Etnografia del pensiero Ipotesi e ricerche A cura di Valerio Romitelli
Carocci editore
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Etnografia del pensiero Ipotesi e ricerche A cura di Valerio Romitelli
Carocci editore
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI DISCIPLINE STORICHE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
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Il testo è disponibile sul sito Internet di Carocci editore e sul sito Internet del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna: http://www.dds.unibo.it
I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna , Roma, telefono / , fax /
Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it
Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna
a edizione, maggio © copyright by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: studioagostini, Roma Finito di stampare nel maggio dagli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. via Roberto Malatesta, – Roma ISBN
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Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. della legge aprile , n. ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
Parte prima Ipotesi di Valerio Romitelli
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Quattro ipotesi
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Tre domande
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Risposte classiche
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Il classismo L’evoluzionismo Definire, per conoscere quale sociale? L’ideale dei tipi ideali Il funzionalismo e i suoi paradossi L’etnografia statunitense
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Risposte più recenti
Il linguaggio come strumento
Il linguaggio strutturante
Il linguaggio come risorsa
Segni ovunque
a. a. a. a.
a.. Anche Stalin sulla linguistica / a.. L’interazionismo simbolico / a.. L’etnometodologia a.. L’Edipo / a.. L’equivocità del tempo a.. Linguaggio e pensiero / a.. Performance o prescrizione? a.. La semiotica alla moda / a.. Il ritorno del sistema
INDICE
a.
Dalla comunicazione alle comunità
b.
Scienze sociali e politica nel Novecento
c.
Questioni di metodo: discorsi o parole?
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Le nostre risposte
.. ..
Il dualismo delle scienze sociali Prescrizioni per la ricerca
a.. Doni non richiesti / a.. Identità o soggettività? b. I partiti, il linguaggio, il sociale, la guerra / b. Scienze sociali e regimi politici / b. Il Sessantotto e le sue conseguenze
... Ricerche sociologiche sui governanti / ... Ricerche etnografiche tra i governati
Parte seconda Ricerche
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Presentazione
Più possibilità di vivere di Valerio Romitelli
La didattica, un’esperienza sul campo Il metodo, la quadruplice dimensione soggettiva L’inchiesta, più possibilità di vivere Immigrazione zero, un fallimento politico
Una scuola diversa dalle solite di Marta Alaimo e Valerio Romitelli
Ipotesi e problemi Il NOF, questo sconosciuto Chi, dove e come A proposito dell’intervista, della provenienza e del lavoro Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica Formazione e/o istruzione?
INDICE
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Una fabbrica da rifare e la qualità del lavoro. Gli operai della BredaMenarinibus e della BT Cesab di Bologna di Mirco Degli Esposti
L’inchiesta alla BredaMenarinibus L’inchiesta alla BT Cesab Conclusioni
Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa di Anne Duhin
Qualificazioni del lavoro Molteplici posizioni di fronte al lavoro La fabbrica come mondo Conclusioni Da operaio a operaio (nota del curatore)
Una benevola forma di egoismo. I volontari della Casa dei Risvegli di Laura Filippini
Il campione I luoghi Le interviste Il questionario Una “benevola forma di egoismo”: cosa dicono i volontari del volontariato Le proposte dei volontari Riconoscimento intellettuale, informazione e formazione nel volontariato «Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza, con la consapevolezza di non essere un professionista»
Il senso della fabbrica. Condizioni di ambientamento dei lavoratori migranti nella provincia di Ravenna di Marta Alaimo e Franca Tarozzi
Introduzione L’obiettivo Presentazione e caratteristiche del luogo Presentazione del campione
INDICE
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Argomenti rilevanti Punto di appoggio, alloggio, casa: «l’importante, all’inizio, è avere un appoggio» Formazione e lavoro: «Se non hai mai visto una fabbrica, serve» Sulla sicurezza: «La sicurezza siamo noi» Punti di sintesi dei giudizi degli operai e qualche consiglio
Sarebbe il lavoro del futuro di Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi
Introduzione Descrizione del campione «Nel nostro mondo siamo importanti» «Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro» «La cosa più importante è la gratificazione che si può ricevere dalle persone» «Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto» La formazione: una chiave di lettura del turnover? Appendice
Indice dei nomi e delle cose notevoli
Parte prima Ipotesi di Valerio Romitelli
Quattro ipotesi
Le ricerche qui raccolte sono state compiute nell’arco degli ultimi cinque anni. Esse non solo si sono svolte in luoghi, tra popolazioni e con soggetti tra loro diversi, ma sono anche avvenute seguendo impostazioni problematiche nonché metodologie tra loro non del tutto omogenee. Tuttavia, il Leitmotiv c’è ed è stato ben certo fin dal loro inizio, anche se si è venuto chiarendo e precisando strada facendo. Con la pubblicazione di questa raccolta, i loro autori hanno anche deciso che fosse venuto il momento di provare a esplicitare le convinzioni comuni che hanno ispirato le loro inchieste. A me che, bene o male, ho seguito da vicino ciascuno di questi lavori è spettato il compito di introdurli per provare a fare il punto sul senso da essi condiviso. A tale scopo propongo delle ipotesi metodologiche che rispondono ad alcune delle più importanti questioni presenti tra le scienze sociali. Dichiarando subito che la loro ispirazione viene dall’antropologia di Sylvain Lazarus e dal GRAM (Groupe de Recherche de l’Anthropologie de la Modernité) da lui diretto, riassumo tali ipotesi in questi quattro enunciati: . chiunque può pensare; . per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui; . occorre sempre distinguere due realtà sociali: quella che è governata da un qualche potere e quella che è resa possibile da chi potere non ha; . per conoscere quest’ultima realtà la ricerca sociale può evitare ogni linguaggio da specialisti, ovvero ogni metalinguaggio. Questi enunciati saranno in seguito più estesamente spiegati. Ora, un breve commento di ciascuno. . Dire che “chiunque può pensare” significa escludere che il pensiero sia appannaggio di chi può rivendicare titoli di sapere o di potere, da esperto o da responsabile autorizzato. “Chiunque” qui vuol dire anche “chi non è nessuno”, chi non ha alcuna qualifica o competenza per prendere decisioni riguardo alla propria condizione. Che anche in tale condizione di soggezione si possa sempre pensare, che ciò effettivamente avvenga e che ciò costituisca un’abbondantissima fetta della realtà sociale: tutti questi mi paiono dati incontestabili di cui molte ricerche sociali ancora non tengono debito conto. . Dire che “per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui” significa escludere che la realtà sociale sia sempre da ricercarsi “dietro” ciò che
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gli altri pensano, come una causa oggettiva o forza naturale che spingerebbe dalle spalle ogni altro e che unicamente “io” ricercatore sociale sarei in grado di vedere. Ogni ricercatore sociale è sempre inevitabilmente un “io”, un soggetto cartesiano, un soggetto di scienza, come lo chiamava Jacques Lacan. Ma proprio per essere degno di questo nome non può non ammettere, come del resto faceva a suo modo George H. Mead, riconosciuto padre dell’interazionismo simbolico, che non c’è realtà sociale che non risulti dal rapporto col pensiero altrui. . Questo terzo enunciato significa ammettere che in ogni realtà sociale (come ad esempio una fabbrica o un servizio sociale) c’è sempre chi la governa (manager o funzionari, ad esempio) e chi è governato (operai od operatori sociali, ad esempio), ma significa anche che le questioni di governo non esauriscono tutto ciò che si può conoscere di tale realtà. Di più, che quest’ultima è del tutto diversa per chi non la governa e invece ne fa esperienza senza disporre di alcun potere né sapere come averne (come, appunto, operai od operatori sociali). Se per conoscere la realtà sociale da governare occorre conoscere anzitutto le necessità di chi ha potere e sapere (politici, manager o funzionari), per conoscere la realtà di chi non ha potere né sapere (che è il compito principale delle nostre ricerche), occorre anzitutto pensare il pensiero di chi (operai od operatori sociali) si rende possibile tale realtà. Tutto ciò implica, per esempio, assumere in modo assai particolare l’obiettivo sempre più spesso fatto proprio dalle scienze sociali di “fornire consigli per buone prassi di politica sociale”. Come si vedrà, anche in alcune delle nostre inchieste ci si è posto il problema di fornire tali “consigli”, ma non mettendosi dal punto di vista della governabilità della situazione in cui l’inchiesta è stata condotta; bensì cercando di far parlare il pensiero di chi è governato e lasciando a chi governa la responsabilità di trarne le proprie conseguenze. Proprio perciò, al posto dei “consigli”, che servono se rivolti a chi ha il potere di applicarli, preferiamo parlare di “prescrizioni”, che valgono per chiunque. . Proprio per poter pensare e far parlare il pensiero di altri, senza potere, né sapere, viene proposto il quarto enunciato. Rinunciare a qualsiasi linguaggio da esperto è, infatti, condizione necessaria per porsi sullo stesso piano di chiunque. Molte scienze sociali non ammettono questa possibilità. Sostengono che ogni ricercatore sociale degno di questo nome è un esperto, e quindi non può non parlare e pensare secondo un suo linguaggio diverso da quelli che incontra, specie se senza alcuna specifica qualifica. Rispetto a ciò, io non dico che il ricercatore sociale debba rimuovere il suo sapere, dico invece che può evitare di fissare questo suo sapere in definizioni, discorsi, modelli che rendono il suo linguaggio un linguaggio tecnico, da esperti, ossia un metalinguaggio: un linguaggio che traduce, decodifica quello degli altri. Il pregiudizio secondo il qua
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Q U AT T R O I P O T E S I
le ciò non sarebbe possibile si fonda sull’idea che tra il linguaggio scientifico e quello comune la differenza sia insormontabile. Il che è certamente e necessariamente vero nella maggioranza degli ambiti della conoscenza scientifica (soprattutto in tutti quelli matematizzati come ad esempio la fisica, la chimica e finanche la linguistica, l’economia politica o la sociologia fondata sulla statistica), ma può non esserlo nelle ricerche sociali di tipo etnografico riguardanti ciò che chiamiamo il pensiero altrui. Qui sta una delle maggiori singolarità del nostro metodo: che si possa far scienza, cioè che si possa raggiungere una conoscenza sistematica, infinitamente trasmissibile, ripetibile in altre esperienze di ricerca, pur mantenendosi in un linguaggio comune. Basilare a questo proposito è tenere conto di un assunto già altrimenti noto, ma che nel Novecento gli studi sul linguaggio, non ultimi quelli della grammatica generativa di Noam Chomsky, hanno quanto mai confermato: che l’infinita varietà dei linguaggi non esclude una loro omogeneità fondamentale; in altre parole, che il linguaggio per quanto sia complesso e differenziato a seconda dei suoi usi nelle diverse lingue, società ed esperienze possibili (da quelle più comuni a quelle artistiche, da quelle scientifiche a quelle politiche e così via) può sempre essere pensato come un unico linguaggio. È questa una delle considerazioni essenziali contenute in un saggio di Clifford Geertz di una trentina di anni fa; un saggio, il quale arriva alla conclusione che sia possibile un’etnografia del pensiero: del pensiero ovunque, comunque e da chiunque possa essere elaborato. Questo saggio mantiene l’idea che l’etnografia in quanto scienza debba interpretare e tradurre a suo modo pensiero e linguaggio altrui. Io mi spingo invece fino a sostenere che l’etnografo possa pensare e parlare come chiunque, restando all’interno delle diversità e delle somiglianze che chiunque ha rispetto a chiunque altro, senza per questo dovere per forza derogare al suo compito di far scienza. Per spiegare come ciò sia possibile non trovo nulla di meglio che anticipare alcuni risultati delle nostre inchieste. Essi consistono soprattutto nel far brillare di luce propria le parole dei nostri interpellati, ad esempio, operai/operaie e operatori/operatrici sociali. Ebbene cosa dicono questi soggetti? Cito giusto una frase degli operai della Marcegaglia, fabbrica metalsiderurgica ravennate in un impetuoso sviluppo, in controtendenza rispetto all’andamento della grande industria nazionale, ma tormentata da continui incidenti, al punto da provocare un’inchiesta della magistratura che ha finito per far saltare la direzione aziendale precedente all’attuale. La frase di questi operai che qui porto ad esempio è “la sicurezza siamo noi!”. È, questo, un enunciato che per me merita già di essere presentato come un enunciato di portata scientifica. Per comprendere compiutamente in che senso, basta leggere il rapporto d’inchiesta più sotto riportato. Ma per quel che ora più interessa è sufficiente anticipare alcune delle ampie e complesse implicazioni di tale enunciato. Anzitutto, dicen
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do “la sicurezza siamo noi”, gli operai della Marcegaglia dicono che l’antidoto fondamentale contro gli incidenti non sta né in una maggiore o migliore formazione, né nel puro e semplice rispetto delle norme di sicurezza, né negli interventi dell’Ispettorato del lavoro e neanche nel timore di inchieste giudiziarie. Tutti questi aspetti, che pur gli operai ritengono importanti, a loro avviso, non sono decisivi quanto loro stessi: quanto il fatto di essere loro stessi i primi depositari delle conoscenze che permettono di contenere gli incidenti. Il che, contrariamente a quanto potrebbe apparire a un primo sguardo superficiale, non è affatto scontato, né privo di inedite conseguenze pratiche e teoriche. In effetti, la situazione quale risulta dalle parole degli operai intervistati appare inviluppata in una sorta di circolo vizioso: tanto più la fabbrica si espande rapidamente e recluta mano d’opera giovane e inesperta, quanto più quest’ultima è esposta ai rischi d’incidente e quindi è indotta a lasciare rapidamente il posto di lavoro. Risultato: ininterrotte emorragie tra gli operai delle conoscenze dirette, di “prima mano” è proprio il caso di dire, dei macchinari e dei loro pericoli. Ecco quindi l’importanza e la difficoltà di far fronte a tali emorragie: l’importanza di assumere la frase “la sicurezza siamo noi” come una prescrizione a cercare dei modi di far accumulare tra gli operai tali conoscenze di “prima mano”. Come organizzare nuovi corsi di formazione o nuove modalità di affiancamento, come rendere trasmissibili e tramandabili i consigli da operaio a operaio per far fronte al pericolo di incidenti sul lavoro: questi, alcuni dei fronti della sperimentazione scientifica, etnografica, e non certo privi di effetti pragmatici e politici, aperti dall’enunciato “la sicurezza siamo noi”. Né si può certo dubitare che tali fronti siano del tutto privi del valore di universalità, di applicabilità in altri contesti, che è valore scientifico imprescindibile. Note . Chi voglia saperne di più può provare a leggere il certo non facile Anthropologie du nom, (Paris ) di questo autore e la raccolta di saggi da lui curata per il n. di Éthnographie française, Paris . Se qui di seguito non si troveranno richiami espliciti a riguardo è perché di impliciti ve ne sono tanti che la loro esposizione avrebbe tremendamente appesantito il testo. Ma anche perché, se c’è una cosa che ho imparato da questa scuola, è che ogni ricercatore deve cercare una propria via. . Riferimento decisivo da questo punto di vista è tutta l’opera di Michel Foucault, ma in un senso diametralmente opposto a quello prevalente (ad esempio anche in Hardt, Negri, Impero, Milano ; Id., Moltitudine, Milano ) che privilegia la tematica della “biopolitica”. Che questioni biologiche, politiche e anche quindi storiche e sociali possano essere trattate allo stesso modo, con un unico approccio, è infatti un presupposto tipico da pensiero unico, a una dimensione, per quanto si presenti “moltitudinario”. A proposito di Foucault, rimando al mio Potere senza corpo e corpi senza potere: ricordando Foucault, in C. Pancino (a cura di), Corpi, Padova . . Qui non tratterò di alcuna problematica che abbia al centro la psiche, ma ogni riferimento a esso sarà sempre ispirato a questo grande maestro di psicoanalisi e a quanto ne ho appreso dai suoi allievi, quali Alain Badiou (L’essere e l’evento, Meditazione , Genova ), Jean Claude Milner (Périple structural, Paris ) o Marc Silver (L’etica della psicanalisi, Milano ).
