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ESCHILO, COEFORE 969–971* I I versi conclusivi del terzo stasimo delle Coefore costituiscono uno dei passi più problematici del testo eschileo: è raro trovare due editori che concordino nelle scelte testuali, mentre non è insolito, anche in edizioni recenti, il ricorso alle cruces.1 Nel codice Laurenziano i versi sono riportati in questa forma, sicuramente in vari punti guasta: tÊxa dÉ eÈpros≈pviko¤tai tÚ pçn fide›n ékoËsai yreom°noiw metoikodÒmvn pesoËntai pãlin. (vv. 969–971) Una linea interpretativa che ha goduto di notevole successo e che è stata riproposta con alcune varianti da parecchi editori (tra cui Wilamowitz, Groeneboom, Murray e Untersteiner) è di leggere al v. 971 m°toikoi dÒmvn pesoËntai pãlin come discorso diretto introdotto dal participio yreom°noiw.2 *) I risultati di questa ricerca sono stati parzialmente annunciati in un intervento che ho tenuto a Trento il 24/09/2004, nell’ambito del Convegno «Eschilo e la tragedia: comunicazione, ecdotica, esegesi». Ringrazio vivamente Cinzia Bearzot, Enrico Medda, Glenn Most e Mario Telò per aver letto e discusso con me una stesura preliminare del lavoro. 1) Cfr. ad es. le edizioni di A. Sidgwick, Aeschyli tragoediae, Oxonii 1900; F. Blass, Aischylos’ Choephoren, Halle 1906; P. Mazon, Eschyle, II: Orestea, Paris 1925; M. L. West, Aeschyli tragoediae, Stuttgart 1990. 2) Varia talora, da un editore all’altro, la ricostruzione dei versi precedenti e in particolare l’individuazione del verbo della reggente. Wilamowitz (Aischylos, Orestie, II: Das Opfer am Grabe, Berlin 1896, 132e 240) recuperava il verbo reggente emendando tÊxa in tÊxoi: tÊxoi dÉ eÈpros≈pƒ ko¤t& tÚ pçn / fide›n [ékoËsai] yreom°noiw / \m°toikoi dÒmvn pesoËntai pãlin^; ma nella sua edizione eschilea del 1914 preferì seguire Boissonade correggendo ko¤t& in ke›tai e stampando a testo: tÊx& dÉeÈpros≈pƒ ke›tai ktl. (così anche G. Murray, Aeschyli septem quae supersunt tragoediae, Oxford 1937e 21955; P. Groeneboom, Aeschylus’ Choephoroi, Groningen 1949; H. J. Rose, A Commentary on the Surviving Plays of Aeschylus, Amsterdam 1958, II 214 s.; favorevole a questa soluzione è anche F. Nenci, Eschilo.
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Questa soluzione non è esente tuttavia da difficoltà. Un primo problema è stabilire a chi vada riferito il participio yreom°noiw. In mancanza di ogni altro termine di riferimento, esso viene generalmente inteso come attribuito dalle Coreute a se stesse. A questa interpretazione viene solitamente obiettato che ci si aspetterebbe per la forma participiale una terminazione in -aiw, tanto più che questo verbo – tipicamente ‹tragico› – ricorre altrove sempre in riferimento a personaggi femminili. Ma ancor più di questa considerazione, che potrebbe avere valore estrinseco od accidentale,3 crea perplessità il fatto che il verbo yr°omai in tutte le sue attestazioni letterarie sia costantemente associato al lamentare una situazione di infelicità, soprattutto un lutto, mentre qui si tratterebbe del proclamare un evento positivo.4 Le Coefore, a c. di F. Nenci / L. Arata, Bologna 1999, 167e 307). M. Untersteiner (Eschilo, Le Coefore, a c. di W. Lapini e V. Citti, Amsterdam 2002, 148 s.), che seguiva lo scolio, sottintendeva un §st¤n e metteva a testo: tÊx& dÉ <§n> eÈpros≈pƒ / ko¤t& tÚ pçn fide›n [ékoËsai] yreom°nois
: \m°toi-/koi ktl.^, traducendo: «è un successo veder la vicenda atteggiata con volto sereno per chi altamente gridava: [. . .]». È rimasta invece isolata la proposta di D. Young, Readings in Aeschylus’ ‘Choephoroe’ and ‘Eumenides’, GRBS 12, 1971, 318: tÊxa dÉ eÈpros≈pÉ ofiko› taËta pãntÉ / fide›n [ékoËsai] yreom°noiw / \M°toikoi ktl.^ («may Fortune settle them [the d≈mata] to be altogether fair of front to behold, for us as we shout aloud [. . .]»). Per quanto riguarda il tràdito ékoËsai, c’è generalizzato consenso da parte degli editori nell’espungerlo, sulla scia di G. Hermann (Observationes criticae in quosdam locos Aeschyli et Euripidis, Lipsiae 1798, 132), il quale pensava a una glossa intrusiva ad opera di qualcuno che aveva erroneamente collegato fide›n a yreom°noiw, interpretandolo come una sinestesia, il cui significato è glossato con ékoËsai (W. Headlam, The Oresteia of Aeschylus, a c. di G. Thomson, Cambridge 1938, 243, citava a questo proposito lo scolio a Soph. Trach. 365 …w ıròw: ént‹ toË …w ékoÊein). 3) Le attestazioni letterarie di yr°omai sono infatti in scarso numero (oltre al passo in questione, cfr. Aesch. Sept. 78 yreËmai foberå megãlÉ êxh, Suppl. 112 toiaËta pãyea m°lea yreom°na l°gv / lig°a bar°a dakruopet∞ / fiØ fiÆ, fihl°moisin §mprep∞, Ag. 1165 dusalge› tÊx& minurå yreom°naw, Eur. Med. 50 aÈtØ yreom°nh saut∞i kakã, Hipp. 364 énÆkousta tçw / turãnnou pãyea m°lea yreom°naw, accanto ai quali può essere ricordata la testimonianza di Eust. Comm. Hom. Il. 4,436 [464,22] ‹pãyea yreom°nhw› ka‹ ‹yreom°nh sautª kakã›), e siccome il verbo è sempre in riferimento al lamento ed il pianto in tragedia è appannaggio per lo più delle donne, questo dato non va caricato di eccessivo significato. E d’altra parte le Coefore potrebbero coinvolgere nel loro lamento anche Oreste ed Elettra, e l’uso del maschile potrebbe essere qui generalizzante. 4) Rispetto a yro°v (vox neutra nel significato di ‹gridare› o anche solo di ‹dire›, spesso in connessione con sostantivi generici, quali aÈdãn Aesch. Cho. 829, lÒgon Soph. Ant. 1287, pollã Soph. Ai. 592, eÎfhma e ceud∞ Eur. IA 143 e 1345, ¶tuma Aesch. Prom. 595, ecc.), yr°omai si è specializzato in riferimento al ‹gridare
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Anche l’identificazione dei meteci è tutt’altro che ovvia. Secondo alcuni (tra i quali – con proposte ricostruttive del contesto sintattico fra loro molto diversificate – Wecklein, Headlam e Untersteiner) il termine andrebbe riferito a Clitemestra ed Egisto. Ma, come faceva notare Garvie nel suo commento, l’uso del futuro per indicare un’azione già compiuta (Egisto è morto), o in corso (l’uccisione di Clitemestra appare ormai come un dato ineluttabile) non convince del tutto. D’altra parte a Clitemestra ed Egisto finora ci si era sempre riferiti come ai despÒtai e kÊrioi della casa,5 perché di fatto, se non di diritto, signori plenipotenziari a palazzo, per cui l’inaspettata (e non ulteriormente specificata) qualifica di meteci, ovvero di cittadini di rango inferiore, per definire chi finora ha tiranneggiato la casa (si ricordino le parole di Clitemestra a Ag. 1673 kratoËntew t«n dvmãtvn), non appare in linea con la rappresentazione che di essi è stata data nella parte precedente del dramma, e dunque non ne consentirebbe da parte del pubblico un’agevole identificazione. Nella qualifica di meteci altri invece vedono un riferimento alle Erinni,6 delle quali Cassandra in Ag. 1186–1194 aveva parlato come di un xorÒw dissonante e di un k«mow funesto che s’era insediato stabilmente nella casa, bevendo sangue e inneggiando ad Ate, e che in Cho. 698 s., con evidente ripresa del motivo simpotico, Clitemestra aveva definito come un «cattivo baccanale».7 Sennonché, di dolore›, ovvero al ‹lamentarsi› (cfr. ad es. l’inglese ‹to cry›, che significa tanto gridare quanto piangere): questo è il significato che il verbo assume in tutti i loci tragici in cui è attestato (cfr. la nota precedente). Dell’associazione del verbo a contesti di carattere trenodico è prova il sostantivo da esso derivato yr∞now (così come da yro°v deriva invece la vox neutra yrÒow, ‹grido›, ‹vocìo› di persone), nonché il fatto che negli scoli e nei lessicografi yr°omai è glossato con ÙlofÊromai, yrhn°v, yrhnƒd°v e sinonimi. 5) Cfr. Cho. 658 e 689 to›si kur¤oisi, 770 e 875 despÒtou. Sulla stessa linea si pongono i riferimenti al loro turanne›n e krate›n sia nella casa che nella città, sui quali cfr. infra n. 28. 6) Così Weil, Wilamowitz, Lloyd-Jones e, più dubitativamente, Mazon (come n. 1) 118 n. 1; secondo A. F. Garvie, Aeschylus, Choephori (Oxford 1986) 316, invece, «the correct solution probably remains to be discovered». 7) Cfr. Cho. 698 s. nËn dÉ ¥per §n dÒmoisi bakx¤aw kak∞w / fiatrÚw §lp‹w ∑n, paroËsan §ggrãfei. Al v. 698 la congettura kak∞w di Portus per il tràdito kal∞w sembra abbastanza plausibile, non solo perché, come viene in genere sostenuto, una simile forzatura ironica parrebbe qui eccessiva, persino per la sarcastica Clitemestra eschilea, ma anche perché l’associazione con la metafora dello fiatrÒw, che presuppone un ‹male› da sanare, sembra richiedere l’esplicitazione letterale di tali kakã (per
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oltre all’oggettiva difficoltà linguistica di intendere al v. 971 pesoËntai nell’accezione semantica di §kpesoËntai («scacciare fuori»),8 resta il fatto che nulla c’è in questo contesto che evochi la metafora simposiale, necessaria per l’identificazione dell’immagine del k«mow t«n ÉErinÊvn.9 D’altra parte, negli altri passi eschilei in cui sono introdotte le Erinni sono sempre presenti elementi che rendono l’identificazione inequivocabile: se le dee non vengono menzionate con il loro nome proprio, compaiono quanto meno epiteti caratterizzanti oppure riferimenti a loro specifiche prerogative.10 È un nesso simile, nella stessa sede metrica, cfr. ad es. Aesch. fr. 255,2 s. R. t«n énhk°stvn kak«n / fiatrÒw e Eur. El. 69 s. sumforçw kak∞w / fiatrÒn). 8) La difficoltà di tale accezione semantica è stata ben evidenziata da Garvie (come n. 6) 315 s. Non ho presenti paralleli convincenti per l’uso del semplice p¤ptv come passivo di §kbãllv, tanto più in mancanza di complementi di moto da luogo; dÒmvn, infatti, con buona pace di Rose (come n. 2) II 215, non può fare da solo le veci di un genitivo di allontanamento: si tratta invece di un complemento di specificazione retto da m°toikoi, come in Aesch. Pers. 319 sklhrçw m°toikow g∞w o in Soph. OC 934 m°toikow t∞sde t∞w x≈raw (a questo proposito, Pierre Judet de la Combe mi ha opportunamente segnalato il processo di risemantizzazione attuato da Eschilo grazie al genitivo dÒmvn che riprende il secondo termine del composto, o‰kow). È evidente che casi del tipo di Aesch. Prom. 756 pr‹n ín ZeÁw §kp°s˙ turann¤dow, in cui ogni ambiguità semantica è assente (e cfr. anche il caso simile di Eum. 698 pÒlevw ¶jv bale›n), si pongono su un piano del tutto diverso e non equiparabile con il nostro passo. 9) Per superare quest’oggettiva difficoltà, Elmsey proponeva di correggere xrÒnow in xorÒw al v. 965. Ma – a parte l’arbitrarietà di un intervento correttivo in questa sede – non si vede come la semplice evocazione di una vox neutra quale è xorÒw, in mancanza di ogni ulteriore specificazione, possa essere sufficiente a identificare la temibile realtà delle Erinni. Il fatto che il termine xorÒw compaia in Ag. 1186 non è sufficiente a creare il collegamento. Nell’Agamennone, infatti, l’immagine è costruita negando in modo sistematico la realtà quotidiana (e per lo più festosa) dei xoro¤ e dei k«moi: il xorÒw delle Erinni è «di non bella voce» (oÈk eÎfvnow) e «non parla bene» (oÈk eÔ l°gei); il k«mow «beve sangue» (e non vino, come i k«moi ‹normali›) ed è «difficile da mandare via» (dÊspemptow ¶jv, diversamente da quel che avveniva alla fine d’ogni simposio). A sua volta, questa metafora del k«mow ‹rovesciato› (sulla quale cfr. la nota di Ed. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, Oxford 1950, III 543 s.) ritorna, come s’è detto, nell’allusione al funesto baccanale di Cho. 698 s.: ma il presunto riferimento al xorÒw o ai m°toikoi nel nostro passo nulla più conserva in comune con questi passi, mancando in esso, oltre al tema simpotico, anche la formulazione ossimorica. 10) Non c’è nessun appiglio testuale che induca a ritenere che le divinità invocate dalle Coefore ai vv. 800–802 (o· tÉ ¶sv dvmãtvn ploutogay∞ muxÚn nom¤zete, klËte, sÊmfronew yeo¤) vadano identificate nelle Erinni (secondo una linea interpretativa ‹psicologistica› che risale a Wilamowitz [come n. 2] II 225 s., ma dalla quale egli stesso più tardi prese le distanze: cfr. U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Der
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assai improbabile che Eschilo affidasse a un così neutro e generico riferimento l’evocazione della sinistra realtà delle Erinni senza in nessun modo guidare lo spettatore nell’identificazione.11 Tanto che più che nella parte precedente dello stasimo nessun accenno era stato fatto alle Erinni: erano state evocate D¤ka e Poinã in quanto giunte in quel momento a palazzo, ma non s’era affatto parlato di divinità dimoranti nella casa che andassero espulse. In realtà, nell’identificazione dei m°toikoi con le Erinni agisce in alcuni interpreti moderni la suggestione del finale delle Eumenidi, dove le Erinni, meteci indesiderati ed ostili nella casa di Oreste, troveranno accoglienza come meteci benvoluti e propizi in Atene.12 Ma il parallelo sembra fuorviante ed improponibile in questo punto dell’azione drammatica. Non è a mio parere un caso che tutte le menzioni dei meteci in Eschilo (come pure negli altri tragici) siano sempre di segno positivo o tutt’al più neutro: mai altrove il termine è riferito a entità negative il cui soggiorno sia da scongiurare come pericoloso per la terra accogliente. Nell’ambito della trilogia, m°toikow è termine utilizzato da Oreste in riferimento a se stesso a Cho. 684 all’interno del falso annuncio della sua morte, e m°toikoi diventano le Erinni solo dopo la loro riappacificazione con Atena, quando la loro benevolenza sarà definitivamente assicurata alla cittadinanza.13 È evidente che, all’interno di Glaube der Hellenen, Darmstadt 31959, I 155 n. 1). Si tratterà piuttosto di divinità benefiche a vario titolo protettrici della stirpe, com’è stato bene illustrato da K. Sier, Die lyrischen Partien der Choephoren des Aischylos, Stuttgart 1988, 253 s. 11) Si ricordi, per contro, il modo enfatico con cui la menzione delle Erinni è introdotta, attraverso il procedimento del gr›fow, in Aesch. Sept. 720 ss. 12) Cfr. Eum. 1011 Íme›w dÉ ≤ge›sye, polissoËxoi / pa›dew KranaoË, ta›sde meto¤koiw e 1018 Pallãdow pÒlin n°montew metoik¤an tÉ §mØn eÈseboËntew oÎti m°mcesye sumforåw b¤ou. Su questa linea interpretativa cfr. in part. E. Petrounias, Funktion und Thematik der Bilder bei Aischylos, Göttingen 1976, 230. 13) Relativamente a Ag. 32 s., cfr. infra VI. Il metoike›n è riferito anche alle Danaidi, che verranno accolte, e non espulse, da Pelasgo (Aesch. Suppl. 609e 994), e a Partenopeo, che dimostra la sua riconoscenza nei confronti di Argo combattendo per la città che lo ha accolto (Sept. 548). A proposito di Pers. 319, dove la definizione di m°toikow è applicata al morto seppellito lontano dalla propria patria, si veda la puntuale nota ad loc. di L. Belloni, Eschilo, I Persiani, Milano 21994, 155. Sull’ideologia del m°toikow nel dramma attico cfr. D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977, 34–38, con le puntualizzazioni di V. Citti, The Ideology of Metics in Attic Tragedy, in: Y. Tory / D. Masaoki (edd.), Forms of Control and Subordination in Antiquity, Leiden 1988, 456–464. Un atteggiamento di sensibilità alla situazione dei meteci e un intento unificante nei confronti della col-
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un progetto politico rifondante come è quello che Eschilo mette in atto nell’Orestea,14 non sarebbe stato affatto opportuno applicare la definizione di meteci – una componente importante della cittadinanza ateniese15 – alla sinistra realtà delle Erinni di cui si auspica l’espulsione come di un corpo estraneo e indesiderato dalla casa.16 Naturalmente queste considerazioni circa la scarsa plausibilità che Eschilo riferisca la metafora ad entità negative di cui si desidera l’eliminazione si applica anche all’interpretazione che vede nei meteci i due miãstorew Clitemestra ed Egisto.17 Quanti riferiscono lettività ateniese è stato recentemente evidenziato a proposito di Euripide da G. Bakewell, eÎnouw ka‹ pÒlei svtÆriow / m°toikow: Metics, Tragedy and Civic Ideology, SyllClass 10, 1999, 43–64, con specifico riferimento a Heracl. 1033. 14) Su queste tematiche, punto di riferimento fondamentale restano tuttora i capitoli dedicati all’Orestea nel saggio di V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Torino 1978. 15) Sul rapporto numerico fra i meteci e le altre componenti della polis ateniese cfr. R. P. Duncan Jones, Metic Number in Periclean Attics, Chiron 10, 1980, 101–109; E.Ch. Welskopf (hrsg.), Belegstellenverzeichnis altgriechischer sozialer Typenbegriffe von Homer bis Aristoteles, Berlin 1985, II 1165–1172; G. Németh, Metics in Athens, AAH 41, 2001, 331–348. Da Thuc. 2,31,2 si ricava che nel 431 a. C. vi erano tre opliti meteci ogni dieci opliti reclutati dai cittadini. 16) Ben diverso è invece il caso del finale delle Eumenidi, dove il termine m°toikoi è applicato alle divinità dopo la loro pacifica integrazione nella città. Si verifica anzi a questo proposito una sorta di capovolgimento paradossale rispetto ai dati storici reali: sono gli Ateniesi, gli autottoni, a dover eÈsebe›n e timçn la metoik¤a delle Erinni (cfr. Eum. 1018e 1029), se vogliono assicurarsene i favori: ovvero a fare proprio l’atteggiamento di rispetto ed ossequio che di norma competeva ai meteci nei confronti della cittadinanza ospitante. È evidente in ciò la volontà di Eschilo di nobilitare l’istituzione della metoik¤a. Per quanto riguarda gli altri tragici, l’esame dei passi di Sofocle e di Euripide in cui è coinvolto il termine m°toikow e i suoi derivati conduce a non dissimili conclusioni: come è stato dimostrato da Citti (come n. 13) 456 ss., non c’è mai un atteggiamento negativo da parte dei drammaturghi nel riferirsi a questa istituzione. E anche dall’esame dei passi in cui Aristofane fa allusione a questa componente della società ateniese, Whitehead (come n. 13) 39–41 ha individuato un atteggiamento altrettanto favorevole da parte del poeta comico; quanto al controverso passo in Ar. Ach. 507 s. toÁw går meto¤kouw êxura t«n ést«n l°gv, che già Whitehead con equilibrate argomentazioni interpretava come positivo apprezzamento nei confronti dei meteci, cfr. ora anche S. D. Olsen, Aristophanes, Acharnians, Oxford 2002, 203 s., che approda a conclusioni sostanzialmente simili. 17) Così i due usurpatori erano stati definiti dal Coro in questo stasimo al v. 944 (ÍpÚ duo›n miastÒroin). Ed è evidente che nel rito di catartica espulsione della contaminazione, evocato appena prima dal Coro ai vv. 964 s., sia da vedere innanzi tutto – come bene ha rilevato Sier (come n. 10) 299 – un riferimento all’azione
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il termine m°toikoi alle Erinni o alla coppia di adulteri sono portati nelle loro traduzioni o parafrasi ad insistere sulla negatività del termine (così ad es. Young: «The a l i e n s e t t l e r s in the house shall be cast forth again», Untersteiner: «Gli i n t r u s i dentro la casa dovranno subire una sorte mutata», Sevieri: «Gli u s u r p a t o r i usciranno da questa casa!», Nenci: «Gli u s u r p a t o r i di questa casa a loro volta saranno abbattuti»):18 ma una tale accezione semantica appare forzata per il termine m°toikow in tragedia. Non è un caso che nei contesti in cui si intende sottolineare l’estraneità dei meteci alla terra in cui vivono, in rapporto esplicito od implicito con gli §ggene›w, si senta la necessità di potenziare il termine con l’aggettivo j°now (come in Aesch. Cho. 684 m°toikon, efiw tÚ pçn ée‹ j°non, Soph. OT 451 s. j°now lÒgƒ m°toikow, e‰ta dÉ §ggenÆw / fanÆsetai Yhba›ow, Eur. Suppl. 892 §ktrafe‹w dÉ §ke› / . . . …w xrØ toÁw metoikoËntaw j°nouw, Ar. Eq. 346 e‡ pou dik¤dion e‰paw eÔ katå j°nou meto¤kou).19 Per contro, in alcuni passi tragici, soprattutto sofoclei, si osserva precisamente la tendenza opposta: il termine m°toikow, essendo divenuto assai sfumato il dato dell’estraneità al gruppo sociale, finisce per assumere una valenza che è assai vicina a quella di ¶noikow o sÊnoikow: è il caso ad es. di Soph. Ant. 852 s. oÎtÉ §n brostessa del doppio omicidio di Oreste (per una formulazione analoga, cfr. Shakespeare, Julius Caesar 2,1,180: «We shall be called purgers, not murderers»), e non soltanto una purificazione materiale della casa. 18) Cfr. Young (come n. 2) 318; Untersteiner (come n. 2) 149; Nenci-Arata (come n. 2) 167; R. Sevieri, Eschilo. Coefore, Venezia 1995, 117e 169. E cfr. già Headlam (come n. 2) 275: «aliens within». 19) In altre parole: per potenziare il significato di ‹estraneità› del meteco alla collettività in cui vive, viene qui riferita al sostantivo m°toikow la stessa qualificazione di j°now che nel linguaggio corrente (e anche politico) è per lo più staccata e distinta da m°toikow, anche se paratatticamente accostata, ad indicare una diversa categoria di persone, quella degli stranieri non residenti, ma soggiornanti nella polis solo per un tempo limitato; cfr. ad es. Ar. Pax 297 ka‹ m°toikoi ka‹ j°noi, Aeschin. 1,195 efiw toÁw j°nouw ka‹ toÁw meto¤kouw tr°pesyai, Isocr. de pace 21 mestØn d¢ gignom°nhn [scil. tØn pÒlin] §mpÒrvn ka‹ j°nvn ka‹ meto¤kvn, Xenoph. Hell. 5,1,12 j°noi ka‹ m°toikoi, Plat. Leg. 880c §ån d¢ j°now μ t«n meto¤kvn tiw, 920 a m°toikon e‰nai xreΔn μ j°non, ecc., Arist. Ath. 57,3 kín ofik°thn épokte¤n˙ tiw μ m°toikon μ j°non, Pol. 1275b polloÁw går §ful°teuse j°nouw ka‹ doÊlouw meto¤kouw, 1277b oÈd¢ går m°toikow oÈd¢ j°now, 1326 a ka‹ meto¤kvn ka‹ j°nvn, 1326b ¶ti d¢ j°noiw ka‹ meto¤koiw =ñdion metalambãnein t∞w polite¤aw, ecc. Sul problema della definizione dello j°now in età classica, anche in rapporto con la figura del m°toikow, cfr. Whitehead (come n. 13) 10 s. e S. Takabatake, The Idea of j°now in Classical Athens: Its Structure and Peculiarities, in: Tory / Masaoki (come n. 13) 449–455.
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to›w oÎte nekro›sin / m°toikow, oÈ z«sin, oÈ yanoËsin e 890 metoik¤aw dÉ oÔn t∞w ênv sterÆsetai.20 II La soluzione di questi problematici versi va dunque cercata altrove. La mia proposta interpretativa prende le mosse da uno spunto già avanzato da Schütz e successivamente ripreso da Page – il quale leggeva m°toikoi al dativo riferendolo ad Oreste nel senso di ‹new resident›, e faceva di tÊxai il soggetto di pesoËntai – ma poi se ne discosta in modo sostanziale. Page, infatti, poneva eÈprÒsvpoi come epiteto di tÊxai e metteva fra cruces ko¤t&; inoltre accoglieva l’emendamento preumene›w di Musgrave e Paley in luogo del tràdito yreom°noiw. La mia proposta ricostruttiva del testo si discosta da quella di Page su tutti questi punti e inoltre fa leva su una differente accezione semantica del sostantivo meto¤koiw. Credo innanzi tutto che meto¤koiw (non a caso al plurale) vada riferito tanto ad Oreste quanto ad Elettra (e forse – sia pure indirettamente – anche al Coro, che è solidale fin dall’inizio del dramma con i figli di Agamennone),21 e che sia qui metaforicamente usato in riferimento al fatto che i meteci, pur appartenendo di fatto alla polis, non godevano dei diritti di cittadinanza, in quanto esclusi dalle cariche pubbliche e dallo stesso possesso di case e terreni,22 e 20) E cfr. anche Soph. OC 934 s. efi mØ m°toikow t∞sde t∞w x≈raw y°leiw / e‰nai b¤& te koÈx •k≈n, con il relativo scolio (sul quale cfr. qui sotto VII e n. 60). Come ha scritto R. C. Jebb (Sophocles, The Plays and Fragments, Part I: The Oedipus Tyrannus, Cambridge 1883, 96) a proposito del già citato passo di Soph. OT 452, «in poetry m°toikow is simply one who comes to dwell with others: it has not the full technical sense which belonged to it at Athens, a resident alien: hence the addition of j°now was necessary»; cfr. in proposito anche Whitehead (come n. 13) 36e Citti (come n. 13) 459. 21) La comunanza nei sentimenti e nella sorte con le donne del Coro è sottolineata con particolare enfasi da Elettra ai vv. 100–104 t∞sdÉ ¶ste boul∞w, Œ f¤lai, meta¤tiai: / koinÚn går ¶xyow §n dÒmoiw nom¤zomen. / mØ keÊyetÉ ¶ndon kard¤aw fÒbƒ tinÒw. / tÚ mÒrsimon går tÒn tÉ §leÊyeron m°nei / ka‹ tÚn prÚw êllhw despotoÊmenon xerÒw. 22) Circa l’interdizione dei meteci dal possesso di beni immobili (ovvero l’ ¶gkthsiw g∞w ka‹ ofik¤aw), che era uno dei segni distintivi del cittadino a tutti gli effetti, cfr. A. R. W. Harrison, The Law of Athens, I, The Family and Property, Oxford 1968, 236 s.; sullo stretto legame fra cittadinanza e proprietà terriera come uno degli aspetti caratterizzanti della polis ateniese del V secolo, cfr. S. C. Humphreys, Economy and Society in Classical Athens, ASNP 39, 1970, 6.
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dunque in posizione di inferiorità rispetto a chi partecipava alla gestione del potere politico. In senso traslato, qui si indicherebbero gli abitanti della casa che non godono dei medesimi onori dei padroni, ma sono in condizione di subalternità. Questa condizione era stata più volte lamentata nel corso del dramma dai due fratelli: Elettra al v. 135 aveva definito se stessa ént¤doulow,23 e ai vv. 444 s. parlava del suo essere stata lasciata in disparte, priva di onori e disprezzata: §gΔ dÉ épestãtoun / ê t i m o w , oÈd¢n éj¤a; e lo stesso Oreste aveva lamentato il fatto che ciò che restava della stirpe di Agamennone si trovava nella condizione di dvmãtvn êtima, in quanto privato di ogni diritto sulla propria casa: pÒpoi dç nert°rvn turann¤dew . . . / ‡desyÉ ÉAtreidçn tå lo¤pÉ émhxãnvw / ¶xonta ka‹ d v m ã t v n ê t i m a (vv. 405–408). Questo era sufficiente perché ai due fratelli venisse applicata la metafora della metoik¤a.24 Per comprendere il senso di tale immagine, che fa leva sul concetto di étim¤a del meteco, sono emblematiche le parole con cui Achille si autodefinisce in un verso formulare dell’Iliade, in relazione al fatto di essere stato disonorato da Agamennone e privato 23) Il lamento per la condizione servile sarà fatto proprio anche dall’Elettra sofoclea: cfr. in part. i vv. 814 ss. ≥dh de› me douleÊein pãlin / §n to›sin §xy¤stoisin ényr≈pvn §mo¤ / foneËsi patrÒw e 1192 to›sde douleÊv b¤& (circa i vv. 190–192 ofikonom« yalãmouw patrÒw, œde m¢n éeike› sÁn stolò, cfr. infra III). 24) Nelle citazioni letterarie, soprattutto di oratori o uomini politici, m°toikow e doËlow costituiscono spesso una coppia contigua: cfr. ad es. Trag. adesp. fr. 536 K.-S. [TGrF II 150] m°toike sÊ, / oÈdÉ §ggenØw Ãn tÆnde doul≈saw ¶xeiw, Demosth. 22,61 pãntvn ékouÒntvn Ím«n §n t“ dÆmƒ doËlon ¶fh ka‹ §k doÊlvn e‰nai ka‹ prosÆkein aÈt“ tÚ ßkton m°row efisf°rein metå t«n meto¤kvn, Plat. Leg. 917d ı m¢n doËlow fer°syv tÚ kibdhleuy¢n ı m°toikow (in riferimento ad una delle mansioni tipiche del meteco ateniese nelle feste Panatenaiche), Arist. Pol. 1275b nonché vari passi nell’ ÉAyhna¤vn polite¤a pseudo-senofontea in cui tale accostamento appare pressoché tematizzato: 1,10 t«n doÊlvn dÉ aÔ ka‹ t«n meto¤kvn ple¤sth §st‹n ÉAyÆnhsin ékolas¤a [. . . ]. efi nÒmow ∑n tÚn doËlon ÍpÚ toË §leuy°rou tÊptesyai μ tÚn m°toikon μ tÚn épeleÊyeron ktl., 1,11 ofl doËloi ka‹ ofl m°toikoi, e cfr. soprattutto 1,12 diå toËtÉ oÔn fishgor¤an ka‹ to›w doÊloiw prÚw toÁw §leuy°rouw §poiÆsamen – ka‹ to›w meto¤koiw prÚw toÁw éstoÊw, con l’evidente simmetria istituita dall’autore fra le coppie polari doËloi vs. §leÊyeroi ~ m°toikoi vs. ésto¤. Anche se le conclusioni di A. Diller, Race Mixture Among the Greeks Before Alexander, Urbana 1937, 121: «as many [scil. of the metics] were actually of servile origin, there was a tendency to reckon them socially with slaves rather than citizens» vanno probabilmente ridimensionate quanto al dato oggettivo dell’origine servile dei meteci (cfr. in proposito Whitehead [come n. 13] 114–116e inoltre 143 ss., con la discussione della celebre testimonianza di Arist. Pol. 1275b polloÁw går §ful°teuse [scil. Kleisy°nhw] j°nouw ka‹ doÊlouw meto¤kouw), le fonti letterarie riflettono tendenze ideologiche che dovevano essere diffuse nella società ateniese.
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del g°raw che gli competeva di diritto: ét¤mhton metanãsthn.25 Si tratta di un passo celebre presso gli antichi, citato in due occasioni da Aristotele che stabilisce un esplicito legame fra m°toikow e metanãsthw26 e analogamente commentato da Eustazio: ét¤mhton d¢ metanãsthn l°gei tÚn ê t i m o n m ° t o i k o n , oÂa t«n meto¤kvn …w tå pollå o È k § n t ¤ m v n ˆ n t v n .27 La definizione dei figli di Aga25) In riferimento, naturalmente, al fatto di essere stato privato di Briseide, il g°raw che l’esercito gli aveva riconosciuto, così come i due fratelli sono stati privati da Clitemestra ed Egisto dell’onore della loro casa: cfr. Il. 9,647 s. mnÆsomai Àw mÉ ésÊfhlon §n ÉArge¤oisin ¶rejen / ÉAtre˝dhw …w e‡ tinÉ ét¤mhton metanãsthn e 16,58 s. tØn íc §k xeir«n ßleto kre¤vn ÉAgam°mnvn / ÉAtre˝dhw …w e‡ tinÉ ét¤mhton metanãsthn. 26) Cfr. Arist. Pol. 1278a l°getai mãlista pol¤thw ı met°xvn t«n tim«n, Àsper ka‹ ÜOmhrow §po¤hsen ‹…w e‡ tinÉ ét¤mhton metanãsthn›: Àsper m°toikow gãr §stin ı t«n tim«n mØ met°xvn, e Rhet. 1378b. Che il legame etimologico tra metanãsthw e m°toikow fosse reale (come ipotizza Whitehead [come n. 13] 6 s., secondo il quale non solo nel composto metanãsthw ma anche in m°toikow la preposizione metã implicherebbe un’idea di cambiamento) oppure solo erroneamente postulato dagli antichi (così i critici citati da Whitehead 20 n. 2, secondo i quali la preposizione metã nel composto m°toikow farebbe piuttosto riferimento all’idea di ‹coabitazione›: m°toikow, dunque, sarebbe ‹colui che vive con›), poco importa in questa sede (un’utile sintesi sulla questione etimologica, con un riesame delle testimonianze antiche, si legge in E. Levy, Métèques et droit de résidence, in: L’étranger dans le monde grec [Actes du colloque organisé par l’Institut d’études anciennes, Nancy, mai 1987], Nancy 1988, 47–53, che propende a favore dell’interpretazione di metã nel senso di cambiamento): ciò che conta per la nostra questione specifica è il fatto stesso che nelle testimonianze degli antichi i due termini fossero sentiti come interscambiabili. Si vedano anche le conclusioni raggiunte da Takabatake (come n. 19) 450e 452, secondo il quale il rapporto intercorrente in età arcaica tra metanãsthw e j°now è per vari aspetti simmetrico al rapporto intercorrente in età classica fra m°toikow e j°now. 27) Cfr. Eust. Comm. Hom. Il. 9,648 (781,19); e cfr. anche il suo commento a Il. 16,59 (1045,60): ˜ti d¢ étimÒteroi t«n aÈtoxyÒnvn §dÒkoun ofl m°toikoi (la citazione del formulare ét¤mhton metanãsthn compare ancora nel commento a Il. 6,522 [660,18]). Circa l’ˆneidow di cui questa classe sociale era spesso fatta oggetto si veda anche l’interessante testimonianza offerta dal per‹ fug∞w di Telete (27–28 Hense2) riportato in Stob. 3,40,8. La situazione d’inferiorità del meteco è un dato che affiora sovente nelle testimonianze letterarie del V e IV secolo. In Suppl. 995 Eschilo allude, con espressione generalizzante, alla facile maldicenza contro di essi: pçw dÉ §n meto¤kƒ gl«ssan eÎtukon f°rei / kakÆn. E su di una linea analoga si pone il nesso ‹gli sventurati meteci› in Demosth. 22,54e 24,166 toÁw talaip≈rouw meto¤kouw, oÂw Íbristik≈teron μ to›w ofik°taiw to›w sautoË k°xrhsai (come commentava lo scoliasta: §p‹ d¢ t«n meto¤kvn ‹toÁw talaip≈rouw› »nÒmasen, ˘ tª tapeinÒthti t∞w tÊxhw Íp∞rxen ékÒlouyon); e cfr. anche Demosth. 52,9 tÚn m°toikon ênyrvpon ka‹ §n Sk¤rƒ katoikoËnta ka‹ oÈdenÚw êjion e 52,25 ka‹ m°toikow ka‹ oÈd¢n dunãmenow, con le considerazioni svolte da Whitehead (come n. 13) 55. Più in generale, rivela-
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mennone come m°toikoi (così come la definizione di Achille come metanãsthw) è dunque una metafora che presuppone, come gradino intermedio, la similitudine ‹essere privi di onori (êtimoi) nella propria casa (ovvero nell’esercito, nel caso di Achille) come lo sono i meteci nella città in cui vivono›. E questa contrapposizione fra chi attualmente detiene il potere nella casa di Agamennone (i tÊrannoi Clitemestra ed Egisto) e i figli, che pur nati in essa, sono esclusi da ogni diritto, m°toikoi nella propria casa, trova un puntuale ed interessante riscontro nel modo in cui Isocrate nel Panegirico descrive la situazione di ingiustizia sociale propria dei regimi oligarchici, che gli Ateniesi hanno sempre cercato di contrastare: deinÚn ofiÒmenoi . . . ¶ti d¢ koin∞w t∞w patr¤dow oÎshw t o Á w m ¢ n t u r a n n e › n t o Á w d ¢ m e t o i k e › n ka‹ fÊsei pol¤taw ˆntaw nÒmƒ t∞w polite¤aw épostere›syai (Isocr. Paneg. 105).
Anche se la città è comune a tutti, alcuni in essa si atteggiano a tiranni, e gli altri, pur essendo cittadini per nascita e dunque per diritto naturale, vivono «da meteci». Si noti che qui Isocrate utilizza la metafora del metoike›n cogliendone non il dato del trasferimento da altra sede (e quindi di estraneità), bensì il dato della oggettiva tore della mentalità diffusa nei confronti dei meteci è un passo del libro VIII della Repubblica di Platone in cui Socrate attribuisce la causa dell’instaurarsi dei regimi tirannici al diffondersi nell’indisciplina ad ogni livello: non solo nelle relazioni fra cittadini e governanti, ma anche nei rapporti privati (padre/figlio, marito/moglie, maestro/alunno, anziani/giovani) e persino nel comportamento degli animali domestici (cani, cavalli, asini) nei confronti dei loro proprietari: in questo contesto di anarchia generalizzata, in cui nessuno – nemmeno gli animali – rispetta il ruolo (di guida o, per contro, di obbedienza) che gli compete, persino un meteco arriva a pensare di essere uguale a un cittadino, e viceversa (m°toikon d¢ ést“ ka‹ éstÚn meto¤kƒ §jisoËsyai, ka‹ j°non …saÊtvw, Plat. Resp. 563a): è evidente in questo passo platonico l’opposizione meteco/cittadino, uno dei capisaldi dell’interpretazione di Whitehead (come n. 13) 70 (sulla questione è successivamente reintervenuto D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic: Some Pendants and a Reappraisal, PCPhS 122, 1986, 145–158, nonché P. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972, 108 ss. e, del medesimo, Métèques, périèques, paroikoi: bilan et points d’interrogation, in: L’étranger [come n. 26] 27 s.). Indicativo del loro stato di subordinazione, è anche il modo in cui i meteci presentano se stessi nelle orazioni attiche: come ha argomentato A. Maffi, La capacità di diritto privato dei meteci nel mondo greco classico, in: Studi in onore di Gaetano Scherillo, Milano 1972, I 197, «ogni volta che compaiono di fronte ai tribunali ateniesi, essi sono contraddistinti da un atteggiamento di umile soggezione». Più in generale, per questa valenza sottesa alla menzione dei meteci nelle testimonianze letterarie, cfr. Whitehead (come n. 13) 34 ss. e 57.
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situazione di inferiorità da parte di un legittimo abitante della città. E questo è proprio quel che avviene nel passo delle Coefore. La casa di Agamennone riflette infatti in modo speculare la situazione di édik¤a politica deprecata da Isocrate: pur essendo la casa «comune», alcuni in essa «tiranneggiano»28 e altri, pur appartenendo «per natura» alla casa, essendone cioè legittimi abitanti, vivono da «meteci», ovvero in condizione di inferiorità rispetto ai primi. Isocrate dimostra dunque di utilizzare la metafora della metoik¤a in modo equivalente a quello che abbiamo ipotizzato per il passo eschileo. III Che questa possa essere la via corretta per interpretare i vv. 969–971, sembra confermato dal confronto con un passo dell’Elettra sofoclea, un dramma che in molti punti presuppone il modello delle Coefore.29 Al v. 189 l’Elettra sofoclea, nel riferirsi alla sua si28) Com’è noto, il motivo della tirannide imposta da Clitemestra ed Egisto non solo alla casa, ma alla stessa città è già presente nell’Agamennone: cfr. in part. i commenti dei Coreuti in Ag. 1354 s. ırçn pãresti: froimiãzontai går …w, / turann¤dow shme›a prãssontew pÒlei, 1365 pepait°ra går mo›ra t∞w turann¤dow (scil. tÚ katyane›n), 1633 (Egisto è qui biasimato nel suo voler diventare tÊrannow ÉArge¤vn). E cfr. anche i sinonimi krãtow / krate›n ecc. riferiti a Clitemestra e/o Egisto in Ag. 10, 258, 1618, 1632, 1664, 1673, Cho. 267, 377, 716, oppure gli appellativi kÊrioi e despÒtai con cui sono apostrofati, per i quali cfr. supra n. 5. Il tema era già nell’epica omerica, in riferimento ad Egisto: cfr. Od. 3,304 s. kte¤naw ÉAtre˝dhn, d°dmhto d¢ laÚw ÍpÉ aÈt“. / •ptãetew dÉ ≥nasse poluxrÊsoio MukÆnhw. 29) Più specificamente, la legittimità del confronto è dimostrata dall’evidente e diffuso riuso, da parte di Sofocle, di frammenti del terzo stasimo delle Coefore all’interno di parti liriche; si mettano in relazione, in particolare, le parole con cui le Coefore all’inizio del terzo stasimo salutano l’arrivo di Giustizia (vv. 935 ss.) con l’annuncio, da parte del Coro sofocleo, dell’imminente arrivo di Dike all’inizio del primo stasimo (vv. 472 ss.), ricchissimo di reminiscenze eschilee. Quello che in Eschilo era realtà scenica tangibile, sotto gli occhi del Coro e degli spettatori, in Sofocle diventa previsione. E così all’aoristo puntuale ¶mole e al presente §po¤xetai di Cho. 935 ss. e 956 si sostituisce il futuro (¥jei El. 487; ma cfr. già e‰si v. 476 e m°teisin v. 478, con valore di futuro). E se nelle Coefore D¤kh è giunta xrÒnƒ (v. 935), in Sofocle D¤kh giungerà oÈ makroË xrÒnou (El. 478): in entrambi i casi, tuttavia, l’azione punitrice si realizzerà in un «ingannevole agguato» (cfr. Cho. 954 kruptad¤ou mãxaw con El. 490 deino›w kruptom°na lÒxoiw). E se in Cho. 33 si parlava del sogno come «spirante rancore» (ÙneirÒmantiw . . . kÒton pn°vn) e, simmetricamente, a Cho. 952 la funzione del kÒton pne›n contro gli assassini era attribuita a D¤kh, qui, per il Coro sofocleo che è invece pervaso dalla fiducia, il sogno è «dolcespirante» (èdupnÒvn . . . Ùneirãtvn El. 480). E si noti anche il gioco etimologico che consiste
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tuazione di abitante priva di onori nella sua stessa casa, sottoposta in tutto e per tutto alla madre-padrona e al suo amante, dai quali dipende che essa abbia qualcosa o ne resti priva,30 definisce se stessa èpere¤ tiw ¶poikow énaj¤a, ricorrendo a un termine, ¶poikow, che come m°toikow era ‹politicamente› connotato:31 HL. ÉAllÉ §m¢ m¢n ı polÁw épol°loipen ≥dh b¤otow én°lpistow, oÈdÉ ¶tÉ érk« ëtiw êneu tok°vn katatãkomai, ïw f¤low oÎtiw énØr Íper¤statai, éllÉ èpere¤ tiw ¶poikow énaj¤a ofikonom« yalãmouw patrÒw, œde m¢n éeike› sÁn stolò, kena›w dÉ émf¤stamai trap°zaiw.
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Si tratta di un passo celebre presso gli antichi, più volte citato dai lessicografi,32 che glossavano il termine ¶poikow con m°toikow: nell’accostamento fra il sostantivo D¤ka e un aggettivo formato dalla stessa radice: D¤ka barÊdikow in Cho. 935 s. e D¤ka d¤kaia in Soph. El. 477. Sofocle, dunque, ha rielaborato motivi e temi che nelle Coefore comparivano nel terzo stasimo, a conclusione della vicenda tragica, per adattarli alla parte iniziale del suo dramma, trasformando ciò che in Eschilo è esultanza per il compimento della vendetta in auspicio e desiderio (non si dimentichi che nell’Elettra non c’è un seguito all’azione di vendetta di Oreste, in quanto la tematica del postmatricidio, che nelle Coefore ha inizio a partire dall’esodo, è assente: l’azione drammatica delle Coefore per Sofocle termina dunque con il terzo stasimo). Il caso che verrà qui analizzato in riferimento al motivo della metoik¤a s’inquadra evidentemente nello stesso contesto. 30) Cfr. in part. Soph. El. 597 s. ka¤ sÉ ¶gvge despÒtin / μ mht°rÉ oÈk ¶lasson efiw ≤mçw n°mv e 262–265 d≈masin / §n to›w §maut∞w to›w foneËsi toË patrÚw / jÊneimi, kék t«ndÉ êrxomai, kék t«nd° moi / labe›n yÉ ımo¤vw ka‹ tÚ thtçsyai p°lei. 31) Per §poik¤a s’intendeva l’insediamento in un luogo già colonizzato dai Greci, a differenza dell’époik¤a che consisteva nell’atto della stessa costituzione della colonia ad opera della madre patria (cfr. in proposito J. Oehler in RE VI [1907] 227). La situazione degli ¶poikoi, per il fatto che essi andavano a insediarsi in una colonia già costituita, con proprie leggi e un proprio statuto, presentava perciò elementi di corrispondenza con quella dei m°toikoi, e con quest’ultimo termine essi si trovano talora designati, com’è stato osservato da Oehler 228. 32) Cfr., oltre ai passi qui di seguito riportati, anche Sud. i 72 e 73, u 300 A. Com’è stato recentemente dimostrato con dovizia di esempi da R. Tosi, Osservazioni sulla tradizione indiretta dell’Edipo a Colono, in: G. Avezzù (ed.), Il dramma sofocleo: testo, lingua, interpretazione (Atti del Seminario Internazionale, Verona, 24–26 gennaio 2002), Stuttgart / Weimar 2003, 357–369, gran parte delle glosse della Suda al testo di Sofocle provengono da antichi commentari.
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Suda a 1983 A. ÉAnaj¤a: éj¤an oÈk ¶xousa, éllÉ êtimow. éllÉ ëper ¥tiw ¶poikow énaj¤a ofikonom« yalãmouw patrÒw. ¶poikow ént‹ toË m°toikow.
Suda e 2877 A. ÖEpoikow: m°toikow. ÖEpoikoi parå Youkud¤d˙ ofl §n pÒlei, êpoikoi d¢ ofl §n §rÆmƒ tÒpƒ pempÒmenoi ofik∞sai. éllÉ ëper ¥tiw ¶poikow énaj¤a.
È possibile che qui Sofocle riprenda sotto forma di più piana similitudine quella che nelle Coefore, coerentemente con lo stile immaginifico dei corali eschilei, era vera e propria metafora.33 L’espressione di Elettra, in effetti, sembra ‹chiosare› l’immagine eschilea, ed è interessante che i commentatori antichi, a loro volta, ripristinino nelle loro spiegazioni il collegamento fra i due termini, cogliendo lo stretto legame che intercorre fra la descrizione di Elettra in quanto ¶poikow énaj¤a nella propria casa e lo status del m°toikow privo di diritti nella sua città. Il fatto che la definizione di m°toikow, che nella sua accezione metaforica appare calzante per Elettra come il passo sofocleo chiaramente dimostra, venga estesa da Eschilo anche ad Oreste non costituisce qui un problema, data la tendenza – già con evidenza avvertibile nel primo episodio – ad equiparare le sorti dei due fratelli. In Cho. 132 s. Elettra con il ricorso al plurale riferisce anche a se stessa una situazione, quella del vagare esuli, che era propria di Oreste: pepram°noi går nËn g° pvw él≈meya / prÚw t∞w tekoÊshw;34 lo stesso concetto viene ribadito al v. 337: lei ed Oreste sono flk°taw . . . f u g ã d a w dÉ ımo¤vw. E al v. 254 sarà a sua volta Oreste a parlare di esilio per sé e per Elettra: oÏtv d¢ kém¢ tÆnde tÉ, ÉHl°ktran l°gv, / fide›n pãrest¤ soi, patroster∞ gÒnon, / ê m f v f u g Ø n ¶ x o n t e tØn aÈtØn dÒmvn.35 Così il Coro farebbe qui, applicando ai due fratelli la comune definizione di m°toikow, la quale – nel senso 33) Tuttavia, anche nella meno probabile ipotesi che Sofocle abbia rielaborato la stessa immagine in modo indipendente da Eschilo, il passo sofocleo resta comunque illuminante per l’interpretazione del luogo eschileo. 34) Si noti che, subito dopo l’uso metaforico generalizzante dei vv. 132 s., ai vv. 135 s. Elettra ritorna al senso letterale del termine fugãw, applicandolo al solo Oreste: §k d¢ xrhmãtvn / feÊgvn ÉOr°sthw §st¤n. Senso letterale e senso metaforico, come spesso nel testo di Eschilo, sono strettamente intrecciati. 35) Come annota giustamente Garvie (come n. 6) 108: «Orestes is literally, Electra metaphorically, an exile».
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che abbiamo sopra illustrato – sarebbe più appropriata per Elettra che in quella casa ha a lungo soggiornato, ma in senso metaforico è egualmente estensibile anche ad Oreste. D’altra parte, chi è ‹meteco› in una città, non raramente è nel contempo anche ‹esule› da un’altra città. Il nesso fra le due situazioni è in molte occasioni evidenziato nei testi letterari (soprattutto negli storici e negli oratori: cfr. ad es. Isocr. Aegin. 23 §peir≈mhn fug∞w ka‹ toË parÉ •t°roiw m¢n metoike›n, st°resyai d¢ t«n §mautoË, App. Illyr. 14 §w tÚn ÖIstron ka‹ tåw nÆsouw toË potamoË metoik∞sai fugÒntaw, Diod. Sic. 4,58,7 toËton §j ÖArgouw fugÒnta efiw ÑRÒdon metoik∞sai), e anche nei lessici m°toikow si trova sovente accostato a feÊgvn / fugãw (come ad es. nella glossa metanãstai: m°toikoi, fugãdew in Hesych. m 1029, che ricorre in forma pressoché identica in Sud. m 713 metanasteÊou: feËge, meto¤kei e 714 metanãsthw: m°toikow, fugãw).36 La consapevolezza del legame fra i due termini m°toikow e fugãw, del resto, sembra presente anche ad Eschilo in questo corale: non sarà certamente casuale che il termine m°toikoi a conclusione dello stasimo sia speculare rispetto al termine fugãw con cui Oreste è definito nei versi iniziali (ı puyÒxrhstow fugãw v. 940). IV Infine, a favore di quest’interpretazione in senso metaforico di meteci come abitanti esclusi dai pieni diritti, va anche il fatto che Oreste non è mai stato finora indicato in questo dramma come legittimo abitante e proprietario della sua casa.37 Di fatto, di Oreste 36) E cfr. anche Apoll. Lex. Hom. 112,2. Su una linea analoga si pone anche la glossa §pinãsteiow: m°toikow, j°now, fugãw in Sud. e 2482 A., nonché l’osservazione di Eustazio tÚ går êllvw metoik∞sai, ˜moion ∑n fasi fugª in Comm. Hom. Od. 4,174 (1490,55). Sul dato storico della presenza di esuli politici e rifugiati tra i meteci cfr. Whitehead (come n. 13) 18 e, più in generale, E. Balogh, Political Refugees in Ancient Greece, Johannesburg 1943, 41–82. 37) La congettura kÊrioi al v. 786 (kur¤oiw Bothe, kur¤ouw Musgrave), in riferimento a Oreste ed Elettra, è sicuramente errata. Va infatti qui conservato il tràdito kur¤vw, da collegare innanzi tutto con dÒw (come ha giustamente visto Garvie [come n. 6] 256), ma anche, per inevitabile coinvolgimento, con tÊxaw eÈtuxe›n. Al riguardo, può essere indicativo il confronto con Aesch. Ag. 178 Z∞na . . . tÚn pãyei mãyow y°nta kur¤vw ¶xein. Qui kur¤vw è anzitutto sintatticamente collegato con ¶xein («in modo da sussistere autorevolmente» = «in modo da essere [legge] auto-
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come abitante a pieno diritto nei possedimenti paterni si parlerà per la prima volta solo in Eum. 757, quando l’eroe, dopo il giudizio assolutorio, si congederà da Atena con queste parole di riconoscenza: OR. Œ Pallãw, Œ s≈sasa toÁw §moÁw dÒmouw, ga¤aw patr–aw §sterhm°non sÊ toi k a t – k i s ã w m e : ka¤ tiw ÑEllÆnvn §re›, \ÉArge›ow ènØr aÔyiw ¶n te xrÆmasin o fi k e › patr–oiw, Pallãdow ka‹ Loj¤ou ßkati, ka‹ toË pãnta kra¤nontow tr¤tou Svt∞row . . .^
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Atena lo ha posto ad abitare (kat–kisaw Eum. 756) ed egli adesso abiterà (ofike› Eum. 758) a tutti gli effetti come legittimo possessore delle ricchezze paterne. Dopo il metoik¤zein di cui parla il Coro a Cho. 971, attraverso il katoik¤zein di Atena, Oreste alla fine della trilogia diventerà ofikÆtvr della sua casa a tutti gli effetti, e dunque finalmente ¶ntimow. V Se accettiamo il riferimento di m°toikoi ai figli di Agamennone, il resto del periodo può essere così interpretato, con piccole correzioni rispetto al testo tràdito, certamente inferiori rispetto ad altre soluzioni finora proposte: revole»), ma – inevitabilmente – kur¤vw per il suo significato (che si richiama all’autorità di Zeus kÊriow) finisce per coinvolgere anche y°nta e il suo soggetto: la legge è autorevole in quanto è stata autorevolmente fissata da un’autorità quale è Zeus. Qualcosa di analogo si verifica anche a Cho. 786, sempre in contesto d’invocazione a Zeus: poiché Zeus concede con la sua autorità, inevitabilmente quello che egli concede diventa autorevole (e dunque – per significato secondario e derivato – ‹stabile›: beba¤vw, come osserva lo scolio). Un altro passo che conferma l’interpretazione di kur¤vw come riferito alla divinità è Eum. 960 nean¤dvn tÉ §phrãtvn / éndrotuxe›w biÒtouw dÒte, kÊriÉ ¶xontew, / yea¤ tÉ Œ Mo›rai / matrokasign∞tai, ktl. Pur nelle difficoltà poste dal testo, il riferimento al concetto di kÊrow ¶xein (per il quale cfr. anche Aesch. Suppl. 391) non va messo in discussione, indipendentemente dalla soluzione linguistica e sintattica prescelta per il termine con radicale kur-. Si tratta anche qui di un contesto di preghiera: si noti, in comune con Cho. 785 ss., sia l’imperativo dÒte che il riferimento alle tÊxai felici che si chiedono nella preghiera.
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tÊxai dÉ eÈpros≈pƒ ko¤t& tÚ pçn fide›n [ékoËsai] yreom°noiw meto¤koiw dÒmvn pesoËntai pãlin. 969 tÊxai Scaliger : tÊxa M 970 ékoËsai del. Hermann 971 meto¤koiw dÒmvn Paley : metoikodÒmvn M Per i piangenti meteci della casa le sorti cadranno di nuovo con un lancio fortunato (lett. «con un giacere dalla faccia favorevole») in tutto a vedersi.
Si conserva anzi tutto la metafora del gioco dei dadi, che lo scoliasta vi individuava.38 Per dire che la sorte sarà di nuovo benevola per Oreste ed Elettra, Eschilo visualizza il momento in cui, dopo che vengono lanciati i dadi, questi «ricadono» sul piano di gioco, mostrando una «faccia favorevole», ovvero con un numero alto. Il verbo p¤ptein, che nelle precedenti interpretazioni creava qualche difficoltà, qui risulta pienamente appropriato, in quanto tradizionale sia in riferimento alle tÊxai (cfr. ad es. la gnome menandrea …w eÈkÒlvw p¤ptousin afl lampra‹ tÊxai)39 sia in riferimento al gioco dei dadi, che con l’immagine precedente è in evidente relazione, in 38) Cfr. Schol. Aesch. Cho. 971 toËto d¢ épÚ t«n kÊbvn metÆgagen. Per contro, se si considerano i m°toikoi come soggetto dell’azione del pese›n (come secondo l’interpretazione di Wilamowitz e seguaci: cfr. supra n. 2), l’immagine dei dadi risulta assai sfumata, al limite della percepibilità, se non addirittura inconsistente, in quanto lo schema sintattico che verrebbe qui presupposto (e cioè il comunissimo perip¤ptein tÊxaiw o sinonimi, il cui soggetto è un nome di persona: cfr., a titolo puramente esemplificativo, Herod. 6,16 otoi m°n nun toiaÊt˙si peri°pipton tÊx˙si) presuppone l’immagine del cadere dell’individuo nel baratro della sfortuna o dell’alzarsi, per contro, alle vette della buona sorte, che è evidentemente qualcosa di diverso rispetto alla metafora del lancio dei kÊboi. L’immagine dei dadi si recupera anche nella lettura di Franz, ripresa (con varianti dall’uno all’altro editore) da Tuker, West e Sier, i quali fanno di tÊxai il soggetto di pesoËntai e concordano con esso il termine m°toikoi, come apposizione: «le sorti metecie della casa cadranno di nuovo ecc.» (si tratterebbe dell’unico caso a noi noto in tragedia in cui il sostantivo m°toikow non sia riferito ad un essere vivente ma ad un sostantivo astratto). A sostegno vengono citati passi in cui si parla di un coabitare di ricchezza, povertà e simili, come Ar. Plut. 437 Pen¤a . . . ∂ sf“n junoik« pÒllÉ ¶th, Plat. Leg. 679b √ dÉ ên pote sunoik¤& mÆte ploËtow sunoikª mÆte pen¤a, ecc. Resta tuttavia il fatto che qui Eschilo non ha fatto ricorso ai più generici jÊnoikow o junoikÆtvr, ma al termine specifico m°toikow, il quale – come ¶poikow nell’Elettra sofoclea – ha una connotazione politica molto evidente, che sembra pertanto rimandare a valori metaforici aggiuntivi rispetto a quello della semplice convivenza. 39) Menand. sent. 862 Jäkel. Cfr. anche Plat. Leg. 709a tÊxai d¢ ka‹ jumfora‹ panto›ai p¤ptousai panto¤vw nomoyetoËsin ëpanta ≤m›n, Ach. Tat. 7,2,1 §mp¤ptousai d¢ afl tÊxai bapt¤zousin ≤mçw.
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vista della metafora kÊboi = tÊxai (cfr. la paroim¤a tragikÆ, più volte citata dai commentatori antichi, ée‹ går eÔ p¤ptousin ofl DiÚw kÊboi).40 In questo contesto il termine ko¤th indica qui propriamente il «giacere» dei dadi dopo che sono ricaduti, secondo la spiegazione 40) Si tratta del fr. 896 R. di Sofocle, citato, fra i vari, da Schol. Aesch. Ag. 33 a, Schol. Eur. Or. 603, Eust. Comm. Hom. Il. 16,742 (1084,3), Comm. Hom. Od. 1,107 (1397,17) e 234 (1414,5), Sud. a 607A. Tra i passi tragici sulla metafora dei dadi ed associati al verbo p¤ptein, oltre al caso di Ag. 32 s. discusso qui sotto a VI, cfr. anche Soph. fr. 947 R. st°rgein d¢ tékpesÒnta ka‹ y°syai pr°pei / sofÚn kubeutÆn, éllå mØ st°nein tÊxhn, con il commento di A. C. Pearson, The Fragments of Sophocles, Cambridge 1917, III 112 s.; allo stesso ambito semantico sembra da ricondurre l’immagine del kal«w p¤ptein in Soph. Trach. 61 s. kéj égennÆtvn êra / mËyoi kal«w p¤ptousin. Una chiara esplicitazione della metafora si legge in Alexis, fr. 34 K.-A. [= Stob. 4,41,4] toioËto tÚ z∞n §stin: Àsper ofl kÊboi: / oÈ taÎtÉ ée‹ p¤ptousin, oÈd¢ t“ b¤ƒ / taÈtÚn diam°nei sx∞ma, metabolåw dÉ ¶xei. In connessione con il verbo pesoËntai, l’avverbio pãlin assume anzi tutto il significato di ‹in seguito›, ‹d’ora in poi›, come in Eum. 720 §gΔ d¢ mØ tuxoËsa t∞w d¤khw / bare›a x≈r& tªdÉ ımilÆsv pãlin. In A. H. Sommerstein, Aeschylus, Eumenides, Cambridge 1989, 227 viene richiamato a confronto, per questo significato del termine, il caso di Cho. 258 oÎtÉ afietoË g°neylÉ épofye¤raw, pãlin / p°mpein ¶xoiw ín sÆmatÉ eÈpeiy∞ broto›w, che tuttavia è solo parzialmente simile: nelle Coefore c’è infatti continuità fra passato e futuro (Zeus non potrà continuare a fare in futuro quello che ha fatto finora), mentre il passo delle Eumenidi presuppone che nel futuro avverrà qualcosa di diverso e di nuovo: e cioè le Erinni, se non otterranno giustizia, reagiranno a loro volta passando ad atteggiamenti aggressivi nei confronti di Atene. E questo significato di passaggio ad una situazione diversa è anche il valore che pãlin assume nel nostro passo: dunque ‹d’ora in poi›, ma anche ‹al contrario di prima› (nel significato che è specifico per es. di toÎmpalin). Si tratta di un’accezione semantica diversa ma pur sempre collegata alla precedente, che in Eschilo è documentata più volte, e in particolare – in connessione con il termine tÊxh – nell’hapax palintuxÆw in Ag. 465, un passo che riecheggia tematiche analoghe a quelle di Cho. 965–967: il ruolo delle Erinni come giuste punitrici nel prosieguo del tempo nei confronti di chi agisce contro giustizia e la loro azione punitrice che si traduce in un capovolgimento della sorte (cfr. Schol. Aesch. Ag. 465 palintuxª] §nant¤a; l’idea del ‹rivolgimento› era presente anche nell’interpretazione dello scolio a Cho. 971 pesoËntai efiw tÚ ¶mpalin t∞w pr≈thw tÊxhw). Lo stesso significato di pãlin come inversione della sorte precedente compare anche in Eur. Her. 777 (xrÒnou går oÎtiw tÚ pãlin efisorçn ¶tla), all’interno di un passo che è anch’esso chiaramente reminiscente di tematiche eschilee. Naturalmente, sia in Ag. 465 che in Her. 777 si parla di un’inversione dalla buona sorte (eÈtux¤a) a quella negativa: ma questo ovviamente non modifica affatto la sostanza del problema, in relazione all’accezione semantica dell’avverbio pãlin: il capovolgimento che è negativo per una delle due parti avverse, è positivo per l’altra. Analogo è il significato dell’epiteto §pitrãpelow in Pind. Ol. 2,37, in un contesto in cui si fa riferimento alla Moira che nel volgere del tempo alterna gioie a dolori (cfr. LSJ s. v., che lo riconduce a una delle accezioni semantiche di pal¤ntropow: «changing to the other side», «contrary»).
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già fornita dallo scolio: ] ≤ d¢ tÊxh nËn §n eÈÒptƒ ko¤t˙, tout°stin §n égayª katastãsei.41 Questa specifica accezione semantica del sostantivo (ko¤th: condicio iacendi, chiosava Klausen42) compare in una citazione poetica in Plat. Symp. 197c: efirÆnhn m¢n §n ényr≈poiw, pelãgei d¢ galÆnhn nhnem¤an, én°mvn ko¤thn Ïpnon tÉ §n‹ kÆdei, dove én°mvn ko¤thn significa «stasi dei venti», l’atto del ke›syai.43 Analogo significato, efficacemente illustrato da Fraenkel,44 ha il termine in Aesch. Ag. 565 s.: μ yãlpow, eÔte pÒntow §n meshmbrina›w ko¤taiw ékÊmvn nhn°moiw eÏdoi pes≈n. Si noti in quest’ultimo passo l’associazione fra un verbo indicante il cadere (pes≈n) e il sostantivo ko¤th (quest’ultimo a sua volta accompagnato da aggettivi che qualificano le caratteristiche di tale giacere): un nesso analogo compare anche in Cho. 969–971, dove l’atto del ke›syai si realizza a seguito di un movimento di caduta 41) Circa la stretta connessione che gli antichi avvertivano fra i concetti di tÊxh, pese›n e ke›syai si veda la testimonianza di Eustazio nel suo commento a Hom. Od. 1,107 (1396,53 s.), a proposito del gioco dei pesso¤, diverso da quello dei kÊboi (cfr. in proposito la ricca nota di Pearson [come n. 40] II 85a Soph. fr. 429 R.), ma il cui esito è pur sempre affidato alla sorte: ı d¢ pessÒw, parå tÚ pese›n §tumologe›tai, katå diplasmÚn toË s. pese›n d¢ ka‹ sumpese›n l°getai, tÚ katå tÊxhn sumb∞na¤ ti. §j o ka‹ perip°teia, tÚ tuxhrÚn sÊmbama. ˜ti d¢ ı pessÚw tÊxhw §st‹n êyurma ka‹ aÈtª énãkeitai, ‡sasin ofl katakubeuÒmenoi. Un’utilizzazione in chiave metaforica di questi stessi concetti, applicata all’ambito nuziale, si legge in Eur. Or. 602–604, gãmoi dÉ ˜soiw m¢n eÔ kayestçsin brot«n, / makãriow afi≈n: oÂw d¢ mØ p¤ptousin eÔ, / tå tÉ ¶ndon efis‹ tã te yÊraze dustuxe›w: coloro a cui le nozze ‹non sono cadute bene› al gioco dei dadi (mØ p ¤ p t o u s i n eÔ) hanno una sorte infelice (dus t u x e › w ); invece la vita è beata per coloro a cui sono cadute bene (ma qui, con ricerca di variatio, viene propriamente colto il momento dello star fermo del dado sulla superficie, dopo un lancio favorevole, l’ e Ô k a y e s t ã n a i , che costituisce il corrispettivo prosastico dell’eschileo eÈprÒsvpow ko¤ta). 42) Citato in Fraenkel (come n. 9) II 286 (n. al v. 565). 43) Questo peculiare significato del sostantivo è stato qui convincentemente illustrato da Wilamowitz (come n. 2) II 358 s.: «ko¤th ist nicht bloß die Lagerstätte, sondern auch der Zustand des Lagerns; nur dadurch kann es zu der Bedeutung concubitus kommen, Aischylos Hik. 805 §ly°tv mÒrow prÚ ko¤taw gamhl¤ou». 44) Cfr. Fraenkel (come n. 9) II 286, che rimanda a sua volta a Nägelsbach e altri.
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(‹la caduta del dado› nelle Coefore, ‹la caduta del mare› come conseguenza del venir meno dei venti nell’Agamennone).45 Sulla stessa linea si pone anche il caso di Ag. 1494 = 1518 ke›sai . . . ko¤tan tãndÉ éneleÊyeron, dove il significato principale del sostantivo ko¤th è di nuovo quello di «state of lying».46 C’è insomma una serie di passi, in particolare eschilei, che confermano per il sostantivo ko¤th l’accezione semantica di ‹condicio iacendi› accanto a quella, assai più nota, di ‹locus iacendi›.47 Al sostantivo ko¤th viene riferito l’epiteto eÈprÒsvpow, fondamentale per l’esplicitazione della metafora del lancio favorevole. Il fatto che non esistano attestazioni letterarie del termine prÒsvpon in riferimento alla faccia di un dado è naturalmente irrilevante, dal momento che si tratta di un contesto metaforico, in cui il piano dell’‹illustrans› e quello dell’‹illustrandum› delle tradizionali similitudini alla maniera epica appaiono indissolubilmente fusi insieme.48 In questo caso la sorte viene personificata e le si attribuisce un volto,49 che si sovrappone a quello della faccia dei dadi: la tÊxh dal volto benigno si identifica così con i dadi che esibiscono una faccia favorevole. D’altra parte, trattandosi di un composto poetico, tendono ad agire le modalità di formazione del cosiddetto 45) Il verbo p¤ptv infatti, come era tradizionale in riferimento alla caduta del dado, così fin da Omero si trova usato per indicare l’improvviso cessare dei venti: cfr. Hom. Od. 19,202 tª treiskaidekãt˙ dÉ ênemow p°se, e questo sembra essere il senso assunto dal verbo anche in Od. 14,475 bor°ao pesÒntow, donde i virgiliani Ecl. 9,58 ceciderunt aurae e Georg. 1,354 cadunt austri. In Dio Cass. 39,42,2 compare un nesso simile a quello presente nei passi eschilei sopra citati fra il ‹cadere› (¶pese) e lo ‹stare fermo› (espresso in questo caso da eflstÆkei), sempre in contesto marino (per la successione pese›n / •stãnai cfr. inoltre Eur. Or. 602–604, citato sopra alla n. 41). 46) Così Fraenkel (come n. 9) III 706, che rimanda a Wilamowitz (come n. 2) II 358e menziona a confronto altri passi. 47) A sua volta l’associazione ko¤ta + p¤ptv sembra riecheggiare il nesso xamaipetØw ¶keiso del v. 964, con rapporto inverso fra verbo e complemento, e dal canto suo il v. 964 rimanda ad altri punti del dramma, come in part. i vv. 262 s., dove compare la relazione fra i concetti dÒmow + p¤ptein + un verbo che indica il sollevare (a‡rv / ênage), a sua volta ripresa a 791. Al v. 262 Oreste pregava Zeus di sollevare la casa che era caduta. Ora il Coro invita la casa a risollevarsi dal suo lungo giacere a terra, e poi parla di un cadere, ma questa volta positivo, delle sorti dei due abitanti della casa. 48) Non necessaria appare dunque la supposizione di Schütz secondo cui eÈprÒsvpow ko¤ta sarebbe stato un termine tecnico nel gioco dei dadi (cfr. in proposito Garvie [come n. 6] 315). 49) Per un nesso analogo in riferimento ad un concetto astratto, cfr. Soph. OT 189 eÈ«pa . . . élkãn.
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‹compositum abundans›, in cui il secondo elemento tende a livello semantico a sbiadire, fino, in alcuni casi estremi, a perdere quasi completamente di rilievo.50 Qui è come se di fatto si trattasse del nesso ·leƒ ko¤t&: sennonché l’elemento prÒsvpon ha tuttavia una sua rilevanza immaginifica, in quanto rievoca per felice risonanza la vista della ‹faccia› del dado, e a sua volta questo dato ‹visivo› è pleonasticamente sottolineato dall’infinito fide›n.51 Un’immagine simile, ma tradotta in formulazione prosastica, è presupposta da Luciano nell’espressione oÂw ·levw ka‹ forÚw ı kÊbow §pineÊsei (Sat. 4) in riferimento alle persone a cui tocca una sorte felice: il concetto di positività, che nel composto eschileo eÈprÒsvpow è espresso dal primo elemento, viene qui enfaticamente reso dalla coppia di epiteti in funzione predicativa ·levw ka‹ forÒw,52 mentre il verbo §pineÊsei, allusivo al nutum del volto,53 si pone su di una linea analoga all’immagine del prÒsvpon visualizzata dal Coro eschileo.54 50) Come ad es. nel caso del celebre nesso omerico kelainef¢w a‰ma. A proposito del ‹compositum abundans› in Eschilo, cfr. M. P. Pattoni, Il trono insanguinato di Apollo (Eschilo, Eumenidi 162 ss.), Aevum(ant) 7, 1994, 113e n. 32, dove è riportata anche una bibliografia essenziale sull’argomento. 51) Per un’analoga sottolineatura di una realtà che si impone alla vista con tutta evidenza, si veda per es. la descrizione delle Erinni da parte della Pizia in Aesch. Eum. 51 s. êptero¤ ge mØn fi d e › n / atai, m°lainai dÉ, § w t Ú p ç n bdelÊktropoi, dove ricorrono – sia pure spezzati e riferiti a distinti epiteti – i nessi (§w) tÚ pçn e fide›n. 52) Un’associazione fra il concetto di eÈtux¤a da un lato e, dall’altro, gli omologhi epiteti eÈprÒsvpow e ·levw compare in Soph. Ai. 1008–1011 âH poÊ <me> Telam≈n, sÚw patØr §mÒw yÉ ëma, / d°jaitÉ ín e È p r Ò s v p o w · l e v w tÉ ‡svw / xvroËntÉ êneu soË: p«w går oÎx; ˜tƒ pãra / mhdÉ e È t u x o Ë n t i mhd¢n ¥dion gelçn. 53) Il punto di partenza dell’immagine lucianea dell’ §pineÊein è naturalmente costituita dal celebre ‹nutum Iovis› descritto nel verso formulare iliadico ∑ ka‹ kuan°˙sin §pÉ ÙfrÊsi neËse Kron¤vn (Il. 1,528e 17,209), con numerose varianti (cfr. ad es. la versione ‹laicizzata› riferita ad Achille in Il. 9,620 ∑ ka‹ PatrÒklƒ ˜ gÉ §pÉ ÙfrÊsi neËse sivpª, oppure la formula odissiaca decurtata ≤ dÉ êrÉ [∑ ka‹] §pÉ ÙfrÊsi neËse in Od. 16,164 [Atena] e 21,431 [Telemaco], e ancora la variante in cui il riferimento al kãra si sostituisce agli ÙfrÊew, come in Il. 15,75 §m“ dÉ §p°neusa kãrhti). Una ripresa dell’immagine epica in contesto parodico è in Eur. Hel. 681: EL: KÊpriw œi mÉ §p°neusen . . . ME: Œ tlçmon. 54) Si tratta di un’intervista a Kronos (circa il problema dell’identificazione nella cultura greca fra Kronos e Chronos cfr. J. de Romilly, Time in Greek Tragedy, Ithaca, N. Y. 1968, 34–36e G. Ricciardelli, Inni orfici, Milano 2000, 292–295), in cui viene utilizzata ampiamente la metafora del gioco dei dadi per indicare l’alterna fortuna degli uomini. Il passo lucianeo è interessante, anche perché esibisce un accumulo di immagini tradizionali alcune delle quali già utilizzate da Eschilo, come ad
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VI Una volta individuate le immagini sottese a questa antistrofe – il gioco dei dadi e la metafora dei meteci – sarebbe interessante riuscire ad individuare una rete di relazioni nell’abito della trilogia. La drammaturgia eschilea è infatti costruita su raffinate tessiture di motivi e immagini che ricorrono non isolatamente ma fra loro variamente collegate, come in una grande sinfonia di motivi, secondo la tecnica del ‹Leitmotiv› che costituisce un dato peculiare dell’arte eschilea. Pertanto, se si riuscisse ad individuare in filigrana un disegno sotteso a tali metafore, ne potrebbe uscire rafforzata l’interpretazione proposta. L’immagine dei dadi richiama il prologo dell’Agamennone: tå despot«n går eÔ pesÒnta yÆsomai tr‹w ©j baloÊshw t∞sd° moi fruktvr¤aw. (vv. 32–33) C’è una relazione a distanza fra le due situazioni drammatiche, che rientra in una ben precisa strategia compositiva di Eschilo: quella di istituire parallelismi fra l’incipit dell’Agamennone e il terzo stasimo delle Coefore, a segnalare il concludersi, in questo punto della trilogia, di una linea drammatica sostanzialmente unitaria: la catena di delitti all’interno del g°now degli Atridi: non a caso il terzo stasimo inizia con la rievocazione della spedizione punitiva a Troia, introdotta come similitudine paratattica in riferimento all’attuale azione punitiva di Oreste nei confronti degli usurpatori, e tale rievocazione è fatta in termini molto simili alle parole del Coro di vecchi Argivi all’inizio della parodo dell’Agamennone.55 All’inizio della trilogia l’evento fortunato era il segnale di fuoco che annunciava la presa di Troia e l’imminente ritorno del sovrano, salutato come l’uscita in assoluto migliore al gioco dei dadi, il «tre volte es. quella – immediatamente successiva – del naufragio per indicare la sorte negativa: ofl d¢ ¶mpalin gumno‹ §jenÆjanto suntrib°ntow aÈto›w toË skãfouw per‹ oÏtv mikr“ ßrmati t“ kÊbƒ (da notare anche l’avverbio ¶mpalin in un’accezione simile a quella di pãlin in Cho. 971). 55) Cfr. Ag. 40–47 d°katon m¢n ¶tow tÒdÉ §pe‹ P r i ã m ƒ / m°gaw é n t ¤ d i k o w , Men°laow ênaj ±dÉ ÉAgam°mnvn con Cho. 935–938 ¶mole m¢n d ¤ k a P r i a m ¤ d a i w xrÒnƒ, / b a r Ê d i k o w poinã.
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sei».56 E i beneficiari del lieto evento erano i despÒtai, Clitemestra in primis, la cui reazione di gioia viene immaginata dalla scolta con termini simili alla reazione che il Coro delle Coefore attribuisce alla casa di Agamennone: il grido di gioia (cfr. Ag. 28 ÙlologmÚn eÈfhmoËnta e Cho. 942 §pololÊjato). Qui la fortuna dell’evento viene analogamente resa attraverso l’immagine del lancio favorevole dei dadi, e i beneficiari dell’evento fortunato sono questa volta i figli di Agamennone, i m°toikoi (anche in relazione a quest’aspetto, la scelta del termine in riferimento a Elettra e Oreste è appropriata, in quanto stabilisce un’opportuna distinzione rispetto ai despÒtai di cui parlava la scolta in Ag. 32). E in entrambi i casi la metafora del lancio fortunato dei dadi è utilizzata in riferimento ad un evento solo illusorio ed effimero: le previsioni sia della sentinella sia del Coro finiranno, infatti, per essere rettificate dagli eventi scenici successivi, che dimostreranno come le sciagure, per la casa di Agamennone, non siano in realtà ancora cessate. VII A sua volta, l’immagine dei m°toikoi richiama l’inizio della parodo dell’Agamennone. I due Atridi che gridano vendetta agli dèi per il ratto di Elena vengono paragonati ad avvoltoi:57 m°gan §k yumoË klãzontew ÖArh trÒpon afigupi«n, o·tÉ §kpat¤oiw êlgesi pa¤dvn Ïpatoi lex°vn strofodinoËntai pterÊgvn §retmo›sin §ressÒmenoi, demniotÆrh pÒnon Ùrtal¤xvn Ùl°santew: Ïpatow dÉ é¤vn ≥ tiw ÉApÒllvn μ Pån μ ZeÁw ofivnÒyroon
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56) Per la metafora del numero sei come lancio fortunato si veda il qui sopra menzionato passo di Luciano (Sat. 4): efi mÆ so¤ ge mikrÚn doke› tÚ nikçn kubeÊonta ka‹ to›w êlloiw §w tØn monãda kuliom°nou toË kÊbou so‹ tØn •jãda Íperãnv ée‹ fa¤nesyai. 57) Si tratta dei versi che fanno immediatamente seguito al riferimento alla vendetta punitrice degli Atridi contro Troia, riecheggiato all’inizio del nostro stasimo: cfr. supra n. 55.
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gÒon ÙjubÒan t«nde meto¤kvn ÍsterÒpoinon p°mpei parabçsin ÉErinÊn. oÏtv dÉ ÉAtr°vw pa›daw ı kre¤ssvn §pÉ ÉAlejãndrƒ p°mpei j°niow ZeÁw poluãnorow émf‹ gunaikÒw, ...
60
Il senso di questa splendida immagine degli afigupio¤ come m°toikoi è stato definitivamente chiarito dai critici moderni58 sulla base di uno scolio a Soph. OC 934:59 efi mØ m°toikow t∞sde: ént‹ ¶noikow: oÈ går aÈtÚ toËto tÚ m°toikow, …w ≤me›w famen, e‡rhtai: meto¤kouw d¢ kaloËmen toÁw épÚ •t°raw x≈raw ofikoËntaw, prÚw toÁw metoikisy°ntaw poy°n: toËto d¢ ¶noikon. k°xrhtai d¢ ka‹ AfisxÊlow §p‹ t«n ofivn«n §n ÉAgam°mnoni l°gvn oÏtv: t«nde meto¤kvn, ént‹ toË §no¤kvn. meto¤kouw går e‰pe t«n Íchl«n tÒpvn toÁw ofivnoÁw kéke›se ént‹ §no¤kvn.
Gli avvoltoi sono definiti da Eschilo ‹meteci› in quanto più umili abitanti delle zone celesti, i cui abitanti di rango superiore sono ovviamente gli dèi.60 La metafora agisce inoltre in questo contesto anche in rapporto a un altro aspetto caratterizzante della condizione di metoik¤a: come i meteci avevano in Atene i loro prostãtai, i loro protettori e garanti, così gli avvoltoi godono della protezione di 58) Si veda in part. l’analisi condotta da J. Dumortier, Les images dans la poésie d’Eschyle, Paris 1935, 260, nonché la lucida nota di Fraenkel (come n. 9) II 37 s. Quest’interpretazione era sostenuta anche da Hommel, RE VI (1907) 1417, che a sua volta la mutuava da Paley, Schneidewin e Wilamowitz. 59) Una forma abbreviata di questo scolio si legge nella Suda (m 379,4 ss. A.), e la provenienza potrebbe essere, come suggerisce Fraenkel, da un commentario all’Agamennone. Gli scoli a Ag. 57, invece, riferivano il termine ai piccoli avvoltoi portati via dal nido, e non ai loro genitori: dunque, né nella parodo dell’Agamennone, né nel terzo stasimo delle Coefore, per ragioni diverse, gli scoliasti avevano correttamente interpretato la metafora. 60) Non a caso, nell’omonima commedia di Aristofane gli uccelli abitano la parte meno nobile del cielo, e cioè le zone inferiori e più vicine alla terra. Si noti che lo stesso termine di m°toikow ricorre anche in riferimento alla rondine in un frammento eschileo, recuperato dalle citazioni dei lessicografi (cfr. Hesych. p 1202 [Phot. Sunag. l°j. xrhs¤m. II 69,15 Nab.] pedo¤kou: meto¤kou. ‹pedo¤kou xelidÒnow›: suno¤kou. AfisxÊlo<w> Trofo›w [= Aesch. fr. 246d R.]): forse perché la rondine è un animale migrante, o forse più probabilmente – come si desume dalla glossa suno¤kou – in riferimento al fatto che essa nidifica nelle abitazioni degli uomini, coabitando con essi, sia pure occupando gli spazi meno ‹nobili› e più marginali della casa.
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divinità quali Apollo (dio degli vaticini e degli auguri), Pan (il dio delle selve e delle vette montane) e lo stesso Zeus (dio supremo, e difensore dei supplici nella sua qualifica di flk°siow).61 Analoga immagine viene applicata anche a Elettra e Oreste. Se gli uccelli sono gli abitanti meno nobili del cielo, anche Elettra ed Oreste sono stati finora in situazione d’inferiorità nella casa.62 Ma la vicinanza tra le due metafore dei m°toikoi funziona soprattutto in relazione al secondo aspetto, quello della protezione della divinità. Come gli avvoltoi, anche Oreste ed Elettra hanno i loro prostãtai: il padre morto, innanzi tutto, l’antico signore della casa che essi a più riprese esortano ad intervenire al loro fianco contro gli usurpatori, e inoltre vari dèi, tra i quali in particolare la terna divina Kratos, Dike e Zeus, invocata da Elettra ai vv. 244–245 perché stia al suo fianco (Krãtow te ka‹ D¤kh sÁn t“ tr¤tƒ / pãntvn meg¤stƒ Zhn‹ sugg°noitÒ moi). E allo stesso Zeus subito dopo viene rivolta una lunga richiesta d’aiuto in cui i due fratelli si pongono sotto la sua diretta protezione (vv. 246–263).63 Queste divinità ascolteranno l’accorato appello dei figli d’Agamennone, così come le divinità menzionate in Ag. 55 ss. hanno ascoltato le grida degli avvoltoi. Non a caso, in virtù di quel processo dinamico caratteristico di molti paragoni eschilei, la similitudine degli afigupio¤ vendicati dagli dèi è inglobata come ‹illustrans› all’interno della descrizione della giustizia punitrice degli Atridi contro Troia,64 la quale è a sua volta richiamata all’inizio del nostro stasimo, in accordo con 61) Per l’immagine del prostãthw cfr. anche Aesch. Suppl. 963 s. prostãthw dÉ §gΔ / ésto¤ te pãntew, in riferimento al re argivo Pelasgo in quanto protettore e garante della metoik¤a delle Danaidi (cfr. v. 994), nonché le parole di Tiresia ad Edipo ÀstÉ oÈ Kr°ontow prostãtou gegrãcomai in Soph. OT 411. 62) Con immagine diversa, che sottolinea ancora più intensamente l’esclusione, a Cho. 446 Elettra paragona se stessa a un cane molto nocivo, e come tale tenuto lontano (muxoË dÉ êferktow polusinoËw kunÚw d¤kan). I cani sono in una casa rispetto ai padroni, quello che gli uccelli sono nel cielo rispetto agli dèi: umili abitanti e soprattutto subordinati ai loro despÒtai (si ricordi la definizione dell’aquila come «cane di Zeus» in Prom. 1022 s. DiÚw . . . / pthnÚw kÊvn, dafoinÚw afietÒw). 63) Credo abbia ragione Garvie (come n. 6) 109 nel ritenere che la proposta di Hermann (e altri) di assegnare i vv. 255–263 ad Elettra vada presa in attenta considerazione per i vantaggi che comporterebbe. 64) Cfr. l’attacco trÒpon afigupi«n, con cui è introdotto l’‹illustrans›, con oÏtv dÉ ÉAtr°vw pa›daw ı kre¤ssvn §pÉ ÉAlejãndrƒ p°mpei j°niow ZeÊw, che segna il ritorno all’‹illustrandum›: sul movimento caratteristico di questa similitudine, cfr. Fraenkel II 39; W. Hörmann, Gleichnis und Metapher in der griechischen Tragödie, Diss. München 1934, 8–10; Petrounias (come n. 12) 129–131.
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il fitto intreccio di temi e metafore che collega queste due sezioni, a segnalare rispettivamente l’inizio e la fine di una linea drammatica coerente, quella dell’alternarsi di colpe e punizioni nell’ambito dell’ o‰kow degli Atridi.65 Ma c’è di più. L’analogia a distanza fra le due definizioni sia degli afigupio¤ che dei pa›dew ÉAgamemnon¤dai come m°toikoi è ulteriormente rafforzata dalla metafora che identifica Oreste-Elettra in due uccelli (in quanto figli dell’aquila Agamennone) e ritorna come ossessivo ‹Leitmotiv› nella suddetta preghiera dei due fratelli a Zeus ai vv. 246–263: cfr. vv. 247 fidoË d¢ g°nnan eÔnin afietoË patrÒw, 256 patrÚw neossoÊw, 258 afietoË g°neyla. A sua volta questa preghiera è con la similitudine della parodo in evidente relazione, e non soltanto per il legame di parentela che unisce i personaggi coinvolti.66 In entrambi i contesti, infatti, si parla di uccelli privati di loro cari: nella parodo si parlava di avvoltoi che hanno perso la prole, qui si parla di aquilotti privati dei genitori. E come gli avvoltoi della parodo gemono per il loro lutto (ofivnÒ y r o o n g Ò o n Ag. 57),67 così questi ‹pulcini› intonano il gÒow funebre: HL. ka‹ t∞sdÉ êkouson loisy¤ou bo∞w, pãter: fidΔn n e o s s o Á w toÊsdÉ §fhm°nouw tãfƒ, o‡ktire y∞lun êrsenÒw yÉ ımoË g Ò o n . (Cho. 500–502) In entrambi i casi il lamento è anche nel contempo grido d’aiuto (gÒon Ùju b Ò a n Ag. 57, b o ∞ w Cho. 499), ovvero richiesta d’intervento rivolta agli dèi.68 E la risposta della divinità avviene con le 65) Cfr. supra VI e n. 55. 66) Poiché la similitudine degli avvoltoi nella parodo dell’Agamennone viene introdotta in riferimento agli Atridi (sullo stretto legame fra ‹illustrandum› e ‹illustrans› già nella stessa formula introduttiva cfr. M. S. Silk, Interaction in Poetic Imagery with Special Reference to Early Greek Poetry, Cambridge 1974, 86), la metafora che identifica ai vv. 247 ss. Oreste ed Elettra nei figli dell’ afietoË patrÒw appare come un naturale sviluppo della stessa immagine. 67) Come scrive giustamente Fraenkel (come n. 9) II 36, il sostantivo gÒon è «especially lamentation for the dead» (l’unico caso eschileo in cui l’associazione con la morte sia assente è in Prom. 33): per gli avvoltoi i piccoli rapiti sono a tutti gli effetti morti. 68) Il termine boÆ, com’è noto, in greco designa anche la preghiera del supplicante come pure la richiesta di aiuto (boÆyeia). Sulla connessione fra lamento
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stesse modalità, ovvero mediante l’invio di una sua ministra «che tardi punisce», Erinni o Ate, contro i trasgressori: l’azione divina descritta a Ag. 58 s. ÍsterÒpoinon / p°mpei parabçsin ÉErinÊn puntualmente corrisponde, nella scelta dei termini come nella costruzione sintattica, all’invocazione di Oreste a Cho. 382 s. ép°mpvn / ÍsterÒpoinon êtan brot«n tlãmoni ka‹ panoÊrgƒ xeir¤. VIII L’insistenza sul tema del lamento degli avvoltoi nella parodo, nonché il richiamo alla situazione precedente del kommos, può forse rappresentare una conferma del fatto che in Cho. 970 vada conservato il tràdito yreom°noiw. La correzione congetturale preumene›w di Musgrave e Paley è indubbiamente allettante e ha goduto di meritata fortuna,69 soprattutto in vista del parallelo di Ag. 1647 preumene› tÊx˙, che di questo passo costituisce l’anticipazione profetica, e anche qui, nella nostra interpretazione, potrebbe essere adottata. D’altra parte, però, l’epiteto preumene›w non aggiunge alcun nuovo elemento al passo: la qualifica delle tÊxai come «benigne» non appare in definitiva necessaria in quanto bastava già a questo scopo il composto eÈprÒsvpow, che, semanticamente affine, garantisce anche da solo la corrispondenza con i vv. 1646– 1648 dell’Agamennone. Per contro, yreom°noiw consente di istituire un richiamo con le situazioni drammatiche precedenti, in particolare con la parodo dell’Agamennone70 e con il grande kommos delle Coefore, e questo rientrerebbe nelle strategie di questo pasfunebre, richiesta d’aiuto e preghiera nella similitudine dell’Agamennone cfr. Petrounias (come n. 12) 130e 374 n. 499. Tale connessione, d’altra parte, favorisce il passaggio dal lamento per il padre alla richiesta di aiuto a Zeus all’interno della preghiera ai vv. 246–263, facendo leva proprio sulla definizione dei due fratelli come figli dell’aquila: aquila che si identifica in Agamennone, ma anche nell’uccello sacro a Zeus (sulla struttura di quest’immagine si vedano le ricche note di Garvie [come n. 6] 107–109). 69) Anche West adotta la congettura, anche se, ponendo tra cruces il verso precedente, rinuncia in definitiva ad un’interpretazione complessiva del passo. 70) La forma verbale, tra l’altro, presenta anche sul piano etimologico un punto di contatto con il secondo elemento del composto ofivnÒyroon che in Ag. 57è riferito al sostantivo gÒon. D’altra parte, gÒow e yr∞now sono fra loro in stretta connessione: cfr. ad es. Aesch. fr. 291 R. yrhne› d¢ gÒon tÚn éhdÒnion, Pers. 686 s. yrhne›te . . . gÒoiw e Ag. 1079, dove gÒoiw riprende chiaramente yrhnhtoË del v. 1075 (cfr. Fraenkel [come n. 9] III 491).
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so, in cui si concentrano e condensano linee tematiche anteriori. In Ag. 55 s. gli avvoltoi (scilicet i due Atridi) sono piangenti per un lutto domestico,71 e il loro grido di dolore viene ascoltato dalle divinità. Anche Elettra ed Oreste, la stirpe dell’aquila, sono presentati per gran parte del dramma come yrhnƒdoËntew e le loro grida di lamento e invocazione trovano ascolto presso gli dèi. E Clitemestra ed Egisto, come un tempo Paride e tutti i Priamidi (rievocati all’inizio dello stasimo), hanno ora ricevuto la giusta punizione. Inoltre yreom°noiw (con il suo richiamo etimologico diretto al yr∞now funebre: e così è per l’appunto definito il grande kommos sulla tomba di Agamennone ai vv. 336e 342) rende più facile per lo spettatore l’identificazione dei ‹meteci›, escludendo in questo modo altre eventuali identificazioni (come in particolare quella di Clitemestra ed Egisto, gli altri ‹abitanti› della casa). Si realizza inoltre in questo modo un richiamo diretto con la situazione evocata nel kommos: subito dopo che i due fratelli avevano intonato il yr∞now funebre sulla tomba del padre (cfr. vv. 334 s. d¤paiw to¤ sÉ §pitÊmbiow / yr∞now énastenãzei), il Coro era, per così dire, andato oltre, profetizzando la possibilità di un capovolgimento del yr∞now sulla tomba in un canto di vittoria (pai≈n) dentro la casa: XO. éllÉ ¶tÉ ín §k t«nde yeÚw xrπzvn ye¤h kelãdouw eÈfyoggot°rouw: ént‹ d¢ yrÆnvn §pitumbid¤vn paiΔn melãyroiw §n basile¤oiw neokrçta f¤lon kom¤seien. (vv. 340–344) Queste parole del Coro si pongono dunque come una sorta d’anticipazione rispetto al terzo stasimo: ora, finalmente, per i «piangenti» figli di Agamennone la sorte volgerà al meglio, e le Coefore possono intonare il loro canto di gioia per la vittoria imminente. In questo contesto, l’affiorare al v. 970 del ‹yr∞now-Motiv› ha eviden71) Così la similitudine visualizza il dolore per la perdita di Elena da parte degli Atridi: come un lutto domestico. Cfr. Fraenkel (come n. 9) II 32: «Naturally it occurs to no one that the Atridae have lost children, but one near and dear has been torn from them, as from the birds, and that is the point here».
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temente l’effetto di stabilire il collegamento con i vv. 342–343: l’auspicio del Coro sta per trovare realizzazione.72 C’è inoltre, a mio parere, anche una motivazione di carattere drammaturgico a favore del tràdito yreom°noiw. Il fatto che alla fine di uno stasimo in cui il Coro ha appena cantato la liberazione dai mali ci sia un riferimento alla sorte infelice di prima, appare appropriato sia per questa specifica situazione drammatica, che per la concezione tragica eschilea più in generale. Verrebbe infatti in questo modo introdotta nel canto di esultanza una nota trenodica che il Coro ritiene superata dagli eventi scenici, ma che troverà invece conferma nella scena successiva, dalla quale si apprenderà con chiarezza che, anche se la casa è libera dagli usurpatori, per la stirpe di Agamennone i dolori non sono ancora cessati. Non dimentichiamo del resto che il modulo del canto iporchematico del Coro che si abbandona interamente alla gioia e all’illusione del lieto finale, e poi viene clamorosamente contraddetto nella scena successiva, è tipico di Sofocle, ma non di Eschilo, per quel che ci è dato di riscontrare dalle tragedie superstiti. Al contrario di Sofocle, Eschilo pre72) Il fatto che qui yr°omai sia usato assolutamente, mentre nelle altre ricorrenze sia costruito con un complemento oggetto, non costituisce naturalmente una difficoltà. Essendo infatti scarsissime le sue attestazioni letterarie a noi pervenute (cfr. supra n. 3), nulla vieta di pensare che anche questo verbo, allo stesso modo di altre forme verbali appartenenti all’area semantica del lamento come yrhn°v, ÙlofÊromai e goãv, potesse essere usato sia con un complemento oggetto che assolutamente. Si vedano, a puro titolo esemplificativo, Hom. Od. 19,209 s. aÈtår ÉOdusseÁw / yum“ m¢n g o Ò v s a n •Øn §l°aire guna›ka e Od. 19,263 s. mhk°ti nËn xrÒa kalÚn §na¤reo mhd° ti yumÚn / t∞ke pÒsin g o Ò v s a (il participio goÒvsa, nella stessa sede metrica e in riferimento sempre a Penelope, è usato nel primo caso assolutamente, nel secondo transitivamente); Il. 24,721 s. o· te stonÒessan éoidØn / o„ m¢n êrÉ § y r Æ n e o n e Od. 24,60 s. MoËsai dÉ §nn°a pçsai émeibÒmenai Ùp‹ kalª / y r Æ n e o n (in analogo contesto di lamento ‹collettivo›, la stessa forma verbale è usata nel primo esempio transitivamente e nel secondo intransitivamente). Istruttivo è anche il caso del participio presente di ÙlofÊromai che ricorre all’interno di un verso formulare con due varianti, una nel senso di ‹afflitto disse›, con l’uso assoluto del verbo (ka¤ =É ÙlofurÒmenow ¶pea pterÒenta proshÊda Il. 5,87; 11,815; Od. 16,22; 17,40; e cfr. anche la formula abbreviata ÙlofurÒmenow dÉ ¶pow hÎda Il. 15,114.398; Od. 11,472.616; 13,199), l’altra con il complemento oggetto, nel senso ‹affliggendosi per qualcuno disse› (ka¤ mÉ Ùlofurom°nh ¶pea pterÒenta proshÊda Od. 10,325.418; 11,154). Per quanto riguarda i tre tragici, mi sembra determinante il fatto che il verbo yrhn°v, semanticamente affine a yr°omai, benché costruito nella maggior parte delle attestazioni transitivamente (cfr. ad es. Aesch. Prom. 43, Soph. El. 94e 530, Eur. Hec. 675e 961, Tro. 684 s., IT 490, Hel. 604, ecc.), si trovi anche usato assolutamente, il che si verifica in Aesch. Pers. 686e Cho. 926, Eur. Med. 1249e 1396.
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dilige il modulo dell’anticipazione – spesso attraverso il meccanismo della paura profetica – degli eventi luttuosi successivi.73 E del resto le Coefore proprio negli anapesti introduttivi a questo stasimo avevano già espresso preoccupazione per la sorte di Oreste: i vv. 931 ss. iniziavano anzi con un evidente motivo trenodico (st°nv v. 931), e ad Oreste al v. 933 esse si riferivano con l’epiteto tlÆmvn. Il fatto che qui, in chiusura, il Coro ritorni al modulo trenodico – sia pure riferito al passato e nella prospettiva di un suo superamento – appare senz’altro drammaticamente efficace in rapporto alla scena successiva: verrebbe in questo modo ulteriormente valorizzata l’ambiguità della vendetta di Oreste, che in Eschilo non è risolutiva ma è al contrario attivatrice di ulteriori sofferenze. Brescia
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73) Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo. Problemi di focalizzazione drammatica, Roma 1978, 31–49 (in relazione alla funzione anticipatrice dell’angoscia nella parodo dei Persiani) e V. Di Benedetto, Eschilo. Orestea, Milano 1995, 96 ss.
SOME PASSAGES IN ARISTOPHANES Pax 66–67: ì dÉe‰pe pr«ton ≤n¤kÉ ≥rxeyÉ ≤ xolÆ, peÊsesyÉ ktl. ≥rxeto: Is this from êrxomai or ¶rxomai? Commentators tend to be silent on this question and the translators are ambiguous. Thus, for instance, Sommerstein1: “. . . what he said first when the bile came over him” and similarly Henderson2: “. . . what he said when the bile first came over him”. (This latter version seems to interpret pr«ton correctly, as going with ≥rxeto, not with e‰pe.) Note also a scholium to v. 65 (tÚ går parãdeigma t«n mani«n ékoÊete): l°getai d¢ ka‹ •nik«w \≤ man¤a mÉ §p°rxetai^, …w §p‹ tÚ ple›ston d¢ plhyuntik«w, where §p°rxetai in the unidentified quotation may suggest that ≥rxetai in v. 66 was interpreted as a form of ¶rxomai (?). While many will require no assistance in identifying the correct verb, decades of teaching Greek prose composition convince me that not a few will need to be reminded both what the form is and why it must be so. W. G. Rutherford, The New Phrynichus (London 1881) 103 observed: “Nothing can better illustrate the precision of Attic Greek than the consideration of the Greek equivalent of the English verb ‘to go’. Whether simple or compounded with a preposition, e‰mi had consistently a future signification. The present indicative was ¶rxomai, but ¶rxomai did no more than fill the blank left by the preoccupation of e‰mi. There was no ¶rxvmai, §rxo¤mhn, ¶rxou, ¶rxesyai, §rxÒmenow, and no imperfect ±rxÒmhn”. Rutherford, 106 ff., discusses five real or supposed exceptions to this rule – all of them compound verbs be it noted. See further Kühner-Blass II 429–30. The one certain exception in Attic is the compound verb Íp°rxomai which, in the sense ‘fawn upon’, is not restricted to the present indicative but may be used in the imper1) Alan H. Sommerstein, Aristophanes: Peace (Warminster 1990). 2) Jeffrey Henderson, Aristophanes: Clouds, Wasps, Peace (Cambridge, MA 1998).
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fect, present participle and all the present moods. See J. Burnet’s excellent note in Plato: Crito (Oxford 1924) 53E4. In Aristophanes the form §perxom°nƒ occurs at Nu. 311 in a choral stanza of lyric dactyls (and thus is no true exception to Attic usage), and the compound periÆrxeto is found at Thesm. 504, where it has often been pronounced corrupt and conjectured away. Rutherford 108 suspected a case of tragic diction. Be that as it may, normal Attic usage proves that the simplex ≥rxeto here must come from êrxomai, not ¶rxomai. Pax 320: …w kukãtv ka‹ pate¤tv pãnta ka‹ taratt°tv …w : ka‹ Blaydes
Platnauer (Oxford 1964) ad loc.: “The MSS …w followed by these third person imperatives gives an unparalleled construction, and Blaydes’ ka‹ (or his sug-) may be right. Attempts to explain …w here as ‡syÉ …w will not do; for in such cases we find indicatives, generally futures . . . Commentators often confuse the issue by citing cases (1) in which ‡syi or some other verb of knowing is expressed . . . (2) in which the …w is merely exclamatory . . .”. Olsen in his excellent recent edition of the play3 does not seem to me to have entirely answered these objections: “…w ktl.: An odd and elliptical construction, probably equivalent to (‡syi) …w [e. g. 237, 496; Ach. 333; Nu. 209; Lys. 32] ≤m›n oÈ melÆsei efi kukò vel sim. (thus Paley). Blaydes’ ka‹ in place of d’s …w (adopted by Platnauer) yields an easier text but seems paleographically unlikely.” As Platnauer realized, the third-person imperatives are very odd indeed and Olson does not really address this difficulty. The nearest parallel (if it is a parallel) is the familiar o‰syÉ oÔn ˘ drçson construction, for which see especially Kannicht4 on Eur. Hel. 315 and perhaps my Greek Textual Criticism (Cambridge 1969) 5–6. For the third-person imperative note especially Eur. IT 1203 o‰syã nun ë moi gen°syv. But in all these cases the o‰sya is expressed and in none of them is there a …w. Blaydes’ ka¤ has the advantage not only of sense but of sound in a verse remarkable for its assonances and alliterations (ka‹ [?] 3) S. D. Olson, Aristophanes: Peace (Oxford 1998). 4) Richard Kannicht, Euripides: Helena (Heidelberg 1969).
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kuk- . . . ka‹ . . . ka‹; -tv . . . -tv . . . -tv; pat- . . . pãnt- . . . ; -ta . . . taratt°t-). While ka¤ is not certain here, Olson was wrong to describe it as “paleographically unlikely”. ka¤ and …w were often written with abbreviations that could be confused, the one with the other. Jaeger calls attention to the “Häufigkeit paläographischer Vertauschung von …w und ka¤”5. For some instances see e. g. Isoc. 16.28; Soph. OC 861; Ar. Ach. 19, in all of which passages …w and ka¤ are found as variant readings. Presumably, in conjecturing ka¤, Blaydes was influenced in part by such considerations. Pax 1195–96: ¶peitÉ §pifÒrei toÁw émÊlouw ka‹ tåw k¤xlaw ka‹ t«n lag–vn pollå ka‹ toÁw kollãbouw. §pifÒrei Dobree : §pisfÒrei R : §peisfÒrei VG : §pe¤sfere Ald. : §p¤fere Blaydes
S. D. Olson in his edition (which see for further details on the readings of the MSS) has the following note: “§pifÒrei: ‘heap up’ . . ., i.e. on the tables once they have been cleaned. This is Dobree’s emendation of VGp’s unmetrical §peisfÒrei (§pis- R), emended by Triklinios to §pe¤sfere (t Ald.), and is better than Blaydes’ slightly more violent §p¤fere (printed by Starkie and Platnauer), particularly since it is clear that at least some of this food is not, in fact, carried in to the hero’s guests (1305–11/12).” On this last point, it is equally true that much food w a s brought inside; see vv. 1207– 08: ‡yi nun . . . e‡site / §p‹ de›pnon …w tãxista. In fact, Platnauer preferred Blaydes’ §p¤fere precisely because §pifÒrei would mean ‘pile up’. He argues that “. . . the fact that §piforÆmata = ‘dessert’ (i.e. the things brought in) does not justify our supposing that the verb §pifor°v can also mean ‘bring in’.” Thus he desiderates ‘bring in’ as the sense required. Note also a scholium ad loc.: §peisfÒrei] prÒsfere, prost¤yei. (For -f°rein and -fore›n see Neil on Ar. Eq. vv. 294 and 1215.6) The reality is that both §pifÒrei and §p¤fere (the leading contenders) give adequate, and not necessarily contradictory, sense, since it was the custom to pile food on small tables and then bring the tables into the dining room. See Ar. Vesp. 1216 5) Werner Jaeger, Hermes 64 (1929) 39= Scripta Minora (Rome 1960) II 24. 6) Robert Alexander Neil, The Knights of Aristophanes (Hildesheim 1966).
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tåw trap°zaw efisf°rein with MacDowell’s note ad loc.7 It does not follow that either §pifÒrei or §p¤fere must be the correct conjecture. Both fail to take into account a significant, albeit mechanical, consideration. Although the transmitted reading, §peisfÒrei, cannot be sound, because unmetrical, it seems clear that it conceals a verb with double compound (§peis-). That §pi- (as in §pifÒrei and §p¤fere) could corrupt into the relatively uncommon §peis- is of course not impossible, but the reverse is surely far more likely (the preceding ¶peitÉ in v. 1195 notwithstanding). Note that Triklinios conjectured §pe¤sfere (§p°sfere Dindorf). But let us try a different approach. There is a group of compound verbs from -fr°v (épo-, dia-, efis-, §k-, §peis-, and other preverbs). The basic meaning of -fr°v seems to be ‘bring’, ‘send’, ‘admit’ and thus, in our passage, the compound §peisfre›n would mean ‘bring in’, ‘bring on’, ‘introduce’ the food. I therefore conjecture §pe¤sfrei (pres. imper.). The staging is a bit uncertain. (See above.) Most likely the slave is being instructed to ‘bring in’ the additional (§peis-) delicacies here mentioned and he accordingly goes inside with them. For this verb and its cognates see Kühner-Blass II 521–22 (s. v. p¤frhmi); Mastronarde on Eur. Phoen. 264;8 and, especially, Barrett on Eur. Hippol. 866–67.9 These verbs are found in prose (e. g. Thucydides, Demosthenes, Xenophon), tragedy (Euripides, who has §peisfr°v four times and efisfr°v once), and comedy, including Aristophanes. The advantage of these forms is that, being uncommon, they are often confused with forms of f°rv and for« and can explain problematic MS readings. Thus at Ar. Vesp. 162 Buttmann’s ¶kfrew is widely accepted for ¶kfere of the MSS. (¶kfere gives a wrong sense here.) At Ar. Av. 193 most MSS have, correctly, diafrÆsete, but diaforÆsete and diaforÆsetai are variant readings. But perhaps the best parallel for our passage is Eur. Hippol. 867 where some MSS have §peisf°rei and others §pif°rei. J. U. Powell conjectured §peisfre›,10 which has been accepted by Barrett (1964) and Diggle.11 As Barrett neatly put it, “. . . when §peisfre› became unintelligible, §peisf°rei was the plain man’s change, §pif°rei the 7) 8) 9) 10) 11)
Douglas M. MacDowell, Aristophanes: Wasps (Oxford 1971). Donald J. Mastronarde, Euripides: Phoenissae (Cambridge 1994). W. S. Barrett, Euripides: Hippolytos (Oxford 1964). Reported in CR 17 (1903) 266. J. Diggle, Euripidis fabulae, Tomus I (Oxford 1984).
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metrician’s; to read §pif°rei would leave the variant §peisf°rei a mystery, to read §peisf°rei would embarass the metre.” It seems to me that, mutatis mutandis, we have much the same situation at Pax 1195. Av. 178–80: Pe.e‰d°w ti; Ep. tåw nef°law ge ka‹ tÚn oÈranÒn. Pe.oÈx otow oÔn dÆpou Ést‹n Ùrn¤yvn pÒlow; Ep. pÒlow; t¤na trÒpon; For some supplementary remarks on the history and meanings of pÒlow beyond what Dunbar observes in her note ad loc.12 see R. Renehan, Aristotelian Explications and Emendations: II., CP 91 (1996) 228–231. Av. 961: Œ daimÒnie, tå ye›a mØ faÊlvw f°re: Dunbar ad loc.: “faÊlvw f°rein, ‘treat lightly, not take seriously’, is cited only here and E. IA 850, but cf. A. Pers. 520.” This is not quite accurate; add E. IA 897 . . . tÚ dÉ §mÚn oÈ faÊlvw f°rv and Ar. fr. 674 K.-A. (ap. Eustath. in Il. 1357.1): faÊlvw tÚ èpl«w ka‹ ≤suxª. ÉAristofãnhw: faÊlvw f°rei nËn tÚ kakÒn. Av. 1097–98: xeimãzv dÉ §n ko¤loiw êntroiw nÊmfaiw oÈrane¤aiw sumpa¤zvn: The bird chorus is singing. Dunbar remarks: “The key-note of the stanza is struck by the opening eÎdaimon fËlon pthn«n ofivn«n: unlike mankind, it is implied, birds do not have to suffer from the extremes of temperature at different seasons . . . Ar. was clearly unaware of the havoc caused by a severe winter on the smallest species (1097–8n.). ” (Dunbar, note to vv. 1088–1101.) From a comic fan12) Nan Dunbar, Aristophanes: Birds (Oxford 1995).
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tasy emphasizing that birds have a pleasant existence during every season of the year one wonders whether it is a necessary inference that Aristophanes did not in fact know that in real life birds could be adversely affected by cold winter weather. Aristophanes’ dramatic predecessor Aeschylus, at least, certainly knew better. See the herald’s account of the hardships endured on campaign at Troy in Ag. 563–64: xeim«na dÉ efi l°goi tiw ofivnoktÒnon, oÂon pare›xÉ êferton ÉIda¤a xi≈n ktl. xeim«na . . . ofivnoktÒnon is a striking phrase; the epithet by itself tells a full tale. It is certain that Aristophanes knew the Aeschylean play, which he cites more than once in the Frogs. Av. 1280–82: pr‹n m¢n går ofik¤sai se tÆnde tØn pÒlin, §lakvnomãnoun ëpantew ênyrvpoi tÒte, §kÒmvn, §pe¤nvn ktl. ëpantew ênyrvpoi in v. 1281 seems to have caused some misunderstanding if one is to judge from various translations of the passage; Rogers:13 “All men had gone Laconian-mad.” Sommerstein:14 “All men were Spartan-mad.” Henderson:15 “All men were crazy about the Spartans.” Dunbar ad loc. observes: “ëpantew ênyrvpoi. From the rest of the speech it emerges that only Athenians are meant . . .”. Correct enough, but it is clear from this very comment that she finds the use of ëpantew ênyrvpoi a bit curious. So too, for example, Sommerstein (ad loc.): “ ‘all men were Spartan-mad’: an exaggeration; in fact it was certain upper-class, anti-democratic circles of young men at Athens who tended to adopt Spartan habits and fashions in the late fifth century . . .”. But (ë)pantew ênyrvpoi is not an “exaggeration,” it is a colloquial idiom meaning ‘everybody’ and can be used of quite a small group just as the English 13) Benjamin Bickley Rogers, The Birds of Aristophanes (London 1930). 14) Alan H. Sommerstein, Aristophanes: Birds (Warminster 1987). 15) Jeffrey Henderson, Aristophanes: Birds, Lysistrata, Women at the Thesmophoria (Cambridge, MA 2000).
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‘everybody’. See for instance Dem. 34.29 . . . pros∞k°n ge tosoËto . . . peribÒhton poie›n §n t“ §mpor¤ƒ, ka‹ parakale›n pãntaw ényr≈pouw, pr«ton d¢ tÚn pa›da tÚn toÊtou ka‹ tÚn koinvnÒn. This use should be strictly distinguished from the more literal, and common, sense of ëpantew ênyrvpoi = omnes homines, ‘all human beings’. For further discussion and more illustrative examples of the looser use that Aristophanes is employing here see R. Renehan, Isocrates and Isaeus: Lesefrüchte, CP 75 (1980) 247. The idiom is common in prose, despite the silence of the lexica and commentators; there is nothing unusual about it. (Note the similarly free use of pãntew below in v. 1286.) A like confusion can be seen at Pax 914–15: svtØr går ëpasin ényr≈poiw geg°nhsai Olson comments here “svtØr . . . ëpasin ényr≈poiw: A somewhat more expansive claim than 866a ¶svsa toÁw ÜEllhnaw”. Perhaps. But take ëpasin ényr≈poiw in the idiomatic sense ‘everybody’, as discussed above, and the claim is not a universal one. This has a bearing on the text at Pax 909–11 just above: ∑ xrhstÚw énØr pol¤thw §st‹n ëpasin ˜stiw §st‹ toioËtow pol¤thw : pol¤taiw Hermann
Hermann’s pol¤taiw has found some acceptance; it seems attractive to me. Olson objects: “Hermann’s pol¤taiw is unnecessary and sits awkwardly with the Chorus’ insistence in 914–15 that Tr. has benefited not just his fellow-citizens but all mankind.” The objection fails if ëpasin ényr≈poiw does not mean ‘all mankind’ here, as it need not. Lys. 74–76: må D¤É éllÉ §paname¤nvmen Ùl¤gou gÉ oÏneka tãw tÉ §k Boivt«n tãw te Peloponnhs¤vn guna›kaw §lye›n.
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Henderson in his commentary to this play16 observes here: “Ùl¤gou gÉ oÏneka: This phrase only here, cf. Nu. 843 éllÉ §panãmeinÒn mÉ Ùl¤gon §ntauyo› xrÒnon”. The meaning is clear enough, ‘as far as a little (sc. while) goes’, ‘for a little while’. For this use of the preposition see LSJ s. v. ßneka I. 2. While, strictly speaking, the phrase is not found elsewhere (?) (as Henderson remarks), there is, for all practical purposes, a second example in Aristotle, PA 689b5: k°rkon dÉ ¶xei pãnta sxedÒn, oÈ mÒnon tå zƒotÒka éllå ka‹ tå ”otÒka: ka‹ går ín mØ m°geyow aÈto›w ¶xon ¬ toËto tÚ mÒrion, éllå smikroË gÉ ßneken ¶xous¤ tina stÒlon.
Context: Aristotle is talking about quadrupeds and noting that they all have a tail. “For even if this part be not large, they have a kind of appendage to a little extent at least.” Here the sense is local, not temporal, and the substantive is smikroË, not its synonym Ùl¤gou, and the preposition has the ordinary prose form ßneken, not the poetic form oÏneka. Nevertheless it is perfectly clear that both phrases are ultimately identical, down to the inclusion of a gÉ. This is by no means the only passage where an ‘Attic’ author can illustrate Aristotle’s allegedly ‘koine– ’ Greek – or vice versa. In fact, this very passage of Aristophanes may help establish the text of the Aristotle passage, for the text has been questioned there. Bussemaker in the Didot edition17 and Bonitz, apparently independently (?), conjectured shme¤ou gÉ ßneken for smikroË gÉ ßneken. This proposal has found wide acceptance. P. Louis in the Budé edition,18 L. Torraca in his Italian edition,19 and A. L. Peck in the Loeb edition20 all print shme¤ou. Düring considered Bonitz’s restoration to be “evident”21 and Ross also accepted the conjecture.22 The reason for this widespread approval is that elsewhere Aristotle discusses rudimentary organs which are found “by way of a token (shme›on)”, “for a token”. See HA 502b23, 611a31; PA 16) Jeffrey Henderson, Aristophanes: Lysistrata (Oxford 1987). 17) U. C. Bussemaker, Aristotelis opera omnia (Paris 1854). 18) Pierre Louis, Les parties des animaux (Paris 21957). 19) Luigi Torraca, Le parti degli animali (Padova 1961). 20) A. L. Peck and E. S. Forster, Aristotle: Parts of Animals, Movement of Animals, Progression of Animals (Cambridge, MA 1968). 21) I. Düring, Aristotle’s De Partibus Animalium (Göteborg 1943) 194. 22) W. D. Ross, Aristotle (London 51949) 127 n. 1.
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669b29–30, 670b12. Although confusion of shme¤ou and smikroË is not particularly easy paleographically, the proposal has a certain initial attraction. But closer inspection should give one serious pause. First, Aristotle almost always qualifies the phrase shme¤ou xãrin: HA 502b22–23 ˜son shme¤ou xãrin; HA 611a31, PA 669b29–30 Àsper shme¤ou xãrin. Secondly, Aristotle never inserts a ge in this expression. Thirdly, and most importantly, the preposition used is always xãrin, not ßneken. That all this has escaped the notice of scholars is clear from Bonitz’s entry s. v. shme›on in his great Index Aristotelicus (Berlin 21870) 677b31–34: “. . . ˜son (Àsper) shme¤ou xãrin . . . HA 502b23, 611a31. PA 669b29, 670b12 (inde shme¤ou xãrin PA 689b5 scribendum est pro smikroË xãrin).” Bonitz’s false attribution of the ‘reading’ smikroË xãrin rather than smikroË gÉ ßneken at PA 689b5 is telling (wrong preposition, omission of gÉ) and serves to highlight the real differences between Àsper / ˜son shme¤ou xãrin on the one hand and smikroË gÉ ßneken on the other. If we then compare the true parallel, Ar. Lys. 74 Ùl¤gou gÉ oÏneka, it will be seen that there is every justification for restoring from the MSS the good idiom smikroË gÉ ßneken to Aristotle at PA 689b5. Ran. 318–22: Ja. toËtÉ ¶stÉ §ke›nÉ, Œ d°spoyÉ: ofl memuhm°noi §ntaËyã pou pa¤zousin, oÓw ¶fraze n“n. õdousi goËn tÚn ÖIakxon ˜nper diÉ égorçw. Di. kémo‹ dokoËsin. ≤sux¤an to¤nun êgein b°ltistÒn §stin, …w ín efid«men saf«w. 320 diÉ égorçw : diagÒraw v. l.
What to read in v. 320, diÉ égorçw or DiagÒraw? The controversy goes back to antiquity. We learn from the scholia that Apollodorus of Tarsus supported the former, Aristarchus the latter. Modern editors remain divided; thus, for example, among those favoring diÉ égorçw are Coulon,23 Radermacher,24 and Dover25 while van 23) Victor Coulon and Hilaire van Daele, Aristophane, Tome III: Les oiseaux – Lysistrata (Paris 1958). 24) Ludwig Radermacher, Aristophanes’ ‘Frösche’ (Graz 1967). 25) Kenneth Dover, Aristophanes: Frogs (Oxford 1997).
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Leeuwen,26 Hall and Geldart,27 Stanford,28 Sommerstein,29 and Henderson30 defend DiagÒraw. It is generally agreed that, if DiagÒraw is correct, there is some allusion to Diagoras of Melos, the well-known ‘atheist’ and lyric poet, who was reputed to have ridiculed, or otherwise acted impiously towards, the Eleusinian Mysteries. For details see Dunbar on Ar. Av. 1073 (where Diagoras is mentioned by Aristophanes). Discussion of the reading to be adopted here tends to be centered around the question of what verb is to be supplied with the ˜nper-clause in v. 320, which we shall consider in a moment. But first I wish to raise a question which seems to have been all but entirely neglected. Dover is an exception; in his note on v. 320, he concludes his case for diÉ égorçw as follows: “It makes much better sense to believe, o n t h e s t r e n g t h o f t h i s p a s s a g e [emphasis mine], that the procession to Eleusis went through the Agora, whether or not that was the shortest route from the Iakcheion (and it probably was not; cf. Paus. 1.2.4 and Judeich 364).” It may be doubted whether Dover has entirely avoided a petitio principii here when he accepts the disputed reading diÉ égorçw and then, on the strength of that alone, argues for a procession through the Agora of which we hear nothing elsewhere. The length of the route would of course not be a problem; religious processions would not necessarily follow the shortest route. But one may not unfairly fault Dover for not discussing the explicit testimony to be found in Pausanias, loc. cit., for it suggests a somewhat different interpretation. Note that in vv. 316–17 Iacchos has been invoked several times and will be so again at vv. 323 ff. (In v. 320 ÖIakxow refers to a h y m n sung in honor of Iacchos = Dionysus, who, as is well known, had come to be associated with the great procession to Eleusis.) Now what does Pausanias say? He says that as one enters the city there is a building intended for the preparation of processions (§selyÒntvn d¢ §w tØn pÒlin ofikodÒmhma §w paraskeuÆn §sti t«n pomp«n). This is a reference to the store26) J. van Leeuwen, Aristophanis Ranae (Leiden 1896). 27) F. W. Hall and W. M. Geldart, Aristophanis comoediae, tomus II (Oxford 1970).
28) W. B. Stanford, Aristophanes: The Frogs (London 21968). 29) Alan H. Sommerstein, Aristophanes: Frogs (Warminster 1996). 30) Jeffrey Henderson, Aristophanes: Frogs, Assemblywomen, Wealth (Cambridge, MA 2002).
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house, elsewhere called pompe›on, where the sacred processional vessels were kept.31 He proceeds to state that “nearby” there is a temple of Demeter in which there were images (égãlmata) of the goddess, of her daughter, and of Iacchos “holding a torch”. He goes on to mention porticoes “from the gates to the Ceramicus” (stoa‹ . . . épÚ t«n pul«n §w tÚ KerameikÒn). While taking into account that Pausanias is writing centuries after Aristophanes and changes may have occurred, one cannot but find all this very suggestive. The gate referred to is almost certainly the Dipylon Gate, through which the procession proceeded onto the road to Eleusis, and the temple has been identified by some as the Iaccheion. Thus we appear to have the right deities at the right gate with the right storehouse nearby. Surely it is far more probable that the participants assembled here and then made their way through the Dipylon Gate (or the Sacred Gate) on the road leading to Eleusis than that they went in the opposite direction through the Agora, a route about which we hear nowhere else. Compare Parke: “The procession probably formed up near the Dipylon Gate as it is indicated that the shrine of Iacchos was somewhere in the humbler quarter of Athens near there . . .”.32 I conclude on these grounds that diÉ égorçw is wrong. Let us consider now the sense and construction of this sentence. The final clause, whether one reads ˜nper diÉ égorçw or ˜nper DiagÒraw, is strangely abrupt – more strangely than seems to have been appreciated. Take first ˜n diÉ égorçw. Those who favor this reading usually supply õdousin along the lines of Apollodorus’ interpretation: õdousi goËn tÚn ÖIakxon, ˜nper õdousin ofl mÊstai §k toË êsteow diå t∞w égorçw §jiÒntew efiw ÉEleus›na. (Compare Hesychius, s. v. DiagÒraw: DiÒdvrow [sic] ı TarseÁw énagin≈skei perisp«n diÉ égorçw, diå tÚ toÁw mÊstaw bakxãzein, tout°stin õdein tÚn ÖIakxon diÉ égorçw bad¤zontaw.) I suppose that it is not impossible to understand all this with ˜nper diÉ égorçw but it is hardly natural or easy. For this reason Radermacher (ad loc.) proposed a different interpretation: “Erträglich ist streng genommen nur ˜n diÉ égorçw (õdousin) d. h. cantant deum volgo cantatum ‚den stadtbekannten‘ . . .”. Radermacher’s own interpretation 31) For the pompe›on see W. Judeich, Topographie von Athen (Munich 21931) 360 ff. with the map on 137. 32) H. W. Parke, Festivals of the Athenians (Ithaca 1971) 65.
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has rightly been rejected. In sum, no truly satisfactory interpretation of the variant diÉ égorçw has yet been proposed. What of DiagÒraw? An allusion to Diagoras of Melos would be appropriate in Aristophanes; compare Av. 1073 ff. and Nu. 830. But again the verb to be supplied in the ellipsis is problematic, more so in fact than with the reading diÉ égorçw. Radermacher correctly observed: “Für Diagoras hat sich Aristarch ausgesprochen, doch ist die von ihm angenommene Ergänzung des verkürzten Satzes (xleuãzei) unmöglich, möglich ist nur eine Ergänzung mit õdein (Wilamowitz) . . .”. Sommerstein (above, n. 29), accepting DiagÒraw, translates: “At any rate they’re singing the Iacchus hymn, the one by Diagoras”, which is quite impossible. In his note ad loc. he gives a ‘literal’ rendering: “ ‘They’re singing the Iacchus, the one that Diagoras <sang>’ (i. e. composed).” This is no more likely. To supply the past tense (“sang”) is difficult, to glide from “sang” to “composed”, when neither concept has been expressed, is intolerable. Not to mention that a ‘composition’ on Iacchos by Diagoras is made out of whole cloth. Henderson in his Loeb edition (2002) renders the Greek exactly as Sommerstein; it remains impossible. He adds in a note that diÉ égorçw entails “unlikely Greek”, which is correct. The upshot of all this is that neither reading yields very satisfactory sense or syntax. A cold hard look at the final relative clause in v. 320, with the odd and too abrupt ellipsis, strongly suggests that there is something not quite right with this sentence. It would be an easy matter to posit a lacuna after v. 320, but it is unnecessary. A change of punctuation will remove the difficulties: Ja. õdousi goËn tÚn ÖIakxon ˜nper DiagÒraw – Di. kémo‹ dokoËsin. ≤sux¤an to¤nun êgein b°ltistÒn §stin, …w ín efid«men saf«w. What we have in v. 320 is a case of contextus interruptus. The sentence is never finished. Either Xanthias deliberately breaks off without supplying the verb, which would have been a vulgar and rude one or Dionysus (= Iacchos here), realizing what Xanthias was about to say, deliberately interrupts to prevent an uncomplimentary remark being uttered. (Aristarchus was not wide of the mark with xleuãzei.) Dionysus’ comments in vv. 321–22 seem to agree with such a scenario: “I think so too. We would do well to
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keep quiet . . .”. This is to put a good face on an embarrassing comment. Such aposiopesis is actually well-attested in Greek. See the excellent note of Lloyd-Jones (on Semonides fr. 7.110),33 where a number of examples are adduced, to which add Eur. Or. 1145. Particularly illustrative is a passage from Aristophanes, Vesp. 1178: ¶peita dÉ …w ı Kardop¤vn tØn mht°ra –. MacDowell ad loc. remarks: “the verb would be a vulgar one . . . [Philokleon] is about to utter the verb when Bdelykleon hastily interrupts him.” So too here. Xanthias was about to utter a rude verb indicative of the contemptuous treatment accorded to the Iacchos-song by Diagoras – about whom the audience would have known much more than we do – when the interruption occurred. Naturally the d e l i v e r y would have made clear to the audience what was happening. The advantage of positing an aposiopesis is that the ˜nperclause, which seemed so intractable as long as it was assumed that the sentence was complete, no longer remains so. The interruption itself explains the abruptness. It is not even necessary to supply one particular verb; aposiopesis, so common when rude and vulgar words are left unexpressed, would have been suggestive enough. After reaching the conclusions set forth above I discovered that one commentator had proposed a similar interpretation, namely van Leeuwen (1896), who printed v. 320 thus: õdousi goËn tÚn ÖIakxon ˜nper DiagÒraw . . . That the three dots of punctuation perform the same function as a dash is clear from his comment: “˜nper DiagÒraw] sc. §xleÊaze vel simile quid (sic recte Aristarchus), quod verbum prae verecundia proferre non vult Xanthias (cf. Vesp. 1178) . . .”. Note that he even cites the same passage from the Vesp. as a parallel. I differ from him only in thinking it more likely that Dionysus actively interrupts Xanthias than that Xanthias deliberately breaks off. Either is possible, but I do not regard Xanthias as particularly noteworthy for “verecundia”. In any event, van Leeuwen deserves full credit as the pr«tow eÍretÆw.
33) H. Lloyd-Jones, Females of the Species. Semonides on Women (London 1975) 90.
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Ran. 369–70: toÊtoiw aÈd« kaÔyiw épaud« kaÔyiw tÚ tr¤ton malÉ épaud« §j¤stasyai mÊstaisi xoro›w 369 aÈd« : épaud« v. l.
Verse 369 has caused considerable disagreement. To begin with, let us dispense with the variant épaud«; it cannot be correct because it is unmetrical. It is an obvious slip caused by the two following occurrences of épaud« in this verse. (Note that, if the scribe[s], as often, read a verse at a time before copying, the last word they saw and heard before beginning to write out the verse was – épaud«.) Before discussing the text I list some of the changes proposed. Blaydes, followed by van Leeuwen, conjectured prvud« ter, comparing Av. 556 where the infinitive prvudçn occurs. proaudãv appears to be a hapax found only there. H. Richards, followed by Coulon and Henderson, replaced épaud« bis by §paud«. This verb is attested once in a Sophoclean choral lyric in the middle voice (Ph. 395, §phud≈man). The chief source of confusion seems to be the apparent difference in sense between aÈd«, ‘proclaim’, and épaud«, ‘forbid’. Dover understood this in his commentary, ad loc.: “ ‘I proclaim and forbid and . . . forbid. Stand aside . . .’ sounds a self-contradictory utterance, and it is tempting to emend épaud« to §paud« (Richards; §pi- in its common sense ‘in addition’). Yet when the passage has begun (354) eÈfhme›n xrØ kéj¤stasyai . . . ˜stiw ktl. . . . and is then rounded off with toÊtoiw aÈd« . . . §j¤stasyai, no one is likely to be puzzled by épaud« . . . moreover, if we make a slight pause after aÈd« and again after the second épaud«, we can give kaÔyiw . . . épaud« a parenthetical character.” This is partially correct, but not the whole solution. To understand the sense of this passage it is essential to recognize two rhetorical devices which have been generally ignored. First, (1) aÈd«, (2) kaÔyiw épaud«, (3) kaÔyiw tÚ tr¤ton mãlÉ épaud« clearly constitute a tricolon ‘with expanding members’, the second unit being larger than the first and the third larger than the second. See Fraenkel on Aesch. Ag. 1243.34 This alone would 34) Eduard Fraenkel, Aeschylus: Agamemnon (Oxford 1982).
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suggest that aÈd« and épaud« have here complementary, not contradictory senses. The explicit statement in the third member, kaÔyiw tÚ tr¤ton malÉ, makes it certain. Whatever the meaning of épaud« here, it must harmonize with aÈd«. Furthermore, Dover’s suggestion that kaÔyiw . . . épaud« is a parenthesis seems excluded once this tricolon is recognized. tÚ tr¤ton in particular proves that we are dealing with a tricolon, and no parenthesis. Secondly, we seem to have another figure here, namely the ‘correction’ of a s i m p l e x verb by a following c o m p o u n d , which is more emphatic and serves as a ‘corrective intensifier’. This is the function of épaud« after aÈd« here. See my Studies in Greek Texts, 22–27.35 Whether épaud« here has its usual sense of ‘forbid’ or the preverb is exclusively intensive (see LSJ s. v. épÒ D. 4) is to some extent a non-question, since aÈd« itself is sometimes used as a verb of ‘forbidding’, as in Aesch. Th. 1042–43: – aÈd« pÒlin se mØ biãzesyai tãde. – aÈd« se mØ perisså khrÊssein §mo¤. Note that the mÆ negatives here are mandatory for the sense; they are not instances of the so-called ‘redundant’ or ‘sympathetic’ negative found with many verbs, including épaud«. Such negatives are frequent, but optional. (Some commentators have gotten confused on this question.) Reflect that §j¤stasyai is equivalent in sense to mØ §mpodΔn e‰nai; this suggests that we have in this sentence a loose sense construction. Sommerstein’s version captures the force of the Greek admirably: “To these I proclaim, and again I proclaim the ban, and again a third time do I proclaim the ban, that they stand out of the way of the initiates’ dances . . .”. Ran. 383–84: êge nËn •t°ran Ïmnvn fid°an tØn karpofÒron bas¤leian, DÆmhtra yeãn, §pikosmoËntew zay°aiw molpa›w kelade›te.
35) R. Renehan, Studies in Greek Texts (Göttingen 1976).
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Commentators are often curiously silent on the syntax of this elaborate sentence, or else offer questionable explanations. Thus W. W. Merry:36 “Perhaps we might take fid°an as an adverbial accusative, ‘by way of a different kind of hymn,’ so as to leave bas¤leian as object to kelade›te: but it is simpler to take it with §pikosmoËntew.” Van Leeuwen similarly interprets kelade›te as governing fid°an and §pikosmoËntew as governing bas¤leian. Most recently Dover and Sommerstein are silent on the syntax in their commentaries, although the latter’s version (sc. “. . . honor in another form of song the Queen who makes the land fruitful, the goddess Demeter, and hymn her in holy melodies”) suggests that he takes bas¤leian with both kelade›te and §pikosmoËntew (an épÚ koinoË construction), with •t°ran Ïmnvn fid°an apparently functioning as an adverbial accusative with §pikosmoËntew. Henderson’s version also implies an épÚ koinoË construction for bas¤leian and an adverbial use of the fid°an-phrase (rendered “in another form of song” exactly as in Sommerstein’s version) although, conversely, he takes it with kelade›te rather than with §pikosmoËntew (“. . . celebrate in another form of song the queen . . . adorning her with holy hymns”). The root cause of all this confusion seems clear. There appear to be two candidates, mutually exclusive, competing for the honor of being the direct object of kelade›te, namely the accusativus rei fid°an and the accusativus personae bas¤leian. Only one is wanted. One solution, as we have seen, is to govern fid°an by kelade›te and to take bas¤leian only with the participle §pikosmoËntew. But the full phrase, tØn karpofÒron bas¤leian, / DÆmhtra yeãn, is so central and emphatic that it seems rhetorically undesirable to subordinate it so. The other solution is to take •t°ran Ïmnvn fid°an ‘adverbially’ here, thus leaving kelade›te free to govern bas¤leian. But the adverbial accusative assumed on this interpretation seems in context artificial, not to say odd. There is a way out of this dilemma. In my Studies in Greek Texts (Göttingen 1976) 50–54I examined a well-attested poetic construction. To quote what I wrote then (51): “It is not uncommon, especially in elevated language, for a periphrasis, consisting of a verb and direct object, itself to be regarded as equivalent to a transitive verb and govern in turn an additional accusative.” To put it simply, just as, for instance, 36) W. W. Merry, Aristophanes: The Frogs (Oxford 1887).
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Ímne›te or õdete may govern a direct object (m∞nin êeide) or cognate accusative, so also such combinations as Ímne›te / õdete Ïmnouw may themselves be felt as transitive verbs and govern a second accusative (= ‘sing songs i n h o n o r o f / a b o u t ’). For abundant examples see op. cit. 51–53. (This passage of the Ranae is discussed on 52.) Such is the construction here. •t°ran Ïmnvn fid°an . . . kelade›te go closely together (observe that the first words of v. 384, êge nËn, go with the last word of v. 385, kelade›te) and Ïmnvn fid°an is a ‘cognate’ accusative with kelade›te. Then the resultant periphrasis is equivalent to a transitive verb which itself governs bas¤leian as a direct object. §pikosmoËntew also governs bas¤leian in an épÚ koinoË construction. The following translation (repeated from my 1976 book) will illustrate the syntax of the whole sentence: “Come now, sound aloud with holy songs another form of hymns a b o u t the fruitful queen, goddess Demeter, thereby giving honor unto her.” Ran. 508: kãllistÉ, §pain«. Commentators on Aristophanes regularly describe this phrase as an expression of “polite refusal”. Compare, for example, van Leeuwen (detailed discussion), Radermacher, Stanford, and Sommerstein (“a formula for politely declining an offer or invitation [cf. 512, 888, Plut. Mor. 22F–23A]”) ad loc. Similarly also commentators to other authors; note especially A. S. F. Gow on Theocritus 15. 3. 37 See also LSJ s.vv. §pain°v III and kalÒw C. 6 and the scholia to this passage. While this and similar expressions do indeed occur in such contexts, the situation is somewhat more complex. Dover, in his concise remarks on this verse states: “kãllistÉ, §pain«: formula of gratitude used equally in accepting and declining; cf. Xen. Smp. 1.7 §painoËntew tØn kl∞sin oÈx ÍpisxnoËnto sundeipnÆsein, ‘while thanking him for his invitation, they didn’t commit themselves to having dinner with him’.” Dover is certainly correct in stating that such language was used both “in accepting and declining” (although, curiously, the only parallel he cites is, like the Ranae passage itself, a case of declining). The surprising 37) A. S. F. Gow, Theocritus (Cambridge 1965).
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thing is only that neither Dover nor Sommerstein (the commentators recent enough to be in a position to do so) cite J. H. Quincey, Greek Expressions of Thanks, JHS 86 (1966) 133–158, an article with copious illustrations of the various formulae for accepting and declining and precise – sometimes too precise – indications of the differences of meaning and usage among them. This is the standard discussion of this topic. Ran. 948: ¶peitÉ épÚ t«n pr≈tvn §p«n oÈd°na par∞kÉ ín érgÒn There is a minor puzzle here. Not a few editors print the Greek as above, while regularly reporting oÈd°na as Lenting’s conjecture for the MS reading oÈd°n. They also report par∞kÉ ín oÈd°nÉ as Blaydes’ conjecture (based on Lenting’s oÈd°na par∞kÉ ín). Coulon in the Budé edition (1954) prints oÈd¢n and reports no conjectures, understandable in a conservative text. Hall and Geldart’s Oxford edition (21907) had already done the same thing. Stanford (21962) printed oÈd°na par∞kÉ ín, observing in his note ad loc.: “I have adopted (with Blaydes) Lenting’s emendation of oÈd¢n in the MSS. here.” This remark is either careless or confused; he should have merely stated that he had adopted Lenting’s conjecture, for that is what he did. Blaydes took Lenting’s conjecture a step further and Stanford did not follow him in this although his note seems to imply that he did. Sommerstein (1996, which is to say, writing after Dover) printed oÈd°na par∞kÉ ín. I give his app. crit. entry for clarity’s sake: oÈd°na par∞kÉ ín Lenting : oÈd¢n par∞kÉ ín codd. : par∞kÉ ín oÈd°nÉ Blaydes.
The situation thus seems clear: the MSS have oÈd¢n, which some conservative editors retain. Most, however, adopt Lenting’s conjecture oÈd°na pro oÈd¢n or Blaydes’ refinement of it. (For the latter see van Leeuwen’s edition [1896] or Henderson’s [2002].) So far so good. But Dover (1993), while printing oÈd°na par∞kÉ ín with most modern editors, gives no indication in his app. crit. that oÈd°na is a conjecture or that oÈd¢n is the reading of the MSS. One hesitates to pronounce so careful a scholar in error here, especially without having inspected the MSS oneself, but either he is silently
Some Passages in Aristophanes
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correcting his predecessors, based on his own autopsy, or he has in fact made a minor slip. A cautionary tale either way. Ran. 1245: épole›w: §re› går \lhkÊyion ép≈lesen^. épole›w : épole› sÉ v. l.
Either épole›w or épole› sÉ will make sense here. Editors generally, and rightly, prefer the absolute épole›w. For other instances of this idiom see, for example, Dover on this passage and Seaford on Eur. Cyc. 558.38 (Note that the fuller form with object expressed is also correct usage.) Here I add only that lup°v shows a similar idiom: Soph. Ant. 1084 lupe›w gãr; Ai. 589 êgan ge lupe›w; OT 1231. For further discussion see R. Renehan, The New Oxford Sophocles, CP 87 (1992) 347. Ran. 1261: pãnu ge m°lh yaumastã: de¤jei dØ tãxa. Dover ad loc.: “de¤jei: most commonly with aÈtÒ as subject, (‘the event itself’), but in Vesp. 994 the question ‘How has the trial gone?’ is answered by de¤jein ¶oiken as Bdelykleon empties the voting-urns, and cf. Dem. ii.20 doke› dÉ ¶moige . . . de¤jein oÈk efiw makrãn ‘it seems to me we shan’t have long to wait for the answer’.” More could have been said and, perhaps, more clearly. Briefly, all three passages cited above are part and parcel of one and the same basic idiom. (It is not quite clear to me whether and, if so, to what extent Dover regards de¤jei and aÈtÚ de¤jei as distinct idioms. His paraphrase of Dem. 2.20 sheds no light on this.) As far as the subject goes, the expression is found (1) in the full form, aÈtÚ tÚ ¶rgon de¤jei, res ipsa demonstrabit, (2) with the noun omitted, aÈtÚ de¤jei, (3) with the aÈtÒ omitted, tÚ ¶rgon de¤jei, and (4) with no subject at all expressed, de¤jei. (Van Leeuwen ad Ran. 1261: “. . . de¤jei: subiectum hic et Vesp. 994 mente supplendum est toÎrgon . . .”) Other substantives also occur as subject (tÚ prãgma and tå prãgmata, tå pepragm°na) as well as tå ¶rga, plural. Even aÈtã, 38) Richard Seaford, Euripides: Cyclops (Oxford 1984).
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plural with no noun expressed, is found. One might infer from Dover’s note that the idiom is confined to one verb and one tense, which is hardly the case. dhloËn, e. g., is common ([Dem.] 35.17 …w aÈtÚ tÚ ¶rgon §dÆlvsen); didãskein and boçn (Dem. 19.81 tå pepragm°nÉ aÈtå boò) are also found. For instances with shma¤nein see D. J. Mastronarde’s note on Eur. Phoen. 623. For copious references to, and illustrations of, the various changes that are rung on this widespread idiom see R. Renehan, Aristotelian Explications and Emendations. II, CP 91 (1996) 239–41. Santa Barbara, Calif.
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CHRYSIPP UND DIE APOKATASTASIS Beobachtungen zu Text, Zusammenhang, Überlieferungsgeschichte und Rezeption von SVF II 623 (= Lact. inst. 7,23,3) Bei von Arnim (SVF II 623), Long/Sedley (Fragment 52 B) und Dufour (Fragment 626) findet sich wortgleich folgendes Chrysipp-Fragment:1 Melius Chrysippus quem Cicero ait fulcire porticum Stoicorum, qui in libris quos de providentia scripsit, cum de innovatione mundi loqueretur, haec intulit: toÊtou dÉ oÏtvw ¶xontow, d∞lon …w oÈd¢n édÊnaton, ka‹ ≤mçw metå tÚ teleut∞sai pãlin periÒdvn tin«n efilhmm°nvn xrÒnou efiw ˘ nËn §smen katastÆsesyai sx∞ma.
Das Zitat gehört in die stoische Lehre über den ewigen Zyklus von Weltenbrand (§kpÊrvsiw) und Wiederherstellung (paliggenes¤a oder épokatãstasiw) jeweils identischer Welten.2 Überliefert ist 1) H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta. Volumen II: Chrysippi fragmenta logica et physica, Leipzig 1903, 189; A. A. Long/D. N. Sedley, The Hellenistic Philosophers. Volume II: Greek and Latin texts with notes and bibliography, Cambridge 1987, 306; Chrysippe, Œuvre philosophique. Textes traduits et commentés par R. Dufour, Paris 2004, II 88 f. Die Interpunktion bei von Arnim ist die folgend abgedruckte, bei Long/Sedley fehlen die Kommata nach loqueretur und nach édÊnaton. 2) Weitere wichtige Zeugnisse für die épokatãstasiw-Lehre sind Alex. Aphr. in APr. p. 180,33 ff. (= SVF II 624); Nemes. nat. hom. 38,309,5 ff. (= SVF II 625); Orig. Cels. 4,68 (= SVF II 626); Eus. Pr. Ev. 15,19,2 (= SVF II 599). Vgl. beispielsweise M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Göttingen 1948, I 79–81; G. Ladner, ‚Erneuerung‘, Reallexikon für Antike und Christentum 6 (1966) 240–275, hier 241 f.; G. Bien/H. Schwabl, ‚Apokatastasis‘, Historisches Wörterbuch der Philosophie 1 (1971) 440 f.; J. B. Gould, The Philosophy of Chrysippus, Leiden 1971, 123–125; J. Barnes, La doctrine du retour éternel, in: J. Brunschwig (Hrsg.), Les Stoïciens et leur logique. Actes du colloque de Chantilly, Paris 1978, 3–20; R. Sorabji, Necessity, Cause, and Blame. Perspectives on Aristotle’s Theory, Ithaca/London 1980, 65 f.; ders., Time, Creation and the Continuum, London 1983, 183–190; A. A. Long, The Stoics on World-conflagration, The Southern Journal of Philosophy 23 (1985), Supplement, 13–37; A. A. Long/D. N. Sedley, Die hellenistischen Philosophen. Texte und Kommentare. Übersetzt von K. Hülser, Stuttgart/Weimar 2000 (Original: The Hellenistic Philosophers. Volume
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es nur in den zwischen 303 und 311 n. Chr. entstandenen Divinae institutiones des Laktanz (7,23,3).3 Laktanz belegt mit diesem Zitat die Auferstehung des Leibes: Chrysipps Wiederherstellung des Menschen gebe diese Wahrheit ‚besser‘ wieder als die vorher zusammengefasste Seelenwanderungslehre des Pythagoras. An dieser Stelle soll ein nochmaliger Blick auf den Überlieferungszusammenhang, das heißt auf den Text und den Zusammenhang bei Laktanz, zu einem vertieften Verständnis des Chrysipp-Fragmentes beitragen. Denn dabei ergeben sich erstens Änderungen im Wortlaut gegenüber der eingangs zitierten Fassung aus den Fragmentsammlungen, zweitens Rückschlüsse aus dem Wortlaut des Fragments auf dessen ursprünglichen Zusammenhang, drittens Erkenntnisse zu dessen Überlieferungsgeschichte und viertens ein Einblick in die christliche Benutzung des Chrysipp-Zeugnisses bei Laktanz. I Die Fassung des griechischen Zitates, die von Arnim und Long/Sedley wiedergeben, entspricht nicht dem Befund der Handschriften, die für die Konstitution des Laktanztextes heranzuziehen sind.4 Offensichtlich hat von Arnim eine veraltete AusI: Translations of the principal sources and philosophical commentary, Cambridge 1987), 370–373; P. Steinmetz, Die Stoa, in: Grundriss der Geschichte der Philosophie, begründet von F. Überweg, völlig neubearbeitete Ausgabe: H. Flashar (Hrsg.), Die Philosophie der Antike. 4/2: Die hellenistische Philosophie, Basel 1994, 491–716, hier 538; D. Furley, Cosmology, in: K. L. Algra et al. (Hrsg.), The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, 412–451, hier 434–441; M. J. White, Stoic Natural Philosophy (Physics and Cosmology), in: B. Inwood (Hrsg.), The Cambridge Companion to the Stoics, Cambridge 2003, 124–152, hier 141 f. 3) Text: L. Caeli Firmiani Lactanti opera omnia. I: Divinae institutiones et epitome divinarum institutionum, recensuit S. Brandt, Prag/Wien/Leipzig 1890 (CSEL 19); grundlegend zu Autor und Werk A. Wlosok, in: R. Herzog/P. L. Schmidt (Hrsg.), Handbuch der lateinischen Literatur der Antike. V: Restauration und Erneuerung, München 1989, § 570. 4) Dazu Brandt (wie Anm. 3) XIII–LXXIV; die Recensio klärt E. Heck, Die dualistischen Zusätze und die Kaiseranreden bei Lactantius. Untersuchungen zur Textgeschichte der Divinae institutiones und der Schrift De opificio dei, Heidelberg 1972, 201 f., und ders., Gnomon 64 (1992) 592–600, hier 594. Es handelt sich an dieser Stelle um die bereits von Brandt (wie Anm. 3) berücksichtigten Codices B, P, H und S, hinzu kommen die Brandt nicht zugänglichen Handschriften D und M, zu
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gabe, jedenfalls nicht die 1890 erschienene, noch immer nicht vollständig ersetzte von Brandt verwendet.5 Aus der Überlieferung lässt sich mit großer Sicherheit – abgesehen von einer im Anschluss zu erörternden Ausnahme – der folgende Text für die Worte des Chrysipp gewinnen: toÊtou dÉ oÏtvw ¶xontow d∞lon, …w oÈd¢n édÊnaton, ka‹ ≤mçw metå tÚ teleut∞sai pãlin periÒdƒ tin‹ xrÒnou6 efiw toËto <§n> ⁄ nËn §smen épokatast∞nai sx∞ma. Da dem so ist, ist offensichtlich, dass es keineswegs unmöglich ist, dass auch wir,7 nach unserem Tod, nach einem gewissen Zeitumlauf wieder in diejenige Gestalt, in der wir nun sind, zurückversetzt werden.
