Milena Gabanelli
Ecofollie Per uno sviluppo (in) sostenibile con Paolo Mondani, Sigfrido Ranucci, Piero Riccardi
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Milena Gabanelli
Ecofollie Per uno sviluppo (in) sostenibile con Paolo Mondani, Sigfrido Ranucci, Piero Riccardi
©2009 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-02377-1 Prima edizione BURSenzafiltro marzo 2009
NOTE DI COPERTINA Il problema della sostenibilità ambientale è diventato così urgente che è finito nell’agenda del G8. Riguarda la nostra vita in tutti i suoi aspetti: dal cibo che mangiamo all’aria che respiriamo, dall’energia indispensabile per far marciare l’economia e riscaldare le case ai rifiuti che continuiamo a produrre senza preoccuparci di dove andranno a finire. Eppure la politica cavalca la sensibilità ambientale solo in tempo di campagna elettorale, poi se ne dimentica e non impone controlli, oppure peggio ancora occulta i dati. Milena Gabanelli e il suo team di Report tornano a denunciare l’immobilità e gli sprechi del nostro Paese, amplificando il grido d’allarme del pianeta. Perché un vero sviluppo sostenibile non è solo possibile ma necessario.
Indice Prefazione di Milena Gabanelli
L’eredità di Sigfrido Ranucci
L’oro di Roma di Paolo Mondani
Il piatto è servito di Piero Riccardi
Ecofollie Prefazione Ho un osservatorio privilegiato, composto da una casella di posta e un forum. Durante il periodo di messa in onda arrivano in media 500 interventi al giorno: gente che ringrazia, che si lamenta, che segnala, che vorrebbe fare qualcosa. Un popolo disorientato. Chi non lo è? E cosa scrive questa massa di non indifferenti, che si mette al computer, cerca un indirizzo, butta giù intere relazioni, e poi invia, sperando che
dall’altra parte qualcuno si attivi, o più banalmente «legga». Poi con meraviglia e riconoscenza apprezza la risposta, anche se è un generico «vedremo…». In effetti ogni segnalazione potrebbe essere un pezzo: micro mondi che compongono alla fine un Paese disordinato e immobile che crede nel potere della rappresentazione, o meglio, un Paese che si appaga nel vedere raccontata a un pubblico vasto la sua impotenza o il suo malessere. I soggetti: cittadini qualunque, presidenti di comitati, funzionari comunali, dirigenti di aziende, ricercatori, impiegati, vittime di soprusi, declinate per ogni censo. Le loro richieste vengono stampate, divise per argomento e infilate dentro cartelle con scritto un riferimento: lavoro nero, corruzione, truffe sanitarie, assicurative, amministrative, mobbing, anonimi, disturbati ecc. La quantità accumulata in undici anni potrebbe, senza presunzione, essere trasformata in un rapporto Censis. Possiamo dividerli in percentuali, o in gruppi. Il più esiguo, circa il tre per cento del totale è anche il più accanito ed è formato da grafologi, ufologi e teorici di ogni tipo di cospirazione. Quelli che sanno chi ha rapito Emanuela Orlandi, o conoscono altre informazioni esplosive ma «non ve lo posso dire perché è troppo pericoloso». Poi ci sono i paladini della verità secondo i quali i giornalisti sono tutti venduti e per il mondo – disinformato – non c’è salvezza. Uno di loro ha suonato il mio campanello di casa alle 9.30 di sera: «Potresti salvarlo tu, il mondo, se avessi le palle di occuparti del fatto che i servizi segreti da qualche parte hanno un laboratorio dove fanno esperimenti sul controllo del cervello umano». Oppure: «Almeno voi, che siete liberi, fate una bella inchiesta sulle scie chimiche (quelle righe bianche o scie di condensazione del vapore acqueo generate dal passaggio di aeromobili in alta quota): è roba militare per modificare il clima». E ancora: «Voi che siete indipendenti è ora che spieghiate agli italiani cos’è il signoraggio bancario». Non avendo avuto poi «le palle» per trattare questi argomenti, regolarmente riscrivono insultandoti. Dieci segnalazioni su cento sono tragedie personali, quelle che ti spezzano il cuore: il figlio morto per una diagnosi fatta male; una madre anziana con pensione minima e disabile sfrattata da una banca dall’appartamento di 50 mq nonostante pagasse regolarmente l’affitto; un fratello in carcere in Brasile con l’accusa di spaccio e invece «si è laureato in ingegneria col 110 ed era il suo viaggio premio». L’ordinaria precarietà occupa il venti per cento: qui troviamo i medici specializzandi che mandano avanti le corsie d’ospedale in cambio di niente, i vincitori di concorso pubblico da anni in attesa di chiamata; quelli che invece sanno che non verranno riconfermati alla scadenza di un contratto a termine, a progetto, part-time, e sperano che con un passaggio televisivo qualcuno (forse Tremonti?) intervenga per dar loro un futuro. Contiamo sulle dita delle mani invece i casi più specifici, molto documentati, che possono far esplodere uno scandalo imprenditoriale o bancario. Per esempio questa lettera inviata anche al ministro delle Finanze, al governatore della Banca d’Italia, al direttore della Consob:
Lavoro da anni alla vecchia Popolare di Lodi e ho visto passare tutta la squadra dei furbetti. Da tempo circola in banca un documento che vi allego, dove alcuni degli attuali membri del cda, avevano deliberato affidamenti per 200 milioni di euro senza garanzie. Come mai queste persone diventano presidenti della fondazione della banca che dovrà elargire milioni di euro sul territorio? Il nostro amministratore guadagna 2.300.000 euro e ha detto, come vicepresidente di Italcase, di non essersi accorto di quello che faceva il suo amministratore delegato che ha rubato centinaia di milioni di euro! Poi sentiamo dire che dobbiamo fare sacrifici e che molti dipendenti da 1000 euro al mese potrebbero a breve rimanere senza lavoro. Riaccendete le luci, visto che sta tornando tutto come prima!
Preoccupa il lavoro, la corruzione, la mancanza di prospettiva e di illusioni, ma a tutto c’è rimedio, «basta la salute» dice il proverbio. E infatti ad angosciare il cinquanta per cento delle persone che scrivono è la paura di perderla, se non l’hanno già persa. La minaccia arriva dall’ambiente, dove per ambiente si intende la qualità dell’aria, dell’acqua, del terreno, del luogo in cui vivi, del cibo che mangi. Le pessime condizioni non sempre sono evidenti… un campo di mais è rassicurante, vuol dire «sono in campagna, lontano dall’inquinamento, qui la vita è sana». In realtà i semi di quel mais sono stati trattati con del conciante che uccide le api. Le polveri che escono da un inceneritore non si vedono; una centrale nucleare chiusa da vent’anni è considerata innocua, e la radioattività che penetra nella falda non ha né odore né colore. La politica cavalca la sensibilità ambientale, che è vastissima, solamente il tempo della campagna elettorale, poi se ne dimentica e non impone controlli, oppure occulta i dati. Tanto gli effetti nefasti si producono nel tempo e i nessi di causalità sono difficili da dimostrare. Abbiamo visto nel corso degli anni le grandi aziende chimiche dotarsi di certificazione Emas (che vuol dire «faccio molto di più di ciò che è richiesto per la tutela del territorio») e contestualmente sversare mercurio in mare (il caso Enichem di Priolo è finito nelle aule giudiziarie). Abbiamo visto sindaci incapaci di imporre la bonifica del loro territorio, e altri collusi con chi invece inquina. Intere amministrazioni più attente agli interessi particolari che a quelli generali. Comportamenti che hanno prodotto la cultura del disprezzo verso quello che è «il bene primario», e ora «lui» si vendica. I cittadini lo sanno, e quelli che scrivono sperano sia ancora possibile invertire la tendenza attraverso l’intervento di una qualsiasi autorità. Oppure si accontentano di condividere con qualche milione di telespettatori una storia che non li fa dormire la notte. Questa è la lettera dei cittadini di Cercola, provincia di Napoli: L’ingegnere taldeitali, funzionario dell’ufficio tecnico, ha tentato di violare le norme del piano regolatore. Sulla base di una sua personalissima interpretazione del piano si fa inoltrare richieste di concessione edilizia per 33 lotti di terreno da parte del cognato e di progettisti a lui vicini. A fronte delle proteste dei cittadini l’ing. si vede costretto a richiedere un parere al redattore dei vigenti piani regolatori. Il parere è sfavorevole ma l’ing, anziché rigettare le richieste di concessione, chiede i permessi per costruire al commissario prefettizio. A seguito di risposta negativa ricorre al Tar Campania. Perché insiste? A quali interessi risponde? Riteniamo il giudice amministrativo incorruttibile, tuttavia la presente ha lo scopo di mettere al corrente le adite autorità […].
Lettera inviata al presidente Tar Campania, procura della Repubblica, dipartimento antimafia. Il direttore di un’azienda energetica di Brescia scrive: Avendo a che fare quotidianamente con le certificazioni, sono incappato in una telefonata con un mio cliente, si tratta di un’azienda del settore chimico. Il fatto è il seguente: proponevo una soluzione energetica certificata secondo i moderni criteri europei, ma il funzionario dell’azienda dopo aver accettato si tira indietro decidendo di optare per una soluzione proposta dell’Ispesl. Il motivo, da qui la mia segnalazione, «non siamo a posto in molte cose, dobbiamo cedere su qualcosa così l’Ispesl chiude un occhio». Insomma la sicurezza è una questione di «io dico sì alla tua proposta e tu mi chiudi un occhio»? Siccome di casi di questo tipo me ne capitano quotidianamente, vi invito a contattarmi… è un filone davvero interessante (con ministeri e documenti). Non ne va solo della sicurezza: i sistemi all’italiana risalgono al 1927 e obbligano a soluzioni tremende dal punto di vista energetico.
Un professore di Bologna scrive: La Sintexal ha avviato qualche anno fa una filiale che lavora conglomerati bituminosi in V. Agucchi (quartiere Santa Viola). È una zona in mezzo al centro abitato e vicina a due asili nido, una scuola materna, una scuola elementare, una scuola media, una grande polisportiva. Fu la giunta Guazzaloca a cambiare la destinazione d’uso e a trasformarla in area industriale. Dai dati Arpa del 2006 emerge che la concentrazione di polveri dannose è fino a cinque volte superiore a quella rilevata nel resto della città. Le strutture adiacenti radunano per diverse ore al giorno centinaia di bambini e adolescenti esposti alle emissioni. Va detto che la Sintexcal ha ottenuto la certificazione di qualità ISO 9001. Oltre al danno la beffa. A nulla è valsa la raccolta di 1500 firme. Siccome questa azienda non è iscritta alla camera di commercio di Bologna e nemmeno a quella di Ferrara, chiedo a voi perché la giunta Guazzaloca ha dato una concessione del genere? Che interessi aveva?
Il 21 novembre scorso inizia la campagna elettorale a Gela e l’associazione per la tutela ambientale mi scrive: «Il sindaco con improvvisa illuminazione, si accorge che l’uso del pet-coke è illegale e che l’Eni ha causato danni alla salute dei cittadini e al territorio. E arriva l’immancabile richiesta di risarcimento miliardaria, com’è successo cinque anni fa per un’altra campagna elettorale, sbandierata su giornali e tv». Poi allegano la lettera inviata al Sindaco: «Noi abbiamo fatto la denuncia e sono partiti i procedimenti penali contro l’Eni, ma tu invece di costituirti in tribunale e difendere i cittadini, hai difeso a 360 gradi la raffineria, ed è anche per colpa tua, oltre che di alcuni magistrati locali, se il fascicolo è fermo da oltre tre anni sul tavolo del gip. Sei la massima autorità e non hai mai fatto nulla. Caro sindaco le denunce e i risarcimenti danni si chiedono in tribunale, non a Canale 10!». Anche dal Parlamento europeo arriva una lunga relazione a Report, che in sintesi dice: il 23 febbraio 2005 il parlamento approvava a schiacciante maggioranza (576 voti favorevoli e 48 contrari) una risoluzione sull’avvio del piano d’azione per l’ambiente e la salute per il periodo 2004-2010. Il 17 giugno 2008 la commissione presenta una relazione in cui si fa il punto sul piano d’azione. È interessante leggere a pag. 12: per dovere di imparzialità bisogna riconoscere che nel corso di questi tre anni e mezzo l’Unione ha incamerato risultati concreti sul fronte delle lotte alle diverse forme di inquinamento, fra cui: il
controllo di oltre 10.000 sostanze chimiche attraverso la regolamentazione Reach, la nuova legislazione in materia di qualità dell’aria e dell’ambiente, il pacchetto legislativo sui pesticidi. La stessa imparzialità, tuttavia, porta a constatare che la politica europea rimane contrassegnata dall’assenza di una strategia globale e preventiva e dal mancato ricorso al principio di precauzione. Bisogna rilevare che questo principio di civiltà, benché iscritto dal 1992 nell’articolo 174, paragrafo 2, del trattato, è spesso proclamato, talvolta abusato, quasi mai applicato.
Sono tutte storie che non abbiamo indagato, ma hanno molto in comune con tante altre sulle quali abbiamo passato molto tempo. L’ecologia, o sostenibilità ambientale, fa parte dei programmi di governo, in tutto il mondo occidentale. È iniziata la corsa al prefisso «eco», ed è abbastanza probabile che intorno alla parola «verde» si costruiranno nuove forme di illegalità. Potremmo diventare consumatori coscienti, se riuscissimo a convincerci che il modello esistente produce un’economia vecchia e senza futuro, che continua a a sopravvivere grazie agli aiuti elargiti da uno Stato miope e incompetente. Miope perché non riesce ad avere una visione che vada oltre la durata della propria poltrona, incompetente perché i ruoli di comando vengono assegnati ai portaborse, e non a professionisti capaci o meritevoli. Le storie che abbiamo scelto per Ecofollie sono emblematiche: perché da noi è così difficile liberarsi dai rifiuti e invece di chiudere gli inceneritori, come si fa nel resto d’Europa, ne apriamo di nuovi? Perché mentre si progetta di aprire nuove centrali nucleari si ignora tutto quello che è seppellito in giro per l’Italia e si attende da dieci anni un luogo adatto per lo stoccaggio definitivo? Cinque anni fa era un’emergenza nazionale. Scanzano, ricordate? Se il nostro stato di salute è determinato dalla qualità della nostra alimentazione, perché un cibo di qualità non può essere per tutti? Cosa nasconde un prezzo? A Sigfrido Ranucci, Paolo Mondani e Piero Riccardi, le risposte. Milena Gabanelli
L’eredità di Sigfrido Ranucci Il signor Giovanni De Notariis apre la sua casa di Castelmauro e, mentre sale le scale di marmo, girandosi verso di noi dice: «Io vi dico la verità, non quelle idiozie che trovate su Internet». E poi, nell’accendere le luci delle innumerevoli stanze dalle pareti tappezzate da arazzi e dai soffitti coperti da affreschi, aggiunge ammiccando: «È un’abitazione storica, appartiene ai miei avi, l’hanno comprata nel 1600. Vedete come è bella? Pago delle persone che vengono a fare pulizia, anche se non ci abitiamo da oltre 15 anni». Levandosi la giacca entra in uno sterminato salone: «Ecco, ora stiamo camminando sul deposito». «È qui?» chiedo. «Sì, sì, è proprio qui sotto!» Al signor De Notariis eravamo arrivati dopo una lettera anonima, una delle tante che arrivano in redazione. O meglio, questa a differenza di altre aveva una sigla
illeggibile in fondo, su una scritta: comitato dei cittadini di Castelmauro. Castelmauro è un paesino del basso Molise a trenta chilometri da Termoli. Da quel posto, dove vivono meno di 3000 abitanti, fatto di tegole, di case in calce e sassi, di vicoli in salita ripida, era partita la lettera, indirizzata contemporaneamente al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, al presidente della regione Michele Iorio, al procuratore di Campobasso, all’agenzia regionale per l’ambiente e al comando regionale dei carabinieri. Dentro c’era una denuncia: Il comitato dei cittadini di Castelmauro, piccolo paese del basso Molise, nel cui contesto urbano, in pieno centro, in una semplice cantina di un’abitazione privata, è ubicato un deposito di circa 2000 bidoni tossici e radioattivi che sprigionano radiazioni di americio, cobalto e altro, denuncia il grave danno alla popolazione di Castelmauro e dei paesi circostanti. Siamo esausti e preoccupati per l’indifferenza generale a tale problema che investe la salute e la sicurezza delle persone. Pertanto il comitato rivolge alle S.V. la preghiera di un alto e immediato intervento affinché i nostri abitanti possano vivere guardando al futuro con serenità e dignità.
In calce alla lettera non c’era nessun indirizzo, né un numero di telefono. Nessun riferimento a cui rivolgersi per saperne di più. Neppure uno scritto di accompagnamento. L’unica indicazione era la sede del comitato: presso il municipio di Castel-mauro. Una segnalazione talmente curiosa da meritare un approfondimento. Chiamiamo il municipio. La prima informazione che otteniamo è che il comitato dei cittadini che ci aveva inviato la lettera non esiste. Quando chiediamo conto dei 2000 fusti di rifiuti radioattivi presenti in una cantina del paese, allora suggeriscono di parlare direttamente con il sindaco. Ma appena il sindaco sente che al di là della cornetta c’è qualcuno di Report che sta cercando informazioni sui fusti, mi liquida velocemente: «Vi hanno informato male» dice e riattacca. Invece ci avevano informato bene, perché proprio vicino al municipio, in un seminterrato di una vecchia casa di pietra del centro storico, al civico n°6 di via Palazzo, sono accatastati 1899 bidoni da 50 litri l’uno, tutti con la scritta «radioattivo». E ad aprire le porte del deposito è proprio il proprietario della palazzina, il signor Giovanni De Notariis. I bidoni sono sistemati in file sparse, ammucchiati uno sopra l’altro fino a quattro alla volta. Ognuno con la sua etichetta, come per il vino doc. Peccato però che in quella cantina al posto del vino ci sia trizio, carbonio 14, iodio 125, americio 241 e cobalto 60. Sono rifiuti radioattivi ospedalieri, a portarli lì dentro era stato il fratello di Giovanni, Quintino De Notariis appassionato e studioso di fisica nucleare. Quintino De Notariis aveva costituito negli anni Settanta la Canrc, Centro applicazioni nucleari ricerche e controlli, una società con sede e laboratorio a Termoli. Dal 19 dicembre del 1979 grazie a un bizzarro nullaosta rilasciato da un medico provinciale, Ermanno Sabatini, Quintino De Notariis aveva cominciato una nuova attività: quella di custode di un improvvisato deposito di rifiuti radioattivi. Il fatto anomalo è che quel deposito si trovava negli scantinati della sua abitazione, nel centro storico del paese. Il signor Quintino raccoglieva dagli ospedali di Termoli e
Campobasso le sostanze radioattive usate per le terapie, le lastre e gli accertamenti clinici e poi le trasportava a casa sua. Ben presto il suo scantinato di oltre 70 metri quadri si riempie. E dopo Chernobyl, i vicini prima ignari e indifferenti cominciano a guardare con sospetto quel via vai di bidoni con il simbolo radioattivo. A qualcuno viene il timore che quella piccola Chernobyl domestica possa provocare qualche guaio. Così, dopo il referendum che nell’87 sanciva la chiusura dell’esperienza nucleare in Italia, lo strano deposito finisce, insieme al suo proprietario, al centro di numerosi contenziosi giudiziari giocati a colpi di carte da bollo, perizie e controperizie. Il 25 marzo 1987 in un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Sanità si chiedono chiarimenti sulla vicenda. Secondo gli interroganti, già nel 1985 il direttore del laboratorio di igiene e profilassi e il comandante dei vigili del fuoco sostenevano che il deposito fosse pressoché saturo. Pochi mesi dopo il consiglio regionale del Molise, a seguito di una mozione di esponenti dell’allora Pci e del Psi, approvava un ordine del giorno dove, a fronte della saturazione dello scantinato di De Notariis, rimetteva alla responsabilità della giunta regionale di eliminare il deposito, individuando siti idonei alternativi dove stoccare in sicurezza i fusti radioattivi. Ma il sito non si trova, la giunta regionale rimane immobile e la mozione lettera morta. Nell’89 era stata messa in dubbio anche l’origine illegale del deposito. Ma una sentenza del pretore esclude qualunque responsabilità del De Notariis dall’essersi munito di un nullaosta illegittimo. La legge alla fine degli anni Settanta prevedeva che per aprire un deposito di rifiuti radioattivi ospedalieri fosse sufficiente il permesso di un medico provinciale, poco importa se poi quel deposito fosse in uno scantinato nel pieno centro storico di un paese. Oggi, con le nuove norme, sarebbe impensabile un fatto del genere e quel nullaosta non verrebbe mai rilasciato ma, anche allora, dove non arrivava la legge sarebbe dovuto arrivare il buon senso. È proprio grazie a quel «pressapochismo» d’origine che scaturisce un caso unico, che ha dato il via a una serie di situazioni paradossali. Nel 1995 a interessarsi al deposito è persino la Digos. In seguito a un’ispezione con i tecnici dell’Arpa, Agenzia regionale protezione ambiente, emergono forti preoccupazioni per lo scarso livello di sicurezza del deposito: nessuna difesa in caso di terremoti, allagamenti o incendi. Gli ispettori contano nel maleodorante scantinato disposto su due piani, circa 2000 fusti di provenienza ospedaliera ed extraospedaliera, alcuni corrosi al punto tale da perdere sostanze radioattive. Dentro i fusti, materiale radioattivo di bassa e alta intensità e in alcuni casi radiazioni che cessano la loro attività dopo 5560 anni. Come tutte le vere storie che si rispettano anche questa nasconde il suo mistero. La Digos durante la visita scopre un altro locale, inaccessibile perché murato. Il sospetto è che nasconda un altro stanzone con un numero imprecisato di fusti, il cui contenuto è ancora oggi ignoto. Anche per questo sono stati in tanti a chiedere a Quintino De Notariis di liberare il deposito e di bonificarlo. Nel 2002 è il governatore del Molise che con un’ordinanza ingiunge all’ingegnere nucleare di provvedere a sue spese allo smaltimento dei fusti radioattivi entro 60 giorni dalla notifica. Anche una sentenza del tribunale di Campobasso aveva ordinato la stessa cosa. E addirittura nel 1995
c’era stata un’ordinanza molto dura del sindaco di Castelmauro che, a causa del turbamento della gente del posto, chiedeva di spostare il deposito in un sito più idoneo. Particolare non di poco conto è che il sindaco di allora era proprio il signor Giovanni De Notariis, fratello di Quintino, che ha ricoperto la carica per circa quindici anni a partire dal 1982. Ma mentre firmava le ordinanze contro suo fratello, in qualità di legale l’ha difeso in molte delle dispute giudiziarie. Risultati alla mano, è stato probabilmente più bravo come avvocato che come sindaco, visto che le cause le ha vinte tutte, mentre il deposito è ancora là. Nel Paese del conflitto di interessi figuriamoci se possiamo scandalizzarci per questo. Oltre al fatto che spostare i 2000 fusti a proprie spese richiedeva uno sforzo economico non indifferente. Ed è così che i fusti rimangono in pieno centro storico. Anche quando, tra maggio e giugno del 2002, l’Arpa Molise rileva nei pressi di una delle porte del deposito «un campo di radiazione notevolmente superiore rispetto al fondo naturale» tale da mettere a rischio la popolazione. Il sospetto dei tecnici cade sui cinque fusti contenenti l’americio. Il responsabile del settore fisico dell’Arpa, Claudio Cristofaro, e il suo direttore generale, sono costretti a scrivere in una nota che «i valori registrati rappresentano un ulteriore campanello di allarme, che dovrebbe indurre ad adottare misure definitive per il totale smantellamento del deposito di Castelmauro, che è del tutto incompatibile con il contesto urbano». La vicenda porta all’ennesimo contenzioso giudiziario che si gioca a colpi di perizie e controperizie. I risultati dell’Arpa sono in contrasto con quelli dei tecnici nominati da De Notariis. E nel 2006 De Notariis viene assolto dall’accusa di aver messo a rischio la salute della popolazione di Castelmauro. Nella motivazione della sentenza si sostiene che non può ritenersi adeguatamente provato il fatto che il campo di radiazione registrato dai tecnici Arpa fosse riconducibile al materiale presente all’interno del deposito. In definitiva, secondo la sentenza, non si può affermare con certezza né che vi sia stato un effettivo superamento dei livelli massimi di esposizione, né che quelle radiazioni fossero ricollegabili al deposito. Ma facciamo un passo indietro. Nel gennaio del 2003 la regione dà incarico all’Arpa Molise di predisporre un piano per il trasferimento del materiale dal deposito di De Notariis in un altro posto idoneo allo smaltimento, ricorrendo se necessario anche a ditte specializzate. Pochi mesi dopo l’Arpa è pronta. Le ditte in campo sono la Nucleco e la Protex: secondo i preventivi presentati, trasportare i bidoni in posti sicuri costerebbe almeno 1.500.000 euro. Un’enormità per Quintino De Notariis ma anche per le misere casse della regione Molise che, dopo aver coordinato una conferenza di servizio alla quale avevano partecipato tutti gli interessati, ha cancellato la questione dalla sua agenda e in modo informale ha chiesto aiuto al ministero dell’Ambiente per reperire i soldi. Soltanto alla fine della legislatura, il 3 aprile del 2006, Paolo Togni, il capo di gabinetto del ministro dell’Ambiente Matteoli, si accorge finalmente che esiste un problema: «Nella considerazione che sia necessaria l’adozione di immediate misure finalizzate alla messa in sicurezza di materiali radioattivi presenti nel sito sopraindicato, appare indispensabile assumere iniziative di carattere straordinario, che assicurino la salvaguardia della zona». Sono
le ennesime parole gettate al vento. E visti i tagli dell’ultima finanziaria (2008), per gli enti locali è difficile ipotizzare tempi migliori. L’unica a non arrendersi è l’Arpa che nella disperata ricerca di un interlocutore, nel corso del 2008, tenta di coinvolgere anche la Protezione civile. Ma in un documento a firma del suo capo, Guido Bertolaso, risponde che la competenza del caso è della regione Molise, dell’Arpa e dell’Asl, perché la Protezione civile interviene solo in caso di calamità. L’unico ente che si assume delle responsabilità solo, però, a calamità avvenuta. Alla fine della partita tutte le intimazioni di sgombero sono rimaste senza esito perché nessuno le ha fatte rispettare: né il comune, né il tribunale, né la regione Molise. Molti tra i suoi concittadini sospettano che il fisico nucleare abbia goduto di coperture istituzionali a causa della sua vicinanza politica con Alleanza Nazionale. Lui ha sempre respinto i sospetti, fatto sta che il deposito dopo oltre vent’anni è ancora lì. Chi ora non c’è più, però, è proprio il suo proprietario. Nel novembre 2007 l’ingegner Quintino De Notariis muore durante una notte di vacanza a Cuba. La famiglia ha presentato un’istanza per la rinuncia all’eredità e quindi anche alla proprietà del deposito, ma non dello stabile. Una vicenda che ricorda un po’ quella dell’Alitalia con la Bad Company e la Good Company. Dove nella Bad venivano seppelliti i debiti di Alitalia e accollati a noi tutti, compreso il debito ponte di 300 milioni di euro che l’Ue ci ha chiesto di restituire. Così lo Stato, e noi con lui, abbiamo ereditato i 2000 fusti radioattivi del De Notariis. Solo dopo che le telecamere di Report sono entrate nel deposito, la Protezione civile ha stanziato 750.000 euro e nominato il prefetto del posto commissario per bonificare lo scantinato, altrettanti ne ha deliberati la regione Molise. Sarà la volta buona? Vedremo. Nel frattempo, prima della trasmissione, Giovanni De Notariis dopo averci concesso l’intervista e averci aperto le porte del deposito ha cercato di impedire la messa in onda delle immagini dei fusti rivolgendosi al tribunale di Campobasso, ma il giudice ci ha dato ragione: «Si tratta di argomento di interesse pubblico». Ci siamo soffermati sulla paradossale vicenda del deposito di Castelmauro perché secondo noi è l’emblema, in piccolo, di un’altra eredità, ben più pesante, che ci stiamo portando appresso da vent’anni. E’ l’eredità della nostra stagione nucleare che si è chiusa nell’87 con il referendum dopo l’incidente di Chernobyl. Se non si fanno i conti con la storia, come spesso accade nel nostro Paese, sarà la storia a sbatterteli sul muso, prima o poi. Spegnere le centrali è stato un vero bagno di sangue per le tasche delle famiglie italiane, ma in pochi lo sanno: è costato circa 20.000 miliardi di lire. Tanto è stato speso per il nucleare all’italiana. L’equivalente di una manovra finanziaria. Soldi usciti dalle tasche delle famiglie con le bollette della luce per risarcire l’Enel del mancato guadagno e per mantenere in sicurezza gli impianti che a distanza di oltre vent’anni serbano ancora intatto il loro carico radioattivo. Un’eredità che nessun governo ha saputo affrontare e che è dura da smaltire. Ci avrebbe dovuto pensare la Sogin, Società per la gestione degli impianti nucleari, una società pubblica nata nel 1999, al momento della privatizzazione, da una costola dell’Enel.