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Q U AT T R O I P O T E S I
. Si vedano le inchieste sugli operai della Bonfiglioli, della Menarini, della Cesab e della Marcegaglia qui riportate. . Cfr. l’inchiesta sugli operatori della CADIAI qui riportata. . Questo detto, “senza potere, né sapere”, che ritornerà più volte nelle prossime pagine, si riferisce a popolazioni che non hanno i titoli istituzionali o economici, ma neanche le competenze e le conoscenze, per decidere del destino altrui. Ciò non toglie che ciascun individuo di queste popolazioni possa avere un suo potere, ad esempio come capofamiglia, o un suo sapere su qualsiasi questione, tranne su quella di decidere per e di altri. Questa ipotesi può contrariare l’opinione più diffusa della democrazia. Secondo tale opinione infatti tra governati e governanti i regimi democratici frappongono dei dispositivi di rappresentanza grazie ai quali i primi partecipano delle scelte dei secondi. Il rito fondamentale attorno a cui gravita la partecipazione democratica è, come noto, l’elezione. La sua efficacia ha in ogni caso non pochi limiti: di regola non riguarda tutte le situazioni dove c’è una direzione, ovvero un governo; avviene sempre solo in determinate scadenze; la sua ragione d’essere principale, che consiste nella possibilità di revoca degli eletti dimostratisi non meritevoli del mandato ottenuto, ben di rado si impone appropriatamente; tra le possibilità di scelta che offre non rientra quella cruciale delle candidature, ma solo dei candidati; e così via. Per quanto valore si dia alla partecipazione democratica, i suoi limiti restano dunque tali da lasciare sempre aperto il divario sociale tra chi decide della sorte degli altri e chi no. . Cfr. S. Lazarus, Anthropologie, cit. e Id., L’Éthnologie, cit. . Per farsi un’idea di questo autore, cfr. la voce Linguaggio dell’Enciclopedia Einaudi, Torino . . C. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo: verso un’etnografia del pensiero moderno, in Id., Antropologia interpretativa, Bologna . . Da qui viene l’idea di ipotizzare un’“etnografia del pensiero”.
Tre domande
Pensare, parlare, scrivere come chiunque, facendo rientrare l’intento della conoscenza scientifica tra le differenze che chiunque ha rispetto a chiunque altro: questa è dunque l’ipotesi di fondo che l’etnografia del pensiero qui presentata sottopone a sperimentazione. A decidere dello stile di questo come dei successivi testi è stato dunque il pensiero di coloro ai quali ci rivolgiamo. Li si possono suddividere in quattro categorie. – Gli esperti in scienze sociali, che si deve supporre ne sappiano infinitamente più di noi. – I responsabili del governo dei luoghi dove, grazie al loro stesso aiuto, abbiamo condotto le nostre inchieste. – I soggetti che sono stati da noi interpellati come “gente senza potere e senza sapere”, per quanto da qualche parte essi ne abbiano sicuramente, che ci hanno in vario modo confermato la nostra ipotesi di poter conoscere la realtà sociale attraverso il loro pensiero. – Infine, i soggetti che sono supposti saperne meno di noi e quindi volere apprendere da noi: tutti gli interessati, studenti universitari compresi, a intraprendere ricerche sociali. Ma non si tratta, o non si tratta solo, di quattro settori di un possibile pubblico per il nostro libro (di quelli che risultano per esempio dai sondaggi d’opinione e dalle loro medie). Si tratta piuttosto dei quattro tipi di soggetti al cui centro sta per me il cuore della realtà sociale. Una realtà che, come spiegherò meglio più oltre, sta sempre all’incrocio di tre dimensioni: quella del “sapere”, acquisito e da acquisire, quella del “potere”, del potere di governo, e quella di “chi non può e non sa, ma che rende possibile il rinnovarsi del sociale stesso”. Un incrocio, che, come sempre si deve, per non creare scontri, richiede di essere sgombro da intralci, libero per i diversi attraversamenti, in questo caso, del pensiero. Per cui qui non si propone alcuna dottrina generale, alcun discorso, logica o dialettica per la composizione, la sintesi o, peggio, lo scontro di queste diverse dimensioni, ma si tratta di alcune possibilità per farle confrontare lasciando a ognuna la propria autonomia di movimento.
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A tale scopo, la prima questione che mi sono posto è come spiegare quanto si sa o si deve sapere delle scienze sociali per capire in che rapporto rispetto a esse si pongono le nostre ipotesi. In altri termini, quali sono gli antecedenti, tra sociologi, antropologi ed etnografi, che il nostro approccio può rivendicare o respingere; quali le sue prossimità, quali le sue distanze, rispetto ai metodi della ricerca sociale già acquisti; quali i debiti di conoscenza che sono qui da dichiarare, quali i crediti che sono da richiedere per nostro conto. Per esporre tutto ciò in modo stringato e accessibile a qualunque lettore di buona volontà mi sono risolto a passare in rassegna alcuni dei più noti approcci delle scienze sociali, quasi fossero dei soggetti da intervistare. Li ho dunque affrontati tramite una sorta di mini-questionario: ponendo loro tre domande con le quali chiunque si interessi al sociale, da esperto o no, prima o poi deve confrontarsi. a) Cos’è la società? b) A che scopo conoscerla? c) Come conoscerla? Con questo dispositivo a tre domande andrò a interpellare alcuni dei maggiori nomi, discorsi e passaggi che hanno punteggiato la storia delle scienze sociali. Mia precisa intenzione è contrastare l’opinione, a un tempo accademica e triviale, che queste discipline si sviluppino da loro stesse, come per partenogenesi, come se i loro pulpiti siano sempre fissi in un mondo che gira loro attorno, mentre le diverse generazioni e le diverse comunità di “scienziati sociali” vi si alternano. Al contrario, proverò a mostrare che sotto il nome di scienze sociali ne sono successe di tutti i colori, sono circolate le più disparate risposte su cos’è la società, come e perché studiarla. Il che non esime affatto dal cercare di sapere di quali e quanti colori si è trattato. Ma obbliga anche ad ammettere, proprio per rispetto alla scienza che non è se non sperimentale , che il modo migliore di apprezzarli sta nell’usarli per nuove sperimentazioni. Perciò, tutte le risposte di cui tratterò qui di seguito saranno direttamente commisurate alle nostre ipotesi di ricerca. Prima delle risposte, qualche chiarimento sul senso di questi tre interrogativi. La prima domanda (a) riguarda l’oggettività del sociale: ciò che ci si trova innanzi ogni volta che ci si pone una questione sociale. Ma è chiaro che questa domanda ha senso solo se chi se la pone si chiama fuori dal sociale. Si tratta di un punto di vista che si giustifica in nome di qualcosa che sociale non è: quindi o in nome della natura o in nome di uno spirito più o meno eterno, sia che lo si voglia intendere in senso filosofico che in senso religioso. In effetti, per quasi tutto l’Ottocento la conoscenza del sociale è stata condizionata o da filosofie della storia, come quelle di Comte, Marx o Spencer, o da scoperte delle scienze naturali, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Filosofie e scienze che definivano cosa è la società, a priori, ancora prima di studiarla dall’interno. La storia e l’evoluzione sono state così presentate come i sinonimi stessi di tut
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TRE DOMANDE
ta la realtà conoscibile: in loro nome si sono costruiti discorsi capaci di organizzare un linguaggio da specialisti, un metalinguaggio il cui senso comprendeva e spiegava tanto la natura, tanto lo spirito, quanto il sociale. Marx, ad esempio, pur rifiutando di fare il filosofo, costruisce un discorso, una dialettica che permette di trattare di leggi, tanto della storia quanto della natura. Il Novecento però mal tollererà simili metalinguaggi a portata universalistica. Ciò soprattutto in ragione delle scienze sociali che proliferano per conto loro, studiando dall’interno una varietà praticamente infinita di realtà sociali, una diversa dall’altra. La domanda su cosa è la società è quindi divenuta sempre meno rilevante (al di fuori della filosofia, che giustamente deve pretendersi eternamente alle prese con questioni ricorrenti in ogni tempo). Tant’è che oggi nessun serio ricercatore sociale se la sente di dare una sua precisa risposta alla domanda “cos’è la società?”, proprio allo stesso modo in cui nessun serio magistrato può voler rispondere a tono alla domanda “cos’è la giustizia?”. Resta che essa è del tutto pertinente per farsi un’idea di quel che le scienze sociali sono state nelle origini ottocentesche e di come sono cambiate nel corso del Novecento; e ciò soprattutto nel senso di un ridimensionamento della questione dell’oggettività del sociale. La seconda domanda (b) riguarda essenzialmente il rapporto tra la conoscenza sociale e la politica. Le risposte vengono in parte dall’esterno e in parte dall’interno delle scienze sociali. Queste sono solitamente sempre state interpellate dalle istituzioni a fornire consigli sulle “buone prassi”, come si dice oggi, da seguire nelle politiche sociali. Ma anche le stesse scienze sociali si sviluppano tramite loro scelte politiche, ad esempio, sulle priorità delle questioni sociali da studiare. Un aspetto, questo, della politica scientifica delle ricerche sociali, che è divenuto sempre più importante nel corso del Novecento, quantomeno queste stesse ricerche si sono attenute a definizioni oggettive, a priori, di origine ottocentesca, del sociale. In effetti, oggi trovo del tutto decisivo per la conoscenza sociale che i ricercatori sociali rispondano direttamente e chiaramente degli scopi del loro ricercare. In questa direzione c’è un nodo da sciogliere: quello della soggettività della ricerca sociale. Dall’Ottocento fin verso la fine del Novecento il fatto che tale ricerca non potesse prescindere dalla soggettività è sempre stato considerato un limite, una nota di demerito rispetto alle scienze naturali, il cui supposto oggettivismo faceva da modello. Più recentemente invece si è assistito a una sorta di rivalutazione della dimensione soggettiva del ricercatore sociale, che ha attenuato i confini epistemologici da sempre esistenti tra la sua attività e quelle artistico-letterarie. Di qui, ad esempio, il diffondersi di saggi antropologici o etnografici redatti con stile del tutto personale. Inalterato, o quasi, è rimasto infatti il presupposto che la soggettività non possa essere che una qualifica personale attribuibile esclusivamente a un individuo. Diversamente, è del tutto proficuo pensare che la categoria della soggettività non sia solo si
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nonimo dell’individualità personale, ma possa applicarsi a dimensioni collettive, quali, appunto, quella dei ricercatori sociali. Chiedersi quale sia la loro soggettività allora significa chiedersi quali siano i modi e le condizioni intellettuali tramite cui essi scelgono di studiare questo o quel problema sociale piuttosto che altri, come e perché alla loro ricerca diano un obiettivo piuttosto che un altro. In una parola, quali siano le possibilità soggettive da essi aperte nell’ambito della conoscenza. La terza domanda (c), infine, riguarda evidentemente il rapporto tra le risposte che vengono alle due precedenti domande. Il come studiare la società dipende infatti da cosa si è convinti che sia e dagli scopi che ci si propone nello studiarla. Se la prima domanda è una domanda sull’oggettività del sociale, la seconda sulla soggettività del ricercatore sociale, quest’ultima è una domanda sul metodo della ricerca. Fino a che, dall’Ottocento in poi, la risposta alla prima domanda è stata la più importante, le risposte metodologiche hanno sempre prescritto che la soggettività del ricercatore sociale dovesse ridursi il più possibile a semplice riflesso, a pura rappresentazione dell’oggetto della sua ricerca. Di qui l’enfasi sul tema dell’obiettività come qualità prima del ricercatore sociale: obiettività, che vuol dire una soggettività soggetta, sottomessa a una oggettività. La maggiore attenzione che la questione della soggettività del ricercatore ha riscosso nella seconda parte del Novecento ha apportato parecchie novità metodologiche. Ma non su un punto decisivo. Quello di mantenere sempre che ogni ricerca debba essere anzitutto rispondente, adeguata all’oggettività del sociale. La maggior parte delle risposte metodologiche hanno così a tutt’oggi un carattere che potremmo chiamare dialettico, in quanto mantengono al loro centro la dialettica tra la soggettività e l’oggettività: l’oggettività del sociale come termine di verifica essenziale della soggettività della ricerca. Una delle maggiori novità metodologiche qui proposte starà invece proprio nell’evitare ogni dialettica e di ripensare le questioni di oggettività sociale come questioni interne a quelle della soggettività della ricerca. Il che peraltro implica un’altra novità: una netta dissociazione tra le risposte da dare alla prima domanda e quelle da dare alla seconda. Stante infatti il tradizionale obbligo del ricercatore di riflettere la realtà oggettiva ne conseguiva anche l’obbligo di analizzare le soggettività del sociale come riflesso esse stesse di condizioni oggettive, mentre qui si proporranno due distinte problematiche, una volta all’analisi dell’oggettività, l’altra volta alla soggettività. Proprio all’interno di quest’ultima si situano le nostre ricerche. È quindi a essa che dedicherò la maggiore attenzione, la quale è anche dovuta alle notevoli difficoltà tutt’oggi esistenti ad ammetterla sia tra esperti sia tra neofiti delle scienze sociali. Tant’è che niente sembra meno plausibile di una conoscenza razionale, positiva che riguardi la soggettività sociale in quanto tale, come possibilità effettiva, reale, ma senza riscontri oggettivi. Eppure, come cercherò di mostrare, è proprio così che il pre