Eine textkritische Schwierigkeit liegt in der Einleitung des Relativsatzes: Nach dem Befund der Handschriften, die häufig o und v diesen Heck (1992) 594. – Herrn Prof. Dr. Eberhard Heck, Tübingen, danke ich sehr herzlich für die großzügig gewährte Möglichkeit, unter seiner kundigen Anleitung Einsicht in die Kollationen zu den Divinae institutiones zu nehmen, die angefertigt wurden für die demnächst erscheinende Teubneriana von Herrn Prof. Dr. Eberhard Heck und Frau Prof. Dr. Antonie Wlosok. 5) Vgl. Brandt (wie Anm. 3), hier 656. Der bei von Arnim wiedergegebene Text (von Gercke, wie unten Anm. 23, übernommen?; jedenfalls stimmt der Wortlaut überein) entspricht unter den mir zugänglichen Ausgaben demjenigen von J. Tornaesius, Lyon 1579 (u. ö.); wiederum jeweils einen anderen Text bieten die Ausgaben von C. A. Heumann, Göttingen 1736, J. L. Bünemann, Halle 1739, O. F. Fritzsche, Leipzig 1842, und J.-P. Migne (nach N. Lenglet-Dufresnoy), Paris 1844, deren Benutzung man für von Arnim hätte annehmen können. 6) Der Codex Bononiensis (dazu Brandt [wie Anm. 3] XIII–XXVI, und R. W. Hunt, The Mediaeval Home of the Bologna Manuscript of Lactantius, M&H 14 [1962] 3–6) bietet Ïsteron statt periÒdƒ tin‹ xrÒnou. Darin wird man aber keine erwägenswerte varia lectio, sondern eine selbständige Glättung durch den Schreiber sehen. 7) Syntaktisch kaum haltbar ist die von H. A. Wolfson, Immortality and Resurrection in the Philosophy of the Church Fathers, in: ders., Religious Philosophy. A Group of Essays, Cambridge/Mass. 1961, 69–103, hier 99, gegebene Übersetzung „[. . .] it is evident that nothing is impossible (oÈd¢n édÊnaton), and that we [. . .]“, seine auf dem Gedanken ‚nichts ist unmöglich‘ basierende Interpretation (99 f.) damit hinfällig: Die gleichzeitige Abhängigkeit eines elliptischen …w-Satzes und eines mit ka¤ parallel angeschlossenen AcI von d∞lon ist unwahrscheinlich, die Verwendung von oÈd°n als starke Negation hingegen sehr gebräuchlich, vgl. Liddell/Scott/ Jones s. v. oÈde¤w III. Auch gedanklich befremdet, was Wolfson für Chrysipp voraussetzt: Aus demselben Sachverhalt müsste dieser sowohl den Gemeinplatz gefolgert haben, dass – offensichtlich – nichts unmöglich sei, als auch die spezifische Aussage, dass – gleichermaßen offensichtlich – der Mensch nach dem Tod in seine derzeitige Gestalt zurückversetzt werde.
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verwechseln,8 kommen ˜ oder ⁄ als Form des Relativpronomens in Frage. Beide Lösungen führen aber zu einem unverständlichen Text, in dem von einer Rückversetzung „in diejenige Gestalt9, die wir jetzt sind“ (˜) oder „(zu) der wir jetzt gehören“10 (⁄), die Rede wäre. Die nahe liegende Ergänzung11 von §n ergibt hingegen einen gut verständlichen Sinn, nämlich die Rückversetzung „in diejenige Gestalt, in der wir jetzt sind“, und führt zu dem in dieser Form belegten Ausdruck „in einer bestimmten Gestalt (§n sxÆmati mit näherer Bestimmung) sein“12. Gegenüber der bei von Arnim und Long/Sedley abgedruckten Textfassung sind also drei Änderungen festzuhalten: Erstens erscheint die temporale Umstandsangabe periÒdƒ tin‹ xrÒnou im prosekutiven Dativ13 statt des merkwürdigen periÒdvn tin«n efilhmm°nvn xrÒnou14. Zweitens tritt das Demonstrativum toËto hinzu und rückt den Relativsatz in eine geschlossene Wortstellung. Drittens lautet das Verb für die Wiederherstellung épokatast∞nai. 8) B, D und S haben O, P hat V. Doch besagt dieser Befund nichts: So bietet beispielsweise Lact. inst. 7,18,6 (Zitat or. Sib. 5,107) B MAKARON für makãrvn, D EYELON für §y°lvn, 7,24,12 (Zitat or. Sib. 3,790) S LEON für l°vn, während umgekehrt P in unserem Chrysipp-Zitat PERIVLV für periÒdƒ hat. H und M transliterieren hier wie stets, ihr ‚o‘ ist daher keiner der beiden Möglichkeiten eindeutig zuzurechnen. 9) Auf die genaue Bedeutung ist unter Punkt II noch einzugehen. 10) Oder auch: ‚durch/für die wir jetzt sind‘. 11) Nach C. L. Struwe, Opuscula Selecta, Leipzig 1854, 158, lässt sich die Konjektur bis zur Ausgabe Venedig 1494 („Lactantii Firmiani de divinis institutionibus libri VII. [. . .] cura et expensis [. . .] Dominici Octaviani Scoti Modoetiensis“) zurückverfolgen. 12) Vgl. Hp. fract. 3 énalambanom°nh d¢ ≤ xe‹r §n paraplhs¤ƒ sxÆmati ¶stai; Ar. Did. 27 (462,15 Diels Doxographi Graeci = Poseidon. frg. 267 Theiler) ée‹ dÉ ¶n tini sxÆmati ka‹ poiÒthti e‰nai; Strabo 7 frg. 9 (R. Balladié, Strabon, Géographie livre VII, Paris 1989, 154) sx∞ma parallhlÒgramon, §n ⁄ ≤ sÊmpasa Makedon¤a §st¤n. 13) Vgl. Schwyzer, Griechische Grammatik II 162 f. 14) Genaue Bedeutung und Zustandekommen des Ausdrucks sind unklar: Die ungewöhnliche Formulierung lambãnontai per¤odoi wäre mit medialem lambãnoma¤ tinow (Liddell/Scott/Jones s. v. lambãnv B.1; vgl. Plat. Tim. 44b pãlin d¢ afl per¤odoi lambanÒmenai galÆnhw) als „nachdem einige Umläufe Zeit in Anspruch genommen haben“ irgendwie nachvollziehbar; Dufour (wie Anm. 1) übersetzt: „si l’on admet l’existence de certains cycles temporels“. Das Zustandekommen des Ausdrucks periÒdvn tin«n efilhmm°nvn xrÒnou erklärt Brandt (wie Anm. 3) 656 als (späte) Rückübertragung von spatiis quibusdam temporum revolutis – so nämlich gibt die lateinische Übersetzung, die zu allen Graeca in den Handschriften B und P enthalten ist, periÒdƒ tin‹ xrÒnou wieder. Freilich bleibt rätselhaft, warum jemand diese merkwürdige Rückübersetzung ins Griechische vornimmt.
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II An den somit korrigierten Wortlaut des Chrysipp-Zitates lassen sich einige Überlegungen zu dessen ursprünglichem Zusammenhang anknüpfen: Die Einleitung mit toÊtou dÉ oÏtvw ¶xontow zeigt, dass auf eine vorhergehende Darlegung Bezug genommen wird15. Dabei wird nun etwas vorher Ausgeführtes auf den Menschen übertragen: ka‹ ≤mçw. Über das Vorausgehende lassen sich wenigstens allgemeine Mutmaßungen anstellen: Neu ist offensichtlich die Übertragung auf den Menschen. Die dabei übertragenen Aspekte von Vergehen und Erneuerung (im alten sx∞ma) hingegen müssen bereits eingeführt sein. Die hier erfolgende Übertragung könnte in einem deduktiven (etwa: ‚der ganze Kosmos erfährt Untergang und Wiederherstellung, so auch der Mensch als dessen Teil‘) oder exemplarisch-induktiven (‚wie bekanntermaßen etwas anderes wiederhergestellt werden kann, so auch der Mensch‘) Gedankengang stehen. Besser zu letzterer Möglichkeit passt, dass Chrysipp von der Möglichkeit spricht (oÈk édÊnaton). Das auf den Menschen bezogene teleut∞sai lässt an den individuellen Tod denken. PeriÒdƒ tin‹ xrÒnou bezeichnet den Ablauf einer ausdrücklich unbestimmt gelassenen Zeitspanne nach diesem individuellen Tod.16 Dabei steht per¤odow nicht, wie sonst oft,17 technisch für den Zyklus von Weltenbrand und Wiederherstellung, sondern nur für einen Zeitabschnitt. Nach diesem, so lautet die Kernaussage in der Äußerung Chrysipps, werde eine wiederherstellende Rückversetzung18 in das derzeitige sx∞ma erfolgen. Mit sx∞ma könnte entweder, wie in Platons Phaidon, in blassem Gebrauch des Wortes lediglich der Zustand des Lebendigseins19 15) Falsch ist die bei Dufour (wie Anm. 1) gegebene Übersetzung „commence ainsi“ für haec intulit. Der Ausdruck bedeutet vielmehr „führte Folgendes an“ (vgl. ThLL VII,1, 1382,23 ff.) und sagt nichts über die Stellung des zitierten Textes in der Vorlage. 16) Zu diesem Sprachgebrauch vgl. Them. in Ph. 5,2 (164,3); Thdt. h. rel. 26,12; Jo. Philo. in Arist. GC 14,2 (314,11); Simp. in Cael. 94,4 (= DK 22A 10). 17) Liddell/Scott/Jones s. v. per¤odow IV. 2. 18) Zu épokay¤stasyai e‡w ti vgl. etwa Hp. morb. 7,1,46; Arist. Cat. 13 toËto [. . .] efiw tØn §nant¤an ßjin épokay¤sthsin, Metaph. 1074a; Nemes. nat. hom. 38,309,5 ff. (= SVF II 625) pãlin §j Íparx∞w efiw tÚ aÈtÚ tÚn kÒsmon épokay¤stasyai; Eus. Pr. Ev. 15,19,2 (= SVF II 599). 19) Im Beweis für die Unsterblichkeit der Seele aus der Notwendigkeit zyklischer Erneuerung, Phaid. 72b und insbesondere 72c: ka‹ efi époynπskoi m¢n pãn-
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oder im vollen Sinn die individuelle Erscheinungsform mit ihren physischen (‚Gestalt‘), psychologischen (‚Haltung‘) oder sozialen (‚Rolle‘) Implikationen20 gemeint sein. Die gewichtige Sperrung (efiw toËto <§n> ⁄ nËn §smen [. . .] sx∞ma) und die Endstellung sprechen dafür, dass sx∞ma hier mit semantischem Eigengewicht, also im letztgenannten Sinn verwendet wird und als wichtiges Stichwort fungiert, dass somit von Rückversetzung nicht nur ins irgendwie Lebendigsein, sondern in die konkrete und individuelle Erscheinungsform, in der sich das Individuum befindet (<§n> ⁄ nËn §smen), die Rede ist. Als Zusammenhang gibt Laktanz an: cum de innovatione mundi loqueretur. Das von Laktanz nur hier verwendete Wort innovatio ist eine erst ab Tertullian belegte Bildung und wird als philosophischer Terminus ansonsten in Zusammenhang mit der zyklischen Wiederherstellung im platonischen Denken gebraucht.21 Der Ausdruck innovatio mundi entspricht also der épokatãstasiw toË pantÒw.22 Diese spezifische Terminologie und die Unmöglichkeit, das Stichwort innovatio mundi sekundär aus dem Wortlaut des Zitates abzuleiten, sind Indizien für eine Themenangabe, die aus tatsächlicher Kenntnis des Zusammenhangs formuliert ist. Erst aufgrund dieser Angabe kann man das Fragment in den Zusammenhang der zyklischen Abfolge von Weltenbrand und Wiederherstellung einordnen. Dass dieser Themenbereich in Chrysipps Schrift per‹ prono¤aw, auf die Laktanz das Zitat zuta ˜sa toË z∞n metalãboi, §peidØ d¢ époyãnoi, m°noi §n toÊtƒ t“ sxÆmati tå teyne«ta ka‹ mØ pãlin énabi≈skoito, îrÉ oÈ pollØ énãgkh teleut«nta pãnta teynãnai ka‹ mhd¢n z∞n; 20) Vgl. Liddell/Scott/Jones s. v. sx∞ma 1; 2; 5. – Als dritte Möglichkeit neben ‚Zustand‘ und ‚Haltung/Gestalt‘ könnte man zunächst ‚Haltung‘ im Sinn von ‚Pose‘ erwägen (vgl. Xen. Cyr. 5,1,5 §n tapein“ sxÆmati •sthku›a). Gemeint wäre dann eine Rückversetzung in die konkrete Kommunikationssituation und deren Wiederholung. Das würde aber eine Bestimmtheit eben dieser Kommunikationssituation voraussetzen, also einen Dialog oder wenigstens eine Widmung, die Haltung von Sprecher und Hörer bzw. Leser festlegen. 21) Ps. Apul. Ascl. 30; Arnob. nat. 1,8,7 (Wiedergabe Platons nach Tim. 22c ff., den Aspekt einer ‚Erneuerung‘ fügt bereits Orig. Cels. 4,20 hinzu, vgl. H. Le Bonniec, Arnobe, Contre les gentils. Livre I, Paris 1982, z.St. 224 f.) humani generis subversionem . . . rerum innovationem vocare; Chalc. comm. 118 gleichgesetzt mit recreationem et quasi novellam viriditatem; vgl. ThLL VII,1 1715,47 ff. 22) So etwa Nemes. nat. hom. 38,309,5 ff. (= SVF II 625); Eus. Pr. Ev. 15,19,2 (= SVF II 599).
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rückführt,23 tatsächlich zur Sprache kam, deuten weitere Fragmente24 an. Diese überliefert Plutarch kurz hintereinander in de Stoicorum repugnantiis und weist sie dem ersten Buch von Chrysipps per‹ prono¤aw zu: Im ersten Fragment ist die Rede von der Ausdehnung der Weltseele bis zur völligen Absorption des Kosmos; dieser sterbe nicht, da er sich nicht von seiner Seele trenne.25 Als Widerspruch dazu zitiert Plutarch eine Äußerung Chrysipps über die Autarkie des sich aus sich selbst ernährenden Kosmos.26 Das dritte Zeugnis spricht von der Veränderung des Kosmos bei der §kpÊrvsiw: Wenn der gesamte Kosmos im feurigen Zustand sei, falle er mit seiner Seele in eins; wenn der Kosmos dann aber seine wässrige Gestalt erlange, stünden sich Leib und Seele des Kosmos wieder gegenüber.27 Es steht also fest, dass Chrysipp im ersten Buch den Themenbereich von §kpÊrvsiw und épokatãstasiw in kosmologischem Zusammenhang erörtert haben muss. Mit aller Vorsicht wird man daher aufgrund seiner Einordnung de innovatione mundi die Rückführung unseres Fragments auf das erste Buch erwägen.28 23) Zum Inhalt dieser Schrift und zur Problematik seiner Erschließung A. Gercke, Chrysippea, Diss. Leipzig 1885, hier 17 ff. (auch NJPhP 14 [1885] 689– 755, hier 704–714); E. Brehier, Chrysippe et l’ancien Stoïcisme, Paris 21951, 42–45, mit berechtigter Zurückhaltung Steinmetz (wie Anm. 2) 590. 24) Die Erwähnungen des Werkes sind zusammengestellt bei K. Hülser, Die Fragmente zur Dialektik der Stoiker. Neue Sammlung der Texte mit deutscher Übersetzung und Kommentaren, Stuttgart I 1987, Fragment 196, die dem Werk zugewiesenen Chrysipp-Fragmente bei H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta. Volumen III: Chrysippi fragmenta moralia, fragmenta sucessorum Chrysippi, Leipzig 1903, 203. Neben den im Folgenden auszuführenden Fragmenten aus Plutarch sind ebenfalls zwei Fragmente über die Beseelung des Kosmos bei Diogenes Laertios, 7,142 f. (= SVF II 633); 7,139 (= SVF II 644) – ähnlich ohne Buchzuweisung 7,138 (= SVF II 634) – für das erste Buch belegt. Drei dem vierten Buch zugeschriebene Fragmente über die eflmarm°nh bewahrt Gellius, 7,2,3 (= SVF II 1000); 7,1,2–6 (= SVF II 1169, zitiert Lact. epit. 24,5); 7,1,7 (= SVF II 1170). Ohne Buchangabe sind zwei Fragmente über Götter, Phld. Piet. 15 (ed. T. Gomperz, Philodem, Über die Frömmigkeit, Leipzig 1866, 82; der Schrift abgesprochen von D. Obbink, Philodemus, On Piety, Oxford 1996, 56 f.) (= SVF II 1023) und Plut. comm. not. 31 p. 1075a (= SVF II 1049), eines über die Sterne, Achilles, Isagoge 13 p. 133 in Petav. Uranol. (= SVF II 687). 25) Plut. Stoic. repugn. 39 p. 1052c (= SVF II 604). 26) Plut. Stoic. repugn. 39 p. 1052cd (= SVF II 604). 27) Plut. Stoic. repugn. 41 p. 1053b (= SVF II 605); im Einzelnen ist der Text schwer verständlich, vgl. M. Pohlenz/R. Westman, Plutarchus, Moralia VI,2, Stuttgart 1958, 48 f., und H. Cherniss, Plutarch’s Moralia XIII,2, Cambridge (Mass.)/ London 1976, 572 f. 28) So auch schon Gercke (wie Anm. 23) Diss. 20; NJPhP 706.
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Freilich ist auf wichtige Besonderheiten der bei Laktanz überlieferten Chrysipp-Worte hinzuweisen, die insbesondere im Vergleich mit den bei Plutarch erhaltenen Fragmenten deutlich werden: In unserem Fragment ist vom individuellen Tod (teleut∞sai), nicht vom Weltenbrand, und von der Wiederherstellung der Menschen (≤mçw), nicht des ganzen Kosmos die Rede. Der Interessenschwerpunkt liegt also nicht, wie in den von Plutarch bewahrten Fragmenten, auf der Kosmologie, sondern auf dem Schicksal des Individuums. Auch die Art der Gedankenführung scheint sich zu unterscheiden: In den Zitaten bei Plutarch wird in sachlich-abstrakter Fachterminologie ein Lehrgebäude dargestellt. In unserem Textausschnitt hingegen spricht Chrysipp den Leser (‚wir‘) und seine individuellen Belange (den Tod und, was danach kommt) an, er scheint induktiv zu argumentieren und Gedanken hinführend zu entwickeln, wie das vorsichtige oÈk édÊnaton, die Übertragung ka‹ ≤mçw und der terminologisch wie inhaltlich lockere Ausdruck periÒdƒ tin¤ nahe legen. Es zeigt sich also, welch breites inhaltliches wie formal-argumentatives Spektrum Chrysipp in seiner Schrift per‹ prono¤aw abgedeckt haben muss: Kosmologische Ausführungen müssen ebenso enthalten gewesen sein wie die räsonierende Frage nach dem Schicksal des Einzelnen, dogmatische Darstellung ebenso wie entwickelnde Argumentation. III Als Quelle seines Chrysipp-Zitates gibt Laktanz an: in libris quos de providentia scripsit. Laktanz zitiert aus per‹ prono¤aw noch an einer anderen Stelle,29 nämlich in der Epitome divinarum institutionum (24,6), einer ungefähr zwischen 315 und 320 entstandenen Kurzfassung und Neubearbeitung der Divinae institutiones.30 29) Nach R. M. Ogilvie, The Library of Lactantius, Oxford 1978, 82 f., könne das Werk auch an anderen Stellen bei Laktanz einfließen, die bereits von Arnim als Chrysipp-Fragmente aufnimmt, so etwa Lact. inst. 1,1,2 (= SVF II 1109); 2,10,5 (= SVF II 1167); ira 5,1–7 (= SVF II 1120). Allerdings setzt keine dieser Bezugnahmen auf allgemein bekannte stoische Lehre die Benutzung von Chrysipps per‹ prono¤aw voraus. 30) Vgl. Lucius Caelius Firmianus genannt Lactantius, Göttliche Unterweisungen in Kurzform. Eingeleitet, übersetzt und erläutert von E. Heck und G. Schickler, München/Leipzig 2001, zur Datierung 18 f., zum Verhältnis zum Hauptwerk 30–36.
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Allerdings sind die Worte des Chrysipp31 dort ausdrücklich nach Gellius32 und in dessen Übersetzung33 wiedergegeben. Laktanz kennt jenes zweite Zitat aus per‹ prono¤aw also erstens nur durch Gellius und zweitens anscheinend erst bei der Abfassung der Epitome. Denn der Nachtrag eines erst nach Abschluss des Hauptwerkes gefundenen treffenden Beleges erklärt am ehesten, warum Laktanz an dieser Stelle der Epitome ein Zitat hinzufügt, obwohl er ansonsten durch Streichung von Zitaten epitomiert.34 – Daraus ergibt sich, dass Laktanz das hier zu erörternde Chrysipp-Fragment SVF II 623 wahrscheinlich nicht aus eigener Lektüre der Schrift per‹ prono¤aw, sondern aus einer Zwischenquelle kennt. Dazu passt, dass auch die weiteren Bezugnahmen des Laktanz auf Chrysipp aus zweiter Hand, beispielsweise aus Cicero, stammen.35 Nur aus dieser Zwischenquelle kann Laktanz folglich die zum Zitat gehörigen Quellenangaben (Verfasser und Werk) kennen. Aber auch die Einordnung in den Zusammenhang (de innovatione mundi) muss er daraus gewonnen haben. Dafür sind zwei Möglichkeiten denkbar: Zum einen könnte die Zwischenquelle das Zitat in einem so großen und so gearteten Textzusammenhang geboten haben, dass die Wiederherstellung des Kosmos als Thema des gesamten Abschnittes klar wurde und Laktanz auf dieser Grundlage selbst sein Stichwort von der innovatio mundi formulierte. Zum anderen wäre möglich, und das wird man eher annehmen, dass Laktanz neben dem Werktitel auch eine bereits in der Zwischenquelle gebotene Lemma- oder Kontextangabe übernommen hat. Welcher Art diese Zwischenquelle war, lässt sich nur ex negativo abgrenzen: Aus Ciceros Academica konnte Laktanz zwar die Charakterisierung des Chrysipp als „Stütze der stoischen Säu31) Aufgenommen bei von Arnim SVF II 1169. 32) Gell. 7,7,1–6. 33) Lact. epit. 24,5 huius [sc. Chrysippi] sententiam interpretatus est A. Gellius in libris Noctium Atticarum sic dicens: [. . .]. 34) Vgl. Lact. epit. praef. 3; Heck/Schickler (wie Anm. 30) 35. 35) Durch Cicero vermittelt sind die Erwähnung des Chrysipp Lact. inst. 1,5,20 (entsprechend epit. 4,3, nämlich Cic. nat. deor. 1,39; vgl. Min. Fel. 19,10 f.) und ira 10,36 (nach Cic. nat. deor. 2,16; 3,25). Bei Lact. inst. 1,6,9 ist Varro wiedergegeben (Fragment 56a bei B. Cardauns, M. Terentius Varro, Antiquitates Rerum Divinarum, Wiesbaden 1976). Die Nennung Chrysipps in einer Reihe von Selbstmördern Lact. inst. 3,18,5 (entsprechend epit. 34,9) kann auf Allgemeinwissen oder eine Exemplasammlung zurückgehen, begreiflicherweise nicht auf Originallektüre.
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lenhalle“36 übernehmen, unser Zitat fand sich dort aber nicht.37 Überhaupt zitiert Cicero kaum mehr als einzelne Termini im griechischen Original; dass Laktanz das Fragment also durch ein verlorenes Cicero-Werk vermittelt wurde, ist somit wenig wahrscheinlich. Auch eine unbekannte christliche Vorlage, etwa eine Apologie oder eine entsprechende Materialsammlung, wird man nicht annehmen, da Laktanz den Gesamtzusammenhang eigenhändig gestaltet und sicher keine Vorlage ausschreibt.38 Anzunehmen ist also eine wohl pagane, zumindest bezüglich des Zitates, vielleicht ganz griechischsprachige Zwischenquelle. Sie muss den Werktitel per‹ prono¤aw und eine Lemma- oder Kontextangabe geboten haben, die vielleicht das Stichwort épokatãstasiw toË pantÒw enthalten haben könnte. Dass Laktanz den Buchtitel und die Einordnung in den Zusammenhang selbst übersetzt, wäre ohne Schwierigkeit anzunehmen, da er beispielsweise auch den Titel des hermetischen t°leiow lÒgow39 mit sermo perfectus40 wiedergibt. Dass Laktanz aus einem längeren Chrysipp-Zitat nur einen Ausschnitt wiedergibt, ist möglich – und angesichts dessen, dass der zitierte Gedanke ganz genau in seine Argumentation passt, sogar wahrscheinlich. Hingegen widerspräche es seiner sonstigen Praxis, den Wortlaut zu verändern.41 36) Cic. ac. 2,75 Chrysippum, qui fulcire putatur porticum Stoicorum. 37) Zwar kennt Laktanz, wie die Erwähnung eines dritten Buches zeigt (Lact. inst. 6,24,2, vgl. T. J. Hunt, A Textual History of Cicero’s Academici Libri, Leiden/Boston/Köln 1998, 20 f.), die weithin verlorene zweite Auflage der Academica, doch dürfte sich am Zusammenhang, in dem die Äußerung über Chrysipp fällt (Chrysipp als Autorität, auf die sich die Skeptiker mit ihrem Misstrauen gegenüber Sinnen und Gewohnheiten berufen könnten), nichts so Grundlegendes geändert haben, dass das vorliegende Zitat dorthin gepasst hätte. 38) Näheres dazu unter Punkt IV. 39) Dieser Titel Lact. inst. 4,6,4; 7,18,3. 40) Lact. inst. 2,15,7; 6,25,11. 41) Ein instruktives Beispiel ist inst. 7,13,3, wo Laktanz ein ansonsten nicht erhaltenes Hermeticum (Fragment 15 bei A. D. Nock/A.-J. Festugière, Hermès Trismégiste. Corpus Hermeticum, Paris 42002, IV 113) wiedergibt. Die Passage endet mit einem offensichtlich nach einem m°n-Glied abgebrochenen ·na-Satz. Das d°-Glied ist, vielleicht als nicht mehr sachdienlich, weggelassen. Bemerkenswert ist, dass Laktanz den stilistischen Anstoß nicht einfach durch Streichung des m°n beseitigt. In ähnlicher Weise behält er inst. 7,19,9 beim Zitat von or. Sib. 8,224 den im Einzelvers unsinnigen Konjunktiv Aorist =¤cvsin der Vorlage (dort gehört die Prädikation in eine Reihe von ˜tan-Sätzen) bei, statt ihn in den metrisch gleichwertigen Indikativ Futur =¤cousin zu ändern.
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IV Wie bereits eingangs gesagt, untermauert Laktanz mit dem Chrysipp-Zitat die christliche Lehre von der leiblichen Auferstehung. Die frühchristliche Literatur erwähnt öfter die Anstößigkeit dieses Glaubenssatzes in der paganen Welt.42 Laktanz entwickelt für diesen Punkt daher seine eigene Herangehensweise: Er beruft sich auf ein in der Dichtung, namentlich bei Vergil, bewahrtes altes Wissen um eine Rückkehr der Seelen in die Körper.43 Falsch daran sei die Annahme einer ständigen Wiedergeburt, aus der sich auch Platons énãmnhsiw-Lehre ergebe.44 Erst dann fasst Laktanz die christliche Lehre von der leiblichen Auferstehung zusammen45 und belegt sie ergänzend mit zwei Zeugnissen von Philosophen: Pythagoras lehre zwar richtig den Übergang der Seelen in neue Körper, falsch sei aber der Gedanke der Seelenwanderung zwischen Mensch und Tier sowie zwischen einzelnen Individuen.46 Darauf folgt das hier diskutierte Chrysipp-Fragment, dann, als testimonium divinum eingeführt, ein Zitat, das aus Versen aus unterschiedlichen Teilen des vierten Buchs der Oracula Sibyllina besteht47 und die Leh42) Vgl. Apg. 4,2; 17,32; Tat. orat. 6,3; Athenag. leg. 36,3; res. 2–11; Tert. apol. 48,5; resurr. 1,1; 2,8; Min. Fel. 11,7; entsprechende pagane Zeugnisse: Lucian. Peregr. 13; Orig. Cels. 5,14; 7,32–36; Porph. Chr. 35; 93 f.; vgl. W. Nestle, Die Haupteinwände des antiken Denkens gegen das Christentum, in: Christentum und antike Gesellschaft, hrsg. v. J. Martin und B. Quint, Darmstadt 1990, 17–80 (erstmals in: W. Nestle, Griechische Studien. Untersuchungen zur Religion, Dichtung und Philosophie der Griechen, Stuttgart 1948, 597–660), hier 58–60; Wolfson (wie Anm. 6); M. Fiedrowicz, Apologie im frühen Christentum. Die Kontroverse um den christlichen Wahrheitsanspruch in den ersten Jahrhunderten, Paderborn 2000, 269–271. 43) Lact. inst. 7,22,1–8, unter Berufung insbesondere auf Verg. Aen. 6,748–751. 44) Lact. inst. 7,22,9–19. 45) Lact. inst. 7,23,1 Non igitur renascentur, quod fieri non potest, sed resurgent et a deo corporibus induentur et prioris vitae factorumque omnium memores erunt et in bonis caelestibus collocati ac fruentes iucunditate innumerabilium copiarum praesenti deo gratias agent, quod malum omne deleverit, quod eos ad regnum vitamque perpetuam suscitarit. 46) Lact. inst. 7,23,2 qua de anastasi philosophi quoque dicere aliquid conati sunt tam corrupte quam poetae. nam Pythagoras transire animas in nova corpora disputavit, sed inepte, quod ex hominibus in pecudes et ex pecudibus in homines et se ipsum ex Euphorbo esse reparatum. 47) Lact. inst. 7,23,4, mit Zitat von or. Sib. 4,40–43.187.189 (= 46) sed nos ab humanis ad divina redeamus. Sibylla dicit haec: dÊspiston går ëpan merÒpvn g°now. éllÉ ˜tan ≥dh kÒsmou ka‹ ynht«n ¶ly˙ kr¤siw, ∂n yeÚw aÈtÚw
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re von Gericht und Auferstehung wiederholt und belegt. Ans Ende stellt Laktanz nochmals zwei Argumente gegen die Zweifel an der leiblichen Auferstehung: Erstens dürfe man, da diese Lehre ja auch von prophetae, [. . .] vates et poetae vertreten werde, nicht ausgerechnet von den Christen Rechenschaft über die Art und Weise verlangen: nemo quaerat a nobis quemadmodum fieri possit; zweitens sei Gott dem Schöpfer auch eine Neuschöpfung zuzutrauen.48 Dann beginnt mit deutlichem Neuansatz die Schilderung des Tausendjährigen Gottesreichs auf Erden.49 In diesem Zusammenhang bezeugt das Chrysipp-Zitat mit der durch Cicero herausgehobenen Autorität eines bekannten Philosophen nachprüfbar (Werkangabe, Zusammenhang, wörtliche Wiedergabe) die Möglichkeit leiblicher Auferstehung. Der einzige Kommentar, den Laktanz zu den Worten des Chrysipp abgibt, ist ihre positive Abgrenzung gegenüber Pythagoras, dessen Lehre er knapp skizziert. Mit dem überleitenden melius muss gemeint sein, dass in Chrysipps Lehre der widersinnige Aspekt der Metempsychose fehle. Der elliptische Einleitungssatz (melius . . . Stoicorum) lenkt die Aufmerksamkeit ganz auf das wörtliche Zitat und die entscheidende Aussage oÈk édÊnaton ka‹ ≤mçw [. . .] épokatast∞nai. Unter diesem Eindruck soll dem Leser die auf das Sibyllenzeugnis folgende zusammenfassende Feststellung plausibel erscheinen: philosophi anastasim mortuorum futuram esse consentiunt.50 Auch der etwas unvermittelte Einsatz des Zitates mit dem ins Leere gehenden Rückverweis toÊtou dÉ oÏtvw ¶xontow ist vielleicht durch die Einfügung in den Zusammenhang bei Laktanz zu erklären: Das Fragment steht, wie oben dargelegt, in einer hinführenden, wahrscheinlich induktiven Argumentation, die die Möglichkeit einer Wiederherstellung des Menschen schrittweise poiÆsei kr¤nvn ésebe›w yÉ ëma eÈseb°aw te, ka‹ tÒte dusseb°aw m¢n §p‹ zÒfon §n pur‹ p°mcei, ˜ssoi dÉ eÈseb°ousi, pãlin zÆsontÉ §p‹ ga¤hw, pneËma yeoË dÒntow timÆn yÉ ëma ka‹ b¤on aÈto›w. 48) Lact. inst. 7,23,5 quodsi non modo prophetae, sed etiam vates et poetae et philosophi anastasim mortuorum futuram esse consentiunt, nemo quaerat a nobis quemadmodum fieri possit. nec enim divinorum operum reddi potest ratio: sed si a principio deus hominem nescio quo inenarrabili modo instituit, credamus ab eodem restitui veterem posse qui novum fecit. 49) Lact. inst. 7,24,1 nunc reliqua subnectam. 50) Lact. inst. 7,23,5, siehe oben Anm. 48.
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und in einer Übertragung auf den Menschen darlegt. In wenigstens entfernt ähnlicher Weise erläutert auch die christliche Literatur anhand von rationalen Argumenten und Beispielen aus der Natur die leibliche Auferstehung.51 Insbesondere die einschlägigen Passagen bei Tertullian und Minucius Felix muss Laktanz kennen.52 Dennoch verzichtet er auf solche Argumente der natürlichen Theologie und erklärt den Glauben an die leibliche Auferstehung nur aus der Offenbarung beziehungsweise dem in Dichtung und Philosophie noch schemenhaft bewahrten Wissen darum. Das ChrysippZitat könnte Laktanz daher selbst so zugeschnitten haben, dass die, wie auch immer gearteten, rationalen Argumente fehlen und nur die auctoritas des Chrysipp stehen bleibt. Wie klug Laktanz dabei die Stelle auswählt, zeigt eine letzte Beobachtung: Die christliche Literatur nimmt im Zusammenhang mit der leiblichen Auferstehung öfter auf die stoische Lehre von Weltenbrand und Wiederherstellung Bezug, muss daran aber entweder die Vorstellung von der zyklischen Wiederholung kritisieren53 oder den Aspekt der Auferstehung einer entsprechenden Zu51) Thphl. Ant. Autol. 1,13; Tert. apol. 48,8 Lux cottidie interfecta resplendet et tenebrae pari vice decedendo succedunt, sidera defuncta vivescunt, tempora ubi finiuntur, incipiunt, fructus consummantur et redeunt, certe semina non nisi corrupta et dissoluta fecundius surgunt: omnia pereundo servantur, omnia de interitu reformantur (zur Abhängigkeit von Sen. epist. 36,10 f. E. Ahlborn, Naturvorgänge als Auferstehungsgleichnis bei Seneca, Tertullian und Minucius Felix, WS 24 [1990] 123–137); resurr. 12,1–4; Min. Fel. 34,11 f. Vide adeo, quam in solacium nostri resurrectionem futuram omnis natura meditetur. sol demergit et nascitur, astra labuntur et redeunt, flores occidunt et revivescunt, post senium arbusta frondescunt, semina nonnisi corrupta revirescunt; ita corpus in saeculo, ut arbores in hiberno: occultant virorem ariditate mentita. quid festinas, ut cruda adhuc hieme revivescat et redeat? exspectandum nobis etiam corporis ver est. nec ignoro plerosque conscientia meritorum nihil se esse post mortem magis optare quam credere; malunt enim exstingui penitus quam ad supplicia reparari. quorum error augetur et in saeculo libertate remissa et dei patientia maxima, cuius quanto iudicium tardum, tanto magis iustum est. 52) Laktanz kennt beide Autoren (inst. 1,11,55; 5,1,22 f.; 5,4,3) und benutzt Min. Fel. 11,7–9; 34,6–10 im Zusammenhang mit der Auferstehung inst. 7,22,1.8.10. 53) So etwa Tat. orat. 3,1 f.; 6,1, zitiert nach der Ausgabe M. Marcovich, Tatiani Oratio ad Graecos, Berlin/New York 1995: Ka‹ diå toËto ka‹ svmãtvn énãstasin ¶sesyai pepisteÊkamen metå tØn t«n ˜lvn sunt°leian: oÈx, …w ofl StvÛko‹ dogmat¤zousin, katã tinaw kÊklvn periÒdouw ginom°nvn ée‹ ka‹ époginom°nvn t«n aÈt«n oÈk §p¤ ti xrÆsimon, ëpaj d¢ t«n kayÉ ≤mçw afi≈nvn peparasm°nvn <ëpaj> ka‹ efiw tÚ pantel¢w diå mÒnvn t«n ényr≈pvn tØn sÊstasin ¶sesyai xãrin kr¤sevw. Vgl. Orig. Cels. 5,20; Wolfson (wie Anm. 6) 74 f.
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sammenfassung in einer Interpretatio Christiana abgewinnen.54 Im vorliegenden Fall hingegen kann Laktanz ohne Korrektur und ohne Umdeutung Chrysipp als Zeugen für die leibliche Auferstehung präsentieren. Eichstätt
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54) So etwa Hipp. haer. 1,21,2–5; Clem. strom. 5,1,9; dazu J. Mansfeld, Resurrection Added. The Interpretatio Christiana of a Stoic Doctrine, VChr 37 (1983) 218–233.
APOTELESMATICA 2. (1) 14–140: SOURCES AND MODELS* The Apotelesmatica transmitted to us under the name of Manetho is a compilation of hexameter astronomical poetry dated in the imperial period. Books 2, 3 and 6 constitute a complete poem and, according to the horoscope the author gives for himself (6.738–50), it has been calculated that he was born in A. D. 80.1 The author based his long poem on the work of Dorotheus of Sidon, an astronomical treatise, also in hexameter verse, which was used as a source by various writers in the following centuries.2 Lines 1–17 *) I would like to thank the anonymous referee and the Editor of Rheinisches Museum Prof. Dr. Bernd Manuwald for their useful and constructive comments on the present article. 1) See N. Hopkinson, Greek Poetry of the Imperial Period (Cambridge 1994) 204 f., T. Barton, Ancient Astrology (London 1994) 58. The following books and articles are cited by author (and date) in the paper: G. Aujac, Sphère céleste et constellations chez Eudoxe, Aratos, Hipparque, Ptolemée, in: Les Astres, Actes du colloque international de Montpellier 1995, ed. B. Bakhouche, A. Moreau, J.-C. Turpin (Montpellier 1996) 209–26, ead., La Sphéropée, ou la mécanique au service de la découverte du monde and Globes célestes en Grèce ancienne, in: ead., La Sphère, instrument au service de la découverte du monde (Caen 1993) 157–71 and 215–22 respectively, A. le Bœuffle, Germanicus, Les Phénomènes d’Aratos (Paris 1975), id., Hygin, L’astronomie (Paris 1983), J. Gronovius, Manethonis Apotelesmaticorum libri sex (Leiden 1698), H. G. Gundel, Zodiakos (Mainz am Rhein 1992), D. Kidd, Aratus: Phaenomena (Cambridge 1997; the translation of the Aratean passages in this paper are taken from his edition), F. Lassere, Die Fragmente des Eudoxos von Knidos (Berlin 1966; Eudoxus’ fragments are quoted from this edition), A. Koechly, Arati Phaenomena et Prognostica, Pseudo-Manethonis et Maximi Carmina Astrologica, in: Poetae Bucolici et Didactici (Paris 1851), E. Maass, Commentariorum in Aratum Reliquiae (Berlin 1898, repr. 1958), D. Pingree, Dorothei Sidonii Carmen Astrologicum (Leipzig 1976), A. M. Salvini, Manetone Degli effetti delle stele (Florence 1976), A. Schlachter, Der Globus: seine Entstehung und Verwendung in der Antike (Leipzig/Berlin 1927), G. Thiele, Antike Himmelsbilder (Berlin 1898), M. L. West, Hesiod, Theogony (Oxford 1966). The text of PseudoManetho’s is that of A. Koechly, Manethoniana (Leipzig 1858); on a couple of instances I propose corrections (although in various other points Koechly’s readings can be disputed as well: the critical edition of the passage under discussion, however, would be out of the scope of the present paper). The English translation is my own. 2) See Barton 58, Pingree xi. Dorotheus’ floruit can be placed, according to information given in the work, between A. D. 25 and 75, see Pingree x. The know-
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are an introduction to the work, briefly displaying the celestial bodies, Sun, Moon, fixed stars and planets. In line 14 the author introduces the five planets whose phases and powers will constitute the theme of his epic and proceeds with the presentation of the sphere: axis, poles, celestial circles (18–140), before entering the main field of his interest, the astrological discussion. The present paper focuses on lines 14–140, as these convey the astronomical information which enables us to examine them with reference to scientific sources. More specifically the discussion intends to demonstrate the influence of Aratus’ Phaenomena on these lines, and will also trace, to the extent that the extant evidence renders it possible, the poet’s use of other sources for the presentation of the constellations in them. The author is inspired by Aratus, deviating from the presentation of the constellations in his model, however, in numerous details; it will be shown that for the composition of this part of his poem Pseudo-Manetho used a globe, like many astronomical authors of Antiquity.3 The unremitting popularity of the usage of globes even in later times is most eloquently expressed by the rewriting of the Aratean lines about the constellations of the three celestial circles (tropic of Cancer and Capricorn, Equator) by the Byzantine scholar Maximus Planudes (1255–1305), in his revision ledge of Dorotheus is evident for instance in Hephestion Thebaeus, who composed three books of Apotelesmatica at c. A. D. 415, Rhetorius Aegyptius, various Byzantine astrologers, see Pingree xii f. 3) For a discussion of this likelihood for Manilius, Germanicus, Hyginus, Achilles, among others, see Thiele 45 ff., Schlachter 23, 27 ff., le Bœuffle (1975) xxii, id. (1983) x ff. Statues, coins, gems and other works of art depicting globes have survived, see Gundel passim: for the first century B. C. to first century A. D. for instance 281 n. 264, 291 n. 329, 293 n. 314, and passim. For a discussion of the sphaeropoiia in Antiquity see Aujac (1993, La Sphéropée) 157–71. A whole marble globe in a relatively good condition, with the celestial circles and the constellations on them in relief is the Atlas Farnese globe, an Adrian-age copy of an original of the third quarter of the first century B. C., see Thiele Taf. II–VI, Gundel 204, 207 n. 8. Thiele has argued that it is Hipparchus’ globe that the artist of the globe Farnese copied or at least based his work on, see Thiele 27 ff. For the popularity of globes and other artefacts representing the sky in Antiquity, cf. for instance the epigram which accompanies the celestial globe the poet Leonidas of Alexandria offers to Poppaea (AP 9.355) and the pair of cups decorated with constellations offered as a present to Piso (Antip. Thess. AP 9.541), with the help of which the receiver “no longer needs to look up Aratus”, l. 5. Ancient sources again state, inter alia, that globes where indeed necessary for the readers’ understanding of Aratus, see Schlachter 21 ff.
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of the Aratean text, based on the globe of the 2nd c. A. D. mathematician Ptolemy, according to Triclinius’ testimony.4 At the same time, Pseudo-Manetho is composing a didactic poem; he uses epic vocabulary in the characteristic, for Hellenistic and later poetry, practice of imitation with variation. Thus specific and elegantly allusive references to Homer and Hesiod can be traced in the Apotelesmatica, such that reveal a thorough and detailed knowledge of the old poetry. The poet is devoting his work to the description of the Sun and Moon and the five p l a n e t s : in this way he ‘completes’ Aratus’ work, which referred only to the f i x e d s t a r s . The imitation of Aratus extends to the level of concept and purpose. Aratus turned Eudoxus’ astronomical work into hexameter verse; PseudoManetho also bases his work (although with probably a lesser dependence) on a previous treatise, that of Dorotheus, which was however a hexameter poem as well.5 The second (first) book of the Apotelesmatica is ordered thus: 1–17: brief presentation of the subject of the poem, the Sun, the Moon and the five planets; 18–26: the rotating sky, its axes and poles; 27–56: brief presentation of the nine celestial circles, seven invisible (the northern circle, the summer tropic, the equator, the winter tropic, the southern circle, the Horizon and the Meridian) and two visible (the Galaxy and the Zodiac); 57–140: detailed presentation of the nine circles and the stars each one has; 141–502 (main theme): discussion of the seven planets, their phases and powers. The part under discussion of Pseudo-Manetho’s poem runs thus: The Five Planets P°nte dÉ êrÉ ést°rew o‰oi égauÒtatoi diå kÊklou ZvdiakoË plãzontai émeibÒmenoi katå kÒsmon éllÆktvw, oÓw fËla brot«n ÙnÒmhnan élÆtaw, t«n m¢n dØ metÒpisye f¤l˙ memnÆsomÉ éoidª. The Axis MakrÚw dÉ aÔ diå m°ssou §lÆlatai oÈranoË êjvn, éstemfÆw, ˆssoisin ırvm°nƒ éprot¤optow, ˘w per‹ pçn ga¤hw te ka‹ étrug°tou diå pÒntou Œka dihnek°vw dineÊmenow oÈk épolÆgei.
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4) See further Kidd 55 ff. 5) “Manetho . . . Dorothei doctrinas multis versibus explicare conatus est”, Pingree xi.
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M a r i a Yp s i l a n t i The Poles ToË d¢ dÊv pÒloi efis‹ katantip°rhn ésãleutoi, The Northern Pole ˘w m¢n §p‹ krueroË Bor°v pnoiªsin érhr≈w Ursa Minor ka‹ kefal∞w égxoË bai∞w kunosour¤dow ÖArktou, The Southern Pole êllow dÉ §n dier“ NÒtƒ ·statai: éllÉ ı m¢n ÍcoË ke›tai ÍperxyÒniow, NÒtiow dÉ é¤dhlow ÍpÉ a‰an. KÊkloi dÉ aÔ pollo‹ ka‹ épe¤ritoi oÈranoË e‡sv dineËntai, toÁw aÈtÚw ée‹ sfa¤rhw strofãliggi teÊxei •lissom°nvn êstrvn katÉ épe¤riton o‰mon. T«n d° te pãntvn efis‹ pan°joxoi §nn°a kÊkloi, doio‹ m¢n prot¤opti fidÉ Ùfyalmo›sin ırhto¤, ofl dÉ êlloi mÆti merÒpvn prap¤sin te nohto¤. ÜEptÉ éÛde›w m¢n ¶asin fidÉ §n fres‹ moËnon ırhto¤, éllÆloiw d¢ parablÆdhn strvf≈menoi afie¤: (The Northern Circle) ˘w m¢n går pr«tow * * * * * * pÒlou dineÊmenow ÍcoË, ˜nte BÒreion f«tew §p¤klhsin kal°ousin: ( T h e Tr o p i c o f C a n c e r ) tÚn d¢ m°ta tropikÚw y°reow purilamp°ow Àrhw g¤netai: * * * * (The Equator) te¤nontai mesãtoio, diÉ o yoÚn ërma tita¤nvn ‡shn ÉH°liow teÊxei nÊktÉ êmbroton ±o›: ( T h e Tr o p i c o f C a p r i c o r n ) t“ dÉ ¶pi xeimer¤oio trop∞w kÊklow §stÆriktai: (The Southern Circle) •je¤hw dÉ §p‹ t“ NÒtiow p°lei, o =ã te baiØn frãzeo mo›ran Ïperye, tÚ går pl°on ¶syÉ ÍpÚ ga›an: toÁw d¢ m°souw t°mnousi dÊv kÊkloi êjonow aÈtoË êkrhw érxÒmenoi koruf∞w: aÈto¤ ge m¢n êmfv éllÆlouw êxriw Not¤ou t°mnousi pÒloio, (The Horizon) ˘w m¢n §n‹ ynhto›si kaloÊmenow ÙryÚn ÑOr¤zvn, (The Meridian) ˘w d¢ MeshmbrinÚw ÍcoË êkrhw kurtoÊmenow a‡yrhw. ÉAmfÒteroi dÉ êra to¤ge pÒlvn ¶ntosyen §Òntew §ntÚw §°rgousin d¤nhn perike¤menoi êstrvn. O·de m¢n §n prap¤dessin érifrad°ew tel°yousin gn≈sasyai kÊkloi. ToÁw dÉ aÔyÉ •t°rouw ka‹ §pÉ ˆssoiw derkÒmeyÉ, eÔtÉ ín ga›an §pitr°x˙ émbros¤h nÊj, (The Galaxy) tÚn m¢n ‡son xroiª leuk“ fa¤nonta gãlakti, (The Zodiac) tÚn dÉ ÍpÚ deikÆloisi du≈deka pamfa¤nonta ZvdiakÒn: lojo‹ dÉ §pamoibad‹w §z≈santo
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Apotelesmatica 2. (1) 14–140: Sources and Models oÈranÚn émfÒteroi d¤xa t°mnont°w sfeaw aÈtoÊw. ÑEptå dÉ êrÉ, Àsper prÒsyen ée¤samen, efis‹n êÛstoi ka‹ moËnon pukinªsin §n‹ fres‹n •sth«tew, oÏneken oÈ z≈vn morfa›w ılko›w te faeino›w oÈd¢ m¢n oÈ xroiªsi diãkritoi efisorÒvntai, éllÉ aÏtvw d¤n˙sin ÙÛÒmeyã sfeaw êstrvn kukloËsyai, tãper aÈtÚw éteirØw afi¢n égine› oÈranÚw §n strofãliggi per‹ xyÒna d›an •l¤ssvn. The Northern Circle âH går dØ tÚn m°n te BorÆion ést°rew ÖArktou Ursa Major me¤zonow, ∂n ÑEl¤khn naËtai nh«n ÙnÒmhnan, émfixarãssontai =o¤zƒ strvf≈menoi afie¤, o·te ofl ékrotãtoisi fae¤nontai per‹ poss¤n: Bootes êntuj dÉ aÔ kÊkloio m°shn diå xe›ra Bo≈tou The Serpent t°mnei ÍpÉ égk«now skaioË, kefal∞w te Drãkontow Cepheus ékrotãthw caÊei, st°rnon yÉ Ïpo Khf°ow e‰sin Cassiepeia ka‹ klein∞w élÒxoio para‹ pos‹ Kassiepe¤hw. T h e Tr o p i c o f C a n c e r kÊklow dÉ, ˜ste tr°pei y°reow purilamp°ow Àrhn, ést°ri dineÊonti perigrãfetai katÉ ÖOlumpon Kark¤nou Ùgdoãthw mo¤rhw ¶pi pamfa¤nonti: The Crab ke›tai d¢ tmÆgvn m°sson diå Kark¤non aÈtÒn, The Lion janyÆn tÉ aÈxen¤hn xa¤thn xaropo›o L°ontow, The Serpent, Ophiouchus spe›rãn te pr≈thn ÖOfiow, briaroË tÉ ÉOfioÊxou The Bird vÖmouw, ÖOrniyÒw te d°rhn tanusipterÊgoio, The Horse ka‹ pÒdaw ÑIppe¤ouw, xeirÒw tÉ égk«na bore¤ou Andromeda ÉAndrom°dhw, karpÒn te xerÚw laiØn d° te knÆmhn Perseus, the Charioteer Pers°ow, ÍstãtiÒn te podÚw y°nar ÑHniÒxoio, The Twins ka‹ briar«n DidÊmvn dÊo sÁn xe¤ressi kãrhna. The Equator aÈtår fishmerinÒn tiw •“ frãssaitÉ §n‹ yum“ The Ram ést°row §k mesãtoio xarassÒmenon Krio›o, The Bull ke›yen dÉ aÔ parameibÒmenon TaÊrou pÒdaw êkrouw,
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M a r i a Yp s i l a n t i Orion ka‹ kalØn z≈nhn yhroktÒnou ÉVr¤vnow, Hydra, Creter ÜUdrhw yÉ ılkÚn épeires¤hw, Krht∞rã te m°sson, •j∞w dÉ ékrotãtou stolmoË caÊontÉ §ratein∞w The Virgin Pary°nou, fiobÒlou te di¢k xhl∞w perÒvnta The Claws, Ophiouchus Skorp¤ou, fignÊaw te diakr¤nontÉ ÉOfioÊxou, The Horse ka‹ xa¤thw êkrhw §paf≈menon »k°ow ÜIppou, The Fishes m°sson tÉ émfot°roisin §n ÉIxyÊsi dineÊonta. T h e Tr o p i c o f C a p r i c o r n Xeimer¤ou d¢ trop∞w kÊklon yooË Afigoker∞ow Capricorn, the Waterpourer, the Monster sk°pteo pår m°ssoio diekperÒvntÉ §p‹ goËna émfÒterÉ ÑUdroxÒou, ka‹ KÆteow efinal¤oio The Hare oÈrÆn, ±d¢ LagvoË épÚ st°rnvn §p‹ m°ssa The Dog, Argo nissÒmenon, pr≈touw te pÒdaw KunÒw, ±d¢ ka‹ ÉArgoËw pontopÒrou t°mnonta diÉ afiy°row êkra kÒrumba, The Centaur KentaÊrou tÉ vÖmouw not¤ouw, k°ntron tÉ Ùloo›o Scorpio, the Archer Skorp¤ou, ±d¢ biÚn st°rnvn m°ta Tojeut∞row. The Southern Circle TÚn dÉ êra dØ nÒtion, meyÉ ˘n oÈk°ti f°ggow ırçtai êstrvn ényr≈poiw, o„ dØ xyÒna tÆnde n°montai, The Centaur ıplªsin K°ntaurow ÍpÚ sfet°r˙si xarãssei, Argo phdãliÒn te neÒw, tØn ékrotãt˙si kamoËsa Phl¤ou §n korufa›w Pallåw y°tÉ énÉ éstrãsin ÉArg≈. Ofl d¢ dÊv, to¤per te pÒlƒ diapeira¤nontai, éstemfe›w •stçsi ka‹ éklin°ew per‹ kÒsmon, pãntvn deikÆlvn afie‹ §paf≈menoi ılkoË: The Meridian ˘w m¢n gãr yÉÍcoË yooË oÈranoË §stÆriktai ±–hn o‰mon ka‹ de¤elon ÉHel¤oio kr¤nvn ka‹ ynhto›sin êgvn baiØn lÊsin ¶rgvn: The Horizon ˘w d¢ peristr°fetai pÊmaton pÒnton te ka‹ a‰an fa¤nvn éntol¤aw, dÊsiãw yÉ ÍpÚ b°nyesi keÊyvn, ˜w =ã yÉ ÑOr¤zvn kÊklow ÍpÉ ényr≈pvn pefãtistai, oÏneka mhk¤sthn ˆssvn §pit°mnei ÙpvpÆn. The Galaxy ÑOlkÚw dÉ aÔte Galaj¤ev baiª m¢n ırçtai
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Apotelesmatica 2. (1) 14–140: Sources and Models lampetÒvn mo¤r˙, tÚ d° ofl pl°on §st‹n émaurÒn: guroËtai dÉ ÍcoË m¢n §p‹ pnoia›w Bor°ao Cassiepeia §n yrÒnƒ •zom°nhw goÊnvn êxri Kassiepe¤hw, Cepheus, the Bird pår kefalØn Khf∞ow: ı dÉ ÖOrniyow pterå t°mnei, The Eagle, the Bow AfihtoË te m°son, ka‹ TÒjvn êgxi kor≈nhw Scorpio ékrÒtaton neËron, yhrÚw fon¤oiÒ te k°ntron, The Altar, the Centaur ±d¢ YutÆrion êkron fidÉ ıplåw KentaÊroio t°ssaraw: §k dÉ êra ke›yen én°rxetai §k Bor°ao Argo êcorrow diå NhÚw émeibÒmenow katå prÊmnhn, The Twins, Orion ka‹ knÆmaw DidÊmvn, koruf∞w yÉ Ïper ÉVr¤vnow, The Charioteer ka‹ gÒnayÉ ÑHniÒxou, gounÒw tÉ ¶pi gorgofÒnoio Perseus dejiteroË Pers∞ow, ˘ dØ t°tayÉ Àste y°ontow. The Zodiac ZvdiakÚw dÉ, ˜sper te katÉ oÈranÚn ¶pleto pãntvn eÈtroxãlvn kÊklvn mãlÉ égauÒtatow ka‹ ırhtÒw, d≈dexÉ ÍpÉ efid≈loisi kekasm°now e‰si diÉ a‡yrhw: émf‹ dÉ êrÉ aÈtÚn ke›tai ÍpÉ éstrãsi pamfa¤nonta The Ram, the Twins KriÚw ka‹ TaËrow, D¤dumoi dÉ §p‹ t“de, metÉ aÈtoÊw The Crab, the Lion Kark¤now ±d¢ L°vn, stãxuãw tÉ §n xers‹ f°rousa The Virgin Pary°now ényr≈pvn geneØn poy°ousa palai«n, The Claws (= The Balance) Xhla¤ yÉ, ìw ka‹ dØ metefÆmisan én°rew flro‹ ka‹ ZugÚn §klÆissan, §pe‹ tetãnunyÉ •kãteryen oÂa¤ per plãstiggew §p‹ zugoË •lkom°noio, Scorpio, the Archer Skorp¤ow §st‹ dÉ ¶peita, b¤h tÉ ¶pi Tojeut∞row, Capricorn, the Waterpourer, the Fishes ka‹ d¢ ka‹ AfigÒkervw, meyÉ ˘n ÑUdroxÒow te ka‹ ÉIxyËw.
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16 éllÆktvw scripsi : AÉ d¤khlÉ Gronovius, ka‹ de¤khlÉ Koechly 104 ékrotãt˙si Koechly : ékrotÒmoisi Gronovius | kamoËsa scripsi : temoËsa Gronovius et edd. 105 §n korufa›w Koechly : §k koruf∞w Gronovius Only five most brilliant stars are wandering through the Zodiac circle, in turn, in neat order (15), eternally, and people have named them ‘vagrant’; these I will sing next in my song. A long axis goes through the
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M a r i a Yp s i l a n t i middle of the sky, immovable, unseen by the observer’s eyes, and does not cease to turn around it everything, going through the earth and the unharvested sea, quickly, continuously (21). The two poles of the axis are opposite one another, still, the one fixed near the breezes of the cold north wind and close to the head of the Cynosouris Small Bear, the other one standing at the watery south (25); but the one lies high over the earth, while the southern pole is invisible under the earth. Many and innumerable circles evolve in the sky, which the sky always creates with the turning of the sphere while the stars rotate on their endless path (29). Of all these, nine circles are most eminent, the two evident and visible to the eyes, and the others comprehensible by the mind and the wisdom of mortals. Seven are unseen and visible only by the intellect, always rotating another being in the way of another; the first one * * * turning high around the pole (35), which men call Northern; after this one there is the Tropic of the bright time of the Summer; * * * they extend in the middle, through which the Sun, governing his swift chariot, makes the night equal to the divine day; on this the circle of the Winter-Turning is fixed (40); next to this there is the Southern circle, a small part of which you may say that is over the earth, for the greatest part is under it; in the middle these are cut by two circles which start from the very top of the axis; these two circles cut each other up to the Southern pole (45), the one rightly called by men Horizon, the other Meridian, curved high in the utmost sky. Both of them, located between the poles, confine the rotation of the stars, clad by it (49). These circles are manifest in the mind. The others again we can see with our eyes as well, when divine night runs over earth, the one appearing very much alike in colour with white milk, the other, the Zodiac, shining with twelve figures (55); and these oblique circles interchangeably girdle the sky, the two of them cutting each other into two. So there are seven circles, as we have sung before, unseen and fixed only in the shrewd mind, because they are not seen with figures of creatures and splendid traces, nor due to the distinction of their colour (60), but we think that they are thus encircled by the orbits of the stars which the indestructible sky itself ever drives on, turning them around the divine earth in a whirl. Indeed, ever rotating in a rush, the stars of the Great Bear, which the sailors call Helice (65), mark the course of the Northern circle, and they appear around her extreme feet; and the rim of the circle cuts through the middle of the arm of Bootes under his left elbow, touches the extremity of the Serpent’s head, goes under Cepheus’ chest (70) and near the feet of Cassiepeia, his renowned wife. Now the circle which brings the time of the bright summer is drawn around the sky through the orbit of a star shining at the eighth part of the Cancer; and it lies cutting Cancer itself in the middle (75), the blond mane of the terrible Leo, the first coil of the Serpent, the shoulders of the robust Ophiouchus, the neck of the stretch-winged Bird, and the Horse’s feet, and the elbow of the northern arm of Andromeda (80), and the wrist of Perseus’ hand and his left leg, and the extreme edge of the Charioteer’s sole of the foot, and the two heads with the arms of the robust Twins. And someone could imagine the Equator, marked by the mid-
Apotelesmatica 2. (1) 14–140: Sources and Models dle of the Ram, and then going past the extremity of Taurus’ feet (85), and the beautiful belt of the beast-killing Orion, and the coil of the immense Hydra, and the middle of the Creter, then touching the extremity of the lovable Virgin’s garment, passing from the Claw of the poisonous Scorpio, separating Ophiouchus’ knees (90), and touching the extremity of the swift Horse’s mane, and rotating through the middle of both Fishes. And observe the circle of the Winter-Turning, as it goes, passing through the middle of the swift Capricorn, to both knees of the Waterpourer, and to the tail of the sea-Monster (95), and as it goes from the chest to the middle of the Hare, and to the Dog’s front feet, and as it cuts the stern ornaments of the sea-faring Argo through the ether, and the Centaur’s shoulders, and the dangerous Scorpio’s southern sting and the bow along with the chest of the Archer (100). And the Southern circle, after which men who inhabit this earth can no longer see the light of the stars, the Centaur marks under his claws, and the steering-oar of the ship, which Pallas, having wrought it on the topmost peaks of Pelium, placed among the stars, Argo (105). And the two circles, which pass through the pole, stay unmoved and steady around the world, constantly touching the track of all signs; the one is fixed high on the agitated sky, discerning the morning and the evening path of the Sun (110), and bringing mortals to the quick solution of their tasks; the other is turning around the extreme sea and earth, disclosing the sun-risings, and hiding into the depths the sun-settings, and it is called the Horizon circle by men, because it cuts the longest sight of the eyes (115). Now the shining track of the Galaxy is seen in a small part, and the greatest part is obscure; it rotates high at the blasts of Boreus, up to the knees of the seated Cassiepeia, next to Cepheus’ head; and it cuts the Bird’s wings (120), and the middle of the Eagle, and the extreme cord near the tip of the Arch, and the sting of the deadly Scorpio, and the extremity of the Altar and the four claws of the Centaur; indeed from there it flows back from Boreus passing from the stern of Argo (125), and the legs of the Twins, and over the top of Orion, and the knees of the Charioteer, and on the right knee of Perseus, the killer of Gorgo, which he stretches as if he is running. And the Zodiac, which is the most splendid and conspicuous among all the well-rounded circles of the sky (130), proceeds through the ether adorned with twelve images; around the gleaming Zodiac, under the stars, lie the Ram and the Bull, after these the Twins, after these Cancer and Leo, and the Virgin who is holding ears of corns in her hands, desiring the generation of old men (135), and the Claws, which were renamed by men and called Balance, because they are extended at both sides like the scales on the balance which draws them, and then there is Scorpio, then the power of the Archer, and the Capricorn, after which are the Waterpourer and the Fishes (140).
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Astronomical sources: Aratus revised The passage under discussion of the Apotelesmatica displays occasional similarities to Aratus’ model, Eudoxus, and Hipparchus’ comments on the Phaenomena; it can be further suggested that, apart from other literary sources, such as the now lost Corpus Arateum, a collection of various astronomical texts of different periods, commentaries on Aratus and / or other treatises, the poet has not ignored Eudoxus and Hipparchus, not without updating them, however, in the light of more recent research and, more importantly, his globe.6 The fact that Pseudo-Manetho bases the Apotelesmatica on Aratus but updates his material using other sources as well, is evident by the differentiation his work displays in its description of the constellations of the poles and, mainly, those of the celestial circles in regard to the relevant Aratean passages, as will be demonstrated below.7 The presentation of the axes and poles and the circles follows roughly the order of their presentation and discussion in Manilius 1.563–804 (arctic, summer tropic, equator, winter tropic, antarctic, two colures, Meridian, Horizon, Zodiac, Galaxy), cf. also Geminus 4.1 f., 5.1–68 (axes, poles, arctic circle, summer tropic, equator, winter tropic, antarctic circle, two colures, Zodiac, Horizon, Meridian, Galaxy). In Geminus there is no description of the constellations which appear in each circle; Manilius presents the constellations only of the Zodiac (partly) and the Galaxy, and also those of the two colures which are omitted by Pseudo-Manetho. The northern and the southern circles are first described by Eudoxus, frr. 64a and 74. Pseudo-Manetho, however, omits Eudoxus’ two colures (frr. 76– 78, discussed by Hipparchus [1.11] and also described in Manilius 6) The utilisation of a globe did not exclude the consultation of literary sources as well by astronomical authors; for Germanicus (consultation of Hipparchus or more probably of a commentary on Aratus influenced by the Hipparchean criticism, the commentary of Diodorus of Alexandria; also probably Hyginus, apart from the globe he had in front of him) see le Bœuffle (1975) xviii– xxiii; for Hyginus (consultation of Aratus, Eratosthenes, apart from the globe), see Thiele 49, le Bœuffle (1983) ix ff. Hyginus’ work is in a sense stimulated by the Aratean work, in a way comparable to that of Pseudo-Manetho’s use of Aratus as a starting point which the present paper intends to show; Hyginus’ purpose is to give a more clear and complete description of the sky than Aratus, as he explicitly states more than once, cf. Praefatio (6): quae fuerunt ab Arato obscurius dicta, persecuti planius ostendimus, see further le Bœuffle ix. 7) Hyginus, on the contrary, generally stays close to Aratus ignoring the Hipparchean criticism, see le Bœuffle (1983) xv with n. 2.
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and Geminus). All Pseudo-Manetho’s circles, including the two colures, are also discussed in Achilles’ Eisagoge, 22–27 (p. 51 ff. Maass).8 In his account about the poles and the Bears (ll. 22–26), Pseudo-Manetho follows Aratus (24–27, see below, p. 86) in saying that the poles are at the two ends of the axes;9 the northern is visible, the southern is not. While Aratus, however, is referring to both Bears as defining the northern pole, Pseudo-Manetho mentions only the Ursa Minor, as it is in fact closer to the pole.10 In Pseudo-Manetho’s presentation (27–56) and description (57– 147) of the celestial circles we have serious deviations from Aratus. Arat. 462–558 is devoted to five circles, the tropic of Cancer (480– 500), the tropic of Capricorn (501–10), the equator (511–24), the ecliptic or Zodiac (525–58); the last two are compared to the Galaxy (469–79).11 Pseudo-Manetho discerns nine circles and divides them to visible and invisible ones. Visible: the Galaxy and the Zodiac; invisible: the northern circle, the summer tropic, the equator, the winter tropic, the southern circle, the Horizon and the Meridian. Pseudo-Manetho includes in the northern circle the feet of Ursa Major, the left arm of Bootes, the Serpent’s head, Cepheus’ breast and Cassiepeia’s feet (ll. 64–71). Eudoxus included all of these and moreover a part of the Crown, Lyra and the Bird’s wing (fr. 64a). Criticising Eudoxus, Hipparchus rejects the Crown and Lyra, but he also rejects Cepheus’ breast, accepting Eudoxus’ inclusion of a part of the Bird’s wing (1.11,2–4).12 In his account of 8) The celestial circles (arctic, tropics, Equator, Zodiac, Meridian) were first inscribed on the globe of Thales, according to the testimony of Aetius, see Aujac (1993, La Sphéropée) 158 f. We have evidence for twenty-six globes of Eudoxus, ead. 160. Eudoxus was however the first to create a globe with the constellations on it, see Aujac (1993, Globes) 217. 9) Cf. for instance Anon. 1.3 (Maass p. 91, l. 31 ff.) ı êjvn épÚ érktikoË pÒlou m°xri toË éntarktikoË diÆkei, diå toË afiy°row ka‹ t«n êllvn stoixe¤vn flknoÊmenow. ÑH g∞ oÔn barutãth oÔsa §ne›rtai ka‹ §mperÒnhtai §mperieilhmm°nh ÍpÚ toË êjonow. 10) See Kidd on 26–44. In his account about the northern pole Aratus departs completely from Eudoxus who takes the pole for a single star and is criticised by Hipparchus, 1.4,1; Hipparchus gives credit to Pytheas from Marseille for the location and description of the North pole, see further Aujac (1996) 217 f. 11) These circles were probably introduced by Eudoxus (frr. 64–74), see Kidd 348. 12) Hyginus (4.6,2) is closer to the author of the Apotelesmatica, as he includes the constellations of Pseudo-Manetho plus certain parts of the constellation known as the Engonasin.
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the southern circle (ll. 101–4), Pseudo-Manetho includes only Centaur’s claws and the steering-oar of Argo, while Eudoxus included various other constellations (the River, Argo’s deck, the Beast, the Thymiaterion, the right legs of the Archer, Canopus, fr. 74), accepted by Hipparchus katå suneggismÒn (1.11,7), except for Canopus.13 The author’s utilisation of a globe, different from that of Hipparchus, is evident from the description of these constellations, as well as of those which follow. In his first account of the Meridian and the Horizon (ll. 43– 9), Pseudo-Manetho emphasises the idea that the two circles are “between the poles”, and retain inwards the orbit of the stars (ll. 48 f.). This emphasis probably aims to clarify that the circles are in fact i n the sphere, and that they are conceived as being external only for the sake of comprehension by human mind, as commentators of Aratus remind the reader.14 The author of the Apotelesmatica calls the tropic of Cancer tropikÚw y°reow (l. 38, cf. 72) and the tropic of Capricorn xeimer¤oio trop∞w kÊklow (l. 40, cf. 93); here he follows Hipparchus who calls them ı yerinÚw tropikÒw and ı xeimerinÚw tropikÒw respectively, while Aratus does not use these terms, although he defines the tropics with reference to the north and south and the summer-winter solstices.15 Aratus presents the tropic of Cancer in variation of Eudoxus’ account, beginning with the Twins and moving westward to end with the Crab (480–500), épÚ t«n §sxãtvn érjãmenow, as Hipparchus comments (1.2,18 f.), while Eudoxus begins with the Crab and is moving eastward to end again with the Crab.16 Pseudo-Manetho retains this ‘proper order’ of Eudoxus.
13) Hyginus is again not very far from Pseudo-Manetho, as he includes only the extreme part of Argo and Centaur’s feet, the Altar and the extreme trace of the River (4.6,3). 14) Cf. Ach. 22 (p. 52 Maass) tÚn d¢ ır¤zonta ka‹ meshmbrinÚn §ntÚw e‰nai t∞w sfa¤raw t«n ˜lvn noht°on (oÈd¢n går t«n ˆntvn aÈt∞w §stin §ktÒw), Íp¢r d¢ toË parakolouy∞sai ≤mçw §ktÚw e‰nai l°gontai; cf. Anon. 1 (p. 95 Maass) ı d¢ ır¤zvn . . . ke›tai d¢ ¶jv t∞w sfa¤raw …w prÚw tØn ≤met°ran ˆcin. tÚ dÉ élhy°w, t“ n“ aÈtÚn ¶sv de› paralabe›n ke¤menon. 15) Cf. ll. 499–500 y°reow d° ofl §n tropa¤ efisin. / ÉAllÉ ı m¢n §n bor°v per‹ Kark¤non §stÆriktai, 507–9 tÚn pÊmaton kayaro›o parerxÒmenow bor°ao / §w nÒton ±°liow f°retai, tr°peta¤ ge m¢n aÈtoË / xeim°riow. 16) The Aratean order is also kept by Hyginus (4.2,1), Aratus Latinus VII (p. 277 ff. Maass).
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The Twins ÉEn d° ofl émfÒterai kefala‹ DidÊmvn for°ontai, The Charioteer §n d¢ tå goÊnata ke›tai érhrÒtow ÑHniÒxoio, Perseus laiØ d¢ knÆmh ka‹ éristerÚw Œmow §pÉ aÈt“ Andromeda Pers°ow, ÉAndrom°dhw d¢ m°shn égk«now Ïperyen dejiterØn §p°xei: tÚ m°n ofl y°nar ÍcÒyi ke›tai éssÒteron bor°ao, nÒtƒ dÉ §pik°klitai égk≈n. The Horse ÑOpla‹ dÉ ÜIppeioi ka‹ ÍpaÊxenon ÉOrn¤yeion The Bird êkr˙ sÁn kefalª kalo‹ tÉ ÉOfioÊxeoi Œmoi Ophiouchus aÈtÚn dineÊontai §lhlãmenoi per‹ kÊklon. ÑH dÉ Ùl¤gon f°retai notivt°rh oÈdÉ §pibãllei The Lion, the Cancer Pary°now, éllå L°vn ka‹ Kark¤now. (Arat. 481–91) On it move the two heads of the Twins, on it lie the knees of the steadfast Charioteer, and after him the left leg and left shoulder of Perseus. It occupies the middle of Andromeda’s right arm above the elbow; her palm lies above it, nearer the north, her elbow inclines to the south. The Horse’s hoofs, the Bird’s neck with the head at one extremity, and the bright shoulders of Ophiouchus revolve riding round the actual circle. The Maiden goes a little farther south and does not touch it, but the Lion and the Crab do.
Aratus occasionally deviates from Eudoxus; Pseudo-Manetho sometimes agrees with Aratus, while in other cases his description is closer to Eudoxus or Hipparchus. Pseudo-Manetho’s account about the Crab and Lion is considerably briefer than that of Aratus; he states simply that the tropic cuts the Crab in the middle (close to Eudoxus’ fr. 66,10, tå m°sa toË Kark¤nou)17 and includes the Lion’s mane, a poetic description about Lion’s parts appearing in the tropic, signifying the upper part of the Lion. Aratus (492 ff.) has aÈtår ı kÊklow / tÚn m¢n ÍpÚ st∞yow ka‹ gast°ra m°xri parÉ afid« / t°mnei, Eudoxus (fr. 66,10 f.) ka‹ tå diå toË s≈matow katå m∞kow toË L°ontow. Pseudo-Manetho’s description implies that the author was inspired by the depiction of the Lion on a globe. Aratus does not mention the Serpent at all; by referring to spe›rãn te pr≈thn ÖOfiow, Pseudo-Manetho follows Eudoxus (fr. 66,12) who 17) Cf. also Hyginus 4.2,1 Cancer autem sic dividitur medius.
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includes ı aÈxØn toË §xom°nou ÖOfevw in the stars of the tropic, approved by Hipparchus (1.10,15) and followed also by Germanicus (467).18 Pseudo-Manetho speaks of briaroË tÉ ÉOfioÊxou / vÖmouw, here agreeing with Aratus who deviates from Eudoxus who refers to ≤ kefalØ toË ÉOfioÊxou (fr. 66,13), both criticised by Hipparchus who rejects the head as well as the shoulders (1.10,9 and 1.10,14).19 Pseudo-Manetho, like Aratus and Eudoxus (fr. 66,13 f.), includes the Bird’s neck in the circle20 and omits Aratus’ head of the Bird, staying close to Eudoxus who does not include the head, without including Eudoxus’ ka‹ ≤ éristerå pt°ruj which he however perhaps echoes with his tanusipterÊgoio; Hipparchus (1.10,8) totally rejects the occurrence of any part of the Bird in the tropic. Pseudo-Manetho refers to pÒdaw ÑIppe¤ouw, staying closer to Eudoxus fr. 66,14 ofl toË ÜIppou pÒdew, while Aratus describes them as ıpla¤, a statement criticised by Hipparchus (1.10,7): t¤naw m¢n oÔn ést°raw §t¤yei (Aratus) §p‹ ta›w ıpla›w toË ÜIppou, êdhlon. Pseudo-Manetho mentions only Andromeda’s égk≈n, while Eudoxus (66,14 f.) speaks of the dejiå xe‹r t∞w ÉAndrom°daw, and Aratus makes the distinction between Andromeda’s palm and elbow; the author of the Apotelesmatica deviates from Aratus who holds that the elbow inclines to the south, agreeing with Hipparchus’ comment that the elbow must be well to the north of the tropic (1.10,6);21 he does not share Hipparchus’ view, however, that the elbow does not actually belong to the tropic and so refers to it by xeirÒw tÉ égk«na bore¤ou / ÉAndrom°dhw. Referring to the “wrist and the left leg” of Perseus, Pseudo-Manetho disagrees with both Aratus and Eudoxus who include the left shoulder of the hero in the tropic (Eud. fr. 66,15 f. toË Pers°vw ı éristerÚw Œmow ka‹ ≤ éristerå knÆmh), being closer to Hipparchus (1.10,5) who held that not only the left shoulder but also the central star of Perseus is farther north, while the left leg (1.6,13) is 18) Primis ignibus Anguis. Germanicus, following Eudoxus, also speaks of a part of the Engonasin as included in the tropic, omitted by Aratus and PseudoManetho, and accepted as correct by Hipparchus (1.10,15). 19) For Aratus’ deviation from Eudoxus, probably due to the fact that Ophiouchus’ shoulders are brighter, see Kidd on Arat. 488. 20) Omitted by Germanicus (465 f.), Hyginus (4.2,1) and Avienus (959 f.), see J. Soubiran, Aviénus, Les Phénomènes d’Aratos (Paris 1981) 231 f. 21) For the lengths of Andromeda’s stars and Aratus’ deviation from his model see Kidd on Arat. 484.
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nearer to the tropic but still a little north of it.22 The author of the Apotelesmatica again follows a different line in regarding only the extremity of the Charioteer’s foot as belonging to the tropic, while Aratus and Eudoxus speak of tå gÒnata toË ÑHniÒxou (Eud. fr. 66,16); Hipparchus (1.10,3) maintains that the Charioteer has no stars at his knees and that the stars nearest to the tropic are his feet.23 Pseudo-Manetho includes in the tropic the heads and the arms of the Twins, while Aratus, following Eudoxus, had included only the heads, which Hipparchus (1.10,1 f.) rejects. In general the author of the Apotelesmatica is inspired by and follows Aratus in the presentation of the constellations of the tropic of Cancer; his deviations which sometimes agree with Hipparchus’ criticism (10.1–9), sometimes with Eudoxus’ original views, are explained by the assumption that he actually describes a globe, having probably in mind, however, Eudoxus’ and Hipparchus’ texts.24 This assumption is further reinforced by the elaboration of the description of certain constellations, which point at the ecphrastic depiction of a work of art, cf. the presentation of the Lion, Ophiouchus, the Bird, the Twins.25 Similar observations can be made about Pseudo-Manetho’s description of the stars of the Equator (ll. 83–92), which are described by Aratus after the presentation of the winter tropic: The Ram, the Bull S∞ma d° ofl KriÚw TaÊroiÒ te goÊnata ke›tai, KriÚw m¢n katå m∞kow §lhlãmenow diå kÊklou, TaÊrou d¢ skel°vn ˜ssh perifa¤netai Ùklãw.
22) See Kidd on 483. 23) See Kidd on 482. 24) Hyginus (4.2,1) stays close to Aratus, while Germanicus (460–72) updates his material according to Hipparchus’ criticism and / or the globe of Atlas Farnese, see le Bœuffle (1975) 30, id. (1983) 203, Kidd 354. 25) That the author has in front of him a globe other than that of the Atlas Farnese is indicated by certain dissimilarities, for instance: Ophiouchus’ shoulders (Pseudo-Manetho) / his head (globe Farnese), the Bird’s neck (Pseudo-Manetho) / the tropic touches slightly its beak (globe Farnese). The globe of Ptolemy, as we can gather from Planudes’ description, is again quite different from that of PseudoManetho. It includes in the tropic of Cancer the middle of the Twins, the Hyades, the extremity of the Pleiades, the head of one of the Fishes, the head of Andromeda, the Bird’s beak, the Horse’s knee, the shoulder of the Engonasin, the nostril of the Serpent, a star of Ophiouchus and a star of Arcturus, the loin and the mane of the Lion, the northern of the stars of the ÖOnoi, the Crab.
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M a r i a Yp s i l a n t i Orion ÉEn d° t° ofl z≈nh eÈfegg°ow ÉVr¤vnow Hydra kampÆ tÉ afiyom°nhw ÜUdrhw, §n¤ ofl ka‹ §lafrÚw Creter, Corax KrhtÆr, §n d¢ KÒraj, §n‹ dÉ ést°rew oÈ mãla pollo‹ The Claws, Ophiouchus, the Eagle Xhlãvn, §n t“ dÉ ÉOfioÊxea goËna fore›tai. OÈ mØn AfihtoË épame¤retai, éllå ofl §ggÁw ZhnÚw éhte›tai m°gaw êggelow: ≤ d¢ katÉ aÈtÚn The Horse ÑIppe¤h kefalØ ka‹ ÍpaÊxenon efll¤ssontai. (Arat. 515–24) As a guide the Ram and the knees of the Bull lie on it, the Ram as drawn lengthwise along the circle, but of the Bull only the widely visible bend of the legs. On it the belt of the radiant Orion and the coil of the blazing Hydra, on it too are the faint Bowl, on it the Raven, on it the not very numerous stars of the Claws, and on it the knees of Ophiouchus ride. It is certainly not bereft of the Eagle: it has the great messenger of Zeus flying near by; and along it the Horse’s head and neck move round.
According to Hipparchus’ testimony (1.10,22, Eud. fr. 71), Aratus agrees with Eudoxus except for certain details: Eudoxus includes the m i d d l e of the Claws, the l e f t w i n g of the Eagle, the Horse’s l o i n as well; in regard to the last point Hipparchus remarks that the loins do not belong to the Equator: Aratus seems to have corrected Eudoxus here and Pseudo-Manetho agrees with Aratus and Hipparchus. Eudoxus (fr. 71) includes the northern of the Fishes (omitted by Aratus), Hipparchus rejects it (1.10,23), while PseudoManetho agrees with Eudoxus only if we interpret that the Equator passes b e t w e e n the Fishes, and not that it passes through the middle of both.26 With his precision about the Ram (ést°row §k mesãtoio xarassÒmenon Krio›o, l. 84), the author of the Apotelesmatica clarifies the Aratean expression being close to Eudoxus who refers to the middle of Aries, tã te toË KrioË m°sa (fr. 69), a point criticised by Hipparchus.27 Hipparchus’ rejection of the participation of Corax and the Eagle in the Equator (1.10,19–20, 1.10,23) 26) Koechly (1851) translates “mediumque amobus in Priscibus se-volventem”. Salvini (39) translates “e rigirando in mezzo ad ambi i Pesci”. Ptolemy, according to Planudes (c 13 f.), seems to agree with the view of Eudoxus: t«n nepÒdvn d° / ˘w noti≈terÒw §sti dixãzetai, éllÉ §p‹ m∞kow. 27) See Kidd on 516.
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is in accordance with their omission by Pseudo-Manetho; Hipparchus also holds that only the bright star in the northern Claw is near the Equator, a view in accordance with Pseudo-Manetho’s di¢k xhl∞w perÒvnta / Skorp¤ou (ll. 89 f.). Hipparchus, however, rejects also Hydra, Creter, Ophiouchus’ knees (1,10,19–20), included by Eudoxus, Aratus and Pseudo-Manetho. Hipparchus also accepts Aratus’ Eagle (1.10,21), omitted by Pseudo-Manetho.28 Pseudo-Manetho’s inclusion of a part of the Virgin (even only the extremity of her garment) to the stars of the Equator finds a parallel only in Aratus Latinus VIII (Maass p. 279) and the globe of Ptolemy, according to Planudes’ description.29 In his description of the tropic of Capricorn, by contrast to his handling of the tropic of Cancer, Aratus does follow Eudoxus, presenting the constellations in the ‘proper’ order, going eastward from Capricorn to the Archer, as Pseudo-Manetho also does (Apot. 2. [1] 93–100). The Capricorn ÖAllow dÉ éntiÒvnti nÒtƒ m°son Afigoker∞a The Waterpourer t°mnei ka‹ pÒdaw ÑUdroxÒou ka‹ KÆteow oÈrÆn: The Monster, the Hare §n d° o· §sti LagvÒw, étår KunÚw oÈ mãla pollØn The Dog, Argo a‡nutai, éllÉ ıpÒshn §p°xei pos¤n: §n d¢ ofl ÉArgΔ The Centaur ka‹ m°ga KentaÊroio metãfrenon, §n d¢ tÚ k°ntron Scorpion’s sting, the Archer Skorp¤ou, §n ka‹ tÒjon égauoË Tojeut∞row. (Arat. 501–6) Another circle in the opposing south cuts the middle of Capricorn, the Waterpourer’s feet, and the Monster’s tail. The Hare is on it, but it does 28) Hyginus generally agrees with Aratus, see le Bœuffle (1983) 206. 29) Virgiliae quidem secus; cf. Planudes, (c l. 5) Paryenik∞w dÉ e‡dvlon ¶peita diãndixa t°mnei. Again certain details agree with the depictions of the constellations which pass from the Equator on the globe Farnese, like for instance the extremity of the Virgin’s garment and the extremity of the Horse’s mane, but others do not: the Ram’s feet (Pseudo-Manetho) / its middle (globe Farnese), the middle of the Creter (Pseudo-Manetho) / its extremity (globe Farnese). Ptolemy’s globe, as we have it in Planudes’ description, is again different from the globe of PseudoManetho. It includes the Knot, the mouth of the sea-Monster, the belt of Orion, the first coil of Hydra, the Virgin, the head, the first coil and the extremity of the tail of the Serpent, the right shoulder of Ophiouchus, the Eagle, the head of the Waterpourer, the northern of the two Fishes.
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M a r i a Yp s i l a n t i not take up much of the Dog, only the space the Dog occupies with its feet. On it are the Argo and the Centaur’s great back, on it is the Scorpion’s sting, on it the bow of the brilliant Archer.
Pseudo-Manetho agrees with Aratus in that he omits the Beast, included by Eudoxus (fr. 73,13) in his description of the stars of the tropic, a passage criticised by Hipparchus, as the Beast is south of the tropic: poll“ går noti≈terÒn §sti tÚ Yhr¤on toË xeimerinoË tropikoË, Hipp. 1.10,17. The Waterpourer’s k n e e s are mentioned only by Germanicus 486 who possibly describes a figure on the globe of the Atlas Farnese or a sketch similar to it.30 Pseudo-Manetho is also very probably inspired by an analogous figure. Similar observations can be made about the description of the stars of Argo. The author agrees with Eudoxus who speaks of ka‹ t∞w ÉArgoËw ≤ prÊmna ka‹ ı flstÒw (fr. 73,12), with his poetically elaborated image, ll. 97–8 ±d¢ ka‹ ÉArgoËw / pontopÒrou . . . êkra kÒrumba.31 As probably happens with the janyØn tÉ aÈxen¤hn xa¤thn xaropo›o L°ontow and the description of the Bird, Ophiouchus and the Twins in the tropic of Cancer, this vivid image presumably indicates an artistic representation of the ship on a globe the author has in front of him. The River, included by Eudoxus (fr. 73,4) and not commented upon by Hipparchus, is omitted both by Aratus and Pseudo-Manetho. Pseudo-Manetho, however, like Eudoxus and Aratus, includes the Scorpion’s sting in the stars of the tropic, a choice with which Hipparchus (1.10,16) disagrees.32 30) See le Bœuffle (1975) 31 n. 2. 31) This precision is also found in Germanicus 489 sacrae speciosa aplustria Puppis, Hyginus 4.4 navis ipsius puppim, Planudes (b l. 5 f.) e‰ta dÉ ékrostÒliÒn te ka‹ flst¤on ÉArgÒow êkron / sx¤zei. The depiction of Argo on the globe Farnese is impressive indeed and probably gives us a characteristic example of the ship’s artistic representations on globes; Germanicus’ expression further reinforces the assumption that he did have a globe in front of him, probably a similar one to the globe Farnese. Cf. the analogous implications of Manilius’ elaborated expression about the Horse (1.4,348) and other constellations, see Thiele 47. Planudes and the globe of Ptolemy include in the tropic of Capricorn the Capricorn, the middle of the Waterpourer, the tail of the sea-Monster, the front foot of the Hare, the middle of the Dog, the stem-post ornaments and the extremity of the sail of Argo, a part of Corax, the edge of Hydra’s tail, Antaris, a star of Scorpio, the Archer’s head. 32) Cf. Kidd on Arat. 501–510 and 505. In general the description of the constellations of this tropic here is not far from their depiction on the globe Farnese, with the exception of the description of the parts of Argo, as on the globe Farnese
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After the tropic of the Capricorn the author describes the southern circle (see above, p. 75 f.). He proceeds with the description of the Meridian (ll. 109–11) and the Horizon (ll. 112–5). The two circles are also described in Geminus 5.54–67, Hyginus 4.10,1, and Manilius 1.633–65. Interesting is Pseudo-Manetho’s account about the Horizon (ll. 112–5). Achilles (Eis. 22, p. 51 f. Maass) repeats the common ancient view that the Horizon, which surrounds earth, is the poets’ ÉVkeanÒw, while filÒsofoi d¢ ka‹ gevm°trai ır¤zonta aÈtÚn kaloËsin.33 He also mentions Aratus’ ∏x¤ per êkrai / m¤sgontai dÊsi°w te ka‹ éntola‹ éllÆl˙sin in regard to the Horizon (Arat. 61 f.), and in Eis. 35 (Maass p. 71 f.) he discusses the confusion between the Horizon and the Meridian, caused by the Aratean expression, the line taken to be referring to the Meridian which is seen as a boundary between east and west.34 He explains that this is not correct, as tÚn går ır¤zonta metajÁ toË Íp¢r g∞w ka‹ ÍpÚ g∞n ≤misfair¤ou e‰nai sumb°bhke and that Aratus refers to the Horizon, kayÉ ˘ toË ır¤zontow §faptom°nh ≤ kefalØ toË DrãkontÒw §sti ka‹ prÚw t“ meshmbrin“, kayÉ ˘ sumbolØ g¤netai toË meshmbrinoË ka‹ toË ır¤zontow ka‹ t°mnousin éllÆlouw. Pseudo-Manetho seems aware of the confusion Aratus’ phrasing caused and tries to avoid it with his elegant chiastic line 113 fa¤nvn . . . keÊyvn which echoes the Aratean line explaining and clarifying, however, its content; thus the author of the Apotelesmatica makes clear that by Horizon he means the dividing line not between east and west but between the hemisphere where the solar movement is visible to the viewer and the hemisphere where it is not.35 Pseudoboth the prÊmna and the flstÒw of the ship cross the tropic, while Pseudo-Manetho speaks only of the stern, cf. Photius’ Lex. and Suda s. v. êkra kÒrumba: tå ékrostÒlia t«n ne«n tå §j°xonta katå prÊmnan μ pr“ran. 33) Cf. Strabo 1.1,6 diå d¢ toË »keanoË tÚn ır¤zonta (dhlo›), efiw ˘n ka‹ §j o tåw dÊseiw ka‹ tåw énatolåw poie› (sc. Homer), Eust. on Il. 5.6 (514,33 ff.) ÉVkeanÚw d¢ katå m¢n éllhgor¤an §st‹ kÊklow dixãzvn §nnohmatik«w tØn oÈran¤an sfa›ran katå fisÒthta toË t∞w g∞w §pip°dou ka‹ t°mnvn dixª katÉ §p¤noian aÈtØn efiw te tÚ Íp¢r g∞n ka‹ efiw tÚ ÍpÚ g∞n ≤misfa¤rion ka‹ diå toËto ır¤zvn legÒmenow. ÉEk toË toioÊtou ÉVkeanoË, kÊklƒ perieilhfÒtow tØn g∞n, ofl ést°rew én°rxontai ka‹ efiw aÈtÚn aÔyiw dÊontai; cf. also Schol. on Arat. 26 and Kidd on ibid. 34) For this confusion in Schol. on Arat. 62 as well as in Strabo 2.3,8, cf. Kidd 200. 35) Cf. Geminus’ account (6.16 ff.) of the visible and the invisible hemisphere of the earth, divided by the Horizon, with examples from Homer about peoples who inhabit the part “under” the Horizon and near the pole, where there is semes-
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Manetho also seems to have in mind Schol. on Aratus 26, where the scholiast remarks that Aratus is using Oceanus to indicate the horizon and proceeds by saying that it kÊklƒ m¢n går tØn kayÉ ≤mçw per¤keitai ofikoum°nhn, §j aÈtoË d¢ ka‹ efiw aÈtÚn a· te dÊseiw ka‹ éntola‹ g¤gnontai. Apot. 2. (1) 112–3 is a poetical elaboration of this description, with line 113 clarifying the statement about the sun-risings and settings. The description of the Meridian and the Horizon by PseudoManetho deserves a particular attention in regard to other points as well. It is interesting to notice that the author presents them as “unmoved and steady” (l. 107). Manilius says that these two circles “have wings”;36 this notion is due to the fact that the Horizon and the Meridian are not the same for every place of Earth, but change position according to the viewer’s standpoint.37 However there is no contradiction here: the two circles are unmoved because they do not participate in the circular movement of the sphere, their position being irrelevant to the position of the constellations, and for this reason are not depicted on the globes.38 Of special interest is Pseudo-Manetho’s statement that the two circles begin “from the top of the axis” (implication of the Northern pole, l. 44) and “cut each other up to the Southern pole” (l. 45). The Meridian does pass from the poles.39 But what about the assertion that the Horizon trial night; also cf. Geminus 5.54 ır¤zvn d° §sti kÊklow ı dior¤zvn ≤m›n tÒ te fanerÚn ka‹ tÚ éfan¢w m°row toË kÒsmou ka‹ dixotom«n tØn ˜lhn sfa›ran toË kÒsmou, Àste ≤misfa¤rion m¢n Íp¢r g∞w épolambãnesyai, ≤misfa¤rion d¢ ÍpÚ g∞n. Hyginus (4.3,3) mentions the Aratean passage (ll. 61 f.) in his discussion about the equator, which implies that he regards the Horizon as coinciding with the equator. This view, i. e. that the poets’ Ocean lies between the tropics, is criticised by Geminus, 16.22 ff., see G. Aujac, Géminus, Introduction aux phénomènes (Paris 1975) ad loc. 36) Hos volucris fecere duos, 1.633. 37) Cf. Man. 1.637 ff., 661 f.; also Geminus 5.58 oÈ katå pçsan d¢ x≈ran ka‹ pÒlin ı aÈtÒw §stin ır¤zvn, id. 5.66 oÈ katå pçsan d¢ x≈ran ka‹ pÒlin ı aÈtÒw §sti meshmbrinÒw. 38) Cf. Gem. 5.62 oÈ katagrãfetai d¢ ı ır¤zvn §n ta›w sfa¤raiw diÉ afit¤an toiaÊthn, ˜ti ofl m¢n loipo‹ kÊkloi pãntew ferom°nou toË kÒsmou épÉ énatol∞w §p‹ tØn dÊsin sumperistr°fontai ka‹ aÈto‹ ëma tª toË kÒsmou kinÆsei, ı d¢ ır¤zvn §st‹ fÊsei ék¤nhtow tØn aÈtØn tãjin diafulãttvn diå pantÒw, 5.65 (the Meridian) ka‹ otow d° §stin ı kÊklow ék¤nhtow §n t“ kÒsmƒ ka‹ tØn aÈtØn tãjin diafulãssvn §n ˜l˙ tª toË kÒsmou peristrofª. OÈ katagrãfetai d¢ oÈd¢ otow ı kÊklow §n ta›w kathsthrizom°naiw sfa¤raiw diå tÚ ka‹ ék¤nhtow e‰nai ka‹ mhdem¤an §pid°xesyai metãptvsin. See also Aujac (1993, La Sphéropéé) 166 f. 39) Cf. for instance Gem. 5.64 MeshmbrinÚw d° §sti kÊklow ı diå t«n toË kÒsmou pÒlvn ka‹ toË katå korufØn shme¤ou grafÒmenow kÊklow.
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also starts from the top of the axis and reaches the Southern pole? This can be explained by the recognition that the Horizon, that is the sum of all the possible horizons of the globe, does pass from the poles in principle (and by contrast to the five parallel circles which, cut vertically by the axis, do not), as it depends from the position of the viewer: for the inhabitants of either pole it coincides with the Equator, while for the inhabitants of the Equator it passes from the poles.40 For the Zodiac Aratus uses the term zvÛd¤vn . . . kÊklon (544), while Pseudo-Manetho prefers the term ZvdiakÒw, used by Eucleides, Hipparchus, later Nonnus.41 The author of the Apotelesmatica, who presents the twelve signs with a brief introduction, does not model his description of the Zodiac (2. [1] 129–40) on Aratus’ relevant passage (537–49) in which the introduction is lengthier, provides a detailed account of the size of the circle and the relevant position of constellations on it and, by contrast to Pseudo-Manetho, presents very briefly the twelve signs. It is noteworthy that the Maiden in the description of the Zodiac in the Apotelesmatica is holding the Spica in “her hands” (l. 134);42 the author here seems trying to avoid the controversy on the subject. Aratus is referring to one hand with no further definition, while most authors refer to the left hand, with the exception of Hyginus 3.24 who speaks of the right hand.43 Pseudo-Manetho explains also the change of the name of Xhla¤ to ZugÒw (136 ff.), as caused by the resemblance of the constellation to the scales of a balance. Schol. on Arat. 89 as well as 40) Cf. for instance Gem. 5.34–36. Strabo attests that for the Cinnamon-producing country, being in the middle of the distance between summer tropic and Equator, the arctic circle touches the Horizon (2.5,35). This happens even in more northern regions, cf. Achilles’ comment on Aratus, 35 (p. 71 Maass) ≤ d¢ katå tå FainÒmena ÉArãtou t∞w sfa¤raw y°siw Ùfe¤lei ¶xein tÚn érktikÚn kÊklon toË ır¤zontow §faptÒmenon. Needless to say, the Meridian and the Horizon described thus should not be confused with the two colures, which also pass through the poles, cf. Eud. fr. 76,5 ff. per‹ går t«n koloÊrvn legom°nvn kÊklvn, o„ grãfontai diã te t«n pÒlvn ka‹ diå t«n tropik«n ka‹ fishmerin«n shme¤vn, ktl. 41) Euc. Phaen. 6, Hipp. 1.6,4, Nonnus D. 6.68, see further Kidd on Arat. 544. 42) Kidd wrongly cites Pseudo-Manetho’s passage as stãxuaw §n xeir‹ f°rousa. 43) Germanicus (96 f.), following Hipparchus (2.5,12), mentions the left hand, see le Bœuffle (1975) 7; also Geminus 3.6,1, Schol. on Arat. 97. For the Spica of the Virgin see Kidd on Arat. 97. Aratus’ version, among other mythological accounts about the Maiden of Antiquity, is recorded in Hyginus 2.25.
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Anonymus 1,5 (Maass 94, l. 28 f.) report that it is the Egyptians who call the Claws Balance. The explanation of Pseudo-Manetho is similar to that of Schol. on Arat. 88, who gives, however, one more alternative.44 Aratus uses the Galaxy (469–79) as a means of comparison to the Equator and the Zodiac. The only other reference to the constellations Galaxy goes through in extant Greek literature is the detailed account of Ptolemy (Synt. Mathem. 8 b); accounts in Latin are that of Manilius (684–700) and Hyginus (4.7). In general, in his description of the Galaxy and its constellations (ll. 116–28), Pseudo-Manetho is closer to Manilius’ description than that of Hyginus and of Ptolemy; it is noteworthy that both Manilius and PseudoManetho start from the polar circle to define the beginning of the Galaxy.45 Manilius did use a globe with the Galaxy on it;46 we do not know the exact position of the constellations this globe depicted on the other circles, since Manilius describes only the stars 44) TaÊtaw d¢ ofl éstrolÒgoi ZugÚn e‰nai fas¤n, ≥toi ˜ti §mfere›w efis‹ plãstiggi, μ ˜ti parå to›w pos¤n efis‹ t∞w Pary°nou. ÑH aÈtØ d° §sti D¤kh, ¥tiw tå zugå talanteÊei. Another explanation is that at this time of the year the farmers measure the grain and gather it into their homes, Sphaera 121 ff. (p. 164 ff. Maass). There are further views as well, for instance that the sign is the catasterised Palamedes who invented the balance, see A. Bouche-Leclercq, L’Astrologie Grecque (Paris 1899) 141 with n. 2. It has been held that it is Hipparchus who invented the term zugÒw, see id. ibid. n. 1. 45) Cf. R. Scarcia (et all.), Manilio, il poema degli astri, 2 vols. (Milan 1996) 258. Hyginus is less precise on this point and, in his account about the constellations of the Galaxy, he follows the opposite order in regard to Manilius and Pseudo-Manetho. The differentiations between the Greek and the Latin poet in their accounts of the constellations of the Galaxy are: the Altar and “Orion’s top” over which the Galaxy passes (omitted by Manilius); the Bird’s Wings and the Charioteer’s knees (the Bird and the Charioteer are mentioned but their parts which are on the Galaxy are not specified by Manilius); Perseus’ right knee (Manilius refers vaguely to “the figure of Perseus”). The two authors agree in the inclusion of the sting (tail in Manilius) of Scorpio, if we interpret Pseudo-Manetho’s yÆr (l. 122) as Scorpio, which seems plausible, as it would be pointless to speak of the Beast’s sting. Ptolemy does not speak about Orion, while he includes the Kids, a part of the Dog, a part of Ophiouchus. 46) The Galaxy was depicted on some globes (cf. An. I, p. 95 Maass, ¶sti d¢ ı katakexrism°now §n tª sfa¤r& khr“ leuk“), but not all (cf. Geminius 5.69 oÈx ˜ristai d¢ aÈtoË tÚ plãtow, éllå katå m°n tina m°rh platÊterÒw §sti, katå d° tina stenÒterow. DiÉ ∂n afit¤an §n ta›w ple¤staiw sfa¤raiw oÈd¢ katagrãfetai ı toË gãlaktow kÊklow). It is a reasonable assumption that Manilius used a globe with the depiction of the Galaxy on it, see G. P. Goold, Manilius, Astronomica (Loeb edition), xxxiv.
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of the two colures, omitted by Pseudo-Manetho, and those of the Galaxy, while speaking briefly of four constellations of the Zodiac. It seems that Pseudo-Manetho’s globe had the Galaxy marked on it and, given the relative chronological proximity of the two authors, it would be plausible to suggest that the Greek poet’s globe might look like that of Manilius, without being identical however. From the above observations it is evident that Pseudo-Manetho bases his work on Aratus but also uses a globe in combination with numerous other sources which he updates according to the knowledge of his time. The variety and diversity of his sources reveals an author aspiring to be comparable to the great scholars of Hellenistic times who had a wide range of interests and talents and a deep erudition like Callimachus or Eratosthenes. The author of the Apotelesmatica takes his role as didactic poet really seriously, trying to exhaust all the sources available to him in order to produce a work with scientific as well as literary value. Probably following the example of Aratus who did not transfer unquestioningly Eudoxus’ views into verse, PseudoManetho does not stick slavishly to a model but on the contrary forms personal opinions originating from thorough investigation and painstaking reading; he is constantly cross-examining the writings of astronomical authors, seeking to clarify obscure points, to correct errors, to offer a view of his topic as comprehensive and accurate as possible. It becomes clear therefore that he does see didactic poetry as a vehicle of popularisation of science and a serious source of learning, according to the traditional concept of the genre. The effort for scientific integrity and reliability with which he treats his subject does not of course prevent him from also trying to attain high aesthetic standards in the presentation of his material, again according to the traditional purposes of didactic poetry, displaying a commendable competence regarding the imaginative exploitation of earlier poetry, as will be demonstrated below.
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The influence of Aratus on the level of poetry: concept, images, vocabulary The principal technique in which the author of the Apotelesmatica uses the Phaenomena is generally variation and imitation by contrast, manifest throughout the lines in which there is reference to Aratus. As will be shown, Pseudo-Manetho’s play with Aratus on the level of expression is evident in the lines under discussion in which, as we have seen, the Hellenistic poet is also used on the level of content. The author of the Apotelesmatica does the exact opposite of what Aratus did; the Hellenistic poet referred briefly to the five planets (Hermes, Aphrodite, Ares, Zeus, Cronus), “for the sake of completeness”,47 devoting his poem to the fixed stars and their significance for the weather; Pseudo-Manetho, on the contrary, refers briefly to the fixed stars, also for the sake of completeness, one can indeed remark, his main theme being the five planets themselves. The author presents his subject in the opening of the Apotelesmatica (2. [1] 14–17) imitating Aratus in opposition, as his image echoes the relevant Aratean passage and is directly opposite in purpose: Ofl dÉ §pim‹j êlloi p°ntÉ ést°rew oÈd¢n ımo›oi pãntoyen efid≈lvn duoka¤deka dineÊontai. OÈk ín ¶tÉ efiw êllouw ırÒvn §pitekmÆraio ke¤nvn ∏xi k°ontai, §pe‹ pãntew metanãstai. ... OÈdÉ ¶ti yarsal°ow ke¤nvn §g≈: êrkiow e‡hn éplan°vn tã te kÊkla tã tÉ afiy°ri sÆmatÉ §nispe›n. (Arat. 454–7, 460–1) But there are five other stars among them, but quite unlike them, that circulate all the way through the twelve figures of the zodiac. You cannot in this case identify where these lie by looking at other stars, for they all change positions (. . .). I am not at all confident in dealing with them: I hope I may be adequate in expounding the circles of the fixed stars and their constellations in the sky.
Pseudo-Manetho presents the image of the planets wandering through the Zodiac in a condensed form, by comparison with his model, and comes to the opposite conclusion: these five planets are exactly the subject of his poem. On 455 (pãntoyen . . . dineÊontai) 47) Kidd 343.
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Kidd notes that the meaning is not “on every side of the Zodiac constellations, but all the way through them”; the rightness of this interpretation is further supported by the passage of the Apotelesmatica, as the sense is taken up by Pseudo-Manetho in his diå kÊklou / ZvdiakoË (ll. 14 f.). 48 Note also the emphasis put on the name men have given to the planets, élÆtai, directly corresponding in meaning to Aratus’ metanãstai, and placed also at verse-end, position which further underlines the analogy of the two terms. Clearly Aratean is the use (l. 14) of the originally Homeric égauÒw, not seldom applied on stars in the Phaenomena: 71, 90, 392, 469. In addition, Pseudo-Manetho’s oÓw fËla brot«n ÙnÒmhnan élÆtaw (l. 16) is a playful reminiscence of similar Aratean passages.49 The Apotelesmatica continue with the description of the axis and poles of the sky (ll. 18–21), presented in the beginning of the Phaenomena: Ofl m¢n ım«w pol°ew te ka‹ êlludiw êlloi §Òntew oÈran“ ßlkontai pãntÉ ≥mata sunex¢w ée¤: aÈtår ˜ gÉ oÈdÉ Ùl¤gon metan¤ssetai, éllå mãlÉ aÏtvw êjvn afi¢n êrhren, ¶xei dÉ étãlanton èpãnth messhgÁw ga›an, per‹ dÉ oÈranÚn aÈtÚn égine›. (Arat. 19–23) The numerous stars, scattered in different directions, sweep all alike across the sky every day continuously for ever. The axis, however, does not move even slightly from its place, but just stays for ever fixed, holds the earth in the centre evenly balanced, and rotates the sky itself.
Pseudo-Manetho again imitates his model in opposition. Aratus first presents the axis in regard to earth, while Pseudo-Manetho reverses the order by speaking first about the sky in regard to the axis. The two poets continue with exactly the opposite order: Aratus proceeds with a reference to the sky while the author of the Apotelesmatica mentions the earth and the sea in his account of the axis rotating the universe around it (˘w per‹ pçn . . . dineÊmenow, ll. 48) This interpretation is also supported by Avienus’ translation of Aratus’ work, 908 ff. quinque itidem stellae . . . / per bis sena poli volitant rutilantia signa. 49) Cf. Arat. 92 tÒn =É êndrew §pikle¤ousi Bo≈thn, 36 ka‹ tØn m¢n KunÒsouran §p¤klhsin kal°ousi. For the astronomical connotations of §p¤klhsin kal°ousi in Homer, see Kidd ad loc.; the phrase also in 544. Cf. also 331 f. ka¤ min kal°ousÉ ênyrvpoi / Se¤rion, 388 NÒtion d° • kiklÆskousin, 399, 442, 476. PseudoManetho repeats this use elsewhere, for instance 2. (1) 46, 114, 136 f.
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20 f.).50 Pseudo-Manetho also transfers the emphatic and pleonastic presentation of continuity from the eternal movement of the stars (oÈran“ ßlkontai pãntÉ ≥mata sunex¢w afie¤, in Aratus), to the eternal rotation of the world around the axis (Œka dihnek°vw dineÊmenow oÈk épolÆgei, l. 21), in Aratus described with a simple afi°n. These Aratean lines are further exploited in another passage of the Apotelesmatica, 2. (1) 61–63. Here Pseudo-Manetho presents a reversal of the image of Aratus, using the latter’s égine›n and the emphatic reference to the sky (oÈranÚn aÈtÒn) to describe now the act of the sky which rotates the stars around earth, while in his model the sky was the object of the rotating force of the axis.51 On the level of vocabulary, one can observe that •l¤ssesyai is commonly employed by Aratus in descriptions of stellar movement.52 Furthermore •lissÒmenow per‹ xeiª / kapn“ / fÊsaw / d¤naw are epic formular phrases.53 The use of the verb’s active form can be seen within the poet’s characteristic tendency for avoidance of the exact 50) Pseudo-Manetho points out that the axis turns the universe around it passing, at the same time, through the land and the sea, or being extended across them (see LSJ s. v. diã A 4), since it is the axis of both earth and universe and its rotating force affects the whole world (pçn); cf. for instance Posidon. fr. 3c, 29 ff. ≤ g∞ . . . ımÒkentrow m¢n t“ oÈran“ p°lei ka‹ aÈtØ ka‹ ı diÉ aÈt∞w êjvn ka‹ toË oÈranoË m°sou tetam°now, ı dÉ oÈranÚw perif°retai per¤ te aÈtØn ka‹ per‹ tÚn êjona épÉ énatol∞w §p‹ tØn dÊsin, sÁn aÈt“ d¢ ofl éplane›w ést°rew ımotaxe›w t“ pÒlƒ, Eust. Od. 1.17,29 tÚn nohtÚn êjona nooËsi tÚn diå m°shw t∞w g∞w §lhlãmenon . . . per‹ ˜n, …w ka‹ t“ ÉArãtƒ doke›, oÈranÚw efile›tai. For the axis turning the sky around it, cf. also Schol. on Arat. 23 periãgei, fhs¤n, ı êjvn tÚn oÈranÒn, Achilles, Eis. 28 (p. 61, l. 4 ff. Maass): »nÒmastai dÉ êjvn diå tÚ per‹ aÈtÚn êgesyai, ka‹ peridine›syai tÚn oÈranÒn. For a transitive use of dineÊesyai, in an active meaning, cf. Diosc. AP 7.485 peridinÆsasye makr∞w énel¤gmata xa¤thw, “whirl your long flowing locks” (Paton’s translation, in the Loeb edition). Note the tmesis in the phrasing of Aratus (per‹ . . . égine›), imitated also by Pseudo-Manetho with his per‹ . . . dineÊmenow. Diã is constructed apo koinou with ga¤hw and pÒntou: similar constructions, with per¤, occur in book 6 of the same work, ll. 227 f. ˜ssoi dØ xyon¤ƒ te ka‹ afiputãtƒ per‹ k°ntrƒ / ést°raw eÈergoÁw f«tew beba«taw ¶xousin, ktl., l. 305 tÒssÉ efipΔn ét°knvn te ka‹ ésp°rmvn per‹ fvt«n. 51) For the variants attested from antiquity in regard to the reading oÈranÚn aÈtÒn of Arat. 23 and a discussion of their possibility of rightness, see Kidd ad loc. Kidd’s argumentation in favour of oÈranÚn aÈtÒn seems adequate for the acceptance of this reading. ÉAgine› at verse-end, apart from Arat. 23 where the whole passage refers, also occurs in the epic, cf. Od. 14.105, 22.198, Hes. Op. 576; also Arat. 38, 356, 623, 666, 792. 52) See Kidd on 147. 53) Cf. Il. 1.317, 18.372, 21.11, 22.95; see N. Richardson, The Iliad: A Commentary, vol. VI: books 21–24 (Cambridge 1993), on 22.95.
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repetition of the formula; it might also be a playful variation of the Aratean account about the manufacture of the globe with its axis and circles, through a comparison with the work of an excellent craftsman who would to›ã te ka‹ tÒsa pãnta per‹ sfairhdÚn •l¤ssvn (same sedes), Arat. 531.54 The use of the otherwise Homeric strofãligj for the sky moving the stars around it recalls the Aratean employment of the noun also on the rotation of a star; in Arat. 43 the movement of the Small Bear is described, meiot°r˙ går pçsa peristr°fetai strofãliggi, cf. Kidd ad loc. After the presentation of the axis, both Pseudo-Manetho (ll. 22–26) and Aratus continue with the two poles: ka¤ min pera¤nousi dÊv pÒloi émfot°rvyen: éllÉ ı m¢n oÈk §p¤optow, ı dÉ ént¤ow §k bor°ao ÍcÒyen »keano›o. DÊv d° min émf‹w ¶xousai ÖArktoi ëma troxÒvsi: tÚ dØ kal°ontai ÜAmajai. (Arat. 24–27) Two poles terminate it (sc. the axis) at the two ends; but one is not visible, while the opposite one in the north is high above the horizon. On either side of it two Bears wheel in unison, and so they are called the Wagons.
The reference to the northern pole as §p‹ krueroË Bor°v pnoiªsin érhr≈w in the Apotelesmatica (l. 23) probably echoes Arat. 480 t«n ı m¢n §ggÊyen §st‹ katerxom°nou bor°ao, in this passage referring to the northern tropic, cf. also Arat. 241 with Kidd ad loc. The use of égxoË for Ursa Minor is also characteristic for Pseudo-Manetho’s allusive writing in regard to Aratus; the present passage can support Buhle’s reading of the adverb in Arat. 63 with a reference to Ursa Major (see Kidd ad loc.), which will then be an ëpaj legÒmenon in Aratus. ÑUcoË, an adverb often used by Pseudo-Manetho,55 occurs once in Aratus, also at verse-end, line 509. In his description of the tropic of Cancer (ll. 72–82), PseudoManetho is echoing Aratus 481–91 in the general principals of presentation, although differences occur, not only due to the different 54) The lines further recall Orph. fr. 235 Abel thlepÒrou d¤nhw •likaug°a kÊklon / oÈran¤aiw strofãligji per¤dromon afi¢n •l¤ssvn. For the exploitation of the Orphic passage in the Homeric hymn 8.6, see T. W. Allen / W. R. Halliday / E. E. Sikes, The Homeric Hymns (Oxford 1936) ad loc. 55) Cf. for instance 2. [1] 35, 47, 109, 118.
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sources the author uses,56 but also due to his taste for elegant variations. The application of the epithet briarÒw to Ophiouchus (l. 77) is of a particular interest, as it seems to be not only a description of a vivid artistic representation (cf. above, p. 78), but also a deliberate allusion to Arat. 577 mogerÚn ÉOfioËxon, where mogerÒw “refers to the effort involved in controlling the serpent” (Kidd ad loc. ). What is more, podÚw y°nar ÑHniÒxoio (l. 81) is a direct reference to Arat. 718, where the rare in literature y°nar podÒw is applied exactly to the Charioteer’s foot. The phrase y°reow purilamp°ow Àrhn (l. 72), apart from recreating a Hesiodic atmosphere (see below, p. 95), is an imitation in opposition of Aratus 850 and 977 xe¤matow Àrh. As far as the account of the constellations of the Equator (Apot. 2. [1] 83–92) is concerned, it is worth noting that PseudoManetho’s description of Orion’s Belt and Hydra is a careful imitation with variation of Aratus’ corresponding lines: PseudoManetho changes the adjectives, replacing Aratus’ eÈfegg°ow with yhroktÒnou about Orion and Aratus’ afiyom°nhw with épeires¤hw about Hydra, retaining, however, the Aratean structure of the two lines (the whole line occupied by the description of Orion and almost the same word-order, three and a half feet for Hydra in the next line). Pseudo-Manetho opens the description of the tropic of Capricorn (ll. 93–100) with sk°pteo (l. 94), often used by Aratus for the introduction of a new topic.57 With his goËna / émfÒterÉ ÑUdroxÒou ka‹ KÆteow efinal¤oio / oÈrÆn, the author of the Apotelesmatica offers a variation of Aratus’ chiastic expression about the Waterpourer and the Beast in the description of the same tropic in the Phaenomena (l. 502).58 Now the description of Argo (ll. 97–8 ±d¢ ka‹ ÉArgoËw / pontopÒrou . . . êkra kÒrumba), apart from suggesting an artistic representation of the ship on a globe the author has in front of him (see above, p. 82), also echoes Aratus 686 êkra kÒrumba . . . poluteir°ow ÉArgoËw.59 ÉEstÆriktai, used by Pseudo56) For this, together with the Aratean passage, see above, under Astronomical sources. 57) Lines 778, 799, 832, 880, 892, 994 (see Kidd on 778), always at verseopening, as in the present passage of the Apotelesmatica. 58) Which echoes that of Eudoxus, ofl pÒdew toË ÑUdroxÒou ka‹ toË KÆtouw ≤ oÈrã (fr. 73,10 f., cf. Kidd on 502). 59) A Homeric echo (Il. 9.241), kÒrumba being a Homeric ëpaj legÒmenon, see further Kidd ad loc.
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Manetho about the Meridian (l. 109), is used by Aratus on fixed stars.60 Cf. also the same form in Arat. 351, same sedes. While Pseudo-Manetho does not base his detailed description of the Galaxy (ll. 116–28) on the Aratean one, it is noteworthy that in his first, brief account of the Galaxy (ll. 51–3), the author of the Apotelesmatica is inspired by the relevant Aratean passage, especially ll. 470 and 477: e‡ pot° toi nuktÚw kayar∞w, ˜te pãntaw égauoÊw ést°raw ényr≈poiw §pide¤knutai oÈran¤h NÊj, (. . .) e‡ pot° toi t∞mÒsde per‹ fr°naw ·keto yaËma skecam°nƒ pãnt˙ kekeasm°non eÈr°Û kÊklƒ oÈranÒn, μ ka¤ t¤w toi §piståw êllow ¶deije ke›no periglhn¢w troxalÒn (Gãla min kal°ousi): t“ dÆ toi xroiØn m¢n él¤gkiow oÈk°ti kÊklow dine›tai, ktl.
(469–78)
If ever on a clear night, when all the brilliant stars are displayed to men by celestial Night, . . . if ever at such a time a wondering has come into your mind when you observed the sky split all the way round by a broad circle, or someone else standing beside you has pointed out to you that star-emblazoned wheel (men call it the Milk), no other circle that rings the sky is like it in colour, etc.
Characteristic for Pseudo-Manetho’s style is, once more, the adjectival variation of Aratus’ oÈran¤h NÊj with émbros¤h, a Homeric adjective for night (see below, p. 95), the connection between Aratus and the Apotelesmatica further reinforced with the same metrical position of the two phrases. Similarly, although PseudoManetho’s source for the description of the Zodiac (ll. 129–40) is clearly not Aratus (see above, p. 86), it is interesting to note that his account of the Maiden recalls the famous Aratean description of how Justice, disappointed of people’s malice, abandoned the world when the Bronze Age men succeeded those of the Golden and Silver Age, and went to live in the sky (Arat. 96–136). Apot. 2. (1) 134 f. recalls Arat. 97 Pary°non, ¥ =É §n xeir‹ f°rei Stãxun afiglÆenta in combination with another Aratean passage, the account about Justice’s disapproval of the Silver Age men and her longing for those of the Golden Age, line 116 poy°ousa palai«n ≥yea la«n. 60) Probably echoing Il. 4.443 and Hes. Th. 779; see Kidd on Arat. 10. For the special association of the verb with the stars, cf. the discussion about its etymology in regard to Arat. l. 10 in Achilles’ Commentary ad loc. (p. 84 Maass) parå tÚ §sthr¤xyai ±tumolÒghse t«n ést°rvn tÚ ˆnoma. ÖAlloi d° fasin épÚ ÉAstra¤ou.
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Other literary echoes: Homer, Hesiod, Apollonius, Manilius The epic style of Pseudo-Manetho’s work invites reference to old epic and indeed encompasses echoes mainly from Homer and Hesiod creatively exploited and adjusted in the new context. It would be sufficient here to refer to certain characteristic cases, including adaptations and variations of epic formulas. Such is fËla brot«n (l. 16), a variation of the epic fËlÉ ényr≈pvn.61 F¤low, again, an adjective commonly used in epic formulas, freely combined with various nouns in a sense equivalent to the possessive pronoun, ‘my’, ‘your’ (patr¤w ga›a, yumÒw, uflÒw, êloxow, etc.); Pseudo-Manetho attaches it to éoidÆ (l. 17) to indicate his own poetry, attaching thus his work, from the opening section, to the didactic tradition, as it is exactly this genre, described as éoidÆ, that the Muses taught Hesiod, according to his own testimony.62 Katå kÒsmon (l. 15) is an epic expression meaning ‘properly’, ‘in a becoming way’, ‘in order’.63 If we place the phrase in an adjunct with the “signs” (ka‹ de¤khlÉ), as Koechly does, we are obliged either to connect two terms not syntactically equal and have another katã meant (“in neat order and through the signs”), which would result to an impossible construction, or take kÒsmow to mean ‘world’ and translate “through the world and the signs”, which is unlikely after diå kÊklou ZvdiakoË, especially when émeibÒmenoi invites the adverbial sense of katå kÒsmon = “in order”. Given that G most probably transmits the manuscript’s reading,64 the nonsense AÉ d¤khlÉ of the codex could be corrected to éllÆktvw65 or 61) Od. 3.282, 7.307, 15.409, h. Apol. 161, al., Hes. fr. 1,1. 62) Th. 22 a· nÊ poyÉ ÑHs¤odon kalØn §d¤dajan éoidÆn. Cf. also Hes. Th. 31 §n°pneusan d° moi éoidÆn, if this variant, instead of the vulgate reading aÈdÆn, is correct, see West ad loc. ÉAe¤dein has become common in expressions of self-referentiality in poetry, and poets do speak of their work in the first person with this verb, cf. for instance Theogn. 4, Pind. N. 5.50, N. 10.31. Callimachus often uses the verb, especially in pieces of programmatic importance: frr. 1.33 drÒson ∂n m¢n ée¤dv, 612.1 émãrturon oÈd¢n ée¤dv, H. 2.106; cf. H. 1.1, ibid. 92, H. 2.31. 63) Il. 2.214, 8.12, 10.472, 11.48, al. 64) “Gronovius summa fide codicem descripsit” (Koechly 1851, iii). “Hunc poetam summa cum cura primum ex MS bibliothecae Mediceae manu mea descripsi, deinde numerum versuum ad MS exegi”, according to Gronovius himself (Praefatio 4). 65) The poet uses êllhkta (3. [2] 206) and êllhkton (3. [2] 252) also as adjectives.
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eÈkÆlvw.66 Koechly’s less radical suggestion ín de¤khlÉ, “through the signs”, cannot be excluded. Epic colour is again not absent from the description of the axis (ll. 18–21): étrug°tow pÒntow (l. 20) is an epic formula;67 furthermore, the whole line echoes the epic contrasting pair land-sea, with a variation by the use of pÒntow instead of yãlassa.68 ÉAmbros¤h nÊj (l. 52) is a playful variation of Aratus’ oÈran¤h nÊj (l. 270, see above, p. 93), but also a Homeric reminiscence, as émbros¤h nÊj occurs at verse-end thrice in the Odyssey.69 Pukinªsi §n‹ fres¤n (l. 58) is again Homeric.70 The epic tone is heard also in line 63, with the formulaic d›an xyÒna.71 In his description of the tropic of Cancer, by his y°reow purilamp°ow Àrhn (l. 72), apart from echoing Aratus (see above, p. 92), Pseudo-Manetho colours his picture with a Hesiodic touch, as he produces a variation of an expression of the didactic epic, cf. Op. 584 y°reow kamat≈deow Àr˙, ibid. 664 y°reow kamat≈deow Àrhw, both at hexameter-end.72 It is also worth noting that the adjective Pseudo-Manetho attributes to the Lion, xaropÒw (l. 76) is a Homeric ëpaj legÒmenon, Od. 11.611, where it describes nothing other than lions, xaropo¤ te l°ontew.73 In his account of the tropic of Capricorn Pseudo-Manetho gives Argo (ll. 97 ff. ÉArgoËw . . . pontopÒrou) its Homeric adjective, which appears the only time we hear about the ship in Homer, Od. 12.69 f. pontopÒrow nhËw, / ÉArgΔ pçsi m°lousa. DiÉ afiy°row in l. 98 is in its Homeric sedes, before the bucolic diaeresis.74 In his description of the stars of the Southern circle, Pseudo-Manetho refers to the construction of Argo by Athena (ll. 104 f.);75 I have correct66) Cf. Hesych. eÎkhla, eÈprep∞. 67) Il. 15.27, Od. 5.84,140, 7.79, al., Hes. Th. 241, 696. 68) Il. 14.204 ga¤hw n°rye kaye›se ka‹ étrug°toio yalãsshw, cf. h. Hom. 22,2 ga¤hw kinht∞ra ka‹ étrug°toio yalãsshw, Hes. Th. 413 mo›ran ¶xein ga¤hw te ka‹ étrug°toio yalãsshw (with West ad loc. ). 69) 4.427, 4.574, 7.283. 70) Pukinåw fr°naw, Il. 14.294, h. Ven. 38, 243. 71) Cf. Eust. on Il. 24.532 (950) XyΔn d¢ d›a, kayå ka‹ yãlassa, diå tÚ ¶ntimon. 72) The Homeric formula is ¶arow / efiarinØ Àrh, Il. 2.471, 16.643, al. 73) For the characteristic use of the adjective on animals’ eyes and its other meanings in literature, see Kidd on Arat. 394. 74) Il. 2.458, 17.425, 19.351. 75) See Ap. Rh. 1.111,527,551, al., see F. Vian, Apollonios de Rhodes, Argonautiques, t. I, 55 n. 112. For the construction of the ship from pines of Pelion, cf. Hdt. 4.179, Eur. Med. 3 f., Ap. Rh. 1.386 with Vian ad loc.
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ed the temoËsa of the codex (if Koechly reports accurately the reading of the manuscript, the rare in poetry Attic aorist participle temoËsa [¶temon] is almost surely a mistake, as we should have the epic [and also generally used] participle tamoËsa) to kamoËsa because not only is this adjective far more appropriate for the description of the construction of an artefact in this phrasing and syntax,76 but is actually repeatedly used by Apollonius on the same subject (cf. 1.111 aÈtØ går ka‹ n∞a yoØn kãme, 3.340 n∞a dÉ ÉAyhna¤h Pallåw kãmen). Apot. 2. (1) 104 f. is thus a playful combination with variation of these passages and Ap. Rh. 2.1187 f. tØn går ÉAyhna¤h texnÆsato ka‹ tãme xalk“ / doÊrata Phliãdow koruf∞w pãra. In its normal Homeric sedes is also êcorrow in the description of the constellations of the Galaxy (l. 125): the variation in regard to tradition lies here in that it is the adverb êcorron that usually occupies the verse-opening in Homer.77 The epic tone rings through the lines in the account about the Meridian (ll. 109–11);78 ±–hn o‰mon (l. 110) further seems a variation of the Homeric formula about water and air, Ígrå k°leuya, Il. 1.312, Od. 3.71, 4.842, al., ±erÒenta k°leuya, Od. 20.64. It should not go unattended, in this discussion, that Manilius is occasionally echoed in the text of Pseudo-Manetho. In an instance of his account of the Meridian (ll. 110 f.), the author takes up Manilius’ discernit diem (1.635). Interesting is also Apot. 2. (1) 73, which opens the account about the Tropic of Cancer, with Olympus indicating the sky, as often in Manilius,79 also at verseend; the image moreover recalls Man. 1.576 ingenti spira totum 76) There is no reference to the trees which could be ‘cut’ by Athena, to justify the use of t°mnein, and this verb cannot be forced to mean ‘make’, as if it were kãmnein: meaningless is the rendering of Koechly (1851): “et gubernaculum navis, quam summis secans / Pelii in verticibus Minerva posuit in stellis Argo”. Salvini (39) renders “ed il timone della nave / cui di Pelio tagliando dalla cima, / Argo, Pallade pose infra le stelle” as if the text had §k koruf∞w, which is Gronovius’ reading, and so probably indeed the reading of the transmitted text, but seems to be rightly corrected by Koechly to §n korufa›w. Likewise the ékrotÒmoisi that is the reading of Gronovius, and also presumably that of the codex, is most probably rightly corrected to ékrotãt˙si. 77) Il. 4.152, 7.413, 12.74, 16.376, 21.382, Od. 10.558, 11.63. 78) Cf. Il. 21.111 ¶ssetai μ ±Δw μ de¤lh μ m°son ∑mar, Hes. Op. 404 xrei«n te lÊsin, ibid. 810 efinåw dÉ ≤ m°ssh §p‹ de¤ela l≈ion ∑mar. Cf. Kidd on Arat. 118. De¤elon in Pseudo-Manetho (l. 110) occurs at the Hesiodic sedes. 79) For instance 1. 576, [595], 609, 634, 711, al.
Apotelesmatica 2. (1) 14–140: Sources and Models
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praecingit Olympum, on the Equator “girding” the sky like a ring. In his description of the constellations of the Galaxy and while speaking about the “turning” of the Galaxy after the feet of Centaur and before Argo (ll. 124 f.), Pseudo-Manetho’s phrasing again seems modelled on Manilius’ rursusque ascendere caelum / incipit (ll. 693 f.), an echo which can imply a similar depiction of the stars on the globes the two authors used (see above, p. 86 f.), but also Pseudo-Manetho’s acquaintance with the text of Manilius. Pseudo-Manetho’s remarks about the invisibility of all circles which can be grasped only by the intellect, apart from the Galaxy and the Zodiac (ll. 31 f., 57 f.), are parallel to Manilius’ account of the Zodiac (ll. 677 ff.): nec visus aciemque fugit tantumque notari / mente potest, sicut cernuntur mente priores, / sed nitet ingenti stellatus balteus orbe, etc. In general it can be observed that the author follows the Alexandrian literary practice according to which poets produce variations of one another’s verses and their writings are full of echoes of the works of the past in the fashion of the arte allusiva. His playful use primarily of Aratus as well as of Homeric and Hesiodic formulas reveals that he, a poeta doctus, consciously places himself in the Hellenistic tradition of poetry writing and that he tries to find creative ways to exploit the possibilities the diction of the great works offers him, incorporating their expressions, phrasings and images in his composition through constant variations which endow his verses with the sense of an elegant balance between originality and freshness on one hand and the expected epic grandeur and dignity on the other. *** Granted the loss of numerous astronomical treatises and, needless to say, that of the various illustrations in painting and sculpture of the celestial globe of Antiquity it is impossible to reconstruct the exact models of the first lines of book 2 of the Apotelesmatica. Our extant evidence, however, does allow certain observations in the course of suggesting possible passages the author might have consulted. It is obvious and beyond doubt that Aratus’ work constituted a source of inspiration for PseudoManetho who uses the text of his Hellenistic predecessor with a
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constant reference to its updated commentaries, and also with the help of a globe which he in fact seems describing, perhaps a globe similar to that of Manilius. From this point of view his work is comparable to that of Aratus for a further reason: the author of the Apotelesmatica imitates the poet of the Phaenomena in that he also treats his model, Aratus, in a critical way, as Aratus too was not absolutely faithful in his rendering of Eudoxus, but had occasionally deviated from his model following his own observations and research. Pseudo-Manetho is thus continuing the practice of a critical and imaginative dialogue on both literary and scientific grounds his Hellenistic predecessor introduced and aspires to a poetic composition based on the astronomical knowledge of his era which has, at the same time, strong roots in the didactic genre and in the epic tradition more generally. Leukosia
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PS.BOETHIUS, CASSIODOR UND VARRO, DE GEOMETRIA In K. Lachmanns „Gromatici Veteres“ (Bd. 1,1848, 393–406) sind unter dem Verfassernamen ‚Ps.Boethius‘ Exzerpte aus einer Demonstratio Artis Geometricae abgedruckt, welche in den römischen Literaturgeschichten1 als „ein absurdes gromatisches Machwerk, das des Boethius unwürdig ist“ bezeichnet worden ist. Die neuere Forschung hat seitdem kaum Notiz von der Schrift genommen2. Sie könnte gleichwohl von Bedeutung sein, sowohl für die Geschichte der römischen Enzyklopädistik als auch speziell für die Rekonstruktion des wichtigsten Werks dieser Gattung, M. Terentius Varros verlorenen Buchs de disciplinis. Lachmann hat in seiner Edition das kurze Verdikt abgegeben „haec ex Cassiodoro sumpta sunt de geometria“3, und dieses Urteil gilt seitdem4. Ist das richtig, dann lohnt sich weitere Beschäftigung damit in der Tat höchstens für die Textkritik von Cassiodors institutiones 2,6, auf welchen Passus sich Lachmann bezieht. Auf den ersten Blick scheint Lachmann recht zu haben: Mehr als 80% des Passus bei Ps.Boethius ist, wie die Synopse (vgl. die folgende Seite) zeigt, mit Cassiodorus, inst. 2,6 wortidentisch5. 1) Schanz-Hosius 4, 2, 154, b, Teuffel-Kroll 36, 478, 6, beide fußend auf C. Thulin, Zur Überlieferungsgeschichte des Corpus Agrimensorum, Göteborg 1911, 27 ff. 2) Vgl. Thulin 1911 (wie Anm. 1) und W. Trillitzsch, Seneca im literarischen Urteil der Antike, 2 Bde., Amsterdam 1971, Bd. 1, 208. Danach hat, soweit ich sehe, erst wieder M. Salvadore die Aufmerksamkeit auf das Exzerpt gelenkt, indem er es in den ersten Band seiner begonnenen Sammlung der Varro-Fragmente unter dem Lemma ‚Disciplinarum Libri, de geometria‘ abgedruckt hat (M. Terenti Varronis Fragmenta omnia quae extant, Supplementum I, Olms-Weidmann, Hildesheim 1999, 104, Nr. 171). Die von Salvadore zitierte Literatur (Reitzenstein 1885, Reeh 1916) führt in der Frage der Authentizität nicht weiter. 3) Grom. vet. 1,393 app. crit. 4) Vgl. Thulin 1911 (wie Anm. 1) 37, Trillitzsch 1971 (wie Anm. 2) 208. 5) Die Version Cassiodors (Spalte 2) ist immer dann unterstrichen, wenn sie mit der des Ps.Boethius identisch ist; sie ist doppelt unterstrichen, wenn es sich um eine synonymische Variation bei gleichem Inhalt handelt. Die Version von Ps.Boethius ist unterstrichelt, wenn sie in Cassiodor keine Entsprechung hat.
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Ps.Boethius 393,1–17
Cassiod. inst. 2,5 u. 6
geometria est disciplina magnitudinis immobilis formarumque descriptio contemplativa, per quam unius cuiusque termini declarari solent; documentum etiam visibile philosophorum.
(6,2) Geometria vero est disciplina magnitudinis immobilis et formarum
quod Latine dicitur terrae dimensio, quoniam per diversas formas ipsius disciplinae primum Aegyptus fertur fuisse partitus pro necessitate terminorum terrae, quos Nilus fluvius inundationis tempore confundebat. cuius disciplinae magistri mensores ante dicebantur. Sed Varro peritissimus Latinorum huius nominis causam sic extitisse commemorat dicens prius quidem dimensiones terrarum terminis positis vagantibus ac discordantibus populis pacis utilia praestitisse; deinde totius anni circulum mensuali numero fuisse partitum. tunc et ipsi menses, quod annum metiantur, dicti sunt. tunc et dimensionem orbis terrae probabili refert ratione collectam ideo factum est ut disciplina ipsa geometriae nomen acceperit, quod per saecula longa constaret.
(5,11) . . . Geometriam . . ., quae est descriptio contemplativa formarum, documentum etiam visibile philosophorum (6,1) Geometria latine dicitur terrae dimensio, quoniam per diversas formas ipsius disciplinae, ut nonnulli dicunt, primum Aegyptus dominis propriis fertur esse partitus; cuius disciplinae magistri mensores ante dicebantur. sed Varro peritissimus Latinorum, huius nominis causam sic extitisse commemorat, dicens prius quidem dimensiones terrarum terminis positis vagantibus ac discordantibus populis pacis utilia praestitisse. deinde totius anni circulum menstruali numero fuisse partitum, unde et ipsi menses, quod annum metiantur, edicti sunt. verum postquam ista reperta sunt, provocati studiosi ad illa invisibilia cognoscenda coeperunt quaerere quanto spatio a terra luna, a luna sol ipse distaret, et usque ad verticem caeli quanta se mensura distenderet; quod peritissimos geometras assecutos esse commemorat. tunc et dimensionem universae terrae probabili refert ratione collectam, ideoque factum est ut disciplina ipsa Geometria nomen acciperet, quod per saecula longa custodit.
P 84+ Isid. diff. 2,151 per quam unius cuiusque termini declarari solent
Isid. diff. 2,151 hanc primum Aegyptii invenerunt pro necessitate terminorum terrae quos Nilus inundationis tempore confundebat.
Ps.Boethius, Cassiodor und Varro, de geometria
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Zweifel an der behaupteten Abhängigkeit weckt jedoch die Struktur des Ps.Boethius-Passus: Er enthält anfangs eine doppelte Definition der geometria sowie einen Hinweis zu ihrer Funktion in der Philosophie und außerdem eine Erläuterung zu ihrer praktischen Verwendung bei der Bodenabgrenzung, welche bei Cassiodor fehlt. Die beiden Definitionen sind auch bei Cassiodor vorhanden, aber in umgekehrter Reihenfolge und im Abstand von 14 Zeilen voneinander, wobei die zweite Definition von Ps.Boethius sich bei Cassiodor außerhalb des Kapitels 6 (Geometria) am Schluß des Kapitels 5 (Musica) befindet. Darüber hinaus folgt der Hinweis auf die Funktion der geometria in der Philosophie bei Ps.Boethius erst nach der Erläuterung der praktischen Verwendung der geometria, und nur in dieser Junktur ist das etiam – als Steigerung zur PraxisHandhabung – sinnvoll, bei Cassiodor ist es funktionslos. Hinzu kommt, daß der über die Cassiodor-Version hinausgehende Satz (per quam – solent) keine individuelle Erfindung von Ps.Boethius ist, sondern im gleichen Zusammenhang auch in einem anonymen Traktat über die disciplinae6 sowie in Isidors Differentiae7 wortidentisch zu finden ist. Die bei Ps.Boethius anschließende Darlegung über Etymologie, Erfindung und Entwicklung der geometria hat bei Cassiodor dann eine weitgehend wortidentische Entsprechung – wenn man von der nichtlinearen Folge Cassiod. inst. (Buch 2) 6,2 – 5,11 – 6,1 einmal absieht. Doch gibt es wieder einen deutlichen Überstand bei Ps.Boethius mit der Mitteilung, daß die Erfindung der geometria in Ägypten aufgrund der durch die Nilüberschwemmungen notwendigen Neuvermessung von Grund und Boden verursacht sei: Diese Erläuterung hat in der Version des Cassiodor keine Entsprechung; sie ist aber wieder keine individuelle ‚Erfindung‘ des Ps.Boethius, sondern wortidentisch in Isidors Differentiae8 vorhanden. Der Rest des Ps.Boethius-Passus zu geometria ist, bei starker inhaltlicher Verkürzung im Vergleich zur Cassiodor-Version, wortidentisch mit Cassiodor und könnte wieder Lachmanns These stützen. Sie läßt sich aber, nach dem Bild der Synopse, nur dann halten, wenn man annimmt, daß Ps.Boethius außer Cassiodor auch 6) De septem artibus liberalibus (= P), l.84, in: Nova de veteribus, Festschrift für P. G. Schmidt, München / Leipzig 2004, 132–144, hier 137. 7) Isid. diff. 2,151, Migne Patrologia Latina 83, Sp. 93. 8) Isid. diff. 2,151, MPL 83, Sp. 93.
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Isidors Differentiae herangezogen und beide Vorlagen, unter Vernachlässigung von deren jeweils ursprünglicher Textanordnung, fusioniert hat. Das ist unrealistisch. Eine weitere Beobachtung, die ebenfalls gegen Lachmanns These spricht, ist noch anzufügen: Bei Ps.Boethius folgt auf den gerade behandelten Passus eine Art von laus geometriae. Sie führt dahin, daß man durch die geometria das Walten des Schöpfers der Welt in Teilen erkennen könne, und betont noch einmal die philosophische Funktion dieser Disziplin – deren Ziel ja die descriptio formarum ist –, die in Senecas Werk de forma mundi ihren besten Ausdruck gefunden habe. Dieser Passus findet sich, fast vollkommen wortidentisch, auch bei Cassiodor (vgl. die folgende Synopse), dort aber überraschenderweise bezogen auf astronomia: Am Ende des Kapitels geometria leitet Cassiodor mit astronomia superest, quam si . . . perquirimus9 auf die neue Disziplin über und bezieht all das, was bei Ps.Boethius über die geometria gesagt ist, auf astronomia10.
Ps.Boethius 394,1–11
Cassiod. inst. 2,6,4
quam artem (scil. geometriam) si arte et diligenti cura atque moderata mente perquirimus, hoc quod praedictis divisionibus manifestum est, sensus nostros magna claritate dilucidat. et illud supra: quale est caelum animo subire totamque illam machinam supernam indagabili ratione discutere et inspectiva mentis sublimitate ex aliqua parte colligere et agnoscere mundi factorem, qui tanta et talia arcana velavit. nam mundus ipse spherica fertur rotunditate collectus, ut diversas rerum formas ambitus sui circuitione concluderet. unde librum Seneca consentanea philosophis disputatione formavit, cui titulus est de forma mundi.
(4) astronomia superest; quam si casta et moderata mente perquirimus, sensus quoque nostros, ut veteres dicunt, magna claritate dilucidat. quale est enim ad caelos animo subire totamque illam machinam supernam indagabili ratione discutere et inspectiva mentis sublimitate ex aliqua parte colligere quod tantae magnitudinis arcana velaverunt. nam mundus ipse, ut quidam dicunt, spherica fertur rotunditate collectus, ut diversas rerum formas ambitus sui circuitione concluderet. unde librum Seneca consentanea philosophis disputatione formavit, cui titulus est de forma Mundi.
9) Inst. 2,6,4. 10) Mynors (1963) hat die kuriose Übereinstimmung im Similienapparat der Cassiodor-Ausgabe notiert; auch Trillitzsch (wie Anm. 2) Bd. 2, 208, hat sie bemerkt, allerdings beide, ohne den Sachunterschied zu signalisieren.
Ps.Boethius, Cassiodor und Varro, de geometria
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Wo der ursprüngliche Bezug liegt, ist evident: Die konventionelle Vorstellung war, daß die Geometrie die genetisch ältere Disziplin sei, ohne die die Astronomie nicht möglich wäre; erst nach Vermessung der Erde hätten sich die studiosi den Dimensionen des Himmels zugewendet, ad illa invisibilia cognoscenda (vgl. oben Synopse 1, Cassiod. inst. 2,6,1) – ein Reflex davon ist die legendäre platonische Forderung mhde‹w égevm°trhtow efis¤tv! Und warum Cassiodor diesen Bezug verschiebt, ist ebenfalls durchschaubar: Die Astronomie mit ihrer Sparte der Schicksalsdeutung ist ein gefährlicher Boden für Christen: cetera vero quae se ad cognitionem siderum coniungunt, id est ad notitiam fatorum, et fidei nostrae sine dubitatione contraria sunt, sic ignorari debent ut nec scripta esse videantur (Cassiod. inst. 2,7,4); aber sie ganz aus seinem Artes-Katalog wegzulassen, hindert ihn offenbar die Achtung vor der Tradition. Cassiodor kennt eine – offensichtlich von Christen erfundene – Trennung in (rationale) astronomia und (abergläubische) astrologia11; deshalb ist ihm eine wissenschaftlich-theologische Legitimation – eben eine laus astronomiae – vordringlich wichtig. Der Ps.Boethius-Passus beschränkt sich auf die geometria. Daß also Ps.Boethius hier Cassiodor ausgebeutet habe, ist kaum glaublich12: Es liegt eine Quellengemeinschaft vor. Dieses Abhängigkeitsverhältnis wird bestätigt, wenn man den größeren Kontext in den Blick nimmt, in welchen der disciplinaPassus de geometria ursprünglich gehört: Er ist Teil einer enzyklopädischen Darstellung der Septem artes liberales. Die einschlägigen Texte sind Cassiodor, institutiones 2, Isidor, etymologiae 2–8, Isi11) Nachweis in meiner in Anm. 13 angekündigten Abhandlung. 12) Daß das Ursprüngliche eine laus geometriae war und diese von Cassiodor ‚umgepolt‘ worden ist, während Ps.Boethius den ‚Urzustand‘ bewahrt, zeigt sich auch noch an einer anderen Beobachtung: Bei Ps.Boethius findet sich anfangs als ein ‚Überstand‘ gegenüber Cassiodor der Satz hoc quod praedictis divisionibus manifestum est (394,2 Lachm.); er faßt die vorangehenden Aussagen über die Struktur und Systematik der geometria zusammen. Die gleiche Funktion hat der Satz auch bei Cassiodor am Ende von dessen Ausführungen über die geometria (inst. 2,6,3, v o r der Überleitung zur astronomia), aber hier umgeformt zu einer Empfehlung der Euklid-Übersetzung des Boethius: . . . Euclidem translatum Romanae linguae . . . Boethius edidit; qui si diligenti cura relegatur, hoc quod praedictis divisionibus apertum est, manifestae intelligentiae claritate cognoscitur. Hier ist die Hand Cassiodors evident, der seinen Mönchen immer wieder mit relegere und ähnlichen Wendungen die Lektüre bestimmter Werke empfiehlt, z. B. inst. 2,5,10 (de musica): . . . habetis Gaudentium, quem si sollicita intentione relegatis . . . (vgl. auch inst. 2,1,1; 2,1,3; 2,2,10; 2,6,4).
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dor, differentiae 2,39 (148–154) und eine anonyme Schrift de septem artibus liberalibus. Ich kann in einer gesonderten Abhandlung zeigen13, daß diese vier Texte, deren letzter noch weitere wörtliche Übereinstimmungen mit Cassiodor, inst. 2 aufweist, als in der obigen Synopse notiert sind, unabhängig auf eine einzige Quelle zurückgehen und daß ihre scheinbare wechselseitige Verflechtung nur so zu erklären ist. Das gilt dann natürlich gleichermaßen für den integralen Teil de geometria und schließt auch dort eine – grundsätzlich mögliche – Fusionierung von Cassiodor und Isidor durch Ps.Boethius aus. Dieses Ergebnis mag auf den ersten Blick unerheblich erscheinen: Ps.Boethius’ de geometria nicht von Cassiodor, institutiones 2,6 abhängig, vielmehr beide von einer älteren Quelle – was ist damit gewonnen? Im vorliegenden Falle wäre das durchaus ein Gewinn, denn beide zitieren als Gewährsmann namentlich Varro: Wir hätten demnach zwei unabhängige Zeugen für Varros de disciplinis, Buch 4 de geometria – vorausgesetzt, wir könnten sie beide datieren. Cassiodors institutiones sind auf die Spanne zwischen 551 und 562 datierbar. Zu Ps.Boethius heißt es bei Thulin14 „nicht später als im VIII. Jh.“; aber was ergibt der Sprachstand dieses Textes? Er enthält eine Reihe von eher auffälligen Ausdrücken15. 1. Geometria est . . . formarum . . . descriptio contemplativa (393,1). Die Junktur descriptio contemplativa ist unbelegt; contemplativus ist seit Seneca gebräuchlich, im 5./6. Jh. beliebt, z. B. bei Augustin (civ. 14,22: contemplativa virtus; c. Faust. 22,27: contemplativa ratio), Eucherius (form. praef. 6,1), Boethius (in Porph. comm. pr. 1,3 p. 8, 6 Br.); descriptio formarum ist seit Vitruv Terminus technicus für Riß-Zeichnung (ThLL s. v. descriptio). 2. Geometria . . . documentum etiam visibile philosophorum (393,3). Die Junktur documentum visibile ist nicht belegt; visibilis wird von Lewis/Short als „late Latin“ charakterisiert, Belege bei Calcidius und Prudentius. 3. Utilitas geometriae triplex est, ad facultatem, ad sanitatem, ad animam (393,18). Die Wendung utilitas est ad aliquid ist eine ty13) Zur spätantiken Wissenschaftsgeschichte: eine anonyme Schrift über die Philosophie und ihre Teile (Paris BN lat. 3750, f. 62v – 65v, = P), demnächst in: Nachrichten der Göttinger Akademie. 14) Thulin 1911 (wie Anm. 1) 30. 15) Ich beschränke mich auf den einleitenden Abschnitt Ps.Boethius 393,1– 394,15.
Ps.Boethius, Cassiodor und Varro, de geometria
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pisch spätlateinische Substantivierung des gängigen utilis ad, vgl. den freien Gebrauch von ad16. Auf ähnlichem Sprachhorizont bewegt sich ein Satz im anschließenden (394,11–395,14) QuintilianExzerpt (inst. 1,10,34 bis 45, bisher nicht als solches erkannt), welcher ein offensichtlicher Zusatz zu Quintilian ist: . . . quod (scil. numerorum notitia) ad subtilitatem constat tenuissima et ad scientiam utilissima et ad exercitationem valde iucundissima (394,17– 19); hier verrät der Gebrauch von valde beim Superlativ zusätzlich die spätantike Stilisierung17. 4. Quam artem (scil. geometriam) si . . . moderata mente perquirimus . . . (394,1). Abgesehen von der Similie quam (scil. dignitatem) sic casta, sic moderata mente peregisti in Cassiodors Variae (8,21,5), in einem Brief von 527, ist die Wendung moderata mente nicht belegt. Es darf dabei nicht übersehen werden, daß die mit Ps.Boethius fast wortgleiche Wendung in Cassiodors institutiones (2,6,4) ebenfalls die Kombination mit casta aufweist: astronomia superest, quam si casta ac moderata mente perquirimus. Wenn Cassiodor also in einem Zeitabstand von über 25 Jahren diese Wendung zweimal gebraucht, spricht dies eher für die Nutzung der gleichen Quelle als für eine Eigenprägung Cassiodors; diese Vermutung wird bestärkt durch die Tatsache, daß an der institutio-Stelle die Fortsetzung des Satzes ausdrücklich als Zitat gekennzeichnet ist durch ut veteres dicunt. Mithin hat man für die besagte Wendung von einem terminus ante 527 auszugehen. 5. (Geometria) . . . sensus nostros magna claritate dilucidat (394, 3). dilucidare ist seit Tertullian in übertragener Bedeutung belegt und wird im 4. und 5. Jh. weiter so gebraucht; die Junktur mit magna claritate ist nicht belegbar, bei Cassiodor an der institutioStelle (2,6,4) aber als Zitat bezeichnet mit ut veteres dicunt (siehe oben Nr. 4). 6. . . . machinam supernam indagabili ratione discutere . . . (394,4). machina superna in der Bedeutung ‚kosmische Welt‘ ist bei Augustin18 mit aetherea machina wenigstens annäherungsweise belegt, ihr Gegenbild mit mundana machina bei Prudentius19. Die 16) Dig. 50,17,157 u. Cassiod. Var. 11,36,5 (freundl. Hinweis von Rolf Heine). 17) Vgl. E. Wölfflin, Lateinische u. romanische Comparation, in: Ausgew. Schriften, Leipzig 1933, 126–192, hier 164, mit Belegen bei Charisius, Hermas pastor, Oribasius. 18) gen. ad litt. imperf. 12,37 p. 486,13. 19) ham. 249.
