musica, altri in quello della geometria, altri ancora in quello della grammatica, troppo nello studio della retorica. Ora, si come le arti liberali, o, come si suol dire, enciclopediche, fanno da ancelle alla filosofia loro padrona, la filo59fia stessa ha per fine di preparare alla Saggezza. La filosofia, infatti, non è che un'applicazione della Saggezza, scienza delle divine e delle umane cose e delle loro cause. La Saggezza è, dunque, la padrona della filosofia come la filosofia lo è delle discipline che la precedono... La filosofia consiste, dunque, nella ricerca della verità e nello studio della natura. Orbene, della Verità ha detto il Signore: "lo sono la verità." lo aggiungo che la scienza, la quale precede questo riposo che si trova, infine, nella scienza del Cristo, esercita il pensiero, sveglia l'intelligenza, acuisce lo spirito per istruirsi nella vera filosofia, che i fedeli posseggono in virtu della suprema Verità (Stromata, I, 5).
Posto, dunque, che la sapienza di Dio ("ogni sapienza viene dal _è pr~a dei secoli... La s~p~enza d1 D10 va avanu a tutte le cose... Pnma d1 tutte le cose fu c(éata la sapienza e la prudente ragionevolezza è da tutti i tempi, fon'te della sapienza è il logos di Dio nei cieli": Ecclesiastico, l, 1), per volontà di Dio si rivela ·attraverso il lOgos di lui, e, ora, temporalmente, mediante l'incarnazione del lOgos stesso in Cristo, Clemente, riprende da un lato da Filone l'Ebreo nell'interpretazione del Vecchio Testamento, dall'altro lato dal Nuovo Testamento e ·da Giustino nell'interpretazione del .lOgos fattosi carne, in un momento della storia, e con il quale si · compie la rivelazione ultima. Clemente poteva cosi sostenere la tesi che come Dio attraverso il Vecchio Testamento, con la "legge," ha preparato il Nuovo Patto, cosi Dio, sia pur rivelandosi parzialmente a certi .filosofi, mediante la ragione (Pitagora, Platone, gli stoici per ciò che riguarda la moralità), ha, ugualmente, anche se per altra via, preparato altri popoli, i Gentili, a comprendere la rivelazione ultima del Cristo. Come gli Ebrei avrebbero avuto la "legge," i Gentili avrebbero avuto la "filosofia." Si verrebbero cosi a porre com~ due Vecchi Testamenti (il Vecchio Testamento vero e proprio per gli Ebrei; la filosofia S~gn~re Dio, e f~ sempre con lui ed
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di Pitagora e di Platone, avviamento per i Gentili alla comprensione, non alla conoscenza, mediante la ragione, dell'esistenza di un solo e trascendente Dio : non a caso Clemente cita i soliti motivi della Repubblica e del Timeo: il Bene oltre l'essere, esso fonte dell'essere; il raggiungimento del Bene mediante un'intellezione a cui il filosofo accompagna, ma che non si può dedurre; infine le difficoltà di far comprendere agli altri il divino, e cosf via) e un solo Nuovo Testamento, che in vera e risolve in sé la "legge" e le sparse illuminazioni della filosofia. E allora, muovendo tutto da Dio, come la legge ebraica è rivelazione di Dio e preparazione all'avvento del Cristo e della fede che si fonda sull'autorità della parola di Dio, cosf la ragione, detta naturale, propria dei Gentili, dei Greci, è, in realtà, anch'essa rivelazione di Dio, i cui profeti, in questo caso, furono certi filosofi. Mediante la ragione, dunque, si può giungere a rendersi conto dell'esistenza di un solo Dio, trascendente e ineffabile, oltre l'essere (come Platone), oltre l'unità stessa, aggiunge Clemente con Filone l'Ebreo. Giustamente, dunque, Dio è stato detto ineffabile e ignoto, di là dall'Essere e dalla stessa unità, egli misura e numero dell'universo ("Dio, secondo un antico racconto, tenendo il principio, la fine e il mezzo di tutte le cose, va direttamente al suo fine, seguendo la propria natura; egli è sempre accompagnato dalla giustizia per punire coloro che vengono meno alla legge divina" - Platone, Leggi, 715e-716a -: "Donde, o Platone, ti viene questa allusione alla verità? Chi ti fornisce sf abbondanti discorsi per vaticinare sulla religione?... Io 'SO chi sono i tuoi maestri, nonostante il tuo desiderio di tenerli nascosti: tu apprendi dagli Egiziani la geometria, dai Babilonesi l'astronomia, dai Traci ricevi le tue sagge incantagioni, e molto ti hanno insegnato gli Assiri; ma per le leggi, per quelle almeno che sono conformi alla verità, per la tua dottrina di Dio, gli Ebrei stessi ti hanno aiutato" : Protrettico, VI, 69-70). E a ciò si giunge attraverso la stessa ragione (come hanno dimostrato Pitagora, Platone, Cleante, Filone l'Ebreo, gli ermetici). Proprio questo conferma la fede in un Dio persona e volontà (indicibile); da cui, mediante il suo l6gos ("ragione della nostra fede": Pedagogo, l, 3, 8) ha essere il tutto, il tutto ha fondamento, vien creato, assume esistenza: e solo attraverso il l6gos è possibile comprendere - non conoscere in sé - Dio, per via negativa. Se perciò, da un lato, basta la fede per essere cristiani, in semplicità, indipendentemente da ogni cultura, dall'altro lato ciò non significa rottura nei confronti della filosofia: anzi, la filosofia, insieme all'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento (seguendo Filone l'Ebreo), può servire, passando attraverso le scienze, indicate da Platone, a rendere conto, attraverso l'esercizio del pensiero, della stessa fede, sf che
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la filosofia riveli che la condizione stessa del conoscere e della sapienza
è la medesima rivelazione di Dio. Entro questi termini si vede bene in che senso Clemente può dire che la verace filosofia è la pitagoricoplatonica sul piano dell'avviamento alla comprensione dell'Unità di Dio e della sua esistenza, che illumina e· dà fondamento al discorso umano attraverso il suo stesso rivelarsi, e la stoica - di cui non va accettata l'identificazione tra Dio e il mondo - sul piano della provvidenza e su quello etico, mentre fallaci sono le filosofie come l'epicurea. Ogni uomo, in quanto tale, ha avuto da Dio capacità di ragionare. Tale sua razionalità Ur6nesis) gli permette di cogliere le condizioni, i principi indimostrabili, su cui si fonda il pensiero (n6esis), deducendo dialetticamente di qui ciò che in quei principi è implicito (e in ciò consiste il sapere, la conoscenza, la "gnosi" scientifica). Se attraverso il Cristo, ora, si è riscattata e compresa la funzione di tale ragionevolezza e conoscenza, onde criterio di verità diviene la fede, evidentemente da un lato si può avviare chi non abbia ancora avuto la rivelazione a comprendere che il fondamento stesso della sapienza è la fede e a far si che nelle filosofie e concezioni del passato si rintraccino quei lumi di verità, ora dispersi, riconnettendoli nell'unità della verità rivelata, mediante l'appello del Cristo (Protrettico); e, dall'altro lato, sia pur sapendo che basta la fede per essere cristiani, si può, rifacendo la storia della rivelazione, ripercorrendo le tappe mediante cui il l6gos si è rivela~o (sia nel Vecchio Testamento sia nei filosofi), rendersi conto della fede stessa, comprenderne la ragione, che è la ragione medesima di Dio, in cui consiste la "sapienza," intesa evidentemente in senso ebraico e filoniano (cfr. sopra Pedagogo e Stromata). Se il " semplice," dunque, vive cristianamente, e a lui come all'uomo di cultura, in quanto semplice credente, sono aperte le vie della salvezza ("questa è la volontà del Padre mio, che ogni uomo che vede il Figlio e crede in lui riceve la vita eterna ed io lo resusciterò nell'ultimo giorno" : San Giovanni, VI, 40), l'uomo di cultura, il filosofo, in quanto consapevole della propria fede non solo può avviare gli altri a vivere secondo il Cristo, ma può chiarire che tutto il senso della vita e della cultura non può risolversi se non nel Cristianesimo, in cui, appunto, confluisce la storia dell'umanità e, per rivi diversi, confluiscono le culture e le concezioni del passato, costituendo cosi la nuova, universale civiltà, la nuova "sapienza" adeguantesi alla "sapienza" di Dio, attraverso il Cristo: tale la vera "gnosi," la "gnosi cristiana." Su questi motivi di fondo si basano l'apologetica e l'insegnamento di Clemente, dal Protrettico al Pedagogo agli Stromata. Dice Io stesso Clemente, al principio del Pedagogo, che vuoi essere, secondo il suo
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piano, la seconda tappa dell'insegnamento cristiano, una volta convinto il gentile che l'unica "sapienza" è quella cristiana (Protrettico): La celeste guida, il L6gos si chiama Protrettico, o colui che converte, quando invita alla salvezza. Ma quando assume la funzione di medico e di precettore ... assumerà allora il nome di Pedagogo. L'anima ammalata ha bisogno del Pedagogo, che la guarirà dalle sue passioni, poi del Didascalo o maestro, che la renderà capace di conoscere... la rivelazione del L6gos. n L6gos cosf, volendo salvarci, a grado a grado, nella maniera piu compiuta, segue un ottimo metodo: dapprima converte, poi disciplina, infine istruisce (Pedagogo, l, 1-2).
Non sembra che gli Stromata (Tappet•) costituiscano la terza tappa annunciata, quella del Cristo 4idascalo; certo, anche se in forma diversa, ove la molteplicità delle materie trattate prende talvolta la mano dell'autore, gli ~tramata rappresentano la terza tappa del piano di Clemente. Nella prima opera, il Protrettico (o Discorso esortatorio), Clemente, riprendendo i soliti temi dell'apologetica (in particolare da Giustino, da Taziano, da Atenagora), presenta una serie di ragioni che dovrebbero convertire il gentile dal vecchio al nuovo canto, com'egli dice. Il Signore, inviando il suo soffio in questo bello strumento che. è l'uomo, lo fece a sua immagine; anche l'uomo, dunque, è uno strumento di Dio, tutto armonia, accordato, santo, sapienza sopraterrestre, /Ogos celeste. Che vuole, dunque, questo strumento, il L6gos di Dio, il Signore e il suo nuovo canto? Aprire gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, condurre gli storpi e gli sbandati alla giustizia, mostrare Dio agli uomini insensati..., riconciliare con il Padre i figli disubbidienti (1, 5-6).
Sottolineato, dunque, che con l'avvento del Cristo, ragione di Dio, pura dal peccato, si riscatta la. ragione umana (nell'errore, per la caduta), simile, perché data da Dio, alla ragione di Dio, che volle l'uomo a sua immagine, Clemente può affermare che, ora, mediante il Cristo, il/Ogos si riforma, la ragione viene riportata alla sua giusta forma (di qui il titolo di Protrettico dato a Cristo, IOgos che converte). Clemente, cosi, riprendendo le opinioni degli stessi filosofi antichi e di alcuni poeti antichi sulla divinità (ispirati dalla divinit~ stessa) convince il gentile che assurdi ed empi iono i misteri ed i miti pagani (Pedagogo, c. 2), che falsi sono i molteplici dèi greci (c. 4), mentre non irrazionale, secondo retta ragione, è porre a fondamento del tutto un Dio unico e perfetto, creatore e persona, secondo ciò che i grandi filosofi ispirati hanno sottolineato e i profeti hanno detto per bocca stessa di 195
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Dio (cc. 5-8). Dio, appunto, ci chiama a lui mediante il suo L6gos, e, perciò, mediante noi stessi, in particolare ora mediante la venuta del L6gos nella carne, mediante il battesimo (cc. 9-12). Avvenuta la conversione, scelta la via della salvezza, assunta la fede a criterio e a ragione della visione e concezione del tutto, l'uomo nuovo, attraverso lo stesso l6gos, entro i termini delle ragioni del Cristo, si forma, si educa alla nuova legge morale. Di qui il Pedagogo, in cui, appunto, si presenta il Cristo come la ragione (il l6gos) che forma (paidèuein) alla nuova vita, il vero pedagogo, che conduce (àghein) i fanciulli (patdas) - tutti siamo tornati fanciulli nell'atto che, convertiti, lavati dal peccato, ci educhiamo al Cristianesimo - a vivere cristianamente, temperando i costumi; curando l'anima e il corpo, s1 che l'uomo decaduto da Dio, torni, mediante il l6gos di Dio, ad essere simile a Dio. Il nostro buon Pedagogo, che è la Sapienza e il L6gos del Padre, e che ha creato l'uomo, prende cura della propria creatura intiera: egli ne cura ad un tempo il corpo e l'anima, egli, il medico dell'umanità, capace di guarire tutto ... E noi, con un atto, rapido come il pensiero (l'assoluzione dovuta al battesimo], siamo divenuti fanciulli; noi riceviamo dalla sua potenza organizzatrice la migliore e piu sicura posizione. Innanzi tutto questa potenza si occupa del mondo e del cielo, delle rotazioni del sole e degli altri astri, e ciò in funzione dell'uomo: quindi si occupa dell'uomo stesso, intorno al quale dispiega tutto il suo zelo... In tutto il Signore viene in nostro aiuto, in tutto ci è benefico, ad un tempo come uomo e come Dio. Come Dio, egli rimette i nostri peccati; come uomo, in qualità di pedagogo si occupa della nostra educazione, perché si smetta di peccare. t naturale che l'uomo sia amato da Dio, poiché egli è la sua creatura. Le altre parti della sua creazione, Dio le ha fatte solo con un ordine; l'uomo, invece, l'ha costruito con le sue stesse mani e gli ha ispirato qualcosa di peculiare... Senza l'uomo non era possibile che il Creatore si rivelasse buono e, d'altra parte, senza le altre creature non era possibile che l'uomo arrivasse a conoscere Dio ...
(Pedagogo, I, 2-3). La funzione del Pedagogo, dunque, una volta convertito, lavato l'uomo dal peccato, è di ricondurre l'uomo a Dio, di renderlo simile a Dio, dapprima riformandolo nei costumi, strutturando tutto un modo di vita cristiano (e da ciò i tre libri del Pedagogo: nel primo libro, sottolineata la funzione del Pedagogo, si delinea corrie attraverso il l6gos l'uomo tornato fanciullo p.1Ò di nuovo, mediante il Cristo, restaurare la propria ragione e per ciò, vivendo secondo il 16gos, vivere secondo ragione, secondo la ragione. cristiana; nel II e III libro si passa ai piu minuziosi precetti relativi alla vita quotidiana: alimenti, ammo-
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biliamento, uso delle parole, vita coniugale e cosi via, m un quadro storicamente assai interessante). La funzione del Pedagogo, poi, una volta condotto l'uomo a realizzare sé in senso cristiano, è, trasformatosi in "maestro," in Didascalo, di istruire l'uomo, di condurlo alla verace "gnosi." Se Clemente non ha mai scritto il promesso Didascalo, ha scritto gli Stromata, in cui, ripetiamo, si discute la funzione della cultura, si delinea, polemicamente, il significato della vera "gnosi, " in un primo schizzo di una possibile filosofia della storia culturale, la cui conclusione è, appunto, la risoluzione delle culture del passato, momenti della rivelazione di Dio, nella cultura moderna, la cultura cristiana, specchio della rivelazione totale di Dio attraverso l'incarnazione di Cristo, in funzione dell'uomo. Sia pur nel loro carattere di miscellanee, di Stromata, di "tappeti" (il titolo tramandato, da Eusebio, Hist. eccl., VI, 13, a Fozio, Bibl. cod. 111, è: Tappeti di commenti gnostici, secondo la vera filosofia), i sette libri rimastici, sugli ottO, degli Stromata delineano un piano, un'articolazione di materie, dalla cui discussione emerge il significato della "gnosi cristiana," mediante cui, anche rispetto ai " semplici," non solo si rivela in pieno la "sapienza divina," ma si realizza in senso totale e riflesso una vita cristiana (I Stromata: introduzione al metodo apostolico, dottrinale, apologetico; II-IV: discussioni sulla fede, le virtu, la morale cristiana; V-VI: discussione sulla conoscenza religiosa propria dei Greci e dei Barbari; V~I: delineazione della vera "gnosi") (cfr. E. de Faye, Clément d'Alexandrie, Parigi, 1898, p. 90).
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Parte seconda
L'ultima crisi dell'Impero e le ultime componenti del pensiero antico
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Capitolo primo
Platino
Porfirio, discepolo di Plotino,l cosi scrive nella sua Vita di Piotino: "Plotino, che, parlando, era, molte volte, ispirato e caldo di passione - sia che partecipasse all'altrui sentimento sia che lo trasfondesse l Nato a Licopoli, in Egitto, nel 202-205, Plotino, come apprendiamo da Portirio, la cui Vita di Platino è la maggior fonte biografica su Plotino, compi la sua formazione in Alessandria, dapprima frequentando le varie scuole, poi - aveva allora vcntotto anni circa - , per un decennio, la scuola diretta da Ammonio Sacca (su Ammonio Sacca, del quale sappiamo pochissimo, vedi sotto nel testo). A trcntanove anni circa, Plotino, preso dal desiderio di fare - scrive Porfirio - una diretta esperienza sia della filosofia praticata tra i Persiani sia di quella dominante tra gli Indiani, "quando l'imperatore Gor· diano si accinse a marciare contro i Persiani, arruolatosi, si accompagnò all'esercito" (Vita Plot., 3). Sconfitto e ucciso Gordiano III, in Mesopotamia, Plotino riusci a stento a fuggire, riparando ad Antiochia. Poi, a quaranta anni circa, andò a Roma. Nei primi anni romani, Plotino, "pur stando a contatto con un certo numero di persone che lo frequentavano, restò fedele al patto," stretto con i suoi amici e oondiscepoli alla scuola di Ammonio, Ercnnio e Origenc, "di non svelare nulla delle dottrine di Ammonio." "Ma quando Ercnnio per primo violò il patto, Origcnc ne segui l'esempio." "Plotino, invece, continuò per lungo tempo a non scrivere nulla." "Trascorse cosi dicci anni interi. Aveva, si, alcuni scolari, ma non scriveva nulla. A dire il vero, questo insegna· mento si svolgeva con molta confusione e con diffuse divagazioni, poiché egli soleva stimolare i convenuti alla diretta ricerca" (Vita Plot., 3). Nel 253 circa ("sin dal primo anno del regno di Gallicno": 4), Platino fu indotto a scrivere su argomenti occasionali. "Al decimo anno del regno di Gallicno, quando per la prima volta io, Porfirio, entrai in rapporti con lui, risultò che aveva scritto ventun libri, i quali venivano affidati a ben pochi, .cd io, lo potei constatare: non era ancora facile la cessione dci manoscritti, né si faceva cosi, sulla buona fede, semplicemente e alla buona, ma vagliando con ogni rigore le persone che potevano ottencrli... Plotino non vi aveva apposto titoli, ognuno vi poneva il suo" (id., 4). Negli anni che seguirono, spintovi dai suoi discepoli piu fedeli, Amelio e Porfirio, Plotino scrisse altri ventiquattro trattati. Durante gli anni che Porfirio, per ragioni di salute, passò in Sicilia, dal 267/268 al 270, Plotino compose dnque nuovi scritti, che inviò a Porfirio, cui, prima di morire, aggiunse altri quattro. "Questi," conclude Porfirio, "piu i quarantacinque, della prima c della seconda serie, fanno dn· quantaquattro scritti" (id., 6). Gravemente ammalatosi di gola, nel 268 circa, Platino si allontanò da Roma, andando ad abitare in Campania, in una villa dell'amico Zeto, dove nel 270 mori. "Dopo la mia partenza da Roma," scrive Porfirio, "la malattia inficrl talmente - a quanto me ne rifer{, al mio ritorno, Eustachio, l'amico che gli restò accanto fino alla morte - da togliere anche alla voce quel suo timbro vibrato e armonioso: parlava rauco; la vista gli si annebbiò; le mani c i piedi si copersero di piaghe. Per
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in altri - nello scrivere, invece, era conciso, concettoso, breve, denso di pensieri piu che di parole. Nei suoi trattati sono sparse insieme, anche certe inosservate dottrine stoiche e peripat~tiche; vi sono pur condenquesto, e anche perch~ gli amici ne evitavano l'incontro ..: si _allontanò dalla_ città. e, recatosi nella Campania, andò a dimorare nella tenuta rusuca d1 Zethos, vecch1o am1co suo, allora, però, già morto. Il necessario per vivere non gli era solo fornito dai beni di Zethos, ma gli proveniva anche da Minturno, dai beni di Castricio (a Minturno Castricio aveva le sue proprietà). E venne a morte. Eust()l:hio dimorava allora a Pozzuoli c perciò giunse tardi - mc lo raccontò lui stesso - al capezzale del maestro. Che disse: 'Vedi: ti ho aspettato!' Aggiunse poi che cercava di fare risalire il divino che è in noi al divino che è nell'universo, e mentre un serpente sgusciava sotto il letto in cui giaceva il filosofo e si nascondeva in un buco ch'era là nel muro, egli rese lo spirito... Quand'egli mori, io, Porfirio, dimoravo a Lilibeo; Amcli~ io Apamca di Siria; Castric10 a Roma; solo EustDchio gli fu accaoto" (VitiJ Plot., 2). A Roma Platino non apri una vera e propria scuola. Il suo fu una specie di libero circolo, in cui, dalla lettura e discussione di testi, di volta in volta emergeva, a seconda anche della questione proposta da un ascoltatore, il pensiero di Platino su questa o quella questione. Profondamente amato c stimato da tutti, anche per la dirittura della sua vita, per la sua aspirazione a costituire una società di "saggi" seguaci della "vita platonica," Platino non solo ebbe molti discepoli, uomini c donne (Amelio, il medico Paolina, il medico Eustachio, il filologo e poeta Zotico, l'arabo Zethos anch'egli medico, Castricio, Porfirio, Gemina, nella casa della quale Platino abitava, Anficlca moglie di Aristonc figlio di Giamblico), e molti illustri ascoltatori, tra cui non pochi membri dell'alta società romana (i senatori Marcello Oronzio, Sabinillo c Rogaziano: "quest'ultimo progrcdl talmente nel distacco da questa vita che non solo rinunziò a tutti i suoi beni e licenziò tutti i servi, ma abbandonò persino la carica": id., 7), ma a lui anche ci si rivolse quale consigliere, tutore, amministratore di beni. "Molti poi - uomini c donne delle piu nobili famiglie - al pensiero della morte imminente, recavano a lui i propri figli, maschi o. femmine che fossero, e glieli affidavano con il resto dei loro beni, quasi a custode sacro c divino. Perciò la sua casa era tutta piena di giovinetti e di fanciulle ... E, nondimeno, pur provvedendo alle brighe e alle cure per la vita di tante persone, egli mai rallentava, sol che fosse desto, la sua tensione spiritualè. Era di natura soave, pronto ai desideri di quanti, per una o per· altra ragione, avevano consuetudine con lui. Ond'è che per tutta la durata dci ventisei anni della sua dimora romana, pur avendo dovuto dirimere, in qualità di arliJ'tro, molteplici liti, non si ebbe mai neppure un nemico tra gli uomini politici" (YitiJ Plot., 9). Stimato c onorato, Platino fu anche datl'imperatorc Galliena e da sua moglie Salonina. A tal proposito Porfirio riferisce che Platino, avvalendosi del loro alletto, voleva far sorgere una città di filosofi. "La città _:_ si diceva - era esistita un tempo in Campania, ma, allora, peraltro, era un cumulo di rovine; fondata che fosse la città, occorreva cederle il territorio circostante; gli abitanti futuri avrebbero dovuto osservare le leggi platoniche c si ~arcbbe impOsto alla città il nome di PliJtonopoli. Platino promise che si sarcbbé ritirato là in compagnia dci suoi discepoli. Questo progetto sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluoi cortigiani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo" (id., 12). Gli scritti di Platino, .rielaborati c corretti dai discepoli - Platino, una volta composto, non ritornava piu su di ùn suo scritto - non furono mai sistemati e ordinati da Platino (ciascuno scritto, in realtà, entro l'àmbito della questione trattata è in ~ compiuto). Gli scritti di Platino furono ordinati e sistemati da Porfirio, dopo la morte del maestro, e pubblicati tra il 300 c il 305. Nulla è rimasto dell'edizione che degli scritti plotiniani fece Eustachio (se ne ha notizia da uno scolio a Ennede IV, 4, 29), né dei Cento libri di Scolii agli scritti .di Platino composti da Amelio. L'edizione porfiriana risente, senza dubbio, dell'interpretazione del curatore. Merita il conto riportare le parole con cui Porfirio giustifica il metodo da lui adottato nel raccogliere e ordinare i 54 scritti di Platino, dividendoli in sei gruppi di n!JVC (donde il nome di EnneiJàJ) trattati ciascuno. "Poiché Platino stesso affidò a mc l'ordine e l'emendazione dei suoi libri - ne feci
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sate questioni di filosofia aristotelica. Non gli erano ignoti i cosiddetti teoremi della geometria, dell'aritmetica, della meccanica, dell'ottica, della musica; personalmente, però, non aveva la necessaria preparaprome~sa a lui, vivo, c diedi notizia agli altri amici dell'esecuzione - io ritenni anzi: tutto di non dover serbare l'ordine cronologico in un'opera i cui libri erano apparsi alla rinfusa. Imitai, invece, Apollodoro di Atene e Andronico il peripatetico: il primo di essi raccolse tutto Epicarmo, il commediografo, distribuendone l'opera in dieci volumi; il secondo divise in trattati le opere di Aristotele e di Teofrasto, riunendo nello stesso posto, i soggetti affini. Orbene, allo stesso modo, anch'io, disponendo di cinquantaquattro libri di Platino, li ripartii in sei enneadi, lieto di attingere, insieme con il nove della enneade, la perfezione del numero sei; a ciascuna enneade assegnai un proprio àmbito di argomenti e poi li posi insieme, riservando il primo posto alle questioni piu facili. La prima enneade contiene gli scritti in cui prevale il contenuto morale (l. Che cosa sia il vivente e chi sia l'uomo; 2. Le virtu; 3. Dialettica; 4. Beatitudine; S. Beatitudine estesa nel tempo; 6. La bellezza; 7. Il primo bene e gli altri beni; 8. Donde i mali?; 9. Ragionevole, l'uscire liberamente dalla vita?) ... La seconda enneade raccoglie trattati di fisica: abbraccia quesiti sull'universo e sulle altre materie attinenti ... (1. Il mondo; 2. Il moto . circolare; 3. Agiscono gli astri?; 4. Le due materie; S. In potenza, in atto; 6. Qualità e forma; 7. La mescolanza, permeante il tutto; 8. Com'è che le cose viste da lontano ci appaiono piccole; 9. Contro coloro che dicono cattivo il demiurgo del mondo e cattivo anche il mondo). La terza enneade, avendo ancora dell'altro sull'Universo, comprende i seguenti scritti sulle ricerche fatte in rapporto al mondo (l. Il destino; 2.-3. La Provvidenza; 4. Il dèmone che ci ha avuti in sorte; S. Eros; 6. Impassibilità degli incorporei; 7. Eternità e tempo; 8. Natura, contemplazione: l'Uno; 9. Ricerche varie). - Ordinate queste tre enneadi, ne abbiamo fatto un solo corpus. Abbiamo incluso nella terza enneade anche il trattato su Il d~mone che ci ha avuti in sorte, giacché l'indagine sull'argomento viene qui condotta in maniera generale e perché il problema investe altresi delle indagini sulla natività degli uomini. Altrettanto si dica del soggetto Eros. Il trattato Eternità e tempo deve la sua collocazione, in questa sede, per la materia riguardante il tempo. L'altro, Natura, Contemplazione e Uno è qui incluso per il suo primo capitolo sulla natura. La .quarta enneade, che tien dopo agli scritti sull'universo, è destinata ai tra t· tati sull'anima (l c 2: l'essenza dell'anima; 3, 4, S: Aporie sull'anima; 6. Sensazione c memoria; 7. Immortalità dell'anima; 8. La discesa dell'anima nei corpi; 9. Unità di tutte le' singole anime?). La quarta enneadc, quindi, contiene tutti i problemi relativi all'anima in sé; la quinta enneade, invect!, ha, sl, le questioni relative all'Intelletto, ma abbraccia pure ad una ad una, in alcuni di questi libri, la ricerca sul Trascendente, quella sull'Intelligenza che è nell'anima e quella sulle idee (1. Le tre ipostasi originarie; 2. Genesi e ordine delle realtà successive al Primo; 3. Le ipostasi capaci di Intelligenza: il Trascendente; 4. Come dal Primo derivi ciò che è dopo il Primo; 5. Gli intelligibili non sono fuori dell'Intelletto: il Bene; 6. Ciò che è di là dell'Essere non pensa; 7. Vi sono idee anche delle cose individuali?; 8. La bellezza intelligibile; 9. Intelletto: le idee, l'essere). Anche la quarta, quindi, piu la quinta enneade ordinammo in un unico corpus. Della suta enneade, che restava ancora, fu fatto un altro corpus; sicché tutti gli scritti plotiniani sono affidati a un triplice corpus: il primo contiene tre enneadi; il secondo, due; il terzo, una sola [e qui va detto che Porlirio, in questa sua divisione delle Enneadi in tre corpi, di tre il primo, di due il ""ondo, di uno il terzo, tiene presente il motivo platonico - in Repubblica, S46b-c - , secondo cui il sei è numero perfetto e divino - e perfetto, appunto, dice sopra Porfirio - , perché il sei è circolare in quanto la somma del prodotto dei suoi divisori dà ui: 6:2 3, 6:3 2, 6:6 l; 3 2 I 6]. Il c~:m!enuto del terzo corpus (cnneade sesta) [unica, perché con essa si compie il circolo, SI ntorna con l'uno all'Uno, e, perciò, in essa si tratta dell'Uno], è il seguente: I. 2. 3.: l generi dell'Ente; 4. 5.: L'essere, benché uno e identico, è, nello stesso tempo, dappertutto nella sua interezza; 6. I numeri; 7. Come sia giunta ad esistenza la molteplicità delle idee. Il bene; 8. Il libero volere: la volontà dell'Uno; 9. Il bene o l'Uno" (Vita Plat., 24-26).
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zione per elaborare tali discipline. Alle riunioni della scuola, egli si faceva dapprima leggere dei commenti, quali che fossero: di Severo o di Cronio o di Numenio o di Gaio o di Attico, ovvero, tra i peripatetici, quelli di Aspasio, di Alessandro, di Adrasto, e di altri, a caso. Ma non già che si facesse una semplice lettura e, una volta fatta, ci si fermasse H. Al contrario, egli era personalissimo e nuovo alla visione delle dottrine altrui: e, del resto, nel metodo di ricerca, si atteneva allo spirito di Ammonio" [il maestro platonico, con cui Plotino aveva studiato ad Alessandria) (Porfirio, Vita di Plot., 14, 70 sgg.). Troppo spesso Plotino lo si è considerato come un monumento isolato, fuori dalla problematica e dalle discussioni del suo tempo; la testimonianza di Porfirio dovrebbe, perciò, riportare subito il lettore degli scritti di Plotino (cinquantaquattro trattati, composti volta a volta in epoche diverse, a seconda dell'argomento o del testo messo in discussione, e raccolti poi in unità, com'è noto, da Porfirio in sei gruppi, contenenti ciascuno nove trattati: di qui il nome di Ennead•), a certe precise discussioni, commenti, interpretazioni di Platone, quali per linee diverse, talvolta opposte tra di loro, si erano svolti nel secondo secolo, se non vogliamo risalire alle interpretazioni di Moderato di Gades e di Nicomaco di Gerasa (da cui, per altro, non pochi motivi erano stati ripresi da certi commentatori del II secolo) (cfr. sopra). A parte Cronio, vissuto nella seconda metà del n secolo e che sembra abbia commentato la Repubblica e il Timco, interpretando l'uno platonico in termini matematici, perché ne fosse possibile una deduzione (e per ciò fu detto pitagorico: sul "pitagorismo logico" e non misticheggiante o popolare, cfr. sopra), degli altri autori nominati da Porfirio abbiamo già discorso, cercando di delineare la comune esigenza e i diversi esiti in almeno due tipi, abbastanza precisi, di interpretazione di Platone (ove, poi, in realtà, piu che di un'interpretazione di Platone, si tratta di un uso di Platone in funzione di una certa sistemazione del tutto). La problematica e certi esiti di Plotino, la sua discussione sull'uno e sulla materia, i motivi dell'infinita ricchezza e potenzialità dell'uno, del tempo e dell'eterno, e cosi via, .il suo netto rifiuto della interpretazione gnostica per un verso e, per altro verso - e per le stesse ragioni -, del ribaltamento del significato di ragione identificantesi con la fede in un Dio persona, volontà ed esistenza dei Cristiani (logicamente un assurdo), si comprendono e se ne vede davvero la genesi e la interna coerenza, quando si riportino a quelle discussioni, a quelle tormentate ricerche di cui sopra abbiamo parlato. Non a caso, anzi, Porfirio, subito dopo avere citato i nomi di certi platonici, dopo avere con esattezza storica accennato alla possibilità di interpretare il
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tutto, sia pur entro una concezione platonica - ove va tenuto presente che si tratta sempre del Platone dalla Repubblica in poi, con particolare interesse per il Parmenide, il Sofista e il Timeo -, in chiave aristotelica o in chiave stoica, e la funzione che dovevano avere avuto certi commenti di Aristotele - ai libri logici -, afferma che Plotino riteneva assurda la posizione dei Cristiani e degli "gnostici," che falsamente interpretavano la tesi platonica sull'essenza intelligibile ("perciò Plotino stesso, nelle sue lezioni, li confutò a piu riprese; scrisse anche un libro che intitolammo Contro gli gnostici": Porfirio, Vita Pl., 16, 80-81). E qui va tenuto presente, anche, che Plotino, nato a Licopoli, in Egitto, nel 202-205 d.C., compi la sua formazione in Alessandria, dapprima frequentando le varie scuole, poi - aveva allora ventotto anni circa -, per 'un decennio, la scuola platonica diretta da Ammonio Sacca (" Plotino entrò e ud1 la lezione; disse poi all'amico: Questo è l'uomo che cercavo!": Porfirio, Vita di Pl., 3, 14). Di Ammonio, detto Sacca (sembra che da giovane facesse l'operaio, il portator di sacch•), sappiamo assai poco, se non che fu capo della scuola platonica di Alessandria, ch'ebbe tra i suoi discepoli Erennio e Origene - forse l'Origene cristiano e l'Origene platonico, se non sono da identificare in una sola persona -, che interpretò il platonismo in una direzione molto vicina a quella che sarà poi l'interpretazione plotiniana e che vide nel "platonismo" un modo di vita, la possibilità di una " vita platonica." Si è detto, anche, che Ammonio sarebbe stato cristiano e che, poi, avrebbe abbandonato il cristianesimo per il platonismo. La notizia, riferita da Eusebio (Historia ecclesiastica, VI, 19, 7) come di Porfirio (Eusebio, loc. cit., e San Gerolamò, De viris illustr., 55, sostengono che mai Ammonio abiurò al cristianesimo), è, forse, leggendaria, ma rivela un possibile conflitto tra la scuola platonica di Alessandria e l'interpretazione data di Platone dal gruppo di Cristiani che fondarono il Didascaleo e v'insegnarono (non è senza interesse ri~?ordare già qui che Origene, che insegnava al Didascaleo dal 204 circa e che era successo, riaperta la scuola dopo la persecuzione di Settimio Severo, a Clemente, frequentò Ammonio Sacca verso il 210-211 e di nuovo verso il 218219, mentre ancora teneva il suo insegnamento al Didascaleo di Alessandria, dove si trattenne fino al 230). Come abbiamo veduto, il problema grosso era, già in seno ai cosiddetti "platonici" del II secolo, quello della pbssibilità, o meno, di determinare non contraddittoriamente, cioè logicamente, le condizioni che permettono di pensare lo strutturarsi della realtà (donde, a seconda della risposta, si usava uno piuttosto che altro testo di Platone, uno piuttosto che altro dei libri logici di Aristotele, uno o altro modo di interpretare i numeri pitagorici, in senso simbolico-mistico o come traduzione di
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un possibile " discorso," uno o altro aspetto del "16gos" stoico e della "simpatia" stoica). Per altro, di fronte alla soluzione degli "gnostici," nei termini di una rivelazione extra-razionale, o dei Cristiani, considerati come "gnostici," per i quali la ragione trova il suo criterio nella fede, nell'autorità di un Dio posto come persona e volontà, la posizione gnostica e quella cristiana appaiono "assurde," fuori luogo, fuori dei termini del problema. Validissime si presentano le obbiezioni e confutazioni di Celso. Passibile, invece, di essere ricondotta su di un piano deduttivo, posti certi principi come condizioni dello stesso discorso, sembrava la concezione di certi scritti ermetici, sia per ciò che riguarda il tutto, vivente di un'unica ragione, che il tutto lega, sia per ciò che riguarda la possibilità, attraverso quel tutto, di cogliere l'unica divinità, essa stessa ragion d'essere del tutto, essa condizione del discorso, esistente, anzi, in quanto discorso della realtà stessa, e, appunto in quanto condizione del discorso, in sé ineffabile, indefinibile, ma che si può cogliere solo ripercorrendo lo stesso discorso. T ali i termini entro cui, sembra, si è mosso Platino, anche se dobbiamo sempre tener presente che, almeno per ciò che riguarda i "platonici" del 1 e del n secolo non ci possiamo affidare che alle interpretazioni di Moderato di Gades, Nicomaco di Gerasa, Albino - per il resto ci dobbiamo contentare di ipotesi e di suggestioni, storicamente da porre tra parentesi. Un'attenta lettura dei cinquantaquattro trattati che compongono le sei Enneadi- ciascuno è compiuto in se stesso, e in ciascuno, sia pure a seconda del testo letto e dell'argomento messo in discussione da un qualche scolaro, ritorna sempre, approfondito entro una o altra prospettiva, il medesimo motivo su cui fa perno il pensiero di Platino dimostra che Platino batte particolarmente l'accento sulla razionalità intesa da un lato come condizione che permetta la pensabilità del reale, riconducibile ad un'unica fonte, entro cui in atto tutto è contenuto, senza uscire fuori dalla stessa struttura della ragione, dall'altro lato come possibilità, entro la ragion d'essere del tutto, di rendere conto delle stesse umane esperienze, apparentemente non riducibili alla ragione. Sotto questo aspetto in Platino si intrecciano, senza contraddirsi, il momento che è stato detto mistico-intuitivo e il momento discorsivodeduttivo: il processo dai molti all'uno e dall'uno ai molti, fino alla possibilità di cogliere, come in una fuoruscita da sé (estast) e dallo stesso pensiero e discorso, l'uno tutto eterno, entro cui si scandiscono i due processi, in realtà, temporalmente, due modi diversi di atteggiarsi di fronte all'unica, atemporale, realtà. La prima esperienza è certo la molteplicità: solo che la stessa molteplicità è impensabile senza l'unità, lo stesso due è impensabile senza
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l'uno - e qui ricordiamo Moderato di Gades -, Platino, cosi, prendendo le mosse dai molti, poneva a condizione della pensabilità e della -definizione dei molti, l'unità. L'uno, dunque, non è posto come un dato; esso piuttosto è un postulato, perché sia possibile pensare la molteplicità, che senza l'uno sarebbe impensabile, indefinibile, disciogliendosi all'infinito. E allora, anche se all'uno si giunge poi, l'uno è prima; o meglio, non sono prima né i molti né l'uno: senza l'uno non sono i molti e senza i molti non è l'uno. Il numero non è primo: prima della dualità c'è l'Uno, e la dualità è seconda (Enneade V, l, 5). In virtU dell'uno tutti gli esseri sono quel che sono ... Che cosa infatti un essere sarebbe, se non fosse uno? ... L'esercito, il coro, il gregge non esistono se non costituiscono ciascuno un'unità. E cosi pure la casa e la nave esistono solo finché posseggono unità. E analogamente le grandezze continue non esisterebbero, se non appartenesse loro l'unità: se infatti vengono divise, in quanto con ciò perdono l'unità, cambiano il loro essere. E i corpi delle piante o degli animali, se fugga l'unità, disperdendosi in molteplicità, perdono la loro essenza (VI, 9, l). Se dunque non è possibile pensare alcunché senza l'uno o il due o altro numero, come sarebbe possibile che non esistesse quello, senza il quale non è possibile pensare o dire che sia? ... Ma quello del quale c'è necessità ovunque per la generazione di qualsiasi pensiero o discorso, bisogna che sia anteriore al discorso e al pensiero (VI, 6, B).
A veva scritto Albino : " esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica" (Epitomè, X, 4). L'uno, dunque, se preso in sé, è ineffabile, indicibile: condizione delle differenze e delle definizioni, esso è oltre tutte le essenze; ad esso si può condurre rifacendo percorrere il processo con cui si giunge ad intuire l'uno; esso si vive, cogliendo il discorso stesso nella sua unità, per cui tale unità è oltre il discorso (" piu di una volta, ritornando al mio vero essere all'uscire dal sonno del corpo, ed essendomi estraniato ad ogni altra cosa, ma fattomi intimo a me stesso, ho la visione di una bellezza meravigliosa": IV, 8, l); di esso nulla si può dire se non rappresentandolò mediante immagini. Se da un lato abbiamo, dunque, un processo dalla visione dei molti alla .comprensione che i molti suppongono l'uno, per cui i molti si connettono in unità discorsiva (anima, fondamento dei molti), assumendo realtà, che trova il suo fondamento nell'intelletto, che, a sua volta, trova il proprio fondamento nell'uno (sintesi, 'oltre i molti e l'anima e gl'intelligibili, per cui i molti sono nell'anima e l'anima negl'intelligibili-intelletto, e l'intelletto nell'uno), dall'altro lato, e a un tempo, abbiamo un processo che va dall'uno ai molti.
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L'artefice, che, plasmando gli esseri e dando loro forma e ordine, tutto riconduce a unità è l'anima: dobbiamo dunque risalire ad essa, e dire che essa è il principio unificatore, essa è l'Uno? Ma 'si può anche ritenere che, come essa dà ai corpi altre proprietà, senza che essa medesima si identifichi con ciò che dà (per esempio fornisce loro la forma e l'idea, pur essendo altro da questa), cosf non è essa l'unità che pur fornisce ai corpi, ma solo contemplando l'Uno rende uno ciascun essere, al modo stesso che solo contemplando l'idea di uomo pone nell'uomo quell'unità ch'esso comporta. Ché ciascuno degli esseri di cui si dice che è ·un essere, è uno nella misura in cui è richiesto dal suo proprio essere: di maniera che ciò che ha meno d'essere, ha anche meno d'unità, ciò che piu ha d'essere, piu ha di unità. E cosi l'anima, che è altro dall'Uno, ha tuttavia piu d'unità in correlazione con quel piu d'essere che possiede, ma non è l'Uno. L'anima è una, ma l'uno è in qualche modo un suo accidente: e l'anima e l'uno sono due ... Ql\est'anima unica è molteplice, quantunque non sia fatta di parti, ché ha in sé piu facoltà ... che sono tenute insieme dall'Uno come da un legame. L'anima, dunque, in quanto è una, dà unità [cioè essere] agli altri esseri, ma essa stessa la riceve dall'azione di altro essere (VI, 9, 1)... L'essere universale possiede vita e intelletto: e l'intelletto è di per sé molteplicità. Tanto piu lo è, in quanto contiene in sé le idee; e l'idea non è l'uno ma è piuttosto numero [unità del molteplice] ... Se, dunque, l'Uno è primo, l'Intelletto e le Idee e l'Essere non sono primi ... L'Un«? pertanto non è né la totalità delle cose (ché allora non sarebbe piu l'Uno), né l'Intelletto (ché anche allora esso sarebbe la totalità delle cose, dal momento che l'Intelletto è questa totalità), né l'Essere (ché l'Essere è appunto il tutto) (VI, 9, 2) ... L'Uno non è l'Intelletto, ma antecedente all'Intelletto. L'Intelletto, infatti, è qualche cosa che è; esso invece non è qualcosa, ma antecedente a qualunque cosa: e non è essere, ché l'essere ha una forma, quella appunto dell'essere, quello invece è privo di ogni forma, anche intelligibile. Essendo infatti la natura dell'Uno generatrice del tutto, non è nulla di ciò che esso genera (VI, 9, 3). L'uno, dunque, condizione del discorso, esso stesso discorso, me~ diante cui e con cui si costituisce la realtà del pensato (l'obbietto, intelligibile all'intelletto, assume esistenza in quanto si definisce nel pensiero, anima), viene posto, non contraddittoriamente, come il fondamento assoluto del tutto, come l'assoluta possibilità (potenza) in atto (per cui l'uno è potenza, non come povertà, ma come assoluta pienezza e ricchezza) ed è, perciò, infinito, in quanto "illimitatezza di potenza" (Enneade VI, 9, 6). L'uno non è, dunque, una realtà per sé, distinta, ma è lo stesso discorso, cioè l'unità in atto del discorso, che è la realtà una nell'unità di tutto il suo processo. E allora, se da un lato· l'uno trascende il discorso, essendone il fondamento (ipostasi) e il fine, dall'altro lato non esisterebbe se non sL ponesse come definizione di sé, come intellezione 9i sé, distinguendosi cosi in intelletto (unità) e intel"
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ligibili (obietti molteplici dell'intelletto, forme, idee di ciò che è, e senza di cui le cose non avrebbero essere, onde, appunto, essere e intellettointelligibili coincidono), in atto nell'uno, nell'unità dei due termini. In effetto l'uno non è mai, o meglio è sempre come "ipostasi" prima, e come intelletto~intelligibili, esso fonte dell'essere e dell'intelletto, a sua volta fondamento (anche l'intelletto è dunque "ipostasi ") del pensiero come coscienza ("anima") dell'unità-molteplicità, su cui si fonda (anche l'anima è, dunque, "ipostasi ") l'esistenza dei molteplici, onde assumono realtà le cose, i sensibili, tali in quanto presenti alla coscienza. Finché, dunque, l'anima - non a caso Plotino insiste nel dire che l'anima· non è corporeità, cioè qualcosa, né forma dei corpi aventi la vita in potenza - non si rende conto di quello che essa pone e che si trova come dovuto a sé, definito e configurato (corporeità), ha realtà e comincia ad avere essere proprio in quanto presente all'anima stessa, per cui ogni cosa molteplice e definita (corpo) è dovuta all'anima, finché l'anima non si rende conto di questo, essa stessa è molteplice, spezzata, limitata e opina reali e per sé, esterne, le cose accanto alle cose. Quando, invece, l'anima, riflettendo su di sé, si rende conto che il molteplice, il definito, il corporeo sussistono e assumono realtà nell'unità dell'anima, per cui il molteplice si risolve nella medesima anima, la cui essenzialità è, perciò, né corporeità né forma del corpo, ma coscienza di sé come attività unificante e giudicante, in cui assumono realtà e su cui si fondano le cose, allora l'anima coglie che a suo fondamento è l'uno, ch'essa stessa è una e unificante, e che sottesa a sé, di essa stessa fondamento è l'anima una, unificante il tutto molteplice in se medesima (anima mundi), in una vivente e animata unità. Se, come sembra, si formula qui, per la prima volta, la nozione dell'anima come coscienza, è chiaro in che senso per Platino l'esserci delle cose (il vivere delle cose tutte) sia nella presenza all'anima, che trovando, a sua volta, il fondamento di sé nella propria unità unificante, in cui si risolvono le anime singole, coglie la propria "ipostasi," ciò su cui sussiste, nell'intelletto, e, dunque, alla fine, nello stesso uno, in cui tutto si risolve, tutto momento del suo unico discorso. Si coglie qui il nodo di due motivi fondamentali su cui si svolge tutta la filosofia plotiniana. Da un lato si postula, entro i termini di una certa interpretazione di Platone, l'uno come condizione della pensabilità dei molti e quindi come condizione prima del discorso, nei cui termini si risolve tutta la realtà entro cui e per cui assumono essere le cose, deducendo tutto dall'uno; dall'altro lato si punta sulla riflessione dell'anima su di sé, attraverso cui l'anima si rivela a se stessa unità unificante, cerniera tra il cosiddetto mondo molteplice e l'unitàmolteplicità dell'Intelletto-intelligibili e, perciò, dell'uno. L'anima coglie,
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dunque, sé come coscienza: la sua essenza, anzi, è la coscienza di sé come fondamento del discorso e del costituirsi e articolarsi in unità vivente del complesso dei reali, il cui esserci è tale, in quanto presenza all'anima. Sottolineata tale nozione dell'anima come coscienza e riflessione, in cui si risolve la molteplicità dispersiva e l'essere delle cose, si fa appello a tale esperienza "sui generis, " a tale conoscenza di sé, che è, poi, l'interpretazione plotiniana del "conosci te stesso" socratico, in chiave platonica (cfr. sopra, I vol.): "Su che cosa piu a ragione si potrebbe investigare... se n'on sull'anima? ... Perché ci conduce a queste due conoscenze: di ciò di cui principio e di ciò da cui proviene. Obbediamo al precetto del dio, che ci comanda di conoscere noi stessi, compiendo l'investigazione su di essa" (IV, 3, 1). Mediante ciò, in un intenso riflettere su di sé, l'anima coglie sé da una parte come luogo, se cosi si vuoi dire, dell'esserci di tutta la realtà, dall'altra parte, oltrepassando la propria singolarità (il sentirsi anima accanto ad anime, con singole funzioni), come unità vivente (anima mund1), come arco uno (atemporale) entro cui si svolge il discorso (tempo), che porta l'anima oltre se stessa, all'unità dell'Intelletto e attraverso questo - l'esserci dell'Uno - all'ineffabile Uno.
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L'anima è una, e le molte si riconducono a lei in quanto una, che si concede e non si concede alla molteplicità. Poiché è capace di porgersi a tutti e restare una (IV, 9, 5). Divisibile, poiché è in tutte le parti dell'essere in cui è,, ma indivisibile, perché è tutto e tutta in qualsiasi parte di esso ... Resta tutta in sé, ma è divisa nei corpi, non potendo i corpi, per la loro propria divisibilità, accoglierla indivisibile (IV, 2, 1). Bisognava che ci fossero molte anime e un'anima sola, e che dall'unica venissero le molte di1Jerenti, come da un unico genere le specie ... (IV, 8, 3). Assolutamente nessuna delle parti dell'anima né l'anima intera si deve dire che sia nel corpo come in un luogo. Il luogo è ciò che contiene e comprende il corpo... ; l'anima non è corpo, né contenuto piu che contenente ... E neppure ·vi è come parte nel tutto; perché l'anima non è parte del corpo ... Né come forma della materia, perché la forma è inseparabilmente ne!la materia. Si deve dire dunque che quando l'anima è presente nel corpo, vi sia presente come la luce nell'aria? (IV, 3, 22). L'anima, dunque, non è nel mondo, !}la il mondo in lei, ché non il corpo è luogo dell'anima; ma l'anima è nell'Intelletto e l'Intelletto in altro (V, 5, 9). E l'anima, avendo in sé le idee degli esseri, ha in sé tutte le cose insieme (III, 6, 18). Pensi bene ... ogni anima che proprio essa fece i viventi tutti, spirando in loro la vita, e quei viventi che nutre la terra e quelli che nutre il mare e quelli che dimorano nell'aria e nel cielo - astri divini -; che essa ha fatto il sole e l'immenso cielo e lo ha ordinato ... Tutto, con tutta se stessa vivifica, ed è presente tutta ovunque... E il cielo, pur essendo molteplice e diverso nelle sue parti, è uno per la potenza di essa, e per essa è dio questo mondo (V, l, 2).
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Nell'anima, perciò, molteplice e una, ad un tempo, si incentra tutta la molteplicità e in essa si rivela l'unità del discorso, per cui Plotino può dire cho l'essenza dell'anima è la sua stessa consapevolezza, è quella di essere coscienza (è stato detto) dell'unità, e, perciò, attraverso la purezza di sé come Intelletto, specchio dell'D nità assoluta, di Dio, condizione del tutto. È chiaro cosi perché l'anima non colga sé in una definizione: il definirsi dell'anima, anzi, il suo affermare se stessa, il suo determinarsi come altra dalle cose ch'essa ha presenti in sé, è il suo atto di orgoglio, quello che Plotino chiama il peccato dell'anima, per cui l'anima si trova spezzata, limitata, in un mondo che le appare definito, corporeo, disperso, per cui si parla di anime singolari, individuali, e in tal senso si può dire che il corpo è limite dell'anima, che l'anima è prigioniera del corpo. Cosa fa sf che le anime si dimentichino di Dio padre, e pur essendo di .sorte divina e intieramente di lui, diSconoscano se stesse e, quindi, anche lui? Il principio del male è per esse l'orgoglio e la generazione, e il primo differenziamento è il voler essere di propria potestà. Poiché dunque si sono mostrate compiaciute di tale indipendenza, abituate al gran muoversi da sé, trascorse in direzione contraria, e giunte al massimo allontanamento, giungono e ignorano d'essere esse stesse provenienti di là ... (V, l, 1). Si dice che l'anima umana ... nel corpo soffre tutti i mali, e misera vive, venuta fra dolori, brame, paure ed altri mali; e ad essa, si dice, il corpo è carcere e tomba, e il mondo spelonca ed antro (IV, 8, 3).
L'anima, dunque, non coglie la propria essenza in una definizione: essa coglie sé, rientrando in se stessa, riflettendosi, da un lato abbandonando il mondo del sensibile, dei molti, delle passioni (finché l'anima non comprende quel mondo come esistente in se medesima, essa lo patisce), dall'altro lato, mediante questo stesso abbandono, afferrando se stessa come unità vivente e unificante. L'anima, dunque, non può cogliere sé unità vivente, sé come unità e discorso della molteplicità, della realtà tutta la cui verità si coglie nel ripiegamento dell'anima su se stessa, se non nel suo stesso riflettersi, se non in una intuizione ("rientra in te stesso e guarda ... finché il divino splendore della virtu non rifulga al tuo sguardo... ; se diverrai tale e tale ti vedrai... interamente e solo luce vera..., divenuto ormai tutto vista, fidando in te e pervenuto ormai a non aver piu bisogno di guida, guarda attentamente, perché solo quest'occhio spirituale vede la grande bellezza... ": l, 6, 9). Plotino non è facile. Visione e analisi si intrecciano continuamente. Bisogna, inoltre, tener presente che ciascun trattato di Plotino è stato corretto e trascritto da Porfirio, e che a Porfirio si deve l'ordine in cui
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leggiamo l'insieme delle Enneadi. Molti poi dei trattati sono frutto di lezioni, di riflessioni scaturite dal dialogo con i discepoli, risposte a domande e a problemi impostati nella scuola, analisi di questioni storicamente determinatesi. Certo, di quelle discussioni, di quelle lezioni resta un punto: lo sforzo continuo di Plotino - e qui sta l'aspetto piu platonico di lui - di avviare i suoi ascoltatori a comprendere che la possibilità, o meno, di rendersi conto della realtà, la possibilità di conoscere, se da un lato deve postulare l'uno, dall'altro lato, se non si vuoi restare sul piano di una pura ipotesi, e perciò sul piano di un'astratta deduzione logica, che si frappone come un diaframma tra il discorso e la vita, tra una ricostruzione matematico-geometrica e l'essenza autentica della realtà, deve implicare un'identità tra le strutture su cui si scandisce il costituirsi del tutto e il discorso vivente e uno in cui si rivela l'anima. Di qui, evidentemente, la polemica di Plotino nei confronti delle categorie di Aristotele (se, in quanto condizioni che permettono di predicare l'essere, vengono interpretate non formalmente, ma come altrettanti generi della sostanza aristotelica: cfr. VI, l, 1-24), delle quattro categorie stoiche (risolventisi nell'unica categoria del "qualcosa," risolventesi a sua volta nella stessa sostanza della realtà : cfr. VI, l, 25 sgg.) e della logica proposizionale. Ma di qui, anche, la polemica di Plotino nei confronti di chi, ammessa appunto l'impossibilità dd passaggio tra le costruzioni logiche e l'essenza, pone a fondamento del tutto non una ragion d'essere, ma una persona, una volontà assoluta, un'assoluta libertà (i cristiani) da cui assumono una loro realtà il morido e gli uomini, l'anima, che si pongono cosi come distinti e altri dal loro creatore, in un rapporto di contingenza e non di necessità. E cosi, non solo ogni realtà come ogni uomo (tutt'uno d'anima e di corpo} hanno un loro essere, altro, dunque, dall'essere della persona che li ha creati (il che è logicamente. contraddittorio, ché l'essere non può essere che uno), ma il loro stesso possibile conoscere, il loro ritorno a Dio, la stessa immortalità dell'uomo, debbono postulare un altrettanto assurdo atto di volontà e di libertà da parte di Dio, che vuole immortali gli uomini, che vuole il mondo. E ciò appunto è irrazionale, non è una deduzione, ma una speranza ed una fede. Se"almeno entro i termini della prima riflessione cristiana, già San Giustino aveva polemizzato contro la nozione di anima in Platone, sottolineando che l'anima non è né mortale né immortale, ch'essa non è della stessa stoffa di Dio, si capisce, come, invece, Plotino, si rifaccia a Platone - sia del Pedone sia del Timeo -, per sostenere che solo in quanto si possa dimostrare che l'anima è specchio della stessa essenza di ciò su cui tutto poggia, solo allora è possibile, attraverso questa scoperta, questo rivelarsi dell'anima a se stessa, cogliere lo stesso fondamento del
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tutto e comprendere, poi, per via analitica come tutto si articoli e viva nell'uniti del tutto, senza porre alcun salto tra l'uno e la realti che si costituisce nell'uno e dall'uno, sempre in atto nell'urio, unità vivente, divinità che non è persona, ma ragion d'essere del tutto, entro cui tutto si risolve. Sotto questo aspetto sembra chiaro l'insistere di Plotino sul momento visivo, il suo appello platonico alla riflessione dell'anima su se stessa, il suo avviare gli altri (indicando una serie di esercizi - la "vita platonica" - mediante cui attutire, dimenticare la sensibilità, l'esser presi da questa o quella cosa), a cogliere sé come unità unificante, come pensiero vivente, uno e molteplice a un tempo, fondamento da un lato dell'esserci delle cose, fondamento, dall'altro lato, dell'unità del tutto, per cui l'anima non è corporeità, non è atto dei corpi aventi la vita in potenza, non è qualcosa, ma è, appunto, coscienza di sé come unità e fondamento del discorso del reale onde la realtà è interiore all'anima. Tale esperienza, dunque, di sé come anima, di sé la cui propria essenza è d'essere anima, che trova il suo fondamento nell'anima universale, forza vivente una e molteplice, che dà vita al tutto, e che si tende su tutto, implica cha a sua volta l'anima, in quanto unità-molteplicità; si fonda su quell'unità-molteplicità che è l'Intelletto, prima consapevolezza dell'Vno tutto che per essere deve ·assumere coscienza di sé, dialettizzandosi in pensiero (intelletto) e pensato (intelligibili). L'unità dei due termini costituenti l'Essere, che vive e discorre, assume realtà nell'anima, .specchio, dunque, dell'Essere eterno, coscienza dell'attualità del tutto in se medesima, e nell'Intelletto-intelligibile e perciò nell'Vno, tale, appunto, nel suo esserci come Intellettointelligibile e come anima e perciò, come un complesso di limiti (corporeità), di deficienze d'essere, d'impoverimenti (materia), di temporalità, e, ad un tempo, come atemporalità, eternità, unità assoluta, infinita pienezza e ricchezza. In tal senso si capisce come l'uno trascenda tutto, come di lui non si può dire che sia essere, neppure uno a rigor di termini, come di lui si può dire solo ciò che non è, e come tutto sia nell'uno, tutto - prosp
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intesa la cosiddetta emanazione (Plotino non usa il termine "emanazione," ma il termine "irradiazione": perilampsù), o processione (il termine è usato da Proclo), dall'Uno dell'Intelletto e dell'Anima, e la nozione plotiniana della materia, povertà, deficienza, indefinitezza, non essere, e ad un tempo potenza infinita, idea, materia intelligibile, insieme all'uno infinito, infinita matrice. Plotino ha dedicato un intero trattato alla eternità e al tempo (Enneade III, 7), discutendo, come al solito, le varie ipotesi sull'argomento determinatesi nel corso del pensiero greco. Plotino, rifacendosi al Platone del Sofista ("vuoi tu negare vita, essere, movimento all'Essere che è"), e particolarmente alla discussione dei cinque generi (essere, movimento, stabilità, alterità, identità), sottolinea che il mondo intelligibile (il platonico mondo delle idee) è eterno, non in quanto eterni siano i vari elementi che lo compongono, ma in quanto esso è un'unità articolata. II mondo intelligibile si muove in quanto i termini si articolano fra di loro, ma è fisso nel senso che, se i termini si articolano, essi in sé restano ciò che sono, o meglio il loro articolarsi e discorrere è lo stesso autoporsi dell'Intelletto, è il mondo delle idee in atto, per cui l'una idea non viene prima dell'altra o è dopo, ma tutte, nell'unità articolante dell'Intelletto, sono come debbono essere, sono ora. L'unità del mondo ideale è unità intelligibile, cioè un'unità molteplice che è pensiero che non va da oggetto a oggetto come dal di fuori: è pensiero che resta sempre e continuamente lo stesso, cioè una vita che resta nella sua identità, che è sempre presente a se stessa nella sua totalità, che è insieme tutta e una sola, che non ha né prima né poi, che non ha processo. Tutto nell'intelligibile è contemporaneità, né è da dire ch'esso venga dopo l'Uno, ché Intelletto-intelligibile è il farsi chiaro a sé, sempre in atto, dello stesso Uno, che è vita in quanto pienezza proprio in questo suo essere chiaro a sé, nella sua dualità vivente di Intelletto-intelligibile ("l'eternità è qualcosa che sia, in modo fermo, vita dell'essere circolante intorno all'uno": III, 7, 6). Tutto presente nell'essere che è vita e pensiero, unità molteplice, l'eternità è l'espressione dell'assoluta pienezza dell'essere che in quanto tale di nulla è mancante. II futuro c'è per chi è manchevole. Solo dove c'è mancanza, c'è un anelare verso l'essere, c'è tempo; il tempo c'è ov'è limite, dove c'è distacco dall'articolazione vivente nell'uno, dove, dunque, in realtà, non è vita, dov'è mancanza d'essere. Finché non v'è vita totale, unità articolante, intelligibilità, gli esseri, anche se tali in quanto presenti all'anima, in quanto distinti, definiti, finiti, sono temporali, e nel loro apparire per sé, singolari, figurati (corporei), e dunque estrinseci, sono spaziali, mancanti d'essere, ché l'Essere è taie in quanto vita e pensiero. Il tempo comincia, dunque, dove c'è l'incomprensione, comincia cioè col finito, col mondo, ché il tempo non è una realtà per
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sé, in cui si costituisce la realtà. D'altra parte, sottolinea Plotino, non potremmo parlare di eternità, noi che siamo temporalità, se non avessimo contatto con l'eternità, se non avessimo la capacità di renderei conto che il tempo è un nostro modo parziale di comprendere, per cui in realtà il tempo non viene dopo l'eterno, ma logicamente segue l'eterno, per cui non è che dopo l'Uno e dopo l'lntellett<>-intelligibile e dopo l'Anima vi sia, altro da essi e accanto ad essi il mondo del contingente e del tempo. Nell'Uno tutto eterno, in quanto totalità e unità vivente, infinito, v'è il tempo e il contingente, che si risolve, se considerato entro i termini intelligibili, nello stesso eterno. Posto l'Uno è posto "il tempo, necessariamente. Se la fonte della diffusione è perfezione assoluta, il diffuso, in quanto determinazione, entro la fonte, della fonte, se ne distingue, ha la possibilità di sentire la propria distinzione, di sentirsi altro, ma di rendersi conto· anche che è altro in quanto determinazione dell'Uno, per cui sì rifà, torna all'uno, tende a essere, cioè tende all'Uno, si proietta cioè verso il futuro. Qui nasce il tempo e il tempo nasce con il mondo. Il tempo, dunque, non esiste, ma si determina come coscienza dell'anima, come passaggio da una visione immediata, sensibile del reale altro dall'anima e per sé, al ritorno dell'anima su sé. Da un lato il tempo dunque è il momento in cui l'anima esce da sé, si determina, si afferma, perdendosi; dall'altro lato il m<>mento in cui l'anima torna a se stessa, si riconquista; tale divenire, tali passaggi dell'anima, costituiscono il tempo, che è l'anima tesa tra questi due termini; l'anima stessa, dunque, è il tempo, perché il tempo è il manifestarsi dell'anima, i momenti dell'anima e perciò le stesse cose che sono in quanto presenti all'anima, per cui, alla fine, il tempo è la coscienza stessa dell'anima, la consapevolezza di sé come unità dei suoi stessi momenti e passaggi, mediante cui si ha l'intuizione dell'eterno. Il tempo perciò, dice Plotino, "è la vita dell'anima nel suo movimento trascorrente dall'uno all'altro stato di vita" (III, 7, 11). "È l'anima, proprio l'anima che, col suo primo passo, incappa nel tempo e genera il tempo e lo possiede insieme con la sua propria azione. Com'è poi dappertutto il tempo? In quanto anche l'anima non è mai lontana da nessuna parte del mondo, né piu né meno che l'anima, in noi, non ci sta lontana da nessuna parte... Tempo pure in noi uomini? Ecco, esso è nell'anima universale, cosf come l'abbiamo descritta; ed è, in ugual forma, in ogni anima; ché anzi esse sono tutte un'anlma sola. Per questo aspetto, il tempo non è per altro fral)tumato; del resto, neppure l'eternità si frantuma, essa, che, in tutt'altra guisa, si partecipa in tutti gli esseri di simil forma" (III, 7, 13). La discussione di Plotino sul rapporto eternità-temporalità chiarisce in che senso potevamo dire che Plotino non prende le mosse né
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dall'Uno né dai molti, ma, com'egli, puntando sulla nozione di anima come coscienza, come discorso uno e molteplice, vitalità temporale, tende a mostrare che il rapporto uno-molti va posto, logicamente, nello stesso senso in cui si pone il rapporto eternità-temporalità, per cui si come l'essenza dell'anima è coscienza, cosi coscienza è l'essenza del tutto, ad un tempo uno e molteplice, intelligibilità, vitalità, totalità e molteplicità, finitezza, corporeità, atemporalità e temporalità, la cui essenza è incorporea, e corporea la sua esistenza, in quanto presenza dell'anima. Se è vero che ogni percezione è limitazione, è passio, è altrettanto vero che non c'è passio se non in quanto còscienza di patire. Percepire, dunque, è percepire la propria limitazione, è divenire coscienti di un limite. Il corpo è allora consapevolezza che l'anima ha di un limite interno all'anima stessa ed è, perciò, che Plotino può dire che è il corpo ad essere nell'anima e non l'anima nel corpo. Solo che tale sentire il corpo come limite, implica che l'anima va oltre il limite, e andando oltre il limite coglie sé, ancora una volta, come sussistenza (ipostan) di tutti i limiti, e come aspirazione a cogliere sé come unità dei limiti stessi, mediante cui sia possibile pensarli come molteplicità di un'unità articolante, in atto, come appunto vivente unità del molteplice nel rapporto Intelletto-intelligibile, costituente l'essere, per cui gli esseri hanno essere. Se l'anima cosi, in quanto tempo, pone a suo fondamento il mondo intelligibile, cioè l'Essere, l'anima, specchio del movimento eterno, coglie l'unità intelligibile del tutto, cioè l'Essere. L'Essere, che merita veramente questo nome, è quello che realmente è, che è cioè in maniera totale, ciò a cui nulla manca dell'essere ... L'Essere è, dunque, vivente, vive anzi di una vita perfetta... Quest'essere è l'Intelletto e la Sapienza universale ... Senza di che. non dall'Essere verrebbero l'Intelletto e la vita: questi si aggiungerebbero all'Essere, ma proverrebbero dal non-Essere. L'Essere non possederebbe né vita né Intelletto ... Se tale è !'&sere, esso non può essere né un corpo né il sostrato dei corpi... (III, 6, 6). Se nell'Intelletto in atto e eternamente esistente, il pensare non è qualcosa di acquisito, esso ha da se stesso tutto ciò che pensa, e ha da sé tutto quello che possiede. Se dunque pensa da se stesso e per se stesso, esso è ciò che pensa. Se infatti la sua realtà fosse una cosa e quel ch'esso pensa un'altra, la sua propria realtà non sarebbe oggetto di pensiero: sarebbe cioè in potenza e non in atto... L'Intelletto pensa gli esseri e li fa èsistere: esso è dunque questi esseri medesimi... Questi non sono né prima né dopo di lui: ma è come il legislatore o piuttosto come la legge dell'essere loro. Sono dunque giuste le formule "Essere e pensare sono la stessa cosa"; "la scienza degli esseri privi di materia è identica al suo oggetto" (V, 9, 5). L'Intelletto, essendo, pensa, e se stesso pensa come essente e come l'essere sul quale esso in certo modo si appoggia. L'attività ch'esso dispiega su se stesso non è essenza; ma ciò su cui esso l'esercita e da cui proviene, è l'essere. L'essere
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è ciò che esso vede, non il suo stesso vedere; tuttavia anche il vedere ha l'essere, in quanto essere è ciò da cui parte e verso cui muove. Ciò che è in atto e non in potenza congiunge in unità il pensiero, ha per oggetto qualcosa d'interiore all'Intelletto, questo oggetto interiore non può essere che una forma, ed è l'idea. Cosa dunque è l'idea? Un intelletto e sostanza intellettiva; l'idea non è differente dall'Intelletto, ma è ciascuna un intelletto. E l'intelletto nella sua totalità è costituito da tutte le idee, ma ciascuna delle idee è ciascuno degli intelletti, come la scienza nella sua totalità è costituita di tutti i teoremi, e ciascuno di questi è una parte di quella, non localmente separata dalle altre, ma tale che trae dal tutto il suo proprio valore. Questo Intelletto è in se stesso e possiede se stesso, immobile, eterna " sazietà" di se stesso (V, 9, 8). Gli intelligibili non possono essere privi d'intelletto e di vita: se no, perché dire di essi che sono degli esseri? (V, 5, l).
Le idee, dunque, obbietti in atto dell'intelletto in atto, uno e molteplice nella totalità immobile e circolante delle sue idee, costituenti l'Essere, che è vita e pensiero, sono - in quanto appunto l'Essere è il tutto in atto - infinite, archetipi degli esseri sensibili, per cui nel mondo intelligibile vi sono idee di tutte le cose. Nella totalità dell'Essere in atto, le idee sono in eterno, in atto, e il tutto è indivisibile (cfr. Timeo), anche se ciascuna idea è quella che è, in quanto non è l'altra (cfr. Sofista, anche Filebo). Se vi sono, dunque, molteplici idee, vi è necessariamente in esse qualcosa di comune e qualcosa di proprio, per cui l'una differisce dall'altra. "Questa caratterist~ca propria e questa differenza che distingue ciasèuna idea dalle altre, è la sua forma particolare. Ora, se c'è una forma, c'è anche qualcosa che viene ad essere informata e in cui si costituisce la differenziazione tra le idee. Dunque c'è una materia che riceve la forma, e ne è il sostrato... Il mondo intelligibile è in senso assoluto indivisibile, ma in un certo altro senso è anche divisibile. Ora, se le sue parti possono essere distinte le une dalle altre, il sezionamento e la separazione sono affezioni della materia: poiché è essa che le subisce. D'altra parte, se pur essendo molteplice, esso è indivisibile, questo molteplice che è nell'uno, è nell'uno come in una materia; essendo la molteplicità quella delle sue forme, e la sua unità non potendo essere concepita se non come differenziata da una molteplicità di forme" (II, 4, 4). Se l'Essere, dunque, per essere, implica la dualità-unità di Intelletto-intelligibili, implica anche, ad un tempo, da un lato e a suo fondamento l'Uno assoluto come assoluta ricchezza e potenzialità, su cui esso riposa, dall'altro lato l'assolutamente indefinito, la materia intelligibile. Uno assoluto, dunque, e indefinitezza assoluta (materia intelligibile) - impensabili a sé - sono le condizioni- del costituirsi in atto dell'Uno stesso nella consapevolezza che l'Uno asswne di sé nella dia-
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lettica Intelletto-intelligibili, per cui terza condizione perché sia possibile l'unità della molteplicità è, aggiunge Plotino, il numero. "Il numero è in rapporto con l'essere, che è insieme uno e multiplo... È certo che il numero è nell'essere: l'essere, mediante il numero, cioè agendo secondo il numero, genera gli esseri... L'Essere, diventando numero, collega gli altri esseri a se stesso: si divide non in quanto unità, ché questa unità persiste, ma si divide secondo la propria natura in tante parti quante vuole... Si divide secondo le potenze dd numero, e genera tanti esseri quanti er~ il numero. Il numero, perciò, è principio e fonte della 'esistenza degli esseri, il numero primo e verace.' Ecco perché anche in questo nostro mondo, ogni generazione ha luogo secondo numeri... Il numero, durique, esiste in antecedenza, ed è causa della quotità, ossia mentre già il numero esisteva, gli esseri che si costituivano partecipavano della determinazione. 'tante e tante cose' e inoltre ciascuno di essi partecipò dell'uno, affinché potesse essere uno ... Immobile, l'Essere nella sua molteplicità è numero; e destandosi come molteplice, si presenta come una predisposizione agli esseri e come un abbozzo di essi : sono come delle unità le quali occupano il posto per le cose che vi si collocheranno nel loro tendere verso di esse... Tale è il numero essenziale, distinto dal numero composto di unità, che n'è soltanto l'immagine. Il numero essenziale è quello che si vede nelle forme che esso genera insieme con sé; ma... è nell'essere e con l'essere e anteriore agli esseri. Gli esseri hanno in esso la loro base e fonte e radice primà... Insomma, l'Essere è numero contratto nell'unità: gli esseri sono numero sviluppato; l'Intelletto è numero che si avvolge iD. se stesso; il vivente è numero che avvolge le cose. E poi, per il fatto stesso che l'Essere è nato dall'Uno, come quegli era uno, cosi questo deve, da parte sua, essere numero; onde fu detto che le forme sono unità e numeri [idee numeri]" (VI, 6, ~~~~~~
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Numero intelligibile e materia intelligibile sono, insieme all'Uno, le condizioni del costituirsi - nella dialettica Intelletto-intelligibili, Pensante-pensato - degli esseri, delle essenze, delle forme, idee dell'Intelletto in atto, che, dunque, non esistono in sé, prima, ma sono in atto nella totalità dell'Essere che è quello che è. L'Intelletto, dunque, nel suo scandirsi in pensante-pensato, numero intelligibile-materia intelligibile, mondo (uno) delle idee (molte), presuppone a suo fondamento primo e ultimo l'Unità assoluta. Tale unità, condizione del pensiero e dell'Essere, che è discorso, è impensabile in sé, per cui, necessariamente essa c'è nel suo esserci come unità-molteplicità (Intelletto), che a sua volta c'è in quanto presente alla coscienza (Anima),
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per cui assumono realtà le cose tutte, il loro definirsi, la loro vita, immagine della vita dell'essere, che è la vita in atto dell'Uno. lmpredicabile l'Uno (di lui non si può dire è "questo o quello," senza negarlo, per cui di lui si può dire solo ciò che non è: cfr. VI, 8, 8; VI, 8, 9, 13; V, 3, 13 e 14), ineffabile, indiscotribile, esso, condizione del tutto, dell'Essere che è in quanto unità-molteplicità arti<;olata (Intelletto), realizzantesi nell'unità-molteplicità della coscienza (Anima), è, logicamente, assolutamente prima. Esso, perciò, è oltre l'Essere, oltre l'Intelletto, oltre l'Anima, e tutto, sotto questo aspetto, sègue da lui, è inferiore a lui, non è lui, essendo da lui e per lui: esso è indivisibile ("quell'Uno che," secondo il Parmenide, "non è in altro, non è nel divisibile e non è indivisibile alla maniera di come lo è un minimum : è infatti la cosa piu grande fra tutte, non per grandezza, ma per potenza" : VI, 9, 6), autosufficiente, extraspaziale (cfr. VI, 9, 6). Pienezza assoluta, totalità, esso non dipende da nulla, da nulla è. limitato, esso è libero da tutto, è assoluta libertà. La sua libertà è la conformità al suo essere. "È assurdo dire che non è libero, perché produce secondo quello ch'esso è, quasiché essere liberi dovesse significare agire e produrre contrariamente alla propria natura... Egli agisce conforme al suo essere, o meglio egli è conforme al suo atto. Non ha un atto che segua dalla sua natura. Il suo atto o quel che in lui è come vita non è un attributo che si riferisca a lui come a un soggetto. Ciò che è come il suo essere, coesiste eternamente e in certo modo eternamente si genera insieme con il suo atto; e cosi egli si fa, a un tempo, di essere e di atto, ossia si. fa di se medesimo e non di altro" (VI, 8, 7). L'uno, dunque, tutto trascende; esso, oltre ogni essenza determinata, perfezione, compiutezza infinita di tutte le forme, è privo di ogni forma e limite (cfr. VI, 5, 6; 7, 32). "A parlare con precisione, non si deve dire di lui né questo né quello, ma dobbiamo !imitarci ad interpretare con parole i nostri sentimenti, come girando dal di fuori attorno a lui, ora piu da vicino ora piu da lontano, per le difficoltà che importa" (VI, 9, 3). "Lo stesso nome Uno non significa altro che la negazione della molteplicità" (V, 5, 6). "Neppure possiamo dargli il nome di Bene, se questa parola designa una delle cose che sono dopo di lui; gli si dia pure questo nome, ma a condizione che significhi ciò che è avanti tutte le cose" (V, 3, 11). "Diciamo di esso .che è Causa. Ma con ciò assegniamo un attributo non a lui, ma a noi; intendiamo cioè dire che abbiamo qualcosa di lui, mentre esso rimane in se stesso" (VI, 9, 3). L'Uno non è posto come qualcosa, come persona, come volontà e neppure è posto come ragione o pensiero: "l'Uno non può essere un essere pensante; per pensare occorre prima di tutto un Intelletto che
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pensi e poi bisogna che questo Intelletto abbia un intelligibile" (V, 6, 42); "il precetto conosci te· stesso vale per quegli esseri che sono molteplici... ; anche se l'Uno fosse un qualcosa per se stesso, sarebbe troppo grande per pensare se stesso e per conoscersi e avere coscienza di sé; in realtà esso non è nulla per sé, nulla introduce in sé, basta a se stesso" (VI, 7, 41); esso che è tutto, non può volere qualcosa: "ess6 non ha bisogno di nulla" (VI, 9, 6); " se poi, a proposito dell'Uno, vogliamo pure adoperare queste nostre espressioni, ... attribuiamogli atti, e questi atti attribuiamoli come alla sua volontà ... Solo che questi atti sono come la sua essenza: la sua volontà è identica alla sua essenza" (VI, 8, 13). Evidentemente, dunque, il passaggio dall'Uno all'Intelletto, dall'Intelletto all'Anima e dall'Anima ai limiti interni dell'Anima (anime, corpi) non è né un passaggio dovuto a un atto creativo, né - se non per metafora - un passaggio evolutivo o emanativo. In effetto l'Uno non è a sé, si come a sé non sono né l'Intelletto, né l'Anima, né la corporeità, né al limite, l'indefinita povertà e mancanza della materia, e neppure è da dire che dopo 11Jno venga l'Intelletto, l'Anima, e cosi via. Sotto questo aspetto, sottolinea Plotino, non ha senso chiedersi perché l'Uno, assoluta perfezione, abbia bisogno di manifestarsi nei molti. I due momènti, il cosiddetto momento discensivo e il cosiddetto ·momento ascensivo, sono due momenti paralleli, due diversi modi di atteggiarsi dell'anima. L'Unità vivente del tutto e, perciò, lo stesso Uno si colgono intuitivamente: "Come per vedere la natura intelligibile, solo abbandonando ogni immagine del sensibile si scorgerà ciò che è al di là del sensibile, cosf, per vedere ciò che è al di là dell'intelligibile, bisogna staccarsi dall'intelligibile; che esso ci sia, è ben l'intelligibile che lo dimostra; ma quale esso sia, non lo vede, se non chi abbandona l'intelligibile" (V, 5, 6); "bisog1;1a che l'anima subisca e ritenga· in sé la passione amorosa dell'amante che, a vedere l'amato, trova in esso il suo riposo... : 11Jno non è presente che a coloro che possono accoglierlo e sono disposti in modo da adattarvisi ed entrare in contatto con lui, grazie all'attività esistente tra loro e lui.... Allora essi sono capaci di vederlo nella misura in cui può essere oggetto di visione" (VI, 9, 4). Di qui, nel tentativo di mostrare come l'Uno non si risolva nei molti, come esso rimanga in assoluto, assolutamente quello che è, in atto, le immagini evocative di Plotino, di cui particolarmente efficaci, in relazione all'atto "visivo" e contemplativo, sono quelle tratte dalla luce - che, per altro, ancora una volta chiariscono che il rapporto Uno-molti è un rapporto logico-dialettico, e che i due momenti, quello della "processione dall'uno" e quello della "conversione dell'Anima," sono i due momenti dialettici di un solo pro-
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cesso senza processo, di una sola necessità. Celebre, sotto questo aspetto,
è la metafora del punto luminoso. Il punto luminoso non è i raggi che da esso s'irradiano, né i raggi sono il punto luminoso: solo che il punto luminoso è tale nell'irradiarsi dei raggi, e i raggi sono tali in quanto irradiazioni della luminosità; e allora, pur rimanendo il punto luminoso quello che è (in sé avendo impliciti tutti i raggi) e i raggi quello che sono ciascuno diverso dall'altro e via via che si allontanano dal centro irradiante sempre meno luminosi, l'uno limite dell'altro, sempre piu distanti l'uno dall'altro, fino al limite, all'infinito, dell'ombra, ché, appunto, senz'ombra non v'è delimitazione, possibilità di vedere, raggi e punto luminoso costituiscono insieme la luce in atto; e la luce non è né il punto luminoso né i raggi, ma l'uno tutto luminoso che in sé risolve, in atto, anche i limiti e le ombre, che pur rimangono, s1 come rimangono e i raggi e il punto luminoso, condizione e dei raggi e delle ombre e della luce. Ma se l'uno rimane immobile, come è da concepire ciò che è attorno ad esso? Come una perilam psis [irradiazione] che viene da esso, da esso che resta immobile, nella stessa guisa che la luce del sole splendente, splendente intorno ad esso, da lui proviene, da lui che pur resta perennemente immobile. E del resto tutti gli esseri, finché sussistono, producono di necessità - dalla loro stessa essenza, dalla potenza che è in loro - una realtà, la quale, attorno ad essi e in dipendenza da essi, tende verso l'esterno, ed è come l'immagine di quegli esseri da cui deriva. Cosi il fuoco irradia da sé il calore, e la neve non conserva solo dentro di sé il freddo; e' specialmente le sostanze odorose attestano questo: finché sussistono, da esse promana all'intorno un profumo, realtà di cui gode tutto ciò che è circostante (V, l, 6). Entro questi termini vanno considerate anche le altre celebri immagini di Plotino per significare con linguaggio umano, e perciò dialettico e temporale, l'atemporalità del rapporto Uno-molti e del come l'Uno per sua stessa necessità è, ad un temfk>, Uno Intelletto Anima, fino al limite, all'infinito, delle infinite ombre, del non essere nell'essere, costituente la materia, che c'è, ma nor;t è. Se il Principio primo è perfetto, anzi il piu perfetto di tutti, ed è la prima potenza, deve essere il piu potente di tutti gli esseri, e le altre potenze debbono imitarlo come possono. Ora se anche gli altri esseri, quando giungono al loro stato di perfezion~, vediamo che generano e non sopportano di rimanere in se stessi ..., come, allora, il piu perfetto principio e il primo Bene potrebbe rimanere immobile in se stesso? (V, 4, 1). Immaginate una fonte che non ha origine, e che dà la sua acqua a tutti i fiumi, senza esserne esaurita, restando anzi tranquillamente la stessa; e i fiumi che scaturiscono da essa confondono da principio le proprie acque,
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prima di ~correre ciascuno in direzione diversa e pur sapendo ciascuno dov:: il suo corso si volgerà. O immaginate la vita di un albero immenso, che circola attraverso l'albero intero, pur rimanendo il principio di essa immobile, senza disperdersi nell'intero albero, in quanto risiede nelle radici (III, 8, 10) ... Da questo principio, che permane immobile in se stesso, procedono gli esseri particolari, come dalla radice che è una e· rimane fissa in sé, si sviluppa la pianta ... E nella pianta le parti si formano le une nelle altre, e alcune [i tronchi, simbolo dell'intelletto e dell'anima] sono piu vicine alla radice, altre procedendo, gradualmente se ne allontanano e si suddividono fino ai rami e ai ramoscelli, ai frutti e alle foglie [il sensibile] [e pur nel suo mutarsi interno, la pianta nella sua totalità resta quella che è, unità vivente nel suo divenire circolante] (III, 3, 7).
Entro i termini dell'Uno tutto vivente sono tutte le possibilità di ciò che è, in atto; e cioè, il mondo dell'Intelligibile (il possibile essere in atto, circolante e dialettica vita immobile dell'Uno: Intelletto Verbo e coscienza dell'Uno) e il mondo animato (l'esserci definito degli esseri, delle idee; la coscienza di sé come limite, che permette il discorso, mediante cui il molteplice si riconduce all'unità vivente: l'Anima Verbo, coscienza dell'Intelletto). Non altre, quindi, oltre l'Uno, l'Intelletto, l'Anima, sono - sottolinea Plotino - le " ipostasi." E cosf se la corporeità è la coscienza dell'anima, come limite, come passio, come mancanza d'essere ed esteriorizzazione di sé, .in obbietti-limiti e disarticolati, che assumono essere e vita in quanto obbietti presenti all'anima, per cui è l'anima che dà loro essere, forma, qualità; la materia vienè ad essere l'indefinito assoluto, l'informe, l'assoluta privazione, il non essere, su cui si ritagliano le forme, i limiti determinati dall'anima, onde la qualità non è che il riflettersi delle forme nella materialità. Sotto questo aspetto anche la materia, come non essere, come condizione delle limitazioni, delle definizioni, dei corpi, e perciò come assoluta indefìnitezza, incorporea sf come incorporei sono l'anima, l'intelletto, l'Uno, è interna all'essere, è, in quanto proiezione, obbiettivazione della· materia intelligibile, che, per altro, permette la numerazione, condizione del discorso. E allora, da un lato la materia, in quanto condizione del limite, dello sparpagliamento dell'anima fuori di sé, delle forme diverse e a sé della vita, non solo è l'assoluto indefinito e l'assoluto non essere, ma è anche la causa del male, della separazione e perciò del contrasto e della lotta; dall'altro lato, in quanto permette la numerazione, è la condizione attraverso cui l'anima, discorrendo, raccoglie in unità se stessa molteplice, sf che, comprendendo, risolve in sé la materia, che resta quindi per un verso idea del non- essere, della tenebra, del male, e, per altro verso, idea della seminalità del tutto, la comune potenza, la matrice: in atto sempre la materia come limite e
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incomprensione, e quindi come male; nell'Uno tutto in atto, nella comprensione, la materia non esiste, ma è in quanto materia intelligibile. La materia è non essere e impassibilità. Essa è incorporea, perché il corpo è qualcosa di posteriore e di composto; solo insieme a un secondo elemento può costituire un corpo. In questo senso, certo, le è toccato proprio lo stesso appellativo che toccò all'essere, vale a dire l'incorporeità, in quanto l'uno e l'altra- sia l'essere che la materia -sono cose che non hanno nulla a che fare con i corpi. La materia, però, non essendo né anima né intelletto né forma né ragione né limite (perché è la stessa infinità) né potenza (poiché qual cosa mai ella fa?); ed essendo, invece, caduta al di là di tutto questo, non può neppure arrogarsi il titolo di essere, ma può convenevolmente lasciarsi denominare non essere; e non già nel senso in cui è detto non essere ìl " movimento" o non essere pure la " quiete," ma non essere in senso schietto e proprio, vale a dire un'ombra e una parvenza di massa; una pura ansia a fare da substrato... (III, 6, 7). Cosf, piu conforme al suo vero essere è l'espressione "rifugio e nutrice"; ma "madre" è detta cosi tanto per dire, perché essa non genera nulla.:. Se crearono il mito della "madre di tutte le cose," è perché vollero divulgare cosf il principio adottato in funzione di substrato... (III, 6, 19). Anche tra gli esseri del mondo intelligibile, la materia è proprio l'illimitato e può ben essere generata dalla infinità dell'Uno o dalla sua potenza o dalla sua eternità; non vogliamo già dire ch'essa si trovi nell'Uno, vogliamo solo dire che l'Uno la costituisce ... Ora, là dove esistono forma razionale e materia, l'uno e l'altra, l'indefinito e il suo essere, sono tutt'uno ... (II, 4, 15). (Sotto questo aspetto] l'indefinito non merita di essere tenuto in poco conto, e neppure quello che sia, per suo stesso concetto, informe, quando l'uno o l'altro sia H per offrire se stesso ad esseri a lui sovrastanti e a realtà di suprema perfezione ... Del resto, anche le forme razionali sono composte e costituiscono perfino un composto in "atto," cioè la natura, che si adopera a dar forma al mondo. La natura, per ciò, è ancora piu composta dal momento che è rivolta a qualcosa di diverso da sé e subisce un'azione estrinseca. Inoltre, la materia delle cose soggette al divenire trae, senza sosta, forme sempre nuove; invece quella delle cose eterne è sempre la stessa e ha sempre la stessa forma. Tutto al contrario, la materia quaggiu. Quaggiu, difatti, essa è, a turno "tutte le cose" e, ciascuna volta, una singola cosa. Ecco perché nulla perdura sotto l'incalzare di cose ognora nuove; ecco perché la non-identità è perenne; lassu, invece, la materia è, ad un tempo "tutte le cose," per il semplice fatto che non ha nulla in cui possa trasformarsi, ché, oramai. ha tutto ... (Il, 4, 3). Tutto, dunque, è come deve essere, come è bene che sia, tutto estrinsecazione in atto dell'Vno, detto perciò Bene assoluto e Bellezza assoluta (in senso platonico), sf come male assoluto è detta la materia, intesa come il termine opposto dell'Uno. Per altro, come l'Uno in sé
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è posto come condizione e come condizione è posta la materia, cosi il Bene e il Male sono le condizioni dell'esserci, per cui l'uno e l'altro si risolvono, nella comprensione, entro i termini dell'Uno tutto, che, perciò, a rigore non si può dire né uno, né bene, né causa. Non a caso, in questo senso, di contro alla tesi cristiana del Dio persona e volontà, del Dio creatore, dell'uomo tutt'uno d'anima e corpo, e di contro a chi interpreta l'Uno come una ragione che tende a realizzare un fine, per cui quel Dio piu che un Dio è un demiurgo, Plotino decisamente afferma che l'Uno, donde tutto proviene, e su cui tutto riposa non tende a nulla, non ha alcun fine (che perciò stesso si porrebbe di fronte a lui come altro da lui}, non è ragione, non è provvidenza (cfr., in particolare, VI, 7, l}; invece, interiormente a lui, si determinano, e sono, una serie di gradi, che si scandiscono da un maggior bene, da una maggiore bellezza, ossia da un maggior essere, a un minor bene, una minore bellezza, ossia una mancanza d'essere. Solo che anche qui, la "processione" dall'O no alla materia e la "conversione" dalla materia all'Uno, attraverso l'anima - che, coscienza di limite, di mancanza, tende a ricondurre a sé quel limite, a oltrepassarlo, riportandolo alla unità di se stessa, fonte di vita, per cui essa diviene amore, tensione all'essere, tensione datla bellezza corporea, riflesso del bello che è essere e unità, alla bellezza trasparente a sé che sono le idee, gli esseri: e qui vanno particolarmente tenuti presenti il Convito e il Fedro platonici,e attraverso l'Intelletto, sono i due termini dialettici del conoscere, il riconoscersi dell'Uno che, implica, appunto, l'Uno al principio e l'Uno alla fine, tutto sempre in atto nella tensione dei due termini ("L'Uno è tutte le cose e nessuna di esse. Poiché il principio di tutte le cose non è tutte le cose ... O perché nessuna è in esso, perciò appunto da lui tutte procedono... Dove sono, dunque, gli altri esseri? in lui; perciò egli non è assente dagli altri né è lui in essi, né c'è nessuno che lo abbia in sé, ma egli ha in sé tutti quanti" : v, 2, l; v' 5, 9). Rispetto al limite, o meglio al limite come coscienza del limite, ché in sé non sono né i limiti né i non limiti, l'Uno si presenta all'anima come presenza di una mancanza e perciò come termine di amore e come dovere, e, quindi, a un tempo, come spinta a riconquistare da parte dell'anima l'unità perduta, di unità in unità, rifacendosi giusta (cioè comprensiva e quindi armonica) e come spinta a riconquistare la bellezza perduta, dalla dispersa bellezza che traluce nei corpi, alla bellezza degli esseri, alla folgorante bellezza dell'Uno, rifacendosi bella. Questo, quindi, sopra tutto si deve ceri:are: come spengere in noi l'ira e il desiderio e tutti gli altri affetti, il dolore e simili; e fino a che punto sia possibile separarci dal corpo. Separarci dal corpo è forse un raccogliere in sé
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[l'anima dispersa] quasi in vari luoghi, che si mantenga interamente immune da passioni, e produca le sensazioni di" piacere e medichi i colpi dei dolori solo in quanto sia necessario per non esserne turbata {1, 2, 5). [Le virtu, dunque, sono purifìcazioni.) In che senso diciamo che le quattro virtu sono purifìcazioni? E in che senso purifìcandoci ci facciamo soprattutto simili a Dio? Poiché cattiva è l'anima mescolata con il corpo e fatta consenziente nelle passioni e in tutte le opinioni di esso: sarà buona e virtuosa se non concordi con lui, ma operi da sola- il che è intelligenza e sapienza -, e non ne condivida le passioni - il che è temperanza -, né tema di partire dal corpo -- il che è coraggio -; e se comàndino ragione e intelletto e le altre facoltà non si oppongano [avremo la giustizia). Tale disposizione dell'anima, per cui cosi pensa ed è libera da passioni, non si sbaglia a dirla simiglianza con Dio: puro è il divino e l'atto di tale specie, per cui ha saggezza chi lo imita (1, 2, 3). Ogni essere diventa desiderabile perché il bene lo illumina, dando quasi agli oggetti desiderati le grazie e ai desideranti gli amori; e pertanto l'anima, ricevendone in se stessa l'influsso si muove e s'inebbria, si eccita e diventa amore. Prima di ciò neppure verso l'Intelletto si muove, per quanto bello esso sia, perché la beltà sua è inefficace prima che riceva Io splendore del Bene, e l'anima da sé ricade supina e resta inerte dinanzi a qualsiasi cosa, e pur in presenza dell'Intelletto è verso di lui sonnolenta .. Ma appena le arrivi dal Bene quasi il calore, prende vigore e si sveglia e realmente s'alza a volo ... Se si arresta all'Intelletto, contempla cose belle e sante, ma non ha ancora tutto quel che cerca. Perché si accosta .quasi a un volto bello sf, ma non ancora capace di attirare lo sguardo, perché non vi risplende la grazia che attrae alla bellezza. Perciò anche qui si deve dire che la bellezza è piuttosto quel che splende nella simmetria, che non la simmetria stessa, ed esso è oggetto di amore. Percpé, infatti, sul volto di un vivo è tutto lo splendore del bello e solo un vestigio nel volto del morto, anche quando non sia ancora mutato l'aspetto delle carni e delle proporzioni? E perché delle statue le piu vive sono piu belle anche se le altre sono meglio proporzionate e perché un uomo, brutto ma vivo, è piu bello che una statua bella? Perché ecco ciò che è piu desiderabile: ciò che ha un'anima, ciò che è piu conforme al Bene, ciò che è in qualche modo illuminato dalla luce del Bene, e, illuminato, ne è come ridesto e sollevato, e solleva ciò che lo possiede e, per quanto è possibile, lo fa buono e lo ridesta (VI, 7, 22). Per altro verso, la comprensione, nella coscienza, che l'Uno è presente sempre, sempre tutto in atto, e che, ad un tempo, è fine, mancanza, dover essere, ripropone che l'ascesa conoscitiva, attuantesi attraverso la musica ("bisogna condurre il musico cosf oltre questi suoni sensibili e ritmi e figure, ossia, separando la materia dei suoni in cui sono le proporzioni e le ragioni, bisogna guidarlo alla bellezza che è in essi, e insegnargli come ciò, cui è rapito, è quell'armonia intelligibile, e il bello che è in essa, è il bello universale... ": I, 3, 1), l'amore
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("chi ama, colpito dalle bellezze visive, ne è rapito; bisogna insegnargli dunque a non lasciarsi trascinare quasi a cader su di un corpo; ma condurlo con la ragione a tutti i corpi, mostrandogli ciò che è identico in tutti, e insegnargli che ciò che è diverso dai corpi stessi, e che viene da altrove, ed è specialmente in altre cose, come i begli studi e le belle leggi; l'amore di chi ama è, infatti, oramai nel campo dell'incorporeo, cioè nelle arti e nelle scienze e nelle virtu, ma deve poi farsi uno... ; dalle virtu deve ascendere all'intelletto, all'ente, e qui volgere il cammino all'alto" : I, 3, 2), la scienza che culmina nella dialettica e nella filosofia ("il filosofo è per natura pronto e quasi alato... ; e la dialettica, ... cessando dall'errare intorno al sensibile, aderisce all'intelligibile e qui ha il suo compito, abbandonata la falsità, nutrendo l'anima nel campo della verità": l, 3, 4; "ma la scienza è ragione discorsiva, e la ragione discorsiva è molteplicità..., per cui chi vuoi filosofare sull'Uno deve, elevandosi agli esseri primi,· allontanarsi dai sensibili che sono gli ultimi ... " : VI, 9, 4 e 3), è ad un tempo ascesa morale (il filosofo "innalzatosi agli esseri primi, si libera da ogni malvagità, mentre si studia di elevarsi al Bene, e di ascendere al principio che è in lui stesso e di farsi di molteplice uno, per diventar principio e contemplazione dell'Uno": VI, 9, 3). E ciò è possibile, perché i termini in cui si scandisce il discorso dell'V no sono gli stessi termini che permettono il discorso mediante cui si coglie l'Unità-molteplicità, la vita pensante e la vitalità del tutto. L'atto visivo ultimo, l'intuizione dell'Uno, che evidentemente non può essere né visione di un oggetto pensato, né definizione, ma, appunto, annullamento pi sé come discorso e dialettica, ché lo stesso Uno come condizione di se stesso, in quanto dialetticità e discorso, è oltre quella dialettica e quel discorso, l'intuizione dell'Uno, dunque, in cui l'anima perde totalmente se stessa (estan), divenendo Uno, indiandosi, in assoluto silenzio, è, in effetto, un momento def pensare, quella sintesi che permette l'analisi, per cui, appunto, non c'è sintesi senza analisi e non c'è analisi senza sintesi. Sotto questo aspetto sembra ora difficile voler vedere in Platino nna mistica e un'ascesi (esercizi mediante cui ottundere i sensi, e lo stesso pensare, fino all'annullamento di sé) che rientrino nelle esperienze proprie dei sacerdoti orientali, particolarmente indiani.. Può darsi, come testimonia Porfirio, che Platino fosse tanto curioso di sapere come fnnzionava quel tipo di ascesi e di estasi, da muoversi al seguito dell'imperatore ,Gordiano durante la sua campagna in Estremo Oriente. "Piotino, divenuto costante discepolo di Ammonio, si approfondi talmente in filosofia da mirare anche a una diretta esperienza sia della filosofia praticata tra i Persiani, sia di quella dominante tra gli Indiani. Quando
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perciò l'imperatore Gordiano si accinse a marciare contro i Persiani, Plotino, che aveva allora trentanove anni - undici anni interi si era trattenuto alla scuola di Ammonio - arruolatosi, si accompagnò all'esercito" (Vita Plot., III, 15-16). In realtà Porfirio non parla che di un interesse e di una curiosità, non di una influenza dottrinaria diretta: egli, se mai, accenna a un tipo di esperienza personale che può essere simile alle esperienze personali dei filosofi di Oriente. "Plotino," scrive Porfirio, "non tralasciò nulla per liberarsi, 'per sottrarsi al flusso mordente della vita che si pasce di sangue,' quaggiu! E cosi proprio a quest'uomo demoniaco, spesso, quand'egli cioè si adduceva al primo e trascendente Dio, mediante il pensiero, sulle vie indicate da Platone nel Convito, apparve quel Dio che non ha figura né forma alcuna, ma troneggia al di sopra dell'Intelletto e dell'intero mondo intelligibile. In verità, anch'io, Porfirio, posso attestare di essermi accostato e unito a lui una volta sola: ed ora ho sessantotto anni... Quanto a Plotino, durante il tempo che gli vissi vicino, gli avvenne di attingere quattro volte tale Fine con un atto ineffabile, e non soltanto in potenza" (Vita Plot., XXIII, 129-130). Di fatto, Plotino, a causa delle vicende della guerra non giunse in India. T ornato indietro, anzi, dopo un breve soggiorno ad Antiochia, si fermò a Roma, dove apri la sua libera scuola ("dopo l'uccisione di Gordiano, in Mesopotamia, riusci a stento a fuggire e riparò ad Antiochia; andò a Roma che aveva quarant'anni, quando Filippo si era impossessato del potere imperiale": ·Vita Plot., III, 17). Ad ogni modo non importa arrivare fino in Persia e in India, per rintracciare in certe espressioni di Plotino, piu che nel contenuto, il linguaggio dello "entusiamo." Certe immagini proprie ad esprimere il contatto con l'Uno, l'indiamento (entusiasmo), anche se all'Uno, a Dio si arriva per una via assai diversa, opposta, per rivelazione da parte di Dio (cfr. Filone l'Ebreo), Plotino le ritrovava nella stessa Alessandria, in cui non solo vivevano persiani, indiani, terapeuti, sacerdoti dei misteri e cosi via, ma in cui aveva operato e scritto Filone l'Ebreo, al quale, particolarmente, sembra si debbano riferire molte di quelle immagini e parte di quel linguaggio, quando non si pensi anche alla VII lettera di Platone. Se all'uomo è ignota l'espetienza di amore (éros) - l'amore è congenito all'anima-, parta egli di qui, dagli amori terrestri ... Che sono tuttavia amori caduchi, amori di. fantasmi, mutevoli ... Ma chi contempli, sa quel ch'io dico, che cioè l'anima ha un'altra vita, quando è progredita e già è tutta vicina all'Uno e partecipe di lui ... Noi, per ora, parliamo dell'Uno come di un diverso; per questo la visione è ben difficile ad esprimersi. Come, infatti, si potrebbe dare notizia di lui come di un diverso, dacché chi lo vide contemplandolo non lo vide diverso, ma uno con se stesso? ... Quasi rapito e
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npteno del Dio, egli è già entrato, silenziosamente, in una solitaria fissità e non si allontana dall'essenza dell'Uno e non si volge piu verso se stesso, assolutamente fermo, come divenuto egli stesso immobilità ... Tutto questo è una pallida immagine, una allusione velata di vati sapienti, sul modo come quell'altissimo Iddio si lascia contemplare ... La natura dell'anima non può, certo, pervenire mai all'assoluto non-essere; ma, se va in basso, scende al .male e, cosi verso il non-essere, ma non proprio al completo non-essere; invece, correndo sulla via opposta, essa giunge non ad un altro, ma a se stessa ... Dunque se alcuno si veda già trasformato in lui, questi possiede in se stesso una similitudine di lui; e se va oltre se stesso, come immagine rispetto al modello, è giunto al termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, può ridestare di bel nuovo la virtu che c'è in lui e meditando su se stesso cosi perfettamente adorno, ritroverà la sua leggerezza e salirà all'Intelletto· e attraverso alla saggezza fino a lui stesso. Questa, si, è la vita degli dèi e degli uomini divini e beati, liberazione dalle restanti cose di quaggiu, vita cui non aggrada piu cosa terrena, fuga di solo a solo (VI, 9, 9-11).
L'Uno, dunque, è sempre e non è mai, e lo stesso atto con cui lo si coglie è il momento stesso nel quale lo si perde, per cui la ricerca, l'analisi rimane sempre aperta, e l'Uno resta termine di amore e condizione del discorso. Se per il momento della sintesi, per l'avviamento a fare intendere quella sua dialettica, Platino non poteva non usare che un certo tipo di immagini, di metafore, di evocazioni, tutt'altro linguaggio usa Plotino per il discorso, per l'analisi, per la deduzione scientifica. Ritroviamo cosf, entro i termini della sistemazione plotiniana e del suo platonismo, ripresi i temi - non a spiegazione unica, ma l'uno accanto all'altro se non addirittura in opposizione - i temi propri del piu raffinato pitagorismo - il tema della numerabilità, condizione del discorso analitico-matematico, - il tema del· rapporto Intelletto-intelligibili - proprio dell'interpretazione aristotelica del mondo delle idee di Platone, - il tema della materia intelligibile, già discusso da Moderato di Gades, i temi - propri di certo stoicismo - dei· l6gos, dell'anima vivente e della materia fonte di vita, sostrato, e del tutto vivente, la cui essenza è la coscienza, su cui si basa la "simpatia" del tutto. Entro questa visione di un tutto vivente, di un animale unico, la cui essenza, ciò per cui è, è la coscienza di sé - nella nuova accezione data al concetto di anima da Platino - che in sé, dunque, incentra il tutto, per cui tutte le cose, dai circoli celesti agli astri, alle piante, ai minerali, alle cosiddette cose inanimate (anche queste, in effetto, dice Plotino, vivono, hanno una loro storia, si trasformano, per cui hanno una vita latente anche se· inconscia: cfr. VI, 7, 11}, vivono e sono nell'anima, e mediante questa nell'intelligibile e nell'Uno (per cui tutto
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e m quanto, nell'anima, nell'atto che l'anima rientra in sé, riconosce se stessa, è simile all'anima), Platino poteva spiegare tesi dei testi ermetici, dell'astrologia e della magia, in una deduzione razionale. "L'universo," scrive Plotino, "è svariatissimo: ci sono in esso tutte le ragioni seminali e infinite e svariate potenze... E non è come una cosa senz'anima, grande d'altronde e vasta, fatta con specie di materiali facili a numerare, di pietre e legno e magari altre ancora; esso non doveva essere rolo un .mondo ordinato, ma anche un essere sveglio, SI che tutto fosse in esso vivente in ciascuna parte a suo m~o; e nulla può esistere che non sia in esso. E cosi è da risolvere anche la questione che si può porre: come in un essere animato, possono esserci cose senz'anima; l'argomentazione ci dice che ogni cosa vive a suo modo nell'universo... " (IV, 4, 36). "Ciasc,un essere ha una potenza, pur se sfornita di ragione, essendo essa stata plasmata e formata nell'universo, e partecipando in qualche modo dell'anima che è nell'universo, essere animato; ed essendo parte di questo, ne ha ricevuto come una parte dell'anima di esso" (IV, 4, 37). "Quest'universo è un tutto che 'simpatizza' con se stesso. Le parti piu grandi vi sono vicine, come lo sono in un animale le unghie, le corna e le dita e qualunque altra parte di quelle che pur sono contigue tra loro" (IV, 4, 32). "Della terra, degli alberi e delle piante dobbiamo dire che ognuno di essi è pensiero contemplante [theoria ], e dobbiamo ricondurre tutte le cose prodotte dalla terra e uscite da essa all'attività di pensiero che è propria di essa. La natura che si dice sia priva di attività rappresentativa e di ragione, ha in sé pensiero e produce tutto quel che produce in forza di questo pensiero, che invece noi diciamo essa non possiede... Se si domandasse alla natura perché produce, cosi essa risponderebbe: ... L'essere generato è per me oggetto di contemplazione muta, l'oggetto naturale del mio contemplare: io stessa sono nata da una tale contemplazione [cioè, comincio a esistere in quanto sono presente all'anima] e sono portata dalla mia stessa essenza al contemplare, e ciò che in me pensa produce un oggetto da pensare ... Che cosa significano queste parole? Ciò che si chiama 'natura' è un'anima,. che è il prodotto di un'anima antecedente, animata di vita piu potente della sua" (III, 8, 1 e 4). Se com'è chiaro, la "natura" è anima fuori di sé, inconscia; la "natura" in quanto coscienza, cioè in quanto comprensione che l'anima assume di sé, torna all'anima, si rispecchia nell'anima per la sua stessa somiglianza all'anima. L'essenza, dunque, dell'Universo è l'anima, che in sé incentra, abbracciandolo in unità, l'Universo tutto, per cui nell'unità dell'anima si risolvono tutte le anime e tutte le cose, le une specchio delle altre. Questi cieli sono dèi, perché non si staccano da quelle essenze intelligibili e perché sono avvinti all'Anima originaria, a quell'anima che prima
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si mosse, per cosf dire, e proprio perché sono quel che si dicono, essi guardano verso l'Intelletto... Le anime degli uomini, invece, poiché scorsero le loro stesse immagini, per cosf dire, nello specchio di Dioniso, con un balzo dalle regioni superne, esse sono recise dal loro principio e dall'Intelletto... In verità l'Universo, che l'anima serra dentro, è già sufficiente a se stesso e lo sarà sempre, poiché si svolge in periodi secondo proporzioni perennemente fisse e periodicamente ristabilisce allo stesso stato e secondo misure di prestabiliti cicli vitali, ed adduce ad armonia il terrestre ed il superno e lo fa corrispondere a quello: e mentre questo processo si svolge, le cose tutte vengono subordinate a un piano unitario, sia nelle discese delle anime, sia nei loro ritorni e in vista di ogni altro accadimento. N'è prova il fatto che le anime accordano la loro voce all'ordine di questo Universo, poiché non ne sono separate ma, nelle loro "discese," vi s'inseriscono e si muovono in pieno accordo con il moto circolare; a tal segno che le loro fortune come il loro vivere, come pure la loro scelta si fanno leggere nelle figure degli astri; e sciolgono non so qual inno che non è certo privo di una sua melodia -ed ecco, plausibilmente, il senso riposto della dottrina della "armoniosa musica delle sfere " (IV, 3, 11-12). Altrove (IV, 4, 8) negando la memoria alle stelle - commenta il Garin, Le "elezioni" e il problema dell'astrologia, V Convegno Internazionale di Studi umanistici, Oberhofen, settembre 1960, Padova, 1960, pp. 26 sgg., - e gli affetti, pur nella loro ·Vit~ ch'è come una eterna danza, Plotino sembra polemizzare con gli astrologi, ma, in realtà, solo entro certi limiti. Perché è di nuovo rinsaldata l'armonia totale, il disegno universale, pur nella diversità dei moti singoli. E si parla, si, solo delle stelle; ma "nelle figure delle stelle... si fanno leggere la vita e le scelte" delle anime tutte. " Se nondimeno, di per se tesse, vivon le . stelle una vita beata, e, per di piu, contemplano sino all'intimo questo vivere con le loro anime, mentre in virtu di questa inclinazione delle loro anime orientata verso un centro e in grazia del loro splendore che si irradia per tutto il cielo, son proprio come corde in una lira che, mosse concordemente, cantano una canzone naturalmente armoniosa; se tale è il movimento dell'universo cielo e le sue parti sono orientate verso di lui, mentre anch'esso si volge, dal canto suo, su di sé, e le parti, quale per una via quale per un'altra, seguono la stessa scia (poiché ognuna ha una sua propria posizione), ancor piu si rinsalda la nostra asserzione, giacché allora la vita di tutte le stelle è vieppiu fortemente unitaria ed uguale" (IV, 4, 8). In questa prospettiva - prosegue il Garin, cit, p. 27 - "l'astrologia prende sapore, e come scienza della vita e della costituzione umana, e, nei suoi nessi con la magia, come tecnica della condotta. Da un lato nelle figure celesti si leggono a caratteri macroscopici le vicende, le situazioni e le strutture umane;
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negli esemplari~ per cosi dire, e non nelle immagini riflesse nello specchio di Dioniso. Non solo, ma è possibile, per le corrispondenze fra uomini ·e figure celesti, definire i caratteri degli uomini. In realtà, infatti, tutto il mondo è abbracciato dall'anima, da essa traversato e percorso. Le comunicazioni fra i cieli, costellazioni, stelle e uomini non sono influssi estrinseci determinati da parte di corpi su anime: sono nient'altro che il fluire ovunque della stessa vita, il comunicarsi nascosto di anime nell'ambito dell'Anima. E c'è un rapporto profondo e un corrispondersi dato, nell'universale sinfonia, oggetto del momento teorico e descrittivo della scienza dei rapporti fra le singole realtà e le 'figure' celesti; come c'è un momento tecnico, pratico, in cui si costituiscono strutture capaci di addensare piuttosto l'una che l'altra potenza, scegliendo, attraverso la ricostituzione di altre 'figure,' altre 'figure.' In altri termini, alla scelta da parte della stella corrisponde, attraverso la scienza, una scelta della stella." "Sempre Plotino, in un altro luogo della quarta Enneade, ripreso nella T heologia Aristotelis, aveva illustrato le figure efficaci, di cui si valgono i maghi, i quali 'attirano su se stessi, senza rumore, influenze, appunto perché stando nell'unità universale, agiscono su di un unico centro.' E aggiunge: 'in realtà a voler supporre un mago siffatto fuori dell'universo, egli allora non potrebbe esercitare né le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o esorcismi egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosi dire, in un luogo diverso dal mondo, egli è in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente.' Naturalmente Plotino precisa ancora che quel che viene sedotto dall'anima non è il puro pensiero, ma ~ &>.oyot; IJ!ux.Y) [anima inconscia]. Cosi non sono le stelle in se stesse, nell'ordine del tutto, come enti razionali, a entrare nel giuoco delle influenze, ma solo in quanto parti dell'Universo. In altri termini è questa simpatia, questa convivenza, che alimenta il giuoco dei reciproci influssi entro la zona della vitalità universale" (Garin, cit.; cfr. IV, 4, 8). Se entro questi termini, Plotino, di contro alla magia volgare, diffusissima in ambienti popolari, poteva sostenere la validità della magia naturale nel quadro di una certa concezione dialettica del tutto; per altro verso si poteva trovare, in quella concezione di Plotino, il fondamento teorico per una spiegazione, sia pure in termini simbolici, della teurgia. Posto, appunto, con Plotino che tutto ciò che è, lo è in quanto rifrazione dell'anima da un lato, e, dall'altro lato, in quanto presenza dell'anima, che, ritornando in sé, riconquista e fa proprio ciò ch'era fuori di se stessa, ciascuna anima nel suo riprendere coscienza di sé, entra per mimèsi in termini di simpatia con quella cosa, quella stella, quel minerale e cosi via (tutti, in quanto momento della vita del tutto, 231
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divini, simbolicamente divinità, ~èi), rientrando quella cosa, quella "natura" in lei, facendosi essa una con quella natura; l'anima cosi ha potere su di essa, liberandosene, in quanto imitando quella natura, quella "figura," vivendola, la pone in relazione con le altre cose e le altre anime nell'unità potente dell'unica anima vivente, cogliendo in ciò la vitalità del tutto, quella piu vera magia, che è la "simpatia" dell'universo, onde appunto ciascun'anima può richiamare a sé, imitandolo, l'aspetto dell'universo con essa in simpatia, quel dèmone, che è, in realtà, il proprio dio, aspetto dell'unico Dio. Sotto questa prospettiva assai indicativo sembra il racconto di Porfirio secondo cui un egiziano, sacerdote, venuto a Roma e presentato da un amico a Plotino, volendo dar prova della sua sapienza, si offerse di rendergli visibile, mediante evocazione, l'innato dèmone che l'assisteva. "Plotino," prosegue Porfirio, "acconsenti di buon grado: l'evocazione avvenne all'Iseion (a detta dell'Egizio, non si trovava in Roma, altro luogo puro, fuorché quello). Sotto i loro occhi, il dèmone fu evocato: ma invece di un essere di specie demoniaca apparve un dio; onde l'Egiziano esclamò : 'Beato te, Plotino, che hai per dèmone un dio l Colui che ti assiste non è di specie inferiore.. .' Orbene, poiché Plotino aveva l'assistenza di un dèmone di divinità superiore, era, da parte sua, ininterrottamente, orientato verso di lui, in alto, col suo occhio divino" (Vita Pl., X, 56 sgg.). Tutto ha il suo dio, in quanto ha una sua anima, o meglio in quanto è dovuto all'anima, è proiezione dell'anima, anche le cose, la "natura," anima inconscia; e allora, sapere imitare la natura, ritrovare la propria natura - cioè ricondurre sé a se stesso, - oppure sapere in una natura, detta inanimata, in un pezzo di marmo, ad esempio, ridestare, come sa fare l'artista che costruisce una statua, l'anima del marmo - la bellezza non sta nella simmetria, ma nella vita della simmetria, - infondere elementi che facciano simile quel marmo. al suo modello superiore, significa poter richiamare nella cosa e su noi stessi la relativa nostra "figura" superiore, il proprio dio, fino a giungere all'anima unica, all'unico Dio. Plotino non fu certo un teurgo nel senso corrente del termine. Mai egli viene definito teurgo dai suoi successori, né mai egli stesso usa il termine teurgia. Probabilmente non doveva conoscere· Giuliano, l'autore degli Oracoli caldaici. Se lo avesse conosciuto ne avrebbe parlato, si come parla, discutendone, nelle lezioni, delle curiose rivelazioni di Zoroastro, Zostriano, Nicoteo, Allogene, Meso ed altri dello stesso genere (cfr. Porfirio, Vita Pl., XVI), e delle rivelazioni dei cristiani e degli gnostici. Viva avversione, anzi, egli ha sempre dimostrato per questo tipo di "rivelazioni." Ciò sembra confermare quel che sopra abbiamo detto sul "razionalismo" di Plotino. Quanto alla stessa unio
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mystica plotiniana- ha detto il Dodds- "senza dubbio chiunque legga con attenzione certi passi come Enn. l, 6, 9 o VI, 7, 34, vede chiaramente che essa non si ottiene mediante rituali evocativi o esecuzione di atti prescritti, ma grazie a una disciplina interiore della mente, immune da ogni elemento coattivo e del tutto estranea alla magia" (Teurgia, ne l Greci e l'irrazionale, cit., p. 342). In realtà di teurgia possiamo parlare in Plotino: solo che dobbiamo ricondurla entro i termini che abbiamo veduto, cioè entro i termini della magia e dell'astrologia naturali, della "simpatia," per cui l'anima " imitando la natura, " cioè se stessa, può liberarsi da se medesima, in quanto limitazione e dispersione, nella libera necessità dell'Universo tutto. Per altro, Plotino non poche volte per indicare ed evocare l'atto con cui si coglie l'unità dialettica del tutto, usa immagini evocative nel linguaggio religioso proprio dei misteri, in termini simbolici; solo, ch'egli, piu volte, tiene a dichiarare che si tratta, appunto, di immagini, di simboli evocativi, validi se interpretati come indicazioni di atti intellettivi, pericolosissimi se interpretati alla lettera, corposamente, ..:hé in tal caso si tradirebbe davvero il significato intimo della divinità, dell'Uno, condizione e ipostasi del tutto (''proprio questo vuole significare quel famoso comando dei nostri misteri: 'non divulgare nulla ai non iniziati'; appunto perché il divino non è da divulgarsi: fu vietato di manifestarlo altrui, salvo a colui che di per se stesso l'abbia, per avventura, contemplato": VI, 9, 11).
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Capitolo secondo
Neoplatonismo e Cristianesimo fra il III e il IV secolo
l. Il neoplatonismo di Porfirio, di Amelio.e di Giamblico. Le Scuole neoplatoniche di Siria e di Pergamo. Magia e T eurgia. LA criti dell'Impero nel III secolo A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intellettiva e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico .in particolare, tutto ciò che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio, quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe espressioni religi<>so-misteriche e l'indiscorribilità del contatto con runo, o del farsi uno nell'anima di ciò che vien compreso, entro i termini della concezione dell'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della liberazione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva divenendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà. Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, discepolo di Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima, che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa).
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Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 270·- tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi frammenti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacerdote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'astinenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi.
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vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica racchiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è faccenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pensiero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che .quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio entrasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1
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Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel ricostruire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in termini simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora mettendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrologia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino provocò in Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidentemente, rivide le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo plotiniano, scoprendo il significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di Plotino, una sistemazione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a liberar la dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei confronti della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo condusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sicilia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, misteri, pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane
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("autentiche invenzioni di uomini e finzioni della natura umana" : Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio che l'anima, in quanto consapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo aspetto Porlirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intellettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu colpito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sensibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). Di qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plotiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordinamento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'autovivente, l' IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nell'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce
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la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, riconducendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappresenta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, sollevandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento dell'immagine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema dell'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Particolarmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eidetico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano possono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato
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per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni meravigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze perniciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progredisce via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della propria devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, GandLipsia, 1913, pp. 91-2). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pratiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di siffatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De abstinentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la conversione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civi- · tate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dall'Impero dal tempo di Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto
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l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Settimio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le meraviglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh 'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sembra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dall'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile (' AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia della
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parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche ("proprie dell'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si eleva, purificandosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare conforme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie dell'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la prudenza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che esistono nella mente e sono superiori alle virtu dell'anima, delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze... : qui la scienza è prudenza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è conversione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del proprio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rimanere sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cercando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli ... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi ... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra ... ; e l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7).
Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad
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. alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricerèhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi compresa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Metafisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àmbito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a intendere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introduzione a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formalegrammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discussione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del platonismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le categorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio, accidente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, sostenendo che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che permeaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, prendendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dicotomicamente discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di definizione per dicotomie successive, andato sotto il nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporeaincorporea; sostanza corporea: corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corP,O animato sensibile; ragionevole-irra-
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gionevole; animale ragionevole : mortale-immortale; ,animale ragionevole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensibilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di rendersene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione . dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intolleranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, funzionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento dell'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture' di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica dell'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero nel III secolo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a
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proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gallieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio :racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un conflitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, tendeva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Constitutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "romanità" (sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senatodale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli imperatori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'imperatore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260), allorché ebbe il sopravvento la politica 245
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di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari, provenienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il problema cristologico) in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecutore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al confine orientale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricordando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in
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realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di N umenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egiziani J e di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano 2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e gl'intellettuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, rontrasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risolvere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla persecuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Passata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propugnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256. . La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum; .4d Fortunatum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque lettere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui).
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desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la concezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa struttura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, semplicisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso quadro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Campania, andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se tal uni cortigiani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfiriano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla documenta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intellettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acquista cosf un altro significato e può trovare una piu soddisfacente soluzione il discusso problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli-
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ca. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe," l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, 1930, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono proposizioni circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfettamente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distinzione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77).
Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta quest'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella superiore unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, relativamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino ... ; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia ], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plotiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si
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retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente, rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligibili, il problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica IntellettoIdee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Numenio, tre iposta si : l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta ), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiungono ad esso (-tòv. opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, circolarmente, in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si moltiavvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteggiame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in· cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino el di Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.).
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plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade in triade, perciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte le strut. ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corrispondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Ouranòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teologia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti ·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cristallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Giovanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere vivente :e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riacquista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19).
Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele):
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Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua moltiplicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sappiamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giamblico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'V no, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'Intelletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, molteplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca della scuola neo platonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repubblica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arithmctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giamblico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone.