Il nucleare era un ramo morto dell’azienda e presentarsi agli azionisti con un fardello simile significava partire con il piede sbagliato, meglio accollarlo alle famiglie. E così attraverso la voce A2 della bolletta, mese dopo mese, kilowattora dopo kilowattora, gli italiani hanno contribuito a ingrassare le casse della Sogin che fino a oggi non ha spostato un rifiuto. Sono state spostate le barre di combustibile in Inghilterra e in Francia. Scorie che comunque dovrebbero essere condizionate e smaltite nel nostro sito nazionale per centinaia di migliaia di anni. Come dire che, a distanza di circa cinquant’anni dalla loro costruzione le centrali sono diventate deposito di se stesse, e ad oggi è ancora impossibile quantificare i costi ambientali da pagare. Il nucleare all’italiana è cominciato come il piccolo deposito di Castelmauro: con tanto pressapochismo, bugie, strumentalizzazioni, furberie, confusione. La stima è che nel nostro Paese ci siano 28.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, che dovrebbero diventare fino a 150.000 con il decommissioning degli impianti nucleari. Decommissioning significa smantellare gli impianti nucleari, decontaminare i luoghi e lasciare un prato verde al loro posto. Il problema è che, se per puro caso cominciassero domani a smontare le centrali, non si saprebbe dove mettere i rifiuti. Dovrebbero essere trasferiti in uno speciale deposito nazionale che noi non solo non abbiamo, ma non sappiamo neppure dove farlo. Anzi di depositi ce ne vorrebbero due. Uno per i rifiuti di bassa e media attività, che sono il 90 per cento e che decadono dopo 300 anni, l’altro per le scorie che decadono dopo centinaia di migliaia di anni e sono circa il dieci per cento. Ma l’Italia ha anche un’altra emergenza. Ha bisogno di un deposito nucleare non solo per contenere le scorie ereditate dalla precedente stagione nucleare, ma soprattutto per stoccare in sicurezza i 1600 metri cubi di rifiuti radioattivi industriali e ospedalieri che ogni anno vengono prodotti. Alla periferia di Roma per esempio, a 25 chilometri dalla capitale, c’è il più grande deposito di rifiuti radioattivi di tutta Italia: la Casaccia. E’ gestito dalla Nucleco, una Spa la cui maggioranza è sempre della Sogin, e il resto dell’Enea. Ci sono circa 7000 metri cubi di rifiuti, frutto dell’eredità del nucleare e delle terapie degli ospedali, conservati in vecchi depositi fatiscenti e arrugginiti. In alcuni casi, dal momento che non sanno più neppure dove metterli, hanno cominciato da anni ad ammassarli nel cortile all’aperto in attesa del deposito nazionale. Alcune migliaia di fusti altamente contaminati, anche con del plutonio, non possono essere condizionati, e quindi messi in sicurezza, perché non esistono le regole di caratterizzazione che ne permettono l’accettazione al sito nazionale. Le regole, cioè, che stabiliscono come va condizionato un rifiuto prima di essere trasportato al sito definitivo. Tra quattro anni la Casaccia non sarà più in grado di accogliere un solo fusto, perché è già al limite. Nella stessa situazione si trova più o meno la totalità degli altri impianti. Per contenere tutti i rifiuti nel nostro Paese, si stima che servirebbe una struttura grande quanto lo stadio di San Siro, con muri spessi mezzo metro e alti dieci. Andrebbe costruito in una zona non sismica, poco popolata, possibilmente lontano da falde acquifere, fiumi e laghi. Questo tipo di costruzione si chiama «deposito
ingegneristico» ed è la soluzione adottata in Paesi che utilizzano il nucleare, come la Francia e la Spagna. Basterebbe solo copiare dagli altri. Dell’esigenza di costruire un deposito dove mettere in sicurezza le scorie ne aveva parlato nel 1995 l’Anpa, Agenzia nazionale protezione ambiente, esigenza posta come priorità nella sua prima conferenza nazionale e ribadita inutilmente dieci anni dopo. Anche il dipartimento della Protezione civile lo chiede a gran voce e un gruppo di lavoro dell’Enea, guidato da Piero Risoluti, studia per identificare come e dove farlo. Nel 1999 lo chiede anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. E sempre nel 1999 si riuniscono governo, regioni e province autonome: sono tutti d’accordo e scrivono che è necessario allestire un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi e smantellare velocemente le centrali. A dicembre dello stesso anno lo scrive pure il ministero dell’Industria in un documento sugli indirizzi strategici per il nucleare inviato al Parlamento, nel quale si chiede di localizzare e costruire due siti, uno definitivo e uno per stoccare provvisoriamente il combustibile. Nel 2000 viene terminato lo studio dell’Enea fatto da Piero Risoluti. Nel decreto del 7 maggio del 2001 Enrico Letta, ministro dell’Industria, incarica la Sogin di localizzare il sito. Nel 2003 la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici, al termine di un’indagine conoscitiva, scrive che la realizzazione è urgente. Tanto urgente che nello stesso anno il governo si prende la delega per la gestione dei rifiuti radioattivi e incarica nuovamente la Sogin di fare altri studi per individuare il luogo dove seppellire definitivamente le scorie. Nel febbraio del 2003 viene addirittura dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’attività di smaltimento dei rifiuti. Il governo Berlusconi nel marzo del 2003 nomina il generale Carlo Jean, già presidente della Sogin, commissario delegato e gli affida la difesa dei siti nucleari da attacchi terroristici e l’incarico di trovare il sito ideale dove costruire il deposito. Per il governo la strada era quella di un continuo confronto con le regioni seguendo un iter ben preciso che vedeva il commissario provvedere «d’intesa con la Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, a porre in essere ogni iniziativa utile per la predisposizione di uno studio volto a definire le soluzioni idonee a consentire la gestione centralizzata delle modalità di deposito dei rifiuti radioattivi». Invece tra aprile e giugno lo studio procede di fatto nella più completa segretezza, e sarà portato a conoscenza delle regioni solo dopo averlo concluso. Così decide un militare, il generale degli Alpini Carlo Jean, messo al posto di Maurizio Cumo, un semplice (e sicuramente più competente) ingegnere nucleare. Il governo ha fretta perché c’è da andare in guerra, e chi meglio di un generale per difendere il nostro fortino radioattivo, specialmente ora che il terrorismo minaccia attentati nei Paesi che appoggiano il nemico americano? Jean ha le idee chiare su cosa si deve fare per mettere in sicurezza le scorie, e le espone il 23 febbraio 2003, davanti alla Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. All’onorevole Pietro Armani, parlamentare di Forza Italia, che chiede notizie sul futuro deposito nazionale Jean risponde:
Il tema del sito unico nazionale si sta ponendo per varie ragioni, non ultima, a mio avviso, la forte determinazione del governo. […] Il lavoro svolto dall’Enea è sicuramente qualificato, ma offrendo più di 200 siti con una particolare concentrazione in poche regioni lascia eccessivi margini all’azione politica, mentre su questo tema sarebbe molto più utile una stringente e ponderata valutazione tecnica che definisse davvero i siti migliori per poter stoccare il materiale.
In pratica Jean chiede alla politica di fare un passo indietro. Da quel momento ci penseranno lui e i suoi tecnici. La task force Enea guidata da Piero Risoluti, che dal 1997 al 2001 aveva prodotto una serie di documenti e individuato un centinaio di siti dove poteva essere costruito un deposito di superficie per le scorie a bassa e media intensità, veniva buttata a mare. Avrebbe potuto essere una base di partenza per ulteriori ricerche. Invece è la fine di una politica e di un percorso. In pochi mesi lo studio sarà archiviato, la task force dell’Enea smantellata e chiusa: all’Enea saranno sfilate le competenze nucleari con un semplice decreto e affidate alla Sogin. Un esempio unico al mondo. Il pretesto sarà sempre quello dell’emergenza terrorismo. Il governo Berlusconi, nell’ordinanza che trasferisce le competenze da Enea a Sogin, adduce come causa le «gravi preoccupazioni espresse in sede parlamentare per i ritardi di messa in sicurezza degli impianti». Si riparte da zero, si fa tabula rasa delle esperienze precedenti. Dopo quell’audizione, sull’attività di ricerca del sito cala il silenzio. Passano alcuni mesi e il 26 maggio 2003 sull’«Unione Sarda» Marco Mostallino pubblica un articolo dal titolo Sardegna, pattumiera radioattiva, dove scrive che il sito dove costruire il deposito nazionale sarà trovato nell’isola. Mostallino mette in fila una serie di notizie. Ha saputo che uno dei consulenti chiamati dalla Sogin è Jeremy Whitlock, il vice presidente della Canadian Nuclear Society; un fisico che in un suo recente studio aveva affermato come «gli strati argillosi riscaldati naturalmente che si trovano sotto le rocce vulcaniche della Sardegna» offrono un idoneo grado di protezione per la conservazione delle scorie. In seguito viene a conoscenza che Jean si era incontrato con alcuni deputati della maggioranza, ai quali aveva manifestato il desiderio di costruire il deposito all’interno dei demani militari. Mostallino va oltre, scrive anche che la Sogin presenterà lo studio sul deposito in Sardegna il 15 luglio. L’articolo è una bomba che cade proprio mentre l’isola si prepara a raccogliere milioni di vacanzieri già pronti con pinne, fucili e occhiali. I deputati sardi di ogni colore, colti di sorpresa, presentano interrogazioni parlamentari a raffica. Il 29 maggio, il senatore dei Verdi, Sauro Turroni, chiede conto al governo circa la veridicità del fatto che la Sardegna, come sembra dalle notizie diffuse, sarà la sede del deposito nazionale per le scorie. Una richiesta di chiarezza legittima, visto che qualora la scelta dovesse cadere sulla Sardegna, ricorda l’onorevole, nessun organo istituzionale regionale disporrebbe degli strumenti giuridici per opporsi al provvedimento del commissario, al quale il governo ha conferito poteri che neppure le istituzioni nazionali sarebbero in grado di contrastare. La sentenza della Corte costituzionale che decreterà, in materia di energia, l’obbligatorietà da parte del governo centrale di ottenere il consenso degli enti locali in materia di localizzazione degli impianti, arriverà solo dopo il caso Scanzano.
Pochi giorni dopo è la volta dell’allora onorevole Antonello Soro, che chiede al ministro Giovanardi, responsabile per i rapporti con il Parlamento, conferma sulla Sardegna come luogo indicato dal commissario delegato come sito per il deposito. Pur essendo la Sardegna una roccaforte della Cdl, sono in tanti gli esponenti del centrodestra a chiedere chiarezza. Quello che aveva scritto Mostallino era la verità o solo un’ipotesi? Ad aprile del 2003 due parlamentari, Tommaso Foti di An, e il leghista Massimo Poliedri avevano chiesto un incontro a Jean, spinti dalla preoccupazione di sapere cosa si stava facendo per mettere in sicurezza le 1032 barre irraggiate che dalla fine degli anni Ottanta erano a mollo nella piscina della centrale nucleare di Caorso, vicino Piacenza. E che Caorso fosse anche il loro bacino elettorale è forse più che una coincidenza. A confermare i colloqui avvenuti a livello informale sono proprio i due parlamentari. Foti pubblica sul suo sito un articolo in cui riporta gli esiti all’incontro. «Entro la metà di giugno sarà indicato il luogo dove sorgerà il deposito, lo ha detto il presidente della Sogin Carlo Jean, al termine di un’audizione informale alle commissioni Ambiente e Industria della Camera.» I due onorevoli devono anche aver avuto rassicurazioni sul luogo dove sarà costruito il deposito: «È emerso chiaramente nel corso dell’audizione che, non appena avrà a disposizione un sito, che non potrà essere Caorso, né altra area ubicata in provincia di Piacenza, la Sogin potrà allestire in sei mesi un deposito provvisorio. Per detto sito è emersa la preferenza del commissario Jean di poter disporre di un’area di proprietà dell’autorità militare». Per Mostallino il luogo scelto è la Sardegna che è piena di aree militari, come i poligoni di Quirra, Perdasdefogu, Capo Teulada, e di miniere, quelle del Sulcis o del Sassarese. Colti di sorpresa, negano tutti. Perfino Berlusconi. Il premier interviene il 6 luglio del 2003 in Sardegna per annunciare l’intenzione di realizzare le grandi opere. Di fronte a lui appese alle balaustre decine di magliette bianche con la scritta blu «no alle scorie». Berlusconi alza la testa e con tono fermo si rivolge alla gente: «Allora volevo dire ai nostri amici delle magliette, mandatemele tutte, non c’è più bisogno, abbiamo chiarito che non ci saranno scorie nucleari da noi!». A smentire il premier sarà proprio Jean in un’intervista del 6 dicembre 2003 al «Corriere della Sera», dopo il fallimento di Scanzano: Quando si parla di localizzazione dei siti, la protesta della popolazione bisogna darla per scontata. Prima di Scanzano si era esplorata la possibilità della Sardegna Nord Orientale e abbiamo avuto una specie di rivolta preventiva. Poi, per evitare il ripetersi di una cosa del genere, ci siamo mossi con discrezione, studiando la fattibilità del deposito geologico a Scanzano. Pensando che la natura stessa del deposito profondo fosse più accettabile per la popolazione.
Alla fine aveva ragione Mostallino. Il governo e il generale avevano già scelto il sito. Lo studio era solo la foglia di fico per far passare una scelta politica come un’esigenza tecnica. Fatto sta che dopo l’articolo dell’«Unione Sarda», il problema del deposito radioattivo scompare dalle pagine dei giornali e dall’agenda della politica per circa cinque mesi. Ma è solo la quiete che precede la tempesta, una tempesta di nome Scanzano.
È il 12 novembre del 2003, un’autobomba a Nassirya uccide diciannove italiani e nove iracheni, l’Italia è attonita, commossa e spaventata dal terrorismo che per la prima volta dagli anni di piombo si ripresenta, pur con vesti diverse. Indossa l’abito dell’estremismo islamico. In questa atmosfera viene partorito il decreto 314. Così la notte del 13 novembre 2003, in gran silenzio e in gran segreto, mentre gli italiani aspettano il rientro delle salme dei militari morti nell’attentato, il governo decide dove seppellire per sempre le scorie radioattive di tutta Italia. Il decreto comincia ricordando il pericolo che i terroristi possano bombardare i siti radioattivi… con i rifiuti. L’ordine del governo è quello di risolvere il problema. Quando il 13 novembre, alla fine dell’edizione del Tg2 delle 17.30, il conduttore annuncia che il consiglio dei ministri ha deciso di costruire il deposito a Scanzano Ionico, non dice neppure in quale parte del mondo si trova. Un piccolo paese di una delle regioni più depresse d’Italia: la Basilicata. Scanzano è a poche centinaia di metri dal mare, al confine con la Puglia, in quel tratto di costa che va dal tacco dello stivale alla suola. Il motivo? La sfortuna di avere a pochi chilometri una zona pianeggiante che a 700 metri di profondità, in mezzo a due strati di argilla, ne cela uno di salgemma. La soluzione ideale per un deposito in profondità. Passano poche ore dall’annuncio e i pochi abitanti di Terzo Cavone, la frazione di Scanzano dove si trova la miniera, una distesa pianeggiante coltivata a fragole, arance e pesche, si ritrovano in strada per cercare di capire cosa sta succedendo. Si chiedono come mai quella parte del mondo di cui non si era mai occupato nessuno fino a quel momento fosse salita alla ribalta della cronaca. Era successo, ma loro non lo sanno ancora, che dopo lo stop imposto al generale dalle regioni sulla Sardegna, il governo aveva informalmente incaricato Jean di trovare velocemente il sito dove costruire il deposito. Preso atto dell’indisponibilità della prescritta intesa con la Conferenza dei presidenti delle regioni, nonché dell’accresciuta instabilità internazionale, con il conseguente aumento dei rischi derivanti dal terrorismo, il governo ha ritenuto di dover assumere responsabilmente l’iniziativa volta a identificare in tempi brevi un sito che, con il massimo livello possibile di sicurezza e rispetto dell’ambiente, fosse idoneo ad ospitare un deposito che, pur destinato in prima istanza al deposito definitivo dei rifiuti radioattivi di II categoria, presentasse anche caratteristiche favorevoli ai fini del deposito definitivo dei rifiuti di III categoria (deposito unico nazionale).
Queste parole sono scritte nella presentazione dello studio che individua a Scanzano il sito geologico. Uno studio che per settimane la Sogin terrà segreto e che tirerà fuori solo dopo che la protesta avrà impedito che il decreto sia trasformato in legge. Tra le rassicurazioni date alla popolazione c’è anche quella di portare benessere in una località depressa. Certo è difficile convincere quei lucani che a duecento metri da un mare verdissimo e dalle spiagge incontaminate si sta costruendo l’eterna pattumiera radioattiva d’Italia. Anche perché a poche migliaia di metri c’è lo scarico in mare con i suoi reflui radioattivi dell’impianto di Trisaia. La chiave giusta per aprire le porte è quella solita per il Sud, quella del benessere promesso. Un deposito di quel tipo avrebbe portato posti di lavoro e ricchezza. Ma ormai quella favola non incanta, e neppure i contadini lucani più sprovveduti ci credono. Alla fine hanno imparato che quelle favole non hanno mai un lieto fine. Cenerentola si
trasforma immancabilmente in una racchia vestita di stracci, e con il lupo cattivo rimane la diligenza svaligiata dai banditi. I lucani avevano già vissuto sulla loro pelle il fallimento della cassa del Mezzogiorno che aveva stanziato complessivamente oltre 23 miliardi di lire per portare sviluppo. Alla fine della partita l’industrializzazione era addirittura calata del tre per cento. Ovvio aspettarsi la protesta degli abitanti di Scanzano, che ricevono la solidarietà da varie parti di Italia. E così dopo la sorpresa iniziale i cittadini si ammassano davanti alla sede del comune e chiedono di vedere il sindaco: Mario Altieri, di An. Il sindaco non c’è. E’ a Roma. Quando viene rintracciato e informato, è una furia. Il mattino dopo, il 14 novembre 2003, guida la protesta. In una conferenza stampa parla di scelta sconvolgente e non democratica. «Produciamo frutta e ortaggi, […] stiamo realizzando un polo turistico da 8500 posti letto che creerà 3000 posti di lavoro: non accetteremo mai una decisione che sconvolge il tipo di sviluppo della nostra zona al quale stiamo lavorando da quarantanni» dichiara Altieri al «Messaggero». «È una cosa sconvolgente che ci piove addosso all’improvviso e della quale non sappiamo le motivazioni. Di sicuro non è un modo democratico di agire. Vogliono passare sopra le nostre teste, ma cercheremo di organizzare adeguate azioni di protesta» confida al «manifesto». La replica del governo non si fa attendere. E lo fa con il suo ministro dell’Ambiente, Altero Matteoli, in un’intervista alla «Stampa» di Torino, dice che «nel mondo ci sono oltre 100 siti così» e che «anche a Chernobyl ce n’è uno simile». Matteoli afferma che «solo dopo la valutazione ambientale i cittadini potranno e dovranno esprimere il loro giudizio», ma che comunque il sito di Scanzano «offre tutte le garanzie dal punto di vista geologico, ed è stato valutato da commissioni di esperti». Già, gli esperti. Ma chi siano non si sa, anche perché da quelle parti non si sono mai visti. Così come non si conosce lo studio che ha portato alla scelta di Scanzano. I consulenti si erano giustamente preoccupati dell’acqua delle falde che avrebbe potuto provocare, se fosse penetrata nel sito e fosse venuta a contatto con i serbatoi radioattivi, una catastrofe planetaria. Ma non avevano considerato l’altra presenza di acqua, quella del mare. Fu Carlo Rubbia, ex presidente dell’Enea, che in un’intervista al Tg1, durante i giorni della protesta, commentò la scelta di Scanzano con durezza, la definì addirittura una decisione da pazzi. Il premio Nobel ricordava che quella era una zona a rischio sismico e soprattutto che il mare in quel tratto aveva inghiottito in soli trent’anni ben 600 metri di costa. Ora è facile immaginare che un certo gusto nel togliersi qualche sassolino dalle scarpe l’ex capo dell’Enea l’avesse maturato, visto che con l’avvento della Sogin gli erano state tolte le competenze sul nucleare. Ma il rischio che denunciava era reale. Il sito si trovava a soli 200 metri dal mare, e in qualche decina d’anni avrebbe potuto bussare alle porte del deposito quando le scorie non si potevano più spostare e con conseguenze inimmaginabili. L’hanno individuato gli esperti, insiste Jean nella trasmissione Che tempo che fa (mentre a Report ha ritenuto di non concedere l’intervista), ai microfoni di Fabio Fazio, il 16 novembre, in collegamento video con Terzo Cavone, la distesa pianeggiante dove sarebbe stato costruito il deposito. Quando Fazio gli domanda quale sia stato il criterio della scelta, il generale risponde che è stato fatto uno studio
completo che gli ha permesso di scegliere la collocazione ideale. «Quindi lo ha scelto lei?» domanda Fazio. «Certo, grazie all’aiuto dei nostri scienziati che hanno contribuito a definire il sito.» In collegamento dalle miniere di Monte Cavone, a Scanzano, oltre alla popolazione a presidiare il sito, c’è il sindaco Mario Altieri, in prima fila; accanto a lui Pasquale Stigliani, promotore del campo base che dal giorno stesso del decreto è stato costituito per impedire la costruzione del sito, sull’appezzamento più grande del terreno di proprietà della Sorim, l’azienda mineraria che ha in concessione la miniera di salgemma. Insieme a loro Mario Tozzi, il geologo della trasmissione Gaia. Il primo a parlare è proprio Tozzi che spiega come lo studio non sia stato fatto sul territorio ma utilizzando esclusivamente materiale bibliografico, visto che nessuno ha notato negli ultimi tempi trivelle per fare carotaggi, né alcun movimento che facesse intendere qualche ispezione in loco. Il generale risponde serafico che gli studi sono stati fatti su documenti inoppugnabili e, insiste, con l’avvallo di scienziati preparati. Comunque, rassicura, si sarebbero fatte tutte le ricerche in loco appena individuato il sito; ricerche che sarebbero durate un anno. A questo punto, vista la mal parata, interviene il sindaco Altieri che rivela di essere stato ingannato dal generale. Ammette di averlo incontrato. Alcuni giorni dopo alcuni residenti di Terzo Cavone racconteranno di aver notato il sindaco che si recava in compagnia di Jean sul luogo prescelto per il deposito radioattivo. La giustificazione di Altieri la lasciamo al vostro giudizio: non pensava di parlare con Jean responsabile della Sogin e commissario di governo, pensava fosse un’altra persona. «Io pensavo di incontrare il responsabile dell’Itrec per parlare dei posti di lavoro» dirà Altieri. Il generale rimane imperturbabile e risponde: «Ci sarà stato un qui pro quo». Una risposta che è diventata una battuta per la gente di Scanzano. Si scoprirà più tardi anche l’esistenza di intercettazioni telefoniche che provavano contatti tra Jean e Altieri, il sindaco tra le altre cose aveva anche interessi economici proprio nel campo dei rifiuti. Comunque il generale è abituato ad altre battaglie e va avanti per la sua strada. E di volta in volta trova pure compagnia. Il 18 novembre, in prima fila a difendere la scelta del deposito con Jean c’è ancora il ministro dell’Ambiente, Matteoli. «Puntiamo ad attivare il deposito nel 2008» dice il ministro in un’intervista a «la Repubblica»; la protesta è infondata, visto che «su Scanzano c’è stato un consenso tecnico così largo da far risultare inutile la rosa dei candidati» e che «dai carotaggi e dagli altri rilievi è risultato un sito ideale: c’è uno strato di sale che non si muove di un millimetro da quattro milioni di anni ed è incastonato tra due piani di argilla». Avrebbe potuto essere anche l’ideale per un deposito esterno e per i rifiuti di seconda categoria. Ma le contraddizioni che sono emerse e la gestione dell’informazione hanno trasformato la protesta in un fiume, tanto da portare un’intera regione a Roma a contestare il governo. Se veramente, come dice il generale, la decisione si fonda su uno studio, perché non mostrarlo? In America stanno studiando da circa vent’anni il deposito geologico, noi saremmo stati così bravi da trovarne uno in pochi giorni? E i famosi esperti di cui parlano Jean e Matteoli e gli altri esponenti del governo dove sono? Eccoli gli studi
degli esperti: sono cinque. Il primo è del professor Claudio Eva, presidente della Commissione sismologica europea, che scrive all’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, e sostiene che il sito di Scanzano può essere buono anche se a rischio sismico; conclude però invitando a fare ulteriori studi. Un invito ripetuto dal secondo esperto, il professor Icilio Renato Finetti, ordinario di Geofisica applicata, anche perché a suo dire esisterebbe, anche se minimo, il rischio che un terremoto deformi e comprometta la struttura dello strato di salgemma presente nelle profondità. Il terzo e quarto esperto, rispettivamente il professor Umberto Colombo e il professor Renato Angelo Ricci scrivono invece che Scanzano è la scelta giusta, ma presentano due relazioni che sono una la fotocopia dell’altra: chi dei due abbia copiato non si sa, anche perché non sono neppure su carta intestata. Non è su carta intestata neppure la relazione del quinto esperto, il professor Paolo Scandone, che si trova fuori sede per altri lavori e addirittura si scusa con il generale Jean per la risposta informale. Un deposito radioattivo che viene giudicato idoneo con una risposta informale… tanto basta! E comunque le consulenze vengono presentate almeno una settimana dopo che il governo aveva indicato Scanzano nel decreto del 12 novembre. Come dire che la scelta era prima politica, e poi si esibivano gli studi degli esperti come foglia di fico. Alla fine la protesta dei cittadini costringe il governo Berlusconi a tornare sui propri passi e il 27 novembre il nome di Scanzano viene cancellato. Il giorno dopo la Basilicata viene tappezzata da manifesti con sopra scritto: «Scanzano ha vinto grazie al popolo lucano e alla sensibilità di Silvio Berlusconi!». Insomma, come si era arrivati alla scelta di Scanzano? Per esempio, il consiglio di amministrazione della Sogin era al corrente dello studio e della scelta di Scanzano? Il 21 maggio 2006 esce sul «manifesto» un articolo a firma di Antonio Massari dal titolo Mistero di Scanzano. Stop all’emergenza nucleare. L’articolo accoglie le dichiarazioni di due consiglieri della Sogin, Paolo Macioppi della Lega Nord e Nando Pasquali, che dicono di non essere stati informati della scelta di Scanzano. In pratica il generale avrebbe fatto tutto da solo usando la Sogin come suo «organo attuatore». «La Sogin è stata travolta dall’attività del commissario delegato» dice Pasquali nell’articolo precisando che «mai il consiglio d’amministrazione è stato coinvolto, o si è espresso, sulle decisioni riguardanti le azioni, condotte sempre con grande riserbo.» Il generale Jean ha sempre detto che la scelta è stata tecnica, affermazione ribadita dallo stesso ministro Matteoli. È la verità? Ecco cosa dicono i due nell’audizione della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti finalizzata proprio ad «acquisire dati ed elementi informativi in merito alle problematiche, alle prospettive ed alla tipologia, nonché alla relativa localizzazione territoriale del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, anche alla luce delle recenti iniziative del governo», come recita lo stenografico di quella riunione. Il 2 dicembre è la volta di Matteoli, che spiega come si è arrivati alla scelta del sito di Scanzano. Alla Camera, il 20 novembre, le critiche sulla scelta del governo si sono appuntate sul fatto di avere varato un decreto alla chetichella, e mi ha particolarmente offeso il fatto che qualcuno abbia detto cavalcando l’emotività dei lutti di Nassirya. Capisco che, nei momenti di massima polemica, ma anche di stress, si possono dire cose di questo tipo, ma mi sembrano da rigettare a colui che le
ha dette. […] Il ministero delle Attività produttive, di concerto con il ministro dell’Ambiente e tutela del territorio, hanno dato l’incarico al presidente della Sogin di approfondire l’indagine fino all’indicazione del sito ottimale.