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Junktur indagabili ratione discutere ist sonst nicht belegt, wohl aber die ihr nahekommende indagabili ratione percurrere bzw. perquirere, und zwar bei Cassiodor: Sie wird dreimal in der institutio 220 bei der Definition von astronomia gebraucht, einmal aber schon vorher im Psalmenkommentar21, hier indes mit dem ausdrücklichen Hinweis verbunden, daß diese Definition von den saeculi doctores stamme; das heißt, daß sich Cassiodor hier einer älteren, nicht von ihm selbst stammenden Ausdrucksweise bedient – der Psalmenkommentar liefert den terminus ante 53722. 7. . . . (machinam . . . discutere) et inspectiva mentis sublimitate ex aliqua parte colligere . . . (394,5). Die Junktur inspectiva mentis sublimitas ist nicht belegbar; inspectivus ist im 5. und 6. Jh. gängig (Rufin, Priscian), auch bei Cassiodor, sowohl im Psalmenkommentar als auch in institutio 2, belegt. 8. . . . agnoscere factorem mundi (394,6). factor mundi ist seit Cyprian (epist. 58,6) belegt, mit anderen bedeutungsähnlichen Genitiven seit dem Nicenum von 325 (caeli et terrae, universitatis, caeli, solis) verbunden bei allen großen Kirchenvätern bis Augustin und Hieronymus. Die Besonderheiten in Vokabular, Junkturen und Syntax dürften demnach mit einem Sprachhorizont des 5./6. Jh. vereinbar sein. Eine zusätzliche Beobachtung erlaubt es, den Entstehungshorizont des Ps.Boethius weiter einzugrenzen: Wie oben gesagt23, kann ich zeigen, daß Cassiodor, inst. 2 und eine anonyme Schrift de septem artibus liberalibus24 eine gemeinsame Vorlage haben, die auf den Zeithorizont von 500 fixiert werden kann. Die weitgehende wörtliche Identität des Ps.Boethius (393,4–17 Lachmann) mit dem genannten anonymen Text, Abschnitt geometria (P 84– 98), der seinerseits mit Cassiodor, inst. 2,6,1 de geometria überein20) inst. 2,3,6; 2,3,21; 2,7,2; die entsprechenden Stellen bei Isidor, etym. 2,24,15 u. 3,24,1 können als unselbständig beiseite bleiben: Sie entstammen entweder der mit Cassiodor gemeinsamen Vorlage oder Cassiodor selbst. 21) Zu Ps. 148, concl. CChrL 98, 1321, 260. 22) Eine verwandte Wendung ist das ebenfalls in Cassiodors Psalmenkommentar belegte indagabili veritate discutere (in Ps. 150, concl. CChrL 98, 1330, 190), das, selbst wenn es individuell cassiodorisch ist, ebenfalls dem terminus ante 537 unterliegt. 23) Vgl. oben S. 104. 24) Voredition wie Anm. 6; kommentierte überarbeitete Edition demnächst in: Nachrichten der Göttinger Akademie.
Ps.Boethius, Cassiodor und Varro, de geometria
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stimmt, läßt den Schluß zu, daß alle drei Versionen eine gemeinsame Vorlage haben, die auf 500 zu datieren ist. Sie wird, wie Cassiodor, inst. 2 und die anonyme Schrift de septem artibus liberalibus vom Inhalt her nahelegen, ein Lehrbuch de disciplinis gewesen sein und ihren ältesten Quellgrund, wie alle drei Versionen übereinstimmend angeben, in Varros de disciplinis haben. Und hier ist der Punkt, wo diese dreifache Vergesellschaftung von spätantiken geometria-Beschreibungen für die Rekonstruktion von Varro25 interessant wird. Alle drei Versionen führen ihren Varro-Verweis anfangs als wörtliches Varro-Zitat ein: Varro . . . commemorat dicens (Cassiodor, Ps.Boethius) bzw. ut ait Varro (P); und zwei von ihnen schließen die ganze Passage auch mit einem entsprechenden Signal ab: refert (Cassiodor, Ps.Boethius), wobei mit dem subjektlosen Prädikat nur Varro gemeint sein kann. In zweien der Versionen (Cassiodor und P) ist aber ein über Ps.Boethius hinausgehender Abschnitt zwischen den beiden Zitat-Signalen zu finden, der die extrapolierende Ausweitung der geometria von der Erdvermessung auf Meeres- und Himmelsdimensionen beschreibt, also den Schritt hin zur Vermessung der invisibilia. In Ps.Boethius ist die Fuge, an der dieser Passus weggeschnitten ist, noch klar erkennbar durch die stereotype Abfolge von zwei mit tunc et eröffneten Sätzen. Es ist also kaum zu bezweifeln, daß diese sukzessive Ausweitung der geometria zum ursprünglichen Bestand der Beschreibung der disciplina gehört und ebenso wie alles andere auf die Urquelle Varro zurückgeht – Salvadore hat den Passus im ersten Band seiner begonnenen Sammlung der Varro-Fragmente26 weggelassen, weil sein Hauptbeleg, Ps.Boethius, ihn nicht enthält, Cassiodor hier am Schluß den Varro-Wortlaut verläßt und Salvadore sonst nur jüngere, nämlich mittelalterliche Belege27 kennt – P war dazumal noch nicht publiziert. 25) Eine sachkundige Zusammenfassung zur Nachwirkung Varros in der Entwicklung der spätantiken Enzyklopädistik bietet jetzt M. Bovey, Disciplinae cyclicae. L’organisation du savoir dans l’œuvre de Martianus Capella, Triest, Edizioni Università di Trieste 2003, hier bes. Kap. 2, La question varronienne (freundl. Hinweis von H. G. Nesselrath). 26) Vgl. Anm. 2. 27) Hrabanus Maurus, cler. inst. 2,23, p. 401B; Rupertus Tuitiensis, de op. spir. sanct. 7,15, p. 2067,1102.
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Vor dem Hintergrund der deutlich erkennbaren Zitat-Signale sollte man in Betracht ziehen, die bei Cassiodor (inst. 2,6,4) auf astronomia bezogenen Ausführungen, die, wie oben gezeigt28, ursprünglich vielmehr geometria betreffen, ebenfalls auf Varro zurückzuführen; gleich zweimal werden sie von Cassiodor mit verdeckten Quellenhinweisen versehen: ut veteres dicunt und ut quidam dicunt, letzteres Signal auch noch durch fertur29 verstärkt. Fazit: Die beiden auf gemeinsame Vorlage zurückgehenden Passagen de geometria bei Cassiodor, inst. 2,6 und Ps.Boethius, de geometria (grom. vet. 1,393–394 Lachmann) ermöglichen, den Quellhorizont dieser Ausführungen, nämlich Varros de disciplinis 4, de geometria, teilweise im Wortlaut widergespiegelt, zu erkennen. Daß der bisher fast völlig übersehene Ps.Boethius-Text vielleicht noch mehr Überraschungen zu bieten vermag, zeigt übrigens die Fortsetzung der geometria-Passage: Es handelt sich dabei (394,11– 395,14) um ein bisher nicht als solches erkanntes Exzerpt aus Quintilian, inst. 1,10,34–45, und könnte für die QuintilianÜberlieferung des 5./6. Jh.s – wenn meine obige Datierung auf 500 zutrifft – von Bedeutung sein. Göttingen
Ulrich Schindel
28) Vgl. oben S. 103. 29) fertur an entsprechender Stelle auch bei Ps.Boethius, wo allerdings die verdeckten Quellenhinweise fehlen.
MISZELLEN
SAPPHO’S DAUGHTER/CLITORIS/LOVER ¶sti moi kãla pãiw xrus¤oisin ény°moisin §mf°rhn ¶xoisa mÒrfan Kl°iw égapãta, ént‹ tçw ¶gvÈd¢ Lud¤an pa›san oÈdÉ §rãnnan Sappho 132 (Voigt) (I have a beautiful child, who has a form like golden flowers, beloved Kleis, for whom I [would not take] all Lydia nor lovely . . .) A great scholar not so long ago wrote: I would not reject the suggestion that Sappho’s feelings for Kleis, as imagined in fragment 132, were given a consciously lesbian coloring . . . Indeed, taking it a step further, this “child” (pais) may be simply another metaphor for clitoris (Kleis/kleitoris).1 This suggestion has recently met with approval.2 That is, the claim is made that Sappho expected her readers on encountering the Lesbian proper name Kl°iw to think of the Attic word kle¤w, which in turn was to suggest the word kleitor¤w. One can already see the problems in this concatenation. The accidental resemblance of Kl°iw to kleitor¤w is a good example of where a little learning is a dangerous thing. Four brief points. 1) To take the last link first, kle¤w (and its forms in other dialects) is never used to mean ‘clitoris,’ or indeed any part of the body other than the collarbone (Hom. Il. 8.325, etc., whence English ‘clavicle’). None of the other derivatives of kle¤w, nor any other word built to the same root, means ‘clitoris.’ The word kleitor-¤w itself, a feminine agent noun with the rare compound suffix -tor-¤w,3 is clearly a part of the late technical medical vocabulary, attested only once (apart from the lexicographers), and at least six centuries after Sappho (Ruf. Onom. 111).4 1) J. Winkler, Constraints of Desire (London 1990) 182 n. An earlier version appeared as: Gardens of Nymphs: Public and Private in Sappho’s Lyrics, in: Women’s Studies 8 (1981); repr. in: Reflections of Women in Antiquity, ed. H. Foley (London 1981) 89 n. 38. Sappho is cited from the text of E. M. Voigt, Sappho et Alcaeus (Amsterdam 1971). 2) S. Instone, CR 49 (1999) 344–5. 3) I. e., a feminine by-form of an unattested *kle¤-tvr ‘closer, door-keeper,’ (attested only as a proper name), cf. ékes-tor-¤w, élektor-¤w. See P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque (Paris 1968–1980), s. v. ; E. Schwyzer, Griechische Grammatik (Berlin 1953) I 531 n. 2. 4) See this chapter for the words normally used for clitoris; also Hsch. k 2917, Pollux Onom. 2.174, Phot. Lex. m 281, Suda m 1462. Cf. also the verb
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2) Attic kle¤w ‘key, bar’ and its cognates have nothing to do with Kl°Ûw, the name of Sappho’s daughter. Attic kle¤w, kleidÒw comes from the root *klâw (cf. Latin clâvis, claudo) and the nominal suffix -îd-, with the meaning ‘closer, key, bar,’ etc.5 This *kla-Wi-w (cf. Doric kla-˝w, acc. pl. kla-›daw) developed to *klhW¤w and with loss of digamma to klh¤w (Ionic klh˝w, klh›dow).6 In a later (fourth century) Attic development this new hi monophthongized to a long high e- , spelled -ei- (the famous “spurious diphthong”).7 The predicted Aeolic reflex klãÛw (two syllables, long a- retained, long i-, with Aeolic recessive accent) is attested by Hesychius in the form klçiw.8 3) The proper name Kl°Ûw, on the other hand, is equally transparent.9 Kl°Ûw (Sappho 132; dat. Kl°i, 98b.1; always scanning as a pyrrhic)10 is from *klew-is, with the root *klew- ‘glory,’ seen in kl°(W)ow, etc., and the formant -iw (short i) which creates feminine patronymics.11 The name Kl°-Ûw (loss of intervocalic digamma and Aeolic recessive accent) then means ‘Daughter of Glory,’ or the like. It is attested on Lesbos (IG XII Suppl., Nr. 78, p. 25: iii cent.), and is simply one of the vast series of names built to this root (Kleo-pãtra, Peri-kl∞w, etc. ). 4) I am also uncertain precisely what Sappho imagined the reader would make of 98b.1–3: so‹ d' ¶gv Kl°i poik¤lan oÈk ¶xv pÒyen ¶ssetai mitrãn (I do not have a way for you to have an embroidered headband, O Kleis), if Kl°Ûw is meant to bring to the reader’s mind kleitor¤w. If not her clitoris, then, can we at least avoid the plain sense of the text and claim that Kleis is not her daughter, but her lover? However, as Judith Hallett pointkleitoriãzv, attested only in the lexicographers (sometimes amusingly): Diogenianus 5.77 (§p‹ t«n paiderast«n tin°w fasin: µ §p‹ t«n gunaij‹n ékolãstvn), Pseudo-Plut. Paroem. 1.6, Phot. Lex. k 168.15, Suda k 1767, Macarius 5.16. There is a stone called kleitor¤w according to Pseudo-Plut. De fluviis 25. 5. 5) Chantraine (above, n. 3) s. v. The -i-d- formant is infrequent, cf. knhm-¤w ‘greave’ built to knÆmh ‘shin,’ xeir-¤w to xe›r. See Schwyzer (above, n. 3) I 465; E. Risch, Wortbildung der homerischen Sprache (Berlin 1974) 144–5 (§ 51.f). 6) Doric poetry twice attests a gen. with short -i- on the pattern of the more common ¶lp-iw, -id-ow: Pind. P. 9.39; Ad. 1005.3 (PGM). 7) Michel Lejeune, Phonétique historique de mycénien et du grec ancien (Paris 1972) 226–7, 249 (§§ 235–7, 270); A. Sihler, New Comparative Grammar of Greek and Latin (Oxford 1995) 59 (§ 64). Note the new monosyllabic accentuation. 8) k 2856: klçiw: moxlÒw, the accent may reflect a new analogical short i, or more likely is merely an error. 9) I do not believe its etymology has been pointed out. However, E.-M. Hamm, Grammatik zu Sappho und Alkaios (Berlin 1957) 29 (§ 58a.1), lists kl°ow, Kl°i, etc. as examples of the intervocalic loss of digamma, and points to the correct root. 10) D. Page, Sappho and Alcaeus (Oxford 1955) 131 n. 4, for the meter. 11) Hamm (above n. 9) 29 (§ 58a1), 52–53 (§ 111, 111e).
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ed out some time ago, in early Greek the adjective égaphtÒw is used exclusively of beloved only children.12 Despite Hallet’s irrefutable data, some ideas just will not go away.13 One might with equal cogency argue that Ben Jonson was referring to his lover (or his penis or his slave) when he wrote, “Farewell, thou child of my right hand, and joy; / My sin was too much hope of thee, loved boy.” To this I would add just one well-known point of Greek syntax, and that is the use of the possessive dative. As Cooper points out: “The idiomatic range is not wide . . . Homer uses the possessive dative with efim¤ especially in expressions of family relations.”14 Although I do not know that it would be completely impossible for Sappho to have expressed the idea “I have a beautiful girlfriend” by ¶sti moi kãla pãiw, it is not the first thing that would have occurred to her audience.15 12) Beloved Cleis, QUCC 10 (1982) 22–31, citing Il. 6.401, Od. 2.365, 4.727,817, 5.18. So too, J. Hallett, Sappho and her Social Context, Signs 4 (1979) 453 n. 24; reprinted in: Reading Sappho, ed. E. Greene (Berkeley 1996) 131; A. Broger, Das Epitheton bei Sappho und Alkaios (Innsbruck 1996) 123. 13) Recent supporters include A. P. Burnett, Three Archaic Poets. Archilochus, Alcaeus, Sappho (Cambridge, Mass. 1983) 279 n. 2: “the possibility remains that pa¤w here means what it would in masculine society.” However, pa›w does not mean ‘sexual object’ in masculine society on all occasions. There are no examples in archaic lyric or elegy of pa›w as an unqualified technical term for ‘boy sexual partner’; instead in all cases where we have the context pa›w simply means ‘child/offspring.’ In later poetry, one can always address a beloved as ‘boy’ because he is a boy, but that does not mean that the word ‘boy’ means ‘beloved’ (so in the additions to Theognis 994, 1235, etc.; cf. Theog. 261: pa›w of a desirable girl, under the watch of her parents). Burnett continues: “Elsewhere in the Sapphic corpus it means ‘girl’ ten times, ‘child of x’ five times.” That is, there is no example of the meaning ‘lover’ in the surviving corpus, not even 102 (Page [above n. 10] 128, “a young person”). My own count is rather different. Apart from 132, I find ‘daughter’ 4 times (1.2, 16.10 [this is Hermione; cf. Hom. Od. 4.14], 103.6, 155.1), ‘boy’ or ‘son’ 1 time (164), ‘girl’ (marked feminine) 3 times (49b, 113, 122), and gender unspecified or uncertain 4 times (27.4, 58.11 [not known to be the opening line], 102, 104a.2). The new fragment, PKöln 21351, ZPE 147 (2004) 1–8, has placed 58 in context, but there is no justification for translating “girls.” Also, M. Williamson, Sappho’s Immortal Daughters (Cambridge, Mass. 1995) 2: “used of a young girl by her older lover,” but no evidence is given. There is an important methodological consideration here: one cannot simply map male terminology onto female relations. Nor can one simply assume that Athenian social vocabulary meant the same thing in differing areas and ages. No one yet, I believe, has tried to make Kleis into Sappho’s slave (an Athenian use of pa›w) and yet why not? 14) Guy L. Cooper, Greek Syntax: Early Greek Poetic and Herodotean Syntax (Ann Arbor 2002) III: 2119–20 (§ 2.48.3.0–2), citing Il. 5.10,248, 6.142, 20.183,209, Od. 4.94, 6.277, 24.270; cf. Hdt. 6.69.4; to which add Il. 9.144. The dat. can also be used of simple possession of material objects, e. g. Hom. Il. 23.173 (dogs) and Sappho 98b (above); or abstractions, e. g. Il. 10.453 (woe); see P. Chantraine, Grammaire homérique (Paris 1953) 71 (§ 91). 15) One might point to Alcm. 1.74: ÉAstaf¤w [t]° moi g°noito and Hipponax 119: e‡ moi g°noito pary°now kalÆ te ka‹ t°reina as counter-examples in an erotic context; however, note the optatives and the use of g¤gnomai; Cooper (above, n. 14)
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The Attic word kle¤w ‘key’ did not suggest clitoris. Attic kle¤w and Aeolic klãÛw do not resemble each other. Attic kle¤w ‘key’ and Aeolic Kl°Ûw ‘Daughter of a Glorious Parent’ have nothing to do with each other. The syntax argues strongly against taking pãiw as ‘lover.’ Sappho’s daughter was her daughter, not her clitoris, not her girlfriend. Cincinnati
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III 2119–20 (§ 2.48.3.1): “When g¤gnomai is used instead of efim¤ the range of translation is wide and includes get, suffer, come over, pine (for), etc.”
THE EXILE OF L. CORNELIUS SCIPIO ASIAGENUS Scipio Asiagenus (cos. 83)1 was proscribed by Sulla. However, he managed to make his way to Massilia and was there allowed to live out his remaining years. For this rare indulgence scholars have entered various explanations. Scipio was the last descendant of his particular branch of the Cornelii; in Macedonia in 85 he had avoided a confrontation with Sulla; he had negotiated – albeit unsuccessfully – with Sulla in 83.2 Recently, however, C. S. Mackay has questioned this widely accepted reconstruction of events, arguing that Sulla most likely pursued Scipio to his place of refuge and there disposed of him as he did his other enemies.3 I do not believe our evidence will support this revisionist view. To begin with there is no explicit statement in any source to the effect that Sulla hunted down and murdered Scipio. Lest I be accused of deploying an ‘argumentum ex silentio’ it should be pointed out that all the other consuls of 83 and 82 met with violent ends which are well documented.4 If Scipio had gone the same way I think we should have heard about it. Mackay5 naturally emphasises Sulla’s relentless pursuit of his other enemies but in the absence of corroborating evidence I do not believe we necessarily have to infer from this that Scipio met the same fate.6 1) MRR 2.62. All dates in this paper are B. C. 2) E. Badian, Studies in Greek and Roman History, Oxford 1964, 224; A. Keaveney, Sulla the Last Republican, London 1983, 155; F. Hinard, Les Proscriptions de la Rome Républicaine, Rome 1985, 345. 3) C. S. Mackay, Sulla and the Monuments, Historia 49, 2000, 161–210. 4) MRR 2.66,70. 5) Mackay (as n. 3) 201. 6) This is especially so if we are prepared to believe there were circumstances which would dispose Sulla to be lenient in Scipio’s case. If, as some hold, the latter’s
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The Attic word kle¤w ‘key’ did not suggest clitoris. Attic kle¤w and Aeolic klãÛw do not resemble each other. Attic kle¤w ‘key’ and Aeolic Kl°Ûw ‘Daughter of a Glorious Parent’ have nothing to do with each other. The syntax argues strongly against taking pãiw as ‘lover.’ Sappho’s daughter was her daughter, not her clitoris, not her girlfriend. Cincinnati
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III 2119–20 (§ 2.48.3.1): “When g¤gnomai is used instead of efim¤ the range of translation is wide and includes get, suffer, come over, pine (for), etc.”
THE EXILE OF L. CORNELIUS SCIPIO ASIAGENUS Scipio Asiagenus (cos. 83)1 was proscribed by Sulla. However, he managed to make his way to Massilia and was there allowed to live out his remaining years. For this rare indulgence scholars have entered various explanations. Scipio was the last descendant of his particular branch of the Cornelii; in Macedonia in 85 he had avoided a confrontation with Sulla; he had negotiated – albeit unsuccessfully – with Sulla in 83.2 Recently, however, C. S. Mackay has questioned this widely accepted reconstruction of events, arguing that Sulla most likely pursued Scipio to his place of refuge and there disposed of him as he did his other enemies.3 I do not believe our evidence will support this revisionist view. To begin with there is no explicit statement in any source to the effect that Sulla hunted down and murdered Scipio. Lest I be accused of deploying an ‘argumentum ex silentio’ it should be pointed out that all the other consuls of 83 and 82 met with violent ends which are well documented.4 If Scipio had gone the same way I think we should have heard about it. Mackay5 naturally emphasises Sulla’s relentless pursuit of his other enemies but in the absence of corroborating evidence I do not believe we necessarily have to infer from this that Scipio met the same fate.6 1) MRR 2.62. All dates in this paper are B. C. 2) E. Badian, Studies in Greek and Roman History, Oxford 1964, 224; A. Keaveney, Sulla the Last Republican, London 1983, 155; F. Hinard, Les Proscriptions de la Rome Républicaine, Rome 1985, 345. 3) C. S. Mackay, Sulla and the Monuments, Historia 49, 2000, 161–210. 4) MRR 2.66,70. 5) Mackay (as n. 3) 201. 6) This is especially so if we are prepared to believe there were circumstances which would dispose Sulla to be lenient in Scipio’s case. If, as some hold, the latter’s
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Notices of Scipio’s sojourn in Massilia are in fact rather sparse. It used to be thought7 that Cicero, Pro Sestio 7 refers to him when he describes Sestius as visiting Massilia to see a Scipio who had become his father-in-law. Some years ago, though, E. Badian argued that this Scipio is most likely the son of the consul of 83.8 Mackay thought this detail decisive for his case.9 This, however, is not necessarily so. Assuming that we can infer from this passage, as Badian seems to do, that Scipio was dead by now, it does not necessarily follow his death was a violent one. Badian dates Sestius’ visit to the sixties and as Scipio was probably born sometime before 130,10 then, a natural death could not be ruled out. However to infer from the Cicero passage that Scipio was now dead may be unwarranted. Strictly speaking all Cicero is doing is speaking of the son. He has nothing at all to say of the father and, considering the context, there is no reason why he should. Yet the presence of the younger Scipio at Massilia is of great importance. It is not straining credulity to suggest that he came there with his father because of his role in the civil war.11 Of his status now Cicero says, fluctibus rei publicae, expulsum in alienis terris iacentem quem in maiorum suorum vestigiis stare oportebat. This is vague. Badian thought maiorum . . . vestigiis meant the younger Scipio was suffering as the son of a proscribed man but expulsum suggests perhaps he himself had been proscribed.12 But either interpretation is inimical to Mackay’s thesis. If the younger Scipio was really proscribed then he is unlikely to have escaped if Sulla’s agents had come looking for his father. On the other hand if he was merely the son of a proscribed man that tells us nothing about the fate of his parent. Another sliver of evidence is presented in Schol. Bob. 126 St. where we are told Scipio either died at Massilia or apud Stoechadas insulas. Mackay13 thought this could be taken to mean Scipio had fled to the islands to escape Sulla’s agents. But he might have gone there simply to enjoy the amenities. These islands had lush vegetation and a mild climate.14 The curt nature of the source will not allow us to choose between two such differing hypotheses. Thus it seems prudent to ask of it only what it can give: geographical information. So we come to Vell. Pat. 2,25,2–3: Felici deinde circa Capuam euentu Scipionem Norbanumque consules superat: quorum Norbanus acie uictus, Scipio ab exercitu suo desertus ac proditus inuiolatus a Sulla dimissus est. Adeo enim Sulla dissimilis fuit willingness to negotiate was appreciated then the desire to wreak vengeance on his colleague Norbanus might be all the greater. Not only did Norbanus refuse to negotiate but he actually ill-treated Sulla’s embassy: Liv. ep. 85. 7) At least as early as Schol. Bob. 126 St. 8) E. Badian, Sulla’s Augurate, Arethusa 1, 1968, 44 n. 52. 9) Mackay (as n. 3) 201. 10) G. V. Sumner, The Orators in Cicero’s Brutus, Toronto 1973, 104. 11) App. BC 1,85. If we suggest an element of filial piety can be detected in the trip to Massilia it could also be seen here. 12) For some further remarks on Cicero’s vague terminology see A. Keaveney, The Life and Journey of Athenian Statesman Themistocles (524–460 BC?) as a Refugee in Persia, Lampeter 2003, 109–111. 13) Mackay (as n. 3) 201. 14) H. G. Wackernagel, Stoechades insulae, RE 4 A.1 (1931) 55.
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Miszellen bellator ac uictor, ut dum uincit, [ac]iustissimo lenior, post uictoriam audito fuerit crudelior. Nam et consulem, ut praediximus, exarmatum Quintumque Sertorium, pro quanti mox belli facem! et multos alios, potitus eorum dimisit incolumes, credo ut in eodem homine duplicis ac diuersissimi animi conspiceretur exemplum.
Mackay (as n. 3) 201–202 believed this must mean Velleius was saying Sulla behaved towards Scipio with cruelty after his victory. I would not agree. Velleius is not making Asiagenus the centre of his reflections. Rather he is making a general point: Sulla was merciful in war and cruel in victory. The function of Scipio, Sertorius and multi alii is to illustrate this point. They are examples of the clemency of Sulla the bellator. Nothing in the passages points to Scipio’s eventual fate.15 Our final source is Cic. ad Att. 9,15,2: Nihil expedio nisi ut aut ab hoc [sc. Caesare] tamquam Q. Mucius aut ab illo [sc. Pompeio] tamquam L. Scipio. For Mackay this could be taken to mean that Scipio was executed by Sulla.16 In my view it does not. Cicero is contemplating two fates, both plainly unpalatable. At the hands of Caesar he could wind up like Scaevola i. e. murdered.17 For there to be a contrast as here what he might expect from Pompey, must, while still unpleasant, differ in some way. And the point of the comparison chosen shows what it might be: suffered to live but politically impotent – a prospect Cicero surely would not have relished. Such then is what an examination of our sources yields and I do not think it justifies revising the impression we have formed of Scipio. We may quarrel about why Sulla spared him but there seems little doubt that he did.18 Canterbury
Arthur Keaveney
15) Compare 2,25,1 where Calabria and Apulia are not the centre of the narrative but are invoked as examples of the behaviour described. 16) The slightly convoluted arguments are set out in Mackay (as n. 3) 202. What follows here, I hope, implicitly refutes them. 17) App. BC 1,88. 18) Comments on an earlier version of this paper by Professor B. Manuwald have, I believe, helped to improve it. I alone am responsible for its contents.
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IN MARGINE A VALERII FLACCI ARGON. 1,526–7 Nel libro I degli Argonautica di Valerio Flacco, dopo la rappresentazione della partenza della nave Argo (vv. 487–497), la scena si sposta sull’Olimpo (vv. 498– 573): il Sole, irritato perchè Giasone e i suoi compagni si stanno dirigendo verso la Scizia a minacciare la terra di suo figlio Eeta, manifesta a Giove la propria indignazione e così gli intima: Flecte ratem motusque, pater, nec vulnere nostro aequora pande viris; veteris sat conscia luctus silva Padi et viso flentes genitore sorores!1 Il Sole ingiunge a Giove di deviare la rotta degli argonauti, rammentandogli il dolore per la fine del proprio figlio Fetonte, di cui ancora sono testimonianza le lacrime versate per la morte del fratello dalle Heliades trasformate in pioppi presso le rive del Po.2 Problematico risulta viso flentes genitore sorores: pur essendo chiaro il senso generale di tale espressione,3 pone difficoltà di interpretazione l’ablativo viso . . . genitore. Liberman4 ritiene che Valerio si riferisca al rapprendersi per effetto del Sole delle lacrime stillate dalle Heliades e al loro trasformarsi in ambra, alludendo all’espressione stillataque sole rigescunt /de ramis electra novis usata da Ovidio in met. 2,364–5 per descrivere tale fenomeno. Tale interpretazione è accettata anche da Spaltenstein:5 «En effet, viso genitore doit renvoyer à Ov. met. 2,364; . . . viso genitore n’a aucune raison d’être sinon, mais il rappelle elliptiquement la cause de
1980.
1) Valerii Flacci Argonauticon 1,525–7 recensuit W. W. Ehlers, Stutgardiae
2) Il pianto delle Heliades appare strettamente connesso con il mito di Fetonte fin dalle più antiche trattazioni: per la ricostruzione della vicenda mitica cfr. G. Knaack, Phaeton, in: Roscher, Lexicon der griech. u. röm. Mythologie III.2, 1902–9; Drexler, Heliades, in: Roscher, Op. cit. II, 1982–4; G. Türk, Phaeton, RE XIX.2 (1938) 1508–1515. 3) Valerius Flaccus with an English translation by J. H. Mozley, London 1934: «and the sisters who weep as they look upon their father»; Valerii Flacci Argonautiques chants I–IV. Texte établi et traduit par G. Liberman, Paris 1997: «et les larmes versées par les sœurs pendant qu’elles voient leur père»; Valerius Flaccus Argonautiques, Introduction, texte et traduction rythmeé, notes et index par Jean Soubiran, Louvain-Paris-Dudley 2002: «. . . il suffit du devil de jadis / dont le bois du Po se souvient / et des sœurs éplorées à la vue de leur père»; Caviglia (Valerio Flacco, Le Argonautiche, Introduzione, traduzione e note di F. Caviglia, Milano 1999) con minore precisione traduce: «Il mio antico rancore già lo sanno abbastanza la selva del Po, le sorelle che piangono quando il padre le guarda». 4) Valerii Flacci Argonautiques chants I–IV ed. par Liberman (come n. 3) 165 n. 115. 5) F. Spaltenstein, Commentaire des Argonautica de Valerius Flaccus (livres 1 et 2), Bruxelles 2002, 215.
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l’ambre sole rigens. Flentes les montre donc déjà transformées en arbres, avec une approximation ingénieuse, et il est parallèle à silv.» Lemaire6 e Soubiran7, invece, interpretano viso flentes genitore sorores come allusione al dolore del padre, intendendo che a muovere il pianto delle Heliades è la vista del Sole sconvolto per la fine di Fetonte. Delz8 ritiene viso . . . genitore «schon lange suspekt» e propone di correggerlo in misero . . . genitore sulla scorta della iunctura pater . . . miserabilis che ricorre nel verso ovidiano di met. 2,329–30 nam pater obductos luctu miserabilis aegro/condiderat vultus. A mio avviso, è preferibile mantenere nel testo il tradito viso . . . genitore: tale iunctura ricorre, infatti, nel medesimo valore semantico di ‹alla vista del padre›, prima che in Valerio, anche in un verso di Marziale: Aspicis ut parvus nec adhuc trieteride plena /Regulus auditum laudet et ipse patrem /maternosque sinus viso genitore relinquat.9 Non mi pare impossibile, dunque, presupporre una volontaria allusione da parte di Valerio ad un passo di Marziale, soprattutto tenendo conto che l’espressione veteris sat conscia luctus /silva Padi et viso flentes genitore sorores presenta continue reminiscenze dagli Epigrammata.10 Poco persuasivo, tuttavia, mi pare il parallelo con la iunctura ovidiana sole rigescunt evocata per chiarire il senso dell’ablativo viso . . . genitore nel verso di Valerio: mentre l’espressione sole rigescunt in riferimento all’ambra è usata da Ovidio per designare il rapprendersi per effetto del Sole delle lacrime stillate dalle Heliades, il passo di Valerio sembra riferirsi piuttosto alla circostanza in cui le lacrime sono emesse, asserendo che è la vista del Sole a far stillare alle Heliades quelle lacrime da cui ha origine l’ambra. Poichè Ovidio non vi fa alcun accenno, è probabile che il verso di Valerio non vada ricondotto alla narrazione ovidiana,11 ma pre6) C. Valerii Flacci Setini Balbi Argonauticon libros octo veteri novaque lectionum varietate, commentariis, excursibus, testimoniis edidit N. E. Lemaire, vol. I, Parisiis 1824, 49: Iam olim mihi doloris auctor fuisti acerbissimi, cuius testes sunt et Padus (Eridanus) in quem filium Phaethontem fulmine deiecerat, et sorores (Heliades) viso genitore, viso meo, patris, dolore plorantes. 7) Soubiran (come n. 3) 214 n. 526–7: «allusion au chagrin du père, dont les Héliades sont témoins». 8) J. Delz/W. S. Watt, Valerius Flaccus Buch 1–4. Korrekturvorschläge zum Text/Notes on the text, MH 55, 1998, 132. 9) M. Valerii Martialis Epigrammata 6,38–40 edidit D. R. Shackleton Bailey, Stutgardiae 1990. 10) Veteris sat conscia luctus / silva Padi ricalca il verso Phaetontei conscia silva rogi di Mart. Epigr. 4,25,2 anche se veteris . . . conscia luctus in clausola d’esametro si rifà alla iunctura ovidiana venturi nuntia luctus di met. 5,549. La determinazione silva Padi del v. 527, inoltre, richiama l’analoga Phaethontei qui petis arva Padi di Mart. Epigr. 10,12,2. Flentes per designare il pianto delle Heliades da cui si origina l’ambra, poi, risente di Mart. Epigr. 4,59,1–2 flentibus Heliadum ramis dum vipera repit, / fluxit in obstantem sucina gutta feram, nonostante viso flentes genitore sorores vari, a mio parere, la clausola virgiliana . . . et sublato montis genitore petivi di Aen. 2,804. 11) Sul rapporto degli epici post-virgiliani con il racconto ovidiano del mito di Fetonte cfr. Euripides’ Phaethon edited with prolegomena and commentary by J. Diggle, Cambridge 1970, 9: «The poets of the Silver Age did not emulate him but were content to employ the briefest allusions to the story».
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supponga altre fonti. Tacito12, trattando dell’origine dell’ambra, spiega che essa è secrezione delle piante, per effetto dei raggi solari: sucum tamen arborum esse intellegas, (. . . ). Fecundiora igitur nemora lucosque sicut Orientis secretis, ubi tura balsamaque sudantur, ita Occidentis insulis terrisque inesse crediderim, quae vicini solis radiis expressa atque liquentia (. . .) in adversa litora exundant. In alcune varianti del mito si precisa, inoltre, che la secrezione delle lacrime da cui si genera l’ambra si verifica nei giorni canicolari, quando il Sole è a picco.13 Fulgenzio14, a questo proposito, riferisce: Huius etiam sorores quae gemmeis ac tralucentibus fraterna deplorant guttis incendia, sucinaque diruptis iaciunt inaurata corticibus; soror enim totius germinis arbor est, quae una eademque fervoris humorisque iugalitate gignuntur. Itaque istae arbores quae sucinum sudant, dum maturatis frugibus solis fervor torrentibus ipsis Iunio Iulioque mensibus incendiosior cancri atque leonis tetigerit metas, tunc istae arbores aestu valido fissis corticibus sucum sui liquoris in Eridano flumine aquis durandum emittunt.15 Dunque, è possibile, a mio avviso, che Valerio con l’espressione viso flentes genitore sorores alluda alla consapevolezza che le lacrime promanano dalle Heliades per effetto del calore prodotto dai raggi del sole. Controverso è risultato, inoltre, comprendere l’intendimento di questo richiamo al pianto delle Heliades per la morte di Fetonte provocato dalla vista del Sole. Secondo Feeney16 «Apollo appears to equate the sailing of Argo with the temerity of his son, Phaeton, who disturbed cosmic order by riding through heaven». Per Caviglia17, invece, «il Sole minaccia di riservare a Giasone il destino a suo tempo toccato al proprio figlio Fetonte, che guidò abusivamente il carro paterno, non seppe controllarlo e avrebbe incendiato la terra se un fulmine non lo avesse precipitato nella regione del Po». Il critico rileva, però, alcune contraddizioni nel passo di Valerio: «Ci sono delle forzature nelle parole del dio: per salvare il proprio figlio Eeta egli adduce l’esempio di un altro suo figlio da lui stesso distrutto. Inoltre, nella versione corrente del mito, non era stato il Sole, bensì Giove a colpire Fetonte.» Non mi pare probabile ipotizzare una simile svista da parte di Valerio. Con l’espressione veteris sat conscia luctus / silva Padi et viso flentes genitore sorores fatta pronunciare dal poeta al Sole a conclusione del suo 12) Cornelius Tacitus, Germania 45,5 edidit Ericus Koestermann II.2, Lipsiae 1957. 13) Cfr. Phaeton. Eine archäologische Abhandlung von Friedrich Wieseler, Göttingen 1857, 8: «Die in Bäume verwandelten Heliaden sollen alljährlich an bestimmten Tagen oder zu derselben Zeit ihre Thränen entsenden, nämlich zur Zeit der Hundstage». 14) Fulgentius Mitologiarum 1,16,3–4 edidit R. Helm, Lipsiae 1898. 15) Wieseler (come n. 13) 9 osserva che questo dato si armonizza con la versione comune del mito, secondo cui la caduta di Fetonte nelle acque dell’Eridano sarebbe avvenuta a mezzogiorno: «Ganz in Uebereinstimmung hiemit steht es, dass man denselben in der gewöhnlichen Version der Sage sich zur Zeit der Mittagshitze statthabend dachte.» Cfr. Philostr. Imag. 1,11 nÁj m¢n §k meshmbr¤aw §laÊnei tØn ≤m°ran; Nonn. Dionys. 38,345 ≥mato meshmbr¤zonti d¢ d¤frƒ. 16) Epic of myth: Valerius Flaccus’ Argonautica and Statius’ Thebaid, in: D. C. Feeney, The gods in epic, Oxford 1991, 332 n. 66. 17) Caviglia (come n. 3) 178 n. 183.
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irato sfogo contro Giove, il dio mira, piuttosto, a istituire un’efficace analogia tra l’esperienza passata di suo figlio Fetonte colpito dal fulmine di Zeus e quella imminente dell’altro suo figlio Eeta che sta per essere annientato da Giasone inviato contro di lui sempre per volontà di Giove. Per prevenire altrettanto tragici eventi ai danni di Eeta, il Sole rammenta al padre degli dei le conseguenze luttuose della morte di Fetonte, evocando il pianto delle Heliades che sempre si rinnova alla vista del sole. I versi 526–7 di Valerio, pertanto, presuppongono, a mio avviso, un lettore a conoscenza18 del lutto che si dice si rinnovi perennemente nella zona del Po per la morte di Fetonte, tematica attinta alla tradizione tragica del mito e ricorrente negli autori che accennano a questa vicenda mitica nelle loro opere.19 Langen20 interpreta satis mihi est consciam esse silvam Padi et viso flentes genitore sorores, intendendo che per il Sole è abbastanza che vi siano le Heliades a rammentargli il dolore per la morte di suo figlio Fetonte, mentre è, a mio avviso, preferibile riferire sat a conscia, ritenendo che sia volontà del Sole ribadire che il bosco nei pressi del Po è già abbastanza consapevole della vecchia ferita provocata al padre dal dolore per la morte di Fetonte senza aggiungere un nuovo lutto per un altro suo figlio straziato.21
18) Sulla presunzione di un lettore competente da parte di Valerio cfr. ‹Valerio Flacco›, in: A. Perutelli, La poesia epica latina, Roma 2000, 172. 19) Cfr. Scolium in Hom. Od. 17,208, in: Scolia Graeca in Homeri Odysseam, vol. II, edidit Gulielmus Dindorfius, Oxonii 1855; Apoll.Rhod. Argon. 4,599–606 (Eridano) . . . ≤ dÉ ¶ti nËn per / traÊmatow afiyom°noio barÁn énakhk¤ei étmÒn, / oÈd° tiw Ïdvr ke›no diå pterå koËfa tanÊssaw / ofivnÚw dÊnatai bal°ein Ïper, éllå meshgÁw / flogm“ §niyr–skei pepothm°now. ÉAmf‹ d¢ koËrai / ÉHliãdew tanaªsin ée¤menai afige¤roisi/mÊrontai kinurÚn m°leai gÒon. §k d¢ faeinåw / ±l°ktrou libãdaw blefãrvn prox°ousin ¶raze; Pol. Hist. 2,16 têlla d¢ tå per‹ tÚn potamÚn toËton flstoroÊmena parå to›w ÜEllhsi, l°gv dØ tå per‹ Fa°yonta ka‹ tØn §ke¤nou pt«sin, ¶ti d¢ tå dãkrua t«n afige¤rvn ka‹ toÁw melane¤monaw toÁw per‹ tÚn potamÚn ofikoËntaw, oÏw fasi tåw §sy∞taw efis°ti nËn fore›n toiaÊtaw épÚ toË katå Fa°yonta p°nyouw, ka‹ pçsan dØ tØn tragikØn ka‹ taÊt˙ proseoiku›an Ïlhn §p‹ m¢n toË parÒntow ÍperyhsÒmeya diå tÚ mØ l¤an kayÆkein t“ t∞w prokataskeu∞w g°nei; Diod. Hist. 5,23,4 taÊtaw d¢ katÉ §niautÚn katå tØn aÈtØn Àran dãkruon éfi°nai; Plin. Nat. Hist. 37,2 Phaetontis fulmine icti sorores luctu mutatas in arbores populos lacrimis electrum omnibus annis fundere iuxta Eridanum amnem (. . .) plurimi poetae dixere; A. Bangert, De fabula Phaetontea, Diss. Halle 1885; Quaestiones Phaetonteae scripsit Georgius Knaack, Berlin 1886. 20) C. Valerii Flacci Setini Balbi Argonauticon libri octo enarravit P. Langen, Berlin 1896. 21) Ritengo, infatti, che nel verso di Valerio sat sia da legare strettamente all’aggettivo conscia. Per un analogo uso cfr. Hor. Carm. 2,19,26–27 . . . non sat idoneus / pugnae ferebaris . . . Sat usato assolutamente è sempre accompagnato da una forma del verbo esse: cfr. p. es. Ov. Trist. 3,10,39 nec vidisse sat est . . .; Prop. El. 3,9,43 Inter Callimachi sat erit placuisse libellos; Ov. met. 8,24 plus etiam quam nosse sat est . . . L’uso di sat ad intensificazione di un aggetivo è ricorrente nel latino argenteo; cfr. H. Petersmann, Petrons urbane Prosa, Wien 1977, 113.
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I vv. 526–7 di Valerio fondono, dunque, suggestioni diverse, secondo le modalità della tecnica combinatoria e allusiva propria della lingua poetica di età imperiale.22 Pisa
Daniela Galli
22) Nell’ampia bibliografia su questo aspetto si segnala F. Nordera, I virgilianismi in Valerio Flacco, in: A. A. V.V., Contributi a tre poeti latini, Bologna 1969, 1–92.
MARTIAL 1.29: APPEARANCE AND AUTHORSHIP In Martial’s Epigrammata theft of another’s poems can have implications for the thief-poet’s renown, especially if the source is well-known in his own right. A cycle of poems in Book 1 (1.29, 1.38, 1.52, 1.63, 1.72) has long been recognized to address this issue.1 The last line of the initial poem of this cycle, 1.29, has posed some problems for commentators in the past: Fama refert nostros te, Fidentine, libellos non aliter populo quam recitare tuos. si mea vis dici, gratis tibi carmina mittam: si dici tua vis, hoc eme, ne mea sint. Fame has it that you, Fidentinus, recite my books to the crowd as if none other than your own. If you’re willing that they be called mine, I’ll send you the poems for free. If you want them to be called yours, buy this one, so that they won’t be mine.
1) The vast majority of plagiarist or ‘theft’ poems (Mart. 1.29, 1.38, 1.52, 1.53, 1.63, 1.66, 1.72, 2.20, 7.77, 10.100, 11.94, 12.63) are found in Book 1 of the Epigrammata. K. Barwick, Philologus 102 (1958) 284–318 suggested that all the poems in Book 1 be linked in a cycle: Fidentinus is the fur in 1.29, 1.38, 1.53, and 1.72. 1.52 and 1.66 (in which the plagiarist is not named) and 1.63 (directed against Celer) clearly contribute to a general cycle on the theme of plagiarism; there may be a secondary specific cycle on Fidentinus. For different approaches and terminology to the problem of cycles on similar themes in Martial see most recently the discussion on Book 9 in C. Henriksén, Martial, Book IX (Uppsala 1999) I 16–20. The heavy concentration of these poems in Book 1 may actually argue against the common supposition that Martial was a well-known poet of epigrams by 85.
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I vv. 526–7 di Valerio fondono, dunque, suggestioni diverse, secondo le modalità della tecnica combinatoria e allusiva propria della lingua poetica di età imperiale.22 Pisa
Daniela Galli
22) Nell’ampia bibliografia su questo aspetto si segnala F. Nordera, I virgilianismi in Valerio Flacco, in: A. A. V.V., Contributi a tre poeti latini, Bologna 1969, 1–92.
MARTIAL 1.29: APPEARANCE AND AUTHORSHIP In Martial’s Epigrammata theft of another’s poems can have implications for the thief-poet’s renown, especially if the source is well-known in his own right. A cycle of poems in Book 1 (1.29, 1.38, 1.52, 1.63, 1.72) has long been recognized to address this issue.1 The last line of the initial poem of this cycle, 1.29, has posed some problems for commentators in the past: Fama refert nostros te, Fidentine, libellos non aliter populo quam recitare tuos. si mea vis dici, gratis tibi carmina mittam: si dici tua vis, hoc eme, ne mea sint. Fame has it that you, Fidentinus, recite my books to the crowd as if none other than your own. If you’re willing that they be called mine, I’ll send you the poems for free. If you want them to be called yours, buy this one, so that they won’t be mine.
1) The vast majority of plagiarist or ‘theft’ poems (Mart. 1.29, 1.38, 1.52, 1.53, 1.63, 1.66, 1.72, 2.20, 7.77, 10.100, 11.94, 12.63) are found in Book 1 of the Epigrammata. K. Barwick, Philologus 102 (1958) 284–318 suggested that all the poems in Book 1 be linked in a cycle: Fidentinus is the fur in 1.29, 1.38, 1.53, and 1.72. 1.52 and 1.66 (in which the plagiarist is not named) and 1.63 (directed against Celer) clearly contribute to a general cycle on the theme of plagiarism; there may be a secondary specific cycle on Fidentinus. For different approaches and terminology to the problem of cycles on similar themes in Martial see most recently the discussion on Book 9 in C. Henriksén, Martial, Book IX (Uppsala 1999) I 16–20. The heavy concentration of these poems in Book 1 may actually argue against the common supposition that Martial was a well-known poet of epigrams by 85.
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The last line, to be sure, is difficult, and early Italian editions – haec for hoc – and Schneidewin (1853) – en for ne – tried to alter for sense; but the text is sound enough. Indeed, the poem read with hoc has a clear point (especially if we consider that at the time Book 1 appears to have been published Martial may not have been enjoying the success he claims later) and the wit of the poem lies in the very fact that Fidentinus did not pay up (hence the presence of the poem). Read in this way, 1.29 presents a concern central for plagiarism, public perception / awareness; this concern is a major thread throughout the cycle in Book 1, and serves as the basis for the iocus of the final plagiarist poem, 1.72. Citroni explains the thrust of the final line as Martial’s attempt to persuade Fidentinus to buy the whole book (sc. hunc libellum), adducing Mart. 2.20 (Carmina Paulus emit, recitat sua carmina Paulus, / nam quod emas possis iure vocare tuum.) as a parallel, but does not adequately explain ne mea sint.2 Howell, attempting to meet this problem, suggests “hoc anticipates ne mea sint, which is another way of saying ut tua dicantur haec carmina”, adducing in turn Mart. 1.663 (for which see below) and 12.63.6–7 (dic vestro, rogo, sit pudor poetae / nec gratis recitet meos libellos); the parallels adduced by both scholars reflect, more or less, the gist of 1.29, but neither Citroni nor Howell correctly interprets hoc in the last line. A more complete interpretation lies in a combination of the two solutions proposed: Martial is in fact suggesting in 1.29 that Fidentinus should pay Martial for t h i s s i n g l e p o e m (hoc, sc. carmen), i. e. 1.29, in which Martial accuses Fidentius of stealing other poems, in order that Martial might release his claim on them (ne mea [sc. carmina] sint). 1.29, then, sets in place a scenario for the Book 1 plagiarism poems which comprises an evaluation of public versus private awareness of authentic authorship (the essence of plagiarism): Martial notifies the would-be poet, Fidentinus, of the public awareness (fama refert, 1.29.1) that he has appropriated Martial’s poems in recitations, and suggests that, for a fee (hoc eme, 1.29.4) he might relinquish his claim on the poems publicly (si mea vis dici . . . si dici tua vis, 1.29.3–4). The idea of relinquishing his claim on the poems is turned for its abusive potential against Fidentinus in 1.38 (Quem recitas meus est, o Fidentine, libellus: / sed male cum recitas, incipit esse tuus.): Martial here suggests that his poems become Fidentinus’ because that poet recites them so badly. 1.52 reinforces the importance of public awareness of ownership through the poet’s amicus, and of the consequences of that awareness (inpones plagiario pudorem, 1.52.9). In 1.53, Martial introduces the notion of public awareness of authorship through a trope similar to that in 1.38: the single authentic poem by Fidentinus proves the theft of Martial’s poems – which through a series of comparisons (1.53.4–10) are shown to be superior – because it is so bad (indice non opus est nostris nec iudice libris, / stat contra dicitque tibi tua pagina ‘Fur es.’); the poem itself acts as Martial’s amicus. 1.63 recalls the public context for appropriation of the poems, the recitatio. It is 1.66, however, which seems to be most closely connected with 1.29 (as Friedlaender and Howell point out, see n. 3). It seems to cap the plagiarism cycle as a general commentary on plagiarism and public awareness, especially (as one might expect) in the final two lines. 2) M. Citroni, M. Valerii Martialis Epigrammaton Liber Primus (Florence 1975) ad loc. 3) P. Howell, A Commentary on Book One of the Epigrams of Martial (London 1980) ad loc. This parallel is also suggested by L. Friedlaender, M. Valerii Martialis Epigrammaton Libri (Leipzig 1886) ad loc.
Miszellen Erras, meorum fur avare librorum, fieri poetam posse qui putas tanti, scriptura quanti constet et tomus vilis: non sex paratur aut decem sophos nummis. Secreta quaere carmina et rudes curas quas novit unus scrinioque signatas custodit ipse virginis pater chartae, quae trita duro non inhorruit mento: mutare dominum non potest liber notus. Sed pumicata fronte si quis est nondum nec umbilicis cultus atque membrana, mercare: tales habeo; nec sciet quisquam. Aliena quisquis recitat et petit famam, non emere librum, sed silentium debet.
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You are mistaken, grasping thief of my books, you who think you can become a poet for as much as a text and a cheap cut of papyrus costs: A cheer can’t be got for six or ten coins. Hunt for unknown poems and unpolished efforts that one man alone knows, that the father of the virgin sheet watches over sealed in its writing case (she hasn’t shrunk back because of hard chins, all worn out). A known book cannot change its dominus. But if there’s one with its ends not yet polished, not yet dressed up with bosses and a cover, buy it! I’ve got some. No one has to know. Whoever recites another’s poems and seeks fame, ought to buy not books, but silence. The epigram has two movements. In the first (1.66.1–9) Martial declares to the plagiarist that he cannot get approval simply by copying and passing off for his own the circulated poems of another poet, since the public is already aware of the original author. Instead, suggests Martial in the second movement (1.66.10 ff.), the fur should buy an un-circulated book. The portrayal of the original author as pater or dominus is extremely interesting, and has a close parallel in 1.52.6 (cf. also 10.102).4 But it is the comment in the final two lines about the poet’s potential success that most clearly relates to 1.29 since the conceit for both epigrams lies in Martial’s offer to sell the thief one of his own such books – without public awareness (ne mea sint 1.29.4, nec sciet quisquam 1.66.12). Indeed, the final lines of 1.66 offer an interesting play on fama when read against 1.29 (which opens with the words Fama refert). In 1.29, Martial reports to Fidentinus that he is the subject of fama, while in 1.66 he implies that those who recite another’s work – like Fidentinus in 1.29 – do so to gain fama; the play, of course, is that the plagiarist will in fact get fama, just not of the positive sort. In typical fashion for Martial the final poem of the cycle, 1.72, requires the reader to re-evaluate the entire cycle. Martial seems to have suggested in the earlier poems that Fidentinus might have been able to become in the public eye the poet he desired to be, if only he had properly bought Martial’s poems and silence; this suggestion is reiterated at the beginning of 1.72 (esse te poetam, / Fidentine, putas 4) Cf. famously of course Pl. Phdr. 275E; but the sentiment seems more Roman – see also Mart. 1.3, undoubtedly influenced by Hor. Epist. 1.20.
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cupisque credi? 1.72.1–2). With 1.72, however, we realize that Martial has toyed with the reader as he brings out more fully the emptiness of Fidentinus’ cosmetic attempts to be a poet. The plagiarist cycle thus ties up neatly, and Martial asserts a certain integrity (diminished perhaps by the offer in 1.27): even with poems and silence bought, Fidentinus would never truly be a poet, although he might to all appearances seem to be one. Allendale, MI
Peter Anderson
DUE NOTE TESTUALI SU PLUTARCO (BRUTA ANIMALIA RATIONE UTI 986C; 990B)
Plut. Brut. an. rat. uti 986C §g∆ gin≈skvn Ímçw ényr≈pouw gegonÒtaw ofikte¤rv m¢n [oÔn] ëpantaw oÏtvw ¶xontaw, efikÚw d° moi mçllon diaf°rein ˜soi ÜEllhnew ˆntew efiw taÊthn éf›xye tØn dustux¤an (testo di Hubert)1. gign≈skvn J2Yg (sic Hubert), gign≈skv O Ald. Orsini et Ald. Giannotti, sed in Ald. marg. legitur gign≈skvn cum siglis L et V (in Ald. Giannotti solum l; L vel l = «castigationes in Nicolai Leonici codice» – gegon°nai Bz – oÔn del. Duebner (apparato di Indelli)2. La pericope §g≈ . . . ¶xontaw, evidentemente mendosa, si può ricostruire in due modi, o espungendo oÔn, come fa Duebner e con lui Hubert e Helmbold3, oppure accettando la variante gign≈skv e interpungendo dopo gegonÒtaw, come fa Indelli: §g∆ gign≈skv Ímçw ényr≈pouw gegonÒtaw: ofikte¤rv m¢n [oÔn] ëpantaw oÏtvw ¶xontaw ktl.: «so che siete stati uomini; dunque compiango tutti voi che vi trovate in questa condizione . . .», ecc.4 Se si parte dal testo di Duebner non è facile capire chi e perché possa aver aggiunto oÔn, dal momento che, anche accettando gign≈skv e facendo finire il periodo con gegonÒtaw, la ripresa ofikte¤rv m¢n ëpantaw è grammaticalmente corretta (non bella per lo stile, certo, ma di questo uno scriba non avrebbe avuto molti motivi per preoccuparsi)5. Se invece si parte dal testo di Indelli dobbia1) Plutarchi Moralia, VI.1, ed. C. Hubert, Lipsiae 1954. 2) Plutarco. Le bestie sono esseri razionali, intr., testo cr., trad. e comm. a c. di G. Indelli, Napoli 1995. 3) Plutarch’s Moralia, vol. XII, with an Engl. transl. by H. Cherniss and W. C. Helmbold, Cambridge, Mass. / London 1957. 4) Indelli (come n. 2) 59. 5) Non è da escludere, come mi fa notare la redazione di RhM, che oÔn provenga dal di poco successivo nËn oÔn §poihsãmhn: caduto aplograficamente per
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cupisque credi? 1.72.1–2). With 1.72, however, we realize that Martial has toyed with the reader as he brings out more fully the emptiness of Fidentinus’ cosmetic attempts to be a poet. The plagiarist cycle thus ties up neatly, and Martial asserts a certain integrity (diminished perhaps by the offer in 1.27): even with poems and silence bought, Fidentinus would never truly be a poet, although he might to all appearances seem to be one. Allendale, MI
Peter Anderson
DUE NOTE TESTUALI SU PLUTARCO (BRUTA ANIMALIA RATIONE UTI 986C; 990B)
Plut. Brut. an. rat. uti 986C §g∆ gin≈skvn Ímçw ényr≈pouw gegonÒtaw ofikte¤rv m¢n [oÔn] ëpantaw oÏtvw ¶xontaw, efikÚw d° moi mçllon diaf°rein ˜soi ÜEllhnew ˆntew efiw taÊthn éf›xye tØn dustux¤an (testo di Hubert)1. gign≈skvn J2Yg (sic Hubert), gign≈skv O Ald. Orsini et Ald. Giannotti, sed in Ald. marg. legitur gign≈skvn cum siglis L et V (in Ald. Giannotti solum l; L vel l = «castigationes in Nicolai Leonici codice» – gegon°nai Bz – oÔn del. Duebner (apparato di Indelli)2. La pericope §g≈ . . . ¶xontaw, evidentemente mendosa, si può ricostruire in due modi, o espungendo oÔn, come fa Duebner e con lui Hubert e Helmbold3, oppure accettando la variante gign≈skv e interpungendo dopo gegonÒtaw, come fa Indelli: §g∆ gign≈skv Ímçw ényr≈pouw gegonÒtaw: ofikte¤rv m¢n [oÔn] ëpantaw oÏtvw ¶xontaw ktl.: «so che siete stati uomini; dunque compiango tutti voi che vi trovate in questa condizione . . .», ecc.4 Se si parte dal testo di Duebner non è facile capire chi e perché possa aver aggiunto oÔn, dal momento che, anche accettando gign≈skv e facendo finire il periodo con gegonÒtaw, la ripresa ofikte¤rv m¢n ëpantaw è grammaticalmente corretta (non bella per lo stile, certo, ma di questo uno scriba non avrebbe avuto molti motivi per preoccuparsi)5. Se invece si parte dal testo di Indelli dobbia1) Plutarchi Moralia, VI.1, ed. C. Hubert, Lipsiae 1954. 2) Plutarco. Le bestie sono esseri razionali, intr., testo cr., trad. e comm. a c. di G. Indelli, Napoli 1995. 3) Plutarch’s Moralia, vol. XII, with an Engl. transl. by H. Cherniss and W. C. Helmbold, Cambridge, Mass. / London 1957. 4) Indelli (come n. 2) 59. 5) Non è da escludere, come mi fa notare la redazione di RhM, che oÔn provenga dal di poco successivo nËn oÔn §poihsãmhn: caduto aplograficamente per
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mo fare i conti con uno iato piuttosto ruvido (a ciò si aggiunge l’impressione, che in quanto tale non ha, beninteso, alcun valore scientifico, che il punto in alto dopo gegonÒtaw produca un periodo frammentato, contratto e desultorio). Un’altra soluzione è quella di accettare gin≈skvn e di mutare oÔn ëpantaw in sunãpantaw. L’aggettivo sunãpaw è usato sia con espressioni numerali (come nell’unica occorrenza plutarchea materialmente attestata: De an. procr. in Tim. 1027E) sia senza (Herod. 1.134.3; 2.39.3; 2.112.2, ecc.; Plat. Polit. 305C; Tim. 43C; Leg. 708B, ecc.; Luc. De dea Syr. 28; Porph. De abst. 2.38, ecc.); esso indica la somma di più fattori o elementi, e rispetto ad ëpaw esprime in modo più marcato l’idea della totalità assoluta e priva di eccezioni. Questa maggiore forza di sunãpantaw rispetto ad ëpantaw (e ad un eventuale sÊmpantaw, anch’esso proponibile in luogo del tràdito oÔn ëpantaw) è particolarmente appropriata nel contesto di 986C, in cui Odisseo cerca ipocritamente6 di accreditarsi come uomo imparziale e di larghe vedute: egli commisera t u t t i i prigionieri di Circe (tutti insieme, come gruppo), e a tutti, Greci e barbari, riconosce la stessa dignità umana e la stessa capacità di provare sofferenza per la condizione bestiale in cui sono caduti7. Tuttavia, poiché Odisseo è costretto a scegliere8, è ovvio (efikÚw d° moi ktl.) che la sua scelta favorirà coloro che gli sono etnicamente e culturalmente affini. 990B têlla dÉ oÈk §noxle› (sc. ≤ ˆsfrhsiw), kayãper Ím›n, tå yumiãmata ka‹ kinãmvma ka‹ nãrdouw ka‹ fÊlla ka‹ kalãmouw ÉArabikoÁw metå dein∞w tinow ka‹ deusopoioË farmak¤dow t°xnhw, √ murecik∞w ˆnoma, sunãgein efiw taÈtÚ ka‹ ~sumfage›n énagkãzousa, xrhmãtvn poll«n ≤dupãyeian ênandron ka‹ korasi≈dh ka‹ prÚw oÈd¢n oÈdam«w xrÆsimon »noum°nouw (testo di Hubert). effetto di nËn, l’avverbio potrebbe essere stato riportato in margine e di lì essere migrato in un luogo erroneo. Niente osta a questa ipotesi, ma bisogna osservare che da una parte, data la frequenza del nesso m¢n oÔn, il reinserimento di oÔn dopo m°n non sembra opera di uno scriba che lavorasse completamente a casaccio; dall’altra parte, però, questo scriba non si sarebbe accorto del guasto sintattico provocato dall’inserzione di oÔn. 6) In 985E, parlando con Circe, Odisseo non nasconde che il suo desiderio di liberare i Greci e riportarli in patria è dovuto a spirito di filotim¤a, a desiderio di farsi passare per salvatore ed eroe; viceversa, nel colloquio con Grillo, egli non fa alcun cenno a questa poco disinteressata motivazione. 7) Poiché la totalità di coloro per i quali Odisseo prova compassione è appunto costituita da uomini di stirpe diversa, ha per noi un particolare valore il passo erodoteo 1.134.3, citato sopra, dove sunãpaw indica un insieme di più etnie: §p‹ d¢ MÆdvn érxÒntvn ka‹ ∑rxe tå ¶ynea éllÆlvn, sunapãntvn m¢n M∞doi ktl. 8) È importante rilevare che i Greci di cui Odisseo sta chiedendo la liberazione (cf. 985E efi xãriti sª . . . énas≈saimi) n o n sono i suoi •ta›roi, i quali, al momento in cui la scena del Bruta animalia si svolge, sono stati già da tempo ritrasformati in esseri umani. Anche se Odisseo volesse portarsi appresso tutti gli uomini-bestia di Circe, non avrebbe mezzi di trasporto adeguati per farlo. Egli deve scegliere. Sulla necessità (spesso ignorata dagli studiosi) di n o n identificare gli •ta›roi itacesi con i tin¢w ÜEllhnew di 985D cf. W. Lapini, Marginalia plutarchei, A&R 41, 1996, 203–214, pp. 207–208 n. 15, nonché Id., Odisseo e gli hetairoi: Plutarco, Bruta animalia ratione uti 985D–E, di prossima pubblicazione.
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Miszellen sumfÊrein Bernardakis: sumfoite›n P2Qhk: sumfvne›n u: sumfoitçn g (sic Xylander): sumfage›n O (apparato di Indelli)9.
Indelli accetta il suggerimento di Bernardakis10 e traduce sunãgein efiw taÈtÚ ka‹ sumfÊrein con «raccogliere insieme e mescolare»11. Si osservi però che sumfÊrein è usato da Plutarco sempre al passivo, sempre come perfetto o piuccheperfetto, e sempre nel senso di «sporcare, lordare, impiastricciare»: cf. Cam. 32.5; Quest. conv. 654A; De soll. an. 975C; Fab. Max. 16.7 (sangue); Sert. 17.13 (polvere); De am. prol. 497E (terra); De tue. san. praec. 126C (sumpefurm°non opposto a kayarÒn)12. Per parte mia, credo che una soluzione possibile sia quella di correggere sumfage›n in sumf°rein, verbo che Plutarco usa ripetutamente nel senso di «unire, congiungere, mettere insieme»; per il medio-passivo cf. Sol. 9.5, 25.4; Them. 27.2, ecc.; per il medio-passivo con efiw taÈtÒ cf. Ag. et Cleom. 9.1 t«n gerÒntvn efiw taÈtÚ ta›w gn≈maiw oÈ sumferom°nvn13; per l’attivo con efiw taÈtÒ cf. Demetr. 28.2 sumferÒntvn efiw taÈtÚ tåw dunãmeiw. L’uso congiunto di sunãgein e sumf°rein può essere stato stimolato dalla iunctura êgein + f°rein (o dal meno frequente f°rein + êgein)14. Le occorrenze plutarchee di êgein + f°rein sono diciotto, quelle di f°rein + êgein quattro. Il passaggio da -er di sumf°rein ad -ag di sumfage›n è spiegabile come errore di minuscola: nel gruppo -rei, infatti, il ‹rho› delle scritture minuscole presenta una certa somiglianza con ‹gamma›, poiché di norma il tratto tondeggiante non si chiude a formare la caratteristica pancia, ma prosegue in alto a destra in legatura con -ei. Genova
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9) Giustamente gli apparati più recenti non tengono conto di proposte troppo costose dal punto di vista paleografico come quella di Post, che suggeriva sumpag∞nai, o come quella di Wyttenbach, che diffidava anche di sunãgein e azzardava sunãptein . . . ka‹ sumfoitçn. 10) Plutarchi Chaeronensis Moralia, ed. G. N. Bernardakis, Leipzig 1895, vol. VI. Si trattava, appunto, di un suggerimento (Bernardakis stampava infatti il tràdito sumfage›n), e male fanno gli editori a presentare questo sumfÊrein come una scelta ultimativa. Altro suggerimento di Bernardakis era sumfurçn (accettato da Helmbold [come n. 3]). 11) Indelli (come n. 2) 89, e cf. 132 n. 117. 12) Cf. anche furçn in De Pyth. or. 398A éllå ka‹ l¤yƒ pant‹ ka‹ xalk“ sumfurãsomen aÈtÒn (sc. tÚn yeÒn), con lo stesso valore negativo. 13) Si aggiunga lo pseudoplutarcheo Amat. 764A efiw taÈtå to›w Platvniko›w sumf°resyai. 14) Alla mia proposta la redazione di RhM obietta che fra i due termini sunãgein e sumf°rein sembra mancare una differenziazione (differenziazione che invece è presente nelle sizigie sinonimiche di e. g. 988D bafÆ tiw . . . ka‹ stÒmvma; 990B diabãllei ka‹ kathgore›; 991E oÈd¢ koll«sa mel°t˙ ka‹ sumphgnÊousa). Ma la sinonimia di sunãgein e sumf°rein va letta anche in rapporto a ciò che ne costituisce il prius, êgein + f°rein, i quali formano un concetto unico. D’altronde, se con êgein efiw taÈtÒ si deve intendere l’assemblaggio di sostanze odorose importate da luoghi disparati e/o remoti, sumf°rein indicherà il successivo specifico lavoro del profumiere, quello di combinare e adattare le essenze fra loro in modo appropriato.
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CONGETTURE A GIOVANNI D’ANTIOCHIA La parte più cospicua dell’opera superstite di Giovanni d’Antiochia ci è stata tramandata dagli excerpta eseguiti per ordine di Costantino Porfirogenito, in particolare negli excerpta de insidiis1 e negli excerpta de virtutibus et vitiis2. E’ noto che Giovanni di Antiochia compose la propria storia sunteggiando una serie di storici a lui precedenti; di questi storici alcuni sono giunti integralmente a noi (ad esempio Erodiano), altri sono invece andati perduti, sicché è nostro compito cercare di stabilire chi essi fossero. Per quel che concerne il testo, la situazione è ovviamente diversa a seconda che lo storico usato da Giovanni sia perduto ovvero conservato: nel primo caso la restituzione del testo di Giovanni è aiutata dal confronto tra la tradizione diretta del testo dello storico sunteggiato e il testo di Giovanni, nel secondo tale ausilio viene meno. L’unica raccolta dei frammenti di Giovanni antiocheno è ancora quella di K. Mueller3. Il testo di riferimento per la maggior parte dell’opera non è tuttavia più quello di Mueller, sibbene quello di de Boor e Buettner-Wobst / Roos. Dopo il lavoro di questi studiosi l’attenzione dei critici si è rivolta quasi esclusivamente allo studio delle fonti di Giovanni, trascurando i problemi testuali4. Un lavoro fondamentale sia per quel che concerne le fonti sia per quel che concerne la tradizione manoscritta è stato di recente pubblicato da P. Sotiroudis5. Dopo il lavoro di Sotiroudis non mi risulta siano più stati pubblicati contributi al testo di Giovanni6. Accingendomi a preparare una nuova raccolta dei frammenti di questo storico propongo ora una serie di emendamenti al testo degli escerti costantiniani. p. 63, ll. 10–12 de Boor (= fr. 44 Mueller)7: oÈ mØn ép°bh ti toÊtvn, Soulpik¤ou toË Ípãtou svfrÒnvw toÊw yÉ ≤ gemÒnaw t∞w §pixeirÆsevw sullabÒntow ka‹ tÚ kekinhm°non toË dhmotikoË kataspãsantow. Mi fa grave difficoltà kataspãsantow8; lo si corregga in katapaÊsantow. 1) Excerpta historica iussu Imperatoris Constantini Porphyrogeniti confecta, excerpta de insidiis (vol. III), ed. C. de Boor, Berolini 1905. 2) Excerpta . . . cit., excerpta de virtutibus et vitiis (vol. II, pars I), ed. T. Buettner-Wobst, editionem curavit A. G. Roos, Berolini 1906. 3) Fragmenta historicorum Graecorum, coll. disp. . . . C. Mullerus, voll. IV– V, Parisiis 1851. 4) Alcune interessanti proposte furono avanzate da E. Schwartz, Berl. phil. Woch. 26 (1906) col. 877. Mi sono inaccessibili S. Lambros, Diory≈seiw efiw ÉIvãnnhn tÚn ÉAntiox°a, N°ow ÑEllhn. (1906) 125–6 e la recensione di Cohn agli exc. de insid. in GGA (1907) 495–502. 5) P. Sotiroudis, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Johannes von Antiocheia, Thessalonike 1989. 6) Contemporaneo al lavoro dell’erudito greco è quello di L. Zusi, L’età mariano-sillana in Giovanni Antiocheno, Roma 1989. 7) Di questo frammento e del successivo (54 M.) non è nota l’origine, cfr. Sotiroudis (come n. 5) 143. 8) L’espressione non fa battere ciglio a M. Capozza, Giovanni Antiocheno frgg. 44, 47, 61 Mueller, Historia 26 (1977) 391.
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p. 64, ll. 16–19 B. (= fr. 54 M.): ka‹ taÊthw [scil. ÉArsinÒhw] sÁn to›w basile¤oiw diafyare¤shw, poll∞w te tarax∞w §nteËyen Afigupt¤oiw énafye¤shw, ˜ te t∞w Sur¤aw basileÁw S°leukow ka‹ t∞w Makedon¤aw F¤lippow §lp¤di toË kratÆsein t∞w x≈raw sÁn proyum¤& strateÊousin. E’ senz’altro necessario integrare: ka‹ <ı> t∞w Makedon¤aw F¤lippow. p. 111, ll. 11–14 B. (= fr. 154 M.)9: ˜ti Kunt¤liow édelfÚw Klaud¤ou, ˘w §bas¤leuse ÑRvma¤vn, ëma d¢ t“ gn«nai tØn basile¤an AÈrhlian“ paradedom°nhn, •kÒnta t∞w érx∞w épost∞nai k.t.l. La sintassi non quadra e Mueller ha proposto di espungere d°; e integrare l°getai dopo épost∞nai. Tuttavia, se consideriamo che il regno di Quintillo fu brevissimo (pochi mesi), mentre sia quello del suo fratello e predecessore Claudio sia quello del suo successore Aureliano lasciarono una fama duratura, sarà facile ipotizzare che Giovanni abbia voluto informare il lettore che anche Quintillo fu imperatore; in questo senso basterà espungere ˘w, legando ˜ti a §bas¤leuse, e interpungendo con punto in alto dopo ÑRvma¤vn. Soggetto di épost∞nai sarà sempre Quintillo. p. 113, l. 31–p. 114, l. 1 B. (= fr. 169 M.)10: ˘w éfikÒmenow prÚw tØn ÑR≈mhn tå m¢n pr«ta perii∆n §poliÒrkei tÚn Maj°ntion, katalhfye‹w d¢ édokÆtvw ÍpÚ t«n t∞w §nant¤aw genom°nvn mo¤raw feÊgei ka‹ èloÁw §n ÑRab°nn˙ diafye¤retai (il soggetto della proposizione è Severo, Cesare di Galerio e da questi inviato contro Roma). Mi pare che katalhfye‹w vada corretto in kataleifye‹w, come mostra pure il racconto di Eutropio (10.2): militum suorum scelere desertus est11. p. 114, ll. 8–10 B. (= fr. 169 M.): gn≈mhn d¢ §poie›to kairoË prÚw §piboulØn éfikÒmenow toË katakte›nai tÚn Kvnstant›non. Il passo allude alle ben note trame di Massimiano Erculio per uccidere Costantino; éfikÒmenow va emendato nel palmare éfikom°nou (cfr. anche Eutr. l. cit. moliens tamen Constantinum reperta occasione interficere)12. p. 114, ll. 21–23 B. (= fr. 174 M.)13: prÚw t«n Magnent¤ou strathg«n èloÁw diefyãrh, t∞w kefal∞w éfaireye¤w: ∂n §p‹ kontoË tinow afivrÆsantew per‹ pçsan tØn pÒlin ofl èlÒntew ≥gagon. Credo che ofl èlÒntew vada emendato; propongo paivn¤zontew (cfr. p. 128, ll. 11.12: ka‹ tå m°lh §p‹ kont“ f°ron §paivn¤zeto, ma l’uso dell’attivo è ben più frequente). p. 120, ll. 13–16 B. (= fr. 190 M. = Eunapius fr. 64 Blockley): pot¢ d¢ ka‹ pl∞yow barbãrvn efisagag≈n, œn ÉAlãrixow ≤ge›to, pçsan ımoË tØn ÑEllãda ka‹ tå per‹ tØn ÉIllur¤da diepÒryei, …w ka‹ d∞low ëpasi gen°syai tª t∞w turann¤dow §pi9) La fonte è Zosimo 1.47, cfr. Sotiroudis (come n. 5) 127. 10) Il frammento deriva da Eutropio (10.2–3), probabilmente tràmite Capitone, cfr. Sotiroudis (come n. 5) 112. 11) Legge secondo il testo tràdito pure H. Droysen, Eutropi, Breviarium ab urbe condita cum vers. Graecis, Berolini 1879, p. 173. 12) Il frammento deriva da Eutropio (10.11) che però non aiuta a risolvere il nostro problema testuale (cfr. Sotiroudis [come n. 5] 112). 13) Il frammento, che pure presenta somiglianze con Zosimo, deriva probabilmente da Eunapio, cfr. Sotiroudis (come n. 5) 133–4.
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boulª. Il senso della frase è chiaro e pare averlo compreso anche Blockley che ne traduce così l’ultima parte. «As a result it was clear to all that he was plotting usurpation». Mi pare che §piboulª vada corretto in §pibolª. p. 125, ll. 1–6 B. (= fr. 199 M. = Priscus fr. 17 Blockley)14: taËta to¤nun YeodÒsiow memayhk∆w §pist°llei t“ Balentinian“ tØn ÉOnvr¤an §kp°mpein t“ ÉAttÆl&. ka‹ ı m¢n sullab∆n tÚn ÑUãkinyon ëpanta dihreÊnhse ka‹ metå polloÁw toË s≈matow afikismoÁw t∞w kefal∞w épotmhy∞nai §k°leusen, ÉOnvr¤an d¢ tØn édelfØn BalentinianÚw tª mhtr‹ d«ron ¶dvke pollå afithsam°n˙ aÈtÆn. oÏtvw m¢n oÔn ÉOnvr¤a tÒte t∞w * * épelÊeto. L’ultima parte del brano si presta ad alcune osservazioni: BalentinianÒw è ridondante e va forse espunto; afithsam°n˙ è inadatto a esprimere le suppliche della madre per la figlia, mentre <§j>aithsam°n˙ va benissimo («la concesse in dono alla madre che molto aveva pregato per ottenere per lei la grazia», cfr. Xen. Exp. Cyri 1.3.3, Dem. 21.99); credo inoltre che la lacuna finale possa essere eliminata espungendo t∞w e dando a épolÊesyai il normale significato di dimitti. p. 125, ll. 7–13 B. (= fr. 201 M. = Priscus fr. 30 Blockley): MãjimÒw tiw énØr eÈgenØw ka‹ dunatÚw ka‹ deÊteron ÍpateÊsaw ÉAet¤ƒ t“ strathg“ t«n katå tØn ÉItal¤an tagmãtvn dusmenØw vÉÄn, …w ¶gnv ka‹ tÚn ÑHrãkleion (eÈnoËxow d¢ otow ka‹ tØn meg¤sthn parå t“ basileÊonti ¶xvn =opÆn), t∞w aÈt∞w t“ ÉAet¤ƒ ¶xyiston ˆnta proair°sevw (êmfv går t∞w §ke¤nou tØn sfet°ran §peir«nto énteisãgein dÊnamin), §w sunvmos¤an ¶rxetai. Mi pare che prima di t∞w aÈt∞w sia necessario integrare <§k>, come suggerisce fra l’altro p. 126, ll. 25–6: §k t∞w aÈt∞w går ırm≈menow proair°sevw k.t.l. p. 127, ll. 11–13 B. (= fr. 201 M. = Priscus fr. 30 Blockley): ı d¢ YraustÆlaw tÚn ÑHrãkleion kaye›len, ka‹ êmfv te tÚ diãdhma toË basil°vw ka‹ tÚn ·ppon labÒntew §w tÚn Mãjimon ép°trexon. E’ assolutamente necessario trasporre il te e leggere: êmfv tÒ te diãdhma toË k.t.l. p. 128, ll. 25–30 B. (= fr. 202 M. = Priscus fr. 32 Blockley): perifan«w d¢ ka‹ ı Maivr›now ka‹ ı ÑRek¤mer §pan¤stanto toË §k t«n GÒtyvn éphllagm°noi d°ouw, Àste aÈtÚn pª m¢n tåw §mful¤ouw taraxåw pª d¢ toÁw t«n BandÆlvn pol°mouw Íforay°nta Ípejelye›n t∞w ÑR≈mhw. Forse aÈtÒn va corretto in ÖAbiton, ma non possiamo esserne sicuri data la natura compendiaria del nostro testo, il quale nell’originale avrebbe potuto avere una menzione di Avito poco prima del brano da me trascritto sì da rendere inutile l’emendamento che propongo. p. 130, ll. 3–6 B. (= fr. 206 M. = Priscus fr. 56 Blockley): tØn går §pÉ aÈt“ genom°nhn ı ÉAnagãsthw oÈk §d°jato c∞fon, …w §pilhc¤an nos«n te ka‹ dedi≈w, fhs¤, mÆpote §n t“ t∞w gerous¤aw a‰sxow épen°gkoito t“ pãyei, ín oÏtv tÊxoi. Mi pare evidente che nos«n te va corretto in nosoËnti. ib. ll. 9–11: ı m¢n oÔn ÉArdaboÊrion tÚn ÖAsparow a‡tion t∞w turann¤dow ép°fhne ka‹ tå toÊtou grãmmata parå tÚn basileÊonta ¶pempen. Dopo turann¤dow 14) Dopo il lavoro del Blockley non mi sono note altre proposte al testo di Prisco.
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è necessario integrare qualcosa come §pibol∞w, poiché quello di Ardaburio era stato solo un tentativo. p. 139, ll. 29–32 B. (= fr. 210 M.): aÈtoÁw d¢ mikrÚn ¶jv toË frour¤ou labÒntew ka‹ pollå prÚw tÚ ye›on sÁn dãkrusin épeipÒntaw ka‹ tåw xe›raw efiw tÚn oÈranÚn énate¤nantaw t«n kefal«n ép°temon. Non mi pare tollerabile épeipÒntaw; si richiede éneipÒntaw. p. 141, ll. 2–6 B. (= fr. 214 M.): …w d¢ katå tåw y°aw étaktoËsin ı t∞w pÒlevw ¶parxow diå progrãmmatow tåw ¶ndon diatribåw éphgÒreusen, Ípono¤& tÚ loipÚn §kdÒntew •autoÁw ofl to›w plhmmelÆmasin §nexÒmenoi ëpanta dietãratton. Non comprendo Ípono¤&; lo si corregga in épono¤&. p. 182, ll. 5–9 B.-W. (= fr. 90 M.)15: §pe‹ d¢ trufa›w ka‹ k≈moiw kayhmerino›w ı N°rvn §ntrafe‹w prãttein te ~ tå t∞w érx∞w §fÉ ∏w •autÚn ±j¤ou, taxÁ tÚ semnÚn ka‹ megaloprep¢w t∞w t«n ÑRvma¤vn ≤gemon¤aw §w tÚ êkosmÒn te ka‹ tapeinÚn metab°blhke. Questo il testo tràdito; Mueller ha proposto di espungere te ed §fÉ ∏w. Io propongo: prãttein te tå t∞w érx∞w §fÉ •autÒn ±j¤ou; cfr. p. 188, ll. 19–20: tÚn ÉAdrianÚn §p‹ toËton §yel∞sai tÚn t∞w basile¤aw égage›n kl∞ron. Nerone volle cioè (±j¤ou) portare a sé (§fÉ •autÚn égage›n) il potere reale, che fino a quel punto era stato gestito da Agrippina, Seneca e Burro. p. 199, ll. 5–7 B.-W. (= fr. 175 M.)16: ˜ti Kvnstãntiow ı pa›w toË megãlou Kvnstant¤nou mÒnow t∞w ÑRvma¤vn érx∞w èpãshw kataståw barÁw ∑ n to›w mØ boulom°noiw tå ÉAre¤ou frone›n. Il periodo mi pare monco; bisognerà forse integrare kataståw barÁw k.t.l. p. 203, ll. 18–21 B.-W. (= fr. 191 M.)17: ˜ti YeodÒsiow ı n°ow diå tØn êgan t∞w ≤lik¤aw neÒthta oÈd¢ prÚw tÚ frone›n oÈd¢ prÚw tÚ poleme›n flkanÚw ∑n: éllå mÒnon Ípografåw to›w boulom°noiw pare›xe, mãlista to›w per‹ tØn basile¤an eÈnoÊxoiw. Mi sembra davvero strano che Teodosio fornisse le Ípografa¤ «a quelli che le volevano»; meglio leggere bouleuom°noiw («a coloro che prendevano le decisioni»). Pisa
Carlo M. Lucarini
15) Il frammento deriva forse da Cassio Dione (cfr. Sotiroudis [come n. 5] 94). 16) Il frammento deriva forse da Socrate ecclesiastico (cfr. Sotiroudis [come n. 5] 117). 17) Ignota è l’origine di questo frammento.
ISSN 0035-449 X Schriftleiterin: Dr. S a n d r a Z a j o n z , Institut für Altertumskunde der Universität zu Köln, D-50923 Köln Druckerei: Laupp & Göbel, Nehren Verlag: J. D. S a u e r l ä n d e r , Frankfurt am Main Manuskripte werden an die Adresse von Prof. Dr. B e r n d M a n u w a l d , Institut für Altertumskunde der Universität zu Köln, D-50923 Köln, erbeten. Printed in Germany · © J. D. Sauerländer’s Verlag, Frankfurt a. M. 2006
AUGUSTUS AND THE GOVERNORS’ WIVES Until the last century of the Roman Republic it was an established principle that officials assigned provinces outside of Italy would not be accompanied there by their wives, whose duty was to remain behind to look after their husbands’ interests. The locus classicus is provided by L. Quinctius Flamininus, brother of the distinguished philhellene. When Lucius departed for Gaul in 192 BC, his wife is recorded as escorting him as far as the city gate, but then turning back. The later details of the story highlight the shortcomings of the convention, since out of his wife’s sight Lucius became entangled in a particularly sordid sexual escapade in Gaul, leading to his eventual expulsion from the senate.1 For good or ill, however, the practice of matrimonial separation was maintained until the first century BC, when, like many others, it fell victim to growing political unrest. The first on record as breaking with the old tradition was Sulla, who in 88 was joined in Athens by his wife Caecilia Metella.2 Cornelia, the wife of Pompey, later travelled east to join her husband on what would be his final journey to Egypt.3 By the triumviral period, officials were regularly accompanied in their provinces by their wives, and other female relatives. Fulvia, for instance, went out to join her husband Marc Antony in Athens, and Octavia subsequently joined the same husband in the same place, and even Antony’s mother Julia managed at one point to find her way there.4 Once in control, Augustus sought, in principle at least, to revive many of the cherished traditions of the old Republic and, in this context, introduced reforms into the Roman army. One of the issues he tackled was the appropriate role for wives of provincial officials, or at least of officials stationed in the imperial provinces, where most of the military activities were concentrated. Suetonius 1) Sen. Contr. 9,2,1; further details of the scandal: Cic. Sen. 42; Livy 39,42,5– 12,43; Val. Max. 2,9,2,3. 2) Plut. Sull. 6,12; 13,1; 22,1; Sen. Matrim. Fr. 63 (Haase). 3) Plut. Pomp. 74,1–76,1. 4) Fulvia and Julia: App. BC 5,52; Dio 48,15,2; Octavia: Plut. Ant. 33,3; App. BC 5,76; Cluett (1998).
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reports that he imposed very strict discipline (disciplinam severissime rexit) and severely limited the contact between these officials and their wives to brief winter visits – even this modest concession was made grudgingly – and imposed this restriction right up to the level of legatus: Ne legatorum quidem cuiquam, nisi gravate hibernisque demum mensibus, permisit uxorem intervisere. He did not permit any even of his legates to pay a brief visit to his wife, except only in the winter months, and that concession was made grudgingly.5
This passage of Suetonius has not been subjected to the close scrutiny that it perhaps warrants, given that it raises questions about Augustus’ attitude towards administrators from the senatorial class that go well beyond the immediate issue. Since at least the time of the authoritative Belgian scholar Lipsius in the 16th century, commentators have simply concluded from Suetonius that under Augustus wives were not allowed to take up residence with their husbands in the imperial provinces (the public provinces do not enter into the question since Suetonius’ information comes in the context of strictly military reforms) and certainly there is no explicit piece of ancient evidence that would disprove this claim.6 It is the purpose of the present article to take a closer look at Suetonius’ statement, to outline the problems that it seems to raise, and to suggest fresh ways of looking at it. It will perhaps be useful at the outset to note a detail that Tony Marshall introduced in 1975, without explaining what lay behind his suggestion, namely that while wives were indeed not allowed to accompany officials to the imperial provinces, the concession of winter visits was made to t h e m , and not to their husbands.7 It is perhaps just possible to extract this meaning from Suetonius, on the assumption that since the section is about military personnel he might have chosen to invert a more natural mode of expression and 5) Suet. Aug. 24,1. 6) Lipsius (1585) on 3,33; his note is reproduced by, inter alios, Oberlin (1801) on 3,33,1; Valpy (1821) 547; Orelli (1846) I 175. Marshall (Tacitus 1975) 12 rightly states that there is “no evidence that the practice [sc. of governors’ wives joining their husbands] became common and unremarkable before the reign of Tiberius”. 7) Marshall (Provinces 1975) 119; (Tacitus 1975) 12.
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to phrase the restriction in terms of the officials and not their wives. But Suetonius’ choice of words would make this already difficult interpretation very unlikely. To describe the winter visits he uses the verb intervisere, whose usage is rare enough that we can conveniently cite every known example down to his time. Originally, to judge from its occurrence in Plautus, where it has the greatest frequency, interviso a l w a y s had the connotation of paying a brief visit to a place to check up or keep an eye on things.8 This element of supervision survives into the late republic. Cicero reports to his brother Quintus in Gaul that he frequently pops into his house to see how the decoration is progressing: ipse crebro interviso, and the notion of inspection seems present in the words that Tacitus puts in the mouth of Tiberius (see below), when he complains, of Agrippina, that femina manipulos intervisat.9 By the late republic we also find that the element of inspection can become so weakened that the word may imply little more than paying a casual visit to a close acquaintance or relative (perhaps with just a hint of checking on their well-being). So Cicero writes to a friend in Arpinum that he does not mind the distance between them and the fact that nos minime intervisis, because Cicero’s time in Rome is totally taken up by public affairs anyhow.10 If Suetonius was using the word in its most common application, it is clear that Augustus cannot have intended that the senators’ wives were to be allowed to check on their husbands (though the case of Flamininus shows that it might not have been a bad idea!). Moreover a ‘casual’ visit by a wife seems hardly more likely, since in the case of some provinces such a brief visit would entail considerable travel time, in the winter, to a place where the wife would as likely as not have no other personal connections. It is more feasible to see a legatus returning to Italy to combine a conjugal visit with social, family, financial or political business. Thus the circumstances favour taking Suetonius’ words 8) Plaut. Aul. 202; 363; St. 147; 154; 456; it should be noted that the two examples sometimes cited at Merc. 555; Rud. 592 are both dependent on textual emendation. 9) Cic. Quint.fr. 3,1,6; Tac. Ann. 1,69. 10) Cic. Fam. 7,1,5. The casual sense of the word seems to become relatively common after Suetonius. In Apul. Met. 1,24 it is so used in the phrase: sat Pol diu est quod intervisimus te (“Heavens, it’s so long since I saw you!”). Fronto, Ver. 2 p. 210 (207N) uses it for visiting the sick (aegros intervisere) as an official duty. At Apul. Met. 6,9,2; 6,30,2, the contexts do not allow us to tell how informal the visits might have been.
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simply as they stand to mean that the restrictions were placed on the legati. There seems to be no compelling reason why a much more difficult reading of his text should be adopted, and such is certainly the attitude of translators of Suetonius.11 It is to be noted that this is in any case a peripheral issue, and Marshall is in accord with the general consensus to be discussed in this paper that, under Augustus, the wives of military officials did not reside in their husbands’ provinces, and that contact was limited to brief visits during the winter. Lipsius made a further observation, which has not been challenged, that there was one group to whom Augustus’ rule did not apply, namely members of the imperial family. We learn from a chance reference by Drusus, son of Tiberius, that Livia accompanied Augustus on his provincial visits in both the eastern and western halves of the empire (in occidentem atque orientem).12 Also, Agrippina (the Elder), wife of Germanicus, was certainly with her husband during the summer months towards the very end of Augustus’ reign. Suetonius preserves a letter that the emperor wrote to her just before May 18, 14, a few months before his death, describing the arrangements made to send Caligula to join his father (in Gaul). It is not clear where Agrippina was when she received the missive, but Augustus certainly envisaged that she would see her husband not too long after its receipt, since he wishes her a safe journey when she goes to join Germanicus.13 But these two instances prove very little. That Augustus was not a legatus is self-evident, and in any case his duties on his later trips were diplomatic and political rather than military, involving public as well as imperial provinces. Also Germanicus was not a conventional legatus. He enjoyed a special grant of 11) Among translators, see, inter multos, Philemon Holland, The Histories of Twelve Caesars, Emperours of Rome (London 1606); Mr. Morgan, Lives of the Twelve Caesars. The First Emperors of Rome (London 1688); A. Stahr, Suetons Kaiserbiographien (Stuttgart 1857); and more recently J. C. Rolfe, Suetonius, with an English Translation (Cambridge, Mass. 1913); Henri Ailloud, Suétone. Vies des douze Césars (Paris 1931); J. Gavorse, The Lives of the Twelve Caesars by Suetonius (New York 1931); R. Graves, The Twelve Caesars. Gaius Suetonius Tranquillus (London 1957); G. Gaggero, Gaio Suetonio Tranquillo. Vite dei dodici Cesari (Milan 1990); O. Wittstock, Sueton. Kaiserbiographien (Berlin 1993); H. Martinet, Kaiserviten. Berühmte Männer (Düsseldorf 1997); C. Edwards, Suetonius. Lives of the Caesars (Oxford 2000). 12) Tac. Ann. 3,34,6. 13) Suet. Cal. 8,4; see Hurley (2003) 102–4.
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proconsular imperium that gave him authority (regimen summae rei) in Gaul Comata and over the two legati of the Rhine armies.14 Certainty stops there. It may well be that Julia the Elder accompanied Agrippa, and Antonia accompanied Drusus, son of Livia, outside of Italy, but there is no specific evidence of their presence in their husbands’ provinces.15 A crude form of indirect evidence might be sought from the known birth dates of imperial children, on the simple principle that the mother must have been in her husband’s company between nine and eight, and certainly no fewer than seven, months before the birth. In fact this approach provides little useful information. The birthdates of a number of Imperial children born in the Augustan period are known, but in most cases they point to conception outside the campaigning season.16 In cases where the conception might have occurred in the summer period, we are often not sure that the father was on campaign at the time.17 In fact there is no known imperial birthdate that necessitates the presence of the mother with the father during the summer months in a year when it is known that the father was in his province. 14) Tac. Ann. 1,14,4; 1,31,2. 15) Kokkinos (1992) 13, 42 suggests that Antonia accompanied her husband Drusus in Spain and Gaul; Roddaz (1984) 448–9 notes the large number of dedications to Julia, which imply (but do not necessitate) her presence with Agrippa. 16) Tacitus has Germanicus in AD 14, probably in October, refer to the imminent birth of a child and, on the most natural reading of the text, the imminent arrival of winter (Tac. Ann. 1,44,2); the event follows the arrival of a senatorial commission despatched at the meeting held on September 17 to consecrate Augustus (Tac. Ann. 1,14,4; 39,1; 40,2; Dio 57,5,4; EJ p. 52); Drusus, son of Tiberius, was born on October 7, possibly 13 BC (ILS 108); the future emperor Claudius was born in Lugdunum on August 1, 10 BC (EJ p. 50; Dio 60,5,3); Caligula was born on August 31, AD 12 (Fast. Vall., Fast. Pigh.; Suet. Cal. 8,1; Dio 59,6,1); Agrippina the Younger’s birthday fell on November 6, and m i g h t have been in 14 (Fast. Ant.; AFA lxv, lxx); for the year, see Mommsen (1878), Humphrey (1979), Barrett (1996) 230–232, Hurley (2003). All of the above must have been conceived before or after the campaigning season. 17) Lucius Caesar, son of Agrippa and Julia, is known to have been born in 17 BC. It is possible that his actual birthday was January 29 (Dio 54,18,1; Mancini [1935] 49). This would place his conception in May/June 18, probably after the beginning of the campaigning season. But we do not know if his father Agrippa was on campaign in that year, and his receipt of imperium proconsulare and tribunicia potestas argues for his presence in Rome (Dio 54,12,4). Germanicus was born on May 24 (AFA li), possibly in 15 BC (Sumner [1967] 427), thus conceived in the previous August/September, when his father Drusus was in Rome (Dio 54,19,5–6); alternatively Germanicus may have been born in 16 BC (Levick [1966] 238–40), thus conceived in 17, when Drusus’ whereabouts are unknown.
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The arrangements that Augustus had supposedly put in place for ordinary senatorial women must have been dramatically changed within a few years of the beginning of the reign of Tiberius. Women who accompanied their husbands to the imperial provinces had by then become a familiar feature, usually making their way into the record because, like Plancina in Syria, they created a scandal, or because they were models of decorum, like Seneca’s aunt, who joined her prefect-husband, C. Galerius, in Egypt and maintained an estimable invisibility.18 The process by which an apparent virtual ban on wives in the imperial provinces seemingly disappeared, to the extent that their presence was hardly considered worthy of note, is totally undocumented and did not elicit a single comment in any ancient literary source. There have been two basic modern scholarly explanations. Lipsius suggested that the system just gradually eroded as a result of the presence of imperial wives (sed irrepsit); as a slight variant to Lipsius’ thesis, it has more recently been suggested that Tiberius d e l i b e r a t e l y extended to the senators the privilege enjoyed by the imperial family. Another modern school of thought seeks an explanation in Tiberius’ practice of extending the provincial commands of his legati. He might have felt that to prevent these long-serving officials from being accompanied by their wives would be to impose undue hardship.19 The speculation that Tiberius wanted to grant the legati the benefits enjoyed by the imperial family is not in itself unreasonable, if it is the case that imperial husbands had enjoyed a general exemption under his predecessor, but the implicit comment it makes about Augustus’ attitude should give us serious pause for thought. A blatant inconsistency in the treatment of wives of senators and of the women of the emperor’s family seems seriously out of character for Augustus, who in his way of life and general demeanour sought to present himself essentially as a regular Roman citizen, and, besides which, was someone who lectured the senators about following his own example to learn how to deal with their wives.20 18) Seneca’s aunt: Sen. Helv. 19,6. 19) Extension of imperial privileges: Raepsaet-Charlier (1982) 62 n. 45; extended terms: Pflaum (1950) 302; Marshall (Provinces 1975) 119; (Tacitus 1975) 12; see also Woodman (1996) 290. 20) Dio 54,16,4–5.
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Similarly, the explanation derived from the increased terms of service outside of Italy is not inherently implausible. Tacitus attests to Tiberius extending the terms of governors.21 There were certainly some remarkable examples of lengthy service during his reign. C. Galerius, the husband of Seneca’s aunt mentioned above, served for sixteen years. C. Poppaeus Sabinus served as Augustus’ legatus in Moesia for two years and subsequently remained in office under Tiberius for twenty-two years until his death in 35. Pontius Pilate was procurator of Judaea for ten years.22 But such protracted periods of service were not in fact unprecedented. Perhaps as early as AD 6, Augustus had started to extend the terms of his legati to meet the crisis posed by the serious military situation in that year, directly appointing the proconsuls of the public provinces at the same time.23 The explanation faces another problem. The first known case of a wife (other than from the imperial family) accompanying her husband to his province after the Augustan settlement is that of Plancina, who went with Calpurnius Piso to Syria in early 18. This would be less than four years after Augustus’ death, barely time for Tiberius to have introduced a new policy based on protracted terms of office. Moreover, given that Tacitus claims that Plancina was sent out to Syria with a secret agenda to work against Agrippina, it is striking that he does not strengthen his case by observing that it was a novelty at this time for a non-imperial wife to accompany her husband.24 It is, admittedly, not possible to attest a single instance of a wife of a legatus accompanying her husband to his province during Augustus’ reign (other than in the special case of Germanicus), and this gap in the evidence might be seen as a vindication of the traditional interpretation of Suetonius.25 But the fragmentary nature of the evidence must be acknowledged, and this is highlighted 21) Tac. Ann. 1,80. 22) Galerius: Sen. Helv. 19,6; Sabinus: Tac. Ann. 1,80,1; 6,39,3; Dio 58,25,4; Pilate: Jos. Ant. 18,89. 23) Dio 55,28,2; Suet. Aug. 23 dates the prolongations after Varus’ defeat in AD 9. 24) Tac. Ann. 2,43,5. 25) Raepsaet-Charlier (1987) no. 389 (cf. [1982] no. 379–80), places the mysterious Fulvia/Paulina in Syria, but the evidence for her presence there seems to be limited to her interest in eastern religions.
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by what little we know even about the provincial visits of the very high-profile Livia. As noted, Drusus alludes to her travelling with Augustus to the eastern and western parts of the empire. Despite this testimony to the breadth of her travels, there is no piece of direct evidence that explicitly places Livia with Augustus in the east, and no coherent and plausible evidence that places her in the west.26 It should not, accordingly, be considered surprising that so little is known about the travels of ordinary upper-class wives. Moreover, there is a similar dearth of evidence for wives accompanying husbands to p u b l i c provinces, not subject to Augustus’ supposed ban. A Statilia, wife of the proconsul Lucius Calpurnius Piso, is attested from Pergamum as the recipient, along with her husband, of an honorific statue. She may also be honoured in an inscription from Samos, where the names have been erased. She could well be the Statilia cited by Pliny as having died during the reign of Claudius, at the age of 99.27 There is disagreement about the identity of her husband, Lucius Calpurnius Piso, the two candidates being either Piso Pontifex (consul 15 BC) or Piso Augur (consul 1 BC). For the present purpose the precise identity is not important, since there is consensus that if either Piso served as proconsul of Asia his term would have been under Augustus. The mere existence of an honorific statue is no g u a r a n t e e that this Statilia actually joined her husband in the province. Certainly, in the case of women of the imperial family, honorific statues were erected all over the Roman world in places they had never visited. But it certainly makes her presence likely.28 One other possible example in a public province has been adduced. An inscription (in Greek) has survived in Athens on the base of an honorific (now missing) statue honouring a ]ompon[, presumably Pomponia, the wife of a Metilius Rufus. A fragment containing the word anthupatos (proconsul) has been assigned to the same inscription, thus identifying Metilius as the governor. Accordingly, as some have supposed, Pomponia could have been 26) See Barrett (2002) 34–5; the only literary evidence is Sen. Clem. 1,9,2,6, which seems to put Livia in Gaul, but Seneca’s chronology is massively confused and Dio 55,14,1 places the same episode in Rome (see Barrett [2002] 318–9). 27) Pergamum: Ch. Habicht, Altertümer von Pergamon (1969) 8.3, no. 19; Samos AM 75 (1960) 130 no. 30; Pliny NH 7,158. 28) Augur (about AD 6): Syme (1986) 337, 376; Pontifex (in years following 10 BC): Habicht supra 41, Eilers (1996) 221–3.
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present in Athens with her proconsul-husband.29 This, it has been argued, may well have occurred in Augustus’ reign, since in AD 15 Achaea (along with Macedonia) was taken from senatorial ‘jurisdiction’ and became an imperial province. Again, a statue for Pomponia does not prove her presence, and a statue seems to have been set up for Metilius’ father, whose presence is similarly unproved. But there is another weakness in the argument for Pomponia’s presence under Augustus. Achaea was restored to the senate by Claudius in AD 44, making possible a term of office for Metilius after that date.30 Given this limited epigraphic evidence, the most valuable insight into how both Augustus and Tiberius might have dealt with the issue of governors’ wives, and arguably the most important evidence for how we should interpret Suetonius’ statement, comes from a celebrated debate held in the Roman senate in AD 21.31 Tiberius had asked the senators to choose a new governor of Africa, plagued by incursions under Tacfarinas, and they responded by leaving the choice to the emperor. In the course of these proceedings (inter quae) A. Caecina Severus introduced a supplementary motion, that the governors of provinces should not be accompanied by their wives: censuit ne quem magistratum cui provincia obvenisset uxor comitaretur. He argued, among other things, that wives impeded the proper conduct of military operations. He was opposed by Valerius Messalinus. Their speeches are presented in some detail by Tacitus. Neither senator was particularly inspired or convincing, and the debate was brought to an end by Drusus, son of Tiberius. Drusus opposed the motion, citing his own situation of being reluctant to be separated from his wife, as well as the precedent of Augustus and Livia. The proposal was thwarted, and may never have been put to the vote (sic . . . sententia elusa est). One detail of the senate proceedings that has not attracted attention is that if Augustus did not allow his legates to be accompanied by their wives, Drusus’ final words would surely be tanta29) Graindor (1927) 69 no. 26, 73; Woloch (1973) 93; Raepsaet-Charlier (1987) no. 634. 30) IG II/III2 4238 (Pomponia), 4152 (father); Pomponia: PIR1 P 572; Graindor (see previous note) suggested that the lettering, brevity and use of dark Eleusinian stone seem to suit an Augustan rather than Claudian or later date, and simply assumed that Pomponia had been in Athens; Achaia assigned to emperor: Tac. Ann. 1,76,4; restored to senate: Suet. Claud. 25; Dio 60,24,1.
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mount to a serious insult to his father’s predecessor. As noted above, Augustus was not, of course, a legatus with operational military duties and the presence of his wife would technically not have been prohibited by his own putative ban, but for Drusus to cite him as an exemplum would surely have had the rhetorical effect of rubbing salt into the wound, and would carry the unmistakable message that Drusus was distancing himself from what might be seen as a blatant instance of Augustan hypocrisy. This surely can not have been his intention, which would totally contradict his father Tiberius’ policy of deference to Augustus, whom Tiberius constantly paraded as a precedent. A far more natural way to take the passage (and it is surely how we would take it in the absence of Suetonius’ evidence) would be to assume that what Drusus is saying is not that the company of wives was an imperial privilege, but that the custom of wives accompanying their husbands had been maintained not only in Tiberius’ day but also in Augustus’, and that by his own example Augustus gave respect and authority to the practice. Tacitus notes that most of the senators were annoyed by Caecina’s speech, interrupting with protests that it was off-motion, and that they also objected that Caecina was in no position to behave like a censor in issues of such weight.32 It is important, however, to observe that they did not complain that the basic f a c t s , as presented by Caecina, were incorrect or distorted. We surely have to assume that while Caecina may not have been convincing, he would not have made assertions on the record that were known publicly to be absurd. The factual content of his statements should accordingly be given its due weight. Special attention should be paid to two of the points that he makes. Caecina begins his speech by establishing his qualifications for making the proposal. He states that he had by AD 21 participated in no fewer than forty campaigns, in a military career that 31) Tac. Ann. 3,32–35. 32) A Roman senator was entitled to speak during the course of a debate on any topic he might choose, provided it was in the public good: Tac. Ann. 2,33,1: erat quippe adhuc (sc. AD 16) frequens quod in commune conducat . . . proferre; 2,38,1; cf. 13,49; Talbert (1984) 257–60. Woodman (1996) 300 is almost certainly correct in arguing that the senators were referring to censorial powers in an informal sense only, without any suggestion of a formal or legal overstepping of constitutional authority.
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must presumably have begun in the mid-twenties BC.33 We are afforded glimpses of this career from the literary and epigraphical sources. His first recorded military exploit occurred in AD 6, when he was legatus in Moesia, and entered neighbouring Pannonia and inflicted a defeat on the Breuci, returning afterwards to Moesia to deal with the Dacians and Sarmatians.34 The following year, AD 7, saw him again in Pannonia in a campaign against the Batones, north west of Sirmium, when five Roman legions were attacked by the enemy near the Volcaean marshes. Caecina presumably returned to Moesia afterwards, and may have played a part in the final defeat of the Pannonians in the following year.35 In 8/9 or 9/10 he served as proconsul of Africa, in command of Legio III.36 We next hear of him in AD 14, as legatus of Germania Inferior, caught up in the mutiny of the German legions on the death of Augustus, although we do not know when he took up his command.37 Late in AD 14 and in AD 15, he was involved in the campaigns east of the Rhine and his contribution was rewarded later that year by the award of the ornamenta triumphalia.38 Clearly, then, Caecina had served for much of his career as legatus, the rank that is specifically mentioned as being included in Augustus’ sup33) Tac. Ann. 3,33,1: quadraginta stipendia. In an entry on Caecina’s campaign in AD 15, Tac. Ann. 1,64,4 refers to quadragesimum id stipendium, and Caecina was to be involved in at least one further campaign, in AD 16 (Tac. Ann. 2,6,1). It may be that Caecina used a round figure in his speech in the senate. Koestermann (1963) 482 suggests that he might have been restricted to shipbuilding in AD 16, but grants that there is no mention of his being replaced as legatus for the campaign proper. Syme (1982) 70 suggests that the first reference to 40 campaigns is reckoned from the military tribunate, the second from the quaestorship; see Wiseman (1971) 168; Vell. 2,112,4 refers to Caecina as being of consular rank in AD 7 and he can be safely identified as the suffect consul A. Caecina recorded for 1 BC; see Mancini (1935) 68; AE 1937.62. Despite the wealth and social prominence of the Caecinae, he held this office as a novus homo: Wiseman (1971) 168 suggests that he was the second or third senator from his family; on Caecina’s career in general, Caecina: PIR2 C 106, RE 3.1 (1897) 1241–43 (E. Groag); Eck (1985) 3, 5, 107–10; DNP II 898–9. 34) Dio 55,29,3–30,5; Syme (1933) 28; (1934) 131. 35) Vell. 2,112,2–6; Dio 55,32,3–4. Caecina’s Balkan campaign: Syme (1933) 26, 28; (1934) 119, 131, 135; Mrozewicz (1999). 36) AE 1887.992 (a milestone found near Sabratha). 37) Tac. Ann. 1,31; 32,1; 37. 38) Tac. Ann. 1,63–68; 72,1; Caecina’s last recorded military activity belongs to the following year, AD 16, which saw him building a fleet (see also n. 31): Tac. Ann. 2,6,1.
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posed ban. He was clearly well-qualified to speak on this topic from personal experience. Caecina observed that in presenting his motion he was behaving consistently and was proposing for the state a policy that he had maintained privately (seque quae in publicum statueret domi servavisse). During his forty years of service his wife had stayed within the borders of Italy (bearing him six children in the meantime). She thus distinguished herself from the familiar phenomenon of recent governors’ wives who interfered in the business of the province and in the activities of the troops. His boast clearly makes sense only if he had had a choice; if Augustus had enacted a ban on wives accompanying their husbands, then Caecina would be claiming as a personal achievement something that the emperor had in fact imposed.39 Caecina makes another telling statement. He asserts that there had been a time (olim) when, with good reason, it had not been policy to drag wives out to the provinces: haud enim frustra placitum olim ne feminae in socios aut gentis externas traherentur. What time can Caecina be thinking of? There are two possibilities. The reference could be to the system that had prevailed for most of the life of the Republic and had been brought to an end over a hundred years earlier by Sulla. Alternatively Caecina could have been thinking of the supposed policy of Augustus, which had been abandoned, at the most, only seven years ago. Olim better suits the former situation, but would not be impossible for the latter. What would surely be impossible would be implicit criticism of Tiberius by expressions of indignation over the abandonment of Augustus’ policy. For all his exploits on the battlefield Caecina does not appear to have been a bold and independent actor on the political stage. This is shown clearly by the examples he chooses in the remainder of his speech. To illustrate the dangers posed by wives in the provinces he indirectly alludes to two recent incidents. He claims that these women paraded among the troops, with centurions at their service; not long ago, a woman had presided at the ex39) If Marshall’s understanding of the language is correct, that wives were allowed brief winter stays, Caecina might have intended merely to say that his wife had not availed herself even of the casual visits, but in that case his argument would have had little relevance to the overall theme of his speech, which deals exclusively with the problems caused by extended female sojourns and the consequent female interference in administration.
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ercises of the cohorts and the manoeuvres of the legions: incedere inter milites, habere ad manum centuriones, praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum.40 Clearly Caecina was making reference to Plancina, who had accompanied her husband Cn. Calpurnius Piso to Syria in AD 18, where Tacitus, in language that is clearly reminiscent of Caecina’s speech, describes her as taking part in the exercises of the cavalry and the manoeuvres of the cohorts: exercitio equitum, decursibus cohortium.41 In exploiting the resentment aroused by Plancina’s conduct Caecina would have been supporting an official position that had widespread public support. But he also recalls a well-known incident that had occurred some years earlier. The conduct of Agrippina in preventing the destruction of the Rhine bridge at Vetera in AD 15 matches the pattern of the interfering women who aroused Caecina’s anger.42 There is in addition an interesting verbal echo. Tacitus reports that Agrippina’s actions enraged Tiberius, and in words that are reminiscent of Caecina’s, the emperor grumbled about a situation where a woman sought the popularity of the troops: femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet. Moreover Tiberius sarcastically charged Agrippina with behaving parum ambitiose, just as Caecina accuses the female sex in the provinces of being ambitiosum.43 The thinly veiled criticism of Agrippina would have served a very personal purpose. It would have helped salve Caecina’s own possible humiliation over the rescue of his troops by a woman.44 It would also, of course, have been intended to appeal to Tiberius, a man noted for his impatience over women interfering in public policy. While Tiberius was surely not the sinister enemy of Agrippina at this period, as implied by Tacitus, he was certainly much irritated by her conduct. Such obsequiousness can only be inferred from Caecina’s speech on this occasion. But there is also on record an earlier explicit example of blatant flattery. Following Piso’s trial in AD 20 Caecina proposed to the senate that an altar of Vengeance (ara ultionis) be set up, and at the same time 40) Tac. Ann. 3,33,3. 41) Tac. Ann. 2,55,5. 42) Tac. Ann. 1,69,1–3; Tacitus cites Pliny the Elder for the information. 43) Tac. Ann. 1,69,4; 3,33,3; it can hardly be accidental that in bringing the debate to a close Drusus avoids this famous example when he cites cases of imperial wives who accompanied their husbands to their provinces. 44) Barrett (2005) 212–213.
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Caecina’s sparring partner in the Africa debate, Valerius Messalinus, proposed that a golden statue be placed in the temple of Mars Ultor. They both miscalculated, since Tiberius responded that such measures should accompany the defeat only of foreign enemies.45 But clearly both men had tried to please, and it seems unthinkable that in AD 21 Caecina would have delivered such an angry rebuke directed specifically at Tiberius’ policy. He must surely have intended a global criticism of the prevailing practice for the last hundred or so years. Clearly, it is very difficult to reconcile Caecina’s arguments with the notion of a virtual prohibition by Augustus on the presence of the wives of legati. There is moreover one famous incident that speaks even more heavily against such a ban, belonging to the period of the mutinies that broke out on the Rhine after the death of Augustus in August 14. This period is, of course, post-Augustan, but it is still probative, since the situation would reflect the arrangements that Augustus had in place. At a critical point during the mutinies, Germanicus took measures to protect his wife and infant son Caligula, arranging for them to seek the protection of the Treveri. The details of what happened vary from source to source; it is the account of Tacitus that is relevant here.46 He reports that Agrippina left the camp as part of a procession, carrying Caligula and surrounded by tearful women. Who were these women? Tacitus calls them the wives of amici, women torn from their husbands, just as Agrippina was being torn from hers. These were clearly ladies of rank, since the troops are said to have been moved by the weeping of the feminae illustres. The fact that they are the wives of amici precludes their being simply the wives of Romans resident in the area who might have sought refuge with Germanicus during the disturbances. Also, Tacitus’ description of them as such, rather than as amicae or comites of Agrippina, seems also to preclude the possibility that they are female companions specifically selected by Agrippina to accompany her on her travels. It is not clear whether Tacitus sees the amici as friends of Agrippina, or of Germanicus, or of both. Now it is not impossible that they represent Germanicus’ retinue of personal friends and that they and 45) Tac. Ann. 3,18,2. It may be that this Messalinus is actually the son of the speaker at the Africa debate; see Woodman (1996) 189, 300. 46) Tac. Ann. 1,40–44,1–3; see also Suet. Cal. 9; 48,1; Dio 57,5,6.
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their wives formed a kind of shared entourage of Agrippina and her husband. But if so, we would have to accept the implausible notion that Germanicus was accompanied in the German military zones on the eve of military operations against the German tribes by an entourage not only of personal male friends, unlikely enough in itself, but of their wives also. It would create a grotesque situation that a regular legatus of a military province could not be accompanied by his wife, but that in the case of someone like Germanicus, the rule was waived not only for him (because of the special nature of his specific office, or his membership of the imperial family) but also even for the friends that he chose to take along with him. In any case the soldiers themselves are said to be struck not only by the absence of any sort of bodyguard, and by the absence of any of the usual accoutrements of the commander’s wife, but also by the absence of the usual comitatus. What do they mean (or what does Tacitus mean, if he is being somewhat creative in this context) by this term? Could the word be used pleonastically of the missing bodyguards, just mentioned? Elsewhere in Tacitus, comitatus almost always has the sense of an entourage made up from friends, clients, hangers-on and retainers, and may occasionally include, with the above, the governor’s official staff.47 It can mean a retinue of women, and in such contexts tends to acquire a distinctly pejorative connotation: hence Plancina arrives with her husband in Rome in a showy display: magno clientium agmine ipse, feminarum comitatu Plancina . . . incessere. Caecina Severus in the Africa debate can complain that there are elements inherent in a woman’s entourage (inesse mulierum comitatui) that have a malign effect on provincial administration. Tacitus twice uses the term rather more abstractly of the close confidants of the emperor, almost akin to the concilium principis, and in one instance he uses it figuratively of the retinue of birds that attend the Phoenix.48 In only two places does he give comitatus a military flavour: in the Germania he uses it of the retinue of warriors who attach themselves to a German chief and try to emulate him in their military exploits, clearly an institution alien to Roman practice and for which Tacitus applied an approximate Roman expression. In one 47) Tac. Hist. 2,87,1; 92,1; 4,14,3; Ann. 3,1,4; 4,58,1; 11,12,3; Dial. 6,4; 11,3; 32,4; Agr. 40,4. 48) Plancina: Tac. Ann. 3,9,2; Caecina: Tac. Ann. 3,33,2; confidants: Tac. Hist. 2,65,2; Ann. 13,46,3; Phoenix: Tac. Ann. 6,28,3.
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place only is the word used of R o m a n military practice. Otho seeks to enlist the support of Roman troops as old comrades by appealing to memoria Neroniani comitatus, but this is clearly a very abstract sense of comitatus, with the force of “shared service under”. It clearly cannot be a parallel to what the soldiers had in mind on witnessing Agrippina’s departure.49 We must surely conclude that whatever the identity of the women, Agrippina did not have a retinue of comites, of friends who were either her own or shared with her husband. What, then, does this tell us about the husbands, the amici, whose wives were departing? By a process of elimination the only reasonable explanation is that they are Germanicus’ officers. It follows that these officers were accompanied by their wives into the province. We find the same word used later in the scene of Germanicus’ death in Syria, when he delivered his final instructions to his amici.50 This suggests, then, that at least by the end of Augustus’ reign the wives of legati and even of lower-ranking officers were resident in the German zones (Caecina’s wife excepted, of course!) implying, in fact, a considerable company of officers’ wives much like what the evidence from Vindolanda reveals at the equestrian level almost a century later in Britain. Their presence in the camps during the campaigning season of AD 14 needs cause no surprise, since it can be explained as an emergency measure necessitated by the extraordinary circumstances of the mutinies.51 Thus, while there is no way to prove that Augustus did not impose a virtual ban on wives in imperial provinces, even on those of legati, the weight of the evidence indicates that wives did in fact join Roman officials during his reign. Does this suggest that Suetonius’ information is incorrect? Not necessarily. It is possible that his statement has been misunderstood. Clearly Suetonius is describing restrictions that the emperor placed on his officials and their opportunities to spend time with their wives, and there is no reason why his testimony should not be taken seriously. But the nature of those restrictions is ambiguous. There are two possible explanations for the apparent contradiction between Suetonius and the other evidence. First, Suetonius does not say that their wives 49) Germans: Tac. Germ. 13,2; 14,1; Otho: Tac. Hist. 1,23,1. 50) Tac. Ann. 2,71,1. 5. 51) Bowman (1994) 56–57.
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were obliged to stay in Italy, but that matrimonial reunions could happen only in the winter. He could be describing a situation where wives continued to accompany their husbands to the imperial provinces under Augustus, but were expected to remain in the administrative base while their husbands devoted their attention to their military duties without major distraction, especially during the campaigning season.52 Interestingly, the birthplace of the future emperor Claudius, in Lugdunum, might seem to offer some vindication of that notion. At the time (August, 10 BC), Claudius’ father Drusus was engaged in campaigns against the Chatti. Lugdunum, the site of a Roman colony, was the principal town of Gallia Comata and the centre of the road system. It was an obvious rear headquarters for campaigns against the Germans. The presence of Antonia, Claudius’ mother, there might reinforce the notion that the wives of legati, even from the imperial family, were restricted to the administrative base. We cannot, of course, preclude the possibility that she had earlier been with Drusus in the Rhine area but had been sent to a safer location for the delivery. Another way to interpret Suetonius’ statement is to accept that Augustus did indeed place a total ban on the presence of wives in the provinces, but did so only in a time, or times, of serious crisis. In this passage, as frequently elsewhere, Suetonius’ style is very telescopic. It may be that a description of action taken during a specific emergency, or at best a very limited number of specific emergencies, illustrating Augustus’ adherence to old-fashioned disciplina, has been wrongly taken as indicative of a general and continuous policy. In conclusion, then, Suetonius’ testimony relating to the wives of officials in imperial provinces under Augustus can stand, provided it is not misunderstood. The strong likelihood is that once Sulla had broken with the tradition by being joined by his wife, there was continuity down through the triumviral period into the reign of Tiberius. Augustus’ successor did not find himself in 52) It is in fact just possible to discern this meaning in an overlooked source, the scholia of David Ruhnken, who notes on this passage: nullae in castris Romanorum feminae erant, ne magistratui quidem, cui provincia obvenisset, uxorem ibi habere licuit (see Geel [1824] 140). His ibi has presumably been taken to refer to the provincia. But it is not impossible that he meant that wives were banned specifically from the castra and that he was plausibly arguing that there was no restriction imposed on their residing in the actual provinces. Ruhnken’s phrase cui provincia obvenisset echoes Caecina’s identical words (Tac. Ann. 3,33,1).
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the awkward position of having to distance himself from his revered predecessor’s policy, since imperial officials had almost certainly, as a matter of general policy, been accompanied to their provinces by their wives in the preceding reign. Augustus may have felt obliged to adopt stern measures in times of emergency, or may have tightened discipline to the extent that once in the provinces the focus of his officers, right up to and including the rank of legatus, was expected to be on military, not domestic, duties. But his general policy was far less draconian than scholars from Lipsius on have generally supposed.
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Vancouver, Canada
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SAPIENTIS ERGO MVLTVM PATET VITA Textkritische Bemerkungen zu Sen. breu. uit. 19,2 und 10,1* Rudolpho Kassel octogenario
Senecas zehnter Dialog ist an den praefectus annonae Pompeius Paulinus gerichtet, also vermutlich an den Vater seiner zweiten Frau Pompeia Paulina.1 Im Epilog, mit dessen Text wir uns anschließend zu befassen haben, mahnt er den vielbeschäftigten Getreide-Prokurator, nach den strapazenreichen Jahren öffentlicher Verwaltungstätigkeit nunmehr an sich selbst zu denken und sich der Philosophie und den freien Künsten zu widmen. Damit führt Seneca eine lange Diskussion über die rechte Lebenswahl und über den Weg zu einem glücklichen Leben fort, die jeweils der Philosophie den obersten Rang einräumt und diese häufig von der Sorge um den Landbesitz oder der Tätigkeit des Prokurators abhebt. Dies soll zunächst an einigen Beispielen dokumentiert werden, die eine Folie für den zu erörternden Senecatext abgeben können. Diogenes Laertios berichtet, daß D e m o k r i t im Streben nach umfassender Erkenntnis viele Gebiete (Ägypten, Persien, das Rote Meer, Indien und Äthiopien) bereist und dabei sein ganzes Vermögen aufgebraucht habe. Nach seiner Rückkehr sei er so verarmt gewesen, daß er ein überaus kümmerliches Leben habe führen und sich von seinem Bruder Damasos ernähren lassen müssen (9,34 ff., bes. 39 §lyÒnta . . . aÈtÚn §k t∞w épodhm¤aw tapeinÒtata diãgein, ëte pçsan tØn oÈs¤an katanalvkÒta: tr°fesya¤ te diå tØn épor¤an épÚ tédelfoË Damãsou). C i c e r o , der diese Erzählung aufgreift, stellt Demokrit in eine Reihe mit Platon und Pythagoras, die ebenfalls lange Reisen auf sich genommen hätten, um *) Gregory Hutchinson danke ich für hilfreiche, anregende Diskussionen (uia E-mail), M. Schmitz und Nadine Wirtz für Korrektur und Layout. 1) Siehe G. D. Williams (Hrsg.), Seneca, De otio, De breuitate uitae, Cambridge 2003, 19 f.
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das Ziel der Philosophie, die uita beata, zu erreichen (fin. 5,86 ff.).2 Um ihretwillen habe Demokrit sein väterliches Erbe vernachlässigt und seine Felder unbearbeitet gelassen (5,87 patrimonium neglexit, agros deseruit incultos). Die uita beata habe er in der Erkenntnis der Naturordnung gesucht; doch sei ihm die Erforschung der Natur ihrerseits auf das übergeordnete Ziel ausgerichtet gewesen, die Ruhe des Gemüts zu gewinnen. Dies nämlich nenne er das höchste Gut: Wohlgemutheit (eÈyum¤an) oder auch ein von Schrecken und Verwunderung freies Herz (éyamb¤an).3 H o r a z hat in Epistel 1,12 die abstrakte Formulierung Ciceros in doppelter Weise anschaulich gemacht: Zunächst formt er, indem er ein griechisches zusammengesetztes Adjektiv (mhlÒbota) in einen ‚dynamischen‘ Verbalausdruck umsetzt, aus den „unbebauten Äckern“ ein plastisches Genrebild, das auf die Situation des Adressaten Iccius, eines Prokurators der sizilischen Güter des M. Agrippa, zugeschnitten scheint (12 f. miramur, si Democriti p e c u s e d i t agellos / cultaque, dum peregre est4 animus sine corpore uelox); danach entfaltet er Demokrits rerum cognitio bzw. inuestigatio naturae, die Iccius – unbeeindruckt von der um ihn herum grassierenden, ansteckenden Gewinnsucht – auch seinerseits betreibt, in konkrete Detailfragen: „welche Ursachen die (anschwellenden und zurücksinkenden) Fluten des Meeres in Bann halten, was den Ablauf der Jahreszeiten regelt, ob die Planeten aus eigenem Antrieb oder auf höhere Anordnung schweifen und umherirren, was den Mond (in seinen Phasen des Zu- und Abnehmens) bedeckt, so daß er unsichtbar wird, und was seine Scheibe wieder aus dem Dunkel hervortreten läßt, was die gegenstrebige Harmonie der Weltordnung bedeutet und bewirkt, ob Empedokles oder der scharfsinnige Stertinius vom rechten Weg abirrt“.5 2) Zu Platons Reisen nach Ägypten, Italien und Sizilien, wo er mit den Lehren des Pythagoras in Verbindung gekommen sei, äußert sich Cicero auch z. B. rep. 1,16. 3) Cic. fin. 5,87 quam si etiam in rerum cognitione ponebat, tamen ex illa inuestigatione naturae consequi uolebat, bono ut esset animo. id enim ille summum bonum eÈyum¤an et saepe éyamb¤an appellat, id est animum terrore liberum. 4) Zum ironisch-ambivalenten Charakter dieser Formulierung vgl. R. Mayers Kommentar (Cambridge 1994). 5) Hor. epist. 1,12,14 ff.: c u m t u inter scabiem tantam et contagia lucri nil paruum sapias et adhuc s u b l i m i a c u r e s : quae mare compescant causae, quid temperet annum,
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Obwohl also Iccius als Prokurator in erster Linie die Geschäftsinteressen Agrippas auf Sizilien zu befördern hatte, hält er sich von schmutziger Gewinnsucht frei und richtet seinen Sinn auf Hohes (sublimia), auf Naturphilosophie (tå met°vra). Mayer (ad loc.) erinnert an Verg. georg. 2,477–482 und Prop. 3,5,25–38, möchte bei Horaz aber in der einseitigen Ausrichtung des Iccius auf Naturphilosophie subtile Ironie mitschwingen hören: „it is implied that attention to the ethical branch might go some way to removing his discontents“ (mit Verweis auf epist. 1,18,97–103 und Marc Aurels Ablehnung der Physik und Dialektik: 1,17,9). Doch scheint Horaz weniger die Antithese ‚Naturphilosophie – Moralphilosophie‘ im Blick zu haben6 als die mit dem Namen des Thales verbundene topische Weltentrücktheit des Naturphilosophen, die Ennius mit dem bekannten Vers quod est ante pedes nemo spectat, caeli scrutantur plagas aufs Korn genommen hat.7 Sie scheint – so möchte Horaz wohl andeuten – den Iccius blind gemacht zu haben für die Vorzüge seiner Tätigkeit als Prokurator in Sizilien. Deshalb gibt er in den Schlußversen einen knappen Rapport über die außen- und innenpolitische Situation, dem – wie Kiessling-Heinze gesehen haben – die scherzhafte Fiktion zugrunde liegt, Iccius (der natürlich über den in Vers 26 ‚gemeldeten‘ cantabrischen Sieg des Agrippa, dessen Güter er verwaltet, genau Bescheid weiß) könne über seiner Beschäftigung mit dem Himmel ganz vergessen, wie es auf Erden aussieht. Wenn dieser Bericht mit dem Hinweis schließt, daß die aurea C o p i a aus vollem Horn ihre Früchte über Italien ausgegossen hat, wird implizit Horazens Mahnung am Beginn des Gedichts bekräftigt, stellae sponte sua iussaene uagentur et errent, quid premat obscurum, lunae quid proferat orbem, quid uelit et possit rerum concordia discors, Empedocles an Stertinium deliret acumen. 6) Fünf Jahre zuvor hatte er verwundert dem gleichen Iccius vorhalten müssen, daß er die gesammelten Schriften des Panaitios und der Sokratiker in seiner Hausbibliothek zurücklassen wolle, um sich einem gewinnversprechenden Kriegszug ins reiche Arabien anzuschließen: Vgl. carm. 1,29. 7) Siehe frg. 187 Jocelyn [S. 107 f.] (= 201 R2 = 244 V2) mit dem Kommentar S. 324 f. (dort auch die Belege für die Thales-Episode). Eine besondere Rolle spielt auch in diesem Zusammenhang Demokrit, vgl. Cic. diu. 2,30 D e m o c r i t u s tamen non inscite n u g a t u r, u t p h y s i c u s , quo genere nihil adrogantius: quod est ante pedes, nemo spectat, caeli scrutantur plagas. Zur Thematik vergleiche man ferner die Kommentare zu Cic. rep. 1,15.19.30–32 und Tusc. 5,10.
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Iccius möge aufhören zu klagen (Vers 3) und seine behagliche Situation in rechter Weise genießen: non est ut c o p i a maior ab Ioue donari possit tibi. Anders als Iccius hat S e n e c a s Freund Lucilius, dem die Naturales quaestiones gewidmet sind, Gefallen an dem officium procurationis otiosae in Sizilien, ist er doch seinem Naturell nach familiaris otio et litteris (nat. 4a praef. 1).8 Ihm legt Seneca in der Praefatio zum ersten Buch die Größe und den Nutzen der Naturphilosophie dar, die bei ihm der Teil der Philosophie ist, quae ad deos pertinet, im Unterschied zu dem anderen Teil, quae ad homines pertinet. Die Naturphilosophie ist altior . . . et animosior, und zwar um so viel erhabener, wie Gott über den Menschen erhaben ist. Dies zeigt sich insbesondere, wenn man in ihre inneren Geheimnisse eindringt und lernt, quae uniuersi materia sit, quis auctor aut custos, quid sit deus, totus in se tendat an et ad nos aliquando respiciat, faciat cotidie aliquid an semel fecerit, pars mundi sit an mundus, liceat illi hodieque decernere et ex lege fatorum aliquid derogare, an maiestatis deminutio sit et confessio erroris mutanda fecisse (1 praef. 3). Ganz ähnlich ist der Einsatz, den Seneca bei der Skizze des Inhalts philosophischer Betätigung in De breuitate uitae 19 wählt. Er ruft im Epilog, der mit der Apostrophe Pauline carissime in 18,1 einsetzt, seinen Schwiegervater Paulinus dazu auf (siehe oben), sich von seiner geistlosen Verwaltungstätigkeit, die er als Getreide-Prokurator auszuüben hat, zu Höherem zu erheben, der Beschäftigung mit der Philosophie und den freien Künsten (19,1):9 recipe t e a d h a e c tranquilliora, tutiora, m a i o r a . simile t u putas esse, utrum c u r e s , ut incorruptum et a fraude aduehentium et a neglegentia f r u m e n t u m transfundatur in horrea, ne concepto umore uitietur et concalescat, ut ad mensuram pondusque respondeat, an a d h a e c sacra et s u b l i m i a accedas sciturus, quae materia sit dei, quae uoluptas, quae condicio, quae forma; quis animum tuum casus expectet; ubi nos a corporibus dimissos natura componat; quid sit quod huius mundi grauissima quaeque in medio sustineat, supra 8) Nach Miriam T. Griffin, Seneca. A Philosopher in Politics, Oxford 1976, 91 erhielt Senecas Freund „one of the lower procuratorships, in Sicily, probably about 62“. Über seine literarischen Tätigkeiten während dieser Prokuratorenzeit auf Sizilien vgl. ebenda 91 mit Anm. 8 (dort auch ein Verweis auf Horazens Iccius); vgl. ferner (zu Lucilius) 347–354. 9) Siehe auch Griffin (wie Anm. 8) 317 ff., bes. 319–321.
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leuia suspendat, in summum ignem ferat, sidera uicibus suis excitet; cetera deinceps ingentibus plena miraculis? Hier sieht man, wie eng Naturphilosophie, Theologie und Seelenlehre miteinander verwoben sind;10 Horazens cum t u . . . s u b l i m i a c u r e s , an den Prokurator Iccius gerichtet, scheint in dieser exhortatio an den Prokurator Paulinus bewußt aufgenommen.11 Im folgenden Paragraphen warten zwei Textkorruptelen auf Besserung.12 Seneca fragt den Paulinus, der den größeren Teil seines Lebens mit derlei geisttötenden Verwaltungsgeschäften zugebracht hat (19,2): uis tu relicto solo m e n t e ad ista respicere? nunc, dum calet sanguis, uigentibus <. . .> a d m e l i o r a eundum est. expectat te i n h o c g e n e r e u i t a e multum bonarum artium, amor uirtutium atque usus, cupiditatium obliuio, uiuendi ac moriendi scientia, alta rerum quies. Mit dieser Paränese bezieht sich Seneca deutlich vernehmbar zurück auf das, was er dem Paulinus bereits 18,3 f. eingeschärft hat: (. . .) sed tamen, mihi crede, satius est uitae suae rationem quam frumenti publici nosse. istum animi uigorem rerum maximarum capacissimum a ministerio honorifico quidem sed parum a d b e a t a m u i t a m apto reuoca et cogita non id egisse te ab aetate prima omni cultu studiorum liberalium ut tibi multa milia frumenti bene committerentur: m a i u s quiddam e t a l t i u s de te promiseras. Dieser Passus kann helfen, die beiden markierten Stellen in 19,2 zu heilen: Der Ausfall des Bezugswortes zu uigentibus war schon früher erkannt;13 ich schließe die Lücke – mit Blick auf ani10) Dies gilt ja auch – wie wir gesehen haben (vgl. Anm. 3) – für Demokrits Konzeption der Eudaimonie; ebenso z. B. für Lukrez und Vergil (georg. 2,490–492). 11) Einen weiteren römischen praefectus annonae (§p‹ toË s¤tou ˆnta §n ÑR≈m˙) führt Epiktet (Diss. 1,10) als Beispiel dafür ein, wie leicht die irdischen Alltagsgeschäfte und die Gier nach Ehrenstellungen am Hof in Rom das Streben nach Geistigem, insbesondere nach philosophischer Selbsterkenntnis ersticken (Williams p. 243 zu 19,1). 12) Zu vergleichen sind die Ausgaben von M. C. Gertz (Kopenhagen 1886), E. Hermes (Leipzig 1905), L. Castiglioni (dial. IX und X, Turin 1946), H. Dahlmann (dial. X, München 1949), A. Bourgery – R. Waltz (Paris 51962/1965), L. R. Reynolds (Oxford 1977), G. D. Williams (wie Anm. 1); ferner die jüngeren Abhandlungen zu den Dialogen: D. R. Shackleton Bailey, Emendations of Seneca, CQ 64, 1970, 350– 363, dort 356 ff.; E. Courtney, Conjectures in Seneca’s Prose Works, BJCS 21, 1974, 100–106; W. S. Watt, Notes on Seneca, Dialogi, Phoenix 37, 1983, 48–52; ders., Notes on Seneca, De beneficiis, De clementia, and Dialogi, HSCP 96, 1994, 225–239. 13) Textausfall (häufig durch Augensprung verursacht) ist in der Überlieferung dieses Dialogs auch sonst faßbar, vgl. vor allem den ersten Satz von Kap. 9 und
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mi uigorem – durch uigentibus ad meliora eundum est.14 Williams möchte das blanke uigentibus halten und darunter „those with an active interest“ verstehen, also einen „dat. of the agent defining the intellectual elite to which Paulinus will surely wish to belong“. Aber Seneca wendet sich ganz konkret an seinen Schwiegervater und bezieht sich auf dessen spezielle, dem Mannesalter bereits entrückte Lebenssituation.15 Zu der vorgeschlagenen Ergänzung vergleiche man (neben breu. uit. 18,4) epist. 66,1 Claranum, condiscipulum meum, uidi . . . u i r i d e m a n i m o a c u i g e n t e m ; Liv. 21,40,8 at enim pauci quidem sunt, sed u i g e n t e s a n i m i s corporibusque; 44,38,8 f. utrum militem . . . in aciem plenum uirium, u i g e n t e m et corpore et a n i m o educas; Cic. leg. frg. 1 (im Tod) sine corpore a n i m o u i g e n t e diuina uita est, sensu carente nihil profecto est mali; Val. Fl. 1,55 tu, cui iam curaeque u i g e n t a n i m i q u e uiriles; Stat. silu. 1,4,54 labor intendens a n i m i q u e in membra u i g e n t i s imperium uigilesque suo pro Caesare curae, dulce opus. Der kurz danach folgende Subjektsausdruck multum bonarum artium scheint sich nicht glatt zu den präzisen Substantiva a m o r uirtutium atque u s u s , cupiditatium o b l i u i o , uiuendi ac moriendi s c i e n t i a , alta rerum q u i e s zu fügen. Er ist vermutlich – wieder in Entsprechung zu dem Passus 18,4 – durch cultus bonarum artium zu ersetzen; vgl. benef. 6,15,2 emis . . . a bonarum artium praeceptore studia liberalia et animi cultum; Tac. Agr. 4,2 per omnem honestarum artium cultum.16 Durch den doppelten Rückbezug auf 18,4 will Seneca offenbar insinuieren, daß Paulinus etwa quem . . . grandem natu in 20,2; ferner die häufigen durch den Korrektor behobenen A-Ausfälle (z. B. p. 243,22 [der Oxoniensis]; 246,7; 248,5; 249,1 f.; 253,6 f.; 255,14.16.22.23; 256,23; 257,3; 259,1). 14) Die Früheren versuchten es mit sensibus (Madvig), genibus (Koch), uiribus (Brakman). Reynolds fragt: „an delendum?“, worin ihn Watt (1983, 51) bestärkt: „It looks very like an erroneous repetition of ingentibus, slightly changed to make a semblance of sense“. 15) Vgl. 18,1 maior pars aetatis, certe melior, rei publicae data est: aliquid temporis tui sume etiam tibi. 16) Die von Williams angeführten Parallelen aus dem jüngeren Plinius (epist. 3,7,8: In den Villen des Silius Italicus fand sich multum ubique librorum, multum statuarum, multum imaginum) und aus Gellius (12,9,2 multum exemplorum huiusmodi reperias) belegen das sprachliche Phänomen, begegnen aber nicht dem Anstoß, daß der Ausdruck m u l t u m bonarum artium in der Subjektreihe der Aufzählung inhomogen wirkt.
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nun endlich im otium jenes anspruchsvollere Leben verwirklichen möge, auf das er sich in seiner Jugend eigentlich vorbereitet hatte.17 *** Dem Epilog gehen zwei größere Abschnitte voraus, deren Disposition Seneca in der Überleitung des Kapitels 10 offenlegt: quod p r o p o s u i si in partes uelim et argumenta diducere, multa mihi occurrent per quae p r o b e m breuissimam esse occupatorum uitam. solebat dicere Fabianus, non ex his cathedrariis philosophis sed ex ueris et antiquis, contra adfectus impetu, non subtilitate pugnandum, nec minutis uulneribus sed incursu auertendam aciem; [non probat cauillationes] enim contundi debere, non uellicari. tamen ut illis error e x p r o b r e t u r 18 suus, d o c e n d i , non tantum d e p l o r a n d i sunt19 (10,1). Die Kapitel 1–9 haben also die (breit ausgeführte) p r o p o s i t i o geboten, in denen der Irrtum der occupati b e k l a g t wurde, die sich dem Streben nach Geld, Ehre und Lust verschreiben und nicht erkennen, daß allein der b¤ow filÒsofow ein reiches und erfülltes Leben gewährt.20 In der folgenden a r g u m e n t a t i o (10,2– 17,6) soll nun d u r c h B e l e h r u n g b e w i e s e n werden, daß das Leben der Vielbeschäftigten kurz und sorgenvoll ist und nur einen sehr flüchtigen Genuß der Gegenwart gewährt, das Leben des otiosus aber, der sich der Philosophie widmet, lang und glücklich: Er werde von den großen Denkern aller Philosophenschulen reich beschenkt und auf den Weg zur Ewigkeit gewiesen (15,3), so daß ihm wie einem Gott alle Zeiten dienen und sein Leben sich über Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft ausspannt (14,1– 2.5; 15). Seneca führt nun in der dispositio zu Beginn des Kapitels 10 aus, er wolle es – obwohl er ein feinverästeltes System von Unter17) Die ästhetisch weniger befriedigende überlieferte Textfassung könnte man wohl nur mit dem Argument zu retten versuchen, Seneca habe das unpräzise m u l t u m bonarum artium bewußt in Kauf genommen, um den m u l t a milia frumenti in 18,4 ein Gegenglied zu schaffen. 18) „Constructively censured“ (Williams ad loc.). 19) „They are to be instructed, not merely given up for lost“ (Williams ad loc.). 20) Zur Disposition des Dialogs vgl. Williams 18 f. und 174.
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teilungen geben könnte – mit dem Philosophen Fabianus halten.21 Dieser lehnte sophistische Haarspaltereien ab und bekannte sich stattdessen zu der Maxime, man müsse gegen die Affekte in vollem Ansturm kämpfen, nicht in leichten Scharmützeln.22 Demgemäß beschränkt Seneca seine folgende diuisio (10,2) auf die drei Zeiten, in die sich das Leben teilt: Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft, und untersucht dann zunächst das Verhältnis des Vielbeschäftigten zu diesen drei Zeitabschnitten. Der oben abgedruckte Text der Oxoniensis birgt Unsicherheiten: Die Athetese im vorletzten Satz geht auf Castiglioni (1946) zurück, die Ergänzung uitia auf Shackleton Bailey (S. 359), der jedoch ansonsten die Überlieferung halten wollte, allenfalls Bourgerys probat zur Erwägung stellt. In der Fassung der Oxoniensis wird der Begriff cauillationes eliminiert, der eine typisch senecanische Färbung verrät23 und geradezu Fachterminus ist für ‚Sophistereien‘ oder ‚leeres Schein-Argumentieren‘ der Rhetoren oder Philosophen,24 also sich sehr gut in den Zusammenhang unseres Passus fügt, in dem sich Seneca mit Hilfe des Fabianus gerade gegen ein solches kleinteiliges Subtilisieren ausspricht. Dabei macht er sich ein Apophthegma des Papirius Fabianus zunutze (contra adfectus impetu, non subtilitate pugnandum, nec minutis uulneribus sed incursu auertendam aciem), das er durch s o l e b a t d i c e r e Fabianus einleitet und durch ein bewertendes Zwischenurteil kurz unterbricht,25 bevor er es im Schlußsatz zu Ende führt: n o n p r o b a t cauillationes:26 enim contundi debere, non uellicari. 21) Papirius Fabianus spielt eine Hauptrolle im 2. Buch der Controuersiae des Vaters Seneca; der Sohn Seneca selbst kommt noch in 13,9; cons. Marc. 23,5; epist. 11,4; 40,12; 52,11; 58,6 und ausführlich in epist. 100 auf den eine Generation älteren Philosophen zu sprechen. 22) Siehe auch Griffin (wie Anm. 8) 15 mit Anm. 5. 23) Vgl. etwa benef. 2,17,1; clem. 2,4,3; epist. 45,5 multum illis temporis u e r b o r u m c a u i l l a t i o eripuit, c a p t i o s a e d i s p u t a t i o n e s , quae acumen inritum exercent; 82,8; 108,12 (vgl. Anm. 26); 111,1; 111,4; nat. 5,1,5. 24) Siehe auch Williams ad loc. 25) Williams verweist auf Pease zu Cic. nat. 2,37 (S. 631). 26) Die Begriffe adfectus (hier positiv im Sinne von odium pecuniae) und cauillationes sind auch epist. 108,12 kombiniert: hunc illorum a d f e c t u m <cum> uideris, urge, hoc preme, hoc onera, r e l i c t i s ambiguitatibus et syllogismis et c a u i l l a t i o n i b u s et ceteris acuminis inriti ludicris. Zur Anfangsstellung von non probat vgl. Liv. 9,11,8 n o n p r o b a t populus Romanus ignominiosa pace legiones seruatas. Bourgerys probat scheint nicht zwingend erforderlich: Seneca konnte aus der
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Da uitia uellicari ein wenig seltsam klingt27 und ein Ausfall von uitia zwischen cauillationes und enim paläographisch nicht sonderlich plausibel scheint, versuche ich die Lücke durch hostes zu füllen.28 Dabei wird angenommen, daß Fabianus in dem Schlußsatz die zuvor angeschlagene Kampfesmetaphorik beibehält, so daß sich der durch Senecas Einwurf (non probat cauillationes) unterbrochene, chiastisch geformte Zitatausklang ergäbe: (. . .) nec minutis uulneribus sed incursu auertendam aciem – hostes enim contundi debere,29 non uellicari. Eine solche Metaphorik ist ja in der Affektenlehre durchaus etabliert, vgl. Cic. Tusc. 2,51 eriget ipse se (sc. sapiens), suscitabit, instruet, a r m a b i t , ut t a m q u a m h o s t i sic obsistat d o l o r i .30 Entfiele die Voraussetzung, daß die Kriegsmetaphorik im Schlußsatz weitergeführt wird, wäre eine plausible Ergänzung schwierig. Auszuschließen sind die vorgeschlagenen Pronomina illos [sc. adfectus] (Reitzenstein)31 oder eos (Alexander 1945, Dahlmann). Man müßte entweder nach einem mit adfectus verwandten Begriff32 oder nach einem Nomen suchen, das den Sitz der zu bekämpfenden Affekte bezeichnet. Nacktes 33 Rückschau die grundsätzliche Haltung des Fabianus ganz allgemein charakterisieren; dazu fügt sich dann auch das iterative s o l e b a t dicere. 27) Auch uitia contundere scheint (zufällig?) nicht belegt. 28) Man mag auch an den kollektiven Singular hostem denken (Ausfall vor enim). 29) Vgl. Liv. 27,12,11 ferociam h o s t i s c o n t u n d e r e . 30) In de ira 3,41,2 bezeichnet Seneca den Zorn als h o s t i l i s a d f e c t u s , von dem man das Herz reinigen müsse; vgl. 3,42,1 careamus hoc malo purgemusque mentem et exstirpemus radicitus (sc. iram). Die Junktur iram c o n t u n d e r e begegnet Colum. rust. 6,2. Erinnert sei an den Beginn der Consolatio ad Marciam, wo Seneca darlegt (bes. 1,5 ff.), daß er nunmehr – nach dreijähriger Trauer – die a d f e c t u s der untröstlichen Tochter mit Gewalt zu brechen versuchen müsse: alii itaque molliter agant et blandiantur, ego c o n f l i g e r e c u m t u o m a e r o r e constitui; 1,7 f. fit infelicis animi praua uoluptas dolor; . . . leniore medicina fuisset oriens adhuc restringenda uis: u e h e m e n t i u s contra inueterata p u g n a n d u m e s t . . . . non possum nunc per obsequium nec molliter adgredi tam durum d o l o r e m : f r a n g e n d u s e s t . 31) Doch siehe den unmittelbar folgenden Neueinsatz tamen ut i l l i s [sc. occupatis] error exprobretur suus. 32) Daher das etwas allgemeine uitia Shackleton Baileys. 33) Vgl. Sen. clem. 1,16,5 uenator . . . nec crebro illis (sc. catulis) minatur (c o n t u n d e t enim a n i m o s et, quidquid est indolis, conminuetur trepidatione degeneri) nec licentiam uagandi errandique passim concedit; Cic. Att. 12,44,3 c o n t u d i enim a n i m u m et fortasse uici, si modo permansero; Val. Max. 2,7,11 Q. Fabius Maximus ferocissimae gentis a n i m o s c o n t u n d e r e et debilitare cupiens (. . .). –
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oder <mentes (bzw. -em)> genügt aber wohl nicht; denn wir benötigen den präziseren Ausdruck animos affectos oder etwas wie „der Sinn <der vom Affekt Besessenen> muß gebrochen, nicht gezaust (oder gestichelt) werden“. Da die Partikel enim aber die zweite Position im Satz einzunehmen hat, verbietet sich ein Doppelausdruck. Es scheint also einiges für das oben vorgeschlagene zu sprechen. Aus dem eindrucksvollen Porträt, das Seneca im Brief 100 von Papirius Fabianus zeichnet, sei der für unseren Zusammenhang bedeutungsvolle Zug in 100,2 f. hervorgehoben: mores ille, non uerba composuit et animis scripsit ista, non auribus. praeterea ipso dicente non uacasset tibi p a r t e s i n t u e r i ; adeo te s u m m a r a p u i s s e t ; et fere quae i m p e t u placent; minus praestant ad manum relata; vgl. 100,12 ceterum uerbis abundabat, s i n e c o m m e n d a t i o n e p a r tium singularum in uniuersum magnificus. Bonn
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Sen. epist. 20,13 potius excitandus e somno et u e l l i c a n d u s e s t a n i m u s admonendusque naturam nobis minimum constituisse.