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molteplici nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo termine delhi triade intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua unità-molteplicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due mondi : il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo si pongono, termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della natura, rispecchiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli altri intermediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodiacali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male
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(donde i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limitazione dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dall'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rimanere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tradizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo consiste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nell'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depotenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero,
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in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetticamente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini matematici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dall'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astrologia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sempre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onnipotente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca geometricoaritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad oltrepassare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto
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come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto magia-teurgia-riti' e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filosofia come rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presupposto della piu vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf : l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi... Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli (auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Porfirio, il quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç, empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si lasciano affatto violentare, ma è l'anima che purificandosi, che rientrando in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di un'arcana forza, si che neppure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo nati passivi, esseri
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puri ed immobili (De myst., I, :12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4 ). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [o t 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita la quale, proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mortale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri ... I maestri dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giamblico, la sua interpretazione degli Oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teurgiche, alla filosofia 'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie concezioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una prima siste-
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mazione dei rapporti mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini geometrici e numerici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo· ·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathematica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theologumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul piano dell'interpretazione .di certi testi di Platone, considerato in funzione di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico (" neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cappadocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Domnino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Alessandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum ), la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sottolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, formatosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che fu
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discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente studiano certi poteri, che derivàno dalla materia n e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu. liano - da quel "teatrale taumaturgo, n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giuliano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giamblico: "Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia : gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cristiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demonologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti, n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neoplatonica di Pergamo). Demonologo e te urgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad Apamea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invitato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continuatore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi
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fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giamblico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porlirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olimpiodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Analitict), considerati al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via allegorica, un tutto compiuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze religiose, nei termini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della questione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sull'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Commento alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore formale e servono per introdursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in senso plotiniano. 2. Origene Entro quest'arco che va da Ammonio Sacca a Porfirio a Giamblico e alle scuole neoplatoniche fin verso la metà del IV secolo, vanno ora considerate, per le ragioni che abbiamo detto sopra, entro l'àmbito del neoplatonismo e della crisi dell'Impero sino a Costantino e da Costantino a T eodosio, le linee molteplici su cui si svolsero la problematica, le discussioni, le rotture interne, le' "scelte" (eresie) del Cristianesimo, in Occidente e in Oriente. La prima grande e complessa personalità cristiana del III secolo fu Origene,G nato in Egitto, forse ad Alessandria, nel 184 circa, da una G Nato, sembra ad Alessandria, nel 184-185, da una famiglia convertitasi al Cristianesimo (suo padre Leonida fu condannato a morte durante la persecuzione di Settimio Severo del 202-203), formatosi alla scuola di Panteno e di Clemente, Origene a diciassette anni già dava lezioni di grammatica; succedendo a diciotto (nel 203) a Clemente nella
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famiglia convertitasi al Cristianesimo. Mandato alla Scuola Cristiana di Alessandria, Origene si formò sotto la guida di Clemente Alessandrino, ascoltando ad un tempo Ammonio Sacca, ch'egli seguitò a fredirezione della scuola di Alessandria, per volere del vescovo Demetrio. Dal 204 al 230, tranne qualche breve interruzione, Origene insegna ad Alessandria, ove, ad un tempo, frequenta e ascolta Ammonio Sacca. Nel 212 si reca a Roma per vederne l'"antichissima Chiesa." Tra il 215-16 _e il 218-19, per sfuggire alla persecuzione di Caracalla, va in Palestina. In Palestina il vescovo di Cesarea Teoctisto e quello di Gerusalemme Alessandro pregano Origene, semplice laico, di spiegare in Chiesa la Scrittura. Richiamato ad Alessandria da Demetrio, Origene riprende l'interrotto insegnamento al Didascaleo. Nel 222 circa è ad Antiochia, invitato da Giulia Mammea, madre dell'imperatore Ales· sandro Severo. Nel 230 Origcne si reca in Grecia e di qui passa di nuovo in Palestina, dove, a Cesarea, i vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Gerusalemme l'ordinano prete, senza aver prima sentito il parere· del vescovo di Alessandria Demetrio, sl come avrebbero voluto i canoni. In due sinodi, tenuti ad Alessandria nel 230-31, Demetrio condanna Origene, oltre che per tale sua consacrazione illegale anche per ragioni dottri· nali, lo destituisce dallà sua carica alla scuola di Alessandria e lo depone dal sacerdozio. Bandito da Alessandria, Origene torna a Cesarea, dove apre una scuola simile a quella di Alessandria. Nel 240 è ad Atene, nel 244 ill Arabia per ricondurre all'ortodossia Berillo vescovo di Bostra. Arrestato e tenuto a lungo in prigione durante la persecuzione di Decio (250-51), Origenc, rimesso in libertà, ma fortemente fiaccato per le torture cui era stato sottoposto, muore a Tiro, in Fenicia, nel 254-255. · Delle moltissime opere di Origcnc - Sant'Epifania parla di seimila, Eusebio ne dà una lista di duemila, il catalogo fatto da San Gerolamo arriva a ottocento - sono pervenute (o si ha notizia), secondo la tradizionale divisione in I. Opere scrittura/i, 2. di Apologia e di polemica, 3. teologiche, 4. ascetiche c lettere, le seguenti: I. Opere scritturali: Exapla ('c~llnÀiit : !)I!)À(Il, Bibbia sestupla: cosi dette perché oontcnevano il testo dell'Antico Testamento scritto su sei colonne parallele: la prima colonna portava il testo ebraico, la seconda il testo ebraico in caratteri greci, la terza il testo della versione di Aquila, la quarta la versione di Simmaco, la quinta quella dei Settanta, la sesta quella di Teodozione; il libro dei Salmi era su otto colonne, perché alle versioni suddette Origene aveva aggiunto altre due; rimasta, perché piu volte copiata, la quinta colonna, delle altre restano frammenti); Scolii (spiegazioni di carattere grammaticale di testi difficili della Genesi, dell'Esodo, dei Numeri, del Levitico, di Isaia, dei Salmi, dell'Ecclesiaste, di San Matteo, di San Giovanni e dell'Epistola ai Galati di San Paolo; se ne hanno solo citazioni); Omelie (spiegazioni elementari della Scrittura, tenute davanti ai fedeli: se ne conosce l'esistenza di circa cinquecento; ne sono conscr· vate duecento circa in traduzioni latine di Rufino e di San Gerolamo); Commentari (commenti alla Scrittura di tono allegorico; il piu celebre è il Commento a Giovanni; nessuno dei Commenti è giunto intero: ne restano citazioni e lunghi passi, in greco e in tradu· zioni latine); 2. Opere di apologia e di polemica: Contro Celso, in otto libri (su Celso e il suo libro Discorso veritiero, scritto nel 177-178, conosciuto per le lunghe citazioni che ne fa Origene, cft. sopra); 3. Opere teologiche: Sui principii (Ilcp( ~P)(WV =Peri archòn; l'opera piu importante di Origene. Del testo greco non restano che due ampi passi del libro III e di quello del libro IV, nella Filocalla, un'antologia a cura di Basilio e di Gregorio di Nazianzo; l'opera intera è pervenuta attraverso la traduzione latina, non sempre fedele, di Rufino; fu scritta in Alessandria nel 229-230. Il I libro tratta di Dio, della sua unitl e spiritualità, del Verbo, dello Spirito SantG e degli Angeli; il Il libro del mondo e della sua creazione, dell'uomo, della sua origine, della salvazione dell'uomo e del suo fine; il III libro discute la natura della libertà umana, la lotta tra il bene e il male, il ritorno di tutto alla propria origine; il IV libro tratta di come si debbono interpretare i libri Santi); Stromati (conosciuti taio per qualche citazione); Della resurresione (sono
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quentare anche quando dal 203 succedette a Clemente in qualità d, maestro del Didascaleo, mantenendo quindi, pure a Cesarea, ove apri una scuola, allorché (230 circa) dovette abbandonare l'insegnamento ad Alessandria, i piu vivi contatti con i gruppi dei neoplatonici. Sulla fine del n secolo e il principio del m, piu che di conflitto tra la scuola platonica di Alessandria e l'altra scuola platonica che si Jrasformò nel Didascaleo, si .tratta di due modi diversi di interpretare certi testi platonici, di rintracciare attraverso il commento e l'esegesi di testi (Porfirio dice che Origene leggeva Platone e Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, i pitagorici, Cornuto, applicandone il metodo allegorico alle Scritture degli Ebrei: in Eusebio, Hist ecci., VI, 19, 7-8) il significato dell'uomo e della vita, sia ch'esso poi si ritrovasse nella tesi cristiana o nella tesi plotiniana. Naturalmente gli esiti degli uni e degli altri potranno essere lontanissimi tra di loro o vicinissimi, provocando poi, in seno alla stessa Chiesa, conflitti e " scelte, " che si vennero infine delineando anche sul piano politico (e qui pensiamo particolarmente al conflitto sull'unità e trinità di Dio, al conflitto tra Ario e Atanasio). Sotto questo aspetto Ori~ene non è solo interessante perché ha ordinato e costituito in un certo complesso organico quella che sarà detta la "filosofia" cristiana, ma anche perché in lui si rintracciano tutti i motivi dei futuri conflitti. Non a caso si taglieranno via poi non poche parti dell'opera di Origene, ritenute eretiche, allorché determinatosi come ortodosso uno dei possibili cristianesimi di quella Chiesa ch'ebbe, rispetto alle altre (alle interpretazioni date dalle altre), il sopravvento, in ciò aiutata dal potere politico (Costantino), si ebbe un criterio con cui respingere e combattere gli altri cristianesimi che avrebbero minacciato l'unità della Chiesa politicamente costituitasi. Delle due opere fondamentali di Origene, il Contra Celsum è pervenuto intero (in esso non v'era nulla che potesse disturbare poi la posizione ufficiale assunta dalla Chiesa: esso, anzi, puntando, di contro alla concezione classica, sul valore dell'uomo nella sua personalità, sottolineando cosi uno degli aspetti essenziali del Cristianesimo e della sua forza nei confronti anche del .fondamento dell'Impero romano in due opere, la prima in due libri, scritta ad Alessandria, la seconda, piu tarda, in forma di dialogo: se ne ha solo qualche frammento in Metodio di Olimpo, Panfilo e San Gerolamo); Intorno alla Pasqua (scoperto nel 1941 nel papiri di Tura); Colloquio con Eraelidi! (scoperto nel 1941 nei papiri di Tura); 4. Opere ascetiche e Lettere: Dellà preghiera; Esortazione al martirio (del 235, scritto in occasione della persecuzione di Massimino); Ll!ttere (data la celebrità di cui godette Origene, ampia è la sua corrispondenza. Eusebio aveva raccolto piu di cento !et· tere: Hist. ucl., VI, 36. Se ne sono conservate intere solo due: una a San Gregorio Taumaturgo e una a San Giulio Africano).
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cui, sul piano di concezioni stoiche o neoplatoniche, l'uomo perde se stesso, assumeva un non indifferente valore propagandistico); il De Principiis, invece, è giunto mutilo in una traduzione latina fatta da Rufino (morto nel 410), che, per altro, non fu, su testimonianza di San Gerolamo, traduttore fedele (Rufino fu condannato per eresia, e lecito è, perciò, il sospetto che Rufino nel tradurre Origene abbia adattato certe espressioni origeniane al proprio punto di vista, cercando in tanto Padre della Chiesa un'autorità alle sue posizioni). Ma che Rufino non sia stato traduttore esatto è testimoniato anche dal confronto con passi origeniani pervenutici nell'originale greco in un'antologia, curata da Basilio e da Gregorio di Nazianzo, intitolata Filocalia (CI>tì.oxcxì.(cx ). Solo che il fatto che non vi siano manoscritti del De Principiis può far pensare che il De Principiis sia stato condannato (le opere condannate venivano bruciate), almeno in parte (il che spiegherebbe perché si fecero delle antologie del De Principiis). Certo è che dopo le accuse di eresia contro la costruzione origeniana, veduta in chiave neoplatonica, da parte di Metodio di Filippi, di Gerolamo, e dell'imperatore Giustiniano, parecchie affermazioni origeniane vennero condannate ufficialmente, per opera dello stesso Giustiniano, in un sinodo del 553, mantenendo quelle che potevano rientrare nel quadro dottrinale stabilito dalla Chiesa. Per comprendere storicamente la doppia faccia con cui si presenta la problematica di Origene, quelle che sono state vedute poi come contraddizioni dovute ad eccessive concessioni alla tesi neoplatonica del rapporto Uno-molti, Unità-LSgos, ove il 16gos ipostasi entro l'Uno sembra subordinato al Padre, e al ritorno finale del tutto nell'V no, per la stessa necessità ed "economia" dell'Universo, non bisogna considerare Origene con l'occhio del poi e della posteriore dottrina cristiana, ma entro i termini della sua formazione culturale, di quella che fu, in un certo ambiente, la problematica comune, nel dibattito tra una soluzione in termini ontologici (Plotino) ed una soluzione in termini etici e storici (Clemente, e piu ancora Origene). Il fondamento teoretico-gnostico di Origene si può, senza dubbio, riferire a Clemente (particolarmente l'aspetto di una filosofia della storia umana culminante con l'avvento del Cristo, attraverso cui l'umanità raccoglie in unità il suo esserci disperso; e l'aspetto dell'interpretazione del Vecchio e del Nuovo Testamento per via allegorica).. Origene nell'interpretazione delle Sacre Scritture distingue tre significati: il significato letterale o corposo (somatico), che ha valore per i "semplici," e che è il fondamento autorevole della fede; il significato psichico (morale)' e il significato spirituale, cioè allegorico, mediante cui, oltre la lettera, si coglie la verità riposta (corposamente espressa da Dio
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nelle Sacre Scritture) e con cui la fede diviene conoscenza, consapevolezza della verità rivelata non solo nelle parole di Dio (i sacri libn), ma anche nell'uomo, si che la stessa ragione assume un suo fondamento, e la fede si chiarifica, in quanto si comprendono le ragioni della fede. Fondam~nto della fede le Sacre Scritture, attraverso esse, in una "conversione" dell'anima su se stessa oltre il corpo, e in un disciogliersi dell'anima da "psiche" che è, in quanto limite e peccato (Origene non a caso fa derivare anima, psychè, da psycho6, "raffreddare," cristallizzare: oltre a Platone, Crati/o, cfr. anche Filone l'Ebreo, Dc somniis, I, 31) in spirito, in vita, l'anima, tornata spirito, soffio divino, si rende conto della fede, conosce, in una totale rivelazione che oltrepassa le stesse Scritture, e in cui consiste quello che Origene chiama l'Evangelo eterno; storica la fede, storica la rivelazione attraverso il Cristo, astorica, ricomponente in sé tutte le rivelazioni, nell'unità dell'unica rivelazione, la rivelazione del momento spirituale (evangelo eterno) dell'anima, conoscenza (gnosi) che in sé ricomprende la fede (In Joh., 19, 3). Entro questi termini, riprendendo da Clemente, sulla linea di San Giustino e di parte dell'apologetica greca, sembra che il processo storico da Dio al Cristo incarnato e dal Cristo a Dio, si risolva in un processo circolare, astorico, in senso neoplatonico. Dio, il Padre - secondo il t6pos ebraico-cristiano e platonico - è l'Uno, l'Essere tutto in atto; fondamento (ipostast) del tutto, egli non può essere né il tutto, né una parte del tatto; l'Uno, dunque, è oltre l'essere, egli solo è (monadc); solo, è unità assoluta (ènadc), nulla è di fronte a Dio, nulla ha essere oltre lui (cfr. Contra Cclsum, I, 2-3; Dc Principiis, I, l, 6). Dio, perciò, non Io si può concepire né con forma umana, né con passioni umane (Dc Principiis, IV, 71); egli tutto può fare, perché tutto, in quanto perfezione, è in lui, tranne il male e l'ingiustizia perché male e ingiustizia sono limiti, non sono, o meglio sono determinazioni umane (III, 70); Dio, dunque, è bene assoluto; essere nella sua assoluta perfezione egli è incorporeo (infinito, non può essere affatto determinato, avere figura); e se nulla è oltre lui, accanto a lui ..... il che sarebbe contraddittorio, perché ammetteremmo due essere - Dio, ch'essendo tutto in atto è eterno, in eterno dà realtà alle cose, al mondo, da se stesso, dal nulla. Egli, d.unque, in quanto unità dell'essere tutto, tutto trascendendo, ché tutto è implicito in lui, è vita in senso assoluto; unità immutabile, dialetticamente vivente (si confronti l'analogo concetto di vita e di eternità, rispetto all'Essere esplicantesi nell'unità dialettica Intelletto-intelligibile, elaborato da Piotino: E nn., III, 7). Se Dio è vita, tutto ciò che è implicito in Dio non è vita, ma ha vita; e assume essere, anche se in eterno, da Dio; per un aspetto perciò tutto è coeterno a Dio, per altro aspetto tutto è
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subordinato a Dio, anche il L6gos di Dio, la sua prima determinazione: coeterno a Dio, sempre tutto in atto, il L6gos, in quanto coscienza di Dio stesso, unità-molteplicità, ha vita da Dio (in questo senso è figlio) ed è perciò subordinato a Dio, specchio dell'unità-vita di Dio;· il L6gos, dunque, figlio del Dio, specchio vivente dell'unicità del Dio, è, appunto in quanto prima consapevolezza del Dio, pensante e pensato (unità del discorso, del 16gos di Dio). Nel L6gos, che è frutto di Dio; presente a Dio (idea di Dio), che ha presenti tutte le possibilità di Dio (idee), egli idea delle idee, assumono essere tutte le cose, da lui tutto ha essere (e perciò il L6gos è Dio, è Dio de Il Dio), e da lui il tutto ha vita, riceve il soffio, lo spirito di Dio (spirito santo, che trova il suo fondamento nel L6gos). Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo sono dunque i fondamenti del tutto, i tre termini, l'unò esplicante l'altro, e perciò l'uno all'altro subordinato, su cui si scandisce e assume vita l'esserci del tutto entro l'unità dell'unico ed eterno Dio, che sempre tutto in atto, atemporale, in eterno crea da se stesso il Figlio e, attraverso il Figlio, lo Spirito Santo, per cui, in eterno, tutte Je creature sono in atto nell'eterno atto creativo di Dio. Uno e trino, Dio, trinità nell'Unità in atto, essendo sempre in atto la creazione. neoplatonicamente, non crea nulla. Il limite, la molteplicità dei mondi lo stesso raffreddarsi dello spirito che si stacca cosi dall'Unità divina coagulandosi, raffreddandosi nelle anime, sempre piu limite, sempre piu opache e corpose, sino all'apparire del mondo corporeo, visibile nella sua molteplicità e ':arietà, dalle anime dei corpi celesti (ancor: eterea, luminosa e sottile· corporeità), agli angeli (troni, potenze, domi nazioni), alle anime "carne e sangue," cioè agli uomini, ai diavoli, i male, insomma, è dovuto ad altro. S'inserisce qui l'aspetto origenianc piu nuovo, la sua geniale interpretazione del motivo cristiano dell; "caduta," l'interpretazione d<;l passaggio dall'Uno ai molti reali, sto ricamente determinatisi, in una· tesi diametralmente opposta a quell: neoplatonica. Se Dio, o l'Uno, è sempre tutto in atto, se tutto è in lui, tutte sempre sorretto dalla sua creazione - Dio non può avere creato una certa volta, se no porremmo Dio nel tempo, per cui la creazione stessa è atemporale, eterna nell'eterno Dio -; se il figlio di Dio, il L6gos, è la stessa conoscenza di Dio, vivificata dallo Spirito che in atto sempre riconduce tutto in Dio (Spirito Santo, amore, legame); i molti come realtà singole, i limiti, i molti mondi (questo nostro non è il primo né l'ultimo), i corpi, il male non possono essere interni a Dio stesso, momenti del processo attraverso cui Dio assume conoscenza di sé, non possono avere una realtà metafisica. E se l'avessero annulleremmo Dio nel mondo e il mondo in Dio, e tutto sarebbe necessario, anche il limite
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e il male, né piu avrebbe senso parlare di coscienza, di consapevolezza di limiti; di lotta contro il male, di tensione al bene, di ritorno dell'anima all'Uno, ché gli stessi due modi di atteggiarsi di fronte all'unica realtà - comprensione, incomprensione - sarebbero dovuti alla stessa necessità di Dio. I limiti, la "caduta," non sono, dunque, dovuti alla stessa necessità di Dio. Se l'Essere uno è, come è, il perfetto, l'unico essere che è, che bisogno c'era che creasse i limiti, i molti, il mondo? Se Dio è il Bene, non a lui si debbono i .limiti, questo mondo che è male (sotto tale aspetto Origene riprende, anche se lo risolve in altro modo, un motivo proprio della gnosi valentiniana). Se in principio c'era già tutto e tutto è sempre in atto in Dio, unità vivente e conoscenza di sé, Bene, non ha senso il nostra mondo, il nostro tipo di vita, la stessa nostra ricerca, il dramma umano, la storia. La risposta plotiniana, difatti, portata ad estrema conseguenza tende ad annullare l'uomo e tutta la realtà, risolvendo tutto nell'unicità del processo di Dio. D'altra parte, proprio il senso del limite, del male, dell'esserci fin dal nascere come determinazione, come mancanza d'essere e di libertà, tale esperienza è irriducibile ad ogni spiegazione: ogni spiegazione ricondurrebbe all'ipotesi plotiniana, annullando quella stessa esperienza nell'unità-diffusione-unità di Dio, o nell'ipotesi dei due principi (il principio del Bene e il principio del Male). L'unica spiegazione, allora, è che il distacco dall'Unità, dall'Essere (dal Padre, dal Figlio, dallo Spirito Santo), dallo stesso mondo uno nell'unità di Dio, non ha alcuna spiegazione, ed è perciò dovuto ad un atto non necessario, cioè ad un atto assolutamente libero. Con molta finezza Origene per la prima volta propone che, perché ci sia la libertà, perché sia possibile il bene, deve esserci l'esistenza, l'individualità, cioè la mancanza del bene, la mancanza della libertà, per cui si postula la libertà assoluta come esistenza potenziale. Nell'unità in atto di Dio tutto è, ma nulla esiste, ché tutto è, in quanto rimane uno contemplando Dio, attraverso il Figlio e lo Spirito Santo, in una sinfonia sola, ove i singoli suoni, ciascuno se stesso, si perdono nell'unico canto, nell'unico alone di spiriti (la spiritualità) aleggianti intorno a Dio. Per essere, gli infiniti spiriti dovrebbero vedere sé, conoscere sé, ma nell'unità di Dio vedono sé in Dio, per' cui sono, ma non esistono, sono possibilità di essere se stessi. Come un ferro immerso nel fuoco, pur essendo ferro e non fuoco, si perde nel fuoco divenendo fuoco, cosi gli esseri, pur non essendo l'Essere, in quanto sono nell'unità dell'Essere, si perdono nell'Essere. E come il ferro esiste solo in quanto si distacchi dal fuoco, raffreddandosi, perdendo il fuoco, cosi gli esseri possono esistere solo in quanto si ammetta che conoscano se stessi, cioè che si distacchino dall'Essere, si raffreddino. E allora, il
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fatto che i mondi ci sono, che il male c'è, che gli uomm1 esistono, tutto ciò implica che in principio vi è stato un atto di affermazione di sé: o meglio, che il principio dell'affermazione e perciò dei limiti, dei molti, del raffreddamento dello spirito in anime, dei corpi è il passaggio dall'esistenza potenziale all'esistenza, che implica appunto un'affermazione di sé, un conoscere sé, un opporsi a Dio, una ribellione a Dio, che è "caduta" da Dio, per cui il principio dell'esserci è il peccato. Gli spiriti immersi in Dio, persi nella spiritualità una nell'unità di Dio, possono essere solamente a patto di peccare, di staccarsi da Dio, facendosi diversi da Dio, dissimili da Dio, volendo sé e non Dio. L'esistenza, dunque, la molteplicità, i limiti nascono da un supremo atto di affermazione, di volontà, di ribellione, dal peccato, dall'orgoglio. E basta che uno degli spiriti che costituiscono l'unità sinfonica, l'unico canto .di Dio, voglia se stesso, si conosca, rompendo con Dio, perché si spezzi, cada, con quello spirito (Lucifero, dice Origene, il portator della luce, l'aspetto piu luminoso della luminosità di Dio, che appunto, diviene il piu lontano da Dio, dalla luce, diviene il dèmone, il principe delle tenebre), tutta l'unità degli Spiriti. I mondi, i limiti, le anime, gli uomini, i corpi, esistono in uno con il peccato di uno, onde tutta l'esistenza è in quanto frutto del peccato, di una caduta che non è necessaria, ma è dovuta, appunto, a un atto libero, per cui tutti gli esseri decadono da Dio, si disperdono fuori dalla luminosità di Dio, di opacità in opacità, giungendo al limite estremo della tenebra. Da Lucifero ai dèmoni al diavolo, in una serie di determinazioni sempre maggiori, di molti mondi susseguentesi, dairaffreddamento degli spiriti in anime, ai corpi, agli uomini, tutta l'esistenza è con l'affermazione, con il peccato di Lucifero, rottura di quell'unità che era intorno a Dio. Lucifero, spezzando l'unità, ha distaccato e frantumato, individualizzato, anche tutti gli altri; determinando la propria personalità ha chiuso e determinato tutti. Con il peccato di Lucifero sono nati gli individui. Lo Spirito infinito per affermarsi, per fare il bene, deve affermarsi come libertà; ma per affermarsi come libertà deve ribellarsi a Dio; ribellandosi a Dio pecca, peccando perde la libertà. La storia dell'esistenza, la storia dei mondi, la storia dell'uomo è la storia del peccato, la storia del dramma per cui per essere si deve esistere, per cui esistendo si perde l'Essere, la libertà .potenziale di esistere che si annulla nella stessa esistenza. L'universo tutto non si determina e cade da Dio per necessità, ma per volontà, la radice del limite e del male non sta in un principio per sé (come vogliono certi gnostici), ma in un atto di volontà, di libertà. Per volere lo stesso bene bisogna esistere; l'esistenza implica l'atto di libertà e, ad un tempo, la perdita della libertà. Rimanendo in Dio, nell'unità del tutto in Dio, il bene sarebbe un dato
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e la libertà sarebbe nella necessità della necessaria libertà di Dio, sarebbe non effettiva libertà, ma libertà potenziale;' il bene in Dio non è bene voluto, ma dato trovato. Il bene reale è possibile, dunque, solo esistendo, in quanto per esistere si vuole esistere, in una affermazione di sé, in una individuazione, per cui si rompe con Dio, con il BenP-, ci si limita, ad un tempo limitando il tutto, che si spezza in infiniti, moltiplicantisi limiti, perdendo appunto il Bene e la Libertà. Tale è il dramma dell'Universo tutto, culminante nella consapevolezza dell'uomo; e il dramma umano sta in questo: da un lato l'uomo non è, se non affermando sé, per cui è male, peccato (tutti gli uomini, in quanto esistenti, in quanto nascono, sono peccato, frutto anch'essi del peccato di Lucifero, sono "massa damnationis" come dirà, sulla scia di Origene, Sant'Agostino); dall'altro lato l'uomo, in quanto limite e mancanza di bene, in quanto possibilità di lotta contro il male, in cui consiste il bene reale, opposto al bene dato nell'unità di Dio, quanto piu vuole, quanto piu tende a realizzare il bene, tanto piu si chiude, si afferma, è male. La libertà, la volontà è peccato, e nel momento stesso in cui la libertà assoluta si celebra (Lucifero), essa è per sempre perduta nell'esserci. E, d'altra parte, senza perderla non si acquista. Una volta caduti, dunque, per l'atto libero, la libertà e il bene sono per sempre perduti. Anzi, quanto piu si vuole, tanto piu si decade, ci si afferma, ci si moltiplica. Ma è, appunto, per tale consapevolezza, per la coscienza di tale dramma, che nell'uomo si incentra il dramma dell'universo, che tale dramma diviene consapevole~za. Eppure tale consapevolezza· sarebbe impossibile per l'uomo, proprio perché l'uomo in quanto esistenza è limite e ma:Ie (tutti limiti e male, come siamo, peccato come siamo, non possiamo avere la consapevolezza del non limite e del non male); tale consapevolezza, perciò, è extra-umana, non può non essere che dovuta a un atto di volontà, gratuito, da· parte di Dio. E qui assume il suo piu pieno significato l'invio da parte di Dio, per un atto di sua imperscrutabile volontà, del Ugos, del Figlio, fatto uomo (Cristo), che in quanto uomo, ma non peccando, è l'unico che può riscattare dal peccato, restituire l'uomo a se stesso. Sotto questo aspetto libertà e grazia coincidono, e con esse ad un tempo coincide la arovvidenza di Dio (e sarà anche questo un altro motivo ripreso e approfondito da Sant'Agostino). Come con Lucifero, dunque, tutto è divenuto limite e opacità, determinazione e male, fino ai corpi, alla materia, alle tenebre (che dunque non sono, ma esistono ed esistono nella volontà), con il L6gos, con il figlio di Dio, il "secondo Dio," fondamento, nell'unità della sua conoscenza di Dio, di tutti gli esseri nell'unità di Dio (e che perciò non viene toccato dal rompersi della sinfonia degli spiriti, per cui coeterno a Dio, resta in Dio), solo con
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il L6gos, che Dio vuole uomo, che s'incarna, può salvarsi l'umanità e con essa l'universo tutto, frantumatosi con l'atto di Lucifero. L'uomo, dunque, non è grande e gran miracolo, per riprendere le parole dell'Asclepio, in quanto centro metafisico del tutto, da un lato volto verso l'Uno e dall'altro lato verso l'ulteriore limite che è il corpo e la materia, per cui, nel suo comprendere, per la sua stessa natura, nell'uomo si incentra l'universo, si conclude nell'unità il processo stesso di Dio. Grande è l'uomo invece, perché, mediante l'intervento di Dio, l'uomo è libero, si fa consapevole del dramma morale dell'universo. Centro dell'Universo, l'uomo, sintesi di anima e corpo, peccato, ma ad un tempo termine medio, possibilità d'essere simile a Dio, qualora a lui sia data - a lui in quanto decaduto, in quanto anima e corpo né mortale né immortale - la possibilità di riscattarsi dal peccato, d'es· sere redento, di ridisciogliere il corpo in anima e l'anima in spirito, in quella unità-molteplicità che è la vita, l'intelligibile, il L6gos, figlio di Dio; per questo Dio ha voluto che il L6gos, che è la forza divinizzatrice del mondo, l'intelligenza del tutto, nell'unità di Dio, si facesse uomo, assumesse appunto anima e corpo, fosse termine medio, rimanendo egli, tuttavia, in Dio, in quanto non frutto della libertà di Lucifero, che si è distaccato da Dio e con Dio dal suo L6gos. Tale - sottolinea Origene - la ragione per cui tra tutte le creature, tra tutti i limiti, in una realtà esistente, che per il peccato esiste, e per la volontà di uno spirito è divenuta natura, tale la ragione per cui· l'uomo è la creatura privilegiata, per la sua stessa posizione media e perché nell'uomo si incentra l'universo, perché l'uomo è coscienza e, perché, in tale coscienza, in quanto raccoglie in unit~.. nel pensiero, le cose disperse, in quell'unità dialettica che è vita, e in cui consiste l'Intelligenza di Dio, il L6gos, figlio di Dio, in eterno specchio di Dio, egli può essere simile al L6gos e, attraverso il L6gos (l'Intelligenza, l'Essere eterno), a Dio. Non è, dunque, sciocchezza, risponde Origene a Celso (Contra Celsum, IV) sostenere con gli Ebrei e con i Cristiani che l'uomo è simile a Dio; e dire con i Cristiani che Dio si è fatto uomo. Il discorso di Celso varrebbe, se assumessimo l'uomo sul piano dei neoplatonici o degli. stoici, se vedessimo l'uomo come momento del costituirsi del tutto, momento necessario, la cui esistenza sarebbe un puro momento naturale dell'esplicarsi naturale di Dio. Solo allora capiremmo con Celso perché piu logico sarebbe che Dio si fosse incarnato in una stella o in un qualsivoglia animale, e non nell'uomo il piu miserabile, il piu indifeso e brutto delle creature. Solo che cosi si annullerebbe, insieme a tutta l'esistenza, sia l'uomo, sia l'individuo, come possibilità di libertà, come effettivo rapporto con un effettivo e reale Dio. Certo, una volta che con Lucifero si è spezzata l'unità degli spi-
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riti, che l'atto di libertà ha frantumato tutti m una serie di limitazioni sempre piu solide, in una caduta da Dio, che è caduta morale e separazione reale, è chiaro come da un lato i limiti, il male verranno moltiplicandosi, come lo stesso esserci dell'uomo sia male e peccato; come quanto piu si vuole e ci si afferma tanto piu ci si limita, come la libertà dell'uomo caduto è libertà solo di peccare, e come dall'altro lato nessuno può tornare indietro da solo, nessuno può tornare a Dio, perché per natura il ritorno a Dio è impossibile, a meno che non sia Dio, per un atto di sua volontà, ehe non ha alcun perché, che vuole redimere, ricondurre a sé, eliminando il peccato. Il principio dell'incarnazione degli spiriti è, dunque, il peccato, che è limite, e, ad un tempo, il costituirsi del corpo e della materia. Una volta giunti al limite, il discorso sulla corporeità e la materia come privazione, come non essere, come limite nell'anima, e perciò come chiusura e carcere, poteva essere benissimo il discorso dei neoplatonici (Plotino ), anche se esattamente opposto al discorso sulla "caduta" (dovuta a un atto di volontà e di libertà per Origene; neces-saria, momento dell'esplicarsi dello stesso Dio per Plòtino). Contro gli gnostici, Origene riprende il discorso dei neoplatonici (Ammonio Sacca, si direbbe, e Plotino). La natura non è il male - dice Plotino -; il male c'è nel limite, nella materia, che proprio perciò non sono. Per Plotino (cfr. sopra), la via per liberarsi dal male, dal limite come incomprensione dell'anima, è una via intellettuale: se il limite è affermazione dell'esistenza individuale, non c'è altro che negare l'esistenza individuale, per tornare al tutto inindividuale. Per Origene ciò non è possibile. L'uomo peccando si è affermato, e affermandosi si è affermato nel niente. L'essere si è cosi tolto la prerogativa per cui si è affermato, la libertà. Libertà è apertura di tutte le possibilità. Nel mc>mento che ci siamo affermati, abbiamo negato tutte le altre possibilità. Nel peccato originale abbiamo negato la libertà. E allora, come possiamo tornare all'Uno? La soluzione non può essere quella plotiniana. Non naturale, ma volontaria, libera, la caduta, lo stesso ritorno, la "conversione" dell'anima debbono essere non naturali; solo Dio, per sua volontà, può attuare la redenzione. Dio stesso, mediante il L6gos, viene in soccorso dell'uomo, e non perché l'uomo se lo meriti, ché, in quanto uomo caduto, l'uomo è solo peccato e male; l'uomo, anche se vuole il bene, se vuole Dio, affermandosi si nega, si vuole come se stesso, e volendo resta sempre piu chiuso, piu finito. L'intervento di Dio è, dunque, miracoloso e gratuito: gratuito perché l'atto di Dio non è per natura né per giustizia, perché vi sia un merito; miracoloso perché non è un atto che la ragione umana, finita, definitoria, sappia spiegarsi. D'altra parte, come la caduta non è soltanto
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dell'individuo singolo, ma con un singolo, in quanto limitazione, si limita tutta la spiritualità, per cui la caduta è, ad un tempo, di tutti, cosi la redenzione è impossibile finché non sia redenzione di tutti. Finché c'è un limite, il limite non è eliminato e, quindi, finché c'è un solo peccatore, finché c'è il peccato, c'è la caduta, che è, di nuovo, caduta non di uno, ma di tutti. E allora solo in quanto la grazia di Dio discenda su tutti, solo allora è possibile la redenzione, l'eliminazione del peccato, in cui tutti si salveranno, anche Lucifero, anche il diavolo. Come tutti hanno peccato, cosi tutti saranno riassunti in Dio, nell'unità vivente del L6gos, in una reintegrazione finale - sia pur attuantesi in tappe successive, in espiazioni possibili mediante una serie di vite successive, esplicantesi in vari mondi: cfr. In Johann., l, 16, 20 del mondo, di tutti gli esseri alla condizione perfetta, alla unità con Dio e in Dio, che avevano all'origine. Non a caso, entro i termini di tale dottrina origeniana, che sarà detta la teoria dell'apocatastasi, Gregorio di Nissa affermerà che il succedersi dei mondi è la storia della progressiva rieducazione degli esseri alla condizione originaria, per cui universale è l'apocatastasi, e alla fine "anche l'inventore del male (il demonio) unirà la propria voce all'inno di gratitudine al Salvatore" (Gregorio, De horn. opif., 26; cfr. Abbagnano, Dizionario di filosofia, voce "apocatastasi"). . . Ma allora, se la redenzione è totale, se solo graziando tutti è possibile eliminare il peccato, ed è dato a Dio recuperare in sé il mondo tutto nella sua unità spirituale, per cui, venuto il Cristo, sia pure. nel futuro, di mondi in mondi, si arriverà alla riunificazione totale del tutto in Dio, la grazia cessa di essere tale, diviene natura, e necessario, si come nella soluzione plotiniana, viene ad essere il ritorno, né piu è possibile parlare di storia come conquista, s! come aveva pur detto Origene, ché la stessa natura basta a salvarmi. Posto, per altro, come pone Origene, che eterna è la creazione di Dio, che eterna rimane nel L6gos la consapevolezza dell'unità vivente di Dio, ugualmente eterna, in quanto Dio è sempre tutto in atto, è la volontà di Dio, la grazia di Dio, che non è perciò piu grazia, e per cui sempre tutti sono salvati. E allora la caduta da un lato, la redenzione dall'altro, sono due momenti necessari, se considerati "sub specie aeternitatis"; se considerati, invece, fuori dell'essere di Dio e del suo L6gos, storicamente, essi sono i due termini della nostra umana finitudine, i poli entro cui si scandisce l'aporia, il conflitto umano: la libertà come perdita della libertà da un lato, l'esistenza come peccato; e, dall'altro lato, nella. consapevolezza di questo stesso dramma, la rivelazione - non umana della possibilità di oltrepassare il limite, su cui si fonda la fede nell'intervento gratuito di Dio, che è, appunto, speranza. Solo che teore-
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ti'camente l'apocatastasi e l'Evangelo eterno annullano proprio quello ch'era il motivo piu originale del cristianesimo di Origene, il motivo del peccato e della grazia, rinnovando il conflitto tra una soluzione di tipo neoplatonico e la soluzione cristiana etico-religiosa, facente centro sull'uomo (relativamente al motivo del male e della grazia, la questione sJrà ripresa ed esacerbata da Sant'Agostino nella sua polemica da un lato nei confronti del Manicheismo, dall'altro lato nei confronti di Pelagio).
3. Il Cristianesimo e l'Impero tra il III e il IV secolo a) Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, interpretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolarmente quello della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordinazione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpretazione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della concezione cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione irriducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la problematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli africani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con-
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a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "luculentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dottrinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cristiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristianesimo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, invece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di insegnamento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con violenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contraddittorietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugualmente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispensabili? ... Aggiungono qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per prudenza, temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327.
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imperfetto? E che, .forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sarebbero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi condensate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37).
Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio ritenere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammettono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità inferiori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino (" reminiscenza"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esistenza dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua conoscenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza speranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle concezioni epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita? ... Non siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti
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in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale e divina, ... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione non cristiana, è la conclusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza .della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rivelazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attraverso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne:anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De :ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede :ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al :ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con ;é era la liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata :lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per:leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual>iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi-
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cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessimismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la concezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impalcatura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo, .che offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché nell'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immortalità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lattanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia, . presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito (si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice).
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è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mortale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso ·l'opera sua maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu colpisce è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m secolo, e dove il significato e la funzione dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "probabile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accettazione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fondamento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella religione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere superiore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cristiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è provvidenzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle religioni,
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rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto dipende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cristianesimo, la verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_ vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fuggitivi, poiché né quelli cercano il padre, né questi il padrone ... (IV, 4).
La tesi apologetica di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del destino dell'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece, poteva trovare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a caso Lattanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla domanda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo
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criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimostrato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltrepassare se stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come conflitto e limite, la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una volta va tenuto presente il ribaltamento del concetto di "sapienza" secondo il testo dell'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt! ). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone fianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'incentra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraicofiloniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere immortale o mor-
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tale diviene una scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s( che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costituisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (dell'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni dell'apologetica greca. Molto abilmente c~s( Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura grecoromana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassorbita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegisto, esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cristiana, il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno Dio, il
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L6gos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza dell'unità vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbondanza emana da sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio, sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distinguiamo l'uno dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre; né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del sole è nel raggio) ... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce il Cristianesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "platonismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla "redenzione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lattanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lattanzio punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di
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Dio, in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: " Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe servita a dare un fondamento alla res-publica, in .un rapporto umano fondato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligatorietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un creatore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, decaduto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella sua perfezione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio persona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira
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(si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a T reviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conversione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle I nstitutiones dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro Diocleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la polemica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio,
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dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la proprietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiustizia e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu (" virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset" : V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del proprio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costantino il Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, V aleriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sentirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'essere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di comprenderlo e perciò di essere giusti, a realizzare ·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9] ": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu" : V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in
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diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di certi stoici. "La giustizia civile, obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i termini del problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in radicale divergenza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitutiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scomparve l'umana comunione (V, 5) ... Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppressione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giustizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana ..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godimento di un bene ... La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia ... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di. una giustizia terrena come mantenimento di un ordine imposto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cristiane - in cui si riprendono e si dimostrano inverati dalla rivelazione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun-
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que accolti come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole emergere alla coscienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giustizia e sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che -è pietà, in una giustizia che è carità, in una società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo compagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere ... E coloro che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - sostiene altrove Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il proprio si rivela la capacità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura economico-schiavistica dell'Impero, la situazione della Chiesa ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in efficace sintesi, "la Chiesa cristiana si era trasformata in una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla buro-
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crazia imperiale. In' queste condizioni riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocleziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 4, 24), ai vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù njç bocÀYjalcxç ), io sarei invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizzazione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel III secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di contro alla "romanità" dell'Impero, l'" interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato divenisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristianesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinterpretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i monumenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore cri-
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stiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costantino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea. Avversari di Origene. Eusebio di Cesarea. Costantino. Ed ora, per meglio comprendere, nell'àmbito della politica di Costantino, accanto alla funzione che ebbe l'opera di Lattanzio, l'importanza degli scritti di Eusebio di Cesarea (265-340), è opportuno accennare da un lato ai diretti seguaci di Origene, dall'altro lato ai suoi primi avversari. Se per un verso i discepoli diretti di Origene, sia ad Alessandria sia a Cesarea, svilupparono del maestro l'aspetto teologico su di un piano didascalico piu che teoretico-politico, per altro verso, ad Origene, proprio per quelli che Origene aveva dimostrato, proseguendo Clemente, essere i punti in cui la concezione teologica greca poteva essere riassorbita e inverata dal Vangelo, si rifà, attraverso il proprio maestro Panfilo, Eusebio, vescovo di Cesarea, amico e biografo di Costantino. Solo che per rendere piu evidente l'abilità di Eusebio nel rispondere alle esigenze di Costantino venendo incontro alle esigenze proprie di una certa. ala della Chiesa, non va scordato che sul principio del IV secolo, in piena persecuzione di Diocleziano, altri - che non a caso rimasero vittime di quelle persecuzioni - vedevano in certe tesi di Origene (la creazione continua, la preesistenza ai corpi dell'anima e cos{ via) un accomodamento con la concezione antica, che si concludeva con la negazione dell'aspetto piu nuovo e paradossale del Cristianesimo. Ad Origene, che nel 230 aveva lasciato il Didascaleo di Alessandria e aveva aperto una scuola a Cesarea, per un anno circa successe Eracla, morto nel 247-248. Nel 231-32 prendeva la direzione del Didascaleo lo scolaro di Origene, Dionigi di Alessandria, che nel 248-49 divenne vescovo di Alessandria. Soprattutto noto come vescovo, per la sua dirittura religiosa durante le persecuzioni, non sembra che l'opera di Dionigi abbia avuto una particolare influenza sulla rielaborazione dottrinale del Cristianesimo, se non per avere egli insistito - come risulta da Eusebio, Hist. ecci., VII, 23-27, che ha conservato alcuni testi dei suoi Discorsi sulla natura - sul motivo della creazione er nihilo di contro alla teoria atomica della formazione del mondo. Oscillante sembra sia stato, invece, Dionigi nell'ammettere o no la subordinazione del Figlio al Padre (in alcune sue Lettere egli chiaramente differenzia il L6gos dal Padre, in polemica contro la tesi monarchistica che nd
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Figlio vede solo un modo d'essere del Padre, come avevano sostenuto Noeto e Prassea e piu tardi Sabellio; in una successiva opera, Confutazione e difesa, sostiene l'identità del Padre e del Figlio: va ricordato che fu la Chiesa romana a volere da Dionigi una ritrattazione sulla distinzione tra il Padre e il Figlio). A Dionigi, morto nel 264 circa, successe nella direzione del Didascaleo, Teognosto, autore di un'opera in sette libri, lpotiposi criStiane, in cui, per ciò che ne sappiamo attraverso Fozio (cod. 106), egli coordinava in una specie di manuale, in forma sistematica, il complesso dell'insegnamento di Origene, da cui dovevano scaturire, appunto, le ipotiposi (istituzioni) cristiane. A Teognosto, morto nel 280, successe Pierio, del quale non abbiamo che scarse notizie e solo i titoli di alcune sue opere, tra le quali una su La madre di Dio. Di Pietro di Alessandria, invece, successo a Pierio, vescovo di Alessandria nel 300, morto martire nel 311, sappiamo che fu il primo dell'ambiente del Didascaleo a confutare le tesi origeniane della creazione continua, della preesistenza delle anime e della teoria della resurrezione. Di Pietro fu citato nel Concilio di Efeso uno scritto su La divinità. Alcuni frammenti possediamo delle sue opere contro Origene, La non preesistenza delle anime e La resurrezione. Per la sua critica ad alcune tesi di Origene va qui ricordato Metodio, vescovo di Olimpo, in Licia, caduto nel 311 vittima delle persecuzioni. L'attacco di Pietro di Alessandria e di Metodio di Olimpo nei confronti di Origene è lo stesso. Metodio, in due sue opere (Sulle cose creau, di cui sono conservati frammenti in Fozio, e Sulla' resurrezione, di cui possediamo alcuni frammenti in greco e un ampio sunto in versione paleoslava), di contro ad Origene nega la creazione continua o l'affermazione che Dio tutto in atto è in atto sempre creatore, ché in tale modo annulleremmo in realtà che Dio sia creatore e perfetto perché dovremmo ammettere che Dio, per essere, avrebbe bisogno del mondo (De creatis, 2). Metodio cosi nega anche la preesistenza degli angeli e dell'uomo nel mondo intelligibile, alone di spiriti intorno a Dio e in Dio aventi un'esistenza potenziale e la cui esistenza è dovuta all'atto di ribellione di Lucifero (De resurrect., 10-11). Dio, di contro, sostiene Metodio, ha direttamente creato angeli e uomini, diversi per sostanza gli uni dagli altri, ed ha voluto, facendo l'uomo simile a sé, che l'uomo fosse libero o di affermare se stesso, negando Dio o, con il Cristo, di volere tornare a Dio. Il male, dunque, non sta, sostiene Metodio in un suo scritto Sull'autodeterminazione (llepL cxù-ul;oua(ou = peri autecsusiu, giuntoci in frammenti e in una traduzione paleoslava), in polemica contro la tesi valentiniana, nella natura o nella materia principio per sé di male, ma nella stessa volontà umana, ché la natura, il corpo,
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in quanto voluti da Dio, sono sempre bene. (Pochi frammenti ci sono pervenuti di un'opera di Metodio Contro Porfirio). A Cesarea fu scolaro di Origene Gregorio, detto il Taumaturgo - per i miracoli che nella veste di vescovo santo gli furono attribuiti, nato nel 213 circa a Neo-Cesarea nel Ponto, morto sotto Aureliano (tra il 270 e il 275). Ammirat~re di Origene, lesse nel 238, alla presenza di Origene, quando lasciò Cesarea e la scuola per divenire vescovo della sua città natale, un Discorso di ringraziamento a Origene, nel quale rende grazie al maestro pèr l'insegnamento da lui ricevuto, e a cui Gregorio si mantenne fedele anche nell'esercizio del suo ministero di vescovo (interessante è un suo scritto, conservato in traduzione siriaca, dedicato a "Teopompo Sulla crzpacità e incapacità di patire di Dio," quale indice della discussione vivissima intorno al Dio persona e volontà e al Dio perfezione, in sé tutto compiuto, che richiama, per altro verso, il De ira Dei di Lattanzio). Sempre entro l'àmbito della scuola origeniana di Cesarea di Palestina si mosse Panfilo. Nato a Beiruth in Fenicia, ricco di famiglia, Panfilo perfezionò la propria educaZione ad Alessandria, presso il Didascaleo. Vi ebbe a maestro Pierio, che lo formò alle idee di Origene. Stabilitosi a Cesarea, dove fu ordinato prete, apri una scuola di scienza sacra, impostata sull'insegnamento di Origene. Non va inoltre dimenticato che a Cesarea Panfilo arricchi la già ricchissima biblioteca lasciata da Origene, ch'egli non solo ordinò, ma sulla quale - sappiamo l'importanza che hanno certe letture, basate sulla scelta di un maestro, che opera, sia pur indirettamente, attraverso certi libri - fece preparare i suoi discepoli. Sui libri di Origene, sotto l'insegnamento di Panfilo si formò Eusebio. Eusebio, nato a Cesarea nel 265 circa, conobbe Panfilo quando era già stato ordinato sacerdote dal vescovo Agapio. Eusebio lavorò con Panfilo, di cui poi per riconoscenza assunse il nome, presso la biblioteca origeniana di Cesarea; su cui formò la sua vastissima cultura, e da cui trasse, al lume della concezione origeniana, il materiale che gli doveva servire a dimostrare la supremazia della concezione cristiana e il suo universalismo, che risolvendo in sé certe concezioni unilaterali del passato, doveva essere, con la venuta · del Cristo, con la "buona novella," il fondamento di una nuova civiltà, che maturatasi dal Cristo a Costantino, come dimostrano i suoi martiri e la stessa storia della sua Chiesa, con Costantino doveva prendere l'avvio al suo futuro. Eusebio, tenutosi in disparte, a lavorare nella biblioteca di Cesarea, durante la persecuzione di Diocleziano, mentre Panfilo era in carcere lo spinse a scrivere, aiutandolo, una Apologia di Origene. Panfilo subl il martirio nel 309, ed Eusebio aggiunse ai cinque libri dell'Apologia, in cui si difendeva Origene dalle accuse mossegli,
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un sesto libro (dell'Apologia si è conservato il solo primo libro in una traduzione latina di Rufina). Passato immune attraverso l'ultima persecuzione, Eusebio, subito dopo l'avvento di Costantino e l'Editto di Milano (313), fu eletto vescovo di Cesarea. Fu da allora che in funzione della politica della Chiesa che s'incontrava con la politica di Costantino, Eusebio si mise a scrivere. Egli cosi da un lato presenta chi erano stati i Cristiani (nacquero di qui la raccolta Sui martiri di Palestina,, una memoria dei cristiani morti nella persecuzione di Diocleziano - di essa possediamo due redazioni, una piu breve, collocata dopo il libro VIII della Storia ecclesiastica; una piu ampia in traduzione siriaca, - e una Silloge degli antichi martiri, in cui si parla dei martiri anteriori alla persecuzione di Diocleziano: tale raccolta è perduta) e quella che era stata la Chiesa (di qui . la celebre Storia ecclesiastica, abbozzata nel 312, compiuta e rifinita in dieci libri entro il 324, che, prendendo l'inizio dalla storia _di Cristo e degli Apostoli fino alla guerra giudaica - libri l-II, - prosegue fino ad Origene - libri III-V, - per soffermarsi poi su Origene - libro VI - e sugli avvenimenti dal 260 al 300 - libro VII, minuziosamente discutendo infine la storia dal 300 al 324 - libri VII-X); dall'altro lato, di contro alle accuse piu diffuse, secondo cui il pensiero cristiano era una dottrina da ignoranti e il Cristo al massimo un taumaturgo del tipo di Apollonia di Tiana (nel 307 lerocle, governatore della Bitinia, in un suo libro contro i Cristiani, il Filalete, dedicato ad Apollonia di Tiana, sosteneva che il Cristo era paragonabile ad Apollonia stesso: nacque ·di qui lo scritto di Eusebio Contro lerocle, del 311-313), mostra che il cristiano è anche tale in quanto ha passato al vaglio tutte le concezioni e le scienze precedenti la rivelazione di Dio attraverso il Cristo, e che proprio tale vaglio critico dimostra la superiorità del Cristianesimo (di qui la Preparazione evangelica, in quindici libri, in cui si discutono, ampiamente citando le fonti, le concezioni pagane, per vedere quali sono state, in effetto, le preparatorie alla rivelazione del Cristo; e la Dimostrazione evangelica, in venti libri, di cui non sono rimasti che dieci e un frammento del XV, dove si vuoi mostrare che la religione ebraica, come le stesse profezie indicano, si è risolta nella religione cristiana, di cui l'ebraica è una preparazione: una raccolta di profezie dell'Antic(.) Testamento avveratesi in Cristo formano uno scritto di Eusebio intitolato Introduzione generale elementare, di cui sono conservati i libri VI-IX, mentre un breve studio sulle profezie fatte da Cristo ha poi formato il IV libro di un'opera intitolata Teofania, in cinque libri, compendio della Dimostrazione evangelica, che possediamo in una versione siriaca). Eusebio, cosi, rifacendosi a San Giustino, a Clemente, a Origene,
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con molta abilità e accortezza politica, mostra non solo la possibilità dell'incontro tra certe concezioni pagane e la tradizione ebraica ris(Jltasi nel Cristianesimo, ma che quellç concezioni stesse, illuminate e inverate dalla verità cristiana, riprendono il significato e la funzione che avevano avuto di preparazione storica al Vangelo. Non a caso, in questo senso, sfruttando una delle facce di Origene, Eusebio sottolinea particolarmente la funzione avuta da Platone, entro cui si possono far ·rientrare le piu convincenti ipotesi filosofiche, anche se espresse in forme diverse, di quel Platone, ch'egli chiaramente sostiene essere stato un "profeta" (Praep. ev., XIII, 13), il Mosé di coloro che parlano greco (" Mbsè atticizzante": Xl, 10, 14), tanto è vero che già Platone aveva riconosciuto la trinità divina, ponendo insieme a Dio e al L6gos l'Anima del Mondo (XI, 20; XIII, 13 sgg.), anche se ora il platonismo va ripreso al lume della rivelazione cristiana mediante cui si accerta ciò che davvero voleva dire Platone, mostrando che simbolici sono gli dèi di Platone e che una è la realtà tutta, unica creatura di Dio, ivi compresa la materia (XIII, 12 sgg.). Rivelate a Platone dallo stesso Dio o da Platone attinte ai profeti, nelle Sacre Scritture ebraiche (XI, 1), le verità espresse da Platone e rielaborate dai platonici e dagli stoici - particolarmente sull'unità di un solo e unico Dio - servono ora per illuminare e convincere al Cristianesimo. Non solo, ma la stessa concezione politica di Platone, espressione di un tipo di teocrazia assai simile alla teocrazia giudaica (XIII, 12), assume per Eusebio un particolare significato, quale fondamento dello Stato cristiano (sembra non poco interessante a questo proposito il testo dedicato alle tre razze platoniche : cfr. XIII, 13). In esso il sovrano assume la funzione del re-filosofo platonico, in quanto, divenuta la religione cristiana la vera filosofia, il sovrano rappresenta in terra la luce di Dio, il sole di Dio, fondamento della giustizia di Dio (e mediante cui può attuarsi la ecclesia umana, specchio dell'unità di Dio), che si esprime nell'ordinamento civile, ove ciascuno deve assumere il suo posto, per cui sovrano non può essere che il re che sia cristiano, vero filosofo per grazia di Dio, cioè sacerdote. Non a caso a tali concetti è ispirata la Vita di Costantino (non a caso scrittori ecclesiastici la considerano come un'appendice e una conclusione della Storia ecclesiastica) ed è perciò che entro questi termini sembrano assumere un loro piu preciso significato le già citate parole che Eusebio mette in bocca a Costantino, che rivolgendosi ai vescovi avrebbe detto: "Voi potreste essere vescovi interiori della Chiesa, io sarei, invece, vescovo, costituito da Dio, dal di fuori" (Vita Cost., 4, 24). In questa frase di Costantino era implicito il grosso problema del rapporto tra l'autorità della Chiesa e l'autorità dello Stato e, nell'incontro dei due termini, il principio dei drammatici futuri conflitti. Sotto questo aspetto, d'altra
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parte, è stato detto di recente, in una ripresa degli studi stonct su Costantino e il cattolicesimo, "sembra impallidire l'antica vessatissima questione sulla Bekehrung di Costantino, ove la si limiti al suo aspetto esterno, 'agiografico.. .' qualunque sia infatti la soluzione del problema sul piano teologico e quale che sia lo 'arrangiamento' relativo dei dati documentari, è certa una cosa: l'utilizzazione delle forze cristiane nell'azione politica costantiniana, la Eingliederung della Chiesa nello Stato, non poteva essere, non dico attuata, ma nemmeno pensata da altri che da chi della Chiesa fosse giunto ad intendere, dall'interno, l'essenza 'politica' e il carattere fondamentale di basileuma e il finalismo universalistico; e chi avesse capito questo, non poteva non essere 'convertito'... E parallelamente è del tutto secondario il problema della 'convenienza' o meno della politica filocristiana di Costantino..., ché questo problema è di solito riferito alle risultanze - peraltro non solidissime - di rilevamenti statistici, grezzi e approssimativi, relativi alla diffusione del Cristianesimo in Occidente; e ci si dimentica di valutare qualitativamente quella diffusione... e soprattutto di valutare, nella sua vera portata, la 'spinta politica' del Cristianesimo, le sue istanze sociali rafforzate dalla 'secolarizzazione' operatasi nel corso del m secolo, la sua naturale tendenza all'unità universale, il suo carattere di avanguardia, di 'modernità,' di felice accoppiamento di pensiero e organizzazione, tutti titoli piu che validi alla considerazione di un politico avveduto... figlio del suo tempo, quale fu Costantino. Il quale non poteva non mettere quei caratteri della ecclesia cristiana a confronto con l'esaurimento funzionale delle strutture politiche [ed economiche] e sociali dello Stato pagano, con l'isolamento tradizionalista delle curiae, ... con l'indifferenza al proselitismo e l'impoliticità dei culti pagani. A lui si impose'... la via che di fatto seguf. Per questo a lui non il problema dei cristiani si imponeva, sf invece e con insistenza il problema della eliminazione progressiva, senza scosse, delle strutture tradizionali nel quadro della civitas cristiana, o della conversione o traduzione nei nuovi termini di quanto si presentasse suscettibile di adattamento: un problema, questo, della disciplina romana, e delle forze dell'Impero ad essa legate, beri piu grave dell'altro, e tale, ove ben si guardi, da farci intendere in maniera adeguata, tra l'altro, quel persistere di aspetti ufficiali pagani in uno Stato ormai non piu pagano, quale ci rivela la numismatica costantiniana. Recentemente J. P. Brisson (Autonomisme et Christianisme dans l'Afr. rom., 1958) ha insistito su un'immagine di Costantino dominata da una vaga religiosità unitaria e, pur limitando fortemente la vecchia tesi del Martroye (intervento di Costantino come obbligo strettamente giuridico), non è riuscito a superare la contrapposizione dialettica tra un Costantino 'convertito,' alla
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maniera cara alla storiografia cattolica, e un Costantino 'puro politico': 'politique religieuse et politique tout court n'étaient pour lui que deux aspects d'une mème réalité.' Il Brisson non pare che dia molto peso - giustamente - alla contrapposizione paganesimo-cristianesimo; ma, appunto per questo, che significato ha affermare, da un lato, che Costantino tendeva a costituire un'unità religiosa universale, e, dall'altro, che i termini vaghi dal punto di vista religioso, in cui Costantino si esprime (ad esempio nella lettera ad Alessandro e Ario: Vita Cost., 2, 65) sembrano dipendere da una sorta di monoteismo spiritualista? Senza dubbio i 6epa7tov-reç -rou 6eou, di cui Costantino vuole la ~VCò
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nismo il donatismo poi, particolarmente diffusosi nell'Africa), facesse venir meno l'adesione alla Chiesa romana - non poche volte dimostratasi accomodante e temperante - di gran parte dei suoi sostenitori, ricchi possidenti e alti funzionari. Per ciò, proprio in funzione dell'Impero si rendeva necessario dare tutta l'autorità episcopale e apostolica a quella Chiesa che poteva essere davvero cattolica e alla quale dovevano far capo le altre comunità dissidenti. Se ciò spiega l'attività di Costantino fin dal 212-13 contro i donatisti d'Africa, spiega anche piu tardi (nel Concilio di Nicea, 325, presieduto e vqluto da Costantino) l'appoggio dato da Costantino alla tesi sulla consustanzialità del Padre e del Figlio sostenuta dalla Chiesa ufficiale (la tesi di Atanasio) di contro alla tesi sostenuta da Ario, secondo cui il Figlio, creato dal Padre, non è Dio e non ha la stessa sostanza di Dio. c) Le "eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di N icea. Se lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta formando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale studio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera interpretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e l'attività di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile connubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salvazione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento dell'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cristianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si tentasse di soffocare il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e
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rurale, poveri e semiaffamati ... La grande crisi rivoluzionaria del m secolo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutizzarsi dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin dalla prima meditazione sull'esperienza cristiana si determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una delle interpretazioni consolidatasi e divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (ortodossa), e tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria cattolicità. Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa" : in De praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei" non si determinò storicamente attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristianesimo e la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre-
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sente che di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una personale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica contro una Chiesa che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo sorgere certe eresie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui pensiamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della Chiesa, proclamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in un rigidismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti convertiti al Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al tempo delle persecuzioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intransigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vedevano nel donatismo il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro l'economia schiavistica: fu questo il movimento degli " agonisti," i combattenti per la vera fede : cosi essi proclamarono se medesimi, mentre "circumcellioni, " vagabondi, furono detti dalla parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325), in una
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precisazione da parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia ....- proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercussioni politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la direzione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia questione della natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " " unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertulliano, e, per altro verso, di Plotino. e dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione. assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rovesciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente mor( nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27).
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L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno implica la negazione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e ingenerato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza principio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si risolverebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini, ammettere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua assolutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraicocristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensantepensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza tragga all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pensante-pensato (L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipotente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde nell'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, seguendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che rimane, perché crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç -trept6s), sf come tutte le creature,
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"buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attraverso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio proviene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa direzione la vecchia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinandosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario da parte del vescovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a Nicomedia presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Atanasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e precisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa, già dia9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal principio Atanasio coadiuvò nella polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325). Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Costantino cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo, nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in-
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cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di vescovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel simbolo niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi atanasiana o di quella ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cristiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si convertirono al cristianesimo ariano vedendo in esso quella salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella aristocratizzazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discussione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa problematica politica. Non a caso lo stesso Costantino, che, nèlla polemica tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò, forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di Origene, che il L6gos è subordinato al Padre, una viva simpatia per gli ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri (335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla corrente ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il sopravvento ai sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa ortodossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom· pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e di edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio.
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Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su decreto di Costanzo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore dell'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organizzato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Magnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepoziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto imperatore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Concilio di Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore. Costanzo evidentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un concilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esiliato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio discepolo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva raccolto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov -syntagmation) che dovevano servire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vissuto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena.
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Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre correnti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~ -anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -, ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostrazione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è generato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: quarantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epifanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal pÒCo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa sostanza (otJ.oouaLo~- homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.o LOIOhòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu sostenuta dal successore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ultimo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c
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della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il significato di sostanza da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Alessandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pontico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, sostenitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cristiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole,
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o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza.
d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristianesimo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/ 0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costantino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a combattere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semiprigioniero ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi autori dell'antichità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci. :t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti frammenti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma.
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Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fanatica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dall'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attraverso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_ Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgomento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Alemanni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costanzo nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e
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della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu profonde ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giuliano, la sua esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la possibilità di un'autentica religione universale razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana, anche il Cristianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, ancora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in particolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo in vero, sia che dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qualche modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di potenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intellettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divinità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligibilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire materia, che .è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come il fiore.
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E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrinsecazione attiva del puro Intelletto ... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr. Tim~o, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola ... (A Elios, 134a-139b-c).
Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qualsivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e profetico, ... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi, tornare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoicocinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è venuta. Il che non significava per Giuliano negare il Cristianesimo, particolarmente il çristianesimo non ariano, in quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con
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molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testamento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contraddizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzialità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristianesimo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moralizzare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quell'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerarchia religiosa, ignota p t ima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi religiosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una persecuzione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cristiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al passato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica restaurazione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, comprensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacificazione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, rispondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei
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suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e miticamente traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'attenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè culturale di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclusioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolarmente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (encosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, superessenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Impero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo prefetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'abbreviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni deii'Hermann Dessau (lnscriptiones latinae selectae, !, Berlino, 1894, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, lntroduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi, 1960). \
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si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'incomprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convincente le linee generali della ... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Rochefort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi, 1960.) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale dell'unica religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel sopravvento della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla proclamazione dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione religiosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popolazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo ciascuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commercio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costituendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo migliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. 311
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E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mettevano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento antiromano: in celtico bagaudi significa "combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprietari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La Chiesa, almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sostituendosi cosi al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo esaurirsi del potere politico in Occidente e con il lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma ( 410), tanto piu evidente sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cristianesimo, in seno alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta da Parmeniano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i catto-
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!ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente personale e individuale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Donatistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta, conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu precisa koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue componenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di Alessandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sillogi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica del primo stoicismo.
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Capitolo terzo
Cristianesimo e cultura nel IV e al principio del V secolo
l. San Basilio e San Gregorio dì N azianzo. Questioni trmttarie e cristologiche. Dal Concilio di Nicea ai concili di Costantinopoli, di Efeso e di Ca/cedonia (451) Senza dubbio sul piano di un approfondimento logico-linguistico, entro i termini di una loro preparazione neoplatonico-origeniana, del rapporto sostanza-persona, sostanza-ipostasi, nella precisazione della formula del simbolo niceno, accettato come la "regula fidei," giuridicamente determinata dalla Chiesa apostolica, si mossero i tre cappadoci, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo è San Gregorio di Nissa. Nato verso il 330 a Cesarea di Cappadocia, da famiglia cristiana - la nonna paterna, Santa Macrina, era stata discepola dell'origeniano Gregorio Taumaturgo, - Basilio/ frequentate le scuole di Cesarea, di l Di famiglia da lungo 1empo cristiana, Basilio nacque a Cesarea di Cappadocia nel 330 circa. La nonna paterna, Santa Macrina, era stata discepola di Gregorio Taumaturgo, il nonno materno era stato martire. Basilio ebbe nove fratelli, di cui tre furono religiosi: Gregorio e Pietro, vescovi; Macrina, religiosa. Educato dal padre, retore e avvoca.to famoso, Basilio frequentò prima le scuole di Cesarea, poi quelle di Costantinopoli, infine quelle di Atene. Ad Atene conobbe Gregorio di Nazianzo di cui divenne amico. Tornato a Cesarea nel 356 si fece battezzare. Dopo .avere visitato i piu noti asceti dell'Egitto, della Palestina e della Mesopotamia, fondò in Cappadocia, sulle rive dell'Iris, una colonia di monaci dediti alla preghiera, allo studio e alla coltivazione dei campi. Richiamato nel 360 a Cesarea per accompagnare il vescovo Dianio di Cesarea a Costantinopoli, morto nel 362 Dianio, dopo un conflitto con il nuovo vescovo di Cesarea, Eusebio, riappacificatosi con Eusebio, che lo consacrò sacerdote, nel 370, alla morte di Eusebio, gli successe in qualità di vescovo di Cesarea. La sua attività fu allora volta a istruire il popolo; a sollevare la miseria, a combattere gli ariani sostenendo la fede di Nicea, a pacificare la divisa Chiesa di Antiochia, a richiedere l'appoggio della Chiesa di Occidente. Basilio mori nel gennaio del 379. Fu detto "il grande." Riportiamo le opere di Basilio, secondo la tradizionale divisione in Opere dogmatiche, Discorsi e omelie, Opere ascetiche e liturgiche: l. Opere dogmatiche: Contro Ettnomio (l'opera, in cinque libri - si è dimostrato che solo i primi tre sono di Basilio - , è volta contro l'Apologetico dell'ariano Eùnomio: nel I libro si nega che la non-nascibilità
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Costantinopoli e di Atene (dove strinse amtctzta con Gregorio di Nazianzo), battezzato a Cesarea nel 356, si mosse dapprima nell'àmbito dell'ascetismo, tanto da fondare sulle rive dell'Iris, seguendo l'esempio di Eustazio di Sebaste, una colonia di monaci dediti . alla preghiera, allo studio, al lavoro dei campi, per i quali compose, in forma di risposte. a quesiti, due regulce di vita, che saranno poi il fondamento della vita cenobitica (Regulce fusius tractatce, in numero di 313, e che risolvono casi di coscienza). Dal 360 Basilio soggiornò a Costantinopoli al seguito del vescovo di Cesarea Dianio. Morto Dianio nel 362, dopo un breve conflitto con il nuovo vescovo di Cesarea di Cappadocia, Eusebio, riconciliatosi con Eusebio, fu da lui consacrato sacerdote. Alla morte di Eusebio, 370, Basilio gli successe sulla cattedra di Cesarea. Da allora data la attività di Basilio - ricordiamo che Giuliano era già morto da una diecina di anni e che vigorosa era ripresa la forza della Chie$a di Roma, che tentava ora di riguadagnare il terreno perduto rispetto alla propria unità nei confronti dell'arianesimo, ostacolata. in parte dall'imperatore Valente. Basilio, cosf, si volse a convincere i dissidenti alla formula del Concilio di Nicea, in cui egli vede la "regula fidei," entro cui - essa emanata dalla Chiesa cattolica - far rientrare almeno certe deviazioni ariane, in realtà, secondo lui, piu linguistiche che sostanziali. Non a caso, perciò, San Basilio da un lato sostiene, riprendendo il motivo che fondamento della ragione è la fede (ragione della ragione), per cui nelle discussioni intorno a Dio "deve essere assunta come guida la fede," ché "la fede spinge all'assenso piu fortemente della dimostrazione, la fede che non è causata da necessità geometrica, ma dall'azione dello Spirito Santo" (Home/. in Ps., 115, l); dall'altro lato sottolinea che il criterio della "regula fidei" non è dovuto a personali esperienze, ma alla formulazione che di esso hanno dato i Santi Padri, cioè la Chiesa apostolica: "Noi non accettiamo alcuna nuova fede, che· ci sia prescritta da altri, né presumiamo di esporre i che il Figlio è consustanziale al Padre; nel terzo che lo Spirito Santo è Dio. L'opera fu composta tra il 363 e il 365); Dello Spirito Santo (del 375; sulla divinità dello Spirito Santo in polemica con gli "pneumatomachi": cfr. sopra). 2. Discorsi e omelie: delle omelie pubblicate sotto il nome di Basilio sono propriamente sue: Nove omelie sull'esamerone (spiegazione letterale dei sei giorni della creazione: manca il sesto giorno); Tredici omelie mi Salmi; Ventuno omelie su argomenti diversi; dei Sermoni sembrano di Basilio solo quelli dedicati alla Santa generazione di Cristo e Contro coloro che per calunnia affermarlO che secondo noi vi sono tre dèi. 3. Opere ascetiche e liturgiche: De iudicio Dei; De fide; Moralia (ottanta regole ad uso della vita del cristiano e del pastore della Chiesa); Regulae fusius tractatae o Grandi Regole; Regulae brevius tractatae o Regole brevi; Praevia institutio ascetica (si dubita che siano di Basilio); Sermo asceticus de renuntiatione Saeculi (se ne dubita); Sermo de ascetica disciplina (se ne dubita). Ricordiamo infine la raccolta delle Lettere, in numero di 367, e il breve trattato dedicato ai figli di una sua sorella per guidarli negli studi, intitolato Discorso ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura pagana.
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risultati della nostra riflessione per non dare come regola di religione ciò che è solo sapienza umana. Noi comuhichiamo a chi ce lo richiede solo ciò che i Santi Padri ci hanno insegnato" (Epist., 140, 2); e, per ciò, non solo quello che direttamente proviene dalle Sacre Scritture, ma anche l'insegnamento e l'interpretazione che deriva dai Padri, costituenti la Chiesa apostolica, cioè la Chiesa che, fondata dagli Apostoli, trasmette nei nuovi apostoli, che sono ì vescov~ l'insegnamento del Cristo (cfr. De spiritu Sanct., 29, 71). Apostolico il simbolo niceno, si tratta, dunque, di chiarire la fede in quella "regula," mostrando che, in gran parte, la deviazione ariana è dovuta a una non corretta interpretazione degli stessi sacri testi, assunti eccessivamente alla lettera. In tal modo San Basilio, rifacendosi all'esegesi della Scuola di Alessandria (non a caso egli, insieme a Gregorio di Nazianzo, aveva curato un'antologia di testi origeniani, la Filocalia), distingue acutamente tra il concetto di sostanza e il concetto di ipostasi. Il suo discorso si muove nei confronti di Eunomio, ariano, il quale, sulla scia di Ezio (cfr. sopra), sosteneva la contraddittorietà di affermare, se il Verbo è creato dal Padre, la consustanzialità del Padre e del Verbo senza ridurre il Padre al Verbo e il Verbo al Padre, ché, posto Dio come ingenerato, il generato non può perciò essere Dio. San Basilio, di contro, precisa che una cosa è dire essenza e altra dire persona (ipostasi): uno l'essere, nella sua perfezione e infinita potenza, ineffabile e inconoscibile, fondamento del tutto, ingenerato in quanto essere, che nulla può essere oltre l'essere, allora la stessa ragione di Dio, la sua sapienza, il Verbo, non puè) non essere della stessa essenza (sostanza) di Dio, e, perciò, in tal senso, ingenerato, come Dio, esso stesso Dio. Ingenerato e perfetto Dio nella sua unità, egli l'Essere, "colui che è," è, dunque, vita in atto; il Verbo, invece, se considerato non nella sua essenza, ma in quanto aspetto della vita di Dio, o meglio fondamento (ipostast) dell'essere, in sé infinito e potenziale, esistente mediante il Verbo, il Verbo non è vita, ma ha vita, e perciò è figlio, generato, rispetto al Padre; il figlio, dunque, è generato in quanto ipostast~ in quanto persona; è ingenerato in quanto sostanza (e lo stesso va ripetuto dello Spirito Santo rispetto al L6gos: della stessa essenza di Dio e del Verbo nella sua sostanzialità, prodotto del Verbo nella sua esistenza in quanto persona, ipostasi: cfr. Adt1. Eunomium). In realtà, la tesi di Basi!":>, passato attraverso Origene e i platonici, risale alle piu antiche esegesi di Filone Alessandrino ai Prot1erbi e alla Genesi (cfr. di Basilio, particolarmente, le Omelie sull'Examcron, cioè sui sei giorni della creazione). Entro questi termini, posto che di Dio è impossibile dire qualcosa, che ignota resta l'essenza di Dio, che le creature potranno far conoscere la potenza, la sapienza e l'arte del
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creatore ("neppure anzi manifestano necessariamente la potenza del creatore, giacché può darsi che l'artista ponga tutta la sua capacità nell'opera sua, ma la eserciti in essa solo in misura ristretta": Adv. Eun., Il, 32); ma non la sua natura (secondo Eunomio, invece, l'essenza di Dio è l'ingenerabilità), posto che Dio è appunto infinito e onnipotente, per cui a Dio tutto è possibile, onde "la conoscenza dell'essenza divina consiste solo nella percezione della sua incomprensibilità" (Ep., 234, 2), Basilio poteva sostenere che di Dio non si può discutere in termini di dialettica aristotelica, e che perciò non è contraddittorio affermare che "in Dio c'è una certa ineffabile e incomprensibile comunanza ed insieme una diversità: la distinzione delle persone non toglie l'unità di natura e la comunanza della natura non esclude la particolarità dei caratteri distintivi" (Ep., 38, 4). E cosi, l'amico e compagno di San Basilio, Gregorio,2 nato ad Arianzo nei pressi di Nazianzo nel 330, formatosi nelle scuole di Cesarea, di Alessandria e di Atene, vescovo per un certo periodo di Sasima e di Costantinopoli (379), ritiratosi a vita privata e solitaria per dedicarsi agli studi, morto ad Arianzo nel 390 circa, nelle sue Orazioni teologiche (le Orazioni, 27-31), tenute a Costantinopoli contro Eunornio (cfr. sopra) e Macedonia (che affermava essere lo Spirito Santo subordinato al Padre e al Figlio ed avere una natura simile a quella degli angeli), per sostenere l'unità e trinità di Dio fondava la sua argomentazione sulla imperscrutabilità dell'essenza di Dio, che, in quanto tale, in quanto essere, è essenza non definibile, è tutte le infinite passibili essenze, oltre tutte, "oceano infinito e indeterminato di essenze" (Or., 38). Entro questi termini non è contraddittorio, perché non assumibile il principio sul piano razionale e definitorio, ma sul piano di una professione di fede, convalidata dalla stessa autorità di Dio, rivela2 Nato nel 328-329 ad Arianzo in Cappadocia, da Gregorio il .Vecchio, che, convertitosi al Cristianesimo, divenne vescovo di Nazianzo, Gregorio, dopo avere studiato nella scuola di Cesarea di Cappadocia, di Cesarea di Palestina, di Alessandria t! di Atene, tornato in Cappadocia, nel 360 si fece battezzare. Si ritirò allora con l'amico Basilio sulle rive dell'Iris (cfr. sopra). Fu in quest'epoca che Basilio e Gregorio composero una raccolta di passi di Origene, andata sotto il nome di Filocalla. Nel 361, richiamato a Nazianzo dal vescovo suo padre, Gregorio, consacrato sacerdote, coadiuvò il padre fino al 370, quando Basilio, allora arcivescovo di Cesarea, nominò Gregorio vescovo di Sasima, uno sperduto villaggio della Cappadocia. Gregorio si rifiutò di andare a soggiornare a Sasima. Mortogli il padre nel 374, nel 375 si ritirò in solitudine ad Isauris. Nel 381, Teodosio Il lo elesse vescovo di Costantinopoli, ma per le sopraggiunte difficoltà sollevate contro la sua elezione, Gregorio dette le dimissioni, ritirandosi prima a Nazianzo, poi ad Arianzo, dove mor1 nel 390 circa. L'opera piu importante di Gregorio è composta dai suoi Discorsi (particolarmente interessanti i cosiddetti 5 discorsi teologici 27-31, sulla Trinità). Negli ultimi anni della sua vita scrisse Poesie. Furono divise in due libri: Potsie teologiche (a. Poesie dogmatiche, b. Poesie morali); Poesie storiche (a. Poesie su se stesso, b. Poesie su altri). Interessante è anche l'Epistolario di Gregorio, composto di 245 lettere.
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tasi attraverso la sua stessa parola, credere in un Dio uno e trino, la cui divinità è una e ad un tempo tre, ove i tre sono identici e diversi. Questa professione di fede io ti offro come compagna e guida di tutta la vita: un'unica divinità e potenza, che si trova unita in tre, e tre diversi comprende, che non è diversa per essenza né per natura, che non è aumentata per aggiunte né diminuita per sottrazioni, che è totalmente uguale, anzi totalmente la stessa, come la unica bellezza e grandezza del cielo, che è l'infinita congiunzione di tre infiniti; e ognuno di questi, considerato separatamente è Dio, il Padre come il Figlio, il Figlio come lo Spirito Santo e ognuno conserva la sua proprietà, mentre considerati tutti e tre insieme, sono ancora Dio, l'uno per l'unità dell'essenza, l'altro pet l'unità del comando (Oraz. 40, n. 41; cfr., sopra, Filone l'Ebreo). Entro tali termini, ove, come per Basilio, l'assunzione dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità tra Dio e il Verbo e della diversità tra il Padre e il Figlio, sono poste su di un atto di fede, non sono deducibili razionalmente, ed ove il criterio, in opposizione ad Eunomio ed all'arianesimo in genere (si nega che la sostanza di Dio sia partecipabile in quanto ciò ripugna alla ragione), è la stessa coscienza della imperscrutabilità e incomprensibilità di Dio, che ne rivela la trascendenza, poneva la possibilità di sostenere che quel Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito Santo, uno tutto in atto, persona, è egli l'unico e assoluto creatore del tutto. Egli vuole il mondo, e la stessa materia delle cose è di volta in volta costituita dalla volontà di Dio, a seconda di ciò che a ciascuna cosa conviene (ricercare la materia, come il fondamento primo che non ha alcuna forma per assumere le possibili forme, sarebbe giungere al nulla: se a ciascuna cosa si tolgono le sue proprietà sensibili, colore, odore, spessore e cosi via, abbiamo il nulla), onde tutto si determina e si ordina, ciascuna cosa avente la sua materia (il cielo ha la sua, e cosi la terra), ciascuna cosa, assumendo il suo giusto posto (il suo luogo naturale); tutto (aria, acqua, fuoco, terra) in principio mescolato ha assunto poi per volontà di Dio una sua disposizione. Basilio cosi interpretava e sistemava, determinando lo spazio ed il tempo e la materia come nascenti dalla stessa creazione di Dio, il racconto della creazione e della formazione del cosmo, spiegando i testi .della Genesi, ed usando, una volta scaturita la realtà dall'atto creativo di Dio, gran parte delle nozioni scientifiche classiche. Miracolo il mondo, in quanto scaturito da un gratuito atto di Dio, in sé imperscrutabile e ignoto nella sua essenza, della cui esistenza siamo certi attraverso le creature e il loro ordine (Basilio, Gregorio di Nazianzo), di Dio in sé, in quanto Dio "è colui che è," "oceano di essenze," nulla si può dire - ogni nostra affermazione implica sem-
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pre un'immagine sensibile, - neppure che è luce, neppure che è saggezza, giustizia, ragione, solo ch'egli è infinità ed eternità e che di fatto essendovi il mondo, il mondo dovuto ad un atto di volontà di Dio, il mondo ha una sua ragione, essa stessa voluta da Dio, ragione (L6gos) di Dio (Gregorio di Nazianw). Mistero l'essenza divina, miracolo e mistero come il mondo è stato creato, miracolo e mistero come il Padre abbia generato il Figlio, nulla vieta, ammesso che il Verbo è consustanziale a Dio e che divina è la sua persona - e perciò non limite, non peccato, ma intelligenza pura, - che il Verbo, per volontà di Dio, non solo abbia assunto corpo umano, ma che sia anche anima, pur mantenendosi in Cristo la natura divina. Gregorio di Nazianzo, nella sua discussione contro Apollinare (cfr. sopra), prospettava una delle soluzioni sul grosso problema teologico scaturito dal simbolo niceno intorno alla natura del Cristo, affermando che il Cristo ha natura umana e natura ·divina ad un tempo ("due nature distinte, in una persona sola, quella di Gesu," sarà la formula determinata nel Concilio di Calcedonia del 451, dopo lunghi dibattiti, accanto a quelli sulla trinità, definiti nel Concilio di Nicea del 325, conclusisi con il Concilio di Costantinopoli del 381, voluto dall'imperatore Teodosio I che aveva proclamato la religione cristiana nelle sue formulazioni romane unica religione dello Stato, al quale. Concilio di Costantinopoli fu presente Gregorio di Nazianzo che, dopo la morte del vescovo Melesino, lo presiedette per un certo periodo). Il Concilio ecumenico · di Costantinopoli sanzionava il simbolo niceno, e chiariva anche la questione della natura dello Spirito Santo, non esattamente determinata a Nicea, riprendendo la formula dei tre Cappadoci "una sostanza, tre persone," per cui lo Spirito Santo veniva posto come persona e Dio, accanto al L6gos persona e Dio, e al Padre persona e Dio. Se gli ariani e i semiariani conseguentemente sostenevano che lo Spirito Santo non è Dio, si come non è Dio il Verbo, anche i sostenitori del simbolo niceno avevano interpretato lo Spirito Santo non come generato, insieme al Figlio, ma come generazione dovuta al Verbo. Tale soluzione contraria alla divinità dello Spirito Santo, fu detta degli ''avversari dello spirito" (pneumatomachi), o eresia macedoniana, dal nome del semiariano Macedonio di Costantinopoli, morto verso il 360, il quale mentre sosteneva che la sostanza del Padre è simile a quella del Figlio, affermava che la natura dello Spirito Santo, creato dal Figlio, è simile a quella degli angeli. Di contro, il si.nibolo niceno-costantinopolitano sanzionò la divinità dello Spirito Santo: "Signore e vivificatore che procede dal Padre, che con il Padre c con il Figlio viene ugualmente adorato e glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti. "
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Accettata la natura divina del L6gos, piu acuto si faceva ora il problema - già da tempo discusso - sulla natura del Cristo, o meglio sulla possibilità di sostenere che il Cristo uno, ha insieme due nature, l'umana e la divina. Il Concilio di Costantinopoli aveva preso posizione contro Apollinare, assumendo la tesi di Gregorio di Nazianzo, e, sia pure in maniera sottintesa, condannando ogni forma di docetismo. La discussione sulla persona del Cristo, dopo il simbolo niceno-costantinopolitano si delinea anche sotto l'aspetto del conflitto sorto tra la Scuola cristiana di Alessandria e la Scuola di Antiochia. "Di per sé," scrive lo Jedin, Breve storia dei Concili, trad. it., Roma, 1960, "corrisponde alla logica che, dopo che il magistero della Chiesa ebbe precisato nei due primi concili ecumenici la fede trinitaria, il pensiero teologico si rivolgesse al mistero della persona di Cristo. Eppure questa svolta non è la conseguenza di un processo logico, ma è stata provocata da un contrasto da lungo tempo esistente tra due scuole teologiche e inasprito da una rivalità politico-ecclesiastica. La scuola catechistica alessandrina, che venerava come suoi capi Clemente Alessandrino ed Origene, il maggior teologo della Chiesa greca, si serviva, nell'esegesi della Sacra Scrittura, del metodo allegorico. Il suo pensiero era di indirizzo cattolico, ·la sua forza era la speculazione teologica. Atanasio e i tre Cappadoci avevano appartenuto ad essa; il suo maggior teologo era, al principio del v secolo, Cirillo di Alessandria, dal 412 patriarca di questa città. Studiandosi di rappresentare l'unione della divinità e dell'umanità in Cristo nel modo piu intimo possibile, Cirillo parlò di 'una natura nel verbo incarnato' e l'illustrò con una immagine atta ad imprimersi: la natura divina compenetra l'umana come il fuoco un carbone ardente o un pezzo di legno che brucia. Egli non senti che questo modo di esprimersi e queste immagini potevano indurrs: a volatilizzare la natura umana di Cristo e a concepire l'unione delle due nature come una mescolanza (S'fncrasis). All'incontro la Scuola di Antiochia (o Samosata), si distinse per l'accurata e sobria esegesi grammaticale e storica della Sacra Scrittura. Pensando in modo piu aristotelico, in essa alitava un lieve soffio di razionalismo. Il suo benemerito e veneratissimo capo nel IV secolo, Diodoro di Tarso (morto prima del 394), quale coscienzioso esegeta della Sacra Scrittura, prese tanto a cuore la salvaguardia dell'umanità di Cristo, da incorrere nel pericolo di allentare l'unione ontologica con la divinità, che egli riconosceva, e di concepirla come solamente morale. Nel suo grande scolaro Giovanni Crisostomo, divenuto nel 398 vescovo di Costantinopoli come successore di Nettario, questa tendenza si rivelò appena; già di piu nell'influente esegeta Teodoro di Mopsuesta (morto nel 428), piu for-
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temente accentuata invece nello scolaro di questo, Nestorio, che nell'anno della mone del suo maestro divenne vescovo di Costantinopoli. La differenza delle due concezioni appare evidente nell'immagine che gli antiocheni usavano per esprimere il rapporto della natura divina con quella umana in Cristo: il L6gos abita nell'uomo Gesu come in un tempio. Cirillo, Patriarca di Alessandria; Nestorio, Patriarca di Costantinopoli: la tensione derivante dall'indirizzo delle scuole si acui per la rivalità delle due sedi episcopali. Costantinopoli, la residenza imperiale sul Bosforo, a poco a poco oscurava e sorpassava Alessandria, che tanta fama aveva come sede del sapere e roccaforte della ortodossia. Già Crisostomo (morto nel 407) aveva avuto a soffrire per la gelosia di Teofilo, il Patriarca di Alessandria ambizioso ed avido di potere; Cirillo era il nipote e successore di questo. Era fin troppo comprensibile che egli prendesse posizione con il piu grande zelo contro le pericolose opinioni di Nestorio sulla persona di Cristo" (Jedin, cit., pp. 29-31). Di qui provennero anche le dispute sul nome da dare alla V ergine, se dire ch'ella è "madre di Dio" (T he6tokos) o "madre di Cristo" ( Christ6tokos): "Christ6tokos," sostenevano coloro secondo cui Maria ha messo al mondo l'uomo Gesu, nel quale Dio abitava come in un tempio. In realtà la questione si delineava, per altro verso, sullo stesso piano su cui era nato il conflitto tra l'intendere il Verbo e quindi il Cristo come creatura, uomo tra uomini, e non Dio (Ario) e l'intendere il Verbo come avente la stessa essenza di Dio, egli stesso Dio. Chi, come già Apollinare, accentuerà la divinità di Cristo sarà portato a riassorbire l'umanità di Cristo nella divinità, sostenendo che una sola è la natura di Gesu (monofisismo), di cui il massimo rappresentante sarà Eutiche, archimandrita di un monastero di Costantinopoli, vissuto tra il 378 e il 454, che avversario della tesi di Nestorio, rovesciò la formula di Cirillo secondo cui una è la natura del Cristo ma determinatasi in due persone, la divina e l'umana, riassorbendo, appunto, nella divinità l'umanità del Cristo, giustapposta a quella divina da Nestorio. Chi, invece, sostiene le due nature del Cristo come reali e per sé stanti, logicamente eterogenee l'una all'altra, è portato, come Nestorio (vissuto tra il380 e il450, antiocheno, condannato nel Concilio di Efeso del 431) a giustapporre le due nature e a negare l'unità delle due nella stessa persona, se non come relazione morale, come tensione dell'una verso l'altra. Il conflitto tra la tesi di Cirillo (nel suo fondo monofisita) e quella di Nestorio (seguito da un discepolo di Teodoro di Mopsuesta, Teodoreto, nato ad Antiochia nel 393, che, ritenendo Cirillo un apollinarista, difese Teodoro e Nestorio rinnegandoli solo dopo il Concilio
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di Calcedonia), discusso nel Concilio di, Efeso del 431, si risolse nella precisazione della formula sanzionata nel Concilio di Calcedonia del 451, secondo cui in Cristo vi sono due nature distinte in una sola persona. La formula, dettata da una lettera dogmatica, del vescovo di Roma Leone Magno, fu cosi accolta dai vescovi riuniti al Concilio: "Questa è la fede dci Padri, questa la fede degli Apostoli. Cosi crediamo noi tutti. Attraverso Leone ha parlato Pietro." Era il pieno riconoscimento della Chiesa di Roma.
2. San Gregorio di Nissa Assai vicino all'amico Gregorio di Nazianzo e a suo fratello Basilio per ciò che riguarda la formulazione della fede, fondamento della stessa ragione, e senza di cui la ragione resta sospesa non avendo alcun criterio, Gregorio di Nissa (335-394),3 che dei tre Cappadoci è stato detto 3 Gregorio di Nissa, il terzo dei tre "luminari" di. Cappadocia, fratello minore di Basilio il "grande," amico di Gregorio di Nazianzo, nacque a Cesarea di Cappadocia nel 335 circa. Destinato presto, dalla famiglia, alla Chiesa, una crisi di coscienza lo allontanò dallo stato clericale. Rientrato nella Chiesa su esortazione di Gregorio di Nazianzo (Epist. 11), si ritirò sulle rive dell'Iris, presso la società di asceti fondata dal fratello Basilio. Nel 371 fu da suo fratello nominato vescovo di Nissa. Sulla cattedra di Nissa dal 371 al 376, in quell'anno fu deposto dagli ariani. Rientrato in Nissa nel 378, sappiamo che nel 379 prese parte al Concilio di Antiochia e nel 381 a quello di Costantinopoli, acquistando grande autorità in campo ortodosso. Sostenuto dall'imperatore Teodosio, rappresentò l'ala romana dei Concili. Di lui piu nulla sappiamo dopo il 394. Si è soliti dividere le opere. di Gregorio di Nissa in: Opt:re esegetiche ed omelie, Trattati dogmatici e polemici, Opt:re ascetiche, Discorsi. l. Opere esegetiche e omelie: De hominis opificio (spiegazione della Genesi, I, 26, sulla formazione dell'uomo: l'opera è del 380 circa); Spiegazione apologetica sull'esamerone (del 381 circa); La vita di Mosè (opera allegorica, in cui la vita di Mosè è presentata come modello di vita cristiana); Dt:lla pitonessa (commento a 1 Re, 28, 12 sgg. in cui, di contro alla spiegazione di Origene, si sostiene che non il profeta, ma ùn demonio apparve a Saul); l titoli dei Salmi (opera allegorica, in cui si sostiene che la divisione in 5 libri dei Salmi corrisponde ai 5 gradi della pe•fezione cristiana, e che ciascun titolo del salmo ha un significato morale); Omelie (una sul titolo del salmo VI; otto sull'Ecclesiaste; quindici sul Cantico dei Cantici; cinque sull'Orazione domenicale; otto sulle Beatitudini; una su VI, 18 della l ad Corinthios di Paolo; una spiegazione di XV, 28 della l ad Corinthios in polemica con gli ariani). 2. Trattati dogmatici e polemici: Contro Eunomio (contro lo "anomeismo": Eunomio aveva difeso il proprio Apologetico, attaccato da Basilio nel Contro Eunomio, in un'opera, l'Apologia dell'Apologia, publilicata dopo la morte di Basilio, nel 379; il Co7lfro Eunomio di Gregorio di Nissa è un attacco alla nuova opera di Eunomio; fu compostò tra il 380 e il 381); Contro Apollinare a Teofilo vescovo di Antiochia; Antierheticus adversus Apollinarem; Discorso sullo Spirito Santo contro i pneumatomachi macedoniani; Ad Eustazio, sulla Trinità; Ad Ablabio, che non vi sono tre dèi; Contro i Greci; A Simplicio, sulla fede; Contra fatum (sul fatalismo astrologico); Oratio catechetica magna (fondamentale per lo studio della teologia di Gregorio; fu composta nel
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il "filosofo," in difesa delle tesi di Gregorio di N azianzo (detto, dei tre, l"' oratore") e di Basilio (il "mistico" e ad un tempo l'" uomo di azione" e "di governo"), particolarmente nei confronti di Eunomio e di Apollinare, riallacciandosi ad Origene, tese a mostrare poi come le "verità" della fede si confermano tali se illuminate, poi, dalla ragione, la cui condizione è la fede medesima. Cosi, se da un lato le singole conoscenze scientifiche sulla natura, elaborate e scoperte dai fisici, dai matematici e cosi via, servono per avviare a comprendere che la realtà tutta è stata fatta da un Dio, la dialettica assume il valore di un metodo mediante cui rendersi conto che quel Dio non può non essere che uno (discorso e argomentazione vecchia, ma che riprendeva un suo significato da parte cristiana, se teniamo presente che in questi anni Giuliano aveva tentato di restaurare, anche se in termini diversi, l'antico politeismo). Posto, dunque, che Dio è l'essere, in quanto tale perfetto e in'finito, e che, dunque, il nome di Dio indica l'essenza (non un aspetto, ·un modo d'essere), le tre persone della trinità non sono tre essenze (che allora davvero avremmo tre dèi, il che sarebbe contraddittorio), ma unica è l'essenza delle tre persone. Né è da dire che in tal modo l'essenza unica si moltiplichi nelle persone (ipostasi), si come non possiamo dire che, ad esempio, l'unica essenza umana si moltiplichi nei singoli uomini. E come a rigore non potremmo dire che piu uomini sono essenze molteplici, ma che per quella che è la loro essenza sono un solo uomo, cosi, in quanto l'essenza indica l'universale essere e non l'esistere, che è sempre molteplicità, Dio, in quanto essenza è uno e le persone di Dio sono l'esistere dr Dio, aventi perciò la stessa essenza una di lui, senza che con questo l'essenza si moltiplichi e divenga piu di una, ché anzi le tre persone esistono in quanto riposano nell'unica essenza che è Dio (in realtà l'obbiezione, che fu mossa a Gregorio è facile; l'essenza una di Dio, Dio stesso, si riduce cosi a un nome astratto, si come un nome è umanità, ché di fatto esistono gli uomini; e valida resta l'obbiezione di Antistene a Platone, e la problematica di Platone intorno all'Uno). Entro questi termini cosi, Gregorio poteva poi sostenere che come una è nelle tre persone l'essenza, cosi una è nelle tre persone l'azione di Dio, pur distinguendosi (e in ciò consiste la diversità delle tre persone) in tre funzi'oni, relative alla stessa azione (cfr. Adv. Graecos). 385); Dialogo dell'anima e della rerurrezione (del 380 circa: a imitazione del Fedone platonico); A lerio: sulla morte prematura dei bambini. 3. Opere ascetiche: Sulla t~erginità; Vita di Santa Macrina; Ad Armonio; Al monaco Olimpio sulla perfezione; Sul proposito secondo Dio e sull'ascesi secondo t~irtu; Contro coloro che male sopportano il castigo. 4. Discorsi: Discorsi dit~ersi. Va, infine, aggiunto l'Epistolario di Gregorio, contenente 28 lettere.
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Causa causante il Padre, il cui primo causato (il figlio) è causa di tutto ciò che in lui sussiste, anche dello Spirito Santo, che, perciò, se il Verbo è il Figlio Unigenito, del Padre ingenerato, non essendo né unigenito né ingenerato è non . Figlio di Dio, ma, per cosi dire, il " nipote" di lui. Dovuto al Dio, uno e trino, per un atto di sua volontà, il mondo è creazione di Dio, che, perciò, non presuppone nulla fuori di sé, ché la stessa corporeità, la stessa non semplicità e mutevolezza del·mondo che potrebbe far sorgere il problema di come è che l'essere semplice e perfetto abbia potuto dar luogo ad una realtà a lui eterogenea, si spiega sottolineando che la materia presa in sé, spoglia delle potenze (quantità, figura, colore; qualità), è non essere, è essa stessa idea, intelligibile, cioè non corporea, onde il corpo risulta dalla rçlazione tra le potenze, che sono in quanto presenti alla mente di Dio, anch'esse dunque intelligibili (cfr. In Hex., 69, 24). Gregorio, quindi, in una chiara ripresa del motivo di Filone l'Ebreo secondo cui Dio ha cre.1to l'uomo, perché, attraverso l'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, microcosmo e specchio dello stesso Dio, il mondo avesse uno scopo, assumesse coscienza di sé, e mediante l'uomo si volgesse a Dio, al Bene per il quale è stato creato, da un lato sottolinea che nell'uomo l'anima ingenerata sta a Dio, si come la parola intelligibile procedente dall'anima sta al Verbo, e la coscienza della unità vitale dei due termini, mediante cui si coglie in noi la. divinità che ci trascende, sta · nello Spirito Santo; dall'altro lato afferma che il male non ha ·alcuna realtà per sé, non è essenziale, ma sta nel volere sé, nell'affèrmazione singolare di sé, nel dimenticare Dio, e quindi sta nella volontà, ed è privazione· d'essere, mancanza di bene ("La malvagità ha il suo essere nel non essere: e non ha altra origine' che la privazione dell'Essere" : De an. et resur., 223). E Gregorio, sempre riprendendo dal commento di Filone l'Ebreo ai testi biblici sul primo uomo, spiega la limitazione e l'esistenza degli uomini, con l'atto libero con.cui l'uomo primo (tale creato da Dio, uno in Dio, l'Adamo celeste, intelligibile, razionalità pura, contemplante Dio e in lui perduto) affermandosi, conoscendo e volendo se stesso, si distacca dall'unità divina, esistendo e spezzandosi negli uomini, sempre piu limitazione, corporeità, sessi (cfr. De hom. opif., 16-17). E qui assume per Gregorio il suo piu pieno significato il Cristianesimo, che in sé risolve non solo la sapienza antica e la rivelazione e la legge ebraiche, ma dà, storicamente, un senso all'uomo, che con la caduta aveva perso la sua originaria simiglianza a Dio e la sua libertà. Gli uomini, in quanto tali, in quanto molteplicità e dispersione, in quanto affermazione di sé, tutti peccatori col peccato del primo uomo, da sé sono condannati a peccare, a passare da definizione a definizione,
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se gratuitamente non interviene Dio, che con un supremo atto di volontà ha inviato se stesso, il L6gos, fatto uomo. Senza di ciò gli uomini non avrebbero potuto essere restituiti a se stessi, ricondotti alla loro primitiva simiglianza a Dio, alla loro primitiva libertà. Solo ora, dunque, attraverso il Cristo, attraverso il Cristo uomo, che, unico senza peccato, può pagare per tutti e dare a tutti la possibilità della redenzione, l'uomo può da un lato ritornare alla patria celeste donde è venuto, imitando il Cristo, facendosi Cristo, e dall'altro lato, in quanto è stato riscattato, redento, e in tale senso è tornato libero, può di nuovo voler vivere in Dio (bene) o volere se stesso (male). Nell'uomo, dunque, centro dell'universo, s'incentra il dramma del cosmo; come con il peccato l'uomo è caduto e con lui tutta la realtà, ché la realtà stessa è dispersione e 'molteplicità finché dispersione, molteplicità, male è l'uomo, cosi con la rigenerazione dell'uomo, con il ritorno degli uomini all'unità originaria, il mondo stesso appare bene, non limite, unità e specchio di Dio nell'unità dell'anima umana. Solo che finché vi sarà un sol uomo' ancora lontano da Dio, ribelle, tutto sarà ancora dispersione, lotta, conflitto. Sarà perciò necessario, sostiene Gregorio con Origene, che, pur posto come termine ultimo, come termine di realizzazione, il fine dell'uomo e, dunque, ·del mondo, di purificazione in purificazione, in una, anche se nel tempo, cristianizzazione dell'umanità, sia quello di un assoluto ritorno all'uomo celeste: tutti gli uomini, e con ciò l'universo tutto, torneranno a convertirsi e a perdersi nell'unità vivente di Dio (apocatastasi: "perfino l'inventore del male cioè il demonio unirà la propria voce nell'inno di gratitudine al Signore" : Or. catech., 26). E ciò era necessario per lo stesso fine per cui Dio ~ creato l'" uomo celeste," che, d'altra parte, non lo avrebbe compreso e amato senza il peccato, sehza l'esistenza; ma poiché, tuttavia, l'esistenza, l'afiermazione di' sé allontana sempre di piu l'" uomo terrestre" da Dio, di qui, sempre per lo stesso fine di Dio, l'invio da parte di Dio del Cristo, uomo senza peccato. Gregorio cosi, estendendo all'umanità tutta l'esperienza propria del Cristiano che, redento da Cristo, attraverso il Cristo, imitando il Cristo, ritrova in se stesso sé simile a Dio, per cui cessa di essere individuo, e fuoriuscendo da sé (estan) coglie in sé tutta l'umanità una in Dio, in una visione che è una non visione umana, in una pura luminosità, che priva di ombra, cioè di limite, essenza pura, essere uno, è indiscorribilità, è cecità, in una vita che è morte di questa vita, riportava il tutto a Dio, in un compimento del ciclo (da Dio al mondo all'uomo e, attraverso il Cristo, dal mondo all'uomo a Dio), che alla fine, nega la volontà e gratuità di Dio, in un circolo che diviene naturale.
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3. La "koinè" culturale nel IV secolo e le sue componenti. Cultura e testi nel mondo di lingua latina. Il "platonismo" tra il IV e il V secolo In Gregorio di Nissa chiaro appare entro i termini del Dio creatore e volontà, donde scaturisce il mondo (ricostruibile poi razionalmente, usando sia Platone sia Aristotele sia gli stoici) e, con il peccato di Adamo, la caduta, il limite, la molteplicità e spezzettamento, e il ritorno a Dio, dovuto a un altrettanto atto di volontà di Dio, mediante il Verbo fatto uomo, il tentativo di fondare una "filosofia" cristiana (per altro assai vicina a quella di Origene). Entro questi termini, entro questa concezione e al lume di questa, si capisce che, a seconda di certe esigenze, di certe aporie e difficoltà, potevano servire molte delle soluzioni offerte appunto dalla traduzione e dalle rielaborazioni della fisica e della logica classiche. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso si sia usato particolarmente Platone, attraverso l'interpretazione di Filone l'Ebreo e dei neoplatonici, e, per altro verso, certe pagine di Aristotele, per ciò che riguarda la fisica, l'anima, la logica. Entro questa koinè culturale di sfondo, che, attraverso anche la crisi politica dell'Impero, e l'incontro politico-sociale tra la Chiesa e lo Stato, è venuta sostituendo, sia pur in una sua continuità, la concezione culturale di sfondo, la koinè propria della fine del 1 secolo a. C., protrattasi fin verso il m d. C., è difficile distinguere tra ciò che è greco-romano e ciò che è cristiano, ché, appunto, si viene costituendo ora una concezione culturale di sfondo che non è piu né quella greco-romana né quella cristiana originaria. La tesi cristiana, se mai, viene rimessa in discussione, in quanto, particolarmente in seno alle scuole, presso uomini educati e formati sui testi e sulle questioni dei grandi filosofi, essa appare non verace su di un piano logico-dimostrativo, appare non razionale. E perciò retorico-sofistici, retorico-politici/ sembrano essere i discorsi, le omelie, la propaganda fatti dalla Chiesa, dai suoi vescovi, dai suoi partigiani. La forza propagandistica della Chiesa era stata, naturalmente, ben maggiore di quella delle scuole, queste ultime rivolte, com'è chiaro, a una élite, mentre la Chiesa, con le sue stesse discussioni interne a questioni teologiche, di cui abbiamo veduto l'importanza politica, si rivolge a pubblici piu vasti, suscita interessi politici e morali, che le scuole non potevano piu muovere. Il che non significa che sul piano della convinzione, della rielaborazione della nuova concezione non si usassero i risultati, le discussioni, la dialettica propria delle scuole, ·nelle quali peraltro si venivano preparando gli uomini che, ~i, non piu nella scuola, ma nella Chiesa, nelle loro posizioni ecclesiastico-politiche
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raggiunte, proponevano la propria ideologia civile. E cosi, indipendentemente dalle questioni piu strettamente teologiche e rivelazionistiche, sul piano della preparazione culturale e della formazione dei futuri dirigenti, dirigenti ecclesiastici o funzionari dello Stato, funzionavano benissimo gli antichi repertori, i florilegi, le introduzioni, i manuali, le sistemazioni delle cognizioni fisiche, botaniche, zoologiche, matematiche e cosi via, accanto ai florilegi, ai repertori delle massime morali - distaccate dai loro contesti - della sapienza antica, ai manuali di arte retorica (non a caso San Basilio in uno scritto dedicato ai figli di una sua sorella per guidarli negli studi, sosteneva il valore della letteratura e della cultura classiche, in quanto preparatorie della formazione dell'uomo cristiano: Discorso ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura pagana). E molto indicativo è, per altro, ricordare cosa si leggeva - sul piano di una cultura superiore -, cosa (interessante soprattutto per l'Occidente e il mondo latino) si traduceva e si commentava. Che, appunto, in funzione di una preparazione culturale, siano stati tradotti é commentati certi testi, piuttosto che altri, se da un lato chiarisce quali potevano essere le esigenze e le richieste di una certa cultura, dall'altro lato rende conto di come, a sua volta, quella certa cultura sia stata influenzata e modificata, di come si sono introdotti temi e problemi e testi, che diverranno poi i prob./emi e i temi e i testi (donde nuovi conflitti e interpretazioni diverse, in seno allo stesso Cristianesimo, che, evidentemente; non va considerato come una unica dottrina, in blocco, ma anch'esso nella sua formazione storiça). E qui, in particolare, pensiamo, per il mondo latino, alle opere di Calcidio, di Firmico Materno, di Macrobio, di Mario Vittorino, e per il mondo greco a quelle di Temistio e di Nemesio di Emesa, indipendentemente ora dalla considerazione che tali autori fossero o no cristiani, si siano o meno convertiti al Cristianesimo. a) Calcidio. Macrobio. Nemesio di Emesa. Temistio. È piu che nota l'influenza e l'importanza ch'ebbe nel Medioevo latino la traduzione che Calcidio 41 fece del T imeo di Platone: non sappiamo se Cal41 Della vita di Calcidio, fiorito nella prima metà del IV secolo, sappiamo pochissimo. Di lui possediamo la versione in latino del Timeo di Platone (fino a p. 53c) e il relativo Commento. Traduzione e commento sono dedicati a un Osio, che, secondo la lettera prefatoria, avrebbe spinto Calcidio all'opera. La tradizione manoscritta identifica Osio con Osio vescovo di Cordoba dal 295, che prese parte ai Concili di Nicea (325) e di Sardica (343), e che fu in relazione con l'Imperatore Costantino. Si è, cosi,' detto che Calcidio fu diacono a Cordoba, e che fu cristiano (ch'egli, nel Commento, dimostri di conoscere bene la Bibbia, che la ritenga ispirata da Dio, che citi Origene, e interpreti certi motivi della religione cristiana, non sembrano, in quest'epoca, argomenti tali da dimostrare che Calcidio fosse necessariamente cristiano).
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cidio l'abbia tradotto integralmente o abbia tradotto la prima parte soltanto; nel Medioevo se ne leggeva certo da pagina 17a a pagina 53c, cioè tutta la parte cosmologico-logica (intendendo per logica, in senso neoplatonico-pitagorico, la traduzione in termini matematico-geometrici della struttura della realtà): e anche questo è assai indicativo. Ancora piu importante è il commento con cui Calcidio accompagna la sua traduzione. Il commento, derivi o meno da quello di Adrasto e, per via indiretta, da quello di Posidonio - difficile è dare una risposta esatta, ché l'uno e l'altro commento sono andati perduti, - certo è che il commento calcidiano s'inquadra con precisione entro i termini dell'interpretazione che del Timeo platonico avevano dato i platonici del n e del m secolo (forte, senza dubbio, fu l'influenza di Albino, di Numenio, di Porfirio, accanto a quella di Filone l'Ebreo, di alcuni stoici: cfr. le stesse citazioni interne al commento: vedi indici edizione Waszink). Anche un breve schizzo dell'interpretazione di Calcidio, per chi abbia presente la funzione avuta dal Timeo platonico, tra il 1 secolo a. C. e il n-m secolo d. C., e le interpretazioni datene (cfr. sopra), rende conto di quanto sopra dicevamo. Tre, dice Calcidio, sono i principi (initia) del tutto: Deus et silva et exemplum (vedi Albino). E qui va sottolineato che Calcidio traduce il termine hYle, materia, con il termine silva. Una piu approfondita discussione sul perché Calcidio calchi il termine hyle e non usi il corrispettivo latino materia, porterebbe a chiarire già tutto un modo di. interpretazione in una certa direzione, e cioè che in effetto al termine materies, indicante, dopo l'uso fattone da Lucrezio, la matrice vitale, donde scaturisce e fruttifica la realtà, per cui le forme e le qualità sono i prodotti della matrice vitale, si oppone il concetto di materia intelligibile, di materia intesa, in quanto condizione logica del discorso delle forme, come estensione e spazialità, condizione della configurazione geometrica (corporea), per cui la materia non è corpo, s1 come non è corpo l'intelligibile unità della molteplicità dell'Essere, in senso platonico-neoplatonico. Dio, silva ed esempio (Idea), dunque, sono initia delle cose: Dio, in quanto bene sommo, ragion d'essere del tutto, per cui tutto è come è bene che sia, è logicamente oltre ogni sostanza; fondamento della natura è oltre la natura: perfetto e assoluto è oltre ogni comprendere, è indefinibile; è primo e ultimo come termine d'amore, in quanto che per il limite, per l'imperfetto si pone come esigenza, come desiderio, come amore. Ragione· d'essere del tutto, l'intelletto (nùs) divino è provvidenza, da ·cui .scaturisce il necessario costituirsi delle cose, il mondo che si determina secondo una necessaria natura, in una necessaria catena (fato), che, in quanto compresa, diviene l'anima del mondo, il divino spirito (il secondo Intelletto) che il tutto regge in
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unità. Dio, dunque, uno, avente in sé il proprio Intelletto, da un lato volto all'Uno divino, dall'altro al pensiero di sé come pensato (le idee), Dio è ad un tempo, e sempre in atto, unità vivente di Intelletto-intelligibili, per cui· le idee e l'intelletto, il mondo intelligibile è sempre in atto in Dio, onde, insieme a Dio, le idee sono sempre in atto, abbietti dell'intelletto, i modelli, le forme; e come senza Dio, ragion d'essere del tutto, nulla è concepibile, cosi senza le idee, senza il mondo intelligibile (Intelletto-idee), nulla ha possibilità di esistenza, per cui, con Dio, l'Idea (mondo intelligibile: Calcidio usa il singolare, exemplum, e non il plurale, allorché parla di initia, in quanto exemplum, l'Idea è in atto l'Intelletto-intelligibile) è initium ed exemplum delle cose. "Per riassumere il molto in poche parole, ecco come bisogna rappresentarci tutto questo. L'origine delle cose, da cui riceve la sua sostanza tutto il resto è il supremo e ineffabile Dio. Dopo di lui viene la sua Provvidenza, il secondo Dio, legislatore dell'una e dell'altra vita, l'eterna sf come la temporale. Pongo terza la sostanza che viene detta Pensiero secondo e secondo Intelletto, come una specie di custode della vita eterna. Ho letto che le anime razionali che obbediscono alla legge son loro sottomesse, che per ministre hanno le seguenti potenze : la Natura, la Fortuna, il Caso e i Dèmoni che scrutano e investigano i meriti. Il Dio supremo, cosi, comanda, il secondo ordina, il terzo intima, e le anime agiscono secondo la legge" (Comm., 188). Obbietti dell'Intelletto, le idee (exempla) esse sono reali in quanto, in atto, concetti di Dio (visibilj, perciò, solo con l'occhio dell'intelletto, esse non hanno colore, figura sensibile, tattilità), intellezioni di Dio, esse sono, appunto, idee. Se, ora, da un lato, la ragione implica che condizione dell'esistere e del discorso sono Dio e le idee, l'esperienza (resolutio, analisi: cfr. 302-303) che ci pone di fronte a un mondo di figure, di esistenze, di forme aventi corpo, implica che a fondamento dei corpi, dei simulacra degli exempla, cioè degli exempla (sostanze prime) determinati in configurazioni (sostanza seconda, natura), vi sia l'estensione, una pura potenzialità di assumere forme, la silva incorporea. Dio, dunque, uno e, ad un tempo, abbietto di sé nelle idee, reali in quanto presenti in eterno nella mente di Dio (per cui i due initia, Dio e l'Idea, possono essere considerati èome un solo inizio o principio) e .la silva, potenzialità pura, estensione, non corpo, ma ricettacolo, condizione dei corpi, Dio e la silva sono le due condizioni, i principi logici dell'esistere (ex Deo et silva factus est ille mundus), donde scaturiscono in realtà, esistenzialmente, le cose tu~te, aventi una propria figura corporea (sostanza seconda, simulacro della sostanza prima). Dio, dialetticamente uno nel suo esser pensante-pensato (Intelligibile), oltre la sua stessa dialetticità, sempre in atto in .quanto essere perfetto, Dio-lntel-
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letto è non tempo, è vita in sé perfettamente conchiusa; e tale, rispetto alla possibilità di esistenza delle idee, è la materia, l'idea materia, in tal senso coeterna a Dio, miticamente il caos primario; tempo, in quanto determinazione e configurazione, il mondo delle cose, che, assunto nella sua totalità, è specchio dell'eterno; in realtà, quel mondo, che logicamente presuppone due principi (Dio-materia), donde scaturiscono i gradi di tutte le cose, è uno tutto in atto in Dio: "Il mondo intelligibile è sempre; questo mondo, che n'è il simulacro è sempre stato, è e sarà" (25, 91); e perciò, si come rispetto a Dio uno e perfetto, ineffabile, l'Idea (l'Intelletto), che trova il suo fondamento in Dio, è generata da Dio, cosi in quanto coeterna a Dio condizione dell'esserci delle cose, dell'esistere delle idee, la materia, rispetto a Dio uno e perfetto, in sé tutto compiuto, è generata da Dio. Calcidio qui si riferisce esplicitamente alla Bibbia e a Origene (" Hebraei silvam generatam esse censent; Quorum sapientissimus Moyses non humana facundia sed divina, ut ferunt, inspiratione... Origenes asseverat ita sibi ad Hebraeis...," 276). Il commento di Calcidio segue passo passo il testo del Timeo, in un'interpretazione, ove sfruttando motivi platonici (Albino, Numenio), pitagorici, stoici, plotiniani, si recupera il Timeo, il piu diffuso dei dialoghi platonici, in funzione dell'inveramento della cultura classica nei termini della concezione ebraico-cristiana. Non a caso la traduzione del Timeo e il commento furono fatti da Calcidio su richiesta di Osio, vescovo di Cordoba, amico di Costantino, presente al Concilio di Nicea (325) e a quello di Sardica (343). Sembra che lo stesso Calcidio fosse cristiano : forse fu diacono della diocesi di Cordoba. Si è detto che il Commento esula da una concezione cristiana, che è il frutto di un grossolano eclettismo, una giustapposizione delle piu svariate teorie, molte delle quali sono inconciliabili coi testi citati da Calcidio sia dal Vecchio che dal Nuovo Testamento, cioè (si è detto) con la sua fede religiosa. Un piu approfondito ~tudio del testo calcidiano, una piu esatta collocazione storica del lavoro, mostra da un lato quale fosse la circolazione e la diffusione delle idee in quest'epoca (e qui va detto che Calcidio fu poi nel Medioevo latino la fonte attraverso cui si conobbero molti autori e interpretazioni di lingua greca), dall'altro lato che il testo calcidiano s'inquadra perfettamente in quella koinè culturale di cui parlavamo, e nella quale è, ormai, difficile distinguere uno sfondo culturale propriamente cristiano, quando non si tratti dei problemi della trinità, della natura del Cristo, ma, accettata la fondazione della ragione sulla fede, si tratti di un possibile discorso sulla realtà (e qui pensiamo anche ad -Alessandro di Licopoli, vissuto nel m-Iv secolo, che, pur non essendo cristiano, interpreta in chiave cristiana il rapporto uno-molti della tradizione platonica; cfr. il suo trattato
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contro i Manichei: Contro le opinioni di un Manicheo, ed. a cura di A. Bìrkmann, Lipsia, 1895). Lo stesso discorso va ripetuto per un altro commento celebre che ebbe grandissima parte nella preparazione culturale del Medioevo latino, per tutto un modo di interpretare Platone, attraverso Plotino e Porfirio, e attraverso un Cicerone, veduto in chiave neoplatonico-stoica e pitagorica. Si tratta del Commento al Somnium Scipionis di Cicerone, composto da Ambrosio Macrobio T eodosio 5 (nato nel 360 circa, probabilmente in Africa, convertitosi, sembra, in tarda età al Cristianesimo). Le fonti dell'interpretazione macrobiana sono in particolare Plotino (princeps philosophiae, egli dice: Comm., I, 8, 5) e Porfirio. Di Piotino egli espone la dottrina di Dio uno e perfetto, ineffabile, vivente in unità (generante), mediante sé Intelletto-intelligibili (idee, obbietti della mente divina), da cui (dall'intelletto monade) si genera il discorso (la numerabilità, SI come dal punto i corpi) e la possibilità dell'unità stessa del discorso della realtà, molteplice nei suoi aspetti, una nella sua totalità, nella coscienza dell'unità del discorso (anima mundi, la quale, come l'intelletto ha in sé le idee e i numeri, ha in sé le anime). E cosi Macrobio riassume la tesi plotinico-neoplatonica secondo cui la molteplicità, il limite è dovuto all'affermazione singolare delle anime, che volgendosi a se stesse, piuttosto che all'anima una e attraverso questa all'Intelletto e a Dio, da cui provengono, si disperdono nel limite, nel terrestre, divenendo corporee, limitate, passive, finché, convertendosi in sé, ricordandosi di sé (reminiscenza), non si liberano dal limite (corpo-carcere), dalla passione, dalla sensibilità, per ripercorrere all'incontrario i gradi della l~ro caduta, da cui avevano assunto le proprie facoltà. L'anima nel suo decadere fino a divenire terrestre è passata attraverso tutte le sfere celesti (da Saturno, dal quale ha acquisito il ragionamento e l'intelligenza, a Giove da cui ha assunto la capacità di agire, a Marte che le ha dato l'animosità, al Sole da cui le è derivata la capacità d'interpretare e di esprimersi, alla Luna che le ha dato le facoltà nutritive). Convertendosi a sé, ricordando se stessa ra:1-ionalità li Ambrosia Macrobio Teodosio, nato nel 360 circa, di origine greca, nato forse in Africa, fu nel 390-91 praefectus praetorio Hispaniarum, nd 4!0 procomole d'Africa, nel 422 praepositw sacri cubiculi. Di lui non sappiamo altro. Delle sue opere, che ebbero un enorme peso nella cultura del Medioevo, si sono conservate: De dilferentiis et societatibus graeci latinique verbi, in estratti (opera grammaticale); Commento al Sogno di Scipione (in due libri, dedicati al figlio Eustachio: commento del VI libro della Repubblica di Cicerone); Saturnali (in sette libri, dedicati al figlio Eustachio, composti nel 395 circa, prima che fosse edito il commento a Virgilio di Servio: seguono la tecnica letteraria dei simposi e formalmente si possono avvicinare ai Solisti a banchetto di Ateneo: si tratta dei piu svariati argomenti in conversazioni che si fingono tenute durante banchetti fatti in occasione delle feste dei Saturnali. Particolarmente importanti i libri lli·VI in cui si fa di Virgilio il sommo maestro).
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e intelligenza, divino, anche se fioco, lume proprio dell'anima, l'anima di purificazione in purificazione, ritornerà a s~ medesima, cioè a Dio (soprattutto a Porfirio rimandano le pagine macrobiane sull'ascesa purificatoria e sulle virtu: cfr. sopra), a quella pura luminosità che si irradia su tutte le cose e tutte le connette in vincoli reciproci e concatenati. L'anima, dunque, sostiene Macrobio, di contro alla definizione aristotelica dell'anima "forma di un corpo organico avente la vita in potenza," in quanto è intelletto e razionalità, in ciò simile all'essenza divina rivelante se stessa nel rapporto vitale Intelletto-intelligibile, ha la stessa essenza di Dio, ed è perciò immortale, semovente, vita, che può, riassorbendo i corpi in sé (ché la corporeità è l'incoscienza dell'anima fuori di sé), ritornare ad essere pienezza di vita, una nell'Intelletto e in Dio. È questo uno dei temi piu dibattuti nel Iv secolo e che attraverso Macrobio e Calcidio diverrà poi una delle questioni piu complesse del Medioevo, impostata aristotelicamente o platonicamente. Accettare la tesi di Aristotele o quella platonica sull'anima significava, per altro verso, in sede teologica, rivolgersi a una. soluzione di tipo mistico o a una soluzione di tipo fisico. Ciò sì vede bene in un autore cristiano, vissuto tra il IV e il v secolo, Nemesio,6 vescovo di Emesa in Fenicia, la cui opera Della natura dell'uomo - ritenuta per secoli di Gregorio di Nissa - ebbe una grande influenza nel Medioevo; egli, rifacendosi a Gregorio di Nissa, imposta il suo discorso sull'uomo in termini neoplatonici, ponendo l'uomo microcosmo al centro dell'universo, termine mediq tra l'Unità suprema e il termine ultimo dell'emanazione, la corporeità e la materia. Nemesio, forse, riprendendo da Posidonio (l'affievolirsi della forza coesiva che regge il tutto in unità, razionalmente, determina nelle sue ultime propaggini la dispersione e per ciò stesso l'irrazionalità), puntando sul motivo plotiniano dell'anima_ coscienza, può sostenere che l'uomo, in quanto capacità di comprendere, riassume in sé la dispersione in unità, volgendosi alla quale ritrova se stesso simile a Dio, unità vivente del tutto, che il tutto trascende. La scienza prima, dunque, è, per Nemesio, la: scienza dell'anima, lo studio dell'uomo, attraverso cui è possibile rendersi conto della struttura stessa dell'universo e di Dio. Fondamentale è, quindi, per la definizione dell'anima, discutere le varie interpretazioni di essa, che Nemesio raccoglie in due grandi filoni, la concezione platonica per cui l'anima è incorporea, è consapevolezza di sé, unità vivente, e in questo senso substantia incorporea suimet expletiva, e la concezione aristotelica per 6 Di Nemesio si sa solo che fu vescovo di Emesa, in Fenicia, e che fiori sulla fine del IV e il principio del v secolo. Di lui non si conosce che un'opera: Sulla natura dell'uomo.
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~ui l'anima
è "l'atto primo del corpo naturale che ha la vita in potenza." Scelta delle due definizioni la prima, ché quella aristotelica nega all'anima la possibilità di volgersi all'essere, con molta finezza Nemesio propone una serie di aporie relative alla concezione dell'anima sostanza che si serve del corpo come uno strumento, avendo, dunque, ad un tempo, la funzione di forma, là dove poi diviene difficile spiegare come possano fare un tutt'uno due realtà eterogenee (anima e corpo). Nemesio risolve la questione rifacendosi alla tesi plotiniana della corporeità non realtà per sé, ma coscienza che l'anima ha di sé come limite, onde riassorbendo il corpo in sé se ne libera attraverso lo stesso discorso. Ciò non significa che sul piano sensibile il problema della corporeità non si possa risolvere in termini aristotelici, mentre quello della conoscenza e dei fondamenti del conoscere (sensibilità, fantasia, phantaston-phantasma, memoria) non si possa risolvere in terlT,lini stoici, finché, posto che le cose sono immagini esteriorizzate delle idee che sono nell'anima e attraverso l'anima nell'intelletto e attraverso questo in Dio, il discorso dell'anima vien coincidendo con il discorso di Dio (Intelletto-intelligibile). Platonismo e aristotelismo si congiungevano insieme in Nemesio: il platonismo per ciò che riguarda l'anima e lo strutturarsi dell'universo, obbietto e proiezione dell'intelletto uno di Dio, che, trascendente, in sé raccoglie il tutto in unità; l'aristotelismo per ciò che riguarda gli aspetti scientifico-descrittivi sia della corporeità sia dei momenti passivi dell'anima. Entro quest'àmbito assume un suo particolare significato l'opera di Temistio,7 nato in PaAagonia, nel 317 circa, morto nel 388, da cui chiaramente risulta la consapevolezza di due piani di ricerca: l'uno volto alla ricerca dell'Esser.e, alla risoluzione dell'uomo in Dio, per cui con i platonici si può dire che la filosofia consista nel farsi simili a Dio; l'altro volto orizzontalmente allo studio di come è che l'uomo pensa, di come agisce, di come conosce, di come funziona l'intelletto umano, di quali sono le condizioni del suo concepire. E i due piani - il platonico e l'aristotelico - non sono affatto in contrasto, ché l'uno 7 Nato in Paflagonia nel 317 circa, Temistio dal 337 visse alla corte di Costantinopoli, in amichevoli rapporti con gl'imperatori che si successero da Costanzo a Teodosio. Fu senatore nel 355, proconsole nel 358, prefetto di Costantinopoli nel 384. Temistio mori" nel 388 circa. Restano di lui: Parafrasi degli "Analitici' secondi"; Commento della "Fisica"; Commento del "De anima"; Parafrasi del "De coelo" (giunto in traduzione ebraica); Parafrasi del libro XII (il libro) della "Metafisica" (giunta in traduzione ebraica); Trentaquattro discorsi politici. Perdute sono andate le seguenti opere: Commento delle "Categorie"; Commento degli "Analitici secondi"; Commento dei "To(Jici"; Commento del "De sensu"; Commento del "De generatione et co"uptione"; Commento della "Etica Nicomachea"; Commento a Platone; Sulla virtu; Sull'anima; Lettere a Libanio, a Gregorio di Nazianzo, a Giuliano Imperatore.