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TRE DOMANDE
sente di ogni realtà sociale può essere conosciuto, se se ne vuole avere una sua conoscenza effettiva, “in presa diretta”: non a posteriori, non come rappresentazione oggettiva di un presente già dato o, al contrario, a priori, come anticipazione di un qualche futuro più o meno prevedibile, ma nel suo stesso presentarsi, come si dice, “in tempo reale”, o, meglio, in contemporaneità rispetto a chi la studia. Risposte ricorrenti Veniamo ora ad alcune delle risposte più ricorrenti tra le scienze sociali. Ma prima di tutto è opportuna qualche spiegazione delle ragioni per cui qui l’origine di queste scienze viene fatta risalire a non prima della seconda metà dell’Ottocento. Molto spesso, quando si tratta della storia delle scienze sociali, le si fa risalire anche a ben prima dell’Ottocento, a Rousseau, Montesquieu, Vico, se non addirittura a Platone. La mia idea qui è invece che le questioni sociali di cui oggi si parla abbiano una qualche parentela diretta solo con quanto è accaduto in Europa dopo il Quarantotto. È questo grande sommovimento di metà Ottocento che sancisce infatti quella che è una singolarità anche della realtà sociale del nostro tempo: la polarizzazione della (già esistente, ma antecedentemente più confusa e segmentata) separazione tra le popolazioni che hanno potere e sapere e quelle che non li hanno. Spopolamento delle campagne, affollamento delle città, esplosione demografica, industrializzazione, espansione finanziaria, guerre coloniali, guerre mondiali, alfabetizzazione generalizzata, proliferazione delle università, sviluppi tecnologici, impoverimento di intere zone del pianeta e tanti altri macroscopici fenomeni dell’ultimo secolo e mezzo si può dire che abbiano a che fare con questa separazione. Ne sono dunque venuti infiniti mali, ma anche enormi perfezionamenti del potere e del sapere. E con essi alcuni indiscutibili vantaggi, come quello raggiunto negli anni Sessanta del Novecento, di riscattare l’umanità dal suo più pressante problema dal Neolitico in avanti: dover lavorare per nutrirsi. A partire da quegli anni, in alcuni dei paesi più ricchi, per raggiungere questo scopo, infatti, è più che sufficiente l’attività del % della popolazione. Ma questo risultato è restato e resta appannaggio solo di un numero esiguo di paesi, mentre nel resto del mondo il problema della fame cresce e si complica quanto mai prima. Da esso risulta evidente che la questione di fondo per le scienze sociali sta sempre nella separazione tra chi può e sa e chi no, quale si è configurata a partire dalla metà dell’Ottocento. Mio intento non è di offrire un sunto più o meno enciclopedico di queste ultime, come avviene nella maggior parte dei manuali a esse dedicati, ma di chiarire le distanze e le prossimità delle nostre scelte metodologiche rispetto a quelle già più affermate nelle scienze sociali. La varietà delle risposte che sono venute da queste ultime alle tre domande poste più sopra è ovviamente infini
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ta. Tuttavia vi si può individuare per così dire un minimo comune multiplo. Ovvero un insieme di risposte con cui ci si deve tutt’oggi confrontare se non si vogliono dare delle risposte poco o nulla credibili. Ad esempio, se alla prima domanda rispondiamo che la società è influenzata da fattori astrologici, sicuramente non troveremo molti disposti a prenderci sul serio. Che il sociale sia composto anzitutto da sagittari, pesci, gemelli e gli altri segni zodiacali non è infatti mai stata una risposta utilizzata per la ricerca sociale. Così pure la risposta secondo la quale la società sia composta anzitutto da razze, malgrado sia stata parecchio discussa tra Ottocento e Novecento, oramai, specie dopo l’uso che ne hanno fatto i nazisti contro gli ebrei, ha perduto ogni credibilità. Insomma, l’obiettività nelle scienze sociali dipende essenzialmente dalla credibilità delle questioni che si pongono e dalle risposte che si danno. Questa credibilità varia nel tempo, ma non può non essere in una qualche continuità con ciò che precedentemente è già stato creduto come obiettivo. Di qui la nostra esigenza, avanzando nuove ipotesi, di compararle con dei precedenti, senza però pretendere di esserne né semplice continuazione, né rottura completa. Le risposte alle tre domande più sopra poste possono essere raggruppate secondo diversi generi. Tra di essi distinguo quelli più tradizionali, classici, la cui origine risale tra Ottocento e Novecento, e quelli più recenti. Tra i generi più classici, ne individuo cinque che chiamo, rispettivamente: classista, evoluzionista, definitorio, idealtipico e funzionalistico. Quelli più recenti li riassumo sotto l’unica etichetta che chiamo la “svolta linguistica” nelle scienze sociali. Vediamo dunque che generi di risposte alle nostre tre domande si possono ricavare da questi diversi orientamenti delle scienze sociali. Sottoponendo loro questa sorta di mini-questionario, chiaramente si semplificheranno all’osso i risultati che potrebbero essere infinitamente più complessi. Ogni opera, ogni saggio, ogni ricerca sociale degni di questo nome meritano un’attenzione tale da rivelare un’infinità d’implicazioni ben più ricche di quelle che si possono ricavare ponendo loro delle domande rudimentali. Ponendole, non cerco altro che delle risposte paradigmatiche, utili a delineare uno sfondo di riferimenti a tinte forti, in rapporto al quale risulti più netto possibile il profilo di quelle che saranno le nostre risposte. È un po’ come rovistare alla svelta in un contenitore di attrezzi vecchi e nuovi senza badare molto alle loro fattezze e per vedere cosa non ci serve e cosa invece si può utilizzare al momento. Note . A rigore, esiste anche un altro genere di scienza, che in un paese come l’Italia ha avuto sviluppi del tutto rilevanti. Si tratta della Scientia theologica medioevale, che si è modernizzata soprattutto in occasione della Controriforma tridentina e specie tramite l’elaborazione del pensiero giuridico dell’Inquisizione. Lo scontro tra questo modo di pensare la scienza e quello spe-
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TRE DOMANDE
rimentale ha il suo momento più famoso, mai abbastanza ricordato, nel processo e nella condanna di Galileo Galilei, il cui nome è sinonimo appunto del metodo e della ricerca sperimentale. Come tra gli altri ha magistralmente dimostrato Italo Mereu in Storia dell’intolleranza in Europa (Milano ), la scienza dell’Inquisizione ha influenzato tutta la storia del diritto penale europeo. Non è esagerato riconoscere che questa influenza si sia estesa anche tra le scienze sociali e più in generale in tutte quelle chiamate storiche e umanistiche. Primo sintomo ne è la tendenza, tutt’oggi riscontrabile nei saggi che le riguardano, a ripetere le cose, le ricerche, le teorie già conosciute, anziché proporne esplicitamente di nuove; ovvero a presentare qualsiasi novità come conseguenza necessaria di tradizioni già acquisite e autorevoli. Questa visione legittimista e tradizionalista del sapere è giustificata in conformità al pensiero teologico che ritiene peccaminosa anche l’ambizione di scoprire qualcosa che non ricada sotto il Mistero Primo del Sommo Ente e quindi si discosti da quello che hanno da sempre detto i suoi ministri in terra. Ma questa visione timorata, al di fuori della cerchia dei suoi fedeli, può fare solo danni allo sviluppo delle conoscenze. L’obbligo stesso accademicamente inevitabile di dovere riportare il proprio pensiero come conseguenza del pensiero d’altri, non fa che torto ad entrambi. Un torto che è tanto più grande quanto più la rassegna dei propri antecedenti pretende di avvicinarsi all’ideale richiesto della completezza. Come se si ignorasse che l’enciclopedia di ogni sapere è infinita, quanto le possibilità del pensare, le quali, quando si tratta di conoscere l’ignoto, vanno non vincolate, ma liberate. La Chiesa qualche tempo fa ha riscattato Galileo dai torti inflittigli, l’università, specie quella italiana che si è modernizzata sotto l’Inquisizione, non è mai stata così esplicita, meno che mai nel campo delle scienze sociali. . Sull’antifilosofia di Marx mi permetto di rimandare al mio Sulle origini e la fine della rivoluzione, Bologna . . In proposito, quanto mai chiaro è A. Badiou, Il manifesto per la filosofia, Milano . . Così, ad esempio, A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna . D’altro canto, F. Crespi, in Le vie della sociologia, Bologna , pp. -: «Se prendiamo [...] il termine sociologia nel suo senso letterale più generico, come Logos riguardante il sociale, ossia come discorso sul sociale […], che sviluppa una conoscenza logica ovvero razionale del sociale, allora potremmo dire che la sociologia, anche se in forme molto diverse tra loro, è sempre esistita. Ma se consideriamo invece […] il termine sociologia nel significato specifico che gli è stato attribuito nell’Ottocento, allora tale termine indica la precisa volontà di sviluppare una conoscenza scientifica dei fenomeni sociali». Questa volontà viene qui dunque distinta nettamente dal modo tradizionale, logico e discorsivo di intendere la razionalità. Questione cruciale è decidere qual è il rapporto tra i due: di sviluppo, di essenziale continuità, di differenziazione dialettica oppure di rottura, di discontinuità, di separazione. Come si vedrà, è quest’ultimo il modo in cui si pongono le nostre ipotesi. . P.-N. Giraud, L’inégalité du monde, Paris .
Risposte classiche
. Il classismo a) Alla prima domanda, “cosa è la società?”, il classismo (di cui Marx, per sua stessa ammissione, non è l’unico, ma uno dei massimi teorici) dà una risposta in nome della Storia, della Storia con la esse maiuscola, della storia universale. Storia che è intesa come destino di tutta l’umanità, il cui presente è sempre da pensarsi come un passaggio e una lotta tra il passato e il futuro. Nel classismo, infatti, la società è composta da più classi sociali fondate su diversi interessi economici, ma la loro divisione fondamentale è tra quelle che sono arroccate sul passato e quelle che dischiudono l’avvenire. Il passato è essenzialmente la millenaria tradizione dello sfruttamento del lavoro altrui, l’avvenire invece è la possibilità di riscatto del lavoro da ogni sfruttamento. I proletari del capitalismo moderno si trovano allora in una situazione paradossale. A differenza degli schiavi e dei servi d’altri tempi, godono di libertà di diritto, tra le quali quella di vendere la propria forza lavoro come qualunque altra merce. Ma in fabbrica, dove contano esclusivamente per le loro braccia, si ritrovano a essere sfruttati come schiavi e servi. Di qui, la necessità della presa di coscienza del loro essere storico: tanto schiacciati dal peso di un passato di sfruttamento che non passa, quanto portatori di un futuro sociale senza precedenti, quel socialismo e/o comunismo dove non ci dovrebbero essere più sfruttati o sfruttatori. Oggi il classismo è superato, non esiste più, o almeno non esiste più nelle sue forme originarie. Nella sua tradizione, che oggi sopravvive anche nelle ricerche sociali oltre che tra qualche partito, sindacato e movimenti no o new global, gli obiettivi del socialismo e del comunismo sono oramai del tutto declinati. A essi si sono sostituiti quelli delle rivendicazioni e delle “conquiste democratiche” o dell’“antagonismo sociale”: le prime che sarebbero garantite dai successi elettorali delle sinistre, il secondo dalle più svariate manifestazioni di disobbedienza civile. Resta però sempre invariata, o quasi, la prospettiva storicista, di un divenire storico universale, cui non si potrebbero opporre altri se non conservatori, reazionari o quegli individualisti più o meno sovversivi o potenti, contrari all’oggettiva necessità del progresso umano.