GIOVENALE 6,627–33 E IL S. C. TERTULLIANUM Nei vv. 627–28 della sua satira sesta Giovenale si occupa dell’uccisione, considerata ormai «normale» (fas est) dall’opinione pubblica, dei privigni: oderunt natos de paelice; nemo repugnet, nemo vetet, iam iam privignum occidere fas est. Il passo presenta solo una lieve difficoltà: l’esatta identificazione della figura della paelex, che – a partire dall’incertezza degli antichi Scholia ad l. (= de priore uxore. Aut certe de amica) – secondo qualche interprete è la concubina del marito della donna di cui si parla (così, per es., per de Labriolle-Villeneuve o Hellegouarc’h). Ma – se il termine privignus ha il suo significato più comune (= «figlio legittimo di primo letto») – è meglio intendere che la noverca odia ed uccide i figli della prior uxor di lui1. Il nocciolo del discorso è chiaro: al giorno d’oggi è cosa talmente comune che le matrigne uccidano i loro figliastri che, nell’indifferenza generale, l’eliminazione dei privigni è ormai considerata un atto banale. Nel sarcasmo giovenaliano il misfatto diventa addirittura «lecito» (fas, cfr. 1,58; 6,329; 10,55) e il satirico invita, perciò, a non tentare nemmeno più di opporvisi: i congiuntivi «esortativi» suonano acremente caustici (così come la geminatio di iam). L’odio della matrigna appare così scontato e «autosufficiente» che non c’è bisogno di indicare alcun movente specifico al delitto (oderunt, sc. omnes novercae e/o semper): non si dice, per es., che la noverca abbia dei figli suoi, a vantaggio dei quali l’azione omici1) E’ vero che paelex è, di solito, la concubina del marito (cfr. 6,272; 2,57; Adams 355), la ‹rivale› o aemula della moglie ufficiale, ma in questo caso i suoi figli, illegittimi, non dovrebbero chiamarsi privigni (cfr. sotto, n. 4). Se i figli in questione sono davvero privigni, la madre, da cui sono nati, dovrebbe essere la moglie precedente (deceduta o divorziata) del marito passato a nuove nozze e la definizione di paelex è impropria, dovuta solo all’ottica spregiativa della moglie in carica (vd. ThLL, X 1, s. v. paelex, 39,60 ss.: cum contemptu quodam de ipsa uxore).
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da ricada, e l’odium sembra scaturire in modo automatico dalla naturale gelosia verso la paelex, i cui pignora amoris restano in casa, se non altro, a ricordarne la detestata esistenza2. Fin qui, dunque, il caso – ben noto nella tradizione letteraria e retorica romana – dell’uccisione dei figliastri da parte della matrigna3. Con i versi successivi (629–33) si ha un evidentissimo passaggio in climax: dopo aver «abbandonato» al loro destino i figliastri, Giovenale mette ora in guardia i pupilli (i figli di famiglia il cui padre sia morto4 e che siano affidati ad un tutor) dalla possibile – anzi ormai pressochè certa – azione delittuosa della loro madre naturale: Vos ego, pupilli, moneo, quibus amplior est res, custodite animas et nulli credite mensae: livida materno fervent adipata veneno5. 2) In Prop. 4,11,85–90 (laddove l’umbra di Cornelia parla ai figli del comportamento da tenere nei confronti di un’eventuale futura moglie di suo marito per non irritarla) troviamo un bell’esempio di uno dei motivi per cui le matrigne son portate a detestare i figliastri: essi sono sempre pronti a rimpiangere e lodare la loro madre perduta (nec matrem laudate nimis: collata priori / vertet in offensas libera verba suas). 3) Cfr. Watson 92 ss. («literature»); 135 ss. («life»): il nostro passo è citato en passant alle pp. 2 n. 7, e 14. In Giovenale figure di novercae e privigni appaiono in 6,133–135 (passo assai discusso, cfr. Bellandi 1995, 125 s.; 2003, 52 n. 138; 118 n. 271) e in 403–404 (dove si tratta, però, di secreta, di un «love-affair»). 4) Nel nostro testo i privigni sono i figli senza madre, probabilmente, ma non necessariamente, a causa della morte di lei (cfr. Hor. carm. 3,24,17 s.: matre carentibus / privignis); i pupilli sono patre carentes, invece, in quanto sicuramente ‹orfani› di padre. Fraintende pesantemente il passo Braund 84, non cogliendo la differenza – e il passaggio in climax – fra il caso dei privigni e quello dei pupilli e cadendo, così, nello stesso errore di Dixon 1988, 156 (che riferisce tutto il passo 626 [sic]–33 alle «stepmothers»); vd. Bellandi 2003, 54 n. 141. La probabile origine di questa errata interpretazione è, comunque, nell’edizione di de Labriolle-Villeneuve, che fraintesero illa / quae peperit, traducendo «votre marâtre qui a eu elle-même un enfant» (con ciò introducendo un interesse economico, a favore del proprio figlio, nel comportamento delle matrigne). Ma illa quae peperit (oggetto vos . . . = pupillos, cfr. 629) è la madre naturale dei pupilli in questione (≤ tekoËsa, Weidner), non la matrigna dei privigni di 627–628. 5) Con lievi modifiche, Giovenale applica alle madri naturali quel che Ovidio in met. 1,144 aveva detto delle matrigne (lurida terribiles miscent aconita novercae). La struttura ‹aurea› del verso è perfettamente imitata, con livida a sostituire lurida, il verbo al centro isoprosodico e in omeoteleuto, la penultima parola, adipata, scelta apposta per richiamare, fonicamente e metricamente (peone terzo), aconita (spostato, peraltro, al v. 639). Giovenale sviluppa e ampia l’immagine, che
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Mordeat ante aliquis quidquid porrexerit illa quae peperit, timidus praegustet pocula papas6. La climax cui Giovenale mira è di duplice portata: a) ora non è più la matrigna a uccidere i figli del consorte, ma la madre stessa che li ha generati (illa / quae peperit)7, e b) al misfatto, già in sé più detestabile, si accompagna un’ulteriore aggravante: all’odium, movente del delitto precedente, si sostituisce una meschina motivazione economica8. L’ammonimento del poeta, infatti, – nelle forme di un intervento in prima persona, molto patetico, che vistosamente si contrappone all’invito precedente a non far nulla in contrario9 – è nei modelli più celebri (cfr. Verg. georg. 2,128 pocula; Hor. carm. 3,24,17 s. temperat; in Ovid., cit., miscent) è connessa sempre a veleno mescolato a bevanda, moltiplicando così la determinazione omicida della madre che – per non correre il rischio di fallire – immette il veleno non solo nelle tazze con la bevanda (pocula, v. 633), ma anche nei pasticcini (mordeat, v. 632; sugli adipata come cibo caro ai pueri, cfr. Mart. 14,223). 6) Non considero il fatto che per l’ultimo editore di Giovenale (Willis), nel suo furor delendi, i vv. 632–33 sono da espungere (così come lo erano per Weidner, ma solo nella prima edizione del 1873, e per Knoche). 7) Cfr. Seneca, Phaedr. 557 s.: perimunt fetus impiae matres suos; / taceo novercas, mitius nil est feris. Il v. 558 (con praeteritio e sententia) allude all’ancor maggiore ferinità delle matrigne rispetto alle madri naturali e la diversa disposizione della climax, che qui – a differenza che in Giovenale – dà maggior rilievo alle novercae, è funzionale, evidentemente, al ruolo che la ‹matrigna› ha nella tragedia di Fedra ed Ippolito. 8) L’avaritia come motivazione dei delitti femminili appare nella satira sesta solo a partire da questo episodio ed è rimarcata come una novità da Giovenale stesso, che attribuisce, sì, alla natura femminile in genere un’ innata inclinazione al delitto, ma per odium o ira o libido, non per desiderio di soldi: cfr. 643–652a (. . . sed / non propter nummos, 645 s.) o 651 (computat). Su questa ‹svolta› nella raffigurazione della donna, che è impostata nel finale della satira con un voluto effetto-sorpresa, vd. Bellandi 2003, 52 ss. 9) A mio avviso, ego di 629 non deve essere affatto corretto – come suggeriva Duff e, di recente, ha riproposto Courtney 345, ad l. – in quoque. I due pronomi pers. a contatto, infatti, sono estremamente espressivi: con un chiaro asindeto avversativo rispetto a 627–28, vos (pupilli) si oppone a natos de paelice (= privignos) ed ego (sogg. espresso di moneo) – lungi dall’essere uno sciatto riempitivo di stampo colloquiale – è funzionale alla voluta antitesi con n e m o repugnet, / n e m o vetet . . . (vd. Bellandi 1995, 181: «ma voi» [ossia = almeno voi pupilli, se ormai nessuno può più fare nulla per i figliastri] «io tengo ad avvertire . . .»). Quoque oscurerebbe proprio l’antitesi che è al centro del passo, mettendo sullo stesso piano privigni e pupilli, che Giovenale, invece, intende pateticamente (e sarcasticamente) contrapporre.
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rivolto a quei pupilli quibus a m p l i o r est res: la madre, dunque, li vuole uccidere per ereditare da loro (cfr., più avanti, propter nummos, al v. 646)10. Ora, nei commenti giovenaliani la cosa passa senza particolare rilievo, a causa, credo, di un facile anacronismo giuridico11. Ma forse si doveva riflettere sul fatto che nel sistema giuridico romano (ius civile), ispirato al principio della parentela agnatizia (in linea esclusivamente maschile), la madre non eredita dal figlio che le premuoia, neanche in caso di precedente decesso del marito e padre di lui. La morte del figlio pupillus – ereditariamente – andava a vantaggio dei fratelli (e sorelle) del defunto e/o di altri agnati (ma non della madre). Per ereditare dal figlio (insieme agli altri fratelli e sorelle di lui) la madre doveva essere stata sposata in regime di conventio in manum, dato che, così, essa diventava giuridicamente «sorella» del proprio figlio (in quanto loco filiae rispetto al marito)12. Ma le donne «emancipate», di cui si occupa Giovenale, difficilmente potranno pensarsi sposate in questo modo «arcaico», ormai caduto in desuetudine13. 10) Non c’è traccia nel nostro passo di un movente diverso da quello della mera cupidigia dei beni ereditari, né si accenna in alcun modo alla presenza di un secondo marito della madre dei pupilli, cui la donna voglia compiacere (eliminando i propri figli), come vorrebbe Humbert 198 s., forse suggestionato dal testo di Cod. Th. 3,30,3 (= C. 5,37,22), di cui tratta a lungo in 405 ss. (cfr. Masiello 72 ss.). 11) Viansino 277, ad vv. 627–37, per es., scrive: «morto il padre, sono stati posti (sc. i pupilli), con il patrimonio, sotto la tutela della madre»; ma la donna (essa stessa in tutela perpetua, quanto meno teoricamente) non può esercitare alcuna tutela sui figli, almeno fino al 390 d. C. : la tutela è munus masculorum e nella prima metà del II d. C. Nerazio vi aveva ammesso le donne – tramite apposita postulatio al principe – solo specialiter, in via del tutto eccezionale (D. 26,1,18, cfr. Masiello 11 ss.; Cantarella 1985, 161; Gardner 147–52). In ogni caso, l’eventuale negotiorum gestio da parte della madre non le basta: se intende ucciderli, evidentemente è perché vuole ereditare i loro beni e non limitarsi a gestirli. Del pessimo comportamento dei tutori maschi Giovenale si occupa abbastanza spesso (1,46 s.; 10,223 s.; 15,135–37), ma essi sono presentati come spietati circumscriptores dei pupilli, non come loro assassini. Ferguson parla poco chiaramente dei pupilli in questione come di «adopted sons, orphans», ma (per dirla sinteticamente con Gourevitch / Raepsaet Charlier 65 s.) «le donne non adottano (e raramente sono adottate)». L’esegesi giusta del passo, ma senza discussione della problematica giuridica, già in Friedlaender 359, ad 628e 629. 12) Vd. Gaius 3,14e 24; e da ultimo cfr., per es., Franciosi 230 s. 13) Vd. Voci 20 n. 17 («ai tempi di Ulpiano la manus praticamente non esiste»). Ma la decadenza inesorabile dell’istituto è attestata da ben prima del II–III sec. d. C., già a partire dal II a. C. e – per non dir d’altro – donne come quelle, per es.,
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Solo con il senatus consultum Tertullianum (di età adrianea, ma purtroppo non più esattamente collocabile dal punto di vista cronologico), la madre entra direttamente nella linea successoria del figlio14. Prima di questa data – stando al ius honorarium, che almeno aveva attenuato l’originaria, assoluta esclusione della madre, in quanto non adgnata (cfr. Cantarella 1996, 80 ss.) – per ereditare dal proprio figlio defunto, la donna doveva non avere (o eventualmente, nell’ estremismo dell’iperbole satirica, esser pronta ad uccidere) tutti gli adgnati collocati nell’asse ereditario fra i liberi e i cognati, dato che essa ereditava soltanto nella terza classe pretoria, ossia fra i cognati15. Il comportamento stigmatizzato da Giovenale in 6,629–33, dunque, si spiega molto più naturalmente d o p o la promulgazione del s. c. Tertullianum. Secondo questo senatoconsulto, infatti, non ogni madre, ma quella con 3 figli (che dal tempo delle leges Iuliae godeva di un regime di privilegio in base al ius trium liberorum)16 giunse a poter descritte in 6,224 ss. non sembrano davvero in manu mariti. Tuttavia, C. Venturini mi fa cortesemente notare, in una comunicazione epistolare, ricca anche di altri spunti e suggerimenti, che Gaio parla diffusamente dell’istituto in questione (ex. gr. 1,137) e che potrebbe risultare troppo sbrigativo considerarlo obsoleto al tempo di Giovenale. 14) La fonte principale è per noi costituita da Inst. 3,3 de senatus consulto Tertulliano (. . . sed hae iuris angustiae [si tratta dello strictum ius della Lex XII tabularum, solo attenuato dai successivi interventi pretorî] postea emendatae sunt. et primus quidem divus Claudius matri ad solacium liberorum amissorum legitimam eorum detulit hereditatem. Postea autem senatus consulto Tertulliano, quod divi Hadriani temporibus factum est, plenissime de tristi successione matri, non etiam aviae deferenda cautum est: ut mater ingenua trium liberorum ius habens, libertina quattuor ad bona filiorum filiarumve admittatur intestatorum mortuorum . . .; cfr. anche C. 6,56; D. 38,17,2). Vedi Berger 699, s. v. Senatusconsultum Tertullianum; Kaser, I 701 s.; II 465 s.; 503 s. 15) Dopo i liberi, appunto, e i legitimi, che comprendevano i sui (o qui . . . suorum loco) e gli adgnati del ius civile (cfr. Voci 10 e 15 c). In Inst. 3,3 (cit. in n. prec.) si parla di un primo intervento in materia di Claudio, a favore delle madri (cfr. Voci 17 n. 2), ma non si specifica meglio (vd. Dixon 1988, 54; 1992, 194 n. 6, anche a proposito della possibile ‹rivalità› fra la madre e l’eventuale patruus) e, comunque, si oppone espressamente questo atto (messo in opera ad solacium liberorum amissorum) al successivo, e molto più organico e soddisfacente, provvedimento del tempo di Adriano: postea a u t e m senatus consulto Tertulliano, quod divi Hadriani temporibus factum est, p l e n i s s i m e de tristi successione matri . . . cautum est, ecc. 16) Il numero di tre figli era richiesto all’ingenua, quattro alla liberta (cfr. n. 14).
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ereditare ab intestato dai propri figli, sia pure dopo i figli dei figli, il padre degli stessi e alcuni agnati (in pratica i loro fratelli e sorelle)17. Grazie a questo provvedimento, la via all’eredità del figlio era ora per la madre molto meno ingombra di prima . . . Nel nostro caso il padre è morto e i figli, di cui si parla, sono pupilli in quanto impuberi (e devono essere anche pueri in assai tenera età, se li si immagina ancora affidati alle cure di un papas, v. 633): niente discendenti, dunque. Il plurale pupilli potrebbe non essere, dunque, solo un comune plurale generalizzante (per indicare l’alta frequenza del caso), ma potrebbe alludere in modo specifico anche al numero di t r e s liberi necessario a rendere attiva la norma legislativa, moltiplicando così gli impulsi omicidi della madre che – per avere per sé tutta l’amplior res – deve avere, sì, tre figli, ma anche provvedere a ucciderli tutti e tre18. Del resto, le donne di questa sezione della satira, 17) Sarà solo con Giustiniano (Inst. 3,3; C. 6,56) che la madre sarà ammessa alla successione dei figli senza bisogno del ius trium liberorum. Giovenale allude spesso alle leges Iuliae (2,30 s.37; 6,38; 9,86 ss.; 12,94 s.) e, in particolare, si occupa diverse volte del tema del ius trium liberorum a proposito di diritto ereditario (cfr. anche 5,140 s., passo di assai difficile esegesi, con Cuccioli Melloni, ad l. e Bellandi 1990, 100–104). Del tutto insoddisfacenti risultano sia Razzini, che non parla affatto del passo di cui ci stiamo occupando, che Marongiu, che almeno accenna al s. c. in questione (684 n. 17), ma cursoriamente e senza metterlo in connessione col nostro passo. Di Marongiu richiamo la definizione che, al termine della sua ricerca (693), dà di Giovenale: «attento conoscitore del mondo del diritto e delle riforme che, specie nel campo del diritto di successione delle donne e dei peculii, andavano producendosi in quell’epoca». 18) Non mi pare che abbia propriamente a che vedere col nostro passo il luogo di Stazio (silv. 5,2,61–96), che abbastanza spesso è citato a riscontro dai commentatori (Ferguson, per es., o Courtney, ad l.). La madre snaturata, che qui tenta di assassinare col veleno il figlio (Vettio Crispino), non lo fa per ereditare lei dal figlio (come vorrebbe White 282–284), ma per diversa motivazione, legata a morbosa preferenza per l’altro figlio (Vettio Bolano jr.), destinato, nel suo progetto criminale, a rimanere l’unico in vita e, perciò, a ereditare l’intero patrimonio. A differenza di Vollmer (511e 516, ad v. 75), che crede gemelli i due figli e, però, almeno quanto al movente di fondo, intende correttamente la vicenda narrata nel passo di Stazio (favoritismo, fino all’omicidio, verso uno dei figli), White attribuisce alla madre un intento egoistico (ereditare dal figlio ucciso in quanto substitutus pupillaris), ma poi caratterizza il figlio, alla cui vita la madre non attenta (Bolano jr.), come di parecchi anni maggiore dell’altro (e, in quanto tale, «a legally responsible person»). Ma così Bolano jr. diventa perfettamente in grado di assumere, eventualmente, la tutela del fratello e comunque, alla sua morte, di ereditare da lui, a scapito della madre; vd. anche Franciosi 144: «nel caso di morte del pater senza designazione di tutor testamentario era tutor legitimus non lo zio paterno del pupillo . . . ma il suo fratello
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com’è noto, – appena più moderate della Medea senecana (954 ss.: utinam . . . / bis. . . septenos parens / natos tulissem) – non hanno certo remore di questa sorta (638 ss.): tune duos? septem, si septem forte fuissent (642)! Il caso, che è trattato nei vv. 638 ss., di Pontia, assassina confessa dei d u e figli, evidentemente propter nummos (v. 646), non contraddice il nostro assunto, che Giovenale in 629–633 alluda alla recente disposizione del tempo di Adriano (implicante il ius trium liberorum). La figura di Pontia appartiene verisimilmente al tempo di Nerone19 e già per Marziale, da cui Giovenale la desume, è il puro «tipo» della madre snaturata, assassina dei propri figli20. Il suo caso specifico è così celebre, evidentemente, da poter servire da exemplum di mater scelerata, ma c’è una differenza essenziale fra 629–633e 638 ss.: nel primo passo Giovenale stigmatizza un comportamento generale, che vede o prevede come indefettibilmente attivo nel presente e nel futuro; nel secondo accenna alla puntualità cronachistica di un exemplum che è prescelto – secondo la nota abitudine del satirico, programmaticamente annunciata, con tutta chiarezza, in 1,170–171 – nel passato. Non sappiamo nulla delle modalità esatte del delitto di Pontia e della situazione specifica di diritto, che in quel caso avrebbe dovuto rendere la madre capace di ereditare dai figli uccisi: essa poteva, per es., essere stata sposa in manu del marito e, quindi, ereditare anche dai figli in qualità di loro «sorella» (cfr. n. 13), oppure poteva aver agito per favorire, col suo delitto, l’agnato cui toccava l’eredità e con il quale poteva essere in combutta21, oppure poteva esser resa erede dalla mancanza di adpubere (agnato in 2° grado)». Con ciò cade la analogia stretta col luogo di Giovenale, che stiamo analizzando, dove le madri assassine di certo agiscono per ereditare in conto proprio. 19) Per gli Scholia Pontia è figlia di Publio Petronio, condannato da Nerone (convictum in crimine coniurationis); per Courtney 346, ad l., si tratterebbe della figlia del cos. del 37 d. C., C. Petronius Pontius Nigrinus. Verisimilmente essa agisce dopo i provvedimenti di Claudio, di cui in n. 15 (in assenza di adgnati stretti, come il patruus, Claudio avrà concesso alla madre di ereditare dai figli premorti?). 20) In Mart. 2,34,6, Pontia è opposta a Galla, che lascia morire di fame i suoi tre figli (v. 2), in quanto madre paradossalmente ‹migliore› (avendo essa ucciso solo due figli); in 6,75 appare – come puro tipo dell’avvelenatrice (cfr. Grewing, ad l.) – viva e in relazione ‹amichevole› con il poeta. Nessun cenno al movente in Marziale: da 4,43,5 (i r a t a m mihi Pontiae lagonam) non è possibile ricavare nulla. 21) Gli Scholia a Giovenale del cosiddetto Probus Vallae (117 W.), procedendo verisimilmente per autoschediasma, danno perfino un nome al marito
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gnati, eredi dei figli, secondo le disposizioni claudiane (cfr. nn. 15e 19), ecc.: le concrete possibilità specifiche possono essere molteplici . . . Diverso è il caso al presente e al futuro, segnalato dal satirico in 629–633; qui il comportamento è attribuito in blocco a t u t t e le madri di pupilli (a prescindere da fattispecie singolari) e presuppone, dunque, una condizione giuridica comune a tutte le madri in questa situazione di vedovanza: quella, appunto, sancita dal s. c. Tertullianum. La satira 6 di Giovenale è datata, solitamente, con riferimento al terminus post quem degli ultimi mesi (novembre/dicembre) del 115 d. C. 22 Tenendo presente questo passo, si potrebbe scendere a dopo l’emanazione del s. c. in questione23, anche se non si può escludere che Giovenale faccia riferimento ad una disposizione già attiva nel «diritto pretorio», che ha trovato soltanto successivamente la sua sistemazione definitiva nel «diritto civile» (cfr. plenissime di Inst. 3,3, cit. in n. 14). Ma, mentre di questa eventuale, precedente disposizione non ci sono tracce chiare, di certo il cenno di Giovenale 6,629–33 acquista comprensibilità maggiore e maggiore impatto satirico, se riferito all’attualità dei provvedimenti legislativi del tempo di Adriano. Pisa
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defunctus di Ponzia (= Drymion) e parlano di un movente economico per il delitto (filios suos pecuniae causa occidit), ma in favore di un’altra persona, il suo amante (ut eam adultero donaret): che ciò abbia a che vedere con la strana presenza di quel tamen nel v. 640 (facinus tamen ipsa peregi), espressivo della volontà di scagionare altri correi, addossandosi tutta la colpa? 22) Cfr. Bellandi 1995, 46 s. 23) La nostra fonte (vd. Inst. 3,3, cit. in n. 14) parla genericamente di divi Hadriani temporibus (Adriano, comunque, non arriva a Roma prima del luglio del 118, cfr. Syme, I 322). Com’è noto, anche la sat. 7, col suo prologo al presente, presuppone gli inizi del regno di Adriano.
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GEFÄLSCHTES FABULA DOCET IN DER FABELDICHTUNG DES BABRIOS „Von einem besondern Nutzen der Fabeln in den Schulen“ lautet eine der Abhandlungen, die Gotthold Ephraim Lessing der Fabel gewidmet hat. Lessing verbindet hier mit dem Einsatz von Fabeln im Unterricht ein hohes Ziel formaler Bildung. In der Erfindung neuer und der schöpferischen Umgestaltung alter äsopischer Fabeln sieht er das adäquate Mittel, um in jungen Menschen den Erfindungsgeist des Genies zu wecken und auszubilden. Gemeint ist etwa das Fortspinnen einer Fabel in dem Sinn: Was wäre, wenn der Käse, den der Fuchs dem Raben abschmeichelte, vergiftet gewesen wäre? Oder: Durfte sich der Wolf in der kurzen Zeit, in der ein Bein des Schafes in seinem Schlunde stecken blieb, die erzwungene Enthaltung als eine gute Tat anrechnen?1 Der Nutzen von Fabeln für den Schulunterricht wurde schon in der Antike erkannt2 und in der griechisch-römischen Schule auf allen Bildungsstufen umgesetzt, allerdings war man in der Antike weit davon entfernt, von den Schülern jene Kreativität zu fordern, die in der Neuzeit Lessing vorschwebte. Fabeltexte dienten in der antiken Schule zur Erstlektüre im Elementarunterricht.3 Fabeln waren auch Bestandteil der Progymnasmata, der propädeutischen Übungen in der Rhetorenschule. Über deren Aufbau geben uns kaiserzeitliche Lehrbücher Auskunft, etwa die der Rhetoren Theon von Alexandrien (1./2. Jh.), Hermogenes (ca. 160–225), Aphtho1) Vgl. G. E. Lessing, Abhandlungen über die Fabel. V. Von einem besondern Nutzen der Fabeln in den Schulen. Ges. Werke, hrsg. v. P. Rilla, 1955, Bd. IV, 80– 85, bes. 84 f. 2) K. Grubmüller, Meister Esopus. Untersuchungen zu Geschichte und Funktion der Fabel im Mittelalter, München 1977 (= Münchener Texte und Untersuchungen zur deutschen Literatur des Mittelalters 56), 87, spricht von einer „der konstantesten funktionalen Traditionen in der europäischen Literatur“. Vgl. dazu auch B. F. Fisher, A history of the use of Aesop’s fables as a school text from the classical era through the nineteenth-century, Diss. Indiana Univ. 1987. 3) So wird in den Vögeln des Aristophanes jemand mit den Worten getadelt „Du bist unwissend und ungebildet und hast nicht den Äsop traktiert“ (V. 471 émayØw går ¶fuw koÈ poluprãgmvn, oÈdÉ A‡svpon pepãthkaw) – ein Zeugnis dafür, daß bereits im 5. Jh. v. Chr. Fabeln im Schulunterricht behandelt wurden.
Gefälschtes fabula docet in der Fabeldichtung des Babrios
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nios (4./5. Jh.) oder Nikolaos von Myra (5. Jh.).4 Im Rhetorikunterricht bildeten die äsopischen Fabeln den Gegenstand von Diktat-, Nacherzählungs- und Übersetzungsübungen, die nicht zuletzt den Zweck hatten, sich ein bestimmtes Repertoire von Fabeln anzueignen. Fabeln lieferten auch den Stoff für metrische und grammatische Exerzitien, z. B. die Übertragung von Vers in Prosa, die Einübung der casus obliqui. Im höheren Unterricht bildeten sie dann die Grundlage für eine thematische, freiere Aufsatzarbeit. Es ging darum, eine vorgegebene Erzählung zu erweitern, zu kürzen oder auf ein historisches Ereignis anzuwenden. Dabei kam eine besondere Bedeutung den Übungen zu, die vom fabula docet der Fabel ausgingen. Eine zentrale Übung bestand darin, zu einer gegebenen Erzählung eine andere Moral oder mehrere passende Moralsätze zu finden.5 Der Rhetor Aelius Theon machte es daher in seinen Progymnasmata geradezu zur Bedingung, daß im Unterricht nur Fabeln mit einer expliziten Moral behandelt werden.6 Besonderer Beliebtheit im Schulunterricht der Kaiserzeit erfreuten sich die sog. ‚Mythiamben‘ des Babrios. Es handelt sich um in Jamben, und zwar in hipponaktischen Choliamben, verfaßte Fabeln (mËyoi), von denen 144 in zwei Büchern auf uns gekommen sind. Das Corpus Babrianum repräsentiert neben dem Werk des Phaedrus das literarisch anspruchsvolle Versfabelbuch.7 Eine ge4) Für den lateinischen Bereich ist Quint. inst. 1,9,1 f. zu vergleichen, der die Fabeln für den Anfangsunterricht empfiehlt: (Radermacher) adiciamus tamen eorum curae quaedam dicendi primordia, quibus aetates nondum rhetorem capientis instituant. Igitur Aesopi fabellas, quae fabulis nutricularum proxime succedunt, narrare sermone puro et nihil se supra modum extollente, deinde eandem gracilitatem stilo exigere condiscant: versus primo solvere, mox mutatis verbis interpretari, tum paraphrasi audacius vertere, qua et breviare quaedam et exornare salvo modo poetae sensu permittitur. Zu den Fabeltexten aus Schülerhand auf den Wachstafeln von Palmyra und auf Papyri siehe unten. Allgemein zur Behandlung von Fabeln in den kaiserzeitlichen Rhetorenschulen siehe A. Hausrath, Das Problem der äsopischen Fabel, in: Neue Jahrbücher für das class. Altertum 1 (1898) 312–14; H.-I. Marrou, Geschichte der Erziehung im klassischen Altertum, Freiburg i. Br./München 1957, 252–4. 5) Theon 75 f. (Patillon 34 f. ). 6) Theon 72 (Patillon 30 f. ). 7) Durch das Metrum ist ein formaler Anschluß an die archaische Lyrik, nämlich an die ionischen Iambographen Archilochos und Semonides und natürlich an den in Hinkiamben dichtenden Hipponax gegeben, auch Kallimachos ist präsent – in den Jamben 2 und 4, in denen jeweils eine Fabel erzählt wird, verwendet der hellenistische Dichter ebenfalls den Choliambus (frg. 192 Pfeiffer = Aes. 431
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naue zeitliche Einordnung ist nicht möglich. Holzberg tendiert zum 1. Jh. n. Chr. und rückt Babrios damit in die Nähe des Phaedrus,8 Luzzatto plädiert aus stilistischen und metrischen Gründen für das 2. Jh. n. Chr.9 Den terminus ante quem für die Abfassung liefert vielleicht das Schulbuch des Ps. Dositheos, dessen Verfasser die Mythiamben des Babrios kannte und das auf das Jahr 207 n. Chr. zu datieren ist.10 Das Schulbuch des Ps. Dositheos,11 die Wachstafeln von Palmyra mit einfachen Diktatübungen (Tabulae Assendelftianae in Leiden) sowie Papyrusbruchstücke mit Fabeltexten aus Schülerhand,12 die allesamt aus dem 3. Jh. stammen, belegen, daß schon zu Beginn des dritten Jahrhunderts babrianische Fabeln im Schulunterricht verwendet wurden.13 Aus späterer Zeit sind die Progymnasmata des Rhetors Aphthonios zu nennen, de[Geschichte vom Ursprung der Geschwätzigkeit]; frg. 194 Pfeiffer = Aes. 439 [Rangstreit zwischen dem Lorbeerbaum und dem Ölbaum]). Archilochos setzt zweimal Fabeln ein, vgl. frg. 172–181 West „Adler und Fuchs“ (= Aes. 1 Hausrath); frg. 185–187 West „Affe und Fuchs“ (= Aes. 81); Semonides ebenfalls, vgl. frg. 8 und 9 West „Reiher und Bussard“ (= Aes. 443); frg. 13 West „Adler und Mistkäfer“ (= Aes. 3). Anders als bei den ionischen Dichtern ist der Jambus bei Babrios aber nicht mehr das Metrum der Invektive, der Kritik an Zeitgenossen, sondern Mittel, um aus den Stoffen der äsopischen Märchenwelt eine „formschöne Poesie“ zu schaffen, vgl. Babr. Prol. 1; Prol. 2,13–5: „Ich aber erzähle die Fabeln in kristallklarer Rede. Ich schärfe nicht die Zähne der Jamben, sondern ich läutere sie im Feuer und nehme ihnen die Stacheln.“ Vgl. auch N. Holzberg, Die antike Fabel. Eine Einführung, Darmstadt 1993, 57 f. 8) Holzberg (wie Anm. 7) 65. Holzberg hält die Identifizierung des Königs Alexander, an dessen Sohn der Prolog zum 2. Buch des Babrios gerichtet ist, mit einem kilikischen regulus namens Alexander für wahrscheinlich (vgl. Josephos, ant. Iud. 18,140). Diesen setzte Kaiser Vespasian (69–79) in sein Amt ein. Vgl. dagegen M. J. Luzzatto, Art. Babrios, in: DNP 2 (1997) 384, für die Branchos vielleicht Heliogabal (218–22), der Adoptivsohn des Caracalla (211–17), ist (nach K. J. Neumann, Die Zeit des Babrios, RhM 35 [1880] 301–4). 9) Luzzatto (wie Anm. 8) 383 f. 10) Vgl. dagegen M. J. Luzzatto /A. La Penna, Babrius, Mythiambi Aesopei, Leipzig 1986, XXXII Anm. 2. 11) Dabei handelt es sich um eine lateinische Sprachlehre für Griechen. Im vierten Hauptstück der griech.-lat. Hermeneumata sive Interpretamenta stehen 16 Fabeln, von denen neun sicher Babrios als Quelle haben und drei auf verlorene Babriana zurückgehen. 12) Z. B. Papyrus Amherst 2,26, eine Bilingue mit fehlerhafter lateinischer Übersetzung der Fabeln 11 und 16 des Babrios. 13) Vgl. auch O. Crusius, Fabeln des Babrios auf Wachstafeln aus Palmyra, Philologus 53 (1894) 228–52; M. Ihm, Eine lateinische Babriosübersetzung, Hermes 37 (1902) 147–51.
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nen 40 Fabeln beigegeben sind, für die Babrios zum großen Teil die Vorlage lieferte (bei 24 sicher). Die Verwendung der Fabeln des Babrios als Gebrauchstexte in der Schule bildet nun einen entscheidenden Faktor, der bei der immer wieder aufkommenden Diskussion um die Echtheit des fabula docet im Corpus Babrianum bisher nicht genug berücksichtigt worden ist. Eine Moral von ein bis vier choliambischen Versen beschließt im Codex Athous, dem Codex A, 61 der 144 überlieferten Fabeln des Babrios. Daß aber von diesen Epimythien einige, wenn nicht zahlreiche oder gar alle, verdächtig sind, wird durch die handschriftliche Überlieferung nahegelegt. In den byzantinischen Sammelhandschriften G und V und auch in der Tradition der Prosaparaphrasen der Babriosfabeln (Paraphrasis Bodleiana) fehlen Epimythien gegenüber dem Codex A. Die Schwankungen in den Handschriften und ein Textzustand, der auch sonst von Einfälschungen durchsetzt ist, lassen vermuten, daß die Epiloge der Babrios-Fabeln Gegenstand spätantiker Textmanipulationen waren. Das textkritische Problem lautet in aller Schärfe: Hat Babrios seinen Fabeln überhaupt Epimythien, d. h. eine abschließende, allgemeine Moral aus dem Mund des auktorialen Erzählers, hinzugesetzt?14 Vor dem Hintergrund der Bearbeitung von Fabeltexten in der Schule, wie sie oben skizziert wurde, und unter Berücksichtigung der spezifischen narrativen Technik des Babrios, deren Auswirkung auf die Struktur der Fabeln im folgenden noch gezeigt werden soll, lautet meine These: Bei einem Großteil der babrianischen Fabeln müssen wir von Schlußinterpolationen ausgehen.15 Und zwar ist es wahrschein14) Das Problem formuliert ähnlich B. E. Perry, Babrius and Phaedrus, edited and translated, London/Cambr. Mass. 1965 (The Loeb Classical Library), LXIII. Vgl. auch J. Küppers, Die Fabeln Avians. Studien zur Darstellung und Erzählweise spätantiker Fabeldichtung, Bonn 1977, 225. Von den älteren Editoren verneinen die Frage und athetieren daher sämtliche Epimythia der Babrios-Fabeln A. Eberhard, Babrii fabulae, Berlin 1875; W. G. Rutherford, Babrius, edited with introductory dissertations, critical notes, commentary and lexicon, London 1883; O. Crusius, Babrii fabulae Aesopeae, Leipzig 1897. 15) Den Terminus der „Schlußinterpolation“ hat Jachmann – schon mit Hinweis auf die gefälschten Epimythien bei Babrios! – geprägt, vgl. G. Jachmann, Ausgewählte Schriften und textgeschichtliche Studien, hrsg. v. Ch. Gnilka, Königstein/Ts. 1981/82 (= Beiträge zur Klass. Philologie 128/143), 416–19. Zum Phänomen des alter exitus in der römischen Komödie siehe O. Zwierlein, Zur Kritik und
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lich, daß ein spätantiker Bearbeiter die Moralsätze quasi nach dem Schulbuch da hinzugefügt hat, wo sie ihm zu fehlen schienen. In neuester Zeit wird die Echtheit der Epimythien bei Babrios wieder äußerst kontrovers diskutiert. Die Herausgeber der heute maßgeblichen Textausgabe, der Teubneriana von 1986, Maria Jagoda Luzzatto und Antonius La Penna, lassen bei immerhin 45 von 61 Fabeln das fabula docet als echt gelten, wobei bezeichnenderweise auch zwischen den beiden Editoren keine Übereinstimmung besteht. Für Luzzatto genießt der Textzeuge cod. A hohe Wertschätzung, sie führt ihn auf eine antike Werkausgabe zurück (3./4. Jh.), für die sie kategorisch jede Möglichkeit der absichtlichen Bearbeitung und Einfälschung ablehnt. Textverderbnisse entstanden ihrer Meinung nach im Lauf der Überlieferung.16 Gegen die bewahrende Praxis von Luzzatto und La Penna wendet sich der Amerikaner John Vaio in seiner monographischen Untersuchung zum Babrios-Text (2001). Vaio athetiert mit älteren Herausgebern, etwa dem Editor der Loeb-Ausgabe Ben Edwin Perry, mehr als die Hälfte der überlieferten Epimythien, ohne allerdings die Bedingung und Begründung einer Interpolation zu reflektieren.17 Die Annahme einer antiken Interpolation setzt voraus, daß man prinzipiell alle Epimythien einer kritischen Untersuchung unterzieht und nicht – wie Vaio es tut – die vermeintlich durch das Alter der Zeugnisse, nämlich der Wachstafeln oder Papyri, gesicherten Epimythien (Fab. 11; 43; 136) ausnimmt.18
Exegese des Plautus I, Stuttgart 1990 (= Abhandl. d. Akademie d. Wiss. und d. Lit. Mainz, Geistes- u. sozialwiss. Kl. 1990, Nr. 4, 56–101). Zum Problem der Schlußinterpolationen bei Prudentius siehe Ch. Gnilka, Prudentiana I. Critica, München / Leipzig 2000, 355.429.575.675–7. 16) Luzzatto / La Penna (wie Anm. 10) XCII; Luzzatto (wie Anm. 8) 384. 17) J. Vaio, The Mythiambi of Babrius. Notes on the Constitution of the Text. Hildesheim / Zürich / New York 2001 (= Spudasmata 83), passim. 18) Vaio (wie Anm. 17) xliv. M. Nøjgaard, R. Adrados und in der Folge M. J. Luzzatto schließen gar aus der Übereinstimmung der Papypri und Wachstafeln mit der Handschrift A in der Setzung bzw. Auslassung einiger Epimythien, daß alle in A überlieferten Epimythien echt seien, vgl. M. Nøjgaard, La fable antique I, Kopenhagen 1964, 490; R. Adrados, Historia de la fábula greco-latina, Madrid 1979, I.2, 463 f.; Luzzatto / La Penna (wie Anm. 10) XCI f. Das Alter der Zeugnisse ist aber für die Echtheitskritik wertlos. Denn das Wirken von Interpolatoren ist grundsätzlich schon in der Antike, also vor dem Beginn der handschriftlichen Überlieferung, anzusetzen (vgl. Gnilka [wie Anm. 15] 139.459). Zu den interpolierten frühen Platon-Papyri siehe Jachmann (wie Anm. 15) 649.
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Das Vorkommen oder Fehlen von Epimythien in den Handschriften oder Prosaparaphrasen liefert ein Indiz, aber keinen hinreichenden Beweis für ihre Echtheit oder Unechtheit. Um eine mögliche Interpolation festzustellen, müssen interne Kriterien beachtet werden. Dazu gehört neben sprachlichen, metrischen und sachlichen Anstößen im Text die Aufdeckung des Motivs, das einen bewußt vorgehenden Fälscher geleitet haben mag, dem Fabeltext eine Moral hinzuzufügen.19 Ausgehend von der inneren, d. h. aus einem bestimmten Textverständnis abgeleiteten Motivation des Bearbeiters lassen sich vor allem drei Typen von Interpolationen beim fabula docet des Babrios ausmachen. Die folgenden Textbeispiele repräsentieren jeweils eines oder mehrere dieser möglichen Motive.20 19) Josef Delz hat den Grundsatz formuliert: „Wer eine Interpolationsbehauptung aufstellt, muß den Grund wahrscheinlich machen können, der zu dem Zusatz geführt hat“ (J. Delz, in: F. Graf [Hrsg.], Einleitung in die lateinische Philologie, Stuttgart / Leipzig 1997, 69). Gegen diese prinzipielle Bedingung wendet sich zu Recht Gnilka (wie Anm. 15) 646. Vgl. auch Jachmann (wie Anm. 15) 434.630, der die Angabe des Fälschungsmotivs nicht für verpflichtend hält, der Tatsache Rechnung tragend, daß oft genug kein klarer Beweggrund für eine Interpolation erkennbar ist. Das trifft bei Babrios auf einige Stücke zu, bei denen die beigefügte Moral offensichtlich den Sinn der Fabel verfehlt, z. B. fab. 60; 83. Aber auch wenn hier keine Motivation des Fälschers aus den Gegebenheiten des Textes abzuleiten ist, so liegt doch das generelle Streben nach Moralisierung zugrunde. 20) Die Forderung nach Systematisierung der Motive und Ziele der Interpolatoren stellt Jachmann (wie Anm. 15) 647. Vgl. dazu die die Jachmannschen Typen aufgreifende und differenzierende Aufstellung der möglichen Motive bei Gnilka (wie Anm. 15) 752 Reg. III s. v. „Motiv der Interpolationen“. Für Gnilka ist die Erkenntnis des Typs deshalb wichtig, weil sie zur Feststellung der Interpolation beiträgt ([wie Anm. 15] 128.558). – Eine vollständige Erfassung der Schlußinterpolationen bei Babrios ist hier nicht intendiert, denn über die Echtheit aller überlieferten Epimythien zu entscheiden bleibt die Aufgabe eines Herausgebers der Fabeln. Ein sinnvolles Kriterium zur Unterscheidung der echten von den unechten Epimythien liefert die von Georg Luck aufgestellte Hypothese (in seiner Rezension zu Perry, Babrius, Gnomon 39 [1967] 569 f., vgl. unten Anm. 35). Demnach sind die Epimythien in der Form des auktorialen Kommentars nicht echt, wenn sie mit einer direkten Rede am Schluß kollidieren. Den Umkehrschluß zu ziehen, der lautete: „Alle Epimythien ohne vorangehende direkte Rede sind echt“, ist aber nicht möglich. Bei näherer Betrachtung erweisen sich auch die meisten Epimythien dieser Kategorie als zweifelhaft. Vgl. dazu die Übersicht über die Entscheidungen von Perry bei Luck 569 f. Zu den von Perry verdächtigten Epimythien möchte ich noch etwa die der Fabeln 4 und 11 hinzunehmen, die Perry hält. Auch das fabula docet von Fabel 41 kann m. E. nicht als zweifelsfrei gelten, vgl. dazu unten. Für echt halte ich die Epimythien der Fabeln 39, 57 und 127.
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Doch zunächst sind noch einige strukturelle Vorüberlegungen nötig. Die Kombination von Belehrung und Erzählung, von didaktischem und fiktionalem Element ist konstitutiv für die Textsorte Fabel, aber die Moral der Erzählung muß nicht explizit formuliert sein.21 In der Tat weisen die meisten Fabeln des Corpus Babrianum kein fabula docet auf, im Unterschied etwa zur sogenannten Collectio Augustana, in der jede Fabel mit einer Moral versehen ist, und auch im Unterschied zur Sammlung des Phaedrus, in der in der Regel den Fabeln entweder ein Promythium oder ein Epimythium beigegeben ist. Schon der fakultative Gebrauch widerlegt die strukturelle Notwendigkeit der Epimythien für die Fabeln des Babrios. Die Erzählkunst des Babrios besteht gerade darin, den Sinn der Fabel ganz im ‚Bildteil‘ einzuschließen und damit die formulierte Zusammenfassung im Epimythium überflüssig zu machen.22 Auch das eigene dichterische Selbstverständnis, das in dem Anspruch des Babrios, im „klaren Stil“ (leukª =Æsei, Prol. 2,13) zu erzählen, zum Ausdruck kommt, weist in diese Richtung. Denn das Programm einer klaren Diktion läuft dem Bestreben bzw. der Notwendigkeit einer zusätzlichen Sinndeutung der Erzählung im fabula docet zuwider. Im Unterschied zu Phaedrus, der im Prolog des ersten Buches den doppelten Wirkungszweck des prodesse et delectare zu seinem poetischen Programm erklärt,23 sucht man das Ziel der Belehrung in den programmatischen Äußerungen des Babrios vergeblich.24 I Die Fabel vom Fischer, der flötet, ist auch sonst aus der Literatur bekannt. Eine griechische Prosafassung überliefert unter dem Namen des Aesop die Collectio Augustana (bei Hausrath und 21) Dazu Grubmüller (wie Anm. 2) 19–21. 22) Nøjgaards Analyse der babrianischen Erzähltechnik führt in vielerlei Hinsicht zu diesem Ergebnis. Um so mehr ist es zu verwundern, daß der Autor in der Frage der Echtheitskritik nicht die richtigen Schlüsse zieht (vgl. Anm. 18). 23) Vgl. Phaedr. Prol. 1,3 f. (Perry) duplex libelli dos est: quod risum movet, / et quod prudenti vitam consilio monet. 24) In diesem Zusammenhang aufschlußreich ist die Untersuchung Perrys zur Genese der Epimythien in Korrelation zur didaktischen Zielsetzung der Fabel, vgl. B. E. Perry, The origin of the epimythium, TAPhA 71 (1940) 391–419.
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Perry Nr. 11, bei Chambry Nr. 24), berühmter ist aber die indirekte Wiedergabe der Fabel bei Herodot im 1. Buch (1,141). Die Anwendung bei Herodot liefert ein schönes Beispiel für die ExemplaFunktion, die der Fabel ursprünglich in der Literatur zukommt.25 Vgl. die Fabel vom Fischer (Babrios 9): ÑAlieÊw tiw aÈloÁw e‰xe ka‹ sof«w hÎlei: ka‹ dÆ potÉ ˆcon §lp¤saw émoxyÆtvw polÁ prÚw aÈl«n ≤dufvn¤hn ¥jein tÚ d¤ktuon ye‹w §ter°tizen eÈmoÊsvw. §pe‹ d¢ fus«n ¶kame ka‹ mãthn hÎlei, bal∆n sagÆnhn ¶laben fixyÊaw ple¤stouw. §p‹ g∞w dÉ fid∆n spa¤rontaw êllon éllo¤vw, toiaËtÉ §kertÒmhse tÚn bÒlon plÊnvn: Ñênaula nËn Ùrxe›sye. kre›sson ∑n Ïmaw pãlai xoreÊein, ≤n¤kÉ efiw xoroÁw hÎloun.É [oÈk ¶stin épÒnvw kélÊonta kerda¤nein: ˜tan kam∆n d¢ toËyÉ ßl˙w ˜per boÊlei toË kertome›n soi kairÒw §sti ka‹ pa¤zein.]
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Die Erzählung, die Babrios gestaltet, weist eine dreiteilige Struktur auf. Die Verse 1 bis 4 bilden den Beginn der Handlungskette.26 Ein 25) Zu Herodots Fabel, der ältesten in griechischer Prosa, siehe jetzt G.-J. van Dijk, a‰noi, lÒgoi, mËyoi. Fables in archaic, classical and hellenistic Greek literature. With a study of the theory and terminology of the genre, Leiden / New York / Köln 1997 (= Mnemosyne Suppl. 166), 270–4. Die Fabel vom Fischer, der flötet, findet sich auch bei Aphthonios Nr. 33 sowie Syr. 35 Lefèvre, dazu F. R. Adrados, History of the Graeco-Latin Fable. Vol. III. Inventory and Documentation of the Graeco-Latin Fable. Transl. by L. A. Ray and F. Rojas del Canto, Leiden / Boston 2003, 18–20. Theon nennt sie unter den vier herausragenden Beispielen von Fabeln, die sich Schüler aneignen sollen. 26) Wenn man mit Nauck die Verse 1b bis 2a (von aÈloÁw bis potÉ) athetiert – wozu ich trotz der unten genannten Gegenargumente tendiere – fehlt eine eigentliche Exposition. Dies entspräche dem Gattungsgesetz der brevitas, demzufolge Fabeln alles wegzulassen pflegen, was nicht im Hinblick auf die ‚Lehre‘, die man aus ihnen ziehen soll, relevant ist. Vgl. auch die Argumentation bei A. Nauck, Nachlese zu den Fabeln des Babrius, RhM 7 (1850) 153–6: „Die von uns beseitigten Worte . . . verrathen einen Interpolator, der das Überraschende in dem Fischer als Flötenspieler irgendwie zu motiviren und zu entschuldigen suchte.“ Den Zug des in der Flötenkunst bewanderten Fischers hat allerdings auch die Prosafassung (èlieÁw aÈlhtik∞w ¶mpeirow, énalab∆n aÈloÊw Hausrath 11) – ein Grund für Luzzatto, die Athetese Naucks zurückzuweisen (Luzzatto / La Penna [wie Anm. 10] 11). Ein weiteres
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Fischer ersinnt einen neuen Anglertrick, er setzt aufs Flöten statt aufs Auswerfen eines Netzes. Im zweiten Teil (V. 5–6) führt das Fehlschlagen der ersten Handlung zu einer neuen Handlung, der Fischer wirft sein Netz doch aus und hat Erfolg. Der Anblick der auf dem Trockenen zappelnden Fische evoziert schließlich das Schlußwort; das ist ein bitterböser, sarkastischer Kommentar aus dem Mund des Fischers, dessen ironische Wirkung durch die Bezeichnung des Zappelns als „Tanzen“ und durch den Hinweis auf die verpaßte Chance erreicht wird. Das Ganze ist als ein Ausdruck blanken Hohns zu verstehen: Es hat euch doch erwischt! Nun tanzt ihr doch! Im Vergleich mit den Prosafassungen des Aesop und Herodot läßt sich das Besondere der babrianischen Erzähltechnik erfassen. Kennzeichnend für Babrios ist die psychologische Aufbereitung des Stoffes.27 Er baut die Erzählung ganz auf dem seelischen Erleben des Fischers auf, so daß die inneren Triebkräfte des Protagonisten das Gerüst der Handlung bilden: seine Hoffnung auf einen mühelosen Fang (V. 2 §lp¤saw émoxyÆtvw), die aus der Erfolglosigkeit (V. 5 fus«n ¶kame ka‹ mãthn hÎlei) resultierende Frustration, die sich im raschen Gegenhandeln äußert, schließlich auch die Schlußreaktion des Spottens (V. 8 §kertÒmhse) als Ausdruck des gesteigerten Triumphes. Wie paßt dazu das im Codex A überlieferte Epimythium? Vgl. Babr. 9,11–13: oÈk ¶stin épÒnvw kélÊonta kerda¤nein: ˜tan kam∆n d¢ toËyÉ ßl˙w ˜per boÊlei toË kertome›n soi kairÒw §sti ka‹ pa¤zein. Es ist unmöglich, ohne sich zu mühen, Erfolg zu haben; wenn man aber durch Anstrengung das erreicht hat, was man will, dann darf man mit Recht spotten und höhnen. Argument für die Echtheit der beiden Halbverse könnte man in der durch die Betonung des Flötens erreichten Ringkomposition sehen, vgl. V. 1 aÈloÁw und hÎlei, V. 9 und 10 ênaula und hÎloun. Zur Bedeutung der Ringkomposition für die Frage der Echtheit der Epimythien siehe auch unten zu Fab. 21. 27) Holzberg (wie Anm. 7) 63 f. Nøjgaard (wie Anm. 18) II 206–13 spricht von der Verlagerung des Konflikts zwischen den Handelnden ins Innere des Protagonisten („conflit de caractère“). Weitere Beispiele sind Babr. 43 „Der Hirsch an der Quelle“; Babr. 104 „Der Hund mit der Glocke“; Babr. 129 „Der Esel, der ein Schoßhund sein will“.
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Die Unsinnigkeit bzw. moralische Fragwürdigkeit der Aussage fällt – dies vorab gesagt – sofort ins Auge: Gewinn gibt es nur durch Mühe, und wer Erfolg hat, darf spotten! Tatsächlich hat sich ja auch der Fischer beim Flötenspielen angestrengt (vgl. V. 5 ¶kame). Die meisten Editoren (mit Ausnahme von Luzzatto) haben das Epimythium als unecht angesehen. Es gibt im überlieferten Text Verstöße gegen die Metrik (der Anapäst im vierten Fuß bei überliefertem oÈdÉ élÊonta in V. 11) und gegen die Grammatik (die überlieferte Konstruktion von V. 13 tÚ kertome›n kairÒw §stin), die in den Ausgaben durch Konjekturen beseitigt wurden.28 Vor allem wurde aber die sachliche Unvereinbarkeit von fabula docet und Fabel konstatiert: Während nämlich das Schlußwort des Fischers in der Fabel die Fische betrifft („Besser wäre es gewesen, ihr hättet vorhin getanzt!“), – und entsprechend sowohl die daraus abgeleitete Moral der äsopischen Prosafabel29 als auch die Nutzanwendung bei Herodot an die Fische gerichtet sind, – bezieht sich das Epimythium bei Babrios auf den Fischer.30 Gerade dieser Punkt ist bedenkenswert. Denn meines Erachtens ist es der Fabeltext selbst, der einen Interpolator veranlaßt haben mag, gerade dieses Epimythium hinzuzusetzen. Er hat im Schlußwort des Fischers – anders als die modernen Erklärer – offenbar keine oder zumindest keine passende Moral gesehen, und das mit gewissem Recht. Die Schlußworte enthalten zwar eine sarkastische Zurechtweisung der Gegenspieler – in ironischer Brechung versetzt sich der Fischer in die Lage der Fische –, das Gewicht liegt aber nicht auf der Belehrung, sondern auf dem durch Spott charakterisierten Zustand des Sprechenden selbst. 28) Dazu E. Hohmann, De indole atque auctoritate epimythiorum Babrianorum, Diss. Regensburg 1907, 86–9; Vaio (wie Anm. 17) 25 f. Beide Anstöße wurden von Luzzatto u. a. durch Konjekturen beseitigt. Auch die Bedeutung von élÊv ‚sich müßig umhertreiben‘ scheint – trotz der Beispiele bei Hohmann 87 f. – ungewöhnlich zu sein. 29) Vgl. prÚw toÁw parå kairÒn ti prãttontaw ı lÒgow eÎkairow (Hausrath 11). Dazu paßt das Prosa-Epimythium zu Babr. 9 ı mËyow l°lektai prÚw toÁw mata¤vw parå tÚ d°on ti §rgazom°nouw. 30) O. Crusius, Art. Babrios, in: RE II 2 (1896) 2661, 28 f.; Hohmann (wie Anm. 28) 88 f.; Vaio (wie Anm. 17) 25 f. Daher urteilt Hohmann (wie Anm. 28) 89, Herodot – der die Fabel auf die Fische, d. h. auf die Ionier und Aioler, die zu spät von Kroisos abfallen wollen, anwendet – habe die Absicht der Fabel verstanden, nicht verstanden habe sie derjenige, der das Epimythium in cod. A zu Fab. 9 hinzugesetzt habe.
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Auffallend ist ja bei Babrios gerade das weitestgehende Zurücktreten einer moralischen Absicht zugunsten einer psychologischen Durchdringung des Stoffes. Dem Interpolator muß man zugute halten, daß er diesen Kunstgriff des Babrios erfaßt hat. Er ergänzt daher die Schlußpointe der ihm vorliegenden Fabel und formuliert eine Lehre mit Blick auf den Fischer. Die Aufnahme des Wortes ‚spotten‘ aus dem Fabeltext, in dem der Schlüssel zur Intention des Dichters liegt, ist verräterisch: Das seltsame kertome›n ka‹ pa¤zein in der Moral (V. 13) greift §kertÒmhse aus Vers 8 auf. Daß der Interpolator hier aber überhaupt eine Moral vermißt und sich nicht scheut, durch den Zusatz einer schlicht unsinnigen, ja absurden Moral die Pointe zu zerstören, das ist ihm anzukreiden. II Beim zweiten Beispiel verbindet sich die Motivation des Interpolators, einen schwierigen Text zu erklären und durch ein Epimythium zu vervollständigen – wie wir sie beim ersten Beispiel erkennen konnten –, mit der bei rezensorischen Maßnahmen häufigen Tendenz, ein Stück an ähnliche Fälle anzugleichen. Die Fabel Nr. 40 bildet das mittlere Glied einer Dreiergruppe von Tetrasticha bzw. Disticha (39; 40; 41),31 die in inhaltlicher und formaler Hinsicht eine Einheit bilden.32 Formal verbunden sind sie durch die auffällige epigrammatische Kürze sowie – was bei Babrios keineswegs selbstverständlich ist – durch die Formulierung einer Autormoral, die die Deutung der Allegorie liefert, wobei gerade im Fall der mittleren Fabel (Nr. 40) zu klären ist, wie dies strukturell geschieht. Die inhaltliche Besonderheit der drei Fabeln liegt darin, daß sie eine politische Lehre illustrieren. Der Tenor aller drei Stücke ist das Lächerlichmachen derjenigen, die sich anmaßen, mehr zu sein, als ihrem angestammten Rang in Staat und 31) Zur Häufigkeit dieser Kurzform der Fabel bei Babrios siehe Nøjgaard (wie Anm. 18) II 237 f. 32) Die Interpretation geht von der Annahme aus, daß die Reihenfolge der Fabeln im Codex A die ursprüngliche, vom Dichter selbst vorgenommene ist. Dafür spricht m. E. die nicht strenge alphabetische Anordnung, die nur dem ersten Buchstaben des Anfangswortes jeder Fabel folgt, vgl. auch Luzzatto/La Penna (wie Anm. 10) LXIV–LXVIII.
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Gesellschaft gebührt (39; 41), bzw. zulassen, daß sich die natürlichen Verhältnisse verkehren (40). Die politische Lehre, die sich daraus ableiten läßt, lautet also: Erhebe dich nicht über deine Stellung! Vgl. die Texte Babr. 39; 40; 41: 39 Delf›new ée‹ dief°ronto falla¤naiw. toÊtoiw par∞lye kark¤now mesiteÊvn …w e‡ tiw Ãn êdojow §n polite¤aiw stãsei turãnnvn maxom°nvn ımhreÊoi. 40 Di°baine potamÚn ÙjÁn ˆnta t“ =e¤yrƒ kurtØ kãmhlow, e‰tÉ ¶xeze. toË dÉ ˆnyou fyãnontow aÈtØn e‰pen: Ñ∑ kak«w prãssv: ¶mprosyen ≥dh téjÒpisyÉ §moË ba¤nei.É [pÒliw ên tiw e‡poi tÚn lÒgon tÚn Afis≈pou ∏w ¶sxatoi kratoËsin ént‹ t«n pr≈tvn.] 41 Diarrag∞na¤ fasin §k m°sou n≈tou drãkonti m∞kow §jisoum°nhn saÊran. [blãceiw seautÚn koÈd¢n êllo poiÆseiw µn tÒn se l¤hn Íper°xonta mimÆs˙.] Der erste Vierzeiler (Nr. 39) kündigt die politisch-soziale Dimension an: §n polite¤aiw liefert sozusagen das Stichwort auch für die folgenden Fabeln. Das Epimythium selbst besteht hier formal in einem konditionalen Vergleichssatz, in dem der auktoriale Erzähler die Allegorie der zweizeiligen Fabel auflöst und zugleich das Ergebnis der vom Krebs angebotenen Vermittlertätigkeit nachreicht: Gezeigt wird, daß es unsinnig ist, daß ein Schwacher sich bemüht, bei Starken etwas zu bewirken. Die politische Ebene der Anwendung wird in den Versen 1 und 2 durch Termini des politischen Lebens vorbereitet (dief°ronto, mesiteÊvn), wodurch auch die Einheitlichkeit der Darstellung gewahrt wird. In der Fabel von der Eidechse (Nr. 41), die sich zerreißt, findet sich der politische Gehalt in §jisoum°nhn angedeutet. Die Lehre selbst ist dagegen allgemein sentenzhaft formuliert, wobei das Epimythium wohl zu
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Recht verdächtigt wurde.33 Erst als Zweizeiler zeigt das Stück die ästhetische Brillanz, durch die sich die Dichtung des Babrios im allgemeinen auszeichnet. Die Fabel vom Kamel im Fluß bereitet dem Interpreten nicht zuletzt aufgrund der typisch babrianischen Struktur Schwierigkeiten. Das Tetrastichon gliedert sich in eine Situationsbeschreibung (V. 1–2) und ein Schlußwort des Protagonisten, des Kamels, in dem dieses die Situation kommentiert (V. 3–4). Das Kamel beklagt sich über einen Zustand, der dadurch charakterisiert ist, daß sein Kot, das „Letzte“, nach vorn geschwemmt wird. Auch hier scheint in der wörtlichen Rede ein übertragener politischer Sinn auf, insofern ¶mprosyen und téjÒpisye auf den sozialen Rang bezogen werden können.34 Die Fabel läßt sich lesen als Klage darüber, daß besondere Zeitumstände den Unrat, den ‚Bodensatz‘ der Gesellschaft, nach oben treiben. Bei einem antiken Bearbeiter, der ein Epimythium anfügt, mag wohl der obszöne, skatologische Witz Anstoß erregt haben, dessen Babrios sich hier bedient. Offensichtlich nimmt der Interpolator die bildlichen Ausdrücke „das, was von hinten kommt“ und „das Vordere“ in ¶sxatoi und pr«toi wieder auf, d. h. in dezenteren, aber für politische Verhältnisse nicht unbedingt einschlägigen Termini. Sein Bestreben scheint es zu sein, den in der Erzählung angelegten Bezug auf die Herrschaft der sozial Niedrigen klarer auszudrücken und damit das in Worte zu fassen, was der Dichter nur geschickt andeutet – durch ein groteskes Bild und durch die Stellung der Fabel zwischen zwei Fabeln, die eine politische Lehre erteilen. Was der Bearbeiter nicht erkennt, ist, daß Babrios hier schon auf eine für ihn typische Form der Moralvermittlung rekurriert. Sie besteht darin, daß in der direkten Rede am Schluß der Fabel eine pointierte Erkenntnis ausgesprochen wird, aus der sich wiederum eine allgemeine Nutzanwendung ableiten 33) Die Fabeln 39 und 41 im ganzen athetiert Crusius (wie Anm. 14) 40 f., indem er sie als „fabulae decurtatae“ verwirft. Das Epimythium zu 41 tilgt Eberhard (wie Anm. 14). Rutherford (wie Anm. 14) 45 f. hält alle drei genannten Vierzeiler für unecht. Zum Echtheitsproblem der Tetrasticha im allgemeinen siehe Vaio (wie Anm. 17) xlvii. 34) Thematisch verwandt ist die Fabel 134 bei Babrios, das ist die Erzählung von der Schlange, die in ein Felsloch stürzt, weil der Schwanz anstelle des Kopfes die Führung übernommen hat. Zu Fab. 41 paßt Babr. 28, die Fabel von der Kröte, die platzte, weil sie sich aufblies, um die Größe eines Ochsen zu erreichen. Vgl. auch Phaedr. 1,24.
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läßt.35 Analog zu den beiden angrenzenden Fabeln, die in auktorialer Manier die ‚Allegorie‘ der Fabelerzählung auflösen, formuliert der anonyme Bearbeiter daher ein zweizeiliges Epimythium zur Fabel 40 hinzu. Die prosaische Formulierung – pÒliw ên tiw e‡poi tÚn lÒgon tÚn Afis≈pou – ist spürbar an Vers 3 und 4 der Fabel 39 angelehnt, sprachlich im Gebrauch des Potentialis, inhaltlich im Bemühen um direkte Ausdeutung der Allegorie, wobei die Gleichsetzung von Kamel und Stadt hier geradezu naiv anmutet.36 Im ganzen variiert das Epimythium die für Fabelbücher typische Einleitung: ı lÒgow dhlo›, „diese Fabel lehrt“, und zwar in einer schulmeisterlichen Manier, die man dem Babrios nicht zutrauen möchte. III Die Fabel von den Ochsen und den Metzgern (Babrios 21) findet sich wieder nur bei Babrios.37 BÒew mage¤rouw épol°sai potÉ §zÆtoun ¶xontaw aÈto›w polem¤hn §pistÆmhn: ka‹ dØ sunhyro¤zonto prÚw mãxhn ≥dh k°ratÉ épojÊnontew. eÂw d° tiw l¤hn g°rvn §n aÈto›w, pollã gÉ ∑n érotreÊsaw, Ñotoi m¢n ≤mçwÉ e‰pe Ñxers‹n §mpe¤roiw sfãzousi ka‹ kte¤nousi xvr‹w afike¤hw: ≥n dÉ efiw ét°xnouw §mp°svmen ényr≈pouw, diploËw tÒtÉ ¶stai yãnatow. oÈ går §lle¤cei tÚn boËn ı yÊsvn, kín mãgeirow §lle¤c˙.É [ı tØn paroËsan phmonØn fuge›n speÊdvn ırçn Ùfe¤lei mÆ ti xe›ron §jeÊr˙.]
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35) Zur Technik des in die Fabel integrierten explizierenden, kommentierenden ‚Autorschlusses‘ bei Babrios siehe Nøjgaard (wie Anm. 18) II 226–30. Schon in archaischer Zeit finden sich in der Literatur Fabeln, die in einer lehrhaften Schlußbemerkung einer der handelnden Personen münden, dazu Holzberg (wie Anm. 7) 23. – Luck (wie Anm. 20) 569 f. leitet daraus für Babrius eine Gesetzmäßigkeit ab, die bei der Prüfung der Echtheit der Epimythien zu beachten ist: „Eine Babrius-Fabel mit direkter Rede hätte entweder keine Moral, oder sie wäre in den Worten des letzten Sprechers gleichsam eingebaut.“ Vgl. auch Vaio (wie Anm. 17) xlvii. 36) Vgl. auch die Bedenken von Eberhard (wie Anm. 14) und Hohmann (wie Anm. 28) 56 f. 37) Vgl. Adrados (wie Anm. 25) III 412 f.
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Auch hier haben wir es mit einer typisch babrianischen Fabel zu tun. Die Erzählung von den Ochsen und den Metzgern repräsentiert den Typ der ‚verkürzten Fabel‘, der gekennzeichnet ist durch das Fehlen einer eigentlichen Intrige.38 Der Aufbau ist zweiteilig. Der erste Teil besteht in der Beschreibung einer eher statischen Situation (V. 1–5): Die Ochsen fassen den Beschluß, die Metzger zu töten, und stellen sich zur Schlacht auf. Der zweite Teil wird durch die Rede des alten, erfahrenen Ochsen gebildet, der vom Kampf abrät (V. 6–10). Der Schluß in direkter Rede geht – wie oft bei Babrios – mit dem Auslassen einer eigentlichen Endhandlung oder eines Resümees des Erzählers einher. Die Rede des alten Ochsen ist auf einer Antithese aufgebaut: Wir tauschen kundige Metzger gegen unkundige Laien. Wir leiden also nicht gar keinen Tod mehr, sondern einen doppelten, d. h. einen qualvollen Tod. Der implizite Rat „Laßt ab von eurem Vorhaben!“ wird abschließend begründet durch eine allgemeine Erfahrungstatsache: Wenn’s ans Ochsenschlachten geht, fehlt nie einer, der es ausführt. Die Schlußpointe ist also gnomisch, wie häufig bei Babrios (vgl. auch Fab. 6; 20; 33; 61; 90). Auffällig ist hier die Ringkomposition, V. 1 f. und V. 9 f. sind deutlich aufeinander bezogen.39 Wie ist nun das Verhältnis des in der Hs. A überlieferten Epimythiums zur abschließenden Gnome zu sehen? Das fabula docet „Wer dem gegenwärtigen Unglück entfliehen will, muß sehen, daß er nicht in ein schlimmeres gerät!“ paßt zur Fabel.40 Vaio sieht in der Tatsache, daß die Autormoral sogar unmittelbar aus der Schlußpointe der Fabel abgeleitet ist, einen Beweis für ihre Echtheit, weil diese Technik bei den Babrios-Epimythien auch sonst zu beobachten sei.41 Meines Erachtens beleuchtet aber die Ableitung 38) Vgl. z. B. auch Fabel 85, dazu Nøjgaard (wie Anm. 18) II 236 f. 39) Die Ringkomposition ist ein bei Babrios beliebtes Mittel, vgl. z. B. auch Fab. 7 und 15. Vgl. auch Nøjgaard (wie Anm. 18) II 239–42. 40) Zu den verdächtigen Momenten und dem Versuch, sie zu widerlegen, siehe Hohmann (wie Anm. 28) 37 f.: Die Fabel sei auch in der Hs. V überliefert, das Epimythium nicht. Der Spondeus im 5. Fuß in V. 11 stelle eine untragbare metrische Lizenz dar, werde aber durch leichte Konjektur – fuge›n statt feÊgein – behoben. ÉOfe¤lei sei zwar prosaischer Stil, aber nicht unüblich. 41) Die Parallele zur Fabel 43, die er zieht, greift aber in mehrfacher Hinsicht nicht als Argument. Schon die Prämisse, das Epimythium der Fabel 43 sei aufgrund des „Alters“ seiner Überlieferung unzweifelhaft echt, kann man nicht gelten lassen. Die doppelte Moral, die in dem vierzeiligen Epimythium zu 43 formuliert wird (vgl. Nøjgaard [wie Anm. 18] II 315), läßt es zudem eher verdächtig erscheinen.
Gefälschtes fabula docet in der Fabeldichtung des Babrios
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des Epimythiums aus der sentenzhaften Schlußrede einer handelnden Person gerade im Gegenteil das Verfahren und Motiv des Fälschers, der das in der Fabel faßbare didaktische Element aufnimmt und ausmalt. Die didaktische Ausrichtung der Fabel ist schon durch die Person des Sprechers gegeben. Der Alte, Erfahrene fungiert qua persona als Lehrer der Jüngeren, Unerfahrenen (vgl. auch die Konstellation in Fab. 37 [alter – junger Ochse]; Fab. 47 [alter Mann]; Fab. 85 und 93; vgl. auch Fab. 43 [Selbsterkenntnis als Lehre]). Der große Raum, den die belehrende Rede in unserer Fabel einnimmt, und insbesondere die Gnome am Schluß konnten einen Redaktor herausfordern, die unausgesprochene, allgemeine Lehre explizit auszuformulieren und zugleich in eine einfachere Form zu gießen. Das fabula docet fällt aber in seinem moralisierenden Stil hinter die Aussage der Schlußsentenz zurück. Die drastische Eindringlichkeit der Vorstellung – der Schlächter, der nie fehlt – wird abgeschwächt durch eine matte, allgemeine Handlungsanweisung: Man muß sehen, daß man nicht in ein schlimmeres Unglück gerät! Der ästhetische Reiz der babrianischen Darstellung, den die Ringkomposition nachhaltig unterstreicht, wird durch die Antiklimax zunichte gemacht. Denn auch diese Fabel des Babrios wirkt nicht im strikten Sinn moralisierend, sondern eher im epigrammatischen Sinn belehrend, indem sie am Schluß eine allgemeine Wahrheit aufleuchten läßt. Den rhetorisch gesteigerten Schlußeffekt zerstört der Interpolator in seinem schulmeisterlichen Bestreben, die Moral zu explizieren und zu simplifizieren.42 Als Fazit läßt sich festhalten: Ausgehend von der Motivation des Fälschers lassen sich bei den babrianischen Epimythien drei Typen von Interpolationen erkennen. Den Haupttyp bildet die erklärende Interpolation, wobei der Wunsch, die Aussage der schwer verständlichen oder kurzen Fabel zu verdeutlichen, einen Bearbeiter dazu treibt, ein auktoriales Schlußwort hinzuzudichten (Typ I).43 In Verbindung mit der erklärenden Interpolation tritt auch das Bestreben nach Angleichung 42) Vgl. z. B. auch Babr. fab. 37; 47. 43) Die explizierende Interpolation ist auch eine der Jachmannschen Haupttypen, vgl. Gnilka (wie Anm. 15) 460 Anm. 5; 747 Reg. III s. v. „Explizierende Interpolation“; dazu Jachmann (wie Anm. 15) 431.448.456 f.461.500 f.
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(Typ II)44 sowie nach Vereinfachung (Typ III)45 hervor.46 Daß die Fabeln des Babrios einer spätantiken Bearbeitung unterworfen waren, halte ich gegen Luzzatto für erwiesen. Ihre Behauptung, alle metrischen Epimythien seien authentisch, ist nicht haltbar. Bei der Gattung Fabel ist nun in der Antike eine besondere, sowohl strukturelle als auch funktionale, Anfälligkeit für Textmanipulationen gegeben. Das Epimythium, der Epilogus zur Fabel bildet einen Text für sich, der durch einen deutlichen Bruch in der Erzählweise von der eigentlichen Fabel getrennt ist (durch die Einführung des auktorialen Erzählers und des Präsens). Diese Texte à part sind – wie Schlüsse überhaupt – beliebte Objekte für Umstellungen und Umdichtungen. Die Funktion der Fabeln als Gebrauchstexte in der Schule erklärt zudem, warum man sich nicht scheute, die ursprüngliche Gestalt der Texte, der Epimythien, ja ganzer Fabelbücher zu verändern.47 Der Umgang mit Fabeltexten in der spätantiken Schule mag einen Bearbeiter der Babriana in besonderer Weise animiert haben, fehlende Epiloge mit einem fabula docet hinzuzudichten. Die Fabeln des Babrios bilden daher einen markanten Fall, aber keinen Sonderfall antiker Interpolation. Grundsätzlich waren auch Werke von hoher künstlerischer Intention und literarischer Qualität Gegenstand von Textbearbeitungen, weil man nicht nur bei sogenannten Gebrauchstexten, sondern generell in der Antike von einem anderen Verhältnis zu Texten ausgehen muß als in unserer Zeit. Damit, daß fehlendes Urheber- und Originalitätsbewußtsein zu interpolatorischen Redaktionen geführt hat, muß man auch beim Lesen und Interpretieren der großen klassischen Autoren rechnen. Münster
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44) „Konkordanz-Interpolation“ lautet der von Jachmann geprägte Begriff, vgl. Jachmann (wie Anm. 15) 221.611.624. Vgl. auch Gnilka (wie Anm. 15) 751 Reg. III s. v. „Konkordanzinterpolation“. 45) Zu dieser Tendenz vgl. Gnilka (wie Anm. 15) 754 Reg. III s. v. „Simplifikation“. 46) Weitere Beispiele für Typ I sind etwa fab. 10; 22; 34; 116 (Anekdoten); 12; 59 (Mythen); 60; 82; 84 (bons mots, die eine Lebenseinstellung exemplifizieren). Zu Typ III gehören noch fab. 43; 47; 52; 81; 83; 87; 96. 47) Zu den Interpolationen in den „volkstümlichen Gattungen“ der Fabel und des Romans vgl. O. Zwierlein, Lucubrationes Philologae. Bd. 2. Antike und Mittelalter, hrsg. v. R. Jacobi, R. Junge, Ch. Schmitz, Berlin/New York 2004 (= Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte 72), 27 Anm. 71.
LUKIAN ALS LITERAT, LUKIAN ALS FEIND: DAS BEISPIEL DES PEREGRINOS PROTEUS1 Die wissenschaftliche Auseinandersetzung mit Lukians De Morte Peregrini blickt schon auf eine längere Tradition zurück. Bereits im Jahre 1879 befaßte sich Jacob Bernays in seiner Monographie Lucian und die Kyniker mit dieser Schrift. Seitdem wurden, gemessen an der übrigen Lukianforschung, ungewöhnlich viele Abhandlungen verfaßt, die einzelne Aspekte in das Blickfeld genommen haben. Insbesondere die Religiosität des Peregrinos, d. h. seine Zugehörigkeit zur Christengemeinde, oder auch die zahlreichen, teils widersprüchlichen Elemente, die im Zusammenhang mit der Inszenierung seiner Selbstverbrennung stehen, wurden von verschiedenen Seiten beleuchtet. Gleiches gilt für seine philosophische Ausrichtung, die keiner antiken Kategorisierung wie dem Kynismus oder dem Neupythagoreismus durchgehend zu entsprechen scheint.2 Der kulturell-historische Hintergrund dieser 1) Der vorliegende Beitrag stellt die erweiterte Fassung eines Vortrages dar, den ich am 5. 1. 2004 in Bonn bei den IANVALIA 2004 gehalten habe. In der sich anschließenden Diskussion erhielt ich mehrere Anregungen, die ich in diesem Beitrag zu berücksichtigen versucht habe. Verschiedene Hinweise, die mich vor einigen Ungenauigkeiten bewahrten, verdanke ich außerdem Prof. Dr. Bernd Manuwald. 2) Zur Religiosität des Peregrinos vgl. G. Bagnani, Peregrinus Proteus and the Christians, Historia 4 (1955) 107–112, M. J. Edwards, Satire and Verisimilitude: Christianity in Lucian’s Peregrinus, Historia 38 (1989) 89–98; zu seiner philosophischen Ausrichtung vgl. H. M. Hornsby, The Cynicism of Peregrinos Proteus, Hermathema 48 (1933) 65–84 und H.-G. Nesselrath, Lucien et le Cynisme, AC 67 (1998) 121 f.; religiös-philosophische Aspekte behandeln gleichermaßen R. Pack, The Volatilization of Peregrinos Proteus, AJPh 67 (1946) 334–345, D. M. Pippidi, Apothéoses impériales et apothéose de Pérégrinos, Studi e Materiali di Storia delle Religioni 21 (1947–1948) 77–103, J. Hall, Lucian’s Satire, New York 1981, 178 ff. und C. P. Jones, Cynisme et sagesse barbare: Le cas de Pérégrinus Proteus, in: Le cynisme ancien et ses prolongements, hrsg. v. M.-O. Goulet-Cazé u. R. Goulet, Paris 1993, 305–317. Die religiös-philosophische Charakterisierung des Peregrinos führte außerdem dazu, daß seine Person seit jeher im Zentrum der modernen ye›owénÆr-Debatte steht. Vgl. vor allem H. D. Betz, Lukian von Samosata und das Neue Testament, Berlin 1961, passim, und jetzt auch B. Szlagor, Verflochtene Bilder. Lukians Porträts „göttlicher Männer“, Trier 2005.
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Schrift wurde dagegen vor allem in der richtungweisenden Arbeit von C. P. Jones, Culture and Society in Lucian, behandelt.3 Und es existieren sogar zwei kleinere Kommentare zu diesem Werk, die sich freilich auf Erläuterungen einzelner Passagen bzw. auf das Anführen von Parallelstellen konzentrieren.4 Bereits diese kurze Übersicht zeigt, woran es nach wie vor fehlt: an Untersuchungen, die sich mit der literarischen und auch inhaltlichen Konzeption auseinandersetzen, also die Schrift als literarisches Ganzes betrachten.5 Ein erster Versuch, diese Lücke zu schließen, soll an dieser Stelle unternommen werden. Natürlich können in diesem bescheidenen Rahmen nur skizzenhafte Andeutungen erfolgen, die sich auf einige wenige Punkte beschränken müssen und einen eingehenden Kommentar keineswegs ersetzen. Im Zentrum des folgenden Beitrages werden daher eine Analyse des Aufbaus der Schrift (I.1), das argumentative Vorgehen des Autors (I.2) und die Sinndeutung des Titels (I.3) stehen: Lukian als Literat. Nun berichtet uns der Autor nicht unvoreingenommen von seinem Thema, sondern gibt seine persönliche Abneigung gegen seinen Protagonisten über die komplette Schrift hinweg deutlich zu erkennen. Die Funktion dieser Haltung gilt es vor dem Hintergrund seiner Arbeitsweise in einem zweiten Schritt zu beleuchten: Lukian als Feind (II).
3) C. P. Jones, Culture and Society in Lucian, Cambridge/London 1986. Vgl. außerdem auch B. Baldwin, Studies in Lucian, Toronto 1973, passim. 4) Lucianus, De Dood van Peregrinus, door D. Plooij en J. C. Koopman, Utrecht 1915 und Lucien de Samosate, Philopseudès et de Morte Peregrini, avec introd. et comm. de J. Schwartz, Paris 1963. Einige Anmerkungen bietet zudem: Lucian, a Selection, by M. D. Macleod, Warminster 1991, 272 ff. Ein deutscher Kommentar samt Übersetzung erscheint voraussichtlich 2005 in der SAPEREReihe (Darmstadt) als Band 9: Lukian, Der Tod des Peregrinos. 5) Literarische Aspekte werden von J. Bompaire (Lucien Écrivain: Imitation et Création, Paris 1958) und G. Anderson (Theme and Variation in the Second Sophistic, Leiden 1976) behandelt. Sie beschäftigen sich mit literarischen Vorlagen bzw. arbeiten immer wiederkehrende lukianische Muster heraus, zwei Ansätze, die auch in der vorliegenden Arbeit verfolgt werden. Allerdings nehmen beide Autoren das gesamte Werk Lukians zur Grundlage, ohne der vorliegenden Schrift eine gesonderte Beachtung zu schenken. Speziell zu De Morte Peregrini vgl. dagegen jetzt Szlagor (wie Anm. 2) 91–126. Leider lag mir diese Untersuchung nicht mehr rechtzeitig genug vor, als daß ich sie hätte ausführlicher berücksichtigen können.
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I. Lukian als Literat I.1 Zum besseren Verständnis sei zunächst der Inhalt der Schrift kurz dargestellt: Der Autor beginnt mit einigen einführenden Bemerkungen, die den Beinamen des Kynikers Peregrinos, Proteus,6 sowie dessen Selbstverbrennung in Harpina, in der Nähe von Olympia, zum Gegenstand haben. Im Zuge dessen weist der Autor darauf hin, daß er diese Aktion vor Ort selbst miterlebt hat (Kap. 1–2). Sein Augenzeugenbericht beginnt mit den Geschehnissen in Elis. Dort hielt ein weiteres Mitglied der Kynikerschule, Theagenes, eine Rede, in der er die Selbstverbrennung des Peregrinos ankündigte und diesen dabei als leuchtendes Beispiel hervorhob (Kap. 3–6). Daraufhin trat ein Unbekannter an gleicher Stelle auf und offenbarte in einem biographischen Abriß die Wahrheit über das Leben des Peregrinos (Kap. 7–31). Nachdem Lukian beide Reden vernommen hatte, verließ er Elis in Richtung Olympia, wo er eine weitere Rede des Peregrinos sowie dessen Selbstverbrennung einige Tage später im nahe gelegenen Harpina miterlebte (Kap. 32–38). Auf dem Rückweg von Harpina begegnete Lukian einigen Leuten, denen er im Spaß allerlei Wundergeschichten über die Ereignisse nach dem Selbstmord mitteilte, die jedoch, wie er bald feststellen mußte, für wahr gehalten wurden (Kap. 39–42). Lukian beschließt seine Schrift mit mehreren Invektiven gegen Peregrinos sowie einigen grundsätzlichen Bemerkungen über dessen Fehlverhalten (Kap. 43–45).
In der Tat zeigt selbst dieser knappe Überblick, daß die Schrift von komplexer Struktur ist.7 Der Autor beginnt mit dem Hinweis 6) Proteus gilt als Gestaltwandler und als weiser Gott, der die Zukunft kennt. Er wird überdies von Lukian, wenn auch entgegen der übrigen Tradition, als Sohn des Zeus bezeichnet (Kap. 28). Vgl. H. Herter, Proteus, RE XXIII.1 (1957) 940–957 und Schwartz (wie Anm. 4) 84–85. Vor dem Hintergrund dieser Kennzeichen ist davon auszugehen, daß sich Peregrinos diesen Namen als Kyniker bewußt zugelegt hat bzw. daß ihm dieser Name von seinen Schülern zugeteilt wurde (vgl. Gell. 12,11,1: cui postea cognomentum Proteus factum est): Er hat ein bewegtes Leben hinter sich gebracht – seine Gestalt also ebenfalls mehrfach geändert. Zu dem von ihm begründeten Kult gehören Orakel (Kap. 27–28), woraus zu entnehmen ist, daß er die Zukunft kennt, und außerdem scheint er zumindest von seinen Schülern mit Zeus selbst verglichen worden zu sein (Kap. 6). Außerdem verbindet eine von Menander Rhetor zitierte Schrift tÚ (sc. §gk≈mion) t∞w Pen¤aw Prvt°vw toË kunÒw und vermutlich auch Philostrats PrvteÊw, kÊvn µ sofistÆw den Namen Proteus mit seiner kynischen Ausrichtung (vgl. dazu D. Clay, Lucian of Samosata: Four Philosophical Lives, ANRW II 36.5, 1992, 3433 und The Cynics, ed. by R. Branham, M.-O. Goulet-Cazé, Berkeley u. a. 1996, 401). 7) Vgl. auch Clay (wie Anm. 6) 3435: „ . . . one of his most complex literary productions“.
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auf seine persönliche Aversion gegenüber Peregrinos, verlagert dann jedoch die Handlung auf die Auseinandersetzung zwischen Theagenes und dem unbekannten Redner, in der dem Leser die Vorgeschichte präsentiert wird, bevor er wieder auf seine eigenen Erlebnisse zurückkommt, die in direktem Zusammenhang mit der Person seines Protagonisten bzw. dessen Selbstverbrennung stehen. Schließlich beendet er seine Erzählung mit mehreren invektivisch gefärbten Episoden, die wiederum einige Jahre vor den Ereignissen in und um Olympia vorgefallen sind. Nun beruht dieser Aufbau bei aller Komplexität durchaus auf einem durchdachten Vorgehen des Autors. Denn es läßt sich zeigen, daß er fast durchgehend aus lukianischen Mustern besteht, d. h. aus Motiven, Themen, ja sogar ganzen Strukturen, die Lukian auch in anderen Schriften verwendet. Um dies im einzelnen nachzuweisen, dürfte der erste Schritt der Untersuchung darin bestehen, nach Parallelen im Œuvre des Verfassers zu suchen. Zu diesem Zweck lohnt es sich, insbesondere den Pseudologista in das Blickfeld zu nehmen.8 Auch in diesem Werk klärt Lukian gleich zu Beginn die Fronten: Ein nicht namentlich genannter Sophist hat ihm den falschen Gebrauch des Wortes épofrãw vorgeworfen, was Lukian unter mehrfacher Betonung der Dummheit seines Gegenübers entschieden zurückweist (Kap. 1–4). In De Morte Peregrini nennt uns der Samosatener ebenfalls sofort das Thema der Schrift, also die Selbstverbrennung, und betont deutlich, daß er sowohl diesem Vorhaben als auch der Person des Peregrinos Proteus ablehnend gegenübersteht. Doch bevor sich Lukian wiederum im Pseudologista persönlich mit dem Sophisten auseinandersetzt, läßt er Elenchos, einen Prologgott aus der Neuen Komödie, auftreten, der nicht nur die vorausgegangenen Ereignisse schildert, sondern im Zuge dessen auch auf den Charakter und auf die Fähigkeiten des anonymen Sophisten eingeht (Kap. 5–9). Die Parallelität zur Rede des Unbekannten, der über das Leben des Peregrinos berichtet, ist offen8) Auf einige Gemeinsamkeiten beider Werke hat schon Anderson (wie Anm. 5) 160 f. hingewiesen. Zum Pseudologista vgl. A. Billault, Une „Vie de Sophiste“: le Pseudologiste, in: Lucien de Samosate: Actes du colloque international de Lyon org. au Centre d’Études Romaines et Gallo-Romaines (30. 9.–1. 10. 1993), ed. par A. Billault, Lyon 1994, 117–124 und M. Weißenberger, Literaturtheorie bei Lukian: Untersuchungen zum Dialog Lexiphanes, Stuttgart/Leipzig 1996, 51 ff.
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sichtlich.9 Nach dem Vortrag des Elenchos übernimmt Lukian wieder die Argumentation. Seine Ausführungen haben dasselbe Ziel wie die seines Vorredners: Sie sollen zum einen den verkommenen Lebenswandel des Sophisten, zum anderen dessen fehlendes Können als Rhetor darlegen (Kap. 11–30). Auch in De Morte Peregrini folgen nach der Rede des Unbekannten die persönlichen Erlebnisse Lukians, und auch sie führen dessen Argumentationslinien weiter: Peregrinos ist ein Scheinphilosoph und ein religiöser Blender. Wir werden darauf in Abschnitt I.2 noch ausführlich zu sprechen kommen. Und selbst die Invektiven, die die vorliegende Schrift scheinbar ungeschickt abschließen, haben im Pseudologista ihre Entsprechung. Denn dort bilden vergleichbare Verunglimpfungen ebenfalls den Abschluß (Kap. 31), ja sie werden sogar in der gleichen Weise eingeleitet, da Lukian zunächst sagt, nun mit seinen Erzählungen aufhören zu wollen, um dann doch noch einige Details hinzuzufügen.10 Nun soll hier nicht der Eindruck erweckt werden, De Morte Peregrini sei eine Dublette des Pseudologista. Lukian ist zwar dafür bekannt, bestimmte Motive, Passagen, ja sogar ganze Werkstrukturen mehrfach zu verwenden.11 Aber er ist nicht dafür bekannt, vollkommen identische Werke zu verfassen. Vielmehr kombiniert er die genannten Komponenten unterschiedlich miteinander, was auch in den beiden genannten Schriften zu beobachten ist. So wurde die Parallelität zwischen der Rede des Elenchos und der Rede des Unbekannten gerade schon angesprochen. Und doch ist ihre Funktion nicht dieselbe. Elenchos schildert die Geschehnisse, die mit dem eigentlichen Vorfall, der die Feindschaft zwischen Lukian und dem Sophisten begründete, in unmittelbarem Zusammenhang stehen. Die darauf folgenden Erzählungen Lukians konzentrieren sich dagegen auf das frühere Leben des Sophisten, in denen der Samosatener nachweist, daß dieser angesichts seiner wenig vorzei9) Die Parallele zum Elenchos belegt eindeutig, daß der Unbekannte eine fiktive Person ist, ein literarischer Kunstgriff des Autors, um die Vorgeschichte des Peregrinos in das Werk zu integrieren und vor allem die Einheit der Sterbe-Szenerie nicht durchbrechen zu müssen (siehe unten I.3). 10) Pseudol. 31: tå m¢n êlla •k∆n éf¤hm¤ soi, §ke›no d¢ mÒnon prosl°gv; vgl. Peregr. 43: ©n ¶ti soi prosdihghsãmenow paÊsomai. 11) Dies hat Anderson (wie Anm. 5) für mehrere Schriften überzeugend herausgearbeitet, wenngleich angemerkt werden muß, daß er dieses Charakteristikum bisweilen etwas überbewertet.
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genswerten Vorgeschichte seinen Spott besser für sich behalten hätte. In De Morte Peregrini verhält es sich jedoch genau umgekehrt. Hier präsentiert der unbekannte Redner ausgewählte Passagen aus dem bisherigen Leben des Peregrinos Proteus nach Art einer Biographie: Der Unbekannte nennt in chronologischer Abfolge Episoden von der Jugend an bis hin zur Ankündigung des Todes. Außerdem sagt er, daß er auf den Charakter (gn≈mh) des Peregrinos achtgegeben und dessen Leben (b¤ow) im Blick hatte (Kap. 8).12 Die darauf folgenden Erzählungen Lukians dienen wiederum dazu, die Selbstverbrennung, die im zweiten Teil des Werkes thematisiert wird, ins rechte Licht zu rücken. Doch die Unterschiede zwischen beiden Schriften manifestieren sich darüber hinaus auch durch solche Passagen, die trotz aller Gemeinsamkeiten im Rohbau nicht im Pseudologista, stattdessen aber in anderen Werken Lukians belegt sind. Ein biographischer Abriß, die Beschreibung des Kultes und die damit in Verbindung stehenden fragwürdigen Orakel (Kap. 7–31) gehören z. B. in ähnlicher Form auch zu den Bestandteilen des Alexander, einer Schrift, die das Leben und das Wirken des Kultgründers Alexander von Abonuteichos schildert.13 Die Wundergeschichten, die Lukian nach dem Selbstmord des Peregrinos verbreitet oder auch von anderen vernimmt (Kap. 39–41), haben dagegen ihre motivische Entsprechung in den abenteuerlichen Erzählungen, die verschiedene Personen in den Philopseudeis vortragen. Die drei Vorwürfe an Peregrinos, daß er beim Ehebruch ertappt wurde, einen jungen Mann verführte und seinen Vater umgebracht hat (Kap. 9–10), finden sich in zum Teil leicht abweichender Abfolge und Nuancierung auch im Pseudologista (Kap. 20; 22), im Alexander (Kap. 4; 6) und vor allem 12) Beide Begriffe sind nicht zufällig gewählt: b¤ow ist nämlich nicht nur die antike Bezeichnung für die Gattung ‚Biographie‘, sie dient nach Plutarch auch dazu, den Charakter der betreffenden Person herauszustellen (z. B. Nikias 1,5)! Vgl. A. Dihle, Die Entstehung der historischen Biographie, Heidelberg 1987, 8 ff. und H. Sonnabend, Geschichte der antiken Biographie, Stuttgart 2002, 4 ff. Lukian sagt überdies auch im Alexander, daß er dessen b¤ow (Kap. 1) und dessen gn≈mh (Kap. 4) beschreiben will. Entsprechend weist auch U. Victor (Lukian von Samosata: Alexandros oder der Lügenprophet, Leiden u. a. 1997, 11 f.) auf die Nähe dieser Schrift zu den Parallelbiographien Plutarchs hin. 13) Vgl. dazu Anderson (wie Anm. 5) 72 ff. sowie D. U. Hansen, Wer inszeniert den Peregrinos?, in: Lukian, Der Tod des Peregrinos (wie Anm. 4), dem ich ganz herzlich dafür danke, daß er mir seinen Beitrag vor der Drucklegung zur Verfügung gestellt hat.
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im Juppiter tragoedus (Kap. 52).14 Die rhetorisch vollkommen mißlungene Abschiedsrede des Peregrinos in Olympia (Kap. 32–33) hat außerdem ihre Parallele in der Schrift Quomodo Historia conscribenda sit (Kap. 26), in der Lukian eine Leichenrede des Afranius Silo, die gleichfalls mit einer Selbsttötung des Vortragenden endet, für völlig unpassend hält.15 Und auch die Zeusstatue in Olympia (Kap. 6) scheint ein lukianischer Topos zu sein. Sie findet z. B. in Quomodo Historia conscribenda sit (Kap. 27) Erwähnung und begründet im Somnium (Kap. 8) den Ruhm ihres Erbauers Phidias.16 In den Details wird man mit Sicherheit noch weitere Parallelen bzw. sinnfällige Variationen herausarbeiten können. Die genannten Beispiele dürften jedoch ausreichen, um zu zeigen, daß sich der Aufbau der vorliegenden Schrift bei aller Komplexität problemlos als typisch lukianisch erweisen läßt, da er sich aus verschiedenen Bausteinen inhaltlicher bzw. literarischer Natur zusammensetzt, die der Autor auch in anderen Zusammenhängen verwendet. Somit steht De Morte Peregrini zumindest in literarisch-konzeptioneller Hinsicht fest im Kontext seiner übrigen Schriften. I.2 Es gilt nun in einem nächsten Schritt zu untersuchen, ob auch der Argumentationsgang bzw. die logische Abfolge der einzelnen Passagen ein bestimmtes Konzept des Autors erkennen läßt. Daß wir grundsätzlich damit rechnen müssen, verdeutlicht bereits der Ausdruck kakoda¤mvn, mit dem der Autor seinen Protagonisten sowohl gleich zu Anfang (Kap. 1: ı kakoda¤mvn Peregr›now: „Dieser unglückselige Peregrinos . . .“) als auch zum Schluß der eigentlichen Handlung qualifiziert (Kap. 42: toËto t°low toË kakoda¤monow Prvt°vw §g°neto: „Dies war das Ende des unglückseligen Proteus.“).17 Der Rahmen seiner Darstellung ist somit vorgegeben. 14) M. Caster, Études sur Alexandre ou le faux prophète de Lucien, Thèse supplémentaire, Paris 1938, 79 ff. 15) Anderson (wie Anm. 5) 60. 16) Schwartz (wie Anm. 4) 90. Die Zeusstatue in Olympia scheint ohnehin zum rhetorischen Fundus dieser Zeit zu gehören, wie z. B. die 12. Rede des Dion Chrysostomos zeigt. Vgl. für weiteres dazu Bompaire (wie Anm. 5) 347 f. 17) Dieses Schimpfwort hat Lukian vermutlich aus der Komödie übernommen. Vgl. dazu A. Müller, Die Schimpfwörter in der griechischen Komödie, Philo-
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Doch wie begründet Lukian seine ablehnende Haltung im einzelnen? Es läßt sich zeigen, daß er ganz offensichtlich die Rede des Theagenes, in der dieser Peregrinos als leuchtendes Vorbild herausstellt (Kap. 3–6), zum Ausgangspunkt seiner eigenen Erörterungen nimmt, um dessen Argumente einzeln zu widerlegen und Peregrinos vor diesem Hintergrund als Scharlatan zu entlarven. Um diese Technik zu illustrieren, müssen wir uns der Rede des Theagenes zuwenden. Dieser verwahrt sich zunächst gegen den Vorwurf, daß Peregrinos aus Ruhmsucht handelt. Zum Beweis nennt er drei Stationen aus dessen Leben: a) Peregrinos war in Syrien im Gefängnis. b) Er hat seiner Heimatstadt Parion 5000 Talente hinterlassen. c) Er wurde aus Rom vertrieben (Kap. 4). Daraus folgert Theagenes weiter: Wer ein derart vorbildliches Leben führt, der könne nur noch d) mit Diogenes, Antisthenes und Sokrates verglichen werden (Kap. 5); e) mit Zeus verglichen werden (Kap. 6). Wir haben keine Veranlassung, daran zu zweifeln, daß Theagenes eine entsprechende Rede in Olympia tatsächlich gehalten hat. Kyniker waren gerade in der Kaiserzeit dafür bekannt, vor einem möglichst großen Publikum und insbesondere bei großen Veranstaltungen Vorträge zu halten, und Galen bezeugt uns sogar öffentliche Auftritte des Theagenes in Rom.18 Es ist jedoch müßig, den originalen Wortlaut seiner Rede von der lukianischen Überarbeitung trennen zu wollen. Wichtiger scheint in diesem Zusammenhang die Erkenntnis zu sein, daß nicht nur die biographischen Details (a–c), sondern auch die Vergleiche (d–e), wie auch immer sie im einzelnen von Theagenes vorgetragen und von der Kynikergemeinde aufgefaßt wurden, durchaus einen realen Hintergrund haben können: So fungiert neben Diogenes auch Sokrates gerade in der Kaiserzeit häufig als kynisches Vorbild.19 Gleiches ist für Antisthenes anzunehmen, der mitunter als Lehrer des Diogenes galt logus 72 (1913) 329. Er bezeichnet damit auch sonst gerne den Scheinphilosophen (z. B. Pisc. 12). 18) Meth. med. 13.15 (Ed. Kühn, vol. X, S. 909; vgl. dazu auch J. Bernays, Lucian und die Kyniker, Berlin 1879, 14 f.). Öffentliche Auftritte von Kynikern erwähnt im übrigen auch Dion Chrysostomos (or. 32,9). 19) Epiktet, Vom Kynismus, hrsg. v. M. Billerbeck, Leiden 1978, 7.
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(Diog. Laert. 6,1 ff.) und entsprechend von Lukian durchgehend als Kyniker betrachtet wird (vgl. Fug. 11; 16; Demon. 48).20 Und auch für den Vergleich mit Zeus lassen sich Parallelen ausmachen: Epiktet sieht den wahren Kyniker als Sendboten Gottes an (3,22,23), während Aelius Aristides in seiner Rede Verteidigung der Vier berichtet, daß eine zeitgenössische Gruppierung, mit der höchstwahrscheinlich die Kyniker gemeint sind, behauptet, nicht schlechter zu sein als Zeus.21 Außerdem macht dieses religiöse Vorbild auch den Beinamen Proteus erklärlich, der zu dieser Zeit, wenn auch entgegen der Tradition, als Sohn des Zeus betrachtet wird (Kap. 28; vgl. Anm. 6). Und schließlich würde sich vor diesem Hintergrund auch der Ort des Selbstmordes, Olympia bzw. das nahe gelegene Harpina, besser in den kynischen Kontext fügen. Denn Zeus gilt als Festgott der Olympischen Spiele, sein Sohn Herakles, ein weiteres kynisches Vorbild, nach dessen Muster Peregrinos offenbar seine Selbstmordinszenierung plant (Kap. 33), mitunter als deren Begründer.22 Doch wenden wir uns nun der Funktion dieser Rede innerhalb der lukianischen Schrift zu. Nach Theagenes braucht Peregrinos den Vergleich mit den höchsten philosophischen und religiösen Autoritäten keineswegs zu scheuen. Lukian ist jedoch ganz anderer Ansicht. Um seine Position zu veranschaulichen, nimmt er auf jeden einzelnen Punkt dieser Rede Bezug. Dabei verteilt er die biographischen Details (a–c) auf die Rede des Unbekannten, der uns die wahren Hintergründe dieser Ereignisse präsentiert. Die Widerlegung der philosophischen und religiösen Vorbildfunktion (d–e) und der damit in engem Zusammenhang stehende Hinweis auf die Ruhmsucht als wahre Antriebsfeder des Peregrinos durchziehen dagegen die komplette Argumentation, also sowohl die Rede des Unbekannten als auch die sich anschließenden Erzählun20) Vgl. auch Bompaire (wie Anm. 5) 184. Gregor von Nazianz setzt diese Tradition fort, da er den von ihm verehrten Kyniker Heron über Antisthenes und Diogenes stellt (or. 25, Kap. 7; PG 35, 1208 B). 21) Ed. Dindorf, vol. II, S. 398: o„ toË m¢n DiÚw oÈd¢n xe¤rouw fas‹n e‰nai. Vgl. dazu M.-O. Goulet-Cazé, Le cynisme à l’époque impériale, ANRW II 36.4, 1990, 2788 f. 22) Jones (wie Anm. 3) 124. Möglicherweise hat sogar der Vergleich der Zeusstatue des Phidias mit dem ‚natürlichen Wunderwerk‘ Peregrinos einen realen Hintergrund (Kap. 6). Denn in vergleichbarer Weise rechtfertigt auch der anonyme Kyniker im pseudo-lukianischen Cynicus sein Erscheinungsbild mit einem Hinweis auf die Statuen der Götter in den Tempeln (Kap. 20).
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gen Lukians.23 Denn hierbei handelt es sich um sein eigentliches Anliegen: seinen Gegner als Scharlatan bloßzustellen, der keinem ernsten Anliegen folgt, sondern aus höchst egoistischen Motiven handelt. Zu diesem Zweck weist der Autor ihm entweder allgemeine Merkmale des Scheinphilosophen und religiösen Blenders zu oder er vergleicht ihn ganz konkret, sofern es sich anbietet, mit den von Theagenes genannten Vorbildern Diogenes, Antisthenes, Sokrates und Zeus, woraus das Fehlverhalten des Peregrinos allgemein ersichtlich wird. Bereits die Art und Weise, wie Lukian den Unbekannten auftreten läßt, wirft Licht auf sein Vorgehen. Denn bevor dieser mit seiner Rede beginnt, bringt er ein Trankopfer dar, wodurch er sich als im traditionellen Sinne religiös erweist,24 und lacht (Kap. 7). Das Lachen – zu ergänzen ist: über Dummheit, Fehlverhalten, Aberglauben u. ä. –, das das Wissen um die wahren Werte im menschlichen Leben voraussetzt, gehört für Lukian zum Wesen der richtigen Philosophie.25 Folglich wird der unbekannte Redner als religiöses und philosophisches Gegenmodell eingeführt, der die Wahrheit über den Scharlatan Peregrinos ans Licht bringen kann. Auch hier wird die schon oben (vgl. I.1) angedeutete Parallelität zwischen seiner Rede und der des Elenchos im Pseudologista (Kap. 5–9) deutlich. Wie der Prologgott ‚widerlegt‘ er den Gegner, in seinem Fall die verherrlichenden Worte des Theagenes:26 a) Es ist nicht zu leugnen, daß Peregrinos in Syrien im Gefängnis war, allerdings als Anhänger der Christen, die einen gekreuzigten Menschen für einen Gott halten und die griechischen 23) Edwards (wie Anm. 2) 93 ff. hat diese Struktur bereits für den Abschnitt über die Christen herausgearbeitet. Vgl. auch Schwartz (wie Anm. 4) 91, ad § 9. 24) Der Wortlaut spielt auf ein Trankopfer des Peleus in der Ilias (5, 775) an. Vgl. dazu Schwartz (wie Anm. 4) 91. 25) Demokrit lacht z. B. über Peregrinos (Kap. 45), der Idealphilosoph Demonax belehrt seine Mitbürger mit einem Lachen (Demon. 8). Ausführlich dazu: G. Husson, Lucien philosophe du rire, in: Lucien de Samosate: Actes du colloque international de Lyon org. au Centre d’Études Romaines et Gallo-Romaines (30. 9. – 1.10.1993), ed. par A. Billault, Lyon 1994, 177–184. Lukian betont außerdem, daß der unbekannte Redner aus tiefstem Herzen lacht (neiÒyen). Dies entspricht seiner Bemerkung im Pseudologista, über den schlechten Vortrag des Sophisten unkontrolliert losgeprustet zu haben (Kap. 7). Die dargestellten Haltungen sind demnach nicht gekünstelt, sondern entspringen der innersten Überzeugung der Beteiligten. 26) Als weitere Parallele kann der Elenchos genannt werden, der im Piscator im Gefolge der wahren Philosophie auftritt, um zusammen mit Parrhesiades zeitgenössische Scheinphilosophen zu ‚widerlegen‘ bzw. zu überführen (Kap. 46 ff.).
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Götter verleugnen (Kap. 13). Außerdem ließ sich Peregrinos nur deswegen einsperren, um umsonst verköstigt und finanziell unterstützt zu werden.27 Hier zeigt sich, daß die Christen von einzigartiger Naivität und Leichtgläubigkeit sind und auf jeden hereinfallen, der sie auszunutzen versteht. Vor diesem Hintergrund ist es daher auch kaum ernst zu nehmen, wenn sie Peregrinos wie einen Gott (Kap. 11) und als ‚Neuen Sokrates‘ verehren.28 Und die Tatsache, daß es ihm gelang, sogar die Gesetze dieser merkwürdigen Gruppierung zu übertreten (Kap. 16), zeigt eindeutig: Peregrinos ist ein Scheinphilosoph und vor allem ein religiöser Blender.29 b) Es ist nicht zu leugnen, daß Peregrinos seiner Heimatstadt Parion Geld vermacht hat, aber es waren nicht 5000, sondern nur 30 Talente (Kap. 14). Weiterhin verschenkte er sein Vermögen nur, um eine Anklage wegen Mordes abzuwenden (Kap. 15). Denn er hatte einige Jahre zuvor seinen Vater umgebracht (Kap. 10), eine Tat, die man nur als ésebÆw, als gottlos, bezeichnen kann. Außerdem verlieh er seiner Verteidigungsrede in der Volksversammlung zusätzliche Wirkung durch sein ärmliches Erscheinungsbild, wie man es von den Kynikern kennt,30 das jedoch in diesem Fall lediglich dazu diente, Mitleid zu erregen und ihn als philosophischen Wohltäter erscheinen zu lassen. Die Einwohner von Parion 27) Es gilt zu beachten, daß Lukian diese beiden Beweggründe in den Fugitivi (Kap. 14) als typisch für den kynischen Scheinphilosophen nennt. 28) Kap. 12: kainÚw Svkrãthw. Diese Bezeichnung dürfte einen realen Hintergrund haben, da Sokrates in der frühchristlichen Literatur aufgrund seiner Haltung im Gefängnis und aufgrund seiner Standhaftigkeit im Glauben als Vorbild galt. Vgl. dazu K. Döring, Exemplum Socratis, Wiesbaden 1979, 143 ff. und Jones (wie Anm. 3) 307. 29) Einige interessante Beobachtungen zu diesem wichtigen Kapitel über die Christen macht H. Detering (Marcion-Peregrinus: Ist Lukians Schrift „Über das Lebensende von Peregrinus“ eine Marcion-Satire?, Radikalkritik 2000), wenngleich sein Vorschlag, Peregrinos mit Markion, einer bedeutenden Figur innerhalb des Christentums des 2. Jhs. n. Chr., zu identifizieren, letztlich auf zu vielen Unbekannten basiert. Immerhin legen die unbestreitbar vorhandenen Parallelen in den literarischen Darstellungen beider Personen die Vermutung nahe, daß sich Lukian für seine Schrift von christlichen Vorlagen hat inspirieren lassen. Vgl. dazu auch Edwards (wie Anm. 2) 94 f. 30) Er trug einen Kynikermantel, einen Ranzen und einen Holzstab (Kap. 15: tr¤bvn, pÆra, tÚ jÊlon), eine Ausstattung, die z. B. auch Diogenes zugeschrieben wird (Diog. Laert. 6,22–23). Lukian beschreibt mit diesen Attributen jedoch gerne den Scheinphilosophen, der nicht durch seine Lehre, sondern nur durch sein Äußeres auffallen will (Per. 24; Fug. 14; Demon. 48; vgl. Pisc. 31; vgl. auch Clay [wie Anm. 6] 3414 ff.).
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durchschauten sein Treiben nicht. Sie sprachen ihn vielmehr von der Mordanklage frei und nannten ihn sogar den einzig wahren Nachfolger des Diogenes und des Krates.31 Doch der Leser weiß es besser: Dieser Übertritt zu den Kynikern, der Entschluß, von nun an ein ärmliches Leben zu führen, hat in dieser Verzweiflungstat seinen Ursprung, nicht jedoch in einer ernstgemeinten Überzeugung. Peregrinos kann somit nur als Scheinphilosoph bezeichnet werden. c) Es ist nicht zu leugnen, daß Peregrinos aus Rom vertrieben wurde. Aber man muß auch hier die Hintergründe beachten: Nachdem Peregrinos die Christen verlassen hatte, ging er zunächst nach Ägypten zum Kyniker Agathobulos.32 Die Qualität seiner Anschauungen änderte sich dadurch jedoch keineswegs: Einer religiösen folgte nun eine philosophische Verirrung.33 Denn bei Agathobulos lernte er lediglich, wie man öffentlich Aufmerksamkeit erregt, indem man sich z. B. Lehm ins Gesicht schmiert oder mitten auf der Straße onaniert.34 In diesem Zusammenhang beschimpfte er auch den römischen Kaiser, jedoch nur, weil er wußte, daß er keine Repressalien zu befürchten hatte, da der Herrscher unter seinen Zeitgenossen für seine Milde bekannt war.35 Peregrinos ist also auch 31) Kap. 15: ßna Diog°nouw ka‹ Krãthtow zhlvtÆn. Es ist im übrigen nur für Krates belegt, daß er seinen Besitz den Mitbürgern überließ (Diog. Laert. 6,87). 32) Kap. 17. Agathobulos gehörte zu den bekanntesten Philosophen seiner Zeit. Vgl. Goulet-Cazé-Branham (wie Anm. 6) 390. Zum Kynismus des Peregrinos vgl. vor allem Hornsby (wie Anm. 2) und Goulet-Cazé (wie Anm. 21) 2764 ff. Christen und Kyniker wiesen in ihren Anschauungen große Gemeinsamkeiten auf und wurden daher von außenstehenden Beobachtern häufig miteinander verwechselt (vgl. GouletCazé [wie Anm. 21] 2788 ff. und F. Downing, Cynics and early Christianity, in: Le cynisme ancien et ses prolongements, hrsg. v. M.-O. Goulet-Cazé u. R. Goulet, Paris 1993, 281–304). Daher ist der Übertritt des Peregrinos durchaus nachvollziehbar. 33) Entsprechend werden beide Stationen als yaumastÒw, also als ‚wunderlich‘, ‚seltsam‘, bezeichnet (Kap. 11; 17). Mit demselben Wort bezeichnet Lukian auch die übertriebenen Vergleiche des Theagenes (Kap. 5) und die Vorbereitungen für die Selbstverbrennung (Kap. 21: yaumatopoie›). 34) Kap. 17. Dion Chrysostomos bestätigt, daß die Kyniker in Alexandria für ihre extreme Auslegung der Lehre bekannt waren (or. 32). Dazu paßt, daß es zu den Kennzeichen des kynischen Blenders Alkidamas gehört, ägyptisch zu reden (Lukian, conv. 18). Im übrigen charakterisieren öffentliche Provokationen sexueller Natur für Lukian auch in anderen Schriften den kynischen Scheinphilosophen (vgl. Vit. auct. 10; Conv. 16) 35) Kap. 18. Mit dem römischen Kaiser ist wohl Antoninus Pius gemeint, der in zahlreichen Quellen für seine Milde und Sanftmut gerühmt wird. Vgl. P. v. Rohden, Aurelius (138), RE II.2 (1896) 2509. Es ist für mehrere Kyniker der Kaiserzeit
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noch feige und berechnend. Er kann daher nur als Schauspieler bezeichnet werden,36 dessen Verhalten unter keinen Umständen im Einklang mit der Philosophie steht. Und der Präfekt von Rom verbannte Peregrinos schließlich nur deswegen, weil dessen kynische Provokationen eine Schande für die Stadt darstellten. Diese drei Passagen verdeutlichen anschaulich die Vorgehensweise des unbekannten Redners: Er nimmt ganz konkret auf die biographischen Details aus der Rede des Theagenes Bezug (a–c) und zeigt, daß diese keineswegs dazu geeignet sind, Peregrinos als Vorbild hervorzuheben, sondern vielmehr das Gegenteil nahelegen, daß Peregrinos ein philosophisch-religiöser Scharlatan ist, der lediglich seine Ruhmsucht befriedigen will. Gleichwohl geht der Vortrag des unbekannten Redners über die Vorlage des Theagenes noch hinaus. So hat z. B. der Anfang seiner Ausführungen, also der Hinweis auf den Ehebruch des Peregrinos, auf dessen Verführung eines jungen Mannes (Kap. 9) sowie auf dessen Vatermord (Kap. 10), keinen direkten Ansatzpunkt in der Rede des Theagenes. Es würde jedoch zu kurz greifen, diese Einlagen lediglich als rhetorische Spielerei abzutun, die einzig der invektivischen Darstellung dienen.37 Vielmehr runden sie das Bild des Peregrinos ab bzw. deuten bereits den Tenor des Folgenden an: Denn auch wenn Lukian nicht explizit darauf verweist, können alle drei Aspekte als Anspielung auf Zeus verstanden werden.38 Daß diese Verknüpfung keineswegs abwegig ist, zeigen die Dialogi Mortuorum, in denen Lukian auf dessen zahlreiche amourösen Abenteuer mit anderen Frauen (D. mort. 6; 18), auf dessen Vorliebe für schöne junge Männer wie Ganymed (D. mort. 8; 10) und auf dessen Kampf gegen seinen eigenen Vater (D. mort. 5) zu sprechen kommt. Man beachte auch die Schrift De Sacrificiis, in der Lukian Zeus sogar ausdrücklich mit Proteus vergleicht, weil er sich in vielen verschiedenen Gestalten seinen Liebhaberinnen genähert hatte (Kap. 5)! Indem der unbekannte Redner diese Abenteuer gleich zu Beginn seiner Ausführungen nennt, deutet er von vornherein an, was das Publikum belegt, daß sie den Kaiser öffentlich schmähten (vgl. Bernays [wie Anm. 18] 28 ff.), was nach Lukian wiederum ein Kennzeichen des kynischen Scheinphilosophen ist (vgl. Pisc. 10). 36) Im Icaromenippus (Kap. 29) und im Piscator (Kap. 46) werden die Scheinphilosophen ebenfalls als Schauspieler bezeichnet. 37) So Caster (wie Anm. 14) 86 ff. und Schwartz (wie Anm. 4) 91 f. 38) Vgl. auch Edwards (wie Anm. 2) 97 f.
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vom Zeusvergleich und damit letztlich auch von den anderen Gegenüberstellungen aus der Rede des Theagenes zu halten hat. Und dieser Tenor, diese Vorgehensweise setzt sich nach der Behandlung der biographischen Passagen (a–c) fort. Denn auch hier fügt der Unbekannte noch weitere seiner Intention entsprechende Details hinzu, die über die Rede des Theagenes hinausgehen. Dies zeigt sich beispielsweise in der Kritik des Peregrinos am Bau der Wasserleitung des Herodes, die den Besuchern der Olympischen Spiele Erleichterung verschaffen soll (Kap. 19). Peregrinos begründet seine Ausführungen zunächst mit dem kynischen Topos der Enthaltsamkeit, da er eine Verweichlichung der Griechen befürchtet. Er konterkariert seine vorgebliche Überzeugung jedoch mit einem Schluck Wasser, den er selbst nach Beendigung seiner Rede zu sich nimmt. Diese Tat, die eindeutig beweist, daß er kein würdiger Nachfolger des Diogenes ist, sorgt jedoch für so viel Unmut, daß er sich vor der aufgebrachten Menge in Sicherheit bringen muß, und zwar ausgerechnet im Zeusheiligtum (Kap. 19). Hier drängt sich unwillkürlich die Frage auf: Manifestiert sich so die Macht eines zeusgleichen Gottes? Schließlich muß Peregrinos feststellen, daß ihn keiner mehr beachtet. Um jedoch wieder in das Bewußtsein der Leute zurückzukehren, plant er, etwas Besonderes zu wagen: seine Selbstverbrennung. Hier tritt nach Meinung des unbekannten Redners sein wahrer Beweggrund für diese Tat offen zutage: Ruhmsucht (Kap. 20). Einmal mehr erweist er sich als Scheinphilosoph. Sein Ehrgeiz treibt Peregrinos zunächst sogar so weit, sich in Olympia verbrennen zu wollen. Er hält dies für semnÒn, ohne zu bedenken, daß dies gegen jegliches religiöse Empfinden verstößt (Kap. 22). Der Vergleich mit Herostratos, dem religiösen Frevler der Antike schlechthin, der ebenfalls aus reiner Ruhmsucht handelte, zeigt aus lukianischer Sicht die Tragweite dieses Planes. Und erneut ist es Zeus, der Peregrinos vor Schlimmerem bewahrt. Nur dieses Mal erscheint er ihm im Traum, um ihn von diesem unglaublichen Vorhaben abzuhalten (Kap. 26). Auch hier stellt sich die Frage: Handelt so ein religiöses Vorbild, ein zweiter Zeus? Die auf den Vortrag des Unbekannten folgenden Erzählungen Lukians weisen prinzipiell dasselbe Muster auf (Kap. 32–45). Zwar bezieht sich Lukian nicht mehr konkret auf die biographischen Details aus der Rede des Theagenes. Dafür rekurriert er auf die letzten Tage des Peregrinos bzw. auf dessen Selbstmord sowie auf einige
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weitere ausgewählte Ereignisse aus dessen Leben, die er ebenfalls selbst miterlebt haben will oder zumindest aus den Erzählungen anderer kennt. Diese Abschnitte verfolgen allesamt das bereits bekannte Ziel, nämlich Peregrinos als Scheinphilosophen und religiösen Blender zu enttarnen. Die Darstellung der letzten Tage des Peregrinos soll dies beispielhaft veranschaulichen: Zunächst hält der Kyniker aus lauter Ruhmsucht in Olympia eine Leichenrede auf seine eigene Person (Kap. 32–33). Seine Hoffnung, daß ihn die Zuschauer von seinem Vorhaben abhalten, erfüllt sich aber nicht. Darin, daß ihn seine Feigheit weiterhin dazu treibt, den Tag der Selbstverbrennung ständig zu verschieben, zeigt sich laut Lukian deutlich, daß er diese Tat ursprünglich gar nicht auszuführen beabsichtigte. Einzig die Aussicht, bei den Menschen Ruhm zu ernten, motiviert ihn schließlich doch dazu. Entsprechend wird die Selbstverbrennung als großartiges Schauspiel vor möglichst vielen Zuschauern in der Nähe von Olympia veranstaltet. Somit ergibt sich für den Leser auch aus diesen Ereignissen: Peregrinos ist ein Scheinphilosoph. Um diesen auch noch als religiösen Blender zu erweisen, schildert Lukian, wie Peregrinos vorgab, dem Beispiel der indischen Brahmanen zu folgen. Bereits der unbekannte Redner wies darauf hin, daß sie für ihre Standhaftigkeit bei der Selbstverbrennung berühmt waren,39 während bei Peregrinos zu befürchten steht, daß er die Schmerzen, wenn nicht gar die Selbsttötung mit irgendeinem seiner üblichen Tricks umgehen will und dadurch den kynischen Idealen der Standhaftigkeit und der Todesverachtung in keiner Weise gerecht wird (Kap. 25). Daß es Peregrinos in der Tat nicht sehr ernst mit dem Vorbild dieser indischen Weisen nahm, kann wiederum Lukian bestätigen. Denn einige Zuschauer kamen zu spät zu dem Spektakel, weil sich Peregrinos nicht an das von den Brahmanen vorgegebene Ritual gehalten hatte.40 Zu den letzten Worten des Kynikers gehörte außerdem eine Anrufung der väterlichen Manen, daß sie ihn nach seinem Tode aufnehmen mögen. Nach Meinung des Autors kann es sich hier angesichts seines eingangs geschilderten Vatermordes (vgl. Kap. 10) jedoch nur um einen geschmacklosen Witz handeln (Kap. 36–37). 39) Vgl. dazu auch Schwartz (wie Anm. 4) 103. 40) Kap. 39. Möglicherweise entspricht der indische Einschlag (Brahmanen, Phoinix) in der Lehre des Peregrinos tatsächlich den historischen Gegebenheiten. So soll auch der Kyniker Demetrius sein Leben unter den Brahmanen beendet haben. Vgl. dazu Hornsby (wie Anm. 2) 70 f. und Hall (wie Anm. 2) 179 f.
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In gleicher Weise wird zu guter Letzt auch die Beschreibung seines Nachlebens diesem Schema angepaßt. Zunächst einmal vermutet Lukian, daß Peregrinos auch nach seinem Tod noch religiöse Verehrung zuteil wird. So werden aller Wahrscheinlichkeit nach einige Leute behaupten, Bienen bei dessen Grab gesehen zu haben (Kap. 41), wie man sie auch von der Grotte auf Kreta kennt, in der Zeus aufwuchs.41 Doch Lukian hat uns selbst vorgeführt, was es mit diesen Wundergeschichten auf sich hat: Nach der Selbstverbrennung hat er einigen Leuten, die ihm besonders naiv erschienen, verschiedene von ihm selbst erfundene Geschehnisse im Zusammenhang mit dem Tod des Peregrinos erzählt, nur um nachher festzustellen, daß sie von der Masse für wahr gehalten werden und damit zur Verklärung des Peregrinos beitragen (Kap. 39–40). Hier zeigt sich: Die Basis für diese religiöse, zeusgleiche Verehrung ist Peregrinos’ eigene Erfindungsgabe sowie die Naivität der Leute. Weiterhin ist es auch um dessen philosophisches Nachleben nicht besser bestellt. Während die drei Vorbilder Sokrates, Antisthenes und Diogenes selbst schon eine beeindruckende Lehrer-SchülerKonstellation einer bedeutenden Philosophengeneration darstellen, muß Peregrinos auch in diesem Punkt um sein Andenken fürchten. Denn seine Schüler sind wie er nur Blender und Scheinphilosophen. Sie treiben Peregrinos zu seiner Tat an, sind aber selbst keineswegs bereit, es ihm nachzutun (Kap. 24; 26; 37). Sie wollen von seinem Ruhm profitieren, folgen ihm aber nicht in seiner Lehre. Ihre wahre Natur manifestiert sich darüber hinaus auch in ihrem öffentlichen Auftreten, wie das Beispiel des Theagenes zeigt. Seine Reden sind durch Geschrei und Diffamierungen gekennzeichnet (Kap. 3; 5; 31), so wie man es auch von anderen lukianischen Scheinphilosophen kennt (Fug. 14; Icar. 30), die nicht durch Inhalte, sondern nur durch Show-Effekte auffallen wollen. Angesichts dieses Hintergrundes kann es einem um das religiösphilosophische Erbe des Peregrinos schon fast leid tun. Und schließlich fügen sich auch die am Ende der Schrift angehängten Abschnitte aus dem Leben des Peregrinos, die auf den ersten Blick nur eine weitere Ansammlung von Invektiven darzustellen scheinen, nahtlos in die Intention Lukians. So berichtet er uns, daß er selbst miterlebt habe, wie sich Peregrinos auf einer 41) Die Gottwerdung des Peregrinos ist in diesem Ereignis impliziert. Vgl. dazu Schwartz (wie Anm. 4) 111.
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Schiffsreise einen Lustknaben hielt, unter dem Vorwand, ihm Anleitung in kynischer Philosophie zu geben (Kap. 43). Selbstverständlich ist diese Aktion kaum vereinbar mit dem kynischen Ideal der sexuellen Enthaltsamkeit (vgl. Stob. 4,29a,19; Diog. Laert. 6,46.69). Möglicherweise hat Peregrinos jedoch auch nur das Verhältnis seines Vorbildes Sokrates zu Alkibiades falsch aufgefaßt, wenngleich natürlich in einem ihm selbst genehmen Sinne. Weiterhin befürchtete Peregrinos, bei einem bald darauf aufkommenden Seesturm zu sterben.42 Folglich erweist sich sein Anspruch, durch die Selbstverbrennung in Harpina das kynische Prinzip der Todesverachtung zu demonstrieren (vgl. Stob. 4,29a,19; Epikt. 1,24,6), als wenig glaubwürdig. Bei anderer Gelegenheit erfuhr Lukian, daß sich Peregrinos wenige Tage vor seiner Selbstverbrennung regelrecht überfressen hatte, so daß er dem Tode nahe war (Kap. 44). Auch in diesem Punkt handelt Peregrinos einem weiteren kynischen Prinzip zuwider, nämlich dem der körperlichen Enthaltsamkeit (vgl. Stob. 3,6,41; Diog. Laert. 6,51). Die Folie des Diogenes und des Sokrates beweist somit auch hier, daß Peregrinos nur ein Scheinphilosoph ist. Dieser Überblick dürfte gezeigt haben, daß sowohl der Vortrag des unbekannten Redners als auch die Erzählungen Lukians einer bestimmten Zielsetzung folgen: Peregrinos soll als religiöser und philosophischer Blender präsentiert werden, der keiner inneren Berufung nachgeht, sondern einzig von seiner Ruhmsucht angetrieben wird. Dabei dient die Rede des Theagenes als Ausgangspunkt.43 Sie wurde zur Vorlage genommen, um Peregrinos 42) Bisweilen wird diese Passage in der Lukianforschung wörtlich verstanden, also als Beleg für eine weitere Begegnung beider Personen. Vgl. z. B. J. Schwartz, Biographie de Lucien de Samosate, Brüssel-Berchem 1965, 19, Jones (wie Anm. 3) 132 oder H.-G. Nesselrath, Lukian: Leben und Werk, in: Lukian: Filoceude›w µ ÉApist«n: Die Lügenfreunde oder: Der Ungläubige, Darmstadt 2001, 14 Anm. 9. Möglicherweise handelt es sich hier aber auch um einen literarischen Topos. So heißt es von Pythagoras, daß seine Askeseübungen während einer Schiffsreise Ursache für eine unerwartet ruhige See waren (Iamblich, Vita Pyth. 16). Man beachte weiterhin, daß der Seesturm als typisierte Szene fungieren konnte, um charakteristische Verhaltensweisen eines Philosophen zu veranschaulichen. Vgl. O. Overwien, Die Sprüche des Kynikers Diogenes in der griechischen und arabischen Überlieferung, Stuttgart 2005, 275 f., 294 Anm. 187. 43) Auch R. Reitzenstein, Hellenistische Wundererzählungen, Darmstadt 2 1963, 37 erkannte die Bedeutung dieser Rede. Er interpretiert sie als spöttische Umwandlung einer tatsächlich verfaßten Hagiographie des Theagenes, auf die Lukian nun mit seiner eigenen Schrift reagiert, was jedoch kaum zu beweisen sein dürfte.
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sukzessive zu überführen. Zum einen werden sämtliche biographischen Details auf ihren Wahrheitsgehalt hin untersucht. Bei näherer Betrachtung stellen sie sich jedoch als äußerst kontraproduktiv heraus. Sie bezeugen gerade nicht die religiös-philosophische Grundüberzeugung des Kynikers, sondern vielmehr die Versuche, seine Verbrechen zu kaschieren bzw. seine Karriere zu fördern. Genausowenig hat sich zum anderen der Vergleich mit Diogenes, Antisthenes, Sokrates und Zeus als haltbar erwiesen. Indem Lukian jeder Handlung, jeder Äußerung des Peregrinos die genannten Personen entweder ganz konkret als Spiegel vorhält oder zumindest deutlich auf diese anspielt, weist er nach, daß Peregrinos deren Idealen gerade nicht gerecht wird. Dieses doppelte Vorgehen ist als zugrundeliegendes Argumentationsmuster der Schrift De Morte Peregrini zu betrachten, aus dem die Abfolge der einzelnen Passagen verständlich wird. I.3 Vor diesem Hintergrund können wir konstatieren, daß nicht nur der Aufbau, sondern auch der Argumentationsgang ein durchdachtes Vorgehen Lukians erkennen lassen. Wenden wir uns nun noch einem dritten Aspekt zu, nämlich der Frage, ob auch der Titel zur Konzeption dieser Schrift paßt. So hat Jacques Schwartz (wie Anm. 4, 62) bisher unwidersprochen die These aufgestellt, daß der Titel De Morte Peregrini nicht sehr geschickt gewählt sei, da er nur einen Teil des Inhalts und damit auch nur einen Teil der Intention des Autors abdecke. Auf den ersten Blick erscheint dieses Urteil durchaus plausibel. Der Selbstmord bildet nur einen kleinen Bestandteil der Erzählung (Kap. 36) und wird noch nicht einmal an prominenter Stelle aufgeführt, also z. B. am Ende. Außerdem geht es Lukian um die Person des Peregrinos insgesamt, nicht nur um seinen inszenierten Selbstmord. Gleichwohl läßt sich zeigen, daß der Titel sowohl zum Argumentationsgang als auch zur literarischen Vorgehensweise Lukians paßt. a) Argumentationsgang: Lukian will, wie schon mehrfach erwähnt (siehe oben I.2), Peregrinos als Scheinphilosophen und religiösen Blender entlarven. In diesem Zusammenhang gilt es zu beachten, daß nach antiker Vorstellung in der Todesstunde noch einmal die Haltung zum Vorschein kommt, die die betreffende Per-
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son schon zu Lebzeiten kennzeichnete.44 Das bedeutet im vorliegenden Fall: im Tode ein Scharlatan, im Leben ein Scharlatan. Beweist Lukian durch die Behandlung der biographischen Passagen andererseits, daß der Kyniker schon sein ganzes Leben über ein Blender war, dann gilt das auch für seine Selbstmordinszenierung. Das eine bedingt das andere. Der ‚Tod des Peregrinos‘ erfüllt aus antiker Sicht demnach prinzipiell dieselbe Intention wie eine Schrift mit dem Titel ‚Das Leben des Peregrinos‘, in der z. B. die entsprechend gestalteten Stationen des Protagonisten bei den Christen oder beim Kyniker Agathobulos im Mittelpunkt stünden. b) Daß Lukian im vorliegenden Fall jedoch guten Grund hatte, den Titel De Morte Peregrini zu wählen, erklärt sich aus seiner literarischen Vorgehensweise. Es ist ein Charakteristikum des Autors, daß er in seinen Schriften auf allseits bekannte literarische Vorbilder rekurriert.45 Nun ist eine derartige Vorlage für De Morte Peregrini insbesondere im Hinblick auf die inhaltliche oder szenische Ausgestaltung bisher noch nicht benannt worden, doch es hat ganz den Anschein, daß sich der Samosatener im vorliegenden Fall am platonischen Phaidon orientiert hat, also an der Darstellung der letzten Stunden des Sokrates. Verschiedene Anspielungen legen diesen Schluß nahe: – Der Ausruf des Theagenes „Dieses Götterbild wird sich von den Menschen fortbegeben zu den Göttern . . . und uns dabei als Waisen zurücklassen“ (Kap. 6: §j ényr≈pvn efiw yeoÁw tÚ êgalma toËto ofixÆsetai . . . ÙrfanoÁw ≤mçw katalipÒn) ist ganz offensichtlich aus einer Bemerkung des Sokrates: „Ich werde fortgehen zu irgendwelchen Glückseligkeiten der Götter“ (115d: ofixÆsomai épi∆n efiw makãrvn dÆ tinaw eÈdaimon¤aw) sowie aus dem darauffolgenden Wehklagen seiner Schüler: „Unseres Vaters beraubt werden wir unser restliches Leben als Waisen führen“ (116a: patrÚw sterhy°ntew diãjein Ùrfano‹ tÚn ¶peita b¤on) zusammengesetzt.46 – Lukian kritisiert den Selbstmord des Peregrinos mit dem Argument, daß man den Tod erwarten müsse und gerade nicht aus dem Leben entfliehen dürfe. Im Phaidon weist Sokrates die Selbst44) Vgl. dazu W. Hertz, Die Todesarten griechischer Denker und Dichter in der sagenhaften Überlieferung der Alten, in: Gesammelte Abhandlungen von Wilhelm Hertz, hrsg. v. F. von der Leyen, Stuttgart/Berlin 1905, 312 ff. 45) Vgl. dazu F. W. Householder, Literary quotation and allusion in Lucian, New York 1941 und vor allem Bompaire (wie Anm. 5). 46) Zur zweiten Stelle vgl. auch Plooij-Koopman (wie Anm. 4) 61.
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tötung des Philosophen an sich mit derselben Haltung, ja zum Teil sogar mit denselben Worten zurück.47 Diesen vornehmlich inhaltlich-wörtlichen Anspielungen lassen sich weitere Stellen hinzufügen, die auf den Phaidon vor allem in szenischer Hinsicht rekurrieren: – Der Phaidon wird durch zwei Fragen des Echekrates an Phaidon eingeleitet, die unmittelbar auf den Tod des Sokrates hinweisen: „Was hat der Mann denn nun vor seinem Tod gesprochen? Und wie ist er gestorben?“48 Auch Lukian berichtet dem Adressaten seiner Schrift, Kronios,49 gleich zu Beginn vom Thema seiner Schrift, also von der Selbstverbrennung des Peregrinos (Kap. 1). Lukian und Phaidon geben außerdem an, das Ableben des Peregrinos bzw. des Sokrates persönlich miterlebt zu haben. Sie sind somit beide unmittelbare Zeugen des Todes.50 – Die Beschreibung des Gefängnisaufenthaltes in Syrien (Kap. 12) stellt bereits eine Phaidon-Nachahmung im kleinen dar. Dort heißt es, daß die Wächter bestochen waren (vgl. Kriton 43a), daß ihn Frauen und Kinder besuchten und daß heilige Worte gesprochen wurden. Die Bezeichnung ‚Neuer Sokrates‘, die Peregrinos in diesem Rahmen erhält, weist explizit auf die Vorlage hin. Allerdings wird bei Platon die Sterbeszene ungleich erhabener geschildert. Sokrates befiehlt Kriton, seine Frau und seinen Sohn hinauszuführen (Phaidon 60a), da sich insbesondere Xanthippe der Situa47) Lukians Kommentar lautet: §xr∞n d°, o‰mai, mãlista m¢n perim°nein tÚn yãnaton ka‹ mØ drapeteÊein §k toË b¤ou (Kap. 21). Im Phaidon heißt es: ka‹ oÈ de› dØ •autÚn §k taÊthw lÊein oÈdÉ épodidrãskein (62 b; vgl. 62e: éllÉ ˜ti mãlista param°nein). Vgl. dazu auch Bernays (wie Anm. 18) 57. Das Argument Lukians bringt ein Dilemma in der Lehre des Peregrinos zum Vorschein. Während Sokrates bzw. Platon den Selbstmord ablehnten, befürworteten ihn Antisthenes (Athen. 157b) und Diogenes (Diog. Laert. 6,76–77) unter bestimmten Voraussetzungen ausdrücklich. Vgl. H. Ebeling, Selbstmord, Historisches Wörterbuch der Philosophie, Bd. IX, Basel 1995, 494 f. 48) t¤ oÔn dÆ §stin ëtta e‰pen ı énØr prÚ toË yanãtou; ka‹ p«w §teleÊta; (Phaidon 57a). 49) Über den Adressaten Kronios ist in der Forschung viel spekuliert worden (vgl. z. B. Schwartz [wie Anm. 4] 84; Macleod [wie Anm. 4] 270 f.; Clay [wie Anm. 6] 3434). Unabhängig davon, ob es sich bei Kronios überhaupt um eine historisch faßbare Person handelt, läßt sich immerhin konstatieren, daß Lukian durch den an ihn gerichteten Gruß eÔ prãttein zumindest den platonischen Hintergrund seiner Schrift anzudeuten scheint. 50) Kap. 2: §g∆ d¢ parå tÚ pËr . . . e‰pon. Phaidon 57a: pareg°nou Svkrãtei. Zur Bedeutung von parag¤gnomai an dieser Stelle vgl. Plato’s Phaedo, ed. by J. Burnet, Oxford 1911, 2.
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tion unangemessen verhält und das folgende Gespräch nur stören würde, bei dem im übrigen keine heiligen Worte fallen, sondern in ernsthafter Weise über ein zentrales Thema der Philosophie, über die Seele, disputiert wird. – Kriton versucht in seiner Trauer Sokrates dazu zu bewegen, seinen Tod wenigstens noch ein paar Stunden aufzuschieben (Phaidon 116e). Hier kommt die tiefe Verbundenheit gegenüber seinem Freund zum Ausdruck. Doch Sokrates weiß, daß seine Seele nicht sterben, sondern in einem unkörperlichen Zustand weiterleben wird.51 Er sieht keine Veranlassung dazu, sein Ableben noch weiter aufzuschieben, und geht ihm daher gefaßt und aus voller Überzeugung entgegen.52 Peregrinos wird dagegen von seinen Schülern zum Selbstmord angetrieben, da sie sich von dieser Tat Ruhm für ihre eigene Gruppierung versprechen (Kap. 26), während der Kyniker selbst aus lauter Angst vor seinem bevorstehenden Ableben den Tag der Selbstverbrennung ständig verschiebt (Kap. 35). – An einer Stelle weist uns Lukian selbst auf seine Platonnachahmung hin, wenn er die Anhänger des Kynikers dafür verspottet, daß sie sich um den Scheiterhaufen herum versammelt haben, wie es die Schüler des Sokrates im Gefängnis taten.53 Natürlich steckt in diesen Reminiszenzen literarisches Spiel. Lukian benutzt sie, um seine Bildung, seine Kenntnis der klassischen Vorbilder zu demonstrieren. Doch sie dienen ganz offensichtlich noch einem weiteren, einem tiefergehenden Zweck. Durch diese Gegenüberstellung setzt der Autor seine schon in Abschnitt I.2 herausgearbeitete Intention fort, den Hauptdarsteller vor der Folie eines seiner Vorbilder, in diesem Fall des Sokrates, als Scharlatan zu erweisen. Denn Peregrinos folgt gerade nicht dessen Anschauung, daß der Selbstmord des Philosophen abzulehnen sei (Kap. 21). Sein Drang zur Selbsttötung dient außerdem einzig der Befriedigung der eigenen Ruhmsucht. Er benutzt sogar die obskure Sekte der Christen, um sein Ziel zu erreichen und um mit ihnen seinen Abgang wie im Phaidon zu zelebrieren (Kap. 12). Wie 51) Vgl. Phaidon 115d. Vgl. dazu Ch. Gill, The death of Socrates, CQ 23 (1973) 27. 52) Vgl. G. Kloss, Sokrates, ein Hahn für Asklepios und die Pflege der Seelen, Gymnasium 108 (2001) 233 f. und Platon, Phaidon, Übersetzung und Kommentar v. Th. Ebert, Göttingen 2004, 458. 53) Kap. 37: perim°nete ¶stÉ ín grafeÊw tiw §pely∆n épeikãs˙ Ímçw o·ouw toÁw §n t“ desmvthr¤ƒ •ta¤rouw t“ Svkrãtei paragrãfousin;
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weit sich Peregrinos in dieser Situation von seinem Vorbild Sokrates entfernt hat, zeigt die Tatsache, daß der Gouverneur, ein Mann der Philosophie (!), sein Treiben durchschaute und ihn wieder aus dem Gefängnis entließ.54 Peregrinos hat außerdem in Wahrheit Angst vor dem Tod, da seine Tat nicht wie bei Sokrates auf philosophischer Reflexion beruht, sondern einzig auf seiner Geltungssucht (Kap. 35). Weiterhin präsentieren sich seine Schüler an seinem Grab nicht andächtig und angemessen würdevoll wie die Schüler des Sokrates, sondern lassen sich von Lukian provozieren, drohen ihm und schreien herum, ganz so, wie man es von den Nachfolgern eines Blenders erwarten konnte. (Im folgenden Abschnitt II. erfährt diese Szene noch einmal eine gesonderte Betrachtung.) Besonders aufschlußreich ist schließlich eine Bemerkung des Samosateners, in der die platonische Vorlage ganz explizit zum Vorschein kommt. Der Phaidon (118a) endet mit folgenden Worten: ¥de ≤ teleutÆ . . . toË •ta¤rou ≤m›n §g°neto, éndrÒw, …w ≤me›w fa›men ên, t«n tÒte œn §peirãyhmen ér¤stou ka‹ êllvw fronimvtãtou ka‹ dikaiotãtou. Dies . . . war das Ende unseres Freundes, eines Mannes, der, wie wir wohl sagen dürfen, unter seinen Zeitgenossen, mit denen wir in Berührung kamen, der beste war und auch sonst ein Muster an Vernunft und Gesetzestreue.55
Lukian äußert sich dagegen abschließend mit diesen Worten (Kap. 42): toËto t°low toË kakoda¤monow Prvt°vw §g°neto, éndrÒw, …w braxe› lÒgƒ perilabe›n, prÚw élÆyeian m¢n oÈdep≈pote épobl°cantow, §p‹ dÒj˙ d¢ ka‹ t“ parå t«n poll«n §pa¤nƒ ëpanta efipÒntow afie‹ ka‹ prãjantow. Dies war das Ende des unglückseligen Proteus, eines Mannes, der, um es kurz zu halten, niemals auf die Wahrheit schaute, sondern alle seine Worte und Taten beständig darauf ausrichtete, berühmt und von der Masse bewundert zu werden.56
54) Kap. 14: éndrÚw filosof¤& xa¤rontow. Im übrigen ist für diese Zeit auch anderweitig belegt, daß Christen nur allzu bereit waren, im Gefängnis zu sterben, und daher der Einfachheit halber wieder entlassen wurden (vgl. Jones [wie Anm. 2] 308). 55) Zur Übersetzung von dikaiotãtou vgl. Ebert (wie Anm. 52) ad loc. 56) Vgl. zu dieser Stelle auch Macleod (wie Anm. 4) 275.
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Diese Reminiszenz verdeutlicht die Intention der lukianischen Phaidon-Nachahmung noch einmal besonders anschaulich. Auf der einen Seite steht Sokrates, der sich noch in seiner Todesstunde seiner Profession gemäß verhält und als Ideal des Philosophen bezeichnet wird. Er dient als Folie für Peregrinos, den Scheinphilosophen schlechthin. Dessen Wesen ist dadurch gekennzeichnet, daß er niemals auf die Wahrheit schaut57 und einzig seiner Ruhmsucht folgt, ja selbst seinen Tod dazu benutzt, diese zu befriedigen. Dieses zuletzt genannte Motiv ist in De Morte Peregrini nicht zufällig gewählt. Indem Lukian über die ganze Schrift hinweg immer wieder darauf zu sprechen kommt,58 zeigt er, daß Peregrinos Proteus keiner Berufung nachgeht, nicht aus tiefer Überzeugung handelt, sondern einzig zum Zwecke der eigenen Selbstdarstellung. Mit Philosophie hat diese Einstellung natürlich nichts gemein und mit dem Vorbild des Sokrates schon gar nicht. Diesem platonischen ‚Tod des Sokrates‘ stellt Lukian sein eigenes Werk gegenüber, in dem sich die Geschehnisse in vergleichbarer Weise auf die letzten Tage seines Hauptdarstellers bzw. auf dessen Selbstverbrennung konzentrieren.59 Insofern ist die Wahl des Titels auch von dieser Warte aus gerechtfertigt. Und ganz nebenbei erklärt diese literarische Nachahmung auch noch die schon unter I.1 angedeutete komplexe Struktur der Schrift. Denn es hat seinen guten Grund, daß uns der Autor die Vorgeschichte des Peregrinos entweder in der Rede des Unbekannten darbietet (Kap. 7– 31), die wenige Tage vor dem Selbstmord gehalten wurde, oder in Form von invektivischen Zusätzen, die er scheinbar ungeschickt 57) Das Schauen auf die Wahrheit stellt für Lukian eines der zentralen Kennzeichen der wahren Philosophie dar (Fug. 5). 58) Vgl. Schwartz (wie Anm. 4) 85. 59) Lukian hat den Phaidon auch in anderen Schriften als Vorlage herangezogen, wenngleich dort der Bezug zur Diskussion des Sokrates mit seinen Schülern über die Unsterblichkeit der Seele stärker betont wird. So basieren z. B. die Philopseudeis auf einer Gesprächsrunde am Krankenbett des Eukrates, bei der zahlreiche Wundergeschichten präsentiert werden. Vgl. dazu M. Ebner, Einleitung, in: Lukian: Filoceude›w µ ÉApist«n: Die Lügenfreunde oder: Der Ungläubige, Darmstadt 2001, 36 ff. und D. Ogden, Eucrates and Demainete: Lucian Philopseudeis 27–8, CQ 54 (2004) 484 Anm. 2. In den Verae Historiae scheint Lukian dagegen auf die mythischen Exkurse des Sokrates anzuspielen (vgl. P. v. Möllendorff, Auf der Suche nach der verlogenen Wahrheit: Lukians „Wahre Geschichten“, Tübingen 2000, 546 ff.). Zur Bedeutung Platons und seiner Schriften für Lukian vgl. auch Householder (wie Anm. 45) 41, 62 und R. Branham, Unruly eloquence, Cambridge/London 1989, 65 ff.
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am Ende der Schrift noch anfügt (Kap. 43–45). Denn durch diesen Kunstgriff konnte der Samosatener die chronologische Einheit der von ihm dargestellten Sterbeszenerie beibehalten, die sich auf die Geschehnisse in Elis, Olympia und Harpina beschränkt. Hier zeigt sich einmal mehr, wie eng verwoben die einzelnen literarischen Ebenen lukianischer Schriften sind. Es wurde versucht zu zeigen, daß De Morte Peregrini sowohl in inhaltlicher als auch in literarischer Hinsicht ein zielgerichtetes Vorgehen des Verfassers erkennen läßt. Lukian hat sich auch in dem vorliegenden Fall als literarisch versierter Autor erwiesen, der ein komplexes, aus verschiedenen lukianischen Mustern bestehendes Gesamtgefüge mit Passagen aus griechischen Klassikern verbunden hat, um seine eigene Position gegenüber einem Zeitgenossen kundzutun. Die Schrift ist ein weiteres Beispiel für sein Vorgehen, aus zum Teil ganz heterogenen Elementen ein homogenes Ganzes zu schaffen. Es ist leicht einsichtig, daß es schwierig ist, aus einem Werk die historischen Hintergründe herauszufiltern, das sich in erster Linie literarischen Gesetzmäßigkeiten verpflichtet fühlt und zudem voll von persönlichen Wertungen und Invektiven ist. Denn Lukian ist zuvorderst ein Literat, der die historischen Fakten sowohl den literarischen Notwendigkeiten als auch dem Argumentationsgang anpaßt. Dies gilt auch für seine eigene Person,60 und daher ist besondere Vorsicht geboten, wenn er vorgibt, persönlich in die Geschehnisse involviert gewesen zu sein. II. Lukian als Feind? Die zahlreichen Beleidigungen und Invektiven, die in De Morte Peregrini enthalten sind, lassen zunächst vermuten, daß Lukian tatsächlich eine tiefe Abneigung gegenüber Peregrinos hegte, zumal er seine Haltung noch dadurch unterstreicht, daß er über dessen Leichnam spottet und sich im Anschluß daran beinahe mit den kynischen Gefolgsleuten seines Protagonisten prügelt (Kap. 37). Um die genaue Bedeutung bzw. den Realitätsgehalt dieser Passage zu erfassen, reicht es jedoch nicht aus, sie isoliert zu betrachten. Vielmehr ist es auch hier angeraten, sich nach möglichen Parallelen im Œuvre Lukians umzuschauen, wobei in diesem Fall insbeson60) Dies hat beispielsweise Anderson (wie Anm. 5) 80 ff. herausgearbeitet.