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risponde a un tipo di esigenza umana, J'altro ad altro tipo di esigenza. Sotto questo aspetto se da un lato si capisce come Temistio, vissuto a Costantinopoli, uomo di scuola e oratore, non abbia subito attacchi né da parte avversa al Cristianesimo né da parte cristiana, neppure sotto Teodosio (fu senatore nel 355, proconsole nel 358, prefetto di Costantinopoli nel 384), dall'altro lato si capisce come Temistio, da una parte commenti testi platonici ('E!;'YjyY)"rtxot 1t6vot dc; -rò: ID.ot"t'Cù'lltxlf: andati perduti, cfr. Fozio, Bibl., cod. 74), dall'altra parte soprattutto testi di Aristotele (Parafrasi degli Analitici posteriori e degli Analitici primi, questi ultimi perduti; Commenti alla Fisica e all'Anima; Commenti alle Categorie, ai T apici, al De sensu, al De generatione et corruptione, all'Etica Nicomachea, perduti; Parafrasi del XII della Metafisica e del De coelo, rimaste in traduzione ebraica). Temistio cosi, che dai suoi trentaquattro Discorsi politici (A6yot 7toÀmxo() rimasti (oltre a molte altre orazioni, tra cui un'Epistola protrettica a Giuliano, sono andati persi due trattati di morale, Sulla virtu e Sull'anima e le lettere a Libanio e a Gregorio di Nazianw), appare soprattutto preoccupato di distinguere il piano della vita attiva e della ricerca scientifica, per cui, per una piu piena estrinsecazione della vita umana, tien sull'avviso dai pericoli insiti nelle tesi mistiche dei neoplatonici, particolarmente attraverso i suoi commenti ad Aristotele .presenta un vasto materiale, che servirà non poco alla preparazione culturale. Cosi, importanza notevole avrà poi il commento di Temistio a L'Anima di Aristotele, relativamente alla vexata quaestio sul rapporto intelletto agente (separato) e intelletto in potenza, secondo Temistio anch'esso separato. Era qui il punto su cui si poteva connettere il piano aristotelico al piano platonico. Se l'animalità, in quanto nutrizione e sensibilità, cioè in quanto vitalità è, per Temistio, ciò senza di cui un corpo vitale e organico, nella sua singolarità, non sarebbe, l'anima, sotto questo aspetto, è forma e atto del corpo. L'intelletto, allora, in quanto capacità di cogliere la struttura intelligibile del tutto, non è anima, non è né parte né capacità dell'anima (oil-r~; 8Uvoc.!J.Lc; oiln !J.Époç T'ijc; 7tpo~;tp'Yj!J.ÉV'Yjç tJiu:x;'ijc;: De anima, ed. Heinz, III, 49, 8-10); esso ha una sua essenzialità (usia) altra e piu nobile di quella dell'anima (ib.). D'altra parte, come l'anima è forma del corpo, per cui il corpo vivente si risolve nell'anima e nelle sue funzioni, cosi - per quel che riguarda gli animali superiori che posseggono la fantasia: III, 49, 7-8 -, l'anima vegetativo-sensitiva si risolve nella fantasia, che è, perciò, forma e atto dell'anima sensitiva (VI, 100, 29-30). E poiché, ancora, nell'animale uomo v'è la capacità di discorrere e di giudicare i dati della fantasia, cioè vi è la ragione, nella ragione si risolve la fantasia, per cui la ragione è da un lato forma e dall'altro, in quanto possibilità di inten·
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dere nella sua unità vivente il discorso, è intelletto in potenza. L'intelletto potenziale, dunque, è forma della fantasia, e, dunque, esso non è proprio di questo o di quell'individuo, ma è proprio di tutta l'umanità in quanto capacità razionale, in cui si risolve il corpo, l'anima sensitivo-vegetativa, la fantasia, esso perciò è forma, impassibile, e in questo senso separato. Infine, l'intelletto potenziale, come capacità di intendere in atto l'unità vivente colta razionalmente, implica e presuppone l'atto dell'intendere, che costituisce l'intellezione, presuppone cioè l'intelletto agente, sempre in atto, l'attualità dell'intellezione in atto. L'intelletto in potenza, forma della fantasia, forma della sensibilità, forma del corpo vivente, cioè dell'anima in cui si risolve la corporeità, per cui l'anima si risolve nella fantasia, che si risolve nell'intelletto in potenza, l'intelletto in potenza uno si risolve nell'intelletto agente. L'intelletto agente è perciò forma delle forme, ciò mediante cui si attua l'intellezione: esso è dunque separato, e, relativamente all'uomo, costituendo ciò per cui l'uomo è quello che è, ciò per cui nell'uomo si incentra l'universo, esso è la nostra piu vera essenza (~fLdc; oòv b 7tOLlJTLxÒc; vouc;: VI, 100, 37 sgg.): l'intelletto viene ad essere l'intelletto, l'intelletto passivo gli intelligibili; l'uno e l'altro sempre in atto, in quanto intellezione. Temistio cosi, relativamente all'uomo, risolvendo nell'intelletto in potenza tutte le funzioni dell'anima, consapevole di sé nel suo essere discorso, poteva sostenere che perciò l'intelletto in potenza è uno, e risolvendo in sé i corpi e la molteplicità, è impassibile, per cui, in realtà, sembra che l'intelletto in potenza sia interpretato da Temistio in senso plotiniano, cioè che l'intelletto in potenza sia l'Anima mundi di Plotino, e che l'intelletto agente che realizza in sé e invera, illumilandolo, l'intelletto potenziale, nelrintellezione in atto, sia l'Intelletto ii Plotino. T emistio in tale modo poteva innestare Aristotele e Plaone sulla linea dell'interpretazione neoplatonica. b) Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la circolazione di :lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E qui va :nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, mori a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al Cristianesimo (sulla sua cunrsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui restano: Ars grammatica; Commento al "De inventiont:" di Cicerone; De
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e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare significato. Se cosi. da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compose un'Ars grammatica e commentò il De inventione e i To[iici di Cicerone, dall'altro lato tradusse il De interpretatione e le Categorie di Aristotele, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di logica, il De definitionibus e il De syllogismis hypotheticis, mentre traduceva I'Isagoge di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano· molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa l'accordo, uri tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle Categorie e al De interpretatione di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a cui aveva dato l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente . necessarie, costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (t6poz), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie c del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'/sagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece Boezio), la versione di parte almeno delle Enneadi di Platino, il De syllogismis hypotheticis.
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del Cristianesimo dal piano logico al piano della fondazione del discorso su di un atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-<:ristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neoplatonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione: l. La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà; 2. Nell'insegnamento neoplatonico si trova che la condizione stessa del discorso si coglie in una conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro; 3. Si riconosce alla fine, che la possibilità della "conversione," dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma, nel 357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si appartò dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neoplatoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: Della generazione del V erba divino (358), in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere che il V erba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio recipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico: se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità in cui tutto è indistÌnto, uno nell'uno ("hoc enim unum ante on," "supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omncrn conoscentiam, super omne on et pantòn 6nt6n ònta "), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa
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sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere, anzi, rispettivamente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non essere (Generazione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzialmente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua creazione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (" Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus ergo a semetipso et Deus est" : 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno (" neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex ") non è - dice Vittorino - necessario ricercare. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepassando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le definizioni e cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristotele, si come certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare a Boezio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col neoplatonismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'essere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo" : e qui pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Calcidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristotele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e
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Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibilità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpretandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della preparazione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è )pportuno ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Ana'itici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio ~retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore, governaore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole :lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno 9 piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui identifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Ma-· vorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia tramandato dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neoplatonici. Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza: se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, liberandosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercorrere le trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'ordine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose 9 Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania, pubblicò un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata Mathcsis, dedicata, appunto, a Lalliano, allora prooonsole d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade; i libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia). Convertitosi al Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350 scrisse il De errore profanarum rdigionum.
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si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa dell'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle Opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neoplatonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo.
c) Il ({ neoplatonismo" in Occidente e Sant'Agostino. Il ({ neoplato_nismo" nelle scuole di Alessandria e di Atene tra il IV e il V secolo (Ipazia, Sinesio, Jerocle, Teosebio; Plutarco di Atene, Siriano, Domnino) e la preparazione di Proclo. Entro i termini della discussione cristiana, particolarmente sul piano teologico, uno sembra essere il punto su cui si è maggiormente insistito e per cui si è ricorsi o meno al motivo dell'Uno in senso plotinico. La questione, nata dalla polemica nei confronti dell'interpretazione ariana del rapporto Dio-Verbo, stava nella possibilità o no di determinare l'essenza di Dio. Se, come sosteneva la corrente ariana, l'essere è l'essere, escludendo l'essere ogni determinazione, non essendovi oltre l'essere che l'essere, l'essere non può essere generato, onde l'essenza dell'essere è l'ingenerabilità. Posto ciò ne deriva che il Verbo o è identico all'Essere, a Dio, per cui in realtà non è, oppure se è, se assume una sua realtà, in quanto generato dall'Essere, da Dio, perciò stesso non è Dio, ché egli è generato, mentre Dio è ingenerato. Per evitare tale netta e convincente deduzione, con tutte le conseguenze, non solo strettamente teologiche,. ma politico-morali e religiose che ne seguono, bisognava sostenere che appunto perché l'Essere è Essere, perché Dio è colui che è, perché come aveva chiaramente interpretato Filone l'Ebreo, le creature, la realtà quale appare, nell'ordine dei suoi cieli e delle cose, dimostrano l'esistenza di Dio, ma non la sua essenza (si potrà conoscere ciò che è dietro a Dio, ma non la sua faccia), perché Dio è ciò senza di cui nulla è, dimostrano che Dio, l'Uno, non solo non è definibile, discorribile, noto, ma che di lui neppure si può dire che è ingenerabilità, ché sarebbe già un porne l'essenza. Bisognava porre Dio oltre ogni essenza, oltre l'essere, oltre l'esistenza (''oceano di essenze" diceva Gregorio di N azianzo; "preessere" diceva Vittorino). Sotto questo aspetto, relativamente a Dio e al rapporto Dio-Verbo, indipendentemente dall'altra questione del Dio vo-
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lontà e creazione, la lettura di Plotino e particolarmente dei testi plotiniani sull'Uno sembrava dare la chiave per sostenere di contro alla tesi ariana, la possibilità di affermare che Dio è l'Uno, il Padre, s1 come Dio è il Verbo, il Figlio, pur essendo, dell'uno e dell'altro, diverse le persone. Se su questa linea nella loro polemica nei confronti degli ariani, si erano mossi, in Oriente, i tre Cappadoci, in Occidente, nel mondo di lingua latina, tale problematica, negli stessi termini, si veniva diffondendo attraverso Mario Vittorino, e la traduzione ch'egli fece delle Enneadi di Plotino, per tacere di Macrobio, di Calcidio e dello stesso Firmico Materno, ricordando per altro, su testimonianza di Sant'Agostino, che in Roma non solo vivo si era mantenuto il ricordo di Plotino ed il rispetto per la sua altezza di pensatore, ma che ancora nel IV secolo attiva era in Roma la scuola di Plotino (" Plotini scholx Rom~ floruit "). Platone-Plotino, certi testi del corpo ermetico e di Porfirio assumevano, ora, nel mondo occidentale una ben precisa funzione e furono considerati come strumenti necessari alla chiarificazione della " fede" cristiana, sia da un lato nei confronti dell'arianesimo, sia dall'altro lato nei confronti del diffondersi dall'Oriente del manicheismo. Solo che, anche qui, l'inserzione del neoplatonismo riproponeva nell'annullamento della figura del Cristo nell'Uno tutto divino, o nell'annullamento dell'intervento gratuito di Dio (se tutto è dovuto a Dio, tutto è grazia e perciò nulla è grazia, in una necessità, per cui tutto va come deve andare, in un finale ritorno a Dio), una serie di nuovi problemi tra cui fondamentali divengono i problemi dell'intervento del Cristo, della predestinazione e della grazia, del male. Tali, appunto, sono i problemi di Sant'Agostino, africano, rètore, formatosi in questa atmosfera, problemi che, per altro, in Occidente si erano chiaramente già delineati, nella piu ampia diffusione di Plotino e di Origene -quest'ultimo fatto conoscere in latino da Sant'Ambrogio-, accettati, ma discussi, da Sant'Ilario di Poitiers (morto nel 368) e da Sant'Ambrogio da Milano (340-397), soprattutto intesi a mostrare, nell'interpretazione del biblico "io sono colui che sono," l'essenzialità di Dio, sostenuta con il ciò che "sempre è." Entro tali discussioni esegetiche assume un particolare valore la traduzione della Bibbia (la Volgata) di San Gerolamo (nato a Stridone in Dalmazia nel 342, morto nel 420): attraverso essa si fissa un testo, in una determinazione di termini e frasi, di cui si comprende l'importanza in quanto si tratta della interpretazione della parola di Dio.10 10 Nato a Treviri, nel 339 circa, da Ambrogio, prefetto delle Gallie, di una illustre famiglia senatoriale di Roma, la gms Amt!lia, mortogli il padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu avviato alla carriera amministrativa. Nominato nd 370 gover-
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Se con la morte di Giuliano imperatore (363), il rinnovato neoplatonismo giamblicheo, nelle piu complesse polemiche tra ariani e ortodossi, svoltesi al di fuori delle scuole, venne via via scomparendo, il natore consolare della Liguria e dell'Emilia, con sede a Milano, governò con profonda intelligenza ed equilibrio, rivelando notevoli doti di uomo politico; fattosi paciere tra cattolici e ariani durante le sommosse avvenute per la successione del vescovo ariano Aussenzio, le due parti avverse, di comune accordo, nel 374, lo acclamarono vescovo. Ricevuto il battesimo - egli era soltanto catecumeno - fu consacrato vescovo di Milano. Con l'aiuto del presbitero Simpliciano si addottrinò nelle Sacre Scritture e in teologia (egli particolarmente si dedicò allo studio dei Padri greci). Grande fu l'autorit\ di Ambrogio e la sua influenza in campo politico, in funzione della Chiesa di Roma, della sua libere:\, e per la supremazia del potere spirituale su quello civile. Profondamente subl l'influsso di Ambrogio l'Imperatore Teodosio. Durante il suo episcopato lottò con forza contro i residui dell'arianesimo, che s'era largamente diffuso nell'Italia settentrionale, ideologicamente facendosi forte, sia pur correggendole, delle tesi di Filone l'Ebreo, di Origene, di Basilio il "grande," e cercò, in tutti i modi, di ispirare la politica imperiale ai principi del Cristianesimo. Ambrogio morl nel 397. Interessanti, in quanto ispirati a Filone l'Ebreo e ad Origene, sono gli scritti esegetici di Ambrogio, in cui è applicato il metodo allegorico: I Tei libri sull'ETamerofll! (dopo il 389: il contenuto è ricavato dall'ETamerone di Basilio;) Del Paradiso (375); Caino e Abele (375); Noè e l'Arca (378 o 388); Abramo (omelie a catecumeni e a fedeli battezzati); /sacco e l'anima (388); Giacobbe e la 11ita beata (388); 11 patriarca Giuseppe (389); Apologia del profeta Da11id a Teodosio Augusto (383-389); Omelie (varie); Esposizione del Vangelo secondo San Luca (in I O libri, il III è sulla falsa riga delle Questioni ~t/angeliche di Eusebio di Cesarea). Importante, come tentativo di una sintesi della morale cristiana, è il De officiis ministrorum (391 ), in una imitazione del De officiis di Cicerone (il primo libro è sull'onesto, il secondo sull'utile, il terzo sui conflitti tra onesto e utile). Segnaliamo infine per la loro importanza sul piano dogmatico-teologico i seguenti scritti: A Graziano, sulla Fede (in 5 libri: sulla Trinit\); A Graziano, sullo Spirito Santo (381); L'incarnazione del Signore (contro gli ariani); Dci misteri; Della penitenza. Perduto è un trattato, citato da Agostino: De sacramento regenerationis si11e de Philosophia. Importante politicamente è il Contra Aurentium, del 386, scritto contro Valentiniano II che aveva. ordinato la consegna di alcune chiese agli ariani ("L'imperatore," esclama Ambrogio, "è dentro la Chiesa, non al di sopra"). Ilario, probabilmente nato a Poi tiers, nel 3 I 5 circa, convertitosi al Cristianesimo nel 350, fu poco dopo chiamato dal popolo a reggere la cattedra vescovile di Poitiers. Contro certe imposizioni di Costanzo, Ilario fu uno dei principali difensori in Occidente della fede nicena. Esiliato in Frigia, vi imparò il greco e poté cosl leggere e tradurre i grandi Padri orientali. Richiamato in Gallia, prosegui nella sua ~ttaglia, usando ora testi e posizioni di origine greca. Sotto questO: aspetto fu notevole tramite tra la cultura orientale-greca e l'occidentale. Il suo scritto principale è il Dc Trinitate. Morl nel 367-368. Sotto questo aspetto, in quanto attraverso di lui fluiscono in Occidente testi e problemi propri del mondo greco-orientale, assume una particolare importanza l'opera di traduttore in latino di opere greche, di Tirannia Rufina di Aquileia, nato nel 345, amico di San Gerolamo, vissuto in Egitto e a Gerusalemme, fondatore di monasteri e di comunit\ ascetiche. Egli tradusse, anche se non sempre con fedeltà, mofte volte parafrasando, altre adattando al proprio punto di vista: i quattro libri del Dei principii di Origene (nel 398); La retta fede in Dio dello Pseudo Origene (Adamanzio); il I libro dell'Apologia di Origene di Panfilo di Cesarea; parte delle Sentenze di Evagrio Pontico; la Storia ecclesia
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" neoplatonismo," indipendentemente dalle questioni cnstlane, ma non indipendentemente dai termini stessi in cui se ne discuteva negli ambienti cristiani, da un lato si venne approfondendo nella scuola platonica di Alessandria, dall'altro nella stessa Accademia di Atene. Senza dubbio, nelle scuole (al di fuori delle piu grosse questioni morali e politiche che agitavano il costituirsi del Cristianesimo), muovendosi su di un piano scolastico scientifico, nel determinare le condizioni che rendono pensabile la realtà, e le condizioni che rendono possibile una teologia filosoficamente convincente, i maestri delle scuole di Alessandria (da Ipazia a Olimpiodoro il Vecchio, a Jerocle, a Teosebio), e di Atene (da Plutarco di Atene, a Siriano, a Domnino, a Proclo), sembrano indifferenti alle polemiche cristiane, alle problematiche sorte in seno al Cristianesimo, anche se in realtà particolarmente ad Alessandria, l'influsso del neoplatonismo cristiano si fece non poco sentire, si come viceversa, almeno nei termini prospettati da Mario Vittorino, nel tentativo di usare Aristotele in funzione della esegesi di Platone, la scuola di Alessandria ha a sua volta influenzato, sia pur per la diffusione di certi testi, gli ambienti piu strettamente cristiani. Metodologicamente piu vicina al platonismo di Aristotele e alla grande tradizione scientifica di Alessandria, la scuola alessandrina si mosse in un'interpretazione di Platino inteso come colui che meglio aveva compreso le condizioni logiche del platonismo, mentre la scuola di Atene, c~ affiuirono non poche volte uomini preparatisi nella scuola di Alessandria, puntò maggiormente su di una interpretazione di Platone e di viaggi e l'intervenuta rottura con San Gerolamo sulla questione origenista) per la pressione dei Visigoti, nel 407, passato in Sicilia nel 409, mori a Messina nel 41 O. Nato a Stridone in Dalmazia nel 342 circa, Eusebio Gerolamo nel 462 si recò a Roma per completarvi i suoi studi. Nel 364-365 ricevette il battesimo dalle mani del papa Liberio. La sua fu soprattutto una vita dedita all'ascetismo e all'edificazione. Ovunque andò visse in solitudine, in monasteri, asceticamente: a Treviri si fece monaco; ad Aquileia frequentò Rufino (cfr. sopra) e visse cenobiticamente; in Oriente- ove si recò nel 373 - , dopo avere ascoltato ad Antiochia Apollinare di Laodicea, si ritirò nel deserto di Calcide vivendo da anacoreta. Tornato ad Antiochia, fu ordinato prete dal vescovo Paolino; nel 381, a Costantinopoli, s'incontra con Gregorio di Nazianzo; nel 382, al seguito del vescovo Paolino, tornò a Roma, dove divenne segretario del papa Damaso. Il papa volle da lui soprattutto lavori divulgativi e traduzioni. A Roma fondò un convento femminile, in casa di Marcella. Nel 384, morto .il papa Damaso, Gerolamo fu costretto ad allontanarsi da Roma (molti videro grossi pericoli nella sua critica scrit· turale). Di nuovo in Oriente, nel 485, dopo un breve soggiorno ad Alessandria, .si ritirò definitivamente a Betlemme, in una grotta. Là egli visse, lavorando, ininterrottamente fino alla morte, avvenuta nel 420. Se celebre è la sua traduzione latina della Bibbia, non vanno scordate le sue traduzioni di omelie di Origene, e particolarmente, del D~ principiis {perduto). Prezioso è il suo D~ viris illustribus (in 135 capitoli sono enumerati tutti gli scrittori cristiani, da S. Pietro a Gerolamo stesso: di ognuno sono citati i. titoli delle opere di cui è dato un breve sunto).
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Platino in funzione di una teologia, e di una logica teologica, da contrapporre all'assurda teologia cristiana. Ad Alessandria, sulla fine del IV secolo visse e insegnò lpazia, figlia del matematico ed astronomo T eone di Alessandria, la quale, per quel che si può dedurre dal suo piu noto discepolo Sinesio, sembra sia stata particolarmente dedita agli studi matematici (la Suda ha conservato i titoli di tre opere matematiche di lei), e abbia interpretato in chiave matematico-geometrica il motivo neoplatonico dell'unità dualità dell'Uno (monade delle monadi). Sembra che Ipazia, sempre a seconda di Sinesio, svolgesse il suo insegnamento, distinguendo il piano piu strettamente religioso-privato, dal piano logico-scientifico, in una ricerca che non concedeva nulla a tutto ciò che potesse avere sapore di dogma, di accettazione sentimentale di una qualche tesi. Lo stesso Sinesio, nato a Cirene, nel 370 circa, pas~ato alla tesi cristiana attraverso il neoplatonismo (il neoplatonismo di Sinesio è assai vicino a quello giamblicheo, in un'accentuazione dell'unità trinità· di Dio, donde poi discendono gli spiriti, e della materia intesa come limite e dispersione opposta all'unità divina, ove, non poco si risente la influenza degli Oracoli caldaici, cfr. Inni filosofict), distingue con molta precisione la ricerca filosofica da quella che possa essere la credenza in Dio volontà e persona, nel Dio cristiano. Non a caso egli, che sempre si dichiarò fedele agli insegnamenti di lpazia, se da un lato non vide niente di male ad abbracciare la fede cristiana, dall'altro lato, allorché nel 409, Teofilo. patriarca di Alessandria, lo nominò vescovo di Tolemaide, voleva rifiu tare sostenendo che in quanto vescovo, dovendo parlare al popolo, avrebbe dovuto abbandonare molte delle sue convinzioni filosofiche. Ma fu, probabilmente, proprio questo atteggiamento di Ipazia, que· sto suo rimanere sul piano della ricerca distinto dall'altro piano della fede, che fece sembrare estremamente pericoloso per la, propagand~ cri· stiana sostenuta dal vescovo Cirillo, l'insegnamento di Ipazia, tanto ch'egli la fece apparire come responsabile di certe difficoltà incontrate dai Cristiani in Alessandria, suscitandole contro, in nome di Dio, nel 415, un gruppo di fanatici, che la uccisero in un barbaro linciaggio. Scolarchi della scuola platonica di Alessandria furono nella prima metà del v secolo Olimpiodoro, Jerocle e Teosebio. Di Olimpiodoro, detto il Vecchio (per distinguerlo da Olimpiodoro vissuto nel vi secolo, anch'egli legato alla scuola di Alessandria) non possediamo nulla e sappiamo solo (cfr. Marino, Vita Procli, 9) che commentò testi aristotelici e platonici e che fu maestro di Proclo (Proclo sposò la figlia di Olirnpiodoro). Jerocle, che fu discepolo di Plutarco ad Atene, e del quale sono rimasti il Commento ai versi aurei di Pitagora e alcuni frammenti di una sua opera Sulla provvidenza, sul Fato e sulla situa-
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zione della nostra libertà rispetto alla potenza divina, appare volto a interpretare testi platonici, pitagorici e pseudo-pitagorici, aristotelici in funzione di un assai generico platonismo, rifacentesi particolarmente ad Albino, Apuleio, Massimo di Tiro, entro cui fa rientrare anche la tesi cristiana. In realtà, l'interesse di Jerocle è particolarmente volto, entro la concezione platonico-neoplatonica (dall'uno Dio si costituiscono diverse specie di divinità: dal Demiurgo alle divinità inferiori, angeli, dèmoni, eroi, uomini, in una sempre maggiore dispersione dall'unità dell'Essere e dalla contemplazione dell'Uno), a determinare la possibilità che ha l'uomo di volere, riscoprendo se stesso, convertirsi all'unità (per cui il male, il limite, la guerra, sono dovuti alla volontà), dapprima ritrovando in sé gli altri, l'unica anima, per cui ciascuno deve annullarsi negli altri e gli altri in noi, per poi, di purificazione in purificazione, ottenuta mediante certe tecniche (canti purificatori, -r&Àe!n'n~ol xoc6«pfLo(, mortificazioni, pratiche ascetiche, aventi valore educativo e simbolico), farsi simili a Dio. Di Teosebio, discepolo di Jerocle, e a lui successo nello scolarcato della scuola di Alessandria, sappiamo pochissimo, se non che (Damascio, in Fozio, Bibl., cod. 181, 242) scrisse un breve libro su Platone, e che come il suo maestro si occupò soprattutto di questioni morali, inquadrate entro i termini di uno stoicismo epittetiano (cfr. Suda, voce Epitteto), da cui egli non vedeva disgiunti gl'insegnamenti morali, in senso cinico, dei Vangeli. In Atene, tra la fine del IV e il principio del v secolo, l'Accademia, che da secoli era intesa alla lettura e all'interpretazione di testi platonici, fu decisamente volta a un platonismo interpretato in senso neoplatonico, per opera del suo scolarca Plutarco di Atene, figlio di Nestorio. Di lui non possediamo nulla. Sappiamo ch'egli commentò il Pedone e il Parmenide di Platone insieme al De anima di Aristotele, e che il suo sforzo fu inteso, attraverso, appunto, lo studio del III libro del De anima sulla spinosa questione del rapporto intelletto agente-intelletto passivo, probabilmente sotto l'influenza del commento al De anima di Temistio, ad articolare in unità Platone e Aristotele. Sembra ch'egli abbia puntato sul motivo platonico della reminiscenza, nel senso plotinico, che l'anima ritrova, se stessa convertendosi su di sé; passiva in quanto limite ed esteriorizzazione, sensibilità, l'anima è attiva in quanto raccogliendo in sé il molteplice, nella coscienza d'essere il fondamento stesso del molteplice, lo fa uno in sé, onde nell'intellezione l'anima riconduce se stessa all'Intelletto-intelligibile; in tale modo reminiscenza e intelletto attivo trovano la loro soluzione in chiave plotinica, ove l'intelletto passivo (anima sensibile) e l'intelletto attiva (capa-
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cità che ha l'anima d'intendere in quanto fondata sull'Intelletto), l'uno e l'altro trascendenti le singole anime (tali in quanto sensibilità ed esteriorizzazione), nell'intellezione si assorbono nell'unità dialettica dell'Intelletto-intelligibili. Di qui, soprattutto nel discepolo di Plutarco, Siriano, che nel 341 gli successe in qualità di scolarca dell'Accademia, l'importanza data per un verso ad Aristotele per tutto ciò che ha a che fare con la sensibilità, la fisica, la logica, per l'altro verso a Platone e a Plotino per ciò che riguarda la traduzione in. termini matematico-geometrici della realtà e la possibilità di determinare la condizione prima del tutto in termini teologici. Non a caso cosi Siriano, nato ad Alessandria, collaboratore e successore di Plutarco ad Atene, detto da Proclo che gli fu discepolo (Proclo fu discepolo ad Alessandria di Olimpiodoro e ad Atene di Plutarco, di Siriano e di Domnino), "il migliore interprete di Platone," "il modello dei filosofi," "l'ispirato," Siriano costitul il curricolo degli studi in tale modo: due anni dedicati alle opere di Aristotele, cosi ordinate: le opere logiche, quelle morali-politiche, quindi le fisiche e infine quelle riguardanti la filosofia prima; formatisi cosi su Aristotele si passava al commento delle opere di Platone nel seguente ordine: Alcibiade I, Decimo libro delle Leggi, Parmenide, Timeo, Fedone, Filebo, Repubblica. Siriano aggiunse poi al programma di studi, un commento agli inni orfici e uno agli Oracoli caldaici che dovevano servire da introduzione all'iniziazione finale del mistero supremo (di Siriano sono giunti il commento ai libri III, IV,· XIII, XIV della Metafisica di Aristotele, e il commento a Le idee e al llept a-rtiaewv del rètore Ermogene che secondo Siriano si accorda perfettamente con Platone). Teologo non volgare, Siriano intendeva la logica come introduzione alla comprensione del tutto, del mondo fisico, attraverso cui si colgono le supreme ragioni da cui deriva e su cui si scandisce il ritmo dell'universo. Particolarmente interessante è l'interpretazione di Siriano delle cinque ipotesi e dell'Uno del Parmenide, interpretato plotinicamente; l'Uno, indiscorribile e in sé inconoscibile, è (in quanto in atto si. manifesta come unità dialettica intelligibile - V01Jt"6v = noetòn - intelligenza - voep6v = noeròn -, avente in sé gli oggetti intelligibili e le intelligenze divine, unità vi: vente del tutto) simbolicamente interpretato come il dio orfico Fanès o Prot6gonos, corrispettivo dello autozo6n del Timeo; di qui, dunque, il principio di vita (Zeus) o Demiurgo, manifestazione della vitalità in atto, tutta in sé immobile, di Fanès; il Demiurgo perciò è da un lato volto all'intelligenza, convertendosi alla quale (~ma-rpocp~ = epistrofè), raccoglie in sé la molteplicità vitale da lui stesso costituitasi, per cui l'anima, manifestazione ultima del Demiurgo, l'ultima delle intelligenze, si come il Demiurgo era il primo, ritorna all'unità del De-
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miurgo, e attraverso lui, con lui, all'unità dell'Intelletto-intelligibile; tale per Siriano l'unità dialettica delle tre ipostasi plotiniane, entro cui e da cui! si costituisce il mondo sensibile, dagli dèi visibili ai limiti estremi costituenti la materia, dai corpi immateriali e luminosi, astrali, agli dèi cosmici, o dèi subalterni (6e:ot 6e:6>v ), alle anime divine, celestiali, demoniche, e infine umane; le anime umane perciò hanno in sé da un lato l'aspetto del proprio astro, il proprio corpo astrale, dovuto agli dèi astrali, costituente la capacità intellettiva, dall'altro lato, intorno al corpo astrale un corpo tangibile, dovuto agli dèi inferiori, e costituente gli aspetti sensibile e vegetativo, limitante dell'anima; la materia non ha realtà per sé, è la zona d'ombra, il limite, l'incomprensione, e per ciò stesso il male; essa sta in un nostro modo di atteggiarsi verso la realtà, in sé in atto sempre luminosità pura nella sua totalità, luce p.iu o meno opaca se considerata nei suoi aspetti molteplici, molteplicità intesa come corpi veicoli di luce. A Siriano successe nello scolarcato dell'Accademia Domnino di Larissa, il quale si preoccupò soprattutto di questioni matematiche e scientifiche (di lui sono rimasti un Manuale di introduzione aritmetica e un'opera Sulla sottrazione), si che oltre l'interpretazione allegorico-simbolica si potesse dimostrare la validità razionale-dialettica, discorsiva del rapporto Uno-molti. A Domnino, nel 438, successe, nello scolarcato dell'Accademia, Proclo. Con Proclo, che aveva ascoltato ad Alessandria Olimpiodoro e ad At
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Conclusione
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L'opera di Agostino e quella di Proclo vengono assunte qui come termini ultimi dell'ultima meditazione e problematica delineatesi nel v secolo, e in tal senso e perciò solo ne trattiamo, insieme alle ultime componenti culturali, che, per altro verso, costituiscono i temi di fondo e la preparazione che sarà propria del Medioevo. Ogni periodizzazione è, su di un piano storico, sempre convenzionale, e, sotto questo aspetto, ogni posizione può essere assunta come conclusiva, se considerata entro la prospettiva di un certo processo e, ad un tempo, come avviamento proponente un'altra prospettiva. Entro tali limiti sembra ora opportuno mantenersi, in una ddineazione che, tenendo conto, come sempre, della situazione storiCa e dei problemi propri del tempo, mostri i temi di fondo della discussione agostiniana e di quella procliana. Uomo profondamente inquieto, vissuto in Occidente nel momento piu inquieto e disperante della crisi di tutto un mondo, passato, in una continua ricerca, attraverso le piu varie esperienze, in una continua tensione nel sottoporre tutto al dubbio della ragione; filosofo, se vogliamo, socratico, polemico fino all'esasperazione, non professore, i cui scritti, di volta in volta, scaturiscono dalla precisa esigenza di chiarire sé a sé, dalla spietata riflessione su questo o quel problema, vitale in uno o altro momento della sua vita (per capire Agostino, piu che per altri, vale la norma di leggerne le opere in ordine cronologico), Agostino, discutendo e riproporiendo come problema i temi sul tappeto, anche quelli, entro l'àmbito del Cristianesimo ufficiale, oramai cristallizzatisi, proprio per la sua asistematicità, per la formazione del suo pensiero, per le sue unilateralità e, ad un tempo, per le sue ritrattazioni e abbandoni delle sue stesse posizioni, mostra con esattezza il significato piu pieno del Cristianesimo, dei suoi motivi, delle sue esi-
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genze, aporie, e del filosofare, ancora profondamente classico, nel v secolo, in Occidente. Proclo, invece, vissuto e formatosi in altro ambiente (tra le scuole di Alessandria e di Atene), professore - altissimo professore - sistematico e scolastico, mostra con chiarezza il significato piu pieno dell'ultima grande sintesi scolastica antica.
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Capitolo primo
Sant'Agostino. Pe/agio ~ Agostino. La cultura in Occid~nt~ da Agostino al Concilio di Orang~ (529)
Agostino 1 nacque a Tagaste, in Numidia, il 13 novembre del 354, da Patricio, piccolo proprietario terriero, della classe dei curia/es, gravata oramai dal fisco, e da Monica, cristiana, ch'ebbe sul figlio una 1 Nato a Tagaste, nella Numidia, in Africa, "il 13 novembre 354, da un piccolo proprietario terriero, Patricio, della classe dei "curiales," che, com'~ noto, in questo tempo navigavano in cattivissime acque economiche, e da Monica, cristiana, Aurelio Agostino, fatti i primi studi a Tagaste, compi le scuole secondarie a Madaura (361·367). Interrotto il corso superiore, per ragioni economiche, aiutato da Romaniano, un amico di famiglia, riprese gli studi, che portò a termine a Cartagine nella celebre scuola di retorica (369-373). Uscito dalla scuola "oratore" compiuto, Agostino, non potendo proseguire gli studi nelle scuole filosofiche di Atene e di Alessandria - dopo la morte del. padre, 371, la sua situazione economica si era aggravata - , tornato a Tagaste, si dette all'insegnamento della grammatica e della retorica. A Cartagine, nel periodo piu libero della sua vita studentesca, Agostino ebbe, da una donna cui rimase legato per dodic:i anni, vivendo con lei come con sposa legittima (Con/., IV, 2), un figlio, Adeodato. A Tagaste seguirono le sue lezioni e a lui si legarono di amicizia, Licenzio (figlio di Romaniano), Alipio, Eulogio, Nebridio. Da Tagaste, Agostino nel 374 passò ad insegnare retorica a Cartagine. Ebbe qui notevoli successi, vinse una gara poetica e, in teatro, gli fu imposta dal proc:onsole Vindiciano la corona agonistica. Nel 383, seguito dai suoi amici, dal figlio Adeodato, dalla madre, si recò a Roma. Dopo una grave malattia, apri una scuola di retorica: il suo insegnamento ebbe successo, ma gli scolari non pagavano. Resasi vacante una cattedra di retorica a Milano, oon l'appoggio del prefetto di Roma Simmaco, riuscl a vincerla. Nel 384 parti per Milano; poco dopo lo seguirono la madre di suo figlio e il figlio, l'anno dopo Monica e i suoi discepoli. Su pressione della madre che avrebbe volutq che il figlio si sposasse con una giovane ragazza, dopo molte perplessità Agostino rimandò in Africa la povera madre di Adeodato. Andato a monte anche il progettato matrimonio, Agostino, dopo una serie di crisi morali, nel 385 decise di abbracciare in pieno il Cristianesimo. Nel settembre del 386, dopo la celebre rivelazione avuta nel "giardino di Milano," approfittando c:lelle vacanze autunnali, si dimise da professore di retorica. Si ritirò allora, con la madre, il figlio, gli amici, a Cassiciaco, una solitaria località della Brianza, ad una trentina di chilometri da Milano. Tornato a Milano, nel 387 Agostino ricevette il battesimo. Neli'estate del 387, lasciata Milano con l'intenzione di ritornare in Africa, mortagli a Ostia la madre, poco prima di imbarcarsi, Agostino si trattenne a Roma per qualche tempo. Rientrato in Africa nel 388, dopo un breve soggiorno a Cartagine, tornò a Tagaste. A Tagaste, venduti tutti i suoi beni, fondò insieme agli amic:i una specie di cenobio, ove, vivendo in solitudine, si pregava e si studiavano le Sacre Scritture. Andato a Ippona, chiamatovi da un amico, mentre si trovava in preghiera in . una chiesa, riconosciuto dai fedeli, il
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forte influenza. Patricio, con sacrifici notevoli, aiutato da Romaniano, un amico di famiglia (cfr. Contra Academicos, II, 2), avviò il figlio agli studi liberali, sperando cos1 di dargli la possibilità di intraprendere la piu proficua carriera dell'insegnamento o del foro, e, piu ancora, la carriera del funzionario nell'amministrazione imperiale. Fatti i primi studi a Tagaste, Agostino compi le scuole secondarie a Madaura (361367); interrotto a Madaura il corso superiore, lo riprese e lo portò a termine a Cartagine, nella piu celebre scuola di retorica (tra il 369 e il 373). A diciannove anni circa, Agostino usciva dalle scuole "oratore" compiuto, vir eloquentissimus atque doctissimus, come altri buoni allievi di quelle scuole. E ciò significava una preparazione fondata da un lato sulla grammatica e sulle tecniche piu elaborate e, ad un tempo, piu schematiche della retorica e della dialettica, dall'altro lato, anche se il popolo lo acclamò, chiedendo al vescovo Valeria di consacrarlo prete: nonostante le sue resistenze dovette cedere e il vescovo lo ordinò sacerdote (principio del 391 ). Fondò allora, in lppona, con l'appoggio del vescovo, "intra ecclesiam" un monastero; gli fu
concesso anche di predicare invece del vescovo. Verso il 395, Valeria, vecchio e ammalato, ottenne da Aurelio, primate d'Africa, che Agostino divenisse vescovo coadiutore. Nel 396, morto Valeria, Agostino fu consacrato vescovo di lppona. Egli resse quella cattedra dal 396 alla morte (430), in un intenso lavoro, prodigiosamente dedicandosi ai suoi doveri di vescovo, noto in tutto il mondo cristiano, ascoltato, seguito. Nel 426 chiese di essere coadiuvato nell'amministrazione della diocesi da Eraclio, che egli avrebbe desiderato fosse il suo successore. Nel 429 i Vandali di Genserico passarono dalla penisola iberica in Africa; nel giugno del 430 cinsero di assedio Jppona. Tre mesi dopo, Agostino, ammalatosi, nell'agosto del 430 moriva,. Il corpo di Agostino fu sepolto nella basilica di Santo Stefano. Nel 486, San Fulgenzio e altri vescovi africani, costretti ad abbandonare l'Africa, portarono con sé, in Sardegna, le spoglie di Agostino. Due secoli piu tardi, quando la Sardegna cadde in mano saracena, Liutprando re dei Longobardi, recuperate le reliquie di Agostino, si dice che le fece deporre nella chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, a Pavia. Ordin' cronologico delle opere di Agostino (secondo la tabella del Portalié: Dictionnaire de Théologie catholique, I, parte 2, coli. 2311-2314): 386: Contra Academicos l. lil (a Cassiciaco); De beata vita (a Cassiciaco); De ordine libri Il (a Cassiciaco); 387: Soliloquiorum l. II (a Cassiciaco); De immortalitate animae (a Milano); De grammatica (n'è rimasto un frammento); 387-391: De musica l. VI (finito in Africa); 387-388: De quantitate animae (a Roma); 388: De moribus Ecclcsiae catholicac et dc moribus Manichaeorum l. Il (a Roma); 388-390: De Genesi contra Mantchaeos l. Il (a Tagaste); 388-395: De libero arbitrio l. lll (a Roma e a Tagaste); 389: De Magistro (a Tagaste); 389-391: Dc vera religione (a Tagaste); 389-396: Dc diversis quaestionibus LXXXfll; 391-392: De utilitate credendi (ad Honoratum) (dopo il sacerdozio, ad lppona); De duabus animabus contra Manichaeos; Disputatio contra Fortunatum; 393-394: De fide et symbolo (discorso tenuto al Concilio di lppona); De Genesi ad litteram l. imperfectus; 393-396: De sermone Domini in monte l. Il; Psalmus contra partem Donat•
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greco appariva nei programmi scolastici (in realtà nelle scuole occidentali si rimaneva ai rudimenti : Agostino stesso confessa che in greco non fece alcun progresso), in un'approfondita conoscenza dei grandi classici latini, Virgilio, Terenzio, lo storico Sallustio, e, particolarmente, Cicerone, attraverso cui - e non direttamente - si ·aveva una conoContra Adimantum manichaei discipulum; Expositio quarundam proposit. u Epist. ad Rom.; Expositio Epist. ad Galate-s; Epistola ad Romanos inchoata expositio; Epistola XXVlll ad Hieronymum; 394-395: De mendacio; De continentia; 396-397: De diversis quaest. (Vll) ad Simplicianum medio/. Epifcop.; De agone christiano; 397: Contra epistolam ( manichaci) quam vocant Fundamenti; De doctrina christiana (libri I-III, 397; compiuta nel 426); 397-400: Quaestionum Evangdiorum (ex Matth. et Luca) l. II; Annotationes in fob; 400: De catechizandis rudibus; Confessionum l. Xlii; Contra Faustum Manichae11m l. XXXlll; De consensu Evangelistarum l. IV; Ad inquisitiones Januarii l. II (Epist. UV-LV); D~ opere monachorum; De fide rerum quae non videntur; Contra epistolam Parmeniani l. 111; De baptismo contra Donatistas l. Vll; 400-40 l: De bono coniugali; De sancta virginitate; 400-402: Contra litteras Petiliani donatistae l. 111; 400-415: De Trinita/e l. XV; De Genesi ad litteram; 404: De actis cum Felice, manichaeo l. 11 (7 e 12 dicembre 404); 405-406: Contra Secundinum Manichaeum l. unus; Epist. LXXXll ad Hieronymum (Gal. Il, 14); 406: Contra Cresconium grammaticum partis Donati l. IV; 406-411: De divinatione daemonum l. unus; 408: Epist. XClll ad Vincent. Rogat. (De haereticis vi coercendis); 408-409: Sex quaestiones contra paganos; 409: Epist. CVlll ad Macrobium donat. (De non iterando baptismo); 410: Epist. CXVlll ad Dioscorum (De philosophiae erroribus); Epist. CXX ad Con· untium (De Trinittite }; De unico baptismo contra Petilianum; 411 : Breviculus collationis cum donatistis; 412: Liber contra donatistas post collationem; Epist. CXXXVll ad Volusiamum; Epist. CXXXVlll ad Marcellinum (De incarnatione); Epist. CXL ad Honorium (De gratia); De peccatorum mer. et rem. et de baptismo parv. l. III ad Mare.; De spiritu et littera ad Marcellinum; 413: De fide et operibus; Epist. CXLVII ad Paulinum seu liber de vivendo Deo; 413-426: De civitate Dei (L X 415 circa; XX verso il 426; fine nel 426); 414: De bono viduitatis. Epist. ad fulianum; Epht. CLVII ad Hilarium Sicul11m (De pdagianismo) ; 415: De natura et gratia contra Pdagium; De perfectione iustitiae hominis (contro le Definizioni di Celestio); Epist. CLXVll ad Hieronymum seu de untentia facobi, 11, IO; Epist. CLXVll ad Hiero11ymum .<eu de origine animac hominis; Contra prisci/lianistas et origenistas l. ad Paul11m Orosium; 415: Enarrationes in Psalmos LXVll, LXXI, LXXVII, ecc.; 416-417: In foannis Evangelium; 416: In Epist. foannis ad Parthos; 417: De ge-stis Pdagii in synod. Diospol ad At~relt'um Episc.; Epist. CLXXXV ad Boni/acium, De co"ectione donatistarum ·liber; Epist. CLXXXVI ad Paulinum (De pclagianismo); Epist. CLXXXVll ad Dardanum seu de prae-sentia Dei liber; 418: De Gratia et peccato originali l. Il; Epist. CXCIV ad Sixtum Presbyt. rom.; Sermo ad caesarecnsis Ecci. plebem, Emerito praesente; De festis cum Emerito donat. episcopo Caesareae: contra sermonem quemi/am liber; 418-419: De patientia liber; De coniugis adultmnis l. Il; Locutiont~m (in Hepta·
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scenza delle maggiori tesi della filosofia antica. "Per un lettore profano," scrive il Marrou, Sant'Agostino; trad. it., Milano, 1960, p. 16, "è difficile immaginare il grado di assimilazione e di viva presenza di questi classici nella vita quotidiana di questi tempi; ad ogni momento negli scritti di Agostino appare, piu o meno consapevole, una citazione, una reminiscenza ciceroniana o virgiliana: questo denota ·infatti che egli scriveva per un pubblico. favorevolmente preparato e capace di riconoscere il passo o il riferimento ·e di saperne trarre ogni volta con la piu ingenua raffinatezza una sensazione piacevole... La retorica costituiva una tecnica elaborata con la massima cura e codificata con estremo rigore: si presentava come il repertorio piu esauriente e quindi immutabile di tutti i procedimenti, che l'esperienza aveva sancito come efficaci per conseguire un'esposizione strutturalmente solida, affascinante e convincente... Occorrevano anni e anni perché il giovane studente teuchum) l. VII; Questionum (in Heptateuchum) l. Vll; Epist. CXCIX ad Hesychium episc. seu de fine saeculi; 419-420: De ntlptiis et concupiscentia l. Il; De anima et eius origine l. Il; 420: Contra duas epist. Pelagianorum ad Bonifacium papam l. lV; Contra mendacium liber ad Consentium; ContrtJ Gaudentium Thamugadensem episc. donat. l. 11; Contra adversarium Legis et Prophetarum l. 11; 421: Contra fulianum haeresis pelagianae defensorem l. IV; Enchiridion ad Laurentium, seu de fide, spe, charitate liber; De cura pro mortuis gerenda (ad Paulin. Noi.); 422: De octo Dulcitii quaestionibus liber; 423: Epist. CCXI ad moniales (di qui è stata estratta La regola di Agostino); 426-427: De Gratia et Libero arbitrio ad Valentinum Adrumet.: De co"eptione et Gratta ad eumdem; Retractationum l. Il; 427: Episi. CCXVll ad Vitalem carthag. (12 regole di fede contra i semipelagiani); Speculum de Scriptura sacra; 428: Collatio cum Marimino arianorum episcopo; Contra Maximinum arianorum episcopum; De haeresibus ad Quodvultdeum l. l; Tractatus adversus iudacos; 428-429: De praedestinatione Sanct. ad Prosperum et Hilarium; De dono perseverantiae ad eosdem; 429-430: Opus imperfectum ad fulianum l. VI. Accanto ad Agostino vanno qui ricordati i nomi di Paolo Orosio e di Paolino di Milano. Paolo Orosio, originario di Braccara (Braga in Portogallo), verso il 413-414 andò a Ippona a trovare Agostino. In Palestina, quindi, insieme a San Gerolamo, combatté i pelagiani, mentre, tra il 417 e il 418, condusse a termine, su preghiera di Agostino i suoi Sette libri di storia contro i pagani (dalla creazione del mondo al 417 d.C.), che si muovono sulla scia del De civiiate Dci di Agostino. Scrisse inoltre contro i prisciilianisti e gli origenisti in un'opera indirizzata ad Agostino nel 414 (Commoni· torium de errore priscillanistarum et origenistarum) e contro Pelagio (Liber apologeticus contra Pelagium de arbitrii libertate, del 415). Sulla linea di Agostino scrisse contro i pelagiani Paolino di Milano, ch'era stato segretario di Sant'Ambrogio e che su domanda di Agostino aveva composto nel 420 una Vita di Sant'Ambrogio. Il suo Libellus contra pelagianos, particolarmente rivolto contro Celestio, ha un qualche interesse. Ricordiamo, infine, per i suoi rapporti con Agostino, Ponzio Meropio Anicio Paolino, vescovo di Nola, detto Paolino di Nola, vissuto tra il 353 e il 431, noto soprattutto come poeta cristiano.
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potesse raggiungere una buona dimestichezza: però, compiuto questo sforzo, la sicurezza era piena! Era in grado di dire tutto ciò che si poteva dire su ogni argomento e nel migliore dei modi." Mortogli già da tempo il padre, appena uscito dalla scuola Agostino, tornato a Tagaste, fu costretto a darsi all'insegnamento della grammatica e della retorica. Questo gl'impedl di poter frequentare le scuole superiori di filosofia, ad Alessandria e ad Atene, ove ancora erano impartiti corsi regolari. Ciò fu determinante, si come l'ignoranza del greco. L'incontro con la filosofia, attraverso la lettura dell'Ortensio di Cicerone (si ricordi che l'Ortensio, perduto, era una specie di protrettico, di avviamento alle superiori conoscenze, calcato dal Protrettico di Aristotele, uno scritto ove la filosofia era intesa in senso platonico), fu un incontro da autodidatta; ad Agostino, in contrasto con l'insegnamento della retorica, volta al piano umano, entro l'arco dei rapporti umani, e dell'umano discorso, la "filosofia" apparve, in senso ciceroniano-platonico, come capace di dare una risposta al problema della vita, di dare una ragione al nostro umano esserci, risolvendo il perché di tutta la realtà. "Viluit mihi repente omnis vana spes, et immortalitatem sapientia:: concupiscebam a::stu cordis incredibili" (Conf. III, c. 4). Agostino lesse l'Ortensio nel 373. Erano stati quelli gli anni piu inquieti e dispersi di Agostino, preso ·in Cartagine dalla vita studentesca, portato a voler prevalere sugli altri, non solo negli studi, ma anche in quelle ch'egli dirà poi azioni vergognose (" pudebat non esse impudentem": Con f., III, c. 3), dominato, come dirà poi, dalla concupiscenza della carne (aveva avuto un figlio, Adeodato, da una donna cui per anni rimase legato). I rimproveri della madre bigotta e asfissiante, che avrebbe voluto vedere il figlio perfetto cristiano, ingigantirono, certo, agli occhi di Agostino i suoi trascorsi cartaginesi. Senza dubbio tale trauma si risolse in Agostino in una lucida comprensione dell'uomo limite, male, insanabile conflitto, sempiterna dilacerazione, dominato da forze estranee, da cui dipende e di cui non si rende conto che a cose fatte (il male appunto è una forza estranea, che domina senza che ce ne accorgiamo, che fa dell'uomo uno strumento cieco). Se ciò rende conto del perché l'Ortensio, volto a lodare la filosofia come liberazione, abbia affascinato il giovane Agostino, ciò fa comprendere anche perché Agostino abbia creduto di trovare una qual certa risposta alle sue angosce, al suo sentimento del male, nel manicheismo (sulla diffusione del manicheismo in Africa e in Occidente, cfr. sopra). Su testimonianza dello stesso Agostino, sappiamo ch'egli, insieme al suo amico Onorato, si avvicinò al manicheismo nel medesimo anno (373) in cui aveva letto l'Ortensio. E ciò sembra non poco indicativo: la soluzione filosofica, indicata nell'Ortensio come sapienza, poteva con-
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sistere nella concezione manichea dello strutturarsi della realtà che rendeva conto, ad un tempo, del significato del male, risolto nel dramma della stessa realtà, nel conflitto dei due principi (il Bene e il Male), con tutto il peso dato da Mani all'individualizzazione e alla massima affermazione di sé, consistente nell'estranea e dominante forza del sesso. "Mi affascinava quella loro dottrina sulla impeccabilità dell'uomo. Allora, infatti, a me sembrava non esser noi che pecchiamo, ma, non so quale altra natura che pecca in noi; e stuzzicava la mia superbia essere fuori di ogni colpa" (Con f., V, 10; 18). Piu che dall'aspetto cosmologico-metafisico del manicheismo, Agostino fu attratto dall'aspetto morale della Chiesa manichea, per quella sua profonda problematica del male, da cui non. si libererà mai piu, e che sta al fondo del suo stesso cristianesimo, e della sua elaborazione del concetto di grazia insieme a quello della libertà, nella polemica contro Pelagio. Per dieci anni (" novem annos totos": De morihus ·manieh., XIX) Agostino rimase nell'àmbito del manicheismo, ch'egli mostra di aver conosciuto assai bene. Furono quelli gli anni in cui dapprima insegnò grammatica a Tagaste (cfr. Possidio, Vita Augustim), poi retorica a Cartagine, con grande successo (" omnes libros artium, quas liberales vocant, ... per me ipsum legi et intellexi, quoscumque legere potui": Conf., IV, 16, 30), tanto che vinse un premio in una gara poetica e, in teatro, il proconsole Vindiciano gl'impose la corona agonistica (risale a quel tempo la prima opera di Agostino, perduta, il De pulchro et apto: cfr. Conf., IV, 15, 27). Ma via via ch'egli veniva approfondendo i temi del manicheismo, che nel manicheismo cercava la verità promessa, che nell'astrologia si studiava di rintracciare le leggi fatali che reggono il tutto e determinano gli umani destini, in una conoscenza che fosse scientificamente fondata, gli sembrò che il manicheismo venisse meno alle sue promesse ("andavano si predicando: verità, verità!: e la verità a me largamente promettevano, ma essi stessi non, la possedevano affatto" : Conf., III, 6, 10), che, in realtà, le costruzioni dei manichei fossero soprattutto delle fantasie, che la loro stessa vita dedicata alla vittoria sul male, alla purezza, fosse poi un'ipocrita vita, che 'la loro astrologia non avesse alcun fondamento scientifico, che, alla fine, essi non spiegassero affatto il significato del male. Gli sembrò, anzi, via via èhe attraverso Cicerone e altre fonti latine s'incontrò con i filosofi del passato, che molte delle tesi e delle ipotesi filosofiche fossero, sia pur nella loro diversità e opposizione, scientificamente fondate assai meglio che non la fantastica concezione manichea. "Molte verità erano state scritte dai filosofi intorno alla natura, ed io le sapevo a memoria, e paragonandole con le fantasticherie di un tal manicheo, che su di ciò pure aveva scritto molto, quel che diceva il manicheo mi apparve frutto di un gran deli-
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rare" (Conf., V, 3, 3). Ma anche il celebre Fausto di Milevi, vescovo manicheo, ritenuto il filosofo della setta, che venne a Cartagine nel 383 e che Agostino aveva atteso con ansia come l'unico che avrebbe potuto rendergli conto scientificamente del manicheismo, profondamente lo disilluse. Per tutto quel tempo che appartenni alla setta dei manichei, mi parve mille anni che venisse il celebre Fausto. Tutti i manichei con i quali mi incontravo e ai quali sottoponevo le mie questioni e difficoltà sulle dottrine religiose, non sapendomi rispondere, mi rimandavano a Fausto, facendomi credere che allorché mi fossi abboccato con lui, quelle mie difficoltà e quante altre ve ne fossero ancora, Fausto senza fatica alcuna le avrebbe disciolte. Dicevano ch'era gran maestro in ogni dottrina, una meraviglia in letteratura. Finalmente venne ... [uomo, senza dubbio, di gran valore in retorica, gentile, dignitoso J, appena messo alle strette, mi apparve rozzo di scienze e di arti liberali, e appena tinto dell'ordinaria letteratura, ... tanto che alla fine egli mi confessò che in realtà di quelle che sono le strutture della realtà, di cosa siano il sole, i pianeti, il cielo, su cui si basano i dogmi dei manichei, egli non sapeva nulla, ché nulla sapeva di astronomia, di matematica e simili ... Vedendo, dunque, l'insufficienza e impostura di Fausto- di cui pur ammirai la modestia -, come di tutti gli altri dottori· manichei, rimasi assolutamente disingannato di quella setta (Conf., V, 6, IO). Se Agostino era giunto al manicheismo credendo di trovarvi c1o che lo aveva acceso ed infiammato deii'Ortensio ciceroniano (" l'Ortensio mi piaceva perché non m'incitava a seguire (;)_Uesta o quella setta, ma ad amare, cercare, conseguire, possedere e abbracciare con forza la stessa sapienza, quale si fosse; e mi accendeva e m'infiammava": Conf., III, 4), cioè una spiegaz.ione, scientificamente fondata, non dogmatica, della struttura della realtà e della posizione dell'uomo nell'universo, insieme a quella di Gesu, di quel Gesu - dice Agostino - che non trovavo in Cicerone, "ma che per cura di mia madre mi era insieme con il latte entrato nel cuore" (Conf., lbid.), e che, invece, sembrava trovare una sua spiegazione_ nei testi manichei, le stesse ragioni che lo avevano spinto al manìcheismo lo allontanarono da esso. Il manicheismo non reggeva ad una discussione dialettica, ché la sua costruzione, alla fine, appariva contraddittoria, e non solo per ciò che riguarda l'opposizione tra i due principi, che implicando due essere in sé, l'uno nega ·l'altro, ma anche per ciò che riguarda l'affermazione manichea di poter spiegare il tutto sul filo della sola ragione, ché, poi, gli stessi manichei si fondano su verità nient'affatto dimostrate (anche quando i manichei rivelano le contraddizioni implicite nei racconti delle Sacre Scritture - e da ciò Agostino fu attratto -,
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qualora siano prese alla lettera, in realtà non ne dimostrano il perché, poiché le loro risposte, non fondate razionalmente, si prestano alle stesse contraddizioni da essi ritrovate nelle Scritture). La preparazione retorico-dialettica di Agostino, la possibilità, sul piano dialettico, di assumere una o altra ipotesi dimostrando che sono tutte vere - ciascuna entro i termini delle proprie assunzioni se sviluppate in modo linguisticamente corretto - onde sono tutte controvertibili e, per ciò, tutte né vere né false, una piu approfondita lettura di Cicerone, e, attraversc Cicerone, la conoscenza delle tesi accademiche, da Arcesilao a Filone: di Larissa, riconosciuta come logicamente inaccettabile la tesi manichea, portarono Agostino a dare altra risposta alla sua sempre piu drammatica esperienza dell'uomo limite, male, insufficienza. Il male dell'uomo, la radice del suo limite sta nell'uomo stesso, nella sua sensibilità e nella sua ragione, l'una e l'altra incapaci di cogliere il vero. Qualsiasi costruzione, qualsiasi ipotesi intorno al vero e alla ragion d'essere del tutto potranno essere piu o meno convincenti, piu o meno probabili, ma tutte restano scientificamente sul piano umano, ipotesi sempre dialettizzabili, cui verrà sempre mancando un criterio di giudizio assoluto, per cui, appunto, rispetto al vero resta impossibile il giudizio, ogni giudizio va sospeso. "ltaque academicorum more, sicut existimantur, dubitans de omnibus atque inter omnia fluctuans, manichaeos quidem reliquendos decrevi" (Con f., V, 14, 25). Agostino era allora già a Roma; a Roma si era recato nel 383, sia per sfuggire ai troppo turbolenti suoi scolari di Cartagine, sia per sfuggire a se stesso, e, probabilmente, a sua madre, che, invece, avvertita della partenza dd figlio, imbarcatasi nottetempo, lo seguf a Roma. A Roma seguirono Agostino Adeodato e i suoi amici e scolari piu intimi, tra cui Alipio. A Roma il suo insegnamento ebbe successo, ma gli scolari non pagavano; con gioia perciò Agostino accettò di recarsi a Milano a coprire la cattedra municipale di retorica. A Roma, dove da un lato forte si era mantenuta l'influenza della scuola di Plotino e, dall'altro lato, quella della scuola di Vittorino (cfr. sopra), Agostino dovette avere i primi contatti con il neoplatonismo. Ma fu a Milano, dove ascoltò le prediche di Sant'Ambrogio, ed entrò in dimestichezza con l'ausiliare di Sant'Ambrogio, Simpliciano, che Agostino lesse con altri occhi, nella traduzione di Mario Vittorino - il cui itinerario al Cristianesimo, attraverso la retorica e il platonismo di Plotino, gli fu narrato da Simpliciano, - alcuni dialoghi platonici e parte almeno delle Enneadi, che suscitarono in lui un "incredibile incendio" (Contra Academicos, Il, 2). La lettura delle Enneadi fatta da Agostino è una lettura a ritroso, cioè già attraverso occhio cristiano, in una problematica cristiana. Agostino, in fondo, fu sempre,
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culturalmente, un cristiano, educato entro i termini della piu generale atmosfera cristiana. Plotino, dunque, almeno sulla linea in cui era stato assunto in Occidente da parte cristiana, e, ora, particolarmente da Mario Vittorino per un verso, per altro verso da Sant'Ambrogio e da Simpliciano, sembrava ad Agostino risolvere due delle questioni che piu lo avevano tormentato. Innanzi tutto egli trovava in Plotino la possibilità di fondare razionalmente l'unità di Dio, l'Uno oltre l'essere, egli l'Essere che "sempre è," da cui assume il proprio essere tutto ciò che è (e ciò poteva determinare quel criterio di fondazione razionale del tutto, ch'era negato dalle posizioni accademiche). In secondo luogo, in Plotino trovava la possibilità di risolvere il male, non in un principio per sé, ma in bene, relativamente all'Uno tutto, specchio dell'unità divina; male che, perciò, non esiste in sé, ma è limite, impoverimento d'essere e di bene, incomprensione, per cui il male è nella volontà, è nell'uomo. Non solo, ma ciò che maggiormente si è insinuato di Piotino in Agostino, e che poi è stato considerato come tratto essenzialmente agostiniano, è il motivo dell'anima non intesa come sostanza, non avente una sua realtà massiccia, per sé, ma come coscienza, come pensiero pensante, la cui essenza sta nel suo stesso pensare, nel suo "confessarsi," nel suo rivelarsi e convertirsi a sé, mediante cui, cogliendo se medesima, coglie in sé, oltre sé, Dio. Non a caso Agostino dirà (Soliloqui, I, 2) che conoscere sé significa conoscere Dio, e che perciò tutta la conoscenza deve risolversi in un conoscere "Dio e l'Anima," ché l'Anima è in Dio e Dio è nell'Anima, nell'anima come consapevolezza e intimità. Nell'Anima, dunque, in cui s'incentra l'universo tutto, e attraverso cui si coglie in che senso l'anima stessa e perciò Dio è incorporeità, si risolve la materialità, la molteplicità, il limite: la molteplicità, il disordine, il male sono anima estrinseca, anima che non comprende. La stessa sensazione in quanto consapevolezza di una modificazione è anima, che determina i corpi, che ne prende coscienza, facendoli suoi, che in essi, attraverso se stessa, rintraccia ciò che è sempre, che non è mutevole, che è intelligibile, cioè la regola, l'idea che . oltrepassa i dati, le cose, li spiega. (E ciò è dimostrato anche, non solo dalle conoscenze, ma dalle stesse forme di conoscere, dalla stessa dialettica usata dagli accademici per determinare il dubbio e la "sospensione del giudizio": se è giusto, ad esempio, sostenere, relativamente alle proposizioni disgiuntive che può non rispondere al vero l'una o l'altra delle singole proposizioni, è falso sostenere che, dunque, .è falsa la proposizione disgiuntiva, cioè la regola della non contraddittorietà: "certum enim habeo alit unum esse mundum, aut non unum; ... clic istas disjunctiones... falsas esse": Cont. Acad., III, 10; e lo stesso si ripeta delle verità matematiche: "ter terna novem esse... necesse est,
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vel genere h umano stertente sit verum": ib., 11.) Con ciò l'anima coglie in sé gl'intelligibili, ciò che rende comprensibile il dato e che perciò oltrepassa i dati e dei dati è presupposto, si come la luce senza di cui non si vedono le cose, ma che anche è il presupposto perché gli occhi possano vedere, perché la ragione possa comprendere. Nell'anima, dunque, riposa la verità, onde l'anima coglie sé non piu solo come sensibilità, ma come ragione, come intelletto che avendo in sé la capacità d'intendere, deve, a sua volta, presupporre a sé la verità illuminante che la trascende e in cui, dunque, sono quelle stesse verità che l'anima coglie in sé. Se, dunque, l'esteriorità trova la sua verità nell'interiorità, nella conversione dell'anima a sé - la cui essenza si rivela essere il suo stesso pensare, il suo essere consapevole di sé -, la condizione medesima che rende l'anima consapevole di sé, come capacità d'intendere il vero - necessario ed eterno, immobile -, oltrepassa e trascende l'anima stessa, onde l'anima, in quanto ragione e intelligenza, trascende, attraverso sé, se stessa. Posta plotinianamente l'anima come coscienza di sé - non saremmo se non ci accorgessimo di essere, per cui la nostra essenza sta proprio nell'accorgersi di sentire, di pensare, di vivere -, appunto in ciò viene risolvendosi il dubbio degli accademici. Il dubbio stesso, in quanto so di dubitare, e non dubiterei se non lo sapessi, è una prima verità (" omnes qui se dubitantem intelligit, et de hac re quam intelligit, certus est": De vera relig., 39), che, a sua volta mi dà (seconda verità) la consapevolez;z:a di esistere, ché, se non fossi neppure potrei dubitare, errare ("si non esses, falli omnino non posses" : De libero arb ., II, 3), rivelandomi ad un tempo che, per dubitare, debbo esser certo che ha da esserci la verità. "Etiam si dubita t, vivit; si dubita t, unde dubitet meminit; si dubitat, certus esse vult; si dubitat, cogitat; si dubitat, scit se nescire; si dubitat, iudicat non se temere consentire oportere" (De trinitate, X, 10, 14). Si è molto parlato qui, com'è noto, di Agostino precursore del "cogito" cartesiano, puntando relativamente alla "res cog-itans" di Cartesio, piu sul "cogitans" che sulla "res"; preferiremmo, invece, parlare di un Agostino interprete di certi testi plotiniani sull'anima e sull'intelletto, e particolarmente, di quelli ove Platino sottolinea il rapporto tra eternità e tempo (cfr. Enn., III, 7), in cui, appunto, il tempo si identifica con l'anima (cfr. sopra), e che Agostino ricalcherà nella sua celebre pagina sul tempo. Ad ogni modo, il motivo della conversione dell'anima su sé, l'itinerario alla verità e a Dio, dal di fuori al di dentro e dal di dentro al di sopra, è senza dubbio motivo platonico-plotinico, o meglio è ciò che Agostino scopre in Platino, e· che lo "infiamma," e mediante cui, dopo avere ascoltato l'interpretazione allegorica delle Sacre Scritture da parte di Sant'Ambrogio, leg-
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gerà i testi sacri e le lettere di San Paolo con altri occhi (non trovandovi piu quelle contraddizioni di cui parlavano, se si prendono le Sacre Scritture alla lettera, i manichei). Entro tali termini, la celebre frase di Agostino, che si legge nel De vera religione, 39 (del 389-391): "Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell'interno dell'uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso"; rimane essenzialmente plotiniana, dà la misura di quello che fu il "·platonismo" di Agostino. [La lettura dei libri platonici cominciò a farmi conoscere Dio.] Ebbi quei libri in latino... ed in quelli trovai accennarsi in piu modi che v'è in Dio un Verbo eterno sf come eterno è lui, che è la ragione di tutte le cose e la sapienza di cui partecipa l'anima nostra, e la vita e luce sua ... Il vantaggio principale che trassi da quei libri platonici fu che ... cominciai a cercare la tua luce eterna e immutabile non nelle cose sensibili e basse, ma nell'intimo dell'anima mia, e vidi ch'essa è al di sopra di ogni creatura e della mia stessa mente, come quella che di me e di ogni altra cosa è stata creatrice. Chi conosce la verità conosce lei e chi conosce lei conosce l'Eternità, ed è per la Carità che la si conosce ... Allora conobbi che il vero Dio, benché puro spirito, non è già un niente, ma anzi quegli appunto che "ha per sé l'essenza" [Esodo, III, 14 ], e piu presto avrei dubitato di vivere che di si evidente verità. In seguito mi posi a considerare le cose che sono inferiori a te, e vidi che né del tutto esistono, né del tutto non esistono. Esistono perché da te cavate dal nulla, per opera tua continuano ad essere, ma, ad un tempo, non esistono, perché non sono ciò che sei tu, cioè eterne, immutabili, per sé viventi, senza di che nulla si può dire esistere veramente... E cosi venni anche a conoscere con chiarezza che le cose corruttibili sono buone. Tanto nel caso che fossero assolutamente buone, quanto nel caso che non lo fossero per nulla, non potrebbero essere corruttibili; se infatti fossero assoh.Itamente buone, sarebbero incorruttibili, se non fossero per nulla buone, non vi sarebbe nulla in loro che potesse corrompersi. Infatti la corruzione nuoce; ora, se non derivasse una diminuzione di bene, non nuocerebbe. Perciò o la corruzione non nuoce affatto- che è un'ipotesi senza senso-, oppure, come è certo, la corruzione è sempre privazione di un bene. Se poi la privazione del bene sarà completa, una cosa non esisterà piu. Se infatti continuasse ad esistere senza essere piu corruttibile, sarebbe migliore di prima, perché permarrebbe incorruttibile. Ma sarebbe assurdo sostenere che una cosa divenga migliore dopo che ha perduto completamente ciò che è buono. Perciò se sarà privata completamente di ciò che è buono, non esisterà piu: dunque, finché esiste è buona. Concludendo, tutto ciò che esiste è buono; e quel male, di cui mi chiedevo l'origine, non è una sostanza, perché se lo fosse, sarebbe un bene. Infatti, o sarebbe una sostanza incorruttibile e quindi un gran bene, o una sostanza corruttibile, la quale non potrebbe essere corruttibile se non fosse buona. Perciò compresi e mi fu evidente che ciò che tu hai creato è tutto buono e non vi è sostanza che non tragga origine da te. E poiché non
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hai creato tutte le cose buone, per questo tutte le cose che sono buone, se pure singolarmente, sono anche molto buone, se prese tutte insieme, poiché "tutte molto buone" [Genesi, I, 31] furono create dal nostro Dio ... Ma cosa dunque è l'iniquità, cosa il male? Cercai, e conobbi non essere sostanza, ma la depravazione di un'anima, la cui volontà si stacca da te ... e che gettatasi al di fuori di sé, per il suo orgoglio, getta e perde l'intimo suo bene (Confessioni, VII, cc. 9-13, §§ 13-19). La ragione che parla con te promette di rivelare Dio alla tua mente, cosi come il sole si rivela agli occhi. I sensi dell'anima sono infatti come gli occhi della mente, e ciò che nella scienza è piu sicuro è tale quale ciò che, per potere essere visto, è illumin;tto dal sole: cosi la terr~ e tutte le cose terrene. E colui che dà luce è Dio. Io, Ragione, sono, nelle menti, quello che la vista è negli occhi. Ma avere occhi non è ancora guardare e, similmente, guardare non è ancora vedere. L'anima ha quindi bisogno di tre cose: avere occhi di cui servirsi, guardare, ved~re (Soliloquia, I, 6, 12).
In realtà Agostino non è passato dal paganesimo, cioè da una netta e piu antica concezione non cristiana o anticristiana, attraverso il manicheismo prima, l'accademismo poi, il plotinismo e il porfirismo infine, alla concezione cristiana. Storicamente e culturalmente Agostino si è sempre mosso entro la comune atmosfera culturale ctistiana. Il manicheismo, l'accademismo, il plotinismo sono stati in effetto tre momenti attraverso cui Agostino si è reso conto del significato della fede cristiana. Se il manicheismo e lo scetticismo trovavano la loro soluzione nel plotinismo, che razionalmente giustificava da un lato il Dio che è, egli unica essenza, da cui tutto proviene, onde nulla è senza l'appoggio di Dio, e, dal~ l'altro lato, il male come limite e dispersione, mancanza di bene, il platonismo ancora, mediante la concezione dell'anima, intesa come consapevolezza, come pensiero (in cui si risolve la molteplicità), che a sua volta si risolve nell'unità che trascende l'anima dal di dentro, giustificava, agli occhi di Agostino il motivo cristiano della rivelazione, l'illuminazione, e, perciò stesso, la fede. Entro questi termini, a Milano, sotto l'influenza della lettura allegorica della Bibbia da parte di Sant'Ambrogio, i testi sacri, le Lettere di Paolo si illuminano: Nulla è fuori di Dio, ché solo Dio è l'essere che sempre è, tutto in sé compiuto e perfetto, onde! tutto ciò che è non può non essere che avendo essere, e non potrebbe avere essere se tale essere non gli fosse dato dall'Essere, per cui tutto, in quanto ha essere, è creatura di Dio, è voluto da Dio, dal nulla, ché nulla è se non Dio. E poiché, d'altra parte, l'anima non sarebbe se non in quanto coscienza, in quanto pensiero, che in sé trova la propria ragione, cioè il proprio essere, l'anima stessa non potrebbe accorgersi di sé, d'essere, d'essere in quanto dubita, e dubitando di cogliere sé come finita, limitata, ma ad un tempo come fonte di verità, se non avesse il proprio essere dall'Essere, cioè da Dio, onde l'anima,
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attraverso sé, coglie sé simile a Dio; e poiché, ancora, nell'interiorità abita la verità, la sapienza, tale sapienza è la sapienza di Dio, cioè il suo Verbo, il figlio di Dio, Cristo, che è, dunque, il vero Maestro. Se già in Platino Agostino poteva intendere il Nus (Intelletto-intelligibile) come il Verbo di Dio, tanto piu facilmente poteva ora intendere il Verbo, biblicamente, come la sapienza di Dio, quella sapienza che fu ·prima di tutti i secoli, e che viene da Dio e da Dio solo, onde la filosofia ("amor sapientiae ") si trasforma in religione, in "sapienza." Si pone, qui, in una interpretazione di Platino e di un piu generico platonismo, inteso come ripiegamento dell'anima, dalla dispersione dei sensi, su sé e attraver-so sé sul proprio fondamento, che la trascende dal di dentro in terrnini di fede cristiana, e in una interpretazione della "sapienza" biblica, in termini plotiniani, il motivo della "illumina?:ione" e quello celeberrimo del rapporto fede-ragione. Il motivo dell:illuminazione (condizione perché l'anima assuma coscienza di sé, trovi in sé il criterio per cui può riconoscere il vero : " anche gli ignoranti, quando sono interrogati rispondono correttamente intorno ad alcune discipline perché è presente in essi, nella misura in cui lo possono ricevere, il lume della ragione eterna, nel quale essi vedono le verità immutabili": Retract.; I, 4, 4), implica e spiega il motivo del rapporto tra il credere e l'intelligere. Posto che la "fede" sia la credenza (non conoscenza, ma assenso a una opinione, a un'ipotesi: cfr. Agostino, De praed. Sanct., 2: "credere è pensare con assentimento") e la fiducia nell'autorità della parola rivelata, evidentemente come la conoscenza suppone una credenza, cosi la conoscenza suppone una credenza nella sapienza, nella capacità d'intendere, e poiché, per altro verso, l'intendere stesso è "rivelazione," illuminazione, dovuta alla sapienza di Dio, essendo la stessa ragione rivelazione che trova il suo fondamento nella ragione di Dio, da un lato il capire implica il credere e la fede, dall'altro lato la fede diviene davver'? tale in quanto si è avuta la grazia di capire (De Trinitate, 12), in quanto in noi si è rivelata la sapienza di Dio, cioè il Cristo, il maestro interiore. Sotto questo aspetto non v'è né una priorità della "fede" né una priorità della ragione, ·e se talvolta Agostino distingue i due momenti, egli in realtà li pone come i due termini dialettici dello stesso conoscere, storicamente distinti sul piano umano. "Nisi credideritis, non intelligetis" (Isaia, 7, 9, in De libero arbitrio, II, 2, 17); "intellige ut credas, crede ut intelligas" (Sermone, 43). "Ad discendurn necessario dupliciter ducimur, auctoritate et ratione. Tempore auctoritas re autem ratio prior est" (De ordine, Il, 9); "etiam credere non possumus, nisi rationales animas haberemus" (Lett. 120 a Consenzio). Sembra chiaro ora in che senso si possa dire che Agostino, entro la
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linea della sua formazione, entro i termini di una situazione storie; di cultura, in un ambiente cristianizzato, abbia interpretato il "neopla tonismo" da cristiano, o meglio come certi aspetti del " neoplatonismo' abbiano significato per lui la ragione che funziona e comprende e s rivela a se stessa in quanto illumina la fede, che, a sua volta, illumi nata, dà un significato alla ragione, che riconosce le "verità" dell; fede. E allora, alla fine, si può dire che senza Dio, senza il Verbo d; Dio, la su·a parola, che è la sua sapienza (Cristo), il maestro interiore, la ragione non avrebbe potuto comprendere se stessa e perciò Io stesso Verbo e Dio. E questo è miracoloso, non è umano, è un'illuminazione, che perciò è dovuta a un gratuito intervento di Dio. T aie il motivo "paolino" per cui Agostino, cristiano comune del secolo IV, assume il Cristianesimo come "salvazione," si "converte" al Cristianesimo. Ciò avviene a Milano, nel 385, dopo una serie di molti conflitti morali; la decisione di Agostino di dedicarsi ad una vita puramente cristiana, ritirato in una sempre piu approfondita e pacata riflessione su se stesso, in una ricerca di Dio attraverso l'anima, lo portò, date le dimissioni dalla cattedra di oratore ufficiale, a rifugiarsi a Cassiciaco, una località della Brianza, ad una trentina di chilometri da Milano. Nella quiete di Cassiciaco Agostino scrisse le sue prime opere, che sono un approfondimento, in un dialogo dell'anima con se stessa, della conversione dell'anima su di sé, attraverso cui si delinea la polemica personale contro se stesso "accademico" e "manicheo," fino alla comprensione del divino mediante la conoscenza dell'anima (Contra Academicos l. III, De beata vita, De ordine l. II, Soliloquiorum l. II: tutti del 386-387). Se da un lato i motivi mediante cui Agostino convince se stesso della contraddittorietà di assumere, in pratica, una posizione accademica, risalgono agli stessi motivi che Cicerone fa sostenere ad Antioco di Ascalona (Accademict), per cui sul piano logico Agostino riprende, nel fondare la validità della sensazione (in st né vera né falsa: o meglio è vero ciò che l'occhio vede, è vero ciò che l'occhio sente) e della ragione, nelle sue condizioni formali (la proposizione disgiuntiva è vera, ad esempio), i motivi di fondo della logica formale stoica; dall'altro lato, nel rintraccio ·che l'anima, convertendosi su di sé, fa di sé come depositaria di verità, di nozioni necessarie ed immobili (le verità matematiche, ad esempio), implica la veracità della tesi platonico-neoplatonica (cfr. Contra Acad.). Ma questo, appunto, convince Agostino che il criterio di verità trascende l'anima stessa e la stessa ragione, e che solo in questo, in questo trascendere se stessi consiste la comprensione piena, la sapienza perfetta (propria di Dio) e perciò, appunto in quanto pienezza, la "vita beata" (De vita beata). E allora quella
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re~ltà
che all'occhio del senso appare molteplice e dispersa, altra da noi, nemica, male, all'occhio della mente, "in interiore homine," si risolve in unità, provvidenzialmente ordinata, in un ordine che trascende non solo le cose, trascese dall'anima (secondo le vecchie argomentazioni platoniche, stoiche, neoplatoniche, cristiane), ma l'anima stessa, rivelando la presenza della ragione, della sapienza di Dio (De ordine) e, perciò, nell'anima, in quanto capacità di scire, il cui fondamento è la sapienza di Dio, essa dunque, sostrato della scienza, delle verità, che non possono non essere eterne, si rivela la presenza di Dio, onde la convinzione che l'anima è immortale (Soliloquia). T ornato a Milano, nel 387 Agostino ricevette il battesimo. Di H a poco prosegui l'argomento del·II libro dei Soliloquia nel De immortalitate animae. Lasciata Milano, Agostino che, dopo un breve soggiorno a Roma, stava per imbarcarsi a Ostia per tornare in Africa, mortagli la madre, si fermò a Roma, soprattutto dedito a combattere e confutare il manicheismo. Nel 388 lasciò Roma, e dopo un breve soggiorno a Cartagine, tornò a Tagaste, dove, venduti i propri beni, il cui ricavato dette ai poveri, si ritirò, con i proprì amici, in una sua antica proprietà, in povera vita, nello studio delle Sacre Scritture e nella preghiera. Nel periodo di Roma e di Tagaste, tra il 388 e il 391, in un approfondimento dei motivi delineati nelle opere di Cassiciaco e di Milano, entro i termini del neoplatonismo, in chiave· cristiana, polemizzando in particolare contro i manichei, scrisse: De quantitate animae (a Roma), De moribus Ecclesiae Cathol. et de moribus Manichaeorum (a Roma), De genesi contra Manichaeos (a Tagaste, 388-390), De libero arbitrio (a Roma e a Tagaste), De Magistro (a Tagaste, 389), De vera religione (a Tagaste, 389-391). Sono queste, nel suo tentativo di convincersi dell'inesistenza del male, le opere piu platonico-neoplatoniche di Agostino, come particolarmente risulta dal De Magistro e dal De libero arbitrio in un approfondimento dell'anima come coscienza e in un ribaltamento del concetto di sapienza in senso biblico. E qui, sia pur discutendo problemi diversi, in una esemplare sintesi, Agostino riprende e ordina i motivi peculiari che s'erano delineati nella rielaborazione del Cristianesimo, tra il n e il m secolo. Se sotto questo profilo, di una vera e propria istituzione di una filosofia cristiana, va tenuto presente il De vera religione, insieme al De magistro; una particolare problematica nuova si presenta nel De libero arbitrio. Agostino, di contro alla sua vecchia tesi manichea, sulla linea neoplatonica, ancora una volta riprendendo il motivo della "conversione" dell'anima, attraverso cui si rivela la verità che trascende l'anima e la ragione, dando lume alla ragione, e mediante cui la ragione intende le parole di Dio, riassumendo in sé e in sé cogliendo l'ordine
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del tutto che narra la gloria di Dio, egli l'unico Essere, l'essere che sempre è (e sulla questione dell'Esserè, che è quello che è, Agostino troverà una forte analogia tra Platone e Mosè, tanto da sostenere, secondo la tradizione, che Platone doveva avere letto la Bibbia, poi ne dubiterà), Agostino giunge a negare la essenzialità del male. Se Dio è l'Essere, l'unico essere, ciò che proviene da Dio, e tutto proviene da Dio, non può non essere che come è bene che sia; ma, appunto in quanto ogni creatura ha avuto essere e non è l'Essere, ogni creatura è rispetto all'Essere mancanza d'essere, e, perciò, assunta singolarmente è imperfetta, limitata (di qui la celebre futura tesi del male metafisica e del male fisico). Poiché, d'altra parte, la visione limitata, disordinata delle cose si rivela esser dovuta all'anima, all'anima inconscia, che vuole se stessa, all'anima smemorata di Dio, si mostra che, in realtà, il male, il limite, è dovuto all'anima stessa, alla volontà (male morale). Ma allora, eliminato il male in senso neoplatonico, posto il male nella volontà, poiché la volontà, anche la volontà di conoscere o non conoscere, di rimanere dispersi nelle cose o di rientrare in sé, implica la libertà, i casi sono due: o la libertà è. naturale, per cui in realtà non v'è piu libertà, perché nell'ordine del tutto che necessariamente si costituisce da Dio, il ritorno a Dio, e l'atto con cui l'anima si accorge di sé, per cui passa dalla dispersione, dal male, a sé, al bene, sono dovuti alla stessa ragion d'essere del tutto; oppure, origenianamente, la possibilità della libertà, implicando l'esistenza, la determinazione, e, dunque, il male, il peccato, la libertà resta potenziale, al di là, prima dell'esistere, prima di Adamo, onde l'uomo attuale non è libero, non è naturalmente libero. La capacità, dunque, di volere, il nostro accorgersi - è un fatto - che "vogliamo con la volontà" ci rivela che la coscienza della volontà, la consapevolezza che l'uomo può scegliere tra essere limite e male ed essere sapienza e bene, proprio in quanto non è logicamente deducibile, spiegabile, implica che la "volontà libera" è un dono, è irriducibile ad altro se non ad un gratuito intervento di Dio. "La volontà libera, senza la quale nessuno può vivere rettamente, occorre che sia un bene concesso da Dio" (cfr. Dc lib. arb., II, 5). Ma qui nascono una serie di grosse difficoltà. Se a tutti Dio concede tale possibilità,· se Dio dà a tutti gli uomini il dono della volontà, facendoli simili a sé, per cui l'uomo è re~ponsabile non solo di sé, ma- anche e, ad un tempo, di tutto, se a tutti è concesso, per essere liberi, di peccare, si potrà dire che "saranno da condannare quelli che usano male di questo bene, e non certo Dio che ha dato questo bene," ma si potrà anche concludere che allora l'uomo, sia pur avendo avuto il bene del libero volere da Dio, è non quest'uomo attuale, ma l'uomo prima del peccato, perciò naturalmente
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libero. Certo nell'obbiezione: "se Dio è presciente (avendo in se m atto tutto, egli l'Essere perfetto) e sa che l'uomo peccherà, è necessario che l'uomo pecchi; ma se è necessario, allora nel peccato non c'è libero arbitrio, ma necessità fissa ed immutabile," per cui si pecca per necessità, o Dio non ha in sé la previsione di tutto; si può rispondere: "Dio prevede la nostra volontà; ma la prevede appunto come volontà; essa sarà dunque volontà; né potrebbe essere volontà, se non fosse in nostro potere; dunque Dio prevede anche la volontà come in nostro potere; sicché la prescienza di Dio non ci toglie la libertà; anzi io sarò piu certo di possedere la libertà, proprio perché previde che l'avrei avuta; e la prescienza di Dio non erra ... per cui quanto Dio previde è necessario che accada e tuttavia rimane in noi la libertà" (De lib. arb., III, 37 sgg.). Resta, ad ogni modò, che, dunque, l'uomo è libero, e che, se il limite e il male sono dovuti al rimanere presi dalla sensibilità, una volta che, avuto il dono del libero volere fin dal principio, da quando, per volontà di Dio, atemporale, è scaturito l'uomo temporale, e perciò limite, il bene, il ritrovare in sé l'ordine del tutto, oltrepassando il limite, fino a giungere a Dio, è una questione di conoscenza. La soluzione platonico-ciceroniano-neoplatonica e antimanichea del Libero arbitrio., puntando sulla libertà, sulla capacità data agli uomini tutti di volere, se elimina il male, elimina ad un tempo il peccato di Adamo, la "caduta," il significato piu profondo del peccato cristiano e della redenzione, insieme alla grazia. Non a caso, sotto questo aspetto, è stato detto che Agostino - anche se ancora al tempo del De libero arbitrio non conosceva Pelagio, ·- nella sua polemica antimanichea, nel combattere il pericolo della "pigra ratio" nell'attesa della grazia, per cui si attende fatalmente la "grazia," ché all'uomo in quanto tale, in quanto per sua natura male e peccato, non è dato che peccare, Agostino è giunto ad una tesi di tipo pelagiano. Sarà proprio, invece, nella polemica antipelagiana da un lato, antidonatista e antiariana dall'altro lato, che Agostino, ridiscutendo la questione del male e del peccato, anche se non piu in termini manichei, ma certo rendendosi conto dell'aspetto piu profondo sull'inesorabilità, del male avanzato dai manichei, sul male come tesmine irriducibile ad ogni spiegazione, non razionalizzabile, il qualcosa indefinibile, che resta al margine e che sfugge (si pensi alla necessità, all'irrazionale platonico), verrà delineando in .termini nuovi, e che resteranno fondamentali nella storia del pensiero cristiano, il motivo della "grazia" e della predestinazione. Il De libero arbitrio, cominciato a Roma nel 388, fu condotto a termine dopo il De vera religione (389-391), nel 395, quando Agostino
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era già stato ordinato prete (ciò avvenne, per caso, ad Ippona, l'odierna Bona, nel 391: Agostino, chiamato ad Ippona da un amico, si trovava in preghiera in una chiesa, quando riconosciuto dai fedeli fu vocato sacerdote alla presenza del vescovo di Ippona Valerio, che lo consacrò sacerdote). Prete, ad Ippona, dal 391 al 396, anno in cui su proposta di Valerio, fu nominato vescovo coadiuvatore del vecchio Valerio, cui poi successe, mantenendo la cattedra di lppona fino alla morte (430), Agostino si trovò di fronte a problemi nuovi, non solo filosofico-teologici, ma, e soprattutto, pratici, organizzativi, di politica ecclesiastica. Di qui, da un lato il suo proseguimento nella disputa contro il manicheismo, diffusissimo in Africa, e pericolosissimo per l'unità della Chiesa cattolica, e dall'altro lato la sua polemica nei confronti dell'altrettanto diffuso donatismo (cfr. sopra), forse ancor piu pericoloso per l'unità politica della Chiesa cattolica. Se la polemica nei confronti del manicheismo porta Sant'Agostino a dimostrare l'insufficienza e la contraddittorietà del manicheismo, razionalmente giustificando la tesi cristiano-cattolica mediante il "neoplatonismo" (celebre la discussione pubblica che Agostino ebbe nel 404 con Felice, famoso manicheo, al termine della quale Felice si dichiarò vinto, passando al Cristianesimo: cfr. De actis cum Felice manichaeo l. II; si confronti anche: De duabus animabus contra manich., 392; Disputatio contra Fortunatum, 392; Contra Adimantum manich. discipulum, 394; Liber contra epistolam manichaei quam vocant "Fundamenti," 394-396; Contra Faustum manich., 400; De natura boni contra manich., 405; Contra Secundinum manich., 405); la polemica contro il "donatismo," ribelle all'autorità di Roma e all'insegnamento della Chiesa apostolica, portano Agostino ad accentuare il valore rivelazionistico e, per ciò stesso, il valore dell'autorità della Chiesa romana, depositaria della "regula fidei" (la polemica contro i donatisti si svolse dapprima in un -tentativo di ricondurre gli eretici alla concezione romana e all'unità della Chiesa, usando argomenti razionali, il dialogo convincente - si confronti particolarmente il Psalmus contra partem Donati, del 393-396; Contra epistolam Pormeniani, 400; De baptismo contra donatistas, 400 circa; Contra litteras Petiliani, 400-402 -; in un secondo tempo, constata la pervicacia e la violenza dei donatisti, rifacendosi ad una repressione severa: cfr. in particolare la tesi agostiniana sostenuta nella conferenza del 411, promossa dall'imperatore Onorio, e in cui furono condannati i donatisti a favore della Chiesa cattolica, tenutasi a Cartagine, in cui Agostino prova, sui testi sacri la validità della tesi cattolica, secondo la quale la Chiesa può mantenere nel suo seno i peccatori, per ricondurli alla verità, senza con
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questo perdere la propria santità: Breviculus collationis cum donatistis; si confronti anche Ad catholicos epistolas contra donatistas, o De unilate Ecclesiae, lettera pastorale del 402 circa). Sotto questo· aspetto, particolarmente nei confronti del dualismo manicheo, in una giustificazione razionale della "verità" cristiana, e con cui Agostino venne costituendo l'edificio della "filosofia cristiana," fondamentali si manterranno in tutta l'opera di Agostino i seguenti motivi platonici, già tutti presenti, ariche se sparsi, nell'antecedente tradizione della rielaborazione filosofica della concezione cristiana, accolta dalla Chiesa di Roma: la filosofia intesa come "amor sapientiae," che ha per oggetto Dio e l'Anima, la nostra origine e la nostra natura; la distinzione tra l'intellezione, conoscenza delle cose eterne in cui consiste la sapienza, e la conoscenza ragionata delle cose temporali in cui consiste la scienza; l'incorporeità delle essenze; i gradi dell'ascesa_ dal senso a Dio; i caratteri divini della verità eterna e immobile; Dio uno e infinito, unica essenza fonte dell'essere delle cose e perciò fonte della verità delle cose come luce intellettuale e fonte della bontà degli esseri; bontà di tutte le cose in quanto costituite da Dio; la possibilità di risalire attraverso le cose, aventi in sé l'impronta di Dio, a Dio; tutto ordine, in quanto rivelante la ragione di Dio e perciò tutto provvidenzialmente costituito; inessenzialità del male, privazione e limite (sotto l'aspetto dell'eterno non v'è male; il male è interno alla creatura, limite rispetto al creatore). Si vede cosi come Agostino, giustifichi a se stesso, attraverso l'analisi dell'anima, come coscienza, "conoscendo se stesso," il motivo cristiano - lontanissimo dalla concezione plotiniana - del Dio uno e trino, del Dio unico essere, del Dio teoreticamente ignoto, volontà e creatore ex nihilo, del Dio atemporale che non crea nel tempo, ma che crea il tempo, in quanto crea una realtà altra da lui, privilegiando, nel suo creare, l'uomo, fatto a simiglianza di lui, simiglianza a Dio che si rivela già dall'analisi dell'anima. Senza dubbio, se da un lato il momento platonico-ciceroniano e neoplatonico è stato per Agostino il momento della "fides quaerens intellectum," come si dirà piu tardi, dall'altro lato tale motivo è stato poi usato da Agostino in forma propagandistica come strumento mediante cui convincere all'accettazione della "regula fìdei," secondo la delineazione della Chiesa ufficiale (tre sono le fonti, insiste Agostino, su cui si fonda l'autorità della fede: la Scrittura, la tradizione apostolica e il magistero ecclesiastico). Entro questi due termini si scandisce tutta la costruzione agostiniana, e, insieme, le aporie che ne scaturiscono, particolarmente la questione dell'illuminazione come "grazia," donde deriva il grosso problema della grazia, che sembra annullare tutto il
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razionalismo agosumano, o ridurlo a un mero giuoco retorico, o a una pura esperienza psicologico-sentimentale. Abbiamo già visto come, platonicamente, l'analisi dell'anima, che si rivela tale proprio in quanto riflessione su di sé, rivela che v'è nell'uomo qualcosa che oltrepassa l'uomo, e che implica che a condizione dello stesso esserci dell'anima e del giudizio che l'anima in quanto ragione può esprimere, intendendo, deve esserci l'essere, ciò che è eterno e immutabile, il vero, che appunto dà luce alla ragione, ragione della ragione, che, a sua volta, dunque, non può essere giudicata, essendo essa la fonte del giudizio, quel lume che dà all'occhio la possibilità di vedere e alle cose d'essere vedute. L'intelletto, dunque, per Agostino, non fonda la sua capacità d'intendere sull'essere ideale, cioè possibile: la stessa idea dell'essere presuppone l'essere reale. E allora, se il senso si risolve nell'anima l'anima a sua volta nella ragione e la ragione nell'intellezione e l'intellezione nel porre a condizione di se stessa la "verità," l'essere reale; l'essere che non può non essere che quello che è, tutto ciò che è non può non essere scaturito che dall'Essere stesso, che, in quanto essere perfetto, in sé tutto compiuto, unico essere reale, e perciò indefinibile e ineffabile, non ha in sé alcun perché debba aver dato essere al non essere che non è, per cui l'unico perché - di fatto le cose esistono e sono in quanto limiti, in quanto mescolamento d'essere e non essere, temporalità - è che l'Essere, Dio, ha creato ex nihilo, per volontà, gratuitamente. Relativamente a Dio, dunque, proprio in quanto è Dio, l'Essere, la verità che rende possibile l'intendere, di Dio, dell'Essere nulla si può dire (ogni designazione, sole intelligibile, luce che permette di vedere la verità, maestro interiore e cosi via, non è che metaforica, evocativa): di lui solo si può dire che è l'è, che, secondo l'Esodo (III, 14), "egli è colui che è"; che è l'essere stesso (ipsum esse), unico fondamento del tutto; solo di lui, in realtà, si può dire che è essenza, ciò che sempre è; solo Dio, in quanto essere non ha limite, non ha divenire, è immobile, eterno, e per ciò stesso è l'unica verità assoluta, irrelativa, l'Essere reale (vere esse enim semper eodem modo esse). Agostino sostiene di vedere in tale concezione di Dio un profondo accordo tra l'Essere come è posto da Platone e il Dio dell'Esodo (cfr. De civ: Dei, VIII, 11). Giunti a porre Dio, essere unico ed eterno, immobile, attraverso la riflessione sull'anima, e ritrovata in Dio la condizione stessa senza di cui l'anima medesima non assumerebbe coscienza di sé e di Dio, per analogia all'anima, creatura di Dio e simile a Dio, si giustifica il dogma della trinità, la fede nel Dio uno e trino. Come l'essenza dell'anima, in quanto coscienza di sé, in quanto pensiero (mens) non è se non pensando, per cui essa, pur rimanendo pensiero che è il suo essere, è espri-
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mendosi in una conoscenza (notitia), articolandosi in un discorso, unità vivente del pensiero, onde l'anima è una e trina (mens, notitia, amor), si come è memoria, inte/Jigenza e volontà; cosi l'Essere uno di Dio è in quanto pensiero pensante in atto (Verbo, Intelletto), uno nell'unità vivente (rapporto d'amore: Spirito Santo) di Dio essere, la cui realtà è la sua trinità. "Nella spiegazione della Trinità," scrive il Portalié, ."Agostino concepisce la natura divina innanzi alle persone. La sua formula della Trinità sarà: una sola natura divina sussistente in tre persone; quella dei Greci diceva al contrario: tre persone aventi una stessa natura. Fin qui, infatti, lo spirito dei Greci si fiss;lVa direttamente sulle persone: sul Padre concepito come il Dio unico (originariamente il termine Deus, o 0e6c;, gli era particolarmente riservato), credo in unum Deum patrem; poi sul Figlio, nato dal Padre, Deum de Deo, e infine sullo Spirito Santo, procedente dal Padre in quanto Padre, dunque dal Figlio. Solo riflessivamente il loro spirito considerava direttamente in queste tre persone una sola e identica natura divina. Sant'Agostino, invece, preludendo al concetto latino, da cui hanno ripreso gli scolastici, considera innanzi tutto la natura divina e prosegue fino alle persone per cogliere la realtà completa. Deus, per lui, non significa piu direttamente il Padre, ma piu generalmente la divinità, concepita senza dubbio in mpdo concreto e personale, ma non come una certa particolare persona; È Dio-Trinità, cioè, in fondo, la divinità che si determina senza successione di tempo o di natura, ma non senza ordine di origine, in tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo" (E. Portalié, in Dict. de T h"éol. cathoJ., cit.). Crediamo, con sincera e solida pietà, in un solo Dio, Padre, Figliolo e Spirito Santo, senza credere che il Figlio sia il Padre, né che il Padre sia il Figlio, né che lo Spirito Santo ~he è comune all'uno e all'altro sia il Padre e il Figlio. Crediamo che niente nella Trinità sia separato né dal tempo né dallo spazio, ma che queste tre cose siano ug1,1ali, coeterne e di un'unica e identica natura, e di tuttd le cose non ci sono alcune create dal Padre, altre dal Figlio e altre ancora dallo Spirito Santo, ma che tutte quelle che sono state o sono create sussistono per mezzo della Trinità creatrice. Crediamo che nessuno possa essere salvato dal Padre senza il Figliolo e lo Spirito Santo, né dallo Spirito Santo senza il Padre, ma dal Padre, il Figliolo e lo Spirito Santo, che formano un unico e vero Dio, un Dio veramente immortale, vale a dire un solo Dio, immutabile nella sua eternità... Per comprendere piu facilmente questo mistero, prendiamo l'esempio della memoria, dell'intelligenza e della volontà. Per quanto noi enunciamo queste tre facoltà l'una dopo l'altra e separatamente, non possiamo tuttavia far niente, né dire niente dell'una senza il concorso delle altre due. Tuttavia non possiamo paragonarle alla Trinità, e credere che coincidano con essa in maniera perfc;tta ... La prima differenza che si presenta in tale confronto, è che la memoria, l'intelligenza
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e la volontà sono nell'anima, e queste tre facoltà non sono l'anima 'stessa, mentre la Trinità non è in Dio, ma è Dio. Ciò che opera la meravigliosa semplicità della natura divina, è che in essa l'essere, l'intelligenza e ogni altro attributo si confondono (Lettere, 169, 2). Dio, dunque, è l'essere, che è intelligenza di sé ("sapienza," il Verbo) e amor di sé (Spirito Santo) in una ineffabile unità e trinità che è vita in atto dell'essere che è sempre quello che è, atemporale. Dio perciò è posto, umanamente, come condizione del tutto e come condizione dell'intendere, per cui di Dio in sé, sia come unità sia come trinità, sia come l'essere unico, non v'è visione obiettiva. "In Sant'Agostino, Dio sole dell'anima, non appare mai come un abbietto che vediamo, ma come un agente che produce nella nostra anima ciò mediante cui possiamo conoscere... Il maestro, il sole, la luce, non influiscono come abbietti percepiti direttamente, in cui si vedono altri obbietti ... Sant'Agostino descrive (De Trinitate, XIV, 15) l'influenza di questa luce incorporea, come una trascrizione che, dal libro divino, trasporta la verità eterna nella nostra anima in cui essa è impressa, come il sigillo lascia la sua impronta sulla cera: unde ex libro lucis omnis lex justa (le verità della morale, di cui si tratta nel passo in questione) describitur, et in cor hominis imprimendo transfertur, sicut imago ex anulo et in ceram transit et anulum non relinquit. Ecco l'influenza del maestro divino, del sole, della luce intellettuale: egli trascrive, imprime nell'anima l'immagine della verità, ma il maestro, il sole non sono affatto l'abbietto che :Uoi vediamo (cfr. anche In Ps., IV, n. 8; De ordine, Il, 8)... In linguaggio scolastico la funzione che gli aristotelici attribuiscono all'intelletto agente che produce le species impressae, questo sistema Agostino lo attribuisce a Dio: Lui, il maestro, parlerebbe all'anima, nel senso ch'egli imprimerebbe questa rappresentazione delle verità eterne che sarebbe la causa della nostra conoscenza. Le idee non sarebbero innate come negli angeli, ma successivamente prodotte nell'anima che le conoscerebbe in se stessa" (Portalié, cit., coli. 2335 sgg.). Se, dunque, l'esistenza di Dio, implicita nella stessa consapevolezza che l'anima ha d'esser capace d'intelligere, che l:t sua ratio inferior (la conoscenza) le deriva dalla ratio superior (sapienza), è rivelazione di Dio, la stessa esistenza delle cose, il cogliere, di là dalla dispersione sensibile, nel convertirsi dell'anima a sé, onde la stessa sensazione diventa azione dell'anima, l'ordine su cui tutto si scandisce, compreso che l'essere è uno e unico, rivela che il mondo, le cose, tutto, non è per sé, non ha una sua essenza, ma è dovuto all'atto creatore di Dio, è frutto della sua volontà. Il processo è oramai sempre lo stesso: posto a priori, per fede, che Dio è creatore ex nihilo per un imperscrutabile
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atto di sua volontà, la stessa esperienza delle cose, la stessa esperienza dell'anima, ne dimostra la "verità." "Exceptis paucis in quibus natura nimium depravata est, universum genus humanum Deum mundi huius fatetur auctorem" (In Joa., tr. 106): "philosophi nobiles quaesiverunt et ex arte artificem cognoverunt" (Serm., 161). "Interrogavi terram ... et abyssos ... et responderunt: quaere su per nos ... Ipse feci t nos" (Con f., X, 6, 9): "Ecce sunt caelum et terra: clamant quod facta sunt: mutantur enim atque variantur. Quidquid autem factum non est, et tamen est, non est in eo quidquam quod ante non erat, quod est mutari atque variari. Clamant etiam quod seipsa non fecerint ... " (Con f., XI, 4, 6). In ogni cosa vi è, dunque, un richiamo. a Dio. Tutte le cose sono in. quanto vi è Dio, che con un atto gratuito le ha create. Le creature sono vestigia di Dio, tutte le cose parlano di Dio (" laudatu sii mi Signore per... " dirà, su questa linea, molto piu tardi, Francesco d'Assisi). Esistenza contingente del mondo, ordine dell'universo, esistenza dell'anima, in cui si" risolve il mondo, implicano e giustificano l'Essere pieno e reale, l'Essere uno, sapiente e volontà, da cui tutto, per suo volere, assume realtà e intelligenza, da cui tutto - sempre in atto creato da Dio, ché Dio in quanto in atto essere che sempre è, non ha creato prima o poi, in questo o in quel momento - tutto assume la sua ragion d'essere, la sua ratio seminalis, che in germe, intelligibile in Dio, nella sua sapienza, si svolge e si sviluppa temporalmente una volta venuta all'esserci, secondo la legge voluta da Dio. Fuori del tempo (non tempo) è l'azione creatrice di Dio; egli ha dunque in sé, tutte in atto, le infinite forme possibili; in Dio tutto ha la possibilità di esistere, il mondo è prima del suo esserci, "come il disegno di un mobile è concepito dall'artefice prima di essere fabbricato" (Liber LXXXIII, quaest., 46). Tutte lé cose, perciò, in quanto venute all'esistere per volontà di Dio, hanno in sé il marchio di Dio, seguono il fine determinato da lui. "Questo rapporto oggetti vo di rassomiglianza che Agostino chiama con diversi nomi (exemplar, idea, species, forma, ratio) varia da un tipo all'altro (l'essenza leone e l'essenza uomo imitano Dio differentemente; principales formae quaedam vel rationes rerum, in divina intel/igentia continentur), e in ciascun tipo da un individuo all'altro (singula igitur propriis sunt creata rationibus) ... Le idee cosi per Sant'Agostino diventano Dio stesso considerato nella perfezione infinita della sua scienza ... " (De Wulf, Storia della filosofia medievale, trad. it., Firenze, 1944, I, p. 97). In atto ed eterna la creazione di Dio, il mondo, tutto ciò che Dio vuole, in quanto esistenza, in quanto assumono essere, sono tempo, hanno origine, si dispiegano, sono limite e molteplicità, rispetto all'unità dell'Essere, dell'eterno uno, e, perciò stesso, sono, rispetto all'Essere,
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mancanza d'essere, imperfezione, dagli angeli all'anima umana, ai corpi, alla materia, male in quanto limiti e mancanza d'essere, bene in quanto sono, in quanto esistono e si sviluppano per Dio e in Dio. E cosi tempo e spazialità, in quanto successione e determinazione di limiti ("il mondo di Agostino si dispiega nel tempo e il tempo si dispiega con lui, come un immenso e magnifico poema, di cui ogni parte, ogni frase, ogni parola viene al suo posto, passa e scompare per dar luogo al nuovo, al momento preciso che il genio del poeta gli assegna, in vista dell'effetto di insieme che vuole ottenere": cfr. Gilson, cit., p. 133), tempo e spazialità implicano una serie di punti distinti, di mancanze, di nascite e di morti, di sostituzioni, solo che la stessa temporalità - compreso dall'anima lo svolgersi in unità del tutto -, il poema uno di Dio, si contrae in unità nell'unità consapevole dell'anima, per cui il mondo temporale vien rivissuto uno nell'atemporalità di Dio, in cui tutto il tempo si contrae, appunto, nell'attualità dell'essere atemporale, nell'eterna presenza. Se esteriormente il fluire del tempo si immobilizza punto per punto; e se, invece, l'anima ripiegandosi su di sé, ricordandosi di sé, coglie sé come unità vivente, in cui s'incentra e si interiorizza l'esteriorità, che viene ricondotta alla sua unità, al suo processo uno, il tempo, allora, vien risolvendosi nella stessa unità vivente dell'anima, coscienza di sé come continuità. Entro questi termini Agostino ricalca le pagine plotiniane sul rapporto eternitàtemporalità, e, per altro verso, è attraverso la meditazione sul tempo, come distensione dell'anima e presenza all'anima dell'unità del processo, che Agostino, ancora una volta, dimostra l'immortalità dell'anima e la sua simiglianza a Dio, nella coscienza dell'unità vivente del tempo, unità di tutto il processo, e perciò immagine dell'eterno, di Dio presenza assoluta. Non vi fu tempo nel quale non creavi, perché tu hai creato il tempo. Né vi è un tempo che sia coeterno a te: ché tu permani immutabile, e se il tempo permanesse immutabile, non sarebbe tempo. Il passato e il futuro in che modo esistono, dal momento che il passato non è piu e il futuro non è ancora? Il presente, d'altra parte, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe piu tempo, ma eternità; se dunque il presente, per essere tempo, deve trascorrere nel passato, a che titolo possiamo din: che esiste, esso che ha come causa del suo essere il non essere piu, onde non possiamo dire veramente che il tempo è, se non perché tende al non essere? ... Se dunque il futuro e il passato hanno una qualche esistenza, voglio sapere dove esistono. Se ciò ancora mi è impossibile, so tuttavia che dovunque essi esistano, esistono non come futuro o come passato, ma come presente. Perché, se esistessero come futuro o come passato, non sarebbero ancora o non sarebbero piu: perciò dovunque essi siano, comunque siano, possono essere solo
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presenti. Quando si narrano cose passate realmente accadute, la memoria rievoca, non le cose stesse che sono trascorse, ma le parole ricavate dalle immagini di esse: immagini, che esse, trascorrendo, impressero attraverso i sensi dell'anima come loro tracce. Allo stesso modo, quando si dice di vedere il futuro, non si vedono gli eventi che, in quanto futuri, ·non si sono ancora realizzati, ma forse le loro cause o i loro segni, che già esistono: sicché le cose presenti e nòn future rendono possibile la predizione di una immagine del futuro ... t ora chiaro ed evidente chè né il futuro né il passato esistono, e che non è esatto dire che i tempi sono il passato, il presente e il futuro, ma si deve dire che sono: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. E tutti e tre sono nell'anima, e altrove non li vedo: la memoria presente delle cose passate, la visione presente delle cose presenti, l'aspettazione presente delle cose future. Il tempo non è altro che un'esten-. sione: estensione di che cosa non so; ma sarebbe strano che non fosse estensione dell'anima stessa. Che cosa infatti misuro, io ti domando o Dio mio, quando dico, o approssimativamente: questo tempo è piu lungo di quello; o precisamente: questo tempo è il doppio di quello? Misuro il tempo, lo so; ma non misuro il futuro che non è ancora, non misuro il presente, che non occupa nessun intervallo, non misuro il passato, che non è piu. Ma allora che cosa misuro? Forse il tempo nell'atto che passa, e non già quando è passato? t ciò che ho detto piu sopra. lo misuro il tempo in te, anima mia. Ciò che io misuro è la traccia, che gli eventi trascorrendo producono in te e che rimane quando sono passati, non gli eventi che l'hanno prodotta e che sono passati ... Sto per pronunciare un canto, che conosco bene: prima di cominciare, la mia aspettazione si protende tutta verso di esso nella sua totalità; quando poi comincio, anche la mia memoria si protende tutta verso di esso nella sua totalità; quando poi comincio, anche la mia memoria si protende, in vista di quanto ne lascerò cadere nel passato; e la vita di questa mia azione si estende, per ciò che ho già detto, nella memoria, per ciò che dirò, nell'aspettazione. Presente rimane la mia attenzione, per la quale passa ciò che era futuro e diventa passato. E quanto piu si procede nell'azione, tanto piu abbreviata risulta l'aspettazione e prolungata la memoria, finché tutta l'aspettazione si consumi, quando l'azione è ormai passata intera alla memoria. E ciò che è vero per il canto nel suo complesso, è vero per le singole parti di esso e per le singole sillabe; ed è vero anche per una azione piu lunga, di cui forse quel canto è piccola parte; ed è vero nella vita intera dell'uomo di cui sono parti tutte le sue azioni; ed è vero in tutta la storia dei figli dell'uomo, di cui sono parte tutte le vite umane (Confessioni, XI, 14, 17, sgg.). Se a questa pagina sul tempo si riallaccia ora l'altra, finissima, sulla "memoria" (sempre nelle Confessioni, X, 8 sgg.), si vede bene il significato del tempo come memoria dell'anima, mediante cui si ascende dal senso a Dio, ché tutto è, nell'interiorizzazione dell'anima, memoria di Dio ("Tu eri dentro e io ero al di fuori e qui ti cercavo e con le
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mie brutture mi precipitavo sulle bellezze del creato. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te cose, che, se non fossero in te, non sarebbero. Ma tu hai chiamato e gridato e vinto la mia sordità; hai lampeggiato e brillato e sconfitto la mia cecità; hai esalato il tuo profumo e io l'ho respirato e anelo a te ... ": Con f., X, 27, 38). Nella polemica nei confronti col manicheismo, la tesi del De libero arbitrio se-mbra, portata alle sue estreme conseguenze, negare significato alla figura storica del Cristo e, particolarmente, alla redenzione. Le opere di Agostino, attraverso cui egli giunge, dopo il De libero arbitrio a delineare i termini di una "filosofia cristiana," sui motivi cui abbiamo accennato, portano alle stesse conseguenze del Libero arbitrio. Non a caso Agostino punta (nel rivelarsi all'anima che cerca se stessa) su Dio rivelazione di sé come unico e reale essere, unità e trinità, volontà e creazione, dovuta a lui solo, donde tutto assume il proprio essere e il proprio fine, e per cui tutto, anche se in quanto creatura è limite e passaggio, è bene, anche il corpo, voluto, in quello che è, da Dio, costituente, nell'uomo, unità con l'anima, per cui, pur la realtà dell'anima, non corpo né forma, ma coscienza vivente, è voluta da Dio, cosi come è, e, in quanto tale, anch'essa è bene. Non solo, ma per sua imperscrutabile volontà, Dio, attraverso l'anima, rivela ch'egli ha voluto che l'anima umana fosse libera, assumesse coscienza della sua libertà, per cui può volere se stessa dimenticandosi di sé, amando sé e gli altri oltre il limite, unilateralmente (amore disordinato, in cui consiste il male), oppure può ricordarsi della sua origine divina, convertirsi in sé, riconoscere la sensibilità e attraverso questa, di memoria in memoria, giungere ad oltrepassare sé, in up. amore ordinato nell'ordine di tutte le cose (bene), che in lei si risolvono in unità, cogliendo sé come temporalità e specchio dell'atempo.tale disegno divino. Per ciò, relativamente all'origine dell'anima, Agostino giungerà al punto interrogativo; ogni risposta positiva ~ Dio ha creato dall'origine i semi, i generi da cui si svilupperanno le anime, oppure una sostanza spirituale da cui si distingueranno in seguito le anime, oppure ha affidato agli angeli il compito di dare forma alle anime per poi unirle ai corpi, oppure ancora le anime figliano anime per traducianismo implicherebbe una definizione dell'anima, che porterebbe a sostenere una "natura" dell'anima in contraddizione con l'atto creativo e gratuito di Dio (cfr. De anima et eius origine). (Si vedano su questa linea le grandi opere agostiniane dopo il De libero arbitrio: De doctrina christiana, composta tra il 396 e il 426; Confessioni l. XIII, del 400; De fide rerum quae non videntur, del 400; De Trinitate l. XV, composta tra il 400 e il 416; De Genesi ad litteram, tra il 401 e il 415; De anima et eius origine, del 419-420.)
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Tutto, dunque, è grazia. Tutto, in Dio atto atemporale, presente, è com'è voluto da Dio, assoluta libertà - che, appunto, per ciò, non ha perché, non è necessitato da ragione alcuna, egli fondatore di ogni ragione -; la stessa libertà, quindi, lo stesso accorgersi di poter volere disperdersi nelle cose e nei limiti o ascendere a Dio, collaborare con Dio al piano di Dio, l'accorgersi che la libertà è volere la propria non libertà - tutto, e anche l'uomo, in quanto creatura, in quanto determinazione, avente una sua costituzione, è già perdita della libertà assoluta -, è volere se stesso in Dio, anche il libero volere è grazia, è dono di Dio : e chi lo ha, lo ha; e chi no, no. Se, come apparirebbe dalle opere antimanichee di Agostino, sulla linea del De libero arbitrio, il dono del libero volere di Dio è stato voluto da Dio in quanto costitutivo della stessa essenza dell'anima umana, allora, proprio in quanto a tutti è concessa la "grazia" d'essere o no liberi nel proprio limite, la volontà libera diviene natura, e alta via il peccato originale, il peccato di Adamo, e, ad un tempo, il significato della redenzione. Non solo, ma proprio perché tutto è "grazia," tutto è voluto da Dio, peccare o non peccare, essere nel limite o meno, operare in un senso o in un altro, è la stessa cosa, ché da un lato si aspetta la "grazia," o dall'altro lato, anche nel peccare (che, in effetto, non è piu peccare, si come non è peccare o meno il cader della pietra), nell'essere indifferenti si realizza ugualmente il piano di Dio, ché tutto è bene. Senza dubbio Agostino, dopo ch'ebbe conoscenza della tesi di Pelagio, secondo cui la "grazia" del libero volere fu data all'uomo nell'atto stesso in cui l'uomo fu creato, per ·cui lo stesso peccato di Adamo è il peccato di un uomo, l'esempio del peccato, che non intacca per nulla la libertà umana, la sua possibilità di volere Dio, il suo dovere di bene operare, Agostino si rese conto da un lato del significato - anche politico e storico - della tesi pelagiana, dall'altro lato che la tesi pelagiana, negando alla fine la "grazia" stessa, negava quel radicale male umano, quella non libertà umana, quella umana esistenza finita, che pur sono, e senza di cui - come aveva mostrato Origene - non avrebbe senso neppure la libertà, che non può essere ridotta a natura e a necessità. Non solo, ma l'aspra discussione contro Pelagio e i pelagiani (Giuliano di Eclano, Celestio, i monaci africani, che, per bocca di Floro, avevano, rifacendosi a Pelagio, posta la questione: "se la sola grazia dà la perseveranza nel bene, perché ci rimproveri per le nostre cadute? " : sulla risposta di Agostino si fonderà l'interpret;~zione di Giansenio) assume un suo preciso significato se viene considerata entro l'àmbito della situazione storica del Cristianesimo occidentale sulla fine del IV e il principio del v secolo, insieme alla polemica, condotta in Africa contro la Chiesa cattolica, dai donatisti. L'attività antidonatista di Agostino
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e la sua attività antipelagiana - fino a riprendere nella foga della polemica accenti manichei -, rispondono in lui ad una medesima difesa della Chiesa cattolica e della sua politica, entro i termini di quella che Agostino vedeva come la necessità storica della realizzazione del piano divino (De civitate Dei). Contemporaneo di Agostino, Pelagio,:z nato, sembra, in Irlanda, tra il 350 e il 354, monaco laico, venne a Roma nel 384 circa, ove rimase fino al 410, quando, avvicinandosi a Roma i Goti di Alarico, si recò in Africa e, quindi, a Gerusalemme. La ·sua dottrina fu prima condannata nel Concilio provinciale di Cartagine, poi in quello di Milevi del 416, definitivamente nel 418 dal papa Zosimo, che tenne presente anche la tesi antipelagiana di Agostino (De gratia Christi et de peccato originali, del 418). Con il sacro rescritto dell'imperatore Onorio (418), in cui si appoggiavano in pieno le condanne pronunciate nei Concili della Chiesa cattolica, dando loro un fondamento giuridico (tutti coloro che non avessero rispettato le decisioni dei Concili sarebbero stati esiliati), il pelagianesimo perse il suo primo mordente. Pelagio mori, sembra in Egitto, nel 427 circa. Studi recenti, basandosi anche sull'identificazione di non pochi testi che sembrano di Pelagio (cfr. particolarmente G. De Plinval, Pélage, Losanna, 1943), hanno permesso una piu esatta valutazione dell'opera di Pelagio, delle sue ragioni, del significato della sua tesi in una precisa situazione storico-culturale tra il IV e il v secolo. Il Barbero cosi', rifacendosi ora agli ultimi studi su Pelagio, ha potuto sostenere (cfr. G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torino, 1962) che inserite e interpretate nella luce d,el dibattito "piu importante fra quelli che scuotono la Chiesa occidentale prima della riforma di Lutero," - il dibattito che "ha per campioni da una parte Agostino e dall'altra la scuola 2 Nato probabilmente in Irlanda, nel 350-354, forse da u'na famiglia di schiavi affrancati, come denuncia il suo nome - diffuso era allora tra gli schiavi affrancati provenienti da regioni marittime, dal pelago, il nome di Pelagio. Dal 384 si fermò in Roma, in qualità di monaco laico, tutto dedito a studi esegetici e soprattutto preocoupato della vita morale. Nel 410, poco prima della presa di Roma da parte di Alarico, fuggi in Africa, per recarsi poi a Gerusalemme. Le sue tesi e quelle dèi suoi discepoli e compagni vennero piu volte ufficialmente condànnate: nel Concilio provinciale di Cartagine (398), in quello di Milevi (416: nel 417 il papa Innocenza ratificò le decisioni prese nel Concilio). La condanna definitiva fu pronunciata nel 418 dal papa Zozimo. Delle opere di Pelagio, morto, sembra in Egitto, nel 427 circa, restano: Epistola ad Demetriadem (del 412-413); Libellus fidei _(indirizzato nel 417 al papa lnnocenzo); Expositionum in Epistolas Pauli libri XIV; Liber tle vita christiana; De divina lege; De virginitate; Epistola ad Claudiam; Epist. ad Oceanum; Epistola ad Marcellam; Epistola ad Celantiam; De contemnenda hereditate; De divitiis; Epistola de malis doctoribus; Epistola de castitate; De possibilitate· non peccandi (incompiuto); Epist. ad adulescmtem. Perduti sono andati due suoi trattati su Il libero arbitrio e su La natura. l seguaci piu celebri di Pelagio furono Celestio, Giuliano di Eclano e Fastidio.
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pelagiana -, le visioni sociali di Pelagio permettono di riassumere, con certezza finora mai acquisita, i presupposti di pensiero di quelle che potremmo chiamare le due costanti sociali del Cristianesimo antico : quella conservatrice e quella rivoluzionaria; entrambe vengono a chiarirsi nei loro motivi profondi, che ci riportano a due valutazioni sostanzialmente diverse dell'agire umano." "Per esse è dato accertare che la linea la quale divide l'uno dall'altro atteggiamento è segnata, in ultima analisi, dalla misura in cui si concede fiducia alle forze dell'uomo. La scuola pelagiana, incline ad attenuare, quasi a trascurare, le conseguenze del peccato originale, e quindi ottimista nei confronti dell'uomo, è anche quella che prende le posizioni socialmente piu avanzate, cosi come Agostino, fortemente influenzato dal pessimismo manicheo, rappresenterà la posizione piu dìchiaratamente conservatrice." Per altro verso, Pelagio, assai vicino alla tesi espressa da Agostino nel De libero arbitrio, e che a lui derivava dalla meditazione su testi stoici - Seneca particolarmente - e sui testi di Cipriano e di Lattanzio, riprende il motivo cristiano dell'uomo centro e libertà, capacità di volere operare il bene, di realizzare - in quanto fin dal principio voluto libero da Dio - in questa terra il bene e l'ordine del regno dei cieli, indipendentemente dal peccato di Adamo - senza tenere in alcun conto tutta la problematica sulla libertà espressa da Origene -, tanto che egli come in Adamo non vede che l'esempio del peccato e non la perdita della libertà per tutti gli uomini - tutti nati dal peccato di Adamo, per cui gli uomini sono· il peccato di Adamo -, cosi in Cristo egli non vede il Salvatore, il Redentore, in senso paolina, ma il maestro, l'esempio da seguire ("Cristiano è colui che segue il cammino di Cristo, colui che in tutte le cose imita Cristo" : De vita christiana, 14). Senza dubbio Pelagio portò a estreme conseguenze il motivo cristiano dell'uomo libero, profondamente colpito per un lato dal fatalismo della massa, dall'abbandono morale alle diffuse credenze sul fatalismo astrologico, per l'altro lato dal diffuso lassismo dei cristiani, nell'attesa della "grazia," dall'affermazione, alla fine coincidente col fatalismo astrologico, ch'essendo tutto dovuto a Dio, tutto essendo come deve essere, tutto è indifferente, e va accettato, in questa terra, come è, in un passivo conservatorismo (ricchezze, posizioni sociali, autorità della Chiesa, che mantiene e conserva l'ordine dato), fino a giungere alla conseguente posizione di quei monaci africani secondo cui peccare o non peccare è lo stesso, dal momento che siamo tutti peccatori e che Dio dà la "grazia" solo a chi gli pare, e che solo attraverso la grazia è possibile salvarsi. ("Sono anche i tempi in cui l'espansione numerica del Cristianesimo, sotto l'urgenza delle condizioni politiche maturate con Costantino e i suoi successori, conosce da parte della Chiesa pericolose indul-
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genze: le masse convertite al Cristianesimo molte volte di cristiano non avevano che il nome; il Cristianesimo si era ridotto spesso ad una formale iniziazione, ad un atto di iniziazione misterica in cui la preservazione mistica del battesimo, accettato come garanzia del Cielo, lasciava per il resto immutata la vita": Barbero, cit., p. 554.) Ora, nella lotta tra Agostino e i pelagiani si vede bene la differenza tra una concezione religiosa (Agostino) ed una concezione della vita moralistica (Pelagio ). Per Pelagio se ammettiamo che gli uomini nascono dal peccato di Adamo, che l'atto libero di Adamo ha fatto si esistere gli uomini, ma che, ad un tempo, li ha condizionati ad essere limite e peccato, anche il peccato è giustificato, ché altro non resta all'uomo che peccare. Pelagio insiste cosi su di una vjta di rigore, dedita tutta alle opere, su di una vita di sacrificio, muovendo però dal concetto che mediante una vita cosi vissuta tutti gli uomini possono arrivare a raggiungere la beatitudine. La grazia è per tutti, se si compiono azioni virtuose. Anche dopo Adamo (il peccato di Adamo è di lui Adamo) l'uomo è rimasto quale Dio lo volle: libero. Dio è Dio di giustizia: la colpa di Adamo non può ricadere sui figli. Tutti gli uomini, dunque, possono scegliere la propria sorte. Basta, perciò, che l'uomo sia buono, virtuoso, operante, perché possa raggiungere la grazia. E se ancora si vuole parlare di grazia è grazia data in base all'a. zione, non è la condizione senza di cui l'azione è buona. Dio sa e sapendo aiuta chi merita. Tale dottrina di Pelagio fu portata alle estreme conseguenze dai suoi discepoli Celestio e Giuliano di Eclano. Giuliano afferma che il peccato di nascita•ci sarebbe se ammettessimo che le anime si generano l'una dall'altra ("traducianesimo"); se è vero, invece, che Dio crea le anime volta per volta, non è possibile che Dio le crei già in partenza fiacche, peccaminose. Non c'è bisogno di mostrare come questa tesi si incontri, sul piano pratico, con quella che, sul piano teologicoteoretico, era stata la tesi di Ario. Pelagio si 'rifà continuamente alla morale stoica secondo cui l'uomo con le proprie forze raggiunge ciò che può raggiungere. E cosi, come, alla fine, nell'arianesimo Cristo è un uomo che si fa Dio, nel pelagianesimo è l'uomo che per sua natura libero, può con le sue forze raggiungere il bene. La grazia si riduce a un aiuto dato da Dio all'uomo che fa il suo dovere. La Grazia cosi non è piu gratis, ma è Giustizia. Nelle sue estreme conseguenze la tesi di Pelagio, il suo ardore di moralizzatore del costume cristiano, conducevano ad un ribaltamento del Cristianesimo stesso entro i termini della morale stoica, ad un razionalismo naturalistico piu vicino alla concezione greco-romana che non alla concezione religiosa del Cristianesimo, annullando, a un tempo, la positività del Cristo-Dio, la storicità del Cristo, la redenzione.