Questa è la verità del ministro Matteoli che passa di fatto il cerino acceso nelle mani di Jean. Ma quando la Commissione chiede a Matteoli spiegazioni sull’articolo 2, e in particolare sull’esistenza del comma b) del decreto, dove si dava la possibilità di portare temporaneamente a Scanzano le scorie radioattive ancor prima di qualunque valutazione d’impatto ambientale, il ministro dell’Ambiente risponde: «Voglio ricordare, più a me stesso che a chi ha la cortesia di ascoltarmi, che l’iniziativa andrà sottoposta alla Via [Valutazione d’impatto ambientale, ndr]. […] È vero che c’era il punto b) dell’articolo 2, ma si era trattato di una specie di incidente di percorso, avremmo eliminato la possibilità di portare le scorie in quel sito immediatamente, anche se quello rappresentava la fine del percorso». Insomma quel comma era una svista, un incidente di percorso. E comunque Scanzano a prescindere da ogni valutazione rappresentava la destinazione finale. Ma il giorno dopo, il 3 dicembre, è la volta del generale Jean che dà la sua versione su come si è arrivati al sito di Scanzano e mostra facilmente uno studio della Sogin. «Nessuno di noi ha mai pensato di fare il sito provvisorio di Scanzano; questo è stato deciso in una riunione di ministri tenutasi il 10 novembre, richiesta dai ministri delle Attività produttive e dell’Ambiente e tutela del territorio al sottosegretario alla presidenza del Consiglio. In tale riunione sono state esposte le nostre conclusioni, che sono state accettate in quanto tenacemente sostenute dai due ministri.» Insomma, per Jean la candidatura di Scanzano era stata fortemente sponsorizzata da Matteoli e Marzano in una riunione con il sottosegretario Gianni Letta. Ma Jean dà la sua versione anche sulla natura del deposito di Scanzano. «Noi abbiamo sottolineato che i depositi del materiale sanitario che sono sparsi in giro o quelli dell’industria vanno messi quanto prima in sicurezza. […] È stato individuato il sito di Scanzano per la sistemazione di questi depositi provvisori, mentre a mio parere di depositi provvisori devono essercene quattro o cinque in Italia: a Nordest, a Nordovest, al Centro, al Centro-Sud e nelle isole. Questa è la mia opinione.» Quindi Jean scarica la patata bollente nuovamente nelle mani di Matteoli e Marzano, perché la sua intenzione sarebbe stata quella di portare a Scanzano «temporaneamente» i rifiuti sanitari. Un teatrino su cui cala il sipario il 24 dicembre quando il decreto viene trasformato in legge. Solo allora si capisce la vera intenzione del governo. Il nome di Scanzano non c’è più, dove si faceva cenno al paesino lucano adesso si parla di sistemazione in sicurezza di scorie altamente radioattive, cioè di un deposito riservato ai soli rifiuti di III categoria. L’individuazione del nuovo sito, dice la legge, spetterà a un supercommissario che coordinerà un comitato di dodici esperti che dovranno vagliare, entro un anno, i vari siti possibili e indicare quello migliore. Se alla fine la commissione non avesse indicato alcun sito, ci avrebbe pensato direttamente la presidenza del Consiglio. Un anno di tempo per installare una commissione così ampia, per trovare un commissario che la diriga, per effettuare gli studi. Una cosa impossibile da fare. E infatti non è mai stata fatta. Nella legge
Scanzano il governo si impegnava anche a costruire il sito entro il dicembre 2008. Berlusconi è rimasto a palazzo Chigi fino al 2006. Due anni dopo è di nuovo lì. Ha annunciato l’inizio di una nuova stagione nucleare ma del sito non c’è traccia. Intanto le centrali invecchiano e diventano sempre più pericolose, e i depositi scoppiano di rifiuti. Si riparte da quell’angolo di Padania dove il nucleare è sepolto tra l’autostrada e il Po. A Caorso ci sono i canneti, le vecchie cascine e c’è una centrale spenta, un relitto che aspetta di essere abbattuto. Fino a oggi più di un centinaio di persone hanno fatto la guardia a un cadavere radioattivo. Rifiuti e reattore che qui, nel tentativo di umanizzarlo, hanno chiamato Arturo. Lo si intravede quando si sale in ascensore a quella che i tecnici chiamano quota novanta, dove c’è la piscina che conserva ancora le circa 700 barre di combustibile. Fino a ora sono state smontate le parti convenzionali dell’impianto, come le enormi turbine che in alcune centrali sono conservate come monumento nel piazzale. Per smontare il resto e trasformarlo in prato verde, ci vorranno 500 milioni di euro e bisognerà aspettare il 2020, se verranno rispettate le nuove scadenze date dalla Sogin. Il 25 ottobre del 1986 la centrale si è fermata per la quarta ricarica di combustibile. Non è più ripartita. Fermare Caorso è stato il day after del nucleare all’italiana, un caso di eutanasia su un paziente sano. Nel 1969 doveva essere la centrale più potente d’Europa, che poteva accendere otto milioni di lampadine da cento watt, una potenza in grado di illuminare una città come Milano. Si è fermata, guastata ed è ripartita. Dopo Chernobyl e il referendum è finita in un angolo morto della storia. Dal 1988 ammuffisce nel deserto della Bassa. Un caso da manuale degli sperperi: da ferma la centrale costa 300 milioni al giorno. Per anni 177 operai e tecnici hanno aspettato il segnale di una ripartenza, come i soldati di Buzzati nella Fortezza Bastiani, qualcuno è andato in Messico o nei paesi dell’Est Europa a montare impianti tanto per non perdere la mano. Il segnale ora è arrivato, ma molti di loro sono già in pensione. In questi anni il vero decommissioning è stato culturale. E adesso si sente dire che sulle ceneri della vecchia centrale ne può nascere un’altra. Più il premier Berlusconi e il ministro Scajola insistono sul ritorno del nucleare in Italia, più intorno a Caorso si aspetta, o si teme, la nomination. Ci si mette anche il leader della Lega, Umberto Bossi, a fare da sponda: «Le centrali nucleari? In Padania la gente le accetterebbe. Siamo gente civile, non vogliamo rimanere senza frigo e condizionatore» dice in un’intervista al «Corriere della Sera» del 23 settembre del 2008. Passa un mese e il 23 ottobre da Caorso la sezione della Lega fa sapere che la gente della Padania non è poi così d’accordo. Proprio dai suoi fedelissimi arriva uno stop: no a nuove centrali sul territorio, abbiamo già dato. È quanto viene scritto in una mozione proposta dalla sezione della Lega Nord di Caorso e approvata dal direttivo provinciale del Carroccio e spedita per missiva al proprio leader. Quarant’anni fa non andò così. A Caorso non ci fu nessun dibattito. Un funzionario dell’Enel sbrigò la faccenda da solo, bastarono un paio di incontri in comune e un po’ di bugie. Il sindaco comunista Pietro Rossetti, un galantuomo in buona fede, disse di sì con la promessa di un risarcimento per i danni di una centralina sul Po. Il consiglio
comunale approvò il reattore con una licenza edilizia, come per un condominio. Un inganno nucleare, denunciò «Italia Nostra». Consumato nel silenzio di una stampa interessata più ai miliardi dell’investimento che all’impatto ambientale. Nessuno sapeva niente di nucleare. Sentirono uno scienziato inglese che fornì ampie assicurazioni sulla sicurezza. Una centrale atomica, diceva, è più sicura di un’automobile. Vero, la differenza, come dimostrò Chernobyl, è nelle conseguenze di un incidente. Ma da lì a poco l’Italia andava a piedi. Arrivò l’austerity: con la benzina razionata e le domeniche in bici. Era opinione diffusa che i giacimenti di petrolio fossero sull’orlo dell’esaurimento. In tanti hanno poi pensato che fosse esclusivamente una trovata della lobby nucleare. Son passati quarantanni da allora, il costo del petrolio dopo un’impennata che ha fatto tremare il mondo è precipitato nuovamente. Giusto il tempo di far gridare nuovamente «al nucleare, al nucleare». Il ministro Scajola ha annunciato la costruzione di nuove dieci centrali. E a Caorso, nell’attesa, c’è una pattumiera di vecchi rifiuti sulle rive del Po che deve ancora essere ripulita. Sempre sul fiume più lungo d’Italia, c’è anche l’impianto di Trino Vercellese. Il comune di Trino nel dopoguerra avviò la procedura per il riconoscimento del territorio comunale quale zona depressa. Apparve a un certo punto la Michelin che avrebbe potuto dare lavoro a 3000 persone in quella zona: una manna. Ma Trino non aveva i servizi e le strutture per sopportare un simile impatto industriale. L’industria francese si scusò per il disturbo e se ne andò. Fu allora che venne fatta la proposta al comune di costruire una centrale per la produzione dell’energia, dissero agli amministratori che avrebbe funzionato con concezioni di avanguardia. Si identificò il luogo: la sponda sinistra del Po, sui terreni di proprietà del comune per facilitare le autorizzazioni. Solo dopo si scoprì che quella concezione di avanguardia si chiamava nucleare. È la Selni, Società elettronucleare italiana di Milano, dopo accordi con il consiglio comunale di allora, a costruire la centrale a Trino. Non ci fu un gran dibattito all’interno del consiglio che votò quasi all’unanimità. E così dalle parole si passò ai fatti, un imponente impianto fu costruito sulla riva del più imponente fiume di Italia. Due colossi che sembravano sfidarsi. C’è da immaginarsi con quale stupore e con quale incredulità quei contadini che calzavano ancora i «ciabot» con dentro la paglia abbiano visto il frenetico alternarsi in quelle zone di tecnici americani e inglesi che si infilavano nelle baracche di legno e lamiera con su scritto «Chicago Bridge». Il ritornello, quando si costruisce un impianto del genere in una zona depressa, è sempre lo stesso: quello che porterà benefici alla popolazione, servirà da volano per l’economia locale, porterà a un incremento della popolazione e del lavoro. Le cifre però ci dicono altro. Nel 1960, quando si sta per cominciare la costruzione della centrale, a Trino c’erano 9151 abitanti, nei cinque anni in cui avvengono i lavori si passa a 9881. Ma proprio a partire dall’attività della centrale comincia a verificarsi il lento e inesorabile calo degli abitanti e alla fine degli anni Novanta se ne contano circa il 30 per cento in meno. Una desertificazione. E l’unica economia che continua a tenere, nonostante centrali nucleari, quelle a carbone e due cementifici, è quella del riso.
Nell’archivio comunale, mazzo 644, è ancora conservato un promemoria a uso del sindaco e degli assessori, nel quale si legge in merito alla cessione del terreno alla Selni per la costruzione della centrale: a tale scopo il consiglio comunale nella seduta del 10 settembre del 1960 ha ceduto alla Selni 560.000 metri quadrati di terreno. L’opera costerà 40 miliardi di lire e per la costruzione impiegherà circa 2000 operai e un centinaio di tecnici per un periodo di circa quattro anni. L’attesa dell’inizio dei lavori è vivissima tra la popolazione di Trino e quella dei comuni vicini. La pratica relativa all’autorizzazione della costruzione è tutt’ora giacente presso il ministero dell’Industria e commercio. Dal lato tecnico la pratica è perfetta. L’area su cui dovrà sorgere la centrale è stata ritenuta idonea.
Per la cronaca, la Selni aveva identificato un altro sito dove costruire la centrale, vicino a La Spezia, ma erano sorti problemi con la popolazione ligure. La centrale ha cominciato a produrre energia nel 1964 ma ha funzionato solo per tredici anni perché per altri nove è stata ferma per le manutenzioni straordinarie. Oggi di quell’esperienza sono rimasti 2800 fusti di rifiuti radioattivi, materiale che avrebbe dovuto essere nel sito nazionale già da un parecchio tempo. A questi rifiuti se ne aggiungeranno presto altri, perché se è vero che la centrale di Trino tra tutte è quella che è più avanti nel decommissioning, fino ad oggi, però, è stata per lo più smantellata la parte convenzionale dell’impianto. Il cuore radioattivo è ancora tutto lì. Nella piscina ci sono ancora 47 barre di uranio irraggiato, che contengono tra l’altro 150 chilogrammi di plutonio. Partiranno dopo quelle di Caorso alla volta della Francia. Quanto al reattore radioattivo, dovrà essere tagliato a fette come un salame per essere portato via, ma le operazioni sono talmente delicate e rischiose che andranno fatte sott’acqua. E comunque bisognerà aspettare il 2013 se tutto procede regolarmente. Oltre a Trino nella provincia di Vercelli c’è altro. A Saluggia il centro nucleare dell’Eurex e quello di Avogadro. Gli impianti sono divisi dalla centrale Enrico Fermi da una manciata di chilometri di risaie e dal canale Cavour. Il conte Camillo, che in pieno conflitto di interessi l’aveva costruito per portare acqua alle sue risaie, mai avrebbe immaginato che qualcuno un secolo dopo avrebbe costruito a poche decine di metri l’Eurex, un centro dove si estraeva uranio e plutonio dalle barre di combustibile, e l’avesse posto proprio sugli argini della Dora Baltea, dove le alluvioni sono frequenti. Tre negli ultimi quindici anni, ognuna più violenta di quella prima: l’ultima nel 2000. Da allora, invece di spostare il sito, è stato tirato su un muro in cemento che penetra in profondità per undici metri e sporge di altri cinque. Una vera e propria difesa idraulica, tanto che per entrare bisogna scavalcarla salendo gli scalini. E’ l’estrema barriera contro la piena a difesa dei rifiuti radioattivi. Da più di vent’anni, circa 100 persone fanno la veglia alle scorie radioattive: ce ne sono 1635 metri cubi. La maggior parte è allo stato liquido. E siccome non sapevano dove seppellirli li hanno interrati sotto una collinetta all’interno di serbatoi. Secondo l’ex presidente dell’Enea Carlo Rubbia, con l’ultima alluvione del 2000 si è sfiorata la catastrofe planetaria. Ora però, dopo la costruzione del muro, qui si sentono tranquilli e reputano la possibilità di alluvione del sito come un evento
fantascientifico. In verità anche nel 1994 giudicarono improbabili eventi alluvionali come quelli del 2000. Staremo a vedere, con la speranza che i tecnici della Sogin stavolta azzecchino le previsioni del tempo. Anche se qui, visto che il sito si trova all’interno del vecchio alveo del fiume, accade che quando l’acqua supera i livelli, per il principio dei vasi comunicanti, invade l’impianto nucleare entrando dai tombini di scarico. Così, nell’alluvione del 2000 si è avuto un allagamento delle parti basse del sito, dove c’è la mensa e l’auditorium. Sono parti convenzionali, ma non c’è da stare allegri nel sapere che esiste un sito nucleare che ogni tanto si allaga. Anche perché il problema vero è che i rifiuti liquidi da qui non si possono portare via, il loro trasporto è praticamente improponibile: a livello mondiale non c’è nessun precedente di spostamenti di quantità così importanti. È dal 1975 che l’ente di controllo sul nucleare vieta di stoccarli, eppure sono ancora qui. Nel frattempo una vecchia piscina dell’impianto dove erano stoccate 52 barre di combustibile irraggiato ha perso liquido radioattivo che è finito nella falda. Per svuotarla hanno impiegato ben quattro anni, e soprattutto ci sono stati nel silenzio più totale 100 casi di contaminazione interna tra gli operatori. Quando si è trattato poi di spostare le barre dall’Eurex la Sogin aveva di fronte due possibilità: metterle nella piscina di Trino, che è foderata d’acciaio ed è ispezionabile, o metterle nella piscina di un vecchio deposito degli anni Cinquanta, il deposito Avogadro, dove ci sono perdite sistematiche e dove la Sogin paga un milione di euro l’anno di affitto, un deposito che lavora in proroga dal 2000. Alla fine sono finite nel deposito Avogadro per una scelta politica. Trino è la patria di Roberto Rosso, parlamentare di Forza Italia, uno dei politici più influenti in Piemonte, è un nuclearista convinto ma, come ci racconta lui stesso, quando ha saputo che le barre potevano tornare a Trino, il suo collegio, è andato su tutte le furie e ha telefonato all’amministratore delegato della Sogin, Giuseppe Nucci, per convincerlo a portarle altrove. È la fotografia di una gestione all’italiana del nucleare. Oggi l’Arpa Piemonte è preoccupata perché si trova diversi pozzi contaminati in prima falda e non sa con precisione da dove viene la contaminazione. Sospetta che siano addirittura due le sorgenti: l’Eurex e il sito di Avogadro, dove cioè hanno portato le barre al sicuro. La centrale del Garigliano in provincia di Caserta è spenta dal 1978. Il referendum qui non c’entra. Un guasto e non è più ripartita, e mentre l’Enel cercava di metterla nuovamente in funzione trema la terra in Irpinia. L’ente di controllo chiede che la centrale venga adeguata ai criteri antisismici. L’Enel però fa due conti e decide che non gli conviene. Il risultato è che la centrale viene spenta definitivamente ma il rischio sismico rimane, e a nostre spese. Il mantenimento in sicurezza ci costa circa quattro milioni di euro l’anno. Il combustibile in parte è stato mandato in Inghilterra, a Sellafield, a partire dagli anni Sessanta, e da allora paghiamo un affitto agli inglesi per tenerci le scorie. Anche questa centrale ha ancora il reattore e circa 3000 metri cubi di rifiuti radioattivi che non si sa dove mettere e che in parte sono stati interrati in buste di plastica. L’ente di controllo ha chiesto più volte di recuperarli e metterli al sicuro in un deposito, ma quando è stata chiesta l’autorizzazione per costruirne uno nel comune competente di Sessa Aurunca gli è stata negata. Il motivo è che la centrale è costruita su un terreno agricolo, e ancora oggi non esiste addirittura sulle carte. In cinquant’anni nessuno ha mai pensato di fare domanda per cambiarne la
destinazione d’uso e così oggi l’unico deposito che hanno è al limite e contiene 700 fusti radioattivi. Cade a pezzi, non funziona più neppure l’impianto elettrico ed è diventato rifugio per gli uccelli. A pochi chilometri da Latina, c’è il Cirene. Sarebbe stata la prima centrale di costruzione tutta italiana. Dentro c’è il reattore che però non è mai entrato in funzione, perché l’impianto è stato completato pochi giorni prima del referendum che aboliva il nucleare. Quella che ha funzionato, e tanto, è la centrale che le sta a fianco, quella di Borgo Sabotino. È stata la prima a essere accesa nel nostro Paese ed è stata anche la più grande d’Europa. In poco meno di trent’anni ha prodotto 26 miliardi di kilowattora, l’equivalente dell’energia che con i consumi di oggi coprirebbe un solo mese. Aveva 350 dipendenti, ne sono rimasti 80 a fare la guardia a 1200 metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui solo 300 sono stati già condizionati in matrice di cemento. Le 24.000 barrette di combustibile erano avvolte con le alette di magnesio. Mentre il combustibile è a Sellafield, a noi sono rimaste le alette che vengono sfilate dal combustibile esaurito prima di inviarlo al riprocessamento. Dato che non sapevano dove metterle, le hanno sepolte anche qui sotto una collinetta, a partire dagli anni Sessanta. Con le alette sono stati sepolti nei serbatoi anche rifiuti liquidi con tracce di plutonio, uranio e altri transuranici. Anche quelli andranno trattati perché non sono trasportabili. Dopo anni hanno ricevuto finalmente l’autorizzazione da parte del comune di Latina a costruire dei depositi per stoccare i rifiuti radioattivi condizionati perché, come a Caserta, non sanno più dove metterli. Un’autorizzazione che è arrivata solo dopo l’elargizione delle compensazioni nucleari. Nel frattempo gli inglesi ci hanno restituito quattordici tonnellate di uranio impoverito, a rimpinguare l’eredità che è ancora da smaltire. E anche qui c’è ancora da smontare il reattore. Si tratta di un brevetto inglese di origine militare: funzionava con uranio, gas e grafite. Una tecnologia utilizzata per generare più plutonio. Rimarrà nella pancia della centrale almeno fino al 2019 se tutto va bene, perché mancano ancora le autorizzazioni necessarie per lo smantellamento. Ma la vera grande gatta da pelare ha un nome ben preciso: grafite. La grafite è stata utilizzata come contenitore delle barre di uranio all’interno del reattore. Una volta attivata rimane radioattiva per migliaia di anni e non è possibile riprocessarla, come avviene per le barre, va solo smantellata e stoccata nel sito per le scorie ad alta attività. E questo significa che la grafite rimarrà lì fino a quando non si saprà dove trasportarla. Insomma poiché non bastavano le scorie nostre, siamo stati talmente lungimiranti da portarci in casa anche quelle degli altri. La situazione più paradossale è nel centro ex Enea di Rotondella, vicino a Matera. Dagli anni Settanta in una specie di brodo primordiale sono immerse 64 barre di combustibile irraggiato. Sono il frutto di un accordo con il governo americano. Alla fine degli anni Sessanta gli Usa ci chiesero di recuperare uranio e torio dalle barre provenienti dalla centrale di Elk River. Dopo averne lavorate diciotto, gli americani si accorgono che il ciclo uranio-torio non è economicamente conveniente, chiudono la centrale di Elk River e ci informano che quelle barre non interessano più. E noi non possiamo neppure mandarle da qualche parte perché non sono compatibili con le altre