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b) La risposta classista alla nostra seconda domanda, “a che scopo studiare la società?”, è evidentemente: per conoscere le condizioni storiche del progresso storico. Ma quale è lo scopo politico di questo scopo cognitivo? Qui possiamo distinguere due o tre tipi di classismo che si sono manifestati in modo più o meno discontinuo dalla metà dell’Ottocento in poi, a volte contaminandosi, a volte combattendosi tra loro. Uno, governativo, che si incarica di dar consigli sui conflitti sociali e le questioni del lavoro a chi governa centri di potere, quali i ministeri, i tribunali, i sindacati o i partiti. Temi privilegiati sono allora o la pianificazione o le riforme, a seconda che il partito marxista sia al governo o all’opposizione. Si tratta, in ogni caso, di progetti per riadattare le forme del potere ai cambiamenti del tempo che sono supposti sempre andare nel senso del progresso storico. Un altro, accademico, che punta ad applicarsi e confermarsi come scienza nel ristretto di ambiti universitari, contribuendo alla diffusione e alla difesa nelle università di approcci materialisti, democratici e progressisti, incentrati soprattutto sulle questioni del lavoro e dei conflitti sociali. Ma c’è anche una terza specie di classismo, che è in parte riconducibile alle prime due e che in parte se ne distingue. Si tratta della sua dimensione più militante, “di base”, che viene applicata da quadri politici, sindacali o di movimenti rivendicativi in rapporto diretto ai lavoratori o, più in generale, a gente con poco o nessun potere. La questione cruciale è qui quella della “coscienza”, del suo elevamento. In effetti, dal momento che si suppone inevitabilmente necessario il progresso storico, l’unico vero ostacolo può stare nel fatto che la classe predestinata a esserne protagonista non ne abbia “ancora” una coscienza adeguata. Di qui, l’obiettivo politico del militante classista è sempre stato l’educazione della soggettività dei proletari per elevarla fino a farla corrispondere dialetticamente alle necessità oggettive del progresso storico. E le cose non cambiano se, come oggi, al posto dei proletari si pensa stia il semplice elettore o la “moltitudine”, “antagonista” e “disobbediente”. Il problema, al fondo, resta più o meno sempre quello del marxismo ottocentesco, di vincere l’ignoranza con la scienza. Coscienza è proprio questo che vuol dire: con-scienza. Avere una coscienza democratica o antagonista significa in effetti avere dei comportamenti soggettivi, elettorali o conflittuali, conformi a ciò che una conoscenza scientifica stabilisce come oggettività necessaria. Ed è questo l’obiettivo politico principale di cui ogni militante della tradizione classista, e oggi postclassista, si è fatto propagandista tra le “masse” supposte con scarsa o nulla coscienza. Fatto sta che a fornire la conoscenza oggettiva del processo storico non possono provvedere che le altre due specie di classismo (o di postclassismo), quello governativo e/o quello accademico, in quanto sono in contatto, l’uno con la realtà del potere da trasformare, l’altro con le possibilità di ottenere conoscenze scientifiche. Al classismo (o postclassismo) militante così non resta che la
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funzione di volgarizzare la politica e/o la teoria cui aderiscono, ossia tradurle in formule didattiche accessibili anche alle masse ritenute più o meno ignoranti e inconsapevoli. Il che, a sua volta, comporta che l’educazione delle coscienze così ottenuta è sempre poco politica, poco teorica, e invece molto spesso fideistica, tutta dedita a dar una fiducia incondizionata al partito o ai sindacati o ai dirigenti dei movimenti. Resta, peraltro, che, come ogni buon educatore, anche il militante classista o postclassista, ha sempre saputo che la prima cosa da fare è cercare di partire dalle opinioni dei propri allievi, volenti o nolenti. Così, in questa tradizione si è sempre dovuto fare i conti anche con quel che “i proletari”, “gli elettori di sinistra” o “la moltitudine” pensano. Anche se l’obiettivo è stato e resta quello di elevare il grado della loro coscienza, si è dovuto e si deve ipotizzare, magari anche implicitamente, che chiunque tra di essi sia dotato di sua capacità a pensare: che chiunque abbia una propria capacità intellettuale. Ora, questo è il punto che qui più interessa e che più avvicina le nostre ricerche al classismo e al postclassismo. A essi va in effetti riconosciuto il merito non trascurabile di aver dato e mantenuto un’importanza a sé stante al problema di conoscere la soggettività, il pensiero di una popolazione senza potere né sapere, come i proletari, i semplici elettori o la moltitudine. È da qui che è venuto quel grande patrimonio che tutt’ora rappresentano per le scienze sociali le inchieste tra gli operai di fabbrica. Un patrimonio comunque già condannato all’obsolescenza se non viene ripreso in un senso del tutto diverso da quello dello stesso classismo, nonché delle diverse varianti postclassiste. Come si è accennato e come si preciserà ulteriormente, punto di demarcazione e di svolta decisiva è la distinzione tra la categoria di pensiero e la categoria di coscienza con tutte le sue implicazioni dialettiche. c) La dialettica è in effetti la risposta del classismo alla nostra terza domanda: questo è il modo in cui il classismo in tutte le sue varianti studia e conosce la società. Dialettica tra la base economica e la sovrastruttura istituzionale, politica e ideologica; dialettica tra situazione sociale locale e divenire storico globale; dialettica tra le diverse classi su cui si concentrano tutte queste determinazioni, economiche, sovrastrutturali, locali e globali; dialettica tra l’essere sociale delle classi e il grado di coscienza di ogni loro appartenente; in una sola formula, dialettica tra l’oggettivo e il soggettivo: è così che il classismo inquadra la società su cui fa ricerca. E quand’anche si dedichi a uno di questi ambiti, suppone sempre che sia in dialettica col divenire della totalità degli altri ambiti. È l’idea stessa di storia universale, di un divenire unico per tutta l’umanità, che obbliga a conoscere per via dialettica, collegando tra loro il maggior numero di ambiti
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problematici distinti. Di qui l’ambizione sempre insoddisfatta di arrivare a una conoscenza completa della società. E di qui anche la pretesa nefasta, nei paesi socialisti dove il classismo è diventato dottrina di Stato, di escludere e reprimere ogni altro modo di far ricerca sociale. Col risultato di tagliare fuori questi paesi da tutti gli svariati sviluppi novecenteschi delle scienze sociali. . L’evoluzionismo a) Al momento di far uscire il primo volume del Capitale, Marx lo voleva dedicare a Darwin, massimo teorico dell’evoluzionismo: colui cui si doveva la scoperta secondo la quale la specie umana, anziché avere origini misteriose e divine, deriva da una specie evolutivamente meno sviluppata, quella delle scimmie. La sua conclusione più nota, cui era giunto a seguito di vaste ricerche zoologiche e biologiche, è che gli organismi naturali siano destinati a passare da forme più semplici a forme più complesse e che questo passaggio avvenga tramite una selezione dovuta alla lotta di ciascun organismo per la propria sopravvivenza. In ciò Marx vedeva una teoria del tutto compatibile con la sua classista: la storia delle classi sociali, così come l’aveva concepita lui stesso, gli pareva del tutto accostabile all’evoluzione delle specie degli organismi biologici di cui parlava Darwin. Questi però rifiutò che Il capitale gli fosse dedicato: la sua idea di specie di organismi biologici non coincideva con quella di classe sociale così come la sua idea di lotta per la sopravvivenza non coincideva con quella di lotta di classe. Ciononostante, tra lo storicismo classista d’impronta marxista e l’evoluzionismo di derivazione darwiniana le contaminazioni sono state assidue. In generale, si può dire che esse si sono imposte soprattutto quando (come a cavallo tra Ottocento e Novecento, al tempo dei primi partiti socialisti, o al tempo dei partiti comunisti e socialisti nel secondo dopoguerra) il primo si è associato a una politica riformista, volta cioè a condizionare il potere di governo in favore delle questioni del lavoro. Mentre le distanze sono state maggiori ogni volta che il marxismo ha fatto venire fuori la sua anima rivoluzionaria, insurrezionalista (come al tempo della rivoluzione bolscevica del o della rivoluzione culturale maoista). In ogni caso, la differenza tra lotta tra le classi sociali e lotta per la sopravvivenza degli organismi delle specie biologiche, semplificando all’estremo, può essere chiarita così: mentre le classi si costituiscono nella lotta, gli organismi la precedono; mentre le prime non esistono che separandosi, dividendosi tra loro, i secondi esistono trasformandosi per reazione difensiva nei confronti degli altri. Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Cina un dibattito simile venne tematizzato dall’opposizione di due detti di sapore taoista: “l’uno si divide in due” contro “il due si fonde in uno”. Ove quest’ultimo veniva attribuito ai rea
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zionari, mentre il primo era rivendicato dai rivoluzionari. Una rivendicazione, questa, quanto mai radicale, che mina la stessa idea di storia universale su cui il classismo si regge. Non a caso dibattiti simili sono avvenuti nel corso di una rivoluzione che ha mandato all’aria tutto lo Stato-partito cinese di quel tempo. Si può dire che la risposta dell’evoluzionismo alla nostra prima domanda “cosa è la società?” sta nel sostenere che essa funziona e si sviluppa come un organismo vitale, seguendo fasi e leggi simili, e similmente lottando per la propria sopravvivenza. Così la biologia si è conquistata un’egemonia per lungo tempo quasi incontrastata tra i modelli ispiratori delle scienze sociali, le quali hanno assunto l’evoluzione come sinonimo del divenire della realtà sociale. A prescindere dalla stessa socio-biologia, molta parte delle scienze sociali anche nel corso del Novecento mutua i suoi modi di pensare e di dire dalla biologia. La stessa parola “cultura”, tanto abusata in queste scienze, nel suo etimo, che evoca il coltivare, ha un fondamento biologico. Così l’altrettanto spesso utilizzata distinzione tra natura e cultura altro non significa che la società è una seconda natura: un modo d’essere umano senza soluzione di continuità rispetto al modo d’essere animale. Il che dimostra la misura nella quale le scienze sociali hanno faticato e faticano per trovare un loro modo di pensare e di dire, senza prenderli in prestito da altri ambiti scientifici. Resta che è proprio sotto il segno dell’evoluzionismo che l’antropologia acquista un suo statuto scientifico. L’apertura di questo orizzonte è dovuta anzitutto a due figure maggiori che fanno le loro ricerche più importanti nella seconda parte dell’Ottocento. Si tratta di Tylor e Morgan. Essi sono tra i primi a trattare le popolazioni “primitive” o “selvagge” non più come oggetto di curiosità esotiche, ma come custodi di una semplicità originaria capace di far luce anche sui misteri delle società più evolute e complesse. Il primo, in effetti, che insegnerà a Oxford tra il e il , introduce non poche novità che segneranno il destino delle scienze sociali: la ricerca sul campo (in America centrale e sugli Anahuac del Messico), la comparazione su dati statistici (in particolare, tra vari modi “primitivi” di organizzazione familiare), nonché la teorizzazione della “cultura” come categoria chiave per l’analisi delle “sopravvivenze”, all’interno di una realtà sociale, di stadi evolutivi precedenti in quelli successivi. L’opera Alle origini della cultura, scritta da Tylor nel , viene considerata addirittura la data di inizio dell’antropologia. Morgan, dal canto suo, studiando in quegli stessi anni gli irochesi abitanti negli USA, arriva a teorizzare che tra i segni distintivi dei primi stadi dello sviluppo umano vi fossero matriarcato, allevamento in comune della prole e gestione comune della tribù. Il che gli ha attirato le simpatie di Friedrich Engels e di tutti i marxisti, i quali hanno trovato così argomenti per suffragare le loro idee sul fatto che famiglia, proprietà privata e Stato fossero solo istituzioni passeggere da superare al più presto per riorganizzare la moderna società indu