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La lunga ed aspra polemica di Agostino nei confronti di Pelagio e dei discepoli di Pelagio (cfr.: De peccatorum meritis et remissione o Libri ad Marcellinum, 412; De spiritu et littera, 412; De natura et gratia ad Timasium et Jacobum contra Pelagium, risposta polemica al De natura di Pelagio, 415; Liber de perfectione iustitùe hominis, contro le Definitiones di Celestio, 415; Liber de gestis Pelagii, 417; Epistola 186 a Paolino di Nola, 417; De gratia Christi et de peccato originali, 418; Epistola 194 a Sisto, sulla predestinazione, 418; De anima et eius origine, 420; Contra duas epistolas pelagianorum, 420; Contra Julianum, hleresis pelagianle defensorem, 421; Opus imperfectum contra Julianum, 427-430; De gratia et libero arbitrio, 427; De correptione et gra#a, 428) risponde ad una serie di dubbi e di aporie che le ragioni di Pelagio provocano nell'autore del De libero arbitrio, che nella polemica con i manichei era giunto ad una tesi non poco vicina a quella di Pelagio, pu.ntando sul motivo cristiano della centralità e responsabilità dell'uomo. Ma la polemica agostiniana risponde anche a una difesa della scoperta cristiana, secondo cui, in realtà, la libertà assoluta non essendo umana, essendo l'uomo per sua natura determinato, condizionato, essendoci proprio in quanto affermazione di sé e chiusura (e qui va ricordato Origene), l'esperienza umana di sé centro di volontà, dell'uomo capace d'essere causa prima di una nuova serie di cause e di effetti, rompendo contro la sua stessa natura, è anch'essa rivelazione, non deducibile razionalmente, ed è perciò dovuta ad un atto di Dio, da nulla condizionato, è, appunto, grazia. Il motivo agostiniano della "grazia" e della "predestinazione" meglio si comprende tenendo presente l'altro motivo agostiniano secondo cui I;>io è l'essere unico e reale - e non, in senso piu strettamente platonico, superessere, preessere, superessenza - donde da un lato il ribaltamento, rispetto alla concezione greco-cristiana, della Trinità, in cui prima delle persone si pone l'Essere che sempre è, e dall'altro lato che la creazione ex nihilo, non è tanto ex nihilo perché Dio cava fuori da se stesso il tutto (platonicamente), ma è creazione ex nihilo davvero, per un assoluto e imperscrutabile att.o di volontà, per cui tra Dio e la realtà da lui creata non v'è alcun rapporto di necessità, ma di contingenza, e per cui Dio crea e vuole quel che vuole non per una sua necessità. Già dire che Dio .crea per Giustizia o dà all'uomo - limite e ribelle, frantumatosi nella molteplicità con il peccato di Adamo, per cui tutti siamo " massa damnation'is" - la possibilità di salvarsi perché si è bene agito, sarebbe negare la libertà di Dio, negare Dio, il suo imperscrutabile disegno (perciò Agostino dirà che mistero è la predestinazione, ch'essa è, appunto, gratuita). Entro questi termini, Agostino, nella polemica contro Pelagio e i
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pelagiani, accentua il motivo dell'uomo male, limite, peccato, che, anzi, quanto piu vuole, quanto piu si afferma - anche se vuole il bene - è sempre peccato, vizio - si ricordino gli "splendida vitia" -: gli uomini sono costituiti quali sono per la libera affermazione di Adamo, l'atto di orgoglio con cui Adamo, conoscendosi, ha perduto la sua unità con Dio, essendo libero, per cui nella libera scelta ha perduto, determinandosi, la libertà. E qui torna il paradosso umano messo in luce da Origene: l'uomo esiste a patto d'essere peccatore; egli non c'è finché non abbia per una originaria e potenziale libertà perduta la sua libertà. L'esperienza stessa, d'altra parte, che dà all'uomo la coscienza d'essere libero, non può, dunque, essere che miracolosa; ancora una volta, in quanto non naturale, la libertà non può non essere che dovuta a Dio; non solo, ma tale intervento di Dio, appunto perché libero, non può avere per l'uomo alcun perché; non è, cioè, deducibile razionalmente, per cui non è ammissibile la tesi origeniana che alla fine Dio salvi tutti, compreso il diavolo. In altri termini Agostino, pur accentuando il motivo del male, in realtà approfondisce il concetto di libertà, sottolineando che una fondazione metafisica della libertà sarebbe un negare la libertà stessa. Tutti gli uomini- come dice in un passo l'Apostolo (che cioè in" Adamo tutti muoiono" - Paolo, I ai Corinzi, 15, 22 - e che da lui trae origine per tutto il genere umano l'offesa fatta a Dio) - sono come una sola massa di peccato, che deve espiazione alla divina e somma giustizia, in cui non c'è malvagità alcuna, sia che essa esiga l'espiazione sia che la condoni. Da chi si debba esigerla e a chi condonarla, è superbia che ne giudichino coloro che sono debitori ... e l'imprudenza di questa domanda è rintuzzata dall'Apostolo quando dice: "O uomo, chi sei tu da potere rispondere a Dio quando si irrita del fatto che Dio si lamenta dei peccatori, quasi che Dio costringa qualcuno a peccare solo perché non largisce a certi peccatori la misericordia della sua giustificazione. Per questo è detto che egli indurisce certi peccatori, nel senso che non ha misericordia di loro, e non perché li costringa a peccare. Di chi non ha misericordia, a chi ritiene che non si debba usare misericordia, egli giudica nel segreto piu intimo della sua giustizia, lontanissimo dall'umano sentire. I suoi giudizi infatti sono "imperscrutabili e ininvestigabili le sue vie" [Paolo, Ai Romani, 11, 33] ... Se dunque qui si ha una elezione ... essa non è di coloro che furono giustificati in vista della vita eterna, ma è per l'elezione che sono stati giustificati. Certo questa elezione è un fatto cosi misterioso che durante la seminagione nulla ce ne .appare ... e tuttavia che diremo?· Che in Dio vi è ingiustizia, se Egli, a chi gli piace richiede e, a chi gli piace, condona, egli che, in ogni caso, non richiede se non ciò che gli è dovuto, non dona se non ciò che è suo? "Ingiustizia forse in Dio? No!" [Romani, 9, 14]. E perché allora a uno in un modo, all'altro in un altro? "O uomo, chi sei tu?" ... Crediamo solo,
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anche se siamo incapaci di capire, dal momento che Colui che creò e ordinò ogni creatura tanto spirituale quanto materiale "dispone ogni cosa secondo misura, numero, peso" [Sapienza, II, 21]. "Ma i suoi giudizi sono imperscrutabili e ininvestigabili le sue vie" [Romani, 11, 33] (De diversis quaestionibus ad Simplicianum, l, quaest. 16, 22: del 397).. Il fatto· che l'uomo è limite, che, fin dalla nascita, è determinato, chiuso, condizionato, non libero, non indifferente, che non sceglie ma è scelto, se da un lato implica che l'uomo viene dal nulla, dall'altro lato non essendovi alcun perché al suo esserci, implica che il suo esserci è dovuto non a un atto necessario, ma a un originario atto di libertà (religiosamente, miticamente se vogliamo, si può dire all'atto con cui Adamo, il primo uomo, simile a Dio, libero, per la sua libertà affermandosi, conoscendosi si è distaccato da Dio, rompendosi negli uomini, tutti, dunque, con Adamo, peccato, "massa damnationis "). Per altro verso, il fatto, invecé, che l'uomo si accorge di essere libero, si come si accorge d'essere possibilità di conoscenza (cfr. sopra), implica la rivelazione, la volontà di Dio, un gratuito atto da parte di Dio, mediante cui l'uomo viene come sanato, riacquista, per volere di Dio, la capacità d'essere libero. Temporali le creature, temporale l'uomo, come con la caduta, con la nascita degli uomini dal peccato di Adamo, è cominciata la storia, sono nate le umane città, nella lotta e nella guerra, i rapporti sociali, necessariamente umani, l'ingiusta giustizia umana, radicalmente malata - ché gli uomini, in quanto male, tutto ciò che fanno è inquinato - cosi con il Cristo, il figlio di Dio, che Dio, per grazia, ha voluto inviare in terra a sanare l'uomo, egli uomo senza peccato, e perciò l'unico che può, pagando, riscattare tutti, ricondurre l'uomo al suo stato originario, con il Cristo comincia la nuova storia. E grazia non è solo il Cristo, ma grazia è anche riconoscere Cristo, per cui senza riconoscere Cristo (ed anche ciò è dovuto a Dio), anche dopo Cristo, non è possibile agire bene, né bastano le opere per avere la grazia, ma è la grazia che dà significato alle opere, è Cristo, il Maestro interiore (" libertas vera est Christo servire"). La Grazia non è dovuta alle opere, "altrimenti la Grazia non è piu Grazia" [Paolo, Ai Romani, 11, 6]. E ciò l'Apostolo attesta in molti passi, anteponendo la grazia della fede alle opere, non per annullare le opere, ma per mostrare che le opere non precedono la Grazia, ma la seguono, si che nessuno presuma aver ricevuto la Grazia, per aver ben operato, mentre non si possono fare buone opere, se non si è per la fede ottenuta la Grazia. L'uomo comincia a ricevere la Grazia da quando comincia a credere a Dio, spinto alla fede da uno stimolo che gli viene dall'interno e dall'esterno ... La Grazia è dunque di colui che chiama, le opere buone invece vengono come conse-
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guenza per chi riceve la Grazia: esse non producono la Grazia, ma sono prodotte dalla Grazia... Cosi nessuno fa il bene per ricevere la Grazia, ma perché ha ricevuto la Grazia opera bene ... (De div. quaest., I, quaest. II, 3). La Grazia non viene elargita a tutti gli uomini, e colui al quale è data non la riceve in considerazione delle sue buone opere, né in ricompensa della sua buona volontà... Tutti quelli che la ricevono l'hanno per pura bontà di Dio ... Se malti ne sono privi, ciò deve attribuirsi a una giusta disposizione di Dio ... (Epistola 217, ad Vitalem carthag.: 12 regole di fede contro i pelagiani: del 427).
"Diciamo Alleluia e cantiamo insieme il cantico e non diciamo: perché questo o perché quello?; tutto infatti è stato creato per il tempo che gli conviene" (De diversis qucest., 22). T aie, nel tempo, nella storia degli uomini, la dialettica della storia, determinata dal conflitto tra la Città della grazia, la Civitas Dei, costituente il "popolo cristiano" e la Città della disgrazia, la Civitas terrena; tale, entro i termini della predestinazione divina, il conflitto, la dialettica storica, cominciata dalla caduta di Adamo, nel suo primo spezzarsi e nel suo primo conflitto simbolizzato da Caino (la Città terrena) e Abele (la Città celeste). La crisi ultima dell'Impero romano di Occidente, Roma, caput mundi, caduta nel 410 in mano ai Goti di Alarico, le accuse di coloro che, angosciati, ritenevano che la fine di Roma fosse dovuta all'avvento della religione cristiana che rinnegava i vecchi dèi, la vecchia religione di Roma, il crollo definitivo di tutto un mondo di valori, ripropongono ad Agostino, in forma drastica e drammatica, da un lato la tragedia dell'uomo disgraziato, male, peccato, dall'altro lato il motivo della predestinazione di Dio, della dialettica storica tra la città degli uomini e la città di Dio, tra il male e il bene, che sono, sempre, umanamente storici, ma, sempre, dipendenti dalla imperscrutabile volontà di Dio (di qui la celebre opera di Agostino, De Civitate Dei, in 22 libri, com" posta tra il 413 e il 426, ove in un'ampia rassegna della storia umana, tutta sotto il segno di Dio, Agostino ripercorrendo le linee della sua concezione, mostra i termini della dialettica storica, su cui, per volere di Dio, si scandisce il processo delle umane vicende). Anche se, dunque, l'avvento del Cristo segna il punto cruciale della storia umana, si come la "caduta" di Adamo, e anche se dopo il Cristo, per grazia di Dio, nel simbolo della Chiesa cattolica, corpo mistico di Cristo, si realizza l'esempio della universale comunità dei giusti, della Città celeste, finché c'è uomo, c'è Caino (Roma) e Abele (la Chiesa), fu, c'è, vi sarà, insieme, il permanere e il mescolarsi delle due Città. Ammettere che dopo il Cristo, con lui, Dio ha dato la grazia a tutti, ha tutti reso mondi del peccato, restituendoli alla originaria libertà di Adamo, .
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vorrebbe dire negare la grazia stessa e il Cristo, in una risoluzione finale della città terrena nel regno dei cieli, in una necessità che chiuderebbe il circolo in senso origeniano. Anzi, proprio la venuta del Cristo, se da un lato indica la via da seguire, dall'altro lato, restituendo il Cristo all'uomo la capacità di ricevere o meno la grazia (ma anche tale fede è dovuta alla rivelazione, alla grazia di Dio), determina in modo ancor piu drastico il significato del conflitto tra la società dei giusti (che non sarà mai di questa terra) e la soeietà degli ingiusti. La storia delle umane città dimostra, secondo Agostino, da un lato che il processo storico, il cangiamento delle civiltà, è dovuto, appunto, a tale dialettica, dall'altro lato che, sia nel male rhe nel bene, in ogni vicenda della storia umana, è presente il disegno di Dio, la sua imperscrutabile provvidenza (si può dire, ad esempio, che l'universalità dell'Impero di Roma, pur essendo Roma il male, è voluta da Dio per preparare l'universalità del Cristianesimo), per cui la stessa Città celeste può trovare, in questa terra, un accordo con la Città terrena, nella tensione a un regr.o che diviene fine ultimo, possibilità di un'apertura alla vita giusta, alla città giusta che è fuori del mondo. Le due Città sono derivate da due diversi amori: la Città terrena dal· l'amore di sé fino al disprezzo di Dio, e la Città celeste dall'amore di Dio fino al disprezzo di sé. Per dirla in breve, quella si gloria di se medesima, questa si gloria di Dio. Quella, in verità, cerca la gloria degli uomini; a questa invece è massima gloria Dio, testimone della coscienza... I cittadini della Città terrena sono dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della Città celeste si offrono l'uno all'altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale (De civit. Dei, XIV, 28). Questa celeste Città, finché è peregrina in terra, chiama a sé i cittadini di tutte le genti, e in tutte le lingue raduna la peregrina compagnia; né si preoccupa di ciò che in essi è diverso nelle costumanze, nelle leggi e negli statuti con cui si consegue e si conserva la pace terrena; non guasta alcuna cosa, non distrugge nulla, anzi piuttosto custodisce e asseconda quelle istituzioni che cooperano alla pace terrena, purché non danneggino la religione per la quale vengono ammaestrati i popoli nell'adorazione dell'unico, vero e sommo Dio. Anche la Città celeste, in questa sua peregrinazione, si vale della pace terrena e delle cose che appartengono alla natura mortale; e custodisce e ricerca la concordia delle volontà umane, ma quanto lo concede la pietà e la religione; e riferisce la terrena pace alla pace celeste. La quale è paco. davvero e la sola che appaga la razionale creatura; ed è l'ordinatissima e la concordevolissima società per godere Dio e per godere l'un l'altro in Dio; e quando vi si è pervenuti, non vi sarà vita mortale, ma certamente vita perenne; non vi sarà il corpo animale che, corrompendosi, aggrava l'anima, ma il corpo spirituale che, senza bisogni, obbedisce pienamente alla volontà. Questa pace ha la Città celeste
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mentre va peregrinando in fede; e per questa fede vive rettamente riferendo le sue buone opere verso Dio e verso il prossimo, all'acquisto della suprema pace; e senza dubbio la vita della Santa Città è vita sociale (De civit. Dei, XIX, 17).
Nel 429, i V andali di Genserico passarono dalla regione iberica in Africa. Nel 430 strinsero di assedio Ippona: al terzo mese dell'assedio, nell'agosto del 430, Agostino, vecchio e ammalato, moriva. Enorme, com'è noto, fu l'attività di Agostino nella sua qualità di Vescovo e di amministratore, ed enorme il suo prestigio personale. Fu in contatto con Paolino vescovo di Nola, con San Gerolamo monaco di Betlemme, con Simpliciano vescovo di Mil.ano, successo a Sant'Ambrogio; consigliò i Papi e fu interpellato dai Papi che si successero a Roma; decisiva fu la sua parola nei vari Concili; le sue lettere giunsero in Gallia e in Dalmazia, fu noto in Oriente particolarmente in relazione alla polemica contro Pelagio. Le sue opere, le sue prediche, le sue lettere venivano lette e discusse, in esse sembrò trovarsi il fondamento della "filosofia" cristiana. Ma ciò che qui' è opportuno ricordare è che Agostino, entro i termini dei temi da lui formulati in un'interpretazione e ricostruzione, che, per la mancanza di una conoscenza diretta dei testi greci, accantonava i piu gravi problemi intorno all'Essere e alla divinità, quali si erano delineati nella tradizione cristiana fiorita nel mondo greco-orientale (da Origene ai tre luminari di Cappadocia), determinò una corrente a senso unico. Ancora vivente Agostino, la polemica piu aspra nei suoi confronti si accese intorno al motivo della grazia, nel dibattito fra la tesi pelagiana (Giuliano di Eclano) e quella agostiniana, particolarmente in Provenza (Marsiglia, Lérins), dove l'agostinismo era difeso ad oltranza da Prospero di Aquitania (390-463 circa). Ciò fu dovuto all'influenza di Giovanni Cassiano. (nato in Scizia nel 360-370, stabilitosi a Marsiglia nel 400, morto nel 435), che secondo un certo modo di ragionare derivatogli dalle sue esperienze fatte presso gli eremiti di Palestina e di Egitto e i platonici bizantini, finiva col proporre in termini mistici la tesi della grazia, tanto da coincidere con. la tesi pelagiana. Se ciò fu dovuto alla diversità della concezione di Dio, al conflitto tra due modi di pensare diversi, a "due culture e tradizioni che oramai si venivano distinguendo, tali aporie e nodi verranno al pettine piu tardi, allorché si ripresenterà l'incontro tra testi di provenienze diverse (si pensi ad esempio a Giovanni Scoto Eriugena). La concezione di Cassiano, scrive il Marrou, "rappresenta l'eresia che ai nostri giorni viene chiamata semipelagianesimo, con un termine non molto felice in quanto questa posizione non possiede un legame originario con Pelagio: essa è derivata da una reazione spon-
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tanea contro l'oltranzismo agosumano, e le sue radici devono essere ricercate nel filone tradizionale dell'insegnamento dei Padri greci che Cassiano riportava, talvolta in maniera malaccorta, a una problematica occidentale per la quale esso non era stato previsto. Questa controversia diede l'occasione al papa Celestino di pronunciare solennemente un elogio di Agostino, a meno di nove mesi dalla sua morte... 'La vita e i meriti di Agostino, di santa memoria, l'hanno costantemente mantenuto in una comunione spirituale con noi, senza che mai sorgesse ombra di dubbio; noi lo ricordiamo come uomo di cosi grande sapere, che è sempre stato annoverato dai miei predecessori fra i piu grandi maestri' [Celestino, Lettera, 21]. Questo intervento tuttavia non riusd a porre termine a una controversia che, con momenti alterni di silenzio e di virulenza, si era prolungata per tutto un secolo; essa venne risolta soltanto nel 529 al secondo Concilio di Orange, in cui gJ:azie agli sforzi di San Cesario d'Arles (470-543), il semipelagianesimo venne definitivamente condannato. La posiziooe dogmatica che in quell'occasione venne prescelta, e fu piu tardi mantenuta dal Cattolicesimo, venne definita come agostinismo ponderato" (Marrou, cit., pp. 154-55). Sant'Agostino, prosegue il Marrou, "ebbe forse in Occidente la funzione svolta in Oriente da Origene. II valore intrinseco dell'opera agostiniana non è sufficiente a giustificarne la meravigliosa fortuna; ma nello stesso tempo bisogna tener conto della sua situazione particolare nella storia. Anche il paragone con Origene, divenuto tradizionale dal tempo di Isidoro di Siviglia, è in realtà ingannevole poiché lo sviluppo delle due grandi tradizioni patristiche, greca e latina, non fu affatto parallelo. Non dobbiamo dimenticare che il Cristianesimo è nato in Oriente e portò in sé per lungo tempo una nota dominante di origine ellenica. Rispetto allo sviluppo rapido e complesso del pensiero greco cristiano, l'Occidente è molto lento nell'assumere una propria posizione ... Certo, anche nei paesi latini hanno presto inizio nuove forme di pensare, di sentire, di vivere la fede cristiana: non mancano personalità veramente originali, da Tertulliano a Mario Vittorino... ma bisogna attendere il vescovo di Ippona per trovare una teologia occidentale... Schematizzando al massimo, potremmo affermare che Agostino è il primo e anche l'ultimo dei grandi dottori dell'antichità latina. Infatti, in Oriente, la tradizione patristica si protrae, senza soluzione di continuità, per tutto il periodo bizantino, quasi per un millennio ancora ... Alla morte di Sant'Agostino tutto un mondo crolla... Questo fatto riesce a spiegarci anche la notevole influenza che la sua opera esercitò nei secoli successivi. Gli elementi della tradizione antica, che per lu11go tempo sopravvissero in Occidente, avevano trovato la loro orbita di gravitazione nel pensiero agostiniano. Osserviamo infatti in Africa, in cui il cattolicesimo so-
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stiene un duro combattimento difensivo contro l'arianesimo dei nuovi maestri Vandali: la figura piu importante di questi tempi, Fulgenzio di Ruspe, ebbe il soprannome abbastanza significativo di Augustinus abbreviatus. E cosi in Spagna dove Isidoro di Siviglia, per primo, pone Sant'Agostino al di sopra di tutti i Padri greci e latini [cfr. Etym., VI, 7, 3]. In Gallia l'opera completa di San Cesario d'Arles ci si presenta C()me un riflesso e un adattamento di quella di Agostino. In Italia, anche a una prima lettura, l'opera di San Gregorio Magno (il Medioevo riconoscerà in lui il maestro della teologia mistica) pur essendo improntata a una profonda originalità ci offre una caratteristica ricorrente di agostinismo elementare e volgarizzato. Ma ·terminiamo di percorrere l'Occidente: la latinità si estendeva allora attraverso tutti i paesi danubiani fino alle ·rive del Mar Nero: sotto il regno dell'imperatore Giustino prese parte alle discussioni teologiche nella capitale bizantina un gruppo di monaci 'sciti,' dei Rumeni che da latini puri avevano una formazione teologica basata su Sant'Agostino (518-520)" (Marrou, cit., pp. 156-58). Quando Agostino divenne maestro di retorica compose o abbozzò, in relazione al proprio insegnamento, un insieme di scritti, che avrebbero dovuto avere la funzione di un'enciclopedia delle arti liberali: perduto il De grammatica, sono giunti, insieme al De musica (in'tero), gli abbozzi del De dialectica, del De rhetorica, del De geometria, del De arithmetica e del De philosophia. Tali scritti, entro i termini di una certa tradizione culturale, avevano la funzione, insegnando a ben pensare e a.ben parlare, di introdurre, insieme alle conoscenze geometriche, aritmetiche, astronomiche, a un modo di ricerca esatto su cui determinare una certa concezione. Piu tardi Agostino - nel De doctrina Christiana -, proposta una ben precisa concezione, applicò il metodo degli studi classici, proprio delle scuole, all'interpretazione del libro sacro, per cui restano formalmente valide le stesse discipline formatrici dell'oratore e dell'uomo colto non cristiano, formatrici ora dell'oratore cristiano. E se perciò gran parte delle dimostrazioni agostiniane sono dimostrazioni retoriche, cosi non poca importanza assume per lui, nel discorso, e nella difesa di una propria tesi, la confutazione, la "dialettica," e l'uso, volta per volta, di questa o quella cognizione, diciamo scientifica (zoologia, astronomia, agricoltura, geografia), che assume la funzione di quelle che erano nella discussione di un'ipotesi, le tesi retoriche. In tal senso Agostino riteneva opportuno che le arti liberali, i materiali, le enciclopedie, propri delle scuole, venissero usati anche nelle Chiese, nella preparazione del Cristiano colto. Lo studig delle arti umane (grammatica, retorica, dialettica) da un lato, e, dall'altro lato, quello delle scienze (conoscenze di animali, di luoghi, di
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piante e cosi via) dovevano servire poi per interpretare e far comprendere la Bibbia. Se, sotto questo aspetto, tenendo presente l'importanza e l'influenza che ebbe Ago'· ino nell'ultima fase della cultura antica in Occidente, ciò sembra chiarire su quali motivi si sia sviluppata la linea scolastica che vide fiorire manuali, centoni, etimologie, e, in questo senso, il recupero delle enciclopedie, dei repertori, e via di seguito, del mondo latino, altrettanto chiara sembra la ragione del successo che fin da principio ebbe l'enciclopedia del rètore cartaginese Marciano Capella, scritta, intorno al 340, in latino. Già il titolo - forse dato piu tardi - è tutto un programma: De nuptiis Philologice et Mercurii et de septem artibus liberalibus; ché le nozze della Filologia e di Mercurio stanno ad indicare la funzione dell'interpretazione (Mercurio) dei testi, delle parole (Filologia),· mediante cui si costituisce il sapere, la parte formale del sapere (logica: grammatica, retorica, dialettica) e le utili cognizioni (platonicamente e in ordine gerarchico : geometria, aritmetica, astronomia, musica), quella màthesis senza di cui sordo resta il libro della natura, che è ad un tempo il libro di Dio (sia esso il libro fisico, sia esso il libro sacro). Di qui a Boezio prima, a Isidoro di Siviglia e a Beda il Venerabile poi, il passo sembra facile. Ma, oramai, non spetta piu allo storico del pensiero e della cultura dell'antichità mostrare la funzione e il significato soprattutto di Boezio nella storia della cultura occidentale.
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Capitolo secondo.
Proclo. La Scuola di Proclo. Le componenti culturali nel mondo greco-orientale tra il V e il VI secolo. Il Cristianesimo e la influenza procliana. Gli scritti dello Pseudo-Dionigi. La chiusura delle scuole filosofiche di Atene (529)
Con Proclo, 1 che aveva ascoltato ad Alessandria Olimpiodoro il Vecchio e ad Atene Plutarco, Siriano e Domnino, al quale successe nello scolarcato dell'Accademia nel438, che, ad Atene, alla scuola di Domnino e di Siriano (cfr. sopra), era stato presente alle discussioni già vive tra la corrente razionalista e metodologicamente aristotelica e la corrente portata a un'interpretazione del tutto sul piano mistico-intuitivo, si vede chiaramente, dicevamo, come le due correnti, piu che intrec1 Nato a Costantinopoli nel 410 o nel 412, da una famiglia ongmaria di Xanto nella Licia, Proclo, dopo avere studiato ad Alessandria con il matematico Erone e con Olimpiodoro il Vecchio, di cui sposò la figlia, prosegui i suoi studi ad Atene, prima con Plutarco, poi con Siriano. A Domnino, successore di Siriano nello scolarcato della scuola di Atene, successe nel 438 Proclo, che, ritenuto il vero successore di Siriano, fu detto, appunto, "il successore" (il diadoco). Poco sappiamo della vita di Proclo, se non ciò che in forma agiografica narra di lui il suo discepolo Marino nella Vita Procli (di alta statura, bello, forte e proporzionato, di prodigiosa memoria, grande lavoratore - cinque lezioni al giorno, settecento righe quotidianamente scritte - , liberale, benefattore, di vita ascetica, vegetariano, dispregiatore della sensibilità e del corpo; dotto di tutti i culti, di tutti celebra e comprende i riti; venerato dai discepoli come un dio; egli è l'unico che sappia vedere non vedendolo il Dio, egli è l'"epopta," 'ad un tempo rigoroso logico e scienziato). Prudo mori ad Atene nel 485. Sono rimaste di Proclo le seguenti opere: In Platonis Timaei commentario; In Platonis primum Alcibiadem; In Platonis Parmenidem; De decem dubitationibus circa providentiam (si possiede solo l• traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke); De providentia et fato i!t eo quod in nobis (nella trad. lat. del Moerbeke); De malorum srJbsistentia (sempre nella trad. lat. del Moerbeke); Scolia in Parmmidem; In Platonis Rt:mpublicam commentario (piu che di un commento vero e proprio si tratta di una serie di saggi che prendono ad occasione testi platonici); In Platonù Cratylum commentario (frammenti); In Platonis theologiam (in 6 libri: I Introduzione; II L'Uno; III Gli d~i; IV Gli dèi intelligibili-intelligenti; V· Gli dèi intelligenti; VI Gli dèi egemonici e gli altri dèi); Elementa tht:ologiae (compendio della Tt:ologia platonica); Institutio physica, si ve de motu; In e/e menta Euclidù l (sfrutta la Storia della. geometria di Eudemo e la Teoria del/t: matematiche di Gemino); Hypotyposis astronomicarum positionum; Paraphrasis in Ptolomaei Tetrabihlon; Inni. Delle opere di Proclo sui simboli religiosi, sulla teurgia, contro i Cristiani, su Cibele e su Ecate, non abbiamo che. scarsi frammenti, di cui il piu importante è quello andato sotto il nome Dt:lla tecnica ieratica presso gli E/leni, tradotto in latino dal Ficino con il titolo De sacrificio et magia.
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ciarsi o giustapporsi, trovino la loro giustificazione in una lucidissima sistemazione dei molti aspetti con cui, per un verso o per l'altro si era venuto sviluppando il neoplatonismo sia nella scuola di Alessandria sia in quella di Atene. Non solo, ma la tradizione scolastica dell'Accademia, impostata sulla lettura e sul commento del "corpus platonicum" - del libro - entro cui non rientravano solo le opere di Platone, ma anche i commenti e i commenti dei commenti, porta Proclo a ripercor~ rere tutta la serie dei commenti ai testi di Platone, fino a giungere al proprio commento diretto, evidentemente avvenuto, per cosi dire, a posteriori. Una storia delle fonti di Proclo, insieme a una storia dei termini tecnici usati da lui - dal termine "processione, " al termine "ènade," "triade," "veicolo," e cosi via - condurrebbe da un lato ad un rintraccio minuto di tutta la tradizione platonico-neoplatonica, dall'altro lato a rendersi conto·che l'originalità di Proclo sta in una chiarissima ricostruzione e sistemazione degli aspetti diversi del "platonismo," ove, per altro verso, è sottinteso, nell'interpretazione di certi testi di Platone (in particolare il Parmenide e il Timeo) il metodo dialettico di origine aristotelica, che non poche volte è servito per delineare non contraddittoriamente - cioè come possibilità di porre le condizioni che permettono di pensare la realtà - sia il motivo dell'Uno, sia, insieme a quello dell'Uno, il motivo delle cause, in una deduzione possibile in quanto i passaggi dialettico-discorsivi siano traducibili in termini numerici e geometrici, per cui, entro questo àmbito, riprende un suo significato logico la interpretazione della corrente platonico-pitagorica. Il lettore colto delle opere di Proclo - i commenti ai dialoghi platonici, gli Elementi di teologia, la Teologia platonica - non si trova mai direttamente di fronte a Proclo e a Platone, ma ad un Platone mediato, a un'evocazione continua dei testi e dei commenti che vanno dal 1 secolo a. C. al v d. C., a testi pitagorici e aristotelici, in un procedimento che va dall'analisi delle varie questioni e delle varie soluzioni, che su ciascuna di esse è stata data, alla presentazione di una soluzione, assunta come vera perché non piu controvertibile. In tale direzione, particolarmente, si muove la discussione di Proclo, nella costruzione di un coerente "platonismo," relativamente alla precisazione delle ipotesi platoniche sull'Uno del Parmenide e relativamente alla possibilità di una deduzione matematica del tutto nei termini del Timeo. Tutta l'opera di Proclo è, in realtà, un commento al Parmenide e al Timeo, mediante cui rintracciare le fonti della "arcana santissima dottrina" di Platone, "guida e interprete di misteri santissimi e di veraci iniziazioni" (cfr. Teologia platonica, I, 1), esplicate poi dalla tradizione platonica (si confrontino in tale senso non solo i Commenti
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al Parmenide e al Timeo, ma anche gli Elementi di teologia e la Teologia platonica). E con ciò si è rimandati a Platino, a Porfirio, a Giamblico, per non parlare degli immediati maestri di Proclo: Plutarco di Atene, Siriano, Domnino (cfr. sopra; cfr. Teologia platonica, l, l, dove, appunto, Prodo rifà la storia della propria preparazione al "platonismo "). Per altro verso, di fronte a quello che sembra l'aspetto piu mistico e iniziatico di Proclo, al suo approfondimento della funzione della magia e della teurgia, che è parso, in genere, in contraddizione con lo sforzo procliano di ricondurre tutta la costruzione platonica a una possibilità deduttiva, razionale, lo studioso di Prodo è rimandato in particolare a Giamblico. E qui pensiamo al tema giamblicheo secondo cui se la ricostruzione aritmetico-geometrica del tutto, che platonicamente non può non prendere le mosse che dal porre l'Uno come condizione della pensabilità dell'essere e perciò dei molti, tale ricostruzione, facendo perdere, alla fine, il senso piu profondo della vita del tutto, l'unità vivente, in un'astrazione che oblia le forze vitali (divine), i semi da cui fruttifica la realtà, le occulte composizioni e le occulte separazioni donde derivano le cose stesse, i loro reciproci siropatetici rapporti, rimanda, oltre la protreptica e necessaria ricostruzione logico-matematica, a una interpretazione della realtà, che ne colga il mistero, che colga gli occulti rapporti, e sappia su di essi operare, in una ripresa di certi aspetti della fisica stoica - quando non si pensi alla tradizione alchimistico-democritea -, che dà un significato ben preciso alla magia e alla teurgia. In questa doppia linea si era già posto il maestro di Proda, Siriano, come chiaramente appare dai testi ch'egli, all'Accademia, faceva leggere agli scolari. Si leggevano e si commentavano prima i testi di Aristotele, cominciando dai libri di logica, per proseguire con quelli etico-politici, quelli fisici e quelli di filosofia prima; si passava poi ai libri di Platone l'Alcibiade I, il X delle Leggi, il Parmenide, il Timeo, il Pedone, il Filebo, la Repubblica; si commentavano infine gli Inni orfici e gli Oracoli caldaici. L'opera di Proclo, che subl, senza dubbio, l'influenza di Siriano (cfr. Dodds, ed. degli Elementi di teologia, pp. XXIII sgg.), calca in gran parte la linea segnata da Siriano. Marino, discepolo e biografo di Proda, conferma che il maestro, sulla scia di Siriano, aveva letto e discusso tutti i libri di Aristotele (Marino, Vita di Proclo, 23). Certo, l'Institutio physica, un manuale scritto da Proclo per la scuola, si basa sulla Fisica di Aristotele. Tra i commenti di Proclo alle opere di Platone sono rimasti i Commenti all'Alcibiade l, al Timeo, al Parmenide, alla Repubblica e frammenti del Commento al Crati/o (non poche volte, per altro, Prodo commenta il X libro delle Leggi: cfr. Teologia platonica). La Teologia
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platonica, la maggiore opera di Proclo, e gli Elementi di Teologia, un compendio scolastico della Teologia, composto da Proclo stesso, si riferiscono alle conclusioni da dare dopo una lettura e un commento dei testi platonici, in chiave plotinico-giamblichea. Infine Proclo commentò gli Oracoli caldaici e compose opere sui simboli religiosi (Sui simboli mitici), sulla teurgia (Sulle operazioni: 7tept &y<òyljç ), sulle divinità, contro i Cristiani (di queste opere non è rimasto che un frammento intitolato Sull'arte ieratica dei Greci: ITept -rijç x1X6' "Eì.ì.1)VIXç tepiXTtxljç -réxv'Y)ç, ossia De sacrificio et magia).· Già l'indicazione dei testi di Proclo rimasti (cui aggiungiamo le tre operette, pervenute nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke De decem dubitationibus circa providentiam; De providentia et fato; De malorum subsistentia) mostrano la linea da lui seguita nell'àmbito della scuola di Atene: da un lato, seguendo un ben preciso metodo e un ben preciso curricolo di studi, precisazione delle condizioni che permettono di pensare la realtà, si che la ricostruzione del tutto discenda non contraddittoriamente da principì e cause prime non contraddittoriamente posti, disciogliendo le aporie e la problematica platoniche sull'Uno (Parmenide), iniziando cosi alla comprensione dell'unità divina; dall'altro lato, dimostrato che l'Universo tutto discende dall'Uno, che tutto è nell'Uno, che ogni cosa uscita dall'Uno si converte nell'Uno, per cui in tutto v'è un aspetto, un segno, per opaco che sia, della forza divina, un seme divino, precisazione delle tecniche mediante cui ricondurre all'unità il disperso, mediante cui ricomporre e trasformare le cose richiamando per ciascuna la sua relativa potenza divina (teurgia e magia in termini simbolico-alchimistici). Dice lo stesso Proclo, aprendo la Teologia platonica: Il discepolo che ascolta tali dottrine deve presentarsi adorno di virtu in morale esercizio: dovrà cingere di vincoli ogni moto ignobile e disarmonico dell'anima ... in vista di un'armonia, tesa verso l'Uno di tutte le specie intellettuali ... Il discepolo deve, inoltre, essersi esercitato in tutti i passaggi forniti dalla logica; si presenti quindi a noi dopo lo studio di molti casi per risoluzione di sillogismi, di opposti casi in cui si usa la divisione (tutti i casi in cui le sentenze divengono tali da non poter essere confutate) ... In terzo luogo poi, il discepolo non dovrà ignorare alcuna scienza sulla natura: dovrà aver conosciuto le molteplici ipotesi in proposito, espresse mediante immagini, intese a dar ragione di causa al tutto. Soltanto allora, con maggiore facilità, si volgerà ormai alla natura delle cose separate e delle sostanze originaria· mente agenti. Insomma non si deve essere privi d'una verità che ha valore nel regno delle apparenze sensibili, né d'altra parte si deve essere ignari delle vie alle quali conduce un alto studio, delle discipline che in quelle hanno proprio atto. Con ìi sussidio di queste, infatti, si giunge a conoscere la
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divina sostanza ben piu immune da materia. E solo dopo avere indirizzato tutte queste cognizioni, raccolte in una, verso la mente che è duce e guida; dopo aver partecipato della dialettica platonica; dopo essersi esercitati sulle attività come sugli atti mentali immateriali e divisi da corporee potenze: solo allora il discepolo potrà sentire in sé sorgere il desiderio di contemplare razionalmente le cose supreme ... Ammessa in qualche modo la conoscibilità del divino, rimane ch'esso sia conoscibile con la sostanza dell'anima, e soltanto venga conosciuto attraverso questa, per quanto è possibile. Diciamo infatti che in ogni caso cose uguali sono conosciute per mezzo di uguali cose. E quindi, evidentemente, il sensibile con la sensazione, l'opinabile con l'opinione, la discorsività col discorsivo pensiero, l'atto intuitivo della mente con la mente. Cosi che anche l'uno, ciò che in sommo grado è uno e con l'ineffabile, ciò che è ineffabile. Rettamente a questo proposito nell'Alcibiade [Alcibiade I, 132b-c] diceva Socrate che l'anima, penetrando in se stessa, avrebbe veduto non solo le altre cose, ma anche Dio ... L'anima, guardando alle cose che le tengono dietro vede solamente ombre e i simulacri degli enti. Se invece si rivolge a se stessa, dispiega allora la propria esseità e le sue ragioni. E dapprima, intanto, potrà soltanto contemplare quasi se stessa; poi, approfondendo l'immagine con la conoscenza di sé, trova in sé anche la mente e gli ordini degli enti. Ma, ritirandosi nell'interiore recesso di se stessa, quasi inaccessibile luogo santo dell'anima, essa potrà contemplare, con pupille chiuse, la stirpe degli dèi e le enadi [unità J degli enti. Infatti, tutte le cose sono anche in noi sotto una forma che l'anima comporta in sé; ragione questa per cui la nostra natura può conoscere tutte le cose; basta ridestare le potenze celate in noi e le immagini di ogni cosa. Anzi il segno piu nobile dell'atto umano è appunto questo potersi tendere, nella profonda pace di ogni potenza, verso il divino. ... E conviene gettare via ogni cosa, le cose tutte posteriori all'Uno, e prendere dimora presso di lui e, con lui, ineffabile, congiungersi; con lui, al di là degli enti tutti ... Là pervenuta, ... l'anima potrà quindi di là discendere per compiere il suo cammino nel regno dell'essere, attraverso gli enti. Allora potrà esp\icare, sfogliando quasi pagine di un libro,. la pienezza delle specie, trascorrendone le monadi e i numeri inerenti, potrà riconoscere mentalmente in quale modo ciascuna ha una relazione di dipendenza con le singole enadi ... Tale il teologo, tale l'abito della Teologia ... (Teologia platonica, l, 2-3). Se questa pagina indica chiaramente il metod~ di Proclo e la sua interpretazione del "conosci te stesso" socratico, in termini plotiniani, onde, facendo centro sull'anima, in cui s'incentra l'Universo tutto, si può ripercorrere la via all'in su e la via all'in giu, su cui si scandisce il tutto, uno e molteplice a un tempo, rintracciando la catena degli esseri, i rapporti di reciproca conversione della causa e dell'effetto, per cui tutto discendendo dall'Uno - in atto tutti, motore immobile tutto è in rapporto di simpatia, tutto si scandisce in relazioni mimetiche - relazioni che evidentemente si pongono anche tra le cose di
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lassu e le cose di quaggiu -, questa altra pagina di Proclo - tratta dal frammento sull'arte ieratica - chiaramente spiega la funzione da lui data alla magia e alla teurgia. Dice, dunque, Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra ad un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mortale, attirandole mediante la somiglianza, poiché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri ... I maestri dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, ed altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico, simile all'unità prec~dente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, ·impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre la forma del modello... (Arte ieratica, in Bidez, Catalogue des manuscrits alchimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928; "in altri termini, il 'saggio,' nei simboli che plasma, procede nel senso opposto della dispersione spirituale; riordina e riconduce verso l'unità primaria la disgregazione materiale; in secondo luogo, questo movimento sacro consiste in un ordinamento formale, tanto piu efficace, ossia tanto piu capace di attrarre a sé le potenze superiori, quanto piu simili ad esse": Garin, Le "elezioni" e il problema dell'astrologia, cit., p. 24.) Entro questi tenmm sembra chiaro lo stretto rapporto posto da Proclo tra il momento razionale e il momento operativo, e il significato dato, nell'interpretazione dell'arcana e divina dottrina di Platone, per un verso a Plotino e a Porfirio, per altro verso a Giamblico e agli antichi "saggi" e "sacerdoti," maghi e teurghi, insieme, ancora, alla logica di Aristotele e alla fisica celeste aristotelica (non a caso Proclo scrisse anche un'Introduzione alle teorie astronomiche di Ipparco, e una Parafrasi del Tetrabiblo di Tolomeo), mentre commentò e studiò il I libro degli Elementi di Euclide (Commento al I libro degli Elementi di Euclide). Se nell'Alcibiade I di Platone sembrava si trovasse in nuce la tesi plotiniana della conversione dell'anima su di sé, mediante cui l'anima, cogliendo sé, trascende sé per giungere all'intelletto e all'Uno, nel Parmenide di Platone, nella discussione platonica sull'Uno, sembrava si trovasse il fondamento della concezione dell'Uno, condizione senza di cui non è possibile pensare l'Essere, a sua volta condizione delle
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cose che sono, per cui appunto l'Uno è principio assoluto e causa assoluta. Aveva detto Plotino: "In virtu dell'Uno tutti gli esseri sono quel che sono ... che cosa infatti un essere sarebbe, se non fosse uno? L'esercito, il coro, il gregge non esistono, se non costituiscono ciascuno una unità ... " (Enn. VI, 9, 1). Dice ora Proclo, dopo una lunga discussione sulle ipotesi del Parmenide: "È necessario che i molti partecipino dell'Uno, non solo, ma che anche l'Uno sia immisto in rapporto alla pluralità e che nulla vi sia superiore all'Uno, ma che questo sia causa dell'essere per i molti. Ogni cosa infatti fatta priva dell'Uno corre sull'istante rapida verso il nulla, e verso la propria rovina. D'altra parte ciò che non è pluralità, non può insieme diventare pluralità e cosi essere nulla. All'Uno, infatti, si oppone come contrario il nulla... Per conseguenza, se non è la stessa cosa l'Uno e la pluralità, neppure la non pluralità sarà la stessa cosa del nulla. L'Uno, dunque, è al di là della pluralità e causa dell'essere ai molti" (Teologia platonica, Il, 2). E, proprio al principio degli Elementi di Teologia, Proclo ribadisce: "Ogni molteplicità partecipa in qualche modo dell'Uno. Se non partecipasse affatto né la totalità degli esseri né i singoli che compongono la molteplicità costituirebbero un'unità, ma ciascuno di essi costituirebbe una molteplicità, e cosi all'infinito, e ciascuno di questi infiniti costituirebbe di nuovo una molteplicità infinita. Se infatti la molteplicità non partecipa minimamente ad alcuna unità né nella sua totalità presa in se stessa né nei singoli, allora sarà infinita in tutto e per tutto. Infatti ciascuno dei componenti di una qualsivoglia molteplicità o è uno, oppure è un non-uno; e se è un non-uno, o sarà molteplice o non sarà niente. Ma se il singolo non è niente, allora non è niente neanche la molteplicità che ne risulta; se invece è molteplice, vuoi dire allora che il singolo è composto d'infinite infinità. Ma questo è impossibile: nessun essere consta di infinite infinità (poiché niente è maggiore dell'infinito, mentre ciò che comprende il tutto è maggiore del singolo), né è possibile che qualche cosa sia composta di niente. Quindi, ogni molteplicità partecipa in qualche modo dell'Uno" (Elementi di Teologia, 1). Ora, proprio perché l'Uno è ciò che si richiede perché sia possibile pensare la molteplicità, ciò senza di cui nulla avrebbe essere, l'Uno, per sé indefinibile, in quanto ragion d'essere del tutto - e perciò ineffabile -, è oltre l'essere, oltre il tutto, causa prima e principio assoluto. Se senza l'Uno non vi sarebbe molteplicità (che c'è), senza la molteplicità non vi sarebbe l'Uno; se senza le cause non vi sarebbero gli effetti (che ci sono), senza gli effetti non vi sarebbero cause e, perciò, la Causa prima e l'Uno. D'altra parte, poiché ogni cosa è perché ha
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essere, ogni effetto è tale perché ha in sé - anche se mente- un aspetto della causa; l'Uno che è causa prima l'essere, è causa di tutte le cause e di tutti gli effetti, prima causa, fondamento dell'essere, è, ad un tempo, in senza di cui nulla sarebbe, Bene.
depotenziataha in sé tutto per cui esso, quanto è ciò
Al di là di tutti i corpi è l'essenza dell'anima, al di 1~ di tutte le anime è la natura intellettuale, al di là di tutte le sussistenze intellettuali è l'Uno... ; guida di tutte le cose mosse è il semovente [anima]; di tutti i moventi è l'immobile ... che muove nella sua immobilità: la mente. Ma anche prima della Mente c'è l'Uno... E non c'è piu altro al di là dell'Uno; perché l'Uno e il Bene sono la stessa cosa, e il Bene è principio di tutte le cose (Elem. di Teol., 20). Se non vi fosse causa di nessuno degli enti, neppure ci sarebbe ordine di secondi e primi, di perfezionanti e perfezionati, di ordinatori e di ordinati, di generanti e generati, di agenti e pazienti, né scienza di nessuno degli esseri ... Se dunque ci deve essere una causa degli esseri e le cause si distinguono dagli effetti, e l'ascesa non procede all'infinito, c'è una causa prima degli esseri, da cui, come da radice, tutti procedono (Elem. di Teol., 11). L 'Uno, causa prima, fondamento dell'essere, e perciò Bene, è al di là di tutto: assoluto, preessere, nulla è se non in quanto a lui riferibile, per cui esso resta in sé assoluta potenza (ricchezza assoluta) e perciò stesso tutto in atto; da un lato infinito, illimitatezza (&7tetp(1X = apeirla), dall'altro lato compiuto, perfetto, finito (7tép<Xc; = péras), esso è ad un tempo causa prima (efficiente) e causa finale, immobilità nella sua vita in atto, e motore (cfr. El. di Teol., 26; Commento al Parmenide, III, 8-9; Elem. di Teol., 84-92). L 'Uno, dunque, per sua stessa necessità, si scandisce in due, pur rimanendo uno; esso cioè è dialetticamente tre: se stesso, sempre identico a sé, che in quanto causa obbietta se stesso, onde esso non è né sub-ietto né ob-ietto, ma la tensione dei due termini. Tale circolarità dialettica dell'Uno, in quanto tutto procede dall'Uno, si riflette in tutto ciò che è, di grado in grado, per cui tutto vive della dialettica dell'Uno. E allora l'Uno, in quanto causa, e perciò in quanto fonte della vita, non è essere dato, non è determinazione, cosa, non ha né figura (corporeità) né materia (estensione), non è, in sé, né sub-ietto né ob-ietto, ma l'uno e l'altro, per cui di lui si può dire 110lo tutto quello che non è ("in lui le negazioni sono, sotto la sola forma possibile, le vere affermazioni delle qualità contrarie alle cose imperfette che negano": Teolog. platon., II, 10-11). In sé compiuto, essendo in lui tutte le infinite possibilità, pur tutto procedendo da lui, pur essendo tutto effetto di lui causa, in quanto causa in atto, egli fonte dell'Essere e perciò della vita, egli non si esaurisce negli effetti, né nel suo esserci come sub-ietto e ob-ietto, per cui pur tutto, per essere,
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partecipando di lui, egli, in sé, nella sua dialetticità circolare, nella sua unità resta impartecipabile, separato dai suoi effetti, si come il poeta dalla sua poesia. Bisogna che la causa suprema sia separata dai suoi effetti: di quanto è separato il poièta dalla pòiesis, di tanto opera con maggior purezza e perfezione ... L'Uno che è prima dell'ente è in certo senso non ente, ma non tuttavia nulla (Comm. al Parm., III, 16; VI, 54). La mancanza, infatti, non è in lui segno di privazione, ma di superiorità (Comm. al Parm., VI, 87). Qualsiasi cosa si aggiunga all'Uno, si toglie l'Uno e non si mostra piu che rimanga Uno, ma che riceva in sé l'Uno (Teol. plat., II, 12). Ciò che è presente nello stesso modo a tutte le cose, per illuminarle tutte, non è in una cosa sola, ma è avanti a tutte ... Se fosse in tutte, essendo diviso tra tutte, avrebbe a sua volta bisogno di un altro che unificasse il diviso ... Se fosse in una tra tutte, non sarebbe piu di tutte, ma di una sola; se dunque è comune a tutte le cose capaci di partecipazione ed è lo stesso di tutte, sarà avanti a tutte: e questo è l'impartecipabile ... Vi è dunque una monade sola prima della molteplicità in ogni ordine, che fornisce la ragione unica e la connessione alle cose in esse ordinate nei rapporti tra loro e con il tutto. Ogni partecipante è inferiore al partecipato, e il partecipato all'impartecipabile ... L'impartecipabile dunque governa i partecipati e questi i partecipanti. Insomma l'Uno è prima dei molti, e quel che è partecipato nei molti è insieme Uno e non uno; ogni partecipante poi è non uno e insieme Uno ... Se ciò che in ciascuna serie è impartecipabile comunica la proprietà sua a tutti gli esseri che sono nella stessa serie, è evidente che il primissimo Ente comunica a tutti gli enti il limite insieme e l'infinità, essendo primamente misto di questi; e la vita comunica il movimento che viene da lei, poiché la vita è la prima processione e il primo movimento dell'immobile sussistenza dell'Essere ... (Elem. di Teol., 23, 21, 24, 102).
Gli stessi effetti dell'Uno, dunque, m quanto partecipano dell'Uno, avendo essere dall'Uno, sono, a loro volta, effetto da un lato, causa dall'altro, per cui in tutto ciò che proviene dall'Uno, sia pur di grado in grado, in una sola catena, si ripete la circolarità dialettica dell'Uno, per cui ogni realtà, dalla prima all'ultima, dalla piu ricca alla piu povera, in quanto scaturita dall'Uno, è ad un tempo impartecipabile e partecipante, è identica a sé e in sé resta, procedendo da sé e ritornando a se stessa, per cui il suo essere sta proprio in tale circolarità dialettica: ogni realtà perciò deriva dall'altra, pur rimanendo ciascuna nel suo essere quella che è, tutte in atto nell'Uno, che le trascende tutte e a cui tutte, in qùanto per ciascuna il proprio essere è l'Uno, -aspirano, ciascuna vivendo della stessa circolarità dialettica dell'Uno: permanenza degli esseri nell'uno (fLOV~ = monè), fuoruscita da sé, generazione, obiettivazione, ossia processione causante (7tp6o8oç = pr6odos), con-
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versione a sé (t7t~a-.po
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o minori, poiché i ritorni si compiono alcuni verso cose immediatamente superiori, altri verso cose piu elevate, e sino al principio del tutto. Perché da esso tutte le cose derivano e ad esso ritornano (Elem. di Teol., 35, 28, 30, 31-33). Posto, dunque, l'Uno come la condizione che rende pensabile la realtà, e posto l'esserci delle cose come atto-potenza-atto, in una triadicità che ne costituisce l'essere, l'Uno viene con ciò posto come l'atto primo del tutto che assume essere in quanto pensato, ob-ietto, del pensiero in atto dell'Uno, esso, dunque, ad un tempo, atto e potenza, attualità nella sua circolarità dialettica, per cui l'Uno non è se non nel suo essere causa infinita, se non nel suo ab-iettarsi. L'Uno perciò obbietta sé, nel suo pensar se stesso, e i suoi obbietti sono in quanto sono presenti a lui stesso, pensiero di pensiero, motore immobile. Egli, prima dell'essere, è e non è ad un tempo, e il suo esserci, il suo produrre sé fuori di sé è intrinseco a lui stesso, onde lui e il suo prodotto sono insieme ( coeterno all'Uno è il mondo). Ma questa causa opera con scelta e ragionamento ovvero con il suo stesso essere produce il tutto? Se con scelta, foarà instabile l'opera ... Se il mondo è eterno ... la causa opera con il suo stesso essere ... Senza sforzo è l'azione di chi con il suo stesso essere fa quello che fa ... Molto maggiori e piu sicure e perfette forme che le fenomeniche può in tutto generare e pensare l'autore del mondo. Dove dunque le genera e le contempla? evidentemente in se stesso, perché contempla se stesso... Ora se conosce se stesso, è evidente che conoscendosi, sa di essere causa e di quali cose è causa; sf che contiene anche le cose che conosce ... Con il pensare se stesso sarà produttore di tutte le cose. E se cosi è, farà le cose esteriori simili a ciò che è in lui; ché tale è l'ordine naturale delle cose, che dalla attività interiore dipenda l'attività che procede all'esterno ... Sarà, dunque, ben superiore alla nostra conoscenza nella causa del mondo, in quanto essa non conosce soltanto, ma fa anche sussistere le. cose; noi invece conosciamo soltanto ... Se la causa del tutto opera con il suo stesso essere, e se operando con il suo stesso essere opera con la sua stessa sostanza, essa è in primo grado ciò che il prodotto è in secondo grado ... Se dunque il cosmo è pienezza di forme di ogni specie, saranno queste anche nella causa del cosmo in primo grado (Comm. al Parmenide, III, 6-7, 10-ll, 12, 16, 7-8). Tutto nell'Uno, tutto è, ad un tempo, per la forza interna dell'Uno, fuori dell'Uno, altro dall'Uno, e, perciò, derivando dall'Uno, inferiore all'Uno. Poiché, d'altra parte, l'ob-ietto dell'Uno sussiste in concreto, in quanto pensato dall'Uno (non c'è idea, nel senso di pura proiezione, ob-ietto mentale), e ciò che procede dall'Uno, avendo per causa l'Uno, ha in sé la capacità di costituire il proprio effetto, uno con la propria
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causa, ma che in quanto assume una sua realtà, altra dalla causa, a sua volta è causa di nuovo effetto, si viene da sempre a costituire una catena discendente - ogni effetto è, rispetto alla sua causa, un in meno -, i cui anelli, tuttavia, ciascuno per sé, nella propria circolarità sono sempre quel che sono nel loro essere causa-effetto-causa, atto (causa) che precede la potenza (infinità), che permette alla potenza di realizzare la propria causa, il proprio fine, ritornando alla propria compiutezza, alla propria unità, specchio dell'Uno, attualità in atto di tutti. Ciascuno per sé quello che è, ciascuno, rispetto all'altro, limite, ciascuno superiore o inferiore rispetto all'altro, ciascuno (in quanto tutti procedenti l'uno dall'altro, tutto dall'Uno) simigliante all'altro, legato all'altro, tutti sono insieme in atto, tutti invece, rispetto all'Uno, limiti, mancanza, fino all'opacità, al depauperamento della causa causante, la corporeità. In questa tesi, che è stata veduta come la piu originale di Proclo nella sua interpretazione di Platone nei termini del neoplatonismo (e in cui si è voluto vedere l'antecedente della triade dialettica hegeliana), senza dubbio venne giuocando, accanto a Plotino e a Giamblico, una certa interpretazione di Aristotele, considerato interprete di Platone (e qui pensiamo particolarmente da un lato al motivo aristotelico della sostanza, e al moti vo del rapporto dialettico atto-potenza-atto, per cui ogni specie è quella che è nella sua circolarità, e dall'altro lato al motivo aristotelico delle cause, insieme al motivo del divino trascendente e immanente ad un tempo, atto puro, pensiero di pensiero, motore immobile: ma non è questo che un suggerimento per un piu approfondito studio sul rapporto neoplatonismo-aristotelismo, e sulla trasformazione di certo Aristotele in termini neoplatonici : non a caso da tali interpretazioni verranno fuori la T heologia Aristotelis, ricavata in gran parte dalle Enneadi IV -VI di Plotino, e il Liber de causis, un rifacimento degli Elementi di Teologia di Proclo). Entro questi termini si vede bene, ora, la complessa deduzione proeliana dall'D no dei vari circoli dialettici su cui si scandisce di grado in grado, di anello in anello della catena, il ritmo dell'universo tutto, potenza e atto ad un tempo: potenza relativamente a ciascun ente preso a sé,. atto relativamente a ciascun ente nella sua circolarità e rispetto all'Uno causa prima efficiente e causa finale (e qui merita conto segnalare l'interpretazione data da Proclo da un lato della 11 lettera apocrifa di Platone sui tre re e del Timeo, dall'altro lato del Filebo per ciò che riguarda il limite e l'illimitato, il misto: cfr. particolarmente Teologia platonica). Nella deduzione dall'Uno, Proclo, seguendo la tesi giamblichea del secondo Uno, intermediario tra l'Uno e l'Intelletto, pone, quale prima obiettivazione dell'Uno, un complesso infinito, quasi
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rifrazione dell'Uno, di entità unitarie (ènadt}. Le ènadi, da un lato simili all'Uno, e perciò nell'Uno, dall'altro lato prime entità fuori dell'Uno, per la loro stessa simiglianza all'Uno, sono causa di sé, costituendo la seconda processione dialettica. Ora, proprio in quanto le ènadi sono la prima rifrazione dell'Uno, il primo riconoscersi dell'Uno, che, perciò, si pone come· un complesso di enti reali ("nella causa del mondo la conoscenza è ben superiore alla nostra in quanto essa fa anche sussistere le cose": Comm. al Parm., III, 16), da cui, a sua volta, si costituisce un nuovo insieme di reali, si capisce che Proclo possa simbolicamente identificare le ènadi, provenienti dall'Uno Dio, con gli dèi onnipotenti, buoni, provvidenziali, e, via via, nelle susseguentesi entità e cause procedenti, tutti gli altri dèi della tradizione, interpretati e collocati a seconda dei loro stessi nomi (cfr. Teol. plat., libro III: l sgg.). Prima triade, le ènadi si costituiscono, appunto, come infinità (potenza) e limite (atto), donde proviene ch'esse sono, nella tensione e conversione dei due termini, enti veri. "Ogni ente vero consta di limite e di infinito. Ché se ha potenza infinita, è evidente che è infinito l! perciò è costituito d'infinito, se è indivisibile e simile all'Uno, in ciò partecipa del limite... Nel misto il limite è partecipe dell'infinito e l'infinito del limite" (El. T eol., 89-90). Esse stesse, conoscendosi, pongono sé come mondo intelligibile (volj-r6v = noetòn), per cui divengono ob-ietto dell'Intelletto (intelligibile), vivente nell'unità del pensiero pensante (intelligibile e intelligenza: volj-rÒv ~IL« xatt voE:p6v = noetòn àma kài noeròn ), ricostruendo, nella tensione tra i due termini (intellettuale, voE:p6v =intelletto come capacità d'intendere; e intelligibile, voij-r6v =ob-ietto dell'intelletto), l'unità dell'Intelletto, atto vivente dell'unica immobile vita, circolante tra l'intellettuale e l'intelligibile. E tale è l'essere, in atto, precedente la vita e l'Intelletto vivente nella tensione e conversione dei due termini, in eterno (atEcbv) vita intelligibile (volj-rlj ~(1)-/j = noetè zoè). · A tutti gli esseri partecipi dell'IntellettQ sovrasta l'Intelletto impartecipabile: a quelli partecipi della vita, la Vita; a quelli partecipi dell'essere, l'Essere; e di questi l'Essere è prima della Vita e la Vita prima dell'Intelletto ... Poiché la causa di piu effetti precede la causa di meno effetti, tra essi l'Essere sarà primissimo, essendo presente a tutte le cose, anche la Vita e l'Intelletto ... (El. Teol., 101).
Entro l'Uno e dall'Uno, mediante le ènadi, alla prima triade (infinito= potenza; limite= atto; misto= ente vero) segue la seconda triade (essere, vita, intelletto), cui segue la terza triade divina, che, procedendo dall'Intelletto impartecipato, si costituisce nel rapporto intelligenza-idee, viventi nell'unità dell'Anima, che procede quindi e trova il
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suo fondamento (ipostasi) nell'Intelletto. L'Anima, in quanto è volta all'Intelletto, è una; in quanto procede da sé è causa delle anime; impartecipata l'Anima, partecipate sono le anime, le quali, simili all'Anima da un lato, dall'altro lato si disperdono, si sensibilizzano, assumendo tuniche (x~-.ci)ve:ç = chitònes) corporee, di cui si spogliano via via che mediando e risolvendo in sé il sensibile, tornano a sé, convertendosi nell'Anima (di qui la tesi procliana, ripresa dai suoi maestri, del corpo dell'Anima, veicolo immateriale che si fa corpo, assumendo veste, nelle anime particolari). Dopo le tre triadi divine, ipostasi del tutto, da cui tutto procede, l'Anima si pone come intermedia tra il mondo divino (con tutte le sue gerarchie divine, i suoi ordini di dèi) e il mondo sensibile e corporeo, tra il ritmo dialettico dell'Unità assoluta, che pur ha le sue leggi, dovute alla causalità divina (e in ciò consiste la natura e la fisica), cerniera che, nella sua consapevolezza, ricompone l'unità perduta, riconducendo il molteplice all'Uno. E ciò, evidentemente, non in senso temporale, bensf nel senso che l'essere nell'Uno o nella molteplicità è dovuto alla consapevolezza o meno che ha l'Anima della sua essenzialità triadica, per cui, pur rimanendo quel che si è, in ogni momento si può essere nella dispersione ed in ogni momento nell'unità vivente, nella comprensione o meno della essenzialità del tutto, in cui tutto vive, ciascuno per sé, la ragion d'essere del tutto, e cioè la "permanenza" (monè), la "processione" (pr6odos), la "conversione" (epistrofè), in ciascuno specchio della vita, oltre la vita, dell'ineffabile, superessenziale, impartecipabile, Uno, causa prima dell'Essere, della Vita, dell'Intelligenza, per il quale ciascuna cosa è, ha vita, è quella che è, come è bene che sia. Fonte di tutto l'Uno, egli perciò lo è anche della materia, in sé dunque buona, intesa come possibilità di ricevere forma. Lo stesso male, quindi, per Proclo, non esiste, ma è dovuto all'anima, qualora essa, nella sua particolarità e dispersione sensibile, dimentichi là propria origine, sé come causa, la sua naturale esigenza, propria di tutto ciò che è, di ritornare al proprio essere, cioè alla propria causa, al proprio bene, per cui il male ha un'esistenza puramente accidentale (1totpu7t6a-rata~ç = paryp6stasis: cfr. De malorum subsistentia). L'anima particolare può discendere verso l'esistenza temporale fino all'infinito e risalire dalla vita temporale verso l'essere. Infatti se essa talvolta segue gli dèi e talvolta invece decade dalla sua tensione verso il divino, se partecipa all'Intelletto e insieme a una condizione priva di Intelletto, è chiaro allora che essa è in parte nel divenire e in parte tra gli dèi. E questo non già nel senso che, essendo stata un tempo infinito nei corpi, rimanga poi presso gli dèi per altrettanto tempo, né che dopo essere stata presso gli dèi per il tempo infinito rimanga poi di nuovo per tutto il tempo successivo
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dentro i corpi. Poiché infatti ciò che non ha inizio nel te~po non ha neppure mai fine, e ciò che non ha fine necessariamente non ha neanche principio. Ne consegue pertanto che ciascun'anima ha periodiche ascese dalla vita temporale, in una vicenda incessante nell'infinito tempo. Ciascuna anima particolare può quindi discendere e risalire all'infinito... Tutte le anime particolari hanno un veicolo (6:x:1J!J.ot = òchema) che è immateriale e indivisibile secondo la sostanza e impassibile ... Il veicolo dell'anima particolare discende rivestendosi successivamente di tuniche (XLT6v(l)v = chit6non) sempre piu materiali, e ascende insieme con l'anima, deponendo tutto ciò che è materiale e ritornando alla propria forma, allo stesso modo dell'anima che di esso si serve. Anche questa infatti discende assumendo modi di vita contrari alla ragione, ma quando risale si spoglia di tutte le potenze che tendono a perpetuare il divenire, di cui si era rivestita nella discesa ... Tutto è in tutti; ma in ciascuno nel modo proprio; poiché nell'essere c'è anche la Vita e l'Intelletto; e nella Vita anche l'Essere e il Pensare; e nell'Intelletto anche l'Essere e il vivere; ma essendo tutti qua a guisa di Intelletto, là a guisa di Vita, e là a guisa di Essere. Tutte le forme intellettuali sono le une nelle altre e ognuna in sé. Ché se ogni mente è indivisibile e per mezzo dell'indivisibilità intellettuale è unita la molteplicità che è in essa, nell'Uno saranno tutte le cose, e saranno nella loro indivisibilità unite tra loro, e tutto penetrerà per tutto. Ma se tutte le forme intellettuali sono senza materia e senza corpo, sono inconfondibili tra loro e separate; ciascuna, conservando la propria purezza, rimane quello che è (E/. di Teol., 206, 208, 209, 103, 176). Una la catena del tutto, ogni anello della catena ripete la circolarità della catena tutta, sempre nell'Uno tutta in atto, per cui si può essere sempre ideahnente nell'Uno e sempre, ad un tempo, fuori dell'Uno, nella vita dispersa; sempre anello singolo, distinto dall'altro, limitato rispetto all'altro, e sempre, pur rimanendo ciascun anello quello che è - anzi quanto piu è quello che è, consapevohnente - uno nell'Uno. Tutte le potenze delle cose divine ... appena alcunché diventa pronto alla partecipazione, esse sono presenti, e non per essere 'sopraggiunte allora, né prima assenti, ma essendo sempre nello stesso modo ... Ma l'inettitudine dei partecipanti diventa causa dell'eclissarsi del divino ... Separandosi peraltro alcun che dagli dèi e facendosi solitario, si ritira completamente nel non essere e si distrugge privandosi del tutto di quelli che lo contengono (El. di Teol., 140, 143, 144). Tutto, dunque, che procede dall'Uno, si muove, tende all'Uno, proprio in quanto rimane in sé attuando se stesso, per cui l'Uno, condizione del tutto, si pone come termine d'amore, come aspirazione al Bene. E ad esso si giunge, in una conversione dell'anima, in un'ascesa che mossa dall'amore verso la visione della divina unità e armonia (Vero, Bene, Bello), si compie nella contemplazione dell'Uno-Vivente-
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Intelletto (l'Essere) nella comprensione della verità, attraverso cui, oltre tutto, oltre la catena, oltre l'unità dialettica dell'Uno, si coglie, fuoriuscendo da sé (estasi) l'Uno, in un atto che non è piu conoscenza, ma intuizione, fede. Oltre la opinione (86;e~ = docsa), la scienza discorsiva (8~avo~Cl = diànoia), la intellezione (v61ja~ = nòesis), vi è come una facoltà superiore al pensiero, un'illuminazione con cui ci perdiamo nell'Uno, che è in noi come il fiore dell'essere (&v6oc; -rijc; oùale~c; = ànthos tès usias), in un congiungimento con l'Uno in cui tutto è silenzio. Proclo, nato a Costantinopoli nel 410, da una famiglia originaria della Licia - per cui fu detto anche Licio - discepolo in Alessandria di Olimpiodoro il Vecchio, e, in Atene, di Plutarco di Atene, di Siriano e di Domnino, cui successe· nello scolarcato dell'Accademia nel 438 circa, mori nel 485, dopo quarantasette anni d'intenso insegnamento, in un'esempla.re condotta di vita, in una incarnazione del "saggio" ideale, assai vicino alla figura del sacerdote (si confronti la Vita Procli di Marino). Notevole, nell'ultimo arco di vita della Scuola di Atene, chiusa, com'è noto per decreto di Giustiniano, nel 529-530, fu l'influenza di Proclo: da un lato, entro l'àmbito della Scuola, per l'importanza da lui data all'interpretazione dei testi aristotelici nel senso che abbiamo veduto, dall'altro lato, anche in ambienti cristiano-orientali, tanto per ciò che riguarda la soluzione, in termini mistici, dell'unione con Dio, assoluta superessenzialità, quanto, ancora, per la possibilità di una ripresa di Aristotele in termini eristiani. Di qui deriveranno, poi, molti temi della filosofia medievale, sia bizantina, sia araba, sia latina. Sotto questo aspetto hanno non poca importanza le opere dei discepoli diretti di Proclo e dei suoi continuatori nelle scuole di Atene e di Alessandria, ma anche le opere degli autori cristiani che. risentirono l'influenza del suo insegnamento. A Proclo successe, nello scolarcato dell'Accademia, Marino, originario di Neapoli, in Samaria. Marino, scolaro di Proclo, di cui scrisse una Vita ideale, particolarmente approfondi l'aspetto procliano volto all'intendimento dei testi 'di Platone, con special riguardo al Parmenide e al Filebo (dei Commenti di Marino al Parmenide e al Filebo non restano che frammenti) sulla linea della interpretazione aristotelica. Non a caso Marino, nel Cpmmento al De anima di Aristotele (se n'è conservato un frammento in Giovanni Filopono), si studia di mostrare che l'unità è tale, momento per momento, in ciascun "individuo" (in senso aristotelico). E cosi, non a caso, sulla linea di Proclo e di Siriano, nei termini dell'ordinamento degli studi, Marino commentò gli Analitici di Aristotele (il commento è perduto) e compose un'Introduzione ai "dati" di Euclide.
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L'aspetto piu strettamente mistico-intuitivo fu invece sviluppato, in contrapposizione a Marino, dal successore di Marino, Isidoro di Alessandria, del quale, per altro, nulla sappiamo se non ciò che di lui scrisse Damascio (frammenti della Vita di Isidoro di Damascio sono conservati da P ozio e nella Suda: Isidoro compose Inni). Sembra, per quel poco che ne sappiamo - sempre da Damascio: Vita Isidori, 155 - che, piu ancora del maestro Isidoro, abbia sottolineato l'aspetto mistico di Proclo, Zenodoto, successo nello scolarcato della scuola di Atene a Egia - Egia si mantenne sulla linea di Marino -, a sua volta successo ad Isidoro. Di Siriano, in Atene, era stato discepolo Ermia di Alessandria - il suo Commento al Fedro di Platone è costituito forse di una serie di appunti presi alle lezioni di Siriano, - che, poi, in Alessandria, dette impulso in senso mistico a quella scuola, mentre suo figlio Ammonio, che, insieme alla madre Edesia, al fratello Eliodoro - autore, sembra, di un'Introduzione alle influenze astrali e di una Didascalia astronomica -, e a Jerace di Alessandria, fratello di Sinesio (cfr. sopra}, era stato, in Atene, discepolo di Proclo, riportò la scuola platonica di Alessandria sul piano delle indagini filologico-interpretative dei testi di Platone e di Aristotele, con particolar riguardo allo studio di Aristotele logico, in funzione di Platone teologo. Ammonio, di contro al fatalismo stoico e manicheo, rivendica la libertà, intesa come consapevolezza dell'ordine in cui ciascun aspetto della realtà, anello in sé compiuto (ogni specie è in potenza negli oggetti sensibili, in cui, formalmente in atto, si realizza tornando a se stessa), si trova, momento eterno dell'eterno Uno, condizione e fine della realtà tutta. Ammonio, di cui meriterebbe il conto studiare con maggiore attenzione i commenti alle Categorie, al De interpretatione, i frammenti del Commento ai Primi analitici di Aristotele, e il Commento alle cinque voci di Porfirio, ove non poche volte si rivela l'influenza della dialettica triadica di Proclo sul piano dello stesso discorso formale, ebbe discepoli in Alessandria, Damascio, che, passato poi ad Atene, successe, nello scolarcato della Scuola ateniese, a Zenodoto, e che fu l'ultimo scolarca della Scuola; Simplicio, che segui Damascio ad Atene, e che,-poi con lui, alla chiusura della Scuola nel 529, andò esule in Persia; Asclepio di Tralle; Olimpiodoro il giovane; Teodoto; Giovanni Filopono. Da Proclo a Damascio e a Simplicio; da Enea di Gaza, discepolo di Jerocle di Alessandria (cfr. sopra) e da suo fratello Zaccaria di Gaza, cristiani; da Ammonio di Ermia ad Asclepio di Tralle e ai suoi discepoli cristiani Elia e David l'Armeno, a Giovanni Filopono - convertitosi al Cristianesimo -, al cristiano Giovanni Lydo, discepolo di
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Agapio, a sua volta discepolo di Proclo, si vede bene come l'antico neoplatonismo si venga trasformando in una ricerca che scandisce i ·termini del sapere su due piani: da un lato il piano logico e quello fisico, ove la questione sta nel determinare le condizioni che permettono la pensabilità del reale e per cui non indifferente è lo studio di Aristotele logico e fisico; dall'altro lato il piano mistico-intuitivo, che, non escludendo la deduzione, permette, avvenuta la. ricostruzione del tutto in termini logici, il passaggio al fondamento del tutto, passaggio di cui si ha la consapevolezza precisa che consiste in un salto. Certo, tutta l'indagine delle scuole di Atene e di Alessandria, tra Proclo e la chiusura delle scuole filosofiche di Atene (529), quali che possano essere state le conclusioni dei singoli autori - il mondo è coeterno a Dio oppure no; l'anima è mortale e una col corpo, oppure no; le categorie e le idee sono per sé, oppure si rintracciano potenzialmente nelle cose, attuando la ragiol} d'essere delle cose stesse, .e cosi via -, si svolge su questi due piani (ove, del resto, va tenuto presente che gran parte delle opere pervenuteci di questi autori sono opere di scuola, rispondenti al curricolo di studi segnato da Siriano, ma che già implica tutto un atteggiamento e un certo modo d'intendere l'indagine filosofica,2 l Entro l'àmbito degli scritti di scuola, composti nella prima metà del VI secolo, va qui ricordata l'opera di Giovanni Stobeo, perch~ oltre che fonte preziosa per lo stesso pensiero antico, essa è indicativa di un metodo di lavoro proprio delle scuole, Giovanni, nato a Stobi - e percill detto Stobeo - , "in Macedonia, al principio del VI secolo, legato ai circoli culturali del suo tempo, lettore acuto delle opinioni dei filosofi antichi, compose il suo libro, costituito delle opinioni dei maggiori pensatori - ceno molto egli deriva dai dossografi precedenti, non poco da Ario Didimo e da Aezio sulle piu varie questioni in un ordine che, nel suo complesso, doveva costituire una vera e propria enciclopedia del sapere, in funzione dell'educazione e della formazione culturale dei giovani. L'opera è, non a caso, dedicata al giovane figlio Settimio. L'opera di Stobeo, originariamente intitolata, come sembra, 'Ex>.oy6iv !lnocp61"(j.tliTfllV òno&rjx6iv ~L~>.(ot Tiaaotpcx (Antologia di dmi e sentenze in quattro libr1), in 4 libri, venne nel Medioevo considerata come costituita di due opere diverse, ciascuna in due libri (già Fozio, nel IX secolo, leggeva l'opera come divisa in due parti), aventi ciascuna un proprio titolo: Eclogae physicae et ethicae la prima, Antologion (o Florilegium o Sermones) la seconda. Nelle Eclogae physicae et ethicae (perduto è andato il proemio in lode della filosofia), dopo avere riponato i giudizi dati dagli antichi sulla geometria, sull'aritmetica e sulla musica, Stobeo ripona e discute le varie opinioni sugli dèi, sulla natura, sull'uomo, sulla conoscel'za, sulla logica, sulla vita morale e politica; nel Florilegium si trattano argomenti piu vari, ma relativi tutti alla vita e al componamento umani (dalle vin\i ai vizi, dagli ordinamenti politici e dalle leggi all'agricoltura, alla navigazione, alla no&iltà, alla ricchezza, alla morte e cosi vii.). Ricordiamo qui un'altra opera scolastico-divulgativa, composta in quest'epoca (fine del v secolo), il Lessico di Esichio, che procede in ordine alfabetico e che, probabilmente, utilizza un lessico precedente, il dizionario di Diogeniano; e, infine, ricordiamo l'opera di un altro Esichio, Esichio di Mileto, detto l'illustre, fiorito al tempo di Giustiniano, I'Onomatologo (ne restano frammenti: contiene biografie dei piu grandi scrittori greci). Si posseggono frammenti di altre opere di Esichio l'Illustre, di una Storia che narra gi avvenimenti dal re assiro Belo al 518, e di una Storia Bisamina dal 518 al 530.
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di cui non poco poteva essere ripreso da parte cnstlana, come spiegazione della miracolosità e ineffabilità di Dio, superessenziale, non certo sulla linea agostiniana, bensl su quella greco-mientale, da Origene ai luminari di Cappadocia). Tutto ciò, d'altra parte, spiega il passaggio nella cultura e nella formazione del Medioevo, non solo bizantino e arabo, ma anche latino-cristiano, di motivi platonici, stoici, aristotelici, che vennero incontrandosi e scontrandosi, con l'interpretazione che dell'Essere platonico-plotinico aveva dato Agostino (cfr. sopra) e la corrente occidentale latina, sanzionata nel Concilio di Orange del 529. Proseguono, cosi, la linea segnata da Siriano e da Ammonio di Ermia, in termini scolastici ed esegetici, in una puntualizzazione del significato e della funzione delle opere di Platone e di Aristotele, Asclepio di Tralle, autore di un Commento alla Metafisica di Aristotele (di cui è pervenuto il commento ai libri I-VII) e di un perduto Commento all'Aritmetica di Nicomaco; Olimpiodoro il giovane, che, da un lato, commenta l'Alcibiade I, il Gorgia, il Pedone, il Filebo di Platone (rimasti), dall'altro lato studia ed espone le Categorie e le Meteore di Aristotele (commenti rimasti), mentre compone un Commento all'Isagoge di Porfirio, perduto, ma le cui tracce sembrano ricavarsi dagli analoghi commenti dei suoi discepoli Elia e David l'Armeno, cristiani, dei quali si sono mantenuti i rispettivi commenti all'Isagoge. Di David, oltre il Commento all'!Jagoge, in greco, è pervenuta in greco un'Introduzione alla filosofia e, in armeno, un trattato di Definizioni filosofiche, una raccolta di Apoftegmi, e una traduzione in armeno di parti dell'Organo di Aristotele e del De mundo dello pseudoAristotele. Di Elia, oltre i Prolegomeni all'Isagoge, è rimasto un Commento alle Categorie di Aristotele, di netta ispirazione plotiniana. Sempre sulla linea di Proclo, di Ammonio e di Olimpiodoro, vanno posti i commenti, precisi e serissimi, ad alcune opere di Aristotele, di Simplicio, originario della Cilicia, scolaro di Ammonio, in Alessandria, seguace, poi, in Atene, di Damascio, con il quale, nel 529, andò esule' in Persia, da dove tornò in Atene nel 533, e dove, preclusogli l'insegnamento, stese i suoi Commenti, dei quali una particolare importanza ha quello alla Fisica di Aristotele, sia per la sua acribia e precisione letterale, sia per la messe di notizie sugli autori citati e discussi da Aristotele (oltre il Commento alla Fisica, sono rimasti Commenti al De coelo, al De anima e alle Categorie di Aristotele, insieme a un Commento al Manuale di Epitteto). I commenti ai libri logici di Aristotele (alle Categorie, agli Analitici I e II), alla Metafisica, al De anima, alle Meteore, al De generatione et corruptione, al De generatione animalium, alla Fisica di Aristotele, insieme al Commento all'Aritmetica di Nicomaco, assai precisi ed intel-
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ligenti, portarono un altro discepolo di Ammonio, Giovanni, detto il "grammatico," o "Filopono" (l'amante della fatica), a sostenere, una volta convertitosi al Cristianesimo (di questo periodo sono un'opera trinitaria e cristologica intitolata l'Arbitro, un trattato Sull'Eternità del mondo contro Proclo, un Commento Della creazione del mondo, un trattato Sulla Pasqua: perduta è un'opera Sulla resurrezione), che proprio la logica aristotelica e la concezione aristotelica dell'individuo, spiegano la tesi cristiana della non coeterriità del mondo a Dio - ogni sostanza, in quanto si realizza nella propria circolarità dialettica, indipendentemente dall'altra, è distinta e altra da Dio, sia pur derivando da Dio, che tale l'ha voluta -, dall'altro lato la tesi monofisita eutichiana e la concezione triteistica, allora. non poco diffusa in ambiente greco-orientale. Aristotelicamente, appunto, in un'interpretazione che risente di Proclo, Giovanni Filopono, intendendo con il termine natura l'essenza còmune degli individui, e con ipostasi l'esistenza singola emergente dalla determinazione della natura, per cui reali sono, per cosi dire, i sinoli di natura e ipostasi, sosteneva che lo stesso Dio, unica natura, è tale e si realizza in quanto si determina in tre ipostasi, per cui le tre persone di Dio, il Padre, il Figlio, Io Spirito Santo, realmente tre (triteismo), hanno una comune e sola natura (monofisismo, per ciò che riguarda la questione della natura del Cristo). Per altro verso ancora il Filopono, sulla linea aristotelica, posto che reali sono gli individui, e che, dunque, non vi sono passaggi tra le nature-ipostasi, poteva da un lato sostenere, contro Proclo (De aeternitate mundi contra Proclum ), che tra il mondo e Dio non v'è rapporto necessario, ma gratuito, e che perciò il mondo non è per sua necessità eterno e uno in Dio; dall'altro lato, con Proclo, che indefinita è la natura (non diciamo le ipostasi) di Dio, oltre l'essere, oltre qualsiasi determinazione, per cui in realtà Dio resta un nome: lo si vive, lo si intuisce, oltre ogni determinazione, non lo sì conosce. Posto, per altro, che la natura, ciò per cui una cosa è quella che è, si scandisce nel ritmo dialettico atto-potenza-atto, il Filopono, nell'interpretazione del De anima di Aristotele, riprendendo la questione dell'unità o della pluralità degli intelletti umani, sostiene che l'intelletto umano è uno e molteplice a un tempo. Il Filopono. dopo avere scartato la tesi secondo cui l'intelletto agente non è Dio, ma un ente intermedio (Demiurgo) tra Dio e l'uomo, che illumina le anime; la tesi secondo cui l'uno e l'altro intelletto si trovano nell'anima, l'uno, il possibile, sempre, l'altro, l'agente, di volta in volta, provenendo dal di fuori; il Filopono, molto sottilmente afferma, invece, che ogni intelletto è quello che è, nel suo essere ad un tempo in potenza e in atto, molteplice e
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uno: in potenza, in quanto ipostasi, in atto in quanto natura, per cui esso è mortale nella sua individualità, immortale nella sua forma. Entro questi termini aristotelico-platonici, si mossero nell'àmbito della scuola retorica di Gaza, in Siria, Enea di Gaza, cristiano, ch'era stato ad Alessandria discepolo di Jerocle (cfr. sopra), e suo fratello Zaccaria. In termini aristotelico-platonici, essi, appunto, sostenevano che ogni natura non è se non in quanto emerge da un'ipostasi, per cui da un lato, per le stesse ragioni di Giovanni Filopono, è possibile difendere la tesi cristiana della non eternità del rnondo, pur ab aeterno in Dio, che, non tempo, dà tempo al mondo, tempo che scaturisce col mondo nell'atto della creazione di Dio (cfr. Zaccaria, il dialogo Ammonio, contro l'eternità del mondo, sostenuta da Ammonio), che in effetto non è vera e propria creazione "ei. nihilo"; dall'altro lato, sempre su questa linea, è possibile difendere, di contro alla tesi della preesistenza dell'anima e della trasmigrazione delle anime, la tçsi cristiana dell'unità di anima e corpo, ché l'anima, appunto in quanto natura, ciò per cui ciascuno è quello che è, non esiste se non in quanto si ipostatizza in un corpo, onde non contraddittorio è sostenere che l'unione d'anima e corpo è dovuta volta a volta all'atto creativo di Dio, che direttamente crea volta a volta le anime umane, anche se una tantum ha dato realtà alla natura anima (forma dell'anima), all'intelligenza incorporea (confronta il dialogo Teofrasto o della immortalità delfanimtJ e della risurrezione del corpo di Enea di Gaza, autore anche di 25 lettere). Se la circolarità dialettica. di Proclo, interpretata in termini aristotelici, portava a vedere tutti gli aspetti della realtà come ciascuno concluso in se stesso, simile all'altro per la forma, indefinito e finito, onde ciascuno è in se stesso, nel suo convertirsi, e nella sua circolarità di atto-potenza-atto, che ritrova la propria essenzialità, la propria unità, che, dunque, logicamente trascende tutti, si capisce come si potesse porre un iato tra l'Uno, trascendente e
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lità. prima, che resta l'unico Essere, di cui, appunto, nulla si può dire, e da cui tutto procede non per creazione (ché già tutto essendo implicito in lui, esso è, oltre tutto e tutto è in lui ab aeterno) e a lui torna, non temporalmente e realmente, ché lo stesso ritorno è, di volta in volta, implicito nell'esserci di ciascuna cosa, e perciò è sempre in atto nell'Uno stesso. Tali le conclusioni - in una sua molto originale interpretazione di Proclo e del Parmenide di Platone - dell'ultimo "filosofo" ufficiale del morido antico, Damascio di Damasco, il quinto successore di Proclo nello scolarcato dell'Accademia (cfr. sopra, dopo Prodo, Marino, Isidoro, Egia, Zenodoto). Damascio, discutendo, ancora una volta, le ipotesi sull'Uno del Parmenide, rilevando le difficoltà e le aporie implicite intorno alla possibilità o meno di pensare l'Essere (Difficoltà e soluzioni sui principi primi, intorno al Parmenide; di Damascio restano ancora un frammento del Commento al Parmenide, estratti di un commento al Timeo e della Vita di lsidoro), riconoscendo, con Platino, con Giamblico, con Proclo, che la condizione che rende pensabile la realtà e la molteplicità, lo "esserci," non può non essere che l'Uno, sottolinea che, dunque, l'Uno non può essere né un essere accanto ad altri essere, né un'unità accanto ad altre unità, né un Uno che sia ad un tempo tutto (év xod 1t!Xv-rot: hèn kài pànta), né un tutto che sia ad un tempo uno (1t~V't'IX XIXL év: pànta kài hèn). L'Uno di cui non si può negare l'Essere in quanto condizione della pensabilità dell'esistére, resta un postulato, una richiesta, inconcepibile teoreticamente (cfr. Dubitationes et solutiones, 2, pp. 4-5, ed. R uelle) : in quanto tale esso è sciolto da ogni delimitazione (assoluto), è indefinibile e ineffabile, incomprensibile, inconoscibile (&yvc.>CM"ov = àgnoston; cfr. Dub. et sol., 7, p. 12), sub-ietto assoluto, impredicabile (neppure si può dire che è trascendente, .È~7lP1l!Lévov- ecsereménon, e pure immagini sono pur quelle che lo designano come Padre, come potenza, come mente). In quanto soggetto assoluto, causa prima, esso si presenta mentalmente da un lato, appunto, come oltre l'Essere, condizione, causa, ipostasi del- tutto (e tale è il primo Uno), postulato di cui nulla si può dire per la sua stessa superessenzialità assoluta, assolutamente indefinibile e ineffabile (li7t6pp1)'t'OV = ap6rreton ), e sul quale solo resta il silenzio (cfr. Dub. et sol., 7, p. 15); dall'altro lato, in quanto condizione per cui tutto assume essere, si presenta come unità del tutto (causa delle cause, secondo Uno, "potenza" che presuppone l'attualità del primo, del fondamento, 67t1Xp~L<; = h'jparcsis) e, ad un tempo, come un tutto che è insieme uno, attuando se stesso (il terzo Uno: ÈvépyELIX = enèrgheia). L'Uno, dunque, non è in sé né lo stesso primo Uno (il fondamento: 67t1Xp~L<; = hyparcsis), né l'uno e tutto (il secondo Uno: potenza -- 8uv1X!J.L<; = dynamis: causa delle cause), né il tutto e uno 413
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(il terzo Uno: attuarsi delle cause: ~vipyetoc = enèrgheia - il ritorno), pur tutto procedendo, avendo realtà da tale triade dialettica: unocp~tç 8Uvocr.uç - ~vipyetoc (cfr. Dub. et sol., 39, p. 79). Lo "esserci" scaturisce, dunque, da tale triade, nella determinazione dell'Uno, che, definendosi, procede da sé come unità (monade) e dualità (diade), unificantesi nelle prime unità-enti, oltre l'Uno, rispetto all'Uno limitazioni, e, perciò, al di·sotto dell'Uno, già, rispetto all'Uno, parvenze. Di qui, al di sotto dell'V no, della monade-diade, la comprensione dell'unità monade-diade, in cui consiste l'Intelletto, che, come in Proclo, si scandisce nei due termini, intelligibile (VOljTOç = noeiòs) e intelligenza (voep6ç = noeròs), in atto tensione dei due termini, donde il mondo intelligibile e intelligente a un tempo (vOljTOç xoct voep6ç), l'Essere, che da un lato resta in sé (intelligenza ipercosmica), dall'altro lato procede da sé, dando realtà al tutto (intelligenza encosmica), di limitazione in limitazione, in una progressiva divisione e determinazione dell'Uno originario, fino alle ultime limitazioni e divisioni, in cui consiste la materia. Nel 529, per decreto dell'imperatore Giustiniano, furono chiuse le scuole filosofiche di Atene. Per mantenere l'ordine costituito (xoc6ea-r6ç = kathestòs: cfr. Agatias, Historia, Il, 30), cioè la concezione di fondo stabilita dalla Chiesa di Occidente, che proprio in questo stesso anno aveva ufficialmente riconosciuto lo "agostinismo ponderato" (cfr. sopra), Giustiniano, la cui politica verso l'Occidente lo portava a civettare con la Chiesa, ufficialmente decretò la fine del pensiero classico. Damascio, insieme all'amico Simplicio (cfr. sopra), al discepolo Prisciano di Lidia,3 e ad altri quattro maestri della Scuola di Atene (Eulalio di Frigia, Ermia e Diogene fenici, Isidoro di Gaza), nel 531 circa si recò in Persia, su invito del re dei Persiani Cosroe I, che, si dice, aveva vive simpatie per la filosofia e la cultura ellenistiche, e che era allora in guerra con Giustiniano. Conclusa la pace tra ç}iustiniano e Cosroe - in una clausola del trattato Giustiniano s'impegnava a non perseguitare i "filosofi," - nel 533 Damascio e i suoi compagni tornarono ad Atene. Ma, da allora, di loro e della loro produzione piu nulla sappiamo (cfr. Agatias, Hist., Il, 30-31). In realtà l'influenza di Proclo e dei suoi discepoli fu notevolissima e non poco si riflesse, come abbiamo visto, anche nel modo di intendere certe " verità" cristiane. Il " platonismo aristotelico" di Proclo, certa terminologia aristotelica, il puntare da un lato sulle "sostanze," 3 Di Prisciano si .è conservato in greco un commento ai libri di Teofrasto sulla sensazione (M~taphrasis d~i libri di T~ofrasto sulla s~nsazion~), e in versione latina un trattato scritto per rispondere a questioni sull'anima e sulle scienze naturali, che Cosroe di Persia gli aveva poste nel 531: Prisciani philosophi solution~s ~orum, de quibus dubitavit Chosro~s, Persarum rex.
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reali nella loro circolarità dialettica, e dall'altro lato, perciò, sulla divinità oltre l'Essere, natura naturante (e per questo inconcepibile, indefinibile), se da un lato poteva servire da parte cristiana a spiegare l'iato tra il Divino e il mondo reale,- riducendo alla fine tutta la realtà all'unico Dio, ché tutto il resto è parvenza, è ordine, dall'altro lato, proprio per questo, nella riduzione di tutto all'unica natura divina, essa stessa teoreticamente ombra e tenebra, poteva servire di appoggio e di spiegazione alla tesi cristiano-monofisita. Entro questi termini, certo, dialetticamente e razionalmente ricostruibile la struttura del reale, conoscitivamente sia l'essenza, il fondo del tutto, sia le cose stesse, si riducono a nomi; e un nome è Dio e nomi sono le cose. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che se,nso la Chiesa di Occidente vedesse nella filosofia platonico-aristotelica un grave pericolo e scorgesse in essa il fondamento ideologico dell'eresia monofisita. Non a caso Giustiniano aveva chiuso la ·Scuola di Atene. Non a caso, nel 533, in una pubblica disputa avvenuta a Costantinopoli tra cattolici e monofisiti, il vescovo cattolico Ipazio di Efeso, di contro ai monofisiti che appoggiavano le proprie tesi su certi libri che, per dichiarazione dell'autore stesso, sarebbero stati di Dionigi l'Areopagita, il greco che segui San Paolo dopo il celebre discorso dell'Areopago, e che fu il primo vescovo di Atene, dichiarò eretici quei libri, sostenendo che non erano certamente di Dionigi. Il corpus dionysianum si compone di quattro trattati (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia) e di dieci Lettere indirizzate a personaggi del tempo di San Paolo. L'autore non è, certo, come pretende, il convertito da San Paolo. Egli risente, e non poco, di Proclo, che piu volte calca e cita direttamente (il De malorum subsistentia). Non è qui il caso di esporre le argomentazioni con cui si dimostra che il corpus dello Pseudo-Dionigi, quale noi leggiamo, è stato composto tra la fine del v secolo e il principio del VI. Basti ricordare che il corpus oltre che dipendere da Proclo direttamente - forse anche da Dama~cio - parla dell'uso di cantare il credo nella Messa, uso che fu introdotto dai monofisiti ad Antiochia nel 474, e conosce l'editto Henotik6n dell'imperatore Zenone (482). Impossibile dire chi ne sia l'autore: probabilmente un cristiano dell'ambiente siriaco-palestinese -· si potrebbe pensare alla scuola di Gaza -, che interpreta il significato del Dio ignoto di San Paolo - il Dio "ignoto" si trova proprio nel discorso dell'Areopago, e ciò potrebbe spiegare perché l'autore si presenta come il discepolo ateniese di Paoloallume della concezione procliana dell'Uno, per cui entro i termini del platonismo aristotelico si spiegano alcune tesi di fondo del Cristianesimo. E cosi si mostra come tut~o discende dall'ineffabile, superessen-
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ziale Uno, fonte di ogni origine, essen~a, vita, di tutto ciò che è, egli dunque oltre l'origine, oltre l'essenza, oltre la vita, per cui solo si può supporre che in lui, tutto in atto, vi sia in potenza rispetto all'esistere tutta la realtà, la rappresentazione, le idee di tutto quello che esiste. D'altra parte, proprio perché ignota, inaccessibile è la divinità, impossibile è spiegare il primo passaggio dalla divinità alla realtà, perché Dio si riveli irraggiando se stesso nelle cose, tutte manifestazione della luce {
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santi, eterno, esistente, causa degli evi, dispensatore di vita, sapienza, mente, ragione, conoscitore, come colui che possiede in grado sopraeminente tutti i tesori di ogni conoscenza, come potenza, potente, re dei re, antico dei giorni, eternamente giovane, immutabile, salvezza, giustizia, santificazione, redenzione, trascendente ogni cosa nella sua grandezza, manifestantesi in tenue aura - Salmo, 117, 4 -; e per di piu dicono che egli è nelle menti, nelle anime e nei corpi, in cielo e in terra, e insieme identico in se stesso; è dentro il cosmo, intorno al cosmo, sopra al cosmo, sopra al cielo, sopra alla sostanza; è sole, stella, fuoco, acqua, vento, rugiada, nube, sasso assoluto, roccia, tutti gli esseri e nessuno di essi": De div. nom., I, 5, 596a-c.) La causa buona di tutte le cose è insieme esprimibile con molte parole e con poche o anche con nessuna, in quanto di essa non v'è discorso né conoscenza, poiché essa tutt6 ·trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente soltanto a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure, e oltrepassano ogni ascesa di tutte le cime piu sante, e abbandonano tutti i lumi divini e i suoni e le parole celesti, e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose... In questa caligine superluminosa noi desideriamo pervenire e vedere e conoscere, mediante la non-visione e la non-conoscenza, proprio con questo non vedere e non conoscere - tale è la vera visione e la vera conoscenza -, e lodare soprasostanzialmente colui che è soprasostanziale, lasciando da parte tutti gli esseri, al modo di coloro i quali, costruendo una statua genuina, rimuovono tutti gli impedimenti, che velano la pura contemplazione della forma invisibile e rivelano la bellezza nascosta, cosi com'è in se stessa, con la sola rimozione [~at(pea~ = afàiresis] (De myst. theol., I, lOOOa; Il, 1025b).
Dire che Dio è il Bene (De div. nom., IV, 1), è Perfetto (De div. nom., XIII, 1), è Uno (De div. nom., XIII, 2), è Eterno (De div. nom., X, 2), può servire per render conto di come tutto derivi da lui: meglio, è l'unico modo di rispondere all'esigenza di spiegare l'esistere; o, com'è stato detto, tutti questi attributi non sono altro che la proiezione nel trascendente ili: questo mondo che esige una spiegazione (cfr. E. Corsini, in La filosofia medievale, Bari, 1963, p. 127). E la spiegazione del mondo si trova postulando, con Plotino e con Proclo, che la condizione prima del tutto è un quid, che è tutto e nulla ad un tempo, l'Uno assoluto, causa prima e causante. Noi diciamo che questa causa non è né anima, né mente, che essa non
ha né immaginazione, né opinione, né ragione, né pensiero, e non è né ragione né pensiero; non si può né esprimere né pensare. Non è numero né ordine né grandezza né piccolezza né uguaglianza
n~
disuguaglianza
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né somiglianza né dissomiglianza. Non è né immobile ne m movimento; non è in riposo né ha potenza, e non è neppure potenza né luce. Non vive e non è vita; non è sostanza né evo né tempo; di lei non v'è apprendimento intellettuale. Non è scienza e neppure verità, né potestà regale né sapienza; non è uno né divinità o bontà né spirito, secondo la nostra nozione di spirito. Non è né figlio né padre né alcun'altra cosa di ciò che è noto a noi o a qualsiasi altro essere. Non è niente di ciò che appartiene al non-essere e neanche di ciò che appartiene all'essere; né gli esseri lo conoscono, com'è in sé, cosi come essa non conosce gli esseri, in quanto esseri. Di lei non si dà concetto né nome né conoscenza; non è né tenebra né luce; né errore né verità; di lei non v'è affermazione né negazione, ché anzi quando affermiamo o neghiamo qualcosa intorno alle realtà che vengono dopo di lei, non l'attingiamo né con le nostre affermazioni né con le nostre negazioni. Poiché infatti la causa perfetta e unica di tutte le cose trascende ogni affermazione, cosi come trascende ogni negazione la sopraeminenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di là di tutto (De myst. theol., V, 1045d). Dall'Uno, senza che mai si possa sapere perché, procede un'infinita serie di cause, in una catena per cui dalla prima delle cause, frutto dell'atto creativo di Dio, discendono l'una dall'altra, tutte le altre, ciascuna dunque effetto e causa ad un tempo, e perciò in ordine gerarchico l'una rispetto all'altra. E poiché ogni causa ha in sé il proprio effetto, ogni effetto, in quanto causa di un nuovo effetto procede fuori di sé, ma in quanto si rende conto di sé torna alla propria causa, per cui ciascun effetto del reale rimane se stesso in quanto è uno. E tutti sono uguali, tutti si scandiscono nel ritmo dialettico circolare, ciascuno in un rapporto di dipendenza gerarchica dall'altro, fino agli esseri piu poveri, ai limiti corporei. Chi dice gerarchia intende in generale un certo ordinamento sacro, immagine della pienezza divina, che compie i misteri della propria illuminazione in ordine e scienze gerarchici e che si rende simile, per quanto gli è concesso, alla propria origine. Infatti, per ciascun membro della gerarchia la perfezione consiste nell'ascendere alla imitazione di Dio, secondo la propria proporzione, e diventare "cooperatore di Dio," come dice la Scrittura[/ ai Corinzi, 3, 9], ... e manifestare in se stesso, ~econdo le proprie possibilità, l'operazione divina. Cosi, ad esempio, dal momento che l'ordine della gerarchia è che alcuni ricevano ed altri comunichino la purifìcazione, l'illuminazione e la perfezione, ciascuno imita Dio secondo questa condizione di essere... (De coel. hierarch., III, 2, 165b-c). Di qui l'ordinamento delle gerarchie, descritto dallo Pseudo-Dionigi nel De coelesti hierarchia e nel De ecclesiastica hierarchia. Ciascuna delle gerarchie si scandisce triadicamente: prima viene la gerarchia
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celeste (tre nature angeliche, puri spiriti, viventi l'Unità divina, che stanno all'intelligenza-intelligibile-Intelletto di Proclo, ciascuna delle quali è trina: al primo ordine appartengono Serafini, Cherubini e Troni; al secondo ordine Dominazioni, Virtu e Potestà; al terzo Principati, Arcangeli e Angeli); poi la gerarchia legale (di cui lo PseudoDionigi parla appena dicendo di averne trattato altrove, forse in uno scritto perduto: essa è costituita dal dono della Sacra Scrittura: "in questa gerarchia legale il sacramento è costituito dàll'accesso delle anime al culto spirituale; coloro che iniziano a questo culto sono gli uomini santamente iniziati da Mosè stesso ... ai misteri del santo tabernacolo ... ; gli iniziati sono coloro che vengono elevati, in proporzione delle loro forze, da questi simboli legali fino a una iniziazione piu perfetta": De ecci. hierar., V, l, 2, SOle); infine la gerarchia ecclesiastica o umana, dovuta agli angeli, gli ultimi della gerarchia celeste (la triade della gerarchia ecclesiastica è "insieme celeste e legale, ed essendo situata nel mezzo partecipa delle due gerarchie estreme, avendo in comune con l'una le contemplazioni intellettuali e con l'altra l'uso di svariati simboli sensibili": De ecci. hier., V, l, 2, SOle; la triade della gerarchia ecclesiastica, sacramenti, perfezionatori, fedeli, si suddivide in tre ordini per ciascuno dei tre membri: ai sacramenti appartiene la purificazione -battesimo-, l'illuminazione - Eucarestia - e la perfezione - Ordine sacro -; ai perfezionatori appartengono i perfezionatori o Vescovi, gli ilfuminatori o Sacerdoti, i purificatori o Diaconi; ai fedeli o iniziati appartengono i monaci, il popolo santo, i purificati o penitenti). È legge divina, stabilita dal principio soprasostanziale dell'ordine, che in ciascuna gerarchia vi siano potenze e ordinamenti primi, medi e ultimi, e che i piu divini siano iniziatori e guide degli inferiori nell'ascesa verso Dio, nell'illuminazione divina e nella comunione con Dio (De coel. hier., IV, 3, 18la).
Tutto, dunque, tende naturalmente alla propria causa, e, perciò, in fine a Dio, cui ciascuno giunge, entro il proprio àmbito, con un salto in un atto intuitivo-estatico, in una pura intellezione (v6l)aLç xot6otpoc nòesis katarà), ciascuno rimanendo al proprio posto, nell'ordine gerarchico da Dio proveniente (e perciò il male, .ripete con Proclo lo Pseudo-Dionigi, non ha una sua realtà, ché tutto è momento di Dio e della sua provvidenza, ma consiste nel non voler tornare alla propria causa, al bene, nel non volersi attuare secondo il proprio ordine e posto, in una violazione dell'ordine gerarchico costituito). Certo, il discorso dello Pseudo-Dionigi tende, in un linguaggio ecclesiastico, a costituire un ordinamento politico-ecclesiastico, riprendendo il
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discorso procliano, che, in ambiente greco-orientale, doveva sembrare il piu idoneo a convincere della veracità dell'ordine cristiano, dando ad esso una valida ideologia. Sotto questo aspetto, in una precisa situazione politica, si comprende bene come i monofisiti e gli ariani abbiano assunto allora gli scritti dello Pseudo-Dionigi, che si presentavano sotto l'autorità del discepolo di San Paolo, da lui ispirato, a fondamento delle proprie tesi, SI come è chiaro perché allora il vescovo cattolico Ipazio, a Costantinopoli, nel 533, abbia respinto quegli scritti come apocrifi. La chiusura della Scuola di Atene nel 529, la condanna da parte di Ipazio del corpus dionisiano, nel 533, vanno vedute entro una comune situazione, SI come, per altro verso, i~ Occidente, l'assunzione ufficiale dello "agostinismo ponderato," nel Concilio di Orange del 529. Precisare, ora, e rintracciare storicamente le ragioni che appena un secolo piu tardi portarono all'incontro, in Occidente, dei motivi agostiniani con i motivi platonici, aristotelici, stoici, procliani, studiare come venne assunto e ritenuto proprio di Dionigi - particolarmente ad opera di Massimo il Confessore e del Papa Martino I - il Corpus dionysianum, tanto che con pagine di netta ispirazione "neoplatonica," rintracciate nel corpus, si potrà combattere e polemizzare con identiche pagine dello stesso "neoplatonismo," non è piu compito di chi si occupa della cultura antica, ma di chi voglia introdursi allo studio della formazione della cultura e del pensiero medioevali. Qui bastava accennare ai temi, alle componenti diverse, alle problematiche molteplici, alla complessità dei motivi, che, senza dubbio, non sono da coagulare in un sol blocco, in Ùna sola e parabolica "filosofia," con cui si chiuderebbe definitivamente il pensiero dell'antichità, quasi oramai avulso dagli uomini che hanno riflettuto in quel tempo, in ben precise situazioni, in precisi ambienti culturali, rispondendo a precise esigenze.
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INDICE DELLA BIBLIOGRAFIA
Cultura filosofica, politica e religiosità dal II al VI secolo d.C.
Parte prima
Da Diane di Prusa e Plutarca a Platino l. La politica culturale dell'Impero nel II secolo. Dione di Prusa. Elio Aristide. Favorino di Arles. Retorica, scepsi. Menodoto [Pag. 427]
a. "Generalia" [Pagg. 427-428] b. Dio ne di Prusa (Dio ne Crisostomo) [Pagg. 428-429] c. Elio Aristide [Pag. 429] d. Favorino di Arles [Pag. 430] e. Medicina empirica e scetticismo. Menodoto di Nicomedia [Pagg. 430-431] 2. Plutarco di Cheronea [Pag. 431] a. Opere. Testi. Traduzioni. Indici. Bibliografia [Pagg. 431-434] b. Studi [Pagg. 434-438] 3. Interpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo [Pag. 438] a. "Generalia" [Pagg. 438-440] b. Gaio. Albino (Akinoo) [Pagg. 440-442] c. Apuleio [Pagg. 442-446]
d. L 'anonimo del Commento al "Teeteto ".Massimo di Tiro. Teone di Smirne. Calvisio Tauro e il "Timeo ". Attico. Nicostrato. Arpocrazione di Atgo. Celso [Pagg. 446-449]
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e. L 'aristotelismo: i primi Commentatori e Alessandro di Afrodisia [Pagg. 449-454] f. Numenio di Apamea [Pagg. 454-456]
4. "Gnosi", "Testi Manichei", "Scritti Ermetici" e "Oracoli Caldaici" [Pag. 456]
a. Gnosi. Testi [Pagg. 456-457] b. "Generalia" gnosi [Pagg. 457-458] c. Gnosi. Studi [Pagg. 458-459] d. Platino e la "gnosi" [Pagg. 459-460] e. Singoli gnostici [Pag. 460] f. Manichei [Pagg. 460-461] g. Il "Corpo Ermetico" [Pagg. 461-462] h. Oracoli caldaici [Pagg. 462-463] 5. TI Cristianesimo. La Patristica [Pag. 463]
a. Collezioni di testi, testi e repertori [Pagg. 463-464] b. Repertori bibliografici. Opere di consultazione. Enciclopedie. Periodici [Pagg. 464-465] c. Storie del pensiero cristiano nei primi secoli e studi su aspetti particolari [Pagg. 465-468] d. Culture, ambienti, vite, dogmatica, teologia: III-V secolo [Pagg. 468-470] e. Rapporti tra pensiero classico e pensiero cristiano [Pagg. 4 70-4 72] f. Su di una "filosofia" cristiana [Pagg. 472-473] g. Storie della Chiesa [Pag. 473] h. Sui Concili [Pagg. 473-474] i. Eresiologia. Ecclesiologia. Martiri [Pag. 4 74] l. Il primo Cristianesimo e l'Impero di Roma [Pag. 474] m. Lessici e Dizionari [Pag. 475] 6. Gli scrittori cristiani del II secolo. Apologisti e Apologetica in greco [Pag. 475]
a. Apologisti del II secolo. "Generalia" [Pagg. 475-476] b. Apologisti: Quadrato, Aristone di Pella, Milziade [Pag. 4 76] c. Aristide [Pagg. 476-477] d. Giustino [Pagg. 477-479] e. Taziano e Atenagora [Pagg. 479-481] f. Teofilo di Antiochia, Melitone di Sardi [Pag. 481]
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g. Ermia, Egesippo, Ireneo [Pagg. 481-483] h. Ippolito [Pagg. 483-484] 7. Epicurei, Cinici, Sofisti nel II secolo. Ierocle stoico [Pag. 484] a. Epicurei, Cinici, Sofisti nel II secolo. Diogene di Enoanda e l'Epicureismo. Enomao di Gadara, Demonatte, Pellegrino e Luciano di Samosata [Pagg. 484-486] b. Ierocle stoico [Pag. 487]
8. Marco Aurelio [Pagg. 487-490] 9. Storiografia, metodo, scienze nel II-m secolo. Aulo Gellio. Ateneo. Aezio. Diogene Laerzio. Sesto Empirico. Tolomeo. Galeno [Pag. 490]
a. "Generalia" [Pag. 490] b. Auto Cellio. Ateneo. Aezio [Pagg. 490-492] c. Diogene Laerzio [Pagg. 492-493] d. Medicina [Pag. 493] e. Sesto Empirico [Pagg. 493-496] f. Tolomeo [Pagg. 496-497] g. Galeno [Pagg. 497-501] 10. TI Cristianesimo tra la fine del II e il principio del III secolo [Pag. 501]
a. Tertulliano e Minucio Felice [Pagg. 501-506] b. Clemente Alessandrino [Pagg. 506-511]
Parte seconda
L'ultima crisi dell'Impero e le ultime componenti del pensiero antico l. Plotino e la scuola platonica "alessandrino romana" (Ammonio Sacca, Erennio, Origene platonico, Platino, Porfirio, Eustachio, Amelio) [Pag. 512]
a. La scuola di Alessandria e il "neoplatonismo" [Pagg. 512-514]
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b. Ammonio Sacca, Cranio, Erennio, Origene platonico [Pagg. 514-516] c. Platino [1. Bibliografie e Lessico; 2. Edizioni, traduzioni, testo; 3. Vita; 4. Studi d'insieme; 5. Studi su aspetti particolari: struttura della realtà, condizioni che rendono possibile dedurre la realtà, conoscenza e teologia, il tempo, l'anima; 6. Gnosticismo, magia, astrologia; 7. Platino "prima" e "dopo"; 8. Aspetti della morale; 9. La bellezza] [Pagg. 516-530] d. Porfirio e Amelio [l. Porfirio; 2. Amelio] [Pagg. 530-534]
2. Giamblico e la sua scuola (la scuola platonica di Siria e di Pergamo)
[Pag. 534] a. "Generalia"[Pagg. 534-535] b. Giamblico [Pagg. 535-537] c. Sopatro di Apamea e Dessippo (scuola di Siria) [Pag. 53 7]
d. Edesio. Eustazio. Eusebio di Mindo. Massimo di Efeso. Crisanzio. Crispo. Eunapio (scuola di Pergamo) [Pag. 5 38] e. TeodorodiAsine[Pagg. 538-539] 3. Origene (cristiano e neoplatonico) e la corrente origeniana ad Alessandria e Cesarea. Metodio di Olimpo [Pag. 5 39]
a. Origene[Pagg. 539-546] b. I successori di Origene nella direzione del "Didascaleo" (Dionigi di Alessandria, Teognosto, Pierio, Pietro) [Pag. 546] c. Discepoli di Origene (Gregorio Taumaturgo e Didimo Cieco). Panfilo [Pagg. 546-548] d. Metodio di Olimpo [Pag. 548] 4. Il Cristianesimo tra il ID e il IV secolo [Pag. 548]
a. Cipriano. Arnobio. Lattanzio [Pagg. 548-551] b. L'etàdi Costantino. Eusebio di Cesarea [Pagg. 551~553] c. Aria. Atanasio [Pagg. 553-554] 5. L'imperatore Giuliano e Sallustio [Pag. 554]
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6. I "luminari" di Cappadocia: Basilio il Grande, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa [Pag. 556]
a. "Generalia" [Pag. 556] b. Basilio il Grande [Pagg. 556-558] c. Gregorio di Nazianzo [Pagg. 559-560] d. Gregorio di N issa [Pagg. 560-565] 7. Le componenti culturali nel IV e al principio del V secolo [Pag. 565]
a. Calcidio. Macrobio. Nemesio di Emesa. Temistio [Pagg. 565-568] b. Mario Vittorino. Firmico Materno [Pagg. 568-569] c. Ilario di Poitiers. Sant'Ambrogio. San Gerolamo [Pagg. 570-573] d. Il "neoplatonismo" e !"'aristotelismo" nelle scuole di Alessandria e di Atene [l. Alessandria: lpazia, Sinesio, Olimpiodoro il Vecchio, }erode, Teosebio; 2. Atene: Plutarco di Atene, Siriano, Domnino] [Pagg. 573-577]
Parte terza
Da Sant'Agostino alla chiusura delle Scuole di Atene. Dal V alla prima metà del VI secolo l. Sant'Agostino [Pag. 577]
a. Edizioni delle Opere, di singoli testi, traduzioni e commenti [Pagg. 577-578] b. Concordanze, lessici, indici [Pag. 579] c. Cronologia delle opere. 'Biblioteca agostiniana' [Pag. 579] d. Repertori e strumenti bibliografici. Riviste [Pagg. 579-580] e. Letteratura: studi d'insieme. Vita. Opere. Pensiero [Pagg. 580-582] f. Letteratura: studi su particolari aspetti [Fonti e formazione. Le "Confessioni". 'La conversione'; Conoscenza, teologia, anima, corpo, creazione, tempo, natura, logica, linguaggio; Morale, libertà, grazia; Politica, storia, diritto; Arte e musica] [Pagg. 582-593]
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2. Pelagio. L'ultima fase della cultura in Occidente. Marciano Capella [Pag. 594]
a. Pelagio [Pagg. 594-595] b. Dopo Agostino e Marciano Cape/la [Pagg. 595-596] 3. Proclo [Pag. 596]
a. Opere complessive. Edizioni singole. Traduzioni. Bibliografie [Pagg. 596-599] b. Letteratura: studi complessivi [Pagg. 599-600] c. Letteratura: studi complessivi e particolari su singoli aspetti [Pagg. 600-607] 4. Le Scuole di Alessandria e di Atene dopo Proclo. TI "Corpus" dello Pseudo-Dionigi [Pag. 607]
a. "Generalia" [Pag. 607] b. La Scuola di Proclo in Atene: Marino di Neapòli; Isidoro di Alessandria [Pagg. 607-608] c. La Scuola di Alessandria: Ermia di Alessandria; Ammonio di Brmia [Pagg. 608-609] d. La Scuola di Ammonio: Asclepio di Tralle; Olimpiodoro il Giovane; David l'Armeno; Elia [Pagg. 609-611] e. Enea di Gaza; Zaccaria di Gaza; Giovanni Lydo [Pagg. 611-612] f. Giovanni Filopono [Pagg. 612-614] g. Stobeo; Esichio di Alessandria; Esichio di Mileto [Pag. 614] h. Damascio [Pagg. 615-616] i. Prisciano; Simplicio [Pagg. 616-618] l. Lo Pseudo-Dionigi [Pagg. 618-621]
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Bibliografia
CULTURA FILOSOFICA, POLITICA E RELIGIOSITÀ DAL II AL VI SECOLO D.C.
I
Da Diane di Prusa e Plutarco a Platino
l. La politica culturale dell'Impero nel II secolo. Dione di Prusa. Elio Aristide. Favorino di Arles. Retorica, scepsi. Menodoto
a. "Generalia" Per la storia del pensiero e delle concezioni religiose dal II secolo a.C. ad Augusto e dal principio dell'Impero alla fine del I secolo d.C., oltre le opere in generale e quelle particolari, con specifico interesse per il periodo tra Augusto e le componenti ebraica e cristiana (I e principio del II secolo d.C.), rinviamo alla Bibliografia del III volume. Accanto alle opere generali che discutono il periodo che prepara la formazione del pensiero quale si venne costituendo nel II secolo d.C. (cfr. Bibliografia III vol., parte II), indichiamo GL.W. BowERSOCK, Hellenism in Late Antiquity, University of Michigan 1990 (trad. it., Bari 1992). Per il resto vedi sotto. Per la politica culturale dell'Impero, cfr. sopra, vol. III (I e II); si veda inoltre: G. BoWERSOCK, Greek Sophistic in the Roman Empire, Oxford 1969; V.A. SrRAGO, Involuzione politica e spirituale nell'Impero del II secolo, Soveria 1974; H. DoRRIE, "Formula analogiae". An Exploration of a Themes in Hellenistic and Imperia! Platonism, in Neoplatoni-
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sm and Early Christian Thought, in onore di A.H. ARMSTRONG, a cura di H.J. BLUMENTHAL e R.A. MARKUS, London 1981, pp. 33-49; F. ]ACQUES, Le privilège de la liberté: politique impériale et autonomie municipale dans les cités de l'Occident romain (161-244), Roma 1984; M.L. CousH, The Stoic Tradition from Antiquity to the Early Middle Ages, 2 voli., Leiden 1985; L. CRAcco-RuGGINI, La città imperiale, in Storia di Roma, progetto di A. MoMIGLIANO e A. ScHIAVONE, dir. A. ScHIAVONE, vol. IV, Caratteri e Morfologie, Torino 1989; A. DIHLE, Liberté et destin dans l'Antiquité tardive (trad. di: K. JoNAs-N. RENAUD-S. DE MARSANICH-S. FRIENDLI-J.P. ScHNEIDER-D. ScHULTHESS), "Revue de Théologie et de Philosophie", 1989, pp. 129-147; I. LANA, Sapere, lavoro e potere in Roma antica, Napoli 1990; J. MANSFELD, Doxography and Dialectic: the Sitz in Leben of the 'Placita', in Aufstieg und Niedergang der Romischen Welt (ANR W) [d'ora in poi citato come ANR W], Rise and Decline of the Roman World, a cura di W. HAASE e H. TEMPORINI, vol. 36.4, Principat, Berlin-New York 1990; A. CAMERON, Christianity and the Rhetoric of Empire, London 1991.
b. Diane di Prusa (Diane Crisostomo) Le maggiori edizioni di Dione di Prusa, detto Crisostomo, sono quelle di H. VON ARNIM, Berlin 1893-1896; di G. BunÉ, Leipzig 1915-1919; di J.W. CoHEN, testo, trad. inglese (Loeb), CambridgeLondon 1951, 1971 2 . Parziali traduzioni italiane delle Orazioni si vedano in Oratori greci di M. CESAROTTI, Milano 1843, e in Orazioni di Diane a cura di A. ScARSELLI, S. Margherita Ligure 1919; Diane Crisostomo. Sulla virtù, testo, intr., comm., a cura di M. CAPONE CIOLLARO, Napoli 1983; Diane Crisostomo. Diogene o Discorso istmico (or. 9), testo, intr., trad., a cura di M. CAPONE BRAGA, Napoli 1987. Per l'Index cfr. An index to Dio Chrysostom, a cura di R. KooLMEISTER e TH. TALLMEISTER Editor J. F. KINDSTRAND, Uppsala 1981. Si veda la Bibliografia a cura di P. DESIDERI, in Diane di Prusa, MessinaFirenze 1978; B.P. REARDON, Travaux récents sur Dian de Pruse, "Revue cles Études grecques", 1983, pp. 286-292. Su Dione cfr.: H. VON ARNIM, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlin 1898; E.D. PHILLIPS, Three Greek Writers on the Roman Empire (Dione, Plutarco, Elio Aristide), "Classica et medievalia", XVIII, 1957 (anche TH. SINCLAIR, History of Greek Politica! Thought, London 1951: trad. it., a cura di L. FIRPO, Bari 1961; M. RosTOVZEV, Storia economica e sociale dell'impero romano, trad. it., Firenze 1946). Si veda inoltre: F. TRISOGLIO, Le idee politiche di Plinio il Giovane e di Dione Crisostomo, "Il pensiero politico classico", 1972, pp. 3-43; P.A. BRUNT, Aspects of the Social Thought of Dio Chrysostom and of the Stoics, "Proceedings of the Cambridge Philological Society", 1973,
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pp. 9-34; R. JoLY, Remarques sur Dian Chrysostome et le Nouveau Testament, in Kephaleion, Studies in Greek Philosophy and its continuation, in onore di C.J. DE VoGEL, a cura diJ. MANSFELD e L.M. DE RIJK, Assen 1975, pp. 189-194; M. SzARMACH, Les discours diogéniens de Dion de Pruse, "Eos", 1977, pp. 77-90; P. DESIDERI, Diane di Prusa. Un intellettuale greco nell'impero romano, Messina-Firenze 1978; C.PH. JoNES, The Roman World of Dio Chrysostom, Cambridge {Mass.) -London 1978; A. BRANCACCI, Tradizione ·cinica e problemi di datazione delle orazioni diogeniane di Diane di Prusa, "Elenchos", 1980, pp. 92-122; G. SALMERI, Per una biografia di Diane di Prusa: politica ed economia nella Bitinia orientale (I-II sec. d.C.), "Siculorum Gymnasium", 1980, pp. 671-715; D. FERRANTE, La semantica di 'logos' in Diane Crisostomo alla luce del contrasto tra retorica e filosofia, N apoli 1981; G. SALMERI, La politica e il potere. Saggio su Diane di Prusa, "Siculorum Gymnasium", 1982, pp. 80 sgg.; E. BERRY, Dio Chrysostom the Mora! Philosopher, "Greece Rome", 1983, pp. ?0-80; B.P. REARDON, Travaux récents sur Dian de Pruse, "Revue des Etudes grecques", 1983, pp. 286-292; J. PUIGGALLI, La démonologie de Dian Chrysostome, "Les Études Classiques", 1984, pp. 103-114; A. BRANCACCI, 'Rhetorike philosophousa'. Diane Crisostomo nella cultura antica e bizantina, Napoli 1985; D. FERRANTE, La conversi6n de Di6n Crisostomo, "Augustinus",
1987, pp. 99-104. c. Elio Aristide Le Orazioni di Elio Aristide si vedano nell'edizione a cura del DYNDORF, Leipzig 1829; in corso, a cura di F.W. LENZ-C.A. BEHR, Leiden 1978 sgg. {in trad. it. l'Encomio di Roma a cura di C.O. ZuRETTI, Milano 1917 e di L.A. STELLA, Roma 1940; il Discorso Sacro, a cura di S. NICOSIA, Milano 1984); Aelius Aristide, contre Platon, pour défendre la rhétorique (394-427), trad. e note di B. CASSIN, "Philosophie", Paris 1990, pp. 3-13. Oltre il citato E.D. PHILLIPS, cit., cfr. L. FIRPO, Bibliografia, in appendice a TH. SINCLAIR, History of Greek ... , cit. Cfr. inoltre: A. BouLANGER, Aelius Aristide et la sophistique dans la province d'Asie au II•siècle de notre ère, Paris 1923; F.W. LENZ, Aristeidesstudien, Berlin 1964; C.H. BEHR, Aelius Aristides and the Sacred Tales, Amsterdam 1968; C. LANIER, Le problème de la constitution mixte chez Aelius Aristide, in Positions de la sophistique, a cura di B. CASSIN (Colloque de Cerisy, 7-17 sept. 1984), Paris 1986; B CASSIN, Le lien rhétorique de Protagoras à Aelius Aristide, "Philosophie", 1990, pp. 3-13.