centrali nel mondo. Dagli anni Settanta una cinquantina di persone ha il solo compito di fare la guardia alle barre americane perché non sappiamo cosa farne. Sempre nella Casaccia vicino Roma c’è l’impianto Plutonio. Ci sono più di cinque chilogrammi di plutonio che possono essere utilizzati per fini militari. Sono conservati in un deposito dove da circa due anni l’impianto antincendio non è omologato. Quello vecchio era sovradimensionato, erano state cioè montate più bombole di quelle che servivano, e ciò aveva provocato un’esplosione nel 2006 durante una prova. Lo smantellamento di questi impianti non è solo un fatto tecnico, ma anche politico, perché servono le autorizzazioni sulle procedure: per il decreto di disattivazione vengono coinvolti il ministero dello Sviluppo economico, quello dell’Ambiente, quello dell’Interno, della Salute, del Lavoro, delle Politiche sociali, regione, provincia e ente di controllo. Per il procedimento di Via, invece, vengono coinvolti il ministero dell’Ambiente, quello dei Beni culturali, regione, provincia, comune, prefettura, autorità di bacino. Migliaia di pagine per ogni impianto e a vagliarle quattro gatti piazzati dal governo negli uffici ministeriali competenti. Inutile dire che a ogni tornata elettorale che coinvolge l’intero Paese o semplicemente regioni e gli enti locali, cambiano gli interlocutori e si perde altro tempo o cambiano le priorità. Come dire che se per puro miracolo domani si dovesse identificare il sito nazionale, mancherebbero ancora le autorizzazioni per smontare le centrali. Chi avrebbe dovuto porre rimedio a tutte queste situazioni come abbiamo detto, era la Sogin. Nel 2000 il governo sembra accorgersi all’improvviso che le centrali sono ancora lì e decide per lo smantellamento accelerato degli impianti. L’unica cosa che ha subito un’accelerazione è il contributo pagato dagli italiani per il nucleare: se nel 1999 era di una lira a kilowattora, oggi costa l’equivalente di 1277 lire. Anche se oggi, a parte le barre di combustibile mandate all’estero per il riprocessamento, non è stata spostata una scoria. Perché? A cosa sono serviti i soldi degli italiani? Dal 2002 al 2007 la Sogin ha speso più 673,4 milioni di euro (circa 1303 miliardi di lire) solo per smontare le parti convenzionali degli impianti. E allora cosa ha fatto in questi anni la Sogin? Ha assunto figli, parenti, amici e amanti di politici e di membri del consiglio di amministrazione, ha speso in pochi anni milioni di euro per i ricchi stipendi dei propri manager, per consulenze pagate tra gli altri allo studio Previti e all’ex studio di Tremonti, per sponsorizzazioni come quella della fiera del libro antico organizzata da Marcello dell’Utri, o per smantellare i sommergibili nucleari russi. Tutte cose che non hanno nulla a vedere con la sua missione che è quella di smantellare le centrali nucleari italiane. Tutti sembrano interessati alla Sogin, compreso il governo Berlusconi. Il premier nel 2004 annuncia finalmente il taglio delle tasse che aveva promesso alla vigilia delle elezioni del 2001 nel contratto con gli italiani, firmato sul tavolo di ciliegio di Vespa. Bisognava però coprire il buco di sei miliardi di euro che si sarebbe aperto nel bilancio dello Stato. Come? Grazie a un emendamento presentato nella finanziaria vengono prelevate ogni anno dalle casse della Sogin 135 milioni di euro. Quello che il governo taglia con la destra lo riprende con la sinistra, dalla Sogin, e quindi dalle bollette della luce. Solo l’Autority per l’energia solleva il problema: il presidente
Ortis scrive al governo ipotizzando che questa sia una tassazione occulta che viola anche i principi di costituzionalità del regime tributario: se un cittadino deve pagare una tassa, lo deve fare consapevolmente e in base al proprio reddito. In questo modo gli italiani da tre anni a questa parte hanno inconsapevolmente versato attraverso la bolletta, 135 milioni di euro più Iva, e non in base a quanto hanno guadagnato ma alla corrente elettrica consumata. Alla fine chi ha in casa dieci figli e paga una bolletta salata per riscaldarli ha contribuito più di altri a tagliare le tasse ai ricchi. Né il Parlamento, né il governo hanno mai risposto all’Autority, anzi ora sta pensando di azzerarne i vertici. In mezzo a questo scenario, si pensa al nuovo. Da pochi mesi sul tavolo del ministro per lo Sviluppo economico Scajola è arrivato un elenco delle aree idonee dove costruire il deposito. È il frutto di una commissione di tecnici e rappresentati delle regioni costituita dall’ex ministro Bersani. Ma proprio le regioni hanno posto delle condizioni: che nel deposito che si dovrà costituire non rientrino anche le scorie prodotte dal nuovo nucleare. Insomma, dopo decennali discussioni su come sanare il vecchio si rischia di aprirne un’altra sul nuovo. E comunque le regioni hanno fatto sapere che non accetteranno imposizioni dal governo. Anche perché ci sono da costruire dieci nuove centrali. Scajola ha detto che non ha nessuna intenzione di fare un nucleare imposto. Allora è tutto sistemato? Tra le pieghe della legge che apre la nuova stagione del nucleare è spuntato un emendamento in cui si prevede l’intesa con le regioni solo per la costruzione e la gestione delle centrali, non su dove costruirle. E non è una dimenticanza. Secondo le intenzioni del governo, dopo che un pool di esperti avranno identificato i siti idonei, saranno i privati a scegliere dove fare le centrali. Eppure ci sono sentenze della Corte costituzionale che impongono l’autorizzazione delle regioni per quello che riguarda il luogo dove costruirle. Comunque il governo sembra essersi premunito con un altro emendamento che prevede che, in caso di mancato accordo con gli enti locali, il governo imporrà la decisione del privato. Imposizione per legge, perché dopo tanti soldi buttati e tutto quello che si è visto succedere nessuno si fida più. Non bisogna essere la Sibilla per prevedere una lunga stagione di lotte a base di carte da bollo. Intanto il governo il primo passo l’ha fatto: ha costituito l’agenzia per la sicurezza nucleare, prenderà in parte il posto del vecchio ente di controllo, l’ex Apat, ma avrà anche le competenze dell’Enea e parte della Sogin. Cosa saranno destinate a fare quest’ultime ancora non è chiaro. Mentre girano i primi nomi dei membri della neonata agenzia, professionisti ma alla soglia dei settant’anni. Dovranno guidare l’entrata nella nuova stagione nucleare. Ci vorranno almeno dieci anni per vederle funzionare, e se le cose andranno male non sapremo neppure con chi prendercela. Ancora non sono stati saldati i conti con il passato, ma tutta la grande giostra del nucleare sta per ricominciare a girare. Chi sta sopra a divertirsi, e chi sotto a spingere, lo vedremo. L’oro di Roma di Paolo Mondani
Avrà cinquant’anni Sabine Thumler, portavoce della Bsr, la Berliner Stadtreinigung, società pubblica berlinese che smaltisce i rifiuti della città. È una mattina tersa di settembre, c’è il sole e fa freddo. Sulla sua auto, rigorosamente tedesca, stiamo raggiungendo lo stabilimento principale nella zona industriale di Rulheben, a Ovest di Berlino. «Lavoro alla Bsr da diciassette anni e sono nell’industria dei rifiuti da ventitré. Quando ero piccola i miei genitori dicevano che per loro non c’era bisogno che mi diplomassi: “Alla fine se non ti resta altro puoi sempre andare a fare la spazzina”. Io non li ho mai ascoltati, mi sono laureata in biologia e geografia e dove sono finita dopo? Nel settore dei rifiuti, come prevedevano loro.» A Roma l’Ama, l’Azienza municipalizzata dell’ambiente, si occupa dello spazzamento della città e della raccolta differenziata, mentre l’azienda privata Co.La.Ri. di Manlio Cerroni è proprietaria della discarica di Malagrotta e del futuro gassificatore. Cioè la parte che conta. A Berlino invece, la Bsr ha in mano tutto il ciclo dello smaltimento. Le aziende private gestiscono solo porzioni dell’affare. «La società privata Alba» chiarisce Sabine Thiimler «raccoglie i rifiuti industriali e gli imballaggi, ma non in esclusiva perché la Bsr ha una sua impresa che si occupa delle stesse cose. E con Alba lavoriamo insieme sulla gestione di due impianti di preselezione dei rifiuti.» La Bsr gestisce l’inceneritore di Rulheben ma non si occupa solo dei rifiuti indifferenziati. «Abbiamo una società affiliata che è leader di mercato nel riciclaggio della carta e ci occupiamo della produzione di compost. Poi abbiamo aperto un impianto dove vengono riutilizzati rifiuti ingombranti come i mobili e gli elettrodomestici.» Le chiedo allora perché Berlino ha scelto un'azienda totalmente pubblica a differenza dell’Italia dove, nel settore dei rifiuti, il privato è spesso in società con le municipalizzate locali. «Perché non puntiamo ad aver alcun profitto ma solo a portare il bilancio in pareggio. Quindi il cittadino non è costretto a finanziare degli utili. Ma non creda che si lavori in maniera meno efficiente e competitiva del privato: a Berlino, tra le grandi città tedesche, abbiamo l’imposta più bassa sui rifiuti. E facciamo molta attenzione all’ambiente. I nostri mezzi possono circolare tutti all’interno della fascia verde della città perché funzionano a metano. E i nostri dipendenti ricevono uno stipendio secondo un contratto nazionale con il quale, e sono loro a parlare, vivono in maniera dignitosa.» L’Ama di Roma ha inviato a Report un prospetto degli stipendi medi dei dipendenti e, a fronte di un salario romano di circa 1300 euro, a Berlino, con la stessa funzione, il medesimo dipendente guadagna qualche cosa in più, fino a 1500 euro mensili. Eppure il costo della vita a Berlino è come quello di Roma se non più basso. «Se fossimo una ditta privata» prosegue Sabine Thumler «ci sarebbe qualcuno che ci richiederebbe un profitto, un proprietario oppure degli azionisti. In Germania la maggior parte delle ditte private nel settore dei rifiuti non paga i propri dipendenti secondo il contratto nazionale. E non perché sia impossibile per i costi, ma per realizzare più utili. Il fatto che siamo proprietari dei nostri impianti e che non dipendiamo da nessun privato è estremamente positivo per i lavoratori ma soprattutto
lo è per i berlinesi. Crediamo che in settori come quello dello smaltimento dei rifiuti i cittadini debbano avere la garanzia di costi bassi a lungo termine e debbano essere loro a usufruire dei vantaggi di una buona gestione, non un privato.» Ascoltando Sabine Thumler mi rendo conto che noi italiani abbiamo un’idea dello Stato e del pubblico molto diversa, li associamo a concetti come spreco e burocrazia. Mentre a Berlino, intervistando alcune famiglie e gli abitanti della zona industriale, si capisce che lo Stato è vissuto come servizio. Punto e basta. Non c’è ideologia in questo, non è meglio lo Stato perché il privato è privato. Ma perché è più conveniente e dà più garanzie. Attilio Tornavacca è il direttore di Esper, un’azienda di Torino che svolge consulenza per gli enti locali sul tema della raccolta differenziata. Consulenza svolta anche per il comune di Roma che decide di capire come si organizzano le altre capitali d’Europa. Peccato che l’amministrazione capitolina sembra aver tratto ben poche indicazioni dall’esperienza estera. Incontro Attilio Tornavacca che mi descrive la situazione tedesca. In Germania, la pianificazione in materia è stata definita da una legge del 1996 che stabilisce come prioritaria la prevenzione della produzione dei rifiuti e la attribuisce ai produttori di imballaggi. Qualora la prevenzione non sia possibile, basilare diventa il riciclaggio e il recupero energetico; solo allora, la componente residua non recuperabile del rifiuto può essere smaltita in discarica in modo ecosostenibile. Quindi, siamo di fronte a un ribaltamento della filosofia seguita della città di Roma dove oggi, dalla monocultura del tutto in discarica, si passerà alla monocultura del tutto al gassificatore. In Germania, a partire dal 2005 è possibile smaltire in discarica i rifiuti soltanto previo trattamento di separazione (termico o meccanico-biologico) dei materiali da riciclo. In Germania una legge dello Stato regola, dal 1991, lo smaltimento dei cosiddetti imballaggi industriali: la frazione più pesante ogni 100 chili di rifiuti. La cosiddetta Ordinanza sugli imballaggi obbliga i produttori a occuparsi direttamente e a loro spese dello smaltimento delle confezioni industriali. La legge prevede che i privati costituiscano una società no-profit (la Duales System) che organizza la raccolta, il trattamento e il recupero dei loro rifiuti. Il sistema è finanziato dal cosiddetto Gruner Punkt (punto verde), un marchio rappresentato da un bollino verde che compare su ogni prodotto il cui imballaggio venga recuperato e riciclato. In pratica, le imprese finanziano questa attività comprando una sorta di marchio di qualità. Ciò ha permesso una riduzione di circa il 15 per cento del consumo di imballaggi e ha consentito il raggiungimento di un tasso di recupero superiore all’80 per cento. Una decisione chiave per ridurre l’apporto di rifiuti in discarica, perché in tutta Europa si valuta che la parte del leone la fanno sempre l’imballaggio industriale e il cosiddetto umido domestico. La Germania si è data come obiettivo, entro il 2020, di eliminare completamente lo smaltimento in discarica dei rifiuti urbani. La città di Berlino ha una popolazione di 3,39 milioni di abitanti per 1,823 milioni di famiglie. L’area metropolitana, in costante crescita dalla riunificazione tedesca, comprende attualmente più di 4,3 milioni di abitanti. Già nel 2000 Berlino spediva il
40 per cento dei suoi rifiuti in discarica e ne inceneriva il 25 per cento riciclando ben il 35 per cento. Ma confrontiamo i dati con quelli di Roma. Nel 2000 ogni berlinese produceva 354 chili di rifiuto indifferenziato l’anno, nel 2007 circa 260. Cioè 90 chili in meno pro capite. A Roma accade al contrario: nel 2000 ogni romano produceva 420 chili di rifiuto indifferenziato, nel 2007 si è arrivati addirittura a 450 chili. Cioè sempre più monnezza per la discarica di proprietà di Manlio Cerroni. Katrin Lompscher, assessore ai rifiuti del comune di Berlino, racconta che non è stato semplice chiudere tutte le discariche in città, ma alla fine ce l’hanno fatta nei tempi previsti dalla legge. «Le ultime cinque le abbiamo chiuse tre anni fa. Attualmente solo i rifiuti non precedentemente differenziati vanno all’inceneritore e solo una piccola parte viene portata in una discarica lontano da Berlino, nella zona del Brandeburgo. L’obiettivo è quello di eliminare anche questa discarica entro i prossimi dieci anni.» Siamo saliti su un camion compattatore della Bsr. Jurghen, che lo guida, e i suoi compagni, hanno le chiavi di tutti i condomìni del pezzo di città loro affidato, e all’interno dei cortili prelevano i bidoni per la spazzatura. Non ci sono cassonetti sulle strade perché la raccolta avviene a orari precisi e perché per i cittadini è assai più facile differenziare il rifiuto se il bidone è nel cortile di casa. Oltre al contenitore verde per l’indifferenziata ci sono quelli per la plastica, la carta, il vetro scuro, il vetro chiaro e l’umido. Katrin Lompscher afferma che a Berlino «si producono 1,61,7 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, di cui 700.000 sono raccolta differenziata, quindi il 41 per cento del totale». A Roma invece la raccolta differenziata raggiunge il 19 per cento, mentre come prescrive la legge finanziaria del 2007 dovrebbe già aver raggiunto il 40 per cento. Berlino. Un passo alla volta D’accordo. A Berlino sono più bravi perché hanno accettato di ribaltare la vecchia filosofia dello smaltimento. E, però, il 59 per cento dei rifiuti va comunque all’inceneritore. Non è ancora troppo poco? L’assessore Lompscher su questo punto è chiara. «Abbiamo dei limiti, non c’è dubbio, uno per tutti è quello del compostaggio. Ma nei prossimi due anni pensiamo di passare al 60 per cento di raccolta differenziata perché stiamo realizzando nuovi impianti per la produzione di compost.» Rispetto a Roma è un sogno. Ma c’è comunque un 40 per cento di rifiuti che verranno bruciati. Prima di capire come sarebbe possibile riciclarli incontriamo Thomas Kempin, il direttore tecnico dell’inceneritore della Bsr Kempin non sembra fare molto caso alle differenze tecnologiche fra inceneritore e gassificatore. Quello romano di Malagrotta, sempre di proprietà di Manlio Cerroni, è un gassificatore e i tecnici ritengono che produca normalmente meno scarto e meno emissioni pericolose di un normale inceneritore. Ma qual è la differenza tra inceneritore e gassificatore? Gli inceneritori sono impianti utilizzati per lo smaltimento dei rifiuti mediante un processo di combustione ad alta temperatura che dà come prodotti finali un’emissione gassosa, ceneri e polveri. Negli impianti più moderni, il calore sviluppato durante la combustione dei
rifiuti viene recuperato e utilizzato per la produzione di energia elettrica. Per gassificatore si intende invece un impianto che brucia rifiuti selezionati (il famoso Cdr) per ricavare combustibili gassosi impiegabili nella produzione di energia. I sostenitori dei gassificatori ritengono che gli inceneritori producano fumi più pericolosi mentre la «loro» tecnologia emetterebbe diossine e furani in misura assai minore. Una parte della comunità scientifica vede comunque con sospetto i gassificatori per via delle loro emissioni gassose: le nanoparticelle. Cosa sono esattamente e che differenze ci sono con le altre polveri emesse dalla combustione? Si tratta di «oggetti» di diametro inferiore al micron. Non possono essere filtrati e sono eterni. Si accumulano sul territorio e provocano seri danni alla salute. E poi c’è il problema delle ceneri della gassificazione che costituiscono circa un terzo del rifiuto che viene bruciato. Una massa che generalmente finisce in discarica con la qualifica di rifiuto pericoloso. Dopo molte ricerche, ci siamo resi conto che non esiste uno straccio di studio indipendente a livello internazionale che sia in grado di giurare sulla bontà della gassificazione. Kempin ritiene che l’importante sia riutilizzare l’energia prodotta dalla combustione dei rifiuti e tenere sotto strettissimo controllo le emissioni, tanto da mantenere i valori ben al di sotto dei limiti imposti dalla legge. «Il nostro è un sistema che brucia rifiuti e usa i gas combusti per generare 40 megawatt di elettricità. Tutte le emissioni più pericolose, i metalli pesanti, la diossina, le polveri, il cloro, sono molto al di sotto dei limiti di legge. Per quel che riguarda la diossina, in Germania abbiamo speso miliardi per imparare dal caso Seveso e ora siamo in grado di controllarla.» E le scorie finali? Come qualificate questo tipo di rifiuto e dove lo mettete? «Bruciamo circa 520.000 tonnellate di rifiuti domestici l’anno. Dal rifiuto iniziale ricaviamo una scoria ridotta in peso del 30 per cento. La utilizziamo come materiale per costruzioni, non la gettiamo in discarica. È una scoria inerte, non pericolosa.» A Roma, i controlli sul futuro gassificatore verranno svolti dall’Arpa, ma a valle dei controlli realizzati dalla Co.La.Ri., l’azienda di Cerroni. In Europa avviene spesso cosi. In Germania no. La strumentazione di controllo sull’inceneritore è della Bsr ma sono laboratori di analisi certificati e assolutamente indipendenti a redigere il rapporto annuale sullo stato delle emissioni. Questo rapporto viene presentato alla Bsr che a sua volta invia i dati a una speciale commissione di controllo insediata dal consiglio comunale, formata da tecnici e presieduta dall’assessore all’Ambiente e alla salute Lompscher. Alla fine del percorso di verifica i dati vengono pubblicati su uno speciale bollettino (l’Amtsblatt) e inseriti nel sito Internet della Bsr. «Così ogni cittadino può consultarlo e convincersi che stiamo facendo un lavoro fatto bene» dice il direttore Kempin. In Italia ogni decisione su un inceneritore si accompagna a grandi proteste dei cittadini, qui in Germania no. Come sono riusciti a convincerli? L’assessore Lompscher appartiene alla Linke, il partito della sinistra alleato alla Spd nella giunta cittadina, e non nasconde che l’incenerimento è una scelta che non la convince, perché impedisce alla raccolta differenziata e al riciclo di fare passi decisivi in avanti, in quanto tende a deresponsabilizzare gli enti locali che potendo bruciare rifiuti si
illudono che sia la scelta più indolore e sbrigativa. Trascurando che la gestione delle emissioni pericolose e delle scorie dell’incenerimento è cosa più costosa e difficile del riciclaggio. Ma sa che per superarla occorre lavorare sodo e procedere un passo alla volta. La differenza con Roma è tutta qui. A Berlino i passi si fanno. Uno alla volta, ma si fanno. E poi c’è un’altra differenza che conta, la qualità degli amministratori. «Come abbiamo convinto i cittadini?» replica Lompscher. «L’inceneritore è stato costruito già alla fine degli anni Sessanta e di volta in volta modernizzato. I berlinesi sanno che ce la mettiamo tutta per fare le cose bene. Per impianti di questo tipo in Germania ci sono regolamenti severissimi. E un elevato livello di sicurezza che noi tedeschi abbiamo portato in Europa. La Ue ha adottato leggi imparando da noi.» Naturalmente chi abita nella zona dell’inceneritore, quella di Rulheben, non è felicissimo. Gli affitti sono bassi anche perché l’aria non è quella degli chalet di montagna. Un vecchietto che incontriamo per strada ci racconta che i suoi figli sono nati e cresciuti qui, i suoi nipoti pure, e sono sanissimi. Una giovane donna confessa che non farebbe un figlio ma solo perché non ci sono asili nido né grandi parchi in zona. Dei dati sulle emissioni invece si fida. «Gli amministratori di Berlino sono in gamba» ci dice. E poi la raccolta differenziata è una tradizione. Ai bambini viene insegnata fin dall’asilo: con il secchiello raccolgono le bucce di banana e i piccoli rifiuti per differenziarli in un bidone apposito. Alle elementari una gita fissa è quella all’inceneritore di Rulheben, prima del 2005 li portavano persino in visita alle discariche. Oggi vanno nelle aziende dove si ricicla carta e plastica. Un’altra civiltà. «A Berlino Est la raccolta differenziata è iniziata più di trent’anni fa,» dice la Lompscher «a Berlino Ovest venticinque anni fa. Nei condomini i bidoni colorati ci sono da allora. I berlinesi hanno capito molto rapidamente come funziona e possiamo dire che siamo entrati a regime vent’anni fa.» Passeggiando per Berlino, nei negozi abbiamo visto bidoni per l’immondizia di casa divisi in tre blocchi, persino eleganti. Alla fine dell’intervista chiedo all’assessore se sarebbe possibile a Berlino un modello di smaltimento come quello romano, dove tutto è in mano a un unico imprenditore privato. «Qui c’è l’intenzione politica chiara di non privatizzare i compiti del pubblico» ribadisce secca la Lompscher «e non ritengo che sia possibile un cambiamento di questo tipo a Berlino, ma se per ipotesi dovesse passare tutto in mano ai privati il controllo da parte nostra dovrebbe essere doppio. Il pericolo di prezzi gonfiati o di pratiche nocive per l’ambiente sarebbe enorme se il controllo non fosse pubblico.» Tutt’altra filosofia esprimono i nostri politici e i nostri imprenditori: una gestione che tiene, se non prioritariamente, di certo in gran conto il produrre utili come una qualsiasi Spa, ritenendolo spesso motivo di orgoglio manageriale. La riprova di questa filosofia, che antepone le ragioni dell’economia a quelle dell’ecologia, è la continua richiesta di ripristino generalizzato dei Cip6, un incentivo dello Stato che promuove lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili pagato dai consumatori attraverso la bolletta dell’energia elettrica. In sostanza, basta che i proprietari dell’impianto (inceneritore o gassificatore) dichiarino di produrre elettricità dalla combustione dei rifiuti per ottenere immediatamente fondi dallo Stato. A Malagrotta,