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dere der Vergleich mit dem Alexander einige interessante Beobachtungen zutage fördert. Beide Schriften dienen dazu, einen berühmten Zeitgenossen als Scharlatan zu entlarven. Und beide Male präsentiert sich Lukian als Feind, der seinen Gegnern sogar persönlich gegenübertritt: dort dem Kultgründer Alexander von Abonuteichos, hier den Anhängern des Peregrinos Proteus. Gleichwohl verlaufen diese Treffen keineswegs parallel, was jedoch, wie sich zeigen läßt, durch ihre unterschiedlichen Funktionen begründet ist. In De Morte Peregrini ist wiederholt von einer tragödienhaften Selbstmordinszenierung des Peregrinos die Rede. Als Vorbild diente dem Kyniker ganz offensichtlich die aus dem Mythos bekannte Selbstverbrennung des Herakles (Kap. 33).61 Lukian läßt dagegen nichts unversucht, diese Inszenierung durch seine eigene Darstellung der bisherigen Aktivitäten des Peregrinos zu konterkarieren bzw. ins Komödienhafte zu verzerren.62 Schließlich steht Lukians Protagonist auf dem Scheiterhaufen und legt seine kynische Ausstattung ab (Kap. 36). Was auf den ersten Blick wie eine unverdächtige, nachvollziehbare Handlung aussieht, erscheint vor einer Parallele aus dem Piscator (Kap. 46) in einem ganz anderen Licht. Dort erhält Parrhesiades den Auftrag, dem Scheinphilosophen sein trib≈nion herunterzureißen. Übertragen auf die vorliegende Schrift bedeutet dies, daß sich Peregrinos auf dem Scheiterhaufen selbst demaskiert. Seine tragödienhafte Inszenierung ist hier vollends in ihr Gegenteil verkehrt.63 Doch vom Moment der Selbstverbrennung an ist sein Protagonist tot. Also muß das Geschehen von nun an aus der Sicht Lukians oder genauer: aus der Sicht 61) Diese Art der Inszenierung muß als zeittypisch angesehen werden. Denn es ist auch für andere Autoren der frühen Kaiserzeit belegt, daß sie sich über das theatralische Gebaren von Märtyrern beklagen. Vgl. Hornsby (wie Anm. 2) 179. Des weiteren waren gerade die Sophisten für ihre tragödienhaften Auftritte bekannt. Vgl. Clay (wie Anm. 6) 3416 ff. 62) Viele der von Lukian angeführten Punkte wie der Ehebruch (Kap. 9), der Vatermord (Kap. 10) u. ä. erklären sich aus diesem Vorgehen. Sie bilden eine weitere Ebene, die man bei der Interpretation der Schrift unbedingt mitberücksichtigen muß. Vgl. dazu die Ausführungen von H. Niehues-Pröbsting, Der Kynismus des Diogenes und der Begriff des Zynismus, München 1979, 201 ff. und jetzt auch Hansen (wie Anm. 13), der treffend von einer „Gegeninszenierung“ spricht. 63) Das schmutzige Gewand, das Peregrinos noch anbehält (Kap. 35: ÙyÒnh =up«sa), erscheint außerdem in den Fugitivi (Kap. 33) ebenfalls im Zusammenhang mit Scheinphilosophen. Zu weiteren Stellen, an denen Scheinphilosophen allgemein als schmutzig bezeichnet werden, vgl. H.-G. Nesselrath, Lukians Parasitendialog, Berlin/New York 1985, 451.
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des Ich-Erzählers geschildert werden, um auch das Nachleben des Kynikers ins rechte Licht zu rücken. Dies gilt für die Wundergeschichten, die die überirdische Macht, vor allem aber die Vergöttlichung des Peregrinos bezeugen sollen, die jedoch, wie Lukian anschaulich demonstriert, auf Erfindungen bzw. auf der Naivität der Leute beruhen (Kap. 39–40). Dies gilt aber auch für die auf die Selbstverbrennung unmittelbar folgende Szene mit den Peregrinosschülern (Kap. 37). Wie schon erwähnt, spielt Lukian hier ausdrücklich auf den Phaidon an. Doch diese literarische Vorlage dient nicht nur dazu, Peregrinos vor der Folie des Sokrates als Blender zu entlarven (siehe oben I.3), sie beweist auch, daß seine Nachfolger vom selben Schlage sind. Zunächst sieht alles nach einer würdevollen, fast schon erhabenen Trauerrunde aus, wie wir sie aus dem Phaidon kennen. Doch Lukian kennt seine Gegner besser. Zum Beweis provoziert er ganz bewußt einen Streit mit ihnen. Diese reagieren daraufhin äußerst ungehalten und drohen ihm mit ihren Kynikerstäben. Es kann kein Zufall sein, daß genau dieses aggressive Verhalten für Lukian den Scheinphilosophen charakterisiert (vgl. Fug. 11; Pisc. 44). Als er seinerseits ihre Drohungen erwidert und ihnen ankündigt, sie ins Feuer zu werfen, beruhigen sie sich umgehend. Denn sie fürchten den Tod und wollen dem Vorbild ihres Meisters unter keinen Umständen folgen. Ihre Lehre widerspricht folglich ihrem Leben. Auch sie sind Scheinphilosophen, was die Inszenierung Lukians als Feind deutlich ans Licht gebracht hat. Im Alexander herrscht dagegen von Anfang an Krieg, Krieg zwischen den Epikureern, Christen und anderen verständigen Menschen auf der einen und Alexander von Abonuteichos und seinen Anhängern auf der anderen Seite. Schließlich ist auch Lukian persönlich in der Allianz der Alexandergegner zu finden. Er wird ausdrücklich als dessen schlimmster Feind bezeichnet,64 und gegen Ende der Erzählung kommt es zu einem Treffen der beiden Kontrahenten, bei dem sich Lukian jedoch unvermittelt ziemlich handzahm zeigt und sogar bereit ist, sich angesichts der überlegenen Position seines Gegners als Freund auszugeben (Kap. 55). Die Ursache für diese wundersame Metamorphose liegt im Tenor der Schrift be64) Kap. 54: ˜lvw ¶xyistow efikÒtvw ∑n §g≈. Vgl. dazu die Ausführungen von Branham (wie Anm. 59) 196 ff. und jetzt auch J. Gerlach, Die Figur des Scharlatans bei Lukian, in: Lukian, Der Tod des Peregrinos (wie Anm. 4), dem ich ganz herzlich dafür danke, daß er mir sein Manuskript vor der Drucklegung zur Verfügung gestellt hat.
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gründet: Lukian verdeutlicht dem Adressaten seines Werkes, dem Epikureer Kelsos (vgl. Kap. 61), wie sich seiner Meinung nach ein vorbildlicher Anhänger seiner Lehre verhalten sollte. So darf dieser zwar den Aberglauben seiner Zeitgenossen anprangern, sollte jedoch unter keinen Umständen dafür sein Leben riskieren und damit seine innere Ataraxie gefährden.65 Als Gegenbeispiel wird einige Episoden vorher ein anonymer Epikureer erwähnt, der ganz allein auf direkten Konfrontationskurs zu Alexander ging, diesen und seinen Kult öffentlich kritisierte und von dessen Anhängern beinahe getötet worden wäre, zu Recht, wie Lukian findet: „Denn warum mußte er als einziger seinen Verstand bewahren unter so vielen Wahnsinnigen und bei dieser Gelegenheit noch Schaden davontragen durch die Dummheit der Paphlagonier?“66 Der Vergleich dieser beiden Stellen aus De Morte Peregrini und dem Alexander zeigt anschaulich: dieselbe Szene, doch die geschilderte Haltung Lukians ist grundverschieden. Diese Diskrepanz erklärt sich aus der jeweiligen Intention der Stelle und im weiteren auch aus der Konzeption der gesamten Schrift. Folglich ist sogar sein Auftritt als Feind zu einem lukianischen Muster geworden, das variabel eingesetzt und den Gegebenheiten angepaßt werden kann. Der Samosatener wird dadurch selbst zu einem literarischen Bestandteil seiner eigenen Schriften.67 Es läßt sich nicht mit letzter Sicherheit bestimmen, aus welchen Gründen Lukian seine Schrift De Morte Peregrini verfaßt hat. Natürlich gilt es auf der einen Seite zu beachten, daß sein Werk auf eine typische zeitgenössische Erscheinung reagiert. Denn in den 65) In gleicher Weise verläßt der epikureisch gestaltete Tychiades in den Philopseudeis die Versammlung der Wundergeschichtenerzähler, obwohl er niemanden von der Wahrheit überzeugt hat. Er will jedoch vermeiden, persönlich Schaden davonzutragen (Kap. 39). Der Hintergrund dieser Haltung ist wohl im obersten Ziel epikureischer Philosophie zu suchen, nach der Lust zu streben und geistigen und vor allem körperlichen Schmerz zu vermeiden. Vgl. M. Erler, Epikur, in: Die Philosophie der Antike, hrsg. v. H. Flashar, Bd. IV: Die hellenistische Philosophie, Basel u. a. 1994, 153 ff. 66) Kap. 45: t¤ går ¶dei mÒnon frone›n §n tosoÊtoiw memhnÒsin ka‹ parapolaËsai t∞w PaflagÒnvn mvr¤aw. Zur Bedeutung von parapolaÊv vgl. Thesaurus Linguae Graecae, ab H. Stephano constructus, nach der englischen Ausgabe von K. Hase, Nachdruck Graz 1954, s. v. Die Konjektur von Victor (wie Anm. 12) 163 f. ist unnötig. 67) Wenngleich Szlagor (wie Anm. 2) 199 ff. diese beiden Passagen anders motiviert sieht, kommt auch sie zu dem Schluß, daß man hier zwischen Autor und Erzähler trennen sollte.
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ersten nachristlichen Jahrhunderten war das römische Reich voll von Figuren, die wie Peregrinos als Heilige, Propheten oder auch Gottmenschen galten, denen herausragende Fähigkeiten zugeschrieben wurden und die vielen Menschen als Vorbild dienten, da die traditionelle Philosophie und Religion diese Aufgabe nicht mehr zur Genüge erfüllten.68 Setzt man voraus, daß die Neigung, derartige Personen zu verehren, Lukians rational geprägten Vorstellungen vom Lauf der Dinge fundamental widersprach, muß sein Versuch, Peregrinos als Scharlatan zu entlarven, durchaus als ernstgemeint betrachtet werden. Insofern erlangen wir möglicherweise tatsächlich einen Blick auf die Person des Autors: Lukian als Feind. Auf der anderen Seite wissen wir, daß sich in dieser Zeit zahlreiche Autoren über Scheinphilosophen beklagen.69 Hier stellt sich natürlich die Frage, inwiefern Lukian nur einen literarischen Topos umsetzt. Berücksichtigt man außerdem, daß selbst seine vorgebliche persönliche Beteiligung an dem Geschehen in De Morte Peregrini eine literarische Funktion hat und zumindest in der beschriebenen Form nicht stattgefunden hat,70 so könnte man vor diesem Hintergrund Lukians ablehnende Haltung vielleicht anzweifeln, auf jeden Fall müßte man sie aber in ihrer Ausprägung deutlich relativieren:71 Lukian als Literat. Lukian als Feind? Diese Erkenntnis ist durchaus folgenreich. Sie wirft beispielsweise die Frage auf, inwiefern Lukians Schriften überhaupt dazu geeignet sind, als Fundgrube für die Erstellung einer Lukianbiographie zu dienen. Sie wirft aber auch die Frage nach der literarischen Tradition auf: Von wem hat Lukian diese Technik übernommen, in den eigenen Schriften wechselnde Rollen anzu68) Vgl. dazu G. Anderson, Sage, saint and sophist, London / New York 1994, 3 ff., 34 ff. Auch E. Dodds (Die Griechen und das Irrationale, übers. v. H.J. Dirksen, Darmstadt 1970, 138) sieht in Peregrinos eines von vielen Beispielen für den Aberglauben, für die irrationalen Strömungen dieser Zeit. 69) Hall (wie Anm. 2) 189 ff. In ähnlicher Weise konnte auch beobachtet werden, daß Lukians Klage über einen unfähigen Redelehrer im Rhetorum Praeceptor auffällige Gemeinsamkeiten mit den Ausführungen des Epigrammatikers Ammianus aufweist. Vgl. Jones (wie Anm. 3) 115 f. 70) Bompaire (wie Anm. 5) 477 ff. und Clay (wie Anm. 6) 3445 f. gehen sogar davon aus, daß Lukians vorgebliche persönliche Beteiligung an dem kompletten Geschehen nur literarisches Spiel ist. 71) A. Alexiou (Philosophers in Lucian, Ann Arbor 1990, 146 ff.) vertritt z. B. die These, daß Lukians Polemiken letztlich nur literarisches Spiel in der Tradition der Komödie seien, also nicht auf seine tatsächliche Haltung schließen lassen.
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nehmen, die keiner historischen Darstellung, sondern einzig seiner literarischen Intention dienen?72 Hier zeigt sich, daß die Beschäftigung mit den Lukianschriften weitaus facettenreicher und komplizierter ist, als es auf den ersten Blick den Anschein hat. Bochum
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72) Möglicherweise kommen hier stilistisch-kompositorische Anforderungen an Literaten bzw. Redner zum Ausdruck, die (wie Lukian) der sogenannten zweiten Sophistik zugerechnet werden. So konnte z. B. unlängst auch für Dion Chrysostomos aufgezeigt werden, daß man in seinen Schriften zwischen biographischem und rhetorischem Ich unterscheiden muß. Vgl. Ch. Krause, Strategie der Selbstinszenierung. Das rhetorische Ich in den Reden Dions von Prusa, Wiesbaden 2003.
EVOLAT AD SUPEROS PORTAQUE EVADIT EBURNA Intertextuelle Strategien und Vergilparodie im Cupido cruciatus des Ausonius Verum quid ego huic eclogae studiose patrocinor? certus sum, quodcumque meum scieris, amabis.1
Diese mit den Regeln der Exordialtopik spielende Überzeugung äußert Ausonius in der Widmungsepistel, die sein gut 100 Hexameter umfassendes Gedicht Cupido cruciatus begleitet und an einen seiner Trierer Vertrauten, Gregorius Proculus, gerichtet ist. Einige Zeitgenossen des Ausonius zollten ihm und seinen Werken – nicht ohne ihrerseits der Topik des Freundes- und Dichterlobs verpflichtet zu sein – diesen Tribut und nannten ihn Seite an Seite mit den Großen der römischen Literatur:2 Kaiser Theodosius stellte ihn in eine Reihe mit den augusteischen Dichtern (und installierte sich dabei zugleich als alter Augustus),3 Quintus Aurelius Symmachus, einer der hochgebildeten Exponenten der heidnischen Opposition im 4. Jh., wußte nicht, ob er die ornamenta oris 1) Auson. Cup. praef. 12 f. Die Zitate aus dem Cupido folgen – mit Ausnahme von Cup. praef. 1 (siehe unten, Anm. 17) – der überarbeiteten Edition von R. P. H. Green, Decimi Magni Ausonii opera, Oxford 1999. 2) Eine Sammlung von Bewertungen des Ausonius in der Antike und in der Forschungsliteratur des 20. Jahrhunderts, aus der auch die folgende Zusammenstellung schöpfen konnte, bei M. J. Lossau, Decimus Magnus Ausonius: Vir bonus, Professor, Hofmann, doch auch Dichter, in: M. J. Lossau (Hrsg.), Ausonius, Darmstadt 1991, 1–10, hier 5 f. Einen diachronen Überblick über die Rezeption des Ausonius mit Literatur in: The works of Ausonius, edited with introduction and commentary by R. H. P. Green, Oxford 1991, xxxii–xl. 3) Dies in einem Brief, auf den Auson. praef. 3 antwortet (abgedruckt in Green 1991 [wie Anm. 2], Appendix B.1, p. 707): quae [scil. scripta] olim mihi cognita et iam per tempus oblita rursum desidero, non solum ut quae sunt nota recolantur, sed etiam ut ea quae fama celebri adiecta memorantur accipiam, quae tu de promptuario scriniorum tuorum, qui me amas, libens imperties, secutus exempla auctorum optimorum, quibus par esse meruisti, qui Octaviano Augusto rerum potienti certatim opera sua tradebant, nullo fine in eius honorem multa condentes (Green 1991, p. 707, 5–12).
Evolat ad superos portaque evadit eburna
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oder die ornamenta pectoris mehr bewundern sollte,4 und Paulinus von Nola meinte in einem seiner poetischen Briefe (vor der Entfremdung mit seinem Lehrer Ausonius), daß es Cicero und Vergil kaum mit ihm aufnehmen könnten.5 Anders gestaltete sich die Bewertung des Ausonius in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts: Für Eduard Norden ist Ausonius ein „flatterhafter Namenchrist, Schöngeist und Tausendkünstler“,6 für Rudolf Helm immerhin ein „liebenswürdiger, aber ganz oberflächlicher Dichter“,7 für Martin Schanz zeichnet sich Ausonius durch „innere Hohlheit“, das Gros seiner Werke durch „entsetzliche Oede“ und „mangelnden Gedankeninhalt“ aus.8 Erst in den 4) Symm. epist. 1,31,1: Merum mihi gaudium eruditionis tuae scripta tribuerunt, quae Capuae locatus accepi. Erat quippe in his oblita Tulliano melle festivitas et sermonis mei non tam vera quam blanda laudatio. Quid igitur magis mirer, sententiae incertus addubito, ornamenta oris an pectoris tui. In der spielerischen Beschwerde, mit keiner Abschrift der Mosella bedacht worden zu sein (Symm. epist. 1,14), vergleicht Symmachus dieses Werk mit den Dichtungen Vergils (Symm. epist. 1,14,5: Iocari me putas atque agere nugas? Ita me diis probabilem praestem, ut ego hoc tuum carmen libris Maronis adiungo.). Zur Bewertung und Interpretation der Briefe des Symmachus an Ausonius (Symm. epist. 1,13–31 und 33–43) vgl. Ph. Bruggisser, Symmaque ou le rituel épistolaire de l’amitié littéraire. Recherches sur le premier livre de la correspondance, Fribourg 1993, 135–337. Bei der Analyse von epist. 1,14 (234–247) blendet Bruggisser jedoch den eindeutig neckend-ironischen Duktus des Briefes aus, was z.T. zu nicht haltbaren Interpretationen (etwa hinsichtlich des amor veri in der Dichtung des Ausonius) führt. 5) Paul. Nol. carm. 11,38 f.: [. . .] vix Tullius et Maro tecum /sustineant aequale iugum [. . . ]. 6) E. Norden, Die römische Literatur, Stuttgart 71998, 163; zuerst in: Die lateinische Literatur im Übergang vom Altertum zum Mittelalter, in: P. Hinneberg (Hrsg.), Die Kultur der Gegenwart, Teil 1, Abt. 8, Berlin/Leipzig 1905, 374–411, hier 399. 7) R. Helm, Heidnisches und Christliches bei spätlateinischen Dichtern, in: R. Helm (Hrsg.), Natalicium (FS Johannes Geffcken), Heidelberg 1931, 1–46, hier 24. 8) M. Schanz, Die römische Litteratur von Constantin bis zum Gesetzgebungswerk Justinians. Erste Hälfte: Die Litteratur des vierten Jahrhunderts, Mün2 chen 1914 (ND 1970), 41. Die Kritik an den Dichtungen des Ausonius zeigt sich dabei stark emotional aufgeladen. Schanz beurteilt sie als „nichtnutzige Tändelei“, „törichte Versifikation“, „eitle Spielerei“, „tändelnde Poesie“ und „poetische[n] Dilettantismus“ (a. a. O. 41–42). Besonderes Unverständnis bringt er dem Cento nuptialis entgegen: „Müssen wir einerseits den Dichter bewundern, dass er den ganzen Vergil ins Gedächtnis aufgenommen hat und über ihn mit souveräner Herrschaft verfügt, so überkommt uns andererseits doch ein gelindes Grauen, wenn wir sehen, dass er seine Vergilkenntnis benutzt, um ein schmutziges Stück zusammenzuleimen“ (a. a. O. 41).
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letzten Jahrzehnten, in denen die Beschäftigung mit der spätantiken Literatur und Geistesgeschichte wieder mehr in den Vordergrund getreten ist, gelangte man zu einem Ausoniusbild, das sich dem Urteil seiner antiken Vertrauten in gewissem Maße annähert: Ist er bei Manfred Joachim Lossau immerhin ein „bemerkenswerter Autor“,9 so äußert sich Green in der Einleitung zu seiner kommentierten Gesamtausgabe enkomiastisch: „He was not only the most brilliant and prolific writer of his age, but one of the most versatile and skilful writers in the history of Latin literature.“10 Die überlieferten Sammlungen seiner Werke weisen in der Tat eine breite varietas an Themen, Gattungen, Stilarten und Metren auf und verdanken ihre Entstehung der umfassenden Kenntnis von und der fruchtbaren Auseinandersetzung mit Autoren und Textmodellen der römischen und auch griechischen Literatur: Ausonius, geboren etwa 310 n. Chr., war in seiner Geburtsstadt Bordeaux 30 Jahre lang als grammaticus und rhetor tätig, bevor er um 364 n. Chr. als Erzieher Gratians an den Trierer Hof berufen wurde. Durch die jahrelange intensive Beschäftigung insbesondere mit der lateinischen Literatur entstand ein besonderer Dialograhmen, in dem seine Werke zu verorten sind. Als omnipräsent zeigen sich dabei die Dichtungen Vergils, deren Rezeption sich in ganz unterschiedlicher Weise und auf verschiedenen intertextuellen Beziehungsebenen gestaltet. Sie reicht von der Übernahme vergilischer Lexik in Allusionen und Zitaten über die Verwendung einzelner Erzählmotive bis hin zur derben Parodie etwa im Cento nuptialis, einer aus Vergilhalbversen zusammengesetzten Schilderung von Hochzeitsvorbereitungen und der folgenden, „horrende indezenten“11 Hochzeitsnacht.12 Eine weitere wichtige Rolle spielen die Werke des flavischen Dichters Statius, dessen Silvae etwa zahlreiche ekphrastische Passagen der Mosella verpflichtet sind,13 und 9) Lossau 1991 (wie Anm. 2) 8. 10) Green 1991 (wie Anm. 2) xv. 11) Lossau 1991 (wie Anm. 2) 3. 12) Zum vielfältigen Einfluß Vergils auf die Werke des Ausonius vgl. etwa W. Schetter, Das Gedicht des Ausonius über die Träume, RhM 104, 1961, 366–378; M. R. Posani, Reminiscenze di poeti latini nella Mosella di Ausonio, SIFC 34, 1962, 31–69; W. Görler, Vergilzitate in Ausonius’ Mosella, Hermes 97, 1969, 94–114 und die Kommentarliteratur zu einzelnen Werken des Ausonius. 13) Vgl. Posani 1962 (wie Anm. 12) und den Kommentar von Green 1991 (wie Anm. 2) 456–514.
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dessen 5. Buch der Thebais auch im Cupido cruciatus sichtbare Spuren hinterlassen hat. Andere von ihm geschätzte und rezipierte Autoren wie etwa Plautus und Terenz, Horaz, Ovid, Martial oder Lucan dürften auch dem zeitgenössischen gebildeten Publikum präsent gewesen sein;14 Ausonius konnte also davon ausgehen, daß die Vielschichtigkeit seiner Texte als Resultat der Kontamination verschiedener, allgemein bekannter Referenztexte von den Lesern auch entschlüsselt werden konnte. Dies insbesondere dann, wenn – wie etwa im Cupido und dem vorgeschalteten Prosabrief – eine Reihe unterschiedlicher Signale für die Rezipienten gesetzt werden. In welchem Maße es dem m o d e r n e n Leser noch möglich ist, einen Einblick in die Polyvalenz ausonianischer Dichtung zu gewinnen, soll der folgende Interpretationsversuch zeigen.15
14) Eine Zusammenstellung von Beiträgen, welche die Rezeption einzelner römischer Autoren in den Werken des Ausonius untersuchen, bei W.-L. Liebermann, § 554. D. Magnus Ausonius, in: Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, Bd. 5: Restauration und Erneuerung, München 1989, 268–308, hier 303 f. Vgl. auch Green 1991 (wie Anm. 2) xx–xxi. Zur Rezeption griechischer Autoren vgl. R. P. H. Green, Greek in Late Roman Gaul: The evidence of Ausonius, in: E. M. Craik (Hrsg.), Owls to Athens: Essays presented to Sir Kenneth Dover, Oxford 1990, 311–319. 15) Analysen und Interpretationsversuche des Cupido cruciatus bieten W. Fauth, Cupido cruciatur, GB 2, 1974, 39–60 (neu abgedruckt in: Lossau 1991 [wie Anm. 2] 376–401; Fauth untersucht das Gedicht relativ textfern primär mit Blick auf einen möglichen Mysterienkonnex und folgert, daß dem Fresko, auf das der Cupido rekurriert, Motive der Mystenpassion im Adoniskult zugrundeliegen); R. M. Lucifora, Il Cupido cruciatus di Ausonio rivisitato, AAPel n. s. 54, 1977/78, 305–318. Ein hilfreiches Similienverzeichnis, aus dem auch der vorliegende Beitrag schöpft, und einen Einblick in Formen der Adaptation und Montage von Prätexten gibt R. M. Lucifora, I loci similes del Cupido cruciatus, AAPel n. s. 55, 1979, 261– 271; vgl. darüber hinaus die neueren Beiträge von L. Vannucci, Ausonio fra Virgilio e Stazio: a proposito dei modelli poetici del Cupido Cruciatus, A&R n. s. 34, 1989, 39–54; N. G. Davis, Cupid at the Ivory Gates: Ausonius as a Reader of Vergil’s Aeneid, ColbyQ 30.3, 1994, 162–170; P. Dräger, Ein verschollenes Trierer Wandgemälde der Spätantike (Ausonius, Cupido cruciatur), TZ 65, 2002 (2004), 121–139. Bereits seit 2001 angekündigt ist der Aufsatz von U. Schmitzer, Amor in der Unterwelt – Zum Gedicht Cupido Cruciatus des Ausonius (das Erscheinen ist nun in Aussicht gestellt in: Suus cuique mos. Beiträge zur paganen Kultur des lateinischen Westens im 4. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2005); vgl. auch den Kommentar von Green 1991 (wie Anm. 2) 526–532 und den neueren Einzelkommentar Cupido messo in croce: Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di A. Franzoi, Napoli 2002.
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In Anknüpfung an Martial und Statius stellt Ausonius einigen seiner Gedichtsammlungen und auch einigen Einzelgedichten Prosa-Praefationes voran, zumeist in Form von Widmungsepisteln. Diese Paratexte vereinen in sich verschiedene Elemente der Exordialtopik (Abwertung und gleichzeitige Apologie der folgenden Dichtung als Spielerei oder nicht ernst zu nehmende Literatur; Schmeicheln und captatio des Lesers), geben aber auch mehr oder weniger versteckte Hinweise auf die Charakterisierung und die intendierte Rezeptionsweise der von ihnen begleiteten Texte. So beginnt Ausonius die Praefatio des Cupido programmatisch mit einer spielerischen Allusion auf die plautinischen Menaechmi16 als Apostrophe an Gregorius (Cup. praef. 1): En umquam vidisti nebulam17 pictam in pariete . . .? Hast Du denn jemals ein gemaltes Schemenbild an der Wand gesehen?,
um gleich launig fortzufahren (Cup. praef. 1 f.): vidisti utique et meministi. Na sicherlich, und Du erinnerst Dich auch ganz genau!
Wurde die Plautusstelle vom Leser der Praefatio als Prätext erkannt, dann dürften bei ihm wohl zunächst die Bildmotive evoziert werden, die dieser Stelle in den Menaechmi unmittelbar folgen: der Raub des Ganymed und des Adonis, also erotisch-gewaltsame Darstellungen aus dem mythologischen Bereich. Die Funktion der Allusion ist also eine zweifache: Der Phänotext – die Wid16) Plaut. Men. 143: En umquam tu vidisti tabulam pictam in pariete? 17) Die Handschriften geben übereinstimmend nebulam, Vinet emendiert in seiner Ausonius-Edition von 1551 zu tabulam. Green übernimmt dies in seinen beiden Ausgaben mit dem Verweis auf die (seines Erachtens) inhaltliche Problematik von nebulam: „A.’s manuscripts give nebulam, which has been defended with reference to Ep. 12.10 picta nebula, but notwithstanding aeris in campis (l. I) it makes no sense for the poet to describe his theme as in some way a painted or tinted cloud“ (Green 1991 [wie Anm. 2] 527). Tatsächlich trifft der Begriff nebula sehr gut die Gestaltung der Szenerie, wie sie im Cupido geschildert wird, und paßt zur (nachträglichen) Enthüllung des dargestellten Geschehens als flüchtiger Traum. An der handschriftlichen Tradition sollte – wie etwa in Sesto Pretes Teubneriana erfolgt – durchaus festgehalten werden, zumal als lectio difficilior und hinsichtlich der Verwendung von picta nebula für ein farbiges meteorologisches (und somit vergängliches) Phänomen in Auson. epist. 12,13 ed. Green 1999. Mit nebulam pictam ist der intertextuelle Verweis auf die Plautusstelle zudem raffinierter gestaltet als er es mit tabulam pictam wäre (substitutio statt direkten Zitats).
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mungsepistel – wird zunächst allgemein mit einem Referenztext aus der Gattung Komödie verknüpft, ein erstes Signal zur möglichen Decodierung der Textintention als scherzhaft-unterhaltend. Zum anderen dient sie in ihrem Kontext dazu, die Lesererwartung bezüglich des Objektes des Textes zu steuern.18 Dieses Objekt wird nun weiter spezifiziert: Es handele sich – so die Widmungsepistel – um ein Wandgemälde in einem Triclinium in Trier, das folgende Szenerie dargestellt haben soll (Cup. praef. 3–5): Cupidinem cruci affigunt mulieres amatrices, non istae de nostro saeculo quae sponte peccant, sed illae heroicae quae sibi ignoscunt et plectunt deum. Liebestolle Frauen heften Cupido ans Kreuz, und zwar nicht die aus unserer Zeit, die aus ganz freien Stücken sündigen, sondern jene heroischen, die sich selbst davon freisprechen und den Liebesgott dafür verantwortlich machen.
Die Nennung des Motivs ‚Bestrafung Cupidos durch mythische Heroiden‘ wird dabei verknüpft mit einem ironisch-misogynen Seitenhieb, der das zuvor gesetzte Signal bezüglich der Textintention noch verstärkt: Die Liebe der Frauen – als mulieres amatrices nicht gerade schmeichelhaft umschrieben – steht in unmittelbarem Zusammenhang mit der peccatio, der nicht ehelich legitimierten Liebe, die jeglicher pudicitia entbehrt; ein klares Motivzitat aus der berühmten Weibersatire Juvenals: Pudicitia weilte nur im goldenen Zeitalter auf Erden und ist schon längst mit ihrer Schwester Astraea entflohen; was sich seitdem bei Frauen aller Schichten etabliert, sind Ehebruch, Prostitution und wechselnde Liebschaften.19 Und während die ‚modernen‘ Frauen die Verantwortung für 18) Die evozierte Betrachtungsszene und einige sprachliche Parallelen könnten eine weitere Allusion auf die römische Komödie darstellen, in diesem Fall auf den terenzischen Eunuchus (Ter. Eun. 584 ff.). Dort mustern der als Eunuch verkleidete Chaerea und die seiner Obhut unterstellte Pamphila im Schlafzimmer ebenfalls ein Fresko: die Verführung Danaes. Die römische Komödie als programmatisch gewählten Bezugsrahmen der Praefatio nennt bereits Lucifora 1977/78 (wie Anm. 15) 307, die sich kritisch mit der Analyse von Fauth 1991 (wie Anm. 15) auseinandersetzt. Fauth 1991, 376 f. sieht die ausonische Allusion auf die Plautusstelle lediglich durch die Absicht motiviert, auf die dichterische Behandlung ähnlicher Wandmalereien zu verweisen. Der Komödienkontext spielt bei ihm keine Rolle. 19) Iuv. 6; anders Vannucci 1989 (wie Anm. 15) 49, die aufgrund sonst fehlender misogyner und satirisch-zeitkritischer Äußerungen im Werk des Ausonius eine Verbindung mit dieser Satire ablehnt.
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ihre Fehltritte selbst übernehmen (müssen), wie es ja auch die Damen bei Juvenal tun, waren die Heroiden der mythischen Zeit noch besser gestellt: Sie hatten jemanden, auf den sie die Verantwortung für ihr Tun übertragen konnten – den geflügelten Liebesgott. Wurden die Signale der einleitenden Sätze erkannt, konnte der Leser also erste Hinweise zur Grundintention der Widmungsepistel und damit auch der Dichtung, zu der sie ja hinführen soll, gewinnen. Sicherstellen wollte Ausonius im folgenden, daß sich die Rezipienten des Cupido den Hauptreferenztext dieses Freskenmotivs (das dann als Objekt seiner Dichtung deklariert wird) vergegenwärtigen (Cup. praef. 5 f.): quarum partem in lugentibus campis Maro noster enumerat. Einen Teil dieser Frauen in den Gefilden der Trauer nennt unser geschätzter Maro.
Ausonius beschränkt sich hier nicht auf Allusion und Zitat, sondern nennt den Autor seines Prätextes direkt: Vergil, der im sechsten Buch der Aeneis bei der Schilderung der Unterwelt unter anderem die Heroiden in den lugentes campi (Aen. 6,440) beschreibt. In welchem Verhältnis das Fresko zu seiner Dichtung steht, erläutert er folgendermaßen (Cup. praef. 6 f.): hanc ego imaginem specie et argumento miratus sum. denique mirandi stuporem transtuli ad ineptiam poetandi. Dieses Bild bewunderte ich aufgrund seiner Schönheit und seines Stoffes. Ja, und dann habe ich aus meiner staunenden Bewunderung eine törichte Dichtung gemacht.
Das vorgebliche Trierer Wandbild sei also aufgrund seiner ansprechenden künstlerischen Ausführung (Form) und der Wahl des Motivs (Inhalt) das Movens für seine Dichtung. In der bisherigen Forschung herrscht Konsens, daß die Anregung für den Cupido von einem realen Fresko in Trier ausging, die Widmungsepistel also nicht nur als topische Hinführung zu einer rein imaginativen Ekphrasis fungiert.20 Die Frage nach dem Verhältnis des Textes zum Motiv und zur potentiellen Bildvorlage soll hier zunächst zurückgestellt, an späterer Stelle jedoch nochmals aufgegriffen und neu verhandelt werden. 20) Zuletzt Dräger 2002 (wie Anm. 15), insb. 134–138.
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Mit der eben zitierten Ausführung leitet Ausonius über zur Vorstellung seiner Dichtung im Rahmen der Exordialgesetze: Unterstützt durch die chiastische Antithese mirandi stuporem und dem unangemessenen Ergebnis ineptiam poetandi leistet er dabei der Bescheidenheitstopik pointiert Tribut. Allerdings überspannt er durch seine folgende hyperbolische Äußerung mihi praeter lemma nihil placet – eigentlich gefällt mir gar nichts daran außer dem Titel (Cup. praef. 7 f.) – den Bogen und entlarvt sich als lusor der Textsorte ‚Widmungsepistel‘, indem er ihre konstitutiven Elemente durch Übersteigerung persifliert und so das scherzhaft-ironische Kolorit der Praefatio weiter verstärkt. Er fährt fort (Cup. praef. 8): sed commendo tibi errorem meum Trotzdem vertraue ich Dir jetzt meinen dichterischen Fehltritt an
und steigert seine Parodie durch eine gewollt sentenzenhafte Verteidigung im Stile Senecas, in dessen 116. Epistel sich eine ähnliche Äußerung findet (Cup. praef. 8–10):21 naevos nostros et cicatrices amamus, nec soli nostro vitio peccasse contenti affectamus ut amentur. Wir lieben ja unsere Male und Narben, und nicht zufrieden, allein durch unseren Fehler geirrt zu haben, sind wir darauf bedacht, daß sie auch von anderen geliebt werden.
Am Schluß der Epistel, bei der captatio des Lesers, herrscht unverhüllte (Selbst-)Ironie (Cup. praef. 10–12): verum quid ego huic eclogae studiose patrocinor? certus sum, quodcumque meum scieris, amabis; quod magis spero quam ut laudes. vale ac dilige parentem. Aber warum verteidige ich dieses Gedichtchen eigentlich so eifrig? Bin ich mir doch sicher, daß Du alles lieben wirst, von dem Du weißt, daß es von mir ist; darauf hoffe ich sogar noch mehr als darauf, daß Du es lobst. Leb wohl und behalte Deinen väterlichen Freund lieb.
Wie gestaltet sich nun der selbstdeklarierte error des Ausonius? Er beginnt – wie aus der Praefatio in Ansätzen schon bekannt – mit einem wahren ‚Feuerwerk‘ aus Zitaten und Allusionen (Cup. 1–7):
21) Vgl. Sen. epist. 116,8: vitia nostra quia amamus, defendimus.
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Aëris in campis, memorat quos Musa Maronis, myrteus amentes ubi lucus opacat amantes, orgia ducebant heroides et sua quaeque, ut quondam occiderant, leti argumenta gerebant, errantes silva in magna et sub luce maligna inter harundineasque comas gravidumque papaver et tacitos sine labe lacus, sine murmure rivos; In den Gefilden der Luft, von denen uns Maros Muse kündet, wo ein Myrtenwald beschattet, die außer sich vor Liebe sind, da begingen die Heroiden wilde Zeremonien, jede trug das Symbol ihres einstigen Todes bei sich und so streiften sie durch den großen Wald, bei spärlichem Licht, zwischen Röhricht und vollem Mohn, stillen Seen ohne Wellen und Bächen ohne Plätschern.
Programmatisch wird im ersten Vers noch einmal eindeutig auf den Hauptbezugsrahmen verwiesen, die Aeneis Vergils; dieser wird im zweiten Halbvers innerhalb einer Allusion auf den Musenanruf seines Proöms (Musa, mihi causas memora Aen. 1,8) direkt genannt. Die Junktur aëris in campis (Aen. 6,887) schränkt dabei diesen Bezugsrahmen auf einen bestimmten Teil der Aeneis ein, die Katabasis im sechsten Buch: Die campi aëris markieren darin die letzte Station des Aeneas nach seinem langen Gang durch die düstere Unterwelt, das helle, freudvolle Elysium mit dem Tal, in dem sich die Seelen auf ihre Wiedergeburt vorbereiten und die Heldenschau stattfindet. Auffallenderweise setzt Ausonius zu Beginn des Cupido nun – anders als in der Praefatio! – diese campi aëris mit den tristen und dunklen campi lugentes, dem Aufenthaltsort der trauernden Heroiden (Aen. 6,442–444), in unmittelbare Beziehung. Dies möglicherweise, um durch das Zusammenfügen von (zumindest auf der Ebene des Mythos) stark kontrastierenden Räumen und den in ihnen ablaufenden Ereignissen einen Spannungseffekt zu erzielen; oder aber, um neben dem mythologischen Unterweltsdiskurs auch den theologischen Zugang anzudeuten, welcher die gesamte Unterwelt – und somit auch die campi lugentes – in der sublunaren Sphäre (den ‚Gefilden‘ oder Regionen der Luft) und auf dem Mond verortet.22 22) Diese spezifische Erklärung der theologi wird in der spätantiken Vergilexegese an einigen Stellen referiert, die unter anderem das Elysium bei bzw. auf dem Mond lokalisieren, vgl. Serv. comm. Verg. Aen. 5,735: [. . .] secundum theologos [scil. elysium est] circa lunarem circulum, ubi iam aër purior est: unde ait ipse Vergilius ‘aëris in campis’, item Lucanus ‘non illuc auro positi, nec ture sepulti perveniunt’;
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Die weitere Charakterisierung des Aufenthaltsortes der Heroiden ist hingegen ganz traditionell-mythologischen Unterweltsbeschreibungen verpflichtet. Er ist vor allen Dingen geprägt durch Dunkelheit und Stille (vgl. Aen. 6,264 passim), ist durchzogen von reglosen Flüssen und Seen und bewachsen mit typischen Pflanzen: Myrtenbäumen (Aen. 6,443 f.), Schilfrohr (Aen. 6,415) und Schlafmohn. Die Ufer der Gewässer (Cup. 8–12) säumt Ausonius als Reminiszenz an die Metamorphosen Ovids mit Blumen, die einst die Namen von Königen und Knaben trugen, also mit verwandelten tragischen Liebenden und Geliebten: Narzissen, roten Gladiolen (für Hyazinthus und Ajax), Safran und Anemonen. omnia quae lacrimis et amoribus anxia maestis rursus in amissum revocant heroidas aevum. exercent memores obita iam morte dolores: Dies alles, peinigend mit Trauer und tragischer Liebe, ruft die Heroiden zurück ins verlorene Leben. Noch nach dem Tode quälen die an das Liebesleid erinnernden Schmerzen. (Cup. 13–15)
Wie in der Aeneis (curae non ipsa in morte relinquunt Aen. 6,444) leiden die Heroiden also auch in der Unterwelt noch an ihrer unglücklichen Liebe, erscheinen bei Vergil allerdings in ihrer Passion zurückhaltender. Allein Eriphyle zeigt Aeneas und der Sibylle ihre tödliche Wunde – maesta (Aen. 6,445 f. ). Auch bei Vergil streifen sie durch den großen Wald (errabat silva in magna heißt es von 6,640: [. . .] nam, ut supra diximus, campi Elysii aut apud inferos sunt, aut in insulis fortunatis, aut in lunari circulo [. . .]; 6,887: ‘aëris in campis’ conlisionem fecit. locutus autem est secundum eos, qui putant Elysium lunarem esse circulum. Wie bereits Plutarch in seinem Dialog De facie in orbe lunae den Gesprächsteilnehmer Sulla ausführen ließ, kann das lunare Elysium, das ÉHlÊsion ped¤on, von den Seelen erst erreicht werden, wenn sie (je nach ihren Fehlern und der körperlichen Kontamination) in den verschiedenen Luftschichten zwischen Erde und Mond, also den einzelnen Bereichen der ‚Unterwelt‘, purgiert wurden: Plut. mor. 60 (De facie in orbe lunae), 27–30, 942E–945D; vgl. auch Cic. Tusc. 1,42 f.; Sen. dial. 6 (Consolatio ad Marciam), 25; Serv. comm. Verg. Aen. 6,340; dazu E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis Buch VI, Leipzig 31927 (ND Stuttgart/Leipzig 1995), 23– 26. Auf eine Verortung der Träume (und somit ihres Herkunftsortes, der Unterwelt) im (sub-)lunaren Raum weist Auson. ephem. 8,227–230. Anders deutet Lucifora 1977/78 (wie Anm. 15) 313 die Verwendung der Vergiljunktur: „Ora si può capire perché la sede del poemetto è definita aëris in campis: il poeta vuol di certo toglierle ogni consistenza, vuole addolcirla, avvolgerla nella coltre dell’indeterminato, giacché essa si troca nelle regioni della sua fantasia e rifiuta ogni altra ubicazione.“
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Dido und den anderen in Aen. 6,451), jedoch werden sie nicht wie im Cupido als vom furor getriebene Mänaden gezeichnet. Dido, vor der sich Aeneas zu rechtfertigen versucht, wird – ganz im Gegenteil – regelrecht versteinert in ihrer enttäuschten Liebe dargestellt: Ungerührt von den Worten und Tränen des Aeneas wendet sie sich von ihm ab, den Blick auf den Boden gerichtet, die Miene ohne Gefühlsregung und eilt unversöhnt in die Tiefen des Waldes zurück zu ihrem Mann Sychaeus (Aen. 6,467–474).23 Die Heroidenschilderung im Cupido wurde in der Forschung zunächst aufgrund rein sprachlicher Anklänge mit einer Episode in Verbindung gebracht, die Statius im 5. Buch der Thebais beschreibt: dem furor der Frauen von Lemnos. Eine nähere Betrachtung des Textes zeigt allerdings, daß bei dem Rückgriff auf diese Vorlage insbesondere auch inhaltliche24 und dramaturgisch-vorverweisende Momente eine Rolle spielen: Da die Bewohner von Lemnos der Venus keine Verehrung zukommen lassen, schwört die Göttin Rache. Sie sorgt dafür, daß die eheliche Liebe flieht und die Männer ihre Frauen nicht mehr beachten. Die Frauen sehen sich – wie viele der mythischen Heroiden auch – mit ihren unerwiderten Gefühlen konfrontiert und leiden existentiell unter dieser Situation. Allerdings wehren sie sich gegen ihre mutmaßlichen Peiniger: Venus entfacht furor unter ihnen und ruft im Traum zum Mord an der gesamten männlichen Bevölkerung von Lemnos auf. Die Frauen verschwören sich in einem dunklen Wald, dessen Beschreibung enge Unterweltsbezüge aufweist und der dem Aufenthaltsort der Heroiden stark ähnelt. Als Beweis ihrer Entschlossenheit und Einigkeit töten sie zunächst gemeinsam den Sohn einer Mitverschwörerin. Dann folgt das dramatische Blutbad. Das Eingangsmotiv im Cupido, ‚tragisch liebende Frauen vom furor getrieben in dunklem Wald‘, verweist vor dem Hintergrund der Statius-Episode also auf die Grundzüge der weiteren Handlung. Diejenigen Leser, welche die intertextuellen Signale entschlüsseln konnten und die Thebaisstelle als Referenztext er23) Zum Heroidenkatalog im Cupido (V. 16–44) vgl. Vannucci 1989 (wie Anm. 15) 41–45, Franzoi 2002 (wie Anm. 15) 65–86 und Dräger 2002 (wie Anm. 15) 127–130. 24) Die Parallelen (und die Divergenzen) sind detailliert herausgearbeitet bei Vannucci 1989 (wie Anm. 15) 41 und 45–48. Allerdings erkennt sie nicht das Potenzial, das der Bluttat von Lemnos als Prätext für die Steuerung der Lesererwartung innewohnt.
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kannt haben, werden nun in bezug auf die Handlungsentwicklung des Cupido eine bestimmte Erwartungshaltung einnehmen, etwa in folgender Form: Die Heroiden werden sich nicht passiv ihrer Trauer ergeben, sie werden sich an demjenigen rächen, dem sie ihre Situation zu verdanken haben, und diese Rache wird fürchterlich sein. Ob und in welcher spezifischen Form sich diese Erwartungen erfüllen, wird gleich gezeigt; zunächst jedoch noch einige grundsätzliche Beobachtungen zum Stil des Cupido: In der bisher analysierten Textpassage versucht Ausonius, Versrhythmus, Versbau und den epischen hohen Stil der Prätexte zu übernehmen. Erreicht wird dies etwa durch den Einbau von Versteilen, bevorzugt an derselben Position wie bei den Vorlagen (etwa den pointierten Versschluß sub luce maligna in Cup. 5 und Aen. 6,270), durch Orientierung an spezifischen Eigenheiten des Versbaus (etwa die Stelle Cup. 7 et tacitos s i n e labe lacus, s i n e murmure rivos und Aen. 5,56 haud equidem s i n e mente, reor, s i n e numine divum; auch Aen. 6,431), durch eine Reihe von Stilmitteln (zum Beispiel die Häufung in Cup. 7: Alliteration [labe lacus], asyndetische Anapher [sine-sine] und Parallelismus), durch gewählte poetische Umschreibungen (comae harundineae Cup. 6) und verschiedene Arten von Epitheta (gravidum papaver Cup. 6; Crocus auricomans Cup. 11; Oebalides Hyacinthus Cup. 10; Salaminius Aeas Cup. 12). Auch formal greift Ausonius auf Konstituenten des Epos zurück, etwa auf die Kataloge: Der kurzen Liste der verwandelten flores fleti folgt der immerhin 29 Hexameter umfassende Katalog der Heroiden (Cup. 16–44). Die Inkongruenz der als Spiel deklarierten Kleindichtung mit Epenstoff und Epenstil wird zusätzlich verstärkt durch Stilbrüche, welche die epische Erhabenheit sprengen. Auffallend und bewußt an den Anfang des Gedichts gestellt ist etwa die Sprichwortcharakter besitzende Pointe amentes amantes, die vor allem aus einer Gattung bekannt ist, die weit unter dem Epos steht: der römischen Komödie (Pl. Merc. 82; Ter. Andr. 218). Den erwähnten Katalog der vor allem aus Ovids Metamorphosen und Heroides und Vergils Aeneis bekannten Heroiden beschließt die Göttin Luna (Cup. 40–42), die aufgrund ihrer Liebe zu Endymion vom Himmel in die Unterwelt versetzt wird: Verließ sie früher ihren Wagen, um den schlafenden Geliebten auf dem Berg Latmos zu küssen, so verläßt sie ihn jetzt, um in der Unterwelt mit den anderen unglücklich Liebenden zu trauern und so
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gleichsam den Kosmos, der verwaist und mondlos zurückbleibt, in ihre Trauer zu involvieren. Und während auch noch weitere „hundert andere ihre alten Liebeswunden wieder aufreißen und ihre Qual mit süßen und traurigen Klagen erneuern“ (Cup. 43 f.), geschieht etwas Unvorhergesehenes (Cup. 45–55): quas inter medias furvae caliginis umbram dispulit inconsultus Amor stridentibus alis. agnovere omnes puerum memorique recursu communem sensere reum, quamquam umida circum nubila et auratis fulgentia cingula bullis et pharetram et rutilae fuscarent lampados ignem. agnoscunt tamen et vanum vibrare vigorem occipiunt hostemque unum loca non sua nactum, cum pigros ageret densa sub nocte volatus, facta nube premunt; trepidantem et cassa parantem suffugia in coetum mediae traxere catervae. In ihrer Mitte zerteilt den Schatten finsterer Nacht unbedacht Amor mit rauschenden Flügeln. Alle erkannten den Knaben und im Blick zurück wußten sie, daß er schuld an ihrer gemeinsamen Lage war, obwohl die feuchten Nebelschwaden seinen mit goldenen Buckeln besetzten Gürtel, seinen Köcher und das Feuer seiner leuchtenden Fackel verdüsterten. Dennoch erkennen sie ihn, versuchen, ihre Schattenkraft in zitternde Bewegung zu setzen, und umdrängen ihren einzigen Feind wie eine Wolke, als er – am falschen Ort – versucht, die trägen Flügel im drückenden Dunkel der Nacht zu bewegen: Sie schleppten ihn, am ganzen Körper zitternd und nutzlose Fluchtversuche unternehmend, in die Mitte ihrer Schar.
In Rekurs auf den Hauptreferenztext, das 6. Buch der Aeneis, könnte man diesen Sturz in die Unterwelt als augenzwinkernde Kontrastimitation der Katabasis des Aeneas interpretieren: War dieser auf seinen ausdrücklichen Wunsch mit Hilfe der Sibylle in die Unterwelt gelangt, um sich dort mit seinem Vater Anchises zu treffen, findet sich sein Halbbruder Amor hier ganz unversehens und ohne jede Absicht wieder. Ähnlich wie die gefallenen griechischen Krieger in der Unterwelt ihren Feind Aeneas an seinen Attributen, den trotz der Dunkelheit schimmernden Waffen, erkennen (Aen. 6,490), erkennen auch die Heroiden im düsteren Licht ihren Peiniger an Gestalt und Ausstattung. Doch während Aeneas den Griechen furchtbare Angst (metus ingens Aen. 6,491) einjagt, und sie teils die Flucht ergreifen, teils aufzuschreien versu-
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chen, sammeln die Heroiden ihre Kräfte und stürzen sich auf Amor. Obwohl Ausonius ihnen als Schatten nur einen vigor vanus (Cup. 51) zuschreibt – wie Vergil übrigens auch: Die Griechen versuchen zu schreien, bleiben für Aenas aber unhörbar (vgl. generell auch Aen. 6,290–294) – gelingt es ihnen, Amor einzukreisen.25 Wie gelähmt versagen Amors Flügel ihren Dienst, seine panischen Fluchtversuche mißlingen – eine spannungsgeladene Reminiszenz an die letzten Lebenssekunden des Enaesimus bei der calydonischen Eberjagd (Ov. met. 8,362–364): Bei seiner kopflosen Flucht vor dem rasenden Tier reißen die Kniesehnen, so daß er sich, gleichsam gelähmt, nicht in Sicherheit bringen kann und vom anstürmenden Eber getötet wird. Der Leser, dem dieser Prätext präsent ist, dürfte mit einem ähnlich schlimmen Schicksal Amors rechnen. Tatsächlich sind sich die Heroiden schnell über seine Bestrafung einig (Cup. 56–78): Der weinende Amor wird unerbittlich mit vereinten Kräften an einem Myrtenbaum festgebunden und mit Vorwürfen überhäuft; dabei zücken die Heroiden ihre jeweiligen Todessymbole (etwa Dido ein Schwert, Phädra einen Strick) und präsentieren sie ihm als Marter- oder gar Todeswerkzeuge. Allerdings verweist Ausonius auch hier wieder auf den eigentlichen Phantomcharakter der Waffen (species mucronis inanis Cup. 68; trepidae faces nullo igne stridentes Cup. 71 f.), die aber trotzdem ihre Wirkung auf Amor nicht verfehlen. Doch bevor es zum Äußersten kommt, erscheint – wiederum unversehens – eine weitere Protagonistin (Cup. 79 f.): ipsa etiam simili genetrix obnoxia culpae alma Venus tantos penetrat secura tumultus. Da bahnt sich furchtlos seine Mutter, mit ähnlicher Schuld beladen, die holde Venus, den Weg durch das Gewühl.
Naht hier nun die Rettung für Amor, die alma Venus, die Aeneadum genetrix, die Friedensspenderin, wie man sie aus dem Lukrezproömium kennt? Diese evozierte Erwartung wird sogleich zunichte gemacht (Cup. 81–87): 25) Dies als Allusion auf das Prodigium in Verg. Aen. 12,244–256, wo es einer Schar kleiner Küstenvögel gelingt, einen Adler facta nube zu umflattern und ihn zur Aufgabe seiner Beute zu zwingen.
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nec circumvento properans suffragia nato terrorem ingeminat stimulisque accendit amaris ancipites furias natique in crimina confert dedecus ipsa suum, quod vincula caeca mariti deprenso Mavorte tulit, quod pube pudenda Hellespontiaci ridetur forma Priapi, quod crudelis Eryx, quod semivir Hermaphroditus. Aber sie eilt nicht etwa ihrem umzingelten Sohn zu Hilfe, nein, sie verdoppelt seine Angst, treibt mit schärferem Stachel die plötzlich unschlüssig gewordenen Furien an und vermehrt die Vorwürfe gegen ihren Sohn noch um ihre eigene Schande, da sie die unsichtbaren Netze ihres Mannes ertragen mußte, als er sie in flagranti mit Mars gefangen hatte, weil man sich lustig macht über die Gestalt des Hellespontischen Priapus mit seinem übergroßen Attribut, weil Eryx grausam ist und Hermaphroditus nur ein halber Mann.
Geballt sind die Assoziationen, die Ausonius durch seine Verskontaminationen und Allusionen in dieser Beschreibung der Venus beim Leser wecken will; und um so stärker wirken sie im Kontrast zur zunächst durch klare Signale provozierten Lesererwartung eines schlichtenden Eingreifens der holden, friedliebenden, gütigen Venus. Der programmatische Anfang des 82. Verses terrorem ingeminat (Aen. 7,578) verweist als direktes Zitat auf Turnus, den Gegenspieler des Aeneas, der Latinus mit vehementer Propaganda zum Krieg gegen die Trojaner treiben will. Die zweite Vershälfte, stimulis accendit amaris, dürfte auf die feurige Rede des Pallas im 10. Buch anspielen (dictis virtutem accendit amaris Aen. 10,368), in der er versucht, die fliehenden Arkader wieder zum Kampf gegen die Latiner zu bewegen. Durch seinen anschließenden todesmutigen Einsatz gelingt es ihm dann tatsächlich, die Schwankenden wieder zurück in die Schlacht zu treiben. Venus ist, obwohl sie als Liebesgöttin oft genug auch selbst unglückliche Liebe gestiftet hat, hier in erster Linie präsent als wütendes Opfer ihres eigenen Sohnes und fügt sich so (wie auch ihre Mitgöttin Luna) in die Reihe der Heroiden ein. Sie leidet allerdings vor allem unter den Blamagen, die sie ihm zu verdanken hat: der peinlichen Gefangensetzung mit ihrem Liebhaber Mars und einer Reihe schlecht geratener Kinder, und dafür will sie sich rächen. nec satis in verbis: roseo Venus aurea serto maerentem pulsat puerum et graviora paventem.
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Doch Worte sind der Strafe nicht genug: Mit ihrer Rosengirlande peitscht die goldene Venus den weinenden Knaben, der mit noch Schlimmerem rechnet. (Cup. 88 f.)
Der Ärger der Liebesgöttin über ihren ungehorsamen Sohn findet sich auch in anderen antiken Werken thematisiert – erinnert sei etwa an die Klage der Aphrodite gegenüber Hera und Athene in den Argonautika des Apollonios Rhodios26 oder die Tiraden der erbosten Venus in der Amor-und-Psyche-Erzählung des Apuleius:27 Als diese von dem Verhältnis ihres Sohnes mit Psyche erfährt, droht sie ihm mit Enterbung, der Konfiszierung seiner ‚Ausrüstung‘ und der Kasteiung durch Sobrietas. Als explizite Vorwürfe werden die Renitenz Amors gegenüber den Weisungen seiner Mutter ebenso angesprochen wie ihre Bloßstellung als Opfer diverser Liebschaften, die er in seiner Willkür verursacht habe.28 Eine ebenfalls angedrohte (und nicht durchgeführte) Bestrafung Amors durch mehrere Heroiden, die motivisch recht eng mit dem Cupido verbunden ist, findet sich in einem Epigramm des Modestinus.29 Drohungen noch lebender, von Eros heimgesuchter Liebender bieten zwei Epigramme der Anthologia Graeca;30 ein weiteres schildert die Ergreifung des Eros durch eine Schar unglücklich Liebender an einem Kreuzweg.31 Den gefesselten Eros thematisiert eine Reihe ekphrastischer Epigramme.32 In der griechischen Kunst begegnet die tatsächlich durchgeführte Bestrafung des Eros durch Aphrodite auf mehreren rotfigurigen Vasenbildern; allerdings erfolgt diese nicht wie im Cupido 26) Apoll. Rhod. Arg. 3,91–105: Venus grämt sich ob ihrer mangelnden mütterlichen Autorität und der Willkür des Eros, durch die er sie wiederholt der Lächerlichkeit preisgibt. Ihre Drohungen, seine Pfeile und den Bogen zu zerbrechen, scheitern an ihrer Angst vor ihm. 27) Apul. met. 5,29 f. 28) Ausgeführt werden diese Drohungen freilich nicht; Amor wird lediglich für kurze Zeit in Arrest gesetzt, aus dem er nach seiner Genesung fliehen kann, vgl. Apul. met. 6,11,3 und 6,21,2 f. 29) AL 1,1,267 Shackleton Bailey; dazu W. D. Lebek, Modestinus AL I 1,267 Shackleton Bailey (= 273 Riese), ZPE 58, 1985, 37–45 und G. Cupaiuolo, Modestino, Anthologia Latina 267 S. B. (e rapporti con Ausonio), in: Studi di filologia classica in onore di Giusto Monaco, Bd. 3, Palermo 1991, 1301–1312. 30) AP 5,178 (Drohung, Eros als Sklaven zu verkaufen) und 5,179 (Drohung, Attribute des Eros zu verbrennen, die Flügel zu stutzen und die Füße mit ehernen Fesseln zu binden). 31) AP 5,303. 32) AP 16,195–199.
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mit einer Rosengirlande, sondern – etwas prosaischer – mit der Sandale der Göttin.33 Der Typus des gefesselten Eros/Amor ist ein variantenreiches Motiv sowohl in der griechischen als auch der römischen Kunst.34 Man findet ihn als Einzeldarstellung mit auf dem Rücken gebundenen Händen sitzend, stehend, an einen Baum oder eine Säule gebunden oder als Sklave mit Fußfesseln stehend und weinend in verschiedenen Ausführungen, etwa als marmorne Rundplastik wie im bekannten (allerdings stark ergänzten) Beispiel aus der Villa Borghese, als Siegel- oder Cameomotiv. Im Bereich der römischen Kunst rekurrieren einige Fresken auf die Bestrafung Amors durch Nemesis, zahlreiche weitere Bildquellen zeigen die Malträtierung des Eros durch Psyche; ein Lampenbild präsentiert Amor, der an einem Baum aufgehängt ist und dem seine eigene, auf dem Boden liegende Fackel die Fußsohlen verbrennt. Das Motiv der Bestrafung ist also traditionell, jedoch findet sich in den erhaltenen archäologischen Zeugnissen m. W. keine Bestrafung Amors durch eine oder mehrere Heroiden. Dies läßt zwei Schlüsse zu: 1. Das Fresko in Trier, auf das Ausonius als Vorlage verweist, ist ein motivisches Unikat. Zu fragen wäre dann, was es genau dargestellt haben könnte: ein Einzelmotiv (die Heroiden bei der Bestrafung des an die Myrte gefesselten Amor, wie es auch die Praefatio nahelegt)35 oder – wie Green und Dräger annehmen – eine Abfolge mehrerer Szenen,36 oder aber vielmehr 2. der Verweis auf das Trierer Fresko ist rein fiktiv und wurde nur als ein weiterer Topos neben anderen in die Praefatio aufgenommen. Das Gedicht hätte in diesem Fall seine Inspiration ganz generell von dem verbreiteten und reizvollen Motiv des bestraften Liebesgottes erhalten. Dies würde nicht nur zum intertextuellen Spiel der Widmungsepistel passen, sondern sich auch mit dem Charakter zahlreicher anderer poetischer Ekphraseis in der antiken Li33) Vgl. etwa LIMC II.1, 121 und die Abb. in II.2, 126, Nr. 1252 und 1253. 34) Beispiele für das Motiv des gefesselten und/oder bestraften Eros/Amor bei Fauth 1991 (wie Anm. 15) 386; vgl. zusätzlich zu den Angaben in Anmerkung 33 auch die Zusammenstellung in LIMC III.1, 884 f. und die Abb. in III.2, 630, Nr. 419 und 631, Nr. 421; LIMC III.1, 966–969 und die Abb. in III.2, 683, Nr. 65, 69, 70, 73–76, 78, 80 und 684, Nr. 86. 35) So Lucifora 1977/78 (wie Anm. 15) 316–318. 36) Green 1991 (wie Anm. 2) 526 (vier Szenen); Dräger 2002 (wie Anm. 15) 136 (fünf bis sechs Szenen). Anders als Green vermutet Dräger, daß sich das mehrszenige Fresko an nur einer Wand des Tricliniums befunden habe und in ‚kontinuierendem Stil‘ ausgeführt sei.
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teratur decken: Diese mögen zwar in ihrem Nucleus (etwa im Rekurs auf einzelne Figuren, Motive, Ausführungen etc.) auf real existente Kunstwerke verweisen, dürfen aber nicht aus ihrem literarischen Kontext gelöst und unter Negierung der poetischen Formung als Quellen verstanden werden, die bestimmte Objekte der außerliterarischen Wirklichkeit im Verhältnis 1:1 beschreiben.37 Sie sind vielmehr zu betrachten als „imaginierte s p r a c h l i c h e Bildkunstwerke, die zwar an kunstgeschichtlich dokumentierte Bildformeln anknüpfen, ihren originären Ort aber in der Literatur haben und durch die besondere Art ihrer Darstellung gerade in Konkurrenz zur visuellen Kunst treten.“38 Den Cupido als direktes Textzeugnis für ein verlorenes Trierer Fresko zu werten39 und auf seiner Grundlage gar eine Rekonstruktion des Bildes zu versuchen, scheint vor diesem Hintergrund mithin problematisch. Doch auch wenn Ausonius auf einen (wie auch immer gearteten) bildlichen Modellrahmen zurückgreifen kann, geht er bei der Beschreibung der Bestrafungsszene und der Protagonisten doch weit über ihn hinaus: Ähnelt die mit Wort und Tat ihre Mit-Furien antreibende Venus nicht auch Tisiphone, der peitschenbewehrten Hüterin des Tartarus, die zur Bestrafung der Delinquenten ihre Schwestern ruft (Aen. 6,570–572)? Und paßt Cupido als Verräter und Schädiger der eigenen Mutter nicht zu den großen Büßern der Unterwelt, auf die nach der Auspeitschung erst die richtige Strafe wartet (Aen. 6,608–615)? 37) Gegen eine derartige ‚kunsthistoriographische‘ Betrachtungsweise antiker Ekphraseis, auf deren Grundlage Rekonstruktionsversuche der beschriebenen Kunstwerke oder des Gesamtarrangements der auf ihnen dargestellten Szenen unternommen wurden, wandte sich bereits dezidiert A. Szantyr, Bemerkungen zum Aufbau der Vergilischen Ekphrasis, MH 27, 1970, 28–40, hier 28: „Seit Richard Heinze [Virgils epische Technik, Berlin 31915, 401 Anm. 1] ist man sich aber darin einig, dass solche Bemühungen weder zu irgendwelchen brauchbaren Ergebnissen führen noch der dichterischen Intention gerecht werden.“ 38) H. Wandhoff, Ekphrasis. Kunstbeschreibungen und virtuelle Räume in der Literatur des Mittelalters, Berlin / New York 2003, 3 (mit Verweis auf weiterführende Literatur). Einen Abriß über die Ekphrasis-Forschung gibt er a. a. O. 2–12. Vgl. auch F. Graf, Ekphrasis: Die Entstehung der Gattung in der Antike, in: G. Boehm / H. Pfotenhauer (Hrsgg.), Beschreibungskunst – Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, München 1995, 143–155 und den wichtigen neuen Beitrag von Barbara E. Borg, Bilder zum Hören – Bilder zum Sehen: Lukians Ekphraseis und die Rekonstruktion antiker Kunstwerke, Millennium 1, 2004, 26–57 (zu Auson. epigr. 12 Green [33 Prete] als innerliterarischem Spiel 42 f. ). 39) So LIMC II.2, 968 f.; Dräger 2002 (wie Anm. 15) 135–138.
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Doch so weit kommt es nicht (Cup. 90–98): Als die Heroiden sehen, wie sich die Rosen vom Blut des malträtierten Amor röten, lassen sie von ihren Drohungen ab – diese Strafe scheint ihnen doch zu hart zu sein. Sie halten Venus von weiteren Schlägen zurück, indem sie schnell einen neuen Schuldigen finden: das fatum crudele (Cup. 96). Venus, nun wieder ganz liebende Mutter (pia mater Cup. 97), bedankt sich bei den Heroiden für ihr Nachsehen; ein weiteres Mal konnten die Frauen Amor nicht widerstehen. Eigentlich könnte das Gedicht mit diesem für Amor glimpflichen Ausgang enden; Ausonius läßt sein Abenteuer in der Unterwelt aber noch eine ganz andere Dimension annehmen (Cup. 99– 103): talia nocturnis olim simulacra figuris exercent trepidam casso terrore quietem. quae postquam multa perpessus nocte Cupido effugit, pulsa tandem caligine somni evolat ad superos portaque evadit eburna. Solche Traumbilder mit ihren nächtlichen Gestalten stören hin und wieder seinen Schlaf, der unruhig wird durch nichtige Furcht. Nachdem er nun unter ihnen einen Großteil der Nacht gelitten hatte und ihnen entkommen war, da fliegt er – als endlich das Dunkel des Schlafes gebannt ist – an die Oberwelt und verläßt die Unterwelt durch das elfenbeinerne Tor.
Die Ängste und Qualen Amors entpuppen sich also als Alptraum – eine Pointe, welche die Rezipienten des Cupido sicherlich überrascht haben dürfte. Aber kommt diese Wendung gänzlich unvorbereitet? Liest man mit dem Wissen um den Traumcharakter der Handlung den Text nochmals, offenbaren sich Signale, die recht evident zu diesem Schluß hinführen: Ein erster Hinweis ist zum Beispiel die Aufnahme des Schlafmohns (gravidum papaver Cup. 6) in die Flora der Unterwelt und die mehrfach betonte nebelig-schemenhafte Zeichnung des ganzen Geschehens (etwa nebulosum lumen Cup. 8; umida nubila Cup. 48 f. ). Sowohl der plötzliche Sturz in eine bedrohliche Situation als insbesondere auch das Gelähmtsein, die Unfähigkeit, sich von der Stelle zu bewegen, sind typische Konstituenten des Alptraums. Ein eindeutiges Signal, das bei der Analyse bereits mehrfach aufgefallen war, ist schließlich die physische Präsenz der Heroiden und ihrer Waffen trotz ständiger Betonung ihres Phantomcharakters, ihres vigor
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vanus (Cup. 51). Diese Irrealität, die Möglichkeit der Antagonisten, sich über die Naturgesetze hinwegzusetzen – hier natürlich die Gesetze der Unterwelt – ist ebenfalls typisch für das Alptraumerlebnis. Auch der Auslöser für dieses anscheinend öfter wiederkehrende insomnium/§nÊpnion des Liebesgottes ist klar und findet sich bereits in antiken Traumerklärungen bei Artemidor und Macrobius:40 Es ist ein pãyow ‡dion cux∞w, also ein psychischer Spannungszustand des Träumenden, eine cura oppressi animi; im Falle Amors eine Mischung aus schlechtem Gewissen gegenüber den Heroiden und seiner Mutter, Furcht vor Rache und Hoffnung auf Verzeihung.41 Das Motiv des Durchschreitens des elfenbeinernen Traumtores, das hier als Symbol für das Erwachen aus einem insomnium verwendet wird, begegnet auch im Hauptreferenztext des Cupido, dem 6. Aeneisbuch: Die Katabasis des Aeneas wird durch den ‚nachgeklappten‘ Gang durch das elfenbeinerne Tor beendet, durch das die falsa insomnia (Aen. 6,896) zu den Schlafenden geschickt werden. Das daneben befindliche Tor aus Horn, das die verae umbrae entsendet (Aen. 6,894), ist für ihn tabu. Seit der Antike sind zahlreiche Erklärungsversuche für diesen spezifischen Unterweltsausgang angestellt worden;42 der Cupido des Ausonius 40) Zu den Auslösern der §nÊpnia / insomnia (physische und/oder psychische Spannungszustände wie Mangel/Überfluß an aufgenommener Nahrung, Wunsch- und Angstvorstellungen) und ihrer intrasomnialen Limitierung vgl. die Schlüsselstellen Artemid. 1,1; 1,6 und Macr. somn. 1,3,2–5. Siehe dazu auch A. Kirsopp Michels, The insomnium of Aeneas, ClQ 31, 1981, 140–146, hier 144 f. und K. Pollmann, Etymologie, Allegorese und epische Struktur. Zu den Toren der Träume bei Homer und Vergil, Philologus 137, 1993, 232–251, hier 237 f. und 249. Ausführlich zur Klassifizierung der Träume in der antiken Literatur A. H. M. Kessels, Ancient systems of dream-classification, Mnemosyne 22 ser. IV, 1969, 389–424. Ein unentbehrliches Hilfsmittel für die Recherche von Literatur zum Komplex ‚Träume und Visionen in der Antike‘, die seit den späten 90er Jahren einen starken Zuwachs verzeichnet, ist Gregor Webers Online-Datenbank Dreams of Antiquity (http://www.gnomon.ku-eichstaett.de/dreams). Als neueste Monographie zum Thema sei genannt: B. Näf, Traum und Traumdeutung im Altertum, Darmstadt 2004. 41) Ähnliches folgert Davis 1994 (wie Anm. 15) 168: „Cupid’s nightmare descent and punishment imply a parallel psychological critique on the speaker’s part, in so far as these dream episodes may be said to reflect the love god’s intrapsychic guilt, as well as his acute anxiety at being held accountable for his mischievous deeds.“ 42) Zusammenfassungen und Diskussionen der Theorien seit Serv. comm. Verg. Aen. 6,896 finden sich bei Vannucci 1989 (wie Anm. 15) 50 f. und insb. bei
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weist seinerseits im programmatischen Rekurs auf die porta eburna auf eine mögliche Lesart des Prätextes: Auch die Erlebnisse des Aeneas in der Unterwelt, insbesondere seine Begegnungen mit den Verstorbenen, könnten als Bestandteile eines oder mehrerer Träume verstanden werden, die einen Einblick in seine seelischen Affektionen, seine Ängste, seine Wünsche, seine Zweifel gestatten.43 Ob Vergil selbst eine so geartete ‚insomniale‘ Interpretation der Katabasis intendiert hat und dies (neben der betonten Nähe von Traum und Unterwelt)44 durch das Motiv der porta eburna signalisieren wollte, muß Spekulation bleiben. Eventuell könnte das Durchschreiten des Traumtores bei Vergil aber zumindest als Symbol für das Erwachen per se gedacht sein, das von Ausonius in parodistischer Absicht zum Aufschrecken aus einem insomnium verengt wird. Gerade in Hinblick auf Ciceros Somnium Scipionis45 Pollmann 1993 (wie Anm. 40) passim. Als neueren Beitrag zum Themenkomplex vgl. P. von Möllendorff, Aeneas und Odysseus. Die „Tore des Schlafs“ in Aen. 6,893–899, in: J. P. Schwindt (Hrsg.), Zwischen Tradition und Innovation. Poetische Verfahren im Spannungsfeld Klassischer und Neuerer Literatur und Literaturwissenschaft, München/Leipzig 2000, 43–66 mit einem kritischen Abriß der Forschungsliteratur 49–54. 43) Vgl. die Deutung der Katabasis als „anxiety/petitionary dream“ des Aeneas bei Kirsopp Michels 1981 (wie Anm. 40) 145. Sie stützt die Interpretation der Unterweltserlebnisse des Aeneas als mit dem Erwachen vergessenes insomnium insbesondere darauf, daß sich Aeneas im weiteren Verlauf der Aeneis nicht an die Prophezeiungen des Anchises erinnert, seine Handlungen nicht an ihnen orientiert oder sich durch die Kenntnis der Zukunft motiviert. Zur Exegese der vergilischen Katabasis als Traum durch Ausonius vgl. Vannucci 1989 (wie Anm. 15) 51 f. und Davis 1994 (wie Anm. 15) 168. 44) Etwa Aen. 6,278.283 f.390: Unterwelt als Ort des Schlafes und der Träume, die im Eingangsbereich unter den Blättern einer Ulme hängen; Aen. 6,702: Vergleich des Anchises mit einem Traumbild. 45) Cic. rep. 6,9–29. Scipio Aemilianus erhält in einem Traum, der ihn ebenfalls in eine ‚Anderwelt‘, die Milchstraße, führt, durch Adoptivgroßvater und Vater eine Prophezeiung seiner Zukunft und wird über den Bau des Kosmos und die Unsterblichkeit der Seele belehrt. Als Auslöser für den Traum wird in Cic. rep. 6,10 das Gespräch mit Masinissa über Scipio Africanus genannt, welches den jüngeren Scipio emotional stark involviert hatte: Hic mihi (credo equidem ex hoc quod eramus locuti; fit enim fere ut cogitationes sermonesque nostri pariant aliquid in somno tale quale de Homero scribit Ennius, de quo videlicet saepissime vigilans solebat cogitare et loqui) Africanus se ostendit ea forma quae mihi ex imagine eius quam ex ipso erat notior. Dies ist insofern bemerkenswert, als es sich beim Somnium Scipionis eindeutig nicht um ein insomnium handelt, das Tagesreste verarbeitet, sondern um einen divinatorischen Traum (vgl. Macr. somn. 1,3,8–13).
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wäre die Traum-Einkleidung einer Prophezeiung nach Art der vergilischen Heldenschau mit einer Vermittlung metaphysischer Ideen wie der Seelenwanderungslehre gut vorstellbar.46 Diese Art von Traum besäße dann freilich eine ganz andere Qualität als ein insomnium, vermittelte sie doch als divinatorisches Medium wahre Aussagen mit Zukunftsrelevanz. Andererseits wäre es aber auch denkbar, daß Cupidos Gang durch das elfenbeinerne Tor und die Auflösung seiner Unterweltserlebnisse als Traumgeschehen gleichsam als finale Pointe die auf literaler Ebene ‚reale‘ Katabasis des Aeneas konterkarieren sollte. Ausgehend von diesem ambigen Motivzitat seien abschließend noch einmal die vielschichtigen Funktionen intertextueller Referenzen zusammengefaßt, die bei der Analyse des Cupido beobachtet werden konnten: In der Prosapraefatio verwendet Ausonius Allusionen auf und Zitate aus Komödie und Satire zusammen mit Elementen der Gattungsparodie als Signale zur Dechiffrierung der allgemeinen Textintention von Widmungsepistel und Dichtung. Durch den zweimaligen ausdrücklichen Verweis auf Vergil in Kombination mit berühmten Junkturen aus dem 6. Buch der Aeneis wird der Hauptbezugsrahmen des Cupido für den Rezipienten klar festgelegt. Der parodistische Umgang mit dieser Vorlage manifestiert sich bereits im Sprachlichen durch die inszenierte Inkongruenz des epischen Stils mit Form und Inhalt des kurzen Gedichts. Zudem wird dieser Stil etwa durch Einflechten von sprachlichen Wendungen aus der Komödie bewußt gesprengt. Die Substitutio des Aeneas durch seinen Halbbruder Cupido, der Gattungs- und der Intentionswechsel der intertextuell stark verknüpften Dichtungen verstärken den Eindruck von einer motivparodistischen Ausrichtung des Werks. Durch die Allusion auf bekannte Figuren augusteischer 46) Die Theorie der vergilischen Katabasis als Traum bereits bei Norden 1927 (wie Anm. 22) 48, der den Gang des Aeneas durch das elfenbeinerne Traumtor als Parallele zum Schluß des Somnium wertet: „Die ganze Handlung nun läßt Cicero den Scipio mit den Worten abschließen: Ille (Africanus) decessit, ego somno solutus sum. Bei Vergil endet das Buch damit, daß Aeneas von Anchises aus der eburna somni porta entlassen wird (. . .): sachlich ist beides identisch, nur kleidet der Dichter die Vorstellung in das durch Homer gegebene Bild von den Toren der Träume ein.“ Vgl. auch H. R. Steiner, Der Traum in der Aeneis, Bern/Stuttgart 1952, 88– 96, B. Otis, Three problems of Aeneid 6, TAPhA 90, 1959, 165–179, hier 173–179, und C. Walde, Die Traumdarstellungen in der griechisch-römischen Dichtung, München/Leipzig 2001, 296 f. 3
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Dichtung (z. B. Enaesimus, Turnus, Tisiphone) bei der Beschreibung der Protagonisten erhalten diese zusätzliche Tiefe und Dramatik. Eine der prominentesten Funktionen von Intertextualität im Cupido ist schließlich die Lesersteuerung und das Spiel mit den Lesererwartungen, die teils bestätigt (Thebais-Episode der Frauen von Lemnos, Traumsignale), teils enttäuscht werden (lukrezische, friedensstiftende Venus), und so die Spannung der Handlung mit konstituieren. Kiel
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MIT MANUSKRIPT IN DEN SENAT? Zu Cic. Planc. 74 In der Verteidigungsrede für den i. J. 54 wegen ambitus angeklagten Aedilen Cn. Plancius1 kommt Cicero auch auf seine eigene Rückkehr aus der ‚Verbannung‘ drei Jahre zuvor zu sprechen. Er trete für Plancius ein, weil dieser sich damals zusammen mit vielen anderen Vornehmen für ihn, den aus Rom vertriebenen Retter des Vaterlandes, eingesetzt habe. Für die Unterstützung seiner Rückkehr sei Plancius in Ciceros erster Dankrede vor dem Senat (oratio quae est a me prima habita in senatu) auch namentlich erwähnt worden.2 Dann heißt es (Text nach der Teubneriana von E. Olechowska [1981], hier identisch mit der Ausgabe von Clark [OCT]): In qua cum perpaucis nominatim egissem gratias, quod omnes enumerari nullo modo possent, scelus autem esset quemquam praeteriri, statuissemque eos solum nominare qui causae nostrae duces et quasi signiferi fuissent, in his Plancio gratias egi. recitetur oratio, quae propter rei magnitudinem dicta de scripto est; in qua ego homo astutus ei me dedebam cui nihil magno opere deberem, et huius offici tanti servitutem astringebam testimonio sempiterno. nolo cetera quae a me mandata sunt litteris recitare; praetermitto, ne aut proferre videar ad tempus aut eo genere uti litterarum quod meis studiis aptius quam consuetudini iudiciorum esse videatur. Hat Cicero diese seine erste Rede nach 17 Monaten Abwesenheit vom Senat ausnahmsweise nicht nur schriftlich ausgearbeitet, sondern auch vom Manuskript vorgelesen – dicta de scripto? So wird die Stelle verschiedentlich verstanden und erklärt.3 1) Zum Kontext siehe M. Gelzer, Cicero. Ein biographischer Versuch, Wiesbaden 1969, 199–200. 2) Cic. p. red. in sen. 35: Cuius mei sensus certissimus testis est hic idem qui custos capitis fuit, Cn. Plancius, qui omnibus provincialibus ornamentis commodisque depositis totam suam quaesturam in me sustentando et conservando conlocavit. 3) Vgl. M. Schanz, C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur I, 4München 1927, 428: „Die Rede wurde also gelesen.“ Watts (Loeb-Ausgabe) übersetzt: „this speech . . ., for, in view of the importance of the occasion, it was delivered from manuscript.“ Ebenso: Marco Tullio Cicerone, L’orazione per Gneo Plancio. A cura di E. Lepore, Milano 1985, 110: „Si legga il discorso che per l’importanza dell’argomento fu pronunciato di sulla stesura scritta.“ – Vgl. Gelzer, Cicero (wie Anm. 1) 150: „Um keinen einzigen, der sich um ihn verdient gemacht hatte, zu vergessen, zeichnete er sich die für den Senat bestimmte Rede vorher auf und las sie vor.“ Doch
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In der Tat hat es solche Fälle bei anderen Rednern in republikanischer Zeit vereinzelt gegeben, auch bei längeren Statements.4 Ein Beleg bezieht sich auf Pompeius,5 von dem bekannt ist, daß er kein großer Redner und bei öffentlichen Auftritten eher gehemmt war. Doch in der hier erörterten Situation ist eine solche Art der actio ganz unwahrscheinlich. Cicero hätte für große Verwunderung gesorgt und sich nachgerade lächerlich gemacht, wenn ausgerechnet er diesen Auftritt wider seine sonstige Praxis mit einer Manuskriptrolle in der Hand bestritten hätte.6 Auch die Begründung für eine solche Ausnahme will nicht recht einleuchten: Waren denn etwa die symbuleutischen Reden gegen Catilina weniger wichtig als der eher epideiktisch geartete Dank für die Rückkehr? Aus sachlichen Gründen ist dieses Verständnis der Passage also auszuschließen. Gleichzeitig unterliegt der überlieferte Wortlaut auch sprachlich schweren Bedenken. Da es die Junktur orationem dicere bei Cicero nicht gibt, dürfte der Fehler in dicta zu suchen sein. Eine Besinnung auf das zugrundeliegende Sachproblem führt weiter: Cicero verfolgte im Prozeß die Absicht, seinen Klienten Plancius als eine bedeutende Person hervorzuheben. Als Beweis trug er vor, er habe diesem seinerzeit im Senat seinen Dank durch namentliche Erwähnung abgestattet. Das war der Punkt, um den es im aktuellen Kontext allein ging, der aber im Normalfall wegen Cicero sagt, daß er gerade nicht alle nannte, die er hätte nennen können. Spekulativ J. Nicholson: Cicero’s Return From Exile. The Orations Post Reditum, New York u. a. 1992, 15: „We know from the speech Pro Plancio (74) that Cicero composed In senatu in advance, while en route to Rome, and that he then read it ‘de scripto’ upon arrival in the city, apparently without having first revised it in order to bring it perfectly into line with actual circumstances.“ 4) Vgl. Cic. Att. 4,3,3: <Milo> proposita Marcellini sententia, quam i l l e d e s c r i p t o i t a d i x e r a t ut totam nostram causam areae, incendiorum, periculi mei iudicio complecteretur eaque omnia comitiis anteferret, proscripsit se per omnis dies comitialis de caelo servaturum. 5) Cic. Sest. 129: vel quod in templo Iovis Optimi Maximi factum est, cum vir is qui tripertitas orbis terrarum oras atque regiones tribus triumphis adiunctas huic imperio notavit d e s c r i p t o s e n t e n t i a d i c t a mihi uni testimonium patriae conservatae dedit; quoius sententiam ita frequentissimus senatus secutus est ut unus dissentiret hostis, idque ipsum tabulis publicis mandaretur ad memoriam posteri temporis sempiternam. Offenbar handelte es sich um ein kurzes Statement, vielleicht sogar um einen Beschlußantrag (vgl. die nächste Anm.). 6) Er selbst wendet ein solches Verfahren zweimal polemisch gegen einen Gegner: Einmal habe sich Antonius trotz vollmundiger Ankündigung nicht getraut, im Senat über Oktavian zu sprechen; statt dessen habe ein Konsular einen vorbereiteten Antrag verlesen (scriptam attulerat consularis quidam sententiam; Phil. 3,20); Q. Fufius habe etwas Törichtes gesagt, und zwar nach Manuskript, sonst hätte man an einen Lapsus beim Verfertigen der Worte im Laufe der Rede denken müssen (Phil. 10,5). – Anträge wurden im Senat offenbar in der Tat öfters ausformuliert verlesen; da sie die Grundlage für den dann zu protokollierenden Senatsbeschluß darstellten, war es sinnvoll, für die Schreiber und Zeugen eine präzise Textvorlage parat zu haben; vgl. i. d. S. Cic. fam. 10,13,1: id ex ipso senatus consulto poteris cognoscere; ita enim est perscriptum ut a me de scripto dicta sententia est. – Augustus machte es sich später offenbar zur Gewohnheit, grundsätzlich vom Manuskript abzulesen, ne periculum memoriae adiret aut in ediscendo tempus absumeret (Suet. Aug. 84,2).
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der vielen, drei Jahre zuvor tatsächlich genannten beziehungsweise eigentlich zu nennenden Namen schwer beweisbar gewesen wäre – wenn die seinerzeit vorgetragene Rede allein dem flüchtigen Augenblick anvertraut worden wäre. Aber keinen Zuhörer konnte es überraschen, wenn Cicero diese Rede wegen ihrer für ihn überragenden Bedeutung – propter rei magnitudinem – davor hätte bewahren wollen, der Vergessenheit anheimzufallen. Jede Verbesserung des überlieferten Wortlautes sollte also davon ausgehen, daß es eine schriftlich vorliegende Fassung der Rede als zitierbares (recitetur) Beweismittel im Plancius-Prozeß gab. Ein Emendationsvorschlag hat dieser Voraussetzung Rechnung zu tragen. Zu denken wäre etwa an edita de scripto;7 die Rede wäre demnach – sachlich eine doppelte Anomalie – von Cicero vorab als Konzept ausgearbeitet und nach der Senatssitzung veröffentlicht worden. Obwohl die Junktur bei Cicero nicht häufig ist,8 erscheint die Emendation attraktiv, weil sie auch erklärt, warum der Redner gleich darauf cetera quae a me mandata sunt litteris nicht verlesen lassen will. Eine alternative Überlegung wäre, daß Cicero es seinerzeit vermocht hätte, eine Mitschrift der gehaltenen Rede zu den Akten des Senates nehmen zu lassen. Diese Erklärung hätte den Vorteil, daß der ansonsten mögliche Verdacht, der Redner habe den Redetext durch die Einfügung von Plancius’ Namen nachträglich verändert, gar nicht erst hätte aufkommen können. Die Formulierung könnte dann etwa diligenter descripta gelautet haben.9 Cicero hätte durch die unterschiedlichen genera verbi desselben Wortes, die noch dazu den Gegensatz markant einrahmen (recitetur vs. nolo . . . recitare) zwischen einem quasi-protokollarisch gesicherten, von ihm selbst nicht mehr manipulierbaren Redetext (oratio) und seinen sonstigen einschlägigen Aufzeichnungen (cetera quae a me mandata sunt litteris), die er im Gegensatz zu ersterem nicht weiter vorbringen wollte, weil das zu weit führe, unterschieden. Seine Materialsammlung war, wie gewiß auch sonst nicht selten, also viel umfangreicher als das, was er dann tatsächlich vortragen konnte, und man kann in diesem Fall einen Teil der Differenz wenigstens vermutungsweise benennen: Es wa7) Erwogen von Stephan Schröder, der die Konjektur allerdings nicht als gesichert betrachtet, da es keinen Beleg für diese Wendung gibt. Für scriptum als ‚Konzept‘ oder ‚Entwurf‘ vgl. Cic. Q. fr. 3,6,5: laudavit pater scripto meo; Brut. 91–92: nulla autem res tantum ad dicendum proficit quantum scriptio; zur hier angenommenen Bedeutung von de vgl. auctor ad Herennium 4,3: Quis est enim, qui, non summe cum tenet artem, possit ea, quae iubeat ars, de tanta et tam diffusa scriptura notare et separare? Schröders Überlegung wurde uns durch B. Manuwald übermittelt. Diesem sowie Gesine Manuwald sind wir für äußerst hilfreiche Kommentare zu einem ersten Entwurf sowie weiterführende Vorschläge und Hinweise sehr zu Dank verpflichtet. 8) Cic. Brut. 161: sed haec Crassi cum edita oratio est; vgl. ferner Sall. Cat. 31,6: tum M. Tullius consul (. . .) orationem habuit luculentam atque utilem rei publicae, quam postea scriptam edidit. 9) C. J. Classen (brieflich, 21.8.2004) unter Verweis auf Cic. Caec. 74: diligentissime descripta a maioribus iura finium. Freilich bedeutet descripta an dieser Stelle etwas anderes (‚festgelegt‘, ‚festgesetzt‘), so daß auch diese Textänderung unsicher bleiben muß. – de scripto kann leicht aus descripta entstanden sein (und umgekehrt); Olechowska führt in app. für de scripto drei codd. deteriores aus derselben Handschriftenfamilie an, sieben Mss., darunter das älteste vollständige (cod. Latinus Monacensis 18787, saec. XI), haben descripta, eines de scripta.
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ren die Namen seiner Unterstützer.10 Daß aber Plancius nachweislich auch schon in der tatsächlich gehaltenen Rede genannt war und nicht nur unter einer größeren Zahl in einer späteren Fassung oder dem Konzept, ist ganz im Sinne der Absicht Ciceros, sowohl den Angeklagten als auch sich selbst und das eigene Urteilsvermögen im besten Licht erscheinen zu lassen. – Eine Übersetzung (mit beiden Varianten): Obwohl ich in dieser Rede nur sehr wenigen Personen namentlich gedankt habe, weil auf keinen Fall alle aufgezählt werden konnten, es aber verkehrt gewesen wäre, jemanden zu übergehen, weswegen ich beschloß, nur diejenigen zu nennen, die für meine Sache in der ersten Reihe standen und gleichsam Bannerträger waren, da habe ich unter diesen Plancius meinen Dank ausgesprochen. Man lese die Rede vor, die wegen der großen Bedeutung der Sache nach meinem Entwurf veröffentlicht / sorgfältig protokolliert worden ist. Ich Schlaukopf habe mich dort an jemanden gebunden, dem ich überhaupt nicht sonderlich verpflichtet war, und die Fesselung durch diese so gewaltige Dankesschuld durch ein unvergängliches Zeugnis bekräftigt. Ich will (hier) nicht das Übrige, das ich schriftlich festgehalten habe, vorlesen; ich übergehe es, um nicht in den Verdacht zu geraten, die Sache für den Augenblick in die Länge zu ziehen oder mich der Art von Gelehrsamkeit zu befleißigen, die meinen Liebhabereien angemessener sein dürfte als dem vor Gericht Üblichen. Die Textpassage aus seiner Dankesrede, die Cicero in der Planciana zitiert haben wollte, könnte also auf zwei verschiedene Weisen dokumentiert worden sein. Beide Varianten11 sind sprachlich besser als der überlieferte Text und schließen v.a. die unmögliche Vorstellung eines am Manuskript klebenden Redners aus. Cicero hielt, soviel steht in jedem Fall fest, auch die Rede Post reditum ad senatum – selbstverständlich nach sorgfältigster Vorbereitung mit abschließender memoria – ohne Manuskript.12 Köln Bielefeld
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10) Einen anderen Teil machten vermutlich philosophisch angehauchte Reflexionen aus: aut eo genere uti litterarum quod meis studiis aptius quam consuetudini iudiciorum esse videatur. 11) Wenn sie hier nebeneinandergestellt sind, so signalisiert das auch, daß damit keineswegs das letzte Wort in der Frage der Textgestaltung gesprochen sein soll. Unsere Überlegung ging von der sachlichen Unmöglichkeit des gängigen Verständnisses der Stelle aus; die sprachlichen Erwägungen haben sehr viel stärker putativen Charakter. 12) In der Sache (doch ohne Textänderung) so auch schon C. J. Classen, Recht – Rhetorik – Politik. Untersuchungen zu Ciceros rhetorischer Strategie, Darmstadt 1985, 5 mit Anm. 13: Cicero habe in der Regel für die Publikation seiner Reden kein ausgearbeitetes Manuskript zur Verfügung gehabt, sondern höchstens eine Nachschrift; eine Ausnahme habe die Rede Post reditum ad senatum dargestellt. Ähnlich scheint M. Fuhrmann in seiner Übersetzung der Cicero-Reden die Stelle verstanden zu haben: „Man lese die Rede vor; ich hatte sie wegen der Bedeutsamkeit der Sache, ehe ich sie vortrug, schriftlich abgefaßt.“ Beide Forscher hüten sich also mit Recht vor der Annahme, daß Cicero mit Manuskript i n d e n S e n a t gekommen sei.
RHETORISCHER HÖHEPUNKT UND WIDERSPRÜCHLICHE GEDANKENFÜHRUNG IN DER REDE DES PHAIDROS (Platon, Symp. 179b4–180b8)1 1. Íperapoyane›n – §papoyane›n Phaidros, der in Platons Symposion den Reigen der Lobreden eröffnet, verherrlicht zunächst die ungewöhnliche, nicht in das systematische Gefüge einer Göttergenealogie einzuordnende Genesis des Eros (178a6–c2a),2 preist anschließend die außerordentlichen Wohltaten dieses Gottes, der den Menschen eine unbeirrbare, sogar die Todesangst überwindende éretÆ3 verleiht (178c2b– 179b3), um dann sein Enkomion in dem Phänomen des Íperapoyane›n weihevoll ausklingen zu lassen (179b4–180b8):4 Die von Eros ergriffenen Menschen (¶nyeoi)5 sind nicht nur bereit, ihr 1) Für den fachlichen Austausch danke ich Herrn Dr. U. Hübner. 2) Zur Genealogie des Eros vgl. G. Waser, Art. ‚Eros‘, RE 6,1 (1907) 484–542, hier: 485 ff. 3) Zu der Übereinstimmung des Erosbildes mit der Einbindung der Homosexualität in die militärische Ideologie dorischer Staaten (insbes. von Sparta) vgl. A. E. Taylor, Plato. The Man and his Work, London 1926, 213; E. Bethe, Die dorische Knabenliebe, RhM 62, 1907, 438–475, hier: 444 ff.; D. Ogden, Homosexuality and warfare in classical Greece, in: Battle in Antiquity, ed. A. B. Lloyd, Newburyport 1996, 107–168; P. Cartledge, The Politics of Spartan Pederasty, PCPS, NS 27, 1981, 17–36. 4) Die kritische Beurteilung der Phaidrosrede als eine unreife Leistung des jugendlichen Enthusiasten, der ohne jegliche Disposition Argumente aufzählt (vgl. Taylor [wie Anm. 3] 212: „jejune and commonplace“ und bes. L. v. Sybel, Platon’s Symposion. Ein Programm der Akademie, Marburg 1888, 110 f.), ist in dieser Schärfe zurückzuweisen. Gewiss ist die Rede locker gestrickt und reiht einzelne Gesichtspunkte assoziativ aneinander; aber klar zeichnen sich die oben genannten Abschnitte ab; gut bereitet die eingangs erwähnte außergewöhnliche Genesis und der Aspekt des yaumãzein den Hauptteil (die außergewöhnliche Macht des Gottes) und den Höhe- und Schlusspunkt der Rede (das Erstaunen der Götter, die Umkehrung der Naturgesetze) vor. Zu der auffälligen Kurzatmigkeit gegen Ende der Rede vgl. S. 247. 5) Zum Begriff ¶nyeow vgl. E. Rohde, Psyche. Seelenkult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, Bd. 2, Tübingen 1907 (1893), 19 ff.
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Leben zu riskieren, sondern sogar bewusst den Tod auf sich zu nehmen. Zwei mythologische Exempla6 führt Phaidros als Zeugen des Íperapoyane›n an: Alkestis, die den Tod für das Leben ihres Mannes diå tÚn ¶rvta7 auf sich nahm und mit dieser selbstlosen Tat der Liebe die Götter in solch staunende Bewunderung versetzte, dass ihr das seltene g°raw verliehen wurde, auf die Erde zurückzukehren; Achill, der den Tod des Patroklos rächte, obwohl er um die Folgen seines Handelns wusste und obwohl er nichts mehr an dem Tod seines Liebhabers zu ändern vermochte. Die Tatsache, dass Achills Gang in den Tod nicht dem Leben seines Liebhabers dient, dass er nicht f ü r das Leben des anderen stirbt, sondern ohne diesen Trost und einzig ihn rächend und das Andenken ehrend ihm n a c h stirbt,8 unterscheidet ihn von Alkestis. Und aufgrund dieses Unterschiedes geraten auch die Götter in ein noch größeres Staunen und verleihen ihm eine noch größere Auszeichnung als Alkestis: Sie schenken ihm nicht ein zweites Leben, sondern entsenden ihn auf die Inseln der Seligen: ˜yen dØ ka‹ Íperagasy°ntew ofl yeo‹ diaferÒntvw aÈtÚn §t¤mhsan. Phaidros entfernt sich also um diese Nuance9 von dem angekündigten Thema des Íperapoyane›n und steigt in seinem Lob6) Das negative Beispiel des Orpheus, das bei den wenigen berühmten Fällen, die sich mit der Thematik Liebe/Tod/Unterwelt befassen, nicht übergangen werden konnte, soll in erster Linie verdeutlichen, worauf es bei der Haltung der Alkestis ankam: Nicht der riskante, womöglich todbringende Gang in die Unterwelt, sondern die Bereitschaft, aus Liebe den Tod auf sich zu nehmen, kennzeichnet jene von den Göttern bewunderte Tat: Das erbärmliche Ende – warum er sogar von den Göttern bestraft wird, bleibt unklar – leitet ebenfalls kontrastierend zum Beispiel des Achill über. Vgl. Anm. 16. 7) Alkestis ist durch diese Wendung auf die Rolle des Liebhabers festgelegt (vgl. A. Hug, Platons Symposion, Leipzig 1884, ad loc.; K. Dover, Plato, Symposion, Cambridge 1980, ad 179b6, der zudem eine ältere und schlichtere Quelle vermutet). Der Begriff fil¤a hingegen, der insbesondere von der Erwiderung der Liebe seitens des §r≈menow gebraucht wird, darf hier nicht in dieser speziellen Bedeutung, sondern muss als der allgemeinere Begriff der Liebe verstanden werden (vgl. R. Hirzel, Untersuchungen zu Ciceros philosophischen Schriften, Bd. 2, Hildesheim 1964 [Leipzig 1882], 393; ferner: W. Nicolai, Zur Platonischen Eroskonzeption, GB 22, 1998, 81–100, hier: 88 f. ). Zu den Rollen des Liebhabers und des Geliebten vgl. S. 244. 8) Vgl. Hug (wie Anm. 7) ad loc. 9) 208d1 ff. beweist durch das Hinzunehmen eines weiteren Aspektes, dass die Begriffe keinesfalls synonym eingesetzt sind und dass die Differenzen nicht unterbewertet (vgl. R. G. Bury, The symposion of Plato, Cambridge 1932, ad 180a) werden dürfen: . . . ka‹ pÒnouw pone›n oÍstinasoËn ka‹ Íperapoynπskein. §pe‹ o‡ei
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lied zu der éretÆ des §papoyane›n auf, die zwar mit der éretÆ des Íperapoyane›n auf das engste verbunden ist, sie jedoch übertrifft und noch eindrücklicher die Macht des Eros, des Urhebers solcher Taten, beweist. Obwohl Phaidros mit den Inseln der Seligen als einem nicht mehr zu überbietenden g°raw den Höhepunkt seiner Rede erreicht hat, obwohl er diese Steigerung über die enge Führung von Íperapoyane›n zu §papoyane›n, von égasy°ntew zu Íperagasy°ntew herausgearbeitet hat und mit ˜yen dÆ offensichtlich auf den zuvor genannten Begründungen aufbaut, bietet er 180b3 eine weitere Begründung dafür,10 dass die Götter Achill bevorzugt behandelten: Ohne dass man sogleich ahnt, welches Ziel die nachträgliche Erörterung der Frage, ob Achill die Rolle des Liebhabers oder die des Geliebten zukomme, denn verfolgt, wird mit Nachdruck für Achill der Part des Geliebten gefordert.11 Diese zunächst noch unverständliche Begründung für die Bevorzugung steht nicht nur in einem Konkurrenzverhältnis zur ersten Begründung, sondern gibt in sich schwer zu lösende Rätsel auf: . . . mçllon m°ntoi yaumãzousin ka‹ êgantai ka‹ eÔ poioËsin ˜tan ı §r≈menow tÚn §rastØn égapò, µ ˜tan ı §rastØw tå paidikã. yeiÒteron går §rastØw paidik«n, ¶nyeow gãr §sti. (180b1–4a)
Der Text, der durch mehrfach eingestreutes gãr und emphatisches m°ntoi mehr Begründungen fordert als zur Verfügung stellt, entzieht sich einer eindeutigen Interpretation: Entweder schätzen die Götter deswegen die Tat des Geliebten höher als diejenige des Liebhabers, weil der Liebhaber als ein ¶nyeow nicht (ausschließlich?) aus seiner éretÆ handelt, sondern im Zustand der Ergriffenheit göttliche Hilfe genießt; oder die Götter zeichnen die Tat des Geliebten deswegen mit größeren Ehren aus, weil sie einem ¶nyeow, einem göttlichen Wesen, erwiesen wurde. Beide Interpretationen12 sÊ, ¶fh, ÖAlkhstin Íp¢r ÉAdmÆtou époyane›n ên, µ ÉAxill°a PatrÒklƒ §papoyane›n, µ proapoyane›n tÚn Ím°teron KÒdron . . . 10) Indem sich der erste Teil des Satzes auf die davorstehenden Begründungen bezieht, der zweite Teil einen neuen Gesichtspunkt vorbringt und den folgenden Absatz einleitet, bricht der Satz in der Mitte auseinander. 11) Zu dem Verhältnis zwischen Achill und Patroklos in der griechischen Literatur und insbes. bei Homer vgl. Hug (wie Anm. 7) ad loc. 12) Hug (wie Anm. 7) 46 kombiniert diese Gesichtspunkte: „Man erklärt die Worte gewöhnlich so, daß yeiÒteron denjenigen bezeichne, der von Gott erfüllt . . . zu Thaten der Aufopferung getrieben werde, so daß dieselben, weil unfreiwillig, moralisch weniger hoch angerechnet werden können . . . So sehr dies der Gedanke
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geraten in Widerspruch zu den bisherigen Äußerungen: Der voranstehende Redeabschnitt (178c2a–e3b) basiert zwar ausdrücklich auf den Polen des Liebhabers und des Geliebten, strebt aber keine Gegenüberstellung oder gar eine Entscheidung darüber an, wem von beiden die höhere Wertschätzung zukomme.13 Erst in dem Ausblick auf den erosbeherrschten Staat (178e3–179b3) verschiebt sich der Schwerpunkt zugunsten des Liebhabers.14 Diese Verschiebung setzt sich in dem letzten Redeteil fort und ist nicht erklärungsbedürftig, weil die höhere Wertschätzung des Liebhabers in der griechischen Antike üblich war15 und weil zudem die Wirkungsweise des Eros eindrücklicher an der aktiven Rolle des Liebhabers veranschaulicht werden kann. 2. Der Gegensatz von éretÆ und ¶nyeow Eine Interpretation, die den Liebhaber dem Geliebten hintansetzt und die Tat, die im Zustand des Ergriffenseins auf Betreiben des Eros geleistet wird, derjenigen Tat, die (in höherem Maße) auf
des Phädros im allgemeinen ist, so dürfen wir doch den Begriff yeiÒteron hierauf nicht beschränken; denn dann würde das folgende ¶nyeow gãr §stin eine umso unerträglichere Tautologie bilden als ¶nyeow die schwächere Bezeichnung desselben Begriffes wäre. ye›ow ist ehrendes Epitheton: der §rastÆw ist als ¶nyeow zugleich ein höheres Wesen, als der nicht gotterfüllte Mensch . . . Für ein solches Wesen sich aufzuopfern ist eine größere That als für einen anderen, also auch für den Geliebten.“ 13) Vgl. 178c3–5. 178e1 f.e4 f. Vgl. K. Dover, Homosexualität in der griechischen Antike, München 1983, 23. 14) Zur aktiven Rolle des §rastÆw und der passiven des §r≈menow vgl. Dover (wie Anm. 13) 23 ff.; Plat. Phaidr. 255e. Zu einem anderen Ergebnis gelangt S. T. Rosen, Plato’s Symposion, London 1968, 50 ff.: Phaidros, der Eros als „a substitute for virtue, and especially for courage“ (53) auffasst, misst der Rolle des Geliebten größere Bedeutung zu, da der Geliebte wegen der Schamgefühle des Liebhabers diesen in der Hand hat. „Being seen and being loved are more important than doing or loving; passivity is more important than activity.“ (53) Diese Interpretation wird nicht nur nicht vom Text getragen (auch Aussagen wie: „Nothing is said about the beloved coming to the rescue of the lover“ lassen sich leicht mit dem Verweis auf 178 e1 f. widerlegen), sondern steht auch im Widerspruch zu dem letzten Teil, dem Höhepunkt der Rede, welcher auf der unlösbaren Einheit von Arete, Eros und der Tat basiert und den Ansatz „being seen and being loved are more important than doing or loving“ scheitern lässt. 15) Das gesamte Symposion beachtet in erster Linie die Funktion des Eros für den Liebhaber; vgl. Nicolai (wie Anm. 7) 82.
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menschlicher éretÆ gründet, unterordnet,16 gerät insbesondere mit jener Passage in Widerspruch, die den Gedanken des Íperapoyane›n vorbereitet: . . . oÈde‹w oÏtv kakÚw ˜ntina oÈk ín aÈtÚw ı ÖErvw ¶nyeon poiÆseie prÚw éretÆn . . . ka‹ étexn«w, ˘ ¶fh ÜOmhrow, m ° n o w § m p n e Ë s a i §n¤oiw t«n ≤r≈vn tÚn yeÒn, toËto ı ÖErvw to›w §r«si par°xei gignÒmenon parÉ aÍtoË. (179a7–b3)
Denn hier weist Phaidros am Beispiel des Liebhabers die Fähigkeiten zu außerordentlichen Taten auf, die gerade dem Zustand des Ergriffenseins entspringen. éretÆ und ¶nyeow bilden eine Einheit.17 Und davon abgesehen, dass die bisherige Argumentation des Textes untersagt, éretÆ gegen ¶nyeow auszuspielen, müsste Eros, der zuvor ohne jegliche Eintrübung verherrlicht wurde, eine herbe Niederlage hinnehmen, die umso unangenehmer lastet, als Phaidros ausgerechnet in der Passage, die als Schluss- und Höhepunkt des Enkomions angestrebt wurde, eine kritische Haltung annimmt. Ja, der noch folgende zusammenfassende Schlusssatz vermag trotz des Aufgebotes an Superlativen die Scharte nicht auszuwetzen und verschlimmert mit seiner Behauptung ka‹ kuri≈taton e‰nai efiw éret∞w . . . kt∞sin (180b7 f.) die Widersprüchlichkeit der Gedankenführung.
16) Auch Rosen (wie Anm. 14) entscheidet sich für diesen Interpretationsweg, um folgende Deutung anzuschließen: „In rejecting inspiration Phaedrus rejects Eros’ authority as well. He thus represents the vulgarization of reason into selfish calculation, the result of the sundering of reason from Eros.“ (59) Davon abgesehen, dass der unterstellte philosophisch-politische Kontext allzu konstruiert erscheint (Warum sollte Platon, wenn er diese Bezüge anstrebte, den Leser derart auf ein Herumdeuten zwischen den Zeilen verweisen?), werden weder die Bezüge zur Rolle der Alkestis herausgearbeitet noch das deutliche Lob auf die ¶nyeoi herangezogen; zudem bleibt unklar, wie jene Zurückweisung des Eros in das Enkomion integriert ist. 17) Der Àste-Satz darf nicht dazu verleiten, ¶nyeon und ér¤stƒ fÊsei gegensätzlich aufzufassen; vielmehr kann sogar ein schlechter Mensch unter der außerordentlichen Macht des Eros zu einem ¶nyeon prÚw éretÆn, zum ˜moion ér¤stƒ fÊsei aufsteigen. kakÒw steht somit ¶nyeow und êristow gegenüber. Denn würden êristow, éretÆ den Zustand des Ergriffenseins ausschließen oder überflüssig machen, könnte ¶nyeow als Steigerung der éretÆ nicht bei den homerischen Helden funktionieren.
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3. Der Gegensatz von ¶nyeow und §nyeiÒterow Der zweite Interpretationsweg verlagert den Schwerpunkt von demjenigen, der sich aufopfert, zu demjenigen, dem das Opfer erbracht wird. Die Götter staunen demnach nicht so sehr über die Leistung des Achill, sondern über die Göttlichkeit des Patroklos. Achill wäre also in erster Linie wegen der Vorzüge eines anderen auf die Inseln der Seligen gelangt.18 Auch diese bereits in sich dubiose Argumentation muss sich dem voranstehenden Text stellen. Und wiederum zeigt gerade 180b nachdrücklich, dass Eros, éretÆ und die Tat der Selbstaufopferung eine unlösbare Einheit bilden. Wieso sollte am Ende nicht mehr derjenige, der die Tat vollbringt, im Mittelpunkt stehen, wieso sollte jetzt Eros nicht mehr derjenige sein, der den Menschen im Zustand des Ergriffenseins zu solchen Leistungen anspornt, die von den Göttern bestaunt und belohnt werden, sondern derjenige, der die Menschen zwar schon irgendwie zu solchen Taten befähigt, während die Götter nicht unmittelbar auf die Tat reagieren, sondern ihre Entscheidungen im Hinblick darauf treffen, ob ein Liebhaber oder ein Geliebter die Tat vollbringt? Die verwirrende Gegenüberstellung eines Achill, der von Eros minder ergriffen ist, aber doch die Tat begeht, also aktiver ist, und eines Patroklos, der von Eros in stärkerem Maße ergriffen ist, aber notgedrungen zur Zeit der Tat äußerst passiv ist, kann nicht überzeugen. Nachdem somit beide Interpretationswege nicht zu einer befriedigenden Lösung führen, sollen nun die Erklärungsmöglichkeiten, weshalb sich Phaidros gegen Ende seiner Rede derart in 18) Auch P. Friedländer, Platon, Bd. 3, Berlin 21960, 10 stolpert über diesen Erklärungsschritt: „Und hier wird nun – seltsam für uns – ein Unterschied gemacht: Wenn der Geliebte sich für den Liebenden opfere, wie Achill für Patroklos, so wird das von den Göttern höher gewertet, als wenn das Umgekehrte geschieht.“ Und da die im Text gebotene Begründung Friedländer nicht zufrieden stellt, sucht er den Schlüssel zum eigentlichen Verständnis der Textpassage auf einer tieferen Bedeutungsebene: „Das klingt im Munde des Phaidros spitzfindig und, wenn man an Eryximachos denkt, grotesk, bis man den Blick auf . . . Sokrates richtet. [Wann und warum sollte man dies tun?] Sokrates ist der große Liebende. Seltener ist es schon, daß die Jünger ihm mit der Zuneigung (égapçn) entgegenkommen, die sich gebührt. Tun sie das aber, so erweisen die Götter ihnen Gutes. Auf Sokrates den Gotterfüllten also zielt diese Rede . . .“ Eine solch pathosüberladene Interpretation findet im Text keinen Anhaltspunkt und löst auch nicht die grundsätzlichen Widersprüche in der Eroskonzeption.
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Widersprüche verstrickt, kurz vorgestellt werden, wobei keine Wertung vorgenommen wird, sondern die Entscheidung dem Leser überlassen bleibt. Zum einen können die Widersprüche so angelegt sein, dass sie vom aufmerksamen Leser bemerkt werden sollen: Phaidros wird als ein Redner charakterisiert, der in jugendlichem Übereifer sein Enkomion nicht rechtzeitig beendet, der glaubt, all sein Wissen und Denken zu diesem Thema vorbringen zu müssen, der nicht auf die Stringenz seiner Ausführungen achtet und so mit seiner zweiten Begründung für die Bevorzugung des Achill ins Stolpern gerät. Dieses Stolpern wirkt sich auf den sprachlichen Bereich aus (das so deutliche Umkippen des ˜yen-˜ti-Satzes; die kurzatmige Syntax der Begründung 180b1–4a), wodurch der Leser wiederum eine Hilfestellung erhält, die Ethopoiie zu erkennen. Anders als das Erklärungsmodell der Ethopoiie führt die Annahme einer Interpolation die Widersprüche und die sprachlichen Anstöße auf einen unaufmerksamen Leser zurück, der die Steigerung von Íperapoyane›n zu §papoyane›n und von égasy°ntew zu Íperagasy°ntew nicht bemerkte und der deshalb eine Begründung für die bevorzugte Behandlung des Achill vermisste; seine nachgereichten Begründungen greifen allerdings zu kurz, beachten nicht den übergeordneten Rahmen des Enkomions und trüben – ausgerechnet am Ende der Rede – das Erosbild. Breitscheid
Claudia Ungefehr-Kortus
GESCHICHTSSCHREIBUNG UND KOMPILATION Diodors historiographische Arbeitsmethode und seine Vorstellungen von zeitgemäßer Geschichtsschreibung Wer in Diodors Universalgeschichte, der Bibliotheke, liest, stellt schnell fest, dass sie auf Informationen basiert, die Diodor anderen Werken entnommen hat, d. h. dass es sich bei ihr um eine Kompilation handelt. Mehr noch: Man hat sogar plausibel angenommen, dass bereits ihr Titel, der spätestens zu Plinius’ Zeit allgemein gebräuchlich war,1 als ein so genannter „rhematischer Titel“2 dem Leser Aufschluss über diesen Sachverhalt gibt:3 Als ein „Depot von Büchern“4 enthält die Bibliotheke eine Fülle von Werken, die Diodor kompiliert und epitomiert hat, um aus ihnen ein neues historiographisches Werk zu erstellen.5 Diese Auffassung 1) Plin. nat. praef. 25: apud Graecos desiit nugari Diodorus et biblioyÆkhw historiam suam inscripsit; vgl. dazu E. Schwartz, Diodoros (38), RE I 2 (1903) 663– 704, hier 663. 2) Ich übernehme hier die Terminologie G. Genettes, Paratexte. Das Buch vom Beiwerk des Buches, dt. Übers. des frz. Originals Seuils, Paris 1987, Frankfurt a. Main 2001, der seinerseits auf die Unterscheidung aus der Linguistik zwischen Thema („worüber man spricht“) und Rhema („was man drüber sagt“) rekurriert: „Als Hauptsache halten wir fest, daß im Prinzip nicht zwischen einer Betitelung unter Bezug auf den Inhalt (Le Spleen de Paris) respektive unter Bezug auf die Form (Petits poèmes en prose) gewählt wird, sondern, genauer, zwischen einer Ausrichtung auf den thematischen Inhalt und einer Ausrichtung auf den Text selbst, der als Werk oder Objekt betrachtet wird“ (79 f.). 3) Vgl. Schwartz (wie Anm. 1) 669; A. Burton, Diodorus Siculus, Book I. A Commentary, Leiden 1972, 1; J. Hornblower, Hieronymos of Cardia, Oxford 1981, 24; E. Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic, Oxford 1985, 223. 4) Vgl. P. Burde, Untersuchungen zur antiken Universalgeschichtsschreibung, Diss. Erlangen, München 1974, 94. 5) Nicht sehr weit entfernt von dieser Deutung sind auch T. Birt, Das antike Buchwesen in seinem Verhältnis zur Literatur, Aalen 21974, 94, der einen Hinweis auf „das Umfassende [der] Anlage“ vermutet, und K. T. Schäfer, Bibliotheca, RAC II (1954) 230 f., hier 230, der den Namen überhaupt nur auf den Umfang derartiger Werke, die in mehreren Rollen enthalten waren, beziehen will. Fasst man Biblio-
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verträgt sich durchaus mit der in der Antike nachweisbaren Bedeutung des Wortes bibliotheca, das neben dem Gebäude auch die große Zahl der Bücher selbst, die in ihm aufbewahrt wurden, bezeichnen konnte.6 Der Titel Bibliotheke fügt sich überdies zwanglos in eine ganze Reihe ähnlicher Titel ein, die man in der Antike für Kompilationen zu verwenden pflegte, wie k°raw ÉAmalye¤aw, ‡a, MoËsai, pand°ktai, §gxeir¤dia, leim≈n, p¤naj in der griechischen und Antiquitatum, Exemplorum Artiumque, Lucubrationum [libri] o. ä. in der lateinischen Literatur.7 Nicht zuletzt wird man auch aus der Tatsache, dass die groß angelegte Kompilation theke mithin als rhematischen Titel über die Form des Werkes, sind im Grunde alle Konnotationen der referierten Deutungen mitenthalten. Wenig plausibel hingegen sieht K. Sacks, Diodorus and the First Century, Princeton 1990, 77 im Titel eine Anspielung auf die Bibliothek in Alexandrien, in der sich Zusammenstellungen von Werktiteln auf den p¤nakew fanden, die auch eine Zusammenfassung des Inhalts boten. Diese Auffassung scheitert daran, dass Diodor keineswegs systematisch und akkurat seine Quellen nennt und auch keine präzisen Angaben macht, welche Teile seines Werkes von den jeweiligen Autoren übernommen sind. Der Vergleich mit der systematischen Katalogisierung der alexandrinischen Gelehrten scheint mir daher zu gezwungen. 6) Vgl. Paul. Fest. P. 34: bibliothecae et apud Graecos et apud nos tam librorum magnus per se numerus quam locus ipse, in quo libri collocati sunt, appellatur; K. Vössing, Bibliothek B (Griechenland, Rom, christliche Bibliotheken), DNP II (1997) 640–647, hier 640; C. Dziatzko, Bibliotheken, RE III 1 (1897) 405–424, hier 405. 7) Diese und andere Titel nennt Plin. nat. praef. 24. Dass Plinius in diesem Zusammenhang überwiegend kompilierter Werke Diodors Bibliotheke lobend heraushebt, kann man vielleicht als einen weiteren Hinweis darauf deuten, dass auch Plinius selbst mit der Tatsache vertraut war, dass die Bibliotheke ebenfalls eine Kompilation ist. Vgl. außerdem Gellius att. praef. 5–7, wo er den Inhalt von Büchern, deren Titel sich zu einem großen Teil mit den bei Plinius genannten decken, als varia[m] et miscella[m] et quasi confusanea[m] doctrina[m] (praef. 5), d. h. als Kompilationen, charakterisiert. Zu pand°kthw als Titel für kompilierte Enzyklopädien vgl. außerdem LSJ s. v. pand°kthw 1; zu §gxeir¤dia als typischem Titel für Epitomai vgl. H. A. Gärtner/U. Eigler, Epitome, DNP III (1997) 1175– 1177, hier 1175. Der Titel ‡a könnte, obschon nicht belegt, auf eine Anthologie (ênyh) verweisen (vgl. J. Beaujeu/E. Ernout [Hrsgg.], C. Plinius Secundus, naturalis historia, Bd. I, Paris 1950 zu nat. praef. 24, S. 54 Anm. 3) und auch leim«new war ein üblicher antiker Titel für Florilegien bzw. Anthologien, vgl. J. P. Schwindt, Florilegium, DNP IV (1998) 565 f., hier 565; Charakteristika dieser „Limon-Literatur“ stellt P. Ferrarino, Il Limon di Cicerone, SIFC 16 (1939) 51– 68, hier 66 f. zusammen, der diese literarische Gattung außerdem mit den römischen Antiquitates in Verbindung bringt (67); weitere Beispiele antiker Florilegien bringt H. Chadwick, Florilegium, RAC 7 (1969) 1131–1160, hier 1131– 1143.
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Ps.-Apollodors ebenfalls den Titel Bibliotheke trug,8 mit großer Wahrscheinlichkeit folgern dürfen, dass auch für den antiken Leser gleich von Beginn seiner Lektüre an deutlich war, dass die Informationen, die er dem Werk entnehmen konnte, aus anderen kompiliert waren. Ein kompiliertes Geschichtswerk vorzulegen bedeutete jedoch, sich mit einer Kontroverse über historiographische Methoden zu konfrontieren, in der Polybios eine führende Rolle gespielt hatte. Denn dieser hatte im zwölften Buch seiner Historien den Historiker Timaios kritisiert und in diesem Zusammenhang klare Bedingungen aufgestellt, denen ein Historiograph genügen müsse, der diesen Titel ernsthaft verdiene. Polybios sieht es nämlich als unabdingbar an, dass ein Geschichtsschreiber nicht nur (1) die nötige Schreibtischarbeit zur Aufarbeitung der Vorgänger leisten, sondern (2) auch selbst auf Forschungsreisen gehen (Autopsie) und (3) politisch aktiv sein müsse (12,25e,1; g,1). So wirft er Timaios hauptsächlich vor, dass er nur die erste der drei aufgezählten Bedingungen erfülle: Sein Geschichtswerk bestehe ausschließlich aus Informationen, die er durch Literaturstudium in großen Bibliotheken erworben habe, ohne selbst auf Reisen gegangen zu sein oder eigene politische und militärische Erfahrung aufweisen zu können (12,27,1–5). Eine solche Arbeitsweise kann Polybios nur als naiv zurückweisen (12,25e,7): TÒ ge mØn épÉ aÈt∞w taÊthw t∞w dunãmevw ırmhy°nta pepe›syai grãfein tåw §pigenom°naw prãjeiw kal«w, ˘ p°peistai T¤maiow, tel°vw eÎhyew [. . .], „ausgehend von ebensolcher Fähigkeit aber überzeugt zu sein, auch Gegenwartsgeschichte gut zu schreiben, wie es Timaios ist, ist völlig naiv.“9 Timaios’ Geschichtswerk quelle daher aufgrund der mangelnden praktischen Erfahrung des Verfassers vor Aussagen über, die ein Historiograph mit politischer und militärischer Erfahrung als unrichtig erkannt und demzufolge nicht in seine Darstellung in8) Zu Ps.-Apollodors biblioyÆkh vgl. E. Schwartz, Apollodoros (61), RE I 2 (1894) 2855–2886, hier 2875–2886, und die interessanten Ausführungen bei M. Hose, Die Kehrseite der Memoria oder Über Möglichkeiten des Vergessens von Literatur in der Antike, A & A 48 (2002) 1–17. 9) Vgl. auch Plb. 12,25e,4; vgl. darüber hinaus F. W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius II, Oxford 1967 z. St. und zu 27,1. Was Polybios unter „pragmatischer Geschichtsschreibung“ verstand, zeigt M. Gelzer, Die pragmatische Geschichtsschreibung des Polybios, in: ders., Kleine Schriften, hrsg. von H. Strasburger/C. Meier, Bd. III, Wiesbaden 1964, 155–160.
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tegriert hätte.10 Diese schon zu Diodors Zeit virulente Debatte entbehrte nicht moderner Nachfolger, denn auch Burton und Hornblower sahen einen Widerspruch zwischen dem Titel Bibliotheke, der, wie oben ausgeführt, auf eine Kompilation verweise, und dem Proöm, das sich als das eines ernst zu nehmenden, und das heißt in diesem Falle: originalen, Geschichtswerkes gebe.11 Ebenso sieht Fornara in flstor¤a im Sinne von „inquiry, research, investigation“ das „defining characteristic of the genre [historiography]“ und führt weiter aus: „When method designates a class of literary works, it is obvious that the activity described is the sine qua non of the genre, a necessary condition of composition.“12 Hier wird deutlich, dass in antiken wie modernen Zeiten der äußeren Form eines Geschichtswerkes eine so wichtige genrespezifische Bedeutung zugewiesen wurde, dass man Kompilatoren den Titel ‚Historiograph‘ und ihren Werken das Prädikat ‚Geschichtswerk‘ aboder von vornherein nicht zuerkannte. Ich möchte im Folgenden die These plausibel machen, dass dieser von antiken wie modernen Autoritäten konstatierte Widerspruch tatsächlich bei Diodor nicht besteht. Es lässt sich nämlich zeigen, dass Diodor bewusst die Kompilation als historiographische Methode anwandte, weil er in ihr eine moderne Arbeitsweise sah, die den Anforderungen an den Historiographen seiner Zeit entsprach. Er bezog somit eine deutliche Gegenposition zu Polybios’ Ideal des Historiographen als „typical man of action“13. Zwar hat auch für Diodor die Arbeitsweise des Kompilierens und die daraus resultierende äußere Form eines Geschichtswerkes entscheidende Bedeutung für seine Definition des Genres Geschichtsschreibung,14 jedoch in dem Sinne, dass sie für ihn zusammen mit 10) Für Beispiele siehe etwa 12,25g. 11) Vgl. Hornblower (wie Anm. 3) 26; weniger ausführlich Burton (wie Anm. 3) 1. 12) C. W. Fornara, The Nature of History in Ancient Greece and Rome, Berkeley 1983, 47; derselbe äußert sich 48 zu Polybios’ Timaioskritik. 13) Walbank (wie Anm. 9) zu Plb. 12,27,10. 14) Ich verwende hier und im Folgenden den Begriff ‚Genre‘ synonym mit ‚Gattung‘ und im Sinne der so genannten „Partizipationsmodelle“ (siehe dazu grundlegend M.-L. Ryan, Introduction. On the Why, What and How of Generic Taxonomy, Poetics 10 [1981]), die U. Suerbaum, Text, Gattung, Intertextualität, in: B. Fabian (Hrsg.), Ein anglistischer Grundkurs. Einführung in die Literaturwissenschaft, Berlin 71993, 81–123, hier 94 kurz folgendermaßen charakterisiert: „Einer Gattung wird ein ganzes Bündel von Merkmalen verschiedener Art zugeordnet
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dem funktionalen Genrekriterium, der Universalgeschichte als magistra vitae,15 Konstituente für die Gattung Universalgeschichte ist. Um diese These zu untermauern, werde ich zunächst zu zeigen versuchen, dass sich Diodor in seinem Hauptproöm (1,1–5) auf Polybios’ Timaioskritik intertextuell bezieht und sie als den Erfordernissen seiner Zeit unangemessen zurückweist, indem er die rein literarische Geschichtsschreibung als einzig angemessene historiographische Methode etabliert. In diesem Zusammenhang möchte ich weitere entscheidende Passagen des Hauptproöms untersuchen, in denen sich Diodor mit seiner historiographischen Methode, der Kompilation, auseinandersetzt und begründet, weshalb gerade sie ein geeignetes Mittel ist, um in seiner Zeit Universalgeschichte zu schreiben. In einem zweiten Schritt werde ich dann exemplarisch an den ersten sechs Büchern der Bibliotheke, in denen Diodor die mythische Zeit behandelt, demonstrieren, dass er nicht nur nicht verbergen will, dass sein Werk kompiliert ist, [. . .]. Es wird nicht erwartet, daß das einzelne Werk alle diese Merkmale (oder alle wesentlichen Merkmale) aufweisen muß, um der Gattung zugerechnet zu werden. [. . .] Man kann sich den Bereich der Gattung als einen Kreis vorstellen, bei dem die zweifelsfrei zugehörigen Werke in der Nähe des Mittelpunkts ihren Platz haben, während andere im Randbereich liegen. Die Kreise benachbarter Gattungen überlagern sich.“ Dieses Modell bietet den großen Vorteil, einen flexiblen Genrebegriff zugrunde zu legen und damit dem Befund Rechnung zu tragen, dass oft eine eindeutige Zuordnung eines Werkes zu einem bestimmten Genre unmöglich ist. Mit Suerbaum (ebd. 95) verstehe ich daher Genre oder Gattung nicht als einen präzise definierten Begriff, durch dessen Verwendung ein „straffes hierarchisches System“ (ebd.) eben nur vorgetäuscht wird. Freilich fällt damit auch eine theoretische Unterteilung der Gattung ‚Historiographie‘ in verschiedene Untergattungen o. ä. fort (dazu für die griechische Geschichtsschreibung grundlegend J. Marincola, Genre, Convention, and Innovation in Greco-Roman Historiography, in: C. Shuttleworth Kraus [Hrsg.], The Limits of Historiography. Genre and Narrative in Ancient Historical Texts, Leiden 1999, 281–324 in Auseinandersetzung mit Jacoby). Suerbaums Beitrag ist darüber hinaus die m. E. beste Einführung in die komplexe Genrethematik, die hier nicht im Detail aufgearbeitet werden kann. Wichtige Beiträge zur Diskussion über Konstitution und Funktion von Gattungen speziell in der Antike sind außer G. B. Conte, Genres and Readers. Lucretius, Love Elegy, Pliny’s Encyclopedia, Baltimore 1994, L. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, BICS 18 (1971) 69–94, T. G. Rosenmeyer, Ancient Literary Genres: A Mirage?, YCGL 34 (1985) 74–84, L. Käppel, Paian. Studien zur Geschichte einer Gattung, Berlin 1992, und zur Geschichtsschreibung im Besonderen der exzellente Beitrag von Marincola. 15) Die wichtige Rolle, die neben den formalen gerade die funktionalen Gattungskriterien für die Konstitution von Gattungen spielen, hebt besonders deutlich Conte (wie Anm. 14) 106 f. hervor.
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sondern dass er sogar durchweg als Autorinstanz präsent ist, die den Leser explizit auf eben diesen Sachverhalt hinweist, weil damit für den Rezipienten entscheidende Vorteile im Sinne der effizienten und zielgerichteten Nutzung der von der Universalgeschichte gebotenen Informationen verbunden sind. In einem dritten und letzten Schritt will ich mich der Frage zuwenden, in welchem Verhältnis Diodors Methode der Kompilation zu seinen angeblichen Reisen steht, und nachzuweisen versuchen, dass es sich bei diesen höchstens um eine Art Kontrollreisen gehandelt hat, die Diodor jedoch nicht dazu dienten, das Material für die Bibliotheke erst zu sammeln. Meine Ausführungen beschränken sich auf die ersten sechs Bücher der Bibliotheke, in denen sich Diodor mit der mythischen Zeit befasst. Sie verstehen sich daher als erster Schritt und Anregung in Richtung auf eine Untersuchung, die die gesamte Bibliotheke unter dem Gesichtspunkt der Autorpräsenz in den Blick nimmt. 1. Das Hauptproöm Die Kompilation als moderne Arbeitsmethode ist bei Diodor eng verbunden mit seinen Vorstellungen von der Funktion der Geschichte als magistra vitae.16 Sie soll dem Leser ausnahmslos für alle Situationen und ohne zeitliche und räumliche Beschränkung 16) Diese Funktion hat die Universalgeschichte und damit auch die Bibliotheke natürlich mit allen anderen historiographischen Werken in Diodors Augen gemeinsam. Diodor strebt bei seiner Definition dieses entscheidenden funktionalen Genremerkmales einer Universalgeschichte nicht nach „absoluter Originalität“ (der Begriff bei Käppel [wie Anm. 14] 16), sondern schließt sich vielmehr inhaltlich an die herkömmliche Auffassung von Historiographie als magistra vitae an und gewährleistet dadurch, dass sich seine Universalgeschichte in funktionaler Hinsicht in die Gattung Historiographie einreihen kann. Besonders deutlich wird dies daran, dass Diodor im ersten Teil des Proöms nicht streng zwischen Geschichte und Universalgeschichte trennt (vgl. M. Kunz, Zur Beurteilung der Prooemien in Diodors historischer Bibliothek, Diss. Zürich 1935, 11 Anm. 3). Von herkömmlichen historiographischen Werken hebt sich Diodors Universalgeschichte dadurch ab, dass sie mit diesem funktionalen Genrekriterium ganz besondere formale Kriterien kombiniert. Erst diese Kombination macht eine Geschichte zur Universalgeschichte, die daher allein ihre Funktion als magistra vitae zufrieden stellend erfüllen kann; vgl. zu den formalen Gattungskriterien Anm. 18 und Anm. 15.
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Vorbilder bieten, an denen er sich orientieren kann.17 Dies kann in der geforderten Vollständigkeit freilich nur eine Universalgeschichte, d. h. Diodors Bibliotheke,18 leisten, weil in ihr allein dem Leser Handlungsmuster für wirklich jede erdenkliche Situation geboten werden.19 Die Zielgruppe der Bibliotheke sind dabei Menschen, die in der Gesellschaft in Spitzenpositionen tätig sind oder tätig werden wollen: Ihnen soll die Universalgeschichte zum gewünschten Erfolg verhelfen.20 Ein besonders geeignetes Instrument, um dieses Ziel zu erreichen, ist sie Diodors Auffassung nach 17) Zum Nutzen der Universalgeschichte vgl. DS 1,1,1: To›w tåw koinåw flstor¤aw pragmateusam°noiw megãlaw xãritaw épon°mein d¤kaion pãntaw ényr≈pouw, ˜ti to›w fid¤oiw pÒnoiw »fel∞sai tÚn koinÚn b¤on §filotimÆyhsan: ék¤ndunon går didaskal¤an toË sumf°rontow efishghsãmenoi kall¤sthn §mpeir¤an diå t∞w pragmate¤aw taÊthw peripoioËsi to›w énagin≈skousin. Diodor formuliert selbst das Benutzungsprinzip seines Werkes mit den Worten: ≤ d¢ diå t∞w flstor¤aw periginom°nh sÊnesiw t«n éllotr¤vn époteugmãtvn te ka‹ katoryvmãtvn épe¤raton kak«n ¶xei tØn didaskal¤an (1,1,2) und to›w t«n êllvn égnoÆmasi prÚw diÒryvsin xr∞syai parade¤gmasi, ka‹ prÚw tå sugkuroËnta poik¤lvw katå tÚn b¤on ¶xein mØ zÆthsin t«n prattom°nvn, éllå m¤mhsin t«n §piteteugm°nvn (1,1,4); dass Universalgeschichte für alle Situationen Hilfestellungen bieten kann, betont Diodor 1,3,2: keim°nhw går to›w énagign≈skousi t∞w »fele¤aw §n t“ ple¤staw ka‹ poikilvtãtaw peristãseiw lambãnein [. . .]. 18) Diodor sieht sich dabei in der Rolle des Historiographen, der als erster eine Universalgeschichte vorlegt, die diesen Namen wirklich verdient, vgl. DS 1,3,1. Aus dieser Stelle und aus Diodors Fehlerkatalog, in dem er die Mängel aller bis zu seiner Zeit verfügbaren (universal)historischen Werke aufzählt (1,3,2–4) und der ex negativo als Liste formaler Gattungskriterien dient, deren Erfüllung Diodor als unabdingbar für eine Universalgeschichte ansieht, geht deutlich hervor, dass Diodor nicht einzelne Vorgänger kritisiert. Vielmehr hält er das Genre Geschichtsschreibung als Ganzes, verstanden als Summe aller historiographischen Einzelschriften, für unzureichend. Mit seiner Bibliotheke soll Geschichtsschreibung nun auf einem anderen Niveau weitergeführt werden, alle anderen historiographischen Werke hingegen können ihm nur noch als Materialsammlung dienen. 19) Vgl. DS 1,1,4: xrhsimvtãthn; 1,3,2: ple¤staw ka‹ poikilvtãtaw peristãseiw; 1,3,5: ÍpÒyesin flstorikØn [. . .] tØn ple›sta m¢n »fel∞sai dunam°nhn; 1,3,6: eÈxrhstotãthn [. . .]; vgl. auch die Ausführungen zu den formalen Gattungskriterien Anm. 18 und Anm. 16. 20) Zu seiner Zielgruppe äußert sich Diodor in 1,1,5: ka‹ toÁw m¢n fidi≈taw éj¤ouw ≤gemon¤aw kataskeuãzei, toÁw dÉ ≤gemÒnaw t“ diå t∞w dÒjhw éyanatism“ protr°petai to›w kall¤stoiw t«n ¶rgvn §pixeire›n, xvr‹w d¢ toÊtvn toÁw m¢n strati≈taw to›w metå tØn teleutØn §pa¤noiw •toimot°rouw kataskeuãzei prÚw toÁw Íp¢r t∞w patr¤dow kindÊnouw [. . .]. kayÒlou d¢ diå tØn §k taÊthw §pÉ égay“ mnÆmhn ofl m¢n kt¤stai pÒlevn gen°syai proeklÆyhsan, ofl d¢ nÒmouw efishgÆsasyai peri°xontaw t“ koin“ b¤ƒ tØn ésfãleian, pollo‹ dÉ §pistÆmaw ka‹ t°xnaw §jeure›n §filotimÆyhsan prÚw eÈerges¤an toË g°nouw t«n ényr≈pvn.
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deshalb, weil sie dem Leser den mühevollen Erwerb eigener Lebenserfahrung erspart: Als ék¤ndunow didaskal¤a, „gefahrlose Belehrung“, ermögliche sie die kall¤sth §mpeir¤a, „beste Erfahrung“ (1,1,1). Diodor baut hier einen deutlichen Gegensatz zwischen dem gefährlichen Sammeln eigener Erfahrung und der ungefährlichen, aber umso effektiveren Lektüre universalhistorischer Schriften auf.21 Um aber die in der Universalgeschichte gebotene Informationsfülle effizient nutzen zu können, ist ein bestimmtes Rezeptionsverhalten des Lesers notwendig: Er soll mit der Geschichte eklektizistisch umgehen und aus ihr entnehmen, was immer ihm in einer aktuellen Situation gerade nützlich erscheint.22 In diesen Zusammenhang stellt Diodor gleich zu Beginn des Proöms Odysseus. Er dient ihm einerseits als Beispiel dafür, dass das von Diodor geforderte Rezeptionsverhalten des Lesers zeitgemäß ist gegenüber dem veralteten eigenen Reisen à la Odysseus. Andrerseits dient ihm Odysseus als Verkörperung einer unzeitgemäßen Art von Historiographie: Dem eklektizistischen Umgang des Lesers mit der Geschichte entspricht ein ebensolcher des modernen Universalhistorikers, der auch seinerseits sein Werk durch Kompilation erstellt. Diodor führt Odysseus als beispielhaften Vertreter derer ein, die noch persönlich die Welt erkunden und sich ihr Wissen erst nach dem Prinzip ‚Versuch und Irrtum‘ mühsam erwerben mussten. Dies, so Diodor weiter, hatte zur Folge, dass Odysseus zwar einen ungeheuren Schatz an Erfahrungen erwerben konnte (polupeirÒtatow, 1,1,2), als Preis dafür aber auch gravierende Unbilden über sich ergehen lassen musste (metå megãlvn étuxhmãtvn, ebd.).23 Insofern verwendet Diodor Odysseus hier weniger als Beispiel für einen weit gereisten und erfahrenen Helden, als vielmehr als einen Vertreter einer weit zurückliegenden Zeit (t«n ≤r≈vn), in 21) 1,1,2: ≤ m¢n [. . .] §k t∞w pe¤raw [. . .] mãyhsiw metå poll«n pÒnvn ka‹ kindÊnvn [. . .] ≤ d¢ diå t∞w flstor¤aw periginom°nh sÊnesiw épe¤raton kak«n ¶xei tØn didaskal¤an [. . .]. 22) Vgl. bes. DS 1,3,7: §j°stai går §k taÊthw [der Universalgeschichte] ßkaston prÚw tØn fid¤an ÍpÒstasin •to¤mvw lambãnein tÚ xrÆsimon, Àsper §k megãlhw éruÒmenon phg∞w. 23) Der entscheidende Abschnitt (DS 1,1,2) lautet im Ganzen: [. . .] t«n ≤r≈vn ı polupeirÒtatow metå megãlvn étuxhmãtvn [. . .]. Es folgt das Zitat Hom. a 3.
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der dieses Verfahren von ‚learning by doing‘ für den Wissbegierigen unumgänglich war und daher trotz vielfältiger Schwierigkeiten (metå megãlvn étuxhmãtvn) unternommen werden musste. Im Umkehrschluss bedeutet dies, dass ein moderner Leser sich das unbequeme und riskante Reisen dank der Universalgeschichte ersparen kann, weil er „die beste Erfahrung“ (kall¤sth §mpeir¤a, 1,1,1) durch deren Lektüre erwirbt. Odysseus fungiert in diesem Zusammenhang zunächst als Gegenbild des potentiellen Lesers der Bibliotheke, der sich nicht mehr wie jener Gefahren aussetzen muss, um die Erfahrungen zu sammeln, die er für ein erfolgreiches gesellschaftliches Leben braucht. Es lässt sich aber noch eine weitere, intertextuelle Deutungsebene des Paradigmas ‚Odysseus‘ ausmachen. Diodor verweist seinen Leser hier nämlich auf Polybios’ Timaioskritik, in deren Rahmen Odysseus ebenfalls eine paradigmatische Funktion erfüllt, die allerdings deutlich verschieden von der bei Diodor ist.24 Denn Polybios stellt den weit gereisten Trojakämpfer seinem Leser als Idealbild des Historikers vor Augen (12,27,10 f.): §ke›now [ÜOmhrow] går boulÒmenow ÍpodeiknÊein ≤m›n oÂon de› tÚn êndra tÚn pragmatikÚn e‰nai, proy°menow tÚ toË ÉOduss°vw prÒsvpon [. . .], „jener [Homer] wollte uns nämlich zeigen, wie ein aktiv forschender Mann sein muss, indem er uns die Gestalt des Odysseus vor Augen stellte [. . .]“ (es folgen die Zitate Hom. a 1–2a.3 f. und y 183). Und Polybios’ Fazit aus diesen Darlegungen lautet: Doke› d° moi ka‹ tÚ t∞w flstor¤aw prÒsxhma toioËton êndra zhte›n, „auch die Würde25 der Geschichtsschreibung scheint mir nach einem derartigen Mann zu verlangen“. Dabei sind für ihn gerade die zahlreichen Mühen und Gefahren, die ein Historiker für die Sammlung seines Materials auf sich nehmen müsse, ein essentieller Bestandteil ernst zu nehmenden historiographischen Arbeitens (12,27,6): ÑH d¢ polupragmosÊnh poll∞w m¢n prosde›tai talaipvr¤aw ka‹ dapãnhw, m°ga d° ti sumbãlletai ka‹ m°gistÒn §sti m°row t∞w flstor¤aw, „das vielfältige Engagement verlangt viel Mühsal und Aufwand, trägt aber 24) Vgl. Rawson (wie Anm. 3) 224, die annimmt, Diodor habe den Verweis auf Odysseus aus Polybios übernommen, „though not as the ideal potential historian Polybios thought him, but as the man whose hard-won experience the reader of history can more cheaply acquire“. Überzeugender sieht D. Ambaglio, La Biblioteca Storica di Diodoro Siculo: Problemi e metodo, Como 1995, 48 darin einen „evidente [. . .] distacco dalla posizione di Polibio“. 25) Zur Bedeutung ‚Würde‘ des Wortes prÒsxhma vgl. LSJ s. v. II.
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auch sehr viel bei und ist der wichtigste Teil der Geschichtsschreibung26.“ Odysseus wird bei Polybios also zum Prototyp und gleichzeitig zum Idealbild des Historikers, gerade weil er durch weite Reisen und praktische Erfahrung seine Kenntnisse erwirbt. So sieht Polybios in ihm auf der einen und Timaios auf der anderen Seite zwei unterschiedliche Arbeitsweisen von Historikern verkörpert: Die des énØr pragmatikÒw, des „aktiv forschenden Mannes“, der sich bei der Abfassung von Geschichtswerken auf eigene Erfahrung stützt, und die des reinen ‚Schreibtischhistorikers‘, der sich allein des Bücherstudiums bedient. Wie Polybios’ Formulierung „die Würde der Geschichtsschreibung“ (tÚ t∞w flstor¤aw prÒsxhma, 12,27,10) zeigt, handelt es sich dabei auch um die grundsätzliche Frage, ob der Forschungsgegenstand, die Geschichte, vom betreffenden Historiker angemessen repräsentiert wird. Dadurch erhält die gesamte Diskussion eine deutlich polemische Färbung. Denn offensichtlich sieht Polybios die Historiographie durch Geschichtsschreiber wie Timaios in ihrer dignitas beeinträchtigt. Auf diese apodiktischen Äußerungen des Polybios reagiert Diodor, indem er anhand von dessen Paradebeispiel Odysseus das Ideal des ‚learning by doing‘ in eine entfernte Vergangenheit verweist und ihm so eine grundsätzliche Absage erteilt. Sicher nicht zufällig zitiert er in diesem Zusammenhang denselben Vers der Odyssee,27 dessen sich auch Polybios bedient hatte, um sein eigenes Konzept des Historiographen zu etablieren. Im Proöm der Bibliotheke fungiert Odysseus mithin durch den intertextuellen Bezug auf Polybios auch als Symbol der Absage an Polybios’ Idealbild des Historikers als énØr pragmatikÒw, der sich für die Abfassung seines historiographischen Werkes Gefahren und Mühen aussetzen muss. Der Nachdruck, mit dem Diodor auf der Bequemlichkeit und Gefahrlosigkeit des Wissenserwerbes aus der Literatur als signifikantem Vorteil der Geschichtsschreibung insistiert (1,1,1) und der in einem unübersehbaren Gegensatz zu Polybios’ oben zitierter Aussage steht, verstärkt besonders den Eindruck, dass er sich gleich zu Beginn seines Werkes von dem von Polybios propagierten Idealbild der Geschichtsschreiber distanzieren und eine entgegengesetzte Position einnehmen will. 26) Zur Bedeutung ‚Geschichtsschreibung‘ für flstor¤a vgl. LSJ s. v. II, „written account of one’s inquiries, narrative, history“. 27) Hom. a 3: poll«n dÉ ényr≈pvn ‡den êstea ka‹ nÒon ¶gnv.
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Dieser zunächst eher indirekten Charakterisierung des modernen Universalhistorikers folgen im weiteren Verlauf des Hauptproöms Aussagen Diodors, an denen er die konkrete Rolle präzisiert, die die Kompilation und Epitome für die Abfassung einer Universalgeschichte spielt. Hier tritt die oben bereits angedeutete Verbindung zwischen dieser Arbeitsweise und der Funktion der Geschichtsschreibung als magistra vitae erneut zutage. So zählt Diodor gleich in 1,3,3 f. die Mängel seiner Vorgänger auf und beklagt insbesondere, dass es bisher niemand unternommen habe, alle Ereignisse, inklusive derjenigen zwischen den Epigonen und seiner eigenen Zeit, in e i n e e i n z i g e Geschichtsdarstellung zu integrieren (1,3,3): t«n flstoriogrãfvn oÈde‹w §pebãleto aÈtåw miçw suntãjevw perigrafª pragmateÊsasyai [. . .], „von den Geschichtsschreibern hat es bisher noch keiner unternommen, sie [die Ereignisse der Geschichte] in umfassender schriftlicher Form einer einzigen Darstellung auszuarbeiten“. Für den Leser, der sich einen umfassenden Überblick über die Geschichte zu seinem Nutzen verschaffen will, hat das unangenehme Konsequenzen (1,3,4): diÚ ka‹ dierrimm°nvn t«n te xrÒnvn ka‹ t«n prãjevn §n ple¤osi pragmate¤aiw ka‹ diafÒroiw suggrafeËsi dusper¤lhptow ≤ toÊtvn énãlhciw g¤netai ka‹ dusmnhmÒneutow. Weil daher die Zeiten und Handlungen in mehrere Darstellungen und unterschiedliche Historiographen auseinander gerissen sind, ist ihre Aufnahme schwer zu erfassen und schwer zu behalten.
Die Antithese von miçw suntãjevw perigrafª, „in umfassender schriftlicher Form einer einzigen Darstellung“, und §n ple¤osi pragmate¤aiw, „in mehrere Darstellungen“, sowie von t«n flstoriogrãfvn oÈde¤w, „keiner der Geschichtsschreiber“, und diafÒroiw suggrafeËsi, „in unterschiedliche Historiographen“, macht den Gegensatz zwischen der Uneinheitlichkeit der verschiedenen Werke unterschiedlicher Autoren und der thematischen Geschlossenheit der vereinheitlichenden Darstellung eines Autors besonders deutlich. Die negativ qualifizierenden Adjektive dusper¤lhptow und dusmnhmÒneutow bringen die Notwendigkeit zum Ausdruck, diesen Zustand zu ändern. Diese Änderung kann nur darin bestehen, die Zersplitterung der Orte und Ereignisse zu überwinden, indem der Universalhistoriker alle relevanten Fakten aus den Einzeldarstellungen sammelt und daraus sein einheitliches Werk (m¤a
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sÊntajiw) zusammenstellt. Das ist aber exakt die Tätigkeit eines Epitomators und Kompilators und auch die Diodors, wie er sofort im Anschluss verkündet (1,3,5): ÉEjetãsantew oÔn tåw •kãstou toÊtvn diay°seiw §kr¤namen ÍpÒyesin flstorikØn pragmateÊsasyai tØn ple›sta m¢n »fel∞sai dunam°nhn, §lãxista d¢ toÁw énagin≈skontaw §noxlÆsousan. Nachdem ich nun die Behandlung [des historischen Materials] eines jeden einzelnen geprüft hatte, fasste ich den Entschluss, eine historiographische Darstellung auszuarbeiten, die dem Leser einerseits am meisten nützen, ihm andrerseits aber am wenigsten zur Last fallen würde.