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d. Favorino di Arles Di Favorino di Arles si conservano frammenti di tre opere: Sull'esilio, Memorabili e Storia varia. Il Sull'esilio, scoperto nel1931 dal Vitelli e dalla Norsa, si veda in M. NoRSA e G. VITELLI, Il papiro vaticano greco 11: aj3wpivou m:pì qmyfjç. Registri fondiari della Marmarica, Città del Vaticano 1931. Gli altri frammenti, già raccolti da J.L. MARRES, De Favorini Arelatensi vita, studiis, scriptis, Utrecht 1853 (si veda anche C. Mi.JLLER, Fragm. hist. Graec., III, Paris 1841), sono raccolti e commentati a cura di E. MENSCHING, Favorinus Fragmente, t. I: Memorabi-
lien und Omnigena historia (' AnoJ!VTHlOVEUJ!U'tU und ITav-roòaK"JÌ 'Icr-ropia), Berlin 1963; Opere, a cura di A. BARIGAZZI, intr., testo critico, comm., Firenze 1966. Su Favorino Arletano, oltre il citato MARRES, cfr. ZELLER, III; J.-P. WrLDSCHUT, Une philosophie pour les dépaysés au temps d'Adrien: réflexions sur Favorin d'Arles et sa diatribe nepì qmyfjç, "Atti del XII Congresso internazionale di Filosofia" (Venezia, 12-18 sett. 1958), vol. XI, Firenze 1960; e i citati MENSCHING e BARIGAZZI; anche G. DRAGO, Ricerche sulla problematica scettica antica: da Pirrone a Favorino, "Rivista rosminiana di filosofia e cultura", 1984, pp. 225-235; G. DRAGO, Ricerche sulla problematica scettica antica dopo Favorino: Agrippa, Celso, Galeno, "Rivista rosminiana di filosofia e cultura", 1988, pp. 185-190. e. Medicina empirica e scetticismo. Menodoto di Nicomedia
Sulla medicina empirica in generale nel I-II sec. d.C., e sui suoi rapporti con la corrente scettica, cfr. M. WELLMANN, Die empirische Schule, in PAULY-WrssowA, Realenzyklopàdie der Klassischen Altertumswissenschaft [d'ora in poi citato come R.E. PAULY-WrssowA]; V.V. BROCHARD, La méthode experimentale chez les anciens, "Revue philosophique", 1887; L. FrGARD, Quatenus apud Graecos experientiam in instituenda medicinae methodo commendaverint Empirici, Paris 1903; M. DAL PRA, Lo scetticismo greco, Milano 1950, Bari 1989. Per i frammenti della Scuola empirica e per le testimonianze si veda K. DEICHGRAEBER, Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellungder Lehre, Berlin 1930, 1965 2 . Su Menodoto di Nicomedia (le testimonianze su di lui si ricavano da Galeno, De libr. propr., IX, vol. XIX, 38; De subfiguratione empirica, si veda in DEICHGRAEBER, op.cit., n. 10 b, pp. 72-90; Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., I, 222-223; Diogene Laerzio, IX, 115), si confronti: W. CAPELLE, s. v., in R.E. PAULY-WrssowA, XXIX; M. BoNNET, De Claudii Galeni Subfiguratione empirica, Bonn 1871; A. FAVIER, Un mé-
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decin grec du deuxième siècle après ]. C., précurseur de la méthode expérimentale: Ménodote de Nicomédie, Paris 1906; M. DAL PRA, op.cit.; K. DEICHGRAEBER, op. cit. Oltre in Bibliografia (l, II e III voll. alle voci medici e scettici), cfr.: F. KunLIEN, Medicina helenistica y helenistico romana (300 a.C.-100 d.C.), in P. LAiN ENTRALGO, Historia universal de la medicina, II, Barcelona 1972, pp. 153-199; F. KunLIEN, Der griechische Arzt im Zeitalter des Hellenismus. Seine Stellung in Staat und Gesellschaft, Wiesbaden 1979 (cfr. anche H. LEITNER, Bibliography of the Ancient Medica! Authors, Bern-Stuttgart-Wien 1973: aggiornamento dal1977 in "Society for Ancient Medicine Newsletter", Kentucky). Cfr. anche: G. RoccA-SERRA, Bibliographie de la seconde sophistique, in Position de la sophistique, Parigi 1986, pp. 301-314; J. BARNES, Scepticism and the Arts, in Method, Medicine and Metaphysics, a cura di R.J. HANKINSON, "Apeiron", 1988, pp. 53-77; PH. MunRY, Lesceptici-
sme des médecins empiriques dans le traité de la médecine de Celse: modèles et modalités, in Le scepticisme antique, a cura di A.J. VoELKE Lausanne 1990.
2. Plutarco di Cheronea
a. Opere. Testi. Traduzioni. Indici. Bibliografia Le Vite si vedano nell'edizione di CL. LINDSKOG e K. ZIEGLER, I-III, Leipzig 1914-1939 (nuova edizione 1960-1973) (IV vol. Indices, a cura di K. ZIEGLER e H. GARTNER, 1980); di R. FLACELIÈRE-E. CHAMBRY-M. JuNEAUX, I-XV (vol. XVI, Index, a cura di E. SIMON), Paris 1961-1983 (in trad. it.le Vite si vedano a cura di C. CARENA, Torino 1958 - mancano le vite singole; ed. economica, 6 voli., Milano 1965). Si veda anche la trad. it. a cura di A. RIVERA, Firenze 1974 (singole coppie di Vite, a cura di AA.VV., con testo greco e trad., Fondazione V alla, Milano; annunciata, in 6 voli., ed. completa, Utet); Plutarchus, Lebensklugheit und Charakter, a cura di R. ScHOTTLAENDER, Birsfelden-Basel 1983. Per il resto si veda: Bibliografia, a cura di E. VALGIGLIO, in Plutarco, voce del Dizionario degli Scrittori greci e latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987 (per la bibliografia precedente, vedi K. ZIEGLER, Plutarco, trad. it., Brescia 1965). Dei Moralia citiamo, oltre l'edizione di H. STEFANO, Genève 1572, di cui si adotta la paginatura, l'edizione, con trad. latina, a cura di D. WITTENBACH, Oxford 1795-1834 (in 8 voll.: gli ultimi tre contengono note e lessico); a cura di TH. DouRNER-F. DuBNER, Didot, Paris 1841-1844; di G.N. BERNADAKIS, Leipzig 1888-1896; in particolare si veda: a cura di HuBERT, NACHSTAEDT, PATON, PoHLENZ, SIEVEKINK, WEGEHANPT, GA.RTNER, TITCHNER, DREXLER, MAu, HA.sLER, WE-
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STERMAN, ZrEGLER, SANDBACH, I-VII (il VII contiene i frammenti), Leipzig 1925 sgg. (nuova ed. 1952-1978); con trad. inglese, a cura di AA.VV., in 13 voll., iniziata nel 1927 (Loeb), London-Cambridge 1959-1976; a cura di AA.VV., con trad. francese, Belles Lettres, Paris 1972 sgg.; a cura di AA.VV., con trad. it., introd., commenti, Corpus Plutarchi Moralium, Napoli 1988 (in corso); a cura di G. PISANI, con trad. it., intr., Pordenone 1989 sgg. (in corso, in 14 voll.). Oltre il Lexicon Plutarcheum, Leipzig 1843, si veda il vol. IV dell'edizione K. ZIEGLER-H. GARTNER (Leipzig 1960-1973), Indices, 1980, e il vol. XVI, ed. Belles Lettres, a cura di E. SIMoN, Index, Paris 1983. In traduzione italiana, oltre le edizioni sopra citate, con trad. it. a fronte, in corso, si veda: Moralia, a cura di M. ADRIANI, non completa, dal titolo Vite e Opuscoli, Milano 1825, Napoli 1841, Firenze 1859. Per opere singole dei Moralia in trad. italiana e testo, si veda: Dell'educazione dei figli, a cura di I. MoNTESI, Firenze 1916; De genio Socratis, a cura di G.M. LATTANZI, Roma 1933; Il dialogo sull'estinzione degli oracoli, a cura di R. DEL RE, Napoli 1934; De E. apud Delphos (testo, intr., trad., note), a cura di R. DEL RE, Napoli 1937; Institutio Traiani, a cura di P. DESIDERI, "Pubbl. Ist. Filologia Classica di Genova" 1958; De latenter vivendo, a cura di F. PoRTALUPI, "Pubbl. Facoltà di Magistero Università di Torino", Torino 1961; Diatriba isiaca e dialoghi delfici, a cura di V. CILENTO (testo greco, trad. it.) (De Iside et Osiride, De E. apud Delphos, De Pythiae oraculis, De defectu oraculorum), Firenze 1962; Consolazione a Timossena, a cura di A. CASANOVA, Torino 1964; De fato, intr., testo, comm., trad., a cura di E. VALGIGLIO, Roma 1964; Consolazione a Timossena, a cura di G. PERNICE, "Quaderni di Stasimon" (Liceo-Ginnasio Varese di Tortona), 1967; Il 'genio' di Socrate, a cura di G. PERNICE, "Quaderni di Stasimon" (cit.), Tortona 1968; De audiendis poetis, intr., testo, comm., trad., a cura di E. VALGIGLIO, Torino 1973; ITepi J.Wvapxniaç Kai OTIJ.lOKpa-riaç Kai ÒÀ.tyapxiaç, testo critico, trad. e comm., a cura di A. D'ERRICO, Napoli 1974; La loquacità. De garrulitate, intr., testo, comm., note, a cura di E. PETTINE, Salèrno 1975; Praecepta gerendae rei publicae, intr., testo, trad., comm., a cura di E. VALGIGLIO, Milano 1976; Gli opuscoli contro gli stoici, in 2 voll. (l. Delle contraddizioni degli stoici; Gli stoici dicono cose più assurde dei poeti; II. Delle nozioni comuni contro gli stoici), trad., intr. e comm., a cura di M. BALDASSARRI, Trento 1976; Le contraddizioni degli stoici, intr., trad., comm., a cura di M. ZANATTA, Bari 1976; La curiosità, intr., trad., testo e note, a cura di E. PETTINE, Salerno 1977; Contro Epicuro, a cura di A. BARIGAZZI, Firenze 1978; Della Musica, a cura di L. GAMBERINI, Firenze 1979; De superstitione, intr., testo, trad., comm., a cura di G. LozzA, Milano 1980; Il demone di Socrate. I ritardi della punizione divina, trad., note, a cura di A. ALONI e G. GumoRIZZI, saggio di D. DEL CoRNO, Milano 1982; Dialoghi
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delfici. Il tramonto degli oracoli. L 'E. di Delfi. Gli oracoli della Pizia, trad. di M. CAVALLI e G. LozzA, intr. di D. DEL CoRNO, Milano 1983; L'autoelogio, intr., trad., note, a cura di E. PETTINE, Salerno 1983; La tranquillità dell'animo, trad., testo, comm., a cura di E. PETTINE, Salerno 1984; Iside ed Osiride, intr. di D. DEL CoRNO, trad. e note di M. CAVALLI, Milano 1985; Sull'amore, trad. e note di V. LoNGONI, intr. di D. DEL CoRNO, Milano 1986; L'avidità di ricchezze, intr., trad., note, a cura di E. PETTINE, Salerno 1986; La serenità dello spirito, intr. e trad. a cura di G. PISANI e F. VISCIDI, "Annuario '85-'86 Liceo Ginnasio Tito Livio" (Padova), 1986; Come distinguere l'adulatore dall'amico, intr., testo, trad., a cura di I. GALLO e E. PETTINE, Napoli 1988 (I vol. del Corpus Plutarchi Moralium, cit.); Sul controllo dell'ira, intr., trad., testo, a cura di R. LAURENTI e G. INDELLI, Napoli 1988 (Corpus ... , cit., II); Il progresso nella virtù, intr., testo, trad., comm., a cura di E. VALGIGLIO, Napoli 1988 (Corpus ... , cit., III); La virtù etica, intr., testo, trad., comm., a cura di F. BECCHI, Napoli 1990 (Corpus ... , cit., V). Sono pubblicati inoltre: La fortuna dei Romani, a cura di G. FoRMI (Vol. IV); Precetti coniugali, a cura di G. MARTANO e A. TIRELLI (VI); L'amore fraterno e L'amore per i figli, a cura di N.A. PosTIGLIONE (VII, VIII); Narrazioni di amore, a cura di G. GIANGRANDE (IX); Consolazione alla moglie, a cura di P. IMPARA e M. MANFREDINI (X); Gli oracoli della Pizia, a cura di E. VALGIGLIO (XI); La gloria di Atene, a cura di I. GALLO e N. NoGGI (XII). Utile: Plutarchi Moralia selecta, a cura di D. DEL CoRNO, trad. e note di V. LoNGONI, Milano 1983, 1986. In traduzione italiana, con ampia introduzione, testo greco, commenti, si veda De libidine et aegritudine (Il desiderio e l'afflizione sono affezioni del corpo o dell'anima?), a cura di E. PETTINE, Salerno 1991. Sul Catalogo di Lampria, cfr. J. IRIGOIN, "Revue des Études grecques", 1986, pp. 318-337. Sugli scritti filosofici e sulle varie questioni legate loro si vedano le rassegne, a cura di AA.VV., in "Jahresbericht fiir die Fortschritte der Klass. Altertumswiss.", 1911, 1915, 1921, 1929 sgg.; un'ottima discussione sui vari problemi plutarchei e una buona Bibliografia si veda nell'ampio articolo di K. ZIEGLER, in R.E. PAULY-WissowA, XXI, 1951, pp. 636-962 (trad. it., in volume, a cura di R. ZANCAN-RINALDINI, Plutarco, Brescia 1965; l'aggiornamento della bibliografia al1965 è a cura di B. ZuccHELLI). Per la bibliografia dal 1965 al1987, cfr.: J. BARTHELMESS, Recent Works an the "Moralia", in Miscellanea Plutarchea, Atti I Convegno di Studi su Plutarco, a cura di F.E. BRENK e I. GALLO, Ferrara 1986, pp. 61-81; E. VALGIGLIO, Plutarco, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987 (si veda anche, fino al1989, per i Maralia, a cura di G. PisANI, Introduzione al I vol. dei Moralia, con trad. it., intr. ecc., a cura di G. PisANI, Pordeno-
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ne 1989). Si confronti anche Scritti recenti su Plutarco, a cura di E. PETTINE, "Giornale Ferrarese di Retorica e Filologia" (Notiziario della sezione italiana della International Plutarch Society, sett. 1991), I.2, 1991, pp. 105-108.
b. Studi Per la letteratura su Plutarco indichiamo le opere che hanno avuto maggior momento: O. GRÉARD, De la morale de Plutarque, Paris 1866, 1880 3; R. VoLKMANN, Leben, Schriften und Philosophie des Plutarchos von Chà"ironeia, Berlin 1869; J. FAVRE, La morale de Plutarque, Paris 1909; J. ScHROETER, Plut. Stellung zur Skepsis, Leipzig 1911; R. HIRZEL, Plutarchos, Leipzig 1912; R.M. ]ONES, The Platonism of Plutarch, Wisconsin 1916; B. LATZARUS, Les idées religieuses de Plutarque, Paris 1920; D. BASSI, Il pensiero morale, pedagogico, religioso di Plutarco, Firenze 1927; L. THORNDIKE, A History of Magie and Experimental Science, New York 1929; M. PoHLENZ, Plutarchos Schriften gegen die Stoiker, "Hermes", 1939; F.H. SANDBACH, Plutarchos on the Stoics, "Classica! Quarterly", 1940; G. SouRY, La démonologie de Plutarque. Essai sur !es idées religieuses et !es mythes d'un platonicien éclectique, Paris 1942; P. THÉVENAZ, L 'ame du m onde, le devenir et la matière chez Plutarque, Paris 1942; K. ZIEGLER, Plut. von Chà"ironeia, Stuttgart 1949; R. DEL RE, Il pensiero metafisica di Plutarco: Dio, la natura, il male, "Studi italiani di Filologia Classica", 1950; TH. RENOIRTE, Les conseils politiques de Plutarque. Lettre ouverte aux Grecs à l'époque de Trajan, Leuven 1951; P.H. DE LACY, Plut. and the Academic Sceptiks, "Class. Journal", 1953; H. BROECKER, Animadvertiones ad Plut. libellum "llepf eÒcSatJ.lOVfaç: Bonn 1954; R. WESTMAN, Plutarchos gegen Kolotes. Seine Schrift "Adv. Colotem" als·Philosophiegeschichtliche Quelle, Helsinki 1955; E.G. BERRY, The "De liberis educandis" of Pseudo-Plutarch, "Harvard Studies in Class. Philol.", 1958; H. HAAKH, Der grosse Pan ist tot, "Altertum", 1958; H. WEBER, Die Staats und Rechtslehre Plutarchos von Chaironeia, Bonn 1959; D. FAURE, L'éducation selon Plutarque d'après !es "Oeuvres mora/es", "Publications des Annales de la Faculté des Lettres Aix-en-Provence, série travaux et mémoires", 13, 1960, Aix-enProvence 1960; V. CILENTO, Introduzione a Plutarco. Diatriba isiaca e dialoghi delfici, Firenze 1962; R. FLACELIÈRE, Rome et ses empereurs vus par Plutarque, "L'antiquité classique", 1963, pp. 28-47; R. FLACELIÈRE, Sagesse de Plutarque, Paris 1964; J. HANI, Plutarque en face du dualisme iranien, "Revue des Études grecques", 1964, pp. 489-525; M.L. DAMILI, Plutarco a Delfi. Note sulla religiosità plutarchea, "Nuovo Didaskaleion", 1965, pp. 5-23; H. DEIKE, Plutarch, "De Stoicorum repugnantis", 1-10. Beitrage zu einem kritischen Kommentar, tesi di laurea, Gottingen 1965; R. DEL RE, De Plutarcho Cheronensi
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immortalitatis animorum assertore, "Latinitas", 1965, pp. 184-192; P. DoNINI, L'etica dei "Magna moralia", Torino 1965; F. RoMANO, Le "Questioni platoniche" di Plutarco di Cheronea, "Sophia", 1965, pp. 116-131; A. BARIGAZZI, Sul "De exilio" di Plutarco, "Atti e memorie dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Modena", 1966, pp. 1-18; R. FLACELIÈRE, Plutarque. "De fortuna Romanorum", in Mélanges d'archéologie, d'épigraphie et d'histoire offerts à]. Carcopino, Paris 1966, pp. 367-375; CH.W. FoRNARA, Sources of Plutarch's "An seni gerendi respublica", "Philologus", 1966, pp. 119-127; F. FuHRMANN, Les images de Plutarque, Paris 1966; R.H. BARROW, Plutarch and his Times, London 1967; M.H. HowARD, The Influence of Plutarch in the Major European Literatures of the Eighteenth Century, tesi di laurea, Maryland 1967; E. VALGIGLIO, Il fato nel pensiero classico, "Rivista di Studi Classici", 1967, pp. 305-330 (vedi anche, di E. V., Il tema della poesia nel pensiero di Plutarco, "Maia", 1967, pp. 319-355); AA.VV., Plutarque, in Actes VIII• Congrès G. Budé, Paris 1969 [E.D. PHILLIPS, Plutarco e Zoroastro; J. HANI, Il gran Pan è morto; H. DoRRIE, Platonismo di Plutarco; R. KLAERR, Lo stile metaforico di Pl.; A.M. MALINGREY, Giustizia divina in Plutarco e nella letteratura ebraico-cristiana; J. DuMORTIER, Su Nerone; M. CuviGNY, Pl. ed Epitteto; P. ScAzzoso, Pl. e il barocco antico; D. BABUT, Anima e passioni in Plut.]; D. BABUT, De la vertu éthique, Paris 1969; D. BABUT, Plutarque et le Stoi'cisme, Paris 1969; C.J. GIANAKARIS, Plutarch, New York 1970; V.L. ]OHNSON, The Humanism of Plutarch, "The Classica! Journal", 1970, pp. 26-37; F.E. BRENK, Ra-
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tin: 1926-1986, inANRW, II, 36.1, Berlin 1987, pp. 135-137. Si veda anche: C. MAZZARELLI, Bibliografia medioplatonica, I. Gaio, Albino, Anonimo Commentatore del Teeteto; Il. Apuleio, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1980, pp. 108-144 (I), e 1981, pp. 557-595 (Il); L. 0BERTELLO, Neoplatonici, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1987; L. DEITZ, Bibliographie du Platonisme impérial antérieur à Plotin: 1926-1986, in ANRW, II, 36.1 e 36.2, Berlin-New York 1987; R.T.WALLIS, Scepticism and Neoplatonism, in ANRW, II, 36.2, 1987, pp. 911-954; J. BRUN, Le néoplatonisme, Paris 1988; Questioni neoplatoniche, a cura di F. RoMANO e A. TINÉ, ("Symbolon", Stud_i e testi di filosofia antica e medievale, 6), Catania 1988; J. CoMBÈS, Etudes néoplatoniciennes, Grenoble 1989; A.C. LLOYD, The Anatomy of Neoplatonism, Oxford 1990; J. HALFWASEN, Der Aufstieg zum Einen. Untersuchungen zu Platon und Plotin, Stuttgart 1992. Per una storia dell'aristotelismo nel I-II sec. d.C. cfr. oltre, e.
b. Gaio. Albino (Akinoo) Su Gaio (di cui nulla è rimasto), cfr. TH. SINKO, De Apulei et Albini doctrinae platonicae adumbratione, tesi di laurea (filologia classica, Acd. litter. Cracoviensis, 41), Krak6w, 1905; K. PRAECHTER, Zum Platoniker Gaios, "Hermes", 1916, pp. 510-529 (del PRAECHTER si veda anche l'articolo su Gaio, in R.E. PAULY-WISSOWA, suppl. III). Cfr. inoltre: il cit. J. DILLON, in The Middle Platonism, London 1977, pp. 266-267; M. BASTIT, La diversité dans les Institutes de Gaius, "Archives de Philosophie du Droit", 1978, pp. 333-342.
Il Prologo ai dialoghi di Platone di Albino si veda a cura diJ. FREUDENTHAL, in Hellenistische Studien, III, Berlin 1879; la Introduzione alla filosofia di Platone o Epitomè o Didascalicus si veda a cura di: FR. DuBNER, in Oeuvres de Platon, III, Paris 1873; C.F. HERMANN, in Platonis Dialogi, Leipzig 1853; J.B. STURN, Kaiserslautern 1901. In particolare cfr. l'edizione (con trad. francese a fronte) a cura di P. Loms, ed. Belles Lettres, Paris 1945 e J. WHITTAKER, Akionoos, Enseignement des doctrines de Palton, intr., testo .e comm. di J.W., trad. di P. Loms, Paris 1990. Il De qualitatibus incorporeis, ritenuto di Galeno e giunto tra le opere di lui, è stato attribuito ad" Albino da E. 0RTH, Les oeuvres d'Albinos le Platonicien, "L'Antiquité Classique", 1947, pp. 113-114: si veda l'edizione critica, a cura di M. GIUSTA, L'opuscolo pseudogalenico "0-rt ai 7t010'tfl'tEç àao'>fl
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zione e note, a cura di G. INVERNIZZI, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1979, pp. 3 52-361; Didascalico di Albino e il Medio platonismo, a cura di G. INVERNIZZI, in 2 voll. (il I vol. discute il Medioplatonismo), Roma 1976. (Rarità bibliografica è l'Introduction à la philosophie de Platon, traduit du texte grec d'Alcinoiis, philosophe platonicien, par J.J. CoMBÈs-DouNous, à Paris, de l'Imprimerie de P. Didot l'ainé, au Palais National cles Sciences et Arts, an VIII). Sulla questione se Alcinoo sia da identificare con Albino cfr. J. FREUDENTHAL, Hellenist. Studies, Heft 3: Der Platoniker Albinos und der falsche Alkinoos, Berlin 1879. In particolare: M. GIUSTA, 'Albinu Epitomè' o 'Alkinòu Didaskalikòs'?, "Atti della Accademia delle Scienze di Torino", Cl. Lettere, 1960-1961, pp. 167-194; J. WHITTAKER, Parisinus Graecus 1962 and the Writings of Albinus, "Phoenix", 1974, pp. 320-354, 450-456 (la questione è aperta: un Albino che è Alcinoo, o un Albino e un Alcinoo). Cfr. anche C. MAZZARELLI, L'autore del 'Didaskalikos'. L'Alcinoo dei manoscritti o il medioplatonico Albino?, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1980, pp. 606-639 e J. WHITTANER, Introduzione a Alcinoos, Ens ... , cit., Paris 1990. Su Albino cfr.: TH. SrNKO, De Apulaei et Albini doctrinae platonicae adumbratione, cit., Krakow 1905; P. SHOREY, Note on the Text of Alcinous' Eisagogè, "Class. Philol.", 1908; A. SPANIER, Der Myoç cStcSaaKaÀtK6ç des Platonikers Albinus, Freiburg 1921; O. ScHISSEL, Zum Prologos des Platonikers Albinus, "Hermes", 1931; R. E. WrTT, Albinus and the History of Middle Platonism, C,ambridge-Amsterdam 1937 (il maggior lavoro SJ.! Albino); P. Loms, Etudes sur !es manuscrits d'Albinos, "Revue cles Etudes grecques", 1942; P. Lours, Introduction à Albinos Epitomé, Paris 1945; H.A. WoLFSON, Albinus and Plotinus on Divine Attributes, "Harvard theol. Rev.", 1952;J.H. LoENEN, Albinus' Methaphysics, an Attempt at Rehabilitation, "Mnemosyne", 1956 e 1957; R. LA CoRRE, Le Prologus d'Albinos, "Revue Philosophique de la France et de l'Étranger", 1956, pp. 28-38; J. MrLHAVEND, Der Aufstieg der Seele bei Albinus, tesi di laurea, Miinchen 1962; C. MoRESCHINI, La posizione di Apuleio e della scuola di Gaio nell'ambito del 'medioplatonismo', "Atti della Scuola Normale Superiore di Pisa", 1964, pp. 16-56; K. KLEVE, Albinus on God and the One, "Symbolae Osloenses", 1972, pp. 66-69; J. MANSFELD, Three Notes on Albinus, "0I1, Journal for Greek and Early Christian Philosophy", 1972, pp. 61-80; K. GAISER, Die Platon-Referate der Alkinos bei Diogenes Laertios (III 9-17), in Zetetis, Utrecht 1973, pp. 61-79; J. WHITTAKER, Lost and Found. Some Manuscripts of the "Didaskalikos" of Alcinous (Albinus), "Symbolae Osloenses", 1973, pp. 127-139; M. VON BALTES, Die Zeltentstehung des Platonischen Timaios nach den antiken Interpreten, Leiden 1976; G. INVERNIZZI, Il 'Didaskalikos' di Albino, Roma 1976; G. INVERNIZZI, Il 'Didaskalikos' di Albino e il Medioplatonismo. Saggio di
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interpretazione storico-filosofico con traduzione e commento, 2 voli., Roma 1976;}. DILLON, in TheMiddlePlatonism, cit., 1977, pp. 267-306; J. WHITTAKER, Numenius and Akinous an the First Principle, "Phoenix", 1978, pp. 144-154; G. INVERNIZZI, Il prologo di Albino. Introduzione, trad. e note, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1979, pp. 352-361; C. MAZZARELLI, L'autore del "Didaskalikos". L'Akinoo dei manoscritti o il medioplatonico Albino, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1980, pp. 606-639; H.A.S. TARRANT, Akinous, Albinus, Nigrinus, "Antichthon", 1985, pp. 87-95; D.T. RuNIA, A Note an Albinus /Akinous "Didaskalikos" XIV, "Mnemosyne", 1986, pp. 131-133; P.L. DoNINI, La connaissance de Dieu et la hiérarchie divine chez Albinos, in Knowledge of God in the Graeco-Roman World, a cura di R. VAN DEN BROEK-T. BAARDA-J. MANSFELD, Leiden-New York-KobenhavnKoln, 1988, pp. 118-131; F. BECCHI, Riflessioni sul pensiero etico di Al-
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c. Apuleio Le opere di Apuleio di Madaura si vedano nell'edizione teubneriana di R. HELM (Metamorfosi, 19726 ; Apologia, 19592 ; Florida, 19592 ) e di P. THOMAS (De philosophia libri), Leipzig 1908-1912 (rist. an. Stuttgart 1980). Vedi anche De philosophia libri, Opera quae supersunt, vol. III, a cura di C. MoRESCHINI, Stuttgart 1992. Nelle edizioni Les Belles Lettres, con trad. a fronte, si vedano: le Metamorfosi, a cura di D.S. RoBERTSON e P. VALLETTE, Paris 1940-1945, 1971 2 ; i Florida e l'Apologia, a cura di P. VALLETTE, Paris 1924, 19602 ; gli Opuscules Philosophiques et Fragments, a cura di J. BEAUJEU, Paris 197 3. Nelle edizioni del Corpus Paravianum cfr. le Metamorfosi, a cura di C. GIARRATANO, Torino 1929 (riveduta da P. FRASSINETTI, Torino 1961). L'Apologia sive pro se de magia liber, con introduzione e commenti, si veda a cura di E. BuTLER e A. S. OWEN, Oxford 1914, Hildesheim 1967 (anche a cura di C. MARCHESI, Città di Castello 1914). Commenti alle Metamorfosi si vedano a cura di: M. MoLT, Groningen 1938; A. ScoBIE, Meisenheim a.Glan 1975 (I libro); D.B.J. DE ]ONGE, Groningen 1941 (II libro); R.TH. VAN DER PAARDT-E.R. SMITs-R.E.H. WESTENDORP BoERMA-A.G. WESTERBRINK-V. ScHMIDT (libri IV 1-27, VI 25-32 e VII), Groningen 1981; J.M.H. FERNHOUT, Groningen 1949 (libro V); The Isis Book (Met. libro XI), a cura di J.G. GRIFFITHS, London 1975.
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Commentari di Amore e Psiche si vedano a cura di: C. WEYMAN, Freiburg 1891; E. PARATORE, Firenze 1948; GRIMAL, Paris 1963. Le Metamorfosi sono state tradotte in italiano più volte, a cominciare dalle celebri versioni del BOIARDO (1517) e del FIRENZUOLA (1548). Si vedano ora a cura di: F. CARLESI, Firenze 1954; C. ANARRATONE, Milano 1955; G. VITALI e M. PAGLIANO, Bologna 1962-1963; P. ScAzzoso, Milano 1970. In trad. italiana l'Apologia o della Magia si veda a cura di: B. MoSCA, Firenze 1939 (1974 2 con introduzione e note); C. MoRESCHINI, Milano 1982; L'Apologia o La Magia. Florida, a cura di G. AuGELLO, Torino 1984. Il De Dea Socratis, trad. e testo, a cura di U. PANNUTI, si veda, a cura di G. BARRA, "Annali della Facoltà di Lettere di Napoli", 1962-1963, pp. 81-141. Il De Mundo, a cura di M. G. BAJONI, Pordenone 1990. Le Opere (1. Metamorfosi o Asino d'oro; 2. L'Apologia o la Magia. Florida), cit., Torino 1984-1988. Utile è l'Index Apuleianus a cura di W.A. 0LDFATHER-H.V. CANTER-B.E. PERRY-K.M. ABBOTT, Middletown 1934 (per la Bibliografia si veda, oltre C. MAZZARELLI, Bibliografia medioplatonica. Parte seconda: Apuleio, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1981, pp. 557-595, C. MoRESCHINI, Apuleio, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1987). Su Apuleio, oltre gli studi del SINKO (cit.), del WITT (cit.) e l'articolo dello ScHWABE, in R.E. PAULY-WissowA, III, 1895, cfr.: H. BEcKER, Studia Apuleiana, Berlin 1879; K. BuRGER, De Lucio Patrensi sive de ratione inter oesinum Lucianeum Apuleique metamorphoses intercedente, tesi di laurea, Berlin, 1887; A. ABT, Die Apologie des Ap. v. M. und die antike Zauberei, Giessen 1908; P. VALLETTE, L'Apologie d'Apulée, Paris 1908; P. MoNCEAUX, Ap.: roman et magie, Paris 1910; F. NoRDEN, Apul. v. M. und das romische Privatrecht, Leipzig 1912; E. CoccHIA, Romanzo e realtà nella vita e nell'attività letteraria di Lucio Apuleio, Catania 1914; C. MoRELLI, Apuleiana, "Studi it. di filologia classica", 1914, 1915; I. NoRRESI, Sugli opuscoli filosofici di Apul., "Rendiconti Ace. dei Lincei", XXVIII (1919); R. REITZENSTEIN, Hellenistische Wundererziihlungen, Leipzig 1921; E.H. HEIGHT, Apuleius and his Influence, London 1927; K. KERÉNYI, Die griechische-orientalische Romanliteratur, Ti.ibingen 1927; P. ]uNGHANNS, Die Erzdhlungstechnik von Apuleius' Metamorphosen und ihrer Vorlage, "Philol. Suppl.", 24, 1932; G. CAPONE-BRAGA, Il significato delle metamorfosi di Apuleio, "Logos", 1933; H. RIEFSTAL, Der Roman des Ap., Frankfurt 1938; A. LESKY, Apuleius von Madaura und Lukios von Patrai, "Hermes", 1941; E. PARATORE, La novella in Apuleio, Messina 1942; V. UssANI, Magia, misticismo e arte in Apuleio, in Scritti di filologia e umanità, Napoli 1942; A. MAZZARINO, La Milesia e Apuleio, Torino 1948; M.TH. PEL-
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tion, "Mnemosyne", 1990, pp. 124-131; A. GROSSATO, Il 'Perì hermenei"as' di Apuleio, "Verifiche", 1991, pp. 3-52.
d. L'anonimo del Commento al "Teeteto". Massimo di Tiro. Teone di Smirne. Calvisio Tauro e il "Timeo". Attico. Nicostrato. Arpocrazione di Atgo. Celso
Il Commento anonimo del "Teeteto "platonico si veda edito a cura di H. DIELS e di W. ScHUBART: Anonymer Kommentar zu Platons Theaetet (Papyrus 9782), nebster drei Bruchstiicken philosophischen Inhalts (Pap. n. 8; Papp. 9766, 9569), unter Mitwirkung von J.L. HEIBERG, bearbeitet von H. DIELS und W. ScHUBART (Berliner Klassikertexte, II), Berlin 1905 (cfr. K. PRAECHTER, recensione del1907, in Kleine Schriften, a cura di H. DoRRIE, Hildesheim 1973, pp. 264-281). Cfr. inoltre: P. SHOREY, Plato and the Stoic oÌKEirocnç in the Berliner Theaetetus Commentary, "Classica! Philology", 1929, pp. 409-410; A. WASSERSTEIN, Theaetetus and the History of the Theory of Numbers, "Classica! Quarterly", 1958, pp. 165-179, 123-129;]. MANSFELD, No-
tes on Some Passages in Plato 's Theaetetus and in the "Anonymous Commentary", Zetesis, in onore di E. DE STRYCKER, Antwerp-utrecht 1973, pp. 108-114; G. lNVERNIZZI, Un Commentario medioplatonico al "Teeteto" e il suo significato filosofico, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1976, pp. 215-233; J. DILLON, The Middle Platonists. A Study of Platonism 80 B.C. to A.D. 220, London 1977 (passim); C. MAZZARELLI, Bibliografia Medioplatonica, III - Anonimo commentatore del Teseteto, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1980, pp. 40-144; H. TARRANT,
The Date of A non. in"Theaetetum", "Classica! Quarterly", 1983, pp. 161-187; H. TARRANT, Zeno on Knowledge or on Geometry? The Evidence of Anon. in 'Theactetim', "Phronesis", 1984, pp. 96-99.- Si vedano anche i maggiori studi su Platone e sul medioplutonismo. Le Dialècseis (Dissertazioni o Orazioni) di Massimo di Tiro si vedano nell'edizione a cura di H. HoBEIN, Leipzig 1905, 19192 . Citiamo in traduzione italiana P. DE BARDI, Venezia 1642; in trad. francese, J.J. CoMBEs-DouNous, 2 voll., Paris 1802. Su Massimo cfr.: H. HoBEIN, De Maximo Tyrio quest. Philol. selectae, Gottingen 1895; E. BIGNONE, A proposito della polemica di Eraclide Pontico e di Massimo di Tiro contro Epicuro, "Convivium", 1936, e Ancora di Epicuro e di Massimo di Tiro, "Convivium", 1937; G. SouRY, Aperçus de philosophie religreuse chez Maxime de Tyr, Paris 1942 (si confronti anche l'articolo di W. KROLL e H. HoBEIN, in R.E. PAULY-WissowA); J. DILLON, Maximus of Tyre, in The Middle Platonism ... , cit., 1977, pp. 309-400; G.L. KoNIARIS, On Maximus of Tyre: Zetemata, I-II, "Classica! Antiquity", 1982, pp. 87-121, e 1983, pp.
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212-250; J. PUIGGALI, Études sur !es dialexeis de Maxime de Tyr, conférencierplatonicien du II•siècle, Lille 1983. Di Teone di Smirne, cfr. Theon of Smyrne, Mathematics Useful for Understanding Plato, (trad. dal greco in francese del1892), a cura di R. LAWLOR e D. LAWLOR, con note di C. Touus, San Diego (Ca.) 1979. La prima edizione completa di Quello che nelle matematiche è utile per la conoscenza di Platone di Teone di Smirne è l'edizione a cura di ED. HrLLER, Leipzig 1878; ottima l'edizione, con trad. francese, a cura di J. DuPUIS, Paris 1892 (anast. Bruxelles 1965). Su Teone cfr. De Adrasti peripatetici in Plat. Timaeum comment., "Rhein. Museum", 1871; J. LIPPERT, Theon in der orien~q,lische Litteratur, in Studien auf dem Gebiete der griechisch-arabischen Ubersetzungslitteratur, Braunschweig 1894; P. TANNERY, Sur Théon de Smyrne e Sur un passage de Théon, "Revue de philologie", 1894 e 1895; P. DUHEM, La thé~rie de l'équilibre des mers selon Aristate, Adraste et Théon de Smyrne, in Etudes sur Léonard de Vinci, Paris 1906; G. BoRGHORST, De Anatolii fontibus, Berlin 1905. Cfr. inoltre J. DrLLON, Theon of Smirne, in The Middle Platonism, cit., 1977, pp. 397-399. Un frammento del commento al Timeo di Calvisio Tauro si veda in Giovanni Filopono, De aeternitate mundi, a cura di H. RABE, Leipzig 1899. Su Calvisio cfr. K. PRAECHTER, in R.E. PAULY-WrssowA (1934) (si veda anche BEZIERS, Le philosophe Taurus, Havre 1868). Cfr. inoltre J. DILLON, cit., 1977 (passim).
I frammenti di Attico, conservati da Eusebio (Praep. ev., X, 1-2; XV, 4-13), e le testimonianze su di lui (Proclo, In Tim.; Stobeo, Ecl.) si vedano raccolti in MuLLACH, cit., III e, in edizione critica, da}. BAuDRY, Paris 1931; con i frammenti conservati da Proclo, a cura di E. DE PLACES, Paris 1977. Su Attico cfr.: UEBERWEG-PRAECHTER, Grundriss d. Geschichte der Phil., I, cit., pp. 548-550; C. MARTANO, Attico filosofo platonico del II sec. d. C., "Rivista di storia della filosofia", 194 7; K. MRAS, Zu Atticos, Porphyrios und Eusebios, "Glotta", XXV. Cfr. inoltre: G. MARTANO, Attico, filosofo platonico del II sec. d.C., in Due precursori del Neoplatonismo, Napoli s.d., pp. 23-61 (è inclusa la trad. it. dei frammenti di At- . tico); G. BozoNrs, A Criticism of Two of Atticus' Arguments against Aristatte, "Diotima", 1976, pp. 53-57; J. DrLLON, Atticus, in The Middle Platonism, cit., 1977, pp. 247-258; M. BALTES, Zur Philosophie des Platonikers Attikos, in Platonismus und Christenttim, in onore di H. DoRRIE, a cura di H.D. BLUME e F. MANN, Miinster 1983, pp. 38-57; su Attico cfr. C. MoRESCHINI, Attico: una figura singolare del medioplatonismo, inANRW, II, 36.1, 1987, pp. 477-491.
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Su Nicostrato cfr.: UEBERWEG-PRAECHTER, cit., I, p. 548; K. PRAECHTER, Nikostratos der Platoniker, "Hermes", 1922; K.v. FRITZ, in R.E. PAULY-WrssowA, 1936. Cfr. oltre i sopra citati studi sul medioplatonismo nel I-II sec. d.C.; J. DILLON, Nicostratos, in The Middle Platonism, cit., 1977, pp. 233-247. Su Arpocrazione di Argo (testimonianze in Proclo, In Tim., 93 b; in Giamblico, De anima; in Stobeo, Ecl., 49, 37), cfr. Harpocration's Commentary on Plato. Fragments of a Middle Platonic Commentary, a cura di J. DILLON, "California Studies in Classica! Antiquity", 1971, pp. 125-146. Si veda inoltre: H. v. ARNIM, in R.E. PAULY-WrssowA, 1912, opere citate sul medioplatonismo, e J. DILLON, Harpocration of Atgos, in The Middle Platonists, cit., 1977, pp. 258-262. Per Severo cfr. Proclo, In Tim., 63 a-b e un frammento del suo De anima, in Eusebio, Praep. ev., XIII, 17 (cfr. anche Giamblico, De Anima, p. 364, 4, Wachs). Su Severo cfr.: K. PRAECHTER, in R.E. PAULY-WrssowA, 1923; G. MARTANO, Severo, Napoli 1945; An. LEVI, in Storia della filosofia romana, Firenze 1949;}. DILLON, cit., 1977, pp. 262-264. Una ricostruzione del Discorso vero ('AJ..:rt9itç Myoç) di Celso, attraverso le citazioni fattene da Origene nel Contra Celsum, è stata tentata, in trad. tedesca, da TH. KEIM, Celsus wahres Wort, Ziirich 1873, e in trad. francese da B. AuBÉ, in Histoire des persécutions, la polémique pai"enne à la fin du II• siècle, Paris 1878. L'edizione critica del testo greco è offerta da O. GLOKNER, Bonn 1924. Si veda Il discorso vero, a cura di G. LANATA, Milano 1987. Tra i lavori più recenti su Celso cfr.: K. ScHMIDT, De Celsi libro qui inscribitur Alethès Logos quaestiones ad philosophiam pertinentes, tesi di laurea, Gottingen, 1921; R. BADER, Der 'AJ..:rt9t1ç Myoç des Celsus, Stuttgart 1940; A. WIFSTRAND, Die wahre Lehre des Celsus, Lund 1942; H. CHADWICK, Origen, Celsus and the Stoa, "Journal Theol. Studies", 1947;}. DANIÉLOU, Origène, Paris 1948. Si vedano anche i saggi su Celso di Q. CATAUDELLA, Tracce della sofistica nella polemica celsoorigeniana, "Rendiconti dell'Istituto lombardo di Sçienze e Lettere", 1947; Celso e l'epicureismo, "Annali della Scuola Normale di Pisa", 1943; Celso e gli Apologisti cristiani, "Nuovo Didaskaleion", 1947. Oltre i citati scritti sul medioplatonismo cfr.: J. ScHWARTZ, Celsus redivivus, "Revue d'Histoire et de Philosophie relig.", 1973, pp. 399-405; T. DE ANDRÈS HERNANSANZ, La sintesis filosofica del intelectual pagano del siglo II d.C., a través del "alethes logos" de Celso, "Miscelanea Comillus", 1976, pp. 144-195; L. RouGIER, Celse contre !es chrétiens, Paris
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1977;]. PmGGALI, La démonologie de Celse, penseur médio-platonicien, "Les Etudes Classiques", 1987, pp. 17-40.
e. L'aristotelismo: i primi Commentatori e Alessandro di Afrodisia Per una storia dell'aristotelismo tra il I secolo a.C. e il secondo sec. d.C., fondamentali sono: P. MoRAUX, De Aristotelismus bei den Griechen, vol. I (Die Renaissance des Aristotelismus imI. ]h. v.Chr.), vol. II (Der Aristotelismus imI. und II. ]h. n.Chr.), Berlin-New York 1973 (l vol.), 1984 (Il vol.); P.L. DoNINI, Tre studi sull'aristotelismo nel II secolo d.C., Torino 1974; P.L. DoNINI, Peripatetici, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., III, 1987 (si veda anche AA.VV., Aristotele Transformed. The Ancient Commentators and their Influence, a cura di R. SoRABJI, London 1990; I. HADOT, The role of the commentaires on
Aristotele in the teaching of philosophy according to the preface of the Neoplatonic commentaries on the "Categories", "Oxford Studies in Ancient Philosophy", 1991, pp. 175-189). Cfr. inoltre: K. BoRMANN, Wahrheitsbegriff und voùç-Lehre bei Aristate/es und einigen seiner Kommentatoren, in Studien zur mittelalterlichen Geistesgeschichte und ihren Quellen, a cura di A. ZIMMERMANN, BerlinNew York 1982, pp. 1-22; H.B. GoTTSCHALK, Aristotelian Philosophy
in the Roman W orld from the Time of Cicero to the End of the Second Century, inANR W, cit., II, 36-2, 1987, pp. 1089-1107, 1112-1116. Vedi inoltre: F.E. PETERS, Aristoteles Arabus. The Orientai Translations and Commentaries on the Aristotelian Corpus, Leiden 1968; F. BECCHI, Aspasia e i peripatetici posteriori: la formula definitoria della passione, "Prometheus", 1983, pp. 83-104. Per Andronico di Rodi, vedi: F. LITTIG, Andronikos von Rhodos, t. I: Das Leben des Andronikos und seine Anordnung der aristotelischen Schriften, Miinchen 1890, t. II Erlangen 1894, t. III, Erlangen 1895; I. Di.iRING, Aristotle in the Ancient Biographical Tradition, Goteborg 1957, parte III, cap. XVII, pp. 412-425;,A. GLIBERT-THIRRY, PseudoAndronicus de Rhodes " Oepì nat?&v", Edition critique du texte grec de la traduction latine médiévale, Leiden 1977. Su Andronico di Rodi, editore del corpus aristotelicum, oltre al citato F. LITTIG, Andronikos v. R., Miinchen-Erlangen 1860-1895, vedi G. PELIGERSDORFFER, Andr. v. R. und die Postpradikamente bei Boethius, "Vigiliae Christianae", 1953. Vedi anche A. GERCKE, in R.E. PAULY-WrssowA. Sui commentatori di Aristotele nel I-II sec. d.C. (poche le notizie e le testimonianze su di loro, perdute le loro opere, tranne una parte del Commento all'Etica Nicomachea di Aspasio, che si veda nell'edizione a cura di G. HEYLBUT, in "Commentaria in Arist. graeca", XXIX, l, Berlin 1889), cfr. gli articoli in R.E. PAULY-WrssowA. - Su Alessan-
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dro di Ege cfr. T. H. MARTIN, Quaestions connexes sur deux Sosigènes et sur deux péripatéticiens Alexandres, l'un d'Egée et l'autre d'Aphrodisias, "Annales de la Faculté des Lettres de Bordeaux", 1879.- Su Aspasio, cfr. CH. RICHARDS, Aspasius, "Class. Review", 1907. - Su Adrasto di Afrodisia, cfr. E. HILLER, De Adrasti peripatetici in Platonis Timaeo commentario, "Rheinisches Museum", 1871.- Su Sosigene, cfr. T.H. MARTIN, cit. - Su Erminio, cfr. H. ScHMIDT, De Herminio peripatetico, Marburg 1907 (sono raccolti gli scarsi frammenti rimasti). - I frammenti di Aristocle di Messene si vedano in MuLLACH, III, pp. 206 sgg.; su Aristocle, cfr.: U. VON. WILAMOWITZ-MOELLENDORF, Antigonis von Karistos, Berlin 1881; F. TRABUCCO, La polemica di Aristocle diMessene contro Protagora e Epicuro, "Atti dell'Accademia di Scienze diTorino", Cl. di scienze morali, storiche e filologiche, 1958-1959, e La polemica di Aristocle di Messene contro lo scetticismo e Aristippo e i cirenaici, "Rivista critica di storia della filosofia", 1960. Per il resto rimandiamo ai citati MoRAUX (1973-1984), DoNINI (1974 e 1987), SoRABJI (1990). Cfr. anche E.P. HAYES, Zur Bedeutung... , cit., 1981.
I commenti di Alessandro di Afrodisia alle opere di Aristotele sono editi nei "Commentaria in Aristotelem graeca" dell'Accademia di Berlino: agli Analitici primi, libro I (1883), ai Topici libri VIII (1891), agli Elenchi Sofistici (1898), a cura di M. WALLIES; alla Metafisica (1891; per il commento alla Metafisica si veda anche l'ed. a cura di H. BoNITZ, Berlin 1847) e ai Meteorologici (1899), a cura di M. HAYDUCK; al De sensu (1901), a cura di P. WENDLAND. Gli scritti originali di Alessandro, De anima liber, Mantissa, De fato, De mixtione, si vedano nell'edizione a cura di I. BRUNS, nei Supplementi ai "Commentaria in Arist. graeca" (Supplementum aristotelicum, II, parte I, De anima liber cum mantissa, 1887; parte II, Quaestiones de fato, de mixtione, 1892). Il De fato, in trad. latina, si veda a cura di J.C. 0RELLI, Alexandri Aphrodisiensis, Ammonii Hermiae, Platini, Bardesanis Syri et Georgii Gemisti Plethonis de fato quae supersunt, Ziirich 1824. Si veda ora il De fato ad imperatores nella versione latina di Guglielmo di Moerbeke, nell'edizione critica, con introduzione e indice, a cura di P. THILLET, Paris 1963, 1984 (cfr. anche L. LABOWSKY, William of Moerbeke's Manuscript of Alexander of Aphrodisias, "Medieval Renaiss. Studies", 1961). Si veda il De fato, testo, trad., comm., a cura di R. W. SHARPLES, London 1983. Cfr. anche: On Aristotle's 'Metaphysics 1 ', trad. di W.E. DooLEY, Ithaca (N.Y.) 1989; Alexander of Aphrodisias. Ethical Problems, trad. di R. W. SHARPLES, London 1991. Confronta inoltre nella traduzione di: R.W. SHARPLES, Quaestiones 1.1-2.15, London 1991;}. BARNES, On Aristotle's 'Prior Analytics 1.1-7', London 1991; W. DooLEY-A. MADIGAN, On Aristotle's 'Metaphysics 2 and 3', London 1991. Si veda anche: Alexandre d'Aphrodise, Traité du destin, a cura di P. THILLET, Paris 1984; S. EBBESEN, New Fragments of Alexander's. Commen-
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taries on 'Analytica Posteriora' af!d 'Sophistici Elenchi', "Cah. Inst. M.A. gr. lat.", 1990, pp. 113-120. In trad. it. vedi Dal Commento agli Analitici Primi. Dal Commento ai Topici (la logica stoica: testimonianze e frammenti), testi, intr., trad., a cura di M. BALDASSARRI, V (A), Como 1986. Apocrifi sono i seguenti scritti: Problemata (trad. lat. di G. VALLA, Venezia 1488), De febribus libellus (testo greco e trad. lat. di G. VALLA, a cura di F. PAssow, Breslau 1822), probabilmente di un medico della scuola pneumatica (cfr. WELLMANN, Puschmann's Handbuch der Geschichte der Medizin, I, p. 482). Su Alessandro di Afrodisia cfr.: F. NourussoN, Essai sur Alexandre d'Aphrodisias, suivi du traité du destin etdu libre pouvoir, Paris 1870; O. APELT, Die Schrift des Alexander von Aphrodisias iiber die Mischung, "Philologus 1886; C. E. RuELLE, Alexandre d'Aphrodisias et le prétendu Alexandre d'Alexandrie, "Revue des Études grecques", 1892; A. GERCKE, in R.E. PAULY-WissowA, I, 1894; G. VoLAIT, Die Stellung des Alex. von Aphrodisias zur aristotelischen Schlusslehre, Halle 1907; P. DuHEM, Le système du monde, II e III, Paris 1914 e 1916; G. THÉRY, Autour du décret de 1210, II: Alexandre d'Aphrodisie, aperçu sur l'influence de sa noétique, Kain 1926; P. WILPERT, Reste verlorener Aristotelesschriften bei Alexandros v. A., "H ermes", 1940; P. MoRAUX, Alexandre d'Aphrodisie exégète de la noétique d'Aristate, Liège 1942; R. HACKFORTH, Note on Some Passages of Alex. A. 's "De fato", "Classica! Quarterly", 1946; O. HAMELIN, La théorie de l'Intellect d'après Aristate et ses commentateurs, con introduzione di E. BARBOTIN, Paris 1953. Per una rassegna dei più Recenti studi sulla tradizione greca nella civiltà musulmana, cfr. F. GABRIELI, ne "La Parola del Passato" 1. 1959, pp. 147 sgg. Cfr. inoltre: M. STEINSCHNEIDER, Die arabischen Ubersetzungen aus dem Griechischen, Graz 1960; A. DIETRICH, Die arabische Version einer unbekannten Schrift des Alexander von Aphrodisias iiber die Differentia specifica, "Nachrichten von der Akademie der Wissenschaften in Gi:ittingen", Classe filologico-storica, 1964, pp. 85-148; J. VAN Ess, Uber einige neue Fragmente des Alexander von Aphrodisias und des Proklos in arabischer Ubersetzung, "Der Islam", 1966, pp. 148-168; H. GA'I]E, Zur arabischen Uberlieferung des Alexander von Aphrodisias, "Zeitschrift der Deutschen Morgenlandischen Gesellschaft", 1966, pp. 255-278; E.G. ScHMIDT, Alexander von Aphrodisias in einem altarmenischen Kategorien-Kommentar, "Philologus", 1966, pp. 277 -286; A. BADAWI, La transmission de la philosophie grecque au monde arabe, Paris 1968, 1987 2 (con aggiunte e correzioni); F.W. ZIMMERMANN e H.V.B. BROWN, Neue arabische Ubersetzungentexte aus den Bereich der spiitantiken griechischen Philosophie, "Der Islam", 1973, pp. 313-324; Alexander Aphrodisiensis, Die arabische Ubersetzung der Schrift des Ale-
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xander von Aphrodisias iiber die Sinneswahrnehmung, a cura di J. RuLAND, Gottingen 1978. Sul rinnovato interesse per Alessandro di Afrodisia, si veda: N.J. BoussoULAS, Recherches philosophiques: II. Alexandre d'Aphrodisie, Traité du destin et de ce qui depend de nous (trad.), '"AvaÀ.EK'ta", 1961, pp. 80-144; P. MERLAN, Monopsychisme, Mysticism, Metaconsciousness. Problems of the Soul in the Neoaristotelian and Neoplatonic Tradition, Den Haag 1963, 1969 2 ; P.L. DoNINI, Note al llepì EÌIJ.apIJ.ÉVllç di Alessandro di Afrodisia, "Rivista di Filologia e d'Istruzione classica", 1969, pp. 298-313; A.A. LoNG, Stoic Determinism and Alex. of Aphrod. De Fato (i-XIV), "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1970, pp. 276-298; G. MovrA, Alessandro d'Afrodisia tra naturalismo e misticismo, Padova 1970 (buona bibliografia); P.L. DoNINI, Tre studi sull'aristotelismo nel secondo secolo d.C., Torino 1974; P.L. DoNINI, L'anima e gli elementi nel 'De anima' di Alessandro di Afrodisia, "Atti della Accademia delle Scienze di Torino", Cl. Se. mor. stor. filol., 1971, pp. 61-107; B.C. BAZAN, L'authenticité du "De intellectu" attribué à Alexandre d'Aphrodise, "Revue Philosophique de Louvain", 1973, pp. 468-486; R.B. Tonn, Alexander of Aphrodisias, De mixtione 11, 226, 13: an Emendation, "Hermes", 1973, pp. 278-282; R.B. Tonn, Lexicographical Notes on Alexander of Aphrodisias' philosophical Terminology, "Glotta", 1974, pp. 207-215; A. A. LoNG, Alexander of Aphrodisias, "De fato" 190.26ff., "Classica! Quarterly", 1975, pp. 158-159; R.W. SHARPLES, Aristotelian and Stoic Conceptions of Necessity in the "De fato" of Alexander of Aphrod., "Phronesis", 1975, pp. 259-267; R.W. SHARPLES, Responsability, Chance and Not-being (Alexander of Aphrodisias' 'mantissa' 169-172); - Alexander of Aphrodisias' second Treatment of Fate? 'De anima libri mantissa' pp. 179-186; - Alexander of Aphodisias: Problems about Possibility, 1-11, "Bulletin of the Institute of Classica! Studies", 1975, pp. 37-64, 1980, pp. 76-94, 1982, pp. 91-108, 1983, pp. 99-110; G. VoLAIT, Die Stellung des Alexander von Aphrodisias zur aristotelischen Schlusslehre, Hidelsheim-New York 1975 (anast. dell'ed. 1907); R.B. Tonn, Alexanderof Aphrodisias on Stoic Physics. A Study of the 'De mixtione' with Preliminary Essays, testo, trad. e commento, Leiden 1976, 1978; R.B. Tonn, Two Displaced Passages in Alexander of Aphrodisias' "De anima", "Eranos", 1976, pp. 28-31; R.B. Tonn, Alexanderof Aphrodisias on "De interpretatione" 16a 26-29, "Hermes", 1976, pp. 140-146; P.L. DoNINI, Stoici e megarici nel "De fato" di Alessandro di Afrodisia, in Scuole presocratiche minori e filosofia ellenistica, a cura di G. GrANNANTONI, Bologna 1977; J.C. McHELLAND, God the anonymous. A Study in Alexandrian Philosophical Theology, Cambridge (Mass.) 1977; R. W. SHARPLES, Alexander of Aphrodisias, "De fato": some Parallels, "Classica! Quarterly", 1978, pp. 243-266; CH. GENEQUAND, L'objet de la métaphysique selon Alexandre
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f. Numenio di Apamea Accanto alla raccolta dei frammenti di Numenio di Apamea (Trattato sul bene, Sull'infedeltà degli Accademici a Platone) a cura del MULLACH, III, pp. 153-174, e di FR. THEDINGA, De Numenio philosopho platonico, Bonn 1875, indichiamo l'edizione dei Frammenti a cura di A.E. LEEMANS, nella sua opera su Numenio, Studie over den wijsgeer Numenius van Apamea met uitgave der fragmenta, Bruxelles 1937; É. DES PLACES, Numénius Fragments, Paris 1973. In trad. it. cfr. G. MARTANO, Numenio, Roma 1941, Napoli 1960; il Trattato sul Bene, a cura di G. BERRETTONI, Genova 1983. Per una prima bibliografia cfr.: G. INVERNIZZI, Lo stato degli studi
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su Numenio di Apamea, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1978, pp. 604-625. Su Numenio, si vedano i lavori di: CL. BAEUMKER, Eine angebliche Schrift und ein vermeintliches Fragment des Numenios, "Hermes", 1887; C.E. RuELLE, Le philosophe Num. et son prétendu traité de la matière, "Revue de Philosophie", 1896; S. GuTHRIE, Numenius of Apamea, London 1911; FR. THEDINGA, Plotin oder Numenios, "Hermes", 1917, 1919, 1922 e "Rheinisch. Museum", 1925, in cui sostiene che alcune parti delle Enneadi plotiniane (I, 4; I, 8; III, 6; VI, 9) sono di Numenio e che furono inserite nelle Enneadi da Porfirio (vedi di contro H.F. Mi.JLLER, in "Berlin. Philol. Woch.", 1918, e HEINEMANN, in "Philologus", 1925); FR. THEDINGA, Die Paraenese in der Porphyrios Schrift I1epì à7toxiiç ÈJ.i wuxrov, "Rheinisch. Museum", 1927. Si confrontino anche gli eccellenti studi: H.CH. PuECH, Numénius d'Apamée et !es théologies orienta/es au second siècle, "Annuaire de l'Institut de Philologie et d'Histoire orientales" (Mélanges Bidez), t. II, Bruxelles, 1934; R. BEUTLER, in R.E. PAULY-WissowA, suppl. VII, 1940; A.J. FESTUGIÈRE, La révél. d'Hermes Trismégiste, III, Paris 1953, IV, 1954; E.R. Donns, Numenius and Ammonius, in Les sources de Plotin, vol. V, "Entretiens sur l'Antiquité Classique", Vandoeuvres-Genève, 21-29 agosto 1957, Genève 1960; P. MERLAN, Drei Anmerkungen zu Numenius, "Philologus", 1962. Si veda anche G. MARTANO, Numenio d'Apamea, un precursore del Neoplatonismo, Roma 1941, Napoli 19602 • Sui rapporti tra Numenio e la "gnosi", cfr.: W. BossuET, "Gott. gelehrte Anz.", 1914 (recensione a J. KROLL, Lehren des Hermes Trismegistos); E. NoRDEN, Agnostos Theos, Berlin 1923; H.C. PuECH, op.cit. Su Numenio fonte di Macrobio (Somn. Scipionis, I, 2 e 12), cfr. FR. CUMONT, "Revue des Études grecques", 1919, "Rev. de Philol.", 1920 e in Les religions orienta/es dans le paganisme romain, Paris 1929 4 , p. 301. Cfr. inoltre: H.J. KRAMER, Der Ursprung der Geistmetaphysik, Amsterdam 1964, pp. 63-92; J.H. WASZINK, Porphyrios und Numenios, "Entretiens su l'Antiquité Classique", XII, Vandoeuvres-Genève, 1966, pp. 35-78; É. DES PLACES, La matière dans le platonisme moyen, surtout chez Numénius et dans !es 'Oracles chaldai"ques', in Zetesis, Utrecht 1973, pp. 215-223; M. BALTES, Numenios von Apamea und der platonische Timaios, "Vigiliae Christianae", 1975, pp. 241-270; H.D. SAFFREY, Un lecteur antique des oeuvres de Numénius: Eusèbe de Césarée, in Forma futuri, in onore di M. PELLEGRINO, Torino 1975, pp. 145-153;}. DILLON, Numenius of Apamea, in The Middle Platonists, cit., 1977, pp. 361-378; F.L. LISI, Los tres niveles de la divinidad en Numenio de Apamea, "Cuadernos de Filosofia", 1977, pp. 111-130; G. INVERNIZZI, Lo stato degli studi su Numenio di Apamea, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1978, pp. 604-625; J. WHITTAKER, Numenius and Alcinous on the First Princi-
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ple, "Phoenix", 1978, pp. 144-154; H. CH. PuECH, Numeniosvon Apamea und die orientalischen Theologien im 2. ]h. n.Chr., in Der Mittelplatonismus, cit., 1981, pp. 451-487; E. RoBERTSON, Numenios und Ammonios, in Der Mittelplatonismus, cit., 1981, pp. 488-517; E.P. HAGER, Zur Bedeutung der Theologie des Aristoteles fiir den Mitteleren Platonismus und den Neuplatonism, in Proceedings of the World Congress on Aristotle, cit., 1981-1982; L. MAURO, La teologia filosofica di Numenio, "Syncrisis", 1982, pp. 100-126; C. MAZZARELLI, Bibliografia medioplatonica, III: Numenio di Apamea, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1982, pp. 126-159; D. BABUT, Le dialogue de Plutarque 'Sur le démon de Socrate'. Essai d'interprétation, "Bulletin de l' Association G. Budé", 1984, pp. 51-76; P. DESIDERI, Il 'De genio Socratis' di Plutarco. U,n esempio di "storiografia tragica"?, "Athenaeum", 1984, pp. 569-585; E. DES PLACES, Platonisme moyen et apologétique chrétienne au II• siècle ap. ].-C.: Numénius, Atticus, Justin, "Studia Patristica", XV, Berlin, 1984; L. 0BORTELLO, Neoplatonici, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., II, 1987; M. PREDE, Numenios, in ANRW, cit., II, 36.2, 1987, pp. 1034-1075; M.J. EnwARDS, Atticizing Moses? Numenius, the Fathers and ]ews, "Vigiliae Christianae", 1990, pp. 64-75. 4. "Gnosi", "Testi Manichei", "Scritti Ermetici" e "Oracoli Caldaici" a. Gnosi. Testi La ricostruzione storica del significato della "gnosi" e delle sue origini è ancora aperta, particolarmente dopo la scoperta, nel1946 a Nag Hammadi nell'Alto Egitto, presso Chenobosco, di 13 papiri e-o n tenenti 48libri gnostici in copto e in greco (cfr.l'inventario ragionato a cura di H.CH. PuECH, Les nouveaux écrits gnostiques découverts en Haute Égypte, "The Bulletin of the Byzantine Institute", 1950; anche: J. DoRESSE, Les apocalypses de Zoroaster, de Zostrien, de Nicothée, "The Bulletin of the Byzantine Institute", 1950; R. HAARDT, Die Gnostiker Bibliothek von Chenoboskion, "Wort und Wahrheit Monatsschrift fiir Religion. und Kultur", 195~; H.CH. PuECH, Découverte d'une bibliothèque gnostique en Haute Egypte, in Encyclopédie Fransaise, XIX, Paris 1957; J. DoRESSE, Les livres secrets des gnostiques d'Egypte. Introduction aux écrits gnostiques coptes découverts à Khénoboskion, Paris 1958; A. MAGRIS, La dossografia filosofica nei testi di Nag Hammadi, "Rivista di Storia e Letteratura religiosa", 1984, pp. 3-39. -Un'edizione dei testi in copto si veda a cura di J.M. RoBINSON, The Nag-Hammadi Library, Leiden 1977. I testi gnostici scoperti in Egitto nel1946 si veda-
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no pubblicati in parte da N. MALINE-H.CH. PuECH-G. QursPEL, Evangelium veritatis, Zi.irich 1956 (aggiunte a cura di W. HILL, "OrientaHa", 1958, pp. 269-286; 1959, pp. 170-185). Si veda inoltre: l'Evangelo secondo Tommaso, con trad. fr., ted., ingl., Paris-Leiden 1959, a cura di A. GUILLAUMONT-H.CH. PUECH-G. QursPEL-W. TILL-Y. Apn AL MASIH (cfr. anche J. DoRESSE, Les livres secrets des gnostiques d'Egypte, II, L'évangile selon Thomas ou les paroles secrètes de ]ésus, Paris s.d., ma 1959). Inoltre: H.CH. PuEcH-G. QursPEL, Le 4• écrit du Codex ]ung, "Vigiliae Christianae", 1954, 1955; H.CH. PuEcH-G. QuiSPEL-W.C. VAN UNNIK, The Jung Codex: A Newly Recovered Gnostic Papyrus, London 1955; P. LABIC, Coptic Gnostic Papyri in the Coptic Museum of the Old Cairo, Il Cairo 1956 (contiene: L 'ipostasi degli arconti, l'Evangelo secondo Filippo, l'anonimo Sull'origine del mondo, ripr. fotografica del testo copto originale; si veda la trad. tedesca a cura di H.N. ScHENKL, "Theologische Zeitschrift", 1958, pp. 661-670 e 1959, pp. 1-26, 248-256); Das Evangelium nach Philippos, testo copto e trad. ted., a cura di W. TILL, Berlin 1963. Raccolte di testi gnostici, in copto e cristiani, frammenti-testimonianze, si vedano in: C. ScHMIDT, Koptisch-gnostische Schriften, Berlin 1905 2 (aggiornamenti a cura di W. TILL, Berlin 1965; anche W. TILL, Die gnostische Schriften des koptischen Papyrus Berolinensis 8.502, Berlin 1956). In traduzione italiana si veda: Testi gnostici cristiani, a cura di N. SIMONETTI, Bari 1970 (da Ireneo, Ippolito, Epifanie, Clemente, Origene, Egemonie, Giustino, Eusebio. - Testi di Simon Mago e la sua scuola; degli Ofiti; di Carpocrate e suo figlio Epifane; Basilide e i Basilidiani; Valentino e la sua scuola; Eracleone; lettera di Tolomeo a Flora; Marco e i Marconiani; Teodoto); L. MoRANDI, Testi gnostici (trad. it. di testi gnostici in copto), Torino 1982.
b. "Generalia" gnosi Entrata in discussione è, oramai, la tesi che la gnosi sia un fenomeno sorto in seno al Cristianesimo ("ellenizzazione del Cristianesimo"). Questa tesi, che si basava in particolare sul fatto che la ricostruzione del pensiero dei maggiori gnostici era affidata alle testimonianze e alle citazioni degli scrittori cristiani e degli eresiologi (Ireneo, Ippolito, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Filastrio, Epifania, Teodoreto: non va scordato il trattato 9 della II Enneade di Plotino, Contro gli gnostici), fu sostenuta da: A. HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Leipzig 1886 (anche dello HARNACK, Geschichte der altchristlichen Literatur bis Eusebius, Leipzig 1893); E. BuoNAIUTI, Lo gnosticismo, Roma 1907; E. DE FAYE, Gnostiques et gnosticisme au II•et au III• siècles, Paris
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1913, 1952 2 (opera di fondo); F.C. BuRKITT, Church und Gnosis, Cambridge 1932. Per altro verso si è, invece, sostenuta la tesi che la "gnosi" sia di origine orientale da parte di W. BoussET, Hauptprobleme der Gnosis, Gottingen 1907, che, sulla scia di R. REITZENSTEIN, Poimandres, Leipzig 1904, ha sostenuto l'affinità tra "ermetismo" e "gnosi" e la derivazione della "gnosi" dalle religioni mitico-astrali di origine persiano-babilonese (anche di R. REITZENSTEIN, Das iranische Erlosungsmysterium, Bonn 1921, sulla linea del BoussET); W. HoHLER, Die Gnosis, "Religionsgeschichte. Volksbiicher", IV, 16, 1911; L.P. STEFFES, Das Wesen des Gnostizismus und sein Verhiiltnis z. kathol. Dogma, Paderborn 1922. La tesi che la "gnosi" corrisponde ad una vasta concezione comune religiosa, in cui la "gnosi" è dovuta ad una illuminazione da parte di Dio in un ordinamento e spiegazione filosofici, hanno sostenuto: P. WENDLAND, Die hellenistisch-romische Kultur, Tiibingen 1914; H. LEISEGANG, Die Gnosis, Leipzig 1924 (tr. fr. aggiornata, Paris 1951). Contrario a questa tesi si è mostrato H. JoNAS, Gnosis und Spiitantiker Geist, I, Gottingen 1934, 19642 • Un rapporto tra "gnosi" e "giudaismo ellenistico" hanno sostenuto: L. CERFAUX, Gnose préchrétienne et biblique, in Dictionnaire de la Bible, suppl. XIII e XIV; R. McWILSON,
The Gnostic Problem. A Study of Relations between Hellenistic Judaism and the Gnostic Heresy, London [1958]; J. DANIÉLOu, Théologie du judéochristianisme, Paris-Tournai [1958]; E. PETERSON, Friihkirche, Judentum und Gnosis, Freiburg 1959. c. Gnosi. Studi Sullo gnosticismo nel suo complesso, oltre alle voci ytyvffiaKro e yv&mç, a cura di R. BuLTMANN, in Theologisches Worterbuch z. Neue Test., I, Stuttgart 1933, si confronti: A. HARNACK, op. cit., 1886 e 1893; E.H. ScHMITT, Die Gnosis, ~eipzig 1903 (anast., Diisseldorf 1968); E. DE FAYE, Introduction à l'Etude du Gnosticisme, Paris 1903; W. BoussET, op.cit., 1907; E. BuoNAIUTI, op.cit., 1907; E. DE FAYE, Gnostiques et gnost., cit., 1913; E. NoRDEN, Agnostos Theos, Leipzig 1913; P. WENDLAND, op. cit., 1914; L. FENDT, Gnostische Mysterien, Miinchen 1922; H. LEISEGANG, op. cit., 1924 (aggiornamento 1951); F.C. BuRKÌTT, op. cit., 1932; W. VoLKER, Quellen zur Geschichte der christlichen Gnosis, Tiibingen 1932; H. JoNAS, op. cit., 1934, 1964 2 ; G. KoPGEN, Die Gnosis des Christentums, Salzburg 19402 ; E. BuoNAIUTI, Gnosi cristiana, Roma 1946; S. PÉTREMENT, Essai sur le dualisme chez Platon, les gnostiques et les manichéens, Paris 1946; G. QmsPEL, La conception de l'homme dans la gnose valentinienne, "Eranos-Jahrbuch", 194 7, pp. 249 sgg. (anche L 'homme gnostique: la doctrine de Basilide, "Eranos-Jahrbuch", 1948, pp. 89 sgg.); F.M. SAGNARD, La gnose
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DEE, The Terminology of Plotinus and some Gnostic Writings Mainly the Fourth Treatise of the ]ung Codex, Leiden 1961; V. CILENTO, La radice metafisica della libertà dell'antignosi plotiniana, "La Parola del Passato", 1963, pp. 94-123, ora in Saggi su Platino, Milano 1973; C. ELSAS, Neuplatonische und gnostische Weltanschauung in der Schule Plotins, BerlinNew York 1975; F. GARciA-BAZAN, Platino y los textos gn6sticos de Nag-Hammadi, "Oriente-Occidente" (Buenos Aires), 1981, pp. 185-203; R.A. NoRRIS, ]R., Irenaeus and Plotinus Answer to Gnostics: a Note on the Relation between Christian Thought and Platonism, "Union Seminary Quarterly Review", 1980-1981, pp. 13-24. Sullo stato della questione (testi, gnosticismo e l'Egitto, l'Iran, la Mesopotamia, la Grecia, Filone l'Ebreo, i rotoli del Mar Morto, le correnti giudaiche e cristiane, problemi mandei e manichei, il buddhismo e cosl via), cfr. Le origini dello gnosticismo (The Origins of Gnosticism, Texts and Discussions), a cura di U. BIANCHI, Leiden 1967 (Atti del Colloquio di Messina, 13-18 aprile 1966).
e. Singoli gnostici Sui singoli gnostici rimandiamo alle opere generali sopra citate (in particolare F.M. SAGNARD, 1947; DE FAYE e LEISEGANG, QUISPEL, 1949) e alle bibliografie in Testi gnostici cristiani, a cura di M. SIMoNETTI, Bari 1970 (Simon Mago, Ofiti, Carpocrate, Epifane, Basilide, Valentino e la sua scuola). Per Bardesane cfr.: C. LEVI DELLA VmA, Bardesane, il dialogo delle leggi dei paesi, Roma 1921; B. WILSON, Bardaisan. On Nature, Fate, and Freedom, "International Philosophical Quarterly", 1984, pp.165-178. Su Carpocrate vedi H. LIBORON, Die Karpokratianische Gnosis, Leipzig 1938; su Marcione, A.C. BLACKMANN, Marcion and his Influence, London 1949. Per i testi gnostici della setta mandea cfr: Il tesoro o Grande libro (Ginzà o Sidrà Rabbà), a cura di H. PETERMANN, Berlin 1867 (trad. ted. a cura di M. LIDZBARSKI, Géittingen 1925); Libro di Giovanni (Sidrà d' Yakyà), ed. con trad. ted. a cura di M. LIDZBARSKI, Géittingen 1905-1915; Libro liturgico (Qolastaì, ed. con trad. ted. a cura di M. LIDZBARSKI, Berlin 1920; Libro dello Zodiaco, ed. a cura di E.S. DRoNER, Oxford 1949; Divano di Abatur, a cura di E.S. DRONER, Città del Vaticano 1950 (sui Mandei cfr. E.S. CRONER, The Mandeans, Oxford 193 7).
f. Manichei Per un elenco delle fonti e degli ultimi ritrovamenti dei testi manichei si veda: G. BARDY, in Dictionnaire de Théologie catholique (si giun-
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ge al1920); Enciclopedia cattolica, VII, col. 1960; H.CH. PuECH, Le manichéisme, son fondateur, sa doctrine, Paris 1949; R. MANSELLI, Mani e il manicheismo alla luce dei testi recentemente scoperti, "Humanitas", 195 3. Lo studio più completo e fondamentale sul manicheismo è quello di H.CH. PuECH, Le manichéisme ... , cit., 1949. Hanno ancora una loro utilità gli studi di: F. CUMONT e A. KuGENER, Recherches sur le manichéisme, Bruxelles 1908-1912; P. ALFARIC, Les écritures manichéennes, Paris 1918 (sono ampiamente analizzati i testi); F. BuRKITT, The Religion of the Manicheans, Cambridge 1925 (interessante per i rapporti che l'autore studia tra manicheismo e cristianesimo); H. ScHAEDER, Urform und Fortbildungen des manich. System, Leipzig 1927; A.V. ]ACKSON, Researches in Manicheism, New York 1931; G. MESSINA, Cristianesimo, buddhismo, manicheismo nell'Asia antica, Roma 1947; A. AnAM, Texte zum Manichai'smus, Berlin 1954; A. BoNsANI, Mani, ne I Protagonisti della storia universale, III, Milano 1969; I. HADOT, Die Widerlegung des Manichai'smus im Epiktetkommentar des Simplikios, "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1969, pp. 31-57. g. Il "Corpo Ermetico" Gli scritti del Corpo Ermetico si vedano, oltre che nell'edizione a cura di W.ScoTT, Oxford 1924-1926 (in tre volumi: un quarto, a cura di A.D. FERGUSON, Oxford 1936, contiene le testimonianze), in quella fondamentale di A.D. NocK e A.J. FESTUGIÈRE, con trad. frane., in 4 voll. (coll. "Belles Lettres"), Paris 1945-1954 (molte ristampe posteriori). Si confronti l'Index du Corpus Hermeticum, a cura di L. DELATTE-S. GoVAERTs-J. DENOOZ (Lessico Intellettuale Europeo, 13), Roma 1977. Si veda anche M. BARTOLINI, Sul lessico filosofico dell'"Asclepius", "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", Class. di Lettere e Filosofia, 1985, pp. 1151-1209. Il Liber Hermetis Mercurii Triplicis de VI rerum principiis si veda a cura di TH. SILVERSTEIN, "Archives d'Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen.Àge", 1955, pp. 217-302. Si veda anche la nuova edizione, Haar 1982, del Pimandro (ed. del 1706: Hermes Trismegistos, Die XVII Biicher). In trad. italiana si veda il Pimandro a cura di R. FEDI, Milano 1942, e a cura di P. ScARPI, Venezia 1987; I discorsi di Ermete Trismegisto, a cura di B.M. ToRDINI PoRTOGALLI, Milano 1991. Cfr. anche Hermetica, testi greci e latini ritenuti di Ermete Trismegisto, Boston 1985. Sul leggendario Ermete Trismegisto cfr.: P. BoYLON, Thot, the Hermes of Egypt, Oxford 1922; F. BRA.uNINGER, Untersuchungen iiber d. Schrift d. Hermes Tris., Gragenhainichen 1926. Sull'Ermetismo si
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vedano: R. REITZENSTEIN, Poimandres, Leipzig 1904; W. KROLL, Die Lehren d. Hermes Trismeg., Leipzig 1914 (del KROLL si confronti anche l'articolo sull'Ermetismo in R.E. PAULY-WissowA). Di particolare importanza e utilità è l'opera del FESTUGIÈRE, La Révélation d'Hermès Trismegiste (in 4 voli.: I. L 'astrologie et les sciences occultes; II. Le Dieu cosmique; III. Les doctrines de l'Jme; IV. Le Dieu inconnu et la gnose), Paris 1944-1954, cui vanno aggiunte l'introduzione, il commento e le note alla citata edizione del Corpus hermeticum. Si veda anche: M.P. NILSSON, Geschichte der griechische Religion, II, Miinchen 1950; H. HoRNIK, The philosophical "Hermetica": their History and Meaning, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", Classe di Se. Mor., Stor. e Filol., 1975, pp. 343-391; L. DELATTE-S. GovAERTs-J. DENooz, 'Orda' dans l'oeuvre de Sénèque et dans le 'Corpus Hermeticum', in Ordo, Atti del II Colloquio Intero. del Lessico Intellettuale Europeo, a cura di M. FATTORI e M. BIANCHI (Roma 1977), Roma 1979, pp. 23-25.
h. Oracoli caldaici I testi degli Oracoli caldaici (X,aÀ.ÙatKà Myta), ritenuti opera di un certo Giuliano, che per primo assunse il nome di teurgo, si vedano nella edizione a cura di W. KROLL, De Oraculis Chaldaicis (Breslauer Philologische Abhandlungen, VII, 1), Breslau 1894, Hildesheim 1968 (la raccolta del KROLL va integrata con le scoperte di nuovi frammenti: si veda J. BIDEZ, Proclus 1tEPÌ -rilç lEpa'tlKlÌç 'tÉ'X,Vllç, "Mélanges Cumont", Bruxelles 1936; Catalogues des manuscr. alchi. grecs, VI, Bruxelles 1929; Note sur les mystères néo-platoniciens, "Rev. Beige de Phil. et d'Histoire", 1928; Vie de l'Empereur ]ulien, Paris 19 30; si veda anche del BIDEZ, Les Mages hellénisés, I, Paris 1938, p. 163). Per altri contributi all'integrazione dei testi degli oracoli, cfr.: T. HoPFNER, Griechisch-Aegyptische Offenbarungszauber, Leipzig 1925 (vedi anche introd. e commento alla trad. del De mysteriis, a cura dell'HoPFNER, e le voci MayEia e 0Eoupyia da lui curate in R.E. PAULY-WissowA); S. EITREM, Zu Philostrats Heroikos. Die :Eucr-raatç und der Lichtzauber in der Magie, "Symb. Osio.", 1929, pp. 49-53, e La Théurgiechez les Néoplatoniciens et dans les papyrus magiques, "Simb. Osio.", 1942, pp. 49-79. Si veda anche Papyri Graecae Magicae, a cura di K. PREISENDANZ, Leipzig- Berlin 1928, 1931. Si confronti, in trad. it., Oracoli caldaici, intr., testo, trad. it., a cura di A. ToNELLI, Milano 1990. Di non poca importanza è l'articolo di E.R. Donns, Theurgy and its Relationship to Neoplatonism, "Journ. of Roman Stud.", 1947 (si veda in trad. italiana, in E.R. Donns, I Greci e l'irrazionale, Firenze 1959). Sui rapporti tra gli Oracoli caldaici e Numenio d' Apamea cfr. H.CH. PuECH, Numénius d'Ap. et les Théologies orienta/es au second siècle,
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"Ann. de l'Inst. de philol. et d'hist. orient. ", Mélanges Bidez, Bruxelles 1933-1934. Sulle influenze degli Oracoli sul Neoplatonismo posteriore, cfr. W. THEILER, Die caldaischen Orakel und die Hymnen des Synesios, Balle 1942. Si vedano inoltre: L.K. WESTERINCK, Proclus, Procopius, Psellus, "Mnemosyne", 1942; F. CuMONT, Lux perpetua, Paris 1949; A.]. FESTUGIÈRE, La Révélation d'Hermès Tris.mégiste, III, Paris 1953; P. BoYANCÉ, Théurgie et télestique néoplatoniciennes, "Revue de l'histoire des religions", 1955, pp. 189 sgg.; H,. LEWY, Chaldaean Oracles and Theurgy, Il Cairo 1956, Paris 1978 2 ; E. DES PLACES, Le~ Oracles Chaldai"ques, in Introduction a ]amblique. Les Mystères d'Egypte, Paris 1966; S. BRETON, Téléologie et ontogénie. Variations sur les "Oracles chaldai"ques", "Recherches de Science Religieuse", 1978, pp. 5-26; S. BRETON, L'homme et l'dme humaine dans les Oracles Chaldai"ques, "Diotima", 1980, pp. 21-24; M. TARDIEU, Un texte négligé de Psellus sur les Oracles Chaldai"ques, "Byzantinische Zeitschrift", 1980, pp. 12-13; H.-D. SAFFREY, Les Néoplatoniciens et les "Oracles Chaldai~ ques", "Revue des Études Augustiniennes", 1981, pp. 209-225; H.-D. SAFFREY, La Théurgie camme phénomène culturelchez les Néoplatoniciens (IV•-V• siècles), "Kowrovia", VII, 2, 1984, pp. 161-171; S.]. JoHNSTON, Hekate .Soteira. A Study of Hekate's Roles in the Chaldean Oracles and Related Literature, Atlanta 1990; E. MouTSOPOULOS, Musique et musicalité dans les "Oracles chaldai"ques ", "Kernos", 1990. 5. ll Cristianesimo. La Patristica
Per i Padri apostolici si vedano le citate edizioni di F.X. FuNK (Tiibingen 1901) e di F. DIEKAMP (1913), insieme a quella nei Textes etdocuments, Paris 1907-1912 (cfr. anche in trad. it., con testo, a cura di B. BosiO, 2 voll., Torino 1940).
a. Collezioni di testi, testi e repertori Le fondamentali collezioni delle opere dei "Padri della Chiesa" sono: J.P. MIGNE, Patrologiae cursus completus. Series latina, Paris 1844-1864, 217 voli. (fino a Innocenzo III) e Series Graeca, Paris 1857-1866, 161 voll., e Supplementi; Corpus Scriptorum Ecclesiasticoc rum Latinorum, (ed. Accademia di Vienna), Wien 1866 sgg., in corso; 55. Patrum opuscula selecta, a cura di H. HuRTER, Innsbruck 1868-1892; Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, Berlin 1877 sgg.; Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, Leipzig 1882 sgg.; Corpus Berolinense: Die griechischen christlichen Schriftsteller der drei ]ahrhunderte, Berlin 1897 sgg.; Patrologia orientalis, a cura di R. GRAFFIN e F. NAu, Paris 1901-1939;
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Sources Chrétiennes (con trad. francese), Paris 1941 sgg.; Corpus Christianorum, series latina, Turnholt-Paris 1954 sgg.; B. ALTANER, Kleine patristische Schriften, a cura di G. GLOCKMANN, Berlin 1967; Corpus Christianorum, series graeca, Turnholt-Leuven 1977 sgg. (in corso). Si vedano anche le seguenti edizioni parziali: Florilegium Patristicum, Bonn 1899 sgg.; Corona Patrum Salesiana, Torino 1937 sgg.; Verba seniorum (con trad. it.), Alba 1954 sgg.; Traités inédits d'anciens philosophes arabes, musulmans et chrétiens, con trad. di trattati greci di Aristotele, Platone, Pitagora, a cura di L IBN HoNEIN, Frankfurt a.M. 1974; Stromata patristica et mediaevalia, Utrecht-Bruxelles 1950 sgg.; I Pagani di fronte al Cristianesimo. Testimonianze dei secoli I e II, a cura di P. CARRARA, Firenze 1984. Per un repertorio di tutte le opere dei Padri (con bibliografia sommaria e problemi di autenticità) si veda: Clavis Patrum Latinorum, a cura di E. DEKKERS, Steenbrugge 1961; Clavis Patrum Graecorum, a cura di M. GEERARD, I-IV, Torhout 1974-1983. Si veda anche M. RICHARD, La transmission des textes des Pères grecs, "Sacris erudiri", 1974-1975, pp. 51-60.
b. Repertori bibliografici. Opere di consultazione. Enciclopedie. Periodici Strumenti di lavoro per lo studio della Patristica sono i seguenti repertori bibliografici: B. GEYER, Die patristische und scholastische Philosophie, in F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, II, Berlin 1928; V. MIANO, Aggiornamenti bibliografici alla trad. it. di M. DE WuLF, Storia della filosofia medievale, Firenze 1953-1956; C. GIACON, Il pensiero cristiano con particolare riguardo alla Scolastica medievale, Guide Bibliografiche II (Filosofia), Milano 1943; J. MAROUZEAU,
Dix années de Bibliographie critique et analytique de l'antiquité gréco-latine pour la période 1914-1924, Paris 1927; J. MAROUZEAU, L'Année Philologique, annuale, dal 1927; Répertoire bibliographique de la philosophie, pubblicaz. trimestrale della "Société Philosophique de Louvain", 1945 sgg. Di particolare interesse per la bibliografia patristica sono: "Theologische Literaturzeitung", Leipzig 1890 sgg.; "Revue Bénédectine", Maredsous 1894 sgg.; "Revue d'histoire ecclésiastique", Louvain 1900 sgg.; "Theologie und Glaube", Paderborn, 1909 sgg.; "Recherches de Sciences religieuses", Paris 1910 sgg.; "Gregorianum", Roma 1920 sgg.; "Recherches de théologie ancienne et médiévale", Louvain 1929 sgg.; J. DE GHELLINCK, Introduction et complément à l'étude de la patristique, Bruxelles-Paris 1947; O. PERLER, Patristische Philosophie, fase. 18 "Bibliographische Einfi.ihrungen in das Studium der Philosophie", a cura di I.M. BocHENSKI, Bern 1950; Bibliographia patristica, a cura di W. SCI;INEEMELCHER, Berlin 1959 sgg.; J. QuASTEN, Initiation aux Pères de l'Eglise, trad. dall'inglese, Paris 1956; P.TH. CA-
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MELOT, Bulletin d'histoire des doctrines chrétiennes, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1964, pp. 724-755; L.J. BATAILLON, Bulletin d'histoire des doctrines médiévales. II: Sources classiques et sémitiques, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1964, pp. 475-490; J. DANIÉLOU, Bulletin d'histoire des origines chrétiennes, "Recherches de Sciences Religieuses", 1967, pp. 88-151. Cfr. inoltre: D. Covi, Rassegna bibliografica patristica, "Laurentianum", 1972, pp. 241-250; L.]. BATAILLON, Bulletin d'histoire des doctrines médiévales, II: Sources classiques, juives et arabes, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1977, pp. 262-288; A. VAN RoEY e C. DREESEN, Bibliographia patristica. Patres latini 1900-1914, Leuven 1974; Patristica et Mediaevalia, dir. M. BARGADÀ, I, 1975 sgg. Per i Padri latini dal VI all'VIII secolo, cfr.: Medioevo Latino, a cura di CL LEONARDI, Spoleto (dal1978) 1980; Bibliografia a Padri della Chiesa, a cura di M. SIMONETTI, alla voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., II, 1987. Si vedano, tra le Enciclopedie e i periodici, le seguenti opere di consultazione: "Acta Sanctae Sedis", Roma, 1865-1908; "Acta Apostolicae Sedis", Roma, 1909 sgg.; Dictionnaire de Théologie Catholique, a cura di A. VACANT-E. MAUGENOT-E. AMANN, Paris 1899 sgg.; The Catholic encyclopaedia, a cura di C.G. HEBERMANN, New York 1907 sgg.; Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, a cura di A. n'ALÉS, Paris 1909-1930; "Revue de Sciences religieuses", Strasbourg 1921; "Ephemerides theologicae Lovanienses", Louvain, 1924 sgg.; Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tiibingen 1927-1931; "Catholical Biblica! Quarterly", New York, 1939 sgg.; Enciclopedia Cattolica, Firenze 1949-1954. Per la bibliografia relativa agli ambienti in cui venne formandosi il pensiero cristiano e sul pensiero politico cristiano nei primi tre secoli, si veda: L. FIRPO, Bibliografia, in appendice alla trad. it. de Il pensiero politico medievale, l, Bari 1956, pp. 567-678; G. BARBERO, Note bibliografiche a Il Pensiero Politico Cristiano. Dai Vangeli a Pelagio, a cura di G.B., Torino 1962. Si veda inoltre: Biblia Patristica, 3 voli., Paris 1975-1981; Dizionario patristico e di antichità cristiane, 2 voll., dir. A. DI BERARDINO, I-II, Casale Monferrato 1983-1984. Per raccolte di studi sul pensiero patristico si veda Studia Patristica, Berlin (in corso). Ancora: Dictionnaire Encyclopédique du Christianisme Ancien, I e II, 1990; Encyclopedia of Early Christianity, a cura di E. FERGUSON-N. McHuG-FR. NoRis-D. ScHOLER, 1990. c. Storie del pensiero cristiano nei primi secoli e studi su aspetti particolari Tra le storie generali del pensiero cristiano nei primi secoli e per alcuni aspetti particolari, si vedano: J. HuBER, Die Philosophie der Kir-
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chenviiter, Berlin 1859; T.A. HrLGENFELD, Die Ketzergeschichte des Urchristentums urkundlich dargestellt, Leipzig 1884 (anast., Hildesheim 1963); A. STéiCKL, Geschichte der christlichen Philosophie zur Zeit der Kirchenviiter, Mainz 1891, Aalen 1968; P. MoNCEAUX, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne depuis les origines jusqu'à l'invasion arabe, Paris 1901-1923; M. DE WuLF, Histoire de la philosophie médiévale, Paris-Bruxelles 1900, Louvain-Paris 19124, Louvain 1947 8 (trad. it., Firenze 1913, 1944-1948; 1952, 1957, con aggiornamenti bibliografici); J. FABRE, La pensée chrétienne, Paris 1905; J. HESSEN, Patristische und Scholastische Philosophie, Breslau 1922; F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, Il, a cura di B. GEYER, Die patristische und scholastische Philosophie, Berlin 1928 11 ; E. GrLSON, L 'esprit de la philosophie médiévale, Paris 1932; H. FucHS, Der geistige Widerstand gegen Rom in der antiken Welt, Berlin 1938; P. BREZZI, La composizione sociale delle comunità cristiane nei primi secoli, "Studi e materiali di Storia d~lle religioni", 1950, pp. 22-55; E. GrLSON, La philosophie au Moyen Age. Des origines patristiques à la fin du IX•siècle, Paris 1944, 19472 (trad. it., Firenze 1973); E. BRÉHIER, Histoire de la philosophie, l, 2: Période hellénistique et romaine, Paris 1945; H. MEYER, Geschichte der abendliindischen Weltanschauung, W iirzburg 194 7; J. FrscHL, Geschichte der Philosophie, Wien 1947; A. RrvAuD, Histoire de la philosophie, I. Des origines à la scolastique, Paris 1948; J. WEiss, Earliest Christianity. A History of the Period A.D. 30-150, New York 1959; R.H. BAINTON, Early Christianity, Princeton (~.J.) 1960; P. CHRISTOPHE, L'usage chrétien du droit de propriété dans l'Ecriture et la tradition patristique, Paris 1964; A. DEMPF, Geistesgeschichte der altchristlichen Kultur, Stuttgart 1964; L. 0RABONA, Cristianesimo e proprietà. Saggio sulle fonti antiche, Roma 1964; J.H. STONE, The Introduction of the Concept of Free Will as -rò aÒ-rEI;oucnov into Early Christian Thought, "Dissert. Abstracts", 1964-1965, p. 7402; F.R. HoARE, The Western Father. Being the Lives of Martin of Tours, Ambrose, Augustine of Hippo, Honoratus of Arles and Germanus of Auxerre by Sulpicius Severus and Others, New York 1965; G. J ossA, La teologia della storia nel pensiero cristiano del secondo secolo (pref. di H.I. MARROu), Napoli 1965; W.L. GERIG, The Social Ethics of the Apostolic Fathers, "Dissert. Abstracts", 1965-1966, pp. 2889-2890; FR.P. CAssmY, Molders of the medieval Mind. The Influence of the Fathers of the Church on the Medieval Schoolmen, Port Washington 1966; M. HoFFMANN, Der Dialog bei den christlichen Schriftstellern de~ersten vier ]ahrhunderte, Berlin 1966; A. LUNEAU, Les ages du monde. Etat de la question à l'aurore de l'ère patristique, in Studia Patristica, V, Berlin 1966; I.T. RAMSEY, Logica! Empiricism and Patristic, in Studia Patristica, V, Berlin 1966, pp. 541-547; C. DEL GRANDE, Cultura classica nei Padri della Chiesa tra il II e il III secolo, in Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento (Atti del IV Convegno
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d. Culture, ambienti, vite, dogmatica, teologia: III-V secolo Particolare interesse per una ricostruzione del pensiero dei Padri della Chiesa tra il II e il V secolo, entro i termini di certi ambienti e di una certa cultura, per la storia della vita dei Padri (patrologia) e per uno studio della dogmatica e della teologia, hanno le seguenti opere: A. HARNACH, Geschichte der altchristlichen Literatur bis Eusebius, Leipzig 1893-1904; P. MoNCEAUX, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne, Paris 1901-1923; A. HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Freiburg 1909, 1931 2 , Leipzig 1958; 0. BARDENHEWER, Geschichtederaltkirchlichen Literatur, Freiburg i.Br. 1913-1932; R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Leipzig 1920-1930; E. AMANN, Le dogme catholique dans les Pères de l'Église, Bloud 1922; J. TIXERONT, Précis de Patrologie, Paris 1923; W. CHRIST-W. ScHMIDT-0. STAEHLIN, Geschichte der griechischen Literatur, Miinchen 1924; P. DE LABRIOLLE, Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris 1924, 19472 ; M. JuGIE, Theologia dogmatica Christianorum orientalium ab Ecclesia catholica dissidentium, Paris 1926-1935; J. LEBRETON, Histoire du dogme de la Trinité, Paris 1927; G. BARDY, Littérature grecque chrétienne, Paris 1928; H. CH. PuECH, Histoire de la littérature grecque chrétienne, Paris 1928-1938; J. TIXERONT, Histoire des dogmes, Paris 1930; G. BARDY, En lisant les Pères, Bloud 1933 2 ; J. VAN DEN EYDE, Les normes de l'enseignement chrétien dans la littérature patristique des trois premiers siècles, "Univ. Cath.
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e. Rapporti tra pensiero classico e pensiero cristiano
Sui rapporti tra pensiero cristiano e pensiero classico si veda: C.P. CocKER, Christianity and Greek Philosophy, New York 1870; F.X. VON ARNETH, Das klassische Heidentum und die christliche Religion, Wien 18952 ; P. LABERTHONNIÈRE, Le réalisme chrétien et l'idéalisme grec, Paris 1905, Frankfurt a.M. 1975 (trad. it., Firenze 1931); L. ALSTON, Stoic and Christian in the Second Century, London 1906; C. ELSEE, Neoplatonism in Relation to Christianity, Cambridge 1908; P. WENDLAND, Die hellenistisch-romische Kultur in ihrer Beziehungen zu Judentum und Christentum, Tiibingen 1912; C. CLEMEN, Der Einfluss der Mysterienreligion auf das ii/teste Christentum, Giessen 1913; L LEBRETON, Les origines du dogma de la Trinité, Paris 1919; L. PATTERSON, Mithraism and Christianity, Cambridge 1921; L. DE GRANDMAISON, Les Mystères pai'ens et le Mystère chrétien, "III• Semaine d'Ethnol. relig.", Enghien 1923; F.G. CHAPPUIS, La destinée de l'homme. De l'influence du stoi'cisme sur la pensée chrétienne primitive, Paris 1926; J. DE GHELLINCK, Quelques mentions de la dialectique stoi'cienne dans !es conflits doctrinaux du IV• siècle, "Festgabe Geyser", I, Regensburg 1930; J. DE GHELLINCK, Quelques appréciations de la dialectique d'Aristate durant !es conflits trinitaires du IV• siècle, "Revue d'histoire ecclésiastique", 1930; A. LmsY, Les mystères pai'ens et le mystère chrétien, Paris 19302 ; A.]. FESTUGIÈRE, L'idéal religieux des Grecs et l'Évangile, Paris 1932; R. JouvET, Essai sur !es rapports entre la pensée grecque et la pensée chrétienne, Paris 1932; R. ARNOU, Le platonisme des Pères, in Dictionnaire de théologie catholique, 12, Paris 1933;]. STELZENBERG, Die Beziehungen der friihchristlichen Ethik zur E,thik der Stoa, Miinchen 1933; P. DE LABRIOLLE, La réaction pai'enne. Etude sur la polémique antichrétienne du l er au IV· siècle, Paris 1934; E. PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Leipzig 1935; G. LAZZATTI, L'Aristotele perduto e gli scrittori cristiani, Milano 1938 (Cl. Aless., Basilio, Agostino, Sinesio); M. WALDMANN, Synteresis oder Syneidesis? Ein Beitrag zur Lehre vom Gewissen, "Theologische Quartalschrift", 1938 (da Cicerone a Gerolamo); CH.N. CoCHRANE, Christianity and Classica! Culture. A Study of Thought and Action from Augustus to Augustine, New York 1940; K.L. ScHMIDT, Die Polis in Kirche und Welt, Ziirich 1940; D. AMAND, Fatalisme et liberté dans l'antiquité grecque. Recherches sur la survivance de l'argumentation morale antifataliste de Carnéade chez !es philosophes grecs et les théologiens chrétiens des quatre premiers siècles,
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sch-stoischen Popularphilosophie der friihen Kaiserzeit und im friihen Christentum, Wiesbaden 1979; Kerygma und Logos. Beitriige zu den geistesgeschiçhtlichen Beziehungen zwischen Antike und Christentum, in onore di C. ANDERSEN, a cura di A.M. RrTTER, Gottingen 1979; M. RrESER, The True Founder of Christianity and the Hellenistic Philosophy, Uithoorn (Netherlands) 1979; AA.VV., Mondo classico e cristianesimo (Enciclopedia Italiana), Roma 1982; P. HADOT, La préhistoire des genres littéraires philosophiques médiévaux dans l'Antiquité, in Les genres littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales, Actes du Colloque international de Louvain-la-Neuve, 25-27 mai 1981, pref. di R. BuLTOT, Louvain-la-Neuve 1982; Neoplatonismo e religione, Atti di un Colloquio internazionale sul tema: "Alles Vergangliche ist nur ein Gleichnis". Neoplatònismo e religione (Roma, 5-8 gennaio 1982), Padova 1983; J. MANSFELD, Resurrection added: the "Interpretatio christiana" of a Stoic Doctrine, "Vigiliae Christianae", 1983, pp. 218-233; C. ANDERSEN, The Integration of Platonism into Early Christian Theology, in Studia Patristica, XV, a cura di E.A. LrvrNGSTON, Berlin 1984, pp. 399-413; A.H. ARMSTRONG, Pagan and Christian Traditionalism in the First Three Centuries A.D., in Studia Patristica, XV, a cura di E.A. LrvrNGSTON, Berlin 1984, pp. 414-431; M. Ducos, Les romains et la
loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984; R. KuBANSKY, Neoplatonism and Christianity, "Archivio di Filosofia", 1984, pp. 591-594; A.M. RrTTER, Platonismus und Christentum in der Spiitantike, "Theologische Rundschau", 1984, pp. 31-56; J.M. RrsT, Platonism and its Christian Heritage, London 1985; C.A. KELLER, Gnostik, Urform christlicher Mystik, "Perspektiven der Philosophie", 1986, pp. 95-127; J. PÉPIN, De la philosophie ancienne à la théologie patristique, London 1986; C. STEEL, L'Un et le Bien. Les raisons d'une identification dans la tradition platonicienne, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1989, pp. 69-84; E. voN IvANKA,Jlato christianus. La réception critique du platonisme chez les Pères de l'Eglise, Paris 1990; A.H. ARMSTRONG, Hellenic and Christian Studies, London 1991; J. DrLLON, The Golden Chain. Studies in the Development of Platonisme and Christianity London 1991.
f. Su di una "filosofia" cristiana Sulla possibilità o meno di parlare di una filosofia cristiana cfr.: E. GrLSON, La philosophie de Saint Bonaventure, Paris 1924; E. BRÉHIER,
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Y-a-t-il une philosophie chrétienne?, "Rev. de Métaphysique et de Morale", 1921; M. BLONDEL, Le problème de la philosophie catholique, Paris 1932; E. GrLSON, L'esprit de la philosophie médiévale, Paris 1932 (trad. it., Brescia 1947); J. MARITAIN, De la philosophie chrétienne, Paris 1923; M.D. CHENU, Pour l'histoire de la notion de philosophie chrétienne, Paris 1933; G. BRUNI, Esiste una filosofia cristiana?, "Riv. di fil. neosc.", 1933, e Ancora a proposito di filosofia cristiana, "Bollettino filosofico", 1935; I Convegno di filosofi cristiani di Gallarate, Padova 1951; E. GrLSON, Elements of Christian Philosophy, New York 1960. g. Storie della Chiesa Di utile consultazione sono le seguenti opere generali sulla Storia della Chiesa: J. HERGENROTHER, Handbuch der Allgemeinen Kirchengeschichte, Freiburg i.Br. 1877, 1902-19044 (trad. it. di E. DE RosA, Firenze 1904-1910); L. DucHESNE, Histoire ancienne de l'Église, Paris 1906; F. MouRRET, Histoire de l'Église, Paris 1914-1921; F. SASSEN, Geschiedenis der patristische en middeleuwsche wijsbegeerte, NijmegenBruxelles 1928; Histoire de l'Église depuis les origines jusqu 'à nos jours, a cura di A. FLICHE e V. MARTIN, 24 voli., Paris 1934 sgg. (trad. it., Torino 1937 sgg.); A. SABA, Storia della Chiesa, Torino 1936-1943; E. BuoNAIUTI, Storia del Cristianesimo, Milano 1942-1943; K. PRUEMM,
Religionsgeschichte Handbuch fur den Raum der altchristlichen Umwelt, Freiburg i.Br. 1943; K. BIHLMEYER e M. TuECHLE, Storia della Chiesa, ed. it., Brescia 1955-1956; E. BuoNAIUTI, Saggi di Storia del Cristianesimo, Vicenza 1957; International Bibliography of the History of Religions, a cura diJ. BLEEKER, Leiden 1962; A. DIHLE, Die Schicksalslehren der Philosophie in der Alten Kirchen, in Aristoteles. Werk und Wirkung, Il, a cura diJ. WrESNER, Berlin-New York 1985, pp. 52-71; C. FABRICIUS, Zu den Aussagen der griechischen Kirchenviiter uber Platon, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 179-187. h. Sui Concili Le fonti per una storia dei Concili si vedano in: J.D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Firenze-Venezia 1759-1789,31 voli. (continuazione a cura diJ.B. MARTIN e L. PETIT, Paris 1901 sgg., 53 voli.); Canones Apostolorum et Conciliorum saeculorum IV, V, VI e VII, a cura di H. T. BRUNS, Berlin 1839; C.J. HEFELE, Conciliengeschichte, Freiburg i.Br. 1855-1890 (trad. frane. aumentata, a cura di H. LECLERCQ, Histoire des Conci/es, Paris 1907-1952, 11 voli. in 20 tomi). - Per una introduzione alla storia dei Concili cfr. H. }E-
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DIN, Kleine Konziliengeschichte, Freiburg i.Br. 1959 (trad. it., Roma 1960).
i. Eresiologia. Ecclesiologia. Martiri Sull'eresiologia cfr.: F. 0EHLER, Corpus haeresiologium, 3 voli., Berlin 1856-1861; A. MICHEL, Hérésie-Hérétique, in Dict. de Théol. cath., VI/2, Paris 1947; K. RAHNER, Hiiresiengeschichte, in Lexicon f. Theol. u. Kirche, V, Freiburg 1957-1965; P.TH. CAMELOT, Hérésiologues, in Catholicisme, V, Paris 1962; H. ScHUER, AipEcnç, aipE't"tK6ç, in Grande Lessico del N. T., I, Brescia 1963; H. RAHNER, L'ecclesiologia dei Padri, trad. it., Roma 1971; G. LANATA, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973; AA.VV., La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Messina 1980; D.S. WALLACE-HADRILL, Christian Antioch. A Study of Early Christian Thought in the East, Cambridge 1982; C. GIANNOTTO, Eresiologi, in Diz. Patr. e di Ant. Crist., I, Torino 1983; AA.VV., L'agiografia latina nei secoli IVNII, "Augustinianum", 1984; AA.VV., Eresia ed Eresiologia nella Chiesa Antica, Atti del XIII incontro di Studi dell'Aut. Crist., "Augustinianum", 1985; A. VON HARNACK, Missione e propagazione del Cristianesimo (rist. trad. Marrucchi, 1906), Cosenza 1986; M. LIMONe A. BENOIT, Giudaismo e Cristianesimo, Bari-Roma 19882 ; C. MoRESCHINI, Sogni, visioni e profezie nell'antico cristianesimo, "Augustinianum", 1989, pp. 269-280; H. CHADWICK, Heresy and Orthodoxy in the Early Church, London 1991.
l. Il primo Cristianesimo e l'Impero di Roma Per la bibliografia relativa a: l. Il Cristianesimo in rapporto con l'Impero romano; 2. Le persecuzioni; 3. I Papi e l'affermazione del primato; 4. Il pensiero politico e sociale: cfr. Nota Bibliografica di G. BARBERO, ne Il pensiero politico cristiano. Dai Vangeli a Pelagio, a cura di G.B., Torino 1962 (anche A. MoMIGLIANO, The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963). Si veda inoltre: M. SoRDI, Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965; J. BREGMAN, Pa-
gan Religious Syncretism and symbolism on the Greek Imperials of the Early Third Century, "Dionysius", 1982, pp. 58-72; L. ]ERPHAGNON, Vivre et philosopher sous l'Empire chrétien, Toulouse 1983; G.A. KENNEDY, A History of Rhetoric, III: Greek Rhetoric under Christian Emperors, Princeton (N.J.) 1983; P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell'impero romano, Bari 1983; M. SoRDI, I cristiani e l'impero romano, Milano 1983; R. McMuLLEN, La diffusione del Cristianesimo nell'Impero romano (1984), Bari 1989.
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m. Lessici e Dizionari Oltre il Dictionnaire de Théologie catholique, a cura di A. VACANT-E. MAUGENOT-E. AMANN, Paris 1899 sgg., tra i lessici di maggiore uso indichiamo: M. MARTIGNY, Dictionnaire des antiquités chrétiennes, Paris 1875; Real-Encyklopiidie der christlichen Altertiimer unter Mitwirkung mehrerer Fachgenossen bearbeitet, 2 voli., s.d.; Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, a cura di P.F. CABROL e H. LECLERCQ, Paris 1924; Kirchenlateinisches Worterbuch, Freiburg 1926; Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens, Strasbourg 1954; Evangelisches Kirchenlexikon, Kirchlichtheologisches Handworterbuch, Gi:ittingen 1956; Staatslexikon. Recht Wirtschaft Gesellschaft, Freiburg i.Br. 1958 sgg.; A Patristic Greek Lexicon, a cura di G.W.H. LAMPE, Oxford-New York 1961 sgg.; Biblia Patristica, Paris 1975-1981; Lexicon latinitatis Medii Aevi, Corpus Christianorum, a cura di A. BLAISE, Turnhout 1975; H. HAMMAN, Breve dizionario dei Padri della Chiesa, Brescia 1983; G. PETERS, I Padri della Chiesa, Roma 1984; A Lexicon of Greek Personal Names, a cura di P.M. FRASER e E. MATTHEWS, Oxford 1989 sgg.; A Patristic Greek Lexicon, a cura di G.W.H. LAMPE, Oxford 1989; Dizionario patristico e di antichità cristiana, diretto da A. Dr BERNARDINO, I-II, Casale Monferrato 1983-1984; Kirchenlexikon, a cura di S. TROGER e K.W. TROGER, 1990.
6. Gli scrittori cristiani del II secolo. Apologisti e apologetica in greco
a. Apologisti del II secolo: "Generalia" Per i testi degli apologisti, oltre le collezioni sopra citate, cfr. ].C.TH. DE OTTo, Corpus apologetarum, Jena 1876-1881. Sugli apologisti del II secolo in generale, cfr.: J. RrvrÈRE, St. ]ustin et les apologistes du II• siècle, Paris 1907; A. PuECH, Les apologistes grecs du II•siècle, Paris 1912; E.J. GooDSPEED, Die iiltesten Apologeten, Gi:ittingen 1914; A. NAUCK, Apologetik in der alten Kirche, Leipzig 1918; M. LosAcco, La dialettica nei primi Apologisti. Da Giustino a Tertulliano, "Archivio di St. della filos. italiana", 1935; B. CITTERIO, La polemica anticristiana nei primi secoli della Chiesa, "La scuola cattolica", 1936; I. GIORDANI, La prima polemica cristiana: gli apologisti del secondo secolo, Brescia 1943; A. CASAMASSA, Gli Apologisti greci, Roma 1944; M. PELLEGRINO, Gli Apologisti greci del II secolo, Roma 1947; M. PELLEGRINO, Studi sull'antica apologetica, Roma 1947; A. RrcHARDSON, Christian Apologetics, London 1948; Gli apologeti greci, trad.,
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intr. e note, a cura di C. BURINI, Roma 1948; V. MoNACHINO, Intento pratico e propagandistico nell'apologetica greca del secondo secolo, "Gregorianum", 1951, pp. 5-49, 187-222; A. CASAMASSA, Scritti patristici, Roma 1955-1956; H. HAGENDAHL, Latin Fathers and the Classics. A Study on the Apologists - Jerome and other Christian Writers, Goteborg 1958; J. DANIÉLOU, Message évangélique et culture hellénistique au II• et III• siècles, Tournai 1961; I.M. CAMPBELL, The Greek Fathers, New York 1963; R. ]oLY, L'originalité de la morale chrétienne selon les Apologistes du II• siècle, Réseaux 1972; N. ZEEGERS-VANDER VoRST, Les citations des poètes grecs chez les Apologistes chrétiens du II• siècle, Louvain 1972; H.B. TIMOTHY, The Early Christian Apologists and Greek Philosophy exemplified by Irenaeus, Tertullian and Clement of Alexandria, Assen 1973; C. ScHAUBLIN, Untersuchungen zur Methode und Herkunft der antiochenischen Exegese, Bonn 1974 (cfr. anche G. BARDY, Apologetike, in Real-Lexikon fiir Antike und Christentum, I, coli. 533-543); M. NALDINI, Apologeti, voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1987; R.M. GRANT, Greek Apologists of the Second Century, 1988; U. KuHNEWEG, Die griechischen Apologeten und die Ethik, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 112-120.
b. Apologisti: Quadrato, Aristone di Pella, Milziade Nulla è rimasto dell'Apologia di Quadrato (le notizie si vedano in Eusebio, Hist. Ecc!., IV, 3); cfr. RouET DE}ouRNEL, Enchiridion Patristicum, Paris 1922, p. 32. Le notizie su Aristone di Pella si ricavano da Eusebio (Hist. Ecc!., IV, 3) e da San Gerolamo (De viris il!., 20): cfr.l'articolo di G. BAREILLE in Dictionnaire de Théologie catholique. Per le testimonianze su Milziade, autore di tre perdute Apologie (Contro i Greci, Contro gli Ebrei, Ai principi sulla propria posizione) cfr. J.C.TH. DE OTTo, Corpus apologetarum, t. IX (in DE OTTo cfr. anche le testimonianze su Apollinare di Gerapoli).
c. Aristide
L'Apologia di Aristide, scoperta in traduzione siriaca dal RENDEL HARRIS, si veda nel testo greco, armeno e siriaco, in Texts and Studies, I, 2, a cura di E. HENNECKE, Cambridge 1893. Inoltre: ed. a cura di T. ZAHN, in R. SEEBERG, Forschung z. Geschichte des Neutest. Kanons u. altchristl. Literatur, Erlangen 1893; J. GEFFKEN, Zwei griech. Apologeten, Leipzig 1907, Hildesheim-New York 19702 . L'Apologia di Aristide è stata tradotta in italiano da C. VaNA, Roma 1951 (testo greco pp. 115-126); a cura di C. ALPIGIANO, Firenze 1988. Di C. ALPIGIANO cfr. anche L 'Apologia di Aristide e la tradizione
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papiracea, "Civiltà Classica e Cristiana", 1986, pp. 333-357 (POxy. 1778 e PLit.Lond. 223). Su Aristide, oltre gli studi d'insieme sugli Apologisti greci, si veda: G. BAREILLE, Aristide, in Dict. de Théol. Catholique; G. LAZZATI, Ellenismo e Cristianesimo: il primo capitolo dell'"Apologia" di Aristide, "La Scuola Cattolica", 1938; W.C. VAN UNNIK, Die Gotteslehre bei Aristides und in gnostischen Schriften, "Theol. Zeitschr.", 1961, pp. 65-82; R. VAN DEN BROEK, Eugnostus and Aristides an the ineffable God, in Knowledge of God in the Graeco-Roman World, a cura di R. VAN DEN BROEK-T. BAARDA-J. MANSFELD, Leiden 1988, pp. 202-218.
d. Giustino Le opere di San Giustino si vedano nell'edizione a cura di DoM MARAN (1792), riprodotta in MIGNE, Patr. graeca, vol. VI (anche E.J. GoDSPEED, Die iiltesten Apologeten, Gottingen 1914). Per le due Apologie cfr.: G. RAusCHEN, Bonn 1911;J.M. PFAETTISCH, Miinster 1912; G. KRUGER, IV, Freiburg i.Br. 1915; S. FRASCA, testo e trad. it., in Corona Patrum Salesiana, III, Torino 1938. Cfr. inoltre: Giustino. Le Apologie, intr. e trad. a cura di I. GIORDANI, Roma 1962; Justin, Die erste Apologie, a cura di K. BAYER, Miinchen 1966; Giustino. Le due apologie, intr. e note di G. GANDOLFO, trad. di A. REGALDO RACCONE, Roma 1983; Justin, Apologies, intr., testo critico, trad., commento e indil'e di A. WARTELLE, Paris 1987. Il Dialogo con Trifone si veda a cura di G. ARCHANBAULT (con trad. frane., coli. "Textes et documents pour l' étude historique du christianisme"), Paris 1909. Su San Giustino, oltre le opere d'insieme sugli apologisti del II secolo, cfr.: C. CLEMEN, Die religionphilosophische Bedeutung des stoischchristlichen Eudiimonismus in Justins Apologie, Leipzig 1890; E. DE FAYE, De l'influence du Timée de Platon sur la théologie de Justin martyr, Paris 1896; J. GEFFCKEN, Zwei griechische Apologeten, Leipzig-Berlin 1907; J. RIVIÈRE, St. Justin et !es Apologistes du II• siècle, Paris 1907; ].M. PFAETTISCH, Der Einfluss Platos auf die Theologie Just., Paderborn 1910; A. BÉRY, St. Justin, sa vie, sa doctrine, Paris 1911; A.W.F. BLUNT, The Apologies of Justin Martyr, Cambridge 1911; E.J. GooDSPEED, Index apologeticus sive e/avis fustini martyris operum aliorumque apologetarum pristinorum, Leipzig 1912; A. HARNACK, Judentum und ]udenchristentum im Justins Dialog mit Tryphon, Leipzig 1913; M.I. LAGRANGE, St. Justin, Paris 1914 3 ; G. BARDY, St. Justin et la philosophie stoi'cienne, "Recherches de sciences religieuses", 1923; E.R. GooDENOUGH, The Theology of Justin Martyr, Jena 1923; P. KESELING, Justins "Dialoggegen Trypho" (pp. 1-10) und Platons "Protagoras", "Rhein. Museum", 1926; B. SEEBERG, Die Geschichtstheologie Justins des Miirtyres, Stuttgart 1939; J. LECLERCQ, L'idée de la royauté du Christ dans l'oeu-
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vre de St. Justin, "L'année théologique", 1946; L. ALFONSI, Traces du jeune Aristate dans la "Cohortatio ad Genti/es" faussement attribuée à Justin, "Vigiliae Christianae", 1948; A. HAMMAN, La philosophie passe au Christ. L 'oeuvre de Justin: Apologie I" et II•, Dialogue avec Tryphon, Paris 1958; LI. RAMUREANU, La concezione dell'anima di S. Giustino, martire e filosofo [in rumeno], "Studii teologice", 1958; N. PYCHE, Connaissance rationelle et connaissance de grace chez St. ]ustin, "Ephem. theol. Lovan.", 1961; I. GIORDANI, Introduzione a S. Giustino, Le Apologie, Roma 1962; M.J. BucKLEY, St. Justin and the Ascent of the Mind to God, "Personalist", 1963; J.J. SIKORA, Philosophy and Christian Wisdom according to Saint Justin Martyr, "Franciscan Studien", 1963, pp. 244-256; J.H. WAsZINK, Bemerkungen zu ]ustins Lehre vom Logos Spermatikos, in Mullus, in onore di T. KLAUSER, Miinster 1964, pp. 380-390; E. BAERT, Le thème de la vision de Dieu chez S. ]ustin, Clément d'Alexandrie et S. Grégoire de Nysse, "Freiburger Zeitschrift fiir Philosophie und Theologie", 1965, pp. 439-497; L. W. BARNARD, Justin Martyr's Eschatology, "Vigiliae Christianae", 1965, pp. 86-98; P. KERESZTES, The Literary Genre of Justin's First Apology, "Vigiliae Christianae", 1965, pp. 99-100; P. KERESTZTES, The "so-called" Second Apology of Justin, "Latomus", 1965, pp. 858-869; W.A. SHOTWELL, The Biblica! Exegesis of Justin Martyr, London 1965; L. ANTIPAS, L 'idée de liberté chez St. Justin, "Cahiers de Philosophie et de Théologie", 1965-1966, pp. 25-32; N. HYDAHL, Philosophie und Christentum. Eine Interpretation der Einleitung zum Dialog Justins, K<,6henhavn 1966; L.W. BARNARD, Justin Martyr. His Life and Thought, New York-London 1967; R.A. NoRRIS, God and World in Early Christian Theology (A Study in Justin Martyr, Irenaeus, Tertullian and Origen), London 1967; L. HENAO ZAPATA, San fustino y las anteriores dialécticas plat6nicas, "Franciscanum", 1971, pp. 91-124; J.C.M. VAN WINDEN, An Early Christian Philosop~er. Justin Martyr's Dialogue with Trypho, Leiden 1971; J. CoMAN, Eléments d'anthropologie dans !es oeuvres de saint Justin, martyr et philosophe, "Contacts. Revue française de l'qrthodoxie", 1973, pp. 317-337; R. ]oLY, Christianisme et Philosophie. Etudes sur Justin et !es apologistes grecs du II• siècle, Bruxelles 1973; H.H. HoLFELDER, EùaéJ3eta Kai qnÀ.oaocpia. Literarische Einheit und politischer Kontest von Justins Apologie, I-II, "Zeitschrift fiir die Neutestamentlische Wissenschaft", 1977, pp. 48-66, 231-251; J.C.M. VAN WINDEN, Le portrait de la philosophie grecque dans Justin 'Dialogue' I 4-5, "Vigiliae Christianae", 1977, pp. 181-190; C .J. DE VoGEL, Problems concerning Justin Martyr. Did Justin find a certain Continuity between Greek Philosophy and Christian Faith?, "Mnemosyne", 1978, pp. 360-388; C. ANDRESEN, Justin und die Mittelehre des Platonismus (già in "Zeitschrift fiir die Neutestamentlische Wissenschaft und die Kunde der Alteren Kirche", 1952-1953), in Der Mittelplatonismus, ci t., 1981, pp. 319-368;
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D. BouRGEOIS, La sagesse des anciens dans le mystère du Verbe. Évangile et philosophie chez saint ]ustin, philosophe et martyr, prefaz. di L. BouYER, Paris 1981; N. HYLDAHL, ]ustin und die griechische Philosophie, in Der Mittelplatonismus, cit., 1981, pp. 369-396 (già in N.H., Philosophie und Christen~!lm, "Acta Theologica Danica", 1966, pp. 272-292); R.WEIJENBORG, Uberlieferungsgeschichtliche Bemerk.t:mgen zu der ]ustin dem Mà'rtyrer zugeschriebenen Apologia Secunda, in Uberlieferungsgeschichtliche Untersuchungen, Berlin 1981, pp. 593-603; ·C.H. CosGROVE, ]ustin Martyr and the Emerging Christian Canon. Observations on the Purpose an.d Destination of the Dialogue with Trypho, "Vigiliae Christianae", 1982, pp. 209-232; V. DEROCHE, La pensée de ]ustin. La philosophie, chemin vers le Christ, "Axes. Recherch$!s pour un Dialogue entre Christianisme et Religions" (Paris), 1982; E. DES PLACES, Platonisme moyen et apologétique chrétienne au II• siècle ap. ].-C. Numénius, Atticus, ]ustin, in Studia Patristica, XV, Atti del VII Congresso Internazionale sulla Patristica, Oxford 1975, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Berlin 1984, pp. 432-441; P. MoNTINI, Elementi di filosofia stoica in S. Giustino, "Aquinas", 1985, pp. 457-476; M.O. YouNG,]ustinMartyrandthe Death of Souls, in Studia Patristica, cit., XVI, 1985; P. KERESZTES, ]ustin, Roman Law and the Logos, "Latomus", 1986, pp. 339-346; A.J. DROGE, ]ustin Martyr and the Restoration of Philosophy, "Church History", 1987, pp. 303-319; C. MuNIER, La méthode apologétique de ]ustin le martyr, I-II, "Revue des Sciences Religieuses", 1988, pp. 90-100, 227-239; R.M. PRICE, "Hellenization" and Logos Doctrine in ]ustin Martyr, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 18-23; E. RoBILLARD, ]ustin. L'itinéraire philosophique, Montréal-Paris 1989; G. GIRGENTI, Giustino Martire, il primo platonico cristiano, "Rivista di filosofia neoscolastica", 1990, pp. 214-255. e. Taziano e Atenagora
Le opere di Taziano si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 6. Il Discorso ai Greci si veda a cura di E. ScHWARTZ, Leipzig 1888. Per il Diatessaron cfr.: TH. ZAHN, Tatian's Diatessaron, Erlangen 1881; P.A. CIASCA, Tatiani evangeliorum harmoniae arabice, Roma 1888; L. LELOIR, Le Diatessaron de Tatien et son commentaire par Ephrem, in La venue du Messie, Bruges-Paris 1962. Cfr. anche ediz. e trad. inglese, Oratio ad Graecos and Fragments, a cura di M. WHITTAKER, Oxford 1982. Su Taziano cfr.: A. PuECH, Recherches sur le Discours aux Grecs de Tatien suivies d'une traduction française du Discours avec notes, Paris 1903; M. ELZE, Tatian und seine Theologie, Gi:ittingen 1960; L. LEoNE, Due date della vita di Taziano, "Orientalia Christiana Periodica", 1961; F. BoLGIANI, Vittore di Capua e il Diatessaron, "Memorie dell' Accademia delle Scienze di Torino", 1962.