Manlio Cerroni ha investito 350 milioni di euro sul gassificatore strappandone 150 allo Stato. Oggi, governo Berlusconi in carica, abbiamo una ministra dell’Ambiente e un ministro dello Sviluppo economico che, dopo aver concesso una proroga ai Cip6 per gli inceneritori in tutte le aree minacciate dall’emergenza rifiuti, si preparano a estendere la proroga a ogni tipo di impianto industriale. Roma, 5 luglio 2002. Il documento porta questa data e un titolo da mal di testa. «Relazione di sintesi contenente la valutazione delle iniziative in grado di realizzare gli obiettivi di riduzione dello smaltimento finale e il superamento del sistema di conferimento in discarica in rapporto a soluzioni ottimali sul piano della compatibilità ambientale». In pratica, il neo sindaco Walter Veltroni, vinte le elezioni capitoline del 2001, confluisce un mandato a otto tra i più importanti esperti italiani di smaltimento di mettere nero su bianco che cosa si può fare a Roma per cambiare registro. Gli otto esperti – Walter Ganapini, Renato Gavasci, Massimo Guerra, Andrea Masullo, Giorgio Nebbia, Adolfo Parmaliana, Lucia Venturi e Giuseppe Viviano – studiano il problema per un anno e mezzo. E alla fine, con estrema precisione, indicano tutti i passi che l’amministrazione capitolina deve compiere per cambiare rotta. In sintesi, per passare dal tutto in discarica alla raccolta differenziata spinta. I risultati dello studio sono sorprendenti. A Roma, l’obiettivo del 50 per cento di raccolta differenziata e di riciclaggio poteva essere raggiunto entro il 2005 se solo si fosse superato il modello dei «grandi contenitori in sede stradale» a favore del sistema «domiciliarizzato o di prossimità». Gli esperti raccomandarono a Veltroni di abolire il cassonetto blu che raccoglie nella capitale insieme vetro, plastica e alluminio. E di sostituirlo con una raccolta differenziata ricalcata sul modello tedesco. Peccato che questo studio non sia mai stato neppure presentato alla stampa. Il cassonetto blu è ancora per le strade di Roma ed è, secondo gli esperti, il maggior responsabile del deludente risultato della differenziata (plastica e vetro vengono compressi nel trasporto e sono difficilmente separabili al punto che una parte importante del loro volume va oggi in discarica), mentre per quel che riguarda la raccolta porta a porta, o condominiale, l’esperimento è partito su tre quartieri romani con risultati lusinghieri. I quartieri dove si inizierà la raccolta porta a porta aumenteranno nei prossimi mesi ma se si fosse dato retta agli otto esperti oggi saremmo senz’altro più avanti. Ho intervistato Walter Ganapini, il presidente di quella commissione, e Andrea Masullo, docente universitario, che non riescono ancora a spiegarsi perché Walter Veltroni abbia rinunciato a seguire le indicazioni di quello studio. Malagrotta avvelenata Gli amministratori di Roma e del Lazio hanno da anni a disposizione dati impressionanti sulla situazione dell’inquinamento ambientale dell’area di Malagrotta. Basta andare alla sede dell’Arpa Lazio per ottenere ad esempio il terzo Rapporto sulla qualità delle acque superficiali e sotterranee della provincia di Roma anno 2006. Il rapporto si basa sul monitoraggio delle «sostanze pericolose o gruppi di sostanze tossiche, persistenti e bioaccumulabili e altre sostanze o gruppi di sostanze che danno adito a effetti analoghi». Viene analizzata, con frequenza mensile, una serie di
sostanze: cadmio, cromo, mercurio, nichel, piombo, rame, zinco, aldrin, ddt e isomeri, dieldrin, esacloro benzene, endosulfan, eptacloro, eptacloroepossido, esaclorobutadiene, isodrin, dicloroetano, tricloroetilene, cloroformio, tetracloruro di carbonio, percloroetilene, endrin, esaclorocicloesano, tricloro-benzene. Si monitorano anche i corsi d’acqua destinati alla produzione di acqua potabile. Parametri utilizzati in questo caso: ph, le materie in sospensione, temperatura, conducibilità, nitrati, fluoruri, solfati, cloruri, tensioattivi, fosfati, fenoli, sostanze organiche (cod), bod5, ossigeno disciolto, azoto totale, ammoniaca, cadmio, cromo totale, mercurio, nichel, piombo, rame, arsenico, ferro, zinco, berillio, cobalto, vanadio, manganese, boro, selenio, bario, antiparassitari totali, cianuro, idrocarburi disciolti/emulsionati, idrocarburi policiclici aromatici, coliformi totali, coliformi fecali, streptococchi fecali, salmonella. Nella normativa statale e nel piano regionale di tutela delle acque è fissato che, entro il 31 dicembre 2008, nei corsi d’acqua significativi venga raggiunto lo stato di qualità «sufficiente». Il primo monitoraggio, effettuato ai sensi del decreto legislativo 152/99, evidenzia che l’obiettivo di «sufficiente» non è stato conseguito per il principale corso d’acqua dell’area di Malagrotta: il fosso Rio Galeria, affluente del Tevere. Definirlo una fogna a cielo aperto è ancora improprio. La puzza che rimanda è diversa: l’acqua è densa, schiumosa, gli odori pungenti fino allo stordimento. Eppure le aziende agricole, tutte intorno alla discarica (la più grande d’Europa con i suoi 160 ettari) e alla raffineria (impianto qualificato come ad alto rischio industriale secondo la legge cosiddetta Seveso 2), usano l’acqua del Rio Galeria per innaffiare il granturco e l’erba che poi viene data da mangiare alle mucche. Il commissario straordinario dell’Arpa Corrado Carrubba ci consegna altri due documenti. Il primo è del 16 settembre 2008 e riguarda i controlli sulla qualità delle acque di falda di Malagrotta effettuati su campioni provenienti dai cosiddetti piezometri, i pozzi spia nell’area interna alla discarica. L’Arpa riscontra superamenti sistematici dei limiti normativi per una quantità di metalli pericolosi. Il secondo documento riguarda la campagna di monitoraggio svolta nel 2007 su tutti i fossi della zona di Malagrotta. Dove vengono certificati superamenti dei limiti per legge di numerosissimi metalli e composti chimici. A Corrado Carrubba chiediamo come sia possibile che gli amministratori pubblici non abbiano tenuto conto di questi dati. «Perché non abbiamo definitiva certezza delle origini di queste concentrazioni di inquinanti» risponde. In sostanza, si sa che l’acqua di Malagrotta è marcia, si immagina chi ne siano i responsabili, ma nessuno fa niente per stabilire un nesso di causalità diretto. Chi rovina quell’acqua? Tutti lo sanno ma nessuno fa nulla per accertarlo in via definitiva. E proprio perché tutti lo sanno nessuno lo accerta. Il comune sta realizzando un piano di bonifica dell’area, e questo dovrebbe dire a chi amministra chi la avvelena. Ma le aziende di Malagrotta, la terza area a rischio industriale d’Italia secondo l’Apat, Azienda per la protezione ambientale e per i servizi tecnici, stanno lì da decenni senza che l’amministrazione pubblica si occupi del loro impatto ambientale. Certo, formalmente i controlli si fanno e si fanno anche le multe, per non dire della magistratura che provoca ogni
tanto qualche problema, ma in sostanza nessuno mette in discussione le scelte di fondo, sulle quali conta solo Manlio Cerroni, il vero sindaco di questa parte di Roma. Perché, ad esempio, l’amministrazione regionale e quella comunale non hanno mosso un dito per contestare la localizzazione del gassificatore? Perché l’aveva deciso Manlio Cerroni. Il comitato dei cittadini di Malagrotta, non a caso, sostiene che in quest’area vige una sorta di extraterritorialità, come in Vaticano. Qui le leggi italiane valgono fino a un certo punto. Quelle comunali e regionali, invece, sembrano essere state cucite addosso agli interessi della Co.La.Ri. Mario Di Carlo, un amico Quando l’ho incontrato era assessore alla casa della regione Lazio con delega ai problemi connessi allo smaltimento dei rifiuti. E non è cosa da poco visto che la regione, a metà 2008, è uscita da nove anni di commissariamento straordinario proprio sul tema rifiuti. Di Carlo, dopo la messa in onda della sua intervista dove descrive il rapporto a stretto gomito con Manlio Cerroni, culminato con la richiesta di quest’ultimo di fargli da braccio destro alla Co.La.Ri., ha rimesso la delega sui rifiuti e ha lungamente descritto alla stampa com’era andata l’intervista secondo lui. Conobbi Mario di Carlo circa vent’anni fa. Era presidente della Lega per l’ambiente del Lazio. Ci siamo frequentati per qualche mese poi ognuno è andato per la propria strada e non ci siamo più rivisti né sentiti. Riporto le prime reazioni e le dichiarazioni di Di Carlo dopo la trasmissione, secondo quanto raccolto dalle agenzie di stampa. Rifiuti: Marrazzo, prendo atto della decisione di Di Carlo (Ansa) – Roma, 24 nov. 19.10 – «Mario Di Carlo ha rimesso l’incarico che gli avevo affidato, questo è il dato che ho di fronte e ne prendo atto.» Lo ha detto il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, al termine di un incontro con l’assessore regionale alla casa, Mario Di Carlo, che fino a oggi aveva un incarico sui rifiuti, rimesso dopo essere stato colto in pieno turpiloquio in un fuori onda dalla trasmissione Report. «Sono rimasto sempre titolare della delega sui rifiuti,» ha precisato Marrazzo «l’incarico era per coadiuvare il lavoro.» Rifiuti: Marrazzo, non condivido l’intervista di Di Carlo (Ansa) – Roma, 24 nov. 19.12 – «Non condivido l’intervista di Mario Di Carlo. I giornalisti non hanno mai colpa, fanno il loro lavoro.» Questo il commento del presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, al fuori onda trasmesso ieri dall’assessore alla casa, Mario di Carlo, nel corso della trasmissione Report. Rifiuti: Di Carlo, non ho dormito tutta la notte, sono stato un ingenuo (Adnkronos) – Roma, 25 nov. – «È stata un’imboscata. Perché c’è stato un momento in cui il giornalista di Report ha detto: “L’intervista è finita”, e io mi sono ritenuto libero di parlare.» Lo afferma in un’intervista a «la Repubblica» l’assessore regionale del Lazio alla casa, Mario Di Carlo, all’indomani della sua riconsegna della delega ai rifiuti a causa di una intervista alla trasmissione Rai. «Mi sono fidato,» dice «è colpa mia, sono stato un fesso. Io vengo dal rugby: uno sport duro ma leale.» Quello che è successo, sottolinea Di Carlo, «mi ha distrutto come persona. Non ci ho dormito
questa notte. Quella intervista mi ha confezionato come una macchietta, come una persona rozza e volgare e probabilmente anche corrotta. Sembra che io sia in attesa di avere l’eredità di Cerroni». Rifiuti, Di Carlo sfida Report: trasmettete intervista integrale (Velino) – Roma, 27 nov. – «Mancano le parti in cui spiego perché non sono andato a lavorare nel 2001 con l’avvocato Manlio Cerroni. Se le mie risposte fossero state rese pubbliche questa polemica non sarebbe neanche nata, perché quelle motivazioni oggi sono ancora più forti. Si è tolto l’onore a una persona e questo non lo posso sopportare.» A quattro giorni dalla puntata di Report e a tre dalla riconsegna della delega sui rifiuti al presidente Marrazzo, l’assessore regionale alla casa, Mario Di Carlo, replica all’intervista del «Velino» al giornalista di Rai Tre autore dell’inchiesta, Paolo Mondani. E si dice pronto per un contraddittorio pubblico «nel cinema più grande di Roma», con l’autore dell’inchiesta. «Ho avuto un confronto pubblico sul tema dei rifiuti perfino con Beppe Grillo, non sono un tipo che si tira indietro» spiega. «Il giornalista di Report si è arrogato il diritto di scegliere nell’intervista che mi ha carpito quali cose tutti dovevano sapere e quali no. Siccome ricordo benissimo cosa ho detto, tiri fuori la parte mancante e spieghi perché non l’ha montata.» Tre le spiegazioni fornite dall’assessore a motivazione del «gran rifiuto», ma escluse dal filmato mandato in onda, Di Carlo elenca: «Innanzitutto ho detto a Mondani che l’amicizia è un sentimento importante e che due caratteri forti come i nostri non avrebbero resistito in un rapporto di lavoro subordinato. Ho aggiunto che io sono bravo a fare il manager solo quando mi occupo della cosa pubblica e in particolar modo che Cerroni mi offriva il doppio di quello che guadagnavo nel 2001. Ma io già allora prendevo il doppio di quello di cui avevo bisogno e del denaro non mi è mai importato nulla. Anche i miei parenti sanno che avere a che fare con me come amministratore pubblico è una delle più grandi iatture che possano capitare». Nelle ore successive alla messa in onda della trasmissione si scatena un putiferio. Il neo segretario regionale del Pd Roberto Morassut commenta: «Conosciamo tutti Mario Di Carlo come una persona onesta e come amministratore ha sempre agito nell’interesse pubblico. Non sarà un’intervista televisiva, peraltro fuori onda, né un momento di ingenuità a modificare questo giudizio. Lo dico anche con un pizzico di solidarietà personale avendo vissuto una vicenda analoga. A Mario va il sostegno del Pd e l’incoraggiamento a continuare il lavoro che ha svolto in questi mesi e in questi anni». La vicenda analoga è un’intervista che l’onorevole Morassut ha rilasciato al sottoscritto durante la realizzazione di un’altra puntata di Report, I re di Roma, sull’urbanistica romana del quindicennio Rutelli Veltroni. Intervista che a Morassut non è piaciuta (a suo dire troppo tagliata e con inquadrature che lo ridicolizzano) tanto da spingerlo a querelare me e la trasmissione. Speriamo bene. Mentre sto scrivendo, peraltro, è trascorso qualche giorno dal più grande sequestro edilizio della storia del tribunale di Roma. Il 30 dicembre scorso sono stati apposti i sigilli a 1365 appartamenti abusivi ad Acilia, un intero quartiere abusivo che aveva ottenuto tra il 2003 e il 2004 un’illegittima concessione in sanatoria. Una mini città illegale sanata –
siamo negli anni del sindaco Veltroni e del tanto decantato «Modello Roma» – sulla base di falsi compiuti dagli uffici tecnici del comune e in particolare dall’ufficio condono edilizio. I pubblici ministeri Sergio Colaiocco e Delia Cardia continuano a indagare e dopo qualche settimana sequestrano le carte dell’intero ufficio condono edilizio. I cui responsabili pro tempore finiscono sotto inchiesta. E l’onorevole Morassut, al tempo delle false sanatorie assessore all’urbanistica del comune da cui dipendeva l’ufficio condono, viene sentito come persona informata dei fatti. Mario Di Carlo, diversamente da Morassut, decide di non querelare. E insiste però nel dire che «Quelle di Report sono immagini e commenti rubati con l’inganno». E che l’intervista è stata «manipolata» nella parte in cui Di Carlo racconta della proposta di lavoro fattagli da Manlio Cerroni. E non solo. L’assessore si fa intervistare da YouDem, la tv satellitare del Pd, e affida a YouTube la sua personale ricostruzione dei fatti e una lunghissima dissertazione sul caso rifiuti nel Lazio intitolata Vittime di Report. Milena Gabanelli e io saremmo i carnefici. Peccato che l’iniziativa serva a poco, dato che sia il presidente Marrazzo, sia una parte del Pd regionale, sia gli alleati del Pd nella giunta regionale, non solo non recedono ma insistono nel chiedere il ritiro delle deleghe sui rifiuti che seppure informalmente, ma sostanzialmente, Di Carlo aveva assunto da qualche mese. Ed ecco che cosa ha detto Di Carlo in alcune parti salienti della lunga intervista non montata e durante il fuori onda. Mondani: Lei stava in una società che si chiama Secit [Società ecologica italiana del gruppo Gesenu, ndr], una società di Cerroni, è vero? Di Carlo: Quando mi hanno spostato all’Atac [Agenzia per la mobilità del comune di Roma, ndr] ad occuparmi di trasporti lasciando i rifiuti, per la verità non me lo chiese neanche lui, me lo chiese Noto, mi chiese di dare una mano a questa Secit, una società umbra, dove c’era il comune di Perugia o la regione Umbria… Mondani: Chi è Noto? Di Carlo: Carlo Noto La Diega è l’amministratore delegato della società che gestisce i rifiuti dell’Umbria… ma lo facevo con la mano sinistra… era più che altro per lasciare un piede nei rifiuti, visto che mi ero andato a occupare dei trasporti. Mondani: Lei sapeva che nella società c’era anche Cerroni? Di Carlo: Be’, c’era Noto e quindi in qualche modo c’era anche Cerroni. Mondani: E di fronte a questo non si è sentito in imbarazzo? Di Carlo: No, in quel momento facevo il presidente dell’Atac. Mondani: Poi Cerroni in un’intervista dice che lei è come suo figlio e lei adesso è assessore con delega ai rifiuti, non si sente in imbarazzo? Il tema del conflitto non si pone? Di Carlo: Io con Manlio Cerroni sono amico. Punto. Io non ho mai avuto nessun tipo di interesse diverso dall’amicizia. Mondani: Be’, è stato in una società con lui, insomma… Di Carlo: Sì ma se dovessi pensare al conflitto di interessi con quelli con cui sono stato in una società per me sarebbe preoccupante. Negli ultimi trentanni c’è stato un momento in cui contemporaneamente ero presidente
dell’Atac, del Cotral, della Sta [si tratta dell’azienda pubblica comunale del trasporto, di quella regionale e di una società del comune di Roma che ha gestito i parchimetri e gli ausiliari del traffico, ndr] e di un’altra ventina di società a Roma e fuori Roma. È il mestiere di chi ha fatto il manager pubblico. Io l’ho fatto sempre con grande sobrietà. C’è gente che sta anche in trenta società… Mario Di Carlo faceva quindi parte del consiglio di amministrazione della Secit, una società che fa riferimento a Manlio Cerroni e al suo braccio destro Carlo Noto La Diega. Ed entra nella società non perché lo invita a parteciparvi un ente pubblico umbro, ma perché glielo chiede Noto La Diega, uomo di Cerroni. E questo, mentre Di Carlo svolgeva compiti di manager pubblico. Proseguiamo nell’intervista, siamo alle ultimissime battute. Di Carlo ritiene che l’epoca di Manlio Cerroni stia per tramontare e vengano avanti nuovi soggetti assai più forti e potenzialmente pericolosi. Mondani: Lei dice che noi vediamo Cerroni che è una pagliuzza e non vediamo la trave? Di Carlo: Oggi Cerroni ha ancora un ruolo formidabile ma sui rifiuti il piano d’emergenza regionale costruisce un equilibrio nel quale Cerroni è solo uno dei protagonisti. Nel passato era l’unico protagonista. Quella fase non c’è più. Poi qualcuno sarà più contento mentre lui sarà scontento perché pensava che era meglio prima… Mondani: Non mi pare uno povero, Cerroni. Di Carlo: No, sinceramente penso di no. Mondani: Le sue figlie le piazzerà bene. Di Carlo: Le sue figlie si piazzano da sole… Mondani: Tu dici che Berlusconi e Alemanno nascondono interessi politici particolari sul settore rifiuti a Roma? Di Carlo: Be’, quello è il boccone più interessante che c’è in assoluto. A questo punto il colloquio continua passando dal lei al tu senza interruzione e senza che nessuno dei due faccia il minimo cenno alla fine dell’intervista ufficiale (come invece Di Carlo dichiara alla stampa). L’assessore continua tranquillamente a rispondere alle domande: cambiano solo i toni che diventano più confidenziali. E sul sito di Report (www.report.rai.it) abbiamo pubblicato in video questo e altri passaggi che contestano a Di Carlo la sua ricostruzione. Mondani: Cerroni è preoccupato… di tutta la sua roba che farà? Di Carlo: Appunto. L’incazzatura che ciò io cò lui è esattamente questa… Mondani: Cioè? Di Carlo: Io je dico: ciai 82 anni, stai benissimo però, stai in quella fase della vita… le tue figlie non sono in grado di prendere il tuo posto, almeno sistemale, adesso falle diventare partner non operative ma finanziariamente legate a quello che tu hai costruito, gli garantisci il futuro a loro e all’unico figlio di una delle due… Mondani: Chi è che può sostituirlo?
Di Carlo: Oggi nessuno, lui se li mangia tutti, se magna pure sti quattro cazzabubboli… Mondani: E se muore? Di Carlo: Infatti è un problema, un problema che abbiamo tutti. Mondani: Che succederebbe? Di Carlo: Che se sfascia tutto. Lui non ce l’ha sostituti al proprio interno. Mondani: Un’idea? Di Carlo: Io c’avevo l’idea di fare un’operazione col Comune, 51 a 49… Mondani: Una nuova impresa 51 per cento Comune, 49 per cento Cerroni? Di Carlo: Esattamente, c’ho provato ma… Mondani: E il Comune i soldi dove li trova? Di Carlo: Ma i soldi non sono mai un problema, il problema sono le idee, i soldi se trovano. Io c’ho provato ma né Veltroni, né Causi [Marco Causi, assessore all’Economia e bilancio del Comune di Roma durante la giunta Veltroni, ndr] erano all’altezza di capire una cosa del genere. C’ho provato. L’ho pure portata al tavolo. Mondani: Ma se dovesse morire domani che succede? Di Carlo: È una bella domanda, non lo so. Mondani: Formalmente chi lo sostituisce nell’azienda? Di Carlo: Non c’è. Ora questi qui se sò messi in testa che lo sostituiscono loro. Alemanno e compagnia cantando. Ma… questi il massimo che possono fa è na gara a chi lucida mejo le teste de Mussolini, a chi le rende più brillanti. Mondani: Ma tu cosa consigli a Cerroni? Di Carlo: Gli ho consigliato di fare la società col Comune. Ora l’unica cosa che posso fare… gliel’ho accennata ma nun me saluta da una settimana… Mondani: Perché non ti saluta da una settimana? Di Carlo: Perché pensa all’immortalità. Quando io gli dico: bisogna che ti metti in testa che… perché paradossalmente tra noi due il più saggio sono io… gli dico tu devi risolvere il problema delle tue figlie e di tuo nipote, ma che cazzo pensi di fare, non ce l’hai una soluzione, tuo nipote ha 14 anni, te ce n’hai 82, quanto cazzo pensi di campare ancora, quanto pensi de campà lucido? Potrai campà altri vent’anni ma sei sicuro che sarai lucido? Mondani: Che deve fare insomma… Di Carlo: La mia idea è che a partire da Acea e Ama [L’Acea è tra i maggiori operatori italiani nei servizi di pubblica utilità, due le attività principali: acqua ed energia. È quotata in Borsa dal 1999, maggiore azionista è il comune di Roma con il 51 per cento, seguono Suez S.A. e Francesco Gaetano Caltagirone. L’Ama è una società per azioni interamente del comune di Roma. Si occupa principalmente della pulizia e della raccolta dei rifiuti nella capitale, ndr] deve nascere un gruppo pubblico-privato che va in Borsa e che soprattutto è detentore di tecnologie, know how, storia e fatturato che… Mondani: E Cerroni non ci stava? Di Carlo: Cerroni ci stava, io l’avevo convinto. Mondani: E chi è che ha detto di no?