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striale in nome di originari e rinnovati principi comunisti. Ma, oltre a ciò, Morgan è da ricordare e da studiare soprattutto come importante padre fondatore dell’antropologia scientifica. La sua opera infatti rappresentò a suo tempo un’innovazione senza precedenti. La comparazione tra le nomenclature familiari di centinaia di tribù dell’America settentrionale e dell’Asia meridionale, che ne costituisce uno dei maggiori contributi, ha l’obiettivo, oggi non più difendibile, di dimostrare una preistorica migrazione tra questi due continenti. Si tratta di uno dei primi esempi d’analisi antropologica condotta non su semplici congetture, ma fondata su dati empirici e verificabili. b) L’evoluzionismo non ha prescritto alcuno scopo politico alla conoscenza del sociale. Se, come si è appena visto, anche il classismo ne ha talvolta condiviso l’impostazione di fondo, pure i paladini della libertà personale a tutti i costi non hanno stentato a riconoscere nell’individuo il primo organismo sociale e nella concorrenza di mercato la lotta per la sopravvivenza sociale. In effetti, già nella prima parte dell’Ottocento, ancor prima di Darwin, parlare di sociale implicava parlare dell’evoluzione biologica dell’umanità. Da questo punto di vista l’unica vera discriminante era tra poligenisti e monogenisti: tra chi cioè sosteneva che l’umanità avesse origini diverse, e dunque razze diverse, e chi invece, come nella seconda metà del secolo Tylor e Morgan, sosteneva un’unica origine, contrariando così ogni presupposto razzista. Da varie parti si critica l’antropologia evoluzionista di essere al servizio di quel colonialismo e di quell’imperialismo che tra Ottocento e Novecento si sono spartiti tra le rispettive zone di sfruttamento quasi tutti i paesi più poveri ed economicamente sottosviluppati. Nelle sue versioni più semplici, questo tipo di critica trascura un fatto decisivo: che tale antropologia è riuscita a dare dignità scientifica alla conoscenza di popolazioni senza potere e senza sapere, ovvero senza poteri e conoscenze paragonabili a quelli dei paesi più ricchi e potenti. Anzi, occorre riconoscere che saranno proprio le ricerche volte a rendere comparabile questa evidente incomparabilità uno dei temi cruciali dell’antropologia detta culturale, ossia evoluzionista. L’infinità di studi che sono stati dedicati, ad esempio, alla comparazione tra scienza moderna e magia o tra le forme statali del potere e le sue forme tribali (Durkheim, Mauss, Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard, tra gli esempi classici più importanti) è stata resa possibile grazie al presupposto essenzialmente evoluzionista secondo cui le società più sviluppate e quelle più arretrate sono solo diversi stadi dello stesso sviluppo. Lo scopo principale dell’evoluzionismo nelle scienze sociali si può dire sia stato la promozione di queste stesse scienze accanto alle altre: il fatto che queste tra Ottocento e Novecento fossero riconosciute e accettate dagli Stati più ricchi e potenti, e che, dunque, tanto le ricerche quanto il loro insegnamento fossero ammessi nelle università. L’emulazione della biologia per le scienze so
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ciali ha avuto quindi anche lo scopo di far guadagnare loro una legittimità pubblica pari a quella già ottenuta da altre scienze, della natura, appunto. È anche per il fatto che questa legittimità è oramai da tempo fuori discussione che l’evoluzionismo oggi risulta antiquato. c) Il metodo di studio privilegiato dai presupposti evoluzionisti è la comparazione. La comparazione tra i diversi stadi dell’evoluzione cui più società o più aspetti della stessa realtà sono assegnabili. Ma questo metodo verso la fine dell’Ottocento mostrava già i suoi limiti. A chiarirlo in modo convincente provvide quell’altro grande maestro dell’antropologia che è Franz Boas, tedesco d’origine, ma dal al figura di spicco della Columbia University di New York. Egli, infatti, nello stesso , pubblica un testo proprio col titolo I limiti del metodo comparativo in antropologia. A essere qui contestata è direttamente un’idea che in fondo reggeva anche la teoria di Tylor sulle “sopravvivenze”: l’idea che le culture primitive di popolazioni ancora esistenti potessero essere considerate sullo stesso piano delle culture preistoriche e primordiali. Per Boas è invece della massima importanza distinguere i due diversi piani problematici. Se sul secondo, quello preistorico e primordiale, possono sempre essere utili le conoscenze indirette, dedotte da materiali archeologici o da resoconti di missionari ed esploratori, sul primo, invece, che riguarda popolazioni viventi, le conoscenze più importanti sono quelle indotte dall’osservazione sul campo. Di qui, l’importanza dello studio delle lingue usate nella realtà sociale su cui si fa ricerca, tant’è che Boas ha anche il merito di avere provveduto a compilare le prime grammatiche delle lingue americane in via d’estinzione. Ma egli è anche tra i primi a prescrivere all’etnologo di provare a mettersi “dal punto di vista del nativo”, escludendo, ad esempio, che lo stesso elemento culturale riscontrato in due diverse popolazioni debba avere per forza lo stesso significato. Anche se arriverà a negare l’utilità della distinzione generale tra culture primitive e civilizzate, egli la mantiene relativamente a ogni singolo “tratto culturale”, intendendo con ciò delle “unità minime di cultura”, dei “canoni minimi dell’esistenza”, come le modalità della caccia o delle decorazioni artistiche. Tali tratti, infatti, per lui sono da ritenersi effettivamente primitivi se «miseri di aspetto e contenuto, nonché intellettualmente deboli». Se è vero che la distinzione tra primitivo e civilizzato è un principio tipicamente evoluzionista, qui risulta chiaramente che la critica di Boas all’evoluzionismo non è così frontale e completa, come molti sottolineano. In un passo quanto mai chiaro a questo proposito egli ammette l’esistenza di «leggi generali legate alla crescita culturale», aggiungendo tuttavia che «qualunque possano essere, saranno, però, in ogni singolo caso, sopraffatte da una massa di fatti casuali probabilmente molto più determinanti, negli accadimenti reali, di quanto non lo siano le leggi generali».
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Il caso, dunque, la singolarità del singolo caso, come ciò che decide dell’importanza delle determinazioni generali, obiettivamente rilevabili, in quanto riscontrabili per comparazione con altri casi. È per simili assunti e per la loro messa in pratica nella ricerca che Boas viene considerato, e non di rado criticato, caposcuola di quel “relativismo” che avrebbe portato alla disseminazione delle scienze sociali in una molteplicità di “casi di studio” mai riconducibili a un pensiero unico, e più precisamente a quella visione unitaria del divenire umano che per tutto l’Ottocento era stata imposta dall’egemonia intellettuale congiunta di evoluzionismo e storicismo classista. Questo punto interessa direttamente le nostre stesse ipotesi. Che nella realtà sociale ci sia del necessario, dell’oggettivo, ma che esso vada analizzato a partire dalla casualità delle scelte soggettive: questo, lo si è già detto e lo si ridirà, rientra a pieno titolo tra le nostre ipotesi. La loro messa in pratica può dunque sicuramente imparare dal relativismo inaugurato da Boas. Se c’è invece un aspetto in cui questo insegnamento pare datato, sta proprio nel suo evoluzionismo residuo, nel fatto di mantenersi spesso sul limite dei problemi e dei metodi evoluzionisti, senza distaccarsene del tutto. . Definire, per conoscere quale sociale? a) Per Durkheim, padre fondatore della sociologia in Francia, la società è quel che la scienza ne può definire. Già in questa disposizione della risposta alla nostra prima domanda su cos’è la società si può cogliere una relativizzazione dell’oggettività della realtà sociale. Essa non risulta più qualcosa che ci sta innanzi come una montagna o qualcos’altro di esistente del tutto al di fuori del nostro pensiero, ma risulta una realtà sotto condizione di una nostra operazione intellettuale, la quale ci fa vedere questa realtà secondo una certa ottica e ce ne fa parlare secondo un certo discorso. Il discorso della Scienza, della Scienza con la esse maiuscola, dice appunto Durkheim. Ma di quale scienza si tratta? La sociologia, ossia la sua sociologia, si vuole diretta applicazione al sociale del modello di scienza dominante nel suo tempo, quel tornante tra Ottocento e Novecento che anche in Francia è sempre segnato dall’egemonia sul sapere dell’evoluzionismo e dunque della biologia. La scienza sociologica in Francia si costituisce come un’estensione e un adattamento specifico di un modo di pensare e di conoscere mutuato dalla biologia. La specificità del campo della sociologia sta essenzialmente nel fatto di studiare tutto ciò che si impone “come una cosa” agli individui. Così, con questa semplice demarcazione, sono definiti i confini del sociale, tanto rispetto alla stessa biologia, che ha al centro della sua problematica la vita osservabile al
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l’interno di forme individuali umane, animali e vegetali, quanto rispetto alla psicologia, che studia la mente di cui ogni individuo è dotato. Definire è mettere in cornice, stabilire un dentro e un fuori. Per Durkheim, la sociologia può conoscere solo a condizione di operare preliminarmente questa selezione tra i fatti che dipendono dall’individuo e i fatti che l’individuo subisce, per dedicarsi esclusivamente a questi ultimi. Quindi, anche la sociologia può pretendere di essere scienza solo se riesce a mettere a distanza ogni “prenozione” che dipenda dal desiderio dell’individuo di darsi spiegazioni di tutto ciò che lo circonda e, dunque, anche di quello che esclusivamente una scienza ad hoc può spiegare. Ma vi è anche una conseguenza maggiore del porre che la società è esclusivamente ciò che la scienza può conoscerne. In diretta polemica contro il modo univoco di pensare e conoscere la società, tipico dello storicismo classista, Durkheim sosterrà infatti che «la società non esiste, ma esistono solo delle società». Sarebbe a dire le società o i fatti sociali che la scienza, nel suo procedere, arriva a conoscere e che quindi non può mai identificare a priori. D’altra parte, che il sociale si imponga a più individui unitariamente obbliga a riconoscere che esso abbia una sua unità, sia pur relativa e fondata su una “solidarietà” delle sue parti. Di qui la nota distinzione tra la solidarietà “meccanica”, che caratterizzerebbe le società più arcaiche, in cui le componenti (ad esempio campagne e città) coesistono l’una distinta dall’altra, e quella “organica”, che caratterizzerebbe invece le società moderne, industriali, dove ogni aspetto finisce per condizionare gli altri. Una simile sociologia, il cui insegnamento universitario sarà una conquista personale di Durkheim, avrà un seguito di allievi, a loro volta capiscuola, quali M. Mauss e M. Halbwachs, nonché degli echi di lunga e ampia durata, anche fuori della Francia e pure in discipline limitrofe, nel corso di buona parte del Novecento. Essa rappresenta sicuramente uno dei tentativi più oggettivisti di definire il sociale. La dimensione soggettiva è, infatti, completamente abolita, sia dall’oggetto sociale, sia dalla figura stessa del sociologo, al quale è prescritto di abbandonare ogni “prenozione” ottenuta in quanto individuo, fuori dalla sua missione di ricercatore. Come vedremo, pur non optando per questo genere di ricerche oggettivistiche, le nostre non le escludono, a condizione di includerle e rettificarle in un campo problematico più vasto, dove la soggettività ha un suo spazio di tutto rilievo. Che i fatti sociali abbiano una realtà, delle necessità ben definibili come oggettive e che l’individuo o gli individui vi contino poco o nulla: questi due assunti, in particolare, saranno qui ripresi, sia pur ai margini delle nostre prospettive. b) Lo scopo primo di questa sociologia definitoria è di contribuire a quello sviluppo dello spirito scientifico, che dall’illuminismo fino al positivismo di
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Comte (non per nulla uno dei primi a fare della sociologia un concetto) è una tradizione di origini tutte francesi. Come detto, Durkheim è colui che per primo realizza nel suo paese l’obiettivo di far ammettere una cattedra di sociologia nell’università. Tutto il rigore della sua dottrina sicuramente risponde all’esigenza di un riconoscimento pubblico. Questo scopo era accompagnato e sostenuto da un altro: quello di offrire allo Stato, considerato centro della razionalità sociale, un sapere adeguato ai tempi. Religione e socialismo sono i due concorrenti coi quali questa sociologia deve fare i conti. Si ricordi che siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento, in un’epoca successiva al Secondo impero di Napoleone III e alla catastrofe della Comune, in quella Terza repubblica francese, dove i cattolici sono maggioritari e il Partito socialista è uno dei più importanti della Seconda internazionale. L’idea di Durkheim è che per far fronte ai nuovi problemi sociali non bastino né gli individui, per quanto potenti e illuminati possano essere, né le chiese, né i partiti, ma neanche lo Stato stesso, in quanto tale. Per lui la soluzione può venire solo se ogni dimensione sociale produttiva si organizzi al suo interno e nei rapporti con le altre, sotto la supervisione dello Stato. Per questo crede in un avvenire delle corporazioni e che la sociologia e la corporazione dei sociologi lo possano favorire. Inoltre, egli, di famiglia rabbinica, è ateo. Crede che Dio non sia altro che l’immagine della società venuta fuori da individui tanto profani da non cogliere la realtà sociale che si cela nel sacro. Corporativista, antindividualista, antisocialista, oltre che razionalista e ateo: tanto è bastato per far passare Durkheim per autoritario, se non addirittura totalitario. Ma basta leggere il suo appassionato intervento a favore di quelli che, allora per la prima volta, vennero chiamati “gli intellettuali”, riuniti attorno al J’accuse! di Zola e contro il razzismo scatenato dall’“affaire Dreyfus”: vi si può trovare tutto quanto rende insostenibili simili critiche. Del resto, con i suoi studi, come Le forme elementari della vita religiosa, ha contribuito a strutturare l’interesse delle scienze sociali per popolazioni senza potere né sapere, in via d’estinzione e ai margini del mondo più ricco e potente. In definitiva, si può dunque dire che la sociologia di Durkheim prescrive la conoscenza di tre cose dalle evidenti implicazioni politiche: – le oggettive necessità dello Stato, al di là di quel che dicono individui più o meno potenti e illuminati, i partiti o le chiese; – il sociale, soprattutto laddove il potere dello Stato non giunge; – la religione e il socialismo come fatti sociali. Il tutto senza evitare di scendere in campo contro il razzismo nel momento in cui diviene una politica. Nessuno di questi obiettivi è affatto criticabile. Semmai, sono oggi da distinguere più in dettaglio e da disporre in uno spazio problematico diverso da quello del discorso evoluzionista che li riunisce.