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Per le opere di Atenagora si veda Corpus Apologetarum Saeculi Secundi VII,Jenae 1858 (Atenagora, pp. 2-185). Oltre che in MIGNE, Patr. Graeca (vol. VI), si cfr. l'edizione a cura di P. UBALDI e M. PELLEGRINO, testo e trad. it., "Corona Patrum Salesiana", Torino 1947 (anche J. GEFFCKEN, Zwei griechische Apologeten, Leipzig 1907, 19702 , con un ottimo commento) e W.R. ScHOEDEL, Athenagoras. Legatio and De resurrectione, ed. critica con trad. ingl., Oxford 1972. Oltre gli studi d'insieme sugli Apologisti greci, si veda su Atenagora: L. ARNOULD, De Apologia Athenagorae, Paris 1898; L. CHAUDOUARD, Étude sur le TIEpì àvaatciaEroç d'Athénagore, Lyon 1905; S. PAPPALARDO, Il monoteismo e la dottrina del Logos in Atenagora, "Didaskaleon", 1924; K. PREYSING, Ehezweck und zweite Ehe bei Athenagoras, "Theologische Quartalschrift", 1929 (interessante per i rapporti tra lo stoicismo e il pensiero di Atenagora); H.A. LucKs, The Philosophy of Athenagoras: Its Sources and Value, Washington 1936; L. ALFONSI, Motivi tradizionali del giovane Aristotele in Clemente Alessandrino e in Atenagora, "Vigiliae Christianae", 1953; R.M. GRANT, The Chronology of the Greek Apologists, "Vigiliae Christianae", 1955; M. T. ANTONELU, Il "Nomen Christianorum" in Atenagora, "Giornale di Metafisica", 1960; D. PowELL, Athenagoras and the Philosophers, "The Church Quarterly Review", 196 7, pp. 282-289; A.J. MALHERBE, Tbe Structure of Athenagoras' "Supplicatio pro Christianis", "Vigiliae Christianae", 1969, pp. 1-20; A.J. MALHERBE, Athenagoras on the Poets and Philosophers, in Kyriakon, in onore di J. QuASTEN, Miinster 1970, I, pp. 214-225; L. W. BARNARD, Athenagoras. A Study in Second Century Christian Apologetic, Paris 1972 (vedi anche di L.W.B. in: "Classica! Quarterly Review", 1967, pp. 168-181; "Latomus", 1972, pp. 413-432; Studia Patristica, XV, Berlin 1984, pp. 39-49); L.W. BARNARD, The Philosophicat and Biblica! Background of Athenagoras, in Epektasis, Mélanges in onore di J. DANIÉLOU, Paris 1972, pp. 3-16; E. GALLICET, Atenagora o pseudo-Atenagora?, "Rivista di Filologia e di Istruzione classica", 1976, pp. 430-435; J.C.M. VAN WINDEN, The Origin of False-
hood. Some Comments on the Introductory Passage of the Treatise 'On the Resurrection of the Dead' attributed to Athenagoras, "Vigiliae Christianae", 1976, pp. 303-306; E. GALLICET, Ancora sullo Pseudo-Atenagora, "Rivista di Filologia e di Istruzione classica", 1977, pp. 21-42. Vedi anche: E. ScHWARTZ, Athenagorae Libellus pro Christianis, Leipzig 1981; B. PounERON, L'authenticité du "Traité sur la Résurrection" attribué à l'apologiste Athénagore, "Vigiliae Christianae", 1986, pp. 226-244; H.E. LaNA, Bemerkungen zu Athenagoras und pseudo-Athenagoras, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 352-363; B. PounERON, Athénagore d'Athènes. Philosophe chrétien, Paris 1989 e B.P. 'La chair et le
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sang'. Encore sur l'authenticité du traité d'Athénagore, "Vigiliae Christianae", 1990, pp. 1-5.
f. Teofilo di Antiochia, Melitone di Sardi I tre libri dell'Ad Autolico di Teofilo di Antiochia, oltre che in MrGNE, Patr. Graeca, vol. 6 e in DE OTTo, Corpus apologetarum, Jena 1861, si vedano nelle edizioni a cura di: E. RAPISARDA (con trad. it.), Torino 1937; S. FRASCA (con trad. it.), coli. "Corona Patrum Salesiana", Torino 1937; G. BARDY e J. SENDER (con trad. francese), coli. "Sources Chrétiennes", Paris 1948; R.M. GRANT (con trad. inglese), Oxford 1970. Su Teofilo, oltre gli studi d'insieme sull'apologetica, indichiamo: O. GRoss, Die Weltentstehungslehre des Theophilus, Jena 1895; A. PoMMRICH, Die Gottes- und Logoslehre des Theophilus, Leipzig 1904; F. LooFs, Theophilus von Antiochien und die anderen theologischen Quellen bei Irenaeus, Leipzig 1930; E. RAPISARDA, Teofilo di Antiochia, Torino 1937; F. 0GARA, Aristidis et epist. ad Diognetum cum Th. Antiocheno cognatio, "Gregorianum", 1944; G. BARDY, Introduction all'edizione dell'Ad Autolico di Taziano nella coli. "Sources Chrétiennes", Paris 1948; A. W. ZIEGLER, Die Erkliirung des Gottesnames bei Theophilus von Ant., in Einsicht und Glaube. Festschrift fur Gottlieb Sohngen, Freiburg 1962; C. CuRRY, The Theogony of Theophilus, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 318-326. I frammenti delle opere di Melitone di Sardi si vedano in: DE OTTo, Corpus apologetarum, IX, Jena 1872 (i frammenti siriaci si vedano editi a cura diJ. RucHER, in Florilegium anonymum, Miinchen 1933); O. PERLER, Méliton de Sardes. Sur la Paque et Fragments, Paris 1966. Su Melitone cfr.: C. BaNNER, Meliton of Sardes, London 1940; P. NAUTIN, Ledossierd'HippolyteetdeMéliton, Paris 1953;}. DANIÉLOU, Figure et événement chez Méliton de Sardes, in Neotestamentica et Patristica, in onore di O. CuLLMAN, suppl. a "Nov. Test.", vol. 6, Leiden 1962; G. RACHE, À propos du Christ-Père dans l'Homélie pasca/e de Méliton de Sardes, "Recherches de Sciences religieuses", 1962; R. WEIJENBOORG, Méliton de Sardes lecteur de la "Première Apologie" et du "Dialogue" de Saint Justin, "Antoninianum", 1974, pp. 362-366; S.G. HALL, Melito of Sardis. On Pascha and Fragments, Oxford 1979. g. Ermia, Egesippo, Ireneo L' Irrisio gentilium philosophorum di Ermia si veda in MrGNE, Patr. Graeca, vol. 6, e in DrELS, Doxographi Graeci, Berlin-Leipzig 19292 , p.
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651 (tradotta in it. si veda a cura di E. BuoNAIUTI, "Ricerche religiose", 1929, e di G .A. RIZZO, Siena 1929). Su Ermia cfr.: A.
DI
PAULI, Die Irrisio des Hermias, Paderborn
1907; G. BAREILLE, articolo in Dictionnaire de Théologie: l'Église chrétienne aux deux premiers siècles, Nancy 1878; J.F. KINDSTRAND, The date and Character of Hermias' Irrisio, "Vigiliae Christianae", 1980, pp. 341-357. , Su Egesippo cfr. H. DANNREUTHER, Du témoignage d'Hégésippe sur l'Eglise chrétienne aux deux premiers siècles, Nancy 1878. Le opere di Ireneo si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 7. Dell'Adversus haerese buona è l'ed. di W.W. HARVEY, Sancti Irenei episcopi lugdunensis libros quinque adversus haereses, Cambridge 1857 (anast., 1947). Si veda anche l'ed., con note, a cura di A. STIEREN, Leipzig 1848-1853, e l'ed. del III libro a cura di F.M. SAGNARD (con trad. francese), coli. "Sources Chrétiennes", Paris 1952. Fondamentale è il Lexique comparé du text grec et des versions latine, arménienne, syriaque de l'Adv. haereses, a cura di B. REYNDERS, Leuven 1954. Il testo armeno della Demonstratio (con trad. ted.) si veda edito a cura di K. TER-MEKERT-TscHAN e E. TER-MINASSIANTZ, Leipzig 1907 ("Texte und Untersuchungen", 3 F, l); si veda anche in Patrologia Orient., XII, 1917. In trad. it. dall'armeno la Demonstratio si veda a cura di U. FALDATI (coli. "Scrittori antichi cristiani"), Roma 1923. Cfr. inoltre: Irénée de Lyon, Contre !es hérésies, ed. critica dalla versione armena e latina, a cura di A. RoussEAU-1. DouTRELEAU-CH. MERCIER (coli. "Sources Chrétiennes"), Paris 1969; Irenaeus (Saint), Irenaeus of Lyons versus contemporary Gnosticism. A Selection from Books 1 and 2 of Adversus Haereses, a cura di T. NIELSEN, Leiden 1977; Irénée de Lyon, Contre !es hérésies, ed. critica a cura di A. RousSEAU e L. DouTRELEAU, Paris 1979-1984; Ireneo di Lione, Contro le eresie e altri scritti, intr., trad., note e indici a cura di E. BELLINI, Milano 1981. Su Ireneo, oltre gli articoli di TH. ZAHN, in R.E. PAULY-WissowA, IX, e di F. VERNET, in Dictionnaire de Théologie catholique, VII, cfr.: A. DuFOURCQ, St. Irénée, Paris 1904; F.R.M. HITCHCOK, Irenaeus of Lugdunum. A study of his Teaching, Cambridge 1914; G.N. BoNWETSCH, Die Theologie des Irenaeus, Giitersloh 1925; J. LEBRETON, La connaissance de Dieu chez S. Irénée, "Recherches de sciences religieuses", 1926; L. CRISTIANI, St. Irénée, Paris 1927; W. SPIKOWSKI, Natio Dei a S. Irenaeo contra gnosticos explicita, "Collectanea theol.", 1933; B. REYDNERS, La polémique de St. Irénée, "Revue de théologie ancienne et médiévale", 1935-1936; E. ScHARL, Recapitulatio mundi, Der Rekapitulationsbegriff des hl. Irenaeus, Freiburg i.Br. 1941; O. CuLLMANN, Le Christ et le temps, Paris 1946; A. HoussiAU, La christologie de St. Iré-
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née, Louvain 1955; G. WINGREN, Man and the Incarnation. A Study in the Biblica! Theolo~ of Irenaeus, trad. ingl., London 1959; A. BENOIT, St. Irénée. Introduction à l'étude de sa théologie, Paris 1960; A. BENOIT, Écriture et tradition chez St. Irénée, "Rev. hist. philos. relig.", 1960; D.E. LANNE, La vision de Dieu dans l'a:uvre de St. Irénée, "Irénikon", 1960; A. AMORE, La personalità dello scrittore Ippolito, "Antonianum", 1961; M. RICHARD, Trois nouveaux fragments grecs de l'Adversus Haereses de St. Irénée, "Zeitschrift fiir die Neutestament. Wissenschaft u. die Kunde der alteren Kirche", 1962; N. BROX, Offenbarung. Gnosis und gnosticher Mythos bei Irentius von Lyon. Zur Charakteristik der Systeme, Salzburg-Miinchen 1966, 1969; A. 0RBE, San Ireneo y el conocimiento natura! de Dios, "Gregorianum", 1966, pp. 441-471, 710-747; R. W AGNER, Die Gnosis von Alexandria. Eine Frage d. friihen Christentums an d. Gegenwart, Stuttgart 1968; A. 0RBE, Antropologia de San Ireneo, Madrid 1969; D. CoMPOSTA, Il diritto naturale di S. Ireneo, "Apollinaris", 1972, pp. 599-612; L. GALLINARI, Filosofia e pedagogia in Ireneo di Lione, Roma 1973; E.P. MEIJERING, Irenaeus' Relation to Philosophy in the Light of bis Concept of Free Will, in Romanitas et christianitas, Studi in onore di I.H. WASZINK, a cura di W. DEN BoER-P.G. VAN DER NAT-M.C. ScKING-}.C.M. VAN WINDEN, Amsterdam-London 1973, pp. 221-231; G. FERRARESE, L"'Adversus haereses" delle "Sources chrétiennes", note ed osservazioni [Ireneo], "Sapienza", 1976, pp. 289-298; A.L. TowNSLEY, St. Irenaeus' Knowledge of Presocratic Philosophy, "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 1976, pp. 374-379.; W.C. VAN UNNIK, Two Notes on Irenaeus, "Vigiliae Christianae", 1976, pp. 201-213; M.A. DoNOVAN, Irenaeus in Recent ~cholarship, "The Second Century", 1984, pp. 219-241; A. PouRKIER, Epiphane témoin du texte d'Irénée. Note critique sur Irénée, 'Adv. Haer. ', I. 24, 6, "Vigiliae Christianae", 1984, pp. 281-284; M. SIMONETTI, Testi gnostici cristiani, Bari 1970; R.M. GRANT, La gnose et les origines chrétiennes, trad. a cura di}.H. MARROU, pref. di H. MARROU, Paris 1964.
h. Ippolito Oltre che in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 10 e 16, le Opere di Ippolito si vedano nell'ed. critica di P. WENDLAND, Hippolytus Werke (coli. "Griechische-christliche Schriftsteller", 3), Leipzig 1916. I Philosophoumena o Refutatio omnium haeresum si vedano anche, con trad. francese, a cura di R. NAUTIN, Paris 1949; i frammenti del Contro i Greci e Platone, o Dell'universo, si vedano editi da K. HoLE, Fragmente vorniciinischen Kirchenvtiter aus den "Sacra Parallela", Leipzig 1899. Cfr. inoltre: Hippolytus, Refutatio omnium haeresum, a cura di M. MARCOVICH, Berlin-New York 1986; Ippolito, L'Anticristo, a cura di E. NoRELLI, Firenze 1987.
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Su lppolito si veda: A. n' ALÈs, La théologie de St. Hippolyte, Paris 1906; E. AMANN, in Dictionnaire de théologie catholique, VII; Q. CATAUDELLA, in Enciclopedia Cattolica, VII (larga bibliografia); G. BovrNI, Sant'Ireneo, Roma 1943; R. NAUTIN, Hippolyte, Paris 1947; B. BoTTE, Note sur l'auteur du "De Universo", "Recherches de théol. ancienne et médiév. ", 1951 (in polemica con il NAUTIN, si cfr. inoltre M. RrcHARD, in "Mélanges se. relig.", 1953; R. NAUTIN, in "Mélanges se. relig.", 1954; M. RrcHARD, in "Recherches se. relig.", 1954); B. CAPELLE, Hippolyte, "Rech. de théol. anc. et méd.", 1950; G. 0GG, Hippolytus and the Introduction of the Christian Era, "Vigiliae Christianae", 1962; N. BRox, Kelsos und Hippolytos. Zur friihchristlichen Geschichtspolemik, "Vigiliae Christianae", 1966, pp. 150-158.
7. Epicurei, Cinici, Sofisti nel II secolo. !erode stoico a. Epicurei, Cinici, Sofisti nel II secolo. Diogene di Enoanda e l'Epicurei-
smo. Enomao di Gadara, Demonatte, Pellegrino e Luciano di Samosata I frammenti della lunga iscrizione di Diogene di Enoanda si vedano raccolti da: H. UsENER, Epicurea, Leipzig 1887; G. CousiN, Inscription de Enoanda, "Bulletin de corr. hellénique", 1892; R. HEBERDEY e E. KAUNKA, Die philos. Inschrift Diog. En., "Bull. de corr. hellénique", 1897. Particolare attenzione merita l'edizione a cura di J. WrLLIAM, Leipzig 1907. Si veda inoltre: A. GRILLI, I frammenti dell'Epicureo Diogene di Enoanda, in Studi di filosofia greca, in onore di R. MoNDOLFO, Bari 1950 (ora Diogenis Oenoandis Fragmenta recensuit A. GRILLI, Milano-Varese 1960; W. CHILTON, Diog. Oen. Fragm., a cura di W. CHILTON, Leipzig 1967; Diogenes of Oenoanda. The Fragment, trad. e comm. di C.W. CHILTON, London-New York-Toronto 1971; Diogene d'Enoanda. I frammenti di Diogene d'Enoanda, intr., ed. critica, trad. di A. CASANOVA, Firenze 1984. Nuovi frammenti di Diogene di Enoanda sono stati presentati da: M.F. SMITH, Two New Fragments of Diogenes of Oenoanda, "The Journal of Hellenic Studies", 1972, pp. 147-155 (cfr. anche: M.F. SMITH, Observations an the Text of Diogenes of Oenoanda, "Hermathena", 1970, pp. 52-78; M.F. SMITH, New Readings in the Text of Diogenes of Oenoanda, "Classica! Quarterly", 1972, pp. 159-162); M.F. SMITH, Thirteen New Fragments of Diogenes of Oenoanda, Wien 1974. Sui nuovi frammenti cfr.: A. BARIGAZZI, Sui nuovi frammenti di Diogene di Enoanda, "Prometheus", 1970, pp. 1-20, e 1977, pp. 97-111; G. ARRIGHETTI, Il nuovo Diogene di Enoanda, "Atene eRoma", 1978, pp. 161-172; A. CASANOVA, Diogene di Enoanda oggi, "Prometheus", 1983, pp. 111-138 (vedi sopra D. d'E. I framm., a cura di
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A.C., intr., trad., ed. crit., Firenze 1984); D. CLAY, The Philosophical Inscription of Diogenes of Oenoanda: New Discoveries, 1969-1983, in ANRW, II, 36.4, 1990, pp. 2446-2559. Su Diogene di Enoanda, oltre le introduzioni alle edizioni sopra citate, si veda lo studio di E. BIGNONE in "Atene e Roma", 1938 (Aristotele e Diogene di Enoanda: ora in Studi su Epicuro, Milano 1951). Si cfr. anche: E. PisANO, Colate, Epicuro e Diogene di Enoanda, "Atene eRoma", 1942; N. CASINI, Diogene di Enoanda e Lucrezio, "Riv. Stor. filos.", 1949; A. BARIGAZZI, Su Diogene di Enoanda, "La Parola del Passato", 1961; D. CLAY, Sailing to Lampsacus: Diogenes of Oenoanda, "Greek, Roman, and Byzantine Studies", 1973, pp. 49-59; A. LAKS, Une maxime,météorologique épicurienne: Diogène d'Oenoanda, NF 82, "Revue des Etudes Grecques", 1980, pp. 194-199. I frammenti dell'epicureo Diogeniano, conservati in Eusebio (Praep. Evang., 6-7, 44 sgg.), si vedano raccolti da A. GERKE, Crysippea, "J ahrb. Klass. Philol.", 1885. Su Diogeniano cfr. M. IsNARDI PARENTE, Diogeniano, gli Epicurei e la 'tDXT), in ANRW, II, 36.4, 1990, pp. 2424-2445. Sull'Epicureismo e i suoi rapporti con il Cristianesimo, lo Scetticismo e l'Impero cfr.: M. GIGANTE, Scetticismo ed Epicureismo, Napoli 1981; W. ScHMITT, Epicuro e l'epicureismo cristiano, trad. it., Brescia 1984 (orig. 1961); A.D. CLAY, A Lost Epicurean Community, "Greek, Roman, and Byzantine Studies", 1989, pp. 313-335; J. FERGUSON, Epicureanism under the Roman Empire (riveduto e aggiornato da J.P. HERSHBELL), in ANRW, II, 36.4, 1990, pp. 2257-2327; A. STUCKELBERGER, Die Atomistik in romischer Zeit: Rezeption und Verdrà"ngung, in ANR W, II, 36.4, 1990, pp. 2561-2580. Sul "cinismo" nel I-III sec. d.C. cfr. D.R. DunLEY, A History of Cynism, London 1937, rist. Hildesheim 1967. Si veda anche: J. BERNAYS, Lukianos und die Kiniker, Leipzig 1879; P. PAQUET, Les Cyniques grecs, Ottawa 1975 (testi e trad. frane. da Antistene a Giuliano); M.O. GAULET-CAZÉ, Le cynisme à l'époque impériale, in ANR W, II, 36.4, 1990, pp. 2720-2833. Enomao di Gadara, i frammenti dello Smascheramento dei ciarlatani (roft'trov
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Le sentenze e gli apoftegmi di Demonatte, noto per la Vita che ne scrisse Luciano, si vedano in MULLACH, Phil. fragm., II, 351 sgg. Su di lui cfr. A. ELTER, ruroJ.ltKà ÒIJ.OtCÙJ.la'ta des Sokrates Dem., Bonn 1900, e K. FuNcK, Untersuch. iiber d. Lukian. Vita Demonactis, "Philologus", suppl. X, 1907. Su Peregrino cfr. La morte di Peregrino di Luciano (in Luciano, ed. }ACOBITZ, vol. III, pp. 271 sgg.). In particolare si veda: E. ZELLER, Vortriige und Abhandlungen, II, Leipzig 1877, e J. VAHLEN, Luciani de Peregrini morte, in Opuscula Academica, l, Leipzig 1907; H.M. HoRNSBY, The Cynism of Peregrinus Proteus, "Hermathena", 1933. Per Luciano di Samosata si veda Luciani Samosatensis Opera, I-IV (il IV vol. con Index verborum ac phrasium del REITZ), a cura di HEM-
STERHUYS-GESNER-REITZ, Amsterdam-Utrecht 1743-1746. Cfr. inoltre l'ed. a cura di C. }ACOBITZ, Leipzig 1871-1874 (anche l'ed. a cura di M. MRAS, Die Hauptwerke, Mi.inchen 1954). Di valore gli Scolii alle opere di Luciano di Samosata a cura di H. RABE, Leipzig 1906, 1971 2 • Cfr., in corso, l'edizione critica per la "Bibl. Oxoniensis", a cura di M.D. McLEon, I, 1972, III, 1980. In trad. italiana si veda: L. SETTEMBRINI, più volte ristampata (trad. inglese, London 1913-1961); Dialoghi, trad. it., intr., bibl., a cura di V. LONGO, Torino 1986, 1991 2 . Su Luciano: J. BERNAYS, Lukianos und die Kyniker, Berlin 1879; I. LEDERBERGER, Lukian und die altattische Komodie, Einsiedeln 1905; R. HELM, Lukian und Menipp, Leipzig-Berlin 1906; M. CASTER, Lucien et la pensée religieuse de son temps, Paris 1937; A. PERETTI, Luciano, Un intellettuale greco contro Roma, Firenze 1946; G. AVERNARIUS, Lukian Schrift zur Geschichtsschreibung, Meisenheim a.Gl. 1956; W. NESTLE, Griech. Geistesgeschichte. Von Homer bis Lukianos, Stuttgart 1956; H.G. PFLAUM, Lucien de Samosate, archistfltor praefecti Aegypti, "Mélanges d'Archeologie et d'Histoire de l'Ecole française de Rome", LXXI, 1959; H.D. BETZ, Lukian von Samosata und das Neue Testament, Berlin 1961; M. KoKOLAKIS, Lucian and the Tragic Performances in bis Time, Athinai 1961; H. HoMEYER, Lukian, Wie man Geschichte schreiben sol!, Mi.inchen 1965; J. ScHWARTZ, Biographie de Lucien de Samosate, Bruxelles-Berchem 1965; L. CANFORA, Teorie e tecnica della storiografia classica, Bari-Roma 1974; C. RoBINSON, Lucian and bis Influence in Europe, Chapel Hill (N.C.) 1979; J. ScHWARTZ, Onomastique des philosophes chez Lucien de Samosate, "L' Antiquité Classique", 1982, pp. 259-264; P.M. GASPAROTTO, El 'Toxaris' y la reflexi6n sobre la amistad de Luciano de Samosata, "Efeméride Mexicana", 1988, pp. 259-282; M. BILLERBECK, Der Kyniker Demetrius. Ein Beitrag zur Geschichte der friihkaiserzeitlichen Popularphilosophie, Leiden 1979.
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b. !eracle stoico Nettamente distinto Ierocle stoico (del tempo di Marco Aurelio) da Ierocle di Alessandria da K. PRACHTER, Hierokles der Stoiker, Leipzig 1901, la prima edizione del papiro (un ampio testo di etica) fu dovuta ad H. VON ARNIM: Hierokles Ethische Elementarlehre, ediz. del papiro P. Berol. 9780, a cura di H. VON ARNIM, in Berliner Klassikertexte, Berlin 1906. Una nuova edizione critica, con commento, bibliografia, traduzione, è uscita a Firenze nel1992, a cura di G. BASTIANINI e A.A. LoNG, nel II volume della prima parte del Corpus dei Filosofi greci e latini dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere 'La Colombaria'. Oltre le opere generali sullo Stoicismo, cfr.: N. FESTA, Un filosofo redivivo, "Atene e Roma", 1906, pp. 354-367; M. PoHLENZ, Hierokles' Ethische Elementarlehre, "Gottingiesche gelehrte Anzeigen", 1906, pp. 914-920; W. ScHUBART, Das Buch bei den Griechen und Romern, Berlin 1907, pp. 85 sgg.; H. VON ARNIM, Hierokles, in R.E. PAULYWissowA, 1913; K. PRAcHTER, Zum Platoniker Gaios, "Hermes", 1916, pp. 510-529; F.W. HALL, The Later Stoicism: Hierocles, in New Chapters in the History of Greek Literature, a cura di J.U. PowELL e E.A. BARBER, Oxford 1921-1933, pp. 36-40; R. PHILIPPSON, Hierokles der Stoiker, "Rheinisches Museum fi.ir Philologie", 1933, pp. 97-114; M. GIGANTE, Filodemo e !eracle, "La Parola del Passato", 1967, pp. 461-462; E.G. ScHMIDT, Hierokles, in Kleine Pauly II, 1967; P.W. VAN DER HoRsT, Hierocles the Stoic and the New Testament. A Contribution to the Corpus Hellenisticum, "Novum Testamentum", 1975, pp. 156-160; H. DoRRIE, Hierokles der Stoiker (1901), in Kleine Schriften, Hildesheim 1978; B. lNwoon, Hierocles: Theory and Argument in the Second Century A.D., "Oxford Studies in Ancient Philosophy", 1984, pp. 151-183; G. BADALAMENTI, !eracle stoico e il concetto di :Euvaia9Tt
Delle molte edizioni del Tà eìç ÉaU'tOV ("a se stesso", Ad se ipsum, tradotto con Ricordi, Pensieri, Colloqui con se stesso) indichiamo
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quelle di: J.H. LEOPOLD, Oxford 1908; H. ScHENKL (Teubner), Leipzig 1913; C.R. HAINES (con trad. inglese, testo) (Loeb), London-Cambridge 1916, più riedizioni; A.J. TRANNOY (Belles Lettres), Paris 1925, testo, trad. fr., prefaz. di A. PuEcH; A.S.L. FARQUHARSON, con trad. e comm., 2 voli., Oxford 1945, 19682 ; W. THEILER, Kaiser Mare Aurei. Wege zu sich selbst, Ziirich-Stuttgart 1951, nuova ed. con testo e trad. ted., Miinchen 1984; Pensées pour moi-méme, suivies du Manuel d'Épictète, trad., prefaz. e note, a cura di M. MEUNIER, Paris 1964; A. WITTOCK, testo e commentari, Stuttgart 1974; Marcus Aurelius Antoninus, Marci Aurelii Antonini ad se ipsum libri XII, a cura diJ. DALFEN, Leipzig 1979; a cura di A.S.L. FARQUHARSON, con selezione di lettere a cura di R.B. RuTHERFORD, Oxford 1989. Le Epistole, scoperte da A. MAI e da lui pubblicate a Torino nel 1815, si vedano edite nella Teubner, M. Cornelii Frontonis et M. Aureiii Imperatoris Epistulae, Leipzig 186 7. L' Index si veda nell'edizione ScHENKL, pp. 192-267 (Indexverborum, Leipzig 1913). Per i Ricordi tradotti in italiano si vedano le versioni di: L. ORNATO, a cura di G. PICCHIONI, Milano 1867 (rist. Barbera, Firenze 1924); U. MoRICCA, Torino 1924; C. MAZZANTINI, testo e trad. italiana, Torino 1948; F. LuLLI, Milano 1953; F. CAZZAMINI-Mussi, intr. e note di C. CARENA, (Einaudi), Torino 1968; E. PINTO, intr., note e trad., Napoli 1968; E. TuROLLA, introd. di M. PoHLENZ (Bur), Milano 1975; G. CoRTASSA, Scritti di Marco Aurelio, testo, trad. (Utet), Torino 1984; I ricordi, trad. di F. CAZZAMINI-Mussi, a cura di C. CARENA, Torino
1986. Si veda inoltre: The Meditations, trad. e intr. di G.M.A. GRUBE, Indianapolis (lnd.) 1983; Mare Aure!. Selbstbetrachtungen, a cura di W. voN CAPELLE, Stuttgart 1983; Mark Aurei. Leben nach rechten Mass. Selbstbetrachtungen d. Zeisen auf d. rom. Kaiserthron, Bern-MiinchenWien 1988. Su Marco Aurelio, oltre alle opere d'insieme sullo stoicismo romano sopra citate (cfr. Bibliografia, voli. II e III) e alle introduzioni e commenti che si trovano nelle edizioni suindicate (TRANNOY, FARQUHARSON, THEILER, MAZZANTINI, CARENA), si veda: E. RENAN, MarcAurèle et la fin du monde antique, Paris 1882 (trad. it., Roma 1946); P.B. WATSON, Marcus-Aurelius Antoninus, London 1884; G.G. Fusc1,
La filosofia di Antonino in rapporto con la filosofia di Seneca, Musonio ed Epitteto, Modica 1904; F.W. BusSEL, Marcus Aurelius and the later Stoics, Edinburgh 1910; H.D. SIDGWICK, M. Aurelius. A Biography, Oxford 1921; U. WILAMOWITZ-MOLLENDORF, Kaiser Marcus, Berlin
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1931; E. ]ARRA, Marco Aurelio filosofo del diritto, "Riv. int. di filosofia del diritto", 1932; W. GoERLITZ, Mare Aure!., Kaiser und Philosoph, Leipzig 1936, Stuttgart 1954 (trad. francese, a cura di L. PrAu, Paris 1962); A. CRESSON, Marc-Aurèle, Paris 1939, 1962 4 ; E. BrGNONE, Seneca, Marco Aurelio e il Protrettico di Aristotele, "Annali Scuola Normale di Pisa", 1940; G. SoLERI, Marco Aurelio, Brescia 1947; A.S.L. FARQUHARSON, Marcus Aurelius. His Life and his World, London 1951 (a cura di D.A. REES, Westport 1975); F. MARTINAZZOLI, La "successio" di M. Aurelio. Struttura e spirito del I libro dei "Pensieri", Bari 1951; H.R. NEUENSCHWANDER, Mare Aurels Beziehungen zu Seneca und Poseidonios, Bern-Stuttgart 1951; L. ALFONSI, Contributo allo studio delle fonti del pensiero di Marco Aurelio, "Aevum", 1954, pp. 101-117; P. NoYEN, Marcus Aurelius, the Greatest Practician of Stoicism, "L'antiquité classique", 1955; C. PARAIN, Marc-Aurèle, Paris 1957, 19692 ; D. PEsCE, Epicuro e Marco Aurelio. Due studi sulla saggezza antica, Firenze 1959; M. PEUCEscu, L'homme et la philosophie de Marc-Aurèle, "Atti del XII Congr. in t. di Filosofia", vol. XI, Firenze, 1960; A. BrRLEY, Marcus Aurelius, London 1966; A. BonsoN, La morale sociale des derniers Stoiciens, cit., e Mare Aurèle, Paris 1967; J. DALFEN, Foringeschichtliche Untersuchungen zu den Selbstbetrachtungen Mare Aurels, Bonn 1967; CL ScHREMPF, Weisheit und Weltherrschaft. Kaiser Mare Aurei in seinen Bekenntnissen, Miinchen 1968; G.FERRARA, Marco Aurelio, in I Protagonisti della Storia universale, III, Milano 1969; G.R. STANTON, Marcus Aurelius, Emperor and Philosopher, "Historia", 1969, pp. 570-587; B. HENDRICKX, L 'idée de la société dans les 'Pensées' de MarcAurèle, "Revue de l'Enseignement Philosophique", 1970, pp. 5-11; J.H. OuvER, Marcus Aurelius. Aspects of Civic and Cultura! Policy in the East, "Hesperias", suppl. XIII, 1970; J.-M. ANDR,É, Le "De otio" de Fronton et les loisirs de Marc-Aurèle, "Revue des Etudes latines", 1971, pp. 228-261; M. J6zEFowrcz, Les idées politiques dans la morale stoicienne de Marc-Aurèle, "Eos", 1971, pp. 241-254; P. HADOT, La
physique camme exercice spirituel ou pessimisme et optimisme chez MarcAurèle, "Revue de Théologie et de Philosophie", 1972, pp. 225-239; Mare Aure!, Des Kaisers Marcus Aurelius Antoninus Selbstbetrachtungen ('Commentari'), a cura di A. WrTTSOCK, Stuttgart 1974; P. A. BRUNT, Marcus Aurelius in his "Meditations", "TheJournal of Roman Studies", 1974, pp. 1-20; B. HENRIKX, Once again: Marcus Aurelius, Emperor and Philosopher, "Historia", 1974, pp. 254-256 (contro STANTON); J. MoREAU, L'empereur Marc-Aurèle et san journal intime, "Teoresi", 1977, pp. 3-19; G. CoRTASSA, Marco Aurelio e il destino dell'anima, "Rivista di Filosofia classica", 1979, pp. 420-438; P. HADOT, Les "Pensées" de Marc-Aurèle, "Bulletin de l'Association Guillaume Budé", 1981, pp. 183-191; S. MAMMANA, Etica e politica nei pensieri di Marco Aurelio, Palermo 1981; M. DRAGONE-MONACHOU, God, the World and Man as a
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Social Being in Marcus Aurelius' stoicism, "Diotima", 1984, pp. 86-96; P. HADOT, Marc-Aurèle était-il opiomane?, in Mémorial A.]. Festugière, a cura di E. LuccHESI e H.D. SAFFREY, Genève 1984, pp. 33-50; B. MAIER, Philosophie und romisches Kaisertum. Studien zu ihren wechselseitigen Beziehungen in d. Zeit von Caesar bis Mare Aure!, tesi di laurea, Wien 1985; C. PARAIN, Marco Aurelio, trad. di C. SERENI, Roma 1986; A.R. BrRLEY, Marcus Aurelius. A Biography, London 1987; E. V. MALTESE, Diane di Siracusa in Marco Aurelio, "Philologue", 1987, pp. 86-94; J. DALFEN, Mare Aure!: Sozialphilosophie und Sozialpolitik, in Antike Rechts- u. Sozialphilosophie, a cura di O. GrGON e M. FrsCHER, Bern-Paris 1988, pp. 129-137; E. AsMrs, The Stoicism of Marcus Aurelius, in ANR W, II, 36.3, 1989, pp. 2228-2252; G. CoRTASSA, Il filosofo, i libri, la memoria. Poeti e filosofi nei 'Pensieri' di Marco Aurelio, Torino 1989; R.B. RuTHEFORD, The Meditations of Marcus Aurelius. A Study, Oxford 1989; H. GoRGEMANNS, Der Bekehrungs brief Mare Aurels, "Rheinisches Museum", 1991, pp. 96-109.
9. Storiografia, metodo, scienze nel 11-111 secolo. Aulo Gellio. Ateneo. Aezio. Diogene Laerzio. Sesto Empirico. Tolomeo. Galeno a. "Generalia"
Per la storia della storiografia tra il I secolo a.C. e il III d.C., oltre
all'Introduzione di H. DrELS ai Doxographi graeci, trad. it. a cura di L. ToRRACA, Padova 1961 (anche E. MAASS, De biographis graecis quaest. selectae, "Philol. Unters." Berlin, 1880, e F. LEo, Die griechisch-romische Biographie nach ihrer literarische Form, Leipzig 1901), utile è lo studio d'insieme di M. DAL PRA, La storiografia filosofica antica, Milano 1950. Si veda inoltre: A. DIHLE, Studien zur griechischen Biographie, Gottingen 1956; A. MoMIGLIANO, Lo sviluppo della biografia greca, trad. it. di P. DoNINI, Torino 1974. Su Diogene Laerzio - maggior fonte insieme a Sesto Empirico -, per una ricostruzione del pensiero antico, si veda Diogene Laerzio storico del pensiero antico, a cura di AA.VV., "Elenchos" (Napoli), VII, 1986.
b. Aula Cellio. Ateneo. Aezio Le Notti Attiche di Aulo Gellio si vedano nell'ed. di M. HERTZ, Leipzig 1883-1885, e di C. Hosrus, Leipzig 1903, 1937 2 sgg. In trad. francese, con testo, a cura di F. MrGNON, Paris 1934-1936, e di R. MA-
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RACHE, Paris 1967. In trad. inglese, con testo, a cura di J.C. RoLFE, London 1922-1928, 19702 , e di P.K. MARSHALL, Oxford 1968. Per una bibliografia su Aulo Gellio: F. HACHE e F. LAMMERT, Literatur zu Aulus Gellius, "Jahresbericht fiir die Fortschritte der Altertumswissenschaft", 1931, pp. 15-21, 59-60; R. MARACHE, Fronton et A. Gellius (1938-1964), "Lustrum", 1965, pp. 213-245. Su Aulo Gellio cfr.: L. DE W AULE, Aulus Gellius quatenus philosophiae studuerit, Toulouse 1891; C. Hosrus, Gellius, in R.E. PAULYWrssowA, VII, 1912, coll. 992-998 (anche O. REGENBOGEN, art. Panfilo, in R.E. PAULY-WrssowA, 1949: coll. 321-323, Aulo Gellio); E. MENSCHING, Favorin von Areiate. Der erste Teil der Fragmente. Memorabilien und Omnigena historia, Berlin 1963, pp. 54-57, 154; A. BARIGAZzr, Favorino di Areiate. Opere, introduzione, testo crit. e commento, Firenze 1966; L. GAMBERALE, La Traduzione in Cellio, "Ricerche di Storia della lingua latina" (Roma), 1969, p. 242; M. PEZZATI, Cellio e la scuola di Favorino, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", 1973, pp. 837-860; L.A. HoLFORD-STREVENS, Gellius, in Reallexicon fiir Antike und Christentum, a cura di T. KLAUSER, 1975, coll. 1049-1055; L. HoLFORD-STREVENS, Aulus Gelhius, London 1988; R. GouLET, Aulu Gelle (Aulus Gellius), in Dictionnaire des Philosophes antiques, dir. R. GouLET, pref. P. HADOT, Paris 1989; P. KuKLIKA, Phi-
losophische Bemerkungen in den "Noctes Atticae" des Aulus Gellius, "Graecolatina et Orientalia", 1985-1986 [1989] pp. 15-32. L' Editio Princeps dei Deipnosophistes di Ateneo si veda a cura del MusuRo, Aldo Manuzio, Venezia 1514. In edizione moderna: De Athenaei Epitome, a cura di G. KAIBEL, Rostock 1883; G. KAITEL, Leipzig 1887-1890; S.P. PEPPINK, Athenaei Dipnosophistarum Epitome, Leiden 1936-1939; A.M. DESROUSSEAU e CH. AsTRUC, testo e trad. francese, Paris 1956 sgg.; G. TuRTURRO, Athenaios de Naucratis. I Deipnosofisti (o Sofisti a Banchetto), testo, note, trad. it., comm., Bari 1961; A. MARTINEZ DiEZ, Deipnosofistas, I, Granada 1975. Per i frammenti storici di Ateneo cfr. Fragmenta, in Frag. Hist. Gr., a cura di F. }ACOBY. Su Ateneo, oltre l'articolo di G. WENTZELL, in R.E. PAULY-WrsSOWA, cfr.: K. MENGIS, Die schriftstellerische Technik in Sophistenmahl des Ateneus, Paderborn 1920; F. CAUJOLLE-ZASLAWSKY, voce Athénaios de Naucratis, in Dictionnaire des Philosophes antiques, cit., 1989. I frammenti dei Placita di Aezio si vedano in H. DrELS, Doxographi Graeci, Berlin 1879 sgg. (trad. it., cit. 1961). Cfr. anche H. DrELS, Stobaios und Aetios, "Rheinisches Museum", 1881, pp. 343-350. Si veda inoltre: H. DAIBER, Aetius Arabus. Die Vorsokratiker in ara-
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bischen Uberlieferung, Wiesbaden 1980; T. DoRANDI, Aétius, in Dictionnaire des Philosophes antiques, cit., 1989. c. Diogene Laerzio Per il testo delle Vite si veda: O. APELT, Leipzig 1921, Berlin 1955; H.S. LoNG, Oxford 1964; H.G. HuEBNERUS, Hildesheim-New York 1981. Importante l'Index delle Vite di Diogene Laerzio a cura di K. }ANACEK, Firenze 1992 (''Studi" dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere 'la Colombaria'). In traduzione italiana cfr. a cura di: L. LECHI, Milano 1844-1845; M. GIGANTE, Bari 1962 (in 2 voli., Bari 1976, Bari-Roma 1983, 1987). Si veda inoltre: Diogene Laerzio, Dalle vite dei filosofi, VII (La logica stoica), testim. e framm., testi, introd. e trad., a cura di M. BALDASSARRI, Como 1986. Sulle particolari questioni relative a Diogene Laerzio (nome, cronologia, titolo dell'opera, dedica, 'Panmetron', tradizione manoscritta, edizioni principali, bibliografia generale) rimandiamo alla Introduzione e alla Nota bibliografica premesse da M. GIGANTE alla sua traduzione delle Vite, Bari-Roma 1983. Su Diogene Laerzio cfr.: R. HoPE, The Book of D.L., its Spirit and its Methods, New York 1930; K. DEICHGRAEBER, Bemerkungen zu Diogenes Bericht iiber Heraklit, "Philologus", 1938; P. MoRAUX, L'exposée de la Philosophie d'Aristate chez Diogène L., "Revue phil. Louv.", 1949; A. KoLAR, De Diogenis Laertii Pammetro, "Listy Filologicke", 1955, pp. 190-195; A. PASQUINELLI, I presocratici, Torino 1958; O. GIGON, Grundprobleme der antiken Philosophie, Bern 1959; H. KuDLIEN, Die Datierung des Sextus Empiricus un d des Diogenes Laertius, "Rheinisches Museum Philol.", 1963; M. GIGANTE, Diogene Laerzio storico e cronista dei filosofi greci, "Atene e Roma", 1973, pp. 105-132; J. MEJER, Diogenes Laertius and his Hellenistic Background, "Hermes" (Wiesbaden), 1978; U. EGLI, Das Diocles-Fragment bei Diogenes Laertios, Konstanz 1981; D. AMBAGLIO, Diogene Laerzio e la storiografia greca frammentaria, "Athenaeum", 1983, pp. 269-272; M. GIGANTE, Per una interpretazione di Diogene Laerzio, in Diogene Laerzio. Vite dei filosofi, cit., 1983; AA.VV, Diogene Laerzio storico del pensiero antico, "Elenchos", VII, 1986; M. GIGANTE, Biografia e dossografia in Diogene Laerzio, "Elenchos", 1986, pp. 7-102; M.O. GoULET-CAzÉ, L'ascèse cynique. Un commentaire de Diogène Laèrce VI 70-71, Paris 1986; B. CENTRONE, Alcune osservazioni sui 'placita' di Platone in Diogene Laerzio III, "Elenchos", 1987, pp. 67-80; J.P. DuMONT, Les modèles de conversion à la philosophie chez Diogène Laèrce, "Augustinus", J-987, pp. 79-97; G. RoccA-SERRA, Parmènide chez Diogène Laèrce, in Etudes sur Parménide, a cura di P. AuBENQUE, Paris 1987, pp. 254-273; J.
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MANSFE~D, Diogenes Laertius an Stoic Philosophy, "Elenchos", 1988, pp. 297-382; V. CELLUPRICA, Diocle di Magnesia fonte della dossografia stoica in Diogene Laerzio, "Orpheus", 1989, pp. 58-79; B.A. DESBORDES, Introduction à Diogène Laèrce, tesi di dot!orato, Rijksuniversiteit, 1990; D. KNOEPFLER, La vie de Ménédème d'Erétrie de Diogène Laèrce. Contribution à l'histoire et à la critique du texte des "Vies des Philosophes", Baie 1991.
d. Medicina Sulla medicina empirica in generale, sul metodo scientifico nel I-II $eC. d.C. e sulla corrente scettica in questi secoli, rimandiamo alle opere sopra citate, con particolare riguardo allo studio Lo scetticismo greco di M. DAL PRA, Bari 1989, anche per il capitolo dedicato a Sesto Empirico. Cfr. inoltre M.J. CARELLA, Matter, Morals and Medicine. The Ancient Greek Origins of Science, Ethics and the Medica! Profession, New York-Bern-Frankfurt a.M.-Paris 1991.
e. Sesto Empirico Delle molte edizioni delle opere di Sesto Empirico (Ipotiposi pirroniane, Contro i dogmatici, Contro i matematici) indichiamo la fondamentale (coli. Teubner) a cura di H. MuTSCHMANN eJ. MAu (Hypot., Leipzig 1912; Adv. dogm., Leipzig 1915; Adv. math., Leipzig 1954), ristampata a cura di B. DoER, Leipzig 1961, cui va aggiunto un IV vol. di indici, a cura di K. }ANACEK, Leipzig 1962 (anast., 1984). Si veda anche l'ed. a cura di I. BEKKER, Sexti Empirici Opera, Berlin 1842, e l'ed. della "Loeb Class. Libr.", con trad. inglese, a cura di R. G. BuRY, London 1933-1949, 1961 2 • Ricordiamo, infine, le edizioni di H. STEPHANUS (1562, 1621) e di A. FABRICIUS (1718, Leipzig 1840-1841). Cfr. anche Grundriss der pyrrhonisches Skepsis, a cura di M. HossENFELDER, Frankfurt a.M. 1985. In traduzione italiana cfr.: Ipotiposi pirroniane, a cura di O. TESCARI, Bari 1926, 1988; Contro i matematici. Libri I-VI, intr., trad. e note di A. Russo, Bari 1972; Contro i logici, intr., trad. e note a cura di A. Russo, Roma-Bari 1975; Contro i fisici e i moralisti, intr., trad. e note a cura di A. Russo, Roma-Bari 1990. Si veda anche: Dai Lineamenti pirroniani. II. Dal Contro i matematici. VIII (La logica stoica), testim. e framm., testi, intr. e trad. di M. BALDASSARRI, Como 1986. Su Sesto Empirico, oltre le opere di insieme sullo scetticismo, e a quelle che contengono particolari bibliografie su Sesto (K. MuENSCHER, Bibliographie critique 1910-1915, "Jahresbericht iiber die Fortschritte der Kl. Alt. Wiss.", 1915, pp. 114-118; E. RICHTSTEIG, Beri-
cht iiber die Literatur zu Sextos Empirikos aus dem ]ahren 1926-1930,
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"Jahresbericht iiber die Fortschritte d. Kl. Alt. Wiss." Leipzig, 1930; M. DAL PRA, op.cit., pp. 455-457), indichiamo i seguenti fondamentali studi: M. PATRIK, Sextus Empiricus and Greek Scepticism, Cambridge 1889; W. VoLLGRAFF, La vie de Sextus Empiricus, "Rev. de Philologie"' 1902; E. BRÉHIER, Le mot vorrrov et la critique du stoi'cisme chez Sextus Empiricus, "Rev. d es études anciennes", 1914; H. M UTSCHMANN, Sextus Emp. Adv. Log. I, 339, "Rheinisches Museum", 1914; A. KocHELSCKY, De Sexti adv. log. libris quaestiones criticae, 1915; P. SHoREY, Emendation of Sextus Empiricus Ilpòç ypU!J.!J.U'tlKouç 126, "Classica! Philology", 1915; E. IssEL, Quaestiones sextianae et galenianae, Marburg 1917; P. CourssiN, La critique du réalisme des concepts chez Sextus Empiricus, "Revue d'histoire de la philosophie", 1927; W. HEINTZ, Studien zu Sext. Emp., Halle 1932, Hildesheim 1972; M. HuRsT, Implication in the Fourth Century b.C., "Mind", 1935; P. PHILIPPSON, Zu Sextos Emp., "Philol. Woch.", 1938; R.M. CHISHOLM, Sextus Emp. and Modern Empiricism, "Philosophy of Science", 1941; K. ]ANACEK, Prolegomena to Sextus Empiricus, "Acta Univ. Palack. Olomucensis" (Olmutz), s.d.; E. KRENTZ, Philosophic concerns in Sextus Empiricus "Adversus mathematicos" I, "Phronesis", 1962. Cfr. anche: F. KunLIEN, Die Datierung des Sextus Empiricus und des Diogenes Laertius, "Rhein. Mus. Philol.", 1963; M. IsNARDI PARENTE, Speusippo in Sesto Empirico, 'Adv. math~' VII, 145-146, "La Parola del Passato", 1969, pp. 203-214; K. ]ANACEK, Sextus Empiricus' Sceptical Methods, Praha 1972; G. CoRTASSA, La problematica dell'uomo-misura in Sesto Empirico, "Atti della Accademia delle Scienze di Torino", Cl. Se. morali, 1973, pp. 283-816; I. DAMBSKA, Certains problèmes de la sémiotique des Stoi'ciens à la lumière du traité de Sexte Empirique "Contre les logiciens", in Studia historii semiotyki, III (Accademia Polacca), Warszawa 1973, pp. 7-13; K. ]ANACEK, Noein, ein Modewort in Sextus' Schriften, "Zbonik Filozofickei Fakulty Univerzity Komenského. Graecolatina et Orientalia", 1973, pp. 35-38; J. BLOMQVIST, Die Skeptika des Sextus Empiricus, "Grazer Beitrage", 1974, pp. 7-14; G. CoRTASSA, Tò q>atvO!J.EVOV e 'tÒ Ò.ÒTJÀ.OV in Sesto Empirico, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1975, pp. 276-292; K.A. NEUHAUSEN, Platons "philosophischer" Hund bei Sextus Empiricus, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1975, pp. 240-264; E. VON SAVIGNY, Inwieweit hat Sextus Empiricus Humes Argumente gegen die Induktion vorweggenommen?, "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1975, pp. 269-285; W. CA VINI, Appunti sulla prima diffusione in Occidente delle opere di Sesto Empirico, "Medioevo", 1977, pp. 1-20; A.A. LONG, Sextus Empiricus on the Criterion of Truth, "Bulletin Institute for Classica! Studies", 1978, pp. 35-49; Sextus Empiricus, Scepticism, Man and God, introd., note e bibliografia di P.P. HALLIE, traduz. dal greco di S.G. ETHERIDGE, Middleton (Conn.) 1969; F. DECLEVA CAIZZI, Democrito in Sesto
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Empirico, "Siculorum Gymnasium", 1980, pp. 393-410; K. ]ANACEK, Ainesidemos und Sextos Empeirikos, "Eirene", 1980, pp. 5-16; D.K. HousE, The Life of Sextus Empiricus, "Classica! Quarterly", 1980, pp. 227-238; J. TRIANTAPHYLLOPOULOS, Der eiserne Ring des Sextus Empeirikos, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1980, pp. 267-271; Lo scetticismo antico di AA.VV., Atti Convegno del Centro di Studio del pensiero antico (C.N.R.), Roma 5-8 nov. 1980, a cura di G. GIANNANTONI, I, Napoli 1982, II, Napoli 1983 (vedi oltre per gli studi su Sesto); F. AnoRNO, Sesto Empirico: metodologia delle scienze e "scetticismo" come metodo, in La scetticismo antico, cit., II, 1983, pp. 447-485; W. CAVINI, Sesto Empirico e la logica dell'apparenza, in Lo scetticismo antico, cit., II, 1983, pp. 533-546; V. CELLUPRICA, Norrr6v e aìaen"t6v in Sesto Empirico a proposito di 'Adv. math.' VIII 10, in La scetticismo antico, cit., I, 1982, pp. 480-499; G. CoRTASSA, Sesto Empirico e gli ÈyKUKÀ.ta. Un'introduzione a Sext. Emp. 'Adv. math.' I- VI, in La scetticismo antico, cit., II, 1983, pp. 713-724; ST. NoNVEL PIERI, Due relazioni a confronto. Pirroniani e Accademici, di nuovo nelle 'Ipotiposi' di Sesto Empirico, in La scetticismo antico, cit., I, 1982, pp. 435-446; L. REPICI-CAMBIANO, Sesto Empirico e i Peripatetici, in La scetticismo antico, cit., II, 1983, pp. 691-711; C. RossiTTO, Sull'uso della contraddizione in Sesto Empirico, in La scetticismo antico, cit., II, 1983, pp. 547-562; A. CoHEN, Sextus Empiricus. Scepticism as a Therapy, "The Philosophical Forum", 1983-1984, pp. 405-424;}. CROISSANT, Autour de la quatrième formule d'implication dans Sextus Empiricus 'Hyp. Pyrrh.' II, 112, "Revue de Philosophie Ancienne", 1984, pp. 73-120; C. STOUGH, Sextus Empiricus on non-assertion, "Phronesis", 1984, pp. 137-164; P. ELEUTERI, Note su alcuni manoscritti di Sesto Empirico, "Orpheus", 1985, pp. 432-436; K. }ANACEK, Randbemerkungen zum neuen Pyrrhon-Buch, "Eirene", 1985, pp. 80 sgg.; V. CAUCHY, Critique de la théorie du signe et language chez Sextus Empiricus, in Philosophie du language et grammaire dans l'Antiquité, a cura di H. ]oLY, Grenoble 1986, pp. 325-328; F. CAUJOLLE-ZAsLAWSKI, Sophistique et scepticisme. L'image de Protagoras dans l'oeuvre de Sextus Empiricus, in Posi ti an de la sophistique, cit., 1986, pp. 149-165; J. SCHMUCKER-HARTMANN, Die Kunst des gliicklichen Zweifelns. Antike Skepsis bei Sextus Empiricus, Amsterdam 1986; T. EBERT, The Origin of the Stoic Theory of Signs in Sextus Empiricus, "Oxford Studies in Ancient Philosophy", 1987, pp. 83-126; P. PoRRO, Sesto Empirico: il segno tradito. Una rilettura di 'Adv. mathematicos' VIII 141-299, "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bari", 1987, pp. 237-261; J. BRUNSCHWIG, Sextus Empiricus on the 'kriterion'. The Skeptic as Conceptual Legatee, in The Questions of 'Eclecticism'. Studies in Later Greek Philosophy, a cura di M. DILLON e A.A. LoNG, Berkeley (Ca.) 1988, pp. 145-175; B.Z. ANDRIOPOULOS, Greek Sceptics an Causality, "Discorsi", 1989, pp. 7-26; L.
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CouLOUBARITsrs, Ré/lexions de Sextus Empiricus sur !es dieux ('Adv. Math.'), "Kernos", 1989,pp.37-52;J.ALLEN, TheSkepticismofSextus Empiricus, in ANRW, II, 36.4, 1990, pp. 2582-2607; A. BAILEY, Pyrrhonean Scepticism and the Self Refutation Argument [Sextus Empiricus], "The Philosophical Quarterly", 1990, pp. 27 -44; J. BARNES, Pyrrhonism, Belief and Causation. Observations on the Scepticism of Sextus Empiricus, in ANR W, II, 36.4, 1990, pp. 2608-2695; J. BARNES, La ouHprovi pyrrhonienne; in Le scepticisme antique, Lausanne 1990; J. BRUNSCHWIG, La formule oaov È7tÌ l'Ci> Myql chez Sextus Empiricus, in Le scepticisme antique, Lausanne, 1990, pp. 107 sgg.; B. CASSIN, L'histoire chez Sextus Empiricus, in Le scepticisme antique, cit., 1990, pp. 190 sgg.; G. CoRTASSA, Il programma dello scettico: strutture e forme d'argomentazione nel primo libro delle 'Ipotiposi Pirroniche' di Sesto Empirico, in ANR W, II, 36.4, 1990, pp. 2696-2718; H. FwcKIGER, Sextus Empiricus. Grundriss der pyrrhonischen Skepsis. BuchI. Selektiver Kommentar, Bern-Stuttgart 1990; M.L. MAcLHERRAN, Pyrrhonism's Arguments againts Value [Sextus Empiricus], "Philosophical Studies Dordrecht" 1990, pp. 127-132; A.J. VoELKE, Soigner par le Logos: la Thérapeutique de Sextus Empiricus, in Le scepticisme antique, cit., 1990, pp. 181-194. F. DECLEVA CArzzr, Aenesitemus and the Academy, "The Classica! Quarterly", 1992, pp. 176-189.
f. Tolomeo L'edizione delle Opere di Tolomeo- Claudii Ptolomaei Opera quae extant omnia- si veda nella "collezione Teubner" in corso, cominciata con la pubblicazione dell'Almagesto e delle Opere astronomiche minori a cura diJ.B. HEIBIG, Leipzig 1898 sgg. Si veda anche l'edizione di tutte le Opere (con trad. francese) a cura di N.B. HALMA, Paris 1816-1820. Per le ediziòni delle singole opere (Almagesto e catalogo delle stelle,
Geografia, l'Ottica, Apparizioni delle Stelle fisse e collezione dei Pronostici, Ipotesi sui pianeti, Iscrizione di Canobio, Sunto delle tavole dell'Almagesto, Analemma, Planisferio, Tetrabiblo, Rassegna dei Re, Gli armonici, Sul giudizio e l'egemonico) cfr. G. SARTON, Introduction to the History of Science, Baltimore 1927. Per l'Ottica nella versione latina dall'arabo di Eugenio di Sicilia, cfr. la trad. critica ed esegetica a cura di A. LEJEUNE, Leuven 1956. Si confronti inoltre: Tetrabiblos, trad. ingl. e testo, a cura di F.E. RoBSON, London-Cambridge 1956; Tetrabiblon, a cura di F. BoLLe A. BoER, Leipzig 1957; De indicandi facultate et animi principatu, a cura di F. LAMMERT, Leipzig 1961; Ptolemy's Tetrabiblos or Quadripartite, tradotto dalla parafrasi di Proclo, prefaz. e note a cura di J.M. AsHMAND, North Hollywood 1976; Il criterio e il principio, a cura di P. MANULI, "Rivista critica di Storia della Filosofia", 1980-1981, pp. 64-74, 74-88; Almagest, trad. e note di G.J. TooMER,
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London 1984; Le previsioni astrologiche (Tetrabiblos), testo greco, trad. e intr., a cura di S. FERABOLI, Milano 1985; On the kriterion and hegemonikon (testo greco e trad. inglese), in The Criterion of Truth, Saggi in onore di G. KERFERD, a cura di P. HUBY e G. NEAL, Liverpool1989, pp.151-178. Oltre lo studio di FR. BoLL, Studien iiber Claudius Ptolemiius, Leipzig 1894, e gli studi singoli su particolari questioni scientifiche (matematiche e astronomiche) e generali, su Tolomeo si vedano i seguenti lavori: FR. LAMMERT, Kritische Untersuchung zu Ptolemaios Tispì KptTTJpiou Kaì lÌYEJ.I.OVtKOÙ, "Hermes", 1937 (del LAMMERT anche l'ed. del Tiepì KPlTTJpiou Kaì lÌYEJ.I.OVtKoù, Leipzig 1952); A. Guzzo, Tolomeo, "Filosofia", 1952; W. STAHL, Ptol. Geography, a Selected Bibliography, New York 1953; I. DAMBSKA, La théorie de la science dans !es oeuvres de Claude Ptolémée, "Organon", 1971, pp. 109-122; I. DAMBSKA, L'épistémologie de Ptolémée, in Avant, avec, après Copernic, Paris 1975, pp. 31-37; S. DRAKE, Ptolemy, Galileo, and scientific method, "Studies in History and Philosophy of Sciences", 1978, pp. 99-115; K. 0KRUHIK, The Interplay between Theory and Observation in the Salar Mode! of Hipparchus and Ptolemy, Proceedings of the 1978 biennal meeting of the Philosophy of Science Association, a cura di P.D. AsQUITH e I. HACKING, East Lansing (Mich.) 1978, pp. 73-82; L'astronomie dans l'antiquité classique, a cura di AA.VV., Atti del Colloquio Università di Toulouse-le-Mirail, 21-23 ottobre 1977, Paris 1979; P.R. LEVIN, TIA.TJYll and -ra
L'edizione delle Opere di Galeno si veda a cura di K.G. KuHN (testo greco, trad. latina, in 20 volumi: il XX volume contiene l'indice a cura di FR.W. AssMANN), Leipzig 1821-1833 (anast., i primi 11 voll., G. 0LMS, 1964: la collezione costituisce i primi 20 volumi delle Medi-
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corum graecorum Opera quae extant; una nuova edizione critica completa delle Opere di Galeno è in corso dal1914, a cura delle Accademie di Berlino, Copenhagen e Lipsia, facente parte del "Corpus Medicorum graecorum"). Gli scritti minori di Galeno sono editi in tre volumi, Scripta minora, a cura di: J. MARQUARDT, Leipzig 1884; I. MuLLER, Leipzig 1891; G. HELMREICH, Leipzig 1893. Il De subfiguratione empirica si veda in K. DEICHGRABER, Die griech. Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre, Berlin 1930, pp. 79-80. Per le traduzioni arabe e per le edizioni di opere singole cfr. G. SARTON, Introduction to the History of Science, I, Baltimore 1927, 1953 4, pp. 302 sgg. I frammenti del Commento di Galeno al Timeo di Platone si vedano nell'ed. a cura di H.O. ScHRODER, Leipzig 1934, e di P. KRAUS e R. WALZER, London 1951 (''Corpus Platonicum Medii Aevi", Plato arabus) (sul Compendio al Timeo di Galeno çfr. A.J. FESTUGIÈRE, Le Compendium Timaei de Galien, "Rev. des Etudes grecques", 1952). Si veda inoltre J.N. MATTOCK, A Translation of the Arabic Epitome of Galen's Book Ilepi li8&v, "Islamic philosophy and the Classica! tradition" (Oxford), 1972, pp. 235-260. Cfr. anche Commentaria Averrois in Galenum, trad. di M.C. VA.sQUEZ DE BENITO, Madrid 1984. Le Opere (scelte) in traduzione italiana si vedano: Opere scelte di Galeno, a cura di I. GAROFALO e M. VEGETTI (Utet), Torino 1978 (I miei Libri; Il miglior medico è anche filosofo; Le scuole di medicina; I procedimenti anatomici; L'utilità delle parti; Le facoltà naturali; Le facoltà dell'anima seguono il temperamento dei corpi; Manuale di Medicina; da Le cause dei sintomi; Manuale di logica). In trad. italiana anche: De Theriaca [panacea] ad Pisonem, testo lat., trad. it., intr., a cura di E. CoTURRI, pres. M.G. NARDI, Firenze 1959; De sanitate tuenda, trad. e comm. a cura di A. AMERIO, Roma 1966; Arte medica, trad., presentaz. e note di M. T. MALATO, Roma 1973; La dieta dimagrante, ed. critica, trad. e comm. di N. MARINONE, Torino 1973; Galeno: Le passioni e gli errori dell'anima, Opere Morali, a cura di M. MENGHI e M. VEGETTI, Venezia 1984; Galeno: Dalla Introduzione alla dialettica (La logica stoica. Testim. e framm.), a cura di M. BALDASSARRI, Como 1986. In altre lingue cfr.: Institutio logica, a cura diJ. MAu, Berlin 1960; On the Usefulness of the Parts of the Body. Ilepì :x,pEiaç IJ.Opirov. "De partium", I-II, trad. dal greco, intr. e comm. di M. TALLMADGE MAY, Ithaca 1968; Galeni De temperamentis, a cura di HELMREICH (ed. 1908), aggiornamento di BESSLICH, Leipzig 1969; Galen on Language and Ambiguity, trad. con intr. e testo del De Captionibus, a cura di R.B. EDDOW, Leiden 1977 (Philosophia Antigua, 31); On the Affected Parts, trad. dal greco con note esplicative a cura di R.E. SIEGEL, BaselMi.inchen 1976; Problems and Prospects, a cura di V. NuTTON, London 1981; On the Doctrine of Hippocrates and Plato, trad. e comm. di P. DE
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LACY, Berlin 1981-1984; Iniciaci6n a la dialéctica, intr. di M. 0TERO, trad. in castigliano e note di A. RAMIREZ TREJO, México 1982; Galen on Respiration and the Arteries, a cura di D.J. FuRLEY e J.S. WILKIE, Princeton (N.J.) 1984; Three Treatises on the Nature of Science. On the Sects far Beginners. An Outline of Empiricism. On Medicai Experience, trad. a cura di R. W ALZER e M. FREDE, intr. di M. FREDE, Indianapolis (Ind.) 1985; Galenus. On the Therapeutik Method I-II, Oxford 1991. Per la letteratura relativa all'opera di Galeno, oltre agli studi d'insieme sulle scienze, rimandiamo alle citate opere del SARTON (aggiornata al1925), del VEGETTI-GAROFALO, Trad. Opere Galeno (aggiornata al 1978) e alle introduzioni a opere di Galeno, posteriori al1980, sopra citate. Qui ci limitiamo a: H. DILLER, Zur Hippokratesauffassung des Galen, "Hermes", 1933, pp. 167-181;J.W. STAKELUM, Galen and the Logic of Propositions, Roma 1940; R. WALZER, Galen on Jews and Christians, Oxford 1949; R. WALZER, New Light on Galen's Moral Philosophy, "Classica! Quarterly", 1949, pp. 82-96; J .. MAU, Institutio logica: Einfiihrung indie Logik, Berlin 1960; W. RisE, La pensée morale de Galien, "Revue philosophique", 1963, pp. 331-346; R.E. SIEGEL, Galen's System of Physiology and Medicine, Basel-New York 1968; G. MICHELI, Galeno, in Storia del pensiero filosofico e scientifico, I, Milano 1970; R.E. SIEGEL, Galen on Sense Perception, Basel-New York 1970; A. BECCARIA, Sulle tracce di un antico canone latino di Ippocrate e Galeno, "Italia medioevale e umanistica", 1971, pp. 1-23; P. DE LACY, Galen's Platonism, "American Journal Class. Philol.", 1972, pp. 27-39; L. GARdA BALLESTER, Galeno, Madrid 1972; C.R.S. HARRIS, The Heart and Vascular System in Ancient Greek Medicine /rom Alcmeon to Galen, Oxford 1973; O. TEMKIN, Galenism: Rise and Decline of a Medicai Philosophy, Ithaca-London 1973; H. DILLER, Empeirie und Logos: Galens Stellung zu Hippokrates und Platon, "Studia Platonica" (Amsterdam), 1974; P.L. DoNINI, Psicologia ed etica in Galeno e in Alessandro di Afrodisia: il problema del determinismo, in Tre Studi sull'aristotelismo nel II sec. d.C., Torino 1974, pp. 127-185; P. MoRAUX, Galien et Aristate, in Images of Man in Ancient and Medieval Thought, in onore di G. VERBEKE, a cura di F. BossiER-F. DE WACHTER-J. lJSEWIJN-G. MAERTENS-W. VANHAMEL-D. VERHELST-A. WELKENHUYSEN, Leuven 1976, pp. 127-146; R.E. SIEGEL, Principles and Contradictions in the Evaluation of Hippocrates. Aristotle's and Galen's Doctrines of Respiration and Blood Flow, "Episteme", 1976, pp. 171-188; R. B. EDLOW, Galen on Language and Ambiguity. An English Translation of Galen's "De captionibus" (On Fallacies), intr., testo e commento, Leiden 1977 (Philosophia Antigua, 31); R.D. ToDD, Galenic Medicai Ideas in the Greek Aristotelian Commentators, "Symbolae Osloenses", 1977, pp. 117-134; M. VEGETTI, Introduzione a Opere scelte di Galeno, a cura di I. GARO-
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FALO e M. VEGETTI, Torino 1978; P.H. DE LACY, Galen's Concept of Continuity, "Greek, Roman, and Byzantine Studies", 1979, pp. 355-369; P. DoNINI, Motivi filosofici in Galeno, "La Parola del Passato", 1980, pp. 333-370; M. VEGETTI, La polemica di Galeno contro la medicina metodica, "Siculorum Gymnasium", 1980, pp. 427-435; Galen: Problems and Prospects (Atti del Convegno di Cambridge, 1979), a cura di V. NuTTON, London 1981; J. PIGEAUD, La maladie de l'dme, Paris 1981; F. HAJAL, Galen's Ethical Psychotherapy. Its Influence on a Medieval Near Eastern Physician, "Journal of the History of Medicine and Allied Sciences", 1983, pp. 320-333; S. NOJA, Un nuovo anello
nella trasmissione della cultura classica attraverso l'Islam, il manoscritto arabo del Commentario di Galeno ai libri nepì 't01t(J)V Kaì àépwv Kaì Uò
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101-111; R.J. HANKINSON, Galen's Anatomy of the Soul, "Phronesis", 1991, pp. 197-233. 10. D Cristianesimo tra la fine del II e il principio del m secolo
Sui Padri latini, oltre agli studi d'insieme sulla patristica nei primi tre secoli, si vedano le opere di: H. HAGENDALL, Latin Fathers and the Classics, Goteborg 1958; H. VON CAMPENHAUSEN, Lateinischen Kirchenviiter, Stuttgart 1960, 1965 2 .
a. Tertulliano e Minucio Felice Oltre che in MIGNE, Patrologia latina, voll. 1-2, e nell'edizione a cura di F. 0EHLER, Q.S.F. Tertulliani quae supersunt omnia, Leipzig 1853-1854, le Opere di Tertulliano si vedano nel "Corpus Christianorum", ser. latina, l, Turnholt-Paris 1953-1957 (anche l'edizione delle Opere di Tertulliano nel Corpus vienn.). In particolare l'Apologia si veda nell'ed. a cura di: G. RAUSCHEN, Tertulliani Apologetici recensio nova, Bonn 1912 ("Florilegium Patristicum", VI); G.P. WALTZING e A. SEVERYNS, Paris 1919-1929; O. TESCARI, testo, trad. e commento, Torino 1951 (''Corona Patrum Salesiana"). Dell'Apologia si veda la trad. it. di L. RuscA, Milano 1956 (anche Apologia del Cristianesimo, intr. e note di C. MoRESCHINI, trad. di L. RuscA- in appendice: La carne di Cristo, intr., trad. e note di C. MICAELLI -,Milano 1984). Il De paenitentia e ilDe pudicitia si vedano nell'ed. a cura di G. RAUSCHEN, Bonn 1915; l'Ad nationes nell'ed. a cura diJ. BoRLEFFS, Leiden 1929; il De spectaculis, a cura di A. BouLANGER, Paris 1933 (importante il commento diJ. BuECHNER, Wiirzburg 1935), e a cura di E. CAsTORINA, Firenze 1961 (con intr., testo critico, commento e trad.); il De idolatria, a cura di G. MAZZONI, Siena 1934; il De Pallio, a cura di A. GERLO, Wetteren 1940 e di Q. CATAUDELLA, Genova 1947 (con intr., trad. e note); il De fuga, a cura diJ. THIERRY, Hilversum 1941; il De oratione, a cura di G. DIERCKS, Bussum 1947; il De anima, a cura di J.H. WASZINCK (con commento e ampia bibliografia), Amsterdam 1947 (cfr. L'anima, a cura di M. MENGHI e M. VEGETTI, Venezia 1988). Il De patientia, il De baptismo e il De paenitentia, a cura diJ.W. BoRLEFFS, Den Haag 1948 (si veda anche lo studio con traduzione di F. SciUTO, Tre
opere parenetiche - "Ad martyras", "De patientia", "De paenitentia" -, Catania 1961); il De testimonio animae, a cura di G. QmsPEL, Leiden 1952 ("Textus minores", 18) e a cura di C. TIBILETTI, Torino 1959, Firenze 1984; il trattato De incarnatione (testo, intr., trad., commento) a cura di E. EVANS, Oxford 1956; l'Adversus Hermogenem, a cura di ].H. WASZINCK, Utrecht 1956 ("Stromata patristica", 5); il De
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praescriptione, a cura di R.F. REFOULÉ (testo e trad. francese di P. DE LABRIOLLE), Paris 1957 (coli. "Sources Chrétiennes"); l'Adversus Praxean (con trad. it. e note), a cura di G. ScARPAT, Torino 1959 (coli. "Corona Patrum Salesiana"); l'Ad Scapulam, a cura di A. QuACQUARELLI, Roma 1957; l'Adversus Judaeos, testo, intr. e commento, a cura di H. TRANKLE, Wiesbaden 1964. Si veda inoltre: Opere scelte di Tertulliano, a cura di C. MoRESCHINI (Utet), Torino 1974 (A Scapula; Sulla prescrizione contro gli eretici;
Contro Ermogene; Contro i Giudei; Contro Marcione; Sulla Carne di Cristo; Sulla resurrezione dei morti; Contro i Valentiniani; Contro Prasca; Sull'unico matrimonio); Prescrizioni contro gli eretici, a cura di G. AuLETTA, Roma 1947; Adversus Praxean, testo critico con trad. e note a cura di G. ScARPAT, Torino 1959; De pallio, testo, trad., comm., a cura di S. CosTANZA, Napoli 1968; Adversus Valentinianos, intr., testo, trad. e commento a cura di A. MARASTONI, Padova 1971; Apologetico, intr., testo, trad. e comm. a cura di E. P ARATORE, Bari 1972; De virginibus velandis, intr., trad. e note a cura di P.A. GRAMAGLIA, Roma 1984; L'eleganza delle donne, a cura di S. !SETTA, Firenze 1986; Contre Marcion, a cura di R. BRAUN, Paris 1990 ("Sources Chrétiennes"); Scorpiace, a cura di G. AzzAu BERNARDELLI, Firenze 1990. Utili gl'Indici: P. HENEN, Index verborum quae Tertulliani Apologeticum continentur, Leuven 1911; J.H. W ASZINK, Index verborum et locutionum quae Tertulliani libro De Anima continentur, Bonn 1935; E. MrcHELS, Index verborum omnium quae sunt in Tertulliani De praescritione haereticorum, Steenbruges 1959; J. MoiNGT, Théologie trinitaire de Tertullien, 4, Répertoire Lexicographique et tables, Paris 1969. Un'ampia bibliografia su Tertulliano si veda nell'Introduzione al I volume delle Opere di Tertulliano nel Corpus Christianorum, serie lat., l, Turnholt-Paris 1953, e in Opere scelte di Tertulliano, a cura di E. MoRESCHINI, Torino 1974, pp. 91-102; anche, dopo il1971, nelle introduzioni alle singole opere e in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., voce Tertulliano a cura di C. TIBILETTI, 1987. Su Tertulliano, oltre all'articolo di G. BARDY nel Dictionnaire de Théologie Catholique, XV, all'articolo citato del TIBILETTI nel Dizionario degli Scrittori greci e latini, 1987, e alle opere d'insieme sulla Patristica, segnaliamo alcune delle maggiori opere: A. n' ALÈS, La théologie de Tertullien, Paris 1905; K. AnAM, Der Kirchenbegriff Tertullians, Paderborn 1907; G. THOERNELL, Studia Tertullianea, Uppsala 1921-1926; R.E. RoBERTS, The Theology of Tertullian, London 1924; E. BuoNAIUTI, Tertulliano, Milano 1926; J. LoRTZ, Tertullian als Apologet, Miinster 1927-1929; TH. BRANDT, Tertullians Ethik. Zur Erfassung der systematischen Grundanschauung, Giitersloh 1929; C. SHORT DE LrSLE, The Influence of Philosophy on the Mind of Tertullian, London
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1933; F. SEYR, Die Seelen- und Erkenntnislehre Tertullians und die Stoa, "Commentationes Vindobonenses", 1937; A. n'ALÈS, Tertullien helléniste, "Rev. des Études grecques", 1~.37; J. KLEIN, Tertullian, Christliches Bewusstsein und sittliche Forderung, Dusseldorf 1940, Hildesheim 1975; J.H. WASZINK, Traces of Aristotle's lost Dialogues in Tertullian, "Vigiliae Christianae", 1947; P. KESELING, Aristate/es bei Tertullian, "Philosophisches J ahrbuch der Gorresgesellschaft", 194 7; A. LABHARDT, Tertullien et la philosophie, "Museum Helveticum", 1950; B. NrsTER, Tertullian, seine Personlichkeit und sein Schicksal, Munster 1950; E. HAMMERSCHMIDT, Die philosophische Begriindung der Gotteserkenntnis bei Tertullian, "Internationale kirchliche Zeitschrift", 1959; S. OTTO, "Natura" und "dispositio". Untersuchung zum Naturbegriff und zum Denkform Tertullians, Munchen 1960; V. DÉCARIE, Le paradoxe de Tertullien, "Vigiliae Christianae", 1961; W. BENDER, Die Lehre iiberden Heiligen Geist bei Tertullian, Munchen 1961; R. BRAUN,
"Deus christianorum". Recherches sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien, Paris 1962; R. CANTALAMESSA, La cristologia di Tertulliano, Freiburg 1962; J. MorNGT, Théologie trinitaire de Tertullien, Paris 1969; I. VECCHIOTTI, La filosofia di Tertulliano. Un colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo, Urbino 1970; T.D. BARNES, Tertullian. A Historical and Literary Study, Oxford 1971; R. BRAUN, Tertullien et la philosophie pai'enne. Essai de mise au point, "Bulletin de l' Association G. Budé", 1971, pp. 231-251; R.D. SIDER, Ancient Rhetoric and Tertullian, Oxford 1971; J.C. FREDOUILLE, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris 1972; R. BRAUN, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien, Paris 1977 2 ; C. RAMBAUX, Tertullien /ace aux morales des trois premiers siècles, Paris 1979; C. MrCAELLI, Retorica, filosofia e cristianesimo negli scritti matrimoniali di Tertulliano, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa" (Lett. e Filos.), 1981, pp. 69-104; C. TIBILETTI, voce Tertulliano, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., III, 1987; D.K. HousE, The Relation of Tertullian's Christology to Pagan Philosophy, "Dionysius", 1988, pp. 29-36. Di particolare interesse sul diritto in Tertulliano sono i seguenti studi: G. GurGNEBERT, Tertullien, étude sur ses sentiments à l'égard de l'Empire et de la société civile, Paris 1901; P. VrTTON, I concetti giuridici nelle opere di Tertulliano, Roma 1924; A. BEcK, Romisches Recht bei Tertullian und Cyprian, Halle 1930; G. GONELLA, La critica della autorità delle leggi secondo Tertulliano e Lattanzio, "Riv. intero. di filosofia del diritto", 1937; A. RéiLLI, Tertullians Stellung zum romische Staat, Tubingen 1944; D. VAN BERCHEM, Le "De Pallio" de Tertullien et le conflit entre le Christianisme et l'Empire, "Mus. Helveticum", 1944; ].K. STIRNIMANN, Die Praescriptio Tertullians im Lichte des romischen Rechts und der Theologie, Freiburg 1949; R. MARTINI, Tertulliano giuri-
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sta e Tertulliano Padre della Chiesa, "Studia et Documenta Historiae et Iuris", 1975, pp. 79-124; G. BRAY, The Lega! Concept of 'ratio' in Tertullian, "Vigiliae Christianae", 1977, pp. 9-116;J.C. FREDOUILLE, Tertullien et l'Empire, "Recherches Augustiniennes", 1984, pp. 111-131; M.S. BURROWS, Christianity in the Roman Forum: Tertullian and the Apologetic use of History, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 209-235. Su questioni più particolari cfr.: E. BERTIN, Tertullien le schismatique, Paris 1928; J. MoRGAN, The Importance of Tertullian in the Development of the Christian Dogma, London 1928; F.H. HALLOCK, Church and State in Tertullian, "The Church Quarterly Rev.", 1934; B. AxELSON, Das Prioritiitsproblem. Tertullian-Minucius Felix, Lund 1941; E. EvANS, Tertullian's Theological Terminology, "The Church Quarterly Rev.", 1941; G. QursPEL, De bronnen van Tertullianus Adv. Marcionem, Leiden 1943; A.J. FESTUGIÈRE, La composition et l'esprit du "De anima", "Rev. Se. philos. théol.", 1949; A. QuACQUARELLI, Antropologia ed escatologia secondo Tertulliano, "Rassegna di scienze filosofiche", 1949 (del Quacquarelli si vedano anche gli articoli sul paganesimo secondo Tertulliano, sugli ideali di vita cristiana per Tertulliano, sulla concezione della storia secondo Tertulliano, su l' Adv. Hermogenem, e su "rhetoricari" e "philosophari" in Tertulliano, in "Rass. scienze filosofiche", 1950,1951,1952, 1956). Si veda anche l'Introduzione di H. TRANKLE all'Adversus ]udaeos, Wiesbaden 1964. Cfr. inoltre: S. OTTo, Natura und Dispositio. Untersuchung zum Naturbegriff und zur Denkform Tertullians, Miinchen 1960; P. SINISCALCO, Il motivo razionale della resurrezione della carne in due passi di Tertulliano (Apol., 48, 4; De res., 14, 3 sgg.), "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 1960-1961, pp. 195-221; C. TrBILETTI, Un opuscolo perduto di Tertulliano: 'Ad amicum philosophicum', "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 1960-1961, pp. 122-166; G.C. STEAD, Divine Substance in Tertullian, "The Journal of the Theological Studies", 1963, pp. 46-66; R. BRA UN, Aux origines de la Chrétienté d'Afrique: un homme de combat, Tertullien, "Bulletin de l'Association G. Budé", 1965, pp. 189-208; J. MOINGT, Théologie trinitaire de Tertullien, "Recherches de Sciences Religieuses", 1966, pp. 337-369; J. MOINGT, Théologie trinitaire de Tertullien (t. I: Histoire, doctrines, méthodes; t. II: Substantialité et individualité; t. III: Unité et processions;), Paris 1966-1969; C. MoRESCHINI, 'Prolegomena' ad una futura edizione dell"Adversus Marcionem' di Tertulliano (continua), "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa" (Lett. e Filos.), 1966, pp. 293-308; R.A. NoRRIS, God and World in Early Christian Theology [a Study in ]ustin Martyr, Irenaeus, Tertullian and Origen], London 1967; J. CAMPOS, Ellenguaje filosofico de Tertuliano en el dogma trinitario, "Salmanticensis", 1968, pp. 317-349; C. MoRESCHINI, Reminiscenze apuleiane nel 'De anima' di Tertulliano?, "Maia", 1968, pp. 19-20; M. SPANNEUT, Tertullien et les
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premiers moralistes africains, Paris 1969; B.B. WARFIELD, Studies in Tertullian and Augustine, New York 1970; R. BRAUN, Un nouveau Tertullien: problèmfs de biographie et de chronologie (à propos de T. D. Barnes), "Revue des Etudes latines", 1972, pp. 67-84; E.P. MEIJERING, Bemerkungen zu Tertullians Polemik gegen Marcion ('Adversus Marcionem' l, 1-25), "Vigiliae Christianae", 1976, pp. 81-108; E.P. MEIJERING, Tertullian contra Marcion: Gotteslehre in der Polemik: Adversus Marcionem I Il, Leiden 1977; S. VrcASTILLO, La "caro passibilis" en la antropologia de Tertuliano, "Pensamiento", 1978, pp. 197-203; F.P. HAGER, Remarques sur l'importance de la philosophie grecque pour la vérité chrétienne selon Tertullien et saint Augustin, "Diotima", 1979, pp. 97-100; S. VrcASTILLO, La "caro corruptiva" en la antropologia de Tertuliano, "Espiritu", 1979, pp. 59-66; R. BRAUN, Les règles de la parénèse et la composition du 'De patientia' de Tertullien, "Revue de Philologie, de Littérature et d'Histoire Anciennes", 1981, pp. 197-203; A.P. Bos, Tertullian's Reference to a "dreaming Kronos" in a lost Work by Aristat/e, in Studia Patristica, XXI, a cura di E.A. LrviNGSTONE, Oxford 1987, pp. 246-249; L.J. VAN DER LoF, I;ertullian an the Continued Existence of Things and Beings, "Revue des Etudes Augustiniennes", 1988, pp. 14-24. L'Ottavio di Minucio Felice si veda nell'ed. a cura di J.P. WALTZING, con trad. francese e commento, Leuven 1903, Leipzig 19262 . Si vedano anche le edizioni a cura di: J. MARTIN, Bonn 1930; M. PELLEGRINO, Torino 1950; C. SCHNEIDER, Paderborn 1954; H. VON GEISAU, Miinster 1955 3 ;}. BEAUJEU, testo e' trad. frane., Paris 1964 (coli. "Belles Lettres"). Si veda anche l'ed. di L. VALMAGGI, nel "Corpus script. Paravianum", con ampia bibliografia e Minucius Felix: Octavius, a cura di B. KYTZLER, Mi.inchen 1965, Leipzig 1982. In trad. italiana cfr.: Minucio Felice: Ottavio, a cura di E. PARATORE, Bari 1971. Su Minucio Felice cfr.: P. DE FELICE, Étude sur l'Octavius de Min. Félix, Blois 1880; G. BorssrER, La fin du Paganisme, Paris 1891; J.P. WALTZING, Platon, source directe de Minucius Félix, "Le Musée beige", 1904; FR.X. BouRGER, Minucius Felix und Seneca, Miinchen 1904; U. MoRiccA, L"'Octavius" di Minucio Felice e la critica, Roma 1915; M.F. SciACCA, L"'Ottavio" di M. Felice, in Studi sulla filosofia medievale e moderna, Napoli 1935; R. BEUTLER, Philosophie und Apologie bei Minucius Felix, Konigsberg 1936; Q. CATAUDELLA, M. Felice e Clemente Alessandrino, "Studi italiani di Filologia Classica", 1941; K. Bi.JCHNER, Drei Beobachtungen zu M. Felix, "Hermes", 1954; J. BEAUJEU, Introduction a Minucius Felix, Octavius, testo e trad. a cura di J.B., Paris 1964. Si veda anche: B. AxELSON, Das Priorità"tsproblem Tertullian-Minucius Felix, Lund 1941; A. DELLA CASA, Le due date dell'Octavius, "Maia", 1962; P. CouRCELLE, Virgile et l'immanence divine chez Minu-
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cius Félix, in Mullus, in onore di T. KLAUSER, Mi.inster 1964, pp. 34-42; G.W. CLARKE, Minucius Felix 'Octavius' 4. 6, "Classica! Philology", 1966, pp. 252-253; B. KYTZLER, Notae minucianae, "Traditio", 1966, pp. 419-435; K. ABEL, Minucius Felix: 'Octavius', das Textproblem, "Rheinisches Museum fi.ir Philologie", 1967, pp. 248-283; C. BECKER, Der 'Octavius' des Minucius Felix, Mi.inchen 1967; P. PRASSINETTI, Finzione e realtà nell"Oct,avius', "Athenaeum", 1968, pp. 327-344; Kelsos wahres Wort, Alteste Streitschrift antiker Zeltanschauung gegen das Christentum vom ]ahr 178 n.Chr. wiederhergestellt, aus d. Griech. iiber., untersucht u. erl. mit Lukian u. Minucius Felix (Zi.irich 1873), a cura di T. KEIM, Aalen 1969; E. P ARATORE, Introduzione a Minucio Felice: Ottavio, a cura di E.P:, Bari 1971; I. VECCHIOTTI, La filosofia politica di Minucio Felice. Un altro colpo di sonda nella storia del Cristianesimo primitivo, Urbino 1973; L. MAURO, Sapienza filosofica e sapienza rivelata nell"'Octavius" di Minucio Felice, "Verifiche", 1975, pp. 273-327; P. GRIMAL, Mémoires de T. Pomponius Atticus, Paris 1976; B. ALAND, Christentum. Bildung und romische Oberschicht. Zum "Octavius" des Minucius Felix, in Platonismus und Christentum, in onore di H. DoRRIE, a cura di H.D. BLUME e F. MANN, Mi.inster 1983, pp. 11-30; E. HECK, Minucius Felix und der romische Staat. Ein Hinweis zum 25. Kapitel des 'Octavius', "Vigiliae Christianae", 1984, pp. 154-164; V. BucHHEIT, Die Wahrheit im Heilsplan Gottes bei Minucius Felix ('Oct.' 38, 7), "Vigiliae Christianae", 1985, pp. 105-109; A.J. CAPPELLETTI, Minucio Félix y su filosofia de la religi6n, "Revista Venezolana de Filosofia", 1985, pp. 7-62. b. Clemente Alessandrino Le Opere di Clemente Alessandrino si vedano in MIGNE, Patrologia Graeca, voll. 8 e 9, e nell'edizione a cura di O. STAHLIN, Die griechischen christlichen Schriftsteller, voll. 12 (3 a ed. a cura di U. TREU, 1972), 15 o a ed. a cura di L. FRucHTEL, 1960), 17 (2a ed. a cura di L. FRUCHTEL eU. TREU, 1970); 39 (Indici, 1934-1936: 2a ed. Indice separato a cura di U. TREU, 1980), Leipzig 1905-1980. Anche: Clemens Alexandrinus Werke (Akademie Berlin), Berlin 19702 • Si veda inoltre: Protreptico ai Greci, testo, intr., trad., comm., a cura di Q. CATAUDELLA, Torino 1940; Le Protreptique, intr., trad. e note a cura di CL. MONDÉSERT, Paris 19492 oa ed. insieme a M. ANDRÉ PLASSART, Paris 1976, coll. "Sources Chrétiennes"); Il Protrettico. Il Padagogo, solo trad. it., a cura di M.G. BIANCO, Torino 1971; Il Pedagogo, testo, intr., note., trad., a cura di A. BoATTI, Torino 1953; Le Pédagogue, testo greco, intr., note, a cura di H. MARROu-M. HARL-CL. MoNDÉSERT-CH. MATRAY, Paris 1960, 19703 (coll. "Sources Chrétiennes"); Les Stromates, intr., trad. e note (l, a cura di CL. MoNDÉSERT
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e M. CASTER; II, a cura di P.TH. CAMELOT e CL. MoNDÉSERT; V, a cura di A. LE BouLLUEC e P. VouLET), Paris 1951-1981 (anche V, vol. II, commento, bibliografia e indice a cura di L. LE BoULLUEC, Paris 1981, coli. "Sources Chrétiennes", voli. 30, 38, 278-279); Clemente Alessandrino: Stromati, intr., trad. e note a cura di G. PINI, Roma 1985; Extraits de Théodote, testo greco, intr., trad. e note a cura di F. SAGNARD, Paris 1948 (coli. "Sources Chrétiennes"), 19702 ; Estratti profetici, a cura di C. NARDI, Firenze 1985 ("Biblioteca Patristica"); Clement of Alexandria, The Exhortation to the Greeks. The Rich Man's Salvation. And the Fragment of an Address entitled 'To the Newly Baptized', con trad. inglese a cura di G.W. BuTTERWORTH, (l a ed. 1919; rist. 1939, 1953, 1960, 1968, 1969), Cambridge (Mass.) 1979; C'è salvezza per il ricco? (Patristica, Edizioni Paoline), seguito dal frammento Esortazione alla pazienza o ai nuovi battezzati, intr., trad., note, a cura di A. PIERI, Ancona 1965; Quale ricco si salva? Il Cristiano e l'economia, a cura di C. NARDI, Roma 1991. Di particolare interesse sull'ambiente in cui si svolse l'attività di Clemente di Alessandria sono le opere di: P. MoNCEAUX, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne depuis !es origin es jusqu 'à l'if!vasion arabe, 7 voli., Paris 1901-1923; P. LEBRETON, in Histoire de l'Eglise, a cura di FLICHE e MARTIN, Paris 1935 (dello stesso LEBRETON, Histoir~ du dogme de la Trinité, Paris 1928 4); H. LIETZMANN, Histoire de l'Eglise ancienne, trad. frane., Paris 1937; G. BARDY, Aux origines de l'École d'Alexandrie, "Recherches de Sciences Religieuses", 19 3 7; G. BARDY, Pour l'histoire de l'école d'Alexandrie, Paris 1942; cfr. anche R. CADIOU, La jeunesse d'Origène, Paris 1936, e J. MuNCK, Untersuchungen iiber Klemens von Alex., Stuttgart 1933. Si veda anche: J. DANIÉLOU, Message évangélique et culture hellénistique au II• et III• siècles, Tournai 1961; CH. BIGG, The Christian Platonists of Alexandria, New York 1970. Oltre alle bibliografie relative a Clemente nelle introduzioni alle opere di lui sopra citate, cfr.: E. OsBORN, Clement of Alexandria: A Review of Research, 1958-1982, "The Second Century", 1983, pp. 219-244; M. NALDINI, voce Clemente Alessandrino, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1987; C. NARDI, Introduzione e bibliografia al Quale ricco si salva? di Clemente di Alessandria, Firenze 1991, pp. 5-56. Oltre alle introduzioni alle opere di Clemente sopra citate, cfr. sul pensiero di lui nel complesso: R.B. ToLLINGTON, Clement of Alexandria, 2 voli., London 1914; G. BARDY, Clément d'Alexandrie, Paris 1926; J. MuNcK, Untersuchungen iiber Clemens von Alexandria, Stuttgart 1933; G. LAZZATI, Introduzione allo studio di Clemente Alessandrino, Milano 1939; C. MoNDÉSERT, Clément d'Alexandrie, Paris 1944; E.F. OsBORN, The Philosophy of Clemens Al., New York-Cambridge
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~entali
Etude critique des documents du gnosticisme chrétien au II• et au III• siè-
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II
L'ultima crisi dell'Impero e le ultime componenti del pensiero antico l. Plotino e la scuola platonica "alessandrino romana" (Ammonio Sacca, Erennio, Origene platonico, Plotino, Porfirio, Eustachio, Amelio)
a. La scuola di Alessandria e il "neoplatonismo" Sugli antecedenti del cosiddetto "neoplatonismo" cfr. sopra. Fondamentale sulla storia della scuola alessandrina è l'opera di G. BARDY, Pour l'histoire de l'Eco le d'Alexandrie, in, "Vivre et penser", II, 1942 (si veda anche: M.J. SIMON, Histoire de l'pcole d'Alexandrie, Paris 1845; E. VACHEROT, Histoire critique de l'Ecole,d'Alexandrie, Paris 1846; A.J. MATTER, Essai historique sur l'Beole d'Alexandrie, Paris 1846-1851). Cfr.: C. BIGG, The Christian Platonists of Alexandria, Oxford 1886, Hildesheim-New York 1981; Alexandrina, Hellénisme, judaisme et christianisme à Alexandrie, Mélanges offerts à CL. MoNnÉSERT, Paris 1987. Sul "neoplatonismo" cfr.: T. WHITTAKER, The Neo-Platonists. A Study in the History of Hellenism, Cambridge 1901, 19282 , Hildesheim-Ziirich-New York 1987; A. DREWS, Plotin und der Untergangder antiken Weltanschauung, Jena 1907; K. PRAECHTER, Richtungen und Schulen im Neuplatonismus, in Genethliacon Carl Robert, Berlin 1910, pp. 103-156 (in Kleine Schriften, Hildesheim 1973, pp. 165-216); W. }AEGER, Nemesios von Emesa, Quellenforschungen zum Neuplatonismus und seine Anfdngen bei Poseidonios, Berlin 1914; W. THEILER, Die Vorbereitung des Neuplatonismus, Berlin 1930, 19642 ; P. MERLAN, From Platonism to Neoplatonism, Den Haag 1953, 1975 4 (trad. it., Milano 1989); H.J. KRAMER, Der Ursprung des Geistmetaphysik, Amsterdam 1964; Forschungen zum Neuplatonismus, a cura di W. THEILER, Berlin 1966; K. KREMER, Die neuplatonische Seinsphilosophie und ihre Wirkung auf Thomas von Aquin, Leiden 1966, 1971 2 ; H.P. EssE:rt, Untersuchungen zu Gebet und Gottesverehrung der Neuplatoniker, Bonn 196 7; J. TROUILLARD, Le néoplatonisme de Plotin à Damascius, in AA.VV., Histoire de la Phylosophie (I vol. della "Encyclopédie de la Pléiade"), Paris 1969; J. TROUILLARD, L'ame du 'Timée' et l'un du 'Parmenide' dans la perspective néoplatonicienne, "Revue Internationale de Philosophie", 1970, pp. 236-251; J.L. FISCHER, La signification philosophique du néoplatonisme, in Colloques de Royaumont: le Néoplatonisme, www.scribd.com/Baruhk (1969), Paris 1971, pp. 147-150; Le Néoplatonisme, Colloques de Royaumont, Paris 1971; S. SAMBURSKY e S. PINER, The Concept of Time in Late Neoplatonism, testo e note, Leiden 1971;. W. . con trad., . intr. . .
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b. Ammonio Sacca, Cranio, Erennio, Origene platonico Per frammenti e testimonianze di Ammonio Sacca si veda: G. BRUNI, Ammonio Sacca e i suoi "frammenti", Roma 1959; anche M. BALTES, in "Gnomon", 1983, pp. 104-107 (altre 23 testimonianze). Oltre alle opere su Plotino cfr.: L.J. DEHAUT, Essai historique sur la vie et la doctrine d'Ammonius Sacca, Bruxelles 1836; H. VON ARNIM, Quellen der Uberlieferung des Ammonios Sakkas, "Rheinisches Museum", 1887, pp. 276-285; E. ZELLER, Ammonios Sakkas und Plotin,
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Com'è noto, sembra che gli Origene che furono alla Scuola di Ammonio Sacca siano stati due: uno è il celebre Origene cristiano (cfr. oltre), l'altro il cosiddetto Origene platonico che, su testimonianza di Porfirio (Vita Platini, 3), avrebbe scritto un'opera Sui dèmoni e una Sul Re, solo creatore (cfr. Proclo, In Platonis Theologiam, II, 4). Nulla sappiamo dell'Origene platonico, che si è potuto identificare con l'Grigene cristiano e altrettanto platonico. Per la tesi secondo cui l'Origene cristiano e l'Origene platonico sono la stessa persona, cfr. R. CAmou, La jeunesse d'Origène, Paris 1935; per l'opposta tesi, cfr. J. DANIÉLOU, Origène, Paris 1948. Si veda anche: R. BuTLER, articolo in R.E. PAULY-WrssowA; K.O. WEBER, Origenes der Neuplatoniker (coli. "Zetemata", 27), Mi.inchen 1962; F.H. KETTLER, War Origenes Schiiler des Ammonios Sakkas?, in Epektasis, Mélanges in onore di J. DANIÉLOU, Paris 1972, pp. 327-334. Vedi oltre, alla voce Origene.
c. Platino l. Bibliografie e Lessico Di non poca utilità, anche orientativa, relativamente a tutte le questioni su Platino (manoscritti, tradizione, vita, ambiente storico, influenze, personalità, problemi singoli, edizioni, traduzioni e cosl via) è la Bibliografia critica degli studi plotiniani con rassegna delle loro recensioni, di B. MARIEN, riveduta e curata da V. CILENTO, in Platino. Enneadi, prima versione integra e commentario critico, di V. CILENTO, vol. III, parte II, Bari 1949. Si veda inoltre: Bulletin critique des études plotiniennes, a cura di P. HENRY, "Nouvelle Revue Théologique", 1932, pp. 707-735, 785-803, 906-925; A. MANSION, Travaux sur l'oeuvre et la philosophie de Plotin, "Revue néoscolastique", 1939, pp. 229-251; C. RuTTEN, Chronique bibliographique. Plotin et le Néoplatonisme, I, Plotin, "Association des Classiques de l'Université de Liège - Bull. Semestriel", 1961, pp. 83-97; A. BoNETTI, Studi intorno alla filosofia di Platino, "Rivista di Filosofia Neo-Scolastica", 1971, pp. 487-511; M. DI PASQUALE BARBANTI, Venticinque anni di studi plotiniani in Italia, "Teoresi", 1974, pp. 275-306; V. VERRA, Il neoplatonismo, in Questioni di storia della storiagrafia filosofica. Dalle origini all'Ottocento, a cura di V. MATHIEU, Brescia 1975, pp. 399-444; F. GARCiA-BAZAN, Tres Décades de Estudios Plotinianos, "Sapientia", 1980, pp. 281-300; M. IsNARDI-PARENTE, Appendice bibliografica a Introduzione a Platino, a cura di M. I.-P., Roma-Bari 1984, 19892 , pp. 191-206 (anche pp. 179-187: Storia della critica); R. DAL MoRo, Studi italiani su Platino (1974-1984), "Verifiche",
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1986, pp. 163-190; H.J. BLUMENTHAL, Plotinus in the Twenty Years Scholarship, 1951-1971, in ANRW, cit., II, 36.1, 1987, pp. 528-570; K. CoRRIGAN e P. O'CLEIRIGH, The Course of Plotinian Scholarship from 1971 to 1986, inANRW, cit., II, 36.1, 1987, pp. 571-623. Utile il Lexicon plotinianum, a cura diJ.H. SLEEMAN e G. PoLLET, Leiden-Leuven 1980. Gli studi più recenti sui commentatori di Platone e sui platonici tra il I secolo d.C. e il III d.C., più che essere volti a rintracciare nei platonici di questo periodo (da Albino ad Apuleio, a Plutarco di Cheronea, a Numenio, a Plotino) una ripresa del "platonismo" di Platone, tendono a considerare la storia del cosiddetto platonismo medio entro l' ambito delle esigenze proprie della cultura di questi secoli, dove non vanno scordati tra i platonici e no forti influenze stoiche e modi di interpretare Aristotele, mentre, per altro verso, non vanno dimenticate le correnti della neosofistica, dei cinici, degli epicurei, e la componente dei grandi scienziati da Euclide ad Archimede, agli astronomi, a Pappo e Diofante. Per quel che riguarda Plotino, la questione è più complessa: Plotino non è né greco né orientale. Gli studi attuali sono volti, da un lato, a rendersi conto, sul piano filologico, del reale ordine delle Enneadi - l'ordine in cui leggiamo le Enneadi, com'è noto, fu dovuto a Porfirio -, dall'altro lato a rendersi conto della posizione logico-ontologica di Plotino, nel quale giocano le correnti di sopra, in una coerente e rigorosa sistemazione della tradizione "ellenica", di contro a ogni interpolazione di carattere "gnostico" rivelazionistico. Il discorso è aperto, anche per quel che riguarda l'influenza dello stoicismo sulla sistemazione plotiniana. Cfr. oltre. 2. Edizioni, traduzioni, testo La fondamentale edizione critica moderna è quella di P. HENRY e H.R. ScHWYZER, Platini Opera, Paris-Bruxelles 1951-1959, 1973 2 (editio maior; anche editio minor, Oxford 1964-1982). Accanto all' editio princeps del PERNA (Basel 1580), del CREUZER (Oxford 1835) e del KrRCHOFf (Leipzig 1882-1884), ricordiamo le edizioni, con trad. francese, di E. BRÉHIER, in 7 voli., ("Belles Lettres"), Paris 1924-19,38, 1954-1963 3 ; con trad. italiana, di G. FAGGIN, Milano 1947-1948 (fino alla terza Enneade); con trad. tedesca, di R. HARDER (Schriften), Hamburg 1956-1964; con trad. inglese, di A.H. ARMSTRONG, Cambridge (Mass.) 1966-1988. Si veda anche, per l'apocrifa Teologia di Aristotele, P. HENRY e H.R. ScHWYZER, Platini Opera, editio maior, II: Plotiniana arabica, ad codieu m fidem anglie e vertit G. Lewis, Paris-Buxelles 19 59. Oltre alla celebre traduzione in latino delle Enneadi a cura di MARsruo FrciNo (Firenze 1492), indichiamo la versione in italiano di V.
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CILENTO, in 3 voli., di·cui il terzo in due parti, Bari 1947-1950 (ristampa in corso, con testo greco a fronte, a cura di G. PuGLIESE CARRATELLI, I vol., Napoli 1986); di G. FAGGIN, in 3 voli., Milano 1947-1948 (solo le prime 3 Enneadi). Accanto alle trad. nelle edizioni del testo sopra citate, cfr. Plotinus, The Enneades, trad. a cura di S. MACKENNA, London 1926 (ed. riveduta da B.S. PAGE, London 1956-1969). Si veda inoltre: PoRFIRIO, Vita di Platino e ordine dei suoi scritti, a cura di G. PuGLIESE CARRATELLI, trad. di V. CILENTO, Napoli 1946; La vie de Plotin (I. Lavori preliminari e indice greco completo), a cura di L. BRISSON-M.O. GouLET CAZIÉ-R. GOULET-D. O'BRIEN, prefaz.}. PÉPIN, Paris 1982. Indichiamo alcune edizioni parziali: R. HARDER, Plotins Schrift gegen die Gnostiker (traduzione e postfazione), "Die Antike", 1929, pp. 53-84; V. CILENTO, Paideia antignostica. Ricostruzione di un unico scritto di Enneadi III 8, V 8, V 5, II 9, Firenze 1971; Plotin, Traité sur les nombres (Enn. VI, 6 [34]), intr., testo greco, trad. e comm. a cura di]. BERTIER-L. BRISSON-A. C~~RLES-}. PÉPIN-H.D. SAFFREY-A.PH. SEGONDS, Paris 1980; Plotin. Uber Ewigkeit und Zeit ('Enn.' III 7), a cura di W. BEIERWALTES, Frankfurt 1981 3 ; Platino. Enéades III-IV, a cura di I. IGAL, Madrid 1985; Plotin. Traité 38 (VI, 7), intr., trad., comm. e note di P. HADOT, Paris 1987; J.E. McGUIRE e S.K. STRANGE, An Annoted Translation of Plotinus' Ennead. III 7: On Eternity and Time, "Ancient Philosophy", 1988, pp. 251-271; Platino. Sul bello intelligibile (V. 8), trad. it. e testo greco, comm., a cura di C. GumELLI, Genova 1989 (si veda anche, a cura di L. ANCESCHI, Mantova 1981); Plotin. Traité 50 (III, 5), intr., trad. e comm. a cura di P. HADOT, Paris 1990; Platino. L 'eternità e il tempo (Enn. III 7), intr., trad. e comm. a cura di F. FERRARI e M. VEGETTI, Milano 1991. Sulla questione del testo delle Enneadi cfr. particolarmente gli studi di P. HENRY: Recherches sur la "Préparation évangélique" d'Eusèbe et l'édition perdue des oeuvres de Plotin publiée par Eustochius, Paris 1935; Vers la reconstitution de l'enseignement ora! de Plotin, Bruxelles 1937; Études plotiniennes: I. Les états du texte de Plotin, II. Les manuscrits des Ennéades, Bruxelles-Paris 1938-1941, 19482 . Cfr. anche: A.M. FRENEKIAN, L'Ennéade IV, 7 de Plotin et l'édition d'Eustochius, "Revue Roumaine des Sciences Sociales", 1969, pp. 163-172; D. RoLOFF, Plotin, die Grosschrift III. 8, V. 8, V.5, II. 9, Berlin 1970.
3. Vita Sulla biografia di Plotino_, oltre all'introduzione all'edizione e alla traduzione delle Enneadi di E. BRÉHIER, cit., e in R.E. PAULY-WissoWA, Plotin, a cura di R.H. SCHWYZER, cfr.: R. HARDER, Plotins Leben, Wirkung und Lehre, in Kleine Schriften, cit., pp. 257-274; H.P. L'O-
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Porphyry, Ithaca (N.Y.) 1990, pp. 125-140; A. LINGUITI, L'ultimo platonismo greco. Principi e conoscenza (Accademia Toscana di Scienze e Lettere "la Colombaria"), Firenze 1990; U .R. PÉREZ PAoLI, Der plotinische Begriff von Hypostasis unt die augustinische Bestimmung Gottes als subiectum, Wiirzburg 1990; D.H. SAFFREY, Recherches sur le néoplatonisme après Plotin, Paris 1990; A.H. ARMSTRONG, Aristotle in Plotinus. The Continuity and Discontinuity of 'Psyche' and 'Nous', "Oxford Studies in AncientPhilosophy", 1991,pp.l17-127. 8. Aspetti della morale Su alcuni aspetti della morale plotiniana cfr.: T. GoLLWITZER, Plotins Lehre von der Willensfreiheit, Kempten 1900, Kaiserlautern 19022 ; B.A.G. FuLLER, The Problem of Evilin Plotinus, Cambridge 1912; P.O. KRisTELLER, Der Begriff der Seele in der Ethik Plotins, Tiibingen 1929; E. BENZ, Der Willensbegriffvon Plotin vom Plotin bis Augustin, Halle 1931; P. HENRY, Le problème de la liberté chez Plotin, "Revue Néoscolastique de Philosophie", VIII, 1931, pp. 50-79, 180-215, 318-339; W. HIMMERISCH, Eudaimonia: die Lehre des Plotins von der Selbstwirklichung des Menschen, Wiirzburg 1959; M. RIST, PlotinusonMatterand Evi!, "Phronesis", 1961; V. CILENTO, La radice metafisica della libertà nell'antignosi plotiniana, "La Parola del Passato", 1963; B. SALMONA, La libertà in Plotino, Milano 1967; P. PRINI, Platino e la genesi 9-ell'umanesimo interiore, Roma 19702 ; R. ARNOU, llptil;tç et E>eropia. Etude de détail sur le vocabulaire et la pensée des Ennéades de Plotin, nuova edizione, Roma 1972; P. PRINI, Platino e la genesi dell'umanesimo interiore, in Platino e il Neoplatonismo in Oriente e in Occidente, cit., 1974, pp. 131-146; G. PuGLIESE CARRATELLI, Platino e i problemi politici del suo tempo, in Platino e il Neoplatonismo in Oriente e in Occidente, cit., 1974, pp. 61-70; P. PLASS, Plotinus' Ethica!Theory, "Illinois Classica! Studies", 1982, pp. 241-259; G. SIEGMAN, Plotin Philosophie des Guten ('Enn.' VI-7), Wiirzburg 1990; L. WESTRA, PlotinusandFreedom, Lewiston 1990. 9. La bellezza Oltre agli studi in generale, cfr.: J. CocHEZ, L'esthétique de Plotin, "Revue Néoscolastique", 1913; E. DE KEYSER, La signification de l'art dans !es Ennéades de Plotin, Louvain 1955; V. CILENTO, Mito e poesia nelle Enneadi di Platino, "Entretiens sur l'antiquité classique", V, 1957, pp. 243-310, in Saggi su Plo tino, pp. 4 3-62; A.N .M. RlcH, Plotinus and the Theory of Artisticlmitation, "Mnemosyne", 1960; W. BEIERWALTES, Die Metaphysik des Lichtes in der Philosophie Plotins, "Zeitschrift fiir philosophische Forschung", 1961, pp. 3 34-362; R. FERWERDA, La signification des images et des métaphores dans la pensée de Plotin, Groningen
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1965; H. ScHONDORF, Plotins Umformung der platonischen Lehre von SchOnen, Bonn 1974; A.H. ARMSTRONG, Beauty and the Discovery of Divinity in the Thought of Plotins, in Kephalaion. Studies in Greek Philosophy and Continuation, in onore di C.J. DE VoGEL, Assen 1975, pp. 155-163; M. DI PASQUALE BARBANTI, La metafora in Platino, Catania 1981; M. MASSAGLI, L'Uno al di sopra de/Bello e della Bellezza nelle 'Enneadi' di Platino, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1981, pp. 111-131; F.P. HAGER, Métaphysique et axiologie de l'oeuvre d'art chez Platon et Plotin, "Diotima", 1986, pp. 130-137; A. MAGRIS, Invito alla lettura di Platino, Milano 1986; R. FERWERDA, Plotinus and the Muses, "Hermes", 1990, pp. 204-212; M. MARKAKIS, Some Observations on Plotinus' Theory of Beauty, "Diotima", 1990, pp. 154-155.
d. Porfirio e Amelio Per il "platonismo" dopo Plotino, cfr. sopra (voce Plotino) e oltre (voce Giamblico).
l. Porfirio Di Porfirio si veda Porphyrii philosophi platonici Opuscula selecta (contiene framm. della Storia della filosofia, cioè la Vita di Pitagora più L 'astinenza, Lettera a Marcel/a e L 'antro delle ninfe), a cura di A. NAUCK, Leipzig 1886, anast. 1963. Per i frammenti si veda: Filosofia desunta dagli oracoli, a cura di G. WoLFF, Berlin 1856, anast. 1962 (sulla r~ccolta del WoLFF cfr. A.D. NocK, Oracles théologiques, "Revue des Etudes Anciennes", 1928); Isagoge, a cura di A. BussE, in Commentaria in Arist. Graeca, IV, Berlin 1887; Isagoge, trad. e note a cura di W. WARREN (The Pontificai Institute of Mediaeval Studies), Toronto 1975; Isagoge, trad. e note di J. TRICOT, Paris 1981; Sententiae ad intelligibilia pertinentes, a cura di B. MoMMERT, Leipzig 1907; Sententiae ad intelligibilis ducentes, a cura di E. LAMBERZ, Leipzig 1975; LetteraadAnebo, a cura di TH. GALE, con trad.latina, Oxford 1687; si veda ora pubblicata da G. PARTHEY, ed. del De mysteriis di Giamblico, Berlin 1857 (testo greco e trad. i t. della Lettera ad Anebo si veda anche a cura di G. F AGGIN, insieme alla Lettera aMarcella, Firenze 1954); Pros Markellan (testo greco), a cura di W; PoTscHER, Leiden 1969; Vie de Pythagore. LettreàMarcella, a cura di E. DES PLACES, con un'appendice di A.PH. SEGONDS, Paris 1982; Ritorno dell'anima, a cura diJ. BIDEZ, in Vie de Porphyre, le philosophe néoplatonicien,
avec !es fragments des traités: "Peri agalmdton" et "De regressu animae", Gand-Leipzig 1913, anast. 1964; Immagini, a cura diJ. BIDEZ, in Vie de Porphyre, cit., 1913, 1964; Questioni americhe, a cura di ScHRADER, Leipzig 1890; Come respirano gli embrioni, a cura di KALBFLEISCH, Berlin 1895 (si veda trad. e comm. diA.J. FESTUGIÈREinLa révélation d'Hermès
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Trismegiste, III, Paris 19 53); Commento agli Armonici di Tolomeo, a cura di T. WALUS, Oxford 1699 e di J. Di.JRING, Goteborg 1930, 1934 (i framm. della Introduzione al Tetrabiblo si vedano editi a Basilea nel 1559); Contro i Cristiani: Porphyrios "Gegen die Christen", a cura di A. voN HARNACK, "Abhandl. der Konigl. Preuss. Akad. d. Wiss.", Philol. hist. Klasse, 1916, con nuovi frammenti, Berlin 1921 (cfr. anche P. NAUTIN, "Revue Biblique", 1950); Vita di Platino, premessa a tutte le edizioni delle Enneadi: si veda a cura di G. PuGLIESE-CARRATELLI, Napoli 1946 (con trad. it. a cura di V. CILENTO); Porphyrii vita Platini, a euradi P. HENRYe H.R. SCHWYZER, Leiden 1973; G. LEOPARDI, Porphyrii de vita Platini et ordine librorum eius, a cura di C. MoRESCHINI, Firenze 1982; La vie de Plotin, a cura di L. BRISSON-M.O. GouLET-CAzÉ-R. GouLET-D. O'BRIEN, pref. diJ. PÉPIN, Paris 1982; Cronaca, a cura di Mi.JLLER, in Fragm. hist. grec., III, pp. 688-727. Per i frammenti di un presunto commento di Porfirio al Parmenide di Platone, ritrovato in alcuni fogli palinsesti in un antico Evangelario proveniente da Bobbio e conservato nella Biblioteca Nazionale di Torino, perduto con l'incendio della Biblioteca torinese (1904) ma salvate le carte del Commento grazie alla edizione del KROLL (altri fogli sono stati reeupera ti di recente), si vedano le edizioni: B. PEYRON, Notizia d'un antico evangelario bobbiese che in alcuni fogli palimpsesti contiene frammenti di un greco trattato di filosofia, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1873, pp. 53-71; W. KROLL, Ein neuplatonischer Parmenidescommentar in einem Turiner Palimpsest, "Rheinisches Museum", 1892, pp. 599-627; P. HADOT, F!agments d'un commentaire de Porphyre sur le 'Parménide', "Revue des Etudes Grecques", 1961; P. HADOT, Porphyre et Victorinus, vol. II, Paris 1968, pp. 60-113. In traduzione italiana si veda: Vita di Pitagora, trad. parziale a cura di G. PESENTI, in Versi aurei, Lanciano s.d.; Lettera ad Anebo e Lettera a Marcella, a cura di G. FAGGIN, Firenze 1954; Lettera a Marcella. Il testamento morale dell'antichità, a cura di G. FAGGIN, trad. i t. a fronte, Genova 1982; Lettera ad Anebo. Sulla teurgia, a cura di G. FAGGIN, trad. it. a fronte, e La Lettera ad Anebo nella testimonianza di S. Agostino, Genova 1982; Vita di Platino, a cura di V. CILENTO, nell'ed. di G. PuGLIESE-CARRATELLI, cit., e nel I vol. di Platino, Enneadi (trad. cit.); Isagoge, a cura di B. MAiaLI, Padova 1969; Discorsi contro i cristiani, a cura di C. MuTTI, Padova 1977; L'antrodelle Ninfe, a cura di L. SIMONINI, Milano 1986. Il migliore studio di insieme su Porfirio rimane quello diJ. BIDEZ, Vie de Porphyre ... , cit., 1913, 1964. Vedi anche l'articolo di R. BEUTLER, Porphyrios, in R. E. PAULY-WissowAcit., 43, 1953. Su aspetti particolari degli scritti di Porfirio cfr.: A. ScHAEFFERS, De Porphirii in Platonis dialogum qui Timaeus inscribiturcommentario, Bonn 1868; A. CHAIGNET, La philosophie des oracles, "Revue de l'Histoire des
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Religions", 1900; M.F. BoRTZLER, Porphyrios Schriftvon den Gotterbildem, Erlangen 1903; P. HESELER, Zu Porphyr. Schrift 'Aq>OpJlaÌ 1tpòç -rà vorrra, Kreuznach 1909; K. GAss, Porphyrius in epistula adMarcellam quibus fontibus et quomodo eis usus sit, Bonn 1927; L. BIELER, Zu Porphyrios Vita Pythag. 27, "Wiener Studien", 19 30; W. THEILER, Porphyrios undAugustinus, Halle 1933; F. ALTHEIM e R. STIEHL, Porphyr. und Empedokles, Tiibingen 1954; F. ScHEIDWEILER, Zu Porphyrios Ka-rà Xptanavéòv, "Philologus", 195 5; A.C. LLOYD, Neoplatonic Logic and Aristotelian Logic, "Phronesis", 1955 e 1956; J.J. O'MEARA, Porphyr. 's "Philosophy /rom Oracles", Paris 1959; P. HADOT, Fragments d'un Commentaire de Porphyre sur le "Parménide", "Revue des Études Grecques", 1961; H. DoRRIE, Porphyrios als Mittler zwischen Plotin und Augustin, in Antike und Orientim Mittelalter, Berlin 1962; R.B. Voss, Spuren von Porphyrios "De regressu animae" bei Augustin "De vera religione", "Museum Helveticum", 1963; P. HADOT, La métaphysique de Porphyre, in AA.VV., Porphyre (Fond. Hardt), Vandoeuvres-Genève 1966; G.C. HAUSEN, Ein verkanntes ]osephos-Zitat bei Porphyrios, "Klio", 196 7, pp. 199-200; P. HADOT, Porphyre et Victorinus, 2 voli., Paris 1968; W. PoTSCHER, Bemerkungen zum Porphyrios-Text, "Emerita", 1968, pp. 1-6; A. PRIESSNIG, Die biographische Form der Plotinvita des Porphyrios und das Antoniosleben des Athanasios, "Byzantinische Zeitschrift", 1971, pp. 1-5; G. RoccA-SERRA, La lettre à Marcel/a de Porphyre et les sentences des pythagoriciens, in Le Néoplatonisme, cit., 1971, pp. 193-202; P. THILLET, Indices porphyriens dans la Théologie d'Aristate, in Le N éoplatonisme, ci t., 1971, pp. 293-302; C. VINCENT, Porphyre et Ockam, in Le Néoplatonisme, cit., 1971, pp. 409-423;}. !GAL, La cronologia de la 'Vida de Platino' de Porfirio, Madrid 1972; J.W. FoRRESTER, The Argument of the 'Porphyry Text', "Journal of the History of Philosophy", 1973, pp. 537-539; C. GAG NON, Deux contresens dans la traduction de l'Isagogé, "Revue PhilosophiquedeLouvain", 1973, pp. 205-209; F. GARcfA-BAZAN, Gnostica. El capftulo XVI de "La vida de Platino" de Porfirio, "Salesianum", 1974, pp. 463-478; Porfirio e il neoplatonismo in Occidente, Atti del Convegno internazionale (Roma 5-9 ott. 1970) (Ace. dei Lincei), Roma 1974 (scritto su Porfirio diJ. PÉPIN, Lafortunedu "De Antro Ninpharum" de Porphyreen Occident, pp. 527-536); A. SMITH, Porphyry's Piace in the Neoplatonic Tradition. A Study in Post-Plotinian Neoplatonism, Den Haag 1974; J.H. WAsZINK, Porphyrios und Numenios (1966), inDie Philosophie des Neuplatonismus, a cura di C. ZINTZEN, Darmstadt 1977; J. BERNAYS,
Theophrastos' Schrift iiber Frommigkeit Mit Bemerkungen zu Porphyrios' Schrift iiber Enthaltsamkeit (Berlin 1866), Hildesheim-New York 1979; F. ROJ'v!ANO, Porfirio di Tiro. Filosofia e cultura nel III secolo d. C., Catania 1979; E. DES PLACES, Letextede la 'Vie de Pythagore' de Porphyre, "Bulletin of the American Schools of Orientai Research", 1981, pp. 175-178; F. GARCIA-BAZAN, Platino y las textos gn6sticos de Nag-Hammadi, "Orien-
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te-Occidente" (Buenos Aires), 1981; Porphyry. On the Life of Plotinus and the Arrangement of his Work, trad. di S. McKENNA, Edmonds (Wash.) 1984; G. BRUNI, Commento alla VitadiPlotinoscrittadaPorfirio, nota di L. GIANCOLA, "Cannocchiale", 1985, pp. 47-68; P. MORAUX, Porphyre, commentateur de la 'Physique' d'Aristate, in Aristotelica, a cura di A. MoTTEeC. RuTTEN, Liège 1985, pp. 227-239; F. RoMANO, Porfirio e la fisica aristotelica. In appendice la trad. dei framm. e delle testimonianze del Commentario alla Fisica, Catania 1985; K. CoRRIGAN, Amelius, Plotinus and Porphyry on Being, Intellect and the One, in ANR W, cit., II, 36.2, 1987, pp. 975-993; A. SMITH, Porphyrian Studies since 1913, inANRW, cit., II, 36.2, 1987, pp. 717-773; C. EvANGELIOU, Aristotle's Categories and Porphyry, Leiden-New York 1988; Porphyry's Launching-Points to the Realm of Mind. An Introduction to the Neoplatonic Philosophy of Plotinus, acuradiK.S. GuTHRIEeM. HoRNUM, GrandRapids (Mich.) 1988; L. BRISSON, L 'oracle d'Apollon dans la 'Vie de Plotin 'par Porphyre, "Kernos", 1990, pp. 77-88; S. EBBESEN, Porphyry's Legacy to Logic. A Reconstruction, in 'Aristotle transformed'. The Ancient Commentators and Their Influence, a cura di R. SoRABJI, Ithaca (N.Y.) 1990, pp. 141-171; M.J. EDWARD, Porphyry and the Intelligible Triad, "The Journal of Hellenic Studies", 1990, pp. 14-25; D. O'MEARA, La question de tetre etdu nonetre des objets mathématiques chez Plotin et]amblique, "Revue de ThéologieetdePhilosophie", 1990, pp. 405-416. Sulla polemica porfiriana nei confronti del Cristianesimo, cfr.: A. HARNACK, Greek and Christian Piety at the end of the Third Century, "Hibbert}ournal", 1911; C. CoRBIÈRE, Le Christianisme et la fin de la philosophie antique, Paris 1921; P. DE LABRIOLLE, Porphyre et le Christianisme, "Rev. d'Hist. de la Philosophie", 1929; A. BRÉMOND, Notes et documents sur la religion néo-platonicienne, "Rech. de Sciences Relig.", 1933; P. DE LABRIOLLE, La réaction pai"enne, Paris 1934; F. ALTHEIM, Spiitantike und Christentum, Ti.ibingen 1951; A. BENOIT, Le 'Contra Christianos' de Porphyre: où en est la collecte des fragments?, in Paganisme, ]udai"sme, Christianisme [... ]. Mélanges M. Simon, Paris 1978; C. EvANGELIOU, Porphyry's
Criticism of Christianity and the Problem of Augustine's Platonism, "Dionysius", 1989, pp. 51-70; L. }ERPHAGNON, Les sous-entendus antichrétiens de la Vita Platini ou l'évangilede Plotin selon Porphyre, "Museum Helveticum", 1990, pp. 41-52. Sulle edizioni degli scritti di Plotino, sulla raccolta degli appunti presi alle sue lezioni e sui commenti al suo insegnamento da parte di Eustachio e di Amelio, cfr. sopra i ci t ati studi di P. HENRY. 2.Amelio I frammenti di Amelio si vedano raccolti a cura di A.N. ZouMPOS,
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Athinai 1956 (anche A.N. ZouMPOS, Amelios von Eretrien, sein Leben
und seine Philosophie, Athinai 1956). Su Amelio: FREUDENTHAL, inR.E. PAULY-WrssowA; H. UsENER, in "Jenaer Literaturzeit.", 1875 (e in Kleine Schrift, l, p. 367); M. MASSAGLI, Amelio neoplatonico e la metafisica del Nous, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1982, pp. 225-243; L. TARÀN, Amelius-Amerius: Porphyry, "Vita Platini" 7 and Eunapius "Vitae Sophistarum" 4.2, "AmericanJournal of Philology", 1984, pp. 476-479; L. BRISSON, Amélius: sa vie, son oeuvre, sa doctrine, sonstyle, inANRW, ci t., II, 36.2, 1987, pp. 793-860; K. CoRRIGAN, Amelius, Plotinus and Porphyry on Being, Intellect and the One, inANRW, cit., II, 36.2, 1987, pp. 975-993; L. BRISSON, Amélius, in Dictionnaire des Philosophes Antiques, l, a cura di R. GouLET, pref. di P. HADOT, Paris 1989.