Di Carlo: Ma nessuno ha detto di no, ma pe ffa le cose ce vonno le mani. Poi le cose le devi fa, nun basta dille. Mondani: Veltroni ha detto di no? Di Carlo: Lui ha detto di sì… [a questo punto si interrompe la cassetta video, ndr] Si riprende: Di Carlo: Lui è uno di questi vecchi terribili che ce ne stanno sempre di meno, è un’altra generazione, quelli che sono usciti dalla guerra. È come nella politica, è come se tu confondessi, che cazzo ne so, Ingrao con Diliberto, voglio dire, oppure Amendola con Veltroni, purtroppo ahimè è un’altra generazione… Mondani: Fammi capire, a te lui ti ha fatto la richiesta di sostituirlo? [a Di Carlo rifaccio una domanda che gli avevo rivolto durante il cambio della cassetta video, ndr] Di Carlo: Non di sostituirlo, lui allora aveva visto che io non mi ero candidato alla Camera, non avevo seguito Rutelli… Mondani: Nel 2001. Di Carlo: Nel 2001. E pensava che avrebbe vinto. Mondani: Tajani contro Veltroni. Di Carlo: Tajani contro Veltroni… e quindi mi disse «perché non te ne vieni a lavorare con me?». Mondani: In futuro mi sostituirai… Di Carlo: Ma… in futuro mi sostituirai non credo che lo abbia mai detto a nessuno, Lui non pensa di essere mortale. Mondani: Lui non pensa di essere mortale però, diciamo, quello era il senso… Di Carlo: Sì, quello era il senso. Mondani: E tu perché non hai accettato? Di Carlo: Perché io sono disinteressato, a me non mi frega un cazzo dei soldi, io sono uno di quelli che deve fare il manager pubblico perché solo da lì traggo motivazioni per farlo bene. Avere più soldi di quelli che ho a me non me ne frega niente. Io ho motivazioni politiche nella mia attività manageriale. Mondani: E gli hai detto di no. Di Carlo: E gli ho detto di no. Mondani: Niente vieta che nel momento in cui lui si renda conto di non essere in grado di gestire… Di Carlo: Lui non ha mai fatto il salto che sarebbe necessario. È il suo limite. Lui dice spesso che gli piacciono le società dispare e tre sò troppi. Nel mondo globalizzato questo è un limite. È un po’ l’epopea del sistema industriale italiano. Tu pensa a Pirelli… Mondani: È uno che vuol fare tutto da solo. Di Carlo: È un accentratore. Non ha la testa in quest’epoca. Lui avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo che ha, avrebbe dovuto collocarlo in Borsa, avrebbe dovuto affidarsi a una struttura manageriale. Attualmente il suo impegno principale è
l’organizzazione dell’inaugurazione del gassificatore di Malagrotta e si mette a controllare pure i caratteri del biglietto di invito, come cazzo fai… Mondani: Dovrebbe avere una struttura che gli dà una mano… Di Carlo: Eh sì, ma lui non delega niente a nessuno quindi chi ci va, ci vanno giusto i servi. O delega tutto o non delega niente mentre non può essere quello il punto di equilibrio. Mondani: Tu dici che inesorabilmente sarà superato dalla storia… Di Carlo: Sì. Mondani: Entro qualche anno se ne dovrà andare… e se non si fa un’operazione pubblico-privato chi la prenderà la Co.La.Ri.? Di Carlo: Be’, qualcuno la prenderà, ma non sarà lui, nel senso che la Co.La.Ri. è lui, anche in termini di fantasia, di capacità, di visione. Lui dice sempre che l’importante è avere dei sergenti maggiori ma la somma dei sergenti maggiori non ha mai fatto un esercito. E lui fa fatica, soffre le personalità forti… Mondani: È il rapporto con te… forse nato per la curiosità che si stabilisce tra l’ambientalista e l’imprenditore… Di Carlo: No, è nato dalla comune sobrietà dei costumi. A tutti e due ce piace de annà a mangià, che cazzo ne so, la coda alla vaccinara. Nel mondo che vive lui con chi cazzo ce va, con Caltagirone a magna la coda alla vaccinara? Nasce dalle origini. E tu sai che via via che vai avanti nell’età ti rileghi sempre di più alle origini. Cioè c’abbiamo la passione dei fuochi d’artificio, per la banda de paese, ste cose da pseudo contadini… Mondani: Io pure ho la passione dei fuochi d’artificio… Di Carlo: Fatti invitare da lui quando fa i fuochi al paese suo, a Pisoniano, il 29 o 30 agosto. Lui pianifica pure i fuochi. È diventato amico intimo di quello che fa i fuochi, ce lavora un mese, li paga tutti lui chiaramente, normalmente durano quaranta minuti, un’ora, lui sta là… è un personaggio divertente, una delle poche persone divertenti… Mondani: Sono stato a intervistarlo a Roma 1, alla sua televisione, scendeva e saliva le scale come un ragazzino, a 82 anni… Di Carlo: Pure su Roma 1 ha fatto una cosa straordinaria. Hai visto che tecnologie. Sta sul satellite al canale 860 di Sky. Il modello è copiato da New York 1… Io se fossi andato a lavorare con lui gli avrei chiesto la televisione… Mondani: Volevi la televisione? Di Carlo: Be’ sì, è il sogno… ormai la politica la fanno i giornali e i politici sò degli utili idioti, la fanno i giornali e la televisione. La linea politica adesso la dà la Gabanelli, prima la dava Santoro oppure Floris… la politica è na cosa seria, mica se fa coi politici la politica… Berlusconi ha insegnato questo. Mario Di Carlo, quindi, ha un rapporto particolarmente intenso con Cerroni e nonostante ciò rifiuta l’invito rivoltogli dall’imprenditore, forse perché preferisce fare il manager pubblico o forse perché Cerroni ama circondarsi solo di «servi». E’ possibile confrontare questo «originale» con ciò che è andato in onda nella puntata di
Report del 23 novembre 2008 per comprendere che non c’è stata alcuna manipolazione delle parole e del pensiero di Di Carlo, come invece lui afferma alla stampa il 1° dicembre scorso. Ma più significativa ancora è la testimonianza di Manlio Cerroni nelle parti non andate in onda sul suo rapporto con Di Carlo e in generale con la politica romana. Ecco uno stralcio inedito della sua intervista. Mondani: Ho letto che tempo fa, in un’intervista a un quotidiano romano, disse del consigliere regionale Mario Di Carlo che per lei era come un figlio. Mi spiega i motivi di questo affetto così profondo? Cerroni: Con Mario Di Carlo, addirittura anche con Ermete Realacci, ci trovammo vent’anni fa, nei periodi caldi di Malagrotta [dove ambientalisti e cittadini organizzavano manifestazioni di protesta contro la discarica di Cerroni, ndr] e me li trovavo in contrapposizione, mi vedevano tutti male. Mondani: Erano i capi della Lega per l’ambiente, poi col tempo vi siete avvicinati… Cerroni: Con tutti quanti, anche con Rutelli, tutti dicevano: ma chi è quest’uomo, questo monopolista? Poi, all’atto pratico, vedevano quel che facevamo e lo spirito di servizio con cui lo facevamo… Mondani: Li ha conquistati. Cerroni: Li ho conquistati. Mi ricordo un fatto con Rutelli. Noi nel 1991 fondammo il Ctr, il Consorzio trattamento rifiuti per la raccolta differenziata, promotore Mario Di Carlo che allora era presidente dell’Ama. 50 per cento al comune di Roma e 50 per cento a noi. Dissi allora al comune, mi date lo sterzo e voi vi mettete a fianco a me e quando prendo le curve strette mi bussate alla spalla, insomma vi fate sentire, e infatti nei patti parasociali e nello statuto della società era messo per iscritto che al privato toccava l’amministratore delegato. Mario Di Carlo mi portò a un certo punto da Rutelli sindaco perché il comune voleva il 51 per cento del consorzio. E allora andammo su da Rutelli. Sa, Rutelli col suo fascino mi portò al salottino, poi al balconcino davanti ai Fori di Roma, gli recitai le Odi barbare di Carducci: Salve Dea Roma, chinato ai ruderi del Foro e bla bla… che ne sapevano questi della Dea Roma? Allora ci mettemmo nel salottino e dissi a Rutelli: guarda che io qui le tappezzerie, blu, rossa, gialla, ne ho viste di tutti i colori, tu non eri nato quando io già bazzicavo queste sale. Rutelli insisteva e mi diceva ma ti rendi conto, tu partecipi e sei socio con il comune di Roma, con la città di Roma e bla bla e allora io risposi: sai amico mio, sai chi rappresenti tu per me? Un principe siciliano decaduto, con il monocolo, il foulard e il cappello che sta per coniugarsi con una pulzella di diciotto anni che gli schizza il latte a due metri [Cerroni fa il gesto del latte che schizza dal seno della pulzella, ndr]. Sei tu il fortunato, non io. Tant’è vero che nel giro di due anni abbiamo montato tutta la raccolta differenziata, oltre ventimila cassonetti, quelli bianchi per la carta, quelli blu che sono per le strade, li abbiamo fatti mettere tutti noi. Poi nel 1998, poiché facevamo troppo bene, le forze di sinistra insieme con quelle della destra cominciarono a dire che il comune doveva liberarsi di questo monopolista e votarono una delibera il 4 agosto nella quale decisero che
l’amministrazione doveva riprendersi il controllo totale sulla raccolta differenziata. Io tolsi immediatamente il disturbo. E dissi fate vobis. Mondani: Possiamo dire che il Ctr fu un’idea sua e di Mario Di Carlo? Cerroni: Certo e io l’ho appoggiato per far fare a Mario Di Carlo la figura che merita di fare. Ma quel che è accaduto dopo il 1998… i risultati sono sotto gli occhi di tutti… per costi e per funzionalità di servizi. Ognuno all’arte sua e il lupo alle pecore… a ognuno il suo mestiere, coi rifiuti non si scherza. Il giorno successivo alla messa in onda della puntata l’avvocato Cerroni invia a me e a Milena Gabanelli due lettere sostanzialmente simili. Nella lettera a me indirizzata mi rimprovera di averlo presentato come «benefattore della città» senza una motivazione, e la giudica una presa in giro. E per ricordarmi perché, dopo il «duro lavoro di una vita», si sente tale e come l’avesse argomentato, mi consegna alcuni documenti. Primo, l’articolo Avviso ai Romani pubblicato su «Il Tempo» del 25 febbraio 1999 in cui si legge: «Malagrotta, nonostante il “deprecato” regime monopolista, rende un servizio di pubblica utilità a costi pressoché irrisori riferiti a quelli del mercato nazionale e internazionale, consentendo all’Amministrazione capitolina, e di conseguenza a tutta l’utenza romana, di realizzare da quindici anni economie che ammontano a circa 100 miliardi di lire l’anno, con un bonus annuo di 100.000 lire a famiglia». Quindi, la lettera della Co.La.Ri. inviata al sindaco di Roma Francesco Rutelli dopo la conferenza stampa sulla chiusura del Giubileo che precisa: «Nelle 1.410.303.330 tonnellate di rsu e 138.768.250 tonnellate di fanghi trattati a Malagrotta nel 2000, infatti, vi sono anche gli “scarti” dei 25 milioni di pellegrini giunti a Roma per l’Anno Santo. Parallelamente al servizio, ne va ricordato l’effetto economico derivato alla città e ai cittadini utenti che, se si raffrontano i costi praticati a Milano (248,7 lit/kg) con quelli di Roma (44,468 lit/kg), è valutabile per l’Anno Santo in oltre 300 miliardi». Infine, la sintesi di Malagrotta con la lettera della Co.La.Ri. all’Ama, che nei punti 6 e 7 riporta: Punto 6: tutto questo lavoro, frutto anche dell’impegno giornaliero di maestranze qualificate e motivate, ha garantito a Roma per circa un quarto di secolo, oltre allo smaltimento senza soluzione di continuità dei rifiuti prodotti, economie, riferite ai prezzi minimi di mercato, dell’ordine di 1500 milioni di euro, pari a circa 3000 miliardi delle vecchie lire. Punto 7: così stando le cose, sentire parlare, come è accaduto anche nel recente incontro tra il nostro presidente e il presidente, l’amministratore delegato e il direttore generale Ama di «monopolio» (rectius, di vantaggio competitivo legittimamente conquistato sul mercato) ci sembra un complimento e non un appunto e ci porta a pensare, per altro verso, al monopolio dell’energia elettrica e al sollievo che ne avrebbero potuto avere i cittadini romani se l’energia erogata dalla «monopolista» Acea fosse costata, ad esempio, 50 lire/kwh anziché 150 lire/kwh.
Nulla di tutto ciò viene riportato nell’intervista. Forse, si chiede Cerroni, perché l’immagine che di lui si vuole dare di fronte ai romani non è proprio quella del benefattore? Per non parlare poi del fatto che, una volta realizzato il Piano Marrazzo per lo smaltimento dei rifiuti, Roma e la regione Lazio nel 2011 acquisteranno lo status di eccellenza. Una notizia da non riportare se lo scopo della trasmissione è quella di dipingerlo come un «cinico monopolista». E poi l’ultima domanda. Cosa c’è sotto? Mi sono per caso chiesto se «l’uomo in nero» non sia forse un uomo della lobby? All’avvocato risponde la direzione degli affari legali della Rai il 2 gennaio 2009, puntualizzando cosa è effettivamente andato in onda e riportando alcune frasi. Per prima cosa nel servizio era stato diffuso il passaggio dell’intervista in cui Cerroni chiarisce le cifre del risparmio a vantaggio del comune di Roma in virtù delle basse tariffe applicate per il servizio di smaltimento dei rifiuti («noi smaltiamo i rifiuti a un prezzo di mercato inferiore di circa 75 milioni di euro»), e quindi la motivazione per la definizione di «benefattore» della città c’era eccome. Era stata trasmessa sul Piano Marrazzo, piano che dovrebbe consentire alla regione Lazio di raggiungere lo status di eccellenza nella raccolta differenziata (dal 14 al 50 per cento), la realistica previsione effettuata da Cerroni: essa si attesterà a un 35 per cento. E la Gabanelli aveva così commentato l’operato di Cerroni: «Lui è bravo, è l’amministrazione pubblica che non fa il suo mestiere». Infine, la chiusa sull’«uomo in nero»: essendo un chimico impegnato da vent’anni in un’azienda privata nel campo della combustione, appare improbabile l’appartenenza dello stesso a qualche lobby. Per quanto riguarda le osservazioni mosse nella lettera inviata a Milena Gabanelli, la Rai risponde che i dati relativi all’inquinamento della zona di Malagrotta erano pubblici ed erano stati confermati dal commissario straordinario Arpa, Corrado Carrubba e, in ogni caso, «il programma non ne aveva mai attribuito la causa alla discarica di Malagrotta», inoltre era stato correttamente evidenziato, in puntata, che le emissioni del gassificatore di Roma risultavano «entro la norma». E ancora, l’«uomo in nero» non aveva fatto confusione tra incenerito e gassificatore, ma aveva soltanto spiegato che «ambedue hanno alla loro base un processo di combustione, indiretta per i primi e diretta per i secondi», a seguire erano stati poi mostrati i sistemi di controllo e rilevamento installati sul camino del gassificatore definendo solo l’impianto di Malagrotta – e non tutti i gassificatori – come sperimentale e dimostrativo, definizione che era stata condivisa da Cerroni. Ma non finisce qui. Perché Francesco Rando, braccio destro di Manlio Cerroni, condannato venti giorni prima della trasmissione dal tribunale di Roma per fatti concernenti l’esercizio della discarica (Rando è amministratore unico della società E. Giovi Srl, che gestisce tutto il complesso industriale di Malagrotta), mi invia una lettera, il 24 novembre 2008, nella quale avanza due osservazioni. La prima riguarda la sua condanna per la vicenda dello smaltimento dei fanghi Acea. È chiaro che Report vuole farlo apparire come lo «sprovveduto di turno» che è sicuro di essere assolto ma viene invece condannato. La sua versione era
completamente diversa. Il fatto che fosse convinto delle sorti del processo non era frutto di un’idea personale, ma si basava sul «fisiologico stato soggettivo di colui che, per quello stesso fatto, era stato assolto da quello stesso tribunale per insussistenza del fatto addebitato». E mi aveva anche indicato gli estremi della sentenza. Avendo visto la trasmissione, conclude Rando, non si è sorpreso che avessimo sorvolato completamente su questo aspetto. La seconda osservazione riguarda l’intervista all’avvocato Carrubba, commissario straordinario dell’Arpa Lazio, in cui riferisce di un rapporto della sezione di Roma concernente alcune analisi chimiche effettuate presso i pozzi spia della discarica di Malagrotta concludendo che, per alcuni parametri, erano stati superati i limiti di legge. Incalzato dalle domande, Carrubba ha chiuso l’argomento con un’affermazione tutt’altro che scientifica: ciascuno dei possibili inquinatori dice sempre che è colpa del vicino. A una questione grave come quella dell’inquinamento della falda, dice Rando, bisognerebbe dare invece risposte scientificamente documentate. Ma, ancora una volta, se lo si facesse emergerebbe quello che «documentatamente» loro vanno sostenendo da anni: e cioè che la composizione del terreno, per gli effetti della solubilità di alcune sostanze, condiziona in maniera permanente e ripetitiva la qualità delle acque di falda. A questa lettera, la direzione affari legali della Rai risponde il 2 gennaio 2009 sottolineando che la trasmissione aveva diffuso l’intervista e il personale convincimento di Rando sul buon esito del processo per poi dare conto che, medio tempore (tra l’epoca dell’intervista e la data di messa in onda della puntata), era invece intervenuta una sentenza di condanna emessa dal tribunale di Roma. Per quanto riguarda i dati diffusi, si ribadiva ancora il fatto che si trattasse di dati ufficiali e pubblici, che tra l’altro erano stati confermati proprio dal medesimo commissario straordinario citato da Rando. Carrubba chiariva anche la posizione di Cerroni in merito ai rilevamenti dei pozzi spia della discarica, ovvero che ciò era dovuto «alla composizione del terreno intrinsecamente pieno di metalli». Naturalmente l’ingegner Rando non sarà contento della replica della Rai come non lo è stato della trasmissione e tanto meno, immagino, dell’esito del processo. La sentenza è del 3 novembre del 2008, scritta dal giudice Francesco Patrone del tribunale di Roma. Rando era accusato di avere smaltito senza autorizzazione rifiuti prodotti dalla miscelazione di calce con percolato e con fanghi dell’Acea. Una seconda accusa era quella di aver trattato e poi spedito in discarica i fanghi dell’Acea senza averli sottoposti a preventive analisi. La condanna prevede un anno di arresto e 15.000 euro di ammenda. Rando, durante l’intervista, aveva detto che quella procedura era praticata da anni. E nessuno si era mai lamentato. A qualche mese dalla trasmissione, la regione Lazio conferma l’orientamento dell’assessore Di Carlo nel campo della politica sui rifiuti. Lui se n’è andato pagando per la troppo esplicita amicizia con il monopolista Cerroni, talmente gridata da far sospettare più di qualche influenza sulle iniziative regionali. Eppure, passate le deleghe al presidente Marrazzo, nessuno tocca Cerroni. E chi mai potrebbe.
Mentre il sindaco della capitale Alemanno ha fatto quattro cose. La prima: chiedere la proroga della discarica di Malagrotta che puntualmente gli è stata accordata dal governo attraverso il solito comma lungo una riga infilato nella legge finanziaria. Emendamento che permetterà per un altro anno a tutte le discariche italiane di ricevere rifiuti indifferenziati. In barba alle decisioni europee. La seconda. Istruire il progetto di privatizzazione dell’Acea che potrebbe diventare, in tempi non lontani, una grande multiutility che gestisce gas, acqua, elettricità e rifiuti. Cioè i servizi essenziali di una comunità nelle mani di un privato. La terza. Nonostante i dubbi manifestati sulla tecnologia della gassificazione, il sindaco non ha avuto nulla da dire sulla realizzazione del gassificatore ad Albano, il paesino alle porte di Roma. L’impianto è gestito da Ama, Acea e Cerroni ma le tecnologie sono di quest’ultimo. Alemanno ha peraltro confermato che intende realizzare a Roma anche un inceneritore gestito direttamente dal pubblico. La quarta. L’Ama, come ci aveva ampiamente anticipato l’amministratore delegato Franco Panzironi, non crede alla raccolta porta a porta dei rifiuti differenziati. Quindi, cattive notizie per il riciclaggio 2 e per le emissioni di CO . L’assessore Di Carlo, durante la sua intervista, mi aveva consegnato una frase delle sue: «Se non ti occupi di loro i rifiuti si occupano di te». Su questo, sicuramente, ha ragione lui. Il piatto è servito
di Piero Riccardi Quando abbiamo scelto di occuparci di agricoltura e sostenibilità ci è stato chiaro fin da subito che ci sarebbe voluta più di una singola inchiesta. Questo non per esaurire il tema, quanto per mettere almeno sul tappeto i molti problemi connessi. Agricoltura/allevamento, dunque, e sostenibilità; o, forse, sarebbe meglio dire non sostenibilità. Sì, perché il punto di partenza di questo viaggio è che, l’agricoltura, così come viene praticata oggi, è entrata in rotta di collisione con il benessere del pianeta, e forse con la sua stessa sopravvivenza. A dirlo è uno studio della Fao (Food and Agricolture Organization, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) di cui ci siamo occupati in Buon appetito!, una precedente inchiesta dell’aprile 2008: il Millennium Ecosystem Assessment, un lavoro imponente, reso pubblico nel 2006, per la cui elaborazione sono occorsi quattro anni e duemila scienziati da tutto il mondo. L’analisi riguarda le attività umane che producono gas serra (principalmente anidride carbonica, ma anche metano, clorofluorocarburi ecc.), che sono responsabili, corresponsabili o perlomeno acceleratori del fenomeno conosciuto come riscaldamento globale. Il risultato dello studio è che oltre il 30 per cento di questi gas sono riconducibili all’agricoltura e al cibo, ovvero a come noi produciamo, distribuiamo e consumiamo i nostri alimenti. Dobbiamo quindi parlare del cibo, perché se le colpe dirette sono attribuibili alle pratiche agricole, non si può discutere di agricoltura sostenibile senza affrontare il modello alimentare che ci siamo dati: quel cibo che quotidianamente acquistiamo
sempre di più attraverso la grande distribuzione organizzata, nei supermercati e ipermercati che (nella Comunità europea) veicolano ormai il 70 per cento dei prodotti alimentari che compriamo. Si tratta di alimenti che vengono prodotti sempre di più in un mondo indifferenziato e che, quindi, si ritrovano necessariamente a essere commerciati, trasferiti e trasportati da Paesi lontani, spesso lontanissimi. Per limitarci all’Italia e ai suoi prodotti più tipici – come olio extravergine, pelati in scatola, formaggi – è sempre più difficile, per il consumatore, capire se siano stati prodotti con olive italiane, latte italiano e pomodori italiani. Basta scorrere i dati Istat sulle importazioni di prodotti semilavorati per accorgersi dell’impennata che hanno avuto, ad esempio, le importazioni dalla Cina di triplo concentrato di pomodoro, una sorta di pasta di pomodoro disidratata che può essere rilavorata con l’aggiunta di acqua. Le fabbriche conserviere italiane dicono che, dopo la lavorazione, questo prodotto viene riesportato in altri Paesi, arabi e africani. La Coldiretti (la storica Confederazione dei coltivatori diretti, che è attualmente la più dinamica attraverso studi, statistiche e anche proposte), però, sostiene che non c’è alcuna sicurezza che esso non finisca nei barattoli di pelati che consumiamo in Italia e che portano nomi familiari italiani o addirittura locali, tipici di prodotti del meridione d’Italia. Fatto sta che da poco iniziano a essere messe in bella mostra su alcune confezioni di pelati e bottiglie d’olio italiane delle etichette che ribadiscono «Prodotto italiano». Ma gli altri alimenti che comperiamo pensando che siano italiani, allora? Alla questione geografica, si aggiungono i problemi della non stagionalità sempre più spinta di frutta e verdura, e degli alimenti confezionati in pacchetti che costano più del cibo stesso. È questo il modello che ci siamo dati; o, meglio, che si sono dati – e che cercano di imporre a tutti – i circa 800 milioni di abitanti del pianeta Terra che vivono in Europa e nell’America del Nord. Altri 850 milioni – saliti a un miliardo nell’ultimo anno, secondo la Fao – muoiono di fame. Ma sulla Terra vivono oltre sei miliardi di persone. Cina, India, Corea, Brasile e molti altri Paesi stanno crescendo a ritmi sostenuti, e se anche i loro abitanti cominciassero a mangiare ogni anno 120 chili di carne, come negli Stati Uniti, è stato calcolato che avremmo bisogno di un altro pianeta solo per ospitare tutti gli animali e per coltivare il cibo necessario a sfamarli, e di un altro ancora per smaltirne i liquami. Ma occorre tener presente anche un altro fattore. Secondo uno studio della Coldiretti, in Italia per ogni euro di spesa finale in generi alimentari solo 18 centesimi finiscono in tasca all’agricoltore, una percentuale che ha continuato ad assottigliarsi nel corso degli anni e che spesso ormai non copre più nemmeno i costi di produzione. Costringere gli agricoltori a produrre con qualsiasi mezzo al costo più basso sta comportando una pressione sul delicato equilibrio del pianeta, un pianeta della cui finitezza stiamo solo da poco iniziando a renderci timidamente conto. È chiaro che tutto ciò non è più sostenibile. Ma perché siamo arrivati a questo punto? Possiamo calcolare precisamente l’impatto di una certa pratica agricola? Esistono alternative economicamente valide? Si possono misurare e comparare pratiche diverse? Cosa possiamo fare noi consumatori nel momento in cui decidiamo quale cibo comprare per la nostra tavola? Gli alimenti sono una merce qualsiasi?