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c) All’evoluzionismo sono sicuramente improntate tutte le regole che Durkheim ha tenuto a definire per il suo metodo di ricerca. Suo strumento decisivo è la comparazione di ogni fatto sociale rispetto ad altri simili, e metro di paragone è proprio l’ipotesi di un’unica evoluzione comprendente uno spettro infinitamente precisabile di diversi stadi di sviluppo, di complessità crescente. L’obiettivo è giungere a definire un “tipo medio” di fatti sociali per ogni gradazione dello spettro evolutivo. Sulla base di questo tipo medio si giunge a distinguere tra la “normalità” e la “patologia” sociale, altra distinzione decisiva per le regole del metodo di Durkheim. Così, di fatti come criminalità e suicidio, che gli individui sono portati a considerare comunque patologici, la sociologia stabilisce l’assoluta normalità, in determinate condizioni di sviluppo, spingendosi addirittura a vedere, nel caso dell’eccessivo abbassarsi del loro tasso rispetto alla media, l’indice di un altro problema sociale da scoprire. Anche se i dati che lo comprovano appaiono oggi poco credibili, il suo studio Il suicidio ha definitivamente sancito l’uso sistematico delle statistiche da parte della sociologia. Tali metodi sono in effetti una necessaria conseguenza dell’obbligo di definire un fatto sociale differenziandolo rispetto a ciò che dipende dagli individui o dalla natura. Tutt’altre sono le ipotesi metodologiche delle nostre ricerche. Esse evitano il più possibile ogni forma di definizione. Anziché stabilire cosa è e cosa non è una realtà sociale, per poterla in seguito indagare, le nostre ricerche puntano fin dal loro inizio a entrare dentro la stessa dinamica soggettiva della realtà sociale, e proprio per questo l’affrontano evitando di darne alcuna definizione preliminare. Il che non significa respingere del tutto il metodo di Durkheim, ma accoglierlo e ripensarlo in un campo più vasto di possibilità metodologiche, non più sottomesso all’egemonia del modello biologico evoluzionista. Oggi, infatti, le scienze sociali si sono sviluppate al punto che non occorre riferirsi ad altre scienze. E ciò che meglio caratterizza la loro singolarità è il loro essersi sviluppate in rapporto diretto con le popolazioni su cui è stata condotta una molteplicità infinita di ricerche. Da questo punto di vista, ogni definizione preliminare che ponga il ricercatore in una posizione di esteriorità o peggio di superiorità è poco proficua. Per entrare nel merito dei problemi della gente, quando di gente qualunque, di puro sociale si tratta, è sempre consigliabile adottare delle ipotesi abbastanza ampie e sfumate da potere in seguito essere rettificate dall’andamento stesso della ricerca, quando l’effettiva realtà sociale comincia a essere conosciuta. Diversa questione si pone qualora a essere interpellata non è gente qualunque, non è il sociale in quanto tale, ma una realtà sociale quale risulta a chi ha potere e/o competenze in grado di governarla. Qui, partire dal loro sapere è inevitabile. La ricerca è innanzitutto ricerca sulle conoscenze utilizzate per governare quella determinata realtà sociale. Il primo obiettivo dovrà essere definire il più scientificamente possibile le oggettive necessità di
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tale governo. La comparazione con altri casi più o meno simili e la messa a distanza delle prenozioni utilizzate dagli individui preposti a governare, insomma tutte le regole di metodo consigliate da Durkheim, si rivelano dunque ancora assai preziose. Il tutto, eventualmente, per arrivare alla conclusione o che chi governa il sociale non ne sa abbastanza o che nelle sue decisioni non utilizza le conoscenze disponibili. Conclusioni cui lo stesso Durkheim a suo tempo era giunto. . L’ideale dei tipi ideali a) Weber è il massimo teorico di quella che chiamo sociologia idealtipica. Tra lui e il suo contemporaneo Durkheim sembra svolgersi, sia pur a distanza, ché mai si conobbero, una vera e propria battaglia. Al pari di quelle che si svolsero realmente tra Germania e Francia nel corso della Prima guerra mondiale e che videro entrambi i sociologi decisamente schierati a favore del proprio paese contro l’altro. Ma la battaglia di cui qui parlo è a colpi di categorie del discorso. Di quei discorsi con i quali entrambi fecero prendere il volo alla sociologia tra le alte sfere universitarie dei rispettivi Stati. Ove Durkheim esclude l’individuo e il soggetto da ciò che costituisce il fatto sociale da definirsi in nome di una scienza del tutto oggettiva e apparentata con quella biologica, Weber fa invece mosse praticamente opposte: a interessarlo sono anzitutto le azioni degli individui che si raggruppano e di cui egli punta a interpretare le intenzioni soggettive in base al senso che essi stessi condividono. Di più: se per il primo da definire è anzitutto il tipo medio dei fatti sociali, per il secondo ogni azione sociale va interpretata a partire da un tipo ideale. L’alternativa sembra davvero secca, eppure è simmetrica: il sociale come fatto compiuto, oggettivo, oppure come azione in corso, soggettiva? Che si impone necessariamente sugli individui oppure che è reso possibile da gruppi di individui? Che va definito nel suo tipo medio oppure interpretato a partire da un tipo ideale? Talcott Parsons, di cui si dirà in seguito, più o meno mezzo secolo dopo, negli USA, ha costruito un sistema di risposte per soddisfare entrambi questi due generi di domande. Così è come se si fosse provato a far pace tra i due orientamenti, quello durkheimiano e quello weberiano, tra loro incompatibili. Non è questa la via qui perseguita. Sostengo invece che le scienze sociali hanno una duplicità problematica irriducibile a qualsiasi discorso univoco, a qualsiasi dialettica. Ciò, come già detto, per il semplice fatto che la società ha sempre una doppia realtà, le cui parti sono contigue, si toccano, stridono tra loro, ma non comunicano o quantomeno non lo fanno in modo normale, naturalmente. Che due padri fondatori delle scienze sociali come Durkheim e Weber siano così l’un contro l’altro armati, pur quasi senza saperlo, questo per me è un sintomo vago ma significativo di tale duplicità sociale irriducibile. Ma
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di essa tratterò più oltre, ora vanno menzionate le differenze dei contesti storici nazionali di questi padri fondatori della sociologia. Tra Ottocento e Novecento, in effetti, la Germania intellettuale segue delle vie quasi eguali e contrarie a quelle francesi. Vi primeggia un ritorno a Kant, a vario titolo proposto da filosofi quali Dilthey e Windelband, il quale, in particolare, prescrive di tenere ben distinte scienze della natura e scienze dello spirito, altrimenti dette scienze “nomotetiche” e “ideografiche”, queste ultime comprendenti anche discipline come la storiografia e la sociologia. All’interno di queste ultime primeggia la categoria dell’individualità, in più o meno larvata polemica col materialismo storico. Se l’individuo torna infatti a essere considerato il vero protagonista della società, invece delle classi, nella storia viene rivalutata l’importanza dell’evento unico, rispetto alle grandi tendenze oggettive. Weber, in origine brillante economista, poi convertitosi alle scienze sociali, condivide queste scelte problematiche. Il sociologo per lui non ha alcun pulpito scientifico che lo pone al di sopra degli altri individui, non può non interpretare come chiunque, e come chiunque non può sottrarsi ai rischi dell’arbitrio che tutti corrono interpretando. La sua sociologia sarà dunque “interpretante”. Essa si guarda bene dal provare a spiegare la società in base a cause del tutto oggettive (come in Durkheim), né completamente determinanti (come nel classismo o nell’evoluzionismo), ma non per questo rinuncia a comprendere le cause dell’agire sociale. Alla domanda “cos’è la società?” qui si risponde con un’altra domanda su cosa v’è di razionale, di razionalmente interpretabile nella società, considerata di per sé ben poco razionale e ben poco conoscibile. Poiché al servizio dello Stato, e come ogni altro intellettuale di professione, il sociologo non deve farsi condizionare da qualche gruppo sociale particolare o partito politico: deve puntare a svuotare la propria interpretazione da ogni valore, per renderla la più avalutativa, la più obiettiva possibile. Per questo non deve rinunciare a trovare le cause dell’agire sociale, ma non deve pretendere di trovarne di più di quelle sufficienti a comprendere il senso di questo agire di per sé sempre anche insensato. Dal momento che per Weber la realtà sociale resta sempre in parte insensata, inconoscibile, la sua domanda cruciale è come se ne possa conoscere o meglio riconoscere (qui sta un punto decisivo, come vedremo) il senso razionale, separandolo dall’irrazionalità. I tipi ideali non sono allora che diverse ipotesi per distinguere questa razionalità e interpretarla a seconda dei concreti casi sociali da studiare. L’esempio più noto di questa impostazione è L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Tale “etica” come tale “spirito”, infatti, anche se quest’opera non lo dichiara espressamente, sono da intendersi come due tipi ideali. Weber, infatti, esaminando le diverse versioni della religione protestante (luteranesimo, calvinismo, pietismo, metodismo, sette battiste, mennoniti, quaccheri) arriva a selezionarne i caratteri etici che per lui hanno più “affinità elettive” con i caratteri “spirituali” del capitalismo, anch’essi ricavati selezionando tra diversi modi
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d’intendere il capitalismo e soprattutto in opposizione alla visione tutta materialista dell’economia. L’obiettivo è dimostrare che questa corrispondenza tra due tipi ideali riesce a dare una spiegazione razionale di alcuni aspetti quanto mai complessi della realtà storica e sociale: ad esempio, il fatto che il capitalismo si sia sviluppato di più in paesi protestanti che in paesi cattolici. La polemica col determinismo economico propugnato dal marxismo in auge in questa Germania inizio secolo è frontale. Contrariamente a questa visione classista, secondo cui tutta la storia delle società moderne sarebbe da spiegare in base alle necessità del capitalismo e alla sua forza distruttrice di ogni fede, se non nel denaro, Weber propone tutta un’altra visione sociale e storica, scandita dagli incontri resi possibili da diversi tipi di soggettività: il capitalista e il protestante più convinti, lungi dal combattersi l’un l’altro, appaiono in sinergia. Gli ideali della razionalità economica e della religiosità puritana in questa visione hanno così la meglio sulle semplici necessità materiali, tra cui i socialisti vedevano sorgere l’avvenire del riscatto proletario. La distinzione maggiore tra i diversi “tipi ideali” qui avviene dunque tra la razionalità rispetto allo scopo (ad esempio, quella tutto calcolo e orientata unicamente a far profitto per il profitto, perseguita dal capitalista) e la razionalità rispetto al valore (ad esempio, quella etica orientata da valori eterni e ultraterreni come quelli religiosi). Il tipo ideale di questo ideale di razionalità è dato dalla prima, dalla razionalità rispetto allo scopo. Quella “rispetto al valore” ne è una variabile derivata, come pure quella ulteriore, “nel rispetto della tradizione”, ne è una variabile degradata. L’ideale di razionalità per Weber sta dunque in un’azione i cui mezzi sono adeguati ai fini. Il che significa che non ci siano contraddizioni nella sua logica. La figura empirica che incarna questa logica è chiaramente l’imprenditore capitalista, il suo tipico modo di fare calcoli e di agire in rapporto a delle previsioni e alle sue realizzazioni. Il comportamento che qui fa da modello è infatti il soggetto in grado di calcolare preventivamente il profitto che può ricavare dai suoi investimenti e che eventualmente li cambia se la previsione non si realizza. Prima conclusione: Weber non ha mai dimenticato i suoi studi da economista, ma anzi li ha sempre rinnovati, ergendo quello che per lui è il tipo ideale della razionalità capitalistica a ideale di tutti gli altri tipi ideali. Ma ad attenersi a questa conclusione si arriverebbe a dedurne che la sociologia idealtipica è una sociologia da capitalisti. Così non si farebbe che confermare le critiche che sono venute da tutti i suoi commentatori classisti, più o meno ispirati dal marxismo. Trovo invece ci sia anche un’altra conclusione da trarne. Lo faccio trattando il prossimo punto. b) In modo seccamente empiristico, Weber sostiene che ogni disciplina scientifica in generale tende all’evidenza. Viene da chiedersi come in tal modo sia concepibile anche la più clamorosa delle scoperte scientifiche, quale quella co