2. Giamblico e la sua scuola (la scuola platonica di Siria e di Pergamo) a. "Generalia"
Sul "dopo" Plotino e i vari aspetti del "platonismo", cfr. sopra (bibliografia sul "neoplatonismo" e su Plotino). Di contro al tradizionale modo di considerare il cosiddetto "neoplatonismo" tutto in blocco da Plotino (III sec. d.C.) a Proclo (IV sec. d.C.) - includendovi in una sola linea il "neo_platonismo" di Porfirio, di Giamblico, di Sopatro (la scuola platonica di Siria e quella di Pergamo) e, infine, le scuole platoniche di Alessandria (da Ipazia a T eosebio) e di A tene (da Plutarco di Atene a Domnino a Proclo e alla sua scuola) -la critica propone di vedere le profonde differenze tra l'uno e l'altro "platonismo", sia dal punto di vista geografico-culturale, sia dal punto di vista cronologico, in problematiche diverse, in incontri scontri, risultanti diverse, nella mediazione e nella polemica con le correnti cristiane. Tanto che è stato detto (W.K.C. GuTHRIE- F. ADORNO, La filosofia greca, in Introduzione allo studio della cultura classica, Milano 197 3, p. 38) che non si può più distinguere nettamente due "filosofie" - la "greco-latina" e la "cristiana"- ma si deve parlare di una "nuova età", di una "nuova cultura", da cui per vie diverse si verrà delineando la "cultura" medioevale (da Boezio in poi). Sugli interessi magico-teurgici e cultuali della scuola di Pergamo e di Siria in generale, cfr.: J. BIDEZ, La liturgie des mystères chez !es néoplatoniciens, "Bull. class. d. Lettres de l' Académie royale de Belgique", 1918;]. BIDEZ, Notes sur !es mystères néoplatoniciens, "Revue Beige de Philologie et d'Histoire", 1928; S. ErTREM, La théurgie chez !es néoplatoniciens et dans !es papyri magiques, "Symbolae Osloenses", 1942; E.R. Donns, Theurgy and its Relation to Neoplatonism, "Journal of Roman Studies", 194 7 (trad. it. in appendice al Greci e l'irrazionale, Firenze 1959); P. Bo-
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YANCÉ, Théurgie et télestique néoptMonicienne, "Revue de l'Histoire des Religions", 1955. Si veda inoltre: R. WrTT, Platonism after Plotinus, "Diotima", 1976, pp. 87-97; C. G. STEEL, The changingSelf. A Study on
the Soul in Later Neoplatonism: Iamblicus, Damascius and Priscianus, Brussel1978; H.D. SAFFREY, Quelques aspects de la spiritualité des philosophes néoplatoniciens. De ]amblique à Proclus et Damascius, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1984, pp. 169-182; H.D. SAFFREY, Neoplatonist Spirituality. II: From ]amblicus to Proclus and Damascius, in AA.VV., Classica! Mediterranean Spirituality: Egyptian, Greek, Roman, a cura di A. H. ARMSTRONG, London 1986; A. LINGUITI, Giamblico, Proclo e Damascio sul principio anteriore all'uno, "Elenchos", 1988, pp. 95-106.
b. Giamblico Per i cinque libri superstiti della Silloge delle dottrine pitagoriche di Giamblico, si veda: - I libro, De vita pythagorica, a cura di: A. NAUCK, Petersburg 1884, anast. Amsterdam 1965; L. DEUBNER, Leipzig 1937, nuova ed. aggiornata a cura di U. KLEIN, Stuttgart 1975; M. VON ALBRECHT, Ziirich 1963, con testo greco e trad. tedesca (trad. i t. parziale a cura di G. PESENTI, in Versi aurei, Lanciano s.d.; trad. i t. integrale, Vita pitagorica, a cura di L. MoNTONERI, Roma-Bari 1973);- II libro, Protrepticus o Adhortatio ad Philosophiam, a cura di: E. PrsTELLI, Leipzig 1888 (nel cap. XX vi sono estratti di un anonimo andati sotto il nome di l'Anonimo di Giamblico: si veda in M. UNTERSTEINER, Sofisti. Test. e framm. Trad. e Comm., vol. III, Firenze 1954, 1967 2 );- III libro, De communi mathematicascientia, a cura di N. FESTA, Leipzig 1891 (nuova ed. a cura di U. KLEIN, Stuttgart 1975);- IV libro, In Nichomachi arithmeticam introductionem liber, a cura di E. PrsTELLI, Leipzig 1891 (nuova ed. a cura di U. KLEIN, Suttgart 1975);- V libro, Theologoumena arithmeticae, a cura di V. DE FALCO, Leipzig 1922 (nuova ed. a cura di U. KLEIN, Stuttgart 1975). Per il De Mysteriis, di cui si discute l'autenticità, cfr.: C. RASCHE, De ]amblichi libri qui inscribitur de Mysteriis auctore, Miinster 1911 (vedi anche: E.R. Dooos, Proclus, the ElementsofTheol., l, p. xrx, Oxford 1933; A.R. SonANO, La tradizione manoscritta del trattato "De Mysteriis" di Giamblico, "Giornale italiano di Filologia", 1952); l'ed. a cura di G. PARTHEY, Berlin 1857 (ora! Misteri Egiziani, a cura gi A. R. SonANO, Milano 1984); l'ed. con trad. frane. a fronte a cura di E. DES PLACES, Paris 1966 (coli. Budé); cfr. anche De mysteriis Aegyptiorum. Sammelband
neupl. Schriften iibersehen u. hrs. von mars. Ficinus (Unveriind. Nachdr. Venedig 1503), Frankfurta.M. 1972. Il Trattato dell'anima si veda tradotto in francese a commentato da A.J. FESTUGIÈRE, inLaRévélationd'HermèsTrismégiste, III, Paris 1953. Per il Commento di Giamblico all'Alcibiade di Platone, cfr.: R.
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AsMus, Der Alkibiades-Kommentar des ]amblichos als Hauptquelle fiir Kaiser ]ulian, "Sitz. Heidelb. Ak.", Philos.-hist. Kl., 1913; ]amblichi Chalcidensis in Platonis dialogos commentariorum fragmenta, con trad. e comm. acuradiJ.M. DILLON, Leiden 1973. Si cfr. inoltre: B.D. LARSEN, ]amblique de Chalcis, exégète et philosophe (in appendice: Testimonia et fragmenta exegetica), 2 voli., Aarhus 1972; D.J. O'MEARA, New Fragments /rom Iamblicus' Collection of Pythagorean Doctrines, "The American J ournal of Philology", 19 81, pp. 26-40. Per una bibliografia relativa a Giamblico cfr.: B.D. LARSEN, Jamblique de Chalcis, exégète et philosophe, Aarhus 1972, pp. 447-506; J.M. DILLON, ]amblichi Chalcidiensis in Platonis dialogos Commentariorum fragmenta ("PhilosophiaAntiqua", 23), Leiden 1973, pp. 404 sgg. Oltre alle opere d'insieme sul neoplatonismo sopra citate e agli studi di C. RASCHE, cit., ediA.J. FESTUGIÈRE, cit., su Giamblico cfr.: E. RoHDE, Die Quellen d. ]amblichos in s. Biograf. d. Pythag., "Rheinisches Museum", 1871-1872; G. BERTEMANN, De ]amblichi Vita Pythagorica fontibus, Konigsb,erg 1913; J. BmEZ, Le philosophe ]amblique et san école, "Revue des Etudes Grecques", 1919; K. PRAECHTER, Zur theoretische Begriindung der Theurgie im Neuplaton., "Archiv fiir Religionswiss. ", 1927; R. RoLLER, Unters. zum Anonymus des ]amblichos, Gottingen 1931; M. UNTERSTEINER, Un nuovo frammento dell'Anonymus ]amblichi. Identificazione dell'Anonimo con Ippia, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", Classe Lettere, LXXVII, 1943-1944; M. SrCHERL, Bericht iiber den Stand der kritischen Ausgabe von ]amblichos "De Mysteriis", "Arch. Geschich. Philos.", 1960; T. 0RLANDI, Il primo Aristotele nel "De communi mathematica scientia" di ]amblico, "Rivista critica di Storia della Filosofia", 1963. Cfr. anche: l'articolo su Giamblico di G. MAue W. KROLL, in R. E. PAULY-WrssowA; F.W. CREMER, Diechaldà'ischen Orakel und ]amblich De mysteriis, Meisenheim a.Gl. 1969;J.P. DvMONT,]amblique, lecteurdes sophistes. Problèmedu Protreptique, in Le Néoplatonisme, ci t., 1971, pp. 203-214;J.M. DILLON, Iamblichusand the Origin of the Doctrine of Henads, "Phronesis", 1972, pp. 102-106; B.D. LARSEN, ]amblique de Chalcis, exégète et philosophe. Appendice: Testimonia etfragmenta exegetica, 2 voli., Aarhus 1972; H.J. BLUMENTHAL, Did Iamblichus write a Commentary on the "De Anima"?, "Hermes", 1974, pp. 540-556; D.J. ALLAN, A Passage /rom Iamblicus in Praise of the Contemplative Life, "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1975, pp. 246-268; A.H. CHROUST, Some Additional Fragments of Aristotle's 'On
Philosophy' in Iamblichus' 'Protrepticus' and Iamblichus' 'De communi mathematica scientia', "Tijdschrift voor Filosofie", 1975, pp. 89-94; B. D. LARSEN, La piace de ]amblique dans la philosophie tardive, in De ]amblique à Proclus, a cura di AA.VV. ("Entretiens sur l'Antiquité Classique", XXI), Vandoeuvres-Genève 1975, pp. 1-34; PH. HoFFMANN,]am-
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blique exégète dt! Pythagoricien Archytas: trois originalités d'une doctrine du temps, "Les Etudes Philosophiques", 1980, pp. 307-323; M. T. ANTONELLI, La matematica delle idee e il problema della relazione in Giamblico, "Giornale di Metafisica", 1983, pp. 391-408; J.F. FINAMORE, Iamblichus and the Theory of the Vehicle of the Soul, Decotur (Ga.) 1985; A.H. ARMSTRONG, Iamblichus and Egypt, "Les Études Philosophiques", 1987, pp. 179-188; L MuELLER, Iamblichus and Proclus' Euclid Commentary, "Hermes", 1987, pp. 334-348; J.F. FINAMORE, 0eoì Serov: An Iamblichean Doctrine in ]ulian's 'Against the Galilaeans', "Transactions of the American Philological Association" (Atlanta, Ga.), 1988; J. VANDERSPOEL, Themistios and the Origin of Iamblichus, "Hermes", 1988, pp. 125-128; D.P. TAORMINA, Il Lessico delle 'potenze dell'anima' in Giamblico, Firenze 1990. c. Sopatro di Apamea e Dessippo (scuola di Siria) Su Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico, fondatore della scuola di Siria e autore di un'opera intitolata Della provvidenza e di chi ha fortuna o sfortuna oltre il merito, citata nella Suda (testimonianze e frammenti di altre opere si vedano in Eunapio, Vitae Soph., V.1-5 e VI.l-3; in Stobeo, IV, 212; Fozio, Bibl., 161), cfr.: F. FocKE, Quaestiones plutarcheae, Miinster 1911; F. WILHELM, Der Regentenspiegel des Sopatros, "Rheinisches Museum", 1918; O. SEECK, voce in R.E. PAULY-WISSOWA. I frammenti del Commento di Dessippo alle Categorie di Aristotele (Aporie e soluzioni sulle Categorie aristoteliche) si vedano nell'edizione a cura di A. Busso nei Commentaria in Arist. graeca, IV, 2, Berlin 1888 (già a cura di L. SPENGEL, Miinchen 1859); Dexippus. On Aristotle's Categories, con trad., a cura diJ. DILLON, London 1990. Oltre a KROLL, voce in R.E. PAULY-WissowA, si veda: A. BussE, Der Historiker und der Philosoph Dexippos (sulla Cronaca di Dessippo), "Hermes", 1888; P. HADOT, L'harmonie des Philosophies de Plotin et d'Aristate selon Porphyre dans le commentaire de Dexippe sur !es Catégories, in Platino e il Neoplatonismo in Oriente e in Occidente, Atti del Convegno Internazionale (Roma 5-9 ott. 1970) (Accademia Nazionale dei Lincei), Roma 1974, pp. 31-47; P. AUBENQUE, Plotin et Dexippe, exégète des catégories d'Aristate, in Aristotelica, Mélanges offerts à M. DE CoRTE, a cura di A. MoTTE e CH. RuTTEN, Bruxelles 1985, pp. 7-40. Sulla storiografia e Dessippo cfr. M. MoGGI, Storiografi greci minori, voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987.
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d. Edesio. Eustazio. Eusebio di Mindo. Massimo di Efeso. Crisanzio. Crispo. Eunapio (scuola di Pergamo) Su Edesio, fondatore della scuola di Pergamo, di cui nulla è giunto, cfr.J. FREUDENTHAL, in R. E. PAULY-WrssowA. Su Eustazio (si conserva la lettera con cui Giuliano Imperatore invitava Eustazio alla corte: Ep., 70), cfr. W. ScHMIDT, in R. E. PAULY-WrssowA; cfr. anche Origene, Eustazio, Gregorio di N issa, La Maga di Endor, a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1989. Sembrano doversi attribuire a Eusebio di Mindo, continuatore di Edesio a Pergamo, alcune sentenze morali riportate da Stobeo nel Florilegio (sudi lui vediKROLL, in R. E. PAULY-WISSOWA). Di Massimo di Efeso, di Crisanzio, di Crispo non abbiamo che scarse notizie: cfr. allevociinR.E. PAULY-WrssowA. Le Vite dei Sofisti di Eunapio, la prima storia della filosofia (e da cui si ricavano le maggiori notizie sui neoplatonici da Porfirio in poi), oltre che nell'ed. a cura di F. BorssANADE (Didot), Paris 1849, si vedano nell'ed. a cura di G. GIANGRANDE, Eunapius Vitae Sophistarum, Roma 1956. I frammenti della cronaca di Eunapio, continuazione di quella di Dessippo, si vedano in MuLLER, Fragm. Hist. graec., IV (anche in Historici graeci minores, I, acuradelDINDORF). SuEunapiovedi: G. NENCI, Eunapio 'VitaeSophistarum' 2, 2, 6-8ela periodizzazionedella tMaoq>oç ia'topia, "Annali della Scuola Normale Superiore di pisa", s. III, 3, I, 1973, pp. 95-102; R. GouLET, Eunapeet ses devanciers: A propos de "Vitae Sophistarum ", 5. 4-179, "Greek, Rom an and Byzantine Studies", 1979, pp. 161-172; A. BRANCACCI, Seconde sophistique, historiogra[Jhie et philosophie (Philostrate, Eunape, Synesios), in Le plaisir de parler. Etudes de sophistique comparée, a cura di B. CASSIN (Colloque de Cérisy, 7-17 sett. 1984), Paris 1986, pp. 87-110; R. PENELLA, Eunapius, 'Vitae Phil. ', XXIII 3. 15, "Rheinisches Museum Philol. ", 1986, p. 363;}. HAN, Quellen und Konzeption Eunaps in Prooemium der "Vitae Sophistarum ", "Hermes", 1990, pp. 4 76-497.
e. TeodorodiAsine Per i commenti di Teodoro di Asine ai dialoghi di Platone, di cui alcuni passi sono conservati da Proclo nei suoi commenti alla Repubblica e al Timeo e nella Teologia platonica, da Ammonio nel commento agli Analitici di Aristotele e da Olimpiodoro nel commento al Pedone di Platone, cfr. Theodoros von Asine. Sammlung der Testimonien u. Kommentar, a cura di
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W. DEUSE, Wiesbaden 1973. Cfr. anche: E. ZELLER, cit., III, 2, Leipzig 1903 4 ; K. PRAECHTER, in R.E. PAULY-WrssowA; H.D. SAFFREY, Le "Philosophe de Rhodes" est-il Théodore d'Asiné? Sur un point obscur de l'histoire de l'exégèse néoplatonicienne du "Parménide ", in Mémorial A. -J. Festugière. Antiquité pai'enne et chrétienne (25 scritti), a cura di E. LucCHESieH.D. SAFFREY, Genève 1984,pp. 65-76.
3, Origene (cristiano e neoplatonico) e la corrente origeniana ad Alessandria e Cesarea. Metodio di Olimpo
a. Origene Oltre alle Opere di Origene in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 11-14, che riproduce l'ed. a cura di C. DELA RuE, Paris 1733-1759, per il testo delle OperediOrigenesi veda l'ed. acuradiC.H.E. LoMMATZSCH, in25 voli., Berlin 1831-1848, e l'ed. in corso a cura di P. KoETSCHAU-E. KLOSTERMANN-E. PREUSCHEN-W.A. BAHRENs-M. RANER, in "Griechische Christl. Schriftsteller", Berlin-Leipzig 1899 sgg. In traduzione italiana: Origene- Opere, 2 voli. (l. I Principi, a cura di M. SIMONETTI; II. Contro Celso, a cura di A. CoLONNA), Torino 1968 (l) e 1989 (Il). Singolarmente si veda:- De Principiis: De principiis, a cura di G.W. BuTTERWORTH, London 1936 (con trad. inglese); I principi. Contra Celsum e altri scritti filosofici, intr., trad. e note a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1975; Traité des principes, a cura di H. CROUZEL e M. SIMONETTI, Paris 1984 (sulla storia del testo e delle versioni del De Principiis: G. BARDY, Recherches sur l'histoire du texte et des versions du "De principiis" d 'Origène, Paris 1925; H. KARPP, Textkritische Bemerkungen zum 4. Buch des Origenes 'Deprincipiis', "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1966, pp. 165-169).- Contra Celsum: in trad. inglese, con intr. e note, a cura di H. CHADWICK, Cambridge 1953, New York 1965; ContreCelse, intr., testo critico, trad. e note a cura di M. BoRRET, Paris 1969; Contro Celso, a cura di A. CoLONNA, Torino 1971 (trad. it.); I Principi. Contra Celsum e altri scritti filosofici, scelta, intr. e note a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1975; ContreCelse, intr., testo critico, trad. enoteacuradiM. BoRRET (il vol. V contiene: introduzione generale, tavole, indice) ("Sources Chrétiennes", 227), Paris 1976. Vedi anche estratti del I e del II libro del Contro Celso ricavati dal Papiro 887 4 7 del Museo del Cairo, a cura diJ. ScHÉRER, Paris 1956.- Su testi a carattere religioso cristiano cfr.: Colloquio con Eraclide e Commento all'Epistola ai romani, a cura diJ. ScHÉRER, Il Cairo 1949 e 1955; Colloquio con Eraclide, a cura diJ. ScHÉRER, Paris 1960 (trad. frane. e testo).- Omelie sulla Genesi, a cura di H. DE LuBAc e L. DouTRELEAU, Paris 1945 (con trad. frane. e testo greco) (cfr. anche
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Omelie sulla Genesi e sull'Esodo, intr., trad. e note di G. GENTILI, Alba 1976).- Omelie sull'Esodo, a cura di P. FoRTIER, Paris 1947 (con trad. frane.).- Omelie sui numeri, a cura di A. MÉHAT, Paris 1951 (con trad. frane.). -Omelie sul Cantico dei Cantici, a cura di O. RoussEAU, Paris 1954 (con trad. frane.). -Omelie su Giosuè, a cura di A. }AUBERT, Paris 1960 (con trad. frane.).- Omelie su San Luca, a cura di H. CROUZEL-F. FouRNIER-P. PÉRICHON, Paris 1962 (con trad. frane.). -Omelie sui Salmi, ed. critica e trad. a cura di E. PRINZIVALLI, Firenze 1991.- Commentaire sursaint Jean, testo greco, intr., trad. e note di C. BLANC, Paris 1966. -Commento al Cantico dei cantici, trad., intr. e note a cura di M. SIMoNETTI, Roma 1982 2 • -Commento al Vangelo di Giovanni, a cura di E. CoRSINI, Torino 1968.- Apologia del cristianesimo, intr., trad. e note di L. DATTRINO, Padova 1987. - Origene, Eustazio, Gregorio di Nissa, La MagadiEndor, a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1989. Per una bibliografia su Origene si veda: H. CROUZEL, Bibliographie critique d'Origène ("lnstrumenta Patristica", 8), Steenbrugs 1971; R. FARINA, Bibliografia origeniana, 1960-1970, Torino 1971; H. CROUZEL, Chronique origénienne, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1974, pp. 139-145; H. CROUZEL, Chronique origénienne, "Bulletin de Théologie Ancienne et Médiévale", 1976, pp. 128-146, e 1977, pp. 58-64; H. CROUZEL, Chronique origénienne, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1978-1979, pp. 140-154, e 1979-1980, pp. 109-126; H. CROUZEL e E. }UNOD, Chronique origénienne, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1980-1981,pp.115-122,e1981-1982,pp.132-146;H.CROUZEL, Chronique origénienne, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1982-1983, pp. 216-227, e 1983-1984, pp. 115-124; H. CROUZEL e E. BouLARAND, Chronique origénienne, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1985,pp.145-152. Sul testo del De Principiis cfr. sopra, alla voce. Cfr. anche M. AuBINEAU, Recherches patristiques. Enquéte sur des manuscrits. Textes inédits. Études, Amsterdam 197 4. Sul pensiero di Origene nel suo insieme, oltre agli articoli di G. BARDY, Origène, e di G. FRITZ, Origénisme, in Dictionnaire de Théologie Catholique, sono da vedere: E.R. REDEPENNING, Origenes. Eine Darstellung seines Lebens und seiner Lehre, Bonn 1841-1846, Aalen 1966; E. FREPPEL, Origène, Paris 1868; J. DENIS, De la philosophie d 'Origène, Paris 1884; F. PRAT, Origène,Paris 1907; E. DEFAYE, Origène. Sa vie, sonoeuvre, sa pensée, Paris 1923-1928; G. Rossi, Saggio sulla metafisica di Grigene, Milano 1929; G. BARDY, Esquisse de la pensée d'Origène, Paris 1931; R. CAmou, Introduction au système d'Origène, Paris 19 32; J. DANIÉLOU, Origène, Paris 1948; H. CROUZEL, Origène et la philosophie, Paris 1962;
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C. TRESMONTANT, Origenes de la filosofia cristiana, trad. spagnola di F. REVILLA, Andorra 1963; A. BENITO YDuRA.N, El humanismo cristiano de Qrigenes, "Augustinus", 1971, pp. 123-148; Origeniana, I Colloquio internazionale di studi origeniani (Montserrat sett. 1973), a cura di H. CROUZEL-G. LoMIENTo-J. Rms-CAMP, Bari 1975 (con scritti di G. DoRJVAL, A. LE BouLLUEC, M. ALEXANDRE, A. GomN,J.M. RisT, D.L.,BALAS, E. ELORDUY, V.L. W ALTER); C. HANSON,Actualitéd'Origène, "Etudes Théologiques et Religieuses", 1977, pp. 185-195; P. NAUTIN, Origène. Sa vie et san oeuvre ("Christianisme Antique", 1), Paris 1977; T. DE ANDRÉS HERNANSANZ, Aspectos biogrdficos, metodol6gicos y doctrinales de Origenes como filosofo, "Pensamiento", 1978, pp. 409-436; E. DE FAYE, Origen and his Work, trad. di F. RoHWELL, Folcroft (Pa.) 1978; A. PELLEGRINI, Il pensiero filosofico, teologico, esegetico di Origene di fronte alle credenze religiose e filosofiche di quello greco pagano e all'ortodossia della Chiesa, Roma 1979; Origeniana Secunda, Secondo colloquio internazionale di studi origeniani (Bari 20-23 sett. 1977), testi riuniti da H. CRouZEL e A. QuACQUARELLI, Roma 1980; U. BERNER, Origenes, Darmstadt 1981; Origeniana Tertia, Terzo colloquio internazionale di studi origeniani (Manchester 7-11 sett. 1981), a cura di R. HANSON e H. CROUZEL, Roma 1985; A. SICLARI, L 'unità dell'amore nel "Commento al Cantico dei Cantici" di Origene, in Sapienza antica. Studi in onore di Domenico Pesce, scritti di V.E. ALFIERI e altri, Milano 1985, pp. 269-296; A. TRIPOLITIS, Qrigen: a Crit. Reading, New York-Bern-Frankfurt a.M. 1985; H. CRouZEL, Origène, Paris 1985 (trad~ it., Roma 1986; trad. ingl., New York 1989);]. DANIÉLOU, Pères de l'Egliseau IJJe siècle: Origène, Paris 1986; A. MoNACI CASTAGNO, Origene predicatore e il suo pubblico, Milano 1987; M. SIMONETTI, Origene, voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, ci t., 1987; Origeniana Quarta, Quarto Congresso Internazionale su Origene (lnnsbruck 2-6 sett. 1985), a cura di L. Lms, Innsbruck 1987; Origen of Alexandria. His W orld an d his Legacy, a cura di C. KANNENGIESSER e W .L. PETERSEN, N otre Dame (Ind.) 1988. Per una ricostruzione dell'ambiente in cui venne operando Origene merita vedere i seguenti studi: K.J. NEWMAN, Der romische Staat und die allgemeine Kirche bis auf Diokletian, Leipzig 1890; W. FAIRWEATHER, Origen and the Greek Patristic Philosophy, London 1901;]. LEBRETON, Le monde pai"en et la conquete chrétienne. La philosophie religieuse du stoicisme, "Etudes" (Paris), 1925; R. CAmou, Lajeunessed'Origène. Histoire de l'école d'Alexandrie au début du Je siècle, Paris 1936; G. BARDY, Aux origines de l'école d'Alexandrie, "Recherches de Sciences Religieuses", 1937; P. DE LABRIOLLE, La réaction pai"enne, Paris 19402 ; R.P.C. HANSON, Origen's Doctrine of Tradition, London 19542 ; M. HoRNSCHUCH, Das Leben des Origenes und die Entstehung der alexandrinischen Schule, "Zeitschrift fiir Kirchengeschichte", 1960; H. CROUZEL, Recherches sur
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Origène et son influence, "Bull. Litt. Ecclés.", 1961, pp. 105-113; R.A. NoRRIS, God and World in Early Christian Theology [A Study in Justin Martyr, Irenaeus, Tertullian and Origen], London 1967; A. KNAUBER, Das Anliegen der Schule des Origenes zu Ciisarea, "Miinchener Theologische Zeitschrift", 1968, pp. 182-203; W. THEILER, Augustin und Origenes, "Augustinus", 1968, pp. 423-432; Grégoire le Thaumaturge. Remerciementà Origène. Suivi de la Lettred'Origène4 Grégoire, intr., trad. e note a cura di H. CROUZEL, Paris 1969; P. MARINO, Ley, autoritad e imperio en Origenes, "Hispania Antiqua", 1973, pp. 69-126; Alexandrian Christianity. Se l. Translation of Clement and Origen with Introductions and Notes, a cura di E.L. OuLTON e H. CHADWICK, Philadelphia 1977;J.W. TRIGG, Origen. The Bible and Philosophy in the Third-Century Church, Atlanta (Ga.) 1983; G. SFAMENIGASPARRO, Origene. Studidiantropologiaedistoria della tradizione, Roma 1984; J.M. DrLLON, The Knowledge of God in Origen, in Knowledge of God in the Graeco-Roman World, a cura di R. VANDENBROEK-T. BAARDA-J. MANSFELD,Leiden 1988,pp. 219-228. Sul platonismo e su aspetti dello stoicismo origeniani, oltre allo studio di H. KocH, Pro noia und Paideusis. Studien iiber Origenes undsein Verhaltnis zum Platonismus, Leipzig 1932, e sui rapporti di Origene con la filosofia classica, si veda: J. LEBRETON, Le mondç pai"en et la conquete chrétienne. La philosophie religieuse du stoicisme, "Etudes" (Paris), 1925; G. BARDY, Origèneet l'aristotélisme, "Mélanges Glotz" (Paris), 1932;~. CAmou, Dictionnaires antiques dans l'oeuvre d'Origène, "Revue des Etudes Grecques", 1932; Q. CATAUDELLA, Tracce della sofistica nella polemica celso-origeniana, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", 1937; H. CHADWICK, Origen, Celsus and the Stoa, "The Journal of Theological Studies", 1947; H. CROUZEL, Origène et Plotin élèves d'Ammonio Sacca, "Bull. de Litt. Ecclésiastique", 1956; K. RouMANIUK, Le Platon d'Origène. Les citations des "Lois", du "Phédon", du "Phèdre" et de la "République" dans "Contre Celse" d'Origène, "Aegyptus", 1961; H. DoRRIE, Die platonische Theologie des Kelsos in ihrer Auseinandersetzung mit der christlichen Theologie. Auf Grund von Origenes contra Celsum, Gottingen 1967; L. RoBERT, Origen and Stoic Logic, "Transactions and Proceedings of the American Philological Association", 1970, pp. 4 3 3-444; R. CANTALAMESSA, Origene e Filone. A proposito di 'Contra Celsum' IV, 19, "Aevum", 1974, pp. 132-133; G. QursPEL, Origen and the Valentinian Gnosis, "Vigiliae Christianae", 1974, pp. 29-42; A. LE BouLLUEC, De la croissance selon les stoiciens à la résurrection selon Oxigène, "Revue des Etudes grecques, 1975, pp. 143-155; H. CROUZEL, Le thème platonicien du "véhicule de l'ame" chez Origène, "Didaskalica", 1977, pp. 225-238; M.B. VON STRITZKY, Die Bedeutung der Phaidrosinterpretation fiirdie Apokatastasislehre des Origenes, "Vigiliae Christianae", 1977, pp. 282-297; C. ScHAUBLIN, Origenes undstoische Logik, "Museum Helveticum", 1979, pp. 166-167; D. LETOCHA, L'affrontement entre le christianisme et le paganisme dans le 'Contre Celse' d'Origène, "Dialogue",
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ture Ecclésiastique", 1967, pp. 277-279; H. CROUZEL, Une nouvelleétude de l'anthropologie d'Origène, "Bulletin de Littérature,Ecclésiastique", 1967, pp. 273-277;}. DuPurs, "L'espritde l'homme". Etude sur l'anthropologie religieuse d 'Origène, Bruges-Paris 196 7; H .J. HoRN, Ignis aefernus. Une interprétation morale du feu éternel chez Origène, "Revue des Etudes Grecques", 1969, pp. 76-88;}. Rrus CAMPS, Comunicabilidadde la naturaleza de Dios segun Origenes, "Orientalia Christiana Periodica", 1970, pp. 201-247;]. Rrus CAMPS, El dinamismo trinitario en la divinizaci6n de los seres racionales segun Orfgenes, Roma 1970; G. LoMIENTO, Il dialogo di Origene con Eraclide ed i vescovi suoi colleghi sul Padre, il Figlio e l'anima, Bari 1971; M. MESSIER, Les rapports avec autrui dans le "Contre Celse" d'Origène, "Mélanges de Science Religieuse", 1971, pp. 189-196; L. BARGELIOTES, Origen's Dual Doctrine of God and Logos, "Theologia", 1972, pp. 202-212; M. Rurz]uRADO, Leconceptde 'Monde' chez Origène, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1974, pp. 3-24; H. CROUZEL, Qu 'a voulu faire Origène en composant le 'Traité des Principes'?, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1975, pp. 161-186, 241-260; E. FRuCHTEL, Zum Todesgedanken bei Origenes, in Forma futuri, in onore di M. PELLEGRINO, Torino 1975, pp. 993-1002; R.M. GRANT, Eusebiusandhis LivesofOrigen, inForma futuri, cit., 1975, pp. 635-649; A.L. TowNSLEY, Origen 's 6 9Eoç, Anaximander's 't'Ò 9Eiov anda Series of Worlds, "OrientaHa Christiana Periodica", 1975, pp. 140-149; E. FRUCHTEL, 'Apxit und das erste Buch des ]ohanneskommentars des Origenes, in Studia Patristica, XIV, 1976, pp. 122-144; P. NAUTIN, Notesur Qrigène, "Hom, Luc" IV, 4 (substantia et natura = oùaia), "Revue des Etudes Augustiniennes", 1976, pp. 78-81; J. Rrus CAMPS, La suerte fina! de la naturaleza corporea segun el "Peri Archon" de Orfgenes. Formulaci6n fluctuante entre el dato reve!ado y las presupuestos filos6ficos de un sistema, in Studia Patristica, XIV, 1976, pp. 167-179; A. GurnA, Un nuovo testo di Origene, "Atene eRoma", 1978, pp. 188-190; H. CROUZEL, Mart et immortalité selo n Origène, "Bulletin dè Littérature Ecclésiastique", 1978-1979, pp. 19-38, 81-96, 181-196; A. EnwARDS, Vida y muerte. La unidad dellenguaje total, segun Origenes, "Stromata", 1979, pp. 147-166; G. SFAMENI GASPARRO, Doppia creazione e peccato di Adamo nel 'Peri Archon' di Origene. Fondamenti biblici e presupposti platonici dell'esegesi origeniana, in La "doppia creazione" dell'uomo negli Alessandrini, nei Cappadocii e nella gnosi, a cura di U. BrANCHI, Roma 1979, pp. 43-82; Arché e Te las. L 'antropologia di Origene e di Gregorio di Nissa. Analisi storico-religiosa, Atti del Colloquio (Milano 17-19 maggio 1979), a cura di U. BrANCHI e H. CROUZEL, Milano 1981; P. Cox, Origen and the Bestia! Soul. A Poetics of Nature, "Vigiliae Christianae", 1982, pp. 115-140; E. FRUCHTEL, Origenes interpres aut dogmatist?, in Studia Patristica, XVII, a cura di E.A. LrvrNGSTONE, Oxford 1982, pp. 879-896; C.P. GEYER, Zu einigen theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie bei Origenes, "Franziskanische Studien",
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d'Origène, Paris 1989; L. LIEs, Origenes- auf dem Weg nach Chalcedon.
Plausibilitiit des Christentums, in Origenes' Sinngestalten Metaphysik in der Vielfalt menschlichen Fragens, Festschrift fiir Emerich Coreth, a cura di O. MucK, Innsbruck-Wien 1989, pp. 91-103; G. WATSON,SoulsandBodies in Origen's 'Peri Archon', "Irish Theological Quarterly", 1989, pp. 173-192; L. H. FELDMAN, Origen's 'Contra Celsum' and Josephus' 'Contra Apionem '. The Issue of Jewish Origins, "Vigiliae Christianae", 1990, pp. 105-135; T. KATO, La voix chez Origène et Saint Augustin, "Augustiniana", 1990,pp.245-258. Sul problema della libertà e della grazia cfr.: G. VINARD, Étude historique de la doctrine de la liberté humaine chez Origène, Angers 1911; G. BARDY, Les idéesmoralesd'Origène, "Mél. Se. religieuses", 1956; B. DREWERY, Origen and the Doctrine of Grace, London 1960; P. NEMESHEGY, La morale d'Origène, "Revue d' Ascétique et de Mystique", 1961; J. STELZENBERGER, Syneidesis bei Origenes, Paderborn 1963. Si veda infine A. GuiLLAUMONT, Les "Képhalaia gnostica" d'Evagre le Pontique et l'histoire de l'origénisme chez !es Grecs et !es Syriens, Paris 1963. Cfr. anche: B .D. JÀCKSON, Sources of Orig~n 's Doctrine of Freedo m, "Church History'', Chicago 1966; H. HoLZ, Uber den Begriff des Willens und der Freiheit bei Origenes, "Neue Zeitschrift fiir systematische Theologie und Religionsphilosophie", 1970, pp. 63-84.
b. I successori di Origene nella direzione del "Didascaleo" (Dionigi di Alessandria, Teognosto, Pierio, Pietro) I testi dei successori di Origene nella direzione del "Didascaleo" si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 10- Dionigi di Alessandria: vedi anche The Letters and Other Remains of Dionysius of Alexandria, a cura di M. FELTOE, Cambridge 1904;- Teognosto: in "Theologische Quartalschrift", 1902, acuradiFR. DIEKAMP;- Pierio: Neue Fragmente Pierius, a curadi C. BooR, Leipzig 1988; vol. 18;- Pietro: Analecta sacra, IV;- su Dionigi di Alessandria, Teognosto, Pierio e Pietro si vedano le relative voci in Dictionnaire de Théologie Catholique e in Enciclopedia Cattolica. Su Dionigi si veda inoltre: J. BuREL, Denys d'Alexandrie, Paris 1910; P.SH. MILLER, Studies in D. the Great of Alex., Erlangen 1933; H.G. 0PITZ, Dian. von Alex., "Caszy Lake quantulacumque" (London), 193 7. -Su Teognosto, Pietro e Pierio cfr. L. B. RADFORT, Three Teachersof Alexandria, Theognostus, Pierius and Peter, Cambridge 1908. Si veda sopra i relativi repertori. c. Discepoli di Origene (Gregorio Taumaturgo e Didimo Cieco). Panfilo
Le opere di Gregorio Taumaturgo, discepolo di Origene, si confrontino in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 10.- Il trattato Sulla passibilità ed im-
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passibilità di Dio, dedicato a Teopompo, si veda a cura di P. DE LAGARDE in Anedocta syriaca, Leipzig 18 58. - Il ringraziamento a Origene e La lettera di Origene a Gregorio, testo greco, intr., trad. e note, a cura di H. CROUzEL("Sources Chrétiennes", 148), Paris 1969. Su Gregorio Taumaurgo cfr.: C. RYSSEL, Gregorius Thaumaturgus, sein Leben und seine Schriften, Leipzig 1880; P. GoDET, Grégoire de Neo-Césarée, in Dictionnaire de Théologie Catholique; H. CROUZEL, Le "Remerciement à Origène" de St. Grégoire le Thaumaturge. So n contenu doctrinal, "Se. Ecclés.", 1964; H. CROUZEL, L'école d'Origène à Césarée. Postscriptum à une édition de Grégoire le Thaumaturge, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1970, pp. 15-27; H. CROUZEL, Faut-il voir trois personnages en Grégoire le Thaumaturge?, "Gregorianum", 1979, pp. 287-319. Per i frammenti di Didimo Cieco, vissuto tra il 313 e il378 d.C., formatosi all'interno della scuola cristiana di Alessandria, che risentl del maestro Origene, cfr. in MIGNE, Patrologia Graeca, 39; sui papiri di Tura, che contengono nuovi frammenti di Didimo (commenti all' Ecclesiaste, ai Salmi, a Giobbe), vedi: H.CH. PuECH, Les nouveaux écrits d'Origène et de Didyme découverts à Toura, "Revue d'Histoire et de Philosophies Religieuses", XXXI, 1951, pp. 293-329; L. DouTRELEAU, Que savons-nous aujourd'hui des Papyrus de Taura?, "Recherches de Science Religieuse", XLIII, 1955, pp. 161-176; A. GESCHÉ, L'dme
humaine de ]ésus dans la Christologie au IV siècle. Le témoignage du Commentaire sur !es Psaumes découvert à Taura, "Revue d'Histoire Ecclésiastique", LIV, 1959, pp. 385-425; A. GESCHÉ, La Christologie du "Commentaire sur !es Psaumes" découvert à Toura, Gembloux 1962; W.A. BIENERT, 'Allegoria' und 'Anagoge' bei Didymus dem Blinden von Alexandria, Berlin-New York 1972. Per il testo di un "Commento ai Salmi" in un papiro di Tura cfr. M. GRONEWALD, Ein neues Protagoras-Fragment, "Zeitschrift fi.ir Papyrologie und Epigraphik", II, 2, 1968, pp. 1-2, e M. GRONEWALD, Didymos der Blinde, Psalmenkommentar (Tura Papyrus), Bonn 1969; per altre 10 pagine dello stesso codice vedi in "The Bulletin of the American Society of Papyrologists", XX, 1983, pp. 59-60. Per un inventario dei papiri di Tura cfr. anche L. DouTRELEAU e L. KoENEN, Nouvel inventaire des Papyrus de Toura, "Recherches de Science Religieuse", 1967, pp. 547-564. Su Didimo il Cieco, oltre alle opere sopra citate, cfr.: G. BARDY, Didyme l'Aveugle, Paris 1910; F. ADORNO, Protagora nel IV secolo d.C. Da Platone a Didimo Cieco, in AA.VV., Protagora, Antifonte, Posido-
nio, Aristotele. Saggi su frammenti inediti e nuove testimonianze da papiri, (Accademia toscana di Scienze e Lettere 'la Colombaria', 'Studi', 83), Firenze 1986.
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Il primo libro dell'Apologia di Origene (l'unico conservatosi di sei) scritta da Panfilo (discepolo di Pierio, maestro di Eusebio di Cesarea, ammiratore di Origene, di cui riordinò e ampliò in Cesarea la biblioteca) si veda, nella traduzione latina di Rufino, in MrGNE, Patr. Graeca, vol. 17. Cfr. inoltre Bibliografia su Eusebio di Cesarea.
d. Metodio di Olimpo Le opere di Metodio, vescovo di Olimpo, avversario di Origene, si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 18 (il Convivio). Le altre opere (Sul libero arbitrio, Sulla creazione, Sulla resurrezione, frammenti del Contro Porfirio) si vedano a cura di N. BoNWETSCH, Leipzig 1917.- Il Libero arbitrio (autexousfo) si veda edito, con trad. frane., a cura di A. V AILLANT, in Patrologia Orientalis, 22, 5, Paris 1930.- Il Convivio si veda tradotto in italiano acuradiP. D BALDI, Torino 1926, e diA. ZEoLI, Firenze 1952. Su Metodio cfr.: N. BoNWETSCH, Die Theologie des Methodius von Olympus, Gottingen 1903 ;J. FARGES, Les idées morales de Méthode, Paris 1929; J. PÉPIN, Platonisme et Stoi'cisme dans le "De autexusio "de Méthode d'Olympe, in Forma futuri, Studi in onore di M. PELLEGRINO, Torino 1975, pp. 126-144; L. G. PATTERSON, De libero arbitrio and Methodius' Attackon Origen, inStudiaPatristica, XIV, Berlin 1976, pp. 160-166.
4. Il Cristianesimo tra il m e il IV secolo a. Cipriano. Arnobio. Lattanzio Oltre che in MrGNE, Patristica Latina, vol. 4 (che riproduce l'ed. del MAURINI, Paris 1726), le Opere di Cipriano si vedano nell'ed. a cura di W. HARTEL, Wien 1868-1871 (''Corpus" di Vienna, 3 voli.).- Il De catholicae ecclesiae unitate si veda a cura di E.H. BLAKENEY, London 1929; -il De habitu virginum, a cura di A.E. KEENAN, Washington 1932;- il De mortalitate, a cura di M.L. HANNAN, Washington 1933; -le Lettere, a cura di L. BAYARD (St. Cyprien. La correspondence, testo e trad. frane.), Paris 1923-1933; -l'Orazione dominicale, testo, trad., intr. e note, a cura di M. RÉVEILLAND, Paris 1964. Si veda anche S. CoLOMBO, S. Cipriano, Opuscoli (testo e trad. it.), Torino 1935. Interessanti sono l'introduzione e il commento alla trad. inglese del De opere et elemosynis di Cipriano, a cura di E. V. REBENACK, Washington 1962. Si veda inoltre la Vita Cypriani in A.A.R. BASTIAENSEN, Vite dei Santi, a cura di CHR. MoHRMANN, III (Fond. V alla), Milano 1975, pp. 4-48 (già M. PELLEGRINo, Alba 1955). In traduzione italiana: Opere, a cura di G. Toso, Torino 1980; S. CoLOMBO, Cipriano: A Donato, Torino 1935; S. CoLOMBO, Cipriano: A De-
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metriano, intr., testo, trad. it., Torino 1935; E. GALLICET, Cipriano: A Demetriano, intr., testo, trad. it., comm., Torino 1976. Su Cipriano cfr.: A. MELARDI, San Cipriano di Cartagine. Contributo all'apologetica latina del III secolo, Potenza 1901; A. VON HARNACK, Vas Leben Cypriani von Pontius, die erste christliche Biographie, Leipzig 1913; P. MoNCEAUX, Saint Cyprien éveque de Carthage, Paris 1913; A. o' ALÈS, La théologie de St. Cyprien, Paris 1922; H. KocH, Cyprianische Untersuchungen, Bonn 1926 e Cathedra Petri, Giessen 1930; E. BuoNAIUTI, Il Cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1928; R. PoscHMANN,
Ecclesia principalis: ein kritischer Beitrag zur Frage des Primats bei Cyprian, Breslau 1933; J.H. FICHTER, S. Ceci! Cyprian Defender of the Faith, St. Louis 1942; M. T. BALL, Nature and the Vocabulary of Nature in the Works of St. Cyprian, Washington 1946; G. BARBERO, Seneca e la conversione di San Cipriano, "Rivista di Studi Classici", 1962; M. RÉVEILLAND, Note pour une Pneumatologie Cyprienne, in Studia Patristica, VI, Berlin 1962. Cfr. anche: Introduzione a Opere di San Cipriano, a cura di G. Toso, Torino 1980; A.P. 0RBAN, "Gerecht" und "Gerechtigkeit" bei Cyprian von Karthago, "Archiv fiir Begriffsgeschichte", 1989, pp. 103-120. L' Adversus Nationes di Arnobio di Sicca si veda in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 5, e a cura di: REIFERSCHEID, nel "Corpus" di Vienna, 4, 1875; C. MARCHESI, Torino 1934, 195Y (''Corpus Paravianum", 62); G.E. McCRACKEN, Westminster 1949 (trad. ingl., senza testo latino); R. LAURENTI, I sette libri contro i Pagani, Torino 1962;J.M.B.B. VAN DER PuTTEN, Arnobii Adversus Nationes, III, 1-19, Leiden 1970; H. LE BONNIEC, Arnobe. Contre les Gentils (testo critico, trad., comm.), Paris 1982 sgg. Utile L. BERKOWITZ, Index Arnobianus ("Alpha-Omega", 6), Hildesheim 196 7. Su Arnobio cfr.: P. MoNCEAUX, Histoire Littéraire de l'Afrique chrétienne, III, Paris 1905; F. GABARRAU, Arnobe. San oeuvre, Paris 1921; S. CoLOMBO, Arnobio Afro e i suoi sette libri "Adversus Nationes", "Didaskaleion", 19 30; C. MARCHESI, Il pessimismo di un apologista cristiano, in Voci di Antichi, Roma 1946; E. RAPISARDA, Arnobio, Catania 1946; E.F. MICKA, The Problem of Div. Anger in Arnobius and Lactantius, Washington 1948; A.J. FESTUGIÈRE, Arnobiana, "Vigiliae Christianae", 1952, pp. 208-254; P. CpuRCELLE, Les sages de Porphyre et les 'viri novi' d'Arnobe, "Revue des Etudes Latines", 1953, pp. 257-271; F. SCHEIDWEILER, Arnobios und der Marcionitismus, "Zeitsch. deut. Wiss. Kunde alt. Kirche", 1954; G. FoRTI, Sulla pedagogia di Arnobio, "Rassegna di Scienze Filosofiche", 1962; P. CouRCELLE, Anti-Christian Arguments and Christian Platonism, /rom Arnobius to St. Ambrose,
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in The Conflict between Paganism and Christianity, a cura di A. MoMIGLIANO, Oxford 1963, pp. 151-192; The Conflict between Paganism and Christianity, a cura di A. MoMIGLIANO, Oxford 1963; M. MAZZA, Studi Arnobiani I: La dottrina dei 'viri novi' nel II libro dell"'Adversus Nationes" di Arnobio, "Helikon", 1963, pp. 111-169; P. KRAFFT, Beitriige zur Wirkungsgeschichte des iilteren Arnobius, Wiesbaden 1966; A.J. FESTUGIÈRE, La doctrine des 'viri novi' sur l'origine et le sort des ames (1940), in Hermétisme et mystique paifmne, Paris_1967, pp. 261-312; P. PETITMENGIN, La survie d'Arnobe, "Revue des Etudes Latines", 1967, pp. 168-172; R. LAURENTI, Il platonismo di Arnobio, "Studi Filosofici", 1981, pp. 3-54; B. AMATA, Problemi di antropologia arnobiana, I-II, "Salesianum", 1983, pp. 775-843 e 1984, pp. 15-80; H. LE BoNNIEC, L 'exploitation apologétique par Arnobe du "De natura deorum" de Cicéron, "Caesarodunum", 19 bis, 1984, pp. 89-101; O.P. NICHOLSON, The Date of Arnobius' 'Adversus gentes', in Studia Patristica, XV, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Berlin 1984, pp. 100-107; W. SCHMIDT, Christus als Naturphilosoph bei Arnobius, a cura di H. ERBSE e J. KuPPERS, in Studia Patristica, XV, Berlin 1984, pp. 562-583; Y.M. DuvAL, Sur la biographie et !es manuscrits d'Arnobe de Sicca: !es informations de Jérome, leur sens et leur sources possibles, "Latomus", 1986, pp. 69-99; M.I. EnwARDS, How many Zoroasters? Arnobius, 'Adversus Gentes' I. 52, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 282-289. Le Opere di Lattanzio (Lucio Cecilio Firmiano, detto Lattanzio) si vedano in MIGNE, Patrologia Latina, voll. 6-7 (cfr. anche l'ed. bipontina, 1786) e nel "Corpus" viennese, a cura di S. BRANDT e di G. LAUBMANN, Wien-Milano 1890-1903.- Il De mortibus persecutorum si cfr. nelle ed. a cura di: A. HARTL e A. KNAPPITSCH, Miinchen 1919; G.B. PESENTI, Torino 19342 (''Corpus Paravianum", 40); diJ. MoREAU, con trad. frane., Paris 1954 ("Sources Chrétiennes", 39).- In trad. italiana le Divinae Institutiones si vedano a cura di G. MAZZONI, Siena 1937 e, sempre a cura di G. MAZZONI, il De mortibus persecutorum, Siena 1930. Si veda inoltre, a cura di U. BOELLA, Divinae Institutiones- De opificio Dei - De ira Dei, testo lat. e trad. it., Firenze 1973; - De la mort des persécuteurs, I (testo critico e trad. frane.), II (commento), a cura di J. MoREAU ("Sources Chrétiennes", 39), Paris 1954; De mortibus persecutorum, testo e trad. it., Catania 1970; De dood van de vervolgers, a cura di G.J.D. AALDERS, Kampen 1988. -De ira Dei, a cura di H. KRAFT e A. WwsoK, Darmstadt 1971. - L'ouvrage du Dieu créateur, I (introd., testo crit., trad. frane.), II (commento) ("Sources Chrétiennes", 213-214), Paris 1974. Su Lattanzio, oltre all'articolo di E. AMANN, in Dictionnaire de Théologie Catholique, cfr.: P.G. FROTSCHER, Der Apologet Lactantius in seinem "V_erhiiltnis zur griech. Philosophie, Leipzig 1895; R. PicHON, Lactance. Etude sur le mouvement philosophique sous le règne de Con-
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stantin, Paris 1903; F. FESSLER, Benutzung der philosophischen Schriften Ciceros durch Lactanz, Leipzig 1913; I. SIEGERT, Die Theologie des Lactantius in ihrem Verhiiltnis zur Stoa, Bonn 1919; A. KuRFESS, Lactanz und Plato, "Philologus", 1923; M. GERHARDT, Das Leben und die Schriften des Lactantius, Erlangen-Hamburg 1924; G. MoLIGNONI, Lattanzio apologeta, "Didaskaleion", 1927; L. RossETTI, Il "De opificio Dei" di Lattanzio e le sue fonti, "Didaskaleion", 1928; R. RicHARD, Les obstacles à la liberté de conscience au IV• siècle de l'ère chrét., "Rev. Ét. Anciennes", 1940; K. WILHELMSON, Lactanz und die Kosmogonie des spiitantiken Synkretismus, Tartu 1940; G. GARILLI, Giustizia, società, Stato nel pensiero di Lattanzio, "Il circolo giuridico", n. s., 18, 1948; A. WwsoK, Lactanz und die philosophische Gnosis, Heidelberg 1960; B. STOCK, Cosmology and Rhetoric in the 'Phoenix' of Lactantius, "Classica et Mediaevalia", 1965, pp. 240-257; V. Loi, I valori etici e politici della romanità negli scritti di Lattanzio. Opposti atteggiamenti di polemica e di adesione, "Salesianum", 1963, pp. 65-132; V. Lor, Il concetto di "iustitia" e i fattori culturali dell'etica di Lattanzio, "Salesianum", 1966, pp. 583-625; V. Lor, Lattanzio nella storia del linguaggio e del pensiero teologico preniceno, Zi.irich 1970; S. CASEY, Lactantius' Reaction to Pagan Philosophy, "Classica et Mediaevalia", 1971-1980, pp. 203-219; F. WEHRLI, L. Caecilius Firmianus Lactantius uber die Geschichte des wahren Gottesglaubens, in Philomathes, a cura di R.B. PALMER e R. HAMERTON-KELLY, Dep Haag 1971, pp. 251-263; E. HECK, Iustitia civilis - iustitia naturalis. A propos du jugement de Lactance concernant les discours sur la justice dans le De re publica de Cicéron, in Lactance et son temps, Paris 1978, pp. 171-184; R.M. 0GILVIE, The Library of Lactantius, Oxford-New York 1978; M. PERRIN, L'homme antique et chrétien. L'anthropologie de Lactance 250-325, Paris 19~1; B. FAES DE MoTTONI, Lattanzio e gli Accademici, in Mélanges de l'Beole Française de Rome. Antiquité, Roma 1982, pp. 335-377; A. BENDER, Die naturliche Gotteserkenntnis bei Laktanz und seinen apologetischen Vorgà"ngern, Frankfurt a.M.-Bern-New York 1983; M. PERRIN, Quelques observations sur la conception de la mort et de l'eschatologie chez Lactance (250-325 après ].-C.), "Bulletin de l' Association Guillaume Budé", 1987, pp. 12-24; P.A. RooTs, The 'De opificio Dei': The Workmanship of God and Lactantius, "Classica! Quarterly", 1987, pp. 466-486; R. GLEI, "Et invidus et inbecillus" das angebliche Epikur fragment bei Laktanz, "De ira Dei" 13,20-21, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 47-58.
b. L'età di Costantino. Eusebio di Cesarea Le Opere di Eusebio di Cesarea si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 19-24, e nel "Corpus" di Berlino (Die griech. christl. Schrifts. der ersten ]ahr.), 1954-1956. - I Chronicarum libri duo nell'ed. a cura di
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A. ScHOENE, Leipzig 1866-1875. - La Historia ecclesiastica nell'ed. (con trad. frane.) a cura di G. BARDY, Paris 1951 sgg. (coli. "Sources Chrétiennes"). Si veda inoltre: - Eusebio. Storia Ecclesiastica e I Martiri della Palestina, a cura di G. DEL ToN, testo greco con trad. e note, Roma-ParisTournai-New York 1964; -La préparation évangélique, intr. gep.erale a cura di J. SIRINELLI, intr., testo greco, trad. e note a cura di E. DES PLACES, Paris 1980; La préparation évangé!ique, intr., trad. e comm. di G. FAVRELLE, testo greco riveduto da E. DES PLACES, Paris 198219~3;- Contre Hiéroclès, intr., trad. e note di M. FoRRAT, testo greco di E. DES PLACES, Paris 1986. Su Eusebio cfr.: F.J. STEIN, Eus., Bischof von Cesarea, Wiirzburg 1859; H. DoERGENS, Eus. als Darsteller der phonizischen Religion, Paderborn 1915; H. DoERGENS, Eus. als Darsteller der griechischen Retigian, Paderborn 1922; F.J. }ACKSON, Eusebius Pamph. A Study of the Man and his Writings, Cambridge 1933; P. HENRY, Recherches sur la
"Préparation évangélique" d'Eusèbe et l'édition perdue des oeuvres de Plotin publiée par Eustochius, Paris 1935; H. BERKHOF, Die Theologie des Eusebios von C., Amsterdam 1939; G. BARDY, La Théologie d'Eusébius de C., d'après l'"Histoire ecclésiastique", "Revue d'Hist. Ecclésiastique", 1955; D.S. WALLACE-HADRILL, Eusebius of Cesarea, London 1960; G. DEL ToN, Contenuto, struttura e scopi della Storia Ecclesiastica di Eusebio di C., "Divinitas", 1962; A. DEMPF, Der Platonismus des Eus., Victorinus und Pseudo-Dionysius, Miinchen 1962; E. WINKELMANN, Die Textbezeugung der "Vita Constantini" des Eusebios von C., Berlin 1962; A. DEMPF, Eusebios als Historiker, Miinchen 1964; F. RrcKEN, Zur Rezeption der platonischen Ontologie bei Eusebios von Kaisareia, Areios und Athanasios, "Theologie und Philosophie", 1978, pp. 321-352; M. KERTSCH, Traditionelle Rhetorik und Philosophie in Eusebius' Antieretikos gegen Hierokles, "Vigiliae Christianae", 1980, pp. 145-171; J. CoMAN, Utilisa,#on des Stromates de Clément d'Alexandrie par Eusèbe de Césarée, in f!berlieferungsgeschichtliche Untersuchungen, Berlin 1981, pp. 115;134; E. DES PLACES, Eusèfoe de Césarée commentateur. Platonisme et Ecriture sainte, Paris 1982; E. DES PLACES, La 'Préparation évangélique' d'Eusèbt; de Césarée a-t-elle eu deux éditions?, "Orpheus", 1983, pp. 108-112; E. DES PLACES, Le 'Contre Hiéroclès' d'Eusèbe de Césarée à la lumière d'une édition récente, in Studia Patristica, XIX, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford 1987, pp. 37-42; C. STEAD, Knowledge of God in Eusebius and Athanasius, in Knowledge of God in the Graeco-Roman World, a cura di R. VAN DEN BROEK-T. BAARDA-J. MANSFELD, Leiden 1988, pp._229-243; E. JuNOD, Polémique chrétienne contre Apollonius de Tyane. A propos d'un ouvrage d'Eusèbe de Césarée sur la vie d'Apollonius de Tyane par Philostrate ... , "Revue de Théologie et de Philosophie", 1988, pp. 475-482.
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Per la situazione politica dell'Impero nei primi tre secoli d.C. e per i rapporti tra la Chiesa e lo Stato, rimandiamo alla bibliografia di L. FIRPO in appendice alla trad. it. de Il pensiero politico medioevale dei fratelli R.W. e A.J. CARLYLE, I, Bari 1956, e alla bibliografia di G. BARBERO ne Il pensiero politico cristiano, a cura di G.B., Torino 1962. Anche per l'opera dell'Imperatore Costantino e per i suoi rapporti con il Cristianesimo rimandiamo alle citate bibliografie del FIRPO e del BARBERO, cui aggiungiamo lo studio di S. CALDERONE, Costantino e il Cattolicesimo, I, Firenze 1962. Si veda anche: A. MoMIGLIANO, The
Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963; R.H. NASH, Christianity and the Hellenistic World, Grand Rapids (Mich.) 1984; I Cristiani e l'impero nel IV secolo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico, a cura di G. BoNAMENTE e A. NESTORI, Roma 1989. Per le eresie (dal docetismo al monarchismo, al modalismo, al sabellismo, all' arianismo, al montanismo, al donatismo, al novazianismo, almonofisismo) rimandiamo alle opere di consultazione sulla Storia della Chiesa, del Cristianesimo, dei Concili, della Patristica, sopra citate. c. Aria. Atanasio Le citazioni della perduta Thalia (6aÀ.Eta, banchetto) diArio si vedano in Atanasio (Contra Arianos, I, 5, 6, 9; De Synodis, 15); le due lettere diArio ad Eusebio di Nicomedia e ad Alessandro di Alessandria si vedano, la prima, in Sant'Epifania, Haeres., 79, 6, la seconda, in Atanasio, De Synodis, 16, e in Epifanio, Haeres., 69, 7, 8; la professione di fede diArio in Socrate, Hist. eccl., I, 26, e in Sozomeno, Hist. eccl., II,
27. Su Ario e l'arianismo cfr.: L. DucHESNE, Histoire ancienne de l'Église, Paris 19104; J. TIXERONT, Histoire des dogmes dans l'antiquité chrétienne, Paris 1924 8 ; X. LE BACHELET, in Dictionnaire de Théologie Catholique; G. BARDY, La crisi ariana, in Storia della Chiesa, III, a cura di FLICHE-MARTIN, trad. it. Torino 1940; M. JuGIE, in Enciclopedia Cattolica, cit.; L.W. BARNARD, Whatwas Arius' Philosophy?, "Theologische Zeitschrifte", 1972, pp. 110-117; M. SIMONETTI, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975; F. RICKEN, Zur Rezeption der platonischen Ontologie bei Eusebius von Kaisareia, Areios und Athanasius, "Theologie und Philosophie", 1978, pp. 321-352; M. WILES, The Philosophy in Christianity. Arius and Athanasius, "Philosophy", suppl. 25, 1989, pp. 41 sgg.; CH. KANNENGIESER, Arius and Athanasius. Two Alexandrian Theologians, London 1991. Le Opere di Atanasio si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 25-28, e nel "Corpus" di Berlino, a cura di H.G. 0PITZ, in corso; il Contra
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gentes e il De incarnatione si vedano nella trad. frane. a cura di T. CAMELOT, Paris 1947 (coli. "Sources Chrétiennes"); le Lettere di Serapione, a cura di J. LEBON, Paris 1947 (coli. "Sources Chrétiennes"). Cfr. anche Contra gentes, intr. trad., comm., a cura di E.P. MEIJERING, Leiden 1984 (a cura di T. CAMELOT, Paris 1977). Utile il Lexicon Athanasianum edito a cura di G. MuLLER, Berlin 1944 sgg. Su Atanasio cfr.: A. GAUDEL, La théologie du A6yoc; chez St. Athanase, "Revue des Sciences Religieuses"' 1931; J.B. BERCHEM, Le role du Verbe dans l'oeuvre de la création et de la sanctification d'après St. Athanase, "Angelicum", 1938;J.B. ScHOEMANN, Eikon in den Schriften des hl. Athanasius, "Scholastik", 1941; G. BARDY, L'entrée de la philosophie dans le dogme au quatrième siècle, "L' année théologique", 1948; R. BERNARD, L'image de Dieu d'après St. Athanase, Paris 1952. Cfr. anche R. ARNOU, in Dictionnaire de Théologie Catholique, sotto la voce Platonisme des Pères. Ancora: E.P. MEIJERING, Orthodoxy and Platonism in Athanasius, Synthesis or Antithesis?, Leiden 1968 (nuova ed. corretta, Leiden 1974); J. RoLDANUS, Le Christ et l'homme dans la théologie d'Athanase d'Alexandrie, Leiden 1968; Clavis Patrum Graecorum, vol. II: Ab Athanasio ad Chrysostomum, a cura di M. GEERARD, Turnhout 1974; G. ZAPHIRIS, Connaissance nature/le de Dieu d'après Athanased'Alexandrie, "Kì.TJpOVOJ.lia", 1974, pp. 61-96; A. LouTH, Theconcept of the soul in Athanasius' 'Contra Gentes- De Incarnatione', in Studia Patristica, 1975, pp. 227-231; F. RICKEN, Zur Rezeption der platonischen Ontologie bei Eusebius von Kaisareia, Areios und Athanasius, "Theologie und Philosophie", 1978, pp. 321-352; A. HAMILTON, Athanasius and the Simile of the Mirror, "Vigiliae Christianae", 1980, pp. 14-18; R.P.C. HANSON, The Source and Significance of the Fourth 'Oratio contra Arianos' attributed to Athanasius, "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 257-266; M. WILES, The Philosophy in Christianity. Arius and Athanasius, "Philosophy", 1989, pp. 41-52; CH. KANNENGIESER, Arius and Athanasius. Two Alexandrian Theologians, London 1991. 5. L'imperatore Giuliano e Sallustio
Le Opere dell'imperatore Giuliano si vedano nell'edizione (con trad. ingl.) a cura di W.C. WRIGHT, London 1913-1923; si cfr. anche l'ed. a cura di F.C. HERTLEIN, Leipzig 1875-1876, l'ed. di J. BIDEZCuMONT, Paris 1922 e l'ed. a cura di G. RocHEFORT, ]ulien, Oeuvres complètes ("Belles Lettres"), Paris, in corso. -Le Lettere e i Frammenti si vedano a cura del BIDEZ, Paris 1924 (vedi anche Epistole, a cura di C. MuTTI, Parma 1980); -le Orazioni, a cura del BmEZ, Paris 1932; -L'Inno ad Helios Re, l'Inno alla Madre degli dèi, il Contro i cani ignoranti e il Contro il cinico Eraclio si vedano nella trad. it. a cura di R.
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Prati (Giuliano Imperatore, Degli dèi e degli uomini: opuscoli filosofici), Bari 1932;- La Lettera a Temistio e il Contro i Galilei si vedano nella trad. it. del Rostagni, in Giuliano l'Apostata, Torino 1920; -Alla madre degli dèi e altri discorsi, intr. diJ. FoNTAINE, a cura di C. PRATo e A. MARCONE, Milano 198 7; - il Contro i cinici ignoranti, a cura di C. PRATO e D. MICALELLA (Indexverborum di L. MARZOTTO), Lecce 1988. Su Giuliano cfr.: W. SCHWARZ, De vita et scriptis ]uliani Imp., Bonn 1888; P. ALLARD, ]ulien l'Apostate, Paris 1906-1910; G. BARBAGALLO, Giuliano l'Apostata, Genova 1912; J. GEFFCKEN, Kaiser ]ulian, Leipzig 1914; A. RosTAGNI, Giuliano l'Apostata, Torino 1920; H. BoGNER, Kaiser ]ulian 5. Rede, "Philologus", 1923; FR. DoLDINGER, Kaiser ]ulian der Sonnenbekenner, Stuttgart 1926, 1965; J. BmEz, La vie de l'empereur ]ulien, Paris 1930; W. DouGLAS SIMPSON, ]ulian the Apostate, Aberdeen 19 30; R. FARNEY, La religion de l'empereur ]ulien et le mysticisme de son temps, Paris 1934; F.A. RmLEY, ]ulian the Ap. and the Rise of Christianity, London 1937; H. RAEDER, Kaiser ]ulian als Philosoph, "Classica et Mediaevalia", 1944, pp. 179-193; G. RICCIOTTI, Giuliano l'Apostata, Milano 1957; R. GNOLI, Giuliano, ne I Protagonisti della Storia Universale, III, Milano 1969; A. NAVILLE, ]ulien l'Apostat. Philosophie du polythéisme (''Studia Historica", 89), Roma 1972; ].M. ALONSO-NUNEZ, En torno al neoplatonismo del Emperador ]uliano, "Hispania Antiqua", 1973, pp. 179-184; C. MoRESCHINI, L'opera e la personalità dell'Imperatore Giuliano nelle due "Invectivae" di Gregorio Nazianzeno, in Forma futuri, in onore di M. PELLEGRINO, Torino 1975, pp. 416-430; L'empereur ]ulien. De la légende à la réalité, I: De l'Histoire à la légende, Paris 1978; R. BROWING, The Emperor ]ulian, Berkeley (Ca.) 1978; A. GARDNER, ]ulian Philosopher and Emperor, and the last Struggle of Paganism against Christianity (1895), anast. New York 1978; W.J. MALLEY, Hellenism and Christianity. The Conflict between Hellenism and Christian Wisdom in the 'Contra Galilaeos' of ]ulian the Apostate and the 'Contra ]ulianum' of St. Cyril of Alexandria, Roma 1978; Giuliano imperatore, Lettera al filosofo Temistio (''Studi pagani", 8), Genova 1979; W.C.F. WRIGHT, The Emperor ]ulian's Relation to the new Sophistic and Neo-Platonism (1896), New York 1980; P. ATHANASSIADI-FOWDEN, ]ulian and Hellenism. An intellectual Biography, Oxford 1981; L'empereur ]ulien, II: De la légende au mythe, Paris 1981; C. FouQUET, L'hellénisme de l'empereur ]ulien, "Bulletin de l' Association Guillaume Budé", 1981, pp. 192-202; J. PUIGGALI, La démonologie de l'empereur ]ulien ,étudiée en elle-meme et dans ses rapports avec celle de Saloustios, "Les Etudes Classiques", 1982, pp. 293-314; P. ATHANASSIAm-FownEN, L'imperatore Giuliano. Lo statista, il soldato, il filosofo, ed. it. a cura di A. GUIDA, Milano 1983; A. PENATI, L'influenza del sistema caldaico sul pensiero teologico dell'imperatore Giuliano, "Ri~ista di filosofia neo scolastica", 1983, ppp. 5,43-562; J.M. ALONSO NuNEZ, L 'empereur ]ulien et les Cyniques, "Les Etudes Classiques", 1984, pp.
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254-259; A. MARCONE, L'imperatore Giuliano, Giamblico e il neoplatonismo, "Rivista Storica Italiana", 1984, pp. 1046-1052; L. ]ERPHAGNON, Julien dit l'Apostat. Histoire naturelle d'une famille sous le BasEmpire, Paris 1985; R. KLEIN-WENDELSTEIN, Julian Apostata, "Gymnasium", 1986, pp. 273-292; J.M. CANDA V MoRO N, Retorica y filosofia en Juliano, "Emerita", 1987, pp. 311-3~8; J. BouFFARTIGUE, L'état menta! de l'empereur Julien, "Revue des Etudes Grecques", 1989, pp. 487-489, 529-539; L. LuGARESI, La macchina e il libro: tecnologia erisorse della scrittura nell'Imperatore Giuliano, "Nuova Civiltà delle Macchine", 3-4 (35-36), a. IX, 1991, pp. 120 sgg. Per la formazione di Giuliano si vedano i Discours moraux di Libanio, intr. testo e trad. a cura di B. ScHOULER, Paris 1973.
Il trattato Sugli dèi e sul mondo di Sallustio si veda nella edizione a cura di A.D. NocK, Cambridge 1926, Hildesheim 1966, e di G. RocHEFORT (con trad. frane.), Paris 1960 (anche a cura di C. MuTTI, Padova 1978). Sull'importanza di Sallustio, sui suoi rapporti con Giuliano, sulla questione dei due Sallustio, si vedano gli studi di: G. MuRRAY, Five Stages of Greek Religion, New York 1955; G. RocHEFORT, Introduction, a Saloustios. Des dieux et du monde, a cura di G.R. ("Belles Lettres"), Paris 1960; G. RINALDI, Sull'identificazione dell'autore del IlEpì 9E&v Kaì KOOIJ.OU, "Kmvrovia", 1978, pp. 117-152.
6. I "luminari" di Cappadocia: Basilio il Grande, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa
a. "Generalia" Oltre alle opere generali sulla storia del cristianesimo e della Chiesa sopra date, sui Cappadoci cfr.: B. SALMONA, Il filosofare nei luminari di Cappadocia (Pubblicazioni dell'Istituto di filosofia, Facoltà di Magistero dell'Università di Genova), Milano 1974; T. Spidllk, L'eternità e il tempo, la 'zoé' e il 'bios', problema dei Padri Cappadoci, "Augustinianum", 1976, pp. 107-116; La "doppia creazione" dell'uomo negli Alessandrini, nei Cappadoci e nella gnosi, a cura di U. BIANCHI, Roma 1978; L. MALUNOWICZ, Le problème de l'amitié chez Basile, Grégoire de Nazianze et Jean Chrysostome, in Studia Patristica, XVI, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Berlin 1985, pp. 412-417; A. QuACQUARELLI, Cappadoci (padri), voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, ci t., 1987.
b. Basilio il Grande Le Opere di Basilio, edite a cura di J. GARNIER e P. MARAN, Paris 1721-1730, ristampate con aggiunte da L. SINNER, Paris 1839, si veda-
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no riprodotte in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 29-32.- Il De Spiritu Sancto si veda nell'edizione (con trad. frane.), a cura di B. PRUCHE, Paris 194 7. - Discorso ai giovani, a cura di J. MARTINI, Paris 1879 (anche le edizioni a cura di: A. DIRKING, Miinster 1934; F. BouLANGER, Paris 1935; A. NARDI, con trad. it., Roma 1931; M. NALDINI, Firenze 19902) . - Omelie sulla ricchezza, a cura di Y. CouRTONNE, Paris 1935. - Commento al Profeta Isaia, a cura di P. TREVISAN, con trad. it., Torino 1939. - Homélies sur l'Hexaéméron, intr. e trad. a cura di S. GIET, Paris 1968. - Sur l'origine de l'homme, Hom. X et XI de l"Hezaéméron', intr., testo critico, trad. e note di A. SMETS e M. VAN ErSBROECK, Paris 1970. - Contre Eumome [suivi de] Eumone. Apologie, vol. I, intr., trad. e note di B. SESBOUÉ, testo e intr. critica di G.M. DE DuRAND e L. DouTRELEAU, Paris 1982. - Le Lettere, ed. in 2 voli., con trad. frane., a cura di Y. CouRTONNE, Paris 1955-1966; Le Lettere, intr., ed. critica, trad. e comm. di M. FoRLIN PATRucco, Torino 1983. -Il Battesimo, a cura di M. NALDINI, Firenze 1984. -In trad. italiana: Le Omelie, a cura di E. NERI e G. BALPONI, Siena 1938; Il ricco insensato, a cura di M. PELLEGRINO, Roma 1946; Opere ascetiche, a cura di U. NERI, trad. di M.B. ARTIOLI, Torino 1980. Su san Basilio cfr.: E. FIALON, Étude historique et littéraire sur St. Basile, Paris 1865; P. ALLARD, St. Basile, Paris 1899 (trad. it., Roma 1904); I.H.L. SHEAN, The Influence of Plato on St. Basi!, Baltimora 1906; L. çLARKE, St. Basi! the Great, Cambridge 1913;]. WrTTIG, Leben, Lebensweisheit und Lebenskunde des hl. Metropoliten Basilius d. Gr. von Càsarea, Freiburg i.Br. 1920; P. BATTIFOL, L'ecclésiologie de St. Basile, "Echos d'Orient", 1922; J.M. CAMPBELL, The Influence of the Second Sophistic on the Style of the Sermons of Saint Basi! the Great, Washington 1922; A. GRANDSIRE, Nature des hypostases divines dans St. Basile, "Revue d es Sciences Religieuses", 192 3; J. RrviÈRE, St. Basile, P aris 1925; M. G. MuRPHY, St. Basi! and Monasticism, Washington 1930; Y. CouRTONNE, St. Basile et l'Hellénisme, Paris 1934; A. }AHN, Basilius Magnus plotinizanz, Bern 1938; M.M. Fax, The Life and Time of St. Basi! the Great as revealed in his Works, Washington 1939; S. GIET, Les idées et l'action sociales de Saint Basile, Paris 1941; G.F. REILLY, Imperium et Sacerdotium according to St. Basi! the Great, Washington 1945; E. AMAND, L'ascèse monastique de Saint Basile, Maredsous 1949; L. VrSCHER, Basilius der Grosse. Untersuchungen zu einem Kirchenvater des 4. Jahrhunderts, Basel 1953; A. DIRKING, Die Bedeutung des Wortes Apathic beim heiligen Basi! der Grosse, "Theol. Quarterly", 1954; H. DoRRIE, De Spiritu Sancto, der Beitrag des Basilius zum Abschluss der trinitarischen Dogmas, Gottingen 1956; G.L. PRESTIGE e H. CHADWICK, St. Basi! the Great and Apollinaris of Laodicea, London 1956; A. BENITO Y DURAN, Filosofia de San Basilio Magno en las homilfas "In Hexaemeron",
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Le Opere di Gregorio di Nazianzo si vedano in MIGNE, Patr. Graeca, voli. 35-38.- Le Cinque orazioni teologiche si vedano singolarmente edite a cura di A.J. MASON, Cambridge 1899; i Discorsi funebri, a cura di F. BouLANGER, Paris 1908.- In trad. it. si veda: Discorsi scelti, a cura di Q. CATAUDELLA, Torino 1935; Sull'amore dei poveri, ·a cura di G. BARBERO, Roma 1946. - Si vedano inoltre I Sermoni: 1-3 a cura di J. BERNARDI, 4-5 a cura diJ. BERNARDI, 20-23 e 24-26 a cura diJ. MosSAY, 27-31 a cura di P. GALLAY, nelle edizioni delle "Sources Chrétiennes" (voli. 247, 309, 270, 284, 250).- Si cfr. anche Le Lettere, a cura di G. GALLAY, Berlin 1969; La passione di Cristo, a cura di A. TuLLIER (n. 149 della coli. "Sources Chrétiennes"). Per una bibliografia su Gregorio di Nazianzo si veda E. BELLINI, Bibliografia su San Gregorio Nazianzeno, "La Scuola Cattolica", 1970, pp. 165-181. Su Gregorio di Nazianzo cfr.: C. ULLMANN, Gregorius von Nazianz, Gotha 1867 2 ; A. BENOiT, St. Grégoire de Nazianze, Paris 18842 ; I.R. AsMus, Gregor von Naz. und sein Verhaltnis zum Kynismus, "Theol. Studien und Kritik", 1894; J. DRAESEKE, Neuplatonisches in des Gregor v. Naz. Trinitatslehre, "Byzant. Zeitschr.", 1906; A. DoNDERS, Gregor v. Naz. als Homelier, Berlin 1909; M. GuiGNET, St. Grégoire de Naz. et la rhétorique, Paris 1911; H. PINAULT, Le platonisme de St. Grégoire de Naz., Paris 1925; E. FLEURY, Hellénisme et christianisme: St. Grégoire de Naz. et son temps, Paris 1930; P. GALLAY, La vie de St. Grégoire de Naz., Paris 1943; J. PLAGNIEUX, St. Grég. de Naz. théologien, Paris 1951; FR. LAEFHERZ, Studien zur Gregor von Nazianz, Diisseldorf 1958; B. Wiss, Gregor von Nazianz, Darmstadt 1962; J.M. SzYMUSIAK, Éléments de théologie de l'homme selon Saint Grégoire de Nazianze, Roma 1963; J. MossAY, La mort et l'au-delà dans Saint Grégoire de Nazianze, Louvain 1966; J .M. SZYMUSIAK, Pour une chronologie des discours de S. Grégoire de Nazianze, "Vigiliae Christianae", 1966, pp. 183-189; J. BERNARDI, La prédication des Pères Cappadociens, Paris 1968; R.R. RuETHER, Gre_gory of Nazianzus, Rhetor and Philosopher, London-Oxford 1969; T. SPIDLiK, Grégoire de Nazianze. Introduction à l'étude de sa doctrine spirituelle, Roma 1971; H. ALTHAUS, Die Heislehre des hl. Gregor von Nazianz, Miinster 1972; T. SPIDLiK, Grégoire de Nazianze, Miinster 1972; C. MoRESCHINI, Luce e purificazione nella dottrina di Gregorio Nazianzeno, "Augustinianum", 1973, pp. 535-549; C. MoRESCHINI, Il platonismo cristiano di Gregorio di Nazianzo, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", IV, 1974, pp. 1347-1392; F. TRISOGLIO, San Gregorio di Nazianzo in un quarantennio di studi (1925-1965), Torino 1974; F. TRISOGLIO, Il Christus patiens: Rassegna
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XVII, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford 1982, pp. 1115-1119; J. PÉPIN, Grégoire de Nazianze, lecteur de la littérature hermétique, "Vigiliae Christianae", 1982, pp. 251-260; F. TRISOGLIO, Filone Alessandri-
no e l'esegesi cristiana. Contributi all'influsso esercitato da Filone sul IV secolo, specificamente in Gregorio di Nazianzo, in ANR W, ci t., II, 21.1, 1984, pp. 588-730.
d. Gregorio di Nissa Oltre che in MIGNE, Patrol. Graeca, voll. 44-46, l'ed. di tutte le Opere di Gregorio di N issa si veda a cura di W. J AEGER e altri, Gregorii Nyssensi Opera, Berlin e poi Leiden 1952-1990. - Ottima, singolarmente, l'ed. del Contra Eunomium, a cura di W. ]AEGER, Berlin 1921, e ottimi gli Scritti ascetici, a cura di W. ]AEGER-J.P. CAVARNOs-V. Woons CALLAGAN, Leiden 1952 e 1954, e gli Scritti dogmatici minori, a cura di W. ]AEGER, Leiden 1958; le Lettere si vedano a cura di G. PASQUALI, Berlin 1925; il De oratione dominica, a cura di J.G. KRABINGER, London 1840; l'Oratio catechetica magna, a cura diJ.H. SRAWLEY, Cambridge 1903, e di L. MÉRIDIER, Paris 1908; la Vita Moysis, a cura di J. DANIÉLOU, Paris 1955 ("Sources Chrétiennes"); la Creazione dell'uomo, a cura di J. LAPLACE e J. DANIÉLOU, Paris 1945 ("Sources Chrétiennes"); gli Opuscoli dogmatici, a cura di FR. MuLLER, Leiden 1958; Traité de la virginité, intr., testo critico, comm. e indice di M. AuBINEAU, Paris 1966; La vie de Moi"se ou Traité de la perfection en matière de vertu, intr., testo critico e trad. a cura di J. DANIÉLOU, Paris 1968 ("Sources Chrétiennes"; in "Sources Chrétiennes", n. 178, vedi anche la Vie de Macrine); L'anima e la resurrezione, trad., intr. e note a cura di S. LILLA, Roma 1981; L'uomo ['De hominis opificio'], trad. intr. e note a cura di B. SALMONA, Roma 1982; Vita di Mosè, a cura di M. SIMONETTI, Milano 1984; Origene, Eustazio, Gregorio di Nissa, La
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Maga di Endor, a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1989; Écrits spirituels, a cura di M. CANÉVET, Paris 1990.
Sulla cronologia delle opere di Gregorio di Nissa e sulla bibliografia cfr.: J. DANIÉLOU, La chronologie des oeuvres de Grégoire de Nysse, in Studia Patristica, VII, Berlin 1966, pp. 159-169; G. MAY, pie Chronologie des Lebens und der Werke des Gregor von Nyssa, in Ecriture et Culture philosophique dans la pensée de Grégoire de Nysse, Atti del Congresso di Chevetogne, a cura di M. HARL, Leiden 1971, pp. 51-67; M.M. BERGADA, Contribuci6n bibliogrtifica al estudio de Gregorio de Nyssa, "Stromata", 1969,pp. 79-130,eBuenosAires 1970. Su Gregorio di Nissa cfr.: F. HILT, Des heiligen Gregor von Nyssa Lehre von Menschen systematisch dargestellt, Koln 1890; W. MEYER, Die Gotteslehre des Greg. von Nyssa, Leipzig 1894; F. DIEKAMP, Die Gotteslehre des heiligen Gregor von Nyssa, Leipzig 1896; L. MERIDIER, L'influence de la seconde sophistique sur l'oeuvre de Grégoire de Nysse, Rennes 1906; K. GRONAU, Poseidonios und die jiidisch-christliche Genesisexegese, Leipzig 1914; H.F. CHERNISS, The Platonism of Gregory of Nyssa, Berkeley (Ca.) 1930; J. BAYER, Gregors von Nyssa Gottesbegriff, Giessen 1935; M. PELLEGRINO, Il platonismo di San Gregorio di Nissa, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1938; H. VON BALTHAZAR, Présence et pensée, essai sur la philosophie religieuse de St. Grégoire de Nysse, Paris 1942; J. DANIÉLOu, Platonisme et théologie mistique, Paris 1944; J. MucKLE, The Doctrine of St. Gregory of Nyssa, Toronto 1945; TH.A. GoGGIN, The Times of Gregory of Nyssa as reflected in the Letters and the Contra Eunomium, Washington 1947; R. LEYS, L'image de Dieu chez St. Grégoire de Nysse, Bruxelles 1951; H. MERKI, 'OJ.loirocnç 'tq'> !?Eq'>, Freiburg 1952; A.A. WEISWURM, The Nature of the Human Knowledge accord. to Gregory of Nyssa, Washington 1952; J. GAITH, La conception de la liberté chez Grégoire de Nysse, Paris 1953; W. }AEGER, Two Rediscovered W orks of Ancient Christian Literature; Gregory of Nyssa and Macarius, Leiden 1954; W. VoLKER, Gregor von Nyssa als Mystiker, Wiesbaden 1955; G.B. LADNER, The Philosophical Anthropology of Saint Gregory of Nyssa, "Dumbarton Oaks Papers", XII, Cambridge 1958; J. DANIÉLOU, Comble du mal et eschatologie chez Grégoire de Nysse, in Festgabe]. Lortz, Baden-Baden 1958; J.F. CALLAHAN, Gregory of Nyssa and the Psychological View of Time, Atti XII Congresso Intern. di Filosofia, vol. XI, Firenze 1960; A.S. DuNSTONE, The Meaning of Grace in the Writings of Gregory of Nyssa, "Scottish Journal of Theology", 1962; J. DANIÉLOU, Le symbole de la caverne chez Grégoire de Nysse, in Mullus, in onore di T. KLAUSER, Miinster 1964, pp. 43-45; E. BAERT, Le thème de la vision de Dieu chez St. Justin, Clément d'Alexandrie et St. Grégoire de Nysse, "Freiburger Zeitschrift fiir Philosophie
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ne", 1979, pp. 139-154; P. PLAss, Transcendent Time and Etemity in Gregory of Nyssa, "Vigiliae Christianae", 1980, pp. 180-192; 'Arché' e 'Telos': l'Antropologia di Origene e di Gregorio di Nissa. Analisi storico religiosa, Atti del colloquio di Milano (17-19 maggio 1979), Milano 1981 (scritti di M. ALEXANDRE, E. CoRSINI, A. QuACQUARELLI); T. CLEMENTONI, La versione siriaca del "De opificio hominis" di Gregorio di Nissa: capp. XIII e XIV, in Studi e Richerche sull'Oriente Cristiano, Roma 1982, pp. 81-101, 157-171; M. EsPER, Gregorvon Nyssa, in 400 ]ahre Gonres-Gymnasium 1582-1982, Koblenz s.d. (1982), pp. 144-148; A. MEREDITH, Gregory of Nyssa and Plotinus, in Studia Patristica, XVII, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford 1982, pp. 1120-1126 (segue); G.A. BARROIS, Vertu, "épectase", per/ection. Les métamorphoses d'un théme philosophique, de Socrate à saint Grégoire de Nysse, et au delà, "Diotima", 1983, pp. 30-39; M. R. DEL DEo, La versione siriaca del "De opificio hominis" di Gregorio di Nissa: cap. XIV, in Studi e Ricerche sull'Oriente Cristiano, cit., 1983, pp. 39-56, 181-195; F. GRASSI, La versione siriaca del "De opificio hominis" di Gregorio di Nissa: capp. IXXI, in Studi e Ricerche sull'Oriente Cristiano, cit., 1984, pp. 25-50, 191-206;R.E. HEINE, Gregory of Nyssa's Apology far Allegory, "Vigiliae Christianae", 1984, pp. 360-370; A. LouTH, Envy as the Chief Sin in Athanasius and Gregory of Nyssa, in Studia Patristica, XV, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Berlin 1984, pp. 458-460; A. SICLARI, Volontà e scelta in Massimo il Confessore e in Gregorio di Nissa, Parma 1984; B. KRIVOCHÉINE, Simplicité de la nature divine et !es distinctions en Dieu seton S. Grégoire de Nysse, in Studia Patristica, XVI, cit., 1985, pp. 389-411; A. MEREDITH, Allegory in Porphyry and Gregory of Nyssa, in Studia Patristica, XVII, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Berlin 1985, pp. 423-427; G. APOSTOLOPOULOU, Das Problem der Willensfreiheit bei Gregor von Nyssa, in L 'homme et san univers au Moyen Age, Atti del 7° Congresso inter. di filosofia medievale (30 ag.-4 sett. 1982), a cura di C. WENIN, Louvain-la-Neuve 1986, pp. 719-725; A. BoNANNI, La versione siriaca del 'De opificio hominis' di Gregorio di Nissa. Capitolo XXIII (greco XXII), in Studi e Ricerche sull'Oriente Cristiano, cit., 1987, pp. 149-170; V.E.F. HARRISON, Receptacle Imagery in St. Gregory of Nyssa's Anthropology, in Studia Patristica, XXII, cit., a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford 1987, pp. 23-27; A. MEREDITH, The Concept of Mind in Gregory of Nyssa and the Neoplatonists, in Studia Patristica, XXII, 1987, pp. 35-51; J.J. O'KEEFE, Sin, àn
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1988, pp. 353-3 79; El "Contra Eunomium I" en la producci6n literaria de Gregorio de Nisa, VI Colloquio intero. su Gregorio di Nissa, cit., 1988; G.C. STEAD, Logic and Application of Names to God, VI Colloquio intero. su Gregorio di Nissa, cit., 1988, pp. 303-328; T. KoBUSCH, Zu den sprachphilosophischen Grundlagen in der Schrift 'Contra Eumonium' des Gregor von Nyssa, VI Colloquio intero. su Gregorio di Nissa, cit., 1988, pp. 247-268; H.U. VON BALTHASAR, Présence et pensée. Essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Paris 1988; MM. BERGADA, La critica y la esclavitud en la 'Homilia IV sobre el Ecclesiastés' de Gregorio de Nyssa, "Patristica et Mediaevalia", 1990, pp. 69-78; Studien zu Gregor von Nyssa und der christlichen Spiitantike, a cura di H.R. DROBNER e C. KwcK, Leiden 1990.
7. Le componenti culturali nel IV e al principio del V secolo
a. Calcidio. Macrobio. Nemesio di Emesa. Temistio La traduzione di Calcidio del Timeo di Platone e il relativo Commento si vedano nell'ed. a cura di}. WROBEL, Leipzig 1879, e nell'ottima edizione a cura di P. }ENSEN e J.H. WASZINK, Timaeus a Calcidio translatus, London 1962, 1975 2 (''Corpus Platonicum Medii Aevi"). Su Calcidio cfr.: B. SwiTALSKI, Das Chalcidius Kommentar zu Platos Timaeus, Miinster 1902 ("Beitrage", III, 6); F. BLATT, Remarque sur l'histoire des trad. lat., "Classica et Mediaevalia", 1938; F. SOLMSEN, A Heliocentric Interpretation of the Timaeus, "Class. Weekly", 1943-1944; ].C.M. VAN WINDEN, Calcidius on Matter: his Doctrine and Sources. A Chapter in the History of Platonism, Leiden 1959; G.S. LEWIS, The Discarded Image, Cambridge 1964; J.H. WASZINK, Studien zum Timaioskommentar des Calcicf,ius, Leiden 1964 ("Philosophia Antigua", 12); J.G. VAN DER TAK, Calcidius' Illustration of the Astronomy of Heracleides of Pontos, "Mnemosyne", 1972, pp. 148-156; J.H. WASZINK, Calcidius. Nachtràge zum Reallexikon fiir Antike und Christentum, "Jahrbuch fiir Antike und Christentum", 1972, pp. 236-244; M. DRAGONA-MONACHOU, Providence and Fate in Stoicism and Prae-Neoplatonism. Calcidius as an Authority on Cleanthe's Theodicy ("s. V.F.", 2, 933), "tA.oaocpia", 1973, pp. 262-300; J. DEN BoEFT, Calcidius ondemons ("Philosophia Antigua", 33), Leiden 1977. Le Opere di Macrobio si vedano nelle edizioni a cura di: F. EYsSENHARDT, Leipzig 1893; H. BoNERCQUE e F. RICHARD, Paris 1936-1937; J. WILLIS, Leipzig 1963, 19702 . - I Saturnali si vedano nella trad. it. a cura di I. LANA, Torino 1967, e a cura di N. MARINONE, Torino 1977 2 , 1987 3 . - Il Commento al Somnium Scipionis si veda:
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Commentarium in Somnium Scipionis libri duo, intr., testo, trad. e note di L. ScARPA, Padova 1981; Commento al Somnium Scipionis, libro I, intr., testo, trad. e comm. a cura di M. REGALI, Pisa 1983; Commentary on the Dream of Scipio, trad., intr. e note di W.H. STAHL, Irvington (N.Y.) 1990. Per una bibliografia cfr.: Saturnali, a cura di I. LANA e di N. MARINONE, cit.; anche P. DE PAOLIS, Macrobio 1934-1984, "Lustrum", 1986-1987, pp. 107-249. Su Macrobio cfr.: PH.M. SCHEDLER, Die Philosophie des Macrobius und ihr Einflusse auf die Philosophie des christlichen Mittelalters, Mi.inster 1916 ("Beitrii.ge zur Gesch. der Philos. des Mittelalters", XIII, l); T. WHITTAKER, Macrobius, or Philosophy, Science and Letters, in the Year 400, Cambridge 1923; K. MRAS, Macrobius' Kommentar zu Cicero Somnium, Berlin 1933; P. HENRY, Plotin et l'Occident. Firmico Materno, Mari!ts Victorinus, st. Augustin et Macrobe, Louvain 1934; P. BoYANCÉ, Etudes sur le Songe de Scipion, Paris 1936; D. CoMPARETTI, Virgilio nel Medioevo, a cura di G. PASQUALI, Firenze 1937; P. CouRCELLE, Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, Paris 1943; E. CuRTIUS, Europiiische Literatur und lat. Mittelalter, Bern 1948; H.L.W. NELSON, Saturnalia von Macrobius, Leiden 1958; M. FuHRMANN, Macrobius und Ambrosius, "Philologus", 1963; G.S. LEWIS, The Discarded Image, Cambridge 1964; A. CAMERON, The Date and Identity of Macrobius, "Journal of Roman Studies", 1966, pp. 25-38; M.A. ELFERINK, La descente de l'ame d'après Macrobe, Leiden 1968. H.DE LEY, Macrobius and Numenius, Bruxelles 1972; M. BEVILACQUA, Introduzione a Macrobio, Lecce 1973; J. FLAMAND, Macrobe et le néo-platonisme latin, à la fin du IV• siècle, Leiden 1977; R. KNAB, Zur Einleitung des "Somnium Scipionis", "Hermes", 1984, pp. 501-504; M. DI PASQUALE BARBANTI, Macrobio: etica e psicologia nei Commentarii in Somnium Scipionis, Catania 1988.
Il De natura hominis di Nemesio di Emesa si veda in MrGNE, Patr. Graeca, vol. 40, ora a cura di M. MoRANI, Leipzig 1987.- La trad.latina di Alfano di Salerno si veda nell'ed. a cura di HoLZINGER e di K.J. BuRKHARD, Nemesii episcopi Premnon physicon sive 7tEpi q>UoEwç àv9pffinou, libera N. Alfano archiepiscopo Salemi in latinum translatus, Leipzig 1917; la trad. latina di Burgundio di Pisa si veda nell'ed. di K.J. BuRKHARD, Gregorii Nysseni [Nemesii Emesini] libera Burgundione in latinum translatus, "Progr. des C. Ludwig-Gymnasium" (Wien), 1891, 1892, 1896, 1901, 1902, e a cura di G. VERBEKE e J.R. MoNCHO, Leiden 1975. - La natura dell'uomo, in trad. it., a cura di M. MoRANI, Salerno 1982. Su Nemesio cfr.: D. BENDER, Untersuchungen zu Nemesios, Mi.inster 1900; W. ]AEGER, Nemesios von Emesa. Quellenforschungen zum
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Neuplatonismus und seinen Anfiingen bei Poseidonios, Berlin 1914 (fondamentale); A. FERRO, La dottrina dell'anima di Nemesio di Emesa, "Ricerche Religiose", 1925; V. W ALDENBERG, La philosophie byzantine au IV- v• siècle, "Byzantion"' 1929; E. SKARD, Nemesiostudien, "Symbolae Osloenses", 1942 (dello SKARD cfr. anche l'articolo su Nemesio in R. E. PAULY-WissowA, suppl. VIII, 1940); G. VERBEKE, Filosofie en christendom in het mensbeeld van Nemesius van Emesa, con un riassunto in inglese: Philosophy and Christianity in the anthropology of Nemesius of Emesa, Brussel1971; H. DE LEY, Macrobius and Numenius. A Study of Macrobius "In Somn." I, c. 12, Bruxelles 1972; A. SICLARI, L'antropologia di Nemesio di Emesa nella critica moderna, "Aevum", 1973, pp. 477-49]; A. SICLARI, L'antropologia di Nemesio di Emesa, Padova 1974; E. DES PLACES, Numénius et Eusèbe de Césarée, in Studia Patristica, XIII, 1975, pp. 19-28; A. KALLIS, Der Mensch im Kosmos: d. Weltbild Nemesios' von Emesa, Miinster 1978; W. VANHAMEL, Némésius d'Émèse, in Dictionnaire de Spiritualité, fase. 72-73, Paris 1981; M. MoRANI, La tradizione manoscritta del 'De natura hominis' di Nemesio, Milano 1981; M. MoRANI, Note critiche e linguistiche al testo di Nemesio, "Classica! Philology", 1982, pp. 35-42; R.W. SHARPLES, Nemesius of Emesa and Some Theories an Divine Providence, "Vigiliae Christianae", 1983, pp. 141-156; A. VANDERJAGT, Nemesius van Emesa aver de mens, in Studia in honorem R. Bakker, a cura di B. DELFGAAw-H. HuBBELING-W. SMITH, Groningen 1984, pp. 43-52; M. MoRANI, Index verborum quae in Nemesii 'De natura hominis' libro iuxta translationem Alfani Salernitani reperiuntur, "Archivum Latinitatis Medii Aevi", 1983-1985, pp. 139-174. Le parafrasi superstiti di Temistio alle opere di Aristotele si vedano. a cura di: A. W ALLIES le parafrasi agli Analytica posteriora, in "Commentaria in Aristot. graeca", vol. V. l, Berlin 1900; H. ScHENKL, alla Physica, in "Comm. in Ar. gr.", vol. V, 2, Berlin 1900; R. HEINZE, al De anima, in "Comm. in Ar. gr.", vol. V, 3, Berlin 1889 (in "Corpus latinum comment. in Aristotelem graecorum", I, si veda, a cura di G. VERBEKE, Leuven 1957, l'ed. della trad.lat. di Guglielmo di Moerbeke, Leiden 197 3). - I trentaquattro discorsi politici si vedano nell'ed. a cura del DINDORF, Leipzig 1882. -Le parafrasi al De coelo e al XII della Metafisica in trad. ebraica si vedano a cura di S. LANDAUER, in "Comm. in Arist. graeca", vol. V, 4, Berlin 1902-1903. -La Parafrasi dei libri di Aristotele sull'anima, in trad. it., si veda a cura di V. DE FALCO, Roma 1965. - Utile In Themistii Orationes index auctus, a cura di A. GAR2YA, Napoli 1989. Su Temistio cfr.: L. MERIDIER, Le philosophe Themistius devant l'opinion de ses contemporaines, Rennes 1906; J. GEFFCHEN, Der Ausgang des griechisch-romischen Heidentums, Heidelberg 1920; V. VALDEN-
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BERG, Discours politiques de Themist. dans leur rapport avec l'antiquité, "Byzantion", 1924; G. VERBEKE, Les sources et la chronologie de St. Thomas d'Aquin au "De anima" d'Aristate, "Revue philos. de Louvain", 1947; O. HAMELIN, La théorie de l'Intellect d'après Aristate et ses commentateurs, intr. di E. BARBOTIN, Paris 1953; G. VERBEKE, Thémistius et le "De unitate intellectus" de St. Thomas, "Revue philos. de Louvain", 1955; C. ScHEDL, "Die Findung des Seins". Bemerkungen zu hebraischen Terminologie im Aristoteles-Kommentar des Themistios, "Freib. Z. Philos. Theol.", 1962; G.C. HANSEN, Nachlese zu Themistios, "Philologus", 1967, pp. 110-118; Discours moraux, di Libanio, intr., testo e trad. a cura di B. ScHOULER, Paris 1973; J. Pt,JIGGALI, La démonologie dans les 'Discours' de Themistios, "Revue cles Etudes Anciennes", 1982, pp. 151-152; R. MAISANO, La paideia dellogos nell'opera oratoria di Temistio, "Koinonia", 1986, pp. 29-47; B. CoLPI, Die Paideia des Themistios. Ein Beitrag im 4. ]h.n. Chr., Frankfurt 1987; S. Rosenberg e C. MANEKIN, Themistius on Moda! Logic. Excerpts from a Commentary on the 'Prior Analytics' attributed to Themistius, "Jerusalem Studies in Arabic and Islam", 1988, pp. 83-103.
b. Mario Vittorino. Firmico Materno
Il De definitionibus di Mario Vittorino si veda a cura di TH. STANGL, in Tulliana et Mario- Victoriniana, tesi di laurea, Mi.inchen 1888; il Commento al De inventione di Cicerone, a cura di C. HALM, in Rhetores latini minores, Leipzig 1863. Si vedano anche Grammatici latini, a cura di KEIL, vol. VI. Gli scritti teologici in MIGNE, Patr. Latina, vol. 8. -I Trattati teologici sulla Trinità si vedano a cura di P. HENRY e di P. HADOT, con trad. frane., intr. e note, Paris 1960 ("Sources Chrétiennes"). - Christlicher Platonismus (Scritti di teologia), a cura di P. HADOT eU. BRENKE e di C. ANDRESEN, Zi.irich-Stuttgart 1967.- Ars grammatica, a cura di I. MARIOTTI, Firenze 1967. -Cfr. anche Opera omnia, a cura di A. LocHER, Leipzig 1976. Su Mario Vittorino, oltre A.H. TRAVIS, Marius Victorinus: A Biographical Note, "Harvard Theological Review", XXXVI, 1943, pp. 84 sgg., e P. HADOT, Marius Victorinus. Recherches sur sa vie et ses oeuvres, Paris 1971, si confronti: P. MoNCEAUX, L'Isagoge latine de Marius Victorinus, in Mélanges offerts à L. Havet, Paris 1909; J. DE GHELLINCK, Réminiscences de la dialectique de Marius Victorinus dans les conflicts théologiques du XI• et du XII• s., "Revue Néoscolastique", 1911; E. BENZ, Marius Victorinus und die Entwicklung der abendliindischen Willensmetaphysik, Stuttgart 1932; P. HENRY, Plotin et l'Occident, Firmicus Maternus, Marius Victorinus, St. Augustin et Macrobe, Louvain 1934; H. DE LEUSSE, Le problème de la préexistance des ames chez Marius Victorinus Afr., "Recherches de Sciences Religeuses", 1939; C.
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ARPE, Substantia, "Philologus", 1940; B. CrTTERIO, C. Mario Vittorino, Brescia 1940; P. HENRY, The Adversus Arium of Marius 1/ictorinus, the First Systematic Exposition of the Doctrine of the Trinity, "J. Theol. Stud.", 1950; P. SÉJOURNÉ, Vict. Afer, in Dictionnaire de Théologie Catholique, 1950; P. HENRY, Introduction à Marius Victorinus, Traités théologiques sur la Trinité ("Sources Chrétiennes", 68-69), Paris 1960; A. DEMPF, Der Platonismus des Eusebius, Victorinus und Pseudo-Dionysius, Miinchen 1962; J. CHATILLON, Théoiogie et philosophie dans l' oeuvre de M. Victorinus, in St. Thomas d'Aquin aujourd'hui, Bruges 1963; P. HADOT, L 'image de la Trinité dans l'dm e chez Victorinus et chez saint Augustin, in Studia Patristica, VI, 1964, pp. 409-442; L. AnAMO, Boezio e Mario Vittorino traduttori e interpreti dell"'Isagoge" di Porfirio, "Rivista critica di Storia della filosofia", 1967, pp. 141-164; P. HADOT, Porphyre et Victorinus, Paris 1968 (testi latini con trad. frane. delle Oeuvres théologiques di Mario Vittorino e dei frammenti del Commentario di Porfirio sul Parmenide di Platone); H. DAHLMANN, Zur Ars grammatica des Marius Victorinus, Wiesbaden 1970; P. HADOT, Marius Victorinus. Recherches sur sa vie et ses oeuvres, Paris 1971; A. ZIEGENAUS, De trinitarische Auspragung der gottlichen Seinsfiihle nach Marius Victorinus, Miinchen 1972; M. T. CLARK, The Psychology of Marius Victorinus, "Augustinian Studies", 1974, pp. 149-166; P. CouRCELLE,
Grégoire le Grand devant les "conversions" de Marius Victorinus, Augustin et Paulin de Nole, "Latomus", 1977, pp. 942-950; M.T. CLARK, The Neoplatonism of Marius Victorinus, the Christian, in Neoplatonism and Early Christian Thought, saggi in onore di A. H. ARMSTRONG, a cura di A.H.J. BLUMENTHAL e R.A. MARKUS, London 1981, pp. 153-159; G.A. PIEMONTE, L'expression "quae sunt et quae non sunt": Jean Scot et Marius Victorinus, in Jean Sco t écrivain, Atti del IV Colloquio intern. di Montréal (28 agosto-2 sett. 1983), a cura di G.H. ALLARD, MontréalParis 1986, pp. 81-113.
Il libro di Candido De generatione divina si veda in MrGNE, Patrologia Latina, vol. 8, e in Opere di Mario Vittorino, a cura N. PrTTENRY e di P. HADOT, con trad. frane., Paris 1960 ("Sources caretiennes"). Oltre che in MrGNE, Patr. Latina, vol. 12, e nel "Corpus script. ecci. lat." di Vienna, II (a cura di C. HALM, Wien 1867), i Matheseos libri VIII di Firmico Materno si vedano nell'ed. a cura di W. KROLL-F. SKUTSCH-K. ZrEGLER, Leipzig 1897-1913; il De errore profanarum religionum, a cura di: K. ZIEGLER, Leipzig 1908; G. HEUTEN, Bruxelles 1937 (con trad. e comm.); A. PASTORINO, Firenze 1956 (con comm.). In trad. it. si veda il De errore profanarum religionum a cura di G. FAGGIN, Lanciano 1932. Su Firmico Materno si veda lo sudio di C. H. MooRE, Julius Firmicus Maternus, der Heide und der Christ., Miinchen-Leipzig 1897.
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c. Ilario di Poitiers. Sant'Ambrogio. San Gerolamo
Le Opere di Ilario di Poi tiers si vedano in MIGNE, Patr. Lat., voli. 9-10 (cfr. anche nel "Corpus" viennese, 22, a cura di Z. ZINGERLE, Wien 1891, e in "Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum", 65, 1916). Su Ilario, oltre all'articolo di X. LE BACHELET, in Dictionnaire de Théologie Catholique, cfr.: A. LARGENT, St. Hilaire de Poitiers, Paris 1902; G. GIRAUD, St. Hilaire de Poitiers, Angers 1905; J. BEUMER, Hilarius von Poitiers, ein Vertreter der christlicher Gnosis, "Theol. Quart.", 1952; P. GALTIER, St. Hilaire de Poitiers, Paris 1960; A. FIERRO, Sobre
la Gloria en San Hilario. Una sintesi doctrinal sobre la noci6n biblica de "doxa", Roma 1964; M. SIMONETTI, Note sulla struttura e la cronologia del 'De Trinitate' di Ilario di Poitiers, "Studi Urbinati di Storia, Filosofia e Letteratura", 1965, pp. 274-300; Hilaire et son temps, Atti del Colloquio di Poitiers (29 sett.-3 ott. 1968), Paris 1968; L. LONGOBARDO, Il linguaggio negativo della trascendenza di Dio in Ilario di Poitiers, I-II, "Asprenas", 1982, pp. 257-291, 381-405; J. DoiGNON, Du nou-
veau dans l'exploration de l'oeuvre d'Hilaire de Poitiers (1983-1988): Recension critique de six ouvrages, "Revue des Études Augustiniennes", 1988, pp. 93-105. Le Opere di S. Ambrogio di Milano si vedano in MIGNE, Patr. Lat., voli. 14-17, nel "Corpus" viennese, voli. 32, 52 e 64; Tutte le opere di sant'Ambrogio, Roma 1977 sgg. (ed. bilingue; a cura della Biblioteca Ambrosiana, promossa dal cardinale G. Colombo in occasione del XVI centenario dell'elezione episcopale di sant'Ambrogio). Si veda inoltre: - Letters, trad. a cura di M.M. BEYENKA, Washington 1967; - Opere, trad. a cura di G. CoPPA, Torino 1979;- Les devoirs, testo, trad. e note a cura di M. TESTARD, Paris 1984;- Inni, a cura di M. SIMONETTI, Firenze 1988; Hymnes, a cura di J. FoNTAINE (trad. e note), Paris 1991. - Si vedano infine: PAOLINO DA MILANO, Vita Ambrosii, a cura di M. PELLEGRINO, Roma 1961; Vita Ambrosii (epoca carolingia), ed. a cura di A. PAREDI, Milano 1964. Per la letteratura su Sant'Ambrogio rimandiamo ai citati repertori bibliografici. In particolare si veda: G. PiccoLO, Saggio di bibliografia ambrosiana: ambiente, fonti, esegesi e spiritualità, "La Scuola Cattolica", 1970, pp. 187-207; Cento anni di bibliografia ambrosiana (1874-1974), Milano 1981. Su Sant'Ambrogio cfr.: H. CAMPENHAUSEN, Ambrosius von Mailand als Kirchenpolitiker, Berlin 1929; J.R. PALANQUE, Saint,Ambroise
et J'Empire romain. Contribution à l'histoire des rapports de l'Eglise et de l'Etat à la fin du IV• siècle, Paris 1933; F.H. DuDDEN, The Life and Time of S. Ambrose, Oxford 1935; A. PAREDI, S. Ambrogio e la sua età,
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Le 'Cantique des Cantiques' dans le 'De Isaac' d'Ambroise de Milan. Etude textuelle et recherche sur les anciennes versions latines, "Recherches Augustiniennes", 1981, pp. 3-57; F. DE CAPITANI, Studi su Sant'Ambrogio e i manichei, I: Occasioni di un incontro, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1982, pp. 593-610, e 1983, pp. 3-29; W. STEIDLE, Beobachtungen zu des Ambrosius Schrift 'De officiis', "Vigiliae Christianae", 1984, pp. 18-66; M. TESTARD, Saint Ambroise et san modèle cicéronien dans le "De officiis", in Présence de Cicéron, Atti del Convegno del 25-26 sett. 1982 in onore di R.P.M. TESTARD, a cura di R. CHEVALLIER, Paris 1984, pp. 103-106; W. STEIDLE, Beobachtungen zum Gedankengang im 2. Buch von Ambrosius De officiis, "Vigiliae Christianae", 1985, pp. 280-298; G. MADEC, Le milieu milanais. Philosophie et christianisme, "Bulletin de Littérature Ecclésiastique", 1987 (Ambrogio: pp. 194-205); G. MADEC, Ambroise, in Dictionnaire des Philosophes Antiques, I, a cura di R. GouLET, pref. di P. HADOT, Paris 1989; S. MAZZARINO, Storia Sociale del Vescovo Ambrogio, Roma 1989. Gli scritti di san Gerolamo: in MIGNE, Patr. Latina, Paris 1864-1865 2 , voll. 22-30; nuova ed. in corso, in Corpus Christianorum, serie latina, Turnholt 1959 sgg. - Le Lettere si vedano a cura di I. HILBERG, nel "Corpus Scriptorum Latinorum Ecclesiasticorum" di Vienna, voll. 54-56; con trad. frane. e note, a cura diJ. LABOURT, S. ]érome, Lettres, 8 voll. (coll. Budé), Paris 1949 sgg. - Gli uomini illustri, a cura di A. CERESA GASTALDO, Firenze 1988. Per la tradizione manoscritta cfr. B. LAMBERT, Bibliotheca Hieronymiana manuscripta, 4 voll., Steenbrugge 1969, Den Haag 1972. Per una prima bibliografia cfr. P. ANTIN, in "Corpus Christianorum", 72, pp. IX-LIV (vedi anche S. PRicoco, alla voce in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1988). Su Gerolamo si veda: G. GRUTZMACHER, Hieronymus, Leipzig 1901-1908; P. CAVALLERA, St. ]érome. Sa vie et san oeuvre, Paris 1922; P. MoNCEAUX, St. ]érome: la jeunesse, l'étudiant et l'ermite, Paris 1932; P. CouRCELLE, Les lettres grecques en Occident, Paris 19482 , pp. 37 sgg.; A. PENNA, San Gerolamo, Roma 1949; A. PENNA, Principi e caratteri dell'esegesi di San Girolamo, Roma 1950; P. ANTIN, Essai sur St. ]érome, Paris 1951; G. BARDY, St. Jérome et la pensée grecque, "Irénikon", 1953; H. HAGENDALL, Latin Fathers and the Classics, Géiteborg 19,58; J. STEINMANN, St. ]érome, Paris 1958; Y. BomN, St. ]érome et l'Eglise, Paris 1960; G. BRUGNOLI, Donato e Girolamo, "Vet. Chr.", 1965, pp. 139-149; Y.M. DuvAL, Saint Augustin et le 'Commentaire sur
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Jonas' de saint ]ér6me, "Revue des Études Augustiniennes", 1966, pp. 9-40; P. ANTIN, RecueilsurSt. Jér6me, Bruxelles 1968; B.R. Ross, Vernachldssigte Zeugnisse klassischen Literatur bei Augustin und Hieronymus, "Rheinisches Museum", 1969, pp. 154-166; M. TESTARD, Saint ]ér6me, l'ap6tre savant et pauvre du patriciat ro1J1ain, Paris 1969; P. ANTIN, Jér6me antique et chrétien, "Revue des Etudes Augustiniennes", 1970, pp. 35-46; H. HAGENDAHL, Jerome and the Latin Classics, "Vigiliae Christianae", 1974, pp. 216-227; P. BROWN, The Patrons of Pelagius. The Romans Aristocracy between East and W est (1970), trad. it. in Religione e società nell'età di Sant'Agostino, Torino 1975, pp. 197-209; J.N.D. KELLY, ]erome, His Life, Writings and Controversies, London 1975; CH. PIETRI, Roma Christiana, Roma 1976; M. SIMONETTI, Profilo storico dell'esegesi patristica, Roma 1981, pp. 92 sgg.; W.C. McDERMOTT, Saint ]erome and Pagan GreekLiterature, "Vigiliae Christianae", 1982, pp. 372-382; C. MoRESCHINI, Il contributo di Gerolamo alla polemica antipelagiana, "Cristianesimo nella Storia", 1982, pp. 61-71; C. MoRESCHINI, Gerolamo tra Pelagio e Origene, "Augustinianum", 1986, pp. 207-216; S. PRicoco, voce S. Girolamo, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, cit., 1987 (vedi anche bibliografia relativa alla cronologia, l'ambiente, le relazioni, il rapporto con i classici, i criteri delle esegesi); C. MoRESCHINI, Gerolamo e la filosofia, in Gerolamo e la biografia letteraria (Univ. di Genova), Genova 1989.
d. Il "neoplatonismo" e !'"aristotelismo" nelle scuole di Alessandria e di Atene l. Alessandria: lpazia, Sinesio, Olimpiodoro il Vecchio, Jerocle,
Teosebio. Nulla è pervenuto di Ipazia, figlia del matematico Teone di Alessandria (il commento di Teone alla Sintassi di Tolomeo si veda nell'ed. diJ. CAMERARIUS, Basel1538, a cura di A. TmoN, Città del Vaticano 1978: su di lui cfr. A. LEJEUNE, Les postulats de la Catoptrique dite d'Euclide, "Arch. internat. d'hist. des sciences", 1949). Su Ipazia cfr.: R. HocHE, Hypatia die Tochter Theons, "Philologus", 1860, pp. 435-474; G. BIGONI, Ipazia Alessandrina, "Atti Ist. veneto di scienze, lettere e arti", 1886-1887; I. APOLLONia, S. Cirillo d'Alessandria e l'uccisione di Ipazia, "Riv. Apologia crist.", 1908; J. GEFFCKEN, Der Ausgang des griech.-romisch. Heidentum, Heidelberg 1920. Si veda anche l'articolo diJ.M. RxsT, Hypatia, "Phoenix" 1965, pp. 214-225 e di K. PRAECHTER, in R.E. PAULY-WISSOWA, e S. LAMPROPOULOU, Hypatia, philosophealexandrine, "Platon", 1977, pp. 65-78. Le Opere di Sinesio di Cirene, discepolo di Ipazia e poi vescovo, si
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vedano in: MIGNE, Patrol. Graeca, vol. 66; Opere. Epistole. Operette. Inni, a cura di A. GARZYA, Torino 1989; Tutte le opere, trad. it. di A. CASINI, Milano 1970. - Hymnes et Opuscula, a cura di N. TERZAGHI, Roma 1939-1944 (testo con trad. it. degli Inni, a cura di A. DELL'ERA, Roma 1968); Hymnes, a cura di C. LACOMBRADE, Paris 1978. -Lettere, a cura di R. HERSCHER, in Epistolographi Graeci, Paris 1873, Amsterdam 1965; Lettere, a cura di A. GARZYA, Roma 1979.- Diane Crisostomo, testo e trad. a cura di A. GARZYA, Napoli 1970. -Sul regno, trad. con testo a fronte di A. GARZYA, Napoli 1973. - In trad. it. vedi: De Providentia, a cura di S. NICOLOSI, Padova 1969; Tutte le opere, a cura di A. CASINI, Milano, 1970 . . Su Sinesio cfr.: E. MALIGNAS, Essai sur la vie et les idées philosophiques et religieuses de Synésius éveque de Ptolemais, Strasbourg 1867; O. SEECK, Studien zu Synesios, "Philologus", 1893, pp. 442-483; W. FRITZ, Die Briefe des Bischofs Synesios von Kyrene, Leipzig 1898; U. voN WILAMOWITZ-MOELLENDORF, Die Hymnen des Proklos und Synesios, "Sitzungber. der Kéinigl. Preuss. Akad. d. Wissensch.", 1.?07, pp. 272-295; W. LANG, Das Traumbuch des Synesios von Kyrene. Ubersund Analyse der philosophischen Grundlagen, Tiibingen 1926; V. VALDENBERG, La philosophie byzantine aux IV• et VI• siècles, "Byzantion", 1927; X.H. SIMEON, Untersuchungen zu den Briefen des Bischopfs Synesios von Kyrene, Paderborn 1933;]. HERMELIN, Zu den Briefen des Bischofs Synesios, Uppsala 1934; J.C. PANDO, The Life and Times of Synesius as Revealed in his Works, Washington 1940; C. BIZZOCHI, L'ordine degli Inni di Sinesio, "Gregorianum", 1942; W. THEILER, Die Chaldaischen Orakel und die Hymnen des Synesios, Halle 1942; C. LACOMBRADE, Synésios hellène et chrétien, Paris 1951; R. KEYDELL, Zu den Hymnen des Synesios, "Hermes", 1956; S. NICOLOSI, Il "De Providentia" di Sinesio di Cirene, Padova 1959; H. STROHM, Zur Hymnendichtung des Synesios von Kyrene, "Hermes", 1963, pp. 47-54; H.I. MARROU, Sinesio di Cirene e il neoplatonismo alessandrino, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. MoMIGLIANO, Torino 1968, pp. 139-164; A. CASINI, Sinesio di Cirene, Milano 1969; A. CAsiNI, Seconda vita di Sinesio, Milano 1970; J. VoGT, Synesios im Glii.ck der liindlichen Einsamkeit, "Museum Helveticum", 1971, pp. 98-108; P. DESIDERI, Il 'Diane' e la politica di Sinesio, "Atti della Accademia delle Scienze di Torino. Cl. se. morali", 1973, pp. 551-593; R. LASSAHN, Von den Dingen, die in der Mitte liegen. Marginalien zur Bildungsvorstellung des Synesios von Kyrene, "Piidagogische Rundschau", 1974, pp. 945-959; A. GARZYA, Le texte de Synésios, "Annali della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Università di Napoli", 1980-1981, pp. 59-75; A. GARZYA, Ai margini del neoplatonismo: Sinesio di Cirene, "Atti dell'Accademia Pontaniana" (Napoli), 1981, pp. 153-165; R. LIZZI, Significato filosofico e politico dell'antibarbarismo sinesiano: il "De regno" e il
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339-342. Le notizie su Olimpiodoro il Vecchio, che fu in Alessandria maestro di Proclo e che commentò alcune opere di Aristotele, si vedano in MARINO, Vita Procli, 9, e nella Suda, che ricalca Marino. Cfr. MARINO DI NEAPOLI. Vita di Proclo, trad., pref., note e indici a cura di C. FAGGIANA DI SARZANA, intr. di G. REALE, Milano 1985. Cfr. anche: R. VANCOURT, Les derniers commentateurs alexandrins d'Aristate: l'école d'Olympiodore, Étienned'Alexandrie, Lille 1941, pp. 2 sgg.; B. ScHMITT, Olympiodorus Alexandrinus philosophus, in Catalogus translationum et commentariorum (Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries), a cura di P.O. KRISTELLER, Washington 1971, pp.
199-204. DiJerocle di Alessandria, neoplatonico, sono giunti un Commentario al Carme Aureo di Pitagora e passi dal trattato Sulla provvidenza (da Fozio, Biblioth., 214, 251). Il Commento ai Versi aurei di Pitagora si veda a cura di: F.G.A. MuLLACH, Hierocles Facetus, In Aureum Pythagoreorum carmen commentarius, Berlin 1853, anast. Hildesheim 1971; F.W. KoEHLER, In aureum Pythagoreorum carmen commentarius, Stuttgart 1974. Cfr. anche trad. frane., Les vers d'or et le Commentaire d'Hiéroclès sur !es vers d'or des Pythagoriciens, Paris 1926. -Per il Trattato sulla Provvidenza, oltre alle edizioni di Fozio, cfr. anche, a cura di P. NEEDHAM, Cambridge 1709, e la trad. latina di L. GYRALDUS, con note del CAUSOBONUS, London 1655. Su Jerocle cfr.: J. NICOLE, Un traité pai"en christianisé, Genève
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1892; G. ALTMANN, De Posidonio Timaei Platonis commentatore, Berlin 1906; A. ELTER, Zu Hierocles dem Neuplat., "Rheinisches Museum", 1910; K. PRAECHTER, Christliche-neuplatonische Beziehungen, "Byzant. Zeitschr.", 1912; T. KoBuscH, Studien zur Philosophie des
Hierokles von Alexandrien. Unters. zum christl. Neuplatonismus (Epimeleia, 27), Miinchen 1976; I. HADOT, Le problème du Néoplatonisme Alexandrin. Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978; N. AUJOULAT, Le néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès d'Alexandrie. Filiations intellectuelles et spirituelles d'un néo-platonicien du V• siècle ("Philosophia Antigua", 45), Leiden 1986. Su Teosebio, discepolo diJerocle di Alessandria, di cui nulla è pervenuto, oltre all'articolo di K. PRAECHTER in R.E. PAULY-WISSOWA, cfr.le opere generali sull'ultimo platonismo. 2. Atene: Plutarco di Atene, Siriano, Domnino Di Plutarco di Atene, che dette nuovo impulso alla scuola platonica di Atene, di cui furono discepoli }erode di Alessandria e Proclo, nulla è pervenuto, se non testimonianze. Si vela: D.P. TAORMINA, Plutarco di Atene. L'Uno, l'Anima, le Forme, saggio introduttivo, fonti, traduzione e commento, Catania 1989.- Su di lui, oltre alle opere sopra citate sg tqtto il periodo, cfr.: R. BEUTLER, in R.E. PAULY-WissoWA, 1951; E. EvRARD, Les maftres de Plutarque d'Athènes et !es origines du Néoplatonisme athénien, "Antiquité classique", 1960, pp. 108-133, 391-406; H.J. BLUMENTHAL, Plutarch's Exposition of the De anima and the Psychology of Proclus, in AA.VV., De Jamblique à Proclus ("Entretiens sur l'Antiquité Classique", XXI), Vandoeuvres-Genève 1975, pp. 123-147 .. Di Siriano, successore di Plutarco nella direzione della Scuola, si veda il Commento ad alcuni libri della Metafisica di Aristotele (In Aristotelis Metaphysicam A M N), a cura di H. UsENER, Berlin 1870, e a cura di W. KROLL, Berlin 1902 (in "Commentaria in Aristotelem graeca", VI, 1), e l'In Hermogenem, a cura di H. RABE, Leipzig 1892-1893, 191J2. Oltre a R.L. CARDULLO, Siriano di Atene nella storiografia filosofica moderna e contemporanea, Catania 1986, su Siriano cfr.: I. BACH, De Syriano philosopho neoplatonico, Lauban 1862; F. WEHRLI, Zur Geschichte der Allegorischen Deutung Homers in Altertum, Basel1928. Si veda anche: P. DUHEM, Système du Monde, l, Paris 1913; W. }AEGER, Nemesios von Emesa, Berlin 1923; O. SFECK, in R.E. PAULY-WissowA cit., serie 2, IV, 2, 1932. Cfr. inoltre: P. MERLAN, Monismus und Dualismus bei einigen Platonikern, in Parusia, a cura di AA.VV., Frankfurt a.M. 1965, pp. 143 sgg.; M.A. VINCENT, Syrianus et la 'Politique' d'A-
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ristote (cité in 'Metaph. 'p. 108, 33-35, Kroll) ou un trait d'humour auraitil été pris au sérieux?, in Le Néoplatonisme, cit., 1971, pp. 215-227; A.D.R. SHEPPARD, Monad and dyad as Cosmic Principles in Syrianus, in Soul and the Structure of Being in Late Neoplatonism. Syrianus, Proclus, and Simplicius, Atti del Colloquio di Liverpool (15-16 apr. 1982), a cura di H.J. BLUMENTHAL e A.C. LLOYD, Liverpool 1982; L. TARAN,
Syrianus and Pseudo-Alexander's Commentary on Metaph. E.N., in Aristate/es. Werk und Wirkung, cit., 1985, pp. 215-232; H.D. SAFFREY, Comment Syrianus, le maìtre de l'école néoplatonicienne d'Athènes, considérait-il Aristate?, in Aristate/es. Werk und Wirkung, cit., 1985, pp. 205-214; R.L. CARDULLO, Siriano di Atene nella storiografia filosofica moderna e contemporanea, Catania 1986; O. BALLÉRIAUX, tÀ.oaoq>roç 'tà 9EoupytKà è!;E'taçEw. Syrianus et la télestique, "Kernos", 1989, pp. 13-25.
L'Introduzione aritmetica di Domnino, successore di Siriano, si veda edita a cura di J.F. BoiSSONADE, Anedocta Graeca, IV, Paris 1832, pp. 313-429 (anast., Hilçlesheim 1962), e in trad. frane. a cura di P. TANNERY, "Revue des Etudes Grecques", 1906, pp. 539-582. - Il trattato Sulla sottrazione si veda, con trad. frane., a cura di C.E. RUELLE, "Revue de Philologie, de Littérature et d'Histoire Anciennes", 1883, pp. 82-94. Su Domnino, oltre ai lavori d'insieme sul tardo platonismo, cfr.: F. HuLTSCH, in R.E. PAULY-WissowA; S. KRAUSS, Domn. a ]ewish Philosoph of Antiquity, "Jew. Quarterly Rev.", 1895.