Qualche cenno di storia dell’agricoltura Consideriamo, per esempio, la produzione di una zucchina. Per ottenerla non mi basteranno un seme, un po’ di terra e dell’acqua. Forse questo potrà andar bene per una volta, ma poi mi accorgerò che quella pianta ha bisogno di essere nutrita, accudita, magari perché la produzione sia più sicura, o migliore, o più abbondante. È la nascita dell’agricoltura come pratica, come conoscenza. Per secoli, il nutrimento principale è stato il letame animale, accompagnato alla rotazione delle colture che permette alla terra di rigenerarsi. Oggi, invece, si usano fertilizzanti chimico-sintetici. Anche se sono stati scoperti nella metà dell’Ottocento, di fatto il loro uso si è affermato massicciamente solo da dopo la Seconda guerra mondiale. A differenza del letame, che veniva prodotto nell’azienda stessa (polli, vacche, cavalli ecc.) o comunque nel territorio vicino, i fertilizzanti chimici spesso arrivano da molto lontano: i loro componenti vengono estratti in regioni molto distanti rispetto a quelle dove saranno utilizzati (le miniere di fosfati più vicine a noi, per esempio, si trovano in Africa) e vengono lavorati in Paesi remoti (in Italia arrivano da Germania, Cina, Israele). Richiedono dunque energia non solo per essere prodotti, ma anche per essere trasportati. Il costo di quel trasporto nella contabilità generale del bilancio del pianeta Terra non deve essere genericamente riportato sotto la voce «Trasporti», in quanto si tratta di un costo intrinseco a quella zucchina. Nel gergo tecnico, quei concimi che vengono da fuori, da lontano, si chiamano «input esterni». Ma non è tutto. L’uso di fertilizzanti chimici ha permesso di piantare le stesse colture sullo stesso terreno, anno dopo anno, in successione con se stesse, come si dice; l’impiego dei diserbanti chimico-sintetici, poi, viene a eliminare qualsiasi pianta estranea alla coltivazione stessa. Per un po’ questo abbinamento fertilizzanti/diserbanti chimico-sintetici ha funzionato per le monocolture intensive senza rotazione: per qualche anno, le produzioni – le rese per ettaro – sono di fatto aumentate. Poi, però, si sono verificati due fenomeni che, per la verità, qualcuno aveva con largo anticipo previsto. Il primo era che, così facendo, i terreni perdevano fertilità: in pratica, essi si desertificavano, e avevano quindi bisogno di dosi sempre più massicce di fertilizzanti chimico-sintetici; inoltre, dato che le erbe infestanti diventavano sempre più resistenti ai diserbanti, era necessario aumentarne le dosi o inventarne di sempre più potenti. Oggi si è arrivati a dosi o formulazioni talmente forti da danneggiare la pianta che si vuole coltivare (il mais, per esempio); da qui è nata l’idea, da parte dei produttori di quegli stessi diserbanti, di creare delle piante modificate geneticamente ogm – in grado di resistere alle dosi sempre più alte. Per aiutare le piante a crescere, poi, si è dovuta introdurre una nuova classe di prodotti chimico-sintetici, i regolatori della crescita per le piante stesse. Il secondo fenomeno è che la coltivazione sullo stesso terreno di solo un tipo di pianta, in successione con se stessa, portava a un aumento delle malattie delle piante, sia quelle fungine sia quelle causate da insetti. Da qui l’uso sempre più massiccio di pesticidi chimico-sintetici. Insomma, anche se la pianta cresce, sarebbe più corretto dire che sopravvive in una sorta di medicalizzazione continua e sempre più spinta, come spiega nei suoi studi lo
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storico Piero Bevilacqua, che ha individuato nell’agricoltura moderna numerosi paradossi. «Diversamente da quanto era accaduto in tutta la precedente storia dell’umanità,» ci racconta in Buon appetito! «i concimi chimici non fertilizzano più la terra, ma fertilizzano direttamente la pianta. […] La concimazione ripetuta finisce con l’impoverire la sostanza organica del terreno favorendo l’accumulo di metalli pesanti; di conseguenza, il terreno isterilisce, diventa pesante e la pianta si trova a vivere in un habitat artificiale, così che può sopravvivere solo se costantemente medicalizzata.» Questa della sostanza organica è la partita attorno la quale si gioca il futuro dell’agricoltura sostenibile. La sostanza organica è la parte naturalmente fertile del terreno, la parte che in un terreno non antropizzato, una foresta ad esempio, si rigenera autonomamente, prodotta dalla decomposizione e fermentazione della vegetazione che muore, che cade a terra e viene elaborata da insetti e batteri che la digeriscono e la trasformano in sostanza nutritiva per le piante. In un ciclo spontaneo, continuo e naturale, di rigenerazione. Nell’agricoltura l’uomo ha imparato a provocare e amplificare questo fenomeno naturale, con l’apporto di letame degli allevamenti ad esempio, ma anche con i sovesci delle leguminose che fissano azoto nel terreno e con i compost. La chimica sintetica, come abbiamo visto, ha cercato di sostituire questo processo di rigenerazione della sostanza organica, facendone a meno attraverso la somministrazione di nutrienti chimico-sintetici direttamente alla pianta. Arare a fondo, non permettere la rotazione delle colture, usare fertilizzanti chimici, insetticidi e pesticidi a base di metalli che intossicano il terreno ha portato a una progressiva perdita di sostanza organica nel terreno. La perdita di sostanza organica nei terreni è una delle più grandi fonti di produzione di gas serra, perché è proprio la sostanza organica a trattenere il carbonio prodotto dalla fotosintesi delle piante. Dunque arare, diserbare, fertilizzare chimicamente, significa liberare di nuovo 2 nell’aria quel carbonio. Un grammo di carbonio liberato ne produce 3,6 di CO . Prima dell’avvento dell’agricoltura industriale il suolo agricolo italiano conteneva in media 130 tonnellate per ettaro di carbonio mentre oggi questo valore è sceso a meno di 70; ciò significa che negli ultimi 50-100 anni le pratiche dell’agricoltura intensiva non trattengono più nel suolo – e dunque immettono in atmosfera – 80 2 2 milioni di tonnellate di CO all’anno, un quinto delle emissioni totali di CO prodotte annualmente dall’Italia. Allora, come ci aveva detto il dottor Wulf Killmann – direttore del dipartimento forestale della Fao -, «dovremmo riflettere attentamente e considerare, quando per esempio pensiamo di ridurre i fertilizzanti, o quando diminuiamo le arature, quale potrebbe essere il contributo positivo al cambiamento climatico. Certo, ciò non funziona ovunque allo stesso modo, in quanto dipende dal tipo di terreno e dai luoghi; 1 Piero Bevilacqua, storico, insegna a Roma all'Università La Sapienza. Dei suoi numerosi libri ricordiamo quelli dedicati all'agricoltura: La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea (Roma 2002), La Terra è finita. Breve storia dell'ambiente (Bari 2006).
tuttavia, in certe situazioni agricole si può fare quello che tecnicamente si chiama low tillage, ovvero un basso o ridotto sfruttamento dei terreni, che di nuovo previene emissioni di carbonio. Insomma io, noi, non siamo contro l’agricoltura moderna, al contrario, ma dobbiamo pensare a un modo per riadattare i nostri sistemi agricoli di produzione». In breve, si tratta di trovare delle pratiche agricole ecocompatibili, quelle che sono alla base dell’agricoltura organica o biologica. Ma torniamo alla nostra agricoltura medicalizzata. Morti sospette Uno degli esempi più aberranti della costante e crescente medicalizzazione del nostro attuale modello di agricoltura è dato dalla storia dei concianti dei semi. E la situazione più emblematica è proprio quella del mais. Non è un caso che apriamo la nostra inchiesta Il piatto è servito proprio con immagini di api moribonde. Ma che cosa c’entrano i concianti con le api? Da qualche anno – in particolare, dalla fine degli anni Novanta – le api stanno morendo a migliaia, a milioni. Interi alveari continuano a sparire, all’improvviso: è quello che viene chiamato Colony collapse desorder o Ccd. Si calcola che negli ultimi anni solo negli Usa siano sparite il 70 per cento delle api. In Europa siamo al 50 per cento, come in Italia. Le cause saranno diverse, ma in ogni caso uno dei maggiori imputati è senz’altro l’uso di alcuni insetticidi, in particolare quelli appartenenti a una classe specifica: i neonicotinoidi. E’ una classe di insetticidi molto potenti, che vengono chiamati sistemici in quanto penetrano nei tessuti della pianta e, in un certo senso, la impregnano, la trasformano in una sorta di mela avvelenata come quella della strega di Biancaneve. Non sono solo potenti, ma sono anche attivi contro un gran numero di insetti. Sono talmente potenti da essere usati su quasi tutte le coltivazioni, dalle fragole alle arance, dalle mele all’uva, e questo proprio perché l’uso massiccio e indiscriminato di insetticidi, protrattosi per molti anni, ha finito per selezionare gruppi di insetti resistenti. In pratica, succede qualcosa di analogo a quello che sta succedendo con gli antibiotici per l’uso umano: avendone usati troppi e per troppi anni, abbiamo finito con il selezionare ceppi di batteri sempre più resistenti, ritrovandoci di conseguenza nella necessità di scoprire antibiotici sempre più potenti e costosi. Ma torniamo ai nostri neonicotinoidi. Si tratta di un prodotto che tira le vendite, quello su cui le grosse multinazionali dell’agrofarmaco puntano per incrementare i bilanci con percentuali a due cifre; ciò fa sì che, ultimamente, vengano addirittura usati per conciare i semi di alcune colture, tra cui il mais. Il mais conciato viene avvolto da una polvere, il neonicotinoide, che, per quanto si cerchi di farla aderire al seme (non troppo, però, altrimenti non funziona contro gli insetti), durante la semina con le seminatrici automatiche finisce in parte per volare 2 via e disperdersi nell’ambiente. Il mais si semina ad aprile, quando sbocciano i fiori e le api cominciano a bottinare. Le api raccolgono il polline dove capita, magari 2 Si veda «Dispersione nell'ambiente del conciante Gaucho durante la semina del mais» (Greatti et al. Univ. / Sabatini et al. C.R.A. Bologna).
attratte dai bei grappoli di fiori bianchi di un boschetto di acacie o dal giallo vivo dei fiori di tarassaco, ignare del fatto che il terreno nudo lì a fianco è stato appena seminato con mais conciato con neonicotinoidi. Se poi al momento della semina c’era stato anche un po’ di vento, la polverina è andata ancora più lontano, posando il suo carico tossico su tutti i fiori che le capitavano a tiro. Il mais conciato viene avvolto da una polvere, il neonicotinoide, che, per quanto si cerchi di farla aderire al seme durante la semina con le seminatrici automatiche 3 finisce in parte per volare via e disperdersi nell’ambiente. Il mais si semina ad aprile, proprio quando sbocciano i fiori e le api cominciano a bottinare. Studi scientifici hanno provato che fiori in prossimità di campi seminati con mais conciato contengono alte dosi di neonicotinoidi, letali per le api. Ovviamente, le case produttrici di agrofarmaci smentiscono. Luigi Radaelli, presidente di Agrofarma, commenta che «non dovrebbe esserci esposizione, non 4 5 dovrebbe…». Dicono anche che non è poi detto che quella dose sia letale per le api. Insomma, tendono a trovare altre cause. Sicuramente gli apicoltori sanno il fatto loro e spesso, tra quelli che abbiamo incontrato, sono apicoltori da diverse generazioni. Tutti ci hanno detto che l’inizio di questo fenomeno di moria presenta una certa coincidenza temporale – verso la fine degli anni Novanta – con l’introduzione dei neonicotinoidi in agricoltura. Nell’inchiesta cerchiamo di indagare e il sospetto diventa qualcosa di più, anche perché finalmente alcune istituzioni regionali – il Piemonte in testa, e poi il Veneto, l’Emilia Romagna, la Lombardia… – hanno eseguito delle analisi sulle api morte 6 dalle quali è emersa la presenza di neonicotinoidi. Non è solo un problema di api morte Ma la storia dei neonicotinoidi è significativa proprio per raccontare a che punto è arrivata la medicalizzazione della nostra agricoltura, che finisce per essere sempre più 3 Ibidem. 4 Luigi Radaelli, presidente di Agrofarma, Confindustria. 5 Nell'inchiesta mostriamo i dati di uno studio, inedito al momento della messa in onda, in cui il gruppo di lavoro dell'Istituto di entomologia della facoltà di Agraria dell'Università di Torino, diretto dal professor Aulo Manino, individua la correlazione di causa/effetto tra una determinata quantità di neonicotinoidi che contamina le api e la quantità che deve essere ritrovata nel cadavere dell'ape stessa per poter ragionevolmente affermare che l'ape è morta per quella dose. 6 Proprio mentre scrivo, nel corso del Congresso degli Apicoltori italiani (Sorrento, 21/26 gennaio 2009) sono emerse altre correlazioni tra l'uso dei neonicotinoidi in agricoltura e la moria delle api. I neonicotinoidi usati nella concia impregnano il seme, ma anche tutta la pianta che cresce, in quanto sono sistemici; e, infatti, nell'inchiesta noi paragonavamo questa pianta avvelenata alla mela della favola di Biancaneve. Il mais emette alcune goccioline da essudazione che vengono bevute dalle api, e proprio queste goccioline risulterebbero estremamente contaminate e velenose. «Il professor Vincenzo Girolami, dell'Università di Padova, afferma che "le guttazioni (gocce di acqua che tutte le giovani piante di mais producono in abbondanza sulla punta delle foglie) di piante ottenute da semi di mais conciati, se vengono bevute dalle api le uccidono entro 2-10 minuti ed entro 20-40 minuti se solo vengono assaggiate per un attimo estraendo la ligula (la lingua a proboscide delle api)". Gocce di acqua che, oltre alle api, anche altri insetti utili possono tranquillamente raccogliere. Il professor Andrea Tapparo, del dipartimento di Scienze chimiche dell'Università di Padova, ha analizzato le gocce di acqua prodotte dalle piantine di mais con la guttazione, rinvenendo la presenza di neonicotinoidi in ragione di una decina di milligrammi per litro: la misura è espressa in milligrammi/litro ovvero ppm - parti per milione - quando è notorio che la dose letale per l'ape si misura in poche, infinitesimali, ppb - parti per bilione» (da «Corriere della Sera» del 21/1/2009).
vittima di se stessa (salvi ovviamente i profìtti dell’industria degli agrofarmaci, che invece crescono sempre di più). Questo autodafé dell’agricoltura industriale e chimica è tutto nella risposta a una domanda: perché bisogna conciare il mais? In Italia vivono 54 milioni di persone. Il 30 per cento del mais prodotto in Italia finisce in polenta, il restante 70 per cento se lo dividono 400 milioni di polli e galline, nove milioni di maiali e sei milioni di bovini (ma dato che il mais che produciamo non basta, ne importiamo dall’estero, soprattutto dalle Americhe, che ci riforniscono anche di soia, impiegata a sua volta per i mangimi animali). La quasi totalità del mais prodotto in Italia cresce nella pianura padana, seminato senza rotazione e senza soluzione di continuità, sempre sullo stesso terreno. A questo punto entra in scena uno strano ospite. Si chiama Diabrotica virgifera virgifera. Fino a metà degli anni Novanta, in Europa non sapevamo neppure cosa fosse. Non c’era mai stata, dalla notte dei tempi. Poi è scoppiata la guerra nei Balcani. Cosa c’entra? C’entra perché nella mischia balcanica si sono buttati anche gli americani di ritorno dalla Prima guerra del Golfo. È a questo punto che la Diabrotica virgifera virgifera si trasferisce in Europa. Dapprima appare attorno agli aeroporti balcanici – e proprio questo particolare fa supporre che sia sbarcata, per l’appunto, dagli aerei che venivano dagli Stati Uniti a scaricare le truppe – poi fa la sua comparsa in Italia. Anche qui la Diabrotica virgifera virgifera sceglie per manifestarsi alcuni terreni intorno ad aeroporti: quello di Venezia, per esempio, che si trova giusto a due passi da quello americano della base di Aviano, da dove partivano le missioni per i Balcani. Ma che cosa è la Diabrotica virgifera virgifera? È un insetto della famiglia delle Chrysomelidae, appartenente all’ordine dei Coleotteri. Sverna sotto forma di uova, la larva nasce nei periodi di maggio e giugno, ed è ghiotta di radici di mais. Se le smangiucchia per un paio di giorni prima di trasformarsi in pupa, che a sua volta subisce una metamorfosi per diventare adulto: un insetto di colore giallo bruno, con le elitre (ali) brune; se è maschio ha lunghe antenne e se è femmina ha tre strisce simmetriche scure sulle ali. Dunque, nella sua fase di verme – che dura un paio di giorni -, la Diabrotica è golosa di radici di mais. Il mais, le cui radici vengono smangiucchiate, si alletta – come si dice -, si piega, fa un collo di bottiglia ed è costretto a mettere altre radici. In genere, i danni non superano il valore economico di un trattamento «giustificato solo 7 in casi molto sporadici». In ogni modo, più mais c’è e più la Diabrotica virgifera virgifera prospera e prolifica; per non parlare, poi, delle situazioni in cui il mais viene riseminato anno dopo anno sullo stesso terreno, così che, appena le uova si schiudono, le larve trovano le radici di mais e il ciclo si ripete all’infinito. A questo punto, il buon senso suggerisce che basterebbe non riseminare il mais dove è già stato piantato l’anno precedente, cosa che farebbe sì che i vermetti, nati dalle uova che hanno svernato nel 7 Proteggere il seme di mais solo quando serve, «Informatore agrario», 8/2002, Furlan et al.
terreno, non troverebbero le radici di piante di mais già alte e morirebbero (dato che non sono proprio in grado di digerire le radici di altre piante, ad esempio di erba medica). Insomma basterebbe fare le rotazioni e la Diabrotica virgifera virgifera sparirebbe dal terreno. E’ proprio quello che cerca di dire il professor Furlan dell’Università di Padova, il massimo esperto in questo campo, che coordina un Gruppo di lavoro ministeriale sulla Diabrotica: «La rotazione del mais si è dimostrata essere molto efficace per una significativa riduzione della popolazione di Wcr (Verme occidentale delle radici del mais) nell’Europa centrale e orientale in campi sperimentali così come nelle aree intorno all’aeroporto di Venezia, dove il Wcr è 8 stato sradicato utilizzando questa strategia». Insomma, la rotazione della coltura sarebbe risolutiva, ma non viene adottata. Si preferisce usare la chimica sintetica con tutto l’apparato di sterilizzanti del terreno e ora di concianti del seme – i neonicotinoidi, appunto. Eppure questi strumenti non sono risolutivi, come il professor Furlan afferma chiaramente in questo passo del suo studio: «I risultati di questi studi hanno dimostrato che il numero di Wcr adulti presenti in appezzamenti non trattati non differiva dal numero di insetti presenti in quelli soggetti a trattamento con insetticidi, sia che si trattasse di semi conciati, sia di trattamenti in-solco. Sia i semi conciati con insetticidi (imidacloprid, fipronil, tiamethoxam, tefluthrin), sia gli insetticidi del terreno applicati in-solco (chlorpyrifos, dazino, tefluthrin) non hanno ridotto il numero di insetti presenti nei campi in monocoltura. […] Essi, quindi, sono inutili nel contenimento dei Wcr e nei programmi di eradicazione».9 Ma allora perché si fa? Agrochimica e sementi brevettate sono sempre più legati a doppio filo; e gli interessi economici in gioco – ad esempio, con i neonicotinoidi – sono ingenti, con profitti destinati a crescite di due e tre cifre. I semi conciati con neonicotinoidi costano ovviamente di più di quelli non conciati anche se, come gli sterilizzanti del suolo, sono inutili a contenere la Diabrotica. Che siano inutili lo dimostra anche la semplice collazione di due dati che abbiamo 10 ricavato dalla lettura di una rivista specializzata mettendo insieme due interviste diverse: secondo l’Ais, l’associazione che raccoglie i sementieri italiani, il 70 per cento delle sementi vendute in Italia nel 2008 era conciato; nella pagina a fianco, Marco Aurelio Pasti, presidente dell’Associazione maiscoltori italiani, afferma: «Per la prima volta quest’anno in diverse aree della Lombardia laddove si concentra 11 maggiormente la monocoltura abbiamo registrato danni da Diabrotica». In pratica, anche se i semi di mais conciati sono quasi la totalità di quelli venduti, la Diabrotica fa danni per la prima volta! Tuttavia, la rotazione non si fa. Ci sono troppe bocche da sfamare: non di esseri umani, ma di milioni di animali, i milioni di polli, bovini, suini, conigli che abitano la Pianura padana. 8 The inneffectiveness of insecticide seed coating and planting-time soil insecticides as Diabrotica virgifera virgifera LeConte population suppressors, Furlan et al. 2006. 9 Traduzione mia, da Furlan et al., op.cit. 10 Pausa di riflessione sui concianti per aiutare le api, in «L'informatore agrario», 36/2008, pagg. 8-9. 11 Ibidem.
L'impronta del delitto Da quando l’uomo ha capito che forse con la sua attività qualche conseguenza negativa al delicato equilibrio della biosfera la stava producendo – un caso unico tra tutte le specie viventi sul pianeta -, molti scienziati hanno cercato di calcolare questo impatto sui sistemi naturali. Spesso, in passato, si era impostato il problema cercando di calcolare quale fosse la popolazione massima che un’area avrebbe potuto sostenere. Agli inizi degli anni Novanta, però, Rees e Wagernagel dell’Università della Columbia britannica, in Canada, hanno ribaltato questo concetto – che possiamo chiamare Capacità di carico – per cercare invece di determinare, o meglio di calcolare, il territorio effettivo utilizzato da una popolazione indipendentemente dal fatto che questa superficie coincida con il territorio su cui la popolazione stessa vive. Questo indicatore viene chiamato Impronta ecologica. «Per definizione, l’impronta ecologica di una popolazione (o di un singolo individuo) è la quantità di territorio ecologicamente produttivo, acquatico e/o terrestre, che è necessaria per: a) fornire, in modo sostenibile, tutte le risorse di energia e materia consumate da quella popolazione; b) assorbire, in modo sostenibile, tutti gli scarti che sono inevitabilmente prodotti da quella popolazione. La sua unità di misura è ettari di superficie ecologicamente produttiva o ettari globali (gha).» Proviamo a comprendere concretamente questo concetto. Se io coltivo un ettaro di pomodori in Italia non sto utilizzando solo quell’ettaro reale, lì davanti a me, dove ho materialmente interrato le piantine di pomodoro, ma sto letteralmente consumando altro territorio, non necessariamente italiano: ad esempio, quello che ha prodotto il petrolio per il mio trattore e per i trasporti, e quello dove è stato estratto il concime (i fosfati in Italia arrivano nel migliore dei casi dall’Africa). E poi ci sono da aggiungere i terreni necessari alla produzione di pesticidi, c’è l’acqua ecc. Ma non basta: dobbiamo calcolare anche i terreni che mi servono per smaltire gli scarti di produzione – comprese le emissioni, ad esempio, di anidride carbonica -, quindi avrò bisogno anche di alberi, foreste ecc. La somma di tutti questi terreni viene definito global hectar (ettari globali). Ad esempio, la produzione di un chilogrammo di pane richiede 26,3 gmq (metri quadrati globali), di cui 19,8 gmq di terreno agricolo e 6,5 gmq di terreno per l’energia. A proposito di acqua, anche i mari sono territorio, perché dal mare ricaviamo i pesci. Però nel nostro mare italiano è ormai rimasto ben poco pesce, e così i nostri pescherecci devono spostarsi lungo le coste africane, giù fino al golfo del Senegal, insomma nel mare di altri. Mari lontani che servono per alimentare gli italiani sono anche le acque del Vietnam, del Sud America o del più vicino Portogallo, da cui compriamo cernie, dentici o scatolette di alici, sarde e sgombri. In una parola, non potendo più consumare il nostro mare, dobbiamo consumare quello di altri. Ma perché il nostro mare non ha più pesci? Semplice: perché nel corso degli anni – e specialmente degli ultimi anni abbiamo pescato troppo, o meglio abbiamo pescato
più pesci della capacità del nostro mare di riprodurli. Lo abbiamo sovrasfruttato, creando un deficit negativo. La capacità di un territorio di rigenerarsi, di rigenerare le risorse a esso sottratte, ci introduce l’altra faccia della medaglia: la biocapacità, ovvero la potenziale disponibilità di capitale naturale di una certa area. Facciamo questo calcolo. La superficie produttiva della Terra è approssimativamente pari a 11,3 mld di gha (ettari globali), che divisi per il numero di abitanti del pianeta fa 1,8 gha per ognuno. Un italiano consuma 4,1 gha pur avendo a disposizione un solo gha; uno statunitense 9,6 contro 4,7; un giapponese 4,4 contro 0,7; un tedesco 4,5 contro 1,7; un brasiliano, invece, è in credito, perché a fronte di una biocapacità di 2,1 gha /persona ne ha a disposizione 9,9. Anche i canadesi hanno un credito, in questo caso di 6,9 gha a persona. Nel complesso, facendo una media mondiale, se ogni abitante del pianeta Terra ha a disposizione 1,8 gha stiamo consumando, secondo il Living Planet Report del 2006, 2,2 gha/persona di capitale naturale; ciò vuol dire «in altre parole che viviamo in una condizione di deficit ecologico (-0,4 gha/persona). Paradossalmente, sarebbero necessari 1,2 pianeti per sostenere, ogni anno, i consumi di tutti gli abitanti della Terra. Tali ritmi sono resi possibili solo grazie a uno sfruttamento sempre più intensivo degli stock di capitale naturale che dovrebbero essere riservati per il mantenimento degli equilibri biologico-chimici della Terra per le future 12 generazioni». Il maggior studioso di Impronta ecologica e biocapacità in Italia è Enzo Tiezzi, titolare della cattedra di Chimica fisica all’Università di Siena, ricercatore di fama internazionale i cui libri sono stati pubblicati in varie lingue. Quando lo incontriamo a Siena e gli chiediamo, perché un chimico si occupa di economia, il professor Tiezzi sorride: Eh! Questa è una domanda che riguarda la mia vita a settantanni. Io vengo dalla scuola di chimica fisica di Firenze e nel lontano 1966 vinsi una Fullbright e andai a lavorare negli Stati Uniti. La sera, a cena, ci incontravamo con gli altri scienziati della Washington University: c’era Rita Levi Montalcini, tra l’altro un’ottima cuoca; c’era Weismann, che era il professore di Fisica con cui lavoravo, scomparso recentemente; e c’era un grande ecologo, Barry Commoner. Quest’ultimo mi chiese di fermarmi per un altro anno negli Stati Uniti e di lavorare in campo ecologico e ambientale – nel 1967 si pubblicarono i primi studi sugli effetti cancerogenetici sull’emoglobina dovuti proprio alla presenza di nitrati e nitriti nei cibi – e da lì nacque il mio amore per l’ecologia. Poi iniziai a occuparmi di energia, di ambiente […] del resto, attenzione, i nuovi indicatori di sostenibilità hanno bisogno della chimica fisica, perché tutti gli indicatori sono indicatori complessi che contengono l’economia ma anche l’energia, i flussi energetici, le risorse.