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pernicana che ha contraddetto l’evidenza della piattezza della terra per affermare invece la sua rotondità, in tempi in cui era letteralmente inimmaginabile. L’evidenza non è altro che una delle categorie utilizzate, e non sempre, dalle scienze. Così pure il senso comune, che sull’evidenza si basa, rientra certo tra i temi che le scienze sociali devono studiare (Geertz, ad esempio, dedica analisi del tutto interessanti al suo variare in diverse realtà sociali) ma non è l’unico, né tantomeno il decisivo. Lo stesso può dirsi in logica del principio di non contraddizione cui si rifà Weber per fondare il suo ideale di razionalità sulla non contraddizione tra mezzi e fini. Fin da Platone, che non per nulla fondava la sua filosofia sul concetto di Idee al plurale, la logica non è mai stata pensata a senso unico come unica e obbligatoriamente non contraddittoria. Del resto, come ha dimostrato il grande filosofo tedesco Heidegger, anche nella formula più canonica del principio di non contraddizione, A=A, risalente ad Aristotele, il fatto stesso che il simbolo A debba essere ripetuto evoca una contraddittorietà irriducibile tra il primo e il secondo A. Quel che diceva Durkheim della società, che non esiste, perché al posto suo esistono solo delle società, può dirsi parimenti della logica, e dunque della razionalità, specie quella che si cerca nella realtà sociale: che non esiste, perché al posto suo esistono più logiche, ossia più razionalità tra loro essenzialmente diverse. Ma anche da un punto di vista strettamente empirico, basato su ricerche sociali (ad esempio le nostre), è del tutto evidente che esistono delle azioni sociali per le quali il senso comune non vale, né hanno alcuna razionalità rispetto allo scopo, al valore o alla tradizione, senza per questo dovere essere considerate irrazionali. Si tratta, ad esempio, di quel che accade in luoghi dove il lavoro dal punto di vista del senso comune è impossibile e i lavoratori per renderlo possibile non hanno altra risorsa che il loro pensiero; pensiero, che ha una sua propria razionalità irriducibile a qualsiasi scopo, valore, tradizione. In definitiva, il primato che Weber assegna all’evidenza di una logica non contraddittoria è giustificato dall’intenzione dello stesso Weber di fare del senso comune la matrice ideale della razionalità in campo sociale. L’intento polemico è chiaramente verso quei gruppi sociali le cui intenzioni non rispettano il senso comune. Mentre a essere favoriti sono i gruppi sociali che lo rispettano, quali che siano i loro scopi, i valori e le tradizioni. Se dunque l’ideale è quello puramente calcolatore della razionalità capitalista, esso, secondo Weber, può far da ideale anche per altri gruppi sociali, quali quelli di tipo religioso e agrario, nonché la stessa burocrazia statale. Conclusione: non che la sociologia idealtipica sia semplicemente al servizio del capitalismo, essa sostiene piuttosto una razionalizzazione di tutti i gruppi sociali per accrescere il potere di chi già ne ha. Per spiegare questa conclusione, consideriamo la definizione che dà Weber del fondamento del potere, l’obbedienza: ha potere chi ottiene obbedienza da altri. Anche qui, coerentemente, è questione di rapporti soggettivi tra indivi
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dui e di non contraddizione: obbedire significa non contraddire. Per avere potere, dice Weber, non basta far subire il proprio potere a un altro che vi soggiace passivamente, occorre che questi risponda attivamente al comando. Ma perché ciò avvenga occorre che l’obbedienza sia fondata sulla condivisione del senso del comando. Qui di nuovo la questione del senso comune, tra chi comanda e chi obbedisce. Questione che viene posta in termini di legittimazione, dei diversi tipi di legittimazione (razionale, tradizionale, carismatico) di cui il potere può godere. Ma l’essenziale resta che il potere sia fondato sul consenso, e ciò fino al punto di riscuotere obbedienza. Ecco, dunque, di che si pone al servizio la sociologia idealtipica: di un potere e di una razionalizzazione sociale così concepiti, che si misura sul consenso, ma si impone con comandi che richiedono obbedienza. Ciò evidentemente per escludere realtà sociali senza potere, senza comandi e/o obbedienza, e per questo stesso motivo ritenuti irrazionali. A parte ogni altra considerazione sull’intensa attività scientifica, politologica e politica di Weber, qui importa ricordare la sua convinzione che uno Stato come quello tedesco del suo tempo non potesse non essere una potenza imperialistica. Convinzione, questa, che lo ha portato anche a sostenere fino in fondo lo scatenamento di quella Prima guerra mondiale tramite la quale la Germania ha tentato per la prima volta di succedere alla declinante egemonia mondiale inglese. c) Che nel potere la cosa più interessante da analizzare sia come si legittimi, come trovi consenso e obbedienza: questa indicazione di metodo proposta da Weber ha riscosso un successo straordinario tra le scienze sociali. Tutt’oggi sono infiniti gli studi orientati in questo senso. Si può anche notare come un movimento alternativo tra i più noti abbia scelto di chiamarsi dei “disobbedienti”, formula in cui risuona un’eco sia pur invertita del metodo weberiano. Sono possibili, però, altri modi di porsi rispetto a questo metodo. Anche se non è la problematica del potere e del governo a essere al centro delle nostre ipotesi, esse la contemplano ai confini dei loro campi di ricerca. È da questa angolatura che propongo qualche considerazione su ciò che trovo più criticabile in Weber, per poi invece sottolineare cosa c’è sempre da imparare. Criticabile è, anzitutto, che il suo ideale di razionalità sociale (come razionalità del potere) si voglia unico e senza contraddizioni, come unico e senza contraddizioni si vuole il senso comune su cui si fonda la logica di questa razionalità. Così infatti si condanna all’irrazionalità ogni realtà sociale senza potere e fuori dal senso comune. Criticabile è, in secondo luogo, il fatto di considerare il potere unicamente in base al tipo di legittimità fondata sul consenso di cui può godere. Così infatti si fa del potere una questione puramente soggettiva, di comando e obbedienza, senza considerare le sue condizioni oggettive: ossia le condizioni che rendono possibile qualsiasi potere, come la ricchezza o le posizioni istituziona
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li privilegiate, e che esistono indipendentemente da consenso, comandi e obbedienza. D’altra parte, essere governato significa subire un potere, ma ciò non significa necessariamente obbedire, né l’unica alternativa è disobbedire. Anzi, ciò che è più interessante per le ricerche sociali sulle attività esecutive, governate da altri, è proprio analizzare come esse si rendono possibili da loro stesse, applicando a loro modo i comandi ricevuti, sottraendosi a essi o anche trovando soluzioni impreviste. Tutte eventualità, queste, che sono del tutto ammissibili, una volta ammesso che il potere su una qualsiasi attività non esaurisce la molteplicità di possibilità connesse a tale attività. Criticabile è infine il fatto che, a considerare solo come un potere si legittima, si trascura la cosa che più conta quando si studia il potere: il sapere su cui si basa il suo esercizio. Se si vogliono analizzare le decisioni di chi ha potere sugli altri, infatti, non c’è altro modo di valutarle se non chiedendosi in base a quali conoscenze delle condizioni oggettive tali decisioni sono prese. Ciò non viene considerato, se a interessare è solo come un potere riesce a condizionare la soggettività su cui si esercita. Per dirlo più seccamente: la storia è piena di esempi di governi del tutto legittimati, che godono del massimo di obbedienza e di consensi, e che ciononostante prendono decisioni rovinose. D’altra parte, il metodo della sociologia idealtipica di Weber ha ancora da insegnarci almeno quattro cose, le quali, tra l’altro, vanno in tutt’altra direzione rispetto agli insegnamenti di Durkheim: – che la soggettività conta nel sociale, che anzi ne può essere una dimensione decisiva e che non è dunque da intendersi semplicemente come una figura di assoggettamento a sovrastanti determinazioni storiche e collettive; – che per soggetto sociale non si debba intendere necessariamente o l’individuo o al contrario le classi: diversamente dall’interpretazione tutta individualistica di Weber trovo che il suo concetto di “gruppo” contempli che la soggettività sociale, a seconda dei diversi casi, a volte possa concentrarsi in un individuo, a volte risulti come effetto di più individui che come tali perdono ogni rilevanza; – che per studiare la soggettività non si deve guardare dietro di essa, nell’intento di scoprire da quali cause oggettive sia necessariamente determinata, ma si deve osservare dentro di essa, dentro le sue stesse intenzioni e ciò che queste intenzioni rendono possibile; – che il ricercatore sociale, in quanto egli stesso interprete della società come chiunque altro, non ha da supporre alcuna superiorità sui soggetti che la sua ricerca interpella. Quattro cose preziose, queste, perché rischiarano la strada alle ricerche sociali sulla problematica delle possibilità soggettive irriducibili a qualsiasi necessità oggettiva. Ma quattro cose che, per brillare in tal modo, hanno bisogno di essere scrostate. In effetti, Weber le presenta sempre avvolte da una ganga dialettica che
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le offusca. La soggettività nel suo discorso è infatti sempre una soggettività assoggettata al senso comune, il quale è categoria in fin dei conti oggettiva, in quanto risulta dalla media al ribasso di più soggettività. Inoltre, questa media non è neanche, come in Durkheim, il semplice risultato di una comparazione, ma è selezionata alla luce di un tipo ideale, il cui ideale è, come già criticato, il dogma della non contraddizione, dell’identità senza resti. Cosicché in Weber, alla fin fine, di vera soggettività sociale ce ne è solo una, quella della razionalità avente a ideale la non contraddizione. Per aprire invece la problematica della soggettività sociale in tutta la sua infinita vastità, mai riducibile a una tipologia, tantomeno se fondata su un unico ideale, le nostre ricerche considerano ogni soggettività sociale nella sua singolarità contigua con altre soggettività: singolarità e contiguità che possono essere studiate solo se al loro centro si pone non il senso comune, ma il pensiero, in quanto attività intellettuale che rende possibili realtà sociali altrimenti impossibili. Di qui anche il fatto che tra il ricercatore sociale e i soggetti da lui interpellati il punto di incontro non è da vedersi garantito dal fatto che entrambi ricorrono all’interpretazione, all’interpretazione dello stesso senso comune, ma è sempre da cercare e da trovare come faccia a faccia tra due pensieri diversi, l’uno volto a conoscere quella realtà sociale di cui l’altro fa esperienza diretta. . Il funzionalismo e i suoi paradossi a) Quello funzionalista è un approccio delle scienze sociali tipicamente anglosassone, che ha trionfato a partire dal primo Novecento tra Oxford e Cambridge, ma che è anche salito in cattedra in ogni continente, diffondendo insegnamenti e schiere di seguaci a Chicago, Sydney, Capetown, Il Cairo e in numerose altre importanti università. Una folla pressoché infinita di ricerche e ricercatori, tant’è che in area anglosassone è quasi impossibile tutt’oggi concepire le scienze sociali in un modo che da vicino o da lontano non si apparenti con la tradizione funzionalista. D’altra parte, poiché tra le scienze sociali quelle di lingua inglese dominano quanto mai la scena mondiale, è decisivo mettere bene a fuoco quale è la risposta di questa tradizione alla domanda su cos’è la società. La sua risposta influenza ancora tutte le possibili risposte a questa domanda. Nell’impostazione originaria di Malinowski, che è uno dei padri fondatori del funzionalismo, ci si astiene dal chiedersi cosa è la società in generale e si prende invece atto che la complessità di quest’ultima è tale da comportare dimensioni “imponderabili”. Ciò ammesso, non resta dunque che procedere per induzione, tramite l’osservazione diretta del ricercatore che deve partecipare il più possibile alla realtà delle popolazioni indagate. “Lasciare che i fatti parlino da soli” e “afferrare il punto di vista dell’indigeno” diventano così un unico obiettivo.