Wie das folgende Zitat zeigt, ist tØn ple›sta m¢n »fel∞sai dunam°nhn, §lãxista d¢ toÁw énagin≈skontaw §noxlÆsousan, „die dem Leser einerseits am meisten nützen, ihm andrerseits aber am wenigsten zur Last fallen würde“, hier durchaus nicht im Sinne eines allgemeinen delectare et prodesse zu verstehen.28 Diodors §lãxista [. . .] toÁw énagin≈skontaw §noxlÆsousan ist vielmehr so aufzufassen, dass dem Leser durch die Lektüre der Bibliotheke die Beschaffung und Sichtung vieler anderer Geschichtswerke erspart bleibt. Diesen Gedanken führt Diodor gleich im Anschluss (1,3,6– 8) weiter aus und macht deutlich, dass seiner Meinung nach die angemessene Form für seine Bibliotheke nur die Kompilation sein kann: to›w m¢n går §piballom°noiw dieji°nai tåw t«n tosoÊtvn suggraf°vn flstor¤aw pr«ton m¢n oÈ =ñdion eÈpor∞sai t«n efiw tØn xre¤an piptous«n b¤blvn, ¶peita diå tØn énvmal¤an ka‹ tÚ pl∞yow t«n suntagmãtvn duskatãlhptow g¤netai tel°vw ka‹ dus°fiktow ≤ t«n pepragm°nvn énãlhciw: ≤ dÉ §n miçw suntãjevw perigrafª pragmate¤a tÚ t«n prãjevn efirÒmenon ¶xousa tØn m¢n énãgnvsin •to¤mhn par°xetai, tØn dÉ énãlhcin ¶xei pantel«w eÈparakoloÊyhton. Wer sich nämlich daran macht, die Geschichtswerke so vieler Historiographen durchzugehen, hat es erstens nicht leicht, sich die notwendigen Buchrollen zu beschaffen. Weiterhin ist die Aufnahme der Taten vollkommen schwer zu erfassen und zu erreichen wegen der Uneinheitlichkeit und der Menge der Schriften; eine Darstellung in einer umfassenden schriftlichen Form aber, die den roten Faden der Taten erfasst, bietet eine bequeme Lesbarkeit, und die Aneignung [der gesuchten Informationen] lässt sich ganz leicht nachvollziehen.
Diodor geht hier davon aus, dass alles Material, das ein Leser für sein Studium als nützlich erachten könnte, bereits vorliegt, jedoch 28) So z. B. Rawson (wie Anm. 3) 224.
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in einer uneinheitlichen (énvmal¤a) und übergroßen Menge (pl∞yow) von Schriften. Der interessierte Leser hätte daher viele verschiedene Bücher auftreiben und sie mühsam durcharbeiten müssen, weil der Zusammenhang der Ereignisse eben durch die Zersplitterung des Materials in viele Darstellungen zerrissen ist. Wegen dieses unpraktischen Ausgangszustandes kann der Leser diese Informationen für sich daher nicht nutzen. So wird eine neue Universalgeschichte notwendig, die diese wichtigen Fakten für den Leser bereits gebrauchsfertig präsentiert, indem sie alles auslässt, was den ‚roten Faden‘ (tÚ t«n prãjevn efirÒmenon) der Ereignisse stört. Der Verfasser einer solchen Universalgeschichte, so darf man folgern, ist mithin gehalten, alles Überflüssige wegzuschneiden, zu ‚epitomieren‘, und nur das Grundgerüst der Geschichte (vgl. tÚ t«n prãjevn efirÒmenon) übrig zu lassen, an dem sich jeder leicht orientieren kann. Dass Diodor dabei an eine Tätigkeit denkt, die sich allein in den Bibliotheken abspielt, d. h. dass er sich mit dieser Forderung gerade an den von Polybios geschmähten ‚Schreibtischhistoriker‘ wendet, tritt besonders deutlich in 1,4,4 zutage. Denn hier lässt er seinen Leser wissen, dass er sich für die Darstellung der gesamten römischen Geschichte (pãsaw . . . prãjeiw) auf Aufzeichnungen stütze, womit demnach offenbar sogar die Zeitgeschichte eingeschlossen ist: [. . .] pãsaw tåw t∞w ≤gemon¤aw taÊthw [der Römer] prãjeiw ékrib«w énelãbomen §k t«n parÉ §ke¤noiw Ípomnhmãtvn §k poll«n xrÒnvn tethrhm°nvn, „alle Taten dieser vorherrschenden Macht [der Römer] habe ich sorgfältig aus den Aufzeichnungen bei ihnen entnommen, die seit langer Zeit bewahrt werden“.29 2. Der implizite Autor als ordnende Instanz in DS 1–6 Ausgehend von dieser Betrachtung der Aussagen Diodors über Materialorganisation und -auswahl durch Kompilation in der Bibliotheke lässt sich nun die Funktion zahlreicher anderer paratextueller Einschübe30 neu bestimmen. In diesem Zusammenhang 29) Vgl. dazu auch Burton (wie Anm. 3) 37. 30) Der Begriff Paratext ist Genettes (wie Anm. 2) gleichnamigem Buch entnommen. Eine kurze Definition von Paratext gibt er S. 9, wo er ihn als „Begleitschutz einiger gleichfalls verbaler oder auch nicht verbaler Produktionen wie [ein]
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kommt vor allem zwei Arten von Paratexten eine besondere Bedeutung zu: zum einen den häufig getadelten stereotypen Übergangsformeln, mit denen Diodor von einem Thema zum nächsten wechselt; zum anderen den formelhaften Präteritionen, mit denen er kurz zusammenfasst, welches Material er nicht eingearbeitet hat.31 Sie dienen Diodor dazu, den Leser beständig auf seine ‚Serviceleistung‘ aufmerksam zu machen, die er durch die Sichtung, Epitomisierung und Kompilation unzähliger historiographischer Werke erbracht hat. Dadurch bleibt die kompilierte Form der Bibliotheke dem Leser nicht nur stets bewusst, sondern Diodor vermittelt ihm auch, dass eben diese kompilierte Form den besonderen Vorteil seines Werkes ausmacht. Denn nur durch sie bleibt dem Leser die Lektüre von viel überflüssigem Material erspart. Ich möchte daher nun einige Beispiele für solche paratextuellen Einschübe besprechen. Diodor versichert dem Leser, dass er viel Material gesichtet hat, indem er öfter Alternativversionen einflicht.32 So kann der Leser sich das Bild eines impliziten Autors machen, der gewissenhaft möglichst viele Texte sichtet, damit ihm keine wichtige Information entgeht. Umgekehrt geht damit Hand in Hand, dass er als Epitomator bei der Auswahl der Versionen, die er aufnimmt oder nicht bzw. denen er zustimmt oder nicht, große Teile der Vorlage auslässt. Er verzichtet etwa auf eine Auflistung sämtlicher Namen Autorname[n], [ein] Titel, [ein] Vorwort und Illustrationen“ charakterisiert. Ihre Aufgabe ist, den Text „präsent zu machen, und damit seine ‚Rezeption‘ und seinen Konsum [. . .] zu ermöglichen“. Ich verwende den Terminus hier für Äußerungen Diodors über sein Material und seine Methoden der Materialauswahl, wie z. B. Angaben von Autoren seiner Vorlagen, Wertungen bestimmter Informationen usf. Sie alle lassen sich unter die bei Genette ebd. 310–313 behandelten „diskursive[n] Texte“ (ebd. 310) einreihen. 31) Ambaglios (wie Anm. 24) 30 Deutung dieser Präteritionen „non solo come scelta di accantonamento di possibili sviluppi narrativi, come continuo calcolo del rapporto fra necessario e superfluo, molto spesso come rifiuto di digressione, ma anche come avvertenza di passaggio da un argomento all’altro“ lässt sich, was ihre Funktion für die Stofforganisation betrifft, differenzieren, indem man den Bezug zur Kompilation herausstellt. Ambaglio hat freilich Recht damit, dass die Grenzen zwischen Übergangsformeln und Präteritionen nicht klar umrissen sind und eine Trennung der beiden meistens unmöglich ist. 32) Dies v.a. in den mit oÈk égno« eingeleiteten Abschnitten: 1,27,3; 37,11; 56,5; 3,66,4; 4,8,1; 44,4; 55,3; vgl. aber auch 3,51,1 und 3,63 f., wo er die verschiedenen Dionysoi aus unterschiedlichen mythographischen Werken referiert.
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medischer Könige in Assyrien, obwohl sie ihm, dies betont er ausdrücklich, im zweiten Buch des Ktesias von Knidos zur Verfügung gestanden hätten (2,22,1). Jede dieser Übergangsformeln / Präteritionen markiert nicht nur den Wechsel zu einem anderen Thema, sondern sie sind für Diodor auch Gelegenheit hervorzuheben, dass ihm seine Vorlage zwar mehr Material zur Verarbeitung geboten hätte, er jedoch an dieser Stelle abbrechen könne, weil der Rest unerheblich sei, wie z. B. in 1,44,5:33 ≤m›n d¢ per‹ •kãstou tå katå m°row makrÚn ín e‡h ka‹ per¤ergon grãfein, …w ín t«n ple¤stvn éxrÆstvn perieilemm°nvn. DiÒper t«n éj¤vn flstor¤aw tå kuri≈tata suntÒmvw dieji°nai peirasÒmeya. Es wäre zu langwierig und überflüssig für mich, über jede Einzelheit detailgetreu zu schreiben, da das meiste enthaltene Material unbrauchbar ist. Daher will ich versuchen, kurz die Hauptpunkte dessen durchzugehen, was der Geschichtsschreibung würdig ist.
Hier scheint die doppelte Auswahl (t«n éj¤vn flstor¤aw tå kuri≈tata) dafür zu sprechen, dass tatsächlich nur das Wesentliche Eingang in Diodors Universalgeschichte findet, er mithin die Verkürzung des Materials im Sinne des Lesers streng durchführt.34 In diese Richtung weisen auch die Äußerungen Diodors, gewisse Ereignisse seien der Geschichte (un)würdig.35 So kann Diodor die Qualität seiner Arbeit hervorheben, indem er seinem Leser mitteilt, dass er seine Quellen einer strengen Auswahl unterzieht und gewisse Historiker gar nicht in Betracht dafür kommen, Material für die Bibliotheke zu liefern (1,29,6): Íp¢r œn mÆte épode¤jevw ferom°nhw mhdemiçw ékriboËw mÆte suggrãfevw éjiop¤stou marturoËntow, oÈk §kr¤namen Ípãrxein tå legÒmena graf∞w êjia, „weil darüber weder eine genaue Darstellung in Umlauf ist noch ein vertrauenswürdiger Historiograph darüber Zeugnis ablegt, bin ich zu dem Urteil gekommen, dass das Gesagte nicht der Aufzeichnung wert ist“. Ein Exempel statuiert er in dieser Hinsicht an Ephoros und dessen Kenntnissen über Ägypten. Diodor gibt eine Auflistung der 33) Vgl. auch 1,41,10; 2,14,4; 22,1; 51,2; 3,35,1; 47,9; 4,5,2; 5,77,8. Üblich ist auch die Mitteilung, er habe ein Thema nun genügend behandelt, was impliziert, dass mehr möglich wäre, aber nicht nötig ist, z. B. 2,42,4; 3,11,4; 4,5,4; 7,4; 12,8; 71,4; 5,46,7. 34) Ganz ähnlich 3,3,7: pollå d¢ ka‹ êlla l°gousi per‹ t∞w aÍt«n érxaiÒthtow ka‹ t∞w t«n Afigupt¤vn époik¤aw, per‹ œn oÈd¢n katepe¤gei grãfein. Für weitere Beispiele siehe Ambaglio (wie Anm. 24) 30–2. 35) Z. B. 4,14,3: OÈk êjion paralipe›n [. . .]; 5,70,5.
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Angaben ägyptischer Priester, aber auch von Philosophen und Historikern aller Zeiten über die Ursachen der Nilschwemme (1,37,6–41,9). Dabei muss Ephoros besonders harte Kritik einstecken (1,39,8): ı d¢ suggrafeÁw otow oÈ mÒnon ≤m›n fa¤netai mØ teyeam°now tØn fÊsin t«n katå tØn A‡gupton tÒpvn, éllå mhd¢ parå t«n efidÒtvn tå katå tØn x≈ran taÊthn §pimel«w pepusm°now. Dieser Geschichtsschreiber scheint mir nicht nur nicht die natürliche Beschaffenheit der Orte in Ägypten in Augenschein genommen zu haben, sondern sich nicht einmal sorgfältig bei denen erkundigt zu haben, die sich mit den Gegebenheiten in diesem Land auskennen.
Da Diodor bereits festgestellt hat, dass es bis zu seiner Zeit noch keinem Historiographen gelungen ist, sich an Ort und Stelle die Nilquellen anzusehen (1,37,6), bleibt für den Historiker nur die sorgfältige Erkundigung bei Leuten, die es wissen.36 Und dass Diodor selbst nach diesem Konzept arbeitet und seinem eigenen Grundsatz treu bleibt, zeigt gerade die lange Liste von unterschiedlichen Ansichten, die er referiert und miteinander abgleicht. Die Ephoroskritik dient Diodor hier demnach als Folie, vor deren Hintergrund er die Qualität seines eigenen Werkes herausstellen kann. Sie ist besonders prägnant, weil Ephoros einer der Universalhistoriker vor Diodor war, deren Werke er für ungenügend befunden hatte.
36) Der in dieser Kritik implizierte Anspruch, ein Historiograph müsse sich bei der Abfassung seines Werkes auf Autopsie stützen, steht auf den ersten Blick im Gegensatz zu Diodors Auffassung von Historiographie als Tätigkeit eines „Schreibtischhistorikers“. Indes bevorzugt Diodor an dieser Stelle ja nicht die Autopsie vor der „Schreibtischhistorie“, sondern lässt beide gleichwertig nebeneinander gelten. Dies hat in diesem speziellen Fall seinen Grund in der Art Information, die Ephoros seiner Ansicht nach fälschlich vermittelt. Der Historiker Ephoros hatte nämlich versucht, den Grund für ein g e o g r a p h i s c h e s Problem, die Nilquellen, anzugeben, und dabei Argumente angeführt, die sich nicht mit der Topographie und den Naturgegebenheiten Ägyptens vereinbaren lassen (DS 1,39,7. 9–13). In einem solchen Zusammenhang kann natürlich der Autopsie der geographischen Verhältnisse neben der „Schreibtischhistorie“, d. h. dem Studium der Schriften von Leuten, die das Land bereist haben, ein gleichwertiger Platz eingeräumt werden. Das heißt aber natürlich nicht, dass Diodor sie generell für historiographisches Arbeiten oder auch nur geographische Abschnitte in denselben forderte. Zum grundsätzlichen Problem des Verhältnisses von Kompilation und Reisen vgl. meine Ausführungen unten im Abschnitt 3. ‚Schreibtischhistorie und Reisen: ein Widerspruch?‘
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Diodors Äußerungen zum vermeintlichen Reisebericht des Iambulos sollen dem Leser zeigen, dass er sein Material durch Vergleich wertet. Diodor führt aus, Iambulos biete in seiner Darstellung Informationen, die sich in anderen nicht fänden (2,60,3): ÑO d¢ ÉIamboËlow taËtã te énagraf∞w ±j¤vse ka‹ per‹ t«n katå tØn ÉIndikØn oÈk Ùl¤ga sunetãjato t«n égnooum°nvn parå to›w êlloiw, „Iambulos aber hielt dies der Aufzeichnung für wert und hat über die Gegebenheiten in Indien nicht wenig mitaufgenommen, das bei den anderen unbekannt ist“. Dies impliziert natürlich, dass Diodor Iambulos’ Aufzeichnungen mit den anderen Berichten verglichen hat. Er macht damit deutlich, dass er stellvertretend für seinen Leser das gesamte in Frage kommende Material sichtet und ihm auf diese Weise ein umfassendes Bild vermittelt. Dies entspricht der Funktion, die er im ersten Teil des Proöms für den Historiographen festgelegt hatte:37 Er geht nicht selbst auf die Reise, um sein Material zu sammeln, sondern sichtet, wertet und ordnet bereits Vorhandenes (3,11,1–3): Per‹ d¢ t«n suggraf°vn ≤m›n diorist°on, ˜ti pollo‹ suggegrãfasi per¤ te t∞w AfigÊptou ka‹ t∞w Afiyiop¤aw, œn ofl m¢n ceude› fÆm˙ pepisteukÒtew, ofl d¢ parÉ •aut«n pollå t∞w cuxagvg¤aw ßneka peplakÒtew, dika¤vw ín épisto›nto. ÉAgayarx¤dhw m¢n går ı Kn¤diow §n tª deut°r& b¤blƒ t«n per‹ tØn ÉAs¤an, ka‹ ı tåw gevgraf¤aw suntajãmenow ÉArtem¤dvrow ı ÉEf°siow katå tØn ÙgdÒhn b¤blon, ka¤ tinew ßteroi t«n §n AfigÊptƒ katoikoÊntvn, flstorhkÒtew tå ple›sta t«n proeirhm°nvn §n pçsi sxedÚn §pitugxãnousi. [. . .] toÁw lÒgouw t«n flstorik«n §jel°gjantew, to›w mãlista sumfvnoËsin ékÒlouyon tØn énagrafØn pepoiÆmeya. Bezüglich der Historiographen aber muss ich die Unterscheidung treffen, dass viele eine Geschichte über Ägypten und Äthiopien verfasst haben, von denen die einen lügnerischer Kunde vertraut haben, die anderen aber von sich aus vieles um des Lesegenusses willen erfunden haben. Ihnen wird daher wohl zu Recht misstraut. Denn Agatharchides von Knidos im zweiten Buch seiner Geschichte Asiens und Artemidor aus Ephesos, der die Geographie geschrieben hat, im achten Buch und einige andere der Einwohner Ägyptens, die das meiste des oben Gesagten berichtet haben, treffen so ziemlich in allem das Richtige. [. . .] Nach Überprüfung der Historikerberichte habe ich meine Aufzeichnung an denen orientiert, die die meisten Übereinstimmungen aufwiesen. 37) Vgl. 1,1,1. Hier ließen sich auch noch die Stellen einreihen, an denen er angibt, seine Informationen aus Aufzeichnungen bezogen zu haben, die nicht jedem zugänglich sind, etwa §k t«n §n ÉAlejandre¤& basilik«n Ípomnhmãtvn (3,38,1); vgl. dazu J. Marincola, Authority and Tradition in Ancient Historiography, Cambridge 1997, 107.
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Diodor ist der Richter über sein Material (diorist°on, §jel°gjantew) und kontrolliert es sehr genau, um eine verlässliche Darstellung zu bieten. Wieder wird deutlich, wie sich Diodor die Vorgehensweise für die neue Universalgeschichte vorstellt: Material liegt in großem Maße vor, doch nur das wenigste davon ist tauglich, der Rest muss „aussortiert“ werden. Dabei haben die präzisen Buchangaben eine doppelte Funktion: Sie suggerieren einerseits die Lektüre des gesamten Quellenwerkes, andrerseits machen sie deutlich, dass Diodor auch innerhalb bestimmter Schriftsteller eine Auswahl vornimmt. Durch die Einschränkung §n pçsi sxedÒn, „so ziemlich in allem“, schließlich setzt sich Diodor in eine übergeordnete Position. Letztlich kann nur er eine in allen Teilen verlässliche Darstellung bieten, weil er durch den Vergleich der Aussagen verschiedener Historiker das Brauchbare vom Unbrauchbaren scheiden kann. So kommt es, dass Diodor von einer „reinen“ Darstellung sprechen kann (3,62,2):38 t«n d¢ palai«n muyogrãfvn ka‹ poiht«n per‹ DionÊsou gegrafÒtvn éllÆloiw ésÊmfona ka‹ polloÁw ka‹ terat≈deiw lÒgouw katabeblhm°nvn, dusxer°w §stin Íp¢r t∞w gen°sevw toË yeoË toÊtou [DionÊsou] ka‹ t«n prãjevn kayar«w efipe›n. Da die alten Mythographen und Dichter, die über Dionysos geschrieben haben, einander widersprechende und viele wunderartige Erzählungen eingefügt haben, ist es schwierig, über die Abstammung dieses Gottes [des Dionysos] und seine Taten rein zu sprechen.
Hier schreibt Diodor explizit, dass ihm Material vorliege, das Unstimmiges und Unglaubhaftes enthalte, und dass es seine Aufgabe sei, die Berichte zu „reinigen“, d. h. Teile auszulassen und den Rest zu ordnen, um sie so in eine für den Leser verwertbare Form zu bringen. Er gebe daher, so führt er in 3,62,3 weiter aus, eine kurzgefasste Darstellung der Hauptpunkte. Den besprochenen paratextuellen Einschüben kommt folglich die Aufgabe zu, dem Leser immer wieder die Methode und den Charakter der Bibliotheke in Erinnerung zu rufen und ihm mitzuteilen, wie viel überflüssiges Material er nicht hat durcharbeiten müssen, das Diodor für ihn kompetent gesichtet und ausgewertet hat. Sie rufen auf diese Weise Bestätigung hervor für Diodors Be38) Vgl. auch 4,29,2: [. . .] tÚn per‹ t∞w époik¤aw lÒgon kayar≈teron §ky°syai [. . .].
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hauptung, die Epitome und Kompilation sei die angemessene Form für die notwendige neue Universalgeschichte. Denn dem Leser bleibt auf diese Weise nicht nur die Lektüre überflüssigen Materials erspart, sondern er findet in der Bibliotheke auch nur Informationen vor, die durch vorherige Auswertung von Seiten Diodors im Sinne der Geschichte als „Verkünderin der Wahrheit“ (prof∞tiw t∞w élhye¤aw, 1,2,2) als gesichert gelten können. Nur durch diese epitomisierende und kompilierende Vorauswahl der Autorinstanz kann die Bibliotheke dem von Diodor betonten funktionalen Genrekriterium gerecht werden und dem Leser den effizienten, eklektizistischen Zugriff auf das entsprechende Material ermöglichen. Als Folge für Diodors Position den Verfassern seiner Quellen gegenüber ergibt sich daraus, dass der implizite Autor Diodor stets als den Quellenschriftstellern überlegen erscheint. Diodor sieht demzufolge seine vorrangige Aufgabe nicht darin, möglichst viel des überkommenen Materials für die Nachwelt zu sichern. Im Gegenteil ist sein Ziel, so viel als möglich auszumerzen, damit der Leser direkt die gewünschten Informationen erhält, aus denen er für seine Lebensgestaltung Gewinn ziehen kann. 3. Schreibtischhistorie und Reisen: ein Widerspruch? Gleichwohl behauptet auch Diodor, Reisen unternommen zu haben, von denen die Forschung freilich nur seinem Aufenthalt in Ägypten und in Rom Glauben schenkt.39 Wie verträgt sich diese Autopsieversicherung mit Diodors Überzeugung, ein moderner Historiker habe nur bereits vorhandene Werke zu kompilieren? Deutlich sagt Diodor, er habe die Unbilden des Reisens auf sich genommen, um die wichtigsten Stätten selbst in Augenschein zu nehmen (1,4,1):40 39) Nach Schwartz (wie Anm. 1) 663 ist sein Aufenthalt in Alexandrien, neben dem in Rom, der einzig nachweisbare. Burton (wie Anm. 3) 39 hält einen Besuch in Ägypten für gesichert und vermutet, Diodor sei wahrscheinlich in Bubastis und Alexandrien gewesen, vgl. DS 1,44,1; 83,8 f.; 17,52. Vgl. auch Rawson (wie Anm. 3) 224 und die Kapitel, die Diodor den berühmten Griechen widmet, die Ägyptenreisen unternommen und von dort wichtige Kenntnisse mitgebracht haben (1,96–98,9); Sacks (wie Anm. 5) 77. 40) Zur Funktion der Autopsie in der Geschichtsschreibung führt Marincola (wie Anm. 37) 84 aus: „The primacy of autopsy could not be questioned, and it
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[. . .] metå d¢ poll∞w kakopaye¤aw ka‹ kindÊnvn §pÆlyomen pollØn t∞w te ÉAs¤aw ka‹ t∞w EÈr≈phw, ·na t«n énagkaiotãtvn ka‹ ple¤stvn mer«n aÈtÒptai genhy«men: pollå går parå tåw égno¤aw t«n tÒpvn diÆmarton oÈx ofl tuxÒntew t«n suggraf°vn, éllã tinew ka‹ t«n tª dÒj˙ peprvteukÒtvn. [. . .] Unter vielen Unbilden und Gefahren suchte ich einen großen Teil Asiens und Europas auf, um der notwendigsten und meisten Teile selbst ansichtig zu werden; denn aus Unkenntnis der Gegenden haben nicht x-beliebige, sondern sogar einige an Ruhm führende Historiographen viele Fehler begangen.
Doch entgegen Oldfathers Annahme, es handle sich um Reisen, die Diodor unternommen habe, um seine Bibliotheke vorzubereiten,41 scheint mir der Wortlaut dafür zu sprechen, dass es sich um eine Art Kontrollreisen gehandelt hat.42 Denn „die notwendigsten und meisten Regionen“ kann nur bereisen, wer bereits festgelegt hat, was er in seine Darstellung aufnehmen will, nicht aber, wer erst mit der Abfassung beschäftigt ist oder noch Material sammelt. Auch der ausdrückliche Zweck dieser Reisen, Fehler bei anderen Autoren zu verbessern, lässt erkennen, dass es Diodor nicht darum ging, Material für die Erstellung der Bibliotheke zu sammeln. Vielmehr sichtete er die einzelnen historiographischen Schriften und brachte in den Fällen, wo zwischen den unterschiedlichen Historikern Kontroversen bestanden, seine eigenen Erfahrungen ein, sofern er eine Region aus eigener Anschauung kannte. Darüber hinaus betont er seine Autopsie, wenn er besonders eigenartige Dinge berichtet, von denen er seinen Leser durch seine Augenzeugenschaft überzeugen will.43 So dient zwar die Autopsieversicherung dazu, remained the best means for improving and correcting one’s predecessors.“ Die Mehrheit der griechischen und römischen Historiker hielten am Primat der Autopsie fest, gewöhnlich wird sie aber explizit nur konstatiert, wenn eine besondere Quelle betont oder außergewöhnliche Ereignisse bestätigt werden sollten (ders. 86, vgl. auch dens. 81 Anm. 90 über die verschiedenen Möglichkeiten, die explizite Autopsieversicherung zu vermeiden). 41) Vgl. C. H. Oldfather (Hrsg.), Diodorus of Sicily, The Library of History with an English Translation by C. H. O., Cambridge/Mass. 41998 (LCL 279) 19 Anm. 1; dieselbe Ansicht vertritt G. Zecchini, L’atteggiamento di Diodoro verso Cesare e la composizione della «Bibliotheca storica», RIL 112 (1978) 13–20, hier 19. 42) Vgl. Fornara (wie Anm. 12) 56. 43) Vgl. Marincola (wie Anm. 37) 86. Eine ähnliche Rolle schrieb dem Reisen schon Polybios zu. In 3,58 f. führt er aus, man dürfe den Historikern vor seiner Zeit keine Ungenauigkeiten und Fehler anlasten, weil die Möglichkeiten, Reisen durchzuführen, gering und mit Gefahren behaftet gewesen seien (3,58). Da aber
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die eigene Leistung hervorzuheben und Vorgänger zu korrigieren,44 sie tut dies aber nur noch in zweiter Instanz, indem durch sie die Qualität der eingearbeiteten Quellen in Zweifelsfällen überprüft wird. Dadurch avanciert sie primär zum Garanten für die Qualität der Bibliotheke als Kompilation. Was hingegen die berichteten Fakten betrifft, trägt Diodors Auffassung von Autopsie nur akzidentiell neue Informationen bei, sie wird aber nicht zielgerichtet unternommen, um diese Informationen zu sammeln – zumal bei Darstellungen, die nicht der Zeitgeschichte entnommen waren, substantiell keine Verbesserung am Inhalt der Quelle vorgenommen werden konnte.45 Diese Annahme bestätigen diejenigen Stellen, an denen Diodor über seine Reisen spricht. Besonders signifikant sind die Paragraphen 3,11,1–3. Dort schließt er an die Ausführungen über die vertrauenswürdigen Historiker Agatharchides und Artemidor folgende Aussage an (3,11,3): Ka‹ går ≤me›w kayÉ ˘n kairÚn parebãlomen efiw A‡gupton, pollo›w m¢n t«n fler°vn §netÊxomen, oÈk Ùl¤goiw d¢ ka‹ presbuta›w épÚ t∞w Afiyiop¤aw paroËsin efiw lÒgouw éfikÒmeya: parÉ œn ékrib«w ßkasta puyÒmenoi, ka‹ toÁw lÒgouw t«n flstorik«n §jel°gjantew, to›w mãlista sumfvnoËsin ékÒlouyon tØn énagrafØn pepoiÆmeya. Denn zu der Zeit, als ich mich nach Ägypten begab, traf ich mit vielen Priestern zusammen und trat in Gespräche mit nicht wenigen Gesandten ein, die aus Äthiopien anwesend waren; von ihnen brachte ich alles genau in Erfahrung, und nachdem ich die Historikerberichte geprüft hatte, habe ich meine Aufzeichnung in Orientierung an denen erstellt, die am meisten untereinander übereinstimmten.
Davon, dass Diodor die Reise nach Ägypten zu dem Zweck unternommen habe, Informationen für seine Bibliotheke zu sammeln, ist hier keine Rede. Vielmehr drängt sich besonders durch das eher beiläufig eingefügte kayÉ ˘n kairÚn parebãlomen efiw A‡gupton, „zu der Zeit, als ich mich nach Ägypten begab“, der Eindruck auf, Diodor sei auch einmal in Ägypten gewesen46 und habe die Gelenunmehr die Welt unter der einheitlichen Herrschaft Roms in Frieden offen stehe, könne man gefahrlos Reisen unternehmen. Von diesem Vorteil habe er Gebrauch gemacht, ·na dioryvsãmenoi tØn t«n progegonÒtvn êgnoian §n toÊtoiw gn≈rima poiÆsvmen to›w ÜEllhsi ka‹ taËta tå m°rh t∞w ofikoum°nhw (3,59,8). 44) Vgl. Marincola (wie Anm. 37) 115. 45) Vgl. Sacks (wie Anm. 5) 112. 46) Über den möglichen Grund dieser Reise lassen die spärlichen biographischen Informationen, die wir über Diodor haben, bedauerlicherweise nicht einmal
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genheit genutzt, sich über Land und Leute zu informieren. Dann hat er diese Informationen dazu verwendet, die Angaben zu überprüfen und abzugleichen, die er für die Abfassung der Bibliotheke aus historiographischen Werken entnommen hatte (ka‹ toÁw lÒgouw t«n flstorik«n §jel°gjantew, „und nachdem ich die Historikerberichte geprüft hatte“). Dass er hingegen für die Abfassung der Bibliotheke keine eigenen Reiseerfahrungen verwendet, sagt er deutlich in 3,38,1: [. . .] per‹ toË kataleleimm°nou m°rouw l°gv d¢ toË ÉArab¤ou kÒlpou, poihsÒmeya tØn énagrafÆn, tå m¢n §k t«n §n ÉAlejandre¤& basilik«n Ípomnhmãtvn §jeilhfÒtew, tå d¢ parå t«n aÈtÒptvn pepusm°noi. [. . .] Über den restlichen Teil, d. h. den Arabischen Meerbusen, will ich die Aufzeichnung machen, und habe dafür teils [das Material] aus den königlichen Aufzeichnungen in Alexandria entnommen, teils von den Augenzeugen erfahren.
Als die „Augenzeugen“ (aÈtÒptai), deren Berichte er verwendet, wird man getrost die Historiker und Perihegeten identifizieren dürfen, die dieses Gebiet bereist und durch ihre Aufzeichnungen erschlossen haben.47 Dass Diodor nicht einmal versucht, die Form des Reiseberichtes, in die er große Teile des zweiten und dritten Buches kleidet,48 als seine eigenen Berichte zu präsentieren, ist eine erneute Bestätigung dafür, dass er seine Aufgabe nicht darin sieht, neues Material oder Material aus erster Hand zu sammeln.
plausible Spekulationen zu. Gleichwohl scheint es mir nicht evident, dass er sie unternommen haben soll, um Material für die Bibliotheke zu sammeln. 47) Er nennt z. B. 2,47,1 Hekataios „und einige andere“ als seine Quelle. Für die Beschreibung des Arabischen Meerbusens ist wahrscheinlich Agatharchides seine Quelle, vgl. R. Güngerich, Die Küstenbeschreibung in der griechischen Literatur, Münster 1950, 13. 48) So macht Diodor den Leser in 3,38,5 mit der ‚Route‘ seiner Darstellung vertraut: ≤me›w dÉ épÚ t«n §sxãtvn toË muxoË tÒpvn érjãmenoi tÚn §fÉ •kãtera tå m°rh parãploun t«n ±pe¤rvn [. . .] di°jimen. Sprachlich bleibt dem Leser diese Route durch die zahlreichen dativi iudicantis präsent: 3,39,1: komizom°noiw parå tØn dejiån ≥peiron; ebd. paradramÒnti; 3,39,4: parakomisy°nti; 3,40,1: parapleÊsanti; 3,40,3: ¥ te går ≥peirow tapeinØ kayorçtai. Zur Struktur des Periplus als Dispositionsprinzip eines Werkes oder von Werkteilen vgl. Güngerich (wie Anm. 47) 13 f.
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4. Zusammenfassung Ich habe durch die vorangehenden Ausführungen zu zeigen versucht, dass Diodor Kompilation und Epitome bewusst als Arbeitsweise und Form seiner Bibliotheke verwendet. Den Widerspruch zwischen „Schreibtischhistorie“ und dem Historiker als énØr pragmatikÒw, den vor allem Polybios hervorgehoben hatte, überwindet Diodor dadurch, dass er ein solches Ideal eines Historikers für überholt erklärt. Es gehöre in die Zeit des Odysseus, der noch keine anderen Möglichkeiten gehabt habe, sich die notwendigen Informationen zu verschaffen. Dem Leser und auch Historiker seiner Zeit stünden jedoch durch eine reichhaltige historiographische Tradition eine Überfülle brauchbarer und wichtiger Informationen zur Verfügung. Ein Leser soll von diesen Informationen eklektizistisch Gebrauch machen, um ihnen in den jeweiligen Umständen für ihn nützliche Handlungsdirektiven zu entnehmen. Deren Befolgung soll ihm gesellschaftlichen Erfolg ermöglichen. Von einem Universalhistoriker, der diesen Bedürfnissen seiner Leser entgegenkommen will, ist nun gefordert, dem Leser den selektiven Zugriff auf dieses Material zu erleichtern. Dabei sieht Diodor gerade in dessen Reichhaltigkeit das Hauptproblem: Wie soll ein Interessierter die für ihn relevanten Informationen aus der ungeheuren und uneinheitlichen Masse historiographischer Werke heraussuchen, sich die verschiedenen Buchrollen verschaffen in einer Zeit, in der Reisen in andere Städte zur Konsultation des Gesuchten eine zeitraubende und unter Umständen gefährliche Strapaze waren? Die Antwort lautet für Diodor, dass weiteres Forschen und Zusammentragen von noch mehr Material nicht nötig sei, es hingegen dringend der ordnenden und auswählenden Hand bedürfe, die das Überflüssige entfernt, die Berichte aus aller Herren Länder in einem Werk vereint und abweichende Darstellungen durch Vergleich prüft und korrigiert. Die strenge Auswahl aus einer Fülle von größtenteils überflüssigem Material, die Diodor dem Leser suggeriert, lässt für den letzteren keinen Zweifel, dass Diodors Bibliotheke den unpraktischen Einzeldarstellungen überlegen ist. Insofern ist die Verdrängung der Einzelwerke durch Werke wie die Bibliotheke kein zufälliger Nebeneffekt, sondern sie wird durch das Bild, das Diodor von sich und der Bibliotheke dem Leser vermittelt, eindeutig gefördert. Ziel dieser Universalgeschichte ist nicht die Koexistenz mit den Vorlagen, sondern deren
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Ersetzung.49 Diese Form der Geschichtsschreibung ist für Diodor das Korrelat zur bequemen und gefahrlosen Informationsaufnahme des Lesers allein durch Lektüre: Ihr entspricht eine Geschichtsschreibung, die sich als rein oder doch überwiegend literarische Arbeit versteht. Autopsie und Reisen, von Polybios noch als essentieller Bestandteil ernst zu nehmender historiographischer Arbeit verstanden, dienen bei Diodor dementsprechend nur noch als Kontrollinstanz des kompilierten Materials. Sie werden unternommen, um Fehler bei Vorgängern zu korrigieren oder Berichte korrekt beurteilen zu können. Ihre Hauptfunktion ist damit, der eigenen Darstellung Autorität zu verleihen und ihr als Kompilation den Anstrich der Verlässlichkeit im Sinne der auch von Diodor propagierten Geschichte als „Verkünderin der Wahrheit“ (1,2,2) zu geben. Bonn
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49) Vgl. Hornblower (wie Anm. 3) 20: „[. . .] Diodorus’ Bibliotheke helped to drive the original works off the market“ und S. C. Humphreys, Fragments, Fetishes, and Philosophies: Towards a History of Greek Historiography after Thucydides, in: G. W. Most (Hrsg.), Collecting Fragments – Fragmente sammeln, Göttingen 1997, 207–224, hier 210; vgl. auch J. Malitz, Das Interesse an der Geschichte. Die griechischen Historiker und ihr Publikum, in: H. Verdin/G. Schepens u. a. (Hrsgg.), Purposes of History. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B. C., Leuven, 1990, 323–349 (Diskussion 351–359), hier 351 f. (allmählicher Rückgang von Gesamtwerken zugunsten von Epitomen in republikanischer und augusteischer Zeit), und Hose (wie Anm. 8) 13. Explizit bringt dies das Epigramm zum Ausdruck, das in einigen Handschriften der Bibliotheke des Ps.Apollodor vorangestellt gewesen sein soll (cod. 186 p. 142b); vgl. dazu Hose (wie Anm. 8) 13 f.; Schwartz (wie Anm. 8) 1285 f.
QUATTRO NOTE A PETRONIO (15,2; 23,1; 39,4–5; 97,4)*
15,2 etsi rustico mulierique placebat permutatio, advocati tamen [iam pene] nocturni, qui volebant pallium lucri facere, flagitabant uti apud se utraque deponerentur ac postero die iudex querellam inspiceret. iam p(a)ene del. Fuchs
Una breve rassegna dei tentativi (alcuni anche maldestri) fatti per superare le difficoltà poste da iam pene mostrerà che il problema non è ancora stato risolto in modo soddisfacente, e che l’espunzione proposta da Fuchs è il rimedio estremo con cui ci si è sbarazzati della presenza molesta di iam p(a)ene : iam bene Schoppius : iam pene <eam inpedituri quia> Bücheler 1871 : iam poenae Bücheler 1895 (dat. finalis) : etiam pene Sage : in rem praesentem Müller 1961 : importune Nisbet : iam plena <nocte> Delz : iam paene <nox erat> Sullivan : impense et ante flagitabant transferendum Müller 1965 : III viri Brożek : [iam] repente Rose : immo plane vel paene dub. Giardina | qui – facere del. Müller 1961 : etiam nocturni seclusit Alessio. A partire dall’edizione del 1983 Müller adotta l’espunzione proposta da Fuchs, mentre nelle edizioni precedenti metteva iam pene fra croci, ed espungeva la relativa qui – facere. La proposta di Ascilto (14,8 s. hinc Ascyltos †pene† risum discussit, qui silentio facto ‘videmus’ inquit ‘suam cuique rem esse carissimam; reddant nobis tunicam nostram et pallium suum recipiant’)1 sembra esser stata accolta di buon grado dal rusticus e dalla *) Il testo di partenza e di riferimento per le citazioni petroniane è quello di Müller 1995. Per le abbreviazioni bibliografiche si vedano le indicazioni in fondo al lavoro. 1) Anche qui vi è un termine incomprensibile. Il tràdito pene (ldmrtp1) non ha senso all’interno della frase, e bene in p2 mostra che i primi tentativi di emendarlo sono stati fatti già in epoca umanistica. Mi sembra che l’astuzia di Ascilto nel dissipare le risa consista nel capovolgere una situazione ridicola (§ 7) sfruttando abilmente la disparità per la quale i cociones stavano deridendo i contendenti. È chiaro che risum discussit si trova qui in posizione prolettica, ed indica il risultato ottenuto da Ascilto con il suo intervento, qui . . . inquit, con valore causale; il fatto che
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muliercula, tuttavia c’era chi voleva trar profitto da questi commerci serali: degli advocati nocturni, che andranno identificati con i cociones comparsi a 14,7 (cf. 15,4 nescio quis ex cocionibus e 15,8 acumen . . . cocionum), volevano che veste e mantello fossero depositati presso di loro;2 anche ammettendo che la relativa qui volebant pallium lucri facere, espunta per buone ragioni da Müller 1961 (concorde Nisbet 230), sia genuina, il loro fine appare comunque chiaro, oltre che dal § 5, proprio per la presenza dell’aggettivo nocturni. A torto si è tentato di spiegare l’espressione advocati . . . nocturni identificando questi soggetti con i tresviri capitales, magistrati responsabili della sicurezza durante la notte.3 Credo invece si possa mostrare facilmente che si tratta di un’espressione assai concentrata e insinuante con cui Encolpio classifica questa squadra di truffatori, apparentemente prodighi nel soccorrere le parti della lite, ma pronti a ritirarsi nell’ombra con il bottino: infatti nocturnus è aggettivo egli inizi a parlare silentio facto corrisponde perfettamente alla trivialità della scena: i cociones sembrano trattenersi, come per aspettare che le sue parole forniscano loro un nuovo motivo di riso. A tal proposito ricordo il recente tentativo perite di T. J. Leary, Petronius and the vir malus, CQ n. s. 51, 2001, 314–315. Il termine, paleograficamente prossimo a pene, è usato con predilezione in ambito oratorio (come del resto l’aggettivo peritus), come dimostrano gli exempla selecta in ThLL X 1, 1505, 22 ss., e in contesti in cui è valorizzata l’astuzia e la scaltrezza, cf. Cic. Ver. 1,97 fecit perite et callide, o la capacità di convincere, cf. Sen. Ep. 109,11; etc. 2) L’interesse precipuo dei cociones era il lucro: cf. Porph. Hor. sat. 2,3,25 s. ‘Mercuriale’ quasi lucrosum quia Cocio appellabatur. omnes enim cociones lucro student (cf. Schol. Hor. gloss. G); Schol. Ter. Eun. 256 (p. 99,14 ss. Sch.) cupedia, cupiditas, unde cotiones et alii cupidi, ut sunt telonearii et mercibus insistentes, cupedinarii vocantur; altri ess. in ThLL III, 1400, 54 ss.; cf. anche W. Heraeus, Kleine Schriften, Heidelberg 1937, 56 s. In un recente contributo a 14,7, G. Ammannati, Una nota a Petronio (Sat. 14,7), MD 55, 2005 (in corso di stampa), ha proposto di riferire scilicet de more a qui ad clamorem confluxerant, propendendo per l’ipotesi di un salto dovuto ad omeoteleuto e collocando scilicet de more dopo clamorem. Rimane aperta la possibilità, prospettata del resto anche dall’Ammannati, che si tratti di un’interpolazione (cf. 15,2 e 5), la quale, scritta sopra nostram, è finita nel punto sbagliato del testo; tuttavia mi sembra pienamente dimostrato che scilicet de more si riferisca all’abitudine della gente curiosa di accorrere nelle liti, se non addirittura al modus operandi di questi loschi individui. 3) Cf. A. von Domaszewski, Nocturni, RhM 47, 1892, 159–160, cui si riferiscono le congetture di Bücheler 1895e di Brożek; l’idea è accolta anche da Müller 1961e ss., ma si vedano ora le obiezioni di Patimo, che riassume le principali interpretazioni avanzate in precedenza. La studiosa ipotizza inoltre che advocati abbia qui il significato di «testimoni con funzioni intermediarie» (cf. in partic. Pl. Poen. 506 ss.; Var. RR. 2,5,1 veni mi advocatus, dum asses soluo †Palibus†, si postea a me repetant, ut testimonium perhibere possis; etc.).
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usato in senso negativo4 sia con sostantivi effettivamente indicanti soggetti poco raccomandabili, ovvero ladri nella maggior parte dei casi (cf. 9,9 nocturne percussor; 82,2 nocturnus grassator; Naev. com. 17 nocturnos . . . praemiatores [cf. M. Massaro, praemiator; praemiosus; praemior, MH 43, 1986, 186–194]; Cic. Mil. 9 nocturnum furem; Verg. georg. 3,537 s. lupus . . . nocturnus; Gel. 20,1,8 nocturni grassatoris . . . violentiam; etc.; OLD s. v. 3, a; mantiene questa connotazione anche senza un sostantivo che indichi il ladro, come in Hor. sat. 1,3,117 et qui nocturnus sacra divum legerit; o riferito a un nome proprio come in Calp. Ecl. 3,73 s. ut mala nocturni religavit brachia Mopsi /Tityrus et furem medio suspendit ovili), e in particolare nelle fonti giuridiche sempre come attributo del reus furti;5 sia, a fini espressivi, in compagnia di sostantivi usati katÉ ént¤frasin: particolarmente risolutivi, per la comprensione del nostro passo Cic. Ver. 4,94 istius praeclari imperatoris nocturni milites (cioè i compagni di misfatti di Verre); Sen. Troad. 755 s. nocturne miles, fortis in pueri necem/iam solus audes aliquid et claro die (Andromaca ad Ulisse). Che il tramonto fosse il termine per ogni onesta attività nel foro era prescritto fin dalle XII tavole (1,9: solis occasus suprema tempestas esto), e Orazio ci ha lasciato una bella descrizione di come il luogo si popolasse sul far della sera (sat. 1,6,113 ss.). Superata la difficoltà esegetica di advocati . . . nocturni, in cui lo scaltro aggettivo illumina con luce obliqua l’intervento degli advocati facendone trasparire le vere intenzioni, resta il problema costituito da iam pene, che scinde, insieme a tamen, la coppia sostantivo-aggettivo a scapito di un’immediata comprensibilità. Non solo quindi la densa espressione advocati . . . nocturni ne avrebbe vantaggio, ma credo che la scena guadagnerebbe molto sapore se iam paene fosse in realtà da riferire alla reazione del rusticus e della muliercula. Proporrei quindi di spostare iam paene prima di placebat: etsi rustico mulierique iam paene placebat permutatio, advocati tamen nocturni, qui volebant etc. A favore di questa lettura depongono alcuni elementi.6 Anzitutto se lo scambio proposto da Ascilto avesse convinto piena4) Su questa linea interpretativa si pone anche Focardi, con una discussione delle principali proposte precedenti, che tuttavia non prende in considerazione i casi di nocturnus in compagnia di sostantivi usati katÉ ént¤frasin. 5) Ulp. Dig. 47,17,1; 48,8,9; Paul. Dig. 47,18,2; altri ess. in Patimo 20 s. 6) Significativa la presenza dell’imperfetto, che descrive l’azione nel suo divenire; del resto paene per indicare un’azione vicina a compimento (spesso in con-
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mente i due, l’accordo sarebbe stato concluso senza che gli advocati, privi di mandato, riuscissero ad insinuarsi, mentre a 15,4 si legge iam sequestri placebant («ormai gli intermediari avevano ottenuto credito»).7 Che il rusticus e la muliercula siano attratti dall’adire le vie legali è chiaramente deducibile dal § 7: il contadino si sbarazza della veste, scagliandola in faccia ad Ascilto, ma pretende che il mantello venga depositato (iussit pallium deponere). Ciò è confermato dal fatto che, avendo la petulanza di questi sedicenti advocati fatto breccia nel contadino e nella donnetta che l’accompagna, al § 6 Encolpio, Ascilto e i cociones sono, per ironia della sorte, accomunati da uno stesso votum, che per entrambe le parti si realizza grazie all’azione, apparentemente inconsulta, del rusticus.8 Riguardo all’origine della trasposizione,9 si può ipotizzare che iam paene, erroneamente omesso e annotato a margine o nell’interlinea, sia rientrato nel testo al punto sbagliato, forse per incomitanza di iam) si trova di frequente con i tempi dell’infectum: cf. ThLL X 1, 42, 82 ss.; meno utile F. Hand, Tursellinus seu de particulis Latinis commentarii, Leipzig 1845, IV, 416–422. 7) Utile V. M. Patimo, Petronio 12–15: lessici giuridico e travestimento parodico nella contesa del mantello, Aufidus 43–44, 2001, 165–193; piuttosto deludenti le altre analisi dell’episodio sotto il profilo giuridico: poco più che una parafrasi offre L. Debray, Pétrone et le droit privé romain, Nouv. rev. hist. de droit franç. et étrang. 43, 1919, 5–70 e 127–186, in partic. 66 ss. 8) 15,7 indignatus enim rusticus, quod nos centonem exhibendum postularemus, misit in faciem Ascylti tunicam et liberatos querella iussit pallium deponere, quod solum litem faciebat. Mi sorprende che qui il testo sia stato finora accolto senza alcun sospetto da parte degli editori. In realtà il contadino è risentito perché, con la presentazione in giudizio della veste, egli sarebbe apparso come un ladro di stracci; il gesto sprezzante con cui restituisce la tunica non comporta il proscioglimento di Encolpio e Ascilto dall’accusa di furto, bensì il proscioglimento di se stesso, mentre a carico di Encolpio e Ascilto rimane l’accusa di furto del pallium (quod solum litem faciebat). La mia idea, che ho esposto in un contributo di prossima pubblicazione, è che si debba leggere liberatus querella (con il verbo iubeo usato assolutamente, come ad es. a 91,3 supprimere ego querellam iubeo). Del resto il significato di querella è quello di «denuncia» (cf. OLD s. v. 1, b), mentre liberatos funziona solo a senso, perché è collocato in modo assai ingannevole fra l’anticipazione (§ 6) della buona riuscita e l’apparente successo (§ 8). Non si può quindi tradurre con Ehlers «ersparte uns eine Verklagung», poiché libero ha qui il senso tecnico di «prosciogliere da», «far cadere»› un’accusa, che nella fattispecie è già stata avanzata (cf. 14,6; 15,2 ac postero die iudex querellam inspiceret), come nel frequente crimine liberatus. 9) Classico W. M. Lindsay, An introduction to Latin textual emendation, Oxford 1896, 31 ss.
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tervento di qualcuno a cui advocati . . . nocturni non è apparso tanto perspicuo. Un simile spostamento non è isolato nel Satyricon; escludendo le più semplici inversioni di due termini o spostamenti di versi, ricordo solo alcuni casi più seri di trasposizione seguendo Müller 1995, fra i quali appaiono frequentissimi quelli fino a tre parole (come nel caso di 31,1 stupentibus spississima basia H : spississima basia stupentibus L): 2,8; 14,2; 14,3–4; 14,7 (vedi n. 2); 31,11; 33,1; 34,8; 44,13; 52,11; 56,9; 59,7; 135,2; 136,3; etc. Quest’intervento permette anche di restituire un buon ordo verborum, con il tamen interposto (cf. ad es. 129,8 homini tamen misero) e un’introduzione con etsi proseguito da tamen come nel caso di 125,2 ove è presente l’idea della progressione (magis magisque).10 Ma più in generale l’andamento che si ottiene è tipico dello stile di Petronio, che ama descrivere la delusione di un’aspettativa: cf. ad es. 98,4; etc. 23,1 refectum igitur est convivium et rursus Quartilla ad bibendum revocavit. adiuvit hilaritatem comissantis cymbalistria<e cantus> *** add. Bücheler
Ho il sospetto che per qualche motivo sia caduto il complemento oggetto di revocavit,11 e noto con sorpresa che nessun editore accenna a questa difficoltà. Una ricerca sulle grammatiche e sui lessici a disposizione basta a confermarlo, poiché né revoco né revoco ad sono mai usati assolutamente.12 A questo si aggiunge che un’ellissi del genere nel Satyricon è improbabile, ed è limitata, almeno nella prosa urbana, ai casi di accusativo + infinito: cf. ad es. 7,5 putares (scil. eum) ab eadem anicula esse deductum; 14,6 magnaque vociferatione latrones tenere clamavit (scil. se); etc.; Petersmann 41. 10) Cf. ad es. Caes. Gal. 3,28,1 etsi prope exacta iam aestas erat, tamen etc.; Cic. Orat. 140 etsi movebant iam me illa quae supra dixeram, tamen etc.; e simili. 11) Il verbo non deve invece destare sospetti per la presenza di rursus, che ha infastidito Pflugius (in: Burman) e Ruhnken (in: Bücheler), i quali hanno proposto rispettivamente invitavit e provocavit: cf. 10,4 rursus in memoriam revocatus iniuriae. 12) Almeno nella prosa petroniana lo stesso può dirsi di voco e degli altri suoi composti.
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Se si legge la frase seguente si vede che anche in questa, per quanto ci permette di giudicare la lacuna che segue, c’è qualcosa di poco chiaro: chi sia cioè il commensale, quando noi ci aspetteremmo comissantium (Jacobs proponeva comissationis). Già dal 1965 Müller accoglie nel testo un’idea di Bücheler che, pur adottando il testo tràdito, indicava in apparato «fortasse cymbalistriae, ut cantus vel tale quid perierit», cosicché comissantis verrebbe riferito a cymbalistriae, almeno nella traduzione di Ehlers: «Zu unserer Fröhlichkeit trug die ausgelassene Beckenschlägerin mit ihrer Musik bei». Non mi sembra che l’idea funzioni, sia perché la suonatrice appena entrata nel triclinio (22,6) non può essere considerata una partecipante al banchetto,13 sia perché l’ordo verborum spinge ad associare hilaritatem con comissantis e cymbalistriae con cantus, e ciò consiglia di tradurre, diversamente da Ehlers, «il canto della suonatrice di cembali favorì l’ilarità del commensale», cosicché il problema rimane irrisolto. Una soluzione di comodo potrebbe essere quella di riferire comissantis a Quartilla, che però non sarà stata la diretta destinataria dell’esibizione della cimbalistria.14 Del resto, anche se l’inizio della comissatio non è individuabile con assoluta certezza in 21,5 (cambio di triclinio), che i comissantes siano i partecipanti al banchetto è facilmente deducibile da 21,6 iussi ergo discubuimus, et gustatione mirifica initiati vino etiam Falerno inundamur. 13) Svolgerà invece un ruolo servente di intrattenimento, come il cinedo che arriva subito dopo (23,2), e, nella Cena Trimalchionis, gli acrobati (53,11–13) o gli omeristi (59,3–5). Invece a 65,3 Abinna è definito comissator a pieno titolo, e infatti poco dopo il suo arrivo saranno portate le secundae mensae (68,1), con le quali tradizionalmente aveva inizio la comissatio (su cui vedi A. Mau, RE IV, 610–619; più succinto H. Blümner, Die römischen Privataltertümer, München 31911, 400 ss.). 14) Si tratta verosimilmente di una danzatrice discinta e ammiccante, non dissimile da quella descritta in Priap. 27,1 ss. Deliciae populi, magno notissima circo/ Quintia, vibratas docta movere nates,/cymbala cum crotalis, pruriginis arma, Priapo/ponit et adducta tympana pulsa manu. Il confine sottile fra danza erotica e prestazione sessuale veniva di frequente valicato (cf. H. Herter, Die Soziologie der antiken Prostitution im Lichte des heidnischen und christlichen Schrifttums, JbAC 3, 1960, 97 s.), forse anche per esplicita richiesta del committente, tanto che Teodosio arrivò a proibire la presenza di certe ballerine durante le comissationes (Ps. Aur. Vict. Epit. 48,10). Sebbene il termine cymbalistria (direttamente confrontabile con cymbalista [Apul. Socr. 14], crotalistria e il gr. kumbalistÆw, tumpan¤stria, sambuk¤stria, etc.) compaia solo qui e nelle iscrizioni (CIL V, 519; VI, 2254; IX, 1538), è significativo l’uso dei cembali in contesti simili (Cic. Pis. 22 cum collegae tui domus cantu et cymbalis personaret, cumque ipse nudus in convivio saltaret; cf. anche Cels. 3,18; altri ess. in ThLL IV, 1588, 61 ss.).
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Arrivo subito alla conclusione. Per ritrovare un’oggetto di revocavit vengono in mente soluzioni come rursus <nos> Quartilla o simili, tuttavia la difficoltà interpretativa dell’ultimo frustulo mi spinge a immaginare che le due difficoltà possano essere in qualche modo legate. Si potrebbe pensare alla caduta di un oggetto maschile dopo Quartilla, ad es. me o Ascylton, al quale riferire anche comissantis. Ma forse la soluzione più semplice consiste nel supporre una di quelle trasposizioni di cui si è detto sopra (fino a tre parole), scrivendo: refectum igitur est convivium et rursus Quartilla ad bibendum revocavit . adiuvit hilaritatem [comissantis] cymbalistria *. Non è difficile immaginare l’omissione di comissantes, tardivamente aggiunto sopra adiuvit hilaritatem (cf. anche n. 2).15 39, 4–5 patrono meo ossa bene quiescant, qui me hominem inter homines voluit esse. nam mihi nihil novi potest afferri, sicut ille fer[i]culus †ta mel† habuit praxim. caelus hic, in quo duodecim dii habitant, in totidem se figuras convertit, et modo fit aries. itaque quisquis nascitur illo signo, multa pecora habet, multum lanae etc.
La soluzione del problema non è ancora stata trovata, anche se sul senso da ottenere sembra che un’idea abbia avuto più fortuna delle altre: Trimalchione sostiene che non può essergli portato davanti niente di nuovo «come ha dimostrato quel piatto». Il problema è reso evidente dalla presenza del perfetto habuit, poiché Trimalchione metterà la portata in relazione col cielo solo più avanti, ed è stupefacente osservare che, se si dà al testo questa interpretazione, la sintassi recalcitra, e impedisce alla banale corruttela ta mel di essere emendata nella maniera più spedita e naturale. Riporto per comodità del lettore e senza pretesa di completezza le proposte avanzate finora:16 fericulusta mel habuit praxim H : ferculus tamen habuit gratiam Gronovius : fericulus lucem a me habuit proxime Heinsius : fericulus statim ei dabit praxim (vel paradigma) Reiske : 15) Ringrazio, per più di un suggerimento, Gian Biagio Conte. 16) Qualche altra idea deteriore in Burman 233 s., e nei Supplementa adnotationum in Bücheler/Heraeus 1922, 284; l’idea di C. de Pauw (in: Ch. A. Lobeck, ad Phrynich., Leipzig 1820, 168 s.) fericula ista mei habent praxim («vitae meae conditionem exhibent») è ripresa da N. Terzaghi, Marginalia a Petronio, REC 6, 1955, 25 ss. fericulus ista mei habuit praxim che traduce «per me non ci sono novità, e così quel piatto ha già prodotto il buon risultato che mi riguarda».
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fericulus iustam exhibebit apodixin Jacobs (cf. 132,10) : fericulus talem habuit praxim Studer : fericulus iam habuit praxim Bücheler : fericulus statim exhibuerit praxim Keller : fericulus talem habuit praxim: Marmorale (interpretatus «ha avuto la sua ragion d’essere . . . che esporrò:») : fericulus iam semel habuit praxim Ernout : fericulus tam elegantem habuit taxim Vine (ex tãjiw, sed taxim valet i. q. furtim) : fericulus: tam meram habuit praxim! Pellegrino : ferculus; tamen habuit praxim Díaz y Díaz : fericulus tam mere habuit paradixin Öberg. La mia impressione è che l’ostacolo principale sia costituito dall’interpunzione, ma prima di proporne una diversa cercherò di offrire una soluzione per ta mel habuit praxim. Anzitutto qualche parola su ta mel, che nelle edizioni di Müller si trova sempre fra croci. La soluzione più economica consiste nello scrivere talem come già aveva sostenuto lo Studer.17 Questo tipo di inversione è frequentissimo nei manoscritti, e anche intorno a questo passo troviamo in H 38,16 caucionem per auctionem, 40,1 tolaria per toralia; etc.; un ricco repertorio di casi simili si trova nella prefazione di Housman al primo libro degli Astronomica di Manilio,18 alla quale rimando volentieri. Certo la semplice correzione talem non basta da sola a sistemare il testo, ed è questo il motivo per cui ha incontrato finora così poca fortuna, costringendo un editore come Müller a lasciare ta mel fra croci. Ma come vedremo gli aggiustamenti che rimangono da compiere sono minimi. Per quanto riguarda praxim, è senz’altro forzato il significato di «ha dato prova» che viene generalmente attribuito al nesso habuit praxim. A mostrare quanto questa soluzione sia arbitraria è sufficiente la voce praxis del ThLL (X 2, 1144, 37–56), il cui estensore ha ragionevolmente isolato il nostro passo come corrotto, fornendo dubbiosamente l’ipotetica interpretazione «sicut effecit (effectu docuit) ferculum illud in formam zodiaci dispositum, cuius rationem expositurus sum?» senza distaccarsi dall’opinio communis imposta dall’autorità del Bücheler che annotava in apparato, per 17) L’idea è ripresa da E. Thomas, Sprachgeschichtliches zu Petronius, Woch. für klass. Phil. 36, 1919, 263; H. Schmeck, ed. Heidelberg 1954 (Cena Trimalchionis); Marmorale 39; P. B. Corbett, Petroniana, CPh 62, 1967, 260–261. 18) M. Manilii Astronomicon liber primus, recensuit et enarravit A. E. Housman, Cantabrigiae 21937, LIII ss.; in partic. per le inversioni riguardanti tre lettere, del tipo limes miles, sole lose, facilem falicem, caulona caunola, riget regit, paret pater, etc. cf. LVI s. Più ridotto L. Havet, Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins, Paris 1911, § 1400.
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supportare la sua congettura, «interpretare ‹sicut illud ferculum iam demonstravit› ».19 Negli altri casi in cui compare, il termine ha sempre l’accezione che ha principalmente il gr. prçjiw, cioè quella di actum: Cic. Att. 14,19,5 (cf. 14,18,1);20 Quint. Inst. 3,6,26 (cf. 28). Nel complesso aveva molto più fondamento chi glossò in margine ad H «operationem». Come si può vedere dalle proposte che ho riportato sopra non sono mancati i tentativi di intervenire anche su praxim (degni di nota almeno quelli di Jacobs e Öberg, che leggendo il passo nella maniera tradizionale si sono naturalmente dati da fare per ricercare un termine che potesse veramente significare «dimostrazione»), nessuno dei quali offre però un’alternativa davvero valida. Il codex Traguriensis è, almeno per quel che riguarda la Cena Trimalchionis, un buon testimone, che riporta assai spesso con esattezza anche termini apparentemente astrusi.21 Sono dell’opinione che habuit praxim si possa mantenere con il significato di «è stato realizzato» (§prãxyh): cf. ad es. Plat. Rep. 370b ¶rgou prçjin; LSJ s. v. II, 1; Stephanus VII, 1559, d; un senso del resto già presente nel verbo prãssv (cf. Od. 16,88; Hes. Op. 402; etc.).22 Vengo subito a mostrare i motivi di questa scelta. Restituito talem, vittima di una comunissima corruttela, e puntualizzato il significato di praxim, ricavabile anche intuitivamente, basta secondo me rivedere la sola interpunzione del passo per ripristinare una sintassi spedita e un ottimo senso.23 Interpun19) Che la spiegazione data da Bücheler e accolta da molti sia in realtà fallace è facilmente constatabile, visto che questo significato per prçjiw dovrebbe essere ricavato da quello, attestato, di «risultato» (LSJ s. v. I, 2); seri dubbi erano avanzati anche da Smith 89. Di nessuna utilità M. G. Cavalca, I grecismi nel Satyricon di Petronio, Bologna 2001, 144 s. 20) L’accusativo praxim, oltre che in Petronio, è conservato anche in una parte dei codici di Cicerone, dove si alterna con praxin. 21) È il caso, ad es., di thumatula (31,11; 49,10), come ha efficacemente mostrato J. P. Bodel, Missing links: thymatulum or tomaculum?, HSPh 92, 1989, 349– 366. In molti altri casi un termine certamente ignoto al copista è trascritto in modo sufficientemente fedele da lasciarne intatta almeno la fisionomia, fatti salvi diversi errori di divisione (ad es. 28,3 propinesse; 47,6 anathimia is si; 47,10 eno cocto; etc.; Gaselee 11 s.). Del resto l’affidabilità testimoniale di H risalta chiaramente nel confronto con la tradizione del ramo L (Müller 1995, XVIII s.). 22) In questa stessa direzione cf. J. Ph. Krebs, Antibarbarus der lateinischen Sprache, Basel 71905, II 373. 23) Uno dei punti più deboli di H è proprio l’inaffidabilità della sua interpunzione (Gaselee 11 n. 3), forse per la scarsità di segni interpuntivi nell’antigrafo, cosicché distaccandosene si è riusciti in molti casi a migliorare o a sanare il testo.
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giamo dunque così: patrono meo ossa bene quiescant, qui me hominem inter homines voluit esse: nam24 mihi nihil novi potest afferri. sicut ille fer[i]culus25 talem habuit praxim, caelus hic, in quo duodecim dii habitant, in totidem se figuras convertit, et modo fit aries. Come si vede si tratta soltanto di segnare punto fermo dopo afferri e virgola dopo praxim, in modo da ripristinare la coordinazione tra ille ferculus e caelus hic introdotta da sicut, peraltro suggerita dall’ordo verborum e dalla presenza di sicut, che resta un pleonasmo intollerabile in presenza di talem se si termina il periodo con habuit praxim, ma che recupera invece la sua funzione effettiva se introduce la comparazione tra ferculus e caelus, mentre talem si riferisce, riassuntivamente, alla studiata realizzazione del piatto (cf. OLD s. v. 1, a). A questo punto anche il tempo perfetto di habuit acquista un senso, perché non va più riferito al periodo precedente, ma indica che il piatto era congegnato in modo da riprodurre la disposizione dei segni zodiacali della volta celeste, della quale si presentava come dimostrazione diretta. Veniamo dunque, in conseguenza dell’intervento proposto, a riproporre anche l’esegesi del passo. Mi si conceda, a questo proposito, di riprendere il filo un po’ più da lontano. A 35,1 era stato portato a tavola il celebre piatto zodiacale,26 plane non pro expectatione magnum. Dopo la comparsa di altre delizie, di complemento alla portata dello zodiaco (36,1–6), seguono un paio di domande di Encolpio, e le risposte, assai dettagliate di Ermerote, che dilettano Encolpio fino a 39,1 (interpellavit tam dulces fabulas Trimalchio). Ormai il piatto viene portato via, e i convitati iniziano a darsi da fare col vino e con le chiacchiere, quando Trimalchione sollecita le bevute, e attacca un discorso sul piatto che non è più presente: 39,3 rogo, me putatis illa cena esse contentum, quam in theca repositorii videratis? ‘sic notus Ulixes?’ quid ergo est? oportet etiam inter cenandum philologiam nosse. Ora Trimalchione, quasi per ringraziarlo di aver24) Questo valore esplicativo e consequenziale di nam, che si ritrova anche nella prosa urbana, è usato con predilezione da Trimalchione (cf. 52,3; 70,2; etc.); vedi Petersmann 253. 25) Vine ha cercato di mostrare che Trimalchione, diversamente da Abinna (66,3) non usa la forma sincopata (fericulus qui e a 68,2), la quale andrebbe invece ripristinata quando a parlare è Encolpio (cioè a 60,7 periculum H : fericulum Reinesius [in: Burman], e 69,7; forme sincopate in 21,7; 35,1; [36,2]; 39,1; 41,9). Come si vede la tradizione è così instabile che preferisco attenermi alla scelta di Müller. 26) 35,2 rotundum enim repositorium duodecim habebat signa in orbe disposita, super quae proprium convenientemque materiae structor imposuerat cibum.
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gli consentito di venire in contatto con la cultura,27 onora brevemente la memoria del suo patrono, che l’ha voluto uomo fra gli uomini:28 infatti non può essergli messo davanti niente di nuovo. È un’affermazione di portata generale, che calata nel contesto anticipa, naturalmente, il confronto esplicativo tra ferculus (cf. 35,1 n o v i t a s tamen omnium convertit oculos) e cielo zodiacale, senza alcun bisogno che ciò sia dichiarato esplicitamente. Finora Trimalchione ha divagato trascinato da un’occasione di sfoggio, subito rilassata in un ricordo umano e affettivo; ma si riallaccia ora all’interrogativo principale del suo intervento (39,3), che ancora non ha avuto risposta, con l’illustrazione del piatto zodiacale, che, se si segue il testo da me proposto, ha una premessa piuttosto altisonante: «come quel piatto ha avuto tale realizzazione, questo cielo etc.»; non solo vi è opposizione chiastica fra ille ferculus e caelus hic, ma ad indicare che Trimalchione sta deliberatamente alzando il tono della sua esibizione c’è un termine greco,29 forse anche un gesto della mano alzata in corrispondenza dell’indicazione caelus hic, la simmetria fra due cola (in quo duodecim dii habitant e in totidem se figuras convertit), l’improvvisa materializzazione di un cielo in movimento nella prima figura dell’ariete (et modo fit aries) attraverso un’espressione che, come in totidem se figuras convertit, è ardita e astratta. Trimalchione sta mostrando la somiglianza fra come è stato rappresentato il piatto e il cielo che lo sovrasta, nel quale risiedono le dodici divinità e che si trasforma, mensilmente, in uno dei dodici segni dello zodiaco.30 27) Stessa interpretazione in E. Courtney, A companion to Petronius, Oxford 2001, 88. L’affetto di Trimalchione è motivato dalla benevolenza del padrone nei suoi confronti, cui accenna a 76,1 s. (cf. anche 52,2 e 75,11). 28) Il modo di dire è frequente in bocca a schiavi e liberti: cf. 57,5; 74,13; A. Otto, Die Sprichwörter und sprichwörtlichen Redensarten der Römer, Leipzig 1890, s. v. homo, 6 (con i Nachträge in: R. Häussler, Hildesheim 1968); cf. anche Herod. 5,15; Liv. 1,9,4; Tac. Hist. 4,64; è riusato con predilezione dai cristiani (ad es. Optat. 3,3 p. 78,15 Z.; etc.). 29) Se pure d’ambito colloquiale, in cui vanno fatte rientrare anche le altre attestazioni, il termine in bocca a Trimalchione risuonerà come anathymiasis, genesis, peristasis (cf. P. Perrochat, Pétrone. Le festin de Trimalchion, Paris 31962, 65). Sulla presenza di innalzamenti stilistici nei discorsi in volgare ha giustamente insistito H. Petersmann, Umwelt, Sprachsituation und Stilschichten in Petrons ‘Satyrica’, ANRW II 32/3, 1985, 1695 s. 30) Una ricca e a volte sovrabbondante trattazione del piatto dello zodiaco e delle relative corrispondenze astrali in J. de Vreese, Petron 39 und die Astrologie, Amsterdam 1927, con poche osservazioni sul passo in questione alle pp. 217 s. Non c’è bisogno di immaginare, come fa Smith 89, che Trimalchione abbia qui in mente delle sfere armillari.
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97,4 imperavi Gitoni ut raptim grabatum subiret annecteretque pedes et manus institis, quibus sponda culcitam ferebat, ac sic ut olim Ulixes †pro† arieti adhaesisset, extentus infra grabatum scrutantium eluderet manus. arieti Bücheler : ariete codd.
Mi rendo conto che un’altra proposta rischia di accrescere la già abbondante messe delle congetture a 97,4: pro ariete inepte def. Ellis : in ariete Boschius rettulit : imo ariete Muncker : utero arietis Heinsius : pro <. . .> arieti Bücheler, et in app. pro salute vel procero vel pro sarcina prop. supplendum : Cyclopis arieti Bücheler 1871 : profugus arieti vel prompte arieti Strelitz : [pro] arieti Sage : in antro arieti dub. prop. Ernout : [pro ariete] verveci Fuchs (sed 57,2 vervex convicium est) : pro ariete transponendum post grabatum putat Warmington : prono arieti La Penna : pronus arieti (!) dub. proposuerunt Giardina/Cuccioli Melloni | proditur arieti adhaesisse Labate | ut – adhaesisset del. Fraenkel ut balbutientis interpretis verba (cf. Müller 1961, XLIV) : etiam extentus infra grabatum seclusit Müller 1961. Tuttavia mi sembra che il rapporto con l’ipotesto omerico non sia stato sufficientemente valorizzato: il rimando all’episodio odissiaco è esplicito, ma rischia di apparire sovrabbondante,31 a meno che non contenga un dettaglio che finora si è trascurato (si era accorto di ciò il Bücheler, vedi più avanti) e che serve, da solo, a contrapporre il modello sublime alla rivisitazione quasi meschina messa in atto dall’astuzia di Encolpio. La mia proposta è di leggere primo arieti, intendendo primus (cf. 40,3 primae magnitudinis aper) nel senso di optimus, êristow (ThLL X 2, 1353, 53 ss. con l’aggiunta di Mart. 1,51,1 non facit ad saevos cervix, nisi prima, leones; 14,155,1; 14,158,2; cf. inoltre gr. pr«tow e ibid. 1354, 72 ss., in particolare Enn. fr. var. 38 apriculum piscem scito primum esse Tarenti; Plin. Nat. 10,60 ales . . . inter primas; Mart. 12,66,5 gemmantes prima fulgent testudine lecti) come in Od. 9,432 érneiÚw går ¶hn, mÆlvn ˆxÉ êristow èpãntvn. È un dato rilevante che il montone non sia uno dei tanti maschi del branco, ma il migliore, e quindi il più prestante, poiché la sua superio31) Lo dimostrano Fraenkel e Müller 1961, che hanno pensato potesse trattarsi di un’interpolazione causata dal riferimento allo stratagemma di Ulisse a 97,5 non est moratus Giton imperium momentoque temporis inseruit vinculo manus et Ulixem astu simillimo vicit e 98,5 (Eumolpus) remota etiam culcita videt Ulixem, cui vel esuriens Cyclops potuisset parcere.
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rità è tale da permettere ad Ulisse di eleggerlo a propria vettura: avendo fatto uscire i compagni, ognuno nascosto sotto il ventre di tre montoni legati insieme (425 ss.), e rimasto ultimo nella caverna, si deve aggrappare al capo di bestiame più grosso, il quale costituirà, una volta in salvo, dono a parte tributato dai compagni al loro capo e da lui destinato ad un sacrificio propiziatorio (550 ss.). Basta un po’ di senso comune per comprendere che, se l’ariete non fosse stato davvero magnifico, Ulisse avrebbe avuto scarse possibilità di farsi trasportare (o meglio trascinare, visto che afferra l’ariete con le sole mani) da un solo animale quando per ognuno dei suoi compagni ne occorrevano tre. Il dettaglio è determinante, ed è così francamente marcato che mi sorprenderebbe non vederlo menzionare in un rimando tanto preciso all’episodio omerico; ma soprattutto si recupera in questo modo tutto il colore della stupefacente degradazione del modello mitico, introdotta dalla similitudine ac sic ut olim, e verso la quale convoglia una corrispondenza quasi verbale nella descrizione delle mani che si intrecciano (alla lana e alle cinghie del letto): come Ulisse si era aggrappato al ventre dell’ariete, torcendo con le mani la lana meravigliosa (Od. 9,432 ss. érneiÚw går ¶hn, mÆlvn ˆxÉ êristow èpãntvn/toË katå n«ta lab≈n, las¤hn ÍpÚ gast°rÉ §lusye‹w /ke¤mhn: aÈtår xers‹n é≈tou yespes¤oio/nvlem°vw strefye‹w §xÒmhn tetlhÒti yum“), così Encolpio ordina a Gitone di sgusciare sotto il letto e di intrecciare mani e piedi (ut raptim grabatum subiret annecteretque pedes et manus institis) alle cinghie che sostengono il polveroso materasso,32 per di più popolato di cimici ripugnanti, come si apprende durante la perlustrazione del questurino: 98,1 subducebat Giton ab ictu corpus et retento timidissime spiritu ipsos sciniphes33 ore tangebat. Si ottiene così il senso che vi intravedeva Bücheler (la sua proposta procero è 32) Sarà appena il caso di ricordare che i vimini con cui Ulisse lega insieme le pecore e ad esse i compagni provengono dal giaciglio su cui dormiva il Ciclope (Od. 9,427 s.). Il dettaglio tecnico quibus sponda culcitam ferebat, che aveva destato sospetti in Müller 1961 e 1965, serve in realtà a svilire ulteriormente le institae (cf. 20,4; per le institae del letto altri ess. in ThLL VII 1, 1985, 49 ss.), in opposizione alla magnifica lana dell’ariete. 33) Calco di skn›few ( kn¤zv) con anaptissi (come in Suet. Blasph. 8 sk¤nic, usato come termine offensivo), sciniphes compare qui per la prima volta nella latinità; cf. Isid. Orig. 12,8,14 sciniphes muscae minutissimae sunt, aculeis permolestae; Oros. 7,27,6; etc. Non è certo se debbano identificarsi con le «cimici» che vivevano nei letti più poveri e di cui parla Mart. 11,32,1 tritus cimice lectus; 11,56,5; Gloss. 2,573,19; etc.
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accolta anche da Ciaffi e Fedeli 98), ma, oltre che una più precisa corrispondenza con l’ipotesto odissiaco, a raccomandare primus è anche una stringente verosimiglianza paleografica (ritrovo ad es. la stessa confusione in Non. p. 108,16 s. M. [= Var. Log. 10 R.]);34 quanto al dativo, già ripristinato da Bücheler, sarà stato soppiantato dall’ablativo in conseguenza dell’errore. A ulteriore supporto di questa idea voglio ricordare che in virtù della sua superiorità, decantata nell’allocuzione rivoltagli dal Ciclope (cf. Cic. Tusc. 5,115), l’ariete è sempre p r i m o , mentre a causa del peso di Ulisse è ultimo ad uscire dalla caverna, e che su questa anomalia avvertita da Polifemo è incentrata tutta la tensione narrativa della fuga, 9,447 ss. ‘Kri¢ p°pon, t¤ moi œde diå sp°ow ¶ssuo mÆlvn/Ïstatow; oÎ ti pãrow ge leleimm°now ¶rxeai ofi«n,/ éllå p o l Á p r « t o w n°meai t°renÉ ênyea po¤hw /makrå bibãw, p r « t o w d¢ =oåw potam«n éfikãneiw, / p r « t o w d¢ staymÒnde lila¤eai épon°esyai/•sp°riow: nËn aÔte panÊstatow.’ Indicazioni bibliografiche: Alessio, G.: Hapax legomena ed altre cruces in Petronio, Napoli 1967. Boschius, I.: in: Burman. Brożek, M.: Petronius, Satyricon, 15,2, Latomus 24, 1965, 429–430. Bücheler, F.: ed. maior Berolini 1862 (rist. Berolini 1958 e 1963). Bücheler, F.: edd. minores Berolini 21871– 51904. Bücheler, F./Heraeus, W.: ed. Berolini 61912 (rist. 1922, con Supplementa adnotationum di W. Heraeus, 283–292). Burman, P.: ed. Amstelaedami 21743, voll. I–II (rist. Hildesheim 1974). Ciaffi, V.: ed. Torino 1967. Delz, J.: rec. a Müller 1961, Gnomon 34, 1962, 676–684. Díaz y Díaz, M. C. : ed. Madrid 1968–1969, voll. I–II (rist. 1990). Ellis, R.: On Petronius, Journ. of Philol. 11, 1882, 237–241. Ernout, A.: ed. Paris 41958. Fedeli, P.: Petronio: il viaggio, il labirinto, MD 6, 1981, 91–117. Focardi, G.: A proposito di Petr. Satyr. 15,2: un’allusione giuridica in advocati . . . nocturni?, Sileno 12, 1986, 57–72.
34) È logico pensare all’errato scioglimento di un’abbreviazione, o a un’abbreviazione non sciolta: frequente primus abbreviato p con ° soprascritto, dove ° era facilmente interpretabile come compendio per -ro- (sebbene pro avesse un compendio specifico e ben noto è talvolta abbreviato allo stesso modo, cf. W. M. Lindsay, Notae Latinae, Cambridge 1915, 179, 185 s., 355); ma vi sono altre combinazioni possibili, ad es. primo abbreviato po con i soprascritta, oppure con il solo compendio per la nasale, etc.
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Fraenkel, E.: in: Müller 1961. Fuchs, H.: Verderbnisse im Petrontext, in: H. Dahlmann/R. Merkelbach (edd.), Studien zur Textgeschichte und Textkritik, Köln/Opladen 1959, 57–82. Gaselee, St.: A collotype reproduction of that portion of cod. Paris. 7989 . . . which contains the Cena Trimalchionis of Petronius, Cambridge 1915. Giardina, G. C. / Cuccioli Melloni, R.: ed. Augustae Taurinorum 1995. Gronovius, J. F. : in: Burman. Heinsius, N.: in: Burman. Jacobs, F.: in: Bücheler. Keller, O.: Zur Kritik der Petronischen Cena Trimalchionis, RhM 16, 1861, 532–551. Labate, M.: Note petroniane, MD 25, 1990, 181–189. La Penna, A.: L’ariete di Polifemo in Petronio, Maia 35, 1983, 123–124. Marmorale, E. V. : ed. Firenze 21961 (Cena Trimalchionis). Müller, K.: ed. München 11961. Müller, K./Ehlers, W.: ed. München 21965. Müller, K./Ehlers, W.: ed. München 31983. Müller, K.: ed. Stutgardiae et Lipsiae 41995. Muncker: in: Burman. Nisbet, R. G. M.: rec. a Müller 1961, JRS 52, 1962, 227–232. Öberg, J.: ed. Stockholm 1999 (Cena Trimalchionis). Patimo, V. M. : Gli advocati nocturni di Petr. 15,2: poliziotti o predoni?, Aufidus 46, 2002, 7–35. Pellegrino, C.: ed. Roma 21986 (capp. 1–26,6). Petersmann, H.: Petrons urbane Prosa. Untersuchungen zu Sprache und Text (Syntax), Wien 1977. Reiske, J. J. : in: Burman. Rose, K. F. C.: Petroniana, C&M 26, 1965, 222–232. Sage, E. T. : ed. New York / London 1929. Schoppius, G.: in: Burman. Smith, M. S. : ed. Oxford 1975 (Cena Trimalchionis). Strelitz, A.: Emendationes Petronii satirarum, Jahrb. für class. Philol. 119, 1879, 629–634 e 833–845. Studer, G.: Observationes criticae in Petronii Cenam Trimalchionis, Bern 1839, 11. Sullivan, J. P. : trad. Baltimore/Victoria 1965. Vine, B.: †fericulusta† mel habuit praxim (Petr. 39,4), Glotta 67, 1989, 127–133. Warmington, E. H. : ed. London 1969 (rev. ed. M. Heseltine, London 1913).
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SATURNALICIO LUSIT ET IPSE LUTO Martial und die Kunst in den Apophoreta* Die Xenia und Apophoreta, das dreizehnte und vierzehnte Epigrammbuch Martials, ragen unter den übrigen Epigrammbüchern nicht nur dadurch hervor, daß sie einen eigenen Titel besitzen, sondern auch durch ihre Form; denn jedes dieser Bücher enthält, von den Einleitungsepigrammen abgesehen, lediglich Einzeldistichen. Diese konzentrierte Kürze mag der Grund sein, warum diese beiden Bücher von der Forschung bisher weitgehend vernächlässigt, bisweilen gar nur als Steinbruch für Realienkunde benutzt wurden.1 Die vorliegenden Epigramme geben sich als ‚Geschenkanhänger‘ für Saturnaliensouvenirs resp. Ersatzgeschenke2 – ein Etikett, das allzu oft wörtlich genommen wurde und den Blick auf ihre Raffinesse verstellte. Alle Epigramme der beiden Bücher rekurrieren auf Gegenstände, so daß die Frage naheliegt, ob und in welcher Weise diese Gegenstände bei Lektüre der Einzeldistichen präsent sein müssen. Diese Fragestellung ist für das griechische Epigramm bereits aufgegriffen worden, nicht jedoch für das lateinische und Martial.3 Aus den Büchern XIII und XIV bieten sich für diese Untersuchung insbesondere die Epigramme 14,170–182 an, da sie – anders als die meisten anderen Einzeldistichen der Xenia und Apophoreta – sich *) Für eine kritische Lektüre des Manuskripts danke ich Prof. Dr. Peter von Möllendorff, Prof. Dr. Peter Kuhlmann und dem Herausgeber Prof. Dr. Bernd Manuwald. 1) Ein kurzer Überblick über die Forschung findet sich bei Lorenz (2000) 86 Anm. 145. 2) Zur Sprechhaltung der oft sich selbst als Geschenk vorstellenden Epigramme vgl. Grewing (1999); angeblicher Ersatz für Geschenke: haec licet hospitibus pro munere disticha mittas, / si tibi tam rarus quam mihi nummus erit. (Mart. 13,3,5 f.) 3) Etwa für das Griechische von Bing (1995) und Goldhill (1994). Ansatzweise für Martial in Lausberg (1982), bes. 191–210. Von den Autoren, die sich mit den Xenia und Apophoreta befaßt haben, behandeln Lorenz (2000) die den Epigrammen inhärente Panegyrik, Grewing (1999) die durch den Saturnalienkontext geschaffene Sprechhaltung der Epigramme und Roman (2001) das Problem des Saturnalienbuches.
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nicht auf alltägliche Gegenstände, sondern auf Kunstwerke beziehen und so einen thematisch zusammenhängenden Zyklus bilden. Bevor das Verhältnis zwischen Kunstgegenstand und Epigramm eingehender und unter verschiedenen Gesichtspunkten untersucht wird, soll zunächst der Rezeptionsrahmen der Apophoreta ausgeleuchtet werden. 1. Der Rezeptionsrahmen der Apophoreta Wie das erste der beiden Einleitungsepigramme deutlich macht, ist als Rezeptionsrahmen für die Apophoreta das Saturnaliengelage vorgesehen.4 Martials Epigramme geben sich dabei als Alternativprogramm zu den üblichen Saturnalienunterhaltungen,5 genauer formuliert nehmen seine Distichen in diesem Kontext die Stellung von Lotterielosen ein: divitis alternas et pauperis accipe sortes: praemia convivae det sua quisque suo. Mart. 14,1,5 f. Damit werden sie nicht nur zum Stellvertreter für die in ihnen beschriebenen Saturnaliengeschenke, sondern auch für den Geschenkvorgang an sich; denn Martial offeriert seinem Leser mit den Xenia und Apophoreta nicht nur Geschenkanhänger für vom Leser tatsächlich zu verschenkende Gegenstände,6 sondern in und mit seinen Epigrammen auch seine Saturnalien-Geschenke an den Leser und ebenso das Saturnaliengelage dazu.7 Der Leser wird damit nicht nur literarisch beschenkt, sondern auch zum literarischepigrammatischen Saturnalien-Symposium geladen. 4) Gleiches gilt natürlich für die Xenia. Das Ende des Saturnalien-Symposiums ist in dem surgite von 14,223, dem letzten Epigramm, markiert. Zu dieser Zeitangabe Citroni (1992) 437. Vgl. auch Roman (2001) 130–138 zum eigenen Charakter der Bücher XIII und XIV. 5) Dies wird auch durch die Vorwortepigramme des dreizehnten Buches deutlich, z. B. haec mihi charta nuces, haec est mihi charta fritillus: / alea nec damnum nec facit ista lucrum (Mart. 13,1,7 f.). 6) Das wird besonders aus Geschenken wie der Minerva in Mart. 4,179 und 14,170 ersichtlich. 7) Vgl. Anm. 2.
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Im oben angeführten Zitat8 werden die Apophoreta als sortes und praemia bezeichnet. Der Cena Trimalchionis Petrons kann man entnehmen, daß es wohl üblich war, daß der Gastgeber seinen Gästen Präsente machte, wenn sie bei ihm zum Gelage geladen waren. Diese Geschenke wurden offensichtlich in spielerischer Form überreicht und waren mit Rätseln verbunden, wie folgender Ausschnitt zeigt: iam etiam philosophos de negotio deiciebat, cum pittacia in scypho circumferri coeperunt, puerque super hoc positus officium apophoreta recitavit. ‚argentum sceleratum‘: allata est perna, supra quam acetabula erant posita. ‚cervical‘: offla collaris allata est [. . .] diu risimus: sexcenta huiusmodi fuerunt, quae iam exciderunt memoriae meae. Petr. 56,7–10
Hierbei wird offensichtlich der Titel des Souvenirs vorgetragen, und die Gäste müssen den Gegenstand erraten.9 Damit ist ein ähnlicher Vorgang gegeben, wie wir ihn auch in den Apophoreta Martials vorfinden. Denn Martials Einzeldistichen sind Titel beigegeben, die vom Dichter eigens thematisiert werden und nach seiner Aussage auch anstatt der Epigramme gelesen werden können: ut, si malueris, lemmata sola legas (Mart. 14,2,4).10 Die Angabe, sie seien dazu da, daß der Leser auch die Überschriften allein lesen könne, ist freilich nicht wirklich ernst zu nehmen, da die Titel selbst ja kaum kürzer sind als jedes zweizeilige Epigramm. Gleichwohl ist damit eine wichtige Aussage getroffen: Die Lemmata verweisen auf den Inhalt des Distichons, können insofern tatsächlich als Register gelesen werden und sind vor allem ein Stellvertreter für das entsprechende Präsent, ja ersetzen es sogar. Das Verhältnis von Ankündigung und Auflösung ist gerade umgekehrt zu Petron. Während dort die Ankündigung verschlüsselt war und auf einen realen Gegenstand verwies, nimmt bei Martial die Überschrift den Platz des Gegenstandes ein, indem sie ihn konkret bezeichnet; das Distichon hingegen kann nicht unbedingt ohne den Titel verstanden werden, wie im folgenden zu zeigen ist.
8) Vgl. S. 288. 9) Vgl. dazu Smith (1975) ad loc. Zu apophoreta als Souvenirs Ullmann (1941). 10) Zu den Überschriften allgemein vgl. Schröder (1999) 176–79 und Lausberg (1982) 53.
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2. Das Verhältnis von Epigramm und Kunstgegenstand Wie verhalten sich Gegenstand/Kunstwerk, Epigrammüberschrift und Epigramm zueinander? Wie bereits angedeutet, entspringt der für die Apophoreta typische Charakter diesem ganz bestimmten Verhältnis. Als Illustration mag folgendes Beispiel dienen: Causea In Pompeiano tecum spectabo theatro. nam flatus populo vela negare solet. Mart. 14,29 Der Gegenstand spricht zu dem Leser des Epigramms und erklärt sich. Das Epigramm spielt mit seiner wörtlichen Bedeutung als ‚Auf-schrift‘ und setzt voraus, daß der Leser den im Epigramm umschriebenen Gegenstand in irgendeiner Weise vor Augen hat, sei es, daß er tatsächlich vor ihm liegt, sei es, daß er ihn allein in seiner Vorstellung sieht. Nur so kann eine sofortige Zuordnung erfolgen. Für den Leser der Apophoreta ist diese Referenz bereits durch die Überschrift gegeben. Bleibt die Frage, inwiefern der Gegenstand im Epigramm tatsächlich präsent ist, so daß auf ihn referiert werden kann. Ein Einzeldistichon kann naturgemäß keine vollständige Beschreibung eines Gegenstandes liefern, das Prinzip der enargeia, das nach antiker Definition die ‚klassische‘ Ekphrasis eines Bildes verfolgt, ist nicht angestrebt, und so kann es auch nicht die Absicht des Epigramms sein, das Bild für die Vorstellung des Lesers möglichst erschöpfend zu ‚visualisieren‘.11 Durch ein Epigramm – wenn wir zunächst von einer Aufschrift, beispielsweise auf einem Grab, ausgehen – erfährt ein Bild (resp. Grabstein) eine zusätzliche sinnhafte Ergänzung: Der Vorübergehende sieht die Stele und erfährt, wer dort begraben liegt.12 Löst sich das Epigramm von seinem Gegen11) Dieser Vorgang wird bei Baxandall (1990) 27 folgendermaßen beschrieben: „. . . aus unseren Erinnerungen und früheren Erfahrungen mit der Natur und mit anderen Bildern konstruieren wir in unserer Vorstellung etwas – schwer zu sagen, was –, und dieses Etwas, zu dem uns die Beschreibung . . . anregt, erweckt ein wenig den Anschein, als hätten wir ein Bild gesehen, auf das die Beschreibung zutrifft.“ 12) Was er sonst nicht wüßte und was auch einer eventuellen Abbildung des Verstorbenen auf dem Grab nicht unbedingt zu entnehmen wäre. Vgl. etwa das bei Bing (1995) 120 zitierte Epigramm CEG I 28.
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stand, bleibt eine gedankliche Verbindung gleichwohl erhalten; sie zu ziehen macht mitunter gerade die Raffinesse des Epigramms aus. Die Reaktion des Lesers auf dieses Nichtvorhandensein und seine gedankliche (Re-)Konstruktion hat Peter Bing in Anlehnung an Roman Ingardens ‚Konkretisieren‘ als ‚Ergänzungsspiel‘ bezeichnet.13 Der Leser muß also das, was im Text unbestimmt bleibt, aufgrund seiner Kenntnis dieser oder ähnlicher Situationen gedanklich vervollständigen, so daß sich für den Text ein Referenzpunkt bzw. ein Bild konstituiert, das allerdings nicht genau identisch sein kann mit dem Bild des Dichters, denn beide existieren nur in der Vorstellung von Absender und Adressat des Epigramms. – Das könnte freilich so auch über eine Ekphrasis gesagt werden. Der Unterschied besteht jedoch darin, daß zum einen die Anzahl der Unbestimmtheitsstellen in einem Epigramm im Vergleich zu einer Ekphrasis wesentlich größer ist und daß die Unbestimmtheitsstellen gerade die Besonderheit dieses Epigramms ausmachen und möglicherweise gar nicht bis ins letzte beseitigt werden sollen. Der Reiz der Xenia und Apophoreta liegt darin, daß sie auf Gegenstände referieren, die außerhalb des Textes liegen und insofern doch ‚intermedial‘14 sind, als der referierte Gegenstand zumindest mittelbar präsent sein muß, d. h. im eben geschilderten Sinne konkretisiert werden muß. Dessen Präsenz ist um so mehr erforderlich, als der referierende Text, wie oben an einem Epigramm deutlich gemacht wurde,15 nicht gleich ohne den dazugedachten Gegenstand zu verstehen ist. Im Kontext des Martialschen Epigramm-Buches wird die Präsenz durch die Lemmata gewährleistet. Sowohl Distichon als auch Lemma verweisen auf den Gegenstand, jedoch besteht zwischen Epigramm und Überschrift eine viel engere Verbindung als zwischen Epigramm und Gegenstand. Außerdem ist wahrscheinlich, daß 13) Bing (1995) 116; Ingarden (1979) 47. 14) Von Rajewsky (2002) 199 werden „intermediale Bezüge“ definiert als: „Subkategorie der Intermedialität. Verfahren der Bedeutungskonstitution eines medialen Produkts durch Bezugnahme auf ein Produkt oder das semiotische System bzw. bestimmte semiotische Subsysteme eines konventionell als distinkt wahrgenommenen Mediums. ‚Intermedialität‘ wird hier zu einem kommunikativ-semiotischen Begriff, wobei per definitionem immer nur ein Medium in seiner Materialität präsent ist.“ Ähnlich Eicher (1994) 11: „In aller Vorläufigkeit ließe sich generalisierend von kulturell kodierten Kommunikationssystemen sprechen, die sich beeinflussen, nachahmen, berühren oder gar zu einer Einheit verbinden können.“ 15) Vgl. oben S. 290.
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manchmal nicht nur e i n e Konkretisierung möglich ist; allerdings sind die Konkretisierungsmöglichkeiten auch nicht unbegrenzt. Während die Visualisierung eines Sonnenhutes von der Vielfalt der römischen Modekreationen abhängig scheint, ist die Vorstellung eines Kunstgegenstandes vergleichsweise eng; denn Martials Epigramme beziehen sich, wie zu sehen sein wird, oft auf genau ein Werk.16 Um die Art der Verbindung näher bezeichnen zu können, scheint es sinnvoll, ein Beschreibungsinstrumentarium zu wählen, das verschiedene Aspekte der Verbindung beleuchtet. Hier bietet es sich an, auf die von Manfred Pfister für intertextuelle Bezüge erstellten und von Thomas Eicher auf intermediale Verbindungen übertragenen Kriterien zu rekurrieren.17 Als Kriterien werden bei Pfister und Eicher folgende genannt: Referentialität, Kommunikativität, Strukturalität, Selektivität, Dialogizität und Autoreflexivität. Diese Kriterien bezeichnen jeweils nur einen Qualitätsaspekt intertextueller resp. intermedialer Verbindungen, leuchten aber insgesamt die möglichen Blickwinkel aus. Die genannten Kriterien schließen sich also nicht gegenseitig aus – im Gegenteil, sie lassen sich als Untersuchungskriterien prinzipiell immer alle anwenden. In den folgenden Kapiteln werden diese qualitativen Kriterien exemplarisch auf Martials Kunst-Epigramme appliziert, um so die Möglichkeiten der Bezugnahme auffächern und aufzeigen zu können. 3. Kriterium Referentialität Zuerst sollte dem Problem nachgegangen werden, in welcher Weise überhaupt die Epigramme auf Kunstgegenstände referieren und inwiefern das Postmedium das Prämedium als solches thematisiert. Als erstes Beispiel mag Epigramm 14,176 dienen: Persona Germana Sum figuli lusus russi persona Batavi. quae tu derides, haec timet ora puer. Mart. 14,176 16) Dessen materielle Präsenz dann gleichwohl noch immer nicht erforderlich ist. 17) Siehe Pfister (1985) 26–30 und Eicher (1994) 25 f.
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Das Lemma weist darauf hin, daß dieses Epigramm das Etikett für die Tonmaske eines Germanen ist. Ohne das Lemma kann sich der Leser Gestalt und Inhalt des Gegenstandes erst schrittweise verdeutlichen. Die Maske stellt sich vor und spricht zum Leser; das Material wird bereits in den Worten figuli lusus bestimmt, für die Konkretisierung des Gegenstandes muß sich der Leser jedoch bis zum Ende des Verses gedulden. Der Pentameter greift über die sachliche Vorstellung hinaus. Schließlich entsteht beim Rezipienten der Eindruck, die Maske sei beleidigt. Dieser Eindruck wird durch ein Spannungsverhältnis zwischen Post- und Prämedium erzeugt, denn bei dem Prämedium handelt es sich vermutlich um die überzeichnete Maske eines Germanen.18 Diese Spannung ist dieselbe wie zwischen der Maske und einem ‚wirklichen‘ Germanen, die als tapfer galten und die die Römer in der jüngeren Vergangenheit durch einen Aufstand in Atem hielten.19 Im Epigramm äußert sich der verkommene Germanenstolz: nicht nur durch Domitian besiegt, so ist wohl gedanklich zu ergänzen, sondern auch noch die Spielerei eines Töpfers zu sein ist erniedrigend. Im zweiten Vers rebelliert der Germane ein letztes Mal: Die unterschwellig warnenden Worte, daß der Leser über den Bataver zwar spotten möge, doch andere ihn fürchteten, werden durch das letzte Wort puer desavouiert. Die Maske gibt sich schließlich selbst der Lächerlichkeit preis. Auf einer ähnlichen Spannung zwischen Sujet und Medium beruht Epigramm 14,178: Hercules fictilis Sum fragilis: sed tu, moneo, ne sperne sigillum: non pudet Alciden nomen habere meum. Mart. 14,178 Auch hier spricht der Kunstgegenstand zum Leser und stellt sich vor, ebenfalls eine Tonfigur. Ohne Überschrift erfährt man im Hexameter lediglich das Material, erst im Pentameter wird der Inhalt klar: Es handelt sich um ein Bildnis des Hercules. 18) Eine mögliche Illustration einer solchen Maske findet sich bei Leary (1996) 242. 19) Vgl. Tac. hist. 5,26 und H. Bengtson, Grundriß der römischen Geschichte, HdA III. 5. 1, München 1967, 315 f.
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Wie der Bataver hadert auch der dargestellte Hercules mit seiner billigen Ausführung und weist auf seine Persönlichkeit als wertsteigerndes Gegenargument hin. Dieses Epigramm spielt mit der Differenz zwischen den unterschiedlichen Medien und redet von sich gewissermaßen in der ersten und dritten Person gleichzeitig: Die Tonstatuette ist nur eine mögliche Erscheinungsform des Hercules. Deswegen kann der Alkide die Ausführung in Ton emotional bewerten. Das Lemma ist bei diesem Epigramm wesentlicher Bestandteil des Spiels, denn nur dort wird der Name Hercules fictilis genannt, auf den im Pentameter hingewiesen wird. Bei Plinius dem Älteren findet man einen Hinweis, daß es eine Herculesfigur aus Ton gegeben habe, die zur Zeit des Tarquinius Priscus angefertigt worden sein muß und so bekannt war, daß sie tatsächlich Hercules fictilis hieß. Bemerkenswert ist an dieser Stelle Plinius’ darauffolgende Belehrung, daß aus diesem Material damals die edelsten Götterstatuen gewesen seien.20 Nimmt man diese Diskrepanz als Grundlage und setzt man die Kenntnis des Lesers jener berühmten tönernen Herculesstatue voraus, so verbirgt sich auch hinter den Worten des epigrammatischen Hercules ein Tadel an den Leser, der die ruhmreiche Vergangenheit Roms so wenig im Blick hat. Diese Pointe beruhte dann darauf, daß für das Distichon genau eine Konkretisierung möglich ist. 4. Kriterium Kommunikativität Unter diesem Rubrum gilt es zu untersuchen, inwiefern bewußt auf das Prämedium angespielt wird und wodurch der Bezug deutlich wird. Dabei ist auch zu fragen, was für ein Prämedium eigentlich vorliegt. Nehmen wir als erstes Beispiel Epigramm 14,173: Hyacinthus in tabula pictus Flectit ab inviso morientia lumina disco Oebalius, Phoebi culpa dolorque, puer. Mart. 14,173 20) Plin. nat. 35,157: ab hoc eodem [Vulca] factum Herculem, qui hodieque materiae nomen in urbe retinet. hae enim tum effigies deorum erant lautissimae, nec paenitet nos illorum, qui tales eos coluere; aurum enim et argenteum ne diis quidem conficiebant.
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Im Lemma ist zunächst als Kunstgegenstand ein Gemälde angegeben, ferner ist durch Hyacinthus bereits auf den Mythos verwiesen. Betrachtet man anschließend das Epigramm, so wird der Name aus dem Lemma in Oebalius puer wieder aufgenommen; daß es sich um ein Gemälde handelt, spielt jedoch keine weitere Rolle, da nicht auf die Komposition des Gemäldes eingegangen wird.21 Vielmehr wird der Mythos um die Beziehung von Apollon und Hyakinthos als bekannt vorausgesetzt. Daraus greift das Distichon die Sterbeszene, in der Hyakinthos durch Apolls Diskus getroffen wurde, auf. Diesem Moment gilt die erste Zeile, während die zweite ganz der Benennung des Hyakinthos gewidmet ist. Dieser rahmt in Sperrung mit der Herkunftsbezeichnung Oebalius und dem Appellativum puer eine Apposition, die auch Apollon in das Epigramm einbindet, anders als Hyakinthus jedoch nur als mittelbar anwesende Person. Das culpa dolorque erweitert gleichsam den temporalen Raum des Dargestellten in die Vergangenheit vor und die Zukunft nach dem dargestellten Sterbemoment. Damit leistet das Epigramm gegenüber einer möglichen Bildvorlage eine Vergrößerung des Fokus. Darüber hinaus wird mit der Wendung Phoebi culpa dolorque auf die Verarbeitung des Stoffes in Ovids Metamorphosen angespielt. Ovid läßt dort Apollon sagen: tu dolor es facinusque meum; mea dextera leto inscribenda tuo est; ego sum tibi funeris auctor. quae mea culpa tamen? nisi si lusisse vocari culpa potest, nisi culpa potest et amasse vocari. Ov. met. 10,198–201 Die Selbstzweifel Apollons sind in Martials Fassung zur Gewißheit geworden, seine rhetorische Frage erhält im Epigramm eine eindeutige Antwort. Dadurch, daß der innere Monolog Apolls bei Ovid in Martials Distichon epithetonartig in Apposition wiederkehrt, ist diese 21) Insofern spielt es hier auch keine Rolle, ob es eine Kopie des bei Plin. nat. 35,130 f. erwähnten Gemäldes des Nikias mit dem Sujet Hyakinthos ist (wie Leary [1996] 234 annimmt), das Augustus von Alexandria nach Rom gebracht haben soll, und ob Martial dieses oder ein anderes vor Augen hatte. Vgl. auch Lausberg (1982) 203.
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Fassung als Rezeptionsvorlage festgelegt. Das Epigramm korrespondiert damit weniger mit einem Gemälde, sondern mit Ovid als Prämedium. Ähnlich verhält es sich mit Epigramm 14,181: Leandros marmoreus Clamabat tumidis audax Leandros in undis: ‚mergite me, fluctus, cum rediturus ero.‘ Mart. 14,181 Zwischen Lemma und Distichon besteht hinsichtlich der Konkretisation kein Spannungsverhältnis. Leander wird sowohl in der Überschrift als auch im Gedicht erwähnt. Allerdings gibt es eine gewisse Diskrepanz zwischen der materiellen Ausführung des Kunstwerkes und dem dargestellten Sujet. Denn die bewegte Szene des im stürmischen Meer schwimmenden Leander läßt sich schwerlich als Marmorstatue vorstellen, allenfalls als Marmorrelief.22 Während im ersten Vers die Szene skizziert wird, präsentiert Martial dem Leser im Pentameter einen Leander, der über mythologisches Wissen verfügt und dem bereits bewußt ist, daß er als Leander auf dem Weg zu Hero ‚üblicherweise‘ ertrinken wird. Während seine Worte vor der Mittelzäsur zunächst mißverständlich scheinen – welcher Schwimmer bittet schon darum, ertränkt zu werden? –, löst sich in der zweiten Hälfte die paradoxe Aussage zu einer Pointe auf: Leander, der weiß, daß er untergehen muß, bittet darum, doch erst auf dem Rückweg sein feuchtes Grab zu finden, so daß er wenigstens den Zweck seiner Hellespont-Überquerung noch erfüllen kann.23 Im Gegensatz zum zuvor behandelten Epigramm 14,173 ist es in diesem Falle nicht der Leser, dessen Kenntnis die Verbindung zum Prämedium herstellt, sondern das Epigramm resp. die im Epi22) Deswegen gehen Leary (1996) ad loc. und Lausberg (1982) 204 Anm. 11 auch von einem solchen aus. Möglicherweise liegt ein zusätzlicher Witz darin, die Ebene der Materialität des Kunstgegenstandes und seines Sujets miteinander zu vermischen und sich eine schwimmende Marmorstatue vorzustellen. 23) Etwas anders liegt die Pointe in Mart. lib. 29 (ed. Shackleton-Bailey): Dort weiß Leander zwar auch um sein mythisches Schicksal, sagt aber: ‚parcite dum propero, mergite cum redeo‘. Der Witz basiert dort auf den beiden (sowohl in Wortstellung als auch in metrischer und lautlicher Ähnlichkeit) absolut parallelen Pentameterhälften. Vgl. dazu auch Lausberg (1982) 204 f.
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gramm auftretende Figur selbst. Dies erklärt, warum die Verbindung hier zunächst weniger komplex scheint als dort die Referenz auf den Ovid-Text. 5. Kriterium Strukturalität Auf den ersten Blick scheint es zweifelhaft, wie ein zweizeiliges Epigramm in seiner Kürze die Struktur eines Kunstwerkes sollte abbilden können, doch die beiden folgenden zu besprechenden Epigramme zeigen, daß es möglich ist. Sauroctonos Corinthius Ad te reptanti, puer insidiose, lacertae parce; cupit digitis illa perire tuis. Mart. 14,172 Begeben wir uns zunächst in die Position eines naiven, unwissenden Lesers, dem auch die Überschrift noch nicht bekannt ist: Angesprochen ist das Bildnis, das weiterhin mit puer insidiose apostrophiert ist. Wer dieser hinterlistige Knabe ist, wird im Epigramm selbst nicht gesagt. Der Leser wird allenfalls am Ende des Hexameters darüber informiert, daß ferner eine Eidechse in das Geschehen innerhalb des Epigramms involviert ist, die auf den Knaben zukriecht. In einem Enjambement wird die Aufforderung hinzugefügt, er solle sie verschonen. In diesem Moment läßt sich gedanklich konkretisieren, daß der Knabe wohl deswegen insidiosus genannt wird, weil er mit einer Waffe auf die Eidechse zielt. Als Aussage bzw. Begründung wird angefügt, daß sie durch seine (tuis pointiert an das Ende gestellt und mit dem te zu Beginn korrespondierend) Hand sterben wolle. Wiewohl paradox, läßt sich hier doch immerhin ergänzen, daß der Knabe die Eidechse tatsächlich tötet. An diesem Punkt scheint der unwissende Leser das Ende seiner Interpretationskunst erreicht zu haben. Nimmt man die Überschrift hinzu, erweitert sich das Spektrum beträchtlich. Zum einen erfährt der Leser, daß es sich um eine Statuengruppe aus Bronze handelt, zum anderen, daß sie den Typ des sauroctonos, also des Eidechsentöters, darstellt. Damit wird beim Leser eine bestimmte Vorstellung eines Statuentyps evoziert, über den Plinius d. Ä. schreibt:
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Meike Rühl fecit [Praxiteles] et puberem Apollinem subrepenti lacertae comminus sagitta insidiantem, quem sauroctonon vocant. Plin. nat. 34,70
Diese Information, die der zeitgenössische Leser sicherlich mit dem Lemma ‚Eidechsentöter‘ verband, läßt den angesprochenen Akteur identifizierbar werden und macht genau eine Konkretisation möglich.24 Allein der erste Vers umfaßt bereits die in der Plastik dargestellte Szene, ahmt sogar durch die Sperrung von reptanti und lacertae zu beiden Seiten von puer insidiose die immanente Spannung des Kunstwerkes, das einen im Moment des Zielens verharrenden und Baumstamm mit Eidechse beinahe umfassenden Apollon zeigt, nach. Der Pentameter verleiht dem Ganzen sukzessive einen zusätzlichen Sinn: Die Aufforderung parce läßt zunächst vermuten, Apollon sei angehalten, die Eidechse nicht zu töten, denn, so suggeriert darauf das cupit, sie will natürlich leben. In den folgenden Worten wird der Leser jedoch eines Besseren belehrt – ganz im Gegenteil, die Eidechse wünscht sich nichts sehnlicher, als durch Apolls Pfeil zu sterben. Aufgrund dieser überraschenden Wendung muß auch der Sinn des ersten Satzes korrigiert werden: Apollon wird nämlich nicht insidiosus genannt und zur Schonung angehalten, weil er auf Eidechsenjagd ist, sondern weil er zu lange auf sein Objekt zielt anstatt zu schießen.25 Hierin liegt offenbar noch eine ‚Spitze‘ des Textes gegenüber dem Bild, stellt die Statue doch just den Augenblick des Zielens dar und friert ihn gewissermaßen ein. Martial hingegen führt die wahrscheinliche Fortsetzung der Szene an: Die Eidechse wird von Apollon erlegt, jedoch erst am Ende des Epigramms, so daß die Spannung, die in der Statue offenbar angelegt war, aufrecht erhalten wird. Deutlicher noch als dieses Epigramm bildet der Hermaphroditus marmoreus das Bildnis in Versen ab: Hermaphroditus marmoreus Masculus intravit fontis: emersit utrumque: pars est una patris, cetera matris habet. Mart. 14,174 24) Eine Abbildung dieses Statuentyps findet sich bei Leary (1996) 243. 25) Anders Leary (1996) ad loc., der diesen Wunsch auf das Wirken von Apolls numen zurückführt.
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Der Aktionsraum des Epigramms gegenüber einer Marmorstatue, die nur das Ergebnis zeigen kann, ist wesentlich größer, da der ganze Vorgang der Verwandlung eingeschlossen werden kann. Dementsprechend wechselt das Tempus von der Vergangenheit im ersten Vers zum Ergebnis im Präsens des zweiten Verses. Der Name der Statue ist lediglich im Lemma genannt, eine Konkretisation ohne Kenntnis der Überschrift dürfte am Ende des Hexameters abgeschlossen sein, auch wenn die Angabe des utrumque erst zum Schluß des Pentameters als weibliche Hälfte konkret gemacht wird. Der Hexameter in sich bildet durch die chiastische Wortstellung einen Spannungsbogen, indem fontes durch jeweils das Prädikat und das Subjekt gerahmt wird; dadurch kommen masculus als Anfangs- und utrumque als Endprodukt26 pointiert jeweils an den äußersten Enden des Verses zu stehen. Der Pentameter teilt das Ergebnis durch die Mittelzäsur in zwei genau gleich große Hälften – ganz so, wie es auch der Verteilung der im Lemma genannten Namensbestandteile (Herm-Aphrodit – Vater-Mutter) und den verschiedenen Körperhälften eines marmornen Hermaphroditen entspricht. Das Distichon birgt in diesen Fällen in seiner strukturellen Anordnung auch visuelle Qualitäten, die sonst eher dem Bild- als dem Textmedium eignen.27 Diese beiden vorgestellten Epigramme gehen damit weniger auf den Inhalt eines Prämediums ein als auf die Möglichkeit, die spezifischen Eigenschaften des einen Mediums nicht nur in das andere zu übertragen und mit den unterschiedlichen Qualitäten zu spielen, sondern immer auch zu überbieten. 6. Kriterium Selektivität Diese Kategorie umfaßt die Beobachtung, daß bei der Aufnahme des einen Mediums in ein anderes nicht alle Aspekte und Details, die vor allem auch in der unterschiedlichen Materialität und ihrer Ausdrucksmöglichkeit begründet sind, übernommen
26) Utrumque schon bei Ov. met. 4,379: nec utrumque et utrumque videtur. 27) Zum grundlegenden Unterschied zwischen Bild- und Textmedien vgl. Hölscher (2000) 148 f., der dem einen als Qualität „bildliche Präsenz“, dem anderen „narrativ-explikativen Diskurs“ zuschreibt.
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werden können und sollen. Deswegen wird immer eine Auswahl getroffen, die mal mehr, mal weniger prägnant sein kann.28 So war beispielsweise bei Epigramm 14,176, der Persona Germana, festzustellen,29 daß vor allem auf den Gesichtsausdruck der Maske abgehoben wurde; ähnlich bildete für Epigramm 14,178 das tönerne Material die thematische Basis für das Einzeldistichon.30 Im folgenden sollen nun zwei Epigramme besprochen werden, die einen sehr hohen Grad an Selektivität aufweisen, den begrenzten Ausschnitt jedoch sehr pointiert einsetzen, um an ihnen zu illustrieren, wie sehr sich die Verarbeitung eines Bildmediums im Epigramm von der Verarbeitung in anderen literarischen Formen (etwa einer Ekphrasis) unterscheidet. Der hohe Grad an Selektivität hängt mit der Kürze und Verweiskraft der Einzeldistichen zusammen. Denn im Gegensatz zu den oben angeführten Versen auf Tongegenstände kann die Mehrzahl der Apophoreta trotz ihrer Kürze durch Anspielung weit über das Kunstwerk hinausgreifen. Das geschieht meist dann, wenn dem im Lemma referierten Kunstgegenstand seinerseits wiederum ein mythologisches Sujet zugrunde liegt.31 Ein Beispiel hierfür ist Epigramm 14,177: Hercules Corinthius Elidit geminos infans nec respicit anguis. iam poterat teneras Hydra timere manus. Mart. 14,177 Der erste Vers versucht noch, das (mögliche) Aussehen der Statue abzubilden, indem der kleine Hercules (infans) buchstäblich zwischen den beiden Schlangen eingeklemmt ist, doch der Pentameter geht schließlich über das, was eine Statue darstellen kann, weit hinaus und ist mit seiner Aussage nur in Textform möglich. Denn nun wird aufgrund der Analogie ‚Schlange‘ ein Ausblick auf die Erlegung der Hydra geworfen und das Erwürgen der beiden von 28) „Die Selektivität betrifft die Prägnanz des Verweises für den Zusammenhang, aus dem er herausgegriffen ist. Das setzt voraus, daß ein Bild, auf das der Text reagiert, nicht vollständig integriert oder realisiert wird. Vor allem Allusionen oder weniger umfangreiche Bildzitate müssen sich in dieser Weise auf ihre Signifikanz überprüfen lassen.“ (Eicher [1994] 26). 29) Vgl. oben S. 292. 30) Vgl. oben S. 293. 31) Wie schon gesehen etwa bei Epigramm 14,173, vgl. oben S. 294.
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Hera gesandten Schlangen als Vorbote der künftigen Stärke des Hercules gewertet. Beibehalten wird im Distichon wie auch bei der zugrundeliegenden Statue die Perspektive auf die Fähigkeit des Hercules, Schlangen zu töten. Die anachronistische Pointe des Distichons lautet: Aufgrund der im Hexameter geschilderten Begebenheit hätte die Hydra um die Stärke des Hercules wissen und einer Begegnung mit ihm aus dem Wege gehen können. Etwas anders verhält es sich mit folgendem Epigramm: BroÊtou paid¤on fictile Gloria tam parvi non est obscura sigilli: istius pueri Brutus amator erat. Mart. 14,171 Dabei geht es um eine Tonstatue eines Knaben, die, wie Plinius d. Ä. vermerkt, Strongylion geschaffen habe, und an welcher Brutus besonderes Gefallen gefunden haben soll, so daß man fortan nur noch von „Brutus’ Knaben“ sprach.32 Das Epigramm geht, abgesehen vom Lemma, das wie üblich die Identifizierung leistet, und der kurzen Erwähnung im Hexameter, auf das eigentliche Kunstwerk gar nicht ein. Vielmehr wird der Ruf dieser Statue thematisiert. Dieser ist, entgegen seiner materiellen Ausführung (wie auch schon bei den anderen Tonfiguren vermerkt), durchaus bekannt. Die Berühmtheit freilich wird im Epigramm durch ein double entendre deutlich gemacht: Brutus ist nicht nur im einen, bei Plinius belegten Sinne ein Liebhaber dieser Statuette, sondern auch im anderen Sinne. Dieser letzte wird auch noch durch die Verwendung des griechischen Ausdruckes paid¤on in der Überschrift deutlich gemacht, denn dieses Wort bezeichnet eindeutiger als das lateinische puer auch einen Lustknaben.33 Das Epigramm bezieht sich damit zum einen lediglich in der Überschrift und dem ersten Vers auf ein Kunstwerk, zum anderen beschränkt und vergrößert es den Fokus zugleich im zweiten Vers auf das, was im Hexameter bereits angedeutet war, und erweitert 32) Plin. nat. 34,82: idem [Strongylion] fecit puerum, quem amando Brutus Philippensis cognomine suo inlustravit. Zu der Betitelung puer Bruti vgl. Mart. 2,77,4 und 9,50,5. Aus diesen Stellen kann geschlossen werden, daß die Figur, von der es keine Kopie mehr gibt, recht klein gewesen sein muß. 33) Vgl. LSJ s. v. paid¤on II.
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den Blick auf den Kunstgegenstand um eine Konnotation, die im Prämedium selbst so zunächst gar nicht angelegt war und die sich aus der Tradierung und Rezeption der Tonstatuette als puer Bruti ergibt. Man sieht, daß im Falle der Apophoreta das Postmedium, anders als bei einer nach Deutlichkeit strebenden Ekphrasis, auf das Prämedium einerseits aufgrund der durch die Form des Einzeldistichons bedingten Kürze nur selektiv eingehen kann, daß es andererseits aber durch gezielt plazierte Anspielungen auf den Verstehenshintergrund des Prämediums dessen Bedeutung beträchtlich erweitern kann. 7. Dialogizität Auf den zuletzt genannten Aspekt, die Erweiterung eines Gegenstandes um eine zusätzliche Bedeutungsnuance und vor allem die semantische Umwertung, soll nun noch etwas näher eingegangen werden.34 Nehmen wir als erste Illustration Epigramm 14,175: Danae picta Cur a te pretium Danae, regnator Olympi, accepit, gratis si tibi Leda dedit? Mart. 14,175 Betrachtet man zunächst das Verhältnis von Epigramm und Lemma, so ist die Überschrift für das Verständnis des Epigramms eigentlich nicht notwendig, denn Danae ist auch im Epigramm genannt; als zusätzliche Information wird allein das Material gegeben, das aber für den Verlauf des Epigramms, anders als in den zuvor vorgestellten Epigrammen, nicht weiter thematisiert wird. Gleichwohl dürfte bereits die Überschrift genügen, um das (aus dem Danae/Perseus-Mythos mit am häufigsten dargestellte) Sujet 34) Deutlicher als bei Eicher (1994) definiert bei Pfister (1985) 29: „Dieses Kriterium besagt, daß – wie immer ceteris paribus – ein Verweis auf vorgegebene Texte oder Diskurssysteme von umso höherer intertextueller Intensität ist, je stärker der ursprüngliche und der neue Zusammenhang in semantischer und ideologischer Spannung zueinander stehen.“ Das kann auf Bild-Text-Beziehungen entsprechend übertragen werden.
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‚Danae wird von Zeus in Gestalt eines Goldregens besucht‘ zu evozieren.35 Der Witz des Epigramms besteht darin, daß das Gewicht nicht auf der Metamorphose des Göttervaters in Regen liegt, sondern auf der Tatsache, daß es sich um goldenen, also wertvollen Regen handelte, der als Bezahlung für Danaes Dienste interpretiert wird. Im Vergleich mit Leda, die in dieser Hinsicht von dem Schwan nichts hatte, scheint sie klar im finanziellen Vorteil. Gekleidet ist diese Umwertung in eine empörte Frage an Zeus selbst und stellt insofern eine direkte Verbindung zu dem vorgestellten Gemälde dar. Das Sujet des Gemäldes wird darin überschritten, daß ein zweites, jedoch nicht dargestelltes Sujet vergleichend hinzugenommen wird: Zeus’ Affäre mit Leda in Gestalt eines Schwans, die unter demselben Aspekt betrachtet wird. Martial beschränkt sich also zum einen auf einen bestimmten Aspekt des Danae-Sujets (den materiellen Wert des Regens), zum anderen verleiht er ihm eine zusätzliche Ausdeutung in einer zunächst so nicht angelegten Richtung.36 Den Vorgang der Metamorphose thematisiert auch das Gemälde der Europa. Hier werden ebenfalls zwei mythologische Sujets unter einem bestimmten Blickwinkel zusammengestellt. Während jedoch beim zuvor zitierten Epigramm zwei amouröse Abenteuer des Göttervaters unter finanziellem Aspekt gegenübergestellt werden, wird in diesem Einzeldistichon die Zweckmäßigkeit der Verwandlung, mit deren Hilfe eine Frau verführt werden kann, in Frage gestellt: Europe picta Mutari melius tauro, pater optime divum, tunc poteras Io cum tibi vacca fuit. Mart. 14,180 Der Beginn des Hexameters läßt den Leser, zumal Zeus angesprochen ist, durch den Hinweis auf die Verwandlung in einen Stier sofort an den Europa-Mythos denken, was durch das Lemma be35) Vgl. J. Maffre, Danae, LIMC III.1, 326 f., der als zweites Hauptthema der Bildzeugnisse neben dem oben genannten die Aussetzung von Danae und Perseus in einer Kiste angibt. 36) Zum möglichen Rekurs auf die Liebeselegie vgl. Ov. am. 3,8,29 f. und Leary (1996) ad loc.
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stätigt wird (resp. umgekehrt, bei vorheriger Lektüre); der Komparativ melius läßt freilich bereits ein Vergleichsobjekt erwarten. Die Erwartung bestätigt der Pentameter, jedoch wird das tertium comparationis erst deutlich, als der Name Io erscheint, bis es dann schließlich ganz ausgesprochen wird. Das Epigramm fokussiert auf die Frage, inwieweit Zeus und Geliebte sich entsprechen. Unter diesem Gesichtspunkt liegt die Antwort, daß Stier mit Kuh und Mensch mit Mensch besser miteinander harmoniert hätten, auf der Hand. Da Zeus sich im ersten Fall in einen Stier verwandelte, um Europa zu verführen, im zweiten Fall es jedoch Io war, die zum Schutz vor Heras Eifersucht nach dem bereits vollzogenen Liebesakt in eine Kuh verwandelt wurde,37 gehen die beiden Metamorphosen von unterschiedlichen Zielsetzungen aus. Indem beide Sujets allein aufgrund des Motivs ‚Metamorphose in eine Kuh resp. in einen Stier‘ zusammengestellt sind, wird die göttliche Verwandlungsstrategie an sich ad absurdum geführt. Noch einen Schritt weiter geht folgendes Epigramm: Minerva argentea Dic, mihi, virgo ferox, cum sit tibi cassis et hasta, quare non habeas aegida, ‚Caesar habet‘. Mart. 14,179 Hier tritt der Leser/Betrachter in einen Dialog mit dem Kunstwerk. Minerva als Gesprächspartnerin läßt sich sukzessive innerhalb des Hexameters an der Apostrophierung als virgo sowie an ihren Attributen Helm und Lanze erschließen. Eines jedoch fehlt: die Aegis. Minervas Auskunft auf die verwunderte Frage impliziert, daß sie sie an einen ebenbürtigen Träger abgetreten hat.38 Indem Domitian von Minerva als seiner bevorzugten Göttin die Aegis empfangen hat, steht er unter ihrem besonderen Schutz. Die Materialangabe ‚Silber‘ im Lemma trägt ein panegyrisches Element bei, immerhin handelt es sich um einen der wertvolleren Kunstgegenstände der Sammlung. Der Titel übernimmt neben der Funktion, das Epigramm einem Kunstwerk zuzuweisen, hier eine wei37) Vgl. Ov. met. 1,610 f. 38) Man vergleiche damit Mart. 7,1 und zur allgemeinen Minerva-Verehrung Domitians Suet. Dom. 15,3 und M. Griffin, The Flavians, CAH XI2, 2000, 63 f.
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tere Aufgabe. Die inhaltliche Wendung, die der Pentameter nimmt, ist ganz bestimmt nicht in einer etwaigen Plastik angelegt. Sind die geäußerten Gedanken des Betrachters in den Epigrammen zu Europa und Danae einigermaßen naheliegend, ist das bei diesem sehr unwahrscheinlich. Ein Bild der Minerva ohne Aegis müßte deswegen hier auch nicht unbedingt als Ausgangspunkt dienen.39 Denn aus diesem Bild ginge die Pointe des Epigramms, daß Minerva ihren Schutzschild verliehen hat, ebensowenig hervor. Zweckmäßig wäre auch die Vorstellung eines Bildnisses mit Aegis, denn diese wird bei der Lektüre durch die Feststellung des Sprechers im Pentameter ja korrigiert resp. konkretisiert. Jedenfalls enthält dieses Epigramm eine Aussage, die in einem wie auch immer gearteten Kunstwerk nicht vorhanden sein kann, und ordnet somit alle Minerva-Bilder in den Kontext Domitianischer Bildund Religionspolitik ein. 8. Kriterium Autoreflexivität Als letzte Rubrik soll nun die Autoreflexivität besprochen werden, d. h. die Thematisierung der Bezugnahme auf eine bildliche oder gegenständliche Vorlage als solche. Hierfür sind das erste und letzte Epigramm der Kunstreihe besonders geeignet. Signum Victoriae aureum Haec illi sine sorte datur, cui nomina Rhenus vera dedit. deciens adde Falerna, puer. Mart. 14,170 Dieses Epigramm macht noch einmal den Geschenk-Charakter der Sammlung deutlich. Es wird Domitian „ohne Los“ zugesprochen allein deswegen, da dem Princeps immer der erste Platz gebührt, und dieses Epigramm zwangsläufig für Domitian sein muß.40 Die direkte Zuweisung ist darüber hinaus durch die Art des Geschenks motiviert: Eine Victoria aus Gold kann nur einer erhalten. Auch bei diesem Epigramm geht das Material lediglich 39) Wie Leary (1996) 242 dies fordert, der aber wohl von echten Vorlagen ausgeht. 40) Zu dieser Denkfigur vgl. etwa Stat. silv. 1 praef.
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aus der Überschrift hervor.41 Auf die Victoria verweist im Distichon allein das Demonstrativpronomen haec, auf Domitian zunächst nur illi. Die Person erschließt sich weiterhin durch den Relativsatz, der auf Domitians Sieg über die Chatten im Jahre 83 n. Chr. anspielt, nach dem er den Beinamen Germanicus angenommen hat. Dem Sieger gebührt ein entsprechendes Standbild, Victoria und Relativsatz erklären sich somit gegenseitig. Auf den Beinamen spielt ferner der zweite Satz des Epigramms an. Denn es gab offensichtlich die Sitte ad numerum bibere, d. h. nach der Anzahl der Buchstaben eines Namens zu trinken:42 Der Sklave soll zehnmal einschenken, da der Name Germanicus zehn Buchstaben umfaßt. Außerdem evoziert das Epigramm den Kontext des Saturnalien-Symposiums und greift die Motive auf, die in den Einleitungsepigrammen des vierzehnten Buches genannt waren.43 Das Distichon ist in der dritten Person abgefaßt, so daß sich der Leser des Epigramms die panegyrische Sichtweise des Betrachters/ Dichters zu eigen machen kann. Sollten sich hinter den bedichteten Kunstwerken tatsächlich Anhänger für apophoreta im Sinne von Saturnalien-Geschenken verbergen – wer wollte schon soviel Geld ausgeben und Domitian eine goldene Victoria schenken?44 Vielmehr erscheinen die Epigramme selbst in ihrer performativen Sprechhaltung, die der Leser durch seine Lektüre zu seiner eigenen machen kann, als die eigentlichen apophoreta: Geschenke Martials an seine Leser und an Domitian, Geschenke der Leser somit auch an Domitian. Den fiktiven und zugleich performativen Charakter der Epigramme betont schließlich das letzte des Kunst-Zyklus: Sigillum gibberi fictile Ebrius haec fecit terris, puto, monstra Prometheus: Saturnalicio lusit et ipse luto. Mart. 14,182
41) Ob es eine solche Statue tatsächlich gegeben hat, ist mir nicht einsichtig. Jedoch war Domitian bekannt dafür, goldene und silberne Standbilder aufstellen zu lassen. Vgl. Suet. Dom. 13,2. 42) Vgl. Mart. 8,51,21; 9,93 und Leary (1996) 232. 43) Vgl. oben Kap. 1. 44) Ausnahmen bestätigen die Regel. Man vergleiche das Geschenk der eifrigen Priscilla in Stat. silv. 5,1,188 ff.
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Es ist, wie ich meine, als eine Art Binnen-Sphragis ein poetologisches apophoreton. Es handelt sich laut Lemma um ein sigillum fictile. Fictile kann zwar auch ‚aus Ton‘ heißen (und diese Bedeutung ist zunächst auch intendiert), jedoch ist das Adjektiv eine Ableitung des Verbs fingere, was auch ‚erschaffen‘ im Sinne von ‚erdichten‘ bedeuten kann.45 Das Distichon selbst ruft den Saturnalien-Kontext mit Gelagestimmung (ebrius) und Spiel (lusit) auf. Letzteres kann in seiner Bedeutung ebenfalls ambivalent sein und auch über literarisches Spiel gesagt werden; Martial hatte bereits im Proöm seine Epigramme als Ersatz für die üblichen Saturnalienunterhaltungen bezeichnet.46 Schließlich verlangt das et ipse als gedankliche Ergänzung, daß sich noch jemand schöpferisch betätigte, womit wiederum auf den Dichter verwiesen wäre. Das haec verweist innerhalb des Hexameters auf monstra. Damit stünden diese als Gattungsplural dem einen in der Überschrift vorgestellten Exemplar gegenüber. Allerdings könnte haec . . . monstra möglicherweise auch auf die vorherigen epigrammata bezogen werden. Zu guter Letzt könnte das puto – die einzige erste Person des Dichters in dieser Reihe – ein Hinweis darauf sein, daß das Epigramm metapoetisch gelesen werden kann. Sämtliche Kunstgegenstände wären demnach im besten Sinne des Wortes fingiert: Martial hätte sich selbst als Prometheus betätigt und seine Apophoreta bildlich wie textlich erschaffen.47 9. Ergebnis Bei Durchsicht der Kunstepigramme in Martials vierzehntem Buch hat sich gezeigt, daß die Apophoreta als ‚Geschenkanhänger‘ für Saturnaliensouvenirs keinesfalls die unmittelbare Anwesenheit des in ihnen beschriebenen Gegenstandes voraussetzen. Vielmehr genügt, und das war im besonderen bei den Kunstwerken zu sehen, eine in den meisten Fällen sehr konkrete Vorstellung davon, was mit dem Lemma bezeichnet wird. Die Lemmata enthalten zumeist die Angabe des Materials, aus dem der vorgestellte Kunstgegenstand gefertigt sein soll, sowie in 45) Belege OLD s. v. fingo 9. 46) Vgl. ferner Mart. 13,1,7: haec mihi charta nuces, haec est mihi charta fritillus. 47) In anderem Kontext ähnlich interpretiert von Johnson (2005) 147.
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Form eines Eigennamens einen kurzen Hinweis auf das Sujet. Dies ist ausreichend, um die Vorstellungskraft des Lesers zu aktivieren. Während des folgenden Distichons muß der Leser das imaginierte Kunstwerk konkretisieren. Dies kann unter verschiedenen Gesichtspunkten geschehen. Bisweilen steht die Materialität des Kunstwerkes im Vordergrund, bisweilen ist das im Lemma referierte Kunstwerk selbst nur Platzhalter und Verweis auf ein literarisches Prämedium wie etwa Ovids Metamorphosen. Das Epigramm kann auch den Fokus über den Kunstgegenstand hinaus erweitern und mehrere Aspekte des angedeuteten Mythos mit einbeziehen, unter Umständen auch bestimmte Tendenzen neu deuten, so daß sich immer ein pointiertes Verhältnis zu dem im Lemma präsentierten Kunstgegenstand ergibt. Vor allem wurde deutlich, daß das Epigramm dadurch, daß es das zeitlich nachgeordnete Medium ist, seinen Fokus nicht nur auf das Prämedium, sondern auch auf weitere Details richten kann. So können inhaltliche Zusätze angebracht oder das Spannungsverhältnis zwischen Sujet und Material des Prämediums thematisiert werden.48 Ferner kann der Text, wenn auch wie im vorliegenden Fall selbst sehr kurz, gegenüber dem Bildmedium chronologisch wie inhaltlich weiter ausgreifen.49 Eine reine Beschreibung des Prämediums durch das Postmedium ist mitnichten angestrebt; im Gegenteil, die Epigramme spielen geradezu mit ihrem ‚medialen Vorsprung‘ gegenüber den Kunstwerken. An zwei Stellen, dem ersten und dem letzten Epigramm des Kunst-Zyklus, thematisiert Martial sein Spiel mit der Imagination: den fiktiven situativen Rahmen der Saturnalien und die Fiktionalität der vorgelegten Epigramme und der in ihnen vorgestellten Kunstwerke. Das Spiel mit dem Saturnalien-Ton treibt nicht nur der Dichter, sondern auf seinen Spuren auch der Leser der Apophoreta in seiner Phantasie.
48) Wie etwa bei 14,172 und 14,174 zu sehen ist. 49) Man vergleiche die Epigramme 14,181 und 14,177.
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EPIGRAMMATA BOBIENSIA 36 In the year 1493, a manuscript was discovered in the library of St Columbanus at Bobbio that contained, among other texts, a hexameter poem of Sulpicia and seventy epigrams.1 The manuscript no longer survives,2 but the poem of Sulpicia and some of the epigrams (though only a minority) found their way into print by the early 16th century, mostly in editions of Ausonius; the rest were effectively lost. In the middle of the 20th century, Augusto Campana discovered a complete text of Sulpicia’s poem and the epigrams in the Vatican Library, on ff. 268r –278v of Vaticanus latinus 2836. This revealed that the poem of Sulpicia had apparently not been transmitted apart from the epigrams (as the early reports seemed to suggest) but very nearly in the middle of them, as the thirty-seventh in a series of seventy-one poems; it also emerged from some names of authors and addressees that the epigrams for the most part had been composed around A. D. 400.3 Franco Mu1) In announcing the discovery to the world, Raffael Maffei (Commentarii Urbani [Rome 1506]) began his enumeration of the works with “Rutilius Naumatianus [sic], Heroicum Sulpici [sic] carmen, LXX epigrammata,” but a slightly earlier list, made by Jacob Questenberg and preserved in the manuscript Hannover, Staatsbibliothek XLII 1845, has six other texts ahead of “[7] Rutilius Naumatianus . . . [8] Heroicum Sulpitiae carmen de temporibus Domitiani et statu reip. conquerentis. Puellam Martialis commendat. [9] LXX Epigrammata. auctoris nomen non extat.” This list seems likely to derive directly from Giorgio Merula, who claimed credit for the discovery, and perhaps even repeats his own words (cf. the comment on another of the works listed, “Primus liber periit: quem forsan recuperabimus. Ab inquisitione non desistimus”). Since Questenberg correctly names the author as Sulpicia, “Sulpici” is presumably a slip by Maffei or his printer. In fact it was probably Merula’s secretary Giovanni Galbiati who discovered the manuscript, and certainly Galbiati who made the transcript through which the texts were disseminated. For the Bobbio discoveries see M. Ferrari, Le scoperte a Bobbio nel 1493, IMU 13, 1970, 139–180. 2) See however M. Ferrari, Spigolature bobbiesi, IMU 16, 1973, 1–41, identifying Turin, B. N. F IV 25f. 21/22 (which contains some lines of the otherwise lost Book 2 of Rutilius’ De reditu) as a probable remnant of it and dating the script to about A. D. 700. 3) See especially F. Munari, Epigrammata Bobiensia: Detexit A. Campana, ed. F. Munari, vol. II, Introduzione e edizione critica a cura di Munari, Rome 1955, 21–30; W. Speyer, Naucellius und sein Kreis. Studien zu den Epigrammata Bobien-
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nari soon published the editio princeps of the entire assemblage, calling it Epigrammata Bobiensia even though he was aware that two components are not in fact epigrammatic in nature.4 One, of course, is Ep. Bob. 37, the hexameter poem of Sulpicia. Three considerations led to her identification as the author: line 8 implies that it was written by a woman (primaque . . . docui); it appears to be Flavian in date, since it alludes to an expulsion of philosophers such as occurred under both Vespasian and Domitian; and line 62 mentions someone called Calenus, and Sulpicia is known from Martial to have had a husband of that name. It was universally accepted as genuine until near the end of the 19th century, when J. C. G. Boot proposed that it was a forgery of the Renaissance, and Emil Baehrens in turn dated it to the 5th century. Though reputable scholars long defended its authenticity, and though the discrepant arguments adduced to “prove” a late date do not survive serious examination, it remains neglected,5 and the current scholarly consensus appears to be that we have a single scrap of Sulpicia’s poetry, two corrupt iambic trimeters supposedly preserved in a manuscript of an ancient commentary on Juvenal that was used by Giorgio Valla when he edited the satirist in 1486.6 While no one could ever have mistaken the seventy hexameters of Ep. Bob. 37 for an epigram, the non-epigrammatic character of Ep. Bob. 36 should have been just as obvious. It does not fit any of the standard categories of epigram, such as inscriptional, dedicatory, ecphrastic, epideictic, or skoptic, nor is there any epigrammatic “point”. Moreover, at 16 lines, it already lies near the upper limit of what is possible in the genre, but it must originally sia, Munich 1959 (Zetemata 21); S. Mariotti, Epigrammata Bobiensia, RE Supplementband IX (1962) 37–64; S. Mariotti, Naucellius, RE Supplementband IX (1962) 411–415. 4) Cf. Munari (above, n. 3) 31 n. 1, in reference to Ep. Bob. 37: “Sarà caso che l’unico altro componimento di carattere non strettamente epigrammatico, voglio dire il nr. 36, sia accostato a Sulpicia? Se non erro, anche questo particolare tradisce la mano del raccoglitore antico.” 5) For a review of scholarship on the poem and a defense of the attribution to Sulpicia see J. L. Butrica, The fabella of Sulpicia (Ep. Bob. 37), Phoenix 60, 2006 (forthcoming). 6) For this fragment see E. Courtney, The Fragmentary Latin Poets, Oxford 1993, with the discussions in H. Parker, Other remarks on the other Sulpicia, CW 86, 1992, 89–95; J. Hallett, Martial’s Sulpicia and Propertius’ Cynthia, CW 86, 1992, 99–123; and A. Richlin, Sulpicia the satirist, CW 86, 1992, 125–139.
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have been longer: someone who is twice addressed as “you” is nowhere identified, and many scholars have acknowledged a loss of lines at beginning or end or both, with some suggesting further losses from within what survives. It was first published in 1499 by Taddeus Ugoletus, who expanded Avantius’ 1496 edition of Ausonius, which already contained eighteen of the epigrams, by adding this poem and six others. It ceased to circulate with Ausonius towards the end of the 19th century, and there has been only slight recent interest since Campana’s discovery of Vat. lat. 2836. One reason for its neglect, beyond the general obscurity and poor reputation of the Epigrammata Bobiensia, is simply the sheer difficulty of understanding it: in addition to the losses mentioned above, which have effectively denied us the context of the lines we do have, there is substantial verbal corruption as well. But another obstacle has been the title under which it was first printed and continues to be printed, De Penelope. Every scholar who has discussed it has assumed that it concerns Penelope; but trusting in the titles of late manuscripts or early editions is methodologically dubious, and there is no reason to regard this one as authorial – for example, while some of the titles in the collection must be original, Ep. Bob. 37 was certainly transmitted without one.7 Someone who copied or studied this collection and devised titles for poems that lacked them might well have assumed from the context and from a hasty glance at Telemacho in line 2 that Ep. Bob. 36 was yet another epigram and that it concerned Penelope. Nevertheless, modern scholars ought to have been more alert to the possibility that De Penelope is a late invention. While “About Penelope” fits an epigram, it does not fit a poem in which (as nearly all modern scholars have so far agreed) Penelope herself writes or speaks. In fact, those scholars have generally supposed the poem to be not an epigram but an epistle, whether fragmentary or complete, in Penelope’s voice, of the kind that we find in Ovid’s Heroides, but “About Penelope” is 7) Modern scholars often refer to it as the Sulpiciae Conquestio de statu rei publicae et temporibus Domitiani, the “title” found in Vat. lat. 2836, but this has simply been crafted from a scholar’s note that must have stood in the transcript of the Bobbio manuscript, preserved verbatim in the first two printed editions (“Queritur de statu rei p. & Temporibus Domitiani”) and paraphrased in Questenberg’s list of the discoveries (“Heroicum Sulpitiae carmen de temporibus Domitiani et statu reip. conquerentis”). The fact that Maffei (above, n. 1) referred simply to “a poem of Sulpicius in hexameters” is additional evidence for the lack of a transmitted title.
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again a most unlikely title; authorial or not, the titles in our manuscripts of the Heroides follow the pattern Penelope Ulixi, identifying both “author” and addressee. In any case, it is the contents, not a dubiously authentic title, that should decide whether or not this is meant to be the voice of Penelope, and this paper will argue that little or nothing here is consistent with Penelope’s involvement; instead, the poem from which these lines survive contained a firstperson narrative by a “real” woman who related her emotional and sexual experiences. The following study of Ep. Bob. 36 has four parts. The first lays the groundwork by reconstructing the text as it stood in Galbiati’s transcript of the Bobbio manuscript. The second offers a detailed commentary, with emphasis on both text and interpretation. The third presents a critical edition, followed by a summary and a translation. Finally, the conclusion attempts to summarize what can be said with certainty about Ep. Bob. 36, then goes on to propose a new hypothesis concerning the identity of its author: that the juxtaposition of Ep. Bob. 36 and 37 does reflect, as Munari speculated, “the hand of the ancient compiler” (cf. n. 4), not because both are non-epigrammatic in nature but because both share a common author – like 37, 36 is a poem by the Domitianic Sulpicia, or at least the fragmentary remnants of one. I. The Text as Transmitted As the editio princeps of Ep. Bob. 36, Ugoletus’ 1499 Ausonius is designated V by editors. This was the only independent witness8 until the discovery of Vat. lat. 2836, which is designated B. The availability of a second witness was hardly a boon to editors; B was not necessarily a better witness than V, though some editors have assumed that it is,9 perhaps on the mistaken principle that a text in a manuscript must be of higher quality than a text in an edition. In 8) Peiper, Munari, and Speyer have all cited A as well (Avantius’ 1507 edition of Ausonius), but this is only a reworking of V with nothing original to offer except an occasional conjecture of Avantius (the only example here being ausae in 11, where ause seems to have been transmitted). 9) Cf. W. Speyer, ed., Epigrammata Bobiensia, Leipzig 1963, v: “Scriptorem codicis Vaticani . . . aut codicem illum Bobiensem deperditum aut apographon ex illo dependens fideliter descripsisse verisimile, immo certum est.”
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fact, the discovery of B simply posed a new dilemma: to distinguish cases where BV disagree because the scribe of B introduced a fresh corruption from those where BV disagree because Ugoletus emended in V. The six disagreements of BV in Ep. Bob. 36 probably represent a combination of errors in B and corrections in V, and obviously a third independent witness would be valuable; but until one is discovered, our best hope of understanding the witnesses we do have is by inference from their behaviour as observed in Ep. Bob. 37, for which there are three independent sources: the editio princeps of 1498 (printed at Venice and therefore called V), Ugoletus’ 1499 Ausonius (which is called P as a witness to the text of Ep. Bob. 37), and B. For a manuscript that Speyer, at least, considered so faithful, B proves to be a most unreliable witness in Ep. Bob. 37, introducing eleven fresh errors into eight of the seventy lines, its fidelity only slightly redeemed by the absence of conjectural corrections.10 (By contrast, the editio princeps probably introduced only five fresh errors.11) On the other hand, Ugoletus’ edition appears to have introduced fresh typographical errors into two or three lines while also introducing seven or eight conjectural alterations, three of them unquestionably correct.12 One might therefore confidently ignore the distinctive readings of B as scribal errors – were it not for the evidence that Ugoletus corrected extensively and sometimes skilfully. In order to be sure of not ignoring any clue to what was transmitted in the Bobbio manuscript, editors should record every case of disagreement between B and V, even when B has subsequently been corrected. The text below reconstructs the common source of B and V, except that, where B and V disagree, I give the reading of both, with B reported first. These cases are evaluated in the discussion that follows, with the aim of determining which reading was transmitted in Galbiati’s transcript. Finally, the apparatus criticus collects all 10) The fresh errors of B are found in 32 (ipsis), 36 (in; albas), 42 (toreuma), 44 (forale), 55 (apex), 56 (ples; fratresque), 64 (nec), and 68 (comitae [the only one corrected by the scribe]; egregia). 11) These occur in 15 (egentes), 21 (amicus), 23 (artes), 63 (facundos), and 67 (fonteisque). 12) The typographical errors are 4 (phaleuco; there is, however, at least a chance that this one is a conjecture), 12 (quid non), and 25 (uelit). The conjectures (of which those in 3 and 43 are clearly correct) are 3 (secessi), 4 (nec), 15 (tacitas), 43 (sic; senes), 53 (monetae), and 55 (fauorum).
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the published conjectures of which I am aware, as well as some of my own:13 intemerata procis et tot seruata per annos oscula uix ipsi cognita Telemacho hinc me/mea uirginitas facibus tibi lusit adultis arsit et inuidia principe uerus amor saepe ego mentitis tremui noua femina somnis 5 lapsaque non merito sint/sunt mihi uerba sono et tamen ignotos sensi experrecta dolores strataque temptaui sicca pauente manu nam tibi anhelanti supremaque bella mouenti paruit indulgens et sine uoce dolor 10 dente nihil molare/uiolare fero nihil unguibus ausa/ause foedera nam tacita pace peregit amor denique non animam/auiam trepido/tremulo clamore uocaui nec prior obsequio serua cucurrit anus ipsa uerecundo tetigi pallore puellas 15 impositum teneri fassa pudoris opus et initium et finem deesse perspexit Vinetus 1 et] sum vel eo Baehrens : ego Peiper dubitanter lacunam post v. 1 statuit Fuchs versum post v. 2 excidisse suspicatus est Peiper 3 hinc] nunc Brandes : tunc Fuchs me B : mea V luxit Canter : fulsit Peiper : gliscit Peiper olim : fluxit Baehrens : iunxit Munari dubitanter tibi lusit] te allexit temptavi adustis Cazzaniga 4 inuidia . . . amor BpcV : inuida . . . umor Bac in uidua Heinsius, Sebisius serus Heinsius : certus temptavi lacunam post v. 4 statui vv. 3–4 et 5–6 inter se sedem mutare iussit Bernardini 13) For readings of V I rely on Peiper’s 1886 Teubner of Ausonius and Speyer’s 1963 Teubner of Epigrammata Bobiensia; for B I have used the facsimile printed in Speyer. Conjectures are taken from these editions as well as Munari’s, and from S. Mariotti, Adnotatiunculae ad Epigrammata Bobiensia et Anthologiam Latinam, Philologus 100, 1956, 323–326. I make no discrimination between probable and improbable, since the goal is not to show what I think the author wrote but to show how scholars have proposed to alter this difficult text.
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J a m e s L. P. B u t r i c a 5 phasmata temptavi 6 nunc temptavi certo vel grato Fuchs : recto, solito, noto temptavi sint B : sunt V lacunam post v. 6 statui 7 at tandem temptavi vv. 7–8 post 12 transtulit Baehrens lacuna post v. 8 fort. statuenda sicca] et lecta et saepe temptavi 9 nunc Giordano Rampioni 10 calor Baehrens : pudor Peiper lacunam post v. 10 suspicatur Fuchs 11 molare B : violare V ausa B : ause V : ausae Avantius : ausus temptavi 12 nam tacita] tum facta temptavi 13 animam B : auiam V : famulam Cazzaniga, Fuchs : Triviam Mariotti nec quemquam Traina trepido B : tremulo V 15 didici (= docui) Munari dubitanter pepigi . . . tabellas Mariotti puellum Peiper 16 depositum . . . onus temptavi (onus iam Sebisius) fessa Å. Josephson : lassa aeque temptes
Notes The behaviour of B and V as witnesses to the text of Ep. Bob. 37 suggests that we should find both errors in B and corrections in V, in a proportion of something like 3:2. 3. It is impossible to decide with certainty whether me (B) is a corruption of mea (V) or whether mea is Ugoletus’ correction of me. 4. Inuida . . . umor is presumably an error of B corrected after consultation of the exemplar. 6. Here too certainty is impossible; sunt would be an exceptionally easy correction, but the scribe of B just might be careless enough to have turned sunt into sint. 11. Molare is probably an error of B, the correction of this to uiolare being perhaps bolder than one might expect of Ugoletus. At the end of the line, neither ausa nor ause can be construed; perhaps the Bobbio manuscript had ausae, with the -ae written as a superscript a over an e, a combination that somewhat resembled an E (cf. Ferrari 1973, 21, with Tav. iv, illustrating the “new” lines of Rutilius). 13. It seems far more likely that animam is an error for auiam (misread as aniam, an abbreviation of animam) than that auiam is a conjecture of Ugoletus; I also suspect that it is more likely that trepido is an error by the scribe of B than that tremulo is a conjecture (or typographical error) by Ugoletus. Given the evident uncertainty about distinguishing fresh errors in B and conjectures in V, an editor should try not to prejudice the reader about these difficult choices, and should report readings fully in a positive apparatus rather than make explicit or implicit assumptions in a negative one; for example, if mea is read in 3, it is better to report “mea V : me B” than simply “me B” or “me B, corr. V”.