III
Da Sant'Agostino alla chiusura delle Scuole di Atene. Dal V alla prima metà del VI secolo l. Sant'Agostino
a. Edizioni delle Opere, di singoli testi, traduzioni e commenti La prima edizione delle Opere di Agostino è quella a cura dei MAuin 11 voli., Paris 16 79-1700, il cui testo è ripreso dal MIGNE in Patrologia Latina, voll. 32-47, Paris 1845-1849. Di pregio è l'edizione critica apparsa nel "Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum" (''Corpus" viennese), Wien 1896 sgg. Sulla tradizione dei manoscritti agostiniani si veda Die handschrif-
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tliche Ùberlieferung der Werke des hl. A. (Òsterreichiche Akademie der Wissenschaften), Wien 1969 sgg. Si confrontino inoltre, criticamente più aggiornate, le edizioni: "Corpus Christianorum", serie latina, Turnholt-Paris 1950-1960; Oeuvres de Saint Augustin ("Bibliothèque Augustinienne"), con trad. francese a fronte, Paris 1925 sgg.; Opera omnia (''Nuova Biblioteca Agostiniana"), con trad. italiana, Firenze 1926 sgg.; Obras de San Ag. ("Biblioteca Autores Cristianos"), con trad. spagnola a fronte, Madrid 1940; Augustin. Oeuvres, Paris 1987. Molte le edizioni di singole opere: citiamo il De civitate Dei, a cura del DoMBART-KALB, Leipzig 1929; le Confessiones, a cura del MoNTGOMERY, Cambridge 1927, di M. SKUTELLA, Leipzig 1934, di H. WANGUERECK, Torino 1942 (se ne veda la trad. italiana, annotata, a cura di O. TESCARI, Torino 1930, 19502 ); dei Contra Academicos l'edizione a cura del DREWNIAK, Breslau 1913; del De correptione et gratia quella a cura del BoYER, Roma 1932; dei Sermones ex editis post Maurinos, l'ed. a cura del MORIN, Roma 1930; delle Retractationes l'ed. a cura di P. KNOLL, vol. 36 del "Corpus" viennese. - Si veda inoltre l'edizione delle opere con trad. italiana nel corpo della "Biblioteca Agostiniana", Firenze 1926 sgg. Si cfr. anche la trad. it. a cura di A. Guzzo del De magistro, Firenze 1927, e la trad. it. del De vera religione, a cura di S. CARASALLI, Torino 1930. Utili: l'antologia Saint Augustin, a cura di CH. BoYER, Paris 1932; l'antologia St. Augustin et l'Augustinisme, a cura di l.H. MARROU, Paris 1960 (trad. it., Milano 1960); L.F. PIZZOLATO, Agostino di Ippona: l'amicizia cristiana. Antologia delle opere e altri testi di Ambrogio, Gerolamo e Paolina, con un saggio di M. PELLEGRINO, Torino 1972. Si consultino inoltre le edizioni con traduzioni e commenti: - Soliloqui, intr., testo latino, trad. e note a cura di A. MARZULLO, Milano 1972; - Le Confessioni, intr. di CH. MoHRMANN, trad. di C. VITALI (Bur), Milano 1974; Le Confessioni, intr., trad. e note a cura di A. LANDI, Milano 1987;- Les lettres de Saint Augustin découvertes par Johannes Divjak, comunicazioni presentate al Colloquio del20 e 21 sett. 1982, Paris 1983;- Il "De libero arbitrio" di S. Agostino, studio introduttivo, testo, trad. e comm. di F. DE CAPITANI, Milano 1987; "De libero arbitrio" di Agostino d'Ippona, comm. di G. MADEc-F. DE CAPITANI-L.F. TUNINETTI-R. HoLTE, Palermo 1990; -La vera religione, ed. integrale bilingue, intr., trad. e note di M. VANNINI, Milano 1987;"De musica" di Agostino d'Ippona, comm. di U. PIZZANI e G. MILANESE, Palermo 1990; - "De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum ". "De quantitate animae" di Agostino d'Ippona, comm. a cura diJ.K. CoYLE-F. DECRET-A. CLERICI e altri, Palermo 1991.
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b. Concordanze, lessici, indici Da consultare sono ancora le concordanze a cura di D. LENFANT, Concordantiae augustinianae, sive collectio omnium sententiarum quae sparsim reperiuntur in omnibus Sancti Augustini operibus ad instar concordantiarum sacrae scripturae labore, Paris 1656-1665 (anast., Bruxelles 1963). - Le concordanze di S. Agostino si vedano inoltre in microfiches, a cura del CETE DOC di Louvain, 1988. Lessici e dizionari: Vorarbeiten zu einem Augustinus-Lexikon (Osterreichiche Akademie der Wissenschaften), Wien 1973 sgg.; Catalogus verborum quae in operibus Sancti Augustini inveniuntur ("Thesaurus Linguae Augustinianae"), Eindhoven 1976 sgg.; Augustinus Lexikon, a cura di C. MAYER e E. FELDMANN, I, 1/2, Basel-Stuttgart 1986. c. Cronologia delle opere. 'Biblioteca agostiniana' A. KuNZELMANN, Die Chronologie der Sermones hl. Augustinus, "Miscellanea Agostiniana" (Roma), 1930-1931; S. ZARB, Chronologia Operum Sancti Augustini, "Angelicum", 1933 e 1934; Chronologia Enarrationum Sancti Augustini in Psalmos, "Angelicum", 1935, 1936 e 1948. - Si veda G. MADEC, La Bibliothèque augustinienne, presentazione d'insieme, tavola analitica delle introduzioni e delle note complementari, Paris 1988.
d. Repertori e strumenti bibliografici. Riviste Oltre alle bibliografie in opere d'insieme e in studi su singoli aspetti, si segnala innanzitutto il fondamentale Fichier augustinien, dallo schedario dell"'Institut cles Études augustiniennes", in 4 voli. (I e II: autori; III e IV: materie), Paris 1972 (supplemento 1981). Utili: E. NEBREDA, Bibliographia augustiniana, Roma 1928; R. GoNZALES, Bibliografia agostiniana del centenario, "Religi6n y Cultura", 1931; F. VAN STEENBERGHEN, La philosophie de St. Augustin d'après !es travaux du Centenaire, "Rev. Néosc.", 1932 e 1933; D.A. PERINI, Bibliographia augustiniana, Firenze 1936; C. GIACON, Il pensiero cristiano con particolare riguardo alla Scolastica medievale, II.: Filosofia (''Guide Bibliografiche"), Milano 1943; M.F. SciACCA, Augustinus ("Bibliographische Einfiihrungen in das Studium der Philosophie", fase. 10), Bern 1948; M.F. SciACCA, Agostino, in Grande antologia filosofica, vol. III: Il pensiero cristiano, Milano 1954; Augustinus Magister, Atti e discussioni del Congresso internazi9nale agostiniano (Paris 1954), Paris 1954. Cfr. anche: H. RoNDET, Etudes augustiniennes, "Recherches de Sciences Re-
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ligieuses", 1950; A. PINCHERLE, Studi agostiniani, "Rassegna di Filosofia", 195 3; T. VAN BAVEL, Répertoire bibliographique de St. Augustin 1950-1960, con la collaborazione di F. VAN DER ZANDE, SteenbrugisDen Haag 1963 ("Instrumenta patristica", 3).; C. ANDRESEN, Bibliographia Augustiniana, Darmstadt 1973 2 ; R. LAZCANO, Informaci6n bibliografica sobre san Agustin en castellano, "Rev. agust.", 1990, pp.
951-968. Fondamentale l'aggiornamento bi~liografico: Bulletin Augustinien, a fine di ogni annata della "Revue des Etudes Augustiniennes" (Paris). Interessante L 'opera e la personalità di sant'Agostino nei fondi dell'Angelica, Mostra bibliografica (Biblioteca Angelica), Roma 1972. Si tengai).o infine presenti le riviste: "Augustiniana" (Louvain); "Revue des Etudes Augustini~nnes" (Paris); "Recherches augustiniennes" (suppl. della "Revue des Etudes Augustiniennes").
e. Letteratura: studi d'insieme. Vita. Opere. Pensiero Vastissima la letteratura su Sant'Agostino. Indichiamo qui: le opere d'insieme che inquadrano nel complesso la concezione agostiniana e che indicano modi diversi d'interpretazione su di un piano storiografico; gli studi su aspetti particolari. Studi d'insieme: Vita. Opere. Pensiero Dell'antica vita di Agostino composta da Possidio (Vita Augustini) si veda l'edizione a cura di H. WEISSKOTTEN, Princeton (N.J.) 1919, e con trad. it. e intr. a cura di M. PELLEGRINO, Alba 1955. -Sulla vita vedi anche S. LENAIN DE TILLEMONT, Mémoires pour servirà l'Histoire ecclésiastique des six premiers siècles (Agostino), XIII, Paris 1710. Studi monografici d'insieme: E. PoRTALIÉ, St. Augustin, in Dictionnaire de Théologie catholique, (1902); E. GILSON, Introduction à l'étude de St. Augustin, Paris 1929, 19432 (aggiunto un fascicolo Retractatio: trad. it., Casale Monferrato 1983). - Da consultare sono poi le seguenti opere generali: F. Bi:iHRINGEN, Aurelius Augustinus, Bischop of Hippo, Leipzig 1844-1869; G. BINDEMANN, Der Aurelius Augustinus, Stuttgart 1877; A. HATZFELS, St. Augustin, Paris 1897;]. MARTIN, St. Augustin, Paris 1901, 192Y; G.V. HERTLING, Augustin, Mainz 1902; L. BERTRAND, St. Augustin, Paris 1913; A. CASAMASSA, Il pensiero di S. Agostino, Roma 1919; A. Guzzo, Agostino dal "Contra Academicos" al "De vera religione", Firenze 1925; C. DAWSON, St. Augustin, London 1930; CH. BoYER, Essais sur la doctrine de St. Augustin, Paris 1932; G. QuADRI, Il pensiero filosofico di S. Agostino, Firenze 1934; A. PINCHERLE, S. Agostino di Ippona, vescovo e teologo, Bari 1939 (del PINCHERLE
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si veda anche La formazione teologica di S. Agostino, Roma s.d.); G. BARDY, St. Augustin, Paris 1940; CH. BoYER, S. Agostino, Milano 1947; F. CAYRÉ, Initiation à la philosophie de St. Augustin, Paris 1947; M.F. SciACCA, S. Agostino, Brescia 1949; P. GEROSA, S. Agostino, Roma 1953; J. O'MEARA, The YoungAugustine, the Growth of St. Augustine's Mind up to his Conversion, London 1954; G. DE PLINVAL, La pensée de St. Augustin, Paris 1954; A Companion to the Study of St. Augustine, articoli di AA.VV., a cura di R.W. BATTENHOUSE, Oxford 1955; C. CAPANAGA, S. Agostino, Torino 1955 (trad. it. dell'ed. spagnola, Barcelona 1951); P. SIMoN, Augustinus, Paderborn 1954; O. KARRER, Augustinus, Munchen 1954; F. VAN DER MEER, St. Augustin pasteurd'ames, 2 voli., Colmar-Paris 1955 (trad. it., Roma 1971); L. BERTRAND, St. Augustin, Paris 1955; H.I. MARROU, St. Augustin et l'augustinisme, Paris 1960 (trad. it., Milano 1986); J. CHABANNES, St. Augustin, Paris 1961; H. PoPE, St. Augustine of Hippo, New York 1961; F. VAN DER MEER, Augustine the Bishop, London 1962; G. BaNNER, St. Augustine of Hippo: Life and Controversies, Philadelphia 1964; P. BROWN, Augustine of Hippo. A Biography, London 1967, 19712 (trad. it., Torino 1974); A. MANDOUZE, Saint Augustin. L'aventure de la raison et de la grace, Paris 1968; O. PERLER, Les Voyages de saint Augustin, Paris 1969; G. ScHWARZ, Che cosa ha veramente detto S. Agostino, trad. it., Roma 1971; J.L. ScHEFER, Saint Augustin, "Tel Quel",,1973, pp. 65-102; V. CAPANAGA, Agustfn de Hipona, Madrid 1974; E. PoRTALIÉ, A Guide to the Thought of Saint Augustine, intr. di V.J. BouRKE (reprint del 1960), Westport 1975; Scientia Augustiniana. Studien iiber Augustinus, den Augustinismus und den Augustinsorden, in onore di A. ZuMKELLER, a cura di C.P. MAYER e W. EcKERMANN, Wurzburg 1975; K. }ASPERS, Augustin, Munchen 1976; A. TRAPÈ, Sant'Agostino. L'uomo, il pastore, il mistico, Fossano 1976 (trad. franc. 2 , Paris 1988); A. PINCHERLE, Vita di S. Agostino, Bari 1980; M.M. CAMPELO, Agustin de Tagaste. Un hombre en camino, Valladolid 1983; K. FLASCH, Agostino d'Ippona, trad. it., Bologna 1983; M. VANNINI, Invito al pensiero di S. Agostino, Milano 1983; H. CHADWICK, Augustine, Oxford-New York 1986 (trad. frane., Paris 1987); C. CREMONA, Agostino d'Ippona, Milano 1986; Atti del Congresso internazionale su S. Agostino nell6° centenario della conversione (Roma 15-20 sett. 1986), Roma 1987; E. PRZYWARA, Augustin. Passions et destins de l'Occident, Paris 1987; San Agustfn, en el XVI centenario de su conversi6n (''La Ciudad de Dios", 1987), Madrid 1987; M. MARIN, Agostino, in Dizionario degli Scrittori greci e latini, I, dir. F. DELLA CoRTE, Milano 1987; L'umanesimo di Sant'Agostino, Atti del Congresso intern. (Bari 28-30 ott. 1986), a cura di M. FABRIS, Bari 1988; (Saint) Augustine, On Faith and Works, Ràmsey (N.J.) 1988; Santo Agostinho, No XVI centenario da sua conversio e baptismo, "Revista Portuguesa de Filosofia", n. l, 1988; C. LoRIN, Pour saint Augustin,
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verità come fondamento del pensiero giuridico-politico di Sant'Agostino; vol. Il: Le due città di Sant'Agostino: società, diritto e giustizia), Padova 1974; P.J. TADILLO O'FARREL, Presupuesto teologico de la filosofia juridica agustiniana, Sevilla 1974; N. BLA.SQUEZ FERNANDEZ, El patrocinio agustiniano de la pena de muerte, "Augustinus", 1975, pp. 253-296; R.D. REECE, Augustine's Social Ethics, "Foundations. A Baptist Journal of History and Theology", 1975, pp. 75-89; G. ZoTTELE, Scienza, sapienza ed esperienza sociale in Sant'Agostino, "Verifiche", 1975, pp. 355-360; J.F. 0RTEGA MuNoz, Agustin de Hipona, filosofo de la historia, "La Ciudad de Dios", 1976, pp. 163-205; M. PERRINI, La visione agostiniana della città politica, "Humanitas", 1977, pp. 3-17; S. D'ELIA, La visione agostiniana della storia nel "De Civitate Dei", Napoli 1983; B. BuBAcz, Destino y voluntad nacional de la ciudad terrena en el 'De civitate Dei', trad. diJ. SoLABRE, "Augustinus", 1986, pp. 23-31; J. PELIKAN, The Mystery of Continuity. Time and History, Memory and Etemity in the Thought of Saint Augustine, Charlottesville (Va.) 1986; F. n'AGOSTINO, L 'antigiuridismo di Sant'Agostino, "Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto", 1987, pp. 30-51; M.A. RASCHINI, La problematica politica nel 'De civitate Dei', "Filosofia Oggi", 1987, pp. 5-18; R. SÈvE, La loi civile dans la pensée de Saint Augustin, "Cahiers de Philosophie Politique et Juridique", 1987, pp. 31-42; W.R. STEVENSON ]R., Christian Lave and ]ust War. Mora! Paradox and Politica! Li/e in St. Augustine and his modem Interpreters, Macon (Ga.) 1987; E. TESELLE, The Civic Vision in Augustine's 'City of God', "Thought", 1987, pp. 268-280; G. LETTIERI, Il senso della storia in Agostino d'Ippona. Il "saeculum" e la gloria nel 'De civitate Dei', Roma 1988. Arte e musica
K. SvoBODA, L'esthétique de St. Augustin et ses sources, Paris 1933; E. CHAPMAN, St. Augustine's Philosophy of Beauty, New York 1939; H. DAVENSON [H.I. MARROU], Traité de la musique de St. Augustin, Neuchàtel1942; C. PROVA, La musica nell'insegnamento delle arti liberali: i trattati di Sant'Agostino e di Boezio, "Benedictina", 1985, pp. 377-388; D. ZoLTAI, Sui rapporti della teoria e della pratica dell'arte nella patristica e in Sant'Agostino, "Schede Medievali", 1986, pp. 56-65; Augustine on Music. An interdisciplinary Collection of Essays, a cura di R.R. LA CROIX ("Studies in the History and Interpretation of Music", 6), Lewiston (N.Y.) 1988; B. BRENNAN, Augustine's 'De musica', "Vigiliae Christianae", 1988, pp. 267-281; J.M. FoNTANIER, Sur le traité d'Augustin 'De pukhro et apto'. Convenance, beauté et adaptation, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 1989, pp. 413-421; C. PERRICONE, St. Augustine's Idea of Aesthetic Interpretation, "Ancient Philosophy", 1989, pp. 95-107.
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2. Pelagio. L'ultima fase della cultura in Occidente. Marciano Capella
a. Pelagio Molti degli scritti e dei frammenti di Pelagio si trovano dispersi sotto il nome di altri autori o anonimi nella Patrologia latina del MIGNE. L' Expositionum in epistolas Pauli libri XIV si veda in MIGNE, Patr. lat., vol. 20 (cfr. anche in S. SouTER, Pelagius' Exposition of Thirteen Epistles of St. Pau!, Cambridge 1926, in "Texts and Studies", vol. IX); il Libellus /idei ad Innocentium papam, in MIGNE, Patr. lat., vol. 48; l'Epistola ad Demetriadem seu liber de insitutione virginis, in MIGNE, Patr. lat., voll. 30 e 33; il Liber de vita christiana, in MIGNE, Patr. lat., voll. 40 e 50; il De divina lege, in MIGNE, Patr. lat., vol. 30; il De virginitate, in MIGNE, Patr. lat., vol. 30 (cfr. anche in "Corpus Script. Ecci. lat.", vol. l); l'Epistola ad Claudium, in MIGNE, Patr. lat., vol. 20 (anche in "Corpus Script. Ecci. lat.", vol. l); l'Epistola ad Oceanum, in MIGNE, Patr. lat., vol. 30; l'Epistola ad Marcellam, in MIGNE, Patr. lat., vol. 30 (anche in "Corpus Serip t. Ecci. lat.", vol. 29); l'Epistola ad Celantiam, in MIGNE, Patr. lat., vol. 22 (anche in "Corpus Script. Ecci. lat.", 29); De contemnenda hereditate, in MIGNE, Patr. lat., vol. 30. -Il De divitiis, l'Epistola de malis doctoribus, l'Epistola de castitate, il De possibilitate non peccandi, l'Epistola ad adulescentem si vedano in Briefe, Abhandlun-
gen und Predigten aus den zwei letzten ]ahrhunderten des Kirchlichen Altertums um dem Anfang des Mittelalters, a cura di C.P. CASPARI, Christiania 1890.- Per i frammenti si veda A. BRUCKNER, Quellen zur Geschichte des pelagian. Streites, in Sammlung ausgewà"hlter Kirchen und dogmengeschichtlicher Quellenschriften di G. KRUGER, 2 serie, fase. 7, Ti.ibingen 1906 (cfr. G. BARBERO, in Il pensiero politico cristiano, dai Vangeli a Pelagio, Torino 1962). Su Pelagio e il Pelagianesimo (in particolare su Giuliano di Eclano) cfr.: L. PATOUILLET, Histoire du Pélagianisme, Avignon 1763, 1767; G.F. WIGGERS, Versuch einer pragmatischen Darstellung des Augustinismus und Pelagianismus, Hamburg 1821-1833; F. KLASEN, Die innere Entwickelung des Pelagianismus, Freibur i.Br. 1882; E. BuoNAIUTI, Pelagio e l'Ambrosiastro, "Ricerche religiose", IV, 1928; A. Guzzo, Agostino contro Pelagio, Torino 1934; G. DE PLINVAL, Pélage, ses écrits, sa vie et sa réforme, Lausanne 1943; S. DE SIMONE, Il problema del peccato originale e Giuliano di Eclano, Napoli 1950; H.A. WoLFSON, Philosophical Implications of the Pelagian Controversy, "Proceedings of the American Philosophical Society", 1959; S. PRETE, Pelagio e il pelagianesimo, Brescia 1961.- Si cfr. anche: R. HEDDE e E. ADANN, Pélagianisme, in Dictionnaire de théologie catholique; Storia della Chiesa, IV, a cura di G. DE PLINVAL e FucHE-MARTIN, trad. it. Torino 1940; Storia della Chiesa, l, di K. BIHLMEYER e H. TuECHLE, trad. it. Brescia 1955;
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Il pensiero politico cristiano. I: Dai Vangeli a Pelagio. II: Sant'Agostino, a cura di G. BARBERO (coli. "Classici Politici" Utet, 13), Torino 1962-1965; H. ULBRICH, Augustins Briefe zur entscheidenden Phase des Pelagianischen Streites, "Revue de;; Études Augustiniennes", 1963, pp. 235-258; F. REFOULÉ, ]ulien d'Belane, théologien et philosophe, "Recherches de Science Religieuse", 1964, pp. 42-84, 233-247; J.B. VALERO, El estoicismo de Pelagio, "Estudios Eclesiasticos", 1982, pp. 39-63; J. DEN BoEFT, Augustine's Letter to Pelagius, in Augustiniana traiectina, Colloquio Internazionale di Utrecht (13-14 nov. 1986), a cura di J. DEN BoEFT eJ. VAN OoRT, Paris 1987, pp. 73-84; B.R. REES, Letters of Pelagius and his Followers, Leiden 1991.
b. Dopo Agostino e Marciano Capella Sull'agostinismo fino al Concilio di Orange (529), sulle polemiche agostiniano-pelagiane da Prospero di Aquitania a Giovanni Cassiano a San Cesario di Arles a Fulgenzio di Ruspe, cfr. le citate opere sul periodo in generale, su Sant'Agostino e il 'dopo' Agostino (in particolare H.I. MARROU, cit.). -Si veda anche: From Augustine to Eriugena. Essays an Neoplatonism and Christianity, in onore di J. O'MEARA, a cura di F.X. MARTIN, Catholic University of America 1991; ST. GERSH, Platonism in Late Antiquity, Leiden 1992. Importante per la storia della 'cultura' è l'opera di Marziano Capella, tramandata sotto il titolo De nuptiis Mercurii et Philologiae: si veda nell'ed. a cura di: F. EYSSENHARDT, Leipzig 1925, 19782 ; L. LENAZ, con introd., trad. e comm., Padova 1975; J. WILLIS, Stuttgart-Leipzig 1983_ Nuovi studi hanno messo in luce un'altra opera di Marziano Capella sulla 'metrica', da cui risulta che il titolo della prima opera non era De nuptiis Mercurii et Philologiae, ma solo Philologia (nella Metrica si dice che nella 'mia opera' Philologia ecc_), Per la questione si veda M. DE NoNNO, Un nuovo testo di Marziano Capella: la Metrica, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1990, pp. 129-144. Per i codici cfr. C. LEONARDI, I codici di Marziano Capella, "Aevum", 33 e 34, 1959, pp. 443-489, e 1960, pp. 1-99,411-524. Su Marziano Capella, oltre all'articolo di P. WESSNER in R.E. PAULY-WrssowA cit., XIV, II, cfr.: F. DELLA CoRTE, Enciclopedisti latini, Genova 1946, pp. 69-7 4; H_ I. MARROU, St. Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1949 (in particolare pp. 112, 228, 412); P. CouRCELLE, Les lettres grecques en Occident, Paris 1948; L. LENAZ, Introduzione e Commento a De Nuptiis Mercurii et Philologiae, a cura di L. LE-
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naz, cit., 1975; C.E. LuTZ, Martianus Cape/la. Addenda et corrigenda, con una nota di J .J. CoNTREUI, in Catalogus translationum et commentariorum, III, a cura di F.E. CRANS e P.O. KRISTELLER, Washington 1976, pp. 449-452; E. BROWN ]R., Epicurus and Voluptas in Late Antiquity: the Curious Testimony of Martianus Cape/la, "Traditio", 1982, pp. 75-106; S.I.B. BARNISH, Martianus Cape/la and Rome in the late Fifth Century, "Hermes", 1986, pp. 98-111; C. LEONARDI, Martianus Capella et ]ean Scot. Nouvelle Présentation d'un vieux problème, in ]ean Scot écrivain, Atti del IV Colloquio intern. (Montréal 28 ag.-2 sett. 1983), a cura di G.H. ALLARD, Montréal-Paris 1986, pp. 187-207; D. SHANZER, A Philosophical and Literary Commentary on Martianus Capella 'De nuptiis Philologiae et Mercurii', Berkeley (Ca.) 1986; C. LEoNARDI, Der Kommentar von Iohannes Scotus zu Martianus Cape/la im 12. ]ahrhunder, in Eriugena redivivus, a cura di W. BEIERWALTES, Heidelberg 1987; M. DE NoNNO, Un nuovo testo di Marziano Capella: la Metrica, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 1990, pp. 129-144. 3. Proclo
a. Opere complessive. Edizioni singole. Traduzioni. Bibliografie Per le scuole platoniche e neoplatoniche (Alessandria - Atene) e la cultura prima di Proclo, confronta sopra Bibliografia (Parte I, 7, d). La Vita di Proclo di Marino si veda nell'ed. a cura di: J.F. BorssoNADE, Leipzig 1814 (anast. Amsterdam 1986); anche in Procli Opera inedita, a cura di V. CousrN, 2 ed., trad. in inglese in RosAN, The Philosophy of Proclus, New York 1949; in trad. it., a cura di C. FARAGGIANA Dr SARZANA, in PRoCLO Lrcro, Manuali ... , intr. di G. REALE, Milano 1985, pp. 285-319, e in idem: G. REALE, La visione d'insieme del pensiero e dello spirito di Proclo nello scritto di Marino, pp. CLXV-CLXXIII (si veda dopo, a Marino, la Vita di Proclo di Marino, a cura di R. MASULLO, Napoli 1985). I sei volumi delle Opera Procli, a cura di V. CousrN, Paris 1820-1827 (ed. in l vol., 1864; anast., 1962), contengono: I, De decem
dubitationibus circa providentiam, De providentia et Fato et eo quod in nobis, De malorum subsistentia (nella versione latina di Guglielmo di Moerbeke); II e III, Commenti all'Alcibiade I; IV-VI, Commenti al Parmenide in 7 libri, Scolii al Parmenide (i tre opuscoli, giunti nella trad. di G. di Moerbeke, si vedano anche a cura di H. BoESE, Tria opuscula, de providentia, de libertate, de malo, latine Guilelmo Moerbeka vertente ex graece ex Isaaci Sebastocratoris aliorumque scriptis collecta, Berlin 1960); si veda anche: De decem dubitationibus circa providentiam, testo e trad. di D. IsAAC, Paris 1977; De providentia et fato et eo quod in nobis, testo
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e trad. di D. IsAAC, Paris 1979; De malorum subsistentia, a cura di D. IsAAC, Paris 1982. Il Commento al Parmenide - non completo in CousiN - si veda nell'ottima ed. a cura di R. KLIBANSKI e C. LABOWSKI (''Corpus Platonicum medii aevi, Plato latinus", vol. III), London 1953 (si veda anche A.E. CHAIGNET, Commentaire sur le Parménide, suivi du Commentaire
anonyme sur les VII• dernières hypothèses, traduit pour la première fois en français, et accompagné de notes, d'une table analytique des paragraphes, et d'une traduction de Damascius "La vie d'Isidore ou histoire de la philosophie", 1900-1903, nuova ed. Frankfurt 1963; Platonis Parmenides. Cum 4 libris prolegomenorum et commentario perpetuo. Ace. Procli In Parmenidem commentarii nunc emendatius, a cura di C.G. STALLBAUM, riprod. ed. 1839, Frankfurt a.M. 1976; Commentaire sur le Parménide de Platon, trad. di GuGLIELMO m MoERBEKE, ed. critica a cura di C. STEEL, Leuven-Leiden 1982, 1985 2 ). Il Commento al Timeo si veda a cura di E. DIEHL, Leipzig 1903-1906. Il Commento all'Alcibiade I si veda nell'ed. a cura di L.G. WESTERINK, Amsterdam 1954 (con testo e trad. francese a cura di A.PH. SEGONDS, in 2 voli., Paris 1985-1986). I Commenti alla Repubblica, nella ed. a cura di W. KROLL, 2 voli., Leipzig 1899-1901, rist. Amsterdam 1965. I Commenti al "Crati/o" di Platone, a cura di G. PASQUALI, Leipzig 1908. La Teologia platonica, a cura di E. PoRTO, con trad. latina e la Vita di Marino (In Platonis Theolo-
giam libri sex, per Aemilium Portum ex graecis facti latini et graece ac latine nunc primum in lucem edidit. Accessit Marini Neopolitani Libellus de "Vita Procli", item "conclusiones LV secundum Proclum" quas olim Picus de Mirandula disputandum exhibuit), Hamburg-Frankfurt 1618, nuova ed. 1980 (ottima l'ed. a cura di H.D. SAFFREY e L.G. WESTERINK, in 6 voli., Paris 1968, 1974, 1978, 1981, 1987). Gli Elementi di Teologia (Institutio Theologica), a cura di E.R. Donns, con introd. (importante), trad. ingl. e commento, Oxford 1933, nuova ed. 1963 (anche, trad. di G. DE MoRBECCA, a cura di H. BoESE, Leuven 1987). Gli Elementi di Fisica (Institutio physica), a cura di A. RITZENFELD, con trad. tedesca, prefaz. e breve commento, Leipzig 1912. Il De Sacrificio et magia si veda in J. BmEZ, Catalogue des manuscrits alchimiques grecs, VI, Bruxelles 1928 (si veda la trad. frane. del FESTUGIÈRE, in La révélation d'Hermès Trismégiste, I, Paris 1944). Gli Inni si vedano a cura di ABEL, Leipzig 1883, e di E. VoGT, Wiesbaden 1957. La Crestomazia grammaticale si veda a cura di A. SEVERYNS (Recherches sur la Chresto-
mathie de Proclus. Le codex 239 de Photius. I. Étude paléographique et critique; II. Texte, traduction, commentaire, Paris-Liège 1938; in trad. it. cfr. Proclo, Crestomazia, a cura di D. FERRANTE, Napoli 1957). I Diciotto argomenti contro i Cristiani si vedano in Giovanni Filopono De aeternitate mundi contra Proclum, a cura di U. RAABE, Leipzig 1899, Hildesheim 1963, 1983. Lo Schizzo delle ipotesi astronomiche si veda
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edito, con trad. frane., da HALMA (Hypothèses et Époques des Planètes de Cl. Ptolémée ei Hypothèses de Proclus Diadochus), Paris 1820 (si veda anche a cura di C. MANITIUS, Leipzig 1909, 1974). La Parafrasi del Tetrabiblo di Tolomeo si veda edita da MELANTONE, Basel1554, e con la versione latina di ALLACIO, Leiden 1635 e 1654. Il Commento sul primo libro degli Elementi di Euclide si veda edito a cura di G. FRIEDLEIN, Leipzig 1873, Hildesheim 1967 (~i veda anche Proclus de Lycie, Les commentaires sur le premier livre des Eléments d'Euclide, tradotti per la prima volta dal greco in francese, introd. e note di P. VER EECKE, Bruges 1948). I trattatelli Sulla Sfera e Sulle Eclissi, ritenuti un tempo di Proclo, si vedano: il primo edito a cura di J. GuTENACKER, Wiirzburg 1830, il secondo dallo ScHROETER, Wien 1561 (De effectibus eclipsium solis et lunae, juxta singulas signorum triplicitates et decanos, di seguito alle Tables Astrologiques). Si dubita siano di Proclo tre trattatelli grammatico-letterari: I caratteri epistolari (editi anonimi da F. Mo~EL, Paris 1575; sotto il nome di Libanio nel III vol. della Collection Epistolaire di G. CoMMELIN); I tre generi di poesie (editi da FR. MoREL, Paris 1615); il Commento alle Opere e ai Giorni di Esiodo (si vedano nella maggior parte delle edizioni di Esiodo: cfr. V. SALEMI, Spunti neoplatonici nel commento di Proclo agli "Epya Kai 'HJ.J.ÉPat di Esiodo, "Annali della Facoltà di Lettere dell'Università di Napoli", 1951). Si vedano le seguenti edizioni degli scritti teurgici: Eclogae e Proclo de Philosophia Chaldaica sive de doctrina oraculorum chaldaicorum, Haile 1891; E. DES PLACES, Oracles Chaldai"ques avec un choix des commentaires anciens, Paris 1971, pp. 202-212, 219-220; ITEpi 'tfjç Ka9 "Eì.À.llvaç izpanKfjç 'tÉXVllç, a cura di J. BmEZ, in Catalogue des manuscrits alchimiques grecs, VI, Bruxelles 1928, pp. 137-151. In traduzione italiana, oltre a Gli elementi di teologia, a cura di M. LosAcco, Lanciano 1917, e alla Teologia platonica, a cura di E. TuROLLA, Bari 1957, segnaliamo le seguenti traduzioni sia italiane sia straniere: Ptolemy's Tetrabiblos or Quadripartite, Being Four Books of the Influence of the Stars, nuova trad. dal greco dalle parafrasi di Proclo, a cura di Y. AsHMAND, London 1822; Inni, a cura di L.A. MicHELANGELI, Bologna 1885; Inni, a cura di K.F. GuTHRIE, in Proclus. Biography, Hymns and Works, Yankees 1925; Inni, intr., testo, trad. a cura di D. GIORDANO, Firenze 1957; Inni, a cura di E. PINTO, trad. e testo critico, con commento e lessico, Napoli 1975; Commento al I libro degli Elementi di Euclide, intr., trad. e note di M. TIMPANARO CARDINI, Pisa 1978; The P/atonie Theology, trad. a cura di T. TAYLOR, pref. di R.B. HARRIS, ripr. 1816, New Gardens 1985; I Manuali, I Testi magico-teurgici e Vita di Proclo di Marino, trad., pref., note, indici a cura di C. FARAGGIANA DI SARZANA, con saggio introduttivo di G. REALE, Milano 1985; La provvidenza e la libertà dell'uomo, a cura di L. MoNTONERI
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(trad. it. dei tria Opuscula), Bari 1986; Sur le "Premier Alcibiade" de Platon, a cura di A.PH. SEGONDS, Paris 1985, 1986; Commentary on Plato's Parmenides, trad. di G.R. MoRROW eJ.M. DILLON, intr. e note di J.M. DILLON, Lawrenceville (N.J.) 1987; Elementatio theologica, trad. di G. DE MoRBECCA, a cura di H. BoESE, Leuven 1987; Lezioni sul "Crati/o" di Platone, intr., trad. e comm. a cura di F. RoMANO, Catania 1989. Per l'elenco delle Opere, per i testi, edizioni e traduzioni si veda in particolare la Bibliografia di G. REALE, in Introduzione a Proclo, Bari 1989, pp. 125-138. Per una bibliografia generale su Proclo cfr. W. CHRIST-W. ScHMIDT-0. STAEHLIN, Geschichte der griechischen Literatur, II, 2, Miinchen 1929. Si veda anche l'articolo, Proklos, di R. BEUTLER, in R.E. PAULY-WissowA, 1957, coli. 186-247; ampia bibliografia in G. REALE, Intr. a Proclo, cit., 1989 (pp. 125-163; anche La fortuna di Proclo e lo stato generale delle ricerche, pp. 105-121).
b. Letteratura: studi complessivi Accanto alle Storie della filosofia antica e ai lavori d'insieme sul pensiero antico e sul platonismo, confronta: A. BERGER, Proclus, exposition de sa doctrine, Paris 1840; A.E. TAYLOR, The Philosophy of Proclus, "Proceedings of the Aristotelian Society" (1918), pp. 600-635 (anast., New York 1976, pp. 151-191); R. KLIBANSKY, Ein ProcklosFund und seine Bedeutung, Heidelberg 1929; L.J. RosA.N, The Philosophy of Proclus. The Fina! of Ancient Thought, New York 1949; G. MARTANO, L'uomo e Dio in Proclo, Napoli-Roma 1952 (anche, in nuova ed. riveduta e aggiornata: Proclo di Atene. L 'ultima voce speculativa del genio ellenico, Napoli 1974); R. BEUTLER, Proklos, in R.E. PAULY-WisSOWA, 1957; W. BEIERWALTES, Proklos. Grundziige seiner Metaphysik, Frankfurt a.M. 1965, 19792 (trad. it.: Proclo. I fondamenti della sua metafisica, aggiornamento bibliografico, Milano 1988); G. SANTINELLO, Saggi sull'"umanesimo" di Proclo, Bologna 1966; P. BASTID, Proclus et le crépuscule de la pensée grecque, Paris 1969; J. TROUILLARD, Proclus et san oeuvre, Paris 1978 (dattiloscritto depositato in consultazione presso l'Institut Catholique de Paris); E.A. RAMOS }uRAno, Lo Platonico en el siglo V p. C.: Proclo, Sevilla 1981; A. CHARLES-SAGET, L'ar-
chitecture du divin. Mathématiques et philosophie chez Plotin et Proclus, Paris 1982; M. DI PASQUALE BARBANTI, Proclo tra filosofia e teurgia, Catania 1983; G. REALE, L'estremo messaggio spirituale del mondo antico nel pensiero metafisica e teurgico di Proclo, introduzione a I Manuali: Elementi di fisica, Elementi di teologia, I testi magico-teurgici; Marino di Neapoli, Vita di Proclo, a cura di C. FARAGGIANA DI SARZANA, Milano 1985, pp. v-ccxxm; AA.VV., Proclus et san influence, Atti del Collo-
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quio di Neuchatel (giugno 1985), a cura di G. Boss e G. STEEL, intr. di F. BRUNUER, Ziirich 1987; AA.VV., Proclus lecteur et interprète des anciens, Atti del Colloquio internazionale del CNRS (Paris 2-4 ott. 1985), a cura diJ. PÉPIN e H.D. SAFFREY, Paris 1987; G. REALE, Introduzione a Proclo, Roma-Bari 1989 (con ottima bibliografia).
c. Letteratura: studi complessivi e particolari su singoli aspetti J. FREUDE~THAL, Zu Proklos und d. Jiing Olympiodor, "Hermes", 1881 (ariche Uber d. Lebenszeit d. Proklos, "Rheinisches Museum", 1888); H. KocH, Proklos als Quelle des pseudo-Dionysius Aeropagita, "Philologus", 1895; P. TANNERY, Sur la période finale de la philosophie grecque, "Revue Philosophique", 1896; J.G. VON PESCH, De Procli fontibus. Dissertatio ad historiam matheseos geometriae pertinens, Leiden 1900; E. RoMAGNOLI, Proclo e il ciclo epico, "Studi Italiani di Filologia Classica", 1901, pp. 35-123; O. IMMISCH, Beitrà"ge zur Chrestomathie des Proklus und zur Poethe des Altertum, in AA.VV., Studi, in onore di TH. GoMPERZ, Wien 1902, pp. 237-274; E. DrEHL, Der Timaiostext des Proklos, "Rheinisches Museum fiir Philologie", 1903, pp. 246-269; M. ALTENBURG, Die Methode d. Hypothesis bei Plat. Arist. in Proklos, Marburg 1905; K. PRAECHTER, Procli Diadochi in Platonis Timaeum commentaria ed. E. Diehl, "Gottingische Gelehrte Anzeigen", 1905, pp. 505-535; G. PASQUALI, Prolegomena ad Procli commentarium in Cratylum, "Studi italiani di Filologia classica", 1906, pp. 127-152; F. STEIN, De Procli Chrestomathia grammatica quaestiones selectae, Bonn 1907; U. WrLAMOWITz-MoELLENDORF, Die Hymn. d. Proklos und Synesius, "Berlin. Akad.", 1907; N. HARTMANN, Des Proklus Diado-
chus philosophische Anfangsgriinde der Mathematik nach den ersten zwei Biichern des Euklidkqmmentars dargestellt, Giesse 1909; H. ScHULTZ, Die handschriftliche Uberlieferung der Hesiod-Scholien, I: Proklos zu den Erga, "Abhandlungen der Koniglichen Gesellschaft der Wissenschaften zu Gottingen. Philologisch-historische Klasse", 1910, pp. 64-81; J. LINDSA Y, Proclus as a Constructive Philosopher, "The Hibbert Journal", 1916, pp. 279-288; A.G. LAIRD, Plato's Geometrie Number and the Commentary of Proclus, Madison (Wisc.) 1918; H.F. MULLER, Dionysios, Proklos, Plotinos, Miinster 1918; M. GRABMAN, Die Proklos Ue-
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Per il Neoplatonismo nel suo complesso vedi sopra. Per il Platonismo e la 'cultura' dopo Proclo cfr. in particolare: O. ScHISSEL, Das Ende des Platonismus im Altertum, "Philosoph. Jahrbuch", 1929, pp. 76-92; S. SAMBURSKY e S. PINES, The Concept of Time in Late Neoplatonism, Jerusalem-Leiden 1971; AA.VV., Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, Atti del Convegno (Catania 27 sett.-2 ott. 1982), Roma 1985; D.J. O'MEARA, Le problème de la métaphysique dans l'antiquité tardive, "Freiburger Zeitschrift fi.ir Philosophie und Theologie", 1986, pp. 3-22; R. SoRABJI, T ime Creation and the Continuum. Theories in Antiquity and the Early Middle Ages, London 1986; P. CHUVIN, I filosofi e la loro religione nella società di Alessandria nel V secolo, in Questioni neoplatoniche, a cura di F. RoMANO e A. TINÉ, Catania 1988, pp. 45-61; J. DILLON, Logos and Trinity. Patterns of Paltonist Influence an Early Christianity, "Philosophy", 1989, pp. 1-13; C. FARAGGIANA DI SARZANA, Destinazione e fortuna dell'opera della scuola di Atene e dopo la sua chiusura, "Aevum", 1989; A. LINGUITI, L'ultimo Platonismo greco. Principi e conoscenza, (''Studi" 112, Accademia Toscana di Scienze e Lettere 'la Colombaria'), Firenze 1990; The End of Ancient Christianity, a cura di R.A. MARKUS, Leiden 1991.
b. La Scuola di Proclo in Atene: Marino di Neapoli; Isidoro di Alessandria L'Introduzione ai dati di Euclide di Marino, discepolo di Proclo e suo successore nello scolarcato della Scuola di Atene, si veda in Opera
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omnia di Euclide, a cura di H. MENGE, VI, Leipzig 1898; la Vita di Proclo, o della felicità, a cura di J.E. BmssoNADE, Leipzig 1814; Vita Procli, testo critico, intr., trad., comm. a cura di R. MASULLO, Napoli 1985; Vita di Proclo, a cura di C. FARAGGIANA DI SARZANA, in Proclo
Licio Diadoco, I Manuali: Elementi di Fisica; Elementi di Teologia; I testi magico teurgici e la Vita di Proclo, trad., pref., note e indici di C.F.D.S., saggio introduttivo di G. REALE, Milano 1985; The Life of Proclus, a cura di K.S. GuTHRIE e D.R. FIDELER, Grand Rapids (Mich.) 1986. Su Marino e sui frammenti rimasti di altre sue opere (un frammento di un Commento al De anima di Aristotele, conservato da Giovanni Filopono, e un frammento di un Commento al Parmenide di Platone), cfr. ScHISSEL VON FLESCHENBURG, Marinos von Neapolis, die neuplat. Tugendgrade, Athinai 1938. Si veda inoltre, accanto alle Introduzioni delle opere citate di R. MASULLO e di C. FARAGGIANA DI SARZANA: J. FREUDENTHAL, Zu Proklos und d. ]iing. Olympiodor, "Hermes", 1881; R. MASULLO, I manoscritti e le edizioni della Vita Procli di Marino, "Vichiana", 1980, pp. 189-197; H.J. BLUMENTHAL, Marinus' Life of Proclus: Neoplatonist Biography, "Byzantion", 1984, pp. 469-494. Di Isidoro di Alessandria, successo a Marino nello scolarcato della Scuola di Atene, non restano che pochissimi frammenti, nella Suda e in Fazio (si vedano raccolti da R. AsMus, Leipzig 1911). La Vita di Isidoro scritta dal suo discepolo Damascio si veda in Fazio, codd. 181 e 242 (cfr. anche, oltre a R. AsMus, cit., A.E. CHAIGNET, Proclus Commen-
taire sur le Parménide, suivi... et d'une traduction de Damascius "La vie d'Isidore", 1900-1903, nuova ed. Frankfurt 1963); Vitae Isidori reliquiae, a cura di C. ZrNTZEN, Hildesheim 1967 (cfr. anche R. AsMus, Zur Rekonstruktion von "Das Leben von Isid. ", "Byzant. Zeitschr.", 1909-1910). Le notizie su Egia e Zenodoto, successi a Isidoro di Damascio, si vedano nella Vita di Isidoro di Damascio (cfr. sopra le edizioni Vitae
Isidori). c. La Scuola di Alessandria: Ermia di Alessandria; Ammonio di Ermia Di Ermia di Alessandria, discepolo, con Proda, di Siriano alla Scuola di Atene e poi maestro in Alessandria, si veda il Commento al Fedro di Platone nell'ed. a cura di P. CouvREUR, Paris 1901.- Su di lui cfr. l'articolo di K. PRAECHTER, in R.E. PAULY-WrssowA. Di Ammonio, figlio di Ermia, scolaro di Proda in Atene e poi scolarca della Scuola di Alessandria, si vedano i Commenti alle Cinque
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"voces" di Porfirio, alle Categorie di Aristotele, al De interpretatione
di Aristotele e agli Analitici primi di Aristotele, a cura di A. BussE e L. W ALLIS, in "Commentaria in Aristotelem Graeca", VI, 3-6, Berlin 1891-1899; il De fato, a cura di J.K. 0RELLI, Zi.irich 1824. Il Commento al De interpretatione, nella trad. di Guglielmo di Moerbeke, si veda a cura di G. VERBEKE, Ammonius Commentaire sur le "Peri Hermenéias" d'Aristate, Louvain-Paris 1961 (Centro De WulfMansion, "Corpus latinum commentariorum in Aristotelem graecorum", 2). Si veda anche: il trattato di Zaccaria di Mitilene, Ammonio: ossia che il mondo non è coetaneo a Dio, in Patrologia Graeca, LXXXV, 1011-1144; Ammonius. On Aristotle's 'Categories', trad. di S.M. CoHEN e G.B. MATTHEWS, London 1991. Su Ammonio, oltre aJ. FREUDENTHAL, in R.E. PAULY-WrssowA, e nella Storia della logica del PRANTL, cfr. ora: gli studi di A.C. LLOYD, Neoplatonic Logic and Aristotelian Logic, "Phronesis", 1955 e 1956, e di K. KREMER, Der Metaphysikbegriff in den Aristoteles-Kommentaren der Ammonios-Schule, Mi.inster 1960, e Die Anschauung der Ammonios Hermeneiou-Schule iiber den Wirklichkeitscharakter des Intelligiblen. Ueber einen Beitrag der Spatantike zur platonisch-aristotelischen Metaphysik, "Philos. Jahrb.", 1961; L.G. WESTERINK, Anonymous Prolegomena to P/atonie Philosophy, Amsterdam 1962; P. MERLAN, Ammonius Hermiae, Zacharias Scholasticus and Boethius, "Greek-Roman and Byzantine Studies", 1968, pp. 193-203; M. MINNITI CoLONNA, Zacaria Scolastico. Ammonio, a cura di M.M.C., Napoli 1973; Les Attributions ('catégories'). Le texte aristotélicien et !es prolégomènes d'Ammonios d'Hermeias, Paris-Montréal1983; T. LEE, Die griechische Tradition der aristotelischen Syllogistik in der Spiitantike: e. iiber d. Kommentare zu d. Analytica Priora von Alexander Aphrodisiensis, Ammonius und Philoponus, Gottingen 1984.
d. La Scuola di Ammonio: Asclepio di Tralle; Olimpiodoro il Giovane; David l'Armeno; Elia
Il Commento ai libri I-VII della Metafisica di Aristotele di Asclepio di Tralle, discepolo di Ammonio di Ermia, si veda a cura di M. HAYDUCK, in "Commentaria in Arist. Graeca", VI, 2, Berlin 1888. - Il Commento all'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco si confronti a cura di L. TARAN, Commentary to Nicomachus' Introduction to Arithmetic, con intr. e note di L. T., Philadelphia 1969. Su Asclepio cfr.: K. KREMER, Der Metaphysikbegriff in den Aristoteles-Kommentaren der Ammonion-Schule, Mi.inster 1961; L.G. WESTE-
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RINK, Deux çommentaires sur Nicomaque: Asclépius et Jean Philopon, "Revue des Etudes Grecques", 1964, pp. 526-535.
Di Olimpiodoro il Giovane, discepolo di Ammonio di Ermia, si veda:- il Commento al Fedone, a cura di W. NoRVIN, Leipzig 1913, anast. Hildesheim 1968; a cura di L.G. WESTERINK, The Greek Commentaries on Plato's Phaedo, I: Olympiodorus, Amsterdam-Oxford-New York 1976; -il Commento al Gorgia, a cura di W. NoRVIN, Leipzig 1936, anast. Hildesheim 1966; a cura di L.G. WESTERINK, Leipzig 1970;- il Commento all'Alcibiade primo, a cura di L.G. WESTERINK, Amsterdam 1956; - il Commento al Filebo, a cura di C.G. STALLBAUM, Leipzig 1826. - Forse di Olimpiodoro il Giovane sono gli anonimi Prolegomeni alla filosofia platonica, attribuiti anche ad Elia l' Armeno e ad altri: cfr. Anonymus Prolegomena to Platonic philosophy, intr., testo, trad. e indici, a cura di L.G. WESTERINK, Amsterdam 1962; Prolégomènes à la philosophie de Platon, testo a cura di L. G. WESTERINK, trad. diJ. TROUILLARD in collaborazione con A.PH. SEGONDS, Paris 1990. - I Prolegomeni alle Categorie di Aristotele, gli Scolii alle Categorie di Aristotele e il Commento alle Meteore di Aristotele si vedano a cura di A. BussE, in "Commentaria in Arist. Graeca", XII, l e 2, Berlin 1902.- Gli scolii greci al "Gorgia" di Platone si vedano con testo, trad. e note a cura di M. CARBONARA NADDEI, Bologna 1976. Su Olimpiodoro il Giovane, oltre alle Introduzioni ai testi sopra citati, segnalia!l)o: R. VANCOURT, Les,derniers commentateurs alexandrins d'Aristate. L'Ecoled'Olympiodore, Lille 1941; H.D. SAFFREY, Unecollection méconnue des "symboles" pythagoriciens [avec leur jnterprétation allégorique, dans Philopon et Olympiodore], "Revue des Etudes Grecques", 1967, pp. 198-201; L.G. WESTERINK, Ficino's Margina! Notes on Olympiodorus in Riccardi Greek Ms. 37, "Traditio", 1968, pp. 351-378; R.S. BRUMBAUGH, The Puzzle of the Copyst of Yale's Olympiodorus Manuscript, "Studia Codicologica" (Berlin), 1977, pp. 113-115; A. NrcEv, Olympiodore et la catharsis tragique d'Aristate, in Studi in onore di A. Ardizzoni, II, Roma 1978, pp. 639-659. I Prolegomena philosophiae e il Commento all'Isagoge di David l' Armeno si vedano a cura di A. BussE in "Commentaria in Arist. Graeca", XVIII, 2, Berlin 1904. Altro Commento all' Isagoge è stato attribuito sia a David l'Armeno sia a Elia: si veda edito a cura di L. G. WESTERINK, Amsterdam 1967 (cfr. J.H. BLUMENTHAL, Pseudo-Elias and the Isagoge Commentaries again, "Rheinisches Museum", 1981, pp. 188-192). Altre opere attribuite a David (Definizioni filosofiche, Apoftegmi) si vedano edite a Venezia, 1833 (Corienis Mambre et Davidis philosophi Opera). Su David l'Armeno, oltre a M. KosTIKIAN, David der Philosoph, Leipzig 1907, si veda: J.H. BLUMENTHAL, op.cit., 1981; S. AREWSAT-
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YAN, David l'Invincible et sa doctrine philosophique, "Revue cles Études Arméniennes", 1981, pp. 33-43
Il Commento all' Isagoge di Porfirio e il Commento alle Categorie di Aristotele (attribuito a David l'Armeno) di Elia, cristiano, della Scuola di Olimpiodoro, si vedano a cura di A. BussE in "Comm. in Arist. Graeca", l, 1900; il Commento alle Categorie, a cura di L.G. WEsTERINK, Amsterdam 196 7. - I Prolegomeni alla Logica si vedano a cura di A. PAPADOPOULOS, "Revue Roumaine de Sciences Sociales" (serie di Filosofia e Logica), 1969, pp. 343-353;- i frammenti di un Commento agli Analitici primi si vedano a cura di L.G. WESTERINK, Elias on the Prior Analytics, "Mnemosyne", 1961, pp. 126-139. Su Elia cfr. introduzioni e articoli sopra citati per David l'Armeno. Per i Prolegomeni alla Filosofia platonica, attribuiti sia ad Olimpiodoro il Giovane sia a Elia Armeno, cfr. Prolégomènes à la philosophie de Platon, testo a cura di L. G. WESTERINK, trad. di]. TROUILLARD con la collaborazione di A.PH. SEGONDS, Paris 1990.
e. Enea di Gaza; Zaccaria di Gaza; Giovanni Lydo Di Enea di Gaza, cristiano, forse discepolo di Jerocle (cfr. sopra), le 25 lettere rimaste si vedano in Epistolographi graeci, a cura di R. HERCHER, Paris 1873 (anche L. MASSA-PosiTANO, Enea di Gaza, Epistole, Napoli 1950, 1962 2); il dialogo Teofrasto o della immortalità dell'anima e della risurrezione del corpo, oltre che in MIGNE, Patrologia Graeca, vol. 85, si veda a cura di: G.F. BmssoNADE, Aeneas Gazaeus et Zacharias
Mitylenaeus, de immortalitate animae et mundi consummatione, ad codices recensuit, Basthii Tarini Ducaei notas addidit, ].F.B. accedit Aeneae interpretatio ab Ambrosia Camald. facta, Paris 1836 (la trad. in latino di Ambrogio Traversari, 1386-1439, ha avuto più edizioni); M.E. CoLONNA, Enea di Gaza. Teofrasto, Napoli 1958 (testo greco, trad. it., comm. parziale, index verborum) (si veda anche la trad. frane. di E. LÉVEQUE, in M.L. BoUILLET, Les Ennéades de Plotin, 3 voll., Paris 1857-1861). Sulla biografia di Enea di Gaza: E. LÉGIER, Essai de biographie d'Énée de Gaza, "Oriens Christianus", 1908, pp. 347-369; M. STAROWIEYSKY, Eneas z Gazy i jego listy, "Meand~r", 1973, pp. 3-22; N. AUJOULAT, Théophraste: Le "Théophraste" d'Enée de Gaze: Problèmes de chronologie, "Koinonia", 1986, pp. 67-80.- Sulle varie questioni relative alla cronologia di Enea di Gaza cfr. A. SEGONDS, Ainias de Gaza, in Dictionnaire des Philosophes Antiques, I, a cura di R. GouLET, pref. di P. HAnoT, Paris 1989. Su Enea di Gaza cfr.: K. SEITZ, Die Schule von Gaza, eine literatur-
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geschichtl. Untersuchung, Heidelberg 1892; G. ScHELKHAUSER, Aeneas VOIJ Gaza als Philosoph, Erlangen 1898; E. LÉGIER, Essai de biographie d'Enée de Gaza, "Oriens Christianus", 1907; S. SIKORSKI, De Aenea Gazaeo, Breslau 1909; B. TATAKIS, La philosophie byzantine, in É. BRÉHIER,,Histoire de la philosophie, 2 fasce. suppl., Paris 1922; P. HENRY, Etudes plotiniennes, I: Les états du texte de Plotin, Paris 1938 [utile per uno studio sulle citazioni da Plotino]; C. CouRTOIS, Les Vandales et l'Afrique, Paris 1955, pp. 298-299; M. WACHT, Aeneas als Apologet. Seine Kosmologie im Verhiiltnis zum Platonismus, Bonn 1969; A. GARZYA, Sull'edizione di E.M. Colonna, in Varia philologica VIII, I, (''Studi classici in onore di Q. Cataudella"), Catania 1972, pp. 253-257; E. GALLICET, Per una rilettura del "Teofrasto" di Enea di Gaza e dell"'Ammonio" di Zacaria lo Scolastico, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", Cl. Scienze mor., stor., filos., 1978, pp. 117-135, 137-167; I. HADOT, Le problème du néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978, pp. 203-204; N. AUJOULAT, Le 'Théophraste' d'Énée de Gaza: problèmes de chronologie, "Koinonia", 1986, pp. 67-80; N. AUJOULAT, Le 'De Providentia' d'Hiéroclès d'Alexandrie et le 'Théophraste' d'Énée de Gaza, "Vigiliae Christianae", 1987, pp. 55-85; A.M. MILAZZO, La chiusa del 'Teofrasto' di Enea di Gaza. Il meraviglioso come metafora, "Siculprum Gymnasium", 1987, pp. 39-70; A. SEGONDS, Ainéas de Gaza (Enée), in Dictionnaire des Philosophes Antiques, cit., 1989. Il De mundi opificio contra philosophos disputatio di Zaccaria di Gaza, cristiano monofisita, vescovo di Mitilene, discepolo in Alessandria di Ammonio di Ermia, si veda in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 85, 1111-1144. Su Zaccaria di Mitilene vedi sopra a Enea di Gaza e Ammonio di Ermia, in particolare P. MERLAN, Ammonius Hermiae, Zacharias Scholasticus and Boethius, "Greek-Roman and Byzantine Studies", 1968, pp. 193-203. Vedi anche M.E. CoLONNA, Zaccaria scolastico, il suo Ammonio e il Teofrasto di Enea di Gaza, "Annali dell'Istituto Orientaledi Napoli", 1956,pp.107-118. Dell'erudito Giovanni Lydo, cristiano, scolaro di Agapio (discepolo di Proclo), si vedano il De Mensibus, a cura del WuNSCH, Leipzig 1898; il De ostensis, a cura del WACHSMUTH, Leipzig 1897; il De magistratibus populi Romani, a cura del Wi.JNSCH, Leipzig 1903.
f. Giovanni Filopono Nei volumi 13-17 dei "Commentaria in Arist. Graeca", Berlin 1887-1901, a cura di A. BussE, M. WALLIES, G. VITELLI, M. HAY-
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DUCK, sono editi i commentari alle opere di Aristotele (In Decem categorias, In Analytica priora, In Analytica posteriora, In primos quatuor De nat. ausc. libros, In librum Meteor., In libros de anima, In libros De generat. et inter., In libros Metaph.) di Giovanni Filopono, cristiano, discepolo di Ammonio di Ermia. - Il Comm. in Nicomachi Arithmetica si veda nell'ed. a cura di R. HoCHE, Leipzig 1864 (I vol.), Berlin 1867 (II vol.); il secondo libro, a cura di A. DELATTE, Anecdota Atheniensia et alia, vol. II, Paris 1940, pp. 129-187; -il De opificio mundi, a cura di G. REICHARDT, Leipzig 1897; - ii-De aeternitate mundi contra Proclum, a cura di U. RABE, Leipzig 1899, anast. Hildesheim 1963;- il Diaitetes, a cura di A. SANDA, Beirut 1930 [in latino dal siriaco]; -il Trattato sul rapporto tra le parti e gli elementi ed il tutto e le parti, trad. it. dal siriaco a cura di G. FuRLANI, "Atti Istituto veneto", 1921-1922; - il terzo libro del Commento al De Anima, in trad. latina, a cura di M. DE CoRTE, Liège 1934 (in trad. ingl. a cura di J. DuDDLEY, "Bull. de la Société Internationale pour l'étude de la philosophie médiévale", 1974, pp. 62-85). Si veda inoltre: Johannes Philoponus, On the Accent of Homonyms.
De vocabulis quae diversum significatum exhibent secundum diHerentiam accentus, a cura di L. W. DALY, Philadelphia (Pa.) 1983; Against Aristat/e, on the Eternity of the World, trad. di C. WILDBERG, Ithaca (N.Y.) 1987; Philoponus and the Rejection of Aristotelian Science, a cura di R. SoRABJI, Ithaca (N.Y.) 1987; Corollaries an P!ace and Void, trad. a cura di D. FuRLEY e C. WILDBERG, London 1991; On Aristotle on the Intellect ('De Anima' 3, 4-8), trad. a cura di W. CHARLTON, London 1991. Su Giovanni Filopono, oltre agli articoli del WoLF, in R. E. PAULYWissowA e di G. BARDI in Dictionnaire de Théologie Catholique, si veda: M. STEINSCHNEIDER, J. Philiponos bei den Araben, "Mém. de l'Acad. desse. de St. Pétersbourg", 1879; G. FuRLANI, Unità e dualità di natura secondo Giovanni Filopono, Roma 1923; M. GRABMAN, Mittelalterliche lateinische Aristotelesiibersetzungen von Schriften der AristotelesKommentatoren ]oh. Philoponos, Alexand. von Aphrodisias und Themistios, Miinchen 1929; P. DuHEM, Le sistème du monde, I, cit.; M. DE CoR~E, Le commentaire de Jean Philopon sur le troisième livre du "Traité de l'Ame" d'Aristate, Paris-Liège 1934; G. VERBEKE, G. de Moerbekf, traducteur de ]. Philopon, "Revue philos. de Louvain", 1951; E. EvRARD, Les convictions religieuses de Jean Philopon, "Bull. Acad. Roy. Belg." (Lettres), 1953, pp. 29)'-357; H.D. SAFFREY, Le chrétien Jean Philopon et la survivance de l'Eco/e d'Alexandrie au VI• siècle, "Revue des Études Grecques", 1954, pp. 396-410; W. WIELAND, Die Ewigkeit der Welt (der Streit zwischen J. Philoponus und Simplicius), in Festschrift Gadamer, Tiibingen 1960, pp. 291-316; L.G. WESTERINK, Deux cpmmentaires sur Nicomaque: Asclépius et Jean Philopon, "Revue des Etudes Grecques", 1964, pp. 526-535; V. TIFTIXOGLU, Johannes Philopo-
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nus, in Lexikon der Antike, Ziirich-Stuttgart 1970; M. WoLF, Fallgesetz und Massebegriff. Zwei wissenschaftshistorische Untersuchungen zur Kosmologie des fohannes Philoponus, Berlin 1971; S. SAMBURSKY, Note on ]ohn Philoponus' Rejection of the Infinite, in Islamic Philosophy and the Classica! Tradition, a cura di S.M. STERN-A. HouRANI-V. BROWN, Oxford 1972, pp. 351-353; G.A. LuccHETTA, Aristotelismo e cristianesimo in Giovanni Filopono, "Studia Patavina", 1978, pp. 57 3-59 3; A. SPARTY, La doctrine de fean Philopon in 'De intellectu' et san application chez Thomas d'Aquin, "Acta Mediaevalia", 1978, pp. 167-230; R.B. Tono, Some Concepts in Physical Theory in fohn Philoponus' Aristotelian Commentaries, "Archiv fiir Begriffsgeschichte", 1980, pp. 151-170; H. BLUMENTHAL, fohn Philoponus and Stephanus of Alexandria: Two Neoplatonic Christian Commentators on Aristotle?, in Neoplatonism and Christian Thought, a cura di D. O'MEARA, Norfolk-New York 1982, pp. 54-63, 244-246; E.G.T. BooTH, fohn Philoponos: Christian and Aristotelian conversion, in Studia Patristica, XVII, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford 1982, pp. 407-411; T. LEE, Die griechische Tradition der aristotelischen Syllogistik in der Spiitantike: e. iiber d. Kommentare zu d. Analytica Priora von Ajex9nder Aphrodisiensis, Ammonius und Philoponus, Gottingen 1984; E. EvRARD, Philopon, la ténèbre originelle et la création du monde, in Aristotelica, a cura di A. MoTTE e C. RuTTEN, Liège 1985, pp. 177-188; H.J. BLUMENTHAL, Body and Soul in Philoponus, "Monist", 1986, pp. 370-382; Philoponus and the Rejection of Aristotelian Science, a cura di R. SoRABJI, London 1987.
g. Stobeo; Esichio di Alessandria; Esichio di Mileto
Per Stobeo, Esichio di Alessandria ed Esichio di Mileto, utili per una ricostruzione della cultura del tempo, indichiamo solo le maggiori edizioni. Le due parti delle Egloghe di Stobeo, in 4 libri, andate i primi due libri sotto il titolo Eclogae physicae et ethicae, i due secondi sotto il titolo Florilegium o Sermones, si vedano nell'ed. a cura di C. WACHSMUTH e O. HENSE, Berlin 1884-1923, anast. 1958. Il lessico di Esichio di Alessandria, vissuto nel V secolo, si veda a cura di M. ScHMIDT, Jena 1858-1868 (editio minor, 1867) e a cura di K. LATTE, Haunia 1953 sgg. Le Opere di Esichio di Mileto, detto l'Illustre, si vedano in C. Mi.JLLER, Fragmenta hist. Graecorum, Paris 1870, e a cura di J. FLACH, Onomatologi quae supersunt, Leipzig 1882, e De viris illustribus, Leipzig 1880.
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h. Damascio I nuovi studi sulla tarda antichità nel suo complesso hanno sempre di più indicato in Damascio una figura di primo piano. Ultimo scolarca della Scuola di Atene, si ritirò in Oriente alla chiusura delle Scuole (529 d.C.). La maggiore opera di Damascio è il De Principiis (Damascii philosophi platonici quaestiones de primis principiis). Il De primis principiis si veda a cura di: J. KoPP, Frankfurt a.M. 1826; C.E. RUELLE, Damascii
Successoris Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem, in 2 voli. (I: De principiis, II. In Parmenidem), Paris 1889, rist. Bruxelles 1964, Amsterdam 196 7 (il Commento al Parmenide è considerato o parte del De Principiis o opera a sé: sembra non essere, come alcuni codici riportano, il seguito del Commento al Parmenide di Prodo); L.G. WESTERINK (testo) e]. COMBÈS, in 3 voli. (coli. "Belles Lettres"), Paris 1986-1990 (I. Traité des premiers principes, 1986; II. De la triade et de l'unité, 1989; III. De la procession de l'Unité, 1990); M. C. GAI.PÉRINE, Des premiers principes. Apories et résolution, testo, intr., note e trad., Paris 1987. Accanto al Commento al Parmenide (cfr. sopra), sembrano di Damascio il Commento al Filebo (attribuito anche a Olimpiodoro) e gran parte del Commento al Pedone (alcune parti sono di Olimpiodoro): In Parmenidem (sopra); In Phaedonem, a cura di L.G. WESTERINK, in The Greek Commentaries on Plato's Phaedo, vol. II: Damascius, Amsterdam 1977; In Philebum, a cura di L.G. WESTERINK, Damascius' Lectures on the Philebus, wrongly attributed to Olympiodorus, Amsterdam 1959, anast. 1982. La Vita Isidori, a cura di CL. ZrNTZEN, Damascii Vitae Isidori reliquiae, Hildesheim 1967.
Il De Principiis e il Comm. al Parmenide, in traduzione, si vedano a cura di A.En. CHAIGNET, 3 voli., Paris 1898, rist. Bruxelles 1983; per il De Principiis cfr. i citati WESTERINK, CoMBÈs, GALPÉRINE; la Vita di Isidoro in traduzione si veda in A.E. CHAIGNET, Proclus le Philosophe, Paris 1903, anast. Frankfurt a.M. 1962 [la Vita di Isidoro di Damascio, pp. 241-363]. Testi di un Commento al Timeo di Platone si vedano nei Codici Marciani gr. 248 e 263. Cfr. anche Johannes von Damaskos, Philosophische Kapitel, a cura di G. RrcHTER, Stuttgart 1982. Su Damascio si segnalano gli studi di maggior momento. Confronta: C.E. RUELLE, Le philosophe Damascius: étude sur sa vie et ses ouvra-
ges, suivie de neuf morceaux inédits extraits du "Traité des premiers principes" et traduits en latin, "Revue archéologique", 1860 e 1861; C.E.
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RuELLE, Damascius, san traité des premiers principes, "Archiv fiir Geschichte der Philosophie", 1890, e "Revue de Philol.", 1890; W. KROLL, Damaskios, in R.E. PAULY-WissowA, 1901, coli. 2039-2042; R. AsMus, Zur Rekonstruktion von Damascius' Leben des Isidorus, "Byzantinische Zeitschrift", 1909, pp. 424-480, e 1910, pp. 265-284; R. AsMus, Das Leben des Philosophen Isidoros von Damaskios, aus Damaskos, Leipzig 1911; R. BEUTLER, Olympiodoros, in R.E. PAULY-WissoWA, 18, 1939, coli. 207-227; R. STROMBERG, Damascius. His Personality and Significance, "Eranos", 1946, pp. 175-192; E.G. ScHMIDT, Straton-Zitate bei Damaskios, "Museum Helveticum", 1962; M.C. GALPÉRINE, Damascius et la théologie négative, in Le Néoplatonisme, ("Colloque de Royaumont"), Paris 1971, pp. 261-263; L.G. WESTERINK, Damascius commentateur de Platon, in Le Néoplatonisme, cit., 1971, pp. 253-260~}. TROUILLARD, La notion de Mva,.uç chez Damascius, "Revue des Etudes Grecques", 1972, pp. 353-363; J. CoMBÈS, Damascius lecteur du "Parménide", "Archives de Philosophie", 1975, pp. 33-60; J. CoMBÈ,s, Négativité et procession des principes chez Damascius, "Revue des Etudes Augustiniennes", 1976, pp. 114-133; J. CoMBÈs, Damascius et les hypothèses négatives du Parménide. Du phénomène, des simulacres, des impossibles, "Revue de Sciences Philosophiques et Théologiques", 1977, pp. 185-220; H.J. BLUMENTHAL, 529 and its Sequel: What happened to the Academy?, "Byzantion", 1978, pp. 369-385; A. SICLARI, Giovanni di Damasco, la funzione della 'dialettica', Perugia 1978; C. G. STEEL, The Changing Self. A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblicus, Damascius and Priscianus, Bruxelles 1978; T.N. PELEGRINI, Damascius: Symmetry as a Mean towards Man's Perfection, "Diotima", 1979, pp. 147-151; J. CoMBÈs, L' àv9ém&tov EV selon Damascius, "Diotima", 1980, gp. 25-29; M.C. GALPÉRINE, Le temps intégral selon Damascius, "Les Etudes Philosophiques", 1980, pp. 325-341; E. HEITZ, Der Philosoph Damaskios, in Strassburger Abhandlungen zur Philosophie, in onore di En. ZELLER, Freiburg i.Br.-Tiibingen 1984, pp. 1-24; F. TRABATTONI, Per una biografia di Damascio, "Rivista di Storia della Filosofia", 1985, pp. 179-201; H.D. SAFFREY,
Neoplatonist Spirituality. II: From Iamblicus to Proclus and Damascius, in AA.VV., Classica! Mediterranean Spirituality: Egyptian, Greek,) Roman, a cura di A.H. ARMSTRONG, London 1986; J. CoMBÈS, Etudes Néoplatoniciennes, Grenoble 1989; M.C. GALPÉRINE, Damascius entre Porphyre et Jamblique, "Philosophie" (Paris) 1990; A. LINGUITI, L 'ultimo Platonismo greco. Principi e conoscenza (''Studi" 112, Accademia Toscana di Scienze e Lettere 'la Colombaria'), Firenze 1990.
i. Prisciano; Simplicjo Le Opere rimaste di Prisciano di Lidia, discepolo di Damascio, che alla chiusura della Scuola di Atene (529) esulò in Persia presso il re Cosroe
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(cfr. Agathias, Hist., II, 69), si vedano nell'ed. a cura di}. BYWATER, in "Comm. in Arist. Graeca", suppl. Arist. I, 2, Berlin 1886 (Prisciani
philosophi solutiones eorum de quibus dubitavit Chosroes, Persarum rex, in una versione latina del VI-VII secolo; Metaphrasis Theophrasti, nel testo greco). Su Prisciano si veda: F. BossiER e C. STEEL, Priscianus Lydus en de 'In de Anima' van Pseudo (?)-Simplicius, "Tijdschrift voor Filosofie", 1972, pp. 761-822; I. HADOT, Le problème du néoplatonisme alexandrin: Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978; C.G. STEEL, The Changing Self. A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Bruxelles 1978. Dei commenti pervenuti ad opere aristoteliche di Simplicio, scolaro in Alessandria di Ammonio di Ermia e in Atene di Damascio, si vedano i Commenti al De coelo, alla Fisica, al De anima (attribuito anche a Prisciano) e alle Categorie nell'ed. a cura di A. BussE, Y.L. HEIBERG, K. KALBFLEISCH, H. DIELS, M. HAYDUCK, in "Commentaria in Arist. Graeca", voli. 7-11, Berlin 1882-1907; il Commento al Manuale di Epitteto si veda edito da J. ScHWEIGHAUSER, Leipzig 1800 (anche in F. DUBNER, ed. dei Caratteri di Teofrasto, Paris 1840). Per altre edizioni cfr.: Der Bericht iiber Quadraturen des Antiphon
und des Hippokrates (Commentarii in octo Aristotelis physicae auscultationis libros cum ipso Aristotelis textu), a cura di F. Rumo, Leipzig 1907, Wiesbaden 1968; Commentaire sur !es Catégories d'Aristate, t. II, trad. di Guglielmo di Moerbeke, ed. critica a cura di A. PATTIN in collaborazione con W. STUYVEN e C. STEEL, (''Corpus latinum Commentariorum in Aristotelem Graecorum", V, 2), Leiden 1975; Commentaire sur !es Catégories, trad. e comm. a cura di I. HADOT, I fase. Introduction, prima parte: trad. di PH. HoFFMANN con la collaborazione di I. e P. HADOT, comm. e note di I. HADOT, appendici di P. HADOT eJ.P. MAHÉ ("Philosophia antiqua", 50), Leiden 1990; Commentaire du chapitre XI (219a10-219b9) du Traité sur le temps d'Aristate, trad. dal greco e intr. di D. LEFEBVRE, "Philosophie" (Paris), 1990; Corollaries on Piace and Time, trad. a cura di O. URMSON, London 1991. Su Simplicio, oltre all'articolo di K. PRAECHTER in R.E. PAULYWissowA, III A l, 1927, coli. 204-213, cfr.: PH. MERLAN, Ein Simplikios-Zitat bei Pseudo Alexandros und ein Plotinos-Zitat bei Simplikios, "Rheinisches Museum", 1935; H. MEYER, Das Corollarium de Tempore des Simplikios und die Aporien des Aristate/es zur Zeit, Meisenheim a.Gl. 1969; I. HADOT, Le sy~tème théologique de Simplicius dans ·san commentaire sur le Manuel d'Epictète, in Le Néoplatonisme, cit., 1977, pp. 265-279; J.J. HALL, "Planets" in .Simplicius' 'De caelo' 471, lff., "TheJournal of Hellenic Studies", 1971, pp. 138-139; I. HADOT, Einige Bemerkungen zur Darstellung des Manichaismus bei Simplikios, in Stu-
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dia Patristica, 1972, pp. 185-191; I. HADOT, Le problème du néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978; K. BoRMANN, The Interpretation of Parmenides by the Neoplatonist Simplicius, "Monist", 1979, pp. 3-14; PH. HoFFMANN, Simplicius, Corollarium de loco, in L 'Astronomie dans l'antiquité classique, Atti del Colloquio all'Università di Toulouse-le-Mirail (21-23 ott. 1977), Paris 1979, pp. 143-161; PH. HoFFMANN, Les catégories 1toù et 1tO'tÉ chez Aristate et Simplicius, in Concepts et catégories dans la pensée antique, a cura di P. AuBENQUE-R. BRAGUE-].F. CouRTINE, Paris 1980, pp. 217-245; N. VAMVOUKAKIS, Les catégories aristotéliciennes d'action et de passion vues par Simplicius, in Concepts et catégories dans la pensée antique, cit., 1980, pp. 253-269; I. HADOT, Lq tradition manuscrite du commentaire de Simplicius sur le 'Manuel' d'Epictète, "Addenda et Corrigenda. Revue d'Histoire des Textes", 1981, pp. 387-395; ,M. SPANNElJ:r, Un abrégé inconnu du Commentaire de Simplicius sur Epictète, in Uberlieferungsgeschichtliche Untersuchungen, Berlin 1981, pp. 531-541; H.J. BLUMENTHAL, The Psychology of Simplicius' Commentary on the 'De Anima', in Soul and the Structure of Being in Late Neoplatonism: Syrianus, Proclus, and Simplicius, Atti del Colloquio di Liverpool (15-16 apr. 1982), a cura di H.J. BLUMENTHAL e A.C. LLOYD, Liverpool1982, pp. 73-93; I. HADOT, La doctrine de Simplicius ~ur l'ame raisonnable humaine dans le Commentaire sur le Manuel d'Epictète, in Soul and the Struç_ture of Being ... , cit., 1982, pp. 46-71; E. SoNDEREGGER, Simplikios: Uber die Zeit. Ein Kommentar zum Corollarium de tempore, Gi:ittingen 1982; Simplicius, sa vie, san oeuvre, sa survie, Atti del Congresso intern. di Parigi (28 sett.-1 ott. 1985), organizzato dal "Centre de Recherche sur les Oeuvres et la Pensée de Simplicius", a cura di I. HADOT, BerlinNew York 1987; M. TARDIEU, Les paysages reliques. Routes et haltes syriennes d'Isidore à Simplicius, Louvain-Paris 1990.
l. Lo Pseudo-Dionigi Gli scritti dello Pseudo-Dionigi (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia, dieci Lettere), costituenti il corpus dionysianum, si vedano nell'edizione di B. CoRDERIUS, Antwerpen 1634, riprodotta in MrGNE, Patr. Graeca, voli. 3-4, con gli scolii di Massimo il Confessore e la parafrasi di G. PACHIMERE. - Delle traduzioni del Corpus indichiamo quella francese, completa, a cura di M. DE GANDILLAC, Oeuvres complètes du Pseudo-Denys, Paris 194 3. Tra le edizioni dei singoli scritti citiamo: il De divinis nominibus a cura di C. PERA, Torino 1950; il De coelesti hierarchia, con trad. frane., a cura di R. RoQuEs-G. HEIL-M. DE GANDILLAC, Paris 1958 ("Sources Chrétiennes", 58). In trad. it. si veda: Le gerarchie celesti, Firenze 1921; I nomi divini, in S. SciMÈ, Studi sul neoplatonismo. Filosofia e teologia nello Pseudo-Dionigi, Messina 1953.- Le traduzio-
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ni latine del Corpus con una sinossi delle citazioni si vedano in P. CHEVALLIER, Dionysiaca, 2 voll., Bruges 1937-1949.- Si veda inoltre: La hiérarchie céleste, intr. di R. RoQUES, studio e testo critico di G. HEIL, trad. e note di M. DE GANDILLAC, Paris 1970; Opera, Frankfurt 1970; Pseudo-Dionysius Areopagita, The Works, 2 voll., rist. della trad. ingl. a cura di}. PARKER (1897-1899), 1Merrick (N.Y.) 1976; Los nombres divinos y otros escritos, intr., trad. e note a cura di]. SOLER, Barcelona 1980; The Divine Names and Mystical Theology, trad. di J.D. JoNES, Milwaukee (Wisc.) 1980; Gerarchie celesti, intr., trad. e note di G. BuRRINI, Teramo 1981; Tutte le Opere, trad. di P. ScAzzoso, a cura di E. BELLINI, Milano 1981-1983; Gerarchia celeste, Teologia mistica; Lettere, trad., intr. e note a cura di S. LILLA, Roma 1986; The Complete Works, trad. di C. LUIBHEID, Mahwah (N.J.) 1987; De "mystieke theologie" van Pseudo-Dionysius, a cura di R. DE VELDE, Amsterdam 1988; Over de mystieke theologie, a cura di B. ScHOMAKERS, "Stoicheia", 1988, pp. 7-12; Corpus Dionysianum, a cura di B.R. SucHLA: De divinis nominibus, Berlin-New York 1990; La théologie mystique. Lettres, pref., note, bibliografia a cura di D.A. GoziER, trad. di M. CASSINGENA, guida tematica di M.H. CoNGAURDEAU, Paris 1991. Mentre per la bibliografia sulla questione dello Pseudo-Dionigi rimandiamo allo studio di R. RoQUES, L'univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Dionys, Paris 1954, e a B. ALTANER, Patrologie, Freiburg i.Br. 1958; per la storia della formazione del Corpus, oltre, a D. LE NouRRY, in MIGNE, Patr. Graeca, vol. 3, citiamo: G. THÉRY, Etudes dionysiennes, 2 voll., Paris 1932-1937; l'Introduzione alla trad. frane. del Corpus a cura di M. DE GANDILLAC, Paris 1943; J.M. HoRNUS, Les recherches récentes sur le Pseudo-Dionys l'Aréopagite, "Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuse", 1955; E. CoRSINI, La questione areopagitica, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", 1958-1959 (di E. CoRSINI si veda anche il capitolo dedicato allo Pseudo-Dionigi in La filosofia medievale, antologia di testi a cura di N. ABBAGNANO, Bari 1963). Oltre agli studi sopra citati cfr.: E. CoRSINI, Il trattato 'De divinis nominibus' dello Pseudo-Dionigi e i commenti neoplatonici al '?armenide', Torino 1962; W. WEISCHEDEL, Dionysios Areopagita als philosophischer Theologe, in Festschrift fur]. Klein zum Geburtstag, a cura di E. FArEs, Gottingen 1967, pp. 105-113; E. VON IvANKA, Le problème des "noms de Dieu" et l'ineffabilité divine selon le Pseudo-Denys l'Aréopagite, in L 'analyse du langage théologique. Le nom de Dieu, Atti del colloquio organizzato dal Centro Internazionale di Studi Umanistici e dall'Istituto filosofico di Roma (5-11 genn. 1969), a cura di E. CASTELLI, Paris 1969, pp. 201-205; C. RIGGI, Il simbolo dionisiano dell'estetica teologica, "Salesianum", 1970, pp. xcvr-229; P. SPEARRITT, The Soul's Participation in God according to Pseudo-Dionysius, "The Downside Review", 1970, pp. 378-392; P. RAMrs, El problema del mal en Dioni-
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sia Areopagita, "Crisis", 1971, pp. 17-52; J.O. REIDL, Bonaventure's commentary on Dionysius' mystical theology, "Proceedings of the American Catholic Philosophical Association", 1974, pp. 266-276; P. BRONS, Sekundiire Textpartien im Corpus Pseudo-Dionysiacum? ("Litèraturkrit. Beobachtungen zu ausgew. Textestellen"), Gottingen 1975; V. MuNIZ RomuGUEZ, Significado de las nombres de Dios en el Corpus Dionysiacum, Salamanca 1975; R. PADELLARO DE ANGEUS, L'influenza di Dionigi l'Areopagita sul pensiero medievale, Roma 1975; B. BRoNs,
Gott und Seienden. Unters. zum Verhiiltnis von neuplaton. Metaphysik u. christl. Tradition bei Dionysius Areopagita, Gottingen 1976; B. BRONS, Pronoia und das Verhiiltnis von Metaphysik und Geschichte bei Dionysius Areopagita, "Freiburger Zeitschrift fiir Philosophie und Theologie", 1977, pp. 165-186; E. DES PLAcEs, Denys l'Aréopagite et les Oracles chaldai"ques, "Freiburger Zeitschrift fiir Philosophie und Theologie", 1977, pp. 187-190; F. GASTALDELLI, La traduzione del 'De divinis nominibus' dello Pseudo-Dionigi nel commento inedito di Guglielmo da Lucca, "Salesianum", 1977, pp. 56-76; B. FoRTE, L'universo dionisiano nel prologo della 'Mistica Teologica', "Medioevo", 1978, pp. 1-57; ST. GERSH, From Iamblichus to Eriugena. An Investigation of the Prehistory and Evolution of the Pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978; V.M. NEIDL, Das 'Gott-in-Kosmos-Sein' des Pseudo-Dionysius Areopagita und das 'Sein-in- Welt' Martin Heideggers, "Zeitschrift fi.ir Katholische Theologie", 1978, pp. 211-246; E. TRAVERso, Il problema del male nel IV cap. del "De divinis nominibus" dello Pseudo-Dionigi. Contributo ad uno studio dell'etica dionisiana, in Miscellanea filosofica 1978, Firenze 1979, pp. 80-95; S. LILLA, Osservazioni sul testo del 'De divinis nominibus' dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa" (Lettere e Filosofia), 1980, pp. 125-202; M. NINCI, L 'universo e il non-essere. Trascendenza di Dio e molteplicità del reale nel monismo dionisiano, Roma 1980; L. CouLOUBARITSIS, Le statut de la critique dpns les 'Lettres' du Pseudo-Denys, "Byzantion", 1981, pp. 112-121; E. DES PLACES, Les Oracles chaldai"ques et Denys l'Aréopagite, "Les Cahiers de Fontenay", Fontenay-aux-Roses 1981, pp. 291-295; G. KALINOWSKI, Discours de louange et discours métaphysique. Denys l'Aréopagite et Thomas d'Aquin, "Rivista di filosofia neo scolastica", 1981, pp. 399-404; L. PERRONE, Sulla traducibilità dello
Pseudo-Dionigi Areopagita. Annotazioni in margine alla nuova versione italiana, trad. di P. ScAzzoso, intr., pref. e note a cura di E. BELLINI, Milano-Casale Monferrato 1981 sgg.; E. BELLINI, Introduzione a Dionigi, Tutte le opere, trad. di P. ScAzzoso, intr., pref., note, indici, a cura di E. BELLINI, Milano 1981-1983; L. CouLOUBARITSIS, Le sens de la notion "démonstration" che_z le Pseudo-Denys, "Byzantinische Zeitschrift", 1982, pp. 317-335; E. DES PLACES, La théologie négative du Pseudp-Denys, ses antécédents platoniciens et san influence au seui! du Moyen Age, in Studia Patristica, XVII, a cura di E.A. LIVINGSTONE, Oxford
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Indice dei nomi
Abbagnano, N., 271 Abbamone, 256 Abramo, 117 Acacia di Cesarea, 303 Adamanzio, 342 Adeodato, 353, 357, 360 Adrasto di Afrodisia, 55, 56, 60, 61, 204,328 Adriano, Imperatore, 9, 13, 14, 15, 19, 45, 61, 89, 91, 110, 145, 148, 160 Aezio, 160, 161, 409 Afrate, 123 Agapio di Cesarea, 290 Agapio, platonico, 409 Agathias, 414 Agatino di Sparta, 45 Agatobulo, 146 Agostino (Sant'), 109, 185, 240, 268, 272,285,335,336,337,338,340, 341,342,347,351,353-391,410 Agrippa, 45, 166 Alarico, 380, 386 Albino, 26, 48, 50-55, 57-60, 61, 66, 68, 69, 70, 71-72, 73, 77, 79, 80, 81, 101, 143, 170, 206, 207, 328, 330,345 Alcmeone, 162 Alessandro di Afrodisia, 53, 57, 63, 64-66,204 Alessandro di Alessandria, 294, 298, 300,301 Alessandro di Cesarea, 189 Alessandro di Damasco, 55
Alessandro di Ege, 55, 56, 57 Alessandro di Gerusalemme, 261 Alessandro di Licopoli, 330-331 Alessandro, platonico, 148 Alessandro Polistore, 32 Alessandro Valentiniano, 91 Alessandro Severo, Imperatore, 261 Alfoldi, A., 249 Alipio, 353, 360 Alkinoo, 50 Allogene, 232 Altheim, F., 288 Ambrogio (Sant'), 94, 95, 341, 342, 356,360,361,362,364,388 Amelio, 201, 202, 234, 235, 236, 249-251, 252, 258,260 Amerio Gentiliano, vedi Amelio Amico, vedi Sicinio Amico Ammonio di Alessandria, 15, 16 Ammonio di Ermia, 260, 408, 410, 411, 412 Ammonio Sacca, 201, 204, 205, 226, 227,235,246,260,261,270 Anacarsi, 162 Anania, 117 Anassagora, 162 Anassarco, 162 Anassimandro, 162, 187 Anassimene, 162, 187 Andronico di Rodi, 55, 203 Anebo,235,237,238 Anficlea, 202 Aniceto, vescovo di Roma, 90, 96 Anonimo di Giamblico, 252
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Anneo Cornuto (Lucio), vedi Cornuto Anneo Seneca (Lucio), vedi Seneca Antigone di Caristo, 161 Antioco di Ascalona, 53, 57, 81, 366 Antistene, 146, 162, 323 Antonio (Sant'), 304 Antonio Diogene, 237 Antonio, epicureo, 145 Antonio Rodio, 235 Antonino Pio, Imperatore, 9, 13, 61, 89, 111, 112, 118, 148 Apelle, marcionita, 94, 175 Apolinare di Laodicea, 304, 319, 320,321,323,343 Apollinare di Gerapoli, 11 O Apollodoro di Atene, 203 Apollofane, 24 7, 262 Apollonio di Cizio, 45 Apollonio, stoico, 148, 152 Apollonio di Tiana, 237,291 Apollonio il Vecchio, 45 Apuleio, 48,50-55,61,66,67-72,80, 98,101,106,345 Aquila, 261 Arcesilao,53, 75,162,188,360 Archelao, 162 Archibio, 45 Archigene di Apamea, 45 Archita, 162 Areteo di Cappadocia, 45 Ario, 262, 294, 295, 298-300, 301, 302,303,321,336,337,382 Ario Didimo, 57, 61, 160, 409 Aristarco, 169 Aristide, 108, 111-112 Aristide (Elio), vedi Elio Aristide Aristippo, 162 Aristocle, 55, 57, 64, 274 Aristone di Alessandria, 57 Aristone di Chio, 162 Aristone di Giamblico, 202 Aristone di Pella, 110 Aristotele, 17, 26, 36, 37, 43, 44, 48, 49, 50, 51, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 116, 130, 159, 161, 162, 163, 164, 173, 177, 179, 189, 190,203,205,212,235, 243,251,252,254,260,313,326, 332,333,334,335,336,338,339,
343, 345, 346, 347, 357, 394, 397, 403,407,408,409,410,411 Armonio di Bardesane, 90 Arnobio, 272-276, 277 Arpocrazione, 61, 63, 66, 72, 78 Asclepiade di Prusa, 45 Asclepio 98, 190, 101, 102, 103, 106, 269,276,279 Asclepio di Tralle, 408, 410 Aspasio, 55, 56, 104 Asterio di Cappadocia, 302 Atanasio, 262, 295, 298, 299, 300302,304,309,320 Atenagora, 108, 129-132, 133, 134, 135, 143, 190, 191, 195 Ateneo di Attalia, 45 Ateneo di Naucrati, 160, 331 Atenodoro di T arso, 42, 43 Atti degli Apostoli, 87, 96 Attico, accademico, 61-62, 66, 78, 106,204 Aufidio Basso, 145 Augusto, 9, 12, 13, 55 Augusto Nepoziano, 302 Aulo Gellio, 40, 61, 146, 160 Aureliano Imperatore, 244, 245, 246, 248,284,286,290 Aurelio, vedi Marco Aurelio Aurelio Antonino (Marco), vedi Caracalla Aurelio Caro, Imperatore, 245 Aurelio, primate d'Africa, 354 Aussenzio, 342 Autolico, 132 Averroè, 173 Avito, vedi Lolliano Avito Axionico, 94 Azario, 117 Bahram I di Persia, 98 Barbero, G., 380, 382 Barcabba, 89 Bardesane, 86, 90, 94 Bardy, G., 135, 175, 183, 191 Basilide, gnostico, 82, 86, 89-90, 94, 137 Basilio, vedi Porfirio
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Basilio (San), 260, 261, 263, 303, 304, 314-317, 318, 322, 323, 327, 342 Basilio di Ancira, 303 Beda il Venerabile, 391 Belo, 409 Berillo di Bostra, 261 Biante, 162 Bidez,J., 103,240,244,257,397 Bione, 162 Blackmann, A. C., 94 Blasto, 136 Boezio, 336, 338, 391 Bolo di Mende, 98 Bousset, W., 83 Brisson, ]. P., 293, 294 Brochard, V., 164 Bruto (Marco Giunio), 152, 159 Buonaiuti, E., 82 Burkitt, F. C., 83 Calcidio, 75, 79, 327-331, 332, 338, 341 Calderone T, S., 287, 293, 294 Caligola, 8, 10 Callisto, vescovo di Roma, 141, 142, 175 Calvisio Tauro, 61, 66, 160 Candido, 337 Capella, vedi Marziano (Marciano) Capella Caracalla,9, 175,190,241,245,261 Carino, Imperatore, 245 Carneàde, 53, 162, 165, 188, 283, 339 Carpocrate, 94 Cartesio, 362 Cassiano, vedi Giovanni Cassiano Cassio Empirico, 4 7 Cassio Longino, vedi Longino Cassio Cassio, medico di Tiberio, 47 Cassiodoro, 190 Castricio, 202 Catone Uticense, 152, 169 Ca tulo, vedi Cinna Catulo Cebete, 162 Ceciliano, 247 Cecilio Firmiano, vedi Lattanzio
Cecilio Natale, 186, 186, 187 Celestio, pelagiano, 355, 356, 379, 380,382,383 Celestino, vescovo di Roma, 389 Celso, 66, 72-74, 140, 143, 144, 177, 206,244,261,262,269,308 Ceonio Commodo, 148 Cesare, 9 Cesario di Arles, 389, 390 Cheremone, 247 Chilone, 162 Cicerone (M. Tullio), 40, 41, 53, 59, 60, 86, 87, 277, 279, 281, 282, 283,285,321,335,336,338,342, 356,357,358,359,360,366 Cinna Catulo, 148 Cipriano (San), 175, 247, 295, 381 Cirillo di Alessandria, 320, 321, 340, 344 Claudio, Imperatore, 87 Claudio II, Imperatore, 245, 250 Claudio Massimo, stoico, 50, 148 Claudio Severo, Peripatetico, 148, 152 Claudio Tacito, Imperatore, 245 Clea, 20 Cleante, 17,162,193,237 Clemente Alessandrino, 74, 75, 82, 85,89,90,94, 108,122,130,140, 188, 189-197, 205, 246, 260, 261, 262,263,264,291,320 Clemente Romano, 342 Cleobulo, 162 Cleomene, monarchista, 140, 142 Clitomaco Asdrubale, 162, 165 Commento del Teeteto, 50, 54 Commodo, Imperatore, 130, 148, 172 Consenzio, 365 Cornelio Labeone, 273 Cornuto (Lucio Anneo), 238, 247, 262 Corsini, E., 417 Cosroe di Persia, 414 Costante, Imperatore, 301, 302, 339 Costantino, Imperatore, 245, 248, 251,259,260,262,272,276,283, 284,286,287,288,290,291,292, 293,294,295,298,300,301,302, 305,327,330
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Costantino II, 301 Costanzo, Imperatore, 300, 301, 302, 305,306,309,333,336,339,342 Crantore, 162 Cratete di Atene, 162 Cratete di Tebe, 162 Cratippo di Pergamo, 55 Crescente, cinico, 73, 112, 122, 146 Creso, 180 Crisanzio, 252, 259 Crisippo, 37, 162 Crispo, 276, 283 Critone, 162 Cronio, 204, 247, 262 Cumont F., 310 Dal Pra, M., 164 Damascio, 103, 256, 345, 408, 410, 413-414, 415 Damaso, vescovo di Roma, 343 David l'Armeno, 408,410 Davide di Samo, 237 Decio, Imperatore, 245, 247, 261, 272,284,297 De Faye, E., 83, 197 Deichgraber, K., 46 Demetrio, vescovo di Alessandria, 261 Demetrio, cinico, 146 Demetrio Falereo, 162 Democrito, 22, 162 Democrito (Pseudo), 32, 98 Demonatte Cinico, 146-14 7 Demostene Filalete, 39 De mundo, 11, 51, 57, 61, 410 De Plinval, G., 380 De Wulf, M., 375 Dexippo, 251,258, 260 Dianio di Cesarea, 314,315 Dicearco, 237 Didimo, vedi Ario Didimo Didimo Cieco, 304 Diels, H., 160 Diocle di Caristo, 46 Diocle di Magnesia, 161 Diocleziano, Imperatore, 145, 245, 246,276,282,283,284,286,287, 288,290,291
Diodoro di T arso, 320 Diofanto, 145 Diogene di Apollonia, 162 Diogene di Enoanda, 145 Diogene, fenicio, 414 Diogene Laerzio, 41, 43, 47, 53, 59, 61, 62-63, 64 Diogene di Sinope, 146, 14 7, 162 Diogeniano, epicureo, 144 Diogeniano, grammatico, 409 Diogneto, filosofo, 148 Dione di Prusa (Crisostomo), 7-13, 40, 145, 152, 158 Dionigi di Alessandria, 288-289 Dionigi Areopagita (Pseudo), 338, 347, 392, 415-420 Dionisio Bar Salibi, 123 Dionisio, stoico, 162 Dionisofane, 237 Discorso perfetto, 98, 276 Dodds, E. R., 74, 81, 82, 103, 233 Domizia Lucilla, 148 Domiziano, Imperatore, 7, 8, 9, 10, 284 Domizio, vedi Nerone Domnino, 340, 343, 346, 347, 392, 394,407 Donato di Cartagine, 247, 297 Dositea, 87 Ecebolio,306 Edesia, 408 Edesio, 252, 258, 259 Efrem, 123 Egesippo, 136 Egia, 408, 413 Eleutero, vescovo di Roma, 136 Elia, Ebreo, 117 Elia, Commentatore, 408, 410 Elio Aristide, 13 Eliodoro di Ermia, 408 Eliogabalo, Imperatore, 241,245 Elvidio Prisco, 152, 159 Empedocle, 40, 162, 235, 236 Enea di Gaza, 408, 412 Enesidemo, 41, 44, 45, 163, 166 Enomao Cinico, 146
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Epicarmo, 162, 203 Epicuro, 22, 62, 145, 162, 163, 274,276,282,283 Epifanio, 87, 90, 94, 129, 141, 261,298,303 Epifanio di Carpocrate, 94 Epigono, monarchista, 141 Epimenide, 162 Epitteto, 145, 146, 148, 150, .238,345,410 Eracla, 288 Eracleone Valentiniano, 90, 94 Eraclide Lembo, 161 Eraclide Pontico, 162 Eraclide di Taranto, 45 Eraclio, cinico, 307, 308 Eraclio di lppona, 354 Eraclito, 30, 52, 110, 117, 162, 251 Erasistrato, 171 Erennio, 201, 205 Erennio Modestino, 245 Erillo, 162 Erimneo, 55 Erma, 112, 133 Ermete Trismegisto, 98, 99, 101,279,280,284 Ermia di Alessandria, 408 Errnia, fenicio, 414 Ermia, filosofo, 134 Ermino, 55, 56, 64 Ermippo, 161 Ermogene, gnostico, 132 Ermogene, rètore, 346 Erode Attico, 148, 149, 160 Erodoto, medico, 162, 164 Erodoto di T arso, 47 Erone, matematico, 392 Eschilo, 20 Eschine, 162 Esichio, 409 Esichio di Mileto, 409 Essabalian, P. E., 123 Eubulo, accademico, 235, 243 Euclide, 169, 340, 397, 407 Euclide di Megara, 162 Eucumenio, 190 Eudemo, 392 Eudoro di Alessandria, 53, 57
179, 189,
151,
179,
100,
Eudossio, 303 Eudosso di Cnido, 162,237 Eulabio di Frigia, 414 Eulogio Fannio, 343 Eunapio, 252, 258, 259 Eunomio 303, 314, 315, 317, 322, 323,337 Eupolis, 147 Eusebia, 305 Eusebio di Cesarea, 57, 61, 62, 66, 67, 74, 76, 77, 78, 79, 110, 111, 112, 121, 122, 129, 132, 136, 137, 141, 144, 146, 190, 197,205,247, 250, 251, 262, 287, 288, 290-295, 298,301,303,342 Eusebio di Cesarea in Cappadocia, 314,315 Eusebio di Emesa, 303 Eusebio di Mindo, 252, 258, 259 Eusebio di Nicomedia, 298, 300, 302, 305 Eustachio di Macrobio, 3 31 Eustazio di Cappadocia, 252, 258 Eustazio di Sebaste, 303, 315 Eustochio, 201,202,250 Eutiche, 321 Euzoio di Cesarea, 303 Evagrio Pontico, 304, 342 Ezio, 303, 316 Fastidio, pelagiano, 380 Faustina, 148 Fausto di Milevi, 359 Favorino di Arles, 15, 40-41, 160 Fedone, 162 Felice, manicheo, 370 Felicissimo, 247 Ferecide, 89, 162 Festugière, A. ]., 80, 81, 102, 106, 257 Ficino, M., 98, 101, 392 Filastrio, 87, 141 Filino di Cos, 45 Filippo (diacono), 87 Filippo, Imperatore, 227, 245, 246, 250 Filippo di Sida, 129, 130
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Filolao, 162 Filomena, marcionita, 95 Filone, l'ebreo, 23, 33, 34, 74, 75, 76, 77, 78, 97, 110, 116, 119, 121, 123, 124, 125, 131, 140, 189, 191, 192, 193,227,264,280,298, 316, 318,324,326,328,340,342 Filone di Larissa, 40, 75, 360 Filopono, vedi Giovanni Filopono Filostrato di Lemno, 7, 146 Firmico Materno, 102,305, 306,327, 335, 339-340, 341 Flora, 194 Fiorino, 91, 136 Floro, 379 Potino di Sirmio, 303 Fozio, 129, 141, 197, 252, 289, 334, 345,408,409 Francesco d'Assisi (San), 375 Freudenthal, J., 54 Frontone,40, 73,148,149,160,195 Fuchs, H., 13 Fulgenzio di Ruspe, 354, 390 Gaio, vedi Caligola Gaio, platonico, 48, 50, 53, 54, 60, 61, 70, 71, 73,77,80,81,204 Gaio di Roma, 141 Galcaco, 13 Galeno, 44, 45, 46, 47, 56, 79, 145, 162, 163, 164, 167, 170-174 Galerio, 284 Gallieno, Imperatore, 201, 202, 235, 245,246,248 Gallo, 305, 306 Garin, E., 101, 102, 106, 230, 231, 257,285,397 Gellio, vedi Aulo Gellio Gemina, 202 Gemino di Rodi, 392 Genserico, 354, 388 Gerolamo (San), 11, 29, 32, 141, 174, 175,205,261,262,263,273,301, 303,304,341,342,343,356,388 Geta, 175 Giamblico, 63, 75, 79, 105, 107, 162,
234, 249, 251-258, 259, 260, 307, 347,394,397,403,413 Giansenio, 379 Giasone, 110 Gigante, M., 162 Gilson, E., 111, 112,304,338,376 Giorgio di Alessandria, 309 Giorgio di Laodicea, 303 Giovanni Apostolo, 87, 181 Giovanni Battista, 87, 97, 181 Giovanni Cassiano, 388, 389 Giovanni Crisostomo, 320, 321 Giovanni Evangelista, 90, 110, 128, 133,194,251,261 Giovanni Filopono, 407, 408, 411-412 Giovanni Lydo, 408 Giovanni Scoto Eriugena, 339, 388, 416 Giovanni Stobeo, vedi Stobeo Gioviano, Imperatore, 311 Giulia Domna, 241 Giulia Mammea, 261 Giuliano, caldeo, 103 Giuliano di Eclano, 379, 380, 382, 388 Giuliano, Imperatore, 14, 146, 252, 259, 300, 302, 305-313, 315, 323, 333,334,335,337,339,342 Giuliano, teurgo, 103, 104, 232, 259 Giulio Africano, 262 Giulio Costanzio, 305 Giulio Paolo, 245 Giunio Rustico (prefetto di Roma), 112 Giunio Rustico, stoico, 148, 151, 152 Giunio Rustico Aruleno, 148 Giuseppe, Ebreo, 123 Giustiniano, Imperatore, 14, 263, 407,409,414,415 Giustino (San), 73, 87-94, 95, 108, 109, 112-122, 123, 125, 129, 130, 131, 133, 134, 135, 138, 140, 141, 142, 143, 146, 177, 178, 179, 192, 195,264,276,291,296 Giustino, Imperatore, 390 Glaucia, gnostico, 89 Glaucia di Taranto, 45 Glaucone, 162
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Glasenapp, H., 97 Gordiano, Imperatore, 201, 202, 226,227,245 Graziano, 342 Gregorio di Cappadocia, 300 Gregorio Magno, 390 Gregorio di Nazianzo, 261, 263, 304, 314, 315, 316, 317-319, 320, 322, 323, 333, 334, 340, 342, 343 Gregorio di Nissa, 304, 314, 322-325, 326 Gregorio, Taumaturgo, 262, 290, 314 Gregorio il Vecchio, 317 Guglielmo di Moerbeke, 392, 395 Ham, 89 Harnack, A., 82, 94 Hohler, W., 83 Hormizd di Persia, 98 Ierace di Alesandria, 408 Ierocle di Alessandria, 258, 340, 343, 344-345, 408, 412 Ierocle Sossiano di Bitinia, 291 Igino, vescovo di Roma, 90 Ilario di Poitiers, 341, 342 Innocenza, vescovo di Roma, 380 Innocenza III, papa, 275 Ipazia, 340, 343, 344 Ipazio di Efeso, 415,420 Ipparchia, 162 Ipparco di Nicea, 56, 61, 68, 397 Ippaso, 162 Ippocrate, 46, 170, 171 Ippolito, 87, 89, 91, 134, 140-142, 160,164,296 Ireneo (Sant'), 82, 87, 89, 90, 91, 93, 94, 112, 121, 122, 134, 136-140, 141,142, 177, 178,179, 181,296 Isho' dad de Merv, 123 Isidoro di Alessandria, 408, 413 Isidoro di Basilide, 89 Isidoro di Gaza, 414 Isidoro di Siviglia, 389, 390, 391
Jedin, H., 320 Jonas, H., 83 Kovaliov, S., 275,287,296 Kroll, W., 104 Labeone, vedi Cornelio Labeone Lacide, 162 Lagrange, J.M., 123 Lalliano Mavorzio, 339 Lamprias, 15 Lamprias il Vecchio, 15 Lattanzio, 272, 276-288, 290, 338, 381 Leemans, E.A., 74-75 Leisegang, H., 83, 87, 88, 95 Leone Magno, vescovo di Roma, 322 Leonida, 260 Leucippo, 162 Libanio di Antiochia, 306, 333, 334 Liberde Causis, 403 Liberio, vescovo di Roma, 343 Libro di Giovanni, 97 Licenzio, 353 Licinio Sura, 40, 42 Licone, 162, 237 Lisimaco, stoico, 249, 250 Liutprando, 354 Lobeck, Chr. A., 103 Lògos telèios, vedi Discorso perfetto Lolliano Avito, 50 Longino (Cassio), 235,236,246,247, 262 Louis, P., 54 Luca, Evangelista, 87, 96, 139 Luciano di Samosata, 73, 103, 146, 147 Luciano di Antiochia, 298, 302 Lucio, platonico, 62 Lucio Tirreno, 15 Lucio Vero, 112,118,129,148,170 Lucrezio, 145,282, 328 Lutero, M., 370 Macedonia, 317,319
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Macrina (Santa), 314 Macrina (sorella di S. Basilio), 314 Macrino, Imperatore, 241, 245 Macrobio, 75, 241, 252, 327, 331-332,338,339,341 Magnenzio, 302 Malchione, 398 Maleo, vedi Porfirio Mani, 97, 98, 358 Marcella (moglie di Porfirio), 235, 238 Marcella, monaca, 343 Marcello Oronzio, 202 Marciano, 139 Marciano Capella, vedi Marziano Capella Marcione, 82, 86, 94-96, 117, 137, 175,179,296 Marco Annio Catilio Severo, vedi Marco Aurelio MarcoAnnio Vero, 148 Marco Aurelio, 9, 12, 13, 14, 61, 73, 103, 110, 112, 118, 129, 130, 132, 143, 145, 147, 159, 160, 170, 172, 195,240,245,248,408 Marco Elio Aurelio Vero, vedi Marco Aurelio ' Marco, Evangelista, 190 Marco Valentiniano, 90 , 94 Mardonio, 305 Marino, 103, 344, 392, 394, 407, 408, 413 Marino di Tiro, 168 Mario Vittorino, 327, 335-369, 340, 341,343,360,361,389 Marrou, H.l., 14, 356, 388, 389, 390 Martino l, papa, 420 Martroye, F., 293 Marziale, 42 Marziano Capella, 391 Massimiano Ercole, 284 Massimino Imperatore, 141, 245, 262 Massimo il Confessore, 338, 420 Massimo di Efeso, 252,259, 306 Massimo di Tiro, 72, 146, 345 Melesino, 319 Melisso, 162 Melitone di Sardi, 190 Menandro, 118 Menandro, gnostico, 86, 87, 88, 89
Menedeno, cinico, 162 Menedeno d'Eretria, 162 Menefilo, 65 Menelao di Alessandria, 169 Menippo, 162 Menodoto di Nicomedia, 40, 44, 45-47,162,164,165,167,173 Mesa, 241 Meso, 232 Metodio di Olimpo, 262, 263, 289-290 Metrocle, 162 Milziade, apologista, 107 Milziade, vescovo di Roma, 294 Minucio Felice, 144, 174, 185-188, 189 Minucio Fundano, 15 Misael, 117 Misone, 162 Moderato di Gades, 26, 66, 68, 70, 143,204,206,207,228,236,237, 247,262 Moerbeke, vedi Guglielmo di Moerbeke Mondésert, C., 191 Monica, 353 Monimo, 149, 162 Montaigne, M., 52 Montano, 297 Mosè, 74,122,292,368 Mullach, F.G., 310 Murray, G., 311 Musonio Rufo (Caio), 38 Nabuccodonosor, 88 Naudé, G., 310 Neante di Cizico, 161 Nebridio, 353 Nechepso, 32 Nemesio di Emesa, 160, 232, 332-333 Nerone,8, 10, 15,16,45,56,284 Nerva, Imperatore, 9, 10 Nestorio di Costantinopoli, 321 Nettario di Costantinopoli, 320 Nettio Agorio Pretestato, 339 Nicia di Nicea, 161 Nicomaco di Gerasa, 60, 68, 70, 143, 204,206,237,247,254,262,410
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Nicone, 172 Nicostrato, 61, 62 Nicoteo, 232 Nigrino, 146 Noeto di Smirne, 140, 141, 142, 289 Norden, E., 80, 81 Novato, 247 Novaziano, 141,247,297 Numenio di Apamea, 63, 66, 74-79, 80, 101, 104, 121, 204, 247, 250, 251,262,328,330 Numeziano, Imperatore, 245 Odenato, 246 Olimpiodoro il giovane, 249, 252, 260, 344, 408, 410 Olimpiodoro il vecchio, 343, 344, 346,347,392,407 Omero, 123 Onesicrito, 162 Onorato, cinico, 146 Onorato (amico di S. Agostino), 317 Onorio, Imperatore, 370, 380 Oracoli Caldaici, 102-108, 232, 235, 241,252,257,259,306,344,346, 394,395 Oracoli Sibillini, 277, 279 Orelli,J., C., 310 Orfeo, 31 Origene, 73, 74, 75, 82, 141, 143, 144, 189, 190, 191,205,235,236, 244,246,247,260,272,288,289, 290,291,292,298,301,316,317, 320, 322, 323, 325, 326, 327, 330, 341, 342, 343, 379, 381, 383, 384, 388,389,410 Origene, platonico, 201, 205 Ossio di Cordova, 294, 327, 339 Ostane, 98 Ostiliano Esichio di Apamea, 250 Ostilio, 146 Ottato di Milevi, 312 Ottavio, vedi Augusto Ottavio, 195, 196, 197 Palladio, 304 Pamfile, 41
Panfilo,262,288,290,342 Panteno, 130,189,190,191,260 Paolina di Antiochia, 34 3 Paolina di Milano, 356 Paolina di Nola, 356, 383, 388 Paolo (San), 90, 95, 96, 109, 110, 119, 138, 139, 178, 179, 181,261, 322, 336, 337, 363, 364, 384, 385, 415,420 Paolo Orosio, 356 Paolo di Samosata, 246, 298, 303 Papiniano, 245 Papisco, 110 Pappo, 145 Parmeniano, 312 Parmenide, 162 Pasquinelli, A., 163 Patek, 98 Patricio, 353, 354 Pelagio, 272, 353, 356, 358, 369, 379, 380-383, 388 Peregrino Proteo, 146, 147, 160 Periandro, 162 Petosiride, 32 Pierio, 289, 290 Pietro (San), 87, 89, 180, 296, 312, 322,343 Pietro di Alessandria, 289 Pietro (fratello di S. Basilio), 314 Pimandro,98,99, 100,101,102,104, 284 Pio, vescovo di Roma, 3, 5 Pirrone, 162, 188 Pistis Sophia, 91 Pitagora, 37, 52, 70, 75, 89, 115, 162, 179,192,193,235,236,258 Pittaco, 162 Platone, 17, 18, 19, 21, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 30, 31, 35, 36, 37, 38, 39, 44, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 81, 86, 110, 113, 114, 115, 118, 119, 122, 125, 130, 159, 161, 162, 163, 164, 180, 187, 189, 190, 192, 193,203, 204,205, 212,214,217,219,224,227,228, 235,236,238,243,244,247,249,
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251,252,254,258,260,262,264, 274,276,277,279,286,292,307, 323,326,327,328,330,331,333, 334,335,337,341,343,345,346, 347, 368, 372, 393, 394, 395, 397, 403,407,408,410,413 Plinio il giovane, 7, 12, 13, 42, 43 Plotina, 14, 145 Plotino, 7, 63, 79, 80, 82, 84, 106, 107, 108, 160, 191, 201-233, 234, 235,236,237,238,241,242,243, 244,248,249,250,251,253,257, 258,260,263,264,270,272,298, 307,331,335,337,338,340,341, 343,344,346,347,360,361,362, 363,365,394,397,398,403,413, 417 Plutarco di Atene, 258, 340, 343, 344,345-346,347,392,394,407 Plutarco di Cheronea, 7, 15-40, 48, 49, 75, 148, 160 Plutarco (Pseudo), 15, 160 Polemone, 162 Policarpo di Smirne, 136, 13 7 Poliistore, vedi Alessandro Poliistore Pollio Felice, 145 Pomedio, 145 Ponziano, vedi Sicinio Ponziano Ponziano, vescovo di Roma, 141 Porfirio, 56, 63, 74, 75, 79, 84, 104, 105,107,201,202,203,204,205, 211, 226, 227, 232 ,234, 235-244, 248,249,250,251,252,253,256, 258,260,262,290,308,328,331, 332, 336, 341, 347, 394, 397, 408, 410 Portalié, E., 354,373,374 Posidonio 160, 174, 328 Possidio, 358 Potino (San), 136, 137 Praxea, 175, 289 Prisciano, 414 Prisco (padre di S. Giustino), 112 Prisco, platonico, 252, 259 Proclo, 61, 62, 63, 66, 74, 75, 77, 78, 79, 80, 103, 104, 105, 106, 214, 234,249,250,252,256,257,258, 259,290,338,340,343,344,346,
347, 351, 392-407, 408, 409, 410, 411,412,413,414,415,419,420 Procopio, 103 Prospero di Aquitania, 388 Protagora, 162 Psello, 103 Pudente, vedi Sicinio Pudente Pudentilla, 50 Pudenziano, epicureo, 145 Puech, H. Ch., 81, 82, 83, 85 Pugliese-Carratelli, G., 10, 248, 249 Pupilla del mondo, 98 Quadrato, 108, 110, 111 Quintiliano, 14 Reitzenstein, R., 83 Robin, L., 164 Rochefort, G., 310,311 Rodone, 122 Rogaziano, 202 Romaniano, 343, 354 Rostovzev, M., 10 Rudberg, G., 249 Rufina, 241,243,291,304,342-343 Rufo, vedi Musonio Rufo Rufo d'Efeso, 45 Rustico, vedi Giunio Rustico Sabellio, monarchista, 141, 142,289 Sabinillo, 202 Salonina, 202, 248 Sallustio Crispo, 356 Sallustio di Emesa, 310 Sallustio Flavio, 310 Sallustio, grammatico, 310 Sallustio secondo, 252, 305, 310-311 Salviano, 312 Sapore I di Persia, 98 Sapore II di Persia, 306 Sarton, G., 145 Satira, 161 Saturnilo di Antiochia, 86, 87, 88, 89, 117 Saturnino Empirico, 162, 164
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Scapula, 175 Schwartz, E., 162 Scoto Eriugena, vedi Giovanni Scoto Eriugena Secondo Valentiniano, 90, 94 Selemco, 260 Seneca,42, 145,151,176,381 Senecione, vedi Soccio Senecione Senocrate, 31, 53, 162 Senofonte, 162 Serapione di Alessandria, 45 Servio, 331 Sesto di Cheronea, 148, 152 Sesto Empirico, 18, 40, 44, 4 7, 48, 53, 145, 162, 163, 164-167, 177 Settimio Severo, 175, 189, 205, 240, 241,245,260 Settimio di Stobeo, 409 Severo, 66-67,72, 73,204 Severo Alessandro, Imperatore, 245 Severo, medico, 171 Sfero, 162 Sicinio Amico, 50 Sicinio Ponziano, 50 Sicinio Pudente, 50 Simmaco (prefetto di Roma), 353 Simmaco (traduttore della Bibbia), 261 Simmia, 162 Simon Mago, 86, 87, 88, 89, 117 Simone di Atene, 162 Simonide, 188 Simpliciano, 342, 360, 361, 385, 388 Simplicio, 62, 252, 408, 410-411, 414 Sinesio, 340, 344, 408 Sinclair, T.A., 8, 11, 40 Siriano, 249, 340, 343, 346-347, 392, 394,407,408,409,410 Sisto, 383 Soccio Senecione (Quinto), 15 Socrate, 52, 70, 110, 113, 117, 122, 147,162,188,235,236,396 Socrate, storico, 298 Sofocle, 310 Solone, 162 Sopatro di Apamea, 162, 251, 258, 259,260 Sorano di Efeso, 45, 182 Sosicrate, 161
Sosigene, 55, 56, 64 Sozione di Alessandria, 160, 161 Sozomeno di Gaza, 298 Speusippo, 53, 162 Stefano, vescovo di Roma, 24 7 Stilpone, 162 Stobeo,63,66, 79,98, 160,250,252, 409 Stratone di Lampsaco, 162 Sura, vedi Licinio Sura Svetonio, 14 Tacito, 10, 13 Talete, 162, 180, 187 T ascio, vedi Cipriano (San) Taziano, 73, 108, 122-129, 130, 133, 134, 135, 143, 146, 195 T emisone di Laodicea, 45 Temistio, 305, 327, 333-335, 339 Teoctisto di Cesarea, 261 Teoda, gnostico, 90, 94 Teoda di Laodicea, 47, 167 Teodoreto, 141, 160 Teodoreto di Antiochia, 321 Teodorico, 312 Teodoro di Asine, 252, 260 Teodoro di Eraclea, 303 Teodoro di Mopsuesta, 320, 321 Teodosio l, Imperatore, 14, 260, 303, 311,312,319,333,334 Teodosio II, Imperatore, 317, 334, 342 Teodosio, medico, 47 Teodoto, 408 Teodoto Valentiniano, 90, 191 Teodozione, 261 Teofilo di Alessandria, 321, 344 Teofilo di Antiochia, 108, 129, 132-134, 135, 138 Teofrasto, 160, 161, 162, 203, 235, 243,412,414 Teognosto, 289 T eone di Alessandria, 335, 340, 344 Teone di Smirne, 56, 57, 60-61, 68, 71 Teopompo, 290 Teosebio, 340, 343, 344, 345
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Teotimo, 91 Terenzio, 356 Tertulliano, 79, 82, 87, 94, 95, 123, 132, 134, 140, 141, 142, 174-195, 196,199,296,297,298,389 Tertulliano (Pseudo), 141 Il tesoro, 95 Tessalo di Tralle, 45 Theologia Aristotelis, 231, 403 Tillemont, S., 310 Timocrate di Eraclea, 146 Timone di Fliunte, 162 Tito, Imperatore, 8 Tixeront, G., 302 Tolomeo, 44, 60, 61, 102, 145, 163, 167, 168-170, 171, 235, 237, 240, 297 Tolomeo, cristiano, 112, 118 Tolomeo Valentiniano, 90, 94, 97 Torquato, vedi Manlio Torquato (Lucio) T raiano, Imperatore, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 15, 19,42,45,145 Trasea Peto, 152, 159 Tritone, 112, 114
Ulpiano, 245 Urbano l, vescovo di Roma, 141 Urbico, 112, 118
Valente, vedi Vettio Valente Valente, Imperatore, 300, 302, 315 Valentiniano Il, Imperatore, 242 Valentino, 82, 85, 90-93, 94, 95, 121, 129, 136, 13 7
Valeria, 284 Valeriano, Imperatore, 245, 247, 284 Valerio di lppona, 354, 370 Vespasiano, Imperatore, 14, 18, 146, 159 Vetranione, 302 Vettio Valente, 169 Vindiciano, 353, 358 Virgilio, 187, 188, 331, 339, 356 Vitale di Cartagine, 386 Vittore, vescovo di Roma, 136 Vittorino, vedi Mario Vittorino Volusio Meciano, 148 Waszink,J.H., 328 Wedel, Ch., 190 Wilamowitz, U., 162,310 Xenarco di Seleucia, 55 Zaccaria di Gaza, 408, 412 Zefirino, vescovo di Roma, 140, 141, 142 Zenobia di Palmira, 246 Zenodoto,408,413 Zenone di Cizio, 37, 53, 162, 166 Zenone di Elea, 162 Zenone, Imperatore, 415 Zeto, 201, 202 Zeucsis, 45 Zopyro di Alessandria, 45 Zoroastro, 22, 31, 232 Zosimo, vescovo di Roma, 380 Zostriano, 232 Zotico, 202
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Indice
Pagina
5
Parte prima
Cultura filosofica, politica e religiosità dal II al V secolo
d.C. 7
15 40 48
80 108
14 3
l 74
199
l. Dione di Prusa. La politica culturale dell'Impero nel II secolo 2. Plutarco di Cheronca 3. Retorica e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La "scepsi" e le scienze. Le "questioni". Medicina e metodo da Menodoto a Sesto Empirico 4. Interpretazioni di Platone e di Aristotele nel!I secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. b) I commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adrasto di Afrodisia, Sosigene, Ermino, Aristocle di Messane. -c) Il "platonismo" di Albino. Teone di Smirne. -d) Il "platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. -e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele"- f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea 5. "Gnosi," "Scritti Ermetici" e "Oracolicaldaici" a) La "gnosi". -b) Il corpo degli "scritti emertici."- c) Gli "oracoli caldaici" 6. La componente cristiana e la formazione delle "verità" cristiane neliisecolo a) Apologistica e Apologetica in greco: da Quadrato e Aristide a Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo di Antiochia. -b) Ireneo e la delineazione di un "gnosi" cristiana. Ippolito. La problematica di Tertulliano 7. Pensiero e cultura nella seconda metà del II secolo a) Epicurei, cinici, sofisti. -b) Lo "stoicismo" di Marco Aurelio. -c) La preparazione culturale. Diogene Laerzio. - d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolomeo e Galeno 8. Il Cristianesimo tra la fine del II e il principio del III secolo a) Tertulliano e Minucio Felice. L'apologetica latina.- b) La scuola di Alessandria: Clemente Alessandrino e la "gnosi" cristiana Parte seconda
L'ultima crisi dell'Impero e le ultime componenti del pensiero antico
635
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20 l
Capitolo primo
Plo tino 234
Capitolo secondo
Neoplatonismo e Cristianesimo fra il III e il IV secolo 234
260 272
314
l. Il neoplatomismo di Porfirio, di Amelio e di Giamblico. Le Scuole neoplatoniche di Siria e di Pergamo. Magia e Teurgia. La crisi dell'Impero nel III secolo 2. Origene 3. Il Cristianesimo e l'Impero tra il III e il IV secolo a) Arnobio e Lattanzio. Costantino - b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea. Avversari di Origene. Eusebio di Cesarea. Costantino- c) Le "eresie". L'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Aria. Atanasio. - d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristianesimo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sallustio. L'Impero di Occidente tra il IV e il V secolo Capitolo terzo
Cristianesimo e cultura nel IV e al principio del V secolo 314
322 326
349 353
l. San Basilio e San Gregorio di Nazianzo. Questioni trinitarie e cristologiche. Dal concilio di Nicea ai concili di Costantinopoli, di Efeso e di Calcedonio (451) 2. San Gregorio di Nissa J. La "koinè" culturale nel IV secolo e le sue componenti. Cultura e testi nel mondo di lingua latina. Il "platonismo" tra il IV e il V secolo a) Calcidio. Macrobio. Nemesio di Emesa. Temistio. -b) Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. -c) Il "neoplatonismo" in Occidente e Sant'Agostino. Il "neoplatonismo nelle scuole di Alessandria e di Atene tra il IV e il V secolo (Ipazia, Sinesio, Ierocle, Teosebio, Plutarco d'Atene, Siriano, Dommino) e la preparazione di Proclo Conclusione Capitolo primo
Sant'Agostino. Pelagio e Agostino. La cultura in Occidente da Agostino al Concilio di Orange (529) 392
Capitolo secondo Proclo. La scuola di Proclo (Marino, Isidoro, Egia, Zenodoto, Brmia, Ammonio d'Ermia, Asclepio di Tratte, David l'Armeno, Elia, Olimpiodoro, Simplicio, Giovanni Filipono, Enea e Zaccaria
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di Gaza). Le componenti culturale nel mondo greco orientale tra il V e il VI secolo, Damascio. Il Cristianesimo e l'influenza procliana. Gli scritti dello Pseudo-Dionigi. La chiusura delle scuole filosofiche di Atene(529)
421
Bibliografia
623
Indice dei nomi
637
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