L’interdisciplinarità è un segno distintivo del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche e dei biosistemi dell’Università di Siena, diretto dal professor Tiezzi. Economisti, ingegneri, matematici, biologi e agronomi lavorano insieme per calcolare i nuovi indicatori internazionali di sostenibilità. 12 Federico M. Pulselli, Simone Bastianoni, Nadia Marchettini, Enzo Tiezzi, La soglia della sostenibilità, ovvero quello che il Pil non dice, Donzelli Editore, Roma 2007
Questi indicatori ci permettono di stilare un vero e proprio bilancio ecologico, che ci mostra come le attività dell’uomo – il suo stile di vita, o quello di singole popolazioni – non stanno più rispettando la biocapacità della Terra e i suoi tempi biologici. Un deficit di bilancio che inizia alla metà degli anni Ottanta. Questi indicatori, però, ci aiutano anche a capire che esistono delle soluzioni possibili, che è possibile scegliere vie più virtuose, che non tutte le attività sono uguali sotto il profilo della sostenibilità. Il gruppo di lavoro del professor Tiezzi ha analizzato e comparato diversi metodi di produzione nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento. Lo studio recentemente pubblicato sul vino è emblematico. Sono state comparate due vigne e i due vini relativi, calcolando le rispettive impronte ecologiche. Da una parte abbiamo un’azienda agricola gestita seguendo un metodo convenzionale (impiego di prodotti chimico-sintetici ecc.), dall’altra una dove viene applicato un metodo biologico. Il dato è lampante: una bottiglia di vino da agricoltura biologica consuma 7,17 gmq, una convenzionale 13,98. Produrre un vino bio consuma la metà di territorio rispetto a uno convenzionale. Ma i calcoli sulla sostenibilità delle attività umane non ci aiutano soltanto a capire come bisogna produrre. Dicono qualcosa anche a noi consumatori. Ad esempio, la scelta di quali fragole comprare e consumare e quando non è qualcosa di indifferente. Comperare un chilogrammo di fragole importate da Israele a marzo richiede il consumo di 4,9 litri di petrolio; se invece mangiamo lo stesso chilo di fragole prodotte in Italia – e dunque acquistate a giugno -, il consumo petrolifero richiesto scende a 0,2 litri. Questo non significa condannare tutte le popolazioni del mondo a mangiare solo ciò che si produce in luogo: sarebbe irresponsabile dire che i tedeschi, o magari addirittura anche i milanesi, non hanno diritto a mangiare arance, perché questo avrebbe ricadute nutrizionali e farebbe aumentare, per esempio, i costi della sanità pubblica. Significa però che non rispettare la stagionalità e non privilegiare la filiera corta, dove ciò è possibile, deve essere ormai considerato un lusso che come abitanti di un pianeta allo stremo non possiamo più permetterci. Prosegue il professor Tiezzi: Io penso che il punto di fondo sia che l’economia classica è tutta impostata sulla crescita e sul Pil. Il Pil non è un parametro in grado di misurare la sostenibilità; per questo occorrono nuovi indicatori – come l’impronta ecologica, l’indicatore introdotto da Daly, quello chiamato ISEW, l’Indice di sostenibilità del benessere – che tengano conto del futuro. Se distruggi il terreno, distruggi i pesci del mare, peschi più pesci di quelli che il mare è in grado di riprodurre, tagli più alberi di quelli che la natura è in grado di far crescere, in realtà il costo di questo sfruttamento ricade sul futuro, a pagarne il prezzo saranno le generazioni future. Si può veramente parlare di una rapina generazionale nei confronti delle future generazioni. Del resto, questo discorso dipende dallo stato del nostro pianeta, che è un pianeta finito; e non può esistere una crescita infinita su un pianeta finito. Una crescita economica infinita del Pil non può esistere su nessun pianeta finito: se io sfrutto troppo il territorio, di fatto sto rapinando le future generazioni.
Il cibo è solo una merce?
Forse nulla di ciò che ci scambiamo dovrebbe essere solo una merce. Sicuramente quando compriamo un auto abbiamo la possibilità, una volta scelta la gamma di prezzo o di cilindrata, di scegliere tra alcuni modelli simili, e a quel punto la nostra decisione cadrà su quella che ci piace di più. La discriminante per l’acquisto di un cellulare può essere il design o la leggerezza. Per la scelta di un computer magari sono importanti le funzionalità che gli richiediamo. Certo, per rendere un prodotto appetibile ai consumatori c’è il marketing, ci sono i condizionamenti che ci inducono bisogni e ci spingono ad acquisti di cui faremmo volentieri a meno, se non altro per il nostro portafoglio. Così, nella parte ricca del mondo, in questi tempi di consumismo diventa più difficile distinguere, nelle cose che acquistiamo, il confine tra merce e bene. Il caso del cibo è ancora più complesso. Sul cibo questa incertezza tra merce e bene può essere ancora più evidente. Il cibo lo comperiamo tutti giorni, mentre un auto o un computer hanno cicli di acquisto di anni. Gli alimenti, invece, li comperiamo e li scegliamo anche più volte al giorno, e non solo al mercato dove acquistiamo il latte o il pane, ma anche quando entriamo nel bar, nel ristorante, in pizzeria, quando mangiamo in una mensa – che sia della scuola o del posto di lavoro , o quando siamo ricoverati in ospedale. Un cibo ci deve piacere, ma deve anche nutrirci. Senza cibo moriremmo, ma si può anche morire a causa del cibo. Dobbiamo saperlo scegliere per mantenerci sani, dobbiamo sapere che non potremmo sopravvivere mangiando solo dolci, che abbiamo bisogno di frutta e verdura e che questa frutta e verdura devono essere fresche, il più fresche possibile. E quando comperiamo una mela, vorremmo che fosse una mela – o un pomodoro, o una zucchina – buona, sana, pulita. E invece, spesso, quando comperiamo una mela, un pomodoro o delle zucchine, 13 comperiamo anche un po’ di pesticidi attaccati alla mela, la plastica della sua confezione, tutto il petrolio che è servito per portarla in giro prima che arrivasse sulla nostra tavola, magari provenendo fin dall’altra parte del mondo (non che questo sia necessariamente negativo di per sé, ma molte volte non è giustificato). Spesso, quando compero un sacchetto d’insalata pronta da consumare o una vaschetta di carote grattugiate – quelli che in gergo sono chiamati prodotti di quarta gamma -, la maggior parte del valore è nel servizio. Quell’insalata la pago anche 15, 16 euro al chilo, ma non so nulla dell’insalata stessa – come è stata prodotta, ad esempio -, non so che al contadino è stata pagata 15 centesimi. Che è un prezzo irrisorio per produrre un chilo d’insalata. Spesso il contadino a quel punto deve arrangiarsi a produrre al costo più basso, e abbiamo visto come costi sempre più bassi comportino un costo
13 Legambiente pubblica ogni anno un dossier sui pesticidi. In quello del 2008 che citiamo nella nostra inchiesta si legge che circa la metà della frutta venduta in Italia contiene uno o più residui di pesticidi, tutti - eccettuato un un per cento illegale - nei limiti consentiti dalla legge. Ma chi ci dice quale effetto possono avere diverse sostanze, anche cancerogene, sommate tra loro? Quali sono le loro interazioni? I potenziamenti? Il professor Morando Soffritti ci ricorda appunto che questo effetto cocktail non è ancora stato studiato. Senza contare che tale effetto non va calcolato tenendo conto soltanto dei cibi che mangiamo, ma anche delle sostanze xeno-biotiche (estranee alla vita dell'uomo) che assumiamo quotidianamente anche dall'aria, dall'acqua, attraverso le radiazioni e per contatto.
elevato in termini ambientali, come ci racconta Wolfgang Sachs,14 che siamo andati a trovare in Germania, al Wuppertal Institut (un centro di studi sul clima, l’energia e l’ambiente). Sachs individua nella logica della Grande distribuzione organizzata il punto di rottura dell’agricoltura attuale e, in genere, della merce cibo: Quello che succede oggi è che in tutta questa catena del cibo il ruolo dei grandi distributori è diventato sempre più importante – perché, tutto sommato, in Germania si parla di quattro grandi distributori che hanno una grande fetta del mercato. Cosa succede? Per prima cosa, questi quattro soggetti sono in stretta competizione tra di loro, una competizione per il prezzo più basso; ciò li porta a esercitare una pressione sui produttori, cioè su coltivatori e contadini, per abbassare il prezzo del prodotto. Pertanto, la concorrenza fra distributori e il loro potere sui fornitori di generi alimentari fanno sì che i prezzi continuino a scendere; e così, già da tempo, essi sono responsabili di questa pressione economica sui contadini, che sono a loro volta spinti a produrre al prezzo più basso possibile con tutte le conseguenze disastrose che ne derivano, perché il prezzo basso ha sfortunatamente costi alti.
L’agricoltura è diventata agroindustria I margini sempre più ristretti per l’agricoltore significano in concreto poche varietà di frutta e verdura e una gestione sempre più meccanizzata e artificiale. Significano anche cercare di lavorare prodotti sempre più fuori stagione per spuntare prezzi più alti. Nelle campagne intorno a Latina un giovane agricoltore ci spiega che per spuntare dei prezzi decenti che gli consentano di sopravvivere deve lavorare solo in serre e solo rigorosamente fuori stagione. Spesso l’agricoltore è un semplice esecutore di protocolli di coltivazione scelti da altri: quali piantine di pomodoro o di melanzana trapiantare, quali trattamenti fare, il tipo e la quantità di fertilizzanti, di sterilizzanti del terreno e di pesticidi da utilizzare, il momento della semina e quello del raccolto. Tutto viene deciso fuori dall’azienda. Solo il rischio d’impresa è a carico dell’agricoltore. L’agricoltore non può neppure decidere a che prezzo vendere. Un giorno le zucchine valgono 70 centesimi, il giorno dopo 30 e non vale neppure la pena di raccoglierle. L’agricoltura industriale si specializza in poche varietà di piante e animali che sono considerati sulla base del loro potenziale di produttività (in termini di biomassa), cioè unicamente come merci. Questa mercificazione-specializzazione dell’agricoltura convenzionale ha condotto alla concentrazione, ai monopoli 15
delle merci
e dell’integrazione verticale, mentre gli agricoltori sono stati trasformati in 16
braccianti a contratto attraverso una sorta di feudalesimo corporativo.
14 Tra gli altri in World Trade and the Regeneration of Agricolture, di Wolfgang Sachs e Tilman Santarius, «Ecofair Trade dialogue», Discussion Paper n. 9/2007. 15 A fronte delle svariate decine di marchi di supermercati e ipermercati, le centrali d'acquisto sono solo cinque. Ecco la classifica delle quote di mercato in Italia per il 2007, stilata da ACNielsen: Centrale italiana 22,8 per cento (aggrega Coop, Despar, Sigma, Il gigante); Intermedia 90 18,6 per cento (Auchan, Sma, Crai, Pam, Metro, Bennet, Lombardini, Sun); Sicon 16,3 per cento (Conad, Interdis, Rewe); Gd Plus 15 per cento (Carrefour, Gs, Finiper, Agorà Network); Esd al 14,2 per cento (Esselunga, Selex, Cedas).
Questa mercificazione e monopolizzazione del cibo, se da una parte comprime i prezzi alla produzione su livelli insostenibili per l’agricoltore (che a sua volta li scarica sull’ambiente), dall’altra ha portato a un aumento dei prezzi finali. E’ una credenza diffusa che al supermercato si risparmia. Forse dovremmo imparare a ribaltare questa idea, perché è semplicemente falsa. Nel 2005 viene avviata dall’autorità Garante della concorrenza e del mercato, sotto la presidenza di Antonio Catricalà, una «Indagine conoscitiva sulla distribuzione agroalimentare», in sigla IC/28. Nel giugno 2007 si chiudono i lavori e i risultati 17 dell’indagine vengono pubblicati. I dati che ne emergono sono chiari: Sia le analisi originali svolte nel capitolo 2 sui dati raccolti dalla Guardia di finanza, sia i dati di fonte Ismea evidenziano che i prezzi al consumo attualmente praticati dalla Gdo nel comparto ortofrutticolo, contrariamente a quanto avviene per gli altri prodotti, non sono inferiori a quelli praticati dalle altre tipologie di vendita e, in particolare, risultano sensibilmente superiori a quelli praticati dai mercati rionali e dagli ambulanti. Il fenomeno è talmente consolidato che alcuni operatori della Gdo hanno dichiarato di utilizzare i prezzi al dettaglio del mercato rionale più vicino ai propri punti vendita come benchmark competitivo per le proprie politiche di prezzo.
È nato prima l’uovo o la gallina? I costi per l’ambiente sono alti, ma il prezzo del cibo che acquistiamo non ce lo dice – anche se dovremo imparare a domandarcelo, considerando che anche nel piccolo di una semplice spesa possiamo fare qualcosa per l’ambiente. Se a gennaio comperiamo zucchine di provenienza italiana, significa che sono state prodotte in una serra riscaldata. Se nello stesso mese comperiamo degli asparagi, che in Italia non si possono certo coltivare, e impariamo a leggere l’etichetta che ci dice che vengono dal Perù, è chiaro che hanno viaggiato attraverso mezzo pianeta. Quando acquistiamo una vaschetta di carote grattugiate e la paghiamo 8 euro e mezzo al chilo (quelle stesse carote che al contadino che le ha prodotte sono state pagate 7-8 centesimi), dobbiamo sapere che questa vaschetta non solo ha prodotto un alto costo ambientale in quanto si tratta di un derivato del petrolio, ma anche che ci vorrà ancora molto petrolio perché venga smaltita dopo che noi l’abbiamo gettata nei rifiuti. Ma siamo davvero noi consumatori italiani a volere gli asparagi peruviani o le zucchine di serra a gennaio, così che il supermercato sotto casa non fa altro che 16 Michael Fox, medico veterinario, ex vicepresidente del farm Animal Welfare and Bioethics della Human Society, Usa. La citazione è tratta dal volume Biotecnocrazia. Informazione scientifica, agricoltura e decisione politica, JacaBook, Milano 2007. 17 «Nel 2006, gli acquisti domestici di ortofrutta in Italia sono stati pari a circa 5,1 milioni di tonnellate, per una spesa complessiva pari a quasi otto miliardi di euro (fonte: Ismea/ACNielsen Homescan), di cui circa i due terzi destinati all'acquisto di prodotti ortofrutticoli freschi. Gli acquisti di prodotti ortofrutticoli hanno pertanto un'incidenza sulla spesa domestica alimentare pari al 18 per cento circa (14 per cento considerando i soli prodotti freschi), costituendo la seconda voce in termini d'importanza dietro al settore delle carni e uova (22 per cento).» («Indagine conoscitiva sulla distribuzione agroalimentare», IC/28 dell'autorità Garante della concorrenza e del mercato, 2007, Premessa.)
esaudire i nostri desideri facendocele trovare sul bancone dell’ortofrutta? O, piuttosto, noi le acquistiamo perché ce le troviamo in bella mostra sul bancone? Siamo innocenti e inconsapevoli consumatori che non sappiamo più distinguere un prodotto di stagione da uno che non lo è? Siamo noi a essere preda di voglie irresponsabili, o è il supermercato che ha convenienza a venderci zucchine fuori stagione perché così facendo raddoppia il valore degli scontrini medi? È probabile che siano vere entrambe le cose. Ma come interrompere questo cortocircuito di non sostenibilità? Dobbiamo aspettare che sia la Grande distribuzione a cambiare quegli stili di vita da cui trae vantaggi economici, o dobbiamo essere tutti noi, nel nostro ruolo di consumatori, a muoverci? Quanto deve costare un pomodoro per essere un pomodoro? E una melanzana per essere ancora una melanzana? E una carota? E una mela, per essere solo una mela? Esiste un prezzo al di sotto del quale non posso scendere per produrre frutta, verdura, grano, carne? Una delle posizioni del consumatore occidentale e ricco è: «ho i soldi, pago e ho il diritto di comperarmi quello che voglio». Se pago ho il diritto di comperarmi un Suv anche per il piacere di guidarla dentro la città, se pago ho il diritto di comperarmi gli asparagi a gennaio, di avere tonno e bistecche tutte le volte che voglio. Ma la non sostenibilità di un comportamento umano può davvero essere comprata, è un diritto acquistabile con i soldi? Maria Fonte insegna Economia agraria all’Università Federico II di Napoli: Si è affermata una ideologia di mercato per cui ha valore solo ciò che ha una valutazione sul mercato. Le risorse naturali non hanno avuto questa valutazione, e possono rientrare in quella categoria che gli economisti chiamano beni comuni o beni pubblici. […] Nella misura in cui la disponibilità delle risorse naturali era gratuita o a costi bassissimi – come il costo dell’acqua, per esempio -, tali risorse sono state sovrautilizzate, portando a una loro degradazione a un loro esaurimento. […] Numerosi processi produttivi agricoli hanno esaurito la fertilità dei suoli, portando alla desertificazione. La soluzione che viene spesso proposta quando si fanno questi discorsi è quella di trasformare in merce le risorse naturali e di dar loro un valore di mercato. Il mio punto di vista non va in quella direzione. Diciamo che l’agricoltura biologica è il tentativo di ristabilire le condizioni in cui le risorse naturali sono utilizzate, impiegandole con un metodo che permette la loro rigenerazione.
Aria, acqua, terra e mari, in quanto beni comuni e dunque disponibili gratuitamente, sono stati sfruttati e spesso sovrasfruttati. Pretendere di poterli ulteriormente spremere dando loro semplicemente un valore non è più possibile, come ci dice Enzo Tiezzi: «Il nostro pianeta è un pianeta finito, e non può esistere una crescita infinita su un pianeta finito. Una crescita economica infinita del Pil non può esistere su nessun pianeta finito: se io sfrutto troppo il territorio, le acque, il clima, di fatto sto rapinando le future generazioni». Ma bene comune è anche la nostra salute individuale in quanto parte di quella sanità pubblica afflitta da costi sempre più ingenti. Qual è il costo sociale di tutto l’inquinamento prodotto dall’agricoltura, inquinamento che riguarda l’acqua che
beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo stesso che ci ritroviamo nel piatto con il suo corredo di pesticidi? Qual è il costo sul piano della salute di quei 195 bambini di una qualsiasi scuola dello Stato Italiano nei quali uno studio della Asl 7 di Siena ha individuato la presenza di uno o spesso di tutti e sei i metaboliti in cui si trasforma uno dei pesticidi più diffusi in agricoltura, quelli a base di organofosforici, che stando a quanto afferma l’Istituto superiore di sanità sono per l’uomo una potente sostanza tossica? Gli organofosforici dovrebbero essere banditi dall’uso, come lo furono il 18 Ddt e il Lindano; e invece sono tra noi, e non vengono soltanto usati per produrre i cibi che arrivano sulle nostre tavole, ma anche per produrre insetticidi per i nostri cani e gatti, con cui giocano i nostri bambini, o per disinfettare i ficus dei nostri appartamenti. E bene comune è, o dovrebbe essere, anche il lavoro, che nel primo articolo della nostra Costituzione è messo addirittura a fondamento della Repubblica. Il lavoro di chi produce il nostro cibo, ad esempio. Ma l’Istat ci dice che il 60 per cento del lavoro in agricoltura è in nero, se non addirittura svolto da manodopera clandestina. Forse dobbiamo fermarci a riflettere sul fatto che se un’arancia o un pomodoro costano troppo poco, spesso è perché sono stati raccolti da immigrati clandestini che hanno rischiato la vita per venire in Italia in cambio di qualche briciola di benessere. E sul fatto che forse quei clandestini non sono lì per caso, ma perché rispondono a quella logica economica che vuole comprimere i costi di produzione del cibo a livelli impossibili. Quando diciamo allora che l’agricoltura biologica o organica va bene, sì, ma costa di più, siamo sicuri di fare un ragionamento economico corretto? Sono sicuro che un cibo che non contiene pesticidi e residui chimici sintetici, e che in nessuna fase della sua lavorazione ha comportato lo sfruttamento di lavoro sottopagato, in nero o dei nuovi schiavi, mi costa veramente di più? Un cibo che non è gonfio di acqua perché per produrlo non ho usato azoto di sintesi, che non ha inquinato falde, fiumi, laghi, mari, che ha preservato nei suoli la «sostanza organica» 2 che fissa la CO e che non provoca la desertificazione? Forse in alcuni casi l’agricoltura biologica ha una resa inferiore del 10,20 per cento, ma in molti casi – come per il vino o l’olio – ha costi di produzione inferiori. Ma allora un cibo pulito e giusto, un cibo di qualità, può essere per tutti? Sì. Il problema è di distribuzione e di riduzione degli sprechi. Se torniamo al dato della Coldiretti, dove su 100 centesimi di prezzo finale solo 18 vanno al contadino, vediamo che ben 82 centesimi della vendita di un prodotto agricolo non vanno a chi lo ha prodotto. È chiaro allora che il problema di rendere accessibile a tutti quel cibo di qualità è 19 un problema di distribuzione. 18 Banditi in Europa e in Usa ma spesso ancora usati in Africa o Asia, a cui facciamo pagare il brevetto, e da dove ci ritornano magari sotto forma di cibo o fiori. 19 «Il ricarico medio sul prezzo finale, infatti, sulle 267 filiere osservate, è risultato del 200 per cento, valore ottenuto come media tra ricarichi del 77 per cento nel caso di filiera cortissima (acquisto diretto dal produttore da parte del distributore al dettaglio) e di poco meno del 300 per cento nel caso di filiera lunga (presenza di tre o quattro intermediari tra produttore e distributore finale). Una prima, quanto scontata, conclusione dell'indagine, corroborata
Perché un latte di qualità, una mela senza pesticidi e che non ha prodotto inquinamento in ogni sua fase di lavorazione, una mela con meno acqua e con qualità nutritive e organolettiche superiori, devono essere di tutti. Mense, Gas e mercati diretti I Gas, Gruppi di acquisto solidali, sono una realtà che si sta diffondendo. Non solo per una questione di risparmio – che spesso comunque c’è ed è notevole – ma anche per la consapevolezza che, come dice Wendell Berry, un famoso contadino filosofo americano, quando mangiamo e comperiamo cibo, siamo anche noi contadini. Questo significa che comperando una mela o un pomodoro siamo noi che decidiamo come produrla. Ci sono poi i mercati diretti degli agricoltori – o «Farmer’s Market», come vengono chiamati. Implicano sicuramente uno sforzo organizzativo in più per chi produce, ma è chiaro che vendere direttamente permette due cose: a) vendere a un prezzo conveniente per i consumatori; b) far sì che l’agricoltore possa incassare un compenso più alto, quel prezzo giusto che gli permette di coltivare senza dover sfruttare oltre il limite di rottura la terra, rispettandone i tempi e la rigenerazione. Si tratta di un metodo che permette di pagare il giusto a chi lavora, senza lavoro nero e senza clandestini-schiavi. E poi, ancora, ci sono le mense collettive. Abbiamo voluto fare due esempi. Il primo riguarda le mense delle scuole comunali di Roma. Un fenomeno enorme: 150.000 pasti al giorno, tutti biologici, che costano poco di più del precedente appalto da agricoltura convenzionale. Qualche decina di centesimi in più a fronte però di una riduzione delle contaminazioni tossiche, di un taglio degli sprechi alimentari, di una nutrizione più sana ed equilibrata (che quindi, verosimilmente, comporterà una riduzione delle spese future per la sanità) e di ricadute economiche positive sul territorio della regione. Gran parte del cibo è di provenienza locale, per un logico accorciamento di filiera. In ultima analisi, come ci dice la dottoressa Sari, dirigente del dipartimento, abbiamo un vantaggio economico complessivo e virtuoso che va al di là di quell’euro in più per il singolo pasto. Che il cibo di qualità sia strettamente legato a un miglioramento della salute e dunque dei conti sanitari pubblici è quanto emerge anche da una storia che abbiamo documentato ad Asti. Qui l’ospedale pubblico – per forte convinzione del direttore generale, il dottor Luigi Robino – ha proceduto a inserire nei criteri dell’appalto per la mensa dei concetti come la freschezza della frutta e della verdura, la stagionalità, i prodotti biologici e il più possibile locali, la carne e i formaggi di alta qualità, tipici e locali. A capo della cucina c’è una chef di vaglia. Certo, il personale ha più lavoro da svolgere – con le verdure fresche da lavare, tagliare e cucinare, invece delle porzioni surgelate dell’appalto precedente -, ma sicuramente sono tutti più motivati nel lavoro. Sembra di stare nella cucina di un ristorante; e siccome abbiamo avuto modo di
dall'osservazione dei risultati della citata indagine campionaria, è dunque relativa alla necessità di adottare misure volte a comprimere la lunghezza della filiera distributiva, dal momento che esse produrrebbero un impatto diretto e rilevante sui prezzi al dettaglio dei prodotti ortofrutticoli». (IC/28, op. cit.)
provare i risultati, possiamo confermare l’alto gradimento di questo importante cambiamento. Ma la cosa che più sorprende è sempre l’aspetto economico. Come ci dice la direttrice del reparto di dietetica, la dottoressa Maria Luisa Amerio, la metà dei ricoverati è spesso malnutrita, includendo le persone obese, sovrappeso, disidratate, con diete povere di frutta e verdura fresche ecc. Un paziente malnutrito ci mette di più a guarire, la degenza post-operatoria è più lunga, le complicazioni e le infezioni sono più frequenti – in una parola, i pazienti devono rimanere ricoverati più a lungo. Anche qui sono bastati due calcoli per capire che un pasto di qualità può addirittura tramutarsi in guadagno per l’ospedale. «Se uno fa un ragionamento fermandosi esclusivamente al pasto» ci dice il direttore generale «oggi esso costa circa un euro in più; un euro in più per un pasto preparato con la filiera corta anziché con le normali condizioni di ristorazione collettiva e, quindi, con i surgelati. Quell’euro in più, però, è ampiamente compensato dal fatto che ogni giorno di degenza qui costa 500 euro… quindi basta un paziente che si ferma per un solo giorno in meno per far avanzare i soldi spesi in più per 500 pasti.» «Ci riuscirete?» domandiamo noi. Il dottor Robino sorride sicuro: «Secondo noi, sì: è la nostra scommessa, siamo convinti che grazie a queste innovazioni riusciremo a ridurre la durata media delle degenze». Dati e ringraziamenti L’inchiesta andata in onda per Report è stata realizzata tra l’estate e l’autunno del 2008. È stato un lungo viaggio nell’agricoltura italiana, molto più lungo di quello che è stato trasmesso. Ringrazio tutti coloro che ci hanno aiutato, coloro che ci hanno rilasciato interviste e coloro che purtroppo, in alcuni casi, non hanno potuto trovare spazio nell’edizione definitiva. L’inchiesta è firmata anche da Michele Buono, con cui abbiamo fondato più di trenta anni fa la Aleph Film. Da allora lavoriamo insieme e insieme firmiamo tutti i lavori; è una sorta di marchio di fabbrica, anche se a volte ci capita di seguirne alcuni separatamente e contemporaneamente. Fondamentale per la realizzazione de Il piatto è servito è stato il ruolo a tutto campo svolto da Lorella Reale, che ha collaborato a tutte le fasi dell’inchiesta, dalla ideazione alla messa a punto finale dell’edizione. Un ultimo ringraziamento a Giampaolo Bisegna, giovane montatore, con cui ho lavorato per la prima volta e che ha dato un contributo prezioso di precisione, scrupolo e professionalità.