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II. Commentary14 1–2 The kisses mentioned here are certainly Penelope’s, but damage to the context obscures their relevance; a reference by Penelope herself to those kisses (in the kind of letter that most scholars have imagined) seems unlikely, since it imparts an unsavoury sexual dimension for her to say that she was so chaste that she scarcely kissed her own son, especially given the sexual connotations possible for cognitus (cf. OLD s.v. 2b). Instead, the author probably alluded to her own youthful purity by comparing her kisses (presumably reserved for relatives) with those of the virtuous Penelope who fended off the suitors. Intemeratus occurs first in extant Latin literature at Ov. Am. 3.4.24 in reference to Penelope herself, then at Grat. 224 and three times in Virgil (Aen. 2.143, 3.178, 11.584, the last in reference to the virginity of Camilla); in prose before the 4th century it is confined to Tacitus (Hist. 4.58; Ann. 1.42,49, 12.34, 16.26) and Apuleius (Met. 2.30; Fl. 16), but it enjoys a certain vogue in Flavian verse (of natural or man-made objects at Sil. 3.499, Stat. Silv. 1.2.205, and Val. Fl. 4.271, of human or animal virginity at Stat. Theb. 1.573, 2.724, 4.579 and Silv. 5.1.63). Fourth-century authors like Ausonius and Claudian do not use it in reference to sexual purity. Seruata probably means “set aside,” “reserved” (i. e., for her husband; cf. OLD s.v. seruo 8). Not surprisingly, per annos is a common line-ending in Latin hexameters (2 cases in Lucretius, 1 each in Horace, Tibullus, and Propertius, 6 in Ovid, 11 in Virgil, 3 in Manilius, 4 in Lucan, 1 in Martial, 4 in Silius, 7 in Statius); of special relevance here is the occurrence of seruata per annos at Lucr. 1.1029; Verg. Aen. 2.715, 7.60 (cf. also tot . . . per annos at Verg. Georg. 3.47; Luc. 2.256). The fact that oscula lacks both context and construction shows that something has been lost before this couplet; so does the fact that the man addressed in 3 as tibi goes unnamed, which would be intolerably ambiguous in a complete poem. Conjectures that ar14) For another commentary (based of course on the premise that this poem concerns Penelope) see M. Giordano Rampioni, Ep. Bob. 36: De Penelope, Siculorum Gymnasium 42, 1989, 241–252, at 246 ff.; reference is also made below to S. Bernardini, Ricerche, annotazioni e osservazioni sul c. 36 “De Penelope” Epigrammata Bobiensia, Quaderni dell’ Istituto di Lingua e Letteratura Latina, 1979, 7–14.
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tificially restore an opening by replacing et with sum or eo (Baehrens) or with ego (Peiper) are misguided.15 Equally misguided is Mariotti’s suggestion that intemerata is a feminine singular nominativus pendens; there are no other lapses from “correct” Classical syntax. Giordano Rampioni, wanting intemerata to modify uirginitas (3), follows Mariotti in printing verse 2 in a parenthesis, with sunt to be supplied. Bernardini proposes inverting the order of the second and third couplets so that intemerata and seruata now modify ego (5), but this disturbs what appears to be an acceptably logical sequence without introducing one that is equally logical. 3–4 This badly corrupted couplet probably described the growth of a mutual affection, first in the male addressee, then in the female author. Brandes conjectured nunc for hinc in 3, but corruption is more likely to go in the other direction, from the less common to the more common word, and hinc could well be causal, not temporal, in any case (hence Fuchs’ tunc could be equally unnecessary): i. e., the author’s modesty and chastity, symbolized by the purity of her kisses, inspired the addressee’s affection. A major difficulty in 3 is the choice between me (B) and mea (V); whichever was transmitted in Galbiati’s transcript, I suspect that the author wrote mea uirginitas, with the sense ego uirgo, which occurs several times in Ovid (ep. 2.115; Met. 6.536, 14.133; Fast. 2.158; cf. also [Ov.] ep. 17.104). This could allude to the same modesty that was expressed through the reference to her kisses; alternatively, uirginitas might refer simply to age, as at Stat. Ach. 1.291 (cited below on line 16). Facibus (used, as often, of strong desire; cf. OLD s.v. fax 7) refers to the addressee’s romantic or sexual attraction to the author, but the epithet adultis is problematic. It is unlikely to mean “adult”, whether “[passion] felt as an adult” or “[passion] felt toward an adult [rather than toward a child]”; when fax in this sense is modified at all, it may be modified in a way that comments on the (im)morality of the passion but never on the age of the partici15) Both Baehrens and Peiper, however, acknowledge that lines have been lost at the end.
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pants. Munari derived it instead from adoleo, which can be used as a synonym of incendere; for the combination, cf. Apul. Met. 11.24 flammis adultam facem. Cazzaniga’s conjecture adustis, approved by Giordano Rampioni, seems otiose. Most editors recognize that lusit must be corrupt, though Bernardini attempts an impossible defence by reference to ludis in Ov. Am. 3.7.77, spoken to the impotent Ovid by the woman with whom he was unable to perform sexually (I do not see what sense tibi or facibus adultis could have in this interpretation). Mariotti somehow found the meaning “I burned with love for you, deceived by my own innocence” (“mea ipsius simplicitate decepta tuo amore flagraui”). Giordano Rampioni adopts Canter’s conjecture luxit, which may be just barely possible with the meaning “became known to” (cf. OLD s.v. luceo 3), but this seems weak, especially in conjunction with blazing torches of passion. Munari, who read me rather than mea, hesitantly proposed iunxit, though in combination with torches (a common symbol of wedlock as well as of passion) this would seem to suggest marriage rather than the mere growth of affection (and adultis would serve no particular purpose). Peiper’s fulsit, which does introduce an image consistent with (literal) burning torches, is presumably inspired by passages like Laev. fr. 18.5 fulgens decore et gratia or Hor. Carm. 4.11.4–5 hederae uis/multa, qua crinis religata fulges, but in both cases the word in the ablative case defines the source of the “shining”, which facibus would not do here. Another approach is to read mea uirginitas while emending tibi to te as object of some verb meaning “attract”, “entice”, vel sim. that is now disguised behind lusit; one obvious and palaeographically plausible suggestion is te allexit, which gives excellent sense with facibus adultis if adultis is from adoleo: “my virginity kindled the torches [of your passion] and drew you [to me].” For allicio in an erotic context, cf. Ov. Ars 3.300 allicit ignotos ille [sc. incessus] fugatque uiros, 510 comibus est oculis alliciendus amor. (Illexit is also plausible palaeographically, but the verb tends to have a negative rather than positive sense.) Arsit probably has the meaning “blazed up”, i. e., “was kindled,” and corresponds to the “torches” of the previous line as an expression of passionate attraction conveyed through the image of fire. It probably does not mean “burned with love for” the uidua princeps, which would simply repeat the idea of the previous line;
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while ardere in is twice used by Ovid in that sense (Am. 1.9.33, Met. 9.725), the subject in both cases is a person, not the emotion itself. A reference to the woman’s affection suits the following lines, which apparently describe a woman who is suffering symptoms of erotic distress. Heinsius’ in uidua for inuidia is perhaps the only absolutely convincing emendation ever proposed in Ep. Bob. 36. Vidua princeps is not elsewhere attested, but is presumably a variation of femina princeps. In Republican Rome and Republican Latin, the principes were leading male citizens; in the Empire, however, we encounter feminae principes, presumably wealthy and socially prominent women16 (Hyg. fab. 274.13 applies the phrase to ancient Athens, Plin. Nat. 8.119 and Tac. Ann. 13.42 to contemporary Rome). The singular femina princeps was originally applied to Livia (Ov. Trist. 1.6.25, Pont. 3.1.125; [anon.] Epic. Drusi 303; cf. also Macr. Sat. 2.5.6, where the plural refers to Livia and Julia), but Pliny the Younger used it of Ummidia Quadratilla (ep. 7.24.4). The OLD s.v. uiduus 2 recognizes only “widow” and “divorcée” as meanings of uidua, but according to the jurist Antistius Labeo the word could apply not merely to a woman whose marriage had ended but to one who had never married at all.17 Giordano Rampioni (who does not explain principe) notes that Plautus used uidua of Penelope in Ulysses’ absence (St. 2a); in fact uiduus is often used in poetry in reference to both persons and things alike in situations where a partner is merely absent. If the author has represented herself as a widow or divorcée at this point in her life, and if the encounter described in 7–8 really is her first sexual experience (see below on ll. 7–8 and 9–10), we must assume that her previous marriage had for some reason remained unconsummated; in the absence of any clear evidence of that marriage, it seems best to take uidua as “unmarried woman”. 16) It is tempting to speculate that these women are somehow connected with the conuentus matronarum attested at Suet. Galba 5. 1. 17) D. 50.16.242.3 “Viduam” non solum eam quae aliquando nupta fuisset sed eam quoque mulierem quae uirum non habuisset appellari ait Labeo. Cf. Sen. Med. 214 f., where the Amazons are called cohors . . . uidua. In this sense, uiduus is the female equivalent of caelebs, which applies only to males; for this gender-distinction between caelebs and uidua see Liv. 1.46.7 et se rectius uiduam et illum caelibem futurum fuisse contendere quam cum impari iungi and Plin. Nat. 10.104 nisi caelebs aut uidua nidum non relinquit [sc. columba].
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While modern speakers of English naturally take uerus amor as “true [i. e., deep or sincere] love”, it is more likely to have suggested “genuine [i. e., not feigned] love” to a Roman; cf. Cic. Fam. 9.16.2 non facile diiudicatur amor uerus et fictus, Ov. Ars 1.618 fiet amor uerus qui modo falsus erat (and cf. Ars 2.639). Moreover, the phrase is used predominantly with the sense of “true friendship” between men (cf., in addition to the passage of Cicero already cited, Cic. Fam. 12.16.1; Ov. Met. 5.61, Trist. 1.5.21, 4.4.71, Pont. 4.6.23; Laus Pis. 213; Sen. Thy. 551, Ben. 6.42.1; Stat. Silv. 4.6.12; Mart. 10.13.6; Fro. Ver. 2.2.1, 7.2), and only rarely of love between man and woman (cf. the passages cited from Ov. Ars, along with Prop. 2.15.30, Sen. Med. 416; Virgil uses it of patriotism at Aen. 11.892). If correction is needed (and there seems to be no “false” love here to which this “true” love can be contrasted), Heinsius’ conjecture serus is not particularly plausible palaeographically given what we know about the script of the Bobbio manuscript, and the implication that this love had grown from an acquaintance of long standing may be incompatible with the implications of pudor tener in 16, where the author seems to be quite young still (see below ad loc.). I suggest instead certus amor, which does have the sense conveyed by English “true and abiding love”; cf. Prop. 1.8.45, 2.29.19, 3.8.18; Ov. Am. 3.6.30, Med. 45, Ars 2.248, 3.575, Met. 4.156. 5–6 In one sense, these lines seem to follow on appropriately from the couplet before: being a noua femina – if that phrase has been transmitted correctly (see below) – either sexually or merely in years is the natural next step after uirginitas, whether the reference concerns sexual activity or age. Nevertheless, the jump from an awakening of mutual love to the emotional upsets that follow seems too abrupt for some transitional material not to have been lost after 4; and something has surely been lost after 6 that made a transition to the erotic scenario that follows. In addition to these losses, there are reasons to suspect verbal corruption as well. For somnus in reference to dreams cf. OLD s.v. 1c. Giordano Rampioni writes of “immagini di sogni rivelatori di timori e di desideri inconsci”, but it is more likely that the author intends us to think of disturbing images that connected the man she loved with other women; tremui certainly establishes that they were a
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source of fear – perhaps a symptom of infatuation or of jealousy (cf. Prop. 3.8.15 seu timidam crebro dementia somnia terrent). As to mentitis somnis, it cannot mean “because of lying [i. e., false] dreams”; mentitus is sometimes used passively (cf. Ov. ep. 11.73 mentitaque sacra), but these dreams are real, not “feigned”. If the text is sound, the phrase must be an ablative absolute, “when [or because] my dreams lied”, perhaps too vague an expression to be tolerated. It is far more common to find mentitus used actively with an object expressing what is feigned (cf., for example, Hor. Carm. 4.6.13 f. equo Mineruae/sacra mentito, Luc. 2.612 uictum mentitis Thesea uelis); hence I wonder whether femina could be a corruption of such an object here (with somnus perhaps used in its basic sense of “sleep”). Phasmata, especially if spelled fasmata, has some palaeographical plausibility; though the word occurs only twice in Classical Latin (in Terence and Juvenal, both times as the title of a literary work or a character in one), it is well enough established in Greek (cf. LSJ s.v. fãsma). Noua of course would have the sense “strange”, for which cf. OLD s.v. nouus 2, 3. The phrase noua femina is unique; if correctly transmitted, it presumably means “a new woman”, i. e., “newly a woman” (cf. OLD s.v. nouus 15), though it remains unclear whether it is years alone or sexual activity that has made the difference. I do not see how noua could be taken as “rudis, imperita”, the sense given to it by Munari (see also Giordano Rampioni 248), or what that would mean here; and, unless there has been a disruption in the order of the lines, it cannot mean that she has become a woman sexually in the meantime if 7–8 refer to her first experience of intercourse. I do not understand at all what Giordano Rampioni means in saying that the phrase underlines “la nuova realtà di Penelope come donna”. Giordano Rampioni understands verse 6 as referring to statements made by Penelope against Ulysses that Penelope now thinks were spoken unjustly because Ulysses has since returned (“le sfuggirono parole ingiuste contro Ulisse, cioè parole che in quel momento considera pronunciate non giustamente perché ormai Ulisse è tornato”), but “with undeserved [or undeserving] sound” will not convey that idea. Other examples of uerba with labor or compounds suggest that the speaker means that words “slipped out” contrary to her intentions, either because she meant not to speak them at all or because they came out other than intended; cf. Cic.
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Font. 28 ne quod ab aliqua cupiditate prolapsum uerbum esse uideatur and especially Ov. Trist. 3.5.48 [non] lapsaue sunt nimio uerba profana mero. Merito is still impossible, of course, and must be a corruption of some adjective modifying sono, with the corruption perhaps influenced by the shape of mentitis and/or tremui directly above. Fuchs’ suggestions [non] grato and certo are uninspired, but the latter probably gives the general idea of what the author wrote (one might also suggest, without any conviction, solito, or noto, or recto). On the other hand, non might be a corruption of nunc, initiating an enumeration of other symptoms of (erotic) anxiety that continued in the lacuna that follows. 7–8 This couplet is crucial to our understanding of the author’s meaning, but important aspects of its interpretation must remain uncertain. Not only can dolores refer both to mental and to physical anguish; there is the even more fundamental question of whether the couplet expands the comments made in 5–6 (and thus offers further emotional symptoms of infatuation) or instead introduces the scene that unfolds in 9 ff. (and thus presents the early stages of the love-making there); unfortunately, neither interpretation is without difficulties. However the question is to be resolved, the lack of anything to account for tamen (“nevertheless”)18 suggests that at least one couplet has been lost before 7, unless tamen is corrupt – though if it is corrupt, it is impossible to feel certain about such possible corrections as at and/or tandem (i. e., after an extended period of attraction if 7–8 expand the thought of 5–6, after an extended period in bed if they introduce the scene in 9 ff.). The line-ending experrecta dolores occurs at Prop. 4.5.73, in reference to a watchdog. Earlier scholars have regarded 7–8 as expanding the earlier comment about the author’s frightening dreams; for example, Giordano Rampioni 249 implicitly connects experrecta with Penelope awakening from the dreams mentioned in 5. It might well seem that there is a natural connection between dreams that caused fear and trembling and the “fearful hand” with which the speaker feels the 18) Mariotti (above, n. 13) suggested that it is used “vi debilitata” with a sense equivalent to “d’altra parte” (“on the other hand”), but again the language in general appears to be too classical for this.
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bed-clothes in 8 (for tempto in the sense “test by feeling”, cf. OLD s.v. 2). However, while those dreams were frequent (cf. saepe), sensi and temptaui do not express repeated action; hence we would have to imagine a reference to a specific dream, in the absence of any transition signalling the passage from general to specific. In addition, Giordano Rampioni defines the dolores ignoti as “turbamenti mai provati prima” due to a sense of loneliness deriving from Ulysses’ long absence, but it is hard to see what new or unknown forms of emotional disturbance Penelope could now experience for the first time some 10 to 20 years after Ulysses’ initial departure, or how exactly they are related to the fear expressed in 5 and in 8. Finally, sicca is difficult, whether feminine nominative singular, describing the speaker, or neuter accusative plural, describing the bedclothes. To judge by the loci similes they have cited (Ov. Ars 2.686; [Ov.] ep. 15.134; Mart. 11.81.2), some editors choose the former, understanding a reference to the speaker’s lack of sexual excitement (“dry” from the absence of vaginal secretions associated with sexual arousal); but I fail to see why the author would emphasize a lack of sexual excitement in the aftermath of frightening dreams, and I feel strongly that an allusion to secretions is incompatible with the reticence displayed later when intercourse and sexual climax are described. Giordano Rampioni, however, takes sicca as neuter plural, arguing that, in an example of metonymy, the dry bed-clothes represent a bed “su cui non hanno luogo scene d’amore”, but the relevance of this to the speaker’s fear is again unclear. If, on the other hand, 7–8 are connected to what follows, we have perhaps reached a new stage in the narration where the writer, lying in bed, has been awakened in a manner that brings on physical dolores of a sort not previously experienced, and gropes the bed-clothes in fear. Given the sexually explicit couplets that follow, it seems at least possible that the writer, still a virgin at this point, has been taken by surprise while asleep; the unfamiliar pain is that of penetration, and she wants to determine whether she has bled.19 Again, however, sicca is simply inexplicable, whether it is neuter plural (implying that the violation did not lead to bleeding) or femi19) With due hesitation and even trepidation, I wonder whether the reference could be to anal rather than vaginal penetration; for this in Roman marriage see P. A. Watson, Non tristis torus et tamen pudicus: The sexuality of the matrona in Martial, Mnemosyne Ser. IV, LVIII, 2005, 62–87, at 68, with nn. 23 and 25.
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nine singular (again referring to a lack of sexual excitement). Though it may be just barely possible for sicca to refer to an initial lack of excitement, overcome later when a more passionate engagement with her partner is described, it is surely better to confront the likelihood that sicca is corrupt. As to how it might be emended, perhaps lecta might be considered; neuter lectum is attested securely in the Digest (32.1.52.9, 34.2.19.8) and in CIL 2.4514, from the end of the 2nd century, and cf. Prop. 3.6.11 strato . . . lecto, Ov. Fast. 2.337 strati . . . lecti. On the other hand, if 7–8 expand upon the description of emotional upset presented in 5–6, perhaps sicca is a corruption of saepe, despite the word’s earlier appearance in 5 (less awkward, of course, if there is a lacuna after 6). On the other hand, other corrections might be considered if strata is not “bed-clothes” (as it is in the other passages where strataque begins a pentameter, Ov. ep. 10.54,106, 14.32, and Fast. 6.316) but “prostrated” (OLD s.v. sterno 5), a meaning fully consistent with the distress expressed in pauente manu. That the groping of the bed-clothes is performed “with fearful hand” is of course consistent either with the aftermath of terrifying dreams or with an unexpected nocturnal approach. Emotions are frequently attributed to a part of the body, especially in verse; at Sil. 17.581, the only other passage where this iunctura occurs, the manus pauens is a group of soldiers rather than a hand, but manus pauida can be found at Ov. Trist. 3.3.48, Petr. 123, l. 226, and [Sen.] Her. O. 985, 1719. 9–10 Nam implies that what follows is adduced as explanation, though it is difficult to see what in lines 7–8 could possibly be explained by this sentence. Indeed, it is difficult to see how 9–10 could follow immediately after 7–8 in any case. If the “unknown pain” is that of a first penetration, and 9–10 describe a continuation of that encounter, we have obviously lost some stages intervening between initiation and “the final battle”; and if 7–8 and 9– 12 refer to completely different occasions rather than consecutive stages of the same one, we have even more obviously lost some intervening material. Given the presence of yet another lacuna, it is difficult to feel certain that nam really needs to be corrected; if correction is necessary, Giordano Rampioni’s nunc is palaeographically easy, though I suspect that, if it is right, it was originally co-
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ordinated with at least one other nunc in one or more earlier couplets that described those previous stages. The panting of the addressee (for this in an erotic context [and for the rhythm of 9] cf. especially Tib. 1.8.37 et dare anhelanti pugnantibus umida linguis/oscula et in collo figere dente notas) not only identifies a sexual situation but shows that the love-making is by now far advanced; so does suprema bella mouenti, which means “beginning the final [or the last part of the] battle” (for bellum mouere cf. OLD s.v. moueo 17b), i. e., “approaching climax”. Speyer retained dolor in 10, while Peiper printed his own conjecture pudor. Certainly correction seems necessary, and dolor could well be an accidental substitution influenced by dolores in 7. Baehrens’ calor seems more suited to the context than pudor, and is well established in the sense of “desire” or “passion”; cf. Prop. 1.12.17, 3.8.9; Hor. Carm. 4.9.11; Ov. Ars 1.237; [Ov.] ep. 15.12, 19.173; Sen. Phaed. 292; Stat. Theb. 3.701. Nevertheless, I would not entirely exclude the possibility that pudor is correct, albeit used with a very particular colour; by having her “modesty” cooperate in a situation where it might be expected to inspire resistance, the author perhaps meant that her love for her partner (cf. 12) made her failure to resist a kind of pudor20; of course a sexual calor would more obviously “obey” under such circumstances and even be indulgens. Both sine uoce and especially indulgens show that the response now attributed to the woman is entirely voluntary and represents her own choice. Hence paruit, rather than indicating conscious obedience of specific commands and instructions or a metaphorical obedience of silence, probably has the milder sense of “accede” or “pay attention to” (cf. OLD s.v. pareo 2b, c); it may even denote a kind of responsion, suggesting that the woman pants along with her partner as she too approaches climax. For indulgeo in reference to bestowing sexual attentions, cf. Petr. 86.3 indulsi ergo sollicito; and for the combination of a modifier and the prepositional phrase sine uoce, cf. Suet. Nero 42 sine uoce et prope intermortuus iacuit. Fuchs’ suggestion that there is a lacuna after 10 appears unlikely, given what ought to be a close connection between sine uoce 20) One might compare the statement by the Augustan Sulpicia, tandem uenit amor qualem texisse pudori /quam nudasse alicui sit mihi fama magis ([Tib.] 3.13.1–2).
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(10) and tacita pace (12, if the latter phrase is not corrupt: see below). 11–12 At the end of 11B gives ausa (which Speyer prints), while V has ause. The latter is the lectio difficilior and therefore more likely to be what Galbiati decided he saw. Avantius is presumably responsible for ausae, a natural interpretation of ause in V. If ause is correct, it must be a vocative, addressing the man who deflowered the author; but, while men in Latin elegy do sometimes use their teeth in love-making, scratching is generally left to women, and so we presumably have a feminine form of some sort, referring to a lack of active resistance on the woman’s part. If ause is correctly interpreted as ausae (and if there is no lacuna before these lines), then it might be either a dative of interest (awkward, however, with tibi also present in the sentence but referring to someone else) or a subjective genitive with whatever noun stood at the end of 10. The prudent course for an editor is perhaps to obelize ause, or perhaps to print ausae while indicating a lacuna after 10 (as suggested by Fuchs); one could read ausa and do the same, but I think it more likely that ausa is an error in B than that ause is a conjecture in V. Perhaps the correct reading is ausus, modifying whatever noun stood at the end of 10, despite the perhaps unpleasant assibilation (though even Ovid, for example, has a number of line-endings like maioribus usus [Ars 2.725]). For the combination of audeo and a personified abstract subject, cf. Hor. Ep. 2.1.259 f. nec meus audet rem temptare pudor quam uires/ferre recusent. Given that the encounter at this point seems to be mutually agreeable, audeo (whatever the form used) presumably has a sense closer to “venture” (cf. OLD s.v. 2) than to “dare”; and presumably the failure to “venture” resistance is explained by amor (or Amor) in 12 rather than by fear of retaliation for resisting. For “fierce tooth” or “teeth”, not elsewhere used of a human being, cf. Ov. Ibis 460; [Sen.] Her. O. 1935; Sil. 4.379. It can be argued that qualifying the teeth as feri does not seem appropriate to a mutually satisfying encounter, but perhaps that ferocity is evoked precisely because it explains why she chose not to use them. In erotic contexts, teeth are deployed as a part of love-making (Ov. Am. 1.7.42, 3.14.34; Prop. 4.3.25, 5.40; Tib. 1.6.14, 8.38), nails, on the other hand, as a means of angry attack (Ov. Am. 1.7.50,64,
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2.7.7, Ars 2.452, 3.568; Prop. 3.8.6, 4.8.57). Here, perhaps, both identify means of self-protection that the speaker might have been expected to deploy (to preserve her pudor?), but did not. Though uiolare can be used in a purely neutral sense equivalent to uulnerare (cf. OLD s.v. uiolo 4), it more often implies that a wrong is committed by the “violation”. Presumably that neutral sense applies here if the author did not regard the sexual encounter as itself a “violation”, or perhaps it expresses a degree of respect or even reverence for a man she now acknowledges as a lover. An erotic sense for foedus/foedera, in both marital and nonmarital contexts, is extremely common; cf. foedera lecti (Tib. 1.5.7; Prop. 4.3.69; Ov. ep. 5.101, Ars 3.593, Met. 7.710,852), foedera tori (Luc. 2.377 f.), concubitus foedera (Ov. Ars 2.462), foedera amantum (Sil. 2.416), thalami foedus (Ov. Met. 7.403), and esp. Veneris . . . foedus or foedera (Ov. Met. 3.294; Sen. Phaed. 910; Sil. 2.83; arg. Aen. 4.4). It can also be applied to a marriage bond, not just in verse (cf. Cat. 64.335,373; Hor. Carm. 3.4.23; Ov. Pont. 3.20.21; and cf. foedera taedae at Luc. 5.766, 8.399; Sil. 5.291, 6.447) but in prose as well (cf. Flor. 2.13; D. 23.2.47.pr [Paulus]; Serv. Aen. 8.701). In an appropriate context, unqualified foedus/foedera can identify a sexual relationship (Tib. 1.9.2; [Tib.] 3.19.2; Ov. ep. 4.147, Ars 2.579; Verg. Aen. 4.339; Stat. Theb. 5.138, Ach. 1.926; Sil. 3.110, 6.517). The basic meaning of perago is “bring to completion”, “fulfill”. If that sense applies here, then the author meant that “love fulfilled [the obligations of?] a bond” that, presumably, existed already between the pair. However, the verb is nowhere else used with foedus as its object, and in the closest parallel, foedus agens (used of Aeneas at arg. Aen. 7.27), a pact does not yet exist but instead is being sought (cf. Aen. 7.155 pacemque exposcere Teucris); this suggests that the meaning could be “negotiated [to completion]” an entirely new bond, “sealed” by the act of sexual intercourse, though it is still not clear whether foedera represents an ad hoc pact that heals the violation initiated in 7–8 (if 9–12 do indeed follow directly or involve the same situation) or a more permanent bond between the lovers. The “love” that negotiates the bond is presumably the god, not the emotion, and so we should print Amor, not amor, as previous editors have done. The unique expression tacita pace, if correctly transmitted, presumably means “in silence and peace”. It can be defended by analogy with, for example, pax quieta (for which cf. Sen. Thy. 566;
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Sil. 5.40, 17.210; Stat. Theb. 3.372), but there is a contradiction between the war described above and the peace prevailing here, which cannot coexist simultaneously (nor can the latter explain the former, which casts doubt upon the soundness of nam). If correction is needed, perhaps the author wrote facta pace, a standard idiom for the conclusion of a war in both prose (cf., e. g., Caes. BG 2.29.5, 3.1.4; Liv. 29.12.3,16, 37.19.3, 45.11.7) and verse (Verg. Aen. 5.587; Ov. Fast. 3.673; facta pace occurs at this point in a pentameter at Ov. Pont. 2.9.46); for a figurative occurrence of the phrase (in a different context), cf. Pl. Am. 390 non loquar nisi pace facta. If facta pace is read here, the further correction of nam to tum is surely required since the content of 12 must now represent a further stage in the sequence of events instead of explaining why the author chose not to deploy her teeth and nails. If foedera peregit does indeed mean “offered a treaty” after the warfare represented by the man’s assault, then facta pace, “when peace had been concluded”, means “when the love-making was over” and both parties had reached climax (a condition for which Ovid too employs a military metaphor at Ars 2.728, pariter uicti). The completion of the foedera could itself be a metaphor for simultaneous orgasm, a sexual goal advocated in Ars 2 and 3, rather than a purely emotional bond. 13–14 In 13 denique is ambiguous; it might mean “finally”, enumerating the last of the actions that she did not take in self-defense (i. e., “in addition to not clawing or biting, I did not call my grandmother”), or it might mean “next” (i. e., “when the experience I’ve described was over”). The latter seems more likely: instead of summoning her grandmother for support and assistance or waiting for an ancilla, the author did her own face afterwards to conceal the flush that bore witness to her sexual activity. The attempts to emend auiam are probably misguided, especially if based on the assumption that animam should be taken seriously because B is an allegedly reliable witness. I see nothing to commend the idea that the auia and the serua anus are one and the same person. For maid-servants in the aftermath of a sexual encounter, cf. Ov. Am. 3.7.83, where the woman with whom Ovid has been impotent tries to hide his lack of success from her ministrae. For prior = ultro, sponte, cf. OLD s.v. 4b. For obsequium defining the activities of slaves (here, presumably, the application
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of cosmetics), cf. Stat. Theb. 1.525, Silv. 5.1.235–6 consuetaque turba /obsequiis; Serv. Aen. 2.456 obsequia famulorum. For the adjectival use of anus cf. OLD s.v. 2a. The statement that the author did not cry out after the encounter she has described surely implies that such a response might conventionally have been expected. I regard trepido in B as a banalization of the more challenging tremulo offered by V; the latter, which is not specific about the cause of the troubled cry, is therefore more effective poetically, not to mention that the author’s fear seems by now to be long past. Tremulus is applied to the human voice in iuncturae with ululatus (Verg. Aen. 7.395, then Stat. Theb. 7.482 and Silv. 5.5.71) and uox (Petr. 70.134; Quint. 11.3.91); cf. also Lucr. 2.367 tremulis . . . uocibus (of young goats) and Cic. fr. 23.15 tremulo . . . clangore (of a bird that has lost its chicks). Clamore uocare is confined to Latin verse, where it can provide a convenient ending for hexameters; cf. clamore uocabat (Verg. Aen. 12.312; Sil. 4.595, 8.86), clamore uocabam (Ov. Met. 9.294), clamore uocantem (Sil. 1.380), clamore uocarat (Sil. 8.122). 15–16 The last preserved couplet is again very difficult. If nothing has been lost immediately before it, then it gives further details of the aftermath of the encounter described in 9–12 (or 7–12). In this context, the “modest pallor” with which the author “touched” something (the verb can be used of various kinds of application) would appear to be white make-up, applied perhaps to hide a flush that followed her deflowering (whether as a sign of shame or as a sign of “womanhood”). Pallor is unexampled in the sense of “white makeup”, but for “painting” with pallores cf. Lucr. 4.311 quae [sc. semina] contage sua palloribus omnia pingunt. Since rubor is the complexion normally associated with modesty, uerecundo pallore may be paradoxical here; for rubor uerecundus cf. Ov. ep. 4.72 and Met. 1.484, as well as Hor. Epod. 17.21 uerecundus color (“pro rubore” Porph. ad loc.). For tango as, in effect, a synonym of tinguo cf. OLD s.v. 3a. Obviously such an interpretation is incompatible with puellas; we need instead a reference to the cheeks or to the face generally. Speyer justifies puellas with “i. e. ancillas”, but I do not see why one would apply white make-up to one’s serving girls under these or any other circumstances. Peiper’s conjecture puellum is, if anything, worse (it is supposed to refer to the writer’s son, i. e.,
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Telemachus!), and Mariotti’s pepigi . . . tabellas seems irrelevant (nor does it provide the effective “conclusion” that he imagined). Whatever the author wrote here, the corruption puellas was probably influenced by the preceding pallore. Tib. 1.3.88 has fessa . . . opus at the same position in a pentameter. The very last line is exceptionally difficult; something is surely corrupt, and only teneri . . . pudoris seems to be above suspicion. Though the context has been sexual, and opus can have a sexual meaning (cf., among other passages, Ov. Am. 1.4.48, 2.10.36, 3.14.28 and the many examples in Ars at 2.480 and elsewhere; Mart. 7.18.5, 11.60.7, 11.104.11), that sense is probably not applicable here. Instead, pudoris opus should probably be regarded as an original variation of such phrases as uirtutis opus (Verg. Aen. 10.469; Luc. 9.381; Stat. Theb. 8.421) or honoris opus (Stat. Theb. 6.232), which refer to actions performed by persons who possess uirtus or honos or display it in those actions; hence pudoris opus ought to be something done by someone possessing or displaying pudor. It may therefore be just possible to take the line as transmitted, understanding that by “confessing the imposed work of youthful modesty” the author means “admitting [by her action in applying make-up] that the effort she is making is imposed by her youthful modesty” (i. e., by the need to preserve the impression that her modesty is as yet unstained), though I am far from certain that such a meaning can be extorted from the Latin, especially once the author’s pudor has been compromised in any conventional sense: surely she cannot still possess or display pudor after the actions just related, except perhaps in the special sense discussed above in connection with the corrupt dolor in 10. On the other hand, Sebisius’ conjecture onus may deserve consideration (impositum . . . onus occurs at the same position in the line at Ov. Trist. 3.4.62). The word is often construed with a genitive that defines the nature of the burden, and this may be abstract as well as concrete: cf. Liv. 24.22.2 seruitii onus; Ov. ep. 3.102 nominis . . . onus, Trist. 5.6.4 officii . . . onus, 5.14.16 non parui . . . honoris onus, Pont. 3.9.20 longi . . . laboris onus; and esp. Luc. 5.725 coniugii . . . onus (= Pompey’s wife Cornelia). Presumably “the burden of modesty” would be the sexual self-restraint dictated by pudor; but since that “burden” seems to have been rejected in the behaviour just described, a further emendation of impositum would
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be needed, perhaps depositum – “admitting that the burden of young modesty had been laid aside” is conceivable as an expression of the idea that the young woman has decided no longer to comply with her society’s (or her parents’) expectations about the conduct of young women. Fassa might appear suspect in a passage that involves concealment; however, the obvious conjectures fessa and lassa seem to contribute nothing to the meaning, and perhaps the author intended a paradox, that her attempts at concealment were effectively an admission. For pudor tener with the adjective referring not to pudor itself but to the age of the person who displays it, cf. Ov. ep. 2.143 tenerum pensare pudorem and especially Stat. Ach. 1.291 expleto teneri iam fine pudoris /uirginitas matura. In Statius the “end of tender modesty” that is opposed to “ripe virginity” is apparently the end of puberty; thus this experience may have occurred at a comparably early point in the author’s life. For pudor concealing love in the young, cf. [Sen.] Oct. 538 f. teneris in annis haud satis clara est fides,/pudore uictus cum tegit flammas amor. III. Critical Edition, Summary, and Translation The following is a provisional edition of Ep. Bob. 36. There is no doubt that the surviving lines suffered seriously in their transmission; I would guess that more lines have been lost than are preserved, and there are several corruptions of individual words.21 This text, however, is intentionally conservative (the lack of context, after all, makes it difficult to be certain about emendations); it aims to admit only the very few absolutely certain corrections while obelizing the deep corruptions22: 21) The lack of any overt nonsense or voces nihili can surely be attributed to an effort on Galbiati’s part to ensure that every word he transcribed was Latin (and would scan); unfortunately, this means that every word is potentially suspect. Given the extensive corruption, it is all the more remarkable how few steps may separate us from the author’s original. Our primary witnesses are all derived from a transcript made in 1493 from a manuscript written about A. D. 700, itself transcribed from an original roll or codex written a little after A. D. 400; the lack of references to Sulpicia between Martial and Ausonius may imply that there was no active copying tradition during the intervening two and a half centuries. The difficult script of the Bobbio codex is undoubtedly a major factor in this corruption. 22) See the Appendix, however, for a more speculative text.
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********* Intemerata procis et tot seruata per annos Oscula, uix ipsi cognita Telemacho ********* Hinc mea uirginitas facibus tibi †lusit† adultis, Arsit et in uidua principe uerus amor. ********* Saepe ego mentitis tremui noua femina somnis, Lapsaque non †merito† sunt mihi uerba sono ********* Et tamen ignotos sensi experrecta dolores Strataque temptaui sicca pauente manu ********* Nam tibi anhelanti supremaque bella mouenti Paruit indulgens et sine uoce †dolor† Dente nihil uiolare fero, nihil unguibus †ause†, Foedera nam tacita pace peregit Amor. Denique non auiam tremulo clamore uocaui, Nec prior obsequio serua cucurrit anus: Ipsa uerecundo tetigi pallore †puellas† †Impositum† teneri fassa pudoris opus *********
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et initium et finem deesse perspexit Vinetus lacunam post 2 statuit Peiper 3 hinc] nunc Brandes : tunc Fuchs mea V : me B luxit Canter : fulsit Peiper : (me) iunxit Munari te allexit temptavi adustis Cazzaniga 4 in uidua Heinsius : inuidia BpcV inuida . . . umor Bac serus Heinsius : certus temptavi lacunam post v. 4 statui 5 phasmata temptavi 6 vel certo vel grato Fuchs : recto, solito, noto temptavi sunt V : sint B lacunam post v. 6 statui 7 at et tandem temptavi 8 sicca] saepe temptavi lacunam post v. 8 statui 9 nunc Giordano Rampioni, fort. recte 10 calor Baehrens : pudor Peiper lacunam post v. 10 statuit Fuchs 11 violare V : molare B ause V : ausa B : ausae Avantius : ausus temptavi 12 tum facta temptavi 13 auiam V : animam B tremulo V : trepido B 16 depositum . . . onus (onus iam Sebisius) temptavi fessa Å. Josephson : lassa aeque temptes Summary An indeterminable number of lines has been lost at the beginning. After a reference to the purity of Penelope’s kisses (1–2), the author describes how a mutual attraction developed between herself and a man who knew her as a young woman (3–4). She attributes to herself traits typical of someone infatuated, such as troubling dreams and difficulty in speaking (5–6). In the following couplet, she either expanded the depiction of her infatuation or perhaps related an experience in which the man she loved initiated intercourse with her while she slept (7–8); in the same encounter, or perhaps in another, she did not resist him, and may have reached cli-
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max with him (9–12). In the aftermath, she sought assistance from neither her grandmother nor from a nurse (13–14), but herself applied make-up, perhaps to conceal the result of the encounter (15–16). Whatever followed has been lost. Translation23 . . . kisses unsullied by the suitors and held back so many years, scarcely known even to Telemachus. . . . Hence my virginity (played to) you with torches kindled, and a genuine love burned in a prominent unwed lady. . . . Newly a woman, I often trembled when my dreams lied [5], and my words slipped out with a sound not (deserving) . . . and yet, on being awakened, I felt an unfamiliar pain, and with fearful hand tested the dry bedding, . . . for as you panted and began the final battle, my (pain) obeyed, indulgently and wordlessly [10], (daring) to violate nothing with savage tooth, nothing with nails, for Love negotiated his treaty in peace and silence. Afterwards, I did not summon my grandmother with quavering shout, nor did an elderly slave woman come running first to serve me: I myself tinted my (girls) with becoming paleness [15], confessing the (imposed) work of young modesty . . .
IV. Conclusion Nearly all the scholars who have discussed Ep. Bob. 36 have regarded it as a literary epistle in the manner of Ovid’s Heroides, whether whole or truncated, written in the voice of Penelope.24 But Ep. Bob. 36 cannot have been a letter. Its contents were evidently narrative in nature (the course of a relationship was described, from initial acquaintance through sexual consummation), and the literary epistle is not a likely medium for such narratives (except perhaps under special circumstances which we have no reason to think applied here). In particular, an epistle will not concern itself with the narration of events that are known to the correspondent (again apart from exceptional circumstances that we have no reason to invoke here). This narrative concerned the author’s 23) To accommodate inevitable uncertainties about the text as transmitted, words that are obelized in the text above are translated within parentheses, with the words in brackets being a literal translation of the paradosis rather than a suggestion of what the author might have intended; for a translation of a bolder attempt at restoring the text, see the Appendix. 24) Giordano Rampioni (above, n. 14) suggests that it is an ecphrasis of a painting that depicted a meeting of Penelope and Ulysses (“[n]on si tratterebbe . . . di un’epistola, quanto piuttosto della descrizione di un’opera figurativa in cui si immagina che Penelope dichiari ad Ulisse il suo amore mai interotto . . . Dunque un componimento epidittico” 243; “descriverebbe uno dei noti dipinti il cui soggetto doveva essere l’incontro di Penelope con Ulisse” 245); but there is too much here that could not even have been suggested in a static work of art.
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earlier years, to judge by the reference to pudor tener (16); but if this is a letter, the detailed description of a sexual encounter is seriously problematic, whoever the putative author, whenever the putative date in her life, whoever the putative addressee. In particular, that sexual content is a serious obstacle to the view that the lines are supposed to be in the voice of Penelope. Hence some scholars have sought to eliminate it, claiming that it merely represents the contents of the dreams mentioned in 5, but this is impossible for two reasons: there cannot be a backward reference to those dreams across the reference to awkwardness in speaking that intervenes in 6, and (whatever the reason for the “fearful hand” in 8) lines 9–12 clearly describe an experience that the narrator found a source of pleasure, not of fear, as the dreams clearly were. If Penelope is supposed to have written this shortly after the events described, there are three possible scenarios: she is describing the consummation of her marriage to Ulysses (but surely not to Ulysses, and if not to him, then to whom?); she is describing a sexual encounter with Ulysses before their marriage (but pre-marital sex is as damaging to a woman’s reputation for modesty as infidelity); she is describing a sexual encounter with someone else, either before or soon after her marriage to Ulysses (utterly at odds with her reputation for fidelity). None of these is plausible. Hence scholars have instead imagined that Ep. Bob. 36 is to be read as having been written in Penelope’s maturity. Mariotti suggested that she sent it to one of the suitors, during Ulysses’ absence, as a confession of her love for that suitor (“Penelope nescio cui absente Ulixe amorem prior fatetur”). While a minority tradition of an adulterous Penelope undoubtedly existed, this scenario cannot be reconciled with what would be Penelope’s own description of her kisses as “unsullied by the suitors”, an especially odd comment to make to a suitor that she is trying to “seduce” (“as yet unsullied” could be appropriate, of course, but that is not what the Latin says), and a reference to an earlier sexual experience with someone else hardly belongs in such a poem, whether or not the partner was Ulysses. Alternatively, Mariotti suggested that the letter might have been written to Ulysses after his return but before the recognition (“Cogites fort. de epistula a Penelope Ulixi sibi adhuc incognito post huius reditum missa”). In this case it is unclear why she would write at all (in contrast, her interviews with the disguised
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Ulysses in the Odyssey all have a strategic and tactical purpose), and the decision to include a description of a sexual act is again problematic, whoever the partner. In short, it is difficult to imagine any situation in which Penelope would write a letter containing an account of her sexual activity, or to whom she would write it. It is quite unlikely, therefore, that Ep. Bob. 36 has anything to do with Penelope. Instead, it represents the scant remnants of a substantially longer poem containing a highly personal narrative by a woman. While we will never be able to understand fully a text that is so fragmented and so corrupted, a few things do appear to be certain or at least very likely: the narrative was chronological – this section of it, at least, described the origin and development of a mutual attraction between the author and the addressee (3–4), based for the latter upon her virginal modesty (1–3); this or some other situation somehow involved emotional anxieties for her (5– 6); she described at least one sexual experience that reflected their shared affection (perhaps 7–8, certainly 9–12); and that experience demanded some sort of concealment (13–16). A confident interpretation would depend upon answers to some questions that the loss of context has left unanswerable, two in particular. One is whether 7–8 do indeed continue the description of the author’s infatuation or instead introduce the sexual situation that reaches its climax in 9–12; if that could be resolved, we could determine whether the dolores ignoti of 7 are emotional pangs or physical ones deriving from the violation of the author’s virginity, and whether she represented the “treaty” negotiated by Love as an eventual consequence of that violation, or perhaps as a “correction” of it. The other is whether the sexual encounter in 9–12 (or 7–12) occurred within or outside a marriage. If it occurred within a marriage, then this might be its consummation, presumably on the wedding night; in that case, however, one must explain why (if 7–8 are part of this scene) the woman seems to be awakened not so much for this activity as by it, why the possibility of “daring” to resist is even suggested, why there is such emphasis on silence, why the woman conceals the effects of her love-making. These aspects are more easily understood if the sex is pre-marital or extra-marital; but in that case, we must explain how and why the man approached her as she slept (again if 7–8 are part of this scene), and it is also troubling that the author would represent an act that could
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have been prosecuted under Augustus’ Lex Iulia de adulteriis coercendis25; on the other hand, perhaps their relationship was eventually “regularized” through matrimony. If Ep. Bob. 36 does indeed represent the remnants of a woman’s first-person narrative of her emotional and sexual history with a man she loves, passing from initial attraction to sexual fulfillment and beyond, then I suggest (while conceding that proof will never be possible) that there is only one author to whom it can be attributed, the Sulpicia celebrated in Martial 10.35 and 10.38. More speculatively still, I suggest that it was composed for the fifteenth anniversary of her marriage to Calenus. A variety of observations can be used to support an attribution to Sulpicia. Not all the components of the Epigrammata Bobiensia were written around A. D. 400; in particular, there are two epigrams on Atia, mother of Augustus, attributed to Domitius Marsus (Ep. Bob. 39, 40). Not all of the components are epigrams, and Ep. Bob. 36, which is not an epigram, was transmitted immediately before the other non-epigrammatic component, Ep. Bob. 37, perhaps implying some connection. As to the nature of that connection, Ep. Bob. 37 does appear to be an authentic work of the Domitianic Sulpicia, and poems by the same author are often juxtaposed in such collections. Some linguistic features are particularly consistent with a Flavian date, and none are obviously “late” or inconsistent with one. Vocabulary and syntax have been discussed implicitly in the commentary. The unique phrase uidua princeps recalls femina princeps, which is not found in Republican Latin at all and is applied in Augustan literature only to Livia, while a broader application to upper-class women is attested only in Flavian writers. The relatively uncommon intemeratus (1) enjoyed some popularity in Flavian poetry, which offers more than half the occurrences in verse before the 4th century (one each in Silius and Valerius Flaccus, five in Statius). 25) Stuprum was punished the same as adultery under this law; cf. D. 48.5.6.1 Lex stuprum et adulterium promiscue et kataxrhstik≈teron appellat, sed proprie adulterium in nupta committitur . . . stuprum uero in uirginem uiduamue committitur.
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If this piece was written by a man, it is difficult to imagine a context in which a male writer could have situated such a narrative by a female character.26 If it was written by a woman, there is surely no other woman that we can imagine writing poetry about the loss of her virginity or describing a sexual experience. More importantly, however, though the poem has undoubtedly suffered corruption in its transmission, what we find when we can read through those errors matches in quality of craftsmanship, in style, and in content what Martial indicates we should expect in Sulpicia. As to metrical craftsmanship, the couplets are entirely consistent with the standards of the Augustan elegists Tibullus, Propertius, and Ovid; and, though they are especially close to Ovid’s, they are nonetheless distinctive in some respects (all observations in this section must, of course, be qualified on the grounds that the eight surviving couplets may not be entirely typical of their author). In the eight extant hexameters, we find seven different patterns of dactyls and spondees in the first four feet (1 DDSS, 5 DSDD, 7 DSSS, 9 DSSD, 11 DDDD, 13 DDDS, 15 DSDS; 3 matched either 11 or 13, depending on how it is to be emended). This is closest to the practice of Ovid; these seven patterns all figure among the eight that are most frequent in Ovid, who uses them with relatively little variation in frequency (51, 50, 45, 40, 38, 36, 34, and 25 times respectively27), but only five of them are among the eight most frequent in Tibullus, and only four among the eight most frequent in Propertius, and both of these elegists show a marked preference for DSSS over their second choice (in Platnauer’s sample, there are 74 occurrences of DSSS in Tibullus, against only 53 each of DDSS and DSDS, and 61 of DSSS in Propertius, against only 44 of SDSS [Platnauer 1951: 36–37]). The poet’s practice with regard to elision, caesuras, and diaereses is entirely consistent with Augustan practice, and reveals nothing awkward 26) Some extravagant claims about literary impersonation of women by male writers are made in T. K. Hubbard, The invention of Sulpicia, CJ 100, 2004–2005, 177–194, but his arguments that the poetry of the earlier Augustan Sulpicia is really by Tibullus are open to objection on a number of grounds, especially their naïveté about (inter alia) the transmission of those poems, about the simplicity of feminine nomenclature, about the size of the gens Sulpicia, and about the poetic traditions of that family in the late Republic. 27) Figures here are taken from M. Platnauer, Latin Elegiac Verse, Cambridge 1951, 36–37, most of them based on a sample of 373 couplets from each author, with Ars 2 his Ovidian sample.
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or controversial. The elision at the strong 1st-foot caesura in 5 and at the diaeresis after the 1st foot in 9 are common types that Platnauer regards as “need[ing] no comment” (83; the same is true of the elision at the strong caesura in the 4th foot of 3 if my conjecture te allexit is right). The elision at the diaeresis after the 3rd foot in 7 is “not uncommon” when there is a strong 3rd-foot caesura (84), as is the case here. The weak caesura in the 2nd foot of 1 is “common”, but “must be followed by a disyllabic word constituting an iambus” (Platnauer 1951: 5), which is the case here. On average, only 8% of hexameters in the Augustan elegists have a weak 3rdfoot caesura, and only one out of eight in Ep. Bob. 36; “[i]n practice this means that mostly it is followed by a disyllable of iambic form” (Platnauer 1951: 8), which is the case here. Weak 4th-foot caesuras, rare in the Augustan elegists (Platnauer 1951: 10), are non-existent here. Four of the hexameters have a diaeresis after the 1st foot and two have one after the 5th; these diaereses “seem to occur in about 50% of the hexameters of the elegists” (Platnauer 1951: 18). “Over 80% of . . . hexameters” in the Augustan elegists end in substantives or verbs (Platnauer 1951: 40); 100% of the hexameters in Ep. Bob. 36 end that way. As to the pentameters, “[a]bout 80% of all the pentameters of the three elegists . . . end with a substantive or verb” (Platnauer 1951: 40); 100% of the pentameters in Ep. Bob. 36 end with a substantive. The consistent use of a concluding disyllabic word is of course Ovidian (the only exception is 2, where the proper name Telemacho must be accommodated, but this is itself done in a manner consonant with Ovidian practice). The complete absence of elision is again closer to Ovidian practice than to Tibullan or Propertian (Platnauer 1951: 90). The caesuras that occur are all common varieties that Platnauer regarded as requiring no comment. Four of the pentameters have a diaeresis after the 3rd foot (i. e., the first complete foot of the second half); this “occurs as often as not” in the Augustan elegists (Platnauer 1951: 24), i. e., about 50% of the time. On the other hand, a diaeresis after the 1st foot where the 1st foot is a dactyl “occurs about as often as not” in the Augustan elegists (Platnauer 1951: 23), but in seven out of eight cases in Ep. Bob. 36. This, however, is consistent with a feature that may perhaps have been typical of this author, namely a tendency toward lightness and speed that “out-dactyls” Ovid himself. Platnauer (37) notes that in the Augustan elegists “the lines beginning with a
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dactyl . . . greatly outnumber those beginning with a spondee” and that “this preference for a dactylic opening, marked even in Propertius, is stronger in Tibullus and stronger still in Ovid”: yet Ep. Bob. 36 has not a single spondaic opening in any line, hexameter or pentameter (in contrast, there is an initial spondee in 32.9% of Propertius’ pentameters, in 17.4% of Tibullus’, and in 16.7% of Ovid’s). In addition, Ep. Bob. 36 has five pentameters beginning DD against three beginning DS, which reverses the pattern in the Augustan elegists, where DS predominates (218 to 89 in Tibullus, 161 to 90 in Propertius, 191 to 115 in Ovid [Platnauer 1951: 37]). To judge by these eight couplets, the author of Ep. Bob. 36 might have exhibited as many as three distinctive tendencies: an avoidance of elision in the pentameter; an avoidance of spondees in the first foot of all lines; and a strong preference for diaeresis after the 1st foot of the pentameter. The first two are Ovidian preferences also, but this author appears to have gone further with them than Ovid himself. More generally, there is no sign of awkwardness in the placement of words or in the structure of lines, and there are even signs of deliberately contrived elegance, such as the symmetrical arrangement of dente nihil . . . nihil unguibus (11). Rhythm is used effectively; note, for example, the way that the spondaic anhelanti in 9 reflects the effort that causes the panting, while the dactylic movement of supremaque bella mouenti reflects the release that comes in its aftermath. Of course, the serious corruption makes it difficult to judge exactly how good the poem was before the accidents of transmission that affect it, but the level of verbal expression seems to have been more than respectable. Words are not wasted, and every modifier serves a purpose. The very first couplet is an example of how the original elegance can shine through when the state of preservation allows it. In addition, while it has often been observed that intemerata procis echoes intemerata procos, in reference to Penelope herself, at Ov. Am. 3.4.24, it should be noted that this is a conscious reminiscence, not theft or pastiche, since the author of Ep. Bob. 36 has varied both the phrase and its position in the couplet. Other signs of good writing include the ability to deploy and develop effective metaphors, such as the extended warfare imagery in the scene of love-making (9–12), which transcends what can elsewhere be merely cliché. In addition, there are effective examples of original or rare
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iuncturae (though it must be emphasized that this list might be modified if we had a better text), such as femina noua, manus pauens, suprema bella mouens, pax tacita, clamor tremulus, pudoris opus. Above all, there is exactly that combination of nequitia and castitas within a first-person account of sexual relations that Martial would lead us to expect in Sulpicia.28 The most detailed allusions to her poetry29 are found in 10.35: Omnes Sulpiciam legant puellae Uni quae cupiunt uiro placere: Omnes Sulpiciam legant mariti Uni qui cupiunt placere nuptae. Non haec Colchidos adserit furorem Diri prandia nec refert Thyestae, Scyllam, Byblida nec fuisse credit, Sed castos docet et probos amores, Lusus, delicias facetiasque. Cuius carmina qui bene aestimarit Nullam dixerit esse nequiorem, Nullam dixerit esse sanctiorem. Tales Egeriae iocos fuisse Udo crediderim Numae sub antro. Hac condiscipula uel hac magistra Esses doctior et pudica, Sappho: Sed tecum pariter simulque uisam Durus Sulpiciam Phaon amaret. Frustra: namque ea nec Tonantis uxor Nec Bacchi nec Apollinis puella Erepto sibi uiueret Caleno.
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Let every girl who wishes to please one man alone read Sulpicia: let every husband who wishes to please one bride alone read Sulpicia. She doesn’t defend Medea’s fury [5] or recount grim Thyestes’ lunch, and 28) For a discussion of these elements in Martial’s account of Sulpicia see especially S. Mattiacci, Castos docet et pios amores, lusus, delicias facetiasque, ovvero la poesia d’amore secondo l’‘altra’ Sulpicia, Invigilata Lucernis 21, 1999, 215–241. 29) I ignore here, as useless for the present discussion, what Sidonius Apollinaris and Fulgentius say about Sulpicia, which appears to be entirely derivative (from Martial [?] in the former case, from Ausonius in the latter); Ausonius’ statement in the preface to his Cento nuptialis that prurire opusculum Sulpiciae, frontem caperare is discussed in the article mentioned above, n. 5, as a possible reflection of the recovery of both Ep. Bob. 36 and 37 in the 4th century.
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J a m e s L. P. B u t r i c a doesn’t think Scylla or Byblis existed; instead she teaches chaste and honourable loves, games, delights and whimsies. Whoever has a good appreciation of her poems [10] will say that no woman is more naughty, will say that no woman is more virtuous. Such, I’d believe, were Egeria’s jests within Numa’s damp grotto30; with her as fellowpupil or with her as teacher [15], you’d be more learned as well as chaste, Sappho – but hard-hearted Phaon would love Sulpicia if he saw her together with and at the same time as you. In vain: for neither as the Thunderer’s wife nor as Bacchus’ or Apollo’s girlfriend [20] would she go on living if Calenus were snatched from her.
In short, Martial’s Sulpicia writes sexy poetry about her love-life with her husband. It can be a source of erotic pleasure to its readers, and can even – he suggests, with his usual good humour – improve a relationship,31 and from both sides: women will understand better what men like and want, and vice versa. Moreover, the reference to Sappho implies that Sulpicia made sex with a man so appealing that she could have “converted” Antiquity’s most famous Lesbian to the “modesty” of heterosexuality. Another poem of Martial, quoted below, implies that Sulpicia made love “with the light on”, a “modern” trait, of some sexual appeal, to judge from Martial himself.32 Sulpicia is nequam, of course, because of the sexual content of her verse (defined by lusus, deliciae,33 and facetiae), but she is also sancta, no doubt because that content concerns sexuality within a marriage (hence amores probi). There may also be implied an element, at least, of sanctitas in her style; i. e., though its content is explicitly sexual, the language is as chaste and decent as Sulpicia herself (see OLD s.v. sanctus 4c for the word as a stylistic term). As to Ep. Bob. 36, we can see that it contained at least one depiction of love-making, without a single word more suggestive than anhelanti. Of course the man who “starts the final battle” in Ep. Bob. 36 is Calenus if Sulpicia is the author, but there is no direct evidence for this in the poem’s scant remnants. 30) In Ep. Bob. 37.67–8 Sulpicia has Calliope associate herself with Egeria and the “laurel-groves and springs” of Numa. 31) Docet seems to imply exemplarity; in any case, this is surely something more than a reference to “Sulpicia’s loyalty to her husband” (Watson [above, n. 19] 75). 32) Cf. 11.106.5–6 tu tenebris gaudes, me ludere teste lucerna/. . . iuuat. The trimeter fragment, which speaks of Sulpicia being displayed nude in bed, shows a similar character. 33) For the sexual connotations of these words, cf. (for example) Mart. 11.16.7–8, 106. 5.
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Martial also discusses Sulpicia and Calenus in 10.38, a poem which has been drastically misunderstood in recent scholarship: O molles tibi quindecim, Calene, Quos cum Sulpicia tua iugales Indulsit deus et peregit annos! O nox omnis et hora quae notata est Caris litoris Indici lapillis! O quae proelia, quas utrimque pugnas Felix lectulus et lucerna uidit Nimbis ebria Nicerotianis! Vixisti tribus, o Calene, lustris: Aetas haec tibi tota computatur Et solos numeras dies mariti. Ex illis tibi si diu rogatam Lucem redderet Atropos uel unam, Malles quam Pyliam quater senectam.
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Oh, the fifteen langorous years of marriage, Calenus, that the god has indulgently conceded to you and negotiated! Oh, every night and hour marked with precious stones of India’s shores! [5] Oh, what battles, what struggles back and forth your happy little bed has witnessed, and the lamp drunken on Nicerotian clouds34! You have lived three lustra [i. e., 15 years], Calenus: this is the totality of life that you calculate [10], and you count only your days as husband. If after much begging Atropos were to give you even one of them again, you’d take it over four of Nestor’s life-times.
Astonishingly, this has been read as a consolatio to Calenus upon the death of Sulpicia,35 despite the absence of any reference to that death or “consolation” for it. On the contrary: the cheerful tone shows that it is meant to congratulate him on fifteen years of happy marriage to her – he would repeat any single day of it in preference to living four times as long as Nestor – with no sign that there 34) This refers to perfumes made and/or sold by a certain Niceros, to whom Martial also alludes at 6.55.3 and 12.65.4; presumably Sulpicia mentioned him too. 35) So Parker (above, n. 6), following Kroll (RE IVA [1931] 880–882), and Hallett (above, n. 6), following Parker. Richlin (above, n. 6) 128 makes the equally strange suggestion that the poem commemorates their divorce! Watson (above, n. 19) 76 n. 58, observes that peregit annos “suggests a funerary context,” but surely it is possible to observe (on a birthday, for example) that someone has completed a certain number of years without implying that that person has died. Courtney (above, n. 6) 361 more sensibly comments “it does not look . . . as if Sulpicia has just died; I think that [Martial] is celebrating an anniversary.”
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are not more to come. Though we need not go so far as to suggest that Martial has actually adopted Sulpicia’s own “voice” here,36 it is natural to suspect that he consciously echoed her writings when writing about her.37 Certainly claims of this kind have been made in reference to some of the language in 10.35 as well as 10.38.6 in particular (o quae proelia, quas utrimque pugnas/felix lectulus et lucerna uidit),38 but there could well be even more allusions that we can no longer trace. For example, when Martial says in 10.35 that Sulpicia would not live as the bride of a god if she lost Calenus, perhaps he is not “expressing his own opinion of Sulpicia’s loyalty to Calenus” (Merriam 1991: 304) but echoing a sentiment that she expressed in her poetry – and the same just might be true of his assertion that Calenus counts the years of his life from his marriage to Sulpicia (I see no reason to think that Sulpicia could not have “impersonated” Calenus in her poetry). It is also tempting to speculate that, since 10.38 refers to a specific moment in Sulpicia’s life, namely the fifteenth anniversary of her marriage, Martial might be referring to a poem written for that occasion.39 Certainly it would not be surprising if a woman celebrated for writing poetry about her love-life with her husband commemorated an important anniversary in verse (or if Martial chose to concentrate on such a poem when celebrating her); and a commemorative poem of this kind might well contain features like a retrospective survey of their romantic and sexual relationship, perhaps even a review of its entire course: in other words, it might well resemble what we find in Ep. Bob. 36. As to specific verbal echoes of Ep. Bob. 36 in Martial 10.38, we should not expect to find much, especially given that Ep. Bob. 36 represents, in effect, an essentially random sample of lines 36) Cf. C. Merriam, The other Sulpicia, CW 84, 1991, 303–305, at 303 (Martial “uses her persona in 10.38”), 305 (“Martial uses Sulpicia’s own poetic voice”). 37) Cf. Courtney (above, n. 6) 361, “[Martial] is probably adapting phrases of Sulpicia herself.” J. Farrell, Latin Language and Latin Culture: From Ancient to Modern Times, Cambridge 2001, 72 comments “It is probable . . . that [10.35 and 38] allude to her work in ways that we cannot now recover”, a consideration applicable to his earlier observation that it “is curious that Martial praises Sulpicia while hardly mentioning her actual work” (70) – Martial would not need to mention explicitly what he is constantly evoking in his language. 38) Parker (above, n. 6) 92 (following Kroll), 94. 39) Since the final lines of 10.38 are clearly a complement to those of 10.35, which emphasize how unwilling Sulpicia would be to live without Calenus, even with a god as her lover, both of Martial’s poems about Sulpicia might derive from the hypothetical anniversary-poem.
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from a substantially longer work, but we can certainly find a sexual “war” in both Mart. 10.38.6 and Ep. Bob. 36.9–12. Far more intriguing, however, is indulsit . . . peregit in Mart. 10.38.3, to which we can compare indulgens . . . peregit in Ep. Bob. 36.10–12, with the same god apparently the subject of peregit in both cases40; though the two authors use both verbs with a different sense (and even, in the case of indulgeo, with a different construction), can this really be only a freakish coincidence rather than a deliberate echo that celebrates Sulpicia’s marriage in language that Sulpicia herself had used in describing the first time they made love? If written by Sulpicia, Ep. Bob. 36 may inform us further about aspects of her life and her relationship with Calenus not attested elsewhere (though the possibility of a disjuncture between poet and poetic persona must always be borne in mind). For example, the reference to her grandmother (auia) may indicate that she grew up in her grandmother’s household rather than in her parents’ (for a parallel, cf. Ummidia Quadratilla and her grandson in Plin. ep. 7.24.5), and this may indicate that she was orphaned at an early age. The reference to her pudor tener in the aftermath of her sexual initiation with Calenus would put their union quite early in her “adult” life. Unfortunately, the loss of so many lines and the extensive corruption create such uncertainties that some of the most important issues about her relationship with Calenus as reflected in these fragments can probably never be answered; there will always be numerous possible readings that depend upon editorial decisions about the presence of lacunae and textual corruptions and, of course, upon the interpretation of what survives. Frustration is only exacerbated by the fact that, if it survived complete, Ep. Bob. 36 would surely be the most significant sexual statement by a woman of ancient Rome and of vital importance for our understanding of women’s self-representation and attitudes to sexuality. Perhaps the most controversial reading of these fragments is one that results from taking 7–8 as the beginning of the sexual encounter described in 9–12 and understanding that encounter as extramarital and as the author’s first sexual experience. After Calenus fell in love with Sulpicia and she with him, she lost her virginity to 40) Mart. 10.38.3 says simply deus, but it is difficult to see what other god this could be.
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him outside a marriage bond; the intensely affectionate relationship celebrated by Martial would then predate their marriage, and their sexual relationship would have begun under irregular, perhaps even illegal circumstances – and Calenus would surely have been not only the first but also the only man with whom she ever made love. It would be especially intriguing – though some might say troubling – if their sexual relationship began in an initially nonconsensual encounter to which she effectively gave consent after it began (though it must be emphasized that a love-bond between the two seems already to have existed at the time). This would surely be a remarkable scene for a Roman woman to depict. There is a literary parallel for a nonconsensual sexual encounter in AP 5.275, written in the 6th century by Paulus Silentiarius but presumably based upon a lost Hellenistic original; here a man rapes the sleeping courtesan Menecratis, who had long denied him her favours, and the poem ends with her stinging rebuke to him. The lost original was apparently imitated by Propertius in 1.3; he contemplates assaulting Cynthia as she sleeps, but dares not. If Sulpicia did indeed depict such a scene, we should surely read it in the light of Ovid’s assertions that women consent to a degree of uis in sexual relations with men because it allows them to preserve an illusion of personal modesty that would be shattered if they were themselves the aggressors,41 but the fact that a love-bond has already been established softens what could otherwise seem a deeply offensive scene. The circumstances under which Ep. Bob. 36 survived deserve special attention if it is the work of Sulpicia. Many of the individuals who composed the elements of the Epigrammata Bobiensia or had elements dedicated to them appear in the correspondence of Q. Aurelius Symmachus: the consul Probinus, for example, author of Ep. Bob. 65, and Nonius Atticus, whose baths are celebrated in Ep. Bob. 48 and to whom Ep. Bob. 57 dedicates a poem or small collection. In particular, Ep. Bob. 2 and 6 refer to a poet named Naucellius, who not only was among Symmachus’ correspondents (ep. 3.10–16) but even sent him a collection of poetry (ep. 3.11.4); Naucellius’ collection is unlikely to be the Epigrammata Bobiensia as we have them, but there is no reason to reject the hypothesis that 41) Ars 1.673–4 uim licet appelles: grata est uis illa puellis: /quod iuuat inuitae saepe dedisse uolunt, 705–6 ut pudor est quaedam coepisse priorem, /sic alio gratum est incipiente pati. See, however, 716 ff. for his awareness that a woman may firmly say “no”.
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the Epigrammata represent a version, at least, of his gift. In addition, Ferrari has shown that the manuscript that preserved the Epigrammata Bobiensia for posterity resembles other manuscripts in the library of St Columbanus at Bobbio that were copied from manuscripts that must have come from the library of the Symmachi (Ferrari 1973). Whether the (as I believe) two poems of Sulpicia preserved here were part of Naucellius’ gift cannot be known, but it appears that Ep. Bob. 36 and 37 did find a welcome in the very highest ranks of the pagan élite around A. D. 400. It is tempting to connect their survival with the revival of interest in Flavian literature around the same time, which (for example) rescued Juvenal for posterity, or to suggest that they were a happy though accidental product of the search for old manuscripts of “classic” texts like Virgil or Livy.42 One can see more easily why the hexameter poem on the expulsion of the philosophers would appeal in this milieu, above all in its sense of moral outrage and insistence on old Roman values, both relevant to an age that saw the vestiges of those values being eliminated from public life. But the reasons for preserving a poem about her relationship with Calenus seem less obvious – unless we take seriously Martial’s implication that such poetry could find an appreciative audience as long as it concerned sex within marriage, an indication perhaps that the importance of sexuality within marriage (and of sexual and romantic “love” rather than cold respect) was recognized not only in Martial’s time43 but three centuries later. Nevertheless, Richlin (above, n. 6) 125 comments that “It is one of the mysteries of Latin literature that a culture in which women were literate and literary should have so totally destroyed those women’s writings”, adding later “I want to pause here to mark, like a memorial plaque, the grief and anger appropriate to a scholar beginning an assessment of a woman writer of whose work remain only two lines” (126). This is misguided, except to the extent that the loss of any skilled writer’s work deserves to be mourned. We have no evidence that Sulpicia “published” her poetry rather than simply circulating it among friends and acquaintances (such as Martial), and absolutely no evidence that anyone consciously “destroyed” her work or that of any other woman. Indeed, it appears that, around 42) See, in general, A. Cameron, Literary allusions in the Historia Augusta, Hermes 92, 1964, 363–377. 43) For this phenomenon, see Watson (above, n. 19) (74–77 for Sulpicia).
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A. D. 400, one prominent pagan preserved at least two of her more substantial works, and a contemporary (?) commentator on Juvenal appears to have cited two of her trimeters. Those two poems at Bobbio did suffer damage in their subsequent transmission, but censorship was not involved, to judge by the preservation of what must have one of the most sexually explicit passages.44 Certainly there is no evidence of anything more sinister or “sexist” than what befell Rutilius Namatianus; his De reditu was transmitted in the very same codex, and the loss of Book 2 is clearly accidental, not deliberate.45 If there is a real cause for grief here, it is perhaps that modern scholars who study Roman women have rejected the 70 lines of Sulpicia preserved in Ep. Bob. 37 on the basis of arguments advanced by a scholar a century and a quarter earlier that many reputable authorities have rejected as mistaken or inadequate and that they themselves have not read, much less evaluated critically. If the arguments of this paper are valid, and if the two trimeters are also authentic, then we have no fewer than 88 lines composed by Sulpicia, far more than by such renowned male authors as Calvus and Cinna, though not a single complete poem.46 Appendix The text offered earlier was deliberately limited to the few corrections that could be considered highly or reasonably certain. The following text, though it necessarily acknowledges the presence of some corruptions that resist emendation, presents a more speculative version that may be closer to the author’s original: 44) See again Butrica (above, n. 5) for a detailed demonstration of losses and corruptions in that poem that can best be explained as the result of physical damage to the Bobbio codex. That damage seems to have affected Ep. Bob. 36 even more severely than Ep. Bob. 37, to judge by the loss of so many lines at beginning and end and by the apparent presence of so many lacunae in the first eight extant lines, perhaps representing places where smearing or staining made it impossible for Galbiati to recover anything at all. 45) There is a tantalizing possibility that more fragments of Ep. Bob. 36 (or even other works of Sulpicia) could be discovered among the paste-downs in books from the same monastery; Ferrari (above, n. 2) printed some fragments of De reditu 2 recovered in this way. 46) Ep. Bob. 37, however, is nearly complete, with 70 lines extant and perhaps five to ten lost.
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********* Intemerata procis et tot seruata per annos Oscula, uix ipsi cognita Telemacho ********* Hinc mea uirginitas facibus te allexit adultis, Arsit et in uidua principe certus amor. ********* Saepe ego mentitis tremui noua phasmata somnis, Lapsaque nunc †merito† sunt mihi uerba sono ********* Et tandem ignotos sensi experrecta dolores Strataque temptaui sicca pauente manu ********* Nunc tibi anhelanti supremaque bella mouenti Paruit indulgens et sine uoce calor, Dente nihil uiolare fero, nihil unguibus ausus: Foedera tum facta pace peregit Amor. Denique non auiam tremulo clamore uocaui, Nec prior obsequio serua cucurrit anus: Ipsa uerecundo tetigi pallore †puellas† Depositum teneri fassa pudoris onus *********
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Translation . . . kisses unsullied by the suitors and held back so many years, scarcely known even to Telemachus. . . . Hence my virginity kindled your torches and attracted you, and a devoted love blazed up in a prominent lady. . . . I often trembled at dreams that feigned strange visions [5], and now my words slipped out with a sound (deserving) . . . and at length I was awakened and felt an unfamiliar pain, and with fearful hand I tested the dry bedding, . . . now, as you panted and began the final battle, my passion obeyed, indulgently and wordlessly [10], daring to violate nothing with savage tooth, nothing with nails: then we made peace, and Love negotiated the treaty. Afterwards, I did not summon my grandmother with quavering call, and an elderly slave woman did not come running first to serve me: I myself tinted my (girls) with a becoming pallor [15], confessing that the burden of my young modesty had been laid aside . . .
St John’s, NF
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VERGIL UND THALES BEI MINUCIUS FELIX* Dem Andenken von J. H. Waszink
Die Frage nach dem Einfluss der Antike auf das frühe Christentum ist ebenso faszinierend wie umstritten. Auch frühchristliche Autoren sind durch die heidnische Schule gegangen und wurden so mit antiker Literatur vertraut. Als sie nach der Bekehrung in den Dienst christlicher Verkündigung traten, haben sie die Heiden, sei es in apologetischer, sei es in protreptischer Absicht, natürlich in deren Sprache und Bildern zu erreichen versucht. Deshalb begegnet man in ihren Schriften auf Schritt und Tritt Zitaten und Anspielungen auf pagane Texte. Interpretiert man diese im Sinne eines wirkungsgeschichtlichen Klassizismus, wird man rasch dazu verführt, von Synthese, Kommensurabilität, Identifizierung und Koinzidenz zu sprechen, die antiken Autoren sogar als inspiriert zu verstehen und Vergils vierte Ekloge als Prophetie auf Christus zu deuten. Die paganen Texte erhalten dann den gleichen Rang wie die doctrina christiana. Bemüht man sich jedoch um das Erfassen gründsätzlicher Gegebenheiten, die einer christlichen Nutzung zugrunde liegen, und erarbeitet zusätzlich die Kriterien des jeweiligen Autors, entsteht ein ganz anderes Bild. Dies sei am Beispiel des Dialogs Octavius des Minucius Felix verdeutlicht.1 1. Der Dialog beginnt mit einer rühmenden Erinnerung an den Freund Octavius: Cogitanti mihi et cum animo meo Octavi boni et fidelissimi contubernalis memoriam recensenti tanta dulcedo et adfectio hominis inhaesit, ut ipse quodammodo mihi viderer in praeterita redire, non ea, quae iam transacta et decursa sunt, recordatione revocare; ita eius contemplatio, quantum subtracta est oculis, tantum pectori meo ac paene intimis sensibus implicata est (Oct. 1,1 f.). *) Die Grundzüge dieses Beitrags habe ich J. H. Waszink vorgetragen, als ich zu Handschriftenstudien in Leiden weilte, und habe mich auch später seines Rates in patristicis erfreuen dürfen. 1) Vgl. schon Verf., Vergil als Zeuge der natürlichen Gotteserkenntnis bei Minucius Felix und Laktanz, RhM 139 (1995) 254–259.
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In einer umfangreichen Arbeit kommt St. Freund2 zu dem Ergebnis (110 f.), Minucius zitiere hier Vergil, Aen. 7,40 f., 1,660 und 7,355. Dafür beruft sich der Interpret auf die bloßen Worte dulcedo, revocare, pectori und sensibus implicata und glaubt, diese Vokabeln einem festen Texthintergrund zuordnen zu können. Minucius spiele hier auf den Musenanruf im Eingang des siebten Buches der Aeneis an, der den Dichter an die primae exordia pugnae und horrida bella erinnern soll; ferner auf die Liebe mit den schrecklichen Folgen für Dido, die Cupido im Auftrag der Cytherea in ihr weckt; schließlich auf die Furie Allecto, ein Höllenwesen (!), die im Auftrag Junos crimina belli sät, als erstes Amatas Inneres vergiftet und diese als furibunda zum Aufruhr hetzt. Spätestens hier hätte der Verfasser erkennen müssen, dass dies einer handfesten Persiflage der doch eindeutigen captatio Octavii gleichkäme. Von einem color Vergilianus im Eingang des Dialogs findet sich keine Spur, schon gar nicht von der angeblichen Botschaft des Minucius, auch Christen könnten ihre Empfindungen klassisch und in vergilischer Diktion ausdrücken. So würden schon mit dem ersten Satz des Dialogs Berührungsängste und Vorurteile abgebaut. So oder ähnlich geht es weiter und führt auf eine Argumentationsebene, die den Verfasser zu dem Schluss verleitet, Minucius stelle bewusst den inhaltlichen Konsens mit Vergil in den Vordergrund, ja, Vergil liefere ihm sogar einen Beleg für die eigene theologische Position. Somit weise Minucius den Weg zu einer christlichen Vereinnahmung des poeta paganus. Wenn man dem Bezugszitat, hier Vergil, eine solche Dominanz zuerkennt, statt von den tatsächlichen Intentionen und Prämissen des Autors auszugehen und nach der Funktion der Nutzung zu fragen, führt das schon innerhalb der antiken Überlieferung zu Fehldeutungen, erst recht bei der Bewertung paganer Autoren durch das frühe Christentum, zumal wenn es um reine Glaubensfragen, um Theologie im Wortsinne, geht. Hierbei stehen sich radikal verschiedene und letztlich unvereinbare Positionen gegenüber. Einen angemessenen Weg können nur Untersuchungen weisen, welche die Kriterien der Nutzung paganer Autoren aus den 2) St. Freund, Vergil im frühen Christentum, Paderborn 2000 (430 S.). Das horazische lima et labor sei in Erinnerung gerufen.
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christlichen Werken selbst gewinnen3 und die Kernaspekte erarbeiten, denen dabei eine entscheidende Rolle zukommt: dem Altersbeweis, der Entlehnungstheorie, dem göttlichen Heilsplan und der Inspirationslehre. Diese Kriterien sind im Octavius mit Händen zu greifen und markieren die von Minucius mehrfach gezogenen Grenzen und Relativierungen: Seit langem wird behauptet,4 in der ersten Einlassung des Schiedsrichters (Kap. 14 f.) werde der antiken Rhetorik eine positive Wertung zuerkannt und daraus auf eine insgesamt offene Einstellung zur Antike geschlossen. Durch einen in Antike und christlicher Apologetik reich belegbaren Hintergrund lässt sich jedoch beweisen, dass hier die Rede des Caecilius als bare Sophisterei abgetan wird, der man mit Kenntnissen der Dialektik begegnen müsse. Und mitten in diese Kritik wird, verhalten zwar, weil der Stellung des Schiedsrichters angemessen, aber deutlich genug (ex altera parte – auf Seiten der Christen – obscura sit veritas) erstmals der christliche Heilsplan ins Spiel gebracht,5 gemäß dem die Heiden bis zu Christi Erscheinen keinen Zugang zur geoffenbarten Wahrheit hatten. Minucius reibt dieses Faktum den Heiden, im Anschluss an Tertullian, sarkastisch verstärkt, unter die Nase, verbunden mit einem herben Schlag gegen ihren Glauben an die Roma aeterna (Oct. 25,12). Und am Schluss des Dialogs macht er, frei von apologetisch-protreptischer Taktik, den Paganen in aller Schärfe klar, dass gemäß göttlichem Heilsplan nur die Christen im Besitz der vollen Wahrheit sind, weil sie, wie Octavius, das Dei munus eximium der Offenbarung besitzen, also inspirati et revelati (Oct. 40,3) sind.6 Wie fügt sich in ein solches Glaubensfundament die auf den ersten Blick respektable Nutzung Vergils und der Philosophen als Zeugen für eine natürliche Gotteserkenntnis und die Annahme gewisser scintillae veritatis der Heiden (19 ff.)? Es fällt auf, dass Minu3) Wegweisend Ch. Gnilka, Chrêsis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur. I. Der Begriff des „rechten Gebrauchs“, Basel/Stuttgart 1984; II. Kultur und Conversion, Basel 1993. 4) P. G. van der Nat, EntrFondHardt 23 (1977) 211 f.; dagegen Verf., Bildung im Dienst der Wahrheit (Min.Fel. Oct. 14), SO 68 (1993) 116–128. 5) Verf., Der Heilsplan bei den lateinischen Apologeten, Festschr. Gnilka, JbACErgBd 33 (2002) 109–118, hier 111. 6) Zur Lehre der Inspiration vgl. J. Ernst, LexTheolKi 3 (1996) 334 f.; K. Thraede, RAC VIII (1998) 329–364.
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cius unmittelbar vor die Bewertung der heidnischen Zeugnisse nachdrücklich sein christliches Gottesbild vom Deus unus et creator (17,7.11; 18,4.7; vgl. 32,4.6.9), von der Mitwirkung des Logos Christus (18,3),7 von der providentia Dei (17,5 ff.; vgl. 20,2) und vom göttlichen Heilsplan (14,7) setzt. Man muss sich außerdem vergegenwärtigen, dass Minucius und sein Sprachrohr Octavius als Getaufte und durch den Katechumenenunterricht mit der Bibel Vertraute und als Kenner der christlichen Apologetik vor ihre heidnischen Leser treten. Folglich können sie, ohnehin der Radikalität des neuen Glaubens bewusst, und mitten in der Verfolgungszeit, das, was sie bei den Heiden über den Deus unus et verus vorfinden, nur als similia (Lact. inst. 1,5,28), nur als umbra veritatis (Oct. 34,5), lediglich als imago (Tert. apol. 47,14; Lact. inst. 5,8,1 f.) deuten.8 Ein consonare kann es daher nur in parte (Lact. inst. 7,7,2; 22,4) und in aliquem modum (Oct. 34,8) geben,9 niemals im Glaubensfundament selbst. Die rein protreptische Tendenz ist offenkundig. 2. Doch bevor wir dies angemessen einordnen und eine Summe ziehen können, sei ein Blick auf die Nutzung der Philosophie (19,3 ff.) geworfen, insbesondere auf die Wertung des Thales Milesius omnium primus, qui primus omnium de caelestibus disputavit (19,3 f.). Von seiner Lehre über aquae et spiritus ratio (19,4) heißt es, sie stimme völlig mit der christlichen Lehre überein (nobiscum penitus . . . consonare). Sie könne aber nicht von einem Menschen erkannt worden sein (vgl. Lact. inst. 1,1,5 f.), sondern stamme von Gott (a Deo traditum est). Hier fassen wir eine wichtige Stufe auf der Skala paganer Wahrheitsfindung, wie sie die Apologetik entwickelt hat,10 und gewinnen gleichzeitig ein entscheidendes Kriterium für die Nutzung paganer Zeugnisse bzw. für deren Relativierung. Denn hinter a Deo traditum steht der biblisch fundierte Glaube, dass alle Weisheit von Gott stammt: omnis sapientia a Domino Deo est (Eccl. 1,1),11 ein 7) Vgl. Tert. apol. 17,1; Theoph. ad Autol. 2,10, jeweils mit Bezug auf Joh. 1,3; vgl. Koloss. 1,15 f.; Hebr. 1,2 f.; weiteres bei Verf., Sonnenwende – Geburt des Sol verus (Prud. cath. 11,1–12), WS 99 (1986) 251 f. 8) Wichtig ferner Justin, apol. 2,13 Ende, wozu unten, sowie Clem. Alex. strom. 1,94,3–7: Die Heiden hätten nur Abbilder von der Wahrheit. 9) Vgl. Verf., Laktanz und seine testimonia veritatis, Hermes 130 (2002) 306 f. 10) Ich ergänze Festschr. Gnilka (wie Anm. 5) 112 f. 11) Vgl. 15,10; Sap. 8,21; 1 Cor. 1,30, eingebettet in die Lehre von Gott als dem Schöpfer aller Dinge, die in diesem Zusammenhang stets betont wird; vgl. u. a. Theoph. ad Autol. 2,10; Clem. Alex. strom. 1,94.
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Fundamentalsatz des frühen Christentums, der immer wieder betont wird, wenn der Wahrheitsgehalt antiker Dichtung und Philosophie zur Diskussion steht.12 Das fügt sich zusammen mit der Feststellung, wie sie Minucius in Einklang mit der sonstigen Apologetik trifft: illi (scil. philosophi) summa intentione quaesiverunt nec invenire potuerunt (scil. veritatem, Oct. 38,6).13 Sie konnten es deshalb nicht, weil Gott ihnen dies gemäß seinem Heilsplan bis zu Christi Menschwerdung vorenthalten hat. Wenn daher die Heiden vor Christi Geburt von der Wahrheit eine gewisse Ahnung hatten, musste diese vom Schöpfer selbst stammen. Es konnte sich dabei aber, wie oben dargelegt, nur um partielles Wissen handeln. Um dies erklärbar zu machen, entwickelte Justin die so genannte Lehre vom ‚Logos spermatikos‘.14 Schon vor seiner Menschwerdung sei der Logos Christus partiell wirksam gewesen in einzelnen Philosophen (in Sokrates und anderen), Dichtern und Historikern, so dass ihnen manch Treffliches an Erkenntnis möglich gewesen sei (apol. 2,13). Dies wird dann aber erheblich eingeschränkt: Von einem unfehlbaren Wissen könne nämlich keine Rede sein; werde das Wahre doch nur dämonenhaft erfasst. Prägnant differenziert Justin: ßteron gãr §stin sp°rma tinÚw ka‹ m¤mhma, gegeben gemäß der damaligen Aufnahmefähigkeit des Empfängers, ka‹ ßteron aÈtÒ, das man nur als Gnadenakt erfahren könne, eben die Wahrheit selbst (apol. 2,13 Ende; zur Antithese als solcher vgl. Plato, pol. 533a). Dieser Hintergrund hilft bei der Unterscheidung, die wir auch im Octavius vorfinden. Thales erhält zwar – wie auch Vergil – ein Geschenk Gottes, aber ein sehr begrenztes, das weit entfernt ist von dem Gnadenakt der wahren und vollen Offenbarung, wie sie der Christ durch Bibel und Taufe erfährt und Minucius wie auch 12) Vgl. nur Clem. Alex. protr. 1,2,2; paed. 97,3; Orig. in Num. hom. 18,3; Lact. opif. 19,5 f., sowie den besonderen Aspekt der Spendung der sapientia bei der Einhauchung der Seele (Gen. 2,7): Verf., Scientia boni et mali bei Laktanz, GrazBeitr 8 (1979) 243 ff., hier 252 ff. 13) Dazu ferner u. a. Lact. inst. 3,30,4: philosophi omnes . . . quaesiverunt nec umquam tamen investigare, comprehendere, tenere valuerunt ; ferner 1,1,5 f.; 4,2,1; epit. 35,1 ff.; vgl. schon Matth. 11,25 ff.; Luc. 10,21 f.; Joh. 3,34 f.; 1 Cor. 2,7 f. 14) Dazu bes. J. H. Waszink, Bemerkungen zu Justins Lehre vom Logos Spermatikos, JbACErgBd I (1984) 380–390; A. Bender, Die natürliche Gotteserkenntnis bei Laktanz und seinen apologetischen Vorgängern, Frankfurt 1983, 98 ff.; wertlos dazu P. Pilhofer, Presbyteron Kreitton. Der Altersbeweis in der jüdischen und christlichen Apologetik, Tübingen 1990, 250 f.
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Octavius erfahren haben (Oct. 38,6; 40,3). Es ist kein Zufall, dass weder Justin noch Minucius noch andere Apologeten im Rahmen der Logos-spermatikos-Lehre von inspiratio oder revelatio sprachen. Die Bedingtheit dessen, was Minucius den Heiden konzediert (19), wird auch deutlich durch einen Vergleich mit Autoren, die alle z.T. erheblich darüber hinaus gehen. So vor allem Klemens von Alexandreia, der paganer Lehre wiederholt den Rang einer Propaideia für die christliche Wahrheit konzedierte,15 oder Augustin, der den artes liberales einen festen Platz in der doctrina christiana zuerkannte, der die libri Platonici von 386 an sehr hoch einschätzte, immer wieder das scire und intellegere neben dem credere betonte16 und die Lehre vom Logos spermatikos nachdrücklicher vertrat als alle seine Vorgänger: dicta sunt utiliter vera non solum a prophetis sanctis, qui omnia vera dixerunt, verum etiam a philosophis atque ipsis poetis et cuiusque modi auctoribus litterarum, die Christus durch seine Menschwerdung sogar bestätigte (in carne praesentata confirmaret auctoritas), er, die Wahrheit selbst für alle, die daran schon teilnehmen konnten, bevor er Mensch wurde (epist. 137,12 an den Heiden Volusianus).17 Man wird feststellen dürfen, dass Minucius vor die Heiden trat wie Paulus in seiner Areopagrede vor die Weltweisen Athens (Act. 17,16 ff., bes. 23 ff.), denen er, weil ignorantes, den Weg zum Deus ignotus wies.18 15) Strom. 1,18,4; 28,1–3; 30,1; 80,6; 99,1 und öfter; vgl. grundsätzlich zur Philosophie als bonum strom. 6,159,6–8 (siehe 1 Tim. 4,4); dazu u. a. E. Molland, Clement of Alexandreia on the Origin of Greek Philosophy, SO 15/16 (1936) 57– 86; H. B. Timothy, The Early Christian Apologists and Greek Philosophy, Assen 1973, 59 ff.; J. Bernard, Die apologetische Methode des Klemens v. Alexandreia, Leipzig 1968, 53–55. Insgesamt wird die Philosophie als ein Werk der göttlichen Vorsehung, als ein deutliches Abbild der Wahrheit und ein den Griechen verliehenes göttliches Geschenk verstanden (strom. 1,18,3; 1,20,1). Solche Wertschätzung sucht man nicht nur bei Minucius, sondern auch bei Tertullian, Laktanz oder gar Cyprian vergeblich. 16) Vgl. u. a. doctr. christ. 2,40 ff.60 f.; civ. 8, bes. Kap. 4.9–12; conf. 1,1; 7,9; 8,11; epist. 118,21; 120,3. 17) Trefflich dazu Ch. Gnilka, Chrêsis II (wie Anm. 3) 177–186. Weiteres bei Gnilka, Chrêsis I (wie Anm. 3) 56 ff.76 ff.88 ff. Insgesamt unzulänglich, weil nicht von den Prämissen Augustins ausgehend, G. A. Müller, Formen und Funktionen der Vergilzitate und -anspielungen bei Augustin von Hippo, Paderborn 2003. 18) Es spricht einiges dafür, dass Minucius verschiedentlich diese Rede in Erinnerung ruft; vgl. generell die Verse 23.24 f.26.27 mit Oct. 18 f.; 25,12; 32,1–3.
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Die im Ganzen, mit Klemens und Augustinus verglichen, sehr reservierte Einschätzung punktueller Wahrheitsfindung19 durch die Heiden20 im Octavius kommt auch in einem anderen, sehr wichtigen und durch die ganze Apologetik belegbaren Interpretament zum Ausdruck: im Altersbeweis des Alten Testaments und seiner Entlehnung durch die Heiden (Oct. 34,5–7).21 Auch darin hebt sich Minucius von der apologetischen Tradition ab, weil er im Anschluss an Tertullian (apol. 46,6 f.18; 47,3.9 f.) die Verfälschung der alttestamentlichen Lehren durch die Philosophen nachdrücklich herausstellt und Tertullians abwertende Schärfe insofern verstärkt, als er sogar die erlauchten Philosophenhäupter Pythagoras und Platon (Pythagoras22 primus et praecipuus Plato) als Verfälscher entlarvt. Sie hätten die resurrectio carnis corrupta et dimidiata fide überliefert und sogar noch dadurch ins Gegenteil verdreht (et illa ad retorquendam veritatem), dass sie die Palingenesie in pecudes aves beluas gelehrt und sich so, wie der Autor sarkastisch anfügt, als nicht ernst zu nehmende Komiker entpuppt hätten. Wenn Minucius dann anfügt, für den gegenwärtigen Zweck genüge es, in hoc sapientes vestros in aliquem modum nobiscum consonare (34,8), hat das gerade noch protreptischen Wert und bestätigt die Grundhaltung des Minucius, wie sie dann am Schluss des Dialogs in aller Klarheit durchbricht: Der Mensch ist aus eigener Kraft zur Wahrheitsfindung unfähig (38,5 ff.). Wenn er vor der Heilswirksamkeit der Menschwerdung Christi ein paar sp°rmata aufgenommen hat, waren auch diese eine Gabe Gottes. Die von der Heilsplanung Gottes gegebene Wegweisung im alten Testament (Tert. apol. 18; vgl. Gal. 3,24–26; Röm. 1,2; indirekt auch Oct. 34,5 ff. vorausgesetzt) hat ihre Reifung erst durch Christi Menschwerdung erfahren (veritas divinitatis nostri 19) Letztlich dachte er über Thales ähnlich wie Tert. apol. 46,8. 20) Wenn überhaupt möglich, dann nur als Geschenk Gottes (Eccl. 19,4; vgl. 17,1; 18,2): eine wichtige Voraussetzung für die Funktion des göttlichen Heilsplans und den Gnadenakt offenbarter Wahrheit (Oct. 38,7; 40,3). 21) Eine Skizze samt Lit. bei Verf., Vergildeutung im Cento Probae, Graz Beitr 15 (1988) 168 ff.; vgl. grundsätzlich Gnilka, Chrêsis I (wie Anm. 3) 15 f.; zu Pilhofer vgl. Anm. 14. 22) Laktanz grenzt die Wahrheitserkenntnis von Pythagoras und Platon noch weiter ein: Gottes Providenz habe regelrecht verhindert, dass beide mit der Bibel, wo vor allem die Wahrheit zu finden gewesen sei, vertraut worden seien – dies gegen alle apologetische Tradition (inst. 4,2,4 f.); vgl. schon Verf., Cicero inspiratus – Vergilius propheta?, Hermes 118 (1990) 366 f.
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temporis aetate maturuit). Sie ist ein reines Gnadengeschenk (Dei munus eximium). Menschliche Autarkie bewirkt nichts. Es bedarf der Offenbarung Gottes und seiner Hilfe insgesamt (40,3). Hiermit ist der Maßstab gesetzt, an dem jegliche Erkenntnis zu messen ist. Für Minucius heißt dies, dass er damit eine erhebliche Relativierung paganer Wahrheitsfindung vornimmt. In aller Deutlichkeit wird die Philosophie insgesamt, nicht nur die vorher (38,5 f.) genannten Vertreter, in die Schranken gewiesen, die grundsätzliche und unüberbrückbare Divergenz (Philosophorum supercilia contemnimus, quos corruptores . . . novimus . . . nos non habitu sapientiam sed mente praeferimus, non eloquimur magna . . . sed vivimus)23 aufgezeigt und apodiktisch festgestellt: illi summa intentione quaesiverunt nec invenire potuerunt (scil. veritatem). Die Christen dagegen haben sie erlangt (gloriamur nos consecutos . . .), wie Minucius in klarem Bezug zum Neuen Testament (Röm. 16,25 f.; 1 Cor. 2,7 f.; Matth. 11,25 ff.) festhält. Die Heiden waren also zur Wahrheitsfindung unfähig, weil Gott es so gewollt hat. Das läuft letztlich auf eine Haltung hinaus, wie sie Tertullian vertritt: nihil omnino relatum est, quod agnoscat Christianus (test. an. 1,4) und adeo quid simile philosophus et christianus . . .? (apol. 46, 18). Auch für Minucius gilt, was Prudentius – in teilweisem Anschluss an ihn (c. S. 2,439–441)24 – gegenüber Symmachus in das einprägsame Bild kleidet: Nicht die vielen Wege der Heiden (c. S. 2,773 ff.) führen zum Ziel, sondern die via simplex et una (c. S. 2,854), der Weg zu dem, der von sich sagen konnte: Ego sum via et veritas et vita (Joh. 14,6 Par.; vgl. Tert. apol. 47,9 f.). Es liegt auf der Hand: Eilfertige Pauschalurteile über die angebliche Identität, Symbiose, Koinzidenz von paganer und christlicher Wahrheitsfindung, wie ich sie eingangs skizziert habe, sind auf Minucius nicht anwendbar. Wer sich durch den Gnadenerweis der Offenbarung im Vollbesitz der Wahrheit weiß, eignet sich nicht die umbra, nicht die similia veritatis (Lact. inst. 1,5,28), nicht einmal punktuell das polytheistische Gottesbild eines profanus a veritate an. Der christliche Autor kann und wird ebenso wenig das 23) Dahinter steht die zentrale Maxime non verbis sed factis des NT und der Patristik (vgl. Verf., Non agnitione sed gratia [Cypr. Don. 2], Hermes 115 [1987] 322 f.; Laktanz und seine testimonia veritatis [wie Anm. 9] 305 ff.) 24) Vgl. Festschr. Gnilka (wie Anm. 5) 117 f.
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poema profanum Vergils in ein poema sacrum transponieren. Minucius Felix hat also niemals den Weg zu einer christlichen Vereinnahmung Vergils gewiesen. Cyprian25 und Laktanz26 beweisen ohnehin das Gegenteil. Man sollte endlich Minucius Felix von dem Odium eines Semipaganus befreien. Giessen
Vinzenz Buchheit
25) Bei Freund wird sogar der kompromisslose Bischof und Märtyrer Cyprian (vgl. Verf., Festschr. Gnilka [wie Anm. 5] 116 f.) zu einem semipaganus, der, „um Christliches im engsten Sinne“ auszudrücken, „Anleihen bei Vergil“ mache und so die Leistung Vergils für die fides christiana anerkenne (254). In Wirklichkeit geht es nur um die Nutzung sprachlicher Anklänge, die dem früheren Rhetor geradezu von selbst in die Feder fließen. 26) Verf., Laktanz und seine testimonia veritiatis (wie Anm. 9) 305–315.
WARNUNG VOR DEM LIEBESGOTT Pervigilium Veneris, V. 56 credere oder cedere?* Das anonyme Gedicht mit dem Titel Pervigilium Veneris, dessen Überlieferung auf den Codices der Anthologia Latina beruht,1 umfaßt 93 trochäische Tetrameter. Die Vorschläge zur Verfasserschaft reichen von Florus bis Tiberianus oder Luxorius, die zur Datierung entsprechend vom 2. nachchristlichen Jahrhundert bis in die Spätantike. Durch den am Anfang und Ende sowie in unregelmäßigen Abständen gesetzten Refrain Cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet ist das Gedicht in zehn Einheiten (‚Strophen‘) von ungleicher Länge unterteilt.2 Das Gedicht gibt sich als Lied am Vorabend einer zu Ehren des Geburtstages der Venus stattfindenden Feier, die drei Nächte lang dauern soll (V. 42). Nach einem Preis des Frühlings im Eingang wird im mittleren Teil (28–56) die Vorbereitung des Festes geschildert. Hier geraten die Teilnehmer der Nachtfeier in den Blick. Nymphen werden von Venus aufgefordert, in Begleitung des waffenlosen Amor in ihren Myrtenhain zu kommen (4. Strophe), die jungfräuliche Jagdgöttin wird dagegen von der Teilnahme ausgeschlossen (5. Strophe). In der 6. Strophe wird zunächst der Ort der Feier ausgemalt (49–52), danach werden die Nymphen nach ihren unterschiedlichen Aufenthaltsorten – Felder, Berge, Wälder, Haine und Quellen – aufgeführt (53–54). Die beiden letzten Verse dieser Strophe (55–56) greifen das Thema der die 4. Strophe abschließenden Verse (34–35) auf. Wie zuvor der auktoriale Erzähler3 die Nymphen zur Wachsamkeit auch gegenüber dem unbewaffneten Amor aufgefordert hatte (34–35),4 *) Herrn Manuwald bin ich für kritische Lektüre und wertvolle Hinweise zu großem Dank verpflichtet. 1) Zur handschriftlichen Überlieferung vgl. Laurence Catlow, Pervigilium Veneris, edited with a Translation and a Commentary, Brüssel 1980 (Collection Latomus 172), 7–17. 2) Vgl. K. Smolak, Pervigilium Veneris, in: HLL 5 (1989) § 551. 3) Zum mimetischen Stil der Verse vgl. A. Cucchiarelli (La veglia di Venere. Pervigilium Veneris. Introduzione, traduzione e note, Milano 2003) zu 29–35 (S. 110). 4) Ich zitiere im folgenden nach: Anthologia Latina I 1, ed. D. R. Shackleton Bailey (Stuttgart 1982) 191 (= 200 Riese).
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sed tamen, nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est. totus est in armis5 idem quando nudus est Amor, warnt auch Venus selbst vor ihrem Sohn (55–56): iussit omnes adsidere Pueri mater alitis, iussit et nudo puellas nil Amori credere.6
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Die Gefährlichkeit Amors liegt in seiner Schönheit (quod Cupido pulcher est, 34). Diese kommt besonders zum Ausdruck, da Amor seine Waffen abgelegt hat. Das in beiden Abschnitten begegnende Adjektiv nudus hat eine ambivalente Bedeutung: Einmal beschreibt es die traditionelle Nacktheit des Knaben (vgl. Ov. met. 10,515– 518; am. 1,10,15 f.), zum anderen aber vor allem den Zustand der Waffenlosigkeit. Hier greift der Dichter des Pervigilium Veneris auf ein Motiv aus einer Elegie Tibulls zurück, in der Amor aufgefordert wird, sich ohne seine Verwundungen zufügenden Attribute (Pfeile und Fackeln) bei einem friedlichen Fest einzufinden (2,1,81 f.): Sancte, veni dapibus festis, sed pone sagittas et procul ardentes hinc precor abde faces.7 Der Dichter des Pervigilium übersteigert dieses Motiv, indem er den Gedanken ausmalt, daß Amor gerade in seiner körperlichen Nacktheit, d. h. Waffenlosigkeit, um so gefährlicher sei. Daher sollen die Nymphen, die in Begleitung Amors zur Venus-Feier kommen, vor dem unbewaffneten, nackten Knaben auf der Hut sein (29–35): it Puer comes puellis; nec tamen credi potest esse Amorem feriatum, si sagittas vexerit. ite, nymphae, posuit arma, feriatus est Amor!
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5) Von Pithou hergestellt aus dem überlieferten inermis. 6) Die Korrespondenz zwischen diesen Strophen geht noch über die enge Parallelität der beiden abschließenden Verse hinaus: Im einleitenden Vers erscheint Venus jeweils als Befehlende: diva . . . iussit (28) und iussit . . . diva (49). Darüber hinaus weisen beide Strophen die gleiche Länge (jeweils acht Verse) auf. 7) In deutlicher Anlehnung an dieses Tibull-Gedicht läßt der Autor des Pervigilium den Liebesgott auf dem Land geboren sein: Pervig. Ven. 77 – Tib. 2,1,67 f.
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iussus est inermis ire, nudus ire iussus est, neu quid arcu neu sagitta neu quid igne laederet. sed tamen, nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est. totus est in armis idem quando nudus est Amor. 35 Die Gegenwart des schönen Amor bedeutet eine Gefahr für die Nymphen, deren Keuschheit8 anläßlich der Mission, mit der Venus sie betraut, eigens hervorgehoben wird (37): conpari Venus pudore9 mittit ad te (sc. virgo Delia) virgines. Daher ist die Mahnung, sich vor ihm in acht zu nehmen, nur zu angebracht. Was aber heißt nil Amori credere (56)? Warum sollen die Nymphen Amor nicht trauen? Das eindeutig überlieferte credere (V. 56) korrespondiert auf den ersten Blick mit der in Vers 34 ausgesprochenen Mahnung cavete, indem es in Verbindung mit nil gleichsam die negative Ergänzung („in keiner Weise10 vertrauen“) zu cavete („hütet euch“) bildet. In jeder Hinsicht verfehlt scheint mir Hans Armin Gärtners Übersetzung des Verses 56 iussit et nudo puellas nil Amori credere zu sein: „befohlen hat sie auch den Mädchen, dem nackten Amor nichts zu glauben.“11 Die zwingende Wirkung, die von Amor ausgeht, ist nicht verbaler Art, beruht nicht etwa auf Überredung eines wortgewaltigen Liebesgottes, sondern Amor wirkt unmittelbar durch seine bloße Gegenwart. Die Bewaffnung Amors besteht gerade in seiner scheinbaren Waffenlosigkeit. Der seiner Waffen entblößte Amor hat also nichts von seiner Gefährlichkeit eingebüßt. Allenfalls ist zu erwägen, ob 8) Keuschheit gehört jedoch keineswegs zum Wesen der Nymphen – man denke nur an ihre Rolle im Hylas-Mythos. Auch als Begleiterinnen der Artemis repräsentieren sie nicht schlechthin Jungfräulichkeit; vgl. H. Herter, Nymphai 1, RE XVII 2 (1937) 1527–1581, insbes. 1547, und auf der Grundlage des RE-Artikels: KlP 4 (1975) 207–215. 9) Clementis Vorschlag, conpari pudore auf Venus zu beziehen „‘With her own shy blushes’, i. e. the nymphs are as bashful in bringing the request as Venus was in making it“ (Oxford 31936, 233), wirkt angesichts Dianas, der keuschen Göttin katÉ §joxÆn, konstruiert. 10) Zur nachdrücklichen Verneinung (nihil = non) vgl. Hofmann-Szantyr 454. 11) Die römische Literatur in Text und Darstellung, Bd. 5: Kaiserzeit II. Von Tertullian bis Boethius, hrsg. von H. A. Gärtner, Stuttgart 1988, 187. Zu et nudo vgl. unten Anm. 15.
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nach credere eine Ellipse anzunehmen ist: Ausgehend von 29/30 nec tamen c r e d i potest / esse Amorem feriatum, wäre in V. 56 zu credere der Gedanke, daß Amor müßig, d. h. harmlos, sei, zu ergänzen. Cupido, der sonst durch seine Waffen Liebesleid verursacht, stellt nun gerade durch seine Waffenlosigkeit eine um so größere Gefahr für die ihm schutzlos ausgelieferten Nymphen dar.12 Credere fügt sich also gut in den Gedankengang ein, auch wenn die Deutungsversuche in jedem Fall auf eine bloße Wiederholung eines bereits formulierten Gedankens hinauslaufen: Sei es, daß man nil Amori credere (56) in Analogie zur Warnung cavete (34) oder im Sinne von nec tamen c r e d i potest / esse Amorem feriatum (29 f.) versteht. Ich möchte aber zu erwägen geben, ob nicht 12) Es liegt aber nicht eine Situation vor, wie sie Dracontius im zweiten Romuleon, dem Hylas-Epyllion, beschreibt, wo wir das gleiche Personal wie in dieser Szene unseres Gedichts antreffen: Venus, ihren Sohn Amor/Cupido und die Nymphen. In deutlichem Kontrast zur Konzeption einer hehren Liebesgöttin im Pervigilium Veneris erscheint Venus hier in ihrer traditionellen Rolle als Liebesgöttin, die sich zur Erreichung ihrer Ziele ihres Sohns bedient und sich an der – vom verwundenden Amor ausgelösten – unglücklichen Liebe der von ihr bestimmten Opfer erfreut. So bittet sie ihren Sohn, nachdem sie ihn in hymnischem Stil angesprochen hat (Romul. 2,46 f.), die Nymphen in Liebesleidenschaft zu versetzen (vgl. insbes. 62b–64): Quas (sc. puellas) ure sagittis, / corda vel illarum dulci continge veneno: / noscant quid sit amor, discant tua tela (ed. J. Bouquet, Paris 22002). Sie begründet ihren Auftrag damit, daß dies die verdiente Strafe für deren williges Lauschen auf Clymenes Gesang sei, der ihren Ehebruch mit Mars und die für sie peinliche Entdeckung durch den Sonnengott zum Gegenstand hatte (mit intertextuellem Bezug auf Verg. georg. 4,345 f.). Cupido verwandelt sich alsbald in eine Najade, um in die Nähe der ahnungslosen Nymphen zu gelangen (81–93), vgl. insbes. 90–93: Misceturque puer Nymphis sub fronte puellae / et causas perquirit Amor, cur fonte relicto / terras cauta petit; facilis cui turba fluenti / rem pandit; periurat Amor, quasi nescius esset. Vgl. auch B. Webers Kommentar zum Hylas des Dracontius (Stuttgart/Leipzig 1995, 188) zu facilis (V. 92): „hier fast im Sinne von ‚leichtgläubig, vertrauensvoll, arglos‘ (. . .), da die Nymphen ja nichts von der ‚Gefahr‘ ahnen, die ihnen droht.“ Die Priorität des Pervigilium Veneris ist eindeutig nachgewiesen: Smolak (wie Anm. 2) 249; vgl. auch W. Schetter, Vier Adnoten zur ‚Aegritudo Perdicae‘, in: Kaiserzeit und Spätantike. Kleine Schriften, hrsg. von O. Zwierlein, Stuttgart 1994, 260–279, hier 270–275 zu Dracontius’ Hylas im zeitlichen Verhältnis zur Aegritudo Perdicae; ferner R. Häußler, Reposian und seine klassischen Helfer, in: Candide iudex, Beiträge zur augusteischen Dichtung (Festschrift für W. Wimmel zum 75. Geburtstag), Stuttgart 1998, 81–129, insbes. 96 mit Anm. 37 zur Datierung von Reposians Gedicht Concubitus Martis et Veneris und – damit eng verbunden – zur Datierung des Pervigilium.
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cedere anstelle von credere zu lesen ist.13 Bezeichnenderweise übersetzt Andrea Cucchiarelli (wie Anm. 3) „e comandò che in nulla c e d e s s e r o le fanciulle al nudo Amore“, ohne allerdings das überlieferte credere in Zweifel zu ziehen.14 Als Übersetzung der betreffenden Verse 55 f. iussit omnes adsidere Pueri mater alitis, iussit, et nudo, puellas nil Amori cedere schlage ich vor: befohlen hat die Mutter des geflügelten Knaben, daß sich alle niederlassen, befohlen hat sie den Mädchen, in keiner Weise dem Liebesgott, auch wenn er entblößt ist,15 nachzugeben. In der Tat lassen sich für cedere Gründe ins Feld führen. In erster Linie ist an Vergils 10. Ekloge zu erinnern, in der das Liebesleid des Gallus besungen wird. Dort heißt es über die Allmacht der Liebe (69): omnia vincit Amor: et nos c e d a m u s A m o r i .16 13) Die umgekehrte Verschreibung scheint in Juvenal 6,57 et agello cedo paterno vorzuliegen, wo A. Thierfelder (Hermes 76, 1941, 317 f.) credo vorgeschlagen hat. 14) Zum – allerdings reflexiven – Gebrauch von credere im Sinne von se dedere alicui vgl. ThLL IV 1132,42 ff. 15) Anders als andere Editoren, die auf jede Interpunktion in diesem Vers verzichten, interpungieren Clementi (wie Anm. 9) und R. Schilling (Paris 1944) hier deutlich: iussit, et nudo, puellas . . . und übersetzen auch entsprechend: „though naked“ (vgl. auch Clementis Kommentar S. 245 „et nudo, sc. etiam nudo, ‚even when naked‘“) bzw. „même s’il est nu“. 16) Das Pervigilium weist auch sonst enge Beziehungen zur 10. Ekloge auf: In seinem Katalog der Nymphen (53 f. ruris hic erunt puellae vel puellae montium / quaeque silvas, quaeque lucos quaeque fontes incolunt) läßt der anonyme Verfasser des Pervigilium die Frage des Eklogen-Dichters an die Najaden anklingen (9 f.): Quae nemora aut qui vos saltus habuere, puellae / Naides, indigno cum Gallus amore peribat? Zum Motiv des ver novum vgl. ecl. 10,74 und Pervig. Ven. 2. Umgekehrt behauptet der praeceptor Amoris im Proömium der ars amatoria zuversichtlich (1,21 f.): et mihi cedet Amor, quamvis mea vulneret arcu / pectora, iactatas excutiatque faces – A. S. Hollis (Oxford 1977) z. St.: „surely an intentional reversal of Virgil’s ‚omnia vincit Amor . . .‘.“
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Auch sonst findet sich cedere häufig in Zusammenhang mit der Macht der Liebe.17 Im ersten Buch der Metamorphosen begegnet der von Apollo als lascive puer (1,456) beleidigte Cupido dem Gott mit dem Anspruch (463–5): filius huic Veneris ‚figat tuus omnia, Phoebe, te meus arcus‘ ait, ‚quantoque animalia c e d u n t cuncta d e o, tanto minor est tua gloria nostra.‘18 Und wirklich preist etwa Venus im Zusammenhang des Raubs der Proserpina Cupidos Allmacht (Ov. met. 5,369 f.): tu superos ipsumque Iovem, tu numina ponti victa domas ipsumque, regit qui numina ponti. In Senecas Phaedra besingt der Chor die Allmacht Amors (352–5): vindicat omnes natura sibi, nihil immune est, odiumque perit, cum iussit amor; veteres c e d u n t ignibus irae.
17) Zur Junktur amori cedere in Verbindung mit einer Negation vgl. Val. Fl. 7,319 neque tam turpi cessuram . . . amori (über Medea); ferner Calp. ecl. 2,92 carmina poscit amor nec fistula cedit amori. Überlieferung und Deutung der letztgenannten Stelle sind nicht über jeden Zweifel erhaben; durch zahlreiche Konjekturen für das überlieferte cedit, aber auch für nec versucht man, dem Ausdruck nec fistula cedit amori beizukommen; zu vergleichen ist der textkritische Apparat in C. Giarratanos Edition (Turin 31951) und RhM 26 (1871) 493. Versteht man aber cedere hier als Simplex im Sinne des Kompositums abscedere, bedarf es keiner Änderung: „Lieder fordert die Liebe, und nicht entzieht sich meine Hirtenflöte der Liebe“. Auch B. Fey-Wickert, Calpurnius Siculus. Kommentar zur 2. und 3. Ekloge, Trier 2002 (BAC 53), 136 interpretiert die Stelle in dem Sinn, daß „die Hirten-Dichter sich der Forderung der Liebe nach Liedern nicht entziehen; ähnlich Verdière 145 ‚mon pipeau ne fait pas défaut à l’amour‘ und Amat 19 ‚ma flûte ne resiste pas à l’amour‘.“ Überzeugend legt sie dar, daß Calpurnius Vergils omnia vincit Amor: et nos cedamus Amori imitiert, „obwohl er die vergilische Aussage von der Allmacht der Liebe völlig umbiegt“ (136). Nach dieser Interpretation ist die Stelle also nur dem Wortlaut, nicht aber der Bedeutung nach vergleichbar. 18) Vgl. auch F. Bömers Kommentar (Heidelberg 1969, 148 f.) zum Motiv der Allmacht der Liebesgötter (zu met. 1,464) und zu cedere (1,465).
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Cupidos Macht wird jeweils so dargestellt, daß es weniger um ein Zutrauen, Vertrauen (credere) geht als vielmehr um die Frage, ob jemand dem Liebesgott bzw. dem durch diesen erregten Liebesverlangen nachgibt, willfährt (cedere). So läßt der Dichter in Ov. am. 1,2 einen von Amors Pfeilen Getroffenen überlegen, ob sich ihm überhaupt eine sinnvolle Alternative zum cedere biete (7–10): sic erit: haeserunt tenues in corde sagittae, et possessa ferus pectora versat Amor. c e d i m u s, an subitum luctando accendimus ignem? c e d a m u s: leve fit, quod bene fertur, onus.19 Die Vorstellung, welche in der von Venus den Nymphen erteilten Mahnung, dem Liebesgott nicht nachzugeben (cedere), zum Ausdruck kommt, fügt sich überdies in die literarische Tradition etwa der frühgriechischen Lyrik ein, in der Eros als unwiderstehlich wie ein Sturm (Sappho fr. 47 V. ÖErow dÉ §tinaj° <moi> / fr°naw, »w ênemow kåt ˆrow drÊsin §mp°tvn), als unbezwinglich (Sappho fr. 130,2 V. émãxanow20) beschrieben wird, so daß ihm gegenüber nur Ohnmacht bleibt.21 Cedere würde gegenüber dem überlieferten credere eine Steigerung bedeuten: Die Nymphen, die in diesem Vers (wie auch in V. 29 und 53) mit dem elegisch einschlägig konnotierten Wort puellae bezeichnet werden, sollen – selbst dem unbewaffneten – Amor nicht nur nicht trauen, vielmehr sollen sie ihm auch widerstehen. Diese Mahnung aus dem Mund der Venus entfaltet vor der Folie ihrer traditionellen Rolle eine besondere Pointe, insofern es ausgerechnet die Liebesgöttin ist, welche die puellae auffordert, 19) Vgl. den Kommentar von J. C. McKeown (Leeds 1989) zu am. 1,2,9–10: „In his choice of the verb cedere, he may be reflecting the Gallan model (see Servius on line 46) for Ecl. 10.69“; zahlreiche Zeugnisse zur Allmacht Cupidos führt McKeown zu am. 1,2,37–38 superas hominesque deosque an. Zu 45–46 non possunt, licet ipse velis, cessare sagittae verweist er ferner auf unser Gedicht: „the general idea at Peruig. Ven. 29 ff. is much the same“. 20) Vgl. A. Broger, Das Epitheton bei Sappho und Alkaios, Innsbruck 1996, 122. 21) Vgl. neben Sapphos Charakterisierung des Eros auch G. P. Tsomis, Eros bei Ibykos, RhM 146 (2003) 225–243; vgl. insbes. zu fr. 287 Davies (S. 238 ff.), in dem das Herankommen des Eros als „Angriff eines unentrinnbaren, übermächtigen Feindes“ (Tsomis 241) gedeutet wird; vgl. auch unten Anm. 26.
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sich dem machtvollen Wirken ihres Sohnes zu verweigern. Möglicherweise liegt eine direkte Kontrastimitation der bereits oben – im Zusammenhang der hymnischen Preisung der Allmacht des Liebesgottes – herangezogenen Passage aus Ovids Metamorphosen vor, in der Venus ihren Sohn auffordert, den Unterweltsgott in Liebe zu Proserpina zu versetzen, um so ihren Herrschaftsbereich auch auf die Unterwelt auszudehnen. In einer Klage über ihren schwindenden Einfluß führt Venus die jungfräulichen Göttinnen Minerva und Diana an, die sich erfolgreich ihrer Herrschaft entzogen hätten (met. 5,375 f.): Pallada nonne vides iaculatricemque Dianam a b s c e s s i s s e mihi? Gerade das von ihr hier beklagte Widerstreben der jungfräulichen Göttinnen gegenüber der Macht der Liebe verlangt sie im Pervigilium von den Nymphen. Mit dem an unserer Stelle vorgeschlagenen cedere ergibt sich ein direkter Kontrast inhaltlicher und sprachlicher Art zu dieser Szene in den Metamorphosen, kontrastiert doch die Aufforderung der Venus an die puellae, dem Liebesgott in keiner Weise nachzugeben (nil Amori cedere), mit ihrer Klage über die hartnäckige Verweigerung der beiden Göttinnen (abscessisse mihi). Die vom traditionellen Bild abweichende Konzeption der Venus manifestiert sich in ihrem den Nymphen erteilten Befehl, dem Liebesgott nicht zu willfahren. Im Pervigilium wird Venus als kosmische Göttin, die für den Fortbestand der Welt Sorge trägt, als amorum copulatrix (5), procreatrix (64) und Ahnherrin der Römer (8. Strophe) hymnisch gepriesen.22 Im Gegensatz zu ihrem in traditioneller Weise als frivol gezeichneten Sohn liegt dem Wirken der Mutter des geflügelten Knaben (Pueri mater alitis, 55) jeder frivole Zug fern. Amors Bereitschaft, seine Opfer zu verletzen (laedere, 33), läuft dem Streben seiner Mutter, deren Wirken auf Vereinigung zielt, entgegen. Nicht von ungefähr wird ihre ehestiftende Funktion programmatisch im Eingang des Gedichts betont: vere con22) Zu dieser Konzeption der Venus, die der von Lukrez im Eingang seines Gedichts angerufenen Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, / alma Venus (1,1 f.) nahesteht, vgl. J. Trotzki, Zum Pervigilium Veneris, Philologus 81 (1926) 339–363, insbes. 360 f.; Catlow (wie Anm. 1) 52 f., 74 und oben Anm. 12.
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cordant amores, vere nubunt alites (V. 3). Anläßlich der am morgigen Tag stattfindenden Feier23 ruft der Dichter denn auch die mythische heilige Hochzeit von Himmel und Erde in Erinnerung (59): Cras erit quo primus Aether copulavit nuptias. Im Gegensatz zur Vereinigung stiftenden Macht der Venus24 wird das Wirken ihres verspielten Sohnes, der nicht im Einvernehmen mit seiner Mutter handelt, als Bedrohung empfunden, konzentriert sich Cupido doch ganz auf das Erregen unglücklicher Liebe. Venus selbst aber will alle negativen Aspekte der durch Amor erregten Liebesleidenschaft für die Zeit ihres Festes fernhalten. Daher erteilt sie ihrem Sohn, dessen Macht sie nur allzu gut kennt, den Befehl, ohne seine üblichen Attribute zur Feier zu kommen, werden seine Waffen – Bogen, Pfeile und Feuer – doch ausdrücklich mit Verletzung der Opfer in Verbindung gebracht (32 f.): iussus est inermis ire, nudus ire iussus est, neu quid arcu neu sagitta neu quid igne laederet. Mit Recht betont Catlow die einander widerstrebenden Interessen von Mutter und Sohn im Pervigilium: „It is . . . to dissociate his Venus from the traditional Venus of Roman literature that the poet now introduces Cupid, not as her servant and ally, but as a potential threat to the security of love which the festival celebrates“ (74). Cupido, nicht Venus, ist im Pervigilium die Gottheit elegischer Leidenschaft. Venus stellt in ihrer Funktion als amorum copulatrix (5), als Göttin, die Liebende verbindet, die Gegenmacht zum destruktiven Wesen ihres Sohnes dar. So scheint das Ideal einer – von Venus bewirkten – treuen Liebe25 als Gegenbild zur – 23) Über die eigentliche Nachtfeier bietet der Text nur wenige Anhaltspunkte; zum Charakter des Festes (Initiationsfeier?) und zur Rolle der Nymphen vgl. Catlow (wie Anm. 1) 26–35, insbes. 28 zu den Strophen 4–6. 24) Leitmotivisch begegnen im Zusammenhang ihres Wirkens sprachliche Hinweise auf eheliche Vereinigung: das Wort maritus (V. 4.26.61.82); coniunx (61.70.82 coniugali foedere); nubere, nuptiae (3.22.59.72, vgl. Catlow [wie Anm. 1] 31). 25) Zur genuin elegischen Wunschvorstellung des tutus amor vgl. etwa F. Spoth, Ovids Heroides als Elegien, München 1992 (Zetemata 89), 79 mit Anm. 78.
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von Amor verursachten – leidvollen Liebe im Ehebündnis der Stiere auf (82): quisque tutus quo tenetur coniugali foedere. Sicherheit für das von mir erwogene cedere läßt sich freilich nicht gewinnen. Cedere würde aber das entgegengesetzte Wirken der beiden Liebesgottheiten stärker zum Ausdruck bringen als das blassere credere: Während die – als umfassende Schöpfungskraft konzipierte – Göttin Liebesvereinigungen fördert, versetzt ihr Sohn seine Opfer durch verletzende Liebe in unglückliche Liebesleidenschaft, wodurch eine Liebesvereinigung gerade verhindert wird. Mit der den gefährdeten puellae erteilten Weisung, Amor nicht nachzugeben, sich vielmehr seinem unheilvollen Wirken zu entziehen, würde Venus selbst eindringlich vor der – im Grunde unwiderstehlichen – Macht ihres Sohnes warnen,26 der durch seine bloße Gegenwart eine Gefahr für das bevorstehende Fest darstellt, das der Liebesvereinigung dient und von dem sie den Aspekt der – durch Amor erregten – leidvollen Liebe fernhalten möchte. Münster
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26) Ein Grundproblem, das sich im übrigen aber auch bei der Lesart credere ergibt, ist die Frage, warum Venus, die um die unentrinnbare Macht ihres Sohnes weiß, die puellae dennoch auffordert, ihm nicht widerstandslos nachzugeben (cedere) bzw. ihm nicht leichtfertig zu trauen (credere). Durch diese nachdrückliche Warnung vor Cupido scheint der Dichter die Rolle der Liebesgöttin, deren Sorge der ehelichen Liebe gilt, um so deutlicher vom verantwortungslosen Treiben ihres Sohnes abgrenzen zu wollen. Eine vergleichbare Differenzierung zwischen Venus und Amor ist auch in späterer Zeit greifbar; so hebt B. Manuwald in seiner auf einer erneuten Lesung der lateinischen Beischrift beruhenden Interpretation eines Gemäldes (Venus und Amor, ein schwieriges Mutter-Sohn-Verhältnis. Philologische Bemerkungen zu Maerten van Heemskercks Gemälde ‚Venus und Amor‘ im Wallraf-Richartz-Museum – Fondation Corboud, Kölner Museums-Bulletin 3/2004, 10–24) eine ganz analoge Abgrenzung der Liebesgöttin von ihrem Sohn hervor.
AUSONIUS TO AXIUS PAULUS: METAPOETICS AND THE BISSULA Among the extant verse-epistles addressed by Ausonius of Bordeaux to his fellow-rhetor and fellow-poet Axius Paulus is a letter of ‘mixed’ type (Ep. 5 Green).1 In the manuscript tradition through which this letter is transmitted, it appears as two blocks of prose, separated by ten lines of verse in the form of Archilochean distichs2 and followed by five lines of hendecasyllables. In practise, however, the first block of verse has routinely been excised by editors as an interpolation and transposed to Ausonius’ Bissula (a poetic cycle concerning a young Swabian ex-slave girl, with erotic implications), preserved through the same manuscript tradition and preceded by a prose letter of dedication similarly addressed to Axius Paulus. The excision was initially challenged by Pastorino, who did not, however, re-instate the passage in his 1971 edition of the works of Ausonius.3 Re-incorporation was undertaken by Mondin in his 1995 edition of the letters.4 Green’s edition of 1991 explicitly rejects Pastorino’s arguments,5 while the continuing omission of the passage in his revised text of 1999 suggests that he remains unconvinced.6 Most recently the case has been taken up and re-argued by Zucchelli.7 The case for inclusion will be made here from a slightly different perspective, that of metapoetic discourse.8 Specifically, it will be argued that the perceived similarities 1) R. P. H. Green (ed.), Decimi Magni Ausonii Opera, Oxford 1999, epist. xxvii. 5. 2) That is, hexameter followed by dactylic trimeter catalectic. 3) A. Pastorino (ed.), D. Magno Ausonio Opere, Turin 1971, 236. 4) L. Mondin (ed.), Decimo Magno Ausonio Epistole, Venice 1995, 8–9 = Ep. 3. 5) R. P. H. Green (ed.), The Works of Ausonius, Oxford 1991. 6) Green (as n. 1) 221–3. The omission seems more striking in view of the tribute to Mondin found in the preface. 7) B. Zucchelli, L’epistola 3 Mond. di Ausonio come preludio alla Bissula, Maia. Rivista di letterature classiche 52 (2000) 275–284. 8) The use of the term ‘metapoetry’ to imply conscious self-referral to the act of composition as defined, for example, by Laird (A. Laird, The Muses in epic reception, in: E. Spentzou/D. Fowler [eds.], Cultivating the Muse. Struggles for
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between Ep. 5 and the prose preface to the Bissula are rooted in imagery which can be related to traditional representations of composition and publication in general and to the nature of the Bissula as outlined above in particular. Further, it will be argued that this metapoetic significance can be extended to cover the disputed verses of the Bissula, thus offering a further confirmation of the authenticity of their presence.9 As presented by the manuscripts,10 Ep. 5 takes the following form:11 Versus meos utili et conscio sibi pudore celatos carmine tuo et sermone praemissis dum putas elici, repressisti; nam qui ipse facundus et musicus editionis alienae prolectat audaciam, consilio quo suadet exterret. tegat oportet auditor doctrinam suam, qui volet ad dicendum sollicitare trepidantem, nec emerita adversum tirunculos arma concutiat veterana calliditas. sensit hoc Venus de pulchritudinis palma diu ambiguo ampliata iudicio. pudenter enim ut apud patrem velata certaverat nec deterrebat aemulas ornatus aequalis; at postquam in pastoris examen deducta est lis dearum, qualis emerserat mari aut cum Marte convenerat, et consternavit arbitrum et contendentium certamen oppressit. ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter laboratus opuscula mea, quae promi studueras, retardasset, iam dudum ego ut palmes audacior in hibernas adhuc auras improbum germen egissem, periculum iudicii gravis inconsulta festinatione subiturus. denique pisonem,12 quem tollenonem13 existimo proprie a philologis appellatum, adhibere,14 ut iubebas, recenpower and inspiration in classical literature, Oxford 2002, 117–140, p. 126) is extended here to cover a prose letter of introduction accompanying or including part of a poem. 9) While Zucchelli argues on other grounds for Ep. 5 as a response to a demand for publication, the metaphors discussed here receive little attention, and there is no discussion of any relation with the verse of the Bissula. 10) That is the Z-group, comprising C (Padua, Capit. C. 64), K (London, Brit. Lib. King’s 31), M (Florence, Conv. Soppr. J. 6. 29), T (Leiden, Voss. Lat. Q. 107). See Green (as n. 5) xli. 11) Both prose and verse present a number of textual problems and have a complicated history of proposed emendations. The differences between Mondin and Green are slight and lie mostly in punctuation. I have opted to follow Green, inserting what appears there as the second verse preface to the Bissula (Green [as n. 1] Biss. xvii. 2, 1–10) into the text of his Ep. 5. The translation is my own. 12) Although this reading appears in three out of the four manuscripts, it has been the subject of considerable emendation. In fact, as Zucchelli points out, it can be plausibly explained. 13) Tollenonem, the emendation for tolle nomen proposed by Peiper, is followed also by Mondin. 14) The MSS adcrevi appears in Mondin with a crux. Adhibere, the emendation of Peiper, is accepted also by Zucchelli.
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ti versuum tuorum lectione non ausus, ea quae tibi iam cursim fuerant recitata transmisi. etenim hoc poposcisti atque id ego malui, tu ut tua culpa ad eundem lapidem bis offenderes, ego autem, quaecumque fortuna esset, semel erubescerem.
Carminis inculti15 tenuem lecture libellum, pone supercilium. seria contractis expende poemata rugis: nos Thymelen sequimur. Bissula in hoc schedio cantabitur, utque Cratinus16 admoneo ante bibas. ieiunis nil scribo; meum post pocula si quis legerit hic sapiet. sed magis hic sapiat, si dormiat17 et putet ista somnia missa sibi.18 Vide, mi Paule, quam ineptum lacessieris in verbis rudem, in eloquendo hiulcum, a propositis discrepantem, in versibus concinnationis expertem, in cavillando nec natura venustum nec arte conditum, diluti salis, fellis ignavi, nec de mimo planipedem nec de comoediis histrionem. ac nisi haec a nobis missa ipse lecturus esses, etiam de pronuntiatione rideres. nunc commodiore fato sunt, quod licet apud nos genuina apud te erunt adoptiva.
Vinum cum biiugo parabo plaustro, primo tempore Santonos vehendum, ovum tu quoque passeris marini, quod nunc promus ait procul relictum in fundo patriae Bigerritanae . . . While you thought that my verses, concealed by advantageous and conscious modesty, could be drawn forth by your poem and letter sent out in advance, you checked them; for one who himself eloquent and 15) In two of the MSS this appears as incompti. The sense, however, is unaffected. 16) This emendation for aut erasinus, first proposed by Dezeimeris, is followed also by Mondin. It has, however, been plausibly challenged, as will be seen later. 17) Sapiat . . . dormiat represent an emendation by Green of the sapiet . . . dormiet offered by the MSS. Mondin appears to accept the second emendation but to reject the first. The sequence of thought, which equates discernment with sleeping and dreaming, remains the same. 18) As indicated in Mondin’s apparatus, three of the manuscripts (KCT) follow this with a new heading as if indicating a fresh letter to Axius Paulus. This heading is omitted, however, from M.
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Gillian R. Knight poetic entices the audacity of another’s bringing forth, frightens off by the counsel by which he encourages. The listener who wishes to induce one who is afraid to speak should hide his learning, nor should veteran cunning brandish seasoned weapons against raw recruits. Venus realised this concerning the palm of beauty long delayed by doubtful judgement. For she had competed modestly veiled as before her father nor did equal apparel deter her rivals; but after the contest of the goddesses was brought to the examination of the shepherd, as she had come forth from the sea or come together with Mars, she both prostrated the judge and quelled the strife of those competing. Therefore if your Delirus worked not slightly in a slight matter had not held back my little works, which you had been eager to be brought forth, long since as an over-audacious vine-shoot, I would have brought forth an inferior bud into still wintry breezes, to undergo the peril of grave judgement with unadvised haste. At last, not daring to apply the piso, which I think is properly called the tolleno by the learned, as you ordered, in respect of the fresh reading of your verses, I have despatched those which had already been recited to you at a run. For you demanded this and I preferred that you by your own fault should strike a second time against the same stone, while I, whatever the fortune might be, would blush once. You who are about to read the slight writing of an uncultured poem, lay aside superciliousness. Weigh serious poems with furrowed brows: we follow Thymele. Bissula will be sung in this improvisation, and like Cratinus I admonish you to drink beforehand. I write nothing for those who are fasting; whoever after drinking reads my book will be wise. But he would be more wise, if he were to sleep and consider these things dreams sent to him. See, my Paulus, how foolish a one you have harried, rough in words, gaping in utterance, discordant from the proposition, in verses destitute of skilful composition, in raillery neither graceful by nature nor seasoned by art, of diluted wit and sluggish bile, neither a pantomime in respect of mime nor an actor in respect of comedies. And if you yourself were not going to read these things sent by me, you would laugh also at the manner of delivery. Now they have a more favourable fate, because although for me they are natural, for you they will be adoptive. I will prepare wine with a two-yoked wagon, to be conveyed to Saintes at the first opportunity, you also the egg of an ostrich, which now the steward says has been left far off in the estate of the homeland of Bigorre . . .
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In the face of the manuscript tradition, the onus of proof would seem to rest on those who would excise the block of verse in question. In his commentary, Green gives two reasons for adhering to the (standard) hypothesis of textual dislocation (a hypothesis which he himself characterises as ‘very odd’).19 The first, the inappropriateness of the wording of the criticism which follows, is effectively demolished by Mondin’s contention that the language functions in self-ironising contrast.20 Green’s second claim, that with it in place the closing hendecasyllables are deprived of any function, depends upon their identification with the poem being ‘demanded’ by Axius Paulus. As both Mondin21 and Zucchelli22 point out, these lines comprise an ‘invitation’ of a familiar type. The language of Ep. 5, however, suggests that something more unusual than a verse-epistle is in question.23 Mondin also makes the telling point that the removal of the Bissula verse robs the following encouragement to Axius Paulus, vide . . . quam ineptum, of its immediate point of reference.24 Of the arguments which have been put forward in favour of authenticity, the most convincing is the identification of certain linguistic and thematic similarities between Ep. 5 and the prose preface to the Bissula.25 Less satisfactory is a specific argument emanating from Pastorino,26 and developed in greater detail by Zucchelli,27 which turns on Ausonius’ use of the term tolleno (a mechanical device used to raise water from a well) as an apparent substitute for piso (attested from classical sources in the sense of mortar). Ausonius is said to be responding here to a demand from Axius Paulus that he rescue his poems (that is, the Bissula) from the oblivion into which he has cast them, as expressed through the 19) Green (as n. 5) 613. 20) Mondin (as n. 4) 79. 21) Ibid. 22) Zucchelli (as n. 7) 276. 23) See, for example, Pastorino who dismisses an earlier hypothesis that Ausonius is refering here to a verse epistle in mixed Latin and Greek (Pastorino [as n. 3] 236). 24) Mondin (as n. 4) 79. He points for comparison to Pliny, Ep. 4.27. 5. 25) As initiated by Pastorino, these comprise: hiding, modesty, roughness, handing over, blushing (Pastorino [as n. 3] 236–238). 26) Ibid. 237–238. 27) Zucchelli (as n. 7) 280–281. Mondin, however, seems altogether more sceptical (Mondin [as n. 4] 78).
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proverbial saying conicere aliquid in puteum, ‘to throw something into a well’. While Zucchelli argues convincingly for an extension of piso to represent some kind of complex pestle, worked like the tolleno on a (reciprocating) principle of raising and lowering, he provides no evidence for his contention that in popular usage the term had come to designate tolleno. In fact, in view of their different functions (grinding corn/raising water), it may seem more likely that Axius Paulus’ demand should be interpreted simply in terms of the reciprocity demanded by friendship. At the same time, Ausonius’ apparent substitution of tolleno may be linked to its usage elsewhere to designate an instrument of warfare,28 reflecting the prominent place allocated to military imagery at the start of Ep. 5. Finally, there is the small but potentially telling corroborative detail found in the first verse preface to the Bissula: ut voluisti, Paule, cunctos Bissulae versus habes,29 seeming to imply the receipt by Axius Paulus of a previous incomplete version.30 Before embarking on a detailed examination of the imagery, it seems desirable to lay out the epistolary parameters. The letter from Ausonius presents itself as responding to a request from Axius Paulus, underpinned by the sending of a carmen and sermo (probably an accompanying prose letter),31 for some (unspecified) versus of Ausonius. What follows suggests that the carmen is to be identified with Delirus tuus,32 set in opposition to opuscula mea. The hypothesis of equating these ‘little works’ with an implied Bissula mea is an attractive one.33 Zucchelli goes further, claiming that Axius Paulus has specifically requested the publication of the latter.34 Such specificity may, however, be problematic. The nature of epistolary 28) Livy, 24.34.10; 38.5.4. Zucchelli notes the military associations, but appears to dismiss them (Zucchelli [as n. 7] 280 n. 19). 29) Biss. xvii. 1. 1. 30) Pastorino (as n. 3) 237; Zucchelli (as n. 7) 283. 31) On the equivalence of sermo and ‘letter’ at this period see e. g. C. Conybeare, Paulinus noster, self and symbols in the letters of Paulinus of Nola, Oxford 2000, 25–26 and n. 34. 32) We can only speculate about what this was. The suggestion that it may have been quasi-theatrical in nature (Green [as n. 5] 612) seems tempting in view of the subsequent play on mimes and performance. 33) As Dräger points out, Ausonius’ reference to ‘all the verses of /on Bissula’ as given above points to an oscillation between ‘Bissula’ as (poetic) subject and ‘Bissula’ as title (P. Dräger [ed.], D. Magnus Ausonius, Mosella, Bissula, Briefwechsel mit Paulinus Nolanus, Düsseldorf/Zürich 2002, 185, 1.1). 34) Zucchelli (as n. 7) 276 and passim.
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dialogue, with its tendency towards fictionalisation and (mis)representation,35 makes any attempt to reconstruct the exact nature of Axius Paulus’ (missing) epistolary overtures from an interpretation of the (extant) response doubly problematic.36 While Ausonius’ letter is couched in dialogic terms which purport to be responding to his friend’s ‘demand’ (ut iubebas; hoc poposcisti), this forms part of a wider feature, taking the form of repeated attempts to ‘wrong-foot’ his correspondent. Thus the communication is said to have checked the very response it was intended to elicit,37 while Paulus’ choice of wording is reproved on the grounds of linguistic scholarship.38 While the ‘modesty’ may be related in part, as Zucchelli argues, to conventional manifestations in late antiquity of reluctance to ‘publish’,39 the wrong-footing can equally be read as an expression of amicitia iocosa, ‘joking friendship’.40 As will be seen, the concept of ‘making public’ is certainly present in the imagery of both letters, but the ambiguity of the language leaves it unclear where exactly this should be placed on the scale between ‘quasi-private’ exchange between friends and full-blown exposure to the ‘public’ arena. In Ep. 5, the central metaphor is that of ‘publication’ as participation in a form of competition.41 It is preceded by an opposition which pits Ausonius as (poetic) tiro against Axius Paulus as (poetic) veteran.42 Seemingly set up as a compliment to the latter’s 35) The classic work on epistolarity is that of Altman (J. G. Altman, Epistolarity: approaches to a form, Columbus 1982). 36) In relation to the ‘water from a well’ hypothesis, for example, both Pastorino and Zucchelli go so far as to insert actual words into Axius Paulus’ mouth (Pastorino [as n. 3] 237; Zucchelli [as n. 7] 281). 37) dum putas elici . . . repressisti; ergo nisi Delirus tuus . . . opuscula mea . . . retardasset . . . 38) quem . . . existimo . . . proprie a philologis appellatum . . . 39) Zucchelli (as n. 7) 283 and n. 38. 40) While the term was coined in relation to the twelfth century, the phenomenon can be traced back earlier. See, for example, the distinction between familiare et iocosum and severum et grave as epistolary types (Cicero, Fam. 2.4.1). 41) Compare the presentation of (public) recitation as a (wrestling) contest necessitating an intermission: . . . luctantis acuto ne secer ungui, /‘displicet iste locus’, clamo et diludia posco. / ludus enim genuit trepidum certamen et iram . . . (Horace, Ep. 1.19.46–48). 42) The same opposition appears in a (prose) letter from Ausonius to Symmachus, where the latter, despite being a ‘tiro’, is said to have earned at the imperial court the ‘rewards of veteran warfare’, whilst Ausonius, a ‘veteran’, is said to have exercised the condition of a ‘new recruit’ (Ausonius, Ep. 12 Green [as n. 1] 232–3). See Mondin (as n. 4) 23.
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superiority in experience and skill, it can in fact be seen as an extension of the wrong-footing through the construction of his request as a form of inappropriate (and ultimately self-defeating) ‘challenge’. ‘Veteran artfulness’ should not ‘brandish seasoned weapons’ (emerita . . . arma concutiat)43 against ‘raw recruits’ (tirunculos).44 Within this metaphorical framework come two subsidiary linguistic nexuses which further emphasise Ausonius’ poetic ‘inadequacy’, that of ‘shame’, ‘modesty’ (conscio . . . pudore; pudenter; erubescerem), and that of ‘boldness’, ‘daring’ (audaciam; audacior; non ausus). At one remove from the standard forms of modesty topos found in Christian writing,45 this type of playfulness, neatly dubbed in relation to Ausonius’ society modestia nugatoria by La Penna,46 as demonstrated for example in the prose preface to the Griphus,47 is at once self-deprecating and boastful. There may be more to it than simple play, however. In its most developed form, it can be seen to comprise a complex and highly self-conscious manipulation of metapoetic discourse, as in the prose preface to the Bissula, where, as will be seen, warfare and modesty combine to present publication as a form of (sexual) ‘violation’ (verecundiae meae scilicet spolium concupisti) on the part of Axius Paulus. The notion of ‘publication’ as competition (iudicio; certaverat; lis; certamen) is formulated here in terms of a ‘beauty contest’ through a specific analogy with the judgement of Paris (pastoris ex43) For the expression arma concutere compare Ovid, Met. 1.143; 7.130. 44) A similar opposition is used by Jerome in his correspondence with Augustine but to opposite effect, as Augustine is warned to steer clear of theological debate through an allusion to the defeat of the arrogant young challenger Dares at the hands of the experienced Entellus (Jerome, Ep. 102.2 in: I. Hilberg [ed.], CSEL 55, Vienna 1996, 236). As a ‘veteran’, Jerome claims the right to enjoy his retirement, while Augustine is encouraged to seek out younger opponents (Ep. 105.3, ibid. 244). 45) See A. Garzya, L’epistolografia letteraria tardoantica, in: Le trasformazioni della cultura nella Tarda Antichità. Atti del Convegno (Catania, 1982) I, Rome 1985, 347–373, p. 356. 46) A. La Penna, Il ‘lusus’ poetico nella tarda antichità. Il caso di Ausonio, in: Storia di Roma III 2, Turin 1993, 731–751, p. 745. 47) Ausonius, Griphus Ternarii Numeri. Pref. in: Green (as n. 1) xv. 120–122. Addressed by Ausonius to Symmachus, this preface displays several points of contact with Ep. 5. The poem, libellus ignobilis, is initially depicted as ‘lurking’ (latebat inter nugas meas), described in Catullan parody as illepidum et rudem, and characterised as nugator.
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amen; pulchritudinis palma), and developed through a verbal link between the verses ‘concealed’ (celatos) through self-conscious ‘modesty’ (pudore) and Venus, said to have competed initially ‘modestly . . . veiled’ (pudenter . . . velata). The underlying notion, that the verses are expected to ‘strip’ and display themselves ‘naked’ to public gaze (qualis emerserat mari aut cum Marte convenerat)48 seems to draw on the trope of ‘publication’ as a form of venal display aimed at wooing the public, as enshrined in Catullus’ sending out of his smart new little book49 and Horace’s warning to his wanton book of epistles.50 The trope is favoured by Martial51 (one source for the disputed verses of the Bissula), in whose work one particular inversion may merit comparison. Martial’s ‘address’ to his book instructs it to learn to speak ‘more purely’, ‘from a modest mouth’, while the patronage of ‘naked Venus’ is dismissed in favour of that of (chaste) Minerva.52 The presentation of the poem as ‘prostitute’ together with the concomitant reduction of the role of the poet to that of ‘pimp’, as discussed recently, for example, by Fear,53 can be seen here as a further means of wrong-footing the hapless Axius Paulus. In the prose preface to the Bissula, the metapoetic discourse is built around the metaphor of profanation of the Mysteries: 48) The trapping and putting on display of the adulterous lovers is memorably depicted in the Odyssey, where the subsequent bathing, anointing and dressing of Aphrodite by the Graces points towards her previous state of nakedness (Od. 8.364–66). The birth of Venus from the sea was enshrined in the artistic depiction of Venus Anadyomene, as recalled, for example, by Ovid, nuda Venus madidas exprimit imbre comas (Ovid, Ars Am. 3.224; cf. also nuda Dione, Ovid, Amor. 1.14.33–34). 49) Cui dono lepidum novum libellum/arida modo pumice expolitum? (Catullus, 1.1–2). On the potential for sexual innuendo behind the notion of ‘smoothing, polishing’ with pumice, see W. Fitzgerald, Catullan Provocations, Berkeley 1995, 40–1 and p. 252 n. 29. Ovid similarly plays on the idea of removing unsightly ‘hair’ (hirsutus; sparsis . . . comis) (Ovid, Trist. 1.11–12). 50) odisti [sc. liber] clavis et grata sigilla pudico . . . (Horace, Ep. 1.20.3). See E. Oliensis, Life after publication: Horace, Epistles 1.20, Arethusa 28 (1995) 209– 224. 51) See e. g. Martial, Epigrams 1.3; 3.2; 3.68; 4.10; 4.86. 52) Laurigeros domini, liber, intrature penates/disce v e r e c u n d o sanctius ore loqui./n u d a recede Ve n u s ; non est tuus iste libellus:/tu mihi, tu, Pallas Caesariana, veni (Mart. Epig. 8.1). 53) T. Fear, Poet as pimp: elegiac seduction in the time of Augustus, in: T. Fear (ed.), Fallax opus: approaches to reading Roman elegy, Arethusa 33.2 (2000) 217–240.
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Gillian R. Knight Pervincis tandem et operta musarum mearum, quae initiorum velabat obscuritas, quamquam non profanus irrumpis, Paule carissime. quamvis enim te non eius vulgi existimem quod Horatius arcet ingressu, tamen sua cuique sacra, neque idem Cereri quod Libero, etiam sub isdem cultoribus. poematia quae in alumnam meam luseram rudia et incohata ad domesticae solacium cantilenae, cum sine metu 54 et arcana securitate fruerentur, proferri55 ad lucem caligantia coegisti. verecundiae meae scilicet spolium concupisti aut quantum tibi in me iuris esset ab invito indicari. ne tu Alexandri Macedonis pervicaciam supergressus, qui fatalis iugi lora cum solvere non posset abscidit et Pythiae specum quo die fas non erat patere penetravit. utere igitur ut tuis, pari iure, sed fiducia dispari; quippe tua possunt populum non timere, meis etiam intra me erubesco. vale.56 You conquer at last and although not uninitiated, dearest Paulus, burst into the secret places of my muses, which the darkness of sacred mysteries veiled. For although I would not judge you of that rabble which Horace bars from entrance, each has his own rites, nor is it the same for Ceres as for Liber, even under the same celebrants. You have compelled the rough and imperfect verses which I had composed on my fosterdaughter for the solace of private song, while they were lying hidden without fear and enjoying concealed safety in darkness, to be brought forth to the light. Undoubtedly, you lusted after the spoil of my modesty or for it to be revealed by one unwilling how much authority you had over me. Indeed you have exceeded the wilfulness of Macedonian Alexander, who when he could not loose the reins of the fated yoke cut them and penetrated the cave of the Pythia on a day it was not lawful for access. Use them, therefore, as yours, with equal authority but unequal confidence; for yours can be unafraid of the public, but I blush for mine even within myself. Farewell.
Dräger, building on the link between the second verse preface (the ten lines found in Ep. 5) and the anonymous and obscene Carmina Priapea (a collection of verses in celebration of the fertility god Priapus), sees an allusion here to the (erotic) ‘mysteries’ of the fertility deity Priapus.57 In fact, the clear signalling of the Horatian pose of poet-celebrant (Musarum sacerdos),58 would seem to suggest that the primary significance is metapoetic.59 Indeed, throughout 54) This represents Peiper’s emendation for sine metu et of the MSS. 55) This form is offered by three of the manuscripts while the fourth has the alternative proferre. The meaning is not essentially affected. 56) Bissula, Praef. 1–16 in: Green (as n. 1) xvii. The translation is my own. 57) Dräger (as n. 33) 184. 0.1; 285. 58) Odi p r o f a n u m volgus et a r c e o ; / favete linguis: carmina non prius/audita Musarum sacerdos / virginibus puerisque canto (Hor. Carm. 3.1.1–4). Arceo finds a further echo in the phrase arcana securitate. 59) Pastorino puts this slightly differently, to the effect that the practice of poetry is being compared to initiation into the mystery cults (Pastorino [as n. 3]
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his discussion Dräger seems to flirt with the notion of metapoetics without ever quite pinning it down as such, as in his rendition of operta musarum as ‘temple of (my) Muses’60 and his claim of a further link with the Priapea through the equation there of ‘temple’ with ‘book’.61 Further metapoetic indications may lurk in the statement that ‘each (deity) has their own rites . . . even under the same worshippers/priests’, perhaps inverting the Ovidian claim that all poets share ‘common rites’ (communia sacra).62 The reference to Ceres and Liber may exploit an opposition between ‘silence’ and ‘speech’,63 finding an echo here in the contrast between ‘private’ and ‘public’ (domesticae . . . cantilenae; populum . . . timere). At the same time, erotic associations are also present. The accusation of transgression (operta . . . irrumpis) is made explicit through the analogy with Alexander ‘irreligiously/unlawfully penetrating’ the cave of Apollo’s prophetess, in terms which appear to reinforce the notion of (sexual) violation as discussed earlier, while it is Ovid again who suggests that the rites of Venus should be veiled in silence.64 Linked with the metaphor of the Mysteries in the prose preface is a recurring opposition between ‘light’ and ‘darkness’, ‘concealment’ and ‘revelation’ (operta; obscuritas; caligantia/ proferri (-e) ad lucem).65 In Ep. 5 the opposition is developed through the language of ‘bringing forth’ (dum putas elici; editionis alienae; quae promi studueras) and culminates in a metaphor borrowed from 606). This picks up one side of the equation but seems to obscure the role of poetpriest. 60) Dräger (as n. 33) 184. 0.1; 285. The phrase offers a parallel with the subsequent reference to the ‘cave of the Pythia’, presumably the underground chamber beneath the temple at Delphi. 61) Priapus is asked to look favourably upon quidquid id est, quod otiosus/templi parietibus tui notavi, that is, these poems (Priapea, 2.9–10 in: F. Bücheler [ed.], Petronii Saturae et Liber Priapeorum, Berlin 1922). See Dräger (as n. 33) 184. 0. 1. 62) E. g. sunt tamen inter se communia sacra poetis,/diversum quamvis quisque sequamur iter (Ovid, Pont. 2.10.17–18); sunt mihi vobiscum communia sacra, poetae, /in vestro miseris si licet esse choro (ibid. 3.4.67–68). 63) The Eleusinian mysteries demand the first (e. g. Hor. Carm. 3.2.26–27), wine provokes the second (e. g. ibid. 3.21.14–16). 64) praecipue Cytherea iubet sua sacra taceri . . . (Ars Am. 2.607). Just previously he has asked, quis Cereris ritus ausit v u l g a r e p r o f a n i s . . . ? (ibid. 601). 65) On initiation as transition from darkness into light see e. g. Seaford (R. Seaford, Dionysiac drama and the Dionysiac mysteries, Classical Quarterly 31 [1981] 252–275).
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husbandry, as Ausonius likens himself to a precocious ‘vine-shoot’ which would have produced an unseasonable and inferior ‘bud’ (in hibernas adhuc auras improbum germen egissem) had the action not been averted through the interference of his friend. Again, the associations may be metapoetic as, for example, in Catullus 65, where the imagery of procreation and childbirth seems to hover somewhere between the notion of poetic creativity and that of publication.66 In turn, it can be seen as paving the way in Ep. 5 for the more familiar form of the trope, that of poet-father/poemchild67 (as introduced by the earlier reference to Venus’ initial modesty ut apud patrem), in terms of the verses’ ‘adoption’ by Axius Paulus (apud nos genuina / apud te . . . adoptiva). Like Ep. 5, the prose preface may partake simultaneously of humility and of arrogance, as illustrated by the juxtaposition of the (self-ironising) rudia, ‘inexperienced’, ‘rough’,68 with the (poetically knowing) luseram, connoting both poetic composition and amorous dalliance.69 Ausonius’ Bissula may be both too naive and too sophisticated to enter the public arena. It can be argued, accordingly, that the communality shared by Ausonius’ Ep. 5 and the prose preface to the Bissula is based on a form of metapoetical discourse which exploits the interface between (private) creativity and (public) dissemination through metaphors which play on ‘publication’ as a loss of virginal innocence. This communality can be shown to extend beyond the prose letters into the disputed lines from the Bissula. Cast in the form of an address to the ‘reader’ (lecture), they can be seen to explore the same ground but from the opposite viewpoint, shifting the focus from composition to reception and the burden of responsibility for 66) non potis est dulcis Musarum expromere fetus/mens animi (Cat. 65.3–4); mitto/haec expressa tibi carmina . . . (ibid. 15–16). See Fitzgerald (as n. 49) 192–193 and p. 281 n. 10. 67) For example, Martial advises a would-be plagiarist to seek out hitherto unpublished work, in terms of a ‘virginal sheet’ ‘known’ only to its ‘father’: secreta quaere carmina et rudes curas/quas novit unus scrinioque signatas/custodit ipse virginis pater chartae (Mart. Epig. 1.66.5–7). See M. Citroni, Le raccomandazioni del poèta: apostrofe al libro e contatto col destinatorio, Maia 38 (1986) 111–146. 68) A similar play on ‘roughness’ and (sexual) ‘inexperience’ may perhaps be found in Martial: hoc me frigore basiet nec uxor/blandis filia nec r u d i s labellis (Mart. Epig. 7.95.7–8). 69) For the first, compare e. g. Virgil, Ecl. 110; Ovid, Amor. 3.1.27; for the second, compare e. g. Ars Am. 2.389; Mart. Epig. 11.104. 5.
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the success of the poem from poet to reader. It will be argued in what follows that this shift of focus is maintained throughout the verse as tropes concerned with poetic inspiration and composition are seemingly re-allocated from poet to audience. The tone is set by the opening request to ‘set aside supercilious disapproval’ (pone supercilium), which conflates the opening distich of the Priapea,70 so setting up an expectation of erotica, with Martial’s dedicatory epigram to the emperor Domitian.71 The claim to be ‘following Thymele’ (Thymelen sequimur), representing a further appropriation from the same Martial context,72 serves to further this expectation.73 Martial frequently tropes his poems as ‘mimes’, thus simultaneously deprecating and revelling in their indecency.74 As pointed out by Mondin, the allusion signals the intention of Ausonius to be ‘lively and salacious’ and more than a little ‘histrionic’,75 and can be seen to give spice and point to the disclaimer in the prose which follows that he is no ‘mime artist’ or ‘(comic) actor’.76 It may seem, then, that the stress in both Ep. 5 and the prose preface on the shame/modesty of the poem, together with the act of blushing attributed to the poet (ego . . . semel erubescerem; meis 70) C a r m i n i s i n c o m p t i lusus l e c t u r e procaces, /conveniens Latio p o n e s u p e r c i l i u m (Priap. 1.1–2). As Mondin points out, this allusion may explain the appearance in two of the MSS of incompti for inculti (Mondin [as n. 4] 79–80). 71) contigeris nostros, Caesar, si forte libellos, / terrarum dominum p o n e s u p e r c i l i u m (Mart. Epig. 1.4.1–2). The issue of priority between the Priapea (variously dated to between BC 31 and AD 100) and Martial is not relevant here. 72) qua Thymelen spectas derisoremque Latinum,/illa fronte precor carmina nostra legas (Mart. Epig. 1.4.5–6). 73) Whether Thymele is to be identified with an individual actress from the period of Domitian as claimed by Mondin (Mondin [as n. 4] 79) or with a stock character as claimed by Green (Green [as n. 5] 516) makes little difference. The primary association is clearly with the ‘indecency’ associated with mime, as demonstrated, for example, in Juvenal, 6.65, which turns on the performance of an effeminate mime artist impersonating Leda and the swan: attendit Thymele; Thymele tunc rustica discit. Even Thymele, it implies, has something to learn. See Dräger (as n. 33) 186. 2. 3. 74) E. g. epigrammata illis scribuntur qui solent spectare Florales. non intret Cato theatrum meum, aut si intraverit, spectet . . . (Mart. Epig. 1. Praef. 16–18); cur in theatrum, Cato severe, venisti? (ibid. vv. 3); audieris [sc. parve liber] cum grande sophos, dum basia iactas . . . (Epig. 1.3.7). See M. Citroni (ed.), M. Valerii Martialis, Epigrammata Liber 1, Florence 1975, 32; P. Howell (ed.), Commentary on Book One of the Epigrams of Martial, London 1980, 115. 75) Mondin (as n. 4) 79. 76) . . . nec de mimo planipedem nec de comoediis histrionem.
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. . . intra me erubescerem),77 is to be understood both figuratively and literally. Ausonius is ‘embarrassed’ alike by the poetic inadequacy of the poem and by its sexual connotations.78 What follows is built around two tropes normally associated with poetic composition but here inverted to fit into the scheme of instruction to the ‘reader’. The first turns on the traditional association between wine and poetic inspiration (admoneo ante bibas; post pocula). Utque Cratinus, ‘and like Cratinus . . .’, as accepted by both Green and Mondin, represents an emendation of the aut erasinus of the manuscripts. The explanation offered, that it constitutes an allusion to the traditionally inebriated state of that writer of Greek Old Comedy,79 brings out the significance of the point at issue but presupposes considerable disruption of the text. Dräger maintains the manuscript reading, Bissula in hoc schedio cantabitur, haut (= haud) Erasinus, explained in terms of a claim that ‘hot’ erotic poetry rather than the ‘chilly’ river celebrated in epic will provide the subject-matter for what follows.80 Dräger’s reading is probably the more satisfactory, as involving the least textual disruption. As Mondin demonstrates, however, the exhortation to ‘drink’ is best explained by comparison with the prose preface to the Griphus,81 where Ausonius claims that it is unjust for a ‘sober’ reader to pass judgement on an ‘inebriated’ poet.82 The conceit which follows doubles the notion of inspiration through intoxication with that of poetic composition as a ‘dream’ 77) Dräger links the second of these with the red-painted phallus of Priapus (Dräger [as n. 33] 185. 4.3). The allusion, however, seems slightly forced. 78) This ‘embarrassment’ is attributed by della Corte to Ausonius’ foolishness as (infatuated) amator senex (F. della Corte, Opuscula vii, Genoa 1983, 251– 259, p. 21). Dräger, on the other hand, presents the relationship in terms of sexual initiation, of an immature virguncula by an older and experienced Priapus figure (Dräger [as n. 33] 285–6). 79) As echoed by Horace: prisco si credis . . . Cratino/nulla placere diu nec vivere carmina possunt/quae scribuntur aquae potoribus (Hor. Ep. 1.19.1–3). Green’s (rather odd) comment to the effect that Ausonius would appear to have ‘badly misunderstood’ this (Green [as n. 5] 516) is convincingly countered by Mondin, who points rather to ‘witty re-interpretation’ (Mondin [as n. 4] 80). 80) Dräger (as n. 33) 186. 2. 5. For gelidus as a stock epithet, see Stat. Theb. 1.357; Sen. Ag. 317. 81) Mondin (as n. 4) 80. 82) sed tu quoque hoc ipsum paulo hilarior et dilutior lege; namque iniurium est de poeta male sobrio lectorem abstemium iudicare (Aus. Griph. Praef. 31–33). The point may be acknowledged in Dräger’s rendition of ieiunis nil scribo as “für Nüchterne schreibe ich nichts” (Dräger [as n. 33] 55).
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(dormiat; somnia), ‘dreamed up’, as it were, by the poet. This metapoetical usage can be illustrated from Roman Comedy, where it can be seen to form part of a wider metatheatrical, or perhaps better, metacompositional awareness.83 Rather than reducing the metaphors of intoxication and dream to a straightforward demand for the suspension of critical judgement, as Mondin suggests,84 it may seem preferable to see them as a playful tweaking of the concept of ‘reciprocity’ viewed through the ironising lens of modestia nugatoria. The ‘reader’, in this case the fellow-poet Axius Paulus, is being required to match the state of inspirational ‘intoxication’ of the author. Only in this way, it is implied, can the poems truly be understood and appreciated. It may be noted that in the first verse preface to the Bissula, Ausonius appears to turn against Axius Paulus another standard metaphor for poetic composition exploited by Roman Comedy, that is, the metaphor of ‘cooking up’ a plot.85 Axius Paulus is advised, in an adaptation of Terence,86 tibi quod intristi, exedendum est, he must ‘eat up’ what he has ‘pounded’,87 that is, he must put up with the shortcomings of the poetic ‘dish’ which he has compelled Ausonius to cook and serve. Taken together, the allusions to ‘eating’, ‘drinking’ and ‘sleeping’ may conjur up the picture of a ‘feast’, an image which, as will be seen, may have particular relevance to what follows here. There remains the question of what function is to be attributed to the (seemingly truncated) hendecasyllables found at the end of Ep. 5. In view of their apparent mutilation, it might seem tempting to argue for the thesis of displacement, but as with the Bissula verses this would fly in the face of manuscript tradition. As Green points out, these verses contain (some) of the features char83) E. g. to figure the illusions and delusions of (the) plot(s) in Plautus’ Miles Gloriosus: claimed by Philocomasium, hac nocte in somnis ... (Mil. 383, cf. ibid. 385); reclaimed by Palaestrio, Palaestrionis somnium (ibid. 386; cf. praesens somnium, ibid. 394.) See S. A. Frangoulidis, Palaestrio as playwright: Plautus, Miles Gloriosus 209–212, in: C. Deroux (ed.), Studies in Latin Literature and Roman History 7, Brussels 1994, 72–86, pp. 76–77. 84) Drink is said to be invoked not as a vehicle of inspiration but rather as a ‘sort of anaesthetic for the mind’ (Mondin [as n. 4] 80). 85) See E. Gowers, The loaded table. Representations of food in Roman literature, Oxford 1993, 50–108. 86) tute hoc intristi: tibi omnest exedendum . . . (Ter. Phorm. 318). Phormio has master-minded the plot; now he must deal with the consequences. 87) Biss. xvii 1. 5.
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acteristic of an invitation, that is, mention of travel, a destination and (part of) a menu.88 According to Zucchelli, the addition here of an invitation can be seen as supplying a discourse on a totally different subject with an ending more typical of the ‘friendship-letter’.89 In fact, as regards the epistolary interchange between Ausonius and Axius Paulinus, the primary association of the (verse) invitation seems to be as much with poetry as with friendship. Five such verse-epistles are offered by Green,90 reduced to four by Mondin, who presents 7 and 8 as a single entity.91 In each case, the ‘invitation’ is seemingly linked, as here, with some kind of (projected) poetic exchange.92 In addition, Ausonius’ offer of supplying the ‘wine’ (vinum . . . parabo) may have particular relevance for Ep. 5. At one level, it can be seen to pick up the demand for the ‘intoxication’ of the reader, as discussed above. At the same time, there is a possibility that ‘wine’ should be seen as standing in figurative terms for ‘poetry’, as has been argued in relation to Horace (a major influence on the poetry of Ausonius).93 If so, it can perhaps be seen as standing here for the Bissula itself. To recap, it has been argued that the linguistic and thematic similarities diagnosed between Ep. 5 and the prose preface to the Bissula are rooted in metapoetic conceits linked with the motif of ‘publication’, as beauty competition on the one hand and profanation of the Mysteries on the other, with associated notions of 88) Green (as n. 5) 613. In view of this, his claim that they are to be identified with the subject of Ep. 5 may seem surprising. 89) Zucchelli (as n. 7) 276. 90) Ausonius, Epp. 2, 4, 6, 7, 8. 91) Ep. 7 is a distich in Greek comprising salutation and injunction to ‘hasten’. It appears in two out of the four manuscripts where, Mondin argues, it has been wrongly detached from what follows. If restored to the beginning of Ep. 8, it can be seen to counterbalance a mostly Latin valediction, which in turn follows a substantial block of Greek. See Mondin (as n. 4) 180. 92) perfer in excursu . . . nobiscum invenies . . . (Ep. 2 in: Green [as n. 1] 11– 13). This recurs with variations: . . . tota cum merce tuarum / veni Camenarum citus/ . . . nobiscum invenies . . . (Ep. 4, ibid. 35–41); attamen ut citus venias . . . / historiam mimos carmina linque domi . . . / nobiscum invenies . . . (Ep. 8, ibid. 21–25). The remaining invitation poem (a Latin-Greek hybrid) recommends that Axius Paulus seek ‘coaxing consolation’ with a ‘fellow-attendant of your Muses’, that is, Ausonius (Ep. 6, ibid. 38–39). 93) As, for example, in Odes 1.20 where Maecenas is offered a ‘modest Sabine wine’ stored in a ‘Greek jar’. See B. Pavlock, Horace’s invitation poems to Maecenas: gifts to a patron, Ramus 11 (1982) 79–98.
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shameless display and violated innocence. It has been argued further that the incorporated verse of the Bissula likewise demonstrates a preoccupation with metapoetics through the transference of two metaphors associated with poetic composition (intoxication and dreaming) from poet to reader and through the troping of poetry as ‘mime’. One final point of interest may arise from the reference there to hoc schedium. As Mondin points out, this term borrowed from Greek appears to be associated with the activity of extemporisation, improvisation.94 Its use here may serve to connect the Bissula with the Griphus, allegedly composed in the course of a dinner-party,95 suggesting that this poem should also be seen as having been undertaken in the course of a similar entertainment. Rather than concurring with the suggestion of Mondin that Ep. 5 accompanied a first draft of the Bissula,96 it seems possible that the work should be seen as having advanced no further than its promissory verse, improvised and ‘recited at a run’, as replicated here (ea quae tibi iam cursim fuerant recitata transmisi). In other words, it may be that Ep. 5 should be seen as offering merely the parody of a dedicatory letter and as comprising an elaborate joke between fellow-poets. Reading
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94) Mondin (as n. 4) 80. The sense of improvisation emerges most clearly from its use in Apuleius, where it appears in a passage which begins qui me voluistis dicere ex tempore . . . and where it is followed by an opposition between repentinus and praeparatus (Apuleius, [De deo Socratis Prologus] I, in: C. Moreschini [ed.], Apulei Platonici Madaurensis opera quae supersunt, 3, Stuttgart 1991, 1–2). 95) coeptos inter prandendum versiculos ante cenae tempus absolvi (Aus. Griph. Praef. 28–29). 96) Mondin (as n. 4) 79. He also suggests there that this verse may have been specially composed for Ep. 5. Zucchelli, on the other hand, argues that it was integral to the Bissula but subsequently replaced by two new prefaces, one prose, one verse (Zucchelli [as n. 7] 284).
DIE DEUTUNG DER VERGILISCHEN SCHIFFBRUCHSZENE (AENEIS 1) DURCH FABIUS PLANCIADES FULGENTIUS Ein Beitrag zur allegorischen Methode in der Expositio Virgilianae continentiae Im 5. oder 6. Jahrhundert n. Chr. verfasste der vermutlich aus Nordafrika stammende Christ Fabius Planciades Fulgentius1 eine knappe Allegorese der vergilischen Aeneis, die Expositio Virgilianae continentiae secundum philosophos moralis.2 Die Nüchternheit des Stoffes wird durch eine streckenweise humorvolle dialogische Einkleidung aufgelockert. Fulgentius erscheint der Schatten Vergils, der ihm den Inhalt (continentia) seines Hauptwerks vom ersten bis zum letzten Buch allegorisch ausdeutet: Der verborgene Sinn der Aeneis besteht demzufolge in der Darstellung der physischen und geistig-moralischen Entwicklung des Menschen von Geburt an; die Teile des vergilischen Epos entsprechen dabei den Stufen des menschlichen Lebens.3 Obwohl es sich bei der Expositio um die erste erhaltene durchgehende Aeneis-Allegorese handelt, ist die schmale, aber zuweilen schwer verständliche Schrift wissenschaftlich noch lange nicht befriedigend erschlossen. Bis vor kur1) Zum Problem der Identität mit dem Bischof Fulgentius von Ruspe (467– 532) und zur Datierung vgl. jetzt die umfassende Auseinandersetzung von B. G. Hays (The date and identity of the Mythographer Fulgentius, Journal of Medieval Latin 13, 2003, 163–252), der im Gegensatz zur bisherigen communis opinio zu dem Schluss kommt, dass der Mythograph Coripps Johannis (um 550) kannte und deshalb nach dem Tod des Bischofs geschrieben haben muss. Zur bisher üblichen Datierung in die 2. Hälfte des 5. Jh. oder die 1. Hälfte des 6. Jh. (auf jeden Fall vor das Ende der Vandalenherrschaft im Jahr 533) vgl. Stokes (wie Anm. 5) 45–55; P. Langlois, Fulgentius, RAC VIII (1972) 632–661, hier 639 f.; F. Bertini, Fulgenzio, EV II (1985) 603–605, hier 603. 2) Das Werk umfasst in der heute noch maßgeblichen Ausgabe von R. Helm (Leipzig 1898, Nachdr. mit Ergänzungen von J. Préaux, Stuttgart 1970) knapp 25 Seiten. 3) Ein Überblick über den Aufbau der Expositio findet sich bei G. RaunerHafner, Die Vergilinterpretation des Fulgentius. Bemerkungen zu Gliederung und Absicht der Expositio Vergilianae continentiae, MLatJb 13, 1978, 7–49, hier 35.
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zem existierte noch nicht einmal eine Konkordanz zu Fulgentius.4 Ein Kommentar fehlt, es gibt lediglich einige annotierte Übersetzungen ins Englische und Italienische;5 noch ungedruckt ist die Dissertation von B. G. Hays.6 So harrt bisher auch die allegorische Deutung des Schiffbruchs im ersten Buch der Aeneis (p. 91,6–18) einer überzeugenden Erklärung, wie zuletzt G. Huber-Rebenich bei einer Musterung der bisher vorgeschlagenen Interpretationen konstatiert hat.7 Hier soll nun ein neuer Deutungsversuch unternommen werden, der vor allem den problematischen, die ganze Allegorie entschlüsselnden Satz Virg. cont. p. 91,16–18 zu erhellen sucht. Die fragliche Passage lautet in der Ausgabe von R. Helm wie folgt:8 Naufragium posuimus in modum periculosae natiuitatis, in qua et maternum est pariendi dispendium uel infantum nascendi periculum. In qua necessitate uniuersaliter humanum uoluitur genus. Nam ut euidentius hoc intellegas, a Iunone, quae dea partus est, hoc naufragium generatur. Nam et9 Eolum inmittit; Eolus enim Grece quasi eonolus, id 4) Diese Lücke wurde jetzt geschlossen durch die zweibändige Concordantia Fulgentiana von M. Manca, Hildesheim 2003. Für diese Konkordanz wurden alle Werke der Helmschen Edition (vgl. Anm. 2) berücksichtigt (Mythologiae, Expositio Virgilianae continentiae, De aetatibus mundi et hominis, Expositio sermonum antiquorum, Super Thebaiden). 5) T. A. McVeigh, The allegory of the poets. A study of classical tradition in medieval interpretation of Virgil, Diss. Fordham Univ. 1964, 201–224; L. C. Stokes, Fulgentius and the Expositio Virgilianae Continentiae, Diss. Tufts Univ. 1969, 71– 111 (Stokes’ Übersetzung findet sich auch in: CF 26, 1972, 27–63); L. G. Whitbread, Fulgentius the Mythographer, Diss. Ohio State Univ. 1971, 119–135; T. Agozzino/F. Zanlucchi, Fabio Planciade Fulgenzio. Expositio Virgilianae Continentiae, Padua 1972, 41–69; O. B. Hardison, in: A. Preminger u. a. (Hrsg.), Classical and medieval literary criticism. Translations and interpretations, New York 1974, 329– 340; F. Rosa, Fulgenzio. Commento all’Eneide, Mailand 1997, 47–81. Die von Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 87 erwähnte eigene Übersetzung scheint nie veröffentlicht worden zu sein. 6) B. G. Hays, Fulgentius the Mythographer, Diss. Cornell Univ. 1996 (mir nicht zugänglich). 7) G. Huber-Rebenich, Die Expositio Virgilianae continentiae des Fulgentius, in: H.-J. Horn/H. Walter (Hrsg.), Die Allegorese des antiken Mythos, Wiesbaden 1997, 85–95, hier 91 f. 8) Virg. cont. p. 91,6–18 (der Sprecher ist Vergil). Im Folgenden ohne Nachweis zitierte Stellen stammen aus dieser Passage. 9) Vor Vergils allegorischer Deutung hatte der andere Unterredner (also Fulgentius) den Inhalt des ersten Buches kurz zusammengefasst (p. 90,21–91,4). Mit nam et scheint Vergil/Fulgentius jeweils die Allegorese eines neuen Punktes dieser Inhaltsangabe einzuführen, zu verstehen ist also etwa: „Was aber die Tatsache (den
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Thorsten Burkard est saeculi interitus [. . .]10 Nam uide quid etiam ipso11 Eolo promittatur. Deiopea in coniugium; demos enim Grece puplicum dicitur, iopa uero oculi uel uisio; ergo nascentibus in mundo seculare est periculum; cui quidem perfectioni<s>12 puplica a dea partus promittitur uisio.
Anstelle einer Übersetzung sei die Passage kurz paraphrasiert: Fulgentius deutet den vergilischen Schiffbruch als Allegorie für die Gefahren bei der Geburt (in modum periculosae natiuitatis),13 die das ganze Menschengeschlecht bedrohen (in qua necessitate uniuersaliter humanum uoluitur genus), sowohl die Mütter als auch die Neugeborenen (et maternum est pariendi dispendium uel infantum nascendi periculum).14 Diese Gefahren werden von Juno, der Göttin der Geburt, heraufbeschworen, die den Windgott Aeolus auf Litteralsinn) betrifft, dass Juno Aeolus auf die Trojaner hetzt, so bedeutet dies Folgendes usw.“ Der Ausdruck nam et kann also eine zu deutende Aussage einführen und könnte mit ‚und nun‘, ‚des Weiteren‘ oder einer ähnlichen Konjunktion übersetzt werden; nam steht vermutlich, weil der Inhalt der Aussage wegen Fulgentius’ Zusammenfassung bereits bekannt ist (vgl. auch Fulg. myth. 3,7). Zwar wäre an unserer Stelle die Übersetzung mit ‚denn‘ möglich (allerdings auch wegen des im nächsten Satz folgenden enim unwahrscheinlich), die Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 88 vorschlägt, aber nicht mehr in dem Satz, der unmittelbar auf die oben zitierte Passage folgt: Nam et cum septem nauibus euadit, quo ostendatur septenum arithmeticum numerum armonicum esse partui (p. 91,18–20). Hier wird nämlich eine neue Tatsache eingeführt, die keinen Zusammenhang mit dem Vorhergehenden aufweist. Dagegen bedeutet nam et in Virg. cont. p. 89,2 einfach ‚denn auch‘ (so häufig vor Personennamen, vgl. Manca [wie Anm. 4] 2,419 f.). 10) Ausgelassen ist hier lediglich ein Beleg aus Homer, der für die weitere Argumentation ohne Bedeutung ist. Vgl. dazu A. Bisanti, Le citazioni omeriche di Fulgenzio, in: Studi di Filologia Classica in onore di Giusto Monaco 4, Palermo 1991, 1483–1490, hier 1488 f. Fulgentius zieht den Homervers nicht heran, um die Richtigkeit seiner Auslegung von Eolus zu belegen (so Rauner-Hafner [wie Anm. 3] 36 Anm. 121), sondern um die Bedeutung des griechischen Verbs zu verdeutlichen. 11) Das Latein der Expositio ist zuweilen – vorsichtig ausgedrückt – sehr unklassisch; zur Morphologie vgl. den knappen Überblick bei Rosa (wie Anm. 5) 36. Zum pronominalen Dativ auf -o vgl. M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlehre, München 1977 (Neuausg. von 51926–1928), 480; der Dativ ipso erscheint bei Fulgentius noch myth. 1,8, der Dativ nullo Virg. cont. p. 103,9. 12) Die (noch zu diskutierende) Korrektur zu perfectionis stammt von Helm (wie Anm. 2). 13) Zur Ausdrucksweise in modum alicuius rei i. S. v. ‚zur allegorischen Darstellung von etwas‘ bei Fulgentius vgl. Virg. cont. p. 98,24; p. 106,10; p. 107,3; myth. 1,22; 2,6; 2,9 u. ö. 14) Die beiden Gerundia sind am ehesten als Genitive des Bereichs zu verstehen: „beim Gebären“und „beim Geborenwerden“(vgl. etwa Agozzino/Zanlucchi [wie Anm. 5] 51). Zu dispendium i. S. v. periculum vgl. ThLL V 1,1397,40–44 (mit unserer Stelle).
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die Menschen hetzt (inmittit), dessen Name auf das griechische Wort eonolus zurückzuführen sei und daher saeculi interitus bedeute.15 Als Belohnung für sein Wirken verspricht Juno dem Aeolus die Nymphe Deiopea zur Frau, deren Namen Fulgentius als Zusammensetzung von demos bzw. puplicum und iopa bzw. oculi/uisio etymologisiert. Und nun kommt der umstrittene Satz, der die Allegorie zumindest teilweise aufdeckt: ergo nascentibus in mundo seculare est periculum; cui quidem perfectioni<s> puplica a dea partus promittitur uisio. Durch den ersten Satz werden Schiffbruch und Aeolus dechiffriert: Wer in der Welt geboren wird, dem droht eine weltliche Gefahr. Soweit sind sich die Übersetzer im Großen und Ganzen einig.16 Abgesehen von der genauen Bedeutung von seculare periculum17 liegen die eigentlichen Hindernisse für das Verständnis im zweiten Satz: Auf welches Wort ist das Relativum cui zu beziehen?18 Was ist die Bedeutung des überlieferten Dativs perfectioni bzw. des von Helm konjizierten Genitivs perfectionis?19 Was ist eine oder die puplica uisio?20 15) Mit saeculi interitus muss wegen der Stringenz der Allegorese dasselbe gemeint sein wie mit dem Ausdruck seculare periculum weiter unten (vgl. Agozzino/Zanlucchi [wie Anm. 5] 51). Zur Bedeutung ‚weltlich‘ bzw. ‚Welt‘ vgl. ihren Kommentar a. a. O. 80. Auch gratia secularis bezeichnet Virg. cont. p. 96,18–22 den weltlichen Ruhm (vgl. Rosa [wie Anm. 5] 94 ad loc.). 16) Vgl. Hardison 333 und Agozzino/Zanlucchi 51; McVeigh 209 und 239 Anm. 41; Whitbread 125 (der unter „hazards of the world“„public hazards“versteht, a. a. O. 147 Anm. 5); Rosa 59 (alle wie Anm. 5). Der Lösungsvorschlag von Stokes/Huber-Rebenich wird weiter unten im Haupttext besprochen. 17) Einige Übersetzer geben seculare periculum bezeichnenderweise mit einem Plural wieder (so etwa Whitbread 125; Rosa 59 [beide wie Anm. 5]). 18) Fast alle Übersetzer beziehen cui auf Aeolus (McVeigh 239 Anm. 41; Whitbread; Agozzino/Zanlucchi; Hardison; Rosa; alle wie Anm. 5). Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 90 hat eingewendet, dass das Bezugswort Eolo für diese Auffassung zu weit entfernt stehe. Auch wenn man dem entgegenhalten könnte, dass der grammatische Bezugsausdruck seculare periculum die Allegorie für Aeolus darstellt, so wäre doch vor allem zu fragen, was die Funktion von Aeolus (einem Element der Litteralebene) in diesem Satz sein sollte, der doch die Aufgabe hat, die Allegorie aufzulösen. Abwegig ist McVeighs Auffassung von cui als Indefinitpronomen (McVeigh [wie Anm. 5] 209); vgl. dazu Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 90. 19) Whitbread lässt perfectionis von uisio abhängen und versteht darunter „fullness of time“ (Whitbread [wie Anm. 5] 125; so auch McVeigh im Kommentar [wie Anm. 5] 239 Anm. 41); unmöglich ist McVeighs Übersetzung, in der cui als Indefinitpronomen und Regens von perfectionis aufgefasst wird („for one of perfection“, McVeigh [wie Anm. 5] 209; vgl. oben Anm. 18). Für Rauner-Hafner (wie Anm. 3) 36 bezeichnet perfectio die Vollendung des Menschen („Versprechen, daß die Öffentlichkeit die Vollendung sehen wird“); vgl. dazu die Widerlegung von
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Da die meisten Deutungsvorschläge bereits von Huber-Rebenich behandelt und mit guten Gründen abgelehnt worden sind,21 können wir hier auf ihre Diskussion verweisen.22 Nach der Zurückweisung früherer Erklärungen schließt sich Huber-Rebenich ihrerseits der Interpretation von L. C. Stokes23 an. Sie übernimmt zunächst die Auffassung von seculare periculum als „danger of worldliness“. Des Weiteren wird cui als Dativus commodi auf periculum bezogen und perfectioni als Dativus finalis erklärt,24 also im Sinne von ad perfectionem, so dass zu verstehen wäre: „Die Göttin der Geburt (d. h. Juno) verspricht der die Menschen bedrohenden Gefahr zu ihrer Vervollkommnung (das ist nicht im ethischen Sinne gemeint, sondern i. S. v. ‚um die Gefahr komplett/noch größer zu machen‘25) die puplica uisio.“ Die puplica uisio ist nun Stokes und Huber-Rebenich zufolge das alltägliche, harmlose Aussehen dieser Gefahren,26 so dass diese (also etwa Vergnügungen, Streben nach materiellen Werten) noch ‚perfekter‘ im Sinne von ‚gefährlicher‘ werden. Huber-Rebenich gibt aber selbst zu, dass die ganze Deutung, mag sie auch vergleichsweise die beste sein, nicht so recht befriedigt, vor allem aus einem Grunde: Fulgentius folgt bei seiner Allegorese dem Text der Aeneis und parallelisiert die dort geschilderten Ereignisse mit den Stadien der menschlichen Entwicklung. Wenn der Schiffbruch die Geburt symbolisiert, warum Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 90 f. Hardison (wie Anm. 5) 333 übersetzt einfach „unclouded vision of perfection“, Rosa (wie Anm. 5) 59 „pubblica visione della perfezione“. Gegen die Konjektur perfectionis wendet sich Stokes (wie Anm. 5) 125. In Mancas Konkordanz findet sich übrigens s. v. perfectio an unserer Stelle nur perfectionis ohne weitere Kennzeichnung. 20) „public vision“(McVeigh); „public [i. e. open] vision“ (Whitbread 125 und 147 Anm. 6); „esperienza generale“ (Agozzino/Zanlucchi); „unclouded vision“ (Hardison); „pubblica visione“ (Rosa) (alle wie Anm. 5). 21) Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 89–92; nicht erwähnt sind dort Agozzino/Zanlucchi; Hardison; Rosa (alle wie Anm. 5). In diesen Übersetzungen werden aber keine prinzipiell neuen Deutungen vorgetragen. 22) Vgl. zu den älteren Deutungen auch oben Anm. 18–20. 23) Stokes (wie Anm. 5) 85 (Übersetzung), 125 (Kommentar): „Thus there is the danger of worldliness for those being born into this world. To complete the danger, the goddess of childbirth promises an ordinary appearance (to the worldly aspects of life).“ 24) Diese Auffassung vertreten offenbar schon Agozzino/Zanlucchi (wie Anm. 5) 51, wenn sie perfectioni mit „come completamento“übersetzen. 25) So die Formulierung von Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 91. 26) Es ist bezeichnend, dass Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 91 an dieser Stelle der Argumentation in den Plural verfällt; vgl. Anm. 17.
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sollte dann mit periculum eine Gefahr gemeint sein, die die Menschen für die Dauer ihres ganzen Lebens (dazu noch am wenigsten während und unmittelbar nach der Geburt) bedroht?27 Versuchen wir, den Satz ergo . . . uisio noch einmal neu zu analysieren, indem wir den Elementen der Litteralebene ihre allegorischen Entsprechungen zuweisen. Der erste Teil (ergo . . . periculum) stellt, wie gesehen, eine vollständige Auflösung der Allegorie dar; wir finden kein Element der Litteralebene mehr. Die von Seesturm und Schiffbruch bedrohten Trojaner stehen für alle Menschen zum Zeitpunkt ihrer Geburt.28 Was ist aber mit seculare periculum gemeint? Dieser Ausdruck ist die allegorische Deutung von Aeolus (vgl. saeculi interitus), der die Trojaner mit dem Tod (durch Schiffbruch) bedroht hat, also kann doch hier nur die Gefahr des Todes im Kindbett gemeint sein (es geht ja um die periculosa natiuitas),29 wie auch aus dem weiter oben stehenden Satz hervorgeht: periculosae natiuitatis, in qua et maternum est pariendi dispendium uel infantum nascendi periculum. Diese Gefahr ist insofern ‚säkular‘, also weltlich, als nur der Leib bedroht ist, nicht aber die Seele. Mit dieser Deutung ist auch der Singular periculum recht einfach erklärt. Das Problem des zweiten Satzes liegt nun darin, dass hier die Litteralebene mit der allegorischen Ebene vermischt ist, denn dea partus und damit wohl auch promittere gehören zu ersterer, alle anderen Bestandteile zur übertragenen Bedeutung. Nun könnte man versuchen, auf diesen Satz die grammatische Erklärung von Stokes und Huber-Rebenich anzuwenden: „Damit die Todesgefahr noch größer (eigentlich steht aber da: „vollkommener“) wird, wird ihr (oder dem Tod) von der Göttin der Geburt ein gewöhnliches Aussehen versprochen.“ Was hat man sich aber darunter vorzustellen? 27) Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 91 f. 28) Vgl. auch: In qua necessitate uniuersaliter humanum uoluitur genus. 29) Nicht nachzuvollziehen ist die Paraphrase von E. Wolff: „le naufrage d’Énée au livre I symbolise la naissance de l’homme, qui entre en pleurant dans les orages de l’existence“ (Fulgentiana, in: F. Chausson/E. W. [Hrsg.], Consuetudinis amor. Fragments d’histoire romaine [IIe –VIe siècles] offerts à J.-P. Callu, Rom 2003, 431–443, hier 437). Zum einen findet sich in der Deutung des Fulgentius kein Hinweis auf ein „Weinen“, zum anderen bezieht Wolff die Allegorese auf das ganze menschliche Leben, was aus methodischen Gründen problematisch ist (vgl. die oben im Haupttext zitierte methodische Kautel von Huber-Rebenich). Wolffs Deutung ist vermutlich von Bertini (wie Anm. 1) 604 beeinflusst („La tempesta del 1o libro è l’emblema delle tempeste della vita“).
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Wieso ist die Todesgefahr für Mutter und Kind größer (oder vollkommen/vollkommener), wenn der Tod gewöhnlich aussieht? Auch wenn man die Bedeutung von puplica uisio offenlässt: Warum sollte der Tod durch diese Gabe vervollkommnet werden?30 Fulgentius geht es in der Expositio um das Leben der Menschen, nicht um den Tod. Dasselbe Problem ergibt sich, wenn man perfectio nicht als ‚Vervollkommnung‘, sondern als ‚Durchführung‘ versteht. Dann passt die allegorische Auslegung zwar genau zur Erzählung in der Aeneis, aber was könnte mit folgender Aussage gemeint sein: „Für die Durchführung dieser Gefahr31 (d. h. für die Tötung von Mutter und Kind) wird (scil. dem Tod) die puplica uisio versprochen.“ Da Fulgentius so viel Wert auf die Etymologie von Deiopea legt (er hätte sie ja ohne Weiteres weglassen können), muss diese Allegorie irgendeinen Sinn ergeben. Wenn wir uns die genannte Etymologie von Deiopea vor Augen halten, so würde sie wohl in diesem Kontext bedeuten: ‚die Wahrnehmung des Volkes‘,32 wobei ‚Volk‘ als Metonymie zu verstehen wäre: Der Tod sieht alle Menschen und schont die Richtigen; dazu würde immerhin der letzte Satz in der Auslegung des Schiffbruchs passen: Nam et cum septem nauibus euadit, quo ostendatur septenum arithmeti30) Auch die anderen Auffassungen von puplica uisio (vgl. Anm. 20) helfen hier nicht weiter. 31) Die kongruierende Junktur cui perfectioni anstelle der Fügung mit dem Genitiv (cuius perfectioni) ist als normal anzusehen, vgl. dazu Hofmann/Szantyr (wie Anm. 32) 66 und insbesondere R. Kühner/C. Stegmann, Ausführliche Grammatik der lateinischen Sprache. 2. Teil. Satzlehre, 2 Bde., Darmstadt 61982, Bd. 1, 64– 66. Ein schönes Beispiel findet sich in der Expositio selbst: Aeneas hoc strepitu terretur (Virg. cont. p. 101,13 f.) statt Aeneas horum [scil. damnatorum] strepitu terretur. Vgl. weiterhin: Praeter enim tres disciplinas, quae uirtutem a summo bono excludunt, ceteris omnibus philosophis haec est tuenda sententia, maxime tamen his [scil. Stoicis], qui nihil aliud in bonorum numero nisi honestum esse uoluerunt. Sed h a e c quidem est perfacilis et perexpedita d e f e n s i o (Cic. fin. 3,36). Quo metu [zuvor war nicht von Furcht die Rede] commoti Dyrrachini profugisse noctu crepidatum imperatorem indicauerunt (Cic. Pis. 93). 32) Der erste Namensbestandteil ist für Fulgentius synonym mit demos, puplicum. Deiopea ließe sich dementsprechend verstehen als uisio puplici: „Augen für das Volk; die Wahrnehmung des Volkes“. Das Adjektiv puplica stünde dann für einen Genitivus obiectivus. Diese Ersetzung ist nicht ungewöhnlich, vgl. etwa uester conspectus („euer Anblick“) (Cic. Planc. 2); tua fiducia („Vertrauen zu dir“) (Cic. Verr. II 5,176); in Pompeiana laude (Cic. Att. 1,14,3); bellum regium (Cic. Manil. 50) und J. B. Hofmann/A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, München 1965, 66. Damit würde sich auch erklären, warum Fulgentius in dem umstrittenen Satz uisio und nicht oculi schreibt.
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cum numerum armonicum esse partui.33 In diesem Fall wäre jedoch promittere sinnlos; die Tatsache, dass der Tod Unterscheidungsvermögen erhält, ist doch allenfalls eine Belohnung für die Menschen; zudem müsste der Tod schon vor der Ausführung seiner Aufgabe die uisio besitzen, während promittitur auf die Zukunft weist. Schließlich wäre (wie bei perfectio i. S. v. ‚Vervollkommnung‘) eben zu fragen, warum sich Fulgentius für den Tod interessieren sollte, zumal es an unserer Stelle um die Geburt geht. Auch dieser Deutungsversuch kann somit kaum das Richtige treffen. Aus diesem Grunde wird man die Lösung wohl in einem (leichten) Texteingriff suchen müssen. Verändert man perfectioni zu perfunctioni, so erhält man einen sinnvollen Satz: „Für die Bestehung dieser Gefahr34 verspricht die Göttin der Geburt (scil. den Menschen) die puplica uisio.“ Die Verschreibung von perfu¯ctio zu perfectio kann einem Kopisten in einer Minuskelschrift leicht unterlaufen;35 die Ausdrücke perfunctio alicuius rei und perfungi periculo sind einwandfreies Latein.36 Der einzige (scheinbare) Nachteil ist darin zu sehen, dass vergilische Erzählung und fulgentianische Allegorie nicht vollständig deckungsgleich sind: Juno verspricht Deiopea dem Aeolus zur Frau, nicht den Menschen. Wir haben aber bereits gesehen, dass a dea partus promittitur in dem umstrittenen Satz zur Litteralebene gehört. Im Gegensatz zu Aeolus und Deiopea, denen eine eindeutige allegorische Bedeutung zukommt, gilt das für Juno nicht; ihr entspricht in der übertragenen Lesart kein Denotat, sondern Vergil verwendet die römische Göttin der Geburt lediglich als Signal, um den Leser darauf aufmerksam zu machen, dass der Schiffbruch auf die Geburt zu beziehen ist (vgl. Nam ut euidentius hoc intellegas eqs.). Juno steht nicht im Sinne eines allegorischen Quidproquo für die Geburt oder für irgendeine andere Sache, sondern sie hat als Göttin der Geburt eine Signalfunktion, und eben aus diesem Grunde erscheint sie in dem 33) Virg. cont. p. 91,18–20. 34) Zu cui perfunctioni anstelle einer Genitivfügung vgl. oben Anm. 31. 35) Die älteste erhaltene Handschrift stammt frühestens aus dem 8. Jahrhundert (vgl. dazu Stokes [wie Anm. 5] 17–22). 36) Vgl. laborum perfunctio (Cic. fin. 1,49) und periculis perfungi (Cic. Mur. 4). Nach Mancas Konkordanz (vgl. Anm. 4) ist weder perfungi noch perfunctio bei Fulgentius belegt; allerdings ist Fulgentius’ Œuvre schmal und die Wortfamilie auch sonst nicht häufig.
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fraglichen Satz zwischen Elementen der allegorischen Ebene. Die Formulierung a dea partus promittitur bedeutet übertragen nichts anderes, als dass bei seiner Geburt der Mensch die Aussicht auf etwas Bestimmtes (nämlich die puplica uisio) erhält. Auch in anderen allegorischen Deutungen der Expositio findet sich diese Interpretationsweise, die man vielleicht als mangelnde Logik bezeichnen könnte, wenn man allzu strenge Maßstäbe anlegen möchte. Dieses uns befremdende Vorgehen entspringt aber Fulgentius’ Verfahren, seine Allegoresen vor allem auf die Bedeutungen der Eigennamen zu stützen.37 Sehen wir uns einige Beispiele an: Bei dem von Dido gegebenen Gastmahl spielt Iopas für Aeneas auf der Kithara.38 Einerseits deutet Fulgentius diesen Vorgang als Symbol für die Freude des Kindes an Musik, andererseits etymologisiert er den Namen als siopas, d. h. taciturnitas puerilis.39 Dadurch ist nicht mehr Aeneas die Allegorie des Kindes, sondern Iopas, der kurz zuvor noch – auf der allegorischen Ebene – das Kind unterhalten hatte. Wie der Schiffbruch für die (gefahrenvolle) Geburt steht, so das Gastmahl für die frühe Kindheit. Dabei verweist jedes Element der Litteralebene (sofern es überhaupt gedeutet wird) auf eine Eigenschaft oder einen Aspekt dieser Lebensphase; die Beziehungen zwischen den Elementen können dabei vernachlässigt werden; wichtig ist vor allem die Bedeutung der Eigennamen. Am Ende des dritten Buches der Aeneis treffen die Trojaner auf Sizilien den Griechen Achaemenides, der ihnen von seinen Erlebnissen mit den Kyklopen berichtet.40 Aeneas, eigentlich das Sinnbild für die Kindheit, „sieht die Kyklopen“, wie Fulgentius formuliert. Die Kyklopen, wie Aeolus eine Gefahr für Aeneas und seine Trojaner und damit für die Kindheit, werden nun aber ebenfalls als Zeichen für die pueritia gedeutet: So verweist etwa die Einäugigkeit unter anderem darauf, dass das Kind noch keinen rationalis uisus besitze.41 Warum begräbt Aeneas seinen Vater Anchises bei Drepanon?42 Weil sich der Mensch in der Jugendzeit gegen 37) Vgl. Comerci (wie Anm. 48) 120; Wolff (wie Anm. 29) 437. 38) Cithara crinitus Iopas/personat aurata (Verg. Aen. 1,740 f.). 39) Virg. cont. p. 93,9–16. Das Epitheton des Iopas, crinitus, bezieht Fulgentius auf die Haarpracht von Knaben (ib. 15 f.). 40) Verg. Aen. 3,588–691. 41) Virg. cont. p. 93,20–94,11. 42) Genau genommen berichtet Vergil nur vom Tod des Anchises bei Drepanon (Aen. 3,707–715).
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seinen Vater auflehne und Drepanos nichts anderes als puerilis acerbitas bedeute.43 Wie Deiopea auf der allegorischen Ebene keinen Bezug zu Aeolus hat (sondern nur zum Neugeborenen, wie gleich zu erläutern sein wird), so besteht keine Verbindung zwischen Anchises und seiner Grabstätte; beide Elemente erhalten ihre Bedeutung nur in der Relation zum Jünglingsalter, unabhängig davon, wie sich die Beziehungen der Elemente auf der Litteralebene darstellen. Nachdem wir wahrscheinlich gemacht haben, dass als logisches Dativobjekt zu promittitur der Mensch, der seine Geburt überlebt, zu ergänzen ist, müssen wir nur noch klären, was mit der puplica uisio (der Etymologie von Deiopea) gemeint ist, die das Neugeborene nach überstandener Gefahr erhält. Betrachten wir zu diesem Zweck zuerst die zwei Namensetymologien in unserem Abschnitt näher (Aeolus, Deiopea): In beiden Fällen liegt die Herleitung nicht auf der Hand, bei Deiopea ist sie sogar sehr weit hergeholt; daraus lässt sich schließen, dass Fulgentius genau wusste, worauf er hinauswollte. Er stand nicht vor der Notwendigkeit, einen nur allzu sprechenden Namen mühselig in seine allegorische Deutung einzubauen.44 Vielmehr hatte er sich mit dem umgekehrten Problem auseinander zu setzen, nämlich die Namen im Einklang mit seiner Allegorese zu erklären. Daraus müssen wir den Schluss ziehen, dass Fulgentius zumindest eine ungefähre Vorstellung davon haben musste, wie die puplica uisio mit der allegorischen Erklärung des Schiffbruchs zusammenhängt. Da er bei der Deutung des zweiten Bestandteils von Deiopea, iopa, neben der Übersetzung uisio auch oculi als lateinische Entsprechung nennt, liegt es nahe, uisio hier im aktiven Sinne zu verstehen: nämlich als Gesichtssinn. Juno verspricht den Menschen, die ihre Geburt (und die Zeit kurz danach) überleben, die Fähigkeit zur visuellen Wahrnehmung. Diese Deutung wird gestützt durch die unmittelbar auf unseren Passus folgende Allegorese der Begegnung von Aeneas und Venus: Ut dicere coeperam, mox ut terram tangit, matrem uidet nec agnoscit, plenam designantes infantiam q u i a a p a r t u r e 43) Virg. cont. p. 94,11–16. 44) Ein solcher unmissverständlich sprechender Name ist etwa Euander (Virg. cont. p. 104,18 f.); das Problem von Wörtern, die sich einer passenden semantischen Deutung widersetzten, konnte man aber in der Antike oft mit der etymologia e contrario lösen, wie etwa bei miles a mollitia (Aelius Stilo frg. 15).
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c e n t i b u s m a t r e m u i d e r e d a t u r, non tamen statim cognoscere meritum contribuitur.45 Die Grundlage von Fulgentius’ Allegorese in der Expositio ist die Annahme, dass die Aeneis die Entwicklung des Menschen darstellt; nach seiner Auffassung wird in beiden Passagen nun die erste Stufe beschrieben, in der das Kind über eine erste, noch unverständige visuelle Wahrnehmung (uisio, uidere) verfügt, aber noch nicht zum erkennenden Sehen (agnoscere, cognoscere) fähig ist.46 So kann Aeneas die bildlichen Darstellungen auf dem Tempel von Karthago zwar sehen und sich daran erfreuen, aber er vermag nicht, den dahinter liegenden tieferen Sinn zu begreifen47 (infantia enim uidere nouit, sentire uero quid uideat nescit, sicut in picturis est uisibilitas, deest sensibilitas).48 Wie ist nun puplica zu erklären? Während Fulgentius bei der Etymologie von Deiopea das Substantiv demos/puplicum gewählt hat, entscheidet er sich hier für das Adjektiv. Vermutlich ist einfach puplicus i. S. v. ‚allgemein üblich, gewöhnlich‘ gemeint.49 Erst wenn der Mensch die erste Prüfung des Lebens überstanden hat, erhält er etwas, was ihm dann ganz selbstverständlich zu sein scheint und in der Tat nichts Besonderes ist.50 In ganz ähnlicher Weise wird das Adjektiv puplicus bei der Etymologisierung des Namens Deiphobus verwendet, den Fulgentius als demofobus, puplicus timor deutet; danach gebraucht er zweimal den Ausdruck omnis timor – offenbar als Synonym für puplicus timor.51 Wie Deiphobus zum Symbol für jede Art von Furcht wird, so Deiopea zum Symbol für jede Art des Sehens, für das Sehen allgemein. Diese Deutung passt auch zum sonstigen Gebrauch des Substantivs uisio in der Expositio. So wird Palinurus als errabunda uisio etymologisiert.52 Der 45) Virg. cont. p. 92,7–10. 46) Vgl. auch den Ausdruck rationalis uisus in dem in Anm. 41 zitierten Passus. 47) Verg. Aen. 1,453–495. 48) Virg. cont. p. 93,6–9. Vgl. zu dieser Stelle ausführlich G. Comerci, Forme sociali e mediazione intellettuale nel mondo antico e medievale, Rom 1984, 98–120. 49) Vgl. auch die zuvor diskutierte Deutung von Stokes und Huber-Rebenich. 50) Es ändert an der hier vorgeschlagenen Interpretation nichts, wenn man uisio passivisch verstünde: Nach der Geburt wird man mit der ‚Erscheinung‘ der Welt ringsherum belohnt. Aus den oben genannten Gründen ist die passivische Auffassung aber unwahrscheinlich. 51) Virg. cont. p. 99,8–18. 52) Virg. cont. p. 95,17 f.
Die Deutung der vergilischen Schiffbruchszene
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Weg des Menschen geht von einem ersten, noch unbewussten Sehen über „die irrende Wahrnehmung“ zur vollkommenen Schau.53 Für die ganze hier vorgeführte Deutung des cui-Satzes spricht auch die Tatsache, dass Fulgentius p. 91,7 zwar das maternum dispendium erwähnt, in dem umstrittenen Satz aber nur von der Gefahr für das Neugeborene spricht: Die Mutter verfügt ja bereits über den Gesichtssinn. Sollte unsere Interpretation (mitsamt der vorgeschlagenen Emendation) zutreffen, so wäre damit nicht nur das allegorische Vorgehen des Fulgentius hinreichend berücksichtigt, sondern auch die von Huber-Rebenich zu Recht formulierte methodische Forderung erfüllt, dass „sich die Passage [in der der Schiffbruch gedeutet wird] ausschließlich auf die konkreten Gefahren der Geburt beziehen“ solle.54 Kiel
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53) Die vollkommene Schau wäre dann die vollkommene Erkenntnis; zur Expositio als Darstellung der Vervollkommnung des Menschen vgl. Rauner-Hafner (wie Anm. 3) passim, v. a. 35 (vgl. auch Virg. cont. p. 90,2 f.: ut sit prima natura, secunda doctrina, tertia felicitas). Wie wichtig die Bedeutung des Sehens ist, wird auch aus der Deutung der Katabasis (Verg. Aen. 6) deutlich. Aeneas wird dort als „Augenzeuge“ (oculatus testis) bezeichnet (Virg. cont. p. 98,14). Tantalus wird als teantelon, id est uisionem uolens etymologisiert (Virg. cont. p. 101,7 f.); auch hier wird uisio übrigens aktivisch verwendet. 54) Huber-Rebenich (wie Anm. 7) 92.
“NOURISHED AT THE BREAST OF ROME”: THE QUEENS OF OSTROGOTHIC ITALY AND THE EDUCATION OF THE ROMAN ELITE1 Among studies on the education and the role of women of the Roman elite in Late Antiquity, recently enriched by a series of interesting contributions2, the female part of the royal family in Ostrogothic Italy deserves special attention. It was not just propaganda, but the ambitions of the Amal family, which desired to imitate the best examples of the ‘Romanitas’ during the almost forty years of government. In the panegyric written at the end of 536 to celebrate the wedding of Witigis and Matasuentha at Ravenna, Cassiodorus first praises Witigis, the uir fortis, who became king of the Goths by proving his military valour, and then continues praising Matasuentha, the bride3. The daughter of Amalasuintha and Theoderic’s 1) I would like to use this opportunity to thank my friends Dr. Vanessa Howson (Rome), Prof. Nino Luraghi (Harvard), Prof. John Magee (Toronto), Dr. Volker Menze (Münster) for advice and help with the English translation. 2) See for example G. Clark, Women in Late Antiquity. Pagan and Christian Lifestyles (Oxford 1993); C. Krumeich, Hieronymus und die christlichen feminae clarissimae (Bonn 1993); P. Rousseau, ‘Learned Women’ and the Development of a Christian Culture in Late Antiquity, SO 70 (1995) 116–147; G. Disselkamp, Christiani senatus lumina. Zum Anteil römischer Frauen der Oberschicht im vierten und fünften Jahrhundert an der Christianisierung der römischen Senatsaristokratie (Bodenheim 1997); C. Steininger, Die ideale christliche Frau. Eine Studie zum Bild der idealen christlichen Frau bei Hieronymus und Pelagius (St. Ottilien 1997); G. Vidén, St. Jerome on the Female Chastity. Subjugating the Elements of Desire, SO 73 (1998) 139–157; M. R. Salzman, The Making of a Christian Aristocracy. Social and Religious Change in the Western Roman Empire (Cambridge, Mass./London 2002). For the successive period see A. Kuhn (ed.), Frauen im Mittelalter, Bd. 2: Frauenbild und Frauenrechte in Kirche und Gesellschaft. Quellen und Materialien (Düsseldorf 1984); H. W. Goetz, Frauen im frühen Mittelalter. Frauenbild und Frauenleben im Frankenreich (Weimar/Köln/Wien 1995); C. Nolte, Conversio und Christianitas. Frauen in der Christianisierung vom 5. bis 8. Jahrhundert (Stuttgart 1995). 3) Cassiod. Orationum reliquiae, MGH AA 12, L. Traube ed., 479 ll. 19–20: redeamus igitur ad dominam felicem.
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niece, who now married the new king, certainly did not lack the necessary virtues4 that Cassiodorus refers to as “sisters”5, linking them metaphorically with parts of the body in an ideal image: Huc ergo ad aulica penetralia, s o r o r e s h o n e s t i s s i m a e , conuenite; hic cum summo nitore comite, quae uos possit ornare. Prima frontem c a s t i t a s caelestis instituat; deinde rosea u e r e c u n d i a genas depingat; m o d e r a t a t e m p e r a n t i a fulgentium luminum serenet aspectum; cor nobile m i t i s p i e t a s amministret; sermonem linguae h o n o r a s a p i e n t i a largiatur; gressus religiosos m o d e s t i a t r a n q u i l l a conponat: talem pompam habere meretur obsequii, q u a e t a n t o r u m r e g u m p o s t e r i t a s p o t u i t i n u e n i r i 6.
Such praise of the last of the Amal queens that emphasizes traditional Roman virtues and acknowledges her learning is not really a novelty in Ostrogothic Italy. We know, in fact, almost always from Cassiodorus’ letters, that there had been persons of culture among Theoderic’s relatives and descendants7. Aside from Theodahad, king from 534 to 536, the princesses of the family were the ones who were especially notable for such skills. This applies, in general terms, to Amalafrida, Theoderic’s sister, given by him in marriage to the Vandal king Thrasamund; he recalled her virtues a few years later: generis Hamali singulare praeconium . . . feminam prudentiae uestrae parem, quae non tantum reuerenda regno, quantum mira4) Traube ed., 480 ll. 1–2. 5) See the definition of Mart. Cap. 2,127 of the four Cardinal Virtues as matronae sobrio decore laudabiles. 6) Traube ed., 480 ll. 2–15, followed by the interesting parallel with the colours of flowers (ll. 15–20): Vos autem nubescite prasini, pallescite lychnides, albescite hyacinthi, fuscamini margaritae: non hic regias opes insana cupiditate deuoratis, tulit uobis pretia, quae de se probatur ornata; and, on the same subject, the fragments on pages 481–482; see D. Romano, Cassiodoro panegirista, in: id., Letteratura e storia nell’età tardoromana (Palermo 1979) 364–365. 7) On this and on the work of Cassiodorus at court as ‘minister of education’ see S. Krautschick, Cassiodor und die Politik seiner Zeit (Bonn 1983) 142–160, 164– 167; B. Luiselli, I dialoghi scientifici fra Cassiodoro e Teoderico, in: Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini (Roma 1983) 59–68; id., Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico (Roma 1992) 677–684; J. Moorhead, Theoderic in Italy (Oxford 1992) 87–88; U. Pizzani, Le lettere di Teoderico a Boezio e la mediazione culturale di Cassiodoro, Cassiodorus 4 (1998) 141–161. On education in this period, see in general P. Riché, Éducation et culture dans l’occident barbare. VIe –VIIIe siècles (Paris 1962) part. 96–98; id., Les écoles et l’enseignement dans l’Occident chrétien de la fin du Ve siècle au milieu du XIe siècle (Paris 1979).
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bilis possit esse consilio8. The same is true for Amalaberga, Amalafrida’s daughter, about whose marriage with Herminifrid, king of the Thuringians, Cassiodorus wrote: habebit felix Thoringia quod nutriuit Italia, litteris doctam, moribus eruditam, decoram non solum genere, quantum et feminea dignitate, ut non minus patria uestra istius splendeat moribus quam suis triumphis9. We may also recall the otherwise practically unknown Theodenantha, the daughter of Theodahad and Gudeliva10; a fragment of a poem in elegiac couplets probably composed by her has survived. It shows a remarkable literary ability11. However, there is one who stands out among these learned princesses: Amalasuintha, Theoderic’s daughter; she was widely celebrated for her wisdom, defined as sapientissima domina12, she knew three languages (Latin, Greek and Gothic)13 and was described as a philosopher queen gifted with the wisdom of Solomon. Cassiodorus wrote beata res publica quae tantae dominae gubernatione gloriatur, referring to her, in a letter to the Roman Senate drafted in the name of Theodahad, recalling the well-known Platonic motif14. 8) Var. 5,43,1 (A. D. 511); see also Anon. Vales. 68 and Jord. Get. 299. 9) Var. 4,1,2 (A. D. 507–511); see Jord. Get. 299 and Anon. Vales. 70; Prok. BG 1,12,22. After the death of her husband she returned to her brother Theodahad’s court; see Prok. BG 1,13,2. 10) About Gudeliva see Cassiod. var. 10,21 and 10,24. 11) See O. Fiebiger/L. Schmidt, Inschriftensammlung zur Geschichte der Ostgermanen (Vienna 1917) 103 num. 204 (already in Anth. Lat. 2 num. 1850; Bull. Arch. Crist. 1894, 77–82 pl. 8; ILS 8990): [Mens percussa f]erit geminum uno tempore uulnus, | [et semper rem]eans fit sine fine dolor. | [Paruolus ille dedit lac]rimas, mox poscit et alter | [iam senior rar]a sed bonitate pater. | Fl. Amala Amalafrida Theodenanda c(larissima) f(emina). About Theodenanda see Prok. BG 1,8,3. 12) Var. 10,4,4 and 8. 13) Var. 11,1,6: Hanc enim dignissime omnia regna uenerantur, quam uidere reuerentia est, loquentem audire miraculum. Qua enim lingua non probatur esse doctissima? Atticae facundiae claritate diserta est: Romani eloquii pompa resplendet: natiui sermonis ubertate gloriatur: excellit cunctos in propriis, cum sit aequaliter ubique mirabilis. Nam si uernaculam linguam bene nosse prudentis est, quid de tali sapientia poterit aestimari, quae tot genera eloquii inoffensa exercitatione custodit?; also var. 10,4,6: Hinc est quod eius doctrina mirabilis per multiplices linguas magna ubertate diffunditur, cuius ingenium ita paratum reperitur ad subitum, ut non putetur esse terrenum. 14) Var. 10,4,7 (of which see Plat. rep. 473D, and in those same years also Boeth. cons. 1,4,5), where he continues: agnoscite, principes uiri, sapientissimae esse dominae, quod in nobis potuerit plus placere. See especially §§ 5–6 of the letter: discerent profecto noua philosophi, si uiderent et minora libris suis faterentur condita
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Procopius’ opinion was similar15. Amalasuintha was a leading figure in Ostrogothic Italy. There are two letters in particular in which Cassiodorus praises her for her wisdom: var. 10,4, in the name of Theodahad, and var. 11,1, a short oration in honour of the queen, apparently delivered in the Senate16. This latter work offers a succession of virtues in the final passage that is on the whole not unlike those later attributed to Matasuentha. They are attributed to her illustrious forebears: Ordo flagitat dictionis Augustarum ueterum pompam moderna comparatione excutere. Sed quemadmodum illi sufficere poterunt exempla feminea, cui uirorum laus cedit uniuersa? Hanc si parentum cohors illa regalis aspiceret, tamquam in speculum purissimum sua praeconia mox uideret. Enituit enim Hamalus f e l i c i t a t e , Ostrogotha p a t i e n t i a , Athala m a n s u e t u d i n e , VVinitarius a e q u i t a t e , Vnimundus f o r m a , Thorismuth c a s t i t a t e , VValamer f i d e , Theudimer p i e t a t e , s a p i e n t i a , ut iam uidistis, inclitus pater. Cognoscerent hic profecto uniuersi singillatim propria, sed feliciter faterentur esse superata, quando unius praeconium cum turba se iure non potest aequare uirtutum. Aestimate quale eis esset d e t a l i h e r e d e gaudium, q u a e m e r i t a p o t u i t t r a n s i r e c u n c t o r u m 17.
The passage suggests a ‘Romanised’ reading of the Amal royalty, in which the Roman types of virtue supersede the traditional warrior forms always identified with the Gothic kings (for example, in the Getica by Jordanes). And if the sapientia attributed to Theoderic – the queen’s inclitus pater18 – stands out, felicitas, patientia, manquam huic cognoscerent attributa. In tractatibus acuta, sed ad loquendum summa moderatione grauissima . . . In libris regum regina austri uenisse legitur ad discendam sapientiam Salomonis: hic principes audiant quod sub ammiratione cognoscant. 15) BG 1,2,3 and HA 16,1. 16) See Romano (above n. 6) 369–373; Krautschick (above n. 7) 161–184, 124– 125 and 140; also V. Fauvinet Ranson, Portrait d’une régente. Un panégyrique d’Amalasonte (Cassiodorus, Variae, 11,1), Cassiodorus 4 (1998) 267–308. This panegyric-letter, written by Cassiodorus in thanks for his promotion to the pretorian prefecture, is in the Variae the first of the letters in Cassiodorus’ name (books XI and XII). 17) Var. 11,1,19–20; see for example W. Goffart, The Narrators of Barbarians History (A. D. 550–800): Jordanes, Gregory of Tours, Bede and Paul the Deacon (Princeton 1988) 33–34, 39–40; B. Meyer-Flügel, Das Bild der ostgotisch-römischen Gesellschaft bei Cassiodor: Leben und Ethik von Römern und Germanen in Italien nach dem Ende des Weströmischen Reiches (Bern/Frankfurt a. M./New York/Paris/ Wien 1992) 72, 579–580 notes 36–41; A. S. Christensen, Cassiodorus, Jordanes and the History of the Goths. Studies in a Migration Myth (Copenhagen 2002) 74–76. 18) In the same year Theoderic is even called purpuratus philosophus, in var. 9,24,8, referring to Cassiodorus’ appointment to the pretorian prefecture (quoted below, n. 44).
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suetudo, aequitas, forma, castitas, fides and pietas are no less significant, the virtues vaunted by ancestors of the royal house which, taken together, define the wise king. Indeed, Amalasuintha, the last descendant q u a e m e r i t a p o t u i t t r a n s i r e c u n c t o r u m , who is placed at the end of the list, is praised because she herself possesses all the virtues listed. Something similar is implied by the other letter quoted above, in which Theodahad referring to Amalasuintha states: in ipsa est enim decus regnorum omnium, in ipsa nostrae originis flos bonorum. Quicquid fulgemus, ab eius claritate suscipimus, quando non solum parentibus laudem contulit, sed ipsum quoque genus humanitatis ornauit. Quis possit sufficienter edicere, quanta pietate, quanto morum pondere decoretur?19 Now, only three years after these two letters, Matasuentha is presented as the ideal sovereign in accordance with a similar principle. In fact, the group of virtues associated with her is justified by the noble series of kings who have preceded her: talem pompam habere meretur obsequii, q u a e t a n t o r u m r e g u m p o s t e r i t a s p o t u i t i n u e n i r i , we read in the aforementioned fragment of the panegyric. It seems to be an interesting coincidence. However, beyond the eulogistic character of Cassiodorus’ works, what is the meaning of such a repertoire of Roman virtues at the Amal court? Procopius tells us that “Amalasuintha wished to make her son (Athalaric) resemble the Roman princes in his manner of life and was already compelling him to attend the school of a teacher of letters (§w grammatistoË)”20. Although the queen’s efforts were hindered by the Gothic aristocracy, who wished to have a king brought up in the “barbarian way” (katå tÚn bãrbaron nÒmon) and a worthy successor to Theoderic21, it is, however, possible to think that it could have been different for Matasuentha, the daughter, who was given a ‘literary’ education just like the other princesses and members of the family who were not destined for the throne. Although the best results of the acculturation of the court are to be found in the later stages of 19) Var. 10,4,5. See also the fragment from the panegyric of Cassiodorus in Traube ed., 483, ll. 2–5: iam, si cum propriis moribus compareris, facile ab insigni animae parte superaris, quae pulchritudine corporis mortalia cuncta transcendis; Romano (above n. 6) 358–359 thinks the person mentioned is Amalasuintha. 20) Prok. BG 1,2,6 (translation Dewing). 21) Prok. BG 1,2,6–17.
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the Amal reign, especially in the figure of Amalasuintha and Theodahad22, it is known that in the early phases of this process Theoderic had already provided an impulse to Roman eloquence and had supported the study of letters to teach ciuilitas23; his line was carried further by Athalaric, who intervened to ensure that the fees for magistri and the Roman professional categories were not reduced24, because they were important for the mores in the Kingdom and for the royal palace: per quos et honesti mores proueniunt et palatio nostro facunda nutriuntur ingenia, as he stated25. These points may seem obvious, but they are actually important if we consider more carefully what the educational model was like for the Roman elite. 22) On Theodahad see var. 10,3 and 11,13,4; Prok. BG 1,3,1 and 1,6,15–18. 23) This in the panegyric by Ennodius, opusc. 1,74–77 and in general 1,2; see the comment by S. Rota, Magno Felice Ennodio. Panegirico del clementissimo re Teoderico (opusc. 1) (Roma 2002) 399–405. About the ciuilitas of Theoderic see T. Hodgkin, Theoderic the Goth, the barbarian Champion of Civilisation (London/ New York 21923); W. Ensslin, Theoderich der Große (München 21959) 215–220; J. J. O’Donnell, Cassiodorus (Berkeley/Los Angeles/London 1979) 96–100; Moorhead (above n. 7) 75–80; B. Saitta, La civilitas di Teoderico. Rigore amministrativo, “tolleranza” religiosa e recupero dell’antico nell’Italia ostrogota (Roma 1993); M. Reydellet, Théoderic et la civilitas, in: A. Carile (ed.), Teoderico e i Goti tra Oriente e Occidente, ‘Atti del Congresso Internazionale Ravenna, 28 settembre – 2 ottobre 1992’ (Ravenna 1995) 285–296; A. Stüven, Rechtliche Ausprägungen der civilitas im Ostgotenreich. Mit vergleichender Berücksichtigung des westgotischen und des Burgundischen Rechts (Frankfurt a. M. 1995); D. Kohlhas-Müller, Untersuchungen zur Rechtsstellung Theoderichs des Großen (Frankfurt a. M./Berlin/ Bern/New York/Paris/Wien 1995) passim; P. Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489–554 (Cambridge 1997) 43–78. 24) Var. 9,21,3–4 (A. D. 533), addressed to the Senate, in which he also states: Prima enim grammaticorum schola est fundamentum pulcherrimum litterarum, mater gloriosa facundiae, quae cogitare nouit ad laudem, loqui sine uitio. Haec in cursu orationis sic errorem cognoscit absonum, quemadmodum boni mores crimen detestantur externum . . . Grammatica magistra uerborum, ornatrix humani generis, quae per exercitationem pulcherrimae lectionis antiquorum nos cognoscitur iuuare consiliis. Hac non utuntur barbari reges: apud legales dominos manere cognoscitur singularis. Arma enim et reliqua gentes habent: sola reperitur eloquentia, quae Romanorum dominis obsecundat; see Riché (above n. 7) 68 and in general 62–69 on the schools in Rome and in other important Italic cities; see also Rota (above n. 23) 17–22. Justinian confirmed these privileges (quatenus iuuenes liberalibus studiis eruditi per nostram rempublicam floreant), as we know from a paragraph in Sanctio Pragmatica (Nov. Iust. app. 7,22). 25) Var. 9,21,8.
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In the middle of Theoderic’s reign (ca. 511/2), Ennodius dedicated an opusculum to two of his pupils; it is traditionally known as Paraenesis didascalica26. The two youths for whom it was intended, Ambrosius and Beatus, had gone to Rome to complete their literary education and had asked Ennodius for advice as to how they should proceed in their studies, which schools of rhetoric and which teachers to follow27. This short book, which finishes by praising a series of scholars among the Roman Senatorial elite – including Symmachus, the young Boethius and Cethegus – whom the author recommends to his pupils as teachers, has a particular structure. Alternating passages of praise and poems (the author’s own choice, as he states)28, Ennodius describes the most important Christian virtues, ‘Verecundia’, ‘Castitas’ and ‘Fides’, and also the foundations of the learning (de praefatis uirtutibus facessat studiorum liberalium deesse diligentiam, per quam diuinarum bona rerum quasi pretiosi monilis luce sublimentur), ‘Grammatica’ and ‘Rhetorica’; the latter are characterised as nurse and mother of the liberal arts29. However, close observation of the individual parts of the work brings out an interesting aspect: are these not qualities which Cassiodorus was to attribute to Matasuentha twenty-five years later in the panegyric? Let us repeat them in order: castitas, 26) F. Vogel ed., MGH AA 7, opusc. 6. Following tradition, we are using this title, even if it may be incorrect; see for this G. Moretti, L’Epistula didascalica di Ennodio fra Marziano Capella e Boezio, in: F. Gasti (ed.), Atti della prima Giornata Ennodiana, Pavia 29–30 marzo 2000 (Pisa 2001) 69–78 at 71; see bibliography below, n. 35. 27) Opusc. 6,1: multis etenim supplicationibus exegistis, ut pagina uobis concinnationis didascalicae fingeretur. Volens me in multorum iura summisi . . . and § 26: Ecce habetis gratiae meae obsidem paginam, quam uelut pedagogam sectamini; see also § 18, quoted below, n. 51. 28) Opusc. 6,3: me tamen diu tenuerunt anxium deliberationis incerta, utrum ad uos per carmen an epistulari lege uerba promulgarem. Elegi affectionem meam circa uos utroque dicendi calle patefacere, quia et praecipientem decet fortis elocutio et pressis admonitione mentibus mollioris stili cura subuenitur. 29) Opusc. 6,10–11 (see also §§ 12–13), ‘Grammatica’: Istae tamen prae foribus q u a s i n u t r i c e m ceterarum anteponunt grammaticam . . .; opusc. 6,14–17, ‘Rhetorica’ (§§ 16–17): Ad meum conpendium ubicumque est Romanus inuigilat. Fasces diuitias honores si non ornamus, abiecta sunt. Nos regna regimus et inperantis salubria iubemus . . . Ante scipiones et trabeas est pomposa recitatio . . . Poetica, iuris peritia, dialectica, arithmetica, cum me utantur q u a s i g e n e t r i c e , me tamen adserente sunt pretio (see also Cassiodorus, quoted at notes 24 and 39). To the Rhetorica Martianus Capella dedicates the central book of De nuptiis (the fifth in a work structured in nine books). See for example Riché (above n. 7) 79–80.
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uerecundia30 and honora sapientia – the latter referring to the sermo linguae; Cassiodorus adds modestia tranquilla (to regulate the gressus religiosi)31, and two more basic virtues of the traditional sovereign, temperantia and pietas32. This is not all. Are not these (as a whole) also the very same aforementioned qualities attributed to Amalasuintha? Cassiodorus’ Roman profile of the female Amal royalty is founded almost on the same repertoire of virtues which also Ennodius recommended to his pupils. However, Matasuentha’s virtues reflect the ideal feminine figure of the Roman aristocracy33, while the virtues of Amalasuintha – the queen who rules for her infant child – show about all a political (platonic) significance. The complete list of virtues with their political and neo-platonic significance, referring to the four Cardinal Virtues, is found for example in Macrobius’ Commentarium in Somnium Scipionis. It is significant that this work was re-edited at Ravenna just before 485 by Symmachus the younger together with a descendant of the author (as we are informed by a subscriptio)34. 30) It is worth noting Cassiodorus’ reference to Matasuentha (Traube ed., 480 ll. 5–7): Prima frontem castitas caelestis instituat; deinde r o s e a u e r e c u n d i a g e n a s d e p i n g a t , and Ennodius’ verses of Paraenesis didascalica 5, referring to ‘u e r e c u n d i a ’, the mater bonorum operum: Ti n g u i t e c a n d e n t e s r o s e o d e murice uultus / Atque fidem morum pandite de facie. / In niueo spargens maculas sis pulcrior o r e , / Cum sudans tenerum r o s c i d a c o l l a feras. / Nil tibi plus l i n g u a tribuas quam s t e m m a t e f r o n t i s . / Quicquid amare libet, hinc tibi concilia. 31) The fides, which Cassiodorus does not mention in the panegyric to Matasuentha, is indirectly attributed to Amalasuintha in var. 11,1,19 (quoted above). This uirtus occupies the central position of Ennodius’ work, opusc. 6,8–9: . . . fidei ornate consortio, quia sicut in emendatis moribus principem locum optinet . . . quia nihil est quod fidem possit anteire . . . 32) See, for example, the aforementioned var. 11,1,19 and 10,4,5 (about Amalasuintha); also var. 10,3,7 and 11,13,4 (Theodahad). 33) See bibliography above, n. 2. 34) Macr. In somn. Scip. 1,8,7: p r u d e n t i a e insunt r a t i o , intellectus, circumspectio, prouidentia, docilitas, cautio . . . f o r t i t u d o praestat magnanimitatem, fiduciam, securitatem, magnificentiam, constantiam, tolerantiam, firmitatem . . . t e m p e r a n t i a m sequuntur m o d e s t i a , u e r e c u n d i a , abstinentia, c a s t i t a s , honestas, m o d e r a t i o , parcitas, sobrietas, pudicitia . . . de i u s t i t i a ueniunt innocentia, amicitia, concordia, p i e t a s , r e l i g i o , affectus, humanitas. See Willis ed. 2,94: Aur. Memm(ius) Symmachus u. c. emendabam uel disting(uebam) meum Rauennae cum Macrobio Plotino Eudoxio u. c. Macrobii Ambrosii Theodosii u. c. et inl. de Somnio Scipionis lib. prim. About the political meaning of these virtues see for example C. Zintzen, Römisches und Neoplatonisches bei Macrobius (Bemerkungen zur politikØ éretÆ im Comm. in somn. Scip. I 8), Palingenesia 4 (Wiesbaden 1969) 357–376.
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These (and other) coincidences between the panegyrist and compositor of official letters for the Gothic court, and an author who entertained his private correspondence with personages of the Roman aristocracy, are remarkable, particularly because of the great significance that modern critics have given to Ennodius’ work35 as a prescriptive model for the Roman governing elite in Ostrogothic Italy (Ambrosius, one of the addressees of the opusculum, is probably the same person who became quaestor palatii of Athalaric in A. D. 526/7)36. The booklet provides an educational system which, in line with the tendency prevailing at that time, unites the disciplines of the classical cultural heritage with the Christian virtues (see below, the example of Symmachus); the latter were already prominent in the late fourth and at the beginning of the fifth century in the religious treaties (for example De officiis, De uirginitate and De doctrina christiana) of Jerome, Ambrose, John Chrysostomus, Augustine, as well as in the private correspondence of some of them with women of the Roman aristocracy37. This model clears the way for the liberal arts38, particularly valued in that period by Boethius, Symmachus, Cassiodorus, and by Martianus Capella before them39. Cassiodorus tends to charac35) See S. Léglise, Saint Ennodius et la haute éducation littéraire dans le monde romain au commencement du VIe siècle, L’Université Catholique n. s. 5 (1890) 209–228, 375–397, 568–590; W. Couvreur, ’n Paedagogisch traktaat uit het begin der VIe eeuw. Paraenesis didascalica van Magnus Felix Ennodius, also id., ’n Paedagogisch traktaat uit het begin der VIe eeuw. Ennodius als dichter en paedagoog, Philologische Studien 5 (1933/34) 122–133 and 215–226; R. A. Rallo-Freni, Le concezioni pedagogiche nella Paraenesis didascalica di Magno Felice Ennodio, in: Umanità e Storia. Scritti in onore di Adelchi Attisani 2: Letteratura e storia (Messina 1971) 109–126; L. Navarra, Ennodio e la “facies” storico culturale del suo tempo (Cassino 1974) part. 13–17; J. C. Relihan, Ancient Menippean Satire (Baltimore/London 1993) 164–175 and 211–219 (the English translation); Moretti (above n. 26) 69–78; S. A. H. Kennel, Magnus Felix Ennodius: A Gentleman of the Church (University of Michigan 2000) 54, 163–164. 36) See J. R. Martindale, The Prosopography of the Later Roman Empire, II, A. D. 395–527 (Cambridge 1980) 69. 37) About the meaning of these Christian virtues in the fourth and fifth centuries and the Christianising of the women of the Roman elite see for example the bibliography at n. 2. 38) Ennodius also mentions the disciplinae or the liberal studia in other works (see the index in Vogel ed., 392). 39) It is known that besides translating and commentating philosophic works Boethius also dedicated himself to the sciences of the quadriuium. As for Cassiodorus, considering the structure of the second book of the Institutiones,
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terize the Amal queens accordingly, whose mores and Christian virtues accompany and complete the knowledge of the litterae. From this point of view, the virtues of Matasuentha, like those of Amalasuintha and the other queens, beside casting light on the question of the court’s culture, demonstrate in particular the direct link of the royal Amal family with the education of the RomanItalic elite. In order to gain a clear understanding of the importance of certain virtues in the Roman education – also for female member of aristocratic families – at that time, it is sufficient to read how Boethius remembered his wife Rusticiana in his Consolatio: she was the daughter of the celebrated Symmachus, uxor ingenio modesta, p u d i c i t i a p u d o r e praecellens et, ut omnes eius dotes breuiter includam, patri similis40 (in this context Ennodius, Paraen. Didasc. 6, about the ‘Castitas’ is interesting: p u d o r i ergo cognatam semper sociate p u d i c i t i a m ). And, above all, one needs only to read what Ennodius wrote in the Paraenesis didascalica about Barbara and Stephania, two women belonging to the Roman nobility who were renowned for their mores and for the sermo, and who are true models to be imitated: Iam si matronarum delectat aditio, habetis domnam Barbaram, R o m a n i f l o s g e n i i , quae testimonio uultus patefaciat lucem sanguinis et saporis, i n q u a i n u e n i e t i s e t u e r e c u n d a m s e c u r i t a t e m e t de bono actionis confidentem uerecundiam, sermonem n a t u r a l i e t a r t i f i c i s i m p l i c i t a t e c o n d i t u m , ut nec lepos deuenustet alloquii nec duris splendor feminarum rigescat affatibus, in qua sic in naturam transiit honestatis diligentia, ut si uel mentiri uellet, non possit errorem. Sonat p u d i c a m l i n g u a dulcedinem nec mentis nubilum tecto s e r e n i s e r m o n i s operitur: hoc est pectoris quod
where, in praef. 4, he states the topics he will deal with: de arte grammatica, quae est uidelicet origo et fundamentum liberarium litterarum . . . de arte rhetorica, quae propter nitorem et copiam eloquentiae suae maxime in ciuilibus quaestionibus necessaria nimis et honorabilis aestimatur; the following section, the third, is devoted to logica (quae dialectica nuncupatur), and the fourth deals with the sciences of the quadriuium. Martianus Capella devotes books III–IX of De nuptiis to the single disciplines of the triuium and the quadriuium. It is significant that De nuptiis was re-edited at Rome – in a school ad portam Capenam – in 534 by Securus Melior Felix and his scholar Deuterius (as we are informed in a subscriptio). 40) Boeth. cons. 2,4,6. Such female virtues derive directly from the traditional pagan ones, examples of which are found in some well known funeral inscriptions: ILS 8393 ll. 30–34 (Turia); ILS 8394 (Murdia); ILS 1259 (Aconia Paulina). About this topic see in general E. A. Hemelrijk, Masculinity and Femininity in the Laudatio Turiae, CQ 54 (2004) 185–197.
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M a s s i m i l i a n o Vi t i e l l o loquelae. Det ueniam feminarum diadema praesumenti, quod eius inuideo quieti: u e l i m i l l a m o m n i b u s I t a l i a e p a r t i b u s i m i t a tionem praeferri, ut quae non adquiescunt monitis form a r e n t u r e x e m p l i s . Est illic etiam Stefania, splendidissimum catholicae lumen ecclesiae, cuius natales ita maiore luce fuscantur, si m o r e s intellegas, ac si facem mundi oculus sol obumbret: si ingenitae conuersationis radios seponas, plus eius sanguine nil lucebit41.
It is notable that their image is not unlike that of Amalaberga as described (at around the same time) by Cassiodorus in a few telling words: q u o d n u t r i u i t I t a l i a , l i t t e r i s d o c t a m , m o r i b u s eruditam, decoram non solum genere, quantum et f e m i n e a d i g n i t a t e (var. 4,1,2, quoted above). One can also compare the terminology with the aforementioned panegyric to Matasuentha: u e r e c u n d i a . . . s e r m o n e m l i n g u a e h o n o r a s a p i entia largiatur. It could be just a coincidence but exactly at that time Barbara, exalted by Ennodius as flos Romani genii and possessing the aforementioned virtues, was invited to court to take an official position, probably as tutor for Amalasuintha! In a letter Ennodius congratulated and tried to persuade her to accept the position: promitto mihi etiam et desideriis meis, quod cum felicitate uestra et gaudio a d c o m i t a t e n s e s e x c u b i a s , quae uotis meis satisfaciat, dignitas adepta uos euocet. Noli, domna, huic te labori, huic oneri submouere. Videant b o n a R o m a n a e c i u i t a t i s prouinciae et, q u a e m o n i t i s u i x i n s t i t u u n t u r, p e r b o n a q u a e u o b i s d e u s c o n t u l i t f o r m e n t u r e x e m p l i s (a similar expression referring to Barbara Ennodius uses in the Paraenesis didascalica)42. Thus, Cassiodorus, both panegyrist and ‘minister of education’ of the Amals43, exalted and favoured during his long career the spread of a model of education at the Gothic court that was not unlike that of the Roman elite, as for example recommended by 41) Ennod. opusc. 6, part. 23–25. 42) Ennod. epist. 8,16,3 (to Barbara); he addressed to Barbara also epist. 8,27, to Stephania (the sister of Fl. Anicius Probus Faustus junior Niger) epist. 8,17; 9,15; 9,18. See Martindale (above n. 36) 1028 (Stephania 1) and 209–210 (Barbara): “Possibly she was invited to act as tutor to Theoderic’s daughter Amalasuintha, on account of her interest in literature” (quoted 210). Barbara received in her home at Rome Ennodius’ pupils; among them was Beatus (Ennod. epist. 7,29,5). 43) See notes 7 and 44.
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Ennodius and presumably introduced to royal women of the Ravenna palace by highly educated people like Barbara. Cassiodorus did not hesitate to characterize the Amal queens, especially the last two ones, according to this traditional model, and behind that can be recognized the political ideals of Amalasuintha, supporter of a Roman model of royalty44 and of education. She had her daughter raised according to this model. I would like to see the educational perspective of Ennodius and Cassiodorus – although referring to different environments (there is no evidence for relations between the both authors) – as referring back (or, at least, linked) to the ‘Archetype’ of the Roman Anicii; it was no coincidence that they always felt connected to them by ties of both family and learning45. This we can grasp especially from the excerpta of that enigmatic booklet of Cassiodorus known as Ordo generum Cassiodororum46, addressed to Cethegus, in which Symmachus and Boethius are the eruditi of the family to which Cassiodorus liked to associate himself: a book in which the theme of eruditio is, together with imitatio, the central one, and not by 44) See above n. 16. Amalasuintha at that time confered to Cassiodorus the praetorian prefecture: one of his merits was to have entertained cultural dialogues with Theoderic; var. 9,24,8: egisti [i. e. Cassiodorus] rerum domino iudicem familiarem et internum procerem. Nam cum esset publica cura uacuatus, sententias prudentium a tuis fabulis exigebat, ut factis propriis se aequaret antiquis. Stellarum cursus, maris sinus, fontium miracula rimator acutissimus inquirebat, ut rerum naturis diligentius perscrutatis quidam purpuratus uideretur esse philosophus. Longa fiunt, si cuncta proferamus: quin potius ad beneficia nostra conuertimur, ut quod ab illo cognoscebatur deberi, ab herede inperii tibi sentias iuste persolui. 45) See also below, notes 46–51. In spite of the varying reactions it has aroused, the well-known essay by A. Momigliano, Gli Anicii e la storiografia latina di VI sec. d. C., RAL ser. VIII 9 fasc. 11–12 (1956) 279–297 (= Secondo contributo alla storia degli studi classici [Roma 1960] 231–253) is still valid with regard to the role of the Anicii in Ostrogothic Italy. 46) The document was published for the first time by H. Usener, Anecdoton Holderi. Ein Beitrag zur Geschichte Roms in ostgotischer Zeit (Bonn 1877). See among the various contributions: O’Donnell (above n. 23) 259–266; Krautschick (above n. 7) 78–84; F. Troncarelli, L’Ordo generis Cassiodororum e il programma pedagogico delle Institutiones, REAug 35 (1989) 129–134; id., Vivarium: i libri, il destino (Turnhout 1998) 16–18; A. M. Milazzo, L’Anecdoton Holderi: un genere letterario contaminato, in: S. Leanza (ed.), Cassiodoro. Dalla corte di Ravenna al Vivarium di Squillace, ‘Atti del Convegno Internazionale di Studi Squillace, 25–27 ottobre 1990’ (Catanzaro 1993) 177–189; finally the edition by A. Galonnier, Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum. Introduction, édition, traduction et commentaire, AntTard 4 (1996) 299–312.
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chance47. (It is also worth noting that Cassiodorus referred to Symmachus as antiquorum diligentissimus i m i t a t o r, modernorum nobilissimus i n s t i t u t o r in a letter48, and that the latter had re-edited Macrobius’ Commentarium in Somnium Scipionis at Ravenna – an important work, containing the complete list of the political virtues [see above, note 34].) Cethegus, Symmachus and Boethius are precisely the eruditi who, together with other illustrious members of the circle, are recommended by Ennodius to his pupils as famous Roman masters (Haec ergo, dulcissimi, et adsequi contendite et adepta custodite. Sed replicetis: quibus ad ista m a g i s t r i s , quibus utamur i n s t i t u t o r i b u s , quorum erigamur e x e m p l i s )49; Symmachus, who is invoked in the final verses of the booklet, probably received a copy of it50. Ennodius added to these three erudites also 47) Ll. 3–4, Ordo generis Cassiodororum qui scriptores extiterint ex eorum progenie uel ex quibus eruditis . . .; ll. 5–7, Symmachus . . . uir philosophus q u i a n t i q u i C a t o n i s f u i t n o u e l l u s i m i t a t o r sed uirtutes ueterum sanctissima religione transcendit . . . p a r e n t e s q u e s u o s i m i t a t u s historiam quoque Romanam septem libris edidit; ll. 9–14, Boethius . . . utraque lingua p e r i t i s s i m u s orator fuit . . . sed in opere artis loicae id est dialecticae transferendo ac mathematicis disciplinis talis fuit u t a n t i q u o s a u c t o r e s a u t a e q u i p a r a r e t a u t u i n c e r e t ; ll. 14–15, Cassiodorus u i r e r u d i t i s s i m u s (Galonnier ed.). It is interesting to note that Cethegus, the addressee of the pamphlet, was still active at court in the role of magister officiorum: a position that Boethius and Cassiodorus had also held or would hold. 48) Var. 4,51,2 (A. D. 507–511). About Symmachus and his circle see for example P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, de Macrobe à Cassiodore (Paris 1948) 304–312; M. A. Wes, Das Ende des Kaisertums im Westen des Römischen Reichs (’s-Gravenhage 1967) 89–148; P. Heather, The Historical Culture of Ostrogothic Italy, in: Teoderico il Grande e i Goti d’Italia, ‘Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo, Milano 2–6 novembre 1992’ (Spoleto 1993) 332–335; Moorhead (above n. 7) 158–172. 49) Opusc. 6,18; see also § 25: Istorum, quoscumque praefatus sum, caelestis uos dispensatio iungat obsequiis. 50) The final dedication to Symmachus as (metaphorical) saviour of the shipwrecked (Opusc. 6,26): Symmache . . . Da dextram tenui et tecum me tolle per undas. / Non facit ad mores credentem fallere sanctus. / Nil moror: en supplex uenio, miserere precanti, / Vilia diuitibus commendans dicta patronis; and the closing lines: Germina clara / sumite sicci / uerba parentis . . . Very important is Ennod. epist. 8,28,2–3, to Beatus: ergo honore salutationis adcepto noueris me iuxta petitionem uestram epistolam ad uos admonitionis quamuis sub festinatione dictasse, q u a m a d domnum patricium Symmachum idcirco dirigere procuraui, ut q u o d i n e a e m e n d a t i o n e d i g n u m e s t c o r r i g a t u r. Sed propter subreptionem neglegentiae te quoque eius exemplaribus informaui. Qua de re tu apud te esto et caue ne tibi ad te perlata manifestes conprehenso superius eminentissimo uiro, ceu rem nouam postulans, quia si eius eam magisterio placuisse cognoueris, ad notitiam perferre eorum qui sapiunt non timebis. See Moorhead (above n. 7) 161.
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Faustus (Stephania’s brother), Avienus, Festus, Probinus (father of Cethegus), Agapitus and Probus51. These persons were exponents of the familia toto orbe praedicata, which even have bonds of relationship with the Amals – ten years after the execution of Boethius and Symmachus a member of the family married a princess of the royal house52 – and which, together with other associated families, 51) Opusc. 6,18–22: Sed replicetis: quibus ad ista magistris, quibus utamur institutoribus, quorum erigamur exemplis, cum F a u s t u m et A u i e n u m , saeculi nostri beatitudinem et Latiaris flumen eloquii, aulicis districtum teneat fors secunda consiliis? . . . patricii F e s t u s et S y m m a c h u s , omnium disciplinarum materia et constantis forma sapientiae, ab urbe sacratissima non recedunt. In ipsis est nobilis curiae principatus, quos uidisse erudiri est . . . istorum quamuis in omnibus iussa sequenda sint, est tamen in illis et magistra taciturnitas et eruditi forma silentii. Est etiam P r o b i n u s patricius, Placidi germinis examinata claritudo, quem eruditorum familiae mores ad unguem ducti contulerunt, qui et de patris et de soceri hausit fonte, quod mundus est. Est patricius C e t h e g u s , eius filius, uir consularis, qui canam prudentiam minor transgrediens sine aetatis praeiudicio habet et prouectorum saporem et mella pueritiae. Est B o e t i u s patricius, in quo uix discendi annos respicis et intellegis peritiam sufficere iam docendi, de quo emendatorum iudicauit electio. Est A g a p i t u s patricius, et honestate diues et scientia. Est P r o b u s V. I., quem si sequamini, illum Faustum et Auienum, quos praedixistis, praesentes, etiam cum desunt, habebitis. Ceteros claros uiros, quos tantum ad me opinio detulit, silentio relinquo: per hos, si uobis iam cordi est maturitas, aut per eos, quos sum praefatus, agnoscite. Manifestis enim patet indiciis amicus bonorum nec in altero mores quisquam hominum, nisi quos in se formauit, amplectitur. As for the family ties and links with the Anicii claimed by Ennodius, with Boethius in particular, see also epist. 7,13,3–4, in general epist. 8,1, and epist. 7,25, to Symmachus, in which we read (§ 2): restat in potestate celsitudinis uestrae, si sustinere eligitis garrulum, non tacere et de originario Symmachiani fontis lacte me pascere. Vale in Christo nostro, Romanae gentis nobilitas, et me iam ut clientem et famulum pro morum et naturae luce dignare; also epist. 8,28,2 (quoted above, n. 50). See Troncarelli (above n. 46) 134: “Ennodio ha delineato, in sostanza, l’itinerario che un giovane desideroso di entrare nelle grazie degli Anicii deve compiere: mostrare fede religiosa, verecondia e castità cristiane; conoscere la grammatica e la retorica che dischiudono l’universo delle arti liberali; prendere a modello uomini come Simmaco, Boezio e Cetego, pedagoghi di una generazione. Il rapporto con l’Ordo cassiodoriano è evidente: anche in questo caso l’imitazione dell’esempio prestigioso dei più celebri degli Anicii è il fulcro di un programma etico politico che porta alla civilitas . . .”. See also Milazzo (above n. 46) 187–188. 52) The family of the Anicii was celebrated as late as 535 by Theodahad, in two letters referring to the investiture as primiceriatus of Maximus, who had married a princess of the Amal family; var. 10,11,2: Anicios quidem paene principibus pares aetas prisca progenuit: quorum nominis dignitas ad te sanguinis fonte perducta collectis uiribus hilarior instaurata rutilauit. Quis ergo relinqueret in posteris minus honoros, quos tamdiu constat fuisse praecipuos? Accusarentur saecula, si talis potuisset latere familia; var. 10,12,2: neque enim fas est humile dici quod gerit Anicius: f a m i l i a t o t o o r b e p r a e d i c a t a , quae uere dicitur nobilis, quando ab ea actionis probitas non
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maintained a true “intellectual dominance”53 in that difficult and complex period of history. They taught aristocratic offspring and prepared it for later government; even aristocrats from outside Rome sent their children or youthful protégés to them (see for example Cassiod. var. 4,6 and also Ennodius’ letters referring to Pathenius [epist. 5,9–12]). They were, more or less deliberately, models of the age: not only the heirs but also the jealous custodians of the Roman traditions in an Italy threatened by the Germanic gentilitas. Their venerable mores, their at this time Christian virtues (according to Cassiodorus Symmachus was the uir philosophus qui antiqui Catonis fuit nouellus imitator s e d u i r t u t e s u e t e r u m s a n c t i s s i m a r e l i g i o n e t r a n s c e n d i t , while Boethius remembered him as illud pretiosissimum generis humani decus . . . uir totus ex sapientia uirtutibusque factus)54, which were transmitted through their parentes like Barbara and like Cassiodorus, penetrated the Ravenna palace, conferring a patina of the Roman spirit to the Gothic royalty. Indeed, it was Rome that could boast, as the Amal domination came to an end, that it had “nourished at its breast” certain members of the reigning family. Or, at least, the old venerable goddess was pleased to claim in Theodahad’s eulogy: habui multos reges, sed neminem huiusmodi litteratum: habui prudentes uiros, sed nullum sic doctrina et pietate pollentem. Diligo Hamalum meis uberis enutritum, uirum fortem mea conuersatione compositum . . .55. Münster
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recedit. The marriage is referred to in var. 10,11,3–4 and 10,12,3–4. Consider also the much-debated statement by Jordanes, Get. 314, concerning the youthful Germanus, the posthumous son of Germanus, nephew of Justinianus and Matasuentha: in quo coniuncta Aniciorum genus cum Amala stirpe spem adhuc utriusque generi domino praestante promittit. We know that Amalasuintha gave back to the heirs of Symmachus and Boethius the properties confiscated by Theoderic; see Prok. BG 1,2,5. 53) The expression is Momigliano’s (above n. 45) 233. 54) Anec. Hold. 5–6; Boeth. cons. 2,4,5. 55) Var. 11,13,4; see also Prok. BG 1,6,15; Cassiodorus also uses the verb nutrire in var. 4,1,2 (quoted above) and 11,21,8 (the work of the magistri); also see var. 2,1,2: ut alumnos proprios ad ubera sua Roma recolligat; var. 4,6,3: Roma . . . illa eloquentiae fecunda mater, illa virtutum omnium latissimum templum, var. 10,7,2. As for the definition of Rome as the nourisher of liberal disciplines see Ennod. epist. 5,9,2: in qua est natalis eruditio; epist. 6,23,1: urbem amicam liberalibus studiis; epist. 7,19,2: in illa urbe litterarum, and 4: constitit cum conatibus Latiaris elocutio, dum per alueum suum Romanae eloquentiae unda praelabitur.
EIN BISHER UNBEACHTETES QUELLENZEUGNIS ZUR TROJANISCHEN HERKUNFT DER FRANKEN Hilarion aus Verona, Vita Caroli Magni Solange nicht nur der Einzelne, sondern auch die religiös-politische Gemeinschaft Anfänge als macht- und kraftvoll erlebten, konnten in der europäischen Geistesgeschichte Mythen vom Anfang, von Gründern, ersten Erfindern über viele Jahrhunderte ihren festen Platz behaupten.1 Wie der Einzelne neigt auch eine Gemeinschaft dazu, den eigenen Anfang und Ursprung zu verklären und in ein strahlendes Licht zu rücken. Zahlreiche europäische Völker, Herrscherhäuser, Adelsfamilien und Städte versuchten ihr Ansehen zu mehren, indem sie ihren Ursprung auf eine Gottheit oder einen Helden aus Mythos oder Geschichte zurückführten. Dass seit dem Hellenismus sehr häufig trojanische, seltener griechische oder römische Helden oder Könige zu Stammvätern von Völkern und Herrscherhäusern erhoben wurden, darf wohl zu den Merkwürdigkeiten2 der europäischen Mentalitätsund Geistesgeschichte gerechnet werden, falls man nicht Vergil, der als Prophet Christi galt, und seine Aeneis als exemplarisch bewertet hat.3 1) Reich an Hinweisen sind die diesbezüglichen Einträge im RAC: Speyer (1976); Cornell/Speyer (1983); Görgemanns (1985). 2) Merkwürdigkeit deswegen, weil es nicht unmittelbar einleuchten will, dass ein Volk seine Ursprünge auf jene Helden zurückführt, die vor ihren Kriegsgegnern schmachvoll die Waffen strecken mussten, ihrer Heimat verlustig gingen und jahrelang über die Meere irrten. In einem sehr alten, vielleicht sogar in der Kleinen Ilias wurzelnden Überlieferungsstrang galten diese mythischen Ahnen zudem als Verräter: Aeneas und Antenor sollen es gewesen sein, die mit dem griechischen Feind kollaborierten und deswegen auch das Recht auf freien Abzug aus Troja zugesprochen bekamen, vgl. Dares Kap. 37–41 (ed. F. Meister, Lipsiae 1873). Und nun soll es als ruhmvoll gelten, Besiegte und zugleich Verräter am Anfang des eigenen Stammbaumes zu haben? Auf die Fährten dieser Tradition begaben sich Pascal (1904), Scholz (1911) 26–32, Ussani iun. (1947) und zuletzt Scuderi (1976). 3) Obwohl sich noch niemand die Mühe gemacht hat, eine systematische Sammlung der Zeugnisse über die Herleitung von den Trojanern zu erstellen, gehört die trojanische Herkunftssage zu jenen Gegenständen, denen die historische und
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An dieser Stelle soll ein bisher unbeachtetes Quellenzeugnis zur trojanischen Herkunftssage vorgestellt und in die Traditionsgeschichte eingeordnet werden. Hilarion aus Verona (um 1444– 1485/94?)4, ein Benediktinermönch aus der Reformkongregation von St. Justina, verfasste im letzten Viertel des 15. Jh. eine erst kürzlich wiederentdeckte Lebensbeschreibung Karls des Großen.5 Diese hatte sein Freund und Gönner Francesco Todeschini Piccolomini (1437/39–1503), ein Neffe des berühmten Humanistenpapstes Pius II. (1458–1464) und im Jahre 1503 als Pius III. selbst Papst für 40 Tage, in Auftrag gegeben. Als Hauptquellen für diese Schrift dienten Hilarion Einhards berühmte, in den 20er oder 30er Jahren des 9. Jh. entstandene Biographie Vita Caroli Magni und die Karlsvita des Florentiner Humanisten Donato Acciaiuoli (1429–1478). Allerdings nimmt der Mönch dabei eine eigenwillige, aber bedeutsame Veränderung vor: Karl der Große ist nicht wie bei Einhard rex Francorum, sondern rex Gallorum. Diese besondere Akzentuierung dürfte mit zeitgenössischen politischen Konstellationen und daraus resultierenden Interessen zu erklären sein.6 Im Gegensatz zu Einhard beginnt Hilarion seine Vita mit einer kurzen Einleitung, von der er bald zu einer gerafften landeskundlichen Beschreibung Galliens überleitet. Nach der territorialen Abgrenzung und einer knappen Aufzählung bedeutender Städte und Stämme in Gallien kommt der Verfasser auf die (sagenhaften) Anfänge des Landes zu sprechen7: philologische Forschung breites Interesse geschenkt hat. Die Thematik wurde immer wieder aus verschiedenen Blickwinkeln, mit je anderem Quellenmaterial und mit unterschiedlicher Akzentuierung und Methodik behandelt, vgl. unser Literaturverzeichnis. 4) Auskunft über Leben und Werk erteilen: Avesani (1984) 206–210; Gualdo Rosa (1984); unlängst Strobl (2002[a]) 197–215. Neuere Einzeluntersuchungen: Farenga/Miglio (1984), Fuiano (1984), Backus (1987), Schmidt (1997), Strobl (2000), Strobl (2003[a]), Strobl (2003[b]), Strobl (2005), Strobl (2006). 5) Strobl (2002[b]). 6) In einer eigenen Studie, die auch eine kritische Ausgabe der Karlsvita Hilarions bieten soll, gedenke ich auf diese Zusammenhänge näher einzugehen. 7) Für die Humanisten typische Schreibungen wurden in allen Fällen beibehalten: Henetos statt Venetos (Z. 4), plaerique statt plerique (Z. 8), Grecos statt Graecos (Z. 9), Halanos statt Alanos (Z. 13), duos de triginta statt duodetriginta (Z. 19), offenkundige Schreibfehler hingegen korrigiert: Priamum statt Prianum (Z. 2), Priami statt Priani (Z. 2), Priamo statt Priano (Z. 18), strenuus statt strennuus (Z. 20).
Hilarion aus Verona, Vita Caroli Magni Galliam primum omnium habitasse et in ea regnum habuisse tradunt Priamum quendam, Priami eiusdem nominis filium, qui capta Troia et incensa socium Antenori se addiderat et post fundata oppidula apud Henetos ad Hadriaticum sinum relicto Antenore novi regni cupiditate motus in hanc provinciam comitatu multo concessit, ubi a Gallis receptus sua virtute et probitate haud multo post in regem assumptus est. Galli autem, ut plaerique afferunt, a corporum pulcritudine atque albedine, quod gãla apud Grecos lac significet, vel, ut magis Livio assentiar, ab eorum superbia atque insolentia, qua gallis cohortalibus comparantur, appellati sunt perpetuo usque ad Valentiniani imperatoris Augusti tempora. A quo ob devictos Halanos Romano imperio infestos cum Romanorum vectigales essent, decennali immunitate donati sunt, ne solita tributa pensitarent. Hinc enim primum eorum lingua Francos ab hac scilicet (fol. 3v) libertate appellari coeptos aiunt. Sed haec vel nihil vel parum ad rem nostram. Priamo successit in regnum †M. Maena† filius, qui multa foelicitate annos fere duos de triginta regnavit, vir bello impiger et strenuus plenusque consiliorum. Huic Ferramontes tertius fuit haud patri dissimilis, qui bello et pace uti non ignoraret. Cuius fortitudine Gallicum imperium Romanis omne sublatum est et in pristinam libertatem redactum. (fol. 4r) (Cod. Rep. II 73b, fol. 3v –4r) Gallien habe als Erster von allen – so ist es überliefert – ein gewisser Priamos bewohnt und dort habe er auch sein Königreich besessen. Dieser war ein Sohn des gleichnamigen Priamos. Nach der Eroberung und Brandschatzung Trojas hatte er sich als Begleiter Antenor angeschlossen. Nachdem Antenor nach der Gründung von kleineren Städten bei den Venetern am Adriatischen Meer zurückgeblieben war, begab er sich, vom Verlangen nach einem neuen Königreich angetrieben, mit einer zahlreichen Gefolgschaft in diese Provinz. Dort wurde er von den Galliern aufgenommen und wegen seiner Tüchtigkeit und Rechtschaffenheit nicht viel später zum König gewählt. Gallier aber wurden sie, wie sehr viele mitteilen, nach der Schönheit und der strahlend weißen Farbe ihrer Körper genannt, weil gãla bei den Griechen so viel wie Milch bedeutet, oder, um Livius mehr Glauben zu schenken, nach ihrem Hochmut und ihrer Keckheit, aufgrund derer sie mit Hähnen auf dem Viehhof verglichen werden, und dies ununterbrochen bis zur Zeit des Kaisers Valentinianus Augustus. Dieser belohnte sie nach einem glorreichen Sieg über die Alanen, Feinde des römischen Reiches, weil sie den Römern noch tributpflichtig waren, mit einer zehn Jahre währenden Steuerfreiheit, dass sie die üblichen Abgaben nicht mehr leisten mussten. Denn von da an – so heißt es – begann man sie erstmals mit einem Wort aus ihrer eigenen Sprache, offensichtlich wegen dieser Freiheit, Franken zu nennen. Aber dies trägt nichts oder nur wenig zu unserem Thema bei. Auf Priamos folgte in der Herrschaft sein Sohn †M. Maena†, der mit großem Glück beinahe 28 Jahre regierte, ein im Krieg unverdrossener und wackerer Mann, voller kluger Pläne. Auf diesen folgte als Dritter Ferramontes, seinem Vater nicht unähnlich, weil er Krieg und Frieden
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Wo l f g a n g S t r o b l (für seinen Vorteil) zu nutzen wusste. Aufgrund seiner Tüchtigkeit wurde das gesamte gallische Reich den Römern entrissen und in die alte Freiheit zurückgeführt.
Zur Quellenfrage für diesen Textabschnitt ist Folgendes zu bemerken: Trotz der Durchsicht zahlreicher einschlägiger Zeugnisse ist es nicht gelungen, eine Schrift aufzuspüren, die Hilarion benutzt haben könnte.8 Im Gegensatz zu Einhard, der sich mit einem kurzen Hinweis auf die merowingische Linie (Kap. 1) begnügt und zu Karls Vater Pippin keine näheren genealogischen Angaben macht, führt Hilarion in seiner Karlsvita dessen Geschlecht bis auf einen trojanischen König Priamos, den Sohn des letzten Königs von Troja, zurück. Der Biograph folgt einer Tradition, der zufolge sich der jüngere Priamos nach der Zerstörung Trojas in der Gefolgschaft des Antenor nach Italien begibt, dort an der Adriatischen Küste kleinere Städte gründet und anschließend mit einer großen Gefolgschaft, aber ohne Antenor, nach Gallien aufbricht und dort das erste Königreich begründet. Eine Reihe der in Hilarions Text anzutreffenden Elemente lassen sich auf das merowingische Geschichtswerk Liber historiae Francorum zurückführen.9 Dieses verfasste ein romanischer Westfranke im Jahre 727. Nach der sog. Chronik des Ps.-Fredegar (um 660) ist es das älteste Quellenzeugnis für die trojanische Herkunft der Franken und sollte sich ab dem 9. Jh. als klassische Version der Sage durchsetzen.10 Im Liber begegnet das Motiv, dass Priamos und Antenor nach der Zerstörung Trojas gemeinsam ihre Heimat Troja verlas8) Eine hilfreiche und systematische Auflistung von 44 Quellenzeugnissen für die fränkische Trojanersage in Schriftwerken der Zeit von 600–1600 bietet Klippel (1934) 6–48. 9) Die maßgebliche Ausgabe besorgte Krusch (1888); eine unwesentlich gekürzte lat.-dt. Ausgabe bieten Wolfram/Kusternig (1982); über das Werk handeln: Zarncke (1866) 270–275; Wilmanns (1886) 119–124; Faral (1929) 281–285 (mit einer gründlichen Analyse der Quellen); Klippel (1934) 10–12; Cohen (1941) 105–108; Hommel (1956) 330–331 Anm. 27; Asher (1969) 410; Homeyer (1982) 99; Folz (1983/84) 191–193; Ewig (1998[b]) 15–23; Anton (2000) 24–26. 10) Hilarions Galliam primum omnium habitasse et in ea regnum habuisse tradunt Priamum quendam . . . (Z. 1–2) erinnert an Fredegar 2,4: Priamo primo regi habuerunt (MGH SS rer. Mer. II 45); wenn man eine direkte Benutzung des Ps.-Fredegar auch eher ausschließen wird, scheint dieser textliche Anklang immerhin bemerkenswert; zur Interpretation der Fredegarstelle: Schnürer (1900) 194–195 und Heisig (1974) 445.
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sen haben. Ihre Route führt sie jedoch durch das Schwarze und Asowsche Meer an die Donmündung und von dort weiter durch die Mäotischen Sümpfe nach Pannonien, wo sie die Stadt Sicambria gründen.11 Von einer Trennung der beiden und von der Gründung von Städten an der Adriatischen Küste ist im Liber nicht die Rede. Der Bericht im Liber stimmt mit dem Hilarions aber wieder darin überein, dass Kaiser Valentinian den Trojanern aufgrund eines Sieges über die Alanen eine zehnjährige Steuerfreiheit gewährt habe.12 Damals sei das genannte Volk erstmals als Franken bezeichnet worden, wobei aber der Verfasser des Liber eine völlig abweichende Etymologie des Wortes Franken gibt.13 Auch in der genealogischen Herrscherfolge stimmt Hilarions Version mit jener aus dem Liber überein14, wenn wir von der unterschiedlichen Namensgebung für den zweiten Regenten, der bei Hilarion als M. Maena überliefert ist15, absehen. Im Liber ist im Übrigen auch erstmals der Name Faramonds, der bei Hilarion Ferramontes heißt, als erster König Galliens erwähnt. 11) Liber historiae Francorum 1: Alii quoque ex principibus, Priamus videlicet et Antenor, cum reliquo exercitu Troianorum duodecim milia intrantes in navibus, abscesserunt et venerunt usque ripas Tanais fluminis. Ingressi Meotidas paludes navigantes, pervenerunt intra terminos Pannoniarum iuxta Meotidas paludes et coeperunt aedificare civitatem ob memoriale eorum appellaveruntque eam Sicambriam, habitaveruntque illic annis multis creveruntque in gentem magnam (MGH SS rer. Mer. II 241–242). 12) Liber historiae Francorum 2: Dixit autem imperator (scil. Valentinianus): „Quicumque potuerit introire in paludes istas et gentem istam pravam eiecerit, concedam eis tributa donaria annis decim.“ Tunc congregati Troiani, fecerunt insidias, sicut erant edocti ac cogniti, et ingressi in Meotidas paludes cum alio populo Romanorum, eieceruntque inde Alanos percusseruntque eos in ore gladii (MGH SS rer. Mer. II 242–243). 13) Liber historiae Francorum 2: Tunc appellavit eos Valentinianus imperator Francos Attica lingua, hoc est feros, a duritia vel audacia cordis eorum (MGH SS rer. Mer. II 243). 14) Liber historiae Francorum 4: Illi quoque egressi a Sicambria venerunt in extremis partibus Reni fluminis in Germaniarum oppidis, illucque inhabitaverunt cum eorum principibus Marchomire, filium (!) Priamo, et Sunnone, filio Antenor; habitaveruntque ibi annis multis. Sunnone autem defuncto acciperunt (!) consilium, ut regem sibi unum constituerent, sicut ceterae gentes. Marchomiris quoque eis dedit hoc consilium, et elegerunt Faramundo (!), ipsius filio et elevaverunt eum regem super se crinitum (MGH SS rer. Mer. II 244). 15) Die in der Leipziger Handschrift überlieferte, anderweitig nirgends belegte Variante M. Maena dürfte eine Textverderbnis sein. Ob diese Hilarions Vorlage, Hilarion selbst oder einem späteren Kopisten zuzuschreiben ist, muss freilich offenbleiben.
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Zusätzlich aber enthält die Version des Humanisten einige Besonderheiten, die sich nicht leicht in die uns bekannte ältere Tradition einordnen lassen. So gilt Hilarion zufolge der aus Troja ausgewanderte Priamos als Ankömmling in Gallien, wo ihn die dort ansässige gallische Bevölkerung zum König ausruft.16 Insgesamt rückt Hilarion in seiner Fassung Gallien in den Brennpunkt des Interesses: Gallien wird von Priamos zuerst besiedelt, die Gallier nehmen den Trojaner auf und rufen ihn zum König aus. Vom Toponym Gallien werden zwei Etymologien gegeben, die Gallier (Trojaner?) werden in Franken umbenannt, das Reich der Gallier (nicht jenes der Franken!) erhält schließlich die alte Freiheit zurück. Außerdem stellt der Autor, dem zufolge Priamos gemeinsam mit Antenor an der Adriatischen Küste Städte gründet und darauf mit seinem Gefolge nach Gallien weiterzieht, eine verwandtschaftliche Verbindung zwischen Venedig (oder dem venezianischen Raum) und Gallien oder Frankreich her.17 Unsere Aufmerksamkeit verdient auch die Gestalt des jüngeren Priamos. Während im Liber historiae Francorum unklar bleibt, ob der Antenorbegleiter Priamos der alte König von Troja oder einer seiner Söhne ist, gilt Hilarion wohl aus chronologischen Gründen der gleichnamige Sohn des Regenten als Begleiter des Antenor. Diese Neuerung bzw. Präzisierung der Tradition findet sich zuerst bei Gottfried von Viterbo (um 1120/25–1202[?]), der in seiner Schrift Pantheon (1187) dem Antenor allerdings einen Neffen des alten Priamos als Begleiter zur Seite stellt.18 Die Neuerung Gott16) Eine Sage von der trojanischen Herkunft der Gallier existierte bereits im Umfeld der griechischen Geschichtsschreibung. Im Exkurs über Gallien zitiert der spätantike Geschichtsschreiber Ammianus Marcellinus (15,9,2–7) um 380 n. Chr. dazu den augusteischen Historiker Timagenes von Alexandria (1. Jh. v. Chr.), der selbst wiederum sein Wissen aus verschiedenen Büchern bezog (sed postea Timagenes . . . haec quae diu sunt ignorata collegit ex multiplicibus libris); Amm. 15,9,5: Aiunt quidam paucos post excidium Troiae fugitantes Graecos ubique dispersos loca haec (scil. Galliae) occupasse tunc vacua; eine gründliche Interpretation der Stelle bei Luiselli (1978) 91–99, der die Entstehung der Sage mit erwägenswerten Argumenten in alexandrinisches Ambiente verlegen will; vorsichtiger hingegen Cracco Ruggini/Pavan(†) (1992) 23 mit Anm. 54. 17) Über die (weitgehend konstruierten) Zusammenhänge zwischen den Anfängen Venedigs und Galliens handelt erhellend Gilli (1997) 423–461. 18) Godefridi Viterbienis Pantheon XVII: Tempore igitur quo Aeneas post Troiae destructionem in Italiam venit, Priamus iunior, nepos magni Priami ex sorore, et cum eo Antenor, Troianorum princeps cum 13000 per mare Illyricum in Venetias venerunt. (PL 198, col. 919B); dazu Meyer (1933) 43–8; Grau (1938) 33–4; Killgus (2001) 53–4.
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frieds, sofern man ihm eine solche überhaupt zuschreiben darf19, wird in der Folgezeit zahlreiche Befürworter finden.20 In Gottfrieds Version der fränkischen Trojasage lassen sich schließlich noch weitere inhaltliche und sprachliche Übereinstimmungen mit Hilarions Fassung feststellen.21 Eine weitere Eigenart der Version Hilarions liegt im besonderen Interesse für etymologische Ableitungen. Solche sind häufig in einen Bericht der fränkischen Trojasage eingeflochten.22 Sowohl die Stammesbezeichnung Franci als auch die Benennung Galli führt der Autor auf ihre vermeintliche Grundbedeutung zurück, 19) Zum vierten Regierungsjahr Kaiser Gratians (382) findet sich im sog. Chronicon imperiale, das fälschlicherweise Prosper Tiro aus Aquitanien (5. Jh.) zugeschrieben wurde, folgender von einer späteren Hand vorgenommener Eintrag: Priamus quidam (!) regnat in Francia, quantum altius colligere potuimus (PL 51, col. 859); dazu Zarncke (1866) 258–261; Wormstall (1869) 46–48. Auch in manchen fränkischen Königslisten steht Priamos an der Spitze der genealogischen Abfolge: Vgl. Nomina regum Francorum ex codice Montispess. 377 (MGH SS X [Hannover 1852] 138–9) und Genealogiae breves regum Francorum (MGH SS XIII [Hannover 1881] 249). 20) Meyer (1933) 48 nennt Brunetto Latini, Tesoro 1,39, Galvano Fiamma, Manipulus florum und Giovanni Villani, Cronica, Romein (1948) 215 erinnert an den Tractatus de praerogativa Romani imperii des Jordanus von Osnabrück, und Jung (1984) 114–6 erwähnt die erste Redaktion der anonymen Histoire ancienne sowie die Kompilation La Boucquechardière (zwischen 1416 und 1422) des Normannen Jean de Courcy. Gemäß dieser Schrift (III 2–4) gründet Antenor nach der Flucht aus Troja zunächst in Asien die Stadt Anthenor, aus der er aber von Landomatha, dem Sohn Hektors, vertrieben wird. Mit 2.550 Gefährten gelangt er in der Folge an die Adria und wird in dem von anderen Trojanern gegründeten Venedig gastfreundlich aufgenommen. Nach seiner Ankunft wird er zum König ausgerufen, die Stadt ihm zu Ehren in Anthenoris umbenannt. In seinem Gefolge befand sich auch Priamos, ein Enkel des alten Königs Priamos: Dieser verlässt später aufgrund einer Überbevölkerung mit anderen jungen Trojanern Venedig und gründet im unbesiedelten Pannonien die Stadt Sicambria. 21) Die Landung in Venedig (Priamus iunior . . . et cum eo Antenor per mare Illyricum in Venetias venerunt . . . [PL 198, col. 919B]), die Gründung einer Stadt (Ibique Paduam civitatem aedificantes . . . [ebd.]), die von Kaiser Valentinian gewährte zehnjährige Steuerfreiheit (Quare Germani, ipsius gloriae cupidi, adversus Alanos movent exercitum, eosque vincunt, et omnino exstinguunt, unde per decem annos liberi a tributo fuerunt; [PL 198, col. 919C] und Expletis autem decem annis dum Romani a Francis solita tributa(!) repeterent . . . [PL 198, col. 920B]) und die Umbennung in Franken durch denselben Valentinian (et propter eandem victoriam a Valentiniano imperatore Franci, id est feroces, sunt perpetuo appelati (!) [PL 198, col. 919C]). 22) Vgl. Poujol (1957), Kliger (1950/51), Grau (1938) 19–26; Grundsätzliches zur Etymologie bei Curtius (1948).
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wobei er für jeden Begriff zwei Etymologien präsentiert. Hilarion zufolge habe der Begriff Galli seinen Ursprung entweder in der Schönheit und im Glanz der gallischen Körper, da lac im Griechischen gãla heißt, oder sei, wie Livius behauptet23, auf den Stolz und die Überheblichkeit des Stammes zurückzuführen. Die Bezeichnung Franci hingegen stamme aus dem Sprachgebrauch des Stammes selbst, sei mit dem Begriff libertas zu verbinden und wurzle in einer historischen Episode, der zufolge Kaiser Valentinian dem Stamm eine zehnjährige Steuerfreiheit gewährt, nachdem er mit dessen Hilfe die feindlichen Alanen niederringen konnte. Alle von Hilarion angeführten Etymologien sind in der Tradition fest verankert: Die Erklärung von Galli über das griechische gãla findet sich bereits bei Isidor von Sevilla (um 560–636)24, für die zweite Etymologie für Gallien dürfen wir annehmen, dass Hilarion die ebenso erstmals bei Isidor begegnende und für die Franken gängige Etymologie Franci-feroces25 versehentlich auf die Gallier übertragen hat. Mit dem Freiheitsbegriff hingegen werden die Franken erst ab dem 12. Jh. in Verbindung gebracht.26 Andere Autoren führen ebenso mehrere Etymologien nebeneinander an.27 In den Berichten über die mythischen Anfänge der Stadt Venedig und einiger Städte der Terraferma, welche uns die ältesten Stadtchroniken Venedigs (Martin da Canal, Les Estoires de Venise [1267– 1275], Marcus [1292] und anonyme Chroniken) überliefern28, spielt 23) Ob Hilarion auf die Ereignisse rund um den berühmten Galliersturm 390 v. Chr. bei Livius 36,9–49,6 anspielt? 24) Isidor, orig. 14,4,25 (ed. W. M. Lindsay, Oxford 1911) Gallia a candore populi nuncupata est; gãla enim Graece lac dicitur. Montes enim et rigor caeli ab ea parte solis ardorem excludunt, quo fit ut candor corporum non coloretur. 25) Isidor. orig. 9,2,101 Franci a quodam proprio duce vocati [vocari] putantur. Alii eos a feritate morum nuncupatos existimant. Sunt enim in illis mores inconditi, naturalis ferocitas animorum (vgl. M. Reydellet [Hrsg.], Isidore de Séville. Étymologies livre IX. Les langues et les groupes sociaux, Paris 1984, 100–101); aber auch im Liber historiae Francorum 2: Tunc appellavit eos Valentinianus imperator Francos Attica lingua, hoc est feros, a duritia vel audacia cordis eorum (MGH SS rer. Mer. II 243). 26) Poujol (1957) 903. 27) Die etymologischen Herleitungen von feroces bzw. von liberi für die Franken werden beispielsweise vom frz. Historiker N. Gaguin, Compendium (1495) und Aeneas Silvius Piccolomini, De Europa (1458) unmittelbar nebeneinander vorgestellt; vgl. Maissen (1994) 328 Anm. 55. 28) Vgl. Carile (1970) bes. 90–93; 121–123; Carile (1976) passim; nahezu kein Interesse für die mythischen Anfänge der Stadt zeigen Carile/Fedalto (1978) Index s. v. Antenore; Cracco Ruggini/Pavan(†) (1992) bes. 18–24; Poucet (2003).
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die Gestalt des Antenor stets eine bedeutsame Rolle.29 Das Motiv der Städtegründung (post fundata oppidula) durch die trojanischen Flüchtlinge begegnet uns in der Chronik des Martin da Canal, in der Chronik des Marcus (um 1292) und in der anonymen Origo civitatum Italie seu Venetiarum (11./12. Jh.), der zufolge Aquileia, Padua, Mantua, Verona, Altinum, Modena und Parma als trojanische Gründungen gelten.30 Damit scheint die Annahme gerechtfertigt, dass sich Hilarion auch auf venetianisches Quellenmaterial stützt.31 Dies ist insofern naheliegend, als er in Venedig, vermutlich im Kloster S. Giorgio Maggiore, mehrere Jahre seines Lebens zubrachte und dort Zugang zu einschlägigen Quellentexten hatte.32 Wie die eigentlichen Ursprünge der Legende von der trojanischen Herkunft der Franken immer noch weitgehend im Dunkeln liegen, so konnten auch über die Umstände der Entstehung dieser weitverbreiteten Sage bisher keine verbindlichen Erkenntnisse vorgelegt werden.33 Wenn man die Fabel einer trojanischen 29) Zur Gestalt insgesamt: Gorra (1887) 70–91; Scholz (1911); Cimegotto (1936/37); Perret (1942) 157–181 Cap. II. Corollaires de la légende romaine: Anténor en Vénétie; Braccesi (1984[a]); ebenso Jung (1984); Braccesi (1984[b]); Zampieri (1990). 30) Cessi (1933) 154; viele weitere Zeugnisse bei Gorra (1887) 91–100. 31) Lorenzo de Monacis (um 1350–1428), ein Pionier der venetianischen humanistischen Geschichtsschreibung, weiß in seinem Chronicon de rebus Venetis (zw. 1421–28) von einer Überlieferung, laut der Antenor gemeinsam mit einem (namentlich nicht genannten) Priamossohn in Castellum gelandet sei; allerdings bezeichnet er diese Überlieferung als confutatum etiam apocryphum illud; vgl. F. Cornelius (Hrsg.), Laurentii De Monacis Veneti Cretae cancellarii Chronicon de rebus Venetis, Venetiis 1758, 11 . . . et in quem primo ingressi sunt locum Troja vocatur, pagoque deinde Trojano nomen est, gens universa Veneti appellati, pagusque ille est, de quo supra diximus, qui nunc Castellum dicitur: Hoc enim nomen Venetum obscuravit Trojanum fulgore suae nobilitatis, confutatum etiam apocryphum illud, quod cum Antenore filius quidam Regis Priami venerit, quia nec hoc Livius siluisset, et Eneti ducem quaerentes potius Regio filio quam Antenori adhaesissent; vgl. Gilli (1997) 426. 32) Cod.lat. 138, Cl. X [= 3696] (17. Jh.) der Biblioteca Marciana (Venedig) enthält venetianische Geschichtswerke und Chroniken vom 13. Jh. (A. Dandolo) bis ins 15. Jh. (F. Biondo). Auf den Folioseiten 81r–82r findet sich ein kurzer Text, in dem ein anonymer Schreiber die Ursprungsgeschichte Venedigs mit der fränkischen Trojasage kombiniert wiedergibt. Im Explicit aber heißt es dann Haec autem extracta sunt ex Cronica Neapolitana; vgl. Valentinelli (1873) 168–169 mit dem Verweis auf weitere Handschriften; Gorra (1887) 83 f. Anm. 3. 33) Wenn wir hier einige Meinungen zur Genese der fränkischen Trojasage aufführen, maßen wir uns nicht an, diese zu bewerten oder einen eigenen Standpunkt zu beziehen. Jedoch scheint sich mehr und mehr die Ansicht durchzusetzen,
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Herkunft im Mittelalter auch weitgehend unreflektiert weitergab und rezipierte, verwendet sie Hilarion im letzten Viertel des 15. Jh. dass die fränkische Trojasage weit älter ist als die ersten schriftlichen Zeugnisse aus dem 7. Jh.: Roth (1856) 34 „Allein eine sorgfältige Prüfung des Sachverhalts zeigt, daß diese Sage über die Zeit der historischen Bezüge zwischen Franken und Römern hinaufreicht und ihrem Kerne nach Anspruch macht, als gallische und germanische Stammsage anerkannt zu werden.“; Lüthgen (1876) 54 „Die Sage ist ihrem Ursprunge nach keine Volkssage, sie verdankt ihre Existenz lediglich einem Fälscher . . .“; Klippel (1934) 4 „Als das große römische Weltreich in die Brüche ging, wollten die Franken ihr neu erstandenes Imperium legitimieren. So erfanden sie zu der ihnen durch ihre römische Herrschaft bekannt gewordenen Aeneassage eine parallele Sage, die der Abstammung der Franken von den Trojanern.“; Wallace-Hadrill (1982) 80 „One may suspect that Faral was too definite about what was and what was not ‘invention’, and too quickly dismissed the possibilities of a Gaulish origin of the Frankish legend.“; Asher (1969) 409 „the legend . . . is generally held to be an erudite invention owing nothing to popular tradition.“; Homeyer (1982) 103 „Die fränkische Ursprungsfiktion, die keine Volkssage im engeren Sinne war, wenn sie auch Elemente aus Wandersagen enthielt, verdankt, so wie sie uns in den erhaltenen Zeugnissen vorliegt, ihre Entstehung dem Vorbild der römischen AeneasSage, also im wesentlichen literarischer Tradition.“; Folz (1983/84) 190 „Notre analyse montre qu’elle [scil. la légende des origines des Francs] n’a rien de populaire. Elle est née de l’imagination de son auteur qui a essayé, tant bien que mal, de bâtir un récit suivi, mais celui-ci porte la double marque d’étymologies simplistes et de la confuison des faits mis en œuvre.“; Jung (1984) 108 Anm. 12 „La seule chose dont je sois convaincu, c’est que l’origine troyenne, qu’elle passe par Anténor ou par Francion, n’est pas une pure et simple invention de quelque clerc farfelu de l’époque mérovingienne, mais une légende très ancienne.“; Gerberding (1987) 20 „The real answer is that they [scil. the stories of the Franks’ beginnings] most likely contain elements of both history and literary invention.“; Barlow (1995) 94 „Thus the fusion of origin mythology of Frankish and Roman had long germination before the later seventh century. Its antecedents must be sought in the Gaul of the Roman empire, rather than the Francia of ‘Fredegar’.“; Kugler (1995) 182 f. „Beide Versionen [scil. Ps.-Fredegar und Liber historiae Francorum] zeigen den Charakter einer schriftgelehrten Konstruktion . . . Eine womöglich vorausgehende, mündlich umlaufende eigenständige Herkunftssage der Franken wird nur als schwacher Schatten erkennbar.“; Giardina (1996) 196 „Non c’è nulla di più sterile che ricercare l’origine di un mito delle origini. Nella costruzione dell’etnicità fittizia non esiste infatti una genesi precisa e storicamente accertabile . . .“; Ewig (1998[b]) 1 „Die frankotrojanische Legende entstand aus einer gallotrojanischen, die besonders bei den Haeduern (Autun) und in der Auvergne verbreitet gewesen zu sein scheint.“; Innes (2000) 248 „It must have originated in a context where a detailed knowledge of the literature of classical antiquity was available, but whether it was more than a literary invention with a limited audience is another matter . . . The Franks’ Trojan origin legend is thus likely to have arisen in the decades after their conquest of Gaul, or perhaps earlier as part of an alliance between a Frankish group and Roman leaders.“; Poucet (2004) 79 „Il est plus que probablement antérieur [scil. de 660] et représente le résultat du travail des généalogistes mérovingiens, à partir du modèle érudit de l’Énéide . . .“.
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in einer Zeit, in der sich unter den Humanisten bereits erste Stimmen der Kritik zu regen begannen.34 Deren Skepsis schaffte es jedoch nicht, dem Gründungsmythos seine Strahlkraft und Faszination zu entziehen. Eine von Hilarion verwendete Quellenschrift lässt sich also nicht mit Sicherheit bestimmen. Wir können auch nicht einwandfrei feststellen, ob seine Version der trojanischen Herkunft der Franken auf einer einzigen (heute nicht mehr greifbaren) Vorlage fußt35, ob er selbstständig mehrere Vorlagen kombinierte oder im Einzelnen gar seiner Phantasie freien Lauf ließ. Inhaltliche Anleihen könnte der Autor im merowingischen Liber historiae Francorum, bei Isidor von Sevilla und vielleicht bei Gottfried von Viterbo gemacht haben. Das Besondere der in dieser Form bisher unbekannt gebliebenen Variante der fränkischen Trojasage besteht im spezifischen Interesse für etymologische Herleitungen, in der starken Hervorhebung Galliens (und damit wohl auch Frankreichs), im Bestreben, eine Kontinuität von den Galliern über die Trojaner bis zu den Franken herzustellen sowie in der Verknüpfung der fränkischen mit der venetianischen Ursprungssage.
34) Die skeptischen Stimmen werden bereits im 9. Jh. mit Frechulf von Lisieux, Chronicon 2,17 Haec quidem ita se habere de origine Francorum opinantur (PL 106, col. 967) laut, der der klassischen Version von der trojanischen Herkunft der Franken die Überlieferung von einer skandinavischen Herkunft aller nationes theotiscae gegenüberstellt (Folz [1983/84] 194–5; Ewig [1998(a)] 15–6), im 15. Jh. jene von Aeneas Silvius Piccolomini (Pius II.) in der geographischen Schrift De Asia (Graus [1989] 42 Anm. 118; vgl. aber auch Montecalvo [2003] 69–70 u. Borgolte [2001] 202), Robert Gaguin (1433–1501) im Compendium de origine et gestis Francorum (1495) (Klippel [1934] 46–8; Bodmer [1963] 111–2; 118; Schmidt-Chazan [1977] 272–5; Homeyer [1982] 103; Jouanna [1985] 305) und schließlich auch Paulus Aemilius (ca. 1455–1529) in der Schrift De rebus gestis Francorum (Jouanna [1985] 306–7); weitere Zeugnisse aus Mittelalter und Renaissance bei Beaune (1985) 332, Beaune (1991) 338–40, Maissen (1994) 330–4, Brückle (2000) 39, Borgolte (2001) 201 und in den Arbeiten von Linder (1978) und Huppert (1965). 35) Selbstverständlich werden wir auch mit verlorenen Vorlagen rechnen müssen; so haben beispielsweise manche Geschichtswerke aus der zweiten Hälfte des 15. Jh., die sich mit den Anfängen Venedigs beschäftigen, die Zeiten nicht überdauert, darunter eine Historia veneta des Vicentiners Guglielmo Paiello (um 1465– 1472) oder die Venetarum rerum historia des Domenico Bolani (um 1445–1496); vgl. Gilli (1997) 428 Anm. 19.
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TWO PROBLEMS OF STAGING IN EURIPIDES’ PHOENISSAE 1. Entrances at Euripides’ Phoenissae 834 The third episode of Euripides’ Phoenissae begins with the arrival of Teiresias, who is accompanied by his daughter and Menoeceus, Creon’s son. In his Teubner edition of the play, Mastronarde makes Teiresias and his escorts enter by the foreign eisodos (834).1 This stage direction, indicating that these three characters have just arrived from abroad, is problematic in regard to the action. In the second episode, Eteocles sends Menoeceus to fetch Teiresias, in the hope that some words of wisdom may be given before the commencement of hostilities; however, because of a former quarrel between Teiresias and Eteocles, it is decided that Creon will consult the seer (768–74). This episode draws to a close, with Creon remaining on stage during the second stasimon. The third episode then begins with the arrival of Teiresias and his entourage, and in the ensuing conversation, we learn that Teiresias has just returned from Athens the previous day, t∞w pãroiyen ≤m°raw (852–7). If we follow Mastronarde’s stage direction at 834, we have to imagine that Menoeceus left the city, found Teiresias somewhere outside the gates, and after informing him that his presence was required at the palace, returned to the city, leading him and his daughter directly to Creon. So much is implied if we make these characters enter by the foreign eisodos. Yet this course of events is highly unlikely for two reasons. First, Teiresias explicitely says that he arrived the day before (t∞w pãroiyen ≤m°raw); this means that he must have been in Thebes when Menoeceus found him. Second, the gates are blockaded, preventing any entering or exiting: in the second episode, Creon informed Eteocles that the Argives have encircled the city and have stationed themselves at the gates (737–9). Therefore Menoeceus could not have left Thebes to find Teiresias. One must then come to the conclusion that Menoeceus found Teiresias w i t h i n the city. Teiresias evidently returned from Athens a day before the besiegement and was probably at home with his daughter when Menoeceus came 1) D. J. Mastronarde, Euripides Phoenissae (Leipzig 1988). Greek tragedy generally uses two eisodoi in a simple and schematic way. One eisodos usually leads to and from foreign locations, while the other leads to and from domestic locations. One can assume that the audience, at the start of each play, would have readily perceived the topographical differences between the two eisodoi. For further discussion, see Taplin, Stagecraft in Aeschylus (Oxford 1977) 449–51.
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knocking on his door. This notion is further corroborated by the fact that Teiresias’ daughter arrives at the palace carrying ‘lots’ (klÆrouw), which are, presumably, written records of divinatory information (838–40).2 These divination lots must have been brought directly from home, for it would have been quite difficult for Teiresias’ daughter, in the long and arduous journey from Athens to Thebes, to carry these items and support her father at the same time; Teiresias, as he is depicted from his very entrance in the play, is weak and has trouble walking on his own.3 As can be seen, contextual sense demands that our three characters arrive at the palace from within Thebes. Therefore we have to make them enter at 834 by the local eisodos.
2. When is Creon on Stage in the Latter Half of Euripides’ Phoenissae? If we follow the transmitted text of Phoenissae, Creon remains silently on stage for almost 230 lines, from the second messenger speech to the start of the exodos (1356–1583). Fraenkel finds Creon’s silence offensive and removes him altogether from the fifth episode.4 But as Mueller-Goldingen and Mastronarde have shown, an actor standing silently for an extended period of time is not unique in Euripidean dramaturgy.5 Four other cases, in fact, can be found: Pylades in IT (792– 901), the attendant in Hel. (621–699), Adrastus in Su. (650–730), and Peleus in Andr. (1085–1165). Creon’s silence, however, is much longer than these other cases, and Mastronarde, in the apparent attempt to make it less awkward, makes Creon recede from center stage before Antigone’s arrival. It is only upon the completion of Antigone’s lament with her father that Creon is allowed to return to center stage, so that the exodos may begin.6 The parallels offered by Mueller-Goldingen and Mastronarde, however, do not fully justify Creon’s long silence in Phoenissae. Creon’s opening words in the exodos, as shown by Fraenkel, is a “paËsai-Motiv”, that is, the stopping-action that is associated with an entering character: o‡ktvn m¢n ≥ dh lÆgeyÉ, …w Àra tãfou mnÆmhn t¤yesyai (1584–5). Fraenkel cites five parallels from tragedy that support this point: Or. 1022, Or. 1625, IT 1425, OC 1751, and Ant. 883.7 Phoe. 1584–5 thus suggests that Creon has just stepped on stage. We seem to be in quagmire, for we have good reason for keeping Creon on stage as a silent figure for almost 230 verses a n d for making him enter before the 2) For further discussion on the divinatory ‘lots’, see Mastronarde, Euripides Phoenissae (Cambridge 1994) 394. 3) Teiresias enters while resting one hand on his daughter’s shoulder (834–7) and complains that his knees are tired from the walk (843–4). Creon notices the difficulties Teiresias is having and tells Menoeceus to grab hold of him (845–8). 4) E. Fraenkel, Zu den Phoenissen des Euripides (SBAW 1963, Heft 1) 71–6. 5) C. Mueller-Goldingen, Untersuchungen zu den Phoenissen des Euripides (Stuttgart 1985) [Palingenesia XXII] 210; Mastronarde (above, n. 2) 512–3. 6) Mastronarde (above, n. 1). 7) Fraenkel (above, n. 4) 74–7. Mueller-Goldingen and Mastronarde both do not deny the validity of the “paËsai-Motiv”.
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exodos. Can we reconcile both approaches? Perhaps. A plausible solution is to keep Creon on stage throughout the whole messenger speech, make him depart before Antigone’s arrival, and then make return before the exodos. Making Creon depart before Antigone’s arrival ought not to be seen as unfounded or implausible because of the lack of textual indication. Similarly, Taplin, in Aeschylus’ Agamemnon, makes Clytemnestra exit at 350 and 614, two places where departure is implicit but not explicit; and his main reason for doing so is that her protracted silence is unjustifiable and undesirable on dramaturgical grounds.8 Creon’s silence during the laments of Oedipus and Antigone is likewise objectionable. Granted, keeping Creon on stage during the messenger speech makes good dramatic sense and is supported by his request and interest to hear how Polynices, Eteocles, and Jocasta died (1354–5). Yet, there is no justification for his presence in the laments. Mueller-Goldingen argues that Creon is not addressed during lamentation because any reference to him would only detract and destroy the scene’s effect. Furthermore, he also argues, following Wilamowitz, that Creon utters no word at the end of the messenger speech because Antigone’s sudden entrance gives him no time.9 Mastronarde justifies Creon’s silence by claiming that it is inappropriate for him to participate in the mourning of Jocasta and her sons.10 All these arguments, however, can be countered. One may argue that mourning is appropriate for Creon because he is a relative of the deceased, that if he is indeed present during lamentation, there ought to be some acknowledgement of his presence, and that Antigone’s entrance should not prevent him from uttering some word. Kingston, Canada
Erez Natanblut
8) Taplin (above, n. 1) 300–2. 9) Mueller-Goldingen (above, n. 5) 210–1. 10) Mastronarde (above, n. 2) 513–4.
ALIQUID DE IURE GUSTARE Ein plumper Scherz des Echion in Petr. Sat. 46,7 Im Zuge seiner Auslassungen über die Bildung, die er seinem cicaro angedeihen lässt, erklärt Echion unter anderem: emi ergo nunc puero aliquot libra rubricata, quia volo illum ad domusionem aliquid de iure gustare. habet haec res panem (Sat. 46,7). Man hat bisher noch nicht bemerkt, dass er hier eines der abgedroschensten lateinischen Wortspiele überhaupt macht, nämlich dasjenige mit den beiden Bedeutungen von ius, ‚Recht(swissenschaft)‘ und ‚Brühe, Sauce‘. ThLL 7,2,705,67– 706,4 widmet diesem Doppelsinn einen eigenen Abschnitt und zählt nicht weniger als vierzehn Beispiele auf – eine Liste, zu der man die vorliegende Stelle hinzufügen
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exodos. Can we reconcile both approaches? Perhaps. A plausible solution is to keep Creon on stage throughout the whole messenger speech, make him depart before Antigone’s arrival, and then make return before the exodos. Making Creon depart before Antigone’s arrival ought not to be seen as unfounded or implausible because of the lack of textual indication. Similarly, Taplin, in Aeschylus’ Agamemnon, makes Clytemnestra exit at 350 and 614, two places where departure is implicit but not explicit; and his main reason for doing so is that her protracted silence is unjustifiable and undesirable on dramaturgical grounds.8 Creon’s silence during the laments of Oedipus and Antigone is likewise objectionable. Granted, keeping Creon on stage during the messenger speech makes good dramatic sense and is supported by his request and interest to hear how Polynices, Eteocles, and Jocasta died (1354–5). Yet, there is no justification for his presence in the laments. Mueller-Goldingen argues that Creon is not addressed during lamentation because any reference to him would only detract and destroy the scene’s effect. Furthermore, he also argues, following Wilamowitz, that Creon utters no word at the end of the messenger speech because Antigone’s sudden entrance gives him no time.9 Mastronarde justifies Creon’s silence by claiming that it is inappropriate for him to participate in the mourning of Jocasta and her sons.10 All these arguments, however, can be countered. One may argue that mourning is appropriate for Creon because he is a relative of the deceased, that if he is indeed present during lamentation, there ought to be some acknowledgement of his presence, and that Antigone’s entrance should not prevent him from uttering some word. Kingston, Canada
Erez Natanblut
8) Taplin (above, n. 1) 300–2. 9) Mueller-Goldingen (above, n. 5) 210–1. 10) Mastronarde (above, n. 2) 513–4.
ALIQUID DE IURE GUSTARE Ein plumper Scherz des Echion in Petr. Sat. 46,7 Im Zuge seiner Auslassungen über die Bildung, die er seinem cicaro angedeihen lässt, erklärt Echion unter anderem: emi ergo nunc puero aliquot libra rubricata, quia volo illum ad domusionem aliquid de iure gustare. habet haec res panem (Sat. 46,7). Man hat bisher noch nicht bemerkt, dass er hier eines der abgedroschensten lateinischen Wortspiele überhaupt macht, nämlich dasjenige mit den beiden Bedeutungen von ius, ‚Recht(swissenschaft)‘ und ‚Brühe, Sauce‘. ThLL 7,2,705,67– 706,4 widmet diesem Doppelsinn einen eigenen Abschnitt und zählt nicht weniger als vierzehn Beispiele auf – eine Liste, zu der man die vorliegende Stelle hinzufügen
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sollte: gustare impliziert die Vorstellung von ius als etwas Ess- oder Trinkbarem, und die Verbindung mit panis verstärkt diese Assoziation noch, da Brot gewiss auch in der Antike häufig zum Auftunken von Sauce verwendet wurde (vgl. etwa Ter. Eun. 939 quo pacto [sc. meretrices] ex iure hesterno panem atrem vorent). Echion scheint ungefähr sagen zu wollen: „Wer vom ius kostet, der hat auch Brot (das er sich damit verdienen bzw. mit dem er es auftunken kann).“ Interessanter als diese gezwungene Witzelei an sich ist jedoch der Beitrag, den sie zur Charakterisierung, genauer gesagt zur Bloßstellung dessen leistet, der sie vorbringt: Sie entspricht nicht nur Echions intellektuellem Niveau im Allgemeinen und veranschaulicht seine Tendenz, Bildung nach ihrem Nährwert zu beurteilen (46,8; vgl. auch 46,2), sondern erweist ihn vor allem auch als geistlosen Nachäffer Trimalchios, der einige Kapitel zuvor in viel pointierterer Weise mit demselben Doppelsinn gespielt hat: Sein Ausspruch suadeo cenemus; hoc est ius cenae (35,7) erschien zunächst, mit ius in der Bedeutung ‚Recht‘, als sinnlose Tautologie, doch in dem Moment, wo der Tafelaufsatz mit den Tierkreiszeichen abgehoben und darunter ein mit garum gefüllter euripus sichtbar wurde (36,3), zeigte sich, dass er eine präzise kulinarische Referenz besaß1. Der Applaus und das Gelächter, womit Trimalchios Scherz aufgenommen wurde (36,4), dürften für Echion hier einen zusätzlichen Ansporn darstellen, ihn zu kopieren, so gut oder schlecht er es eben vermag. Man hat schon des Öfteren bemerkt, dass Petron die Freigelassenen an Trimalchios Tafel über ihre Sprache nicht nur als Klasse, sondern auch individuell porträtiert2. Der vorliegende Fall fügt dem sprachlichen Porträt des Echion eine bemerkenswert subtile Nuance hinzu. Bern
Martin Korenjak
1) Vgl. W. T. Avery, Cena Trimalchionis 35,7: hoc est ius cenae, CPh 55 (1960) 115–118. – Übrigens erschien auch dort das ius in Verbindung mit Brot, welches unmittelbar zuvor herumgereicht worden war (35,6). 2) Vgl. etwa B. Boyce, The language of the freedmen in Petronius’ Cena Trimalchionis, Leiden u. a. 1991, 76–102, mit älterer Literatur; speziell zu Echion siehe dort 81–85.
ISSN 0035-449 X Schriftleiterin: Dr. S a n d r a Z a j o n z , Institut für Altertumskunde der Universität zu Köln, D-50923 Köln Druckerei: Laupp & Göbel, Nehren Verlag: J. D. S a u e r l ä n d e r , Frankfurt am Main Manuskripte werden an die Adresse von Prof. Dr. B e r n d M a n u w a l d , Institut für Altertumskunde der Universität zu Köln, D-50923 Köln, erbeten. Printed in Germany · © J. D. Sauerländer’s Verlag, Frankfurt a. M. 2006