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L’esserci, sul campo di ricerca, l’andare e addirittura l’abitare tra la gente che ci vive, cose di cui lo stesso Malinowski è stato pioniere e maestro, sono divenuti così dei veri e propri strumenti essenziali per la sperimentazione delle scienze sociali, quasi come il cannocchiale per la fisica galileiana o la provetta nella ricerca chimica. La domanda decisiva qui, dunque, non riguarda cosa sia la società, ma come una società funziona: dove e come si possono individuare dei rapporti tra mezzi e fini decisivi per le popolazioni indagate. Laddove mezzi e fini sono tra loro in un rapporto funzionale, il funzionalismo riconosce un’istituzione: un’istituzione sociale, da intendersi come “sistema organizzato di attività intenzionali”. Si noti la parola “sistema”, per cui al centro dell’interesse non è posta la funzione in quanto tale, ma i rapporti sistematici tra più funzioni. Sono questi quindi al cuore della problematica funzionalista, la quale è dunque, alla fin fine, una problematica istituzionalista del sociale. Ciò significa, dal nostro punto di vista, che essa ha sempre da insegnare qualcosa quando si tratta di analizzare il sociale dall’ottica delle popolazioni che hanno i mezzi, il potere e il sapere, e dunque anche le istituzioni utili a perseguire i propri fini, e di condizionare così il resto della società. Ma è fuori tema quando si tratta di analizzare delle realtà sociali costituite da popolazioni prive di mezzi, senza il potere e il sapere necessari per decidere istituzionalmente delle proprie funzioni sociali. Il limite maggiore del funzionalismo sta proprio nel fatto di non ammettere i limiti alla propria problematica, di relegare nell’“imponderabile” la realtà sociale che non possa essere studiata in termini funzionali, di rapporto istituito tra fini e mezzi. Tutta l’opera di Malinowski è segnata da questa unilateralità problematica che pur egli si sforza di aprire a nuovi orizzonti di ricerca. I suoi diari, scritti durante i soggiorni di ricerca tra le popolazioni delle isole Trobriand, pubblicati postumi, a parte ogni risvolto scandalistico, mostrano in modo del tutto significativo le contraddizioni e i tormenti di questo pioniere tanto della ricerca sul campo, quanto del funzionalismo. La dimostrazione che popolazioni ritenute selvagge abbiano istituzioni funzionali non è infatti un’operazione così evidente come egli cerca di far intendere. Essa ha due obiettivi almeno in parte contraddittori: da un lato, accogliere i costumi trobriandesi a un livello comparabile a quello civilizzato, ma, dall’altro, mantenere delle categorie d’analisi del tutto estranee a questi stessi costumi. Insomma, un riconoscimento che è al tempo stesso un disconoscimento dal quale la cosa più evidente che esce è la promozione del funzionalismo a codice di lettura universale, a pensiero unico per conoscere ogni realtà sociale. A tale scopo le funzioni sociali sono considerate delle risposte istituzionalizzate in rapporto a bisogni naturali. Così si teorizza che l’uso dei mezzi per perseguire i fini sociali, anziché dipendere dalle decisioni soggettive delle popolazioni che hanno potere su tali mezzi, dipenda direttamente e completa
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mente da necessità oggettive, esterne agli stessi rapporti sociali. Ogni distinzione tra l’“alto” e il “basso” del sociale, tra chi può e sa far funzionare una società e chi non può e non sa, diventa superflua e ogni manifestazione di soggettività sociale viene ricondotta a pura funzione dell’oggettività naturale. Il che significa vedere e pensare la società come una “seconda natura”, per capire la quale basta applicare con qualche rettifica le categorie valide per la prima. La biologia e l’evoluzionismo, quindi, di nuovo, come verità ultime del sociale. Un altro grande ricercatore e maestro di questa scuola di pensiero, Radcliffe-Brown, arriva in effetti a sostenere con ostinazione la possibilità di un’“unica scienza naturale della società”. Essendo uno dei più attivi propagandisti nel mondo dell’antropologia secondo il verbo funzionalista, accentuandone il carattere naturalistico cercava di mantenere un senso unitario alle svariate ricerche da lui promosse in Africa, Australia, Stati Uniti ed Europa. A tale scopo, secondo lui si sarebbe dovuto «arrivare a una comparazione sistematica di un numero sufficiente di società di tipo sufficientemente diverso». È la tesi sostenuta in un ciclo di conferenze tenute a Chicago nel da questo grande ricercatore che, suo malgrado, venne riconosciuto come padre dello struttural-funzionalismo. Il che non impedisce che in Inghilterra il suo insegnamento abbia uno sviluppo del tutto divergente, grazie all’opera originale di un suo allievo eterodosso, Evans-Pritchard. Questi, assumendo in modo quanto mai rigoroso l’imperativo dell’induzione basata sull’osservazione diretta e su un preciso vaglio critico degli elementi di ricerca, contesta l’inevitabile approssimazione di ogni comparazione fondata su presupposti naturalistici tra realtà sociali diverse, contribuendo così a orientare il funzionalismo su quel relativismo delle scienze sociali di cui, come si è visto, Boas fu precursore. b) Il paradosso del funzionalismo, già notato nell’opera di Malinowski, è che, nonostante la sua visione istituzionalista del sociale, ha ottenuto i suoi maggiori titoli di merito grazie a ricerche di tipo etnografico condotte tra popolazioni sperdute, in via d’estinzione, o, come vedremo tra poco, socialmente emarginate. Ma si tratta di un paradosso che è spiegabile se si coglie un inequivocabile tratto comune delle ricerche funzionaliste. Si tratta della tradizione giuridica anglosassone del diritto consuetudinario. Una tradizione che non ha mai rotto i ponti coi principi della famosa Magna Charta dei primi del XIII secolo. In un tempo cioè in cui era possibile che degli individui, quali i padri fondatori di tale testo, avessero proprietà tali, specie terriere, che, una volta accordatisi tra loro, potevano decidere in tutto e per tutto del loro destino sociale. Da qui viene il mito tipicamente anglosassone di una società di individui “liberi tra pari”, capace di autoregolarsi. Autoregolazione, che per l’essenziale si realizza nel non ammettere alcuna sopraffazione, né interna, da parte di un individuo sugli altri, né esterna, da parte di ogni potere
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superiore, astratto e impersonale. Va da sé allora che in questa ottica appaiano quanto mai sospetti tutti quei poteri che vengono da istituzioni anonime e completamente collettive come le leggi scritte e gli apparati amministrativi. Quelle leggi scritte e quegli apparati amministrativi che invece hanno primeggiato a diverso modo nelle altre due tradizioni giuridiche prevalenti in Europa, quella francese e quella tedesca. Diversamente da queste ultime, dai destini assai contrastati e controversi, la fedeltà alla Magna Charta, che nella sua patria d’origine si è mantenuta anche in tempi moderni, ha dunque favorito delle continuità con un passato medioevale altrove impensabili. Ad esempio, un parlamento con una Camera dei Lords che rivendica a chiare lettere le sue origini nobiliari o il perpetuarsi di un potere giudiziario formato dalla corporazione di giudici, custodi e arbitri di consuetudini anche non scritte, le quali formano il diritto detto appunto consuetudinario. Il mito di una società ristretta di individui che hanno il potere di autoregolarsi naturalmente ha così trovato ogni sorta di conferme nella storia inglese. Tra di esse, non da ultimo, va ricordato anche il fatto che la patria dell’immenso Impero britannico nel corso del Settecento è diventata pure la culla del mercato capitalista. Un mercato che, per definizione, deve essere il più libero possibile da ogni ingerenza pubblica, legale e statale per potersi autoregolare. Per relativizzare la pretesa di chiara incontestabilità che spesso vanta questa tradizione, basta rimarcarne semplicemente l’origine evidentemente aristocratica. La società di liberi tra pari che si autoregola è, infatti, un mito medioevale che gli anglosassoni traggono dalla concezione giuridica vigente nella Roma antica. Se in quest’ultimo caso a essere esclusa dalla società di diritto era la moltitudine infinita degli schiavi, nel Medioevo, come si apprende sui banchi di scuola, lo erano i servi detti “della gleba”, nonché i poveri, anch’essi in maggioranza assoluta nella popolazione del tempo. Del resto, quanto all’argomento secondo il quale il libero mercato capitalista darebbe l’opportunità a chiunque di diventare libero tra pari, esso comunque lascia insoluto il problema della stragrande maggioranza di chi non solo non ce la fa, ma neanche ha il potere di provarci. Dal punto di vista dell’esclusione sociale, possono allora apparire sotto una nuova luce anche quei poteri superiori, astratti e impersonali, quali leggi scritte e apparati amministrativi, tanto poco graditi alla prospettiva giuridica anglosassone più tradizionale. Senza negare l’infinità di problemi e di mali comportati da tali poteri (che peraltro si sono necessariamente imposti anche in tutti i paesi di lingua inglese), quantomeno è chiaro che essi, nel loro rivolgersi a chiunque, di qualunque condizione, hanno allargato la dimensione del sociale per dar spazio e rilievo anche alle popolazioni che non hanno alcun potere di deciderne le funzioni. Ma torniamo ai padri fondatori dell’antropologia ed etnologia funzionaliste, quali Malinowski, Radcliffe-Brown ed Evans-Pritchard, tutti intellettualmente cresciuti nell’Inghilterra della prima parte del Novecento. La società di
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individui liberi tra pari che si autoregola naturalmente è certo un Leitmotiv delle loro indagini pionieristiche, rispettivamente tra popolazioni come quelle delle Isole Trobriand, delle Isole Andamane o dell’alto Nilo. Se essi lo trovano è perché non cercavano altro: non cercavano altro, perché tra i loro presupposti c’era la tradizione giuridica anglosassone or ora rievocata. In altre parole, ciò che voglio contestare è il loro presunto empirismo, la loro idea di “lasciare che i fatti parlino da soli”. I fatti non parlano mai se non tramite la voce o gli scritti di qualcuno che, specie se ricercatore sociale, deve rendersi quanto mai responsabile del senso delle sue parole e del suo pensiero. La pretesa di limitarsi alla semplice induzione e alla percezione della realtà così com’è è sempre una pretesa da “pensiero unico”, che aspira a escluderne ogni altro, quale appunto il funzionalismo anglosassone che in effetti ha finito per dominare le scienze sociali, come l’Impero britannico fino ai primi del Novecento aveva dominato il mondo, per venire in seguito rilevato da quello statunitense. Il che non toglie ne siano venute delle conoscenze immense su simili popolazioni dai costumi tanto singolari, quanto in via d’estinzione; conoscenze che hanno fatto scuola anche per ogni ricerca successiva sul campo. Ma credo si debba anche convenire che per questi padri fondatori dell’antropologia e dell’etnografia funzionaliste il fascino maggiore di popolazioni come quelle trobriandesi, andamane e nuer, sia proprio consistito nel fatto che esse non conoscevano la separazione tutta moderna tra chi può e sa e chi non può e non sa, tra i ricchi e i poveri. È da qui che viene la vera passione di ricercatori come Malinowski, RadcliffeBrown e Evans-Pritchard nello studiare organizzazioni sociali strutturate in clan familiari, tramite riti, magie e faide. Leggendo questi studi, infatti, non è difficile cogliere in essi l’intenzione di dimostrare l’esistenza tutta reale e funzionante di società senza leggi scritte, né istituzioni burocratiche, ma anche dove nessuno può ritrovarsi estraniato dalle decisioni riguardanti la gestione del potere. Molto significativo a questo proposito è il sottotitolo del saggio pubblicato nel da Evans-Pritchard sui nuer: Un’anarchia ordinata. Ciò che interessa di questa popolazione è dunque il fatto che essa sia ordinata, che svolga le sue funzioni, pur senza essere stratificata secondo gerarchie di potere. Così, in fondo, questo allievo di Radcliffe-Brown non faceva che portare alle estreme conseguenze quello che era stato un interesse di gioventù del suo stesso maestro: Kropotkin, noto teorico dell’anarchismo. In effetti, l’idea libertaria e anarchica può facilmente coniugarsi con la tradizione liberale anglosassone. Medesimo è il presupposto secondo cui la vera società non debba rispondere ai bisogni naturali degli individui. Medesimo è il rifiuto della separazione moderna tra le popolazioni che hanno il potere di decidere per il resto della società e questo stesso resto della società che il potere lo può esclusivamente subire. La paradossalità del funzionalismo sta dunque tutta qui: nel sostenere che le funzioni sociali, quali sono analizzabili tra popolazioni senza leggi, né Stato,
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nonché prive di profonde divisioni quanto alla gestione del potere, sono determinate da necessità naturali le quali devono valere anche per società modernizzate dove esistono leggi, Stato e profonde divisioni attorno al potere. La pretesa di un’unica scienza sociale funzionalista implica in effetti l’ipotesi quanto mai equivoca (libertaria? liberale? liberista?) secondo cui in ogni società le funzioni sociali in fondo si svolgono e si possono conoscere indipendentemente dal potere di governo che su di esse si esercita. c) Nell’altro grande paese di lingua inglese, gli Stati Uniti, il funzionalismo ha perfezionato due metodi di ricerca divergenti e interessati più ai fenomeni sociali metropolitani. Uno di questi due metodi, di cui tratto qui di seguito, predilige lo studio del sociale dal punto di vista di chi ha il potere e il sapere di condizionarlo e che quindi risponde anche all’esigenza di una prospettiva d’insieme, dall’alto, più panoramica, più teorica; l’altro, cui sarà dedicato il paragrafo successivo, studia invece il sociale dal punto di vista di chi il potere di condizionare il resto della società non ce l’ha, cosicché anche il suo sapere è di dubbia utilità sociale. Di comune vi è il presupposto che della realtà sociale si debba studiare soprattutto e anzitutto la funzionalità. Il metodo di Talcott Parsons offre la massima sistemazione teorica delle tesi struttural-funzionaliste, nelle più prestigiose università degli Stati Uniti, soprattutto dagli anni Trenta agli anni Settanta, nell’epoca in cui questo paese si afferma come la potenza egemone mondiale. Il funzionalismo qui non si sperimenta più tra foreste o savane con sperdute capanne di fango e paglia, abitate da gente seminuda, ma si mette alla prova con la potenza e la ricchezza che hanno sede in grattacieli svettanti in mezzo al caos metropolitano. I problemi di metodo diventano più complicati. La categoria della funzione sociale a opera di Parsons si precisa all’interno di una sintesi che fa i conti col meglio della tradizione sociologica della vecchia Europa: tanto con la lezione weberiana, quanto con quella durkheimiana. I rapporti tra le funzioni sono strutturati in modo da dare luogo a fitte e dettagliate gabbie di status e di ruoli che possono essere riconosciute nelle società da analizzare. Ma, cosa più interessante, anche la categoria dell’azione sociale, pur pensata sempre in termini funzionali, viene ulteriormente raffinata: da valutarne non è più l’adeguatezza tra mezzi e fini, ma anche la differenza tra condizioni di partenza e di arrivo. Se questo scrive Parsons nel , nel egli precisa ancora di più: per analizzare ogni azione sociale, occorre analizzare la conoscenza di cui l’attore dispone nel compiere la stessa azione. Ciò perché in ogni situazione ci sono sempre più possibilità di agire e la scelta dell’attore dipende dalla conoscenza che ha dell’ampiezza di tali possibilità. Così viene ottenuto uno schema metodico di indubbio interesse. Esso sicuramente fa scuola per qualsiasi analisi tratti delle scelte compiute da soggetti che hanno potere di agire nei confronti del resto della società e, dunque, di
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condizionarla. Ognuno di questi soggetti (sia uno staff dirigenziale o un’équipe ministeriale, fino ad arrivare a un comitato sindacale o un’assemblea condominiale), infatti, per esercitare il proprio potere, non può non usare un certo sapere, un sapere che riguarda quantomeno le condizioni stesse di esistenza del proprio potere; ed è dunque da questo stesso sapere che occorre partire, se la ricerca sociale vuole analizzare come il potere viene gestito, quali delle sue molteplici condizioni sono utilizzate come mezzi, quali invece sono tenute in riserbo, e con quali giustificazioni, per esempio, pertinenti o evasive. Ma si può anche rovesciare il discorso in senso oggettivo: fino al punto di sostenere che ogni dato, ogni informazione, ogni nozione presente o passata riguardante il sociale si inscrive sempre in una qualche azione concernente il potere, quantomeno quello universitario. Cosicché, per analizzare qualunque notizia sul sociale, la ricerca deve analizzare anche la sua funzionalità rispetto alla gestione del potere, in modo da riuscire a distinguere quanto tale notizia ampli o restringa la gamma delle scelte di gestione. Detto più sinteticamente, è del tutto proficuo pensare che tra il potere e il sapere disponibili in una realtà sociale agisca sempre una doppia e reciproca funzionalità, per cui, se si vuole studiare tale realtà, bisogna ammettere che non c’è potere che non sia esercitato in funzione di un sapere e che non c’è sapere che non sia presentato in funzione di un potere. Qui la lezione di Parsons è sempre piena di stimoli. Tale ammissione però non comporta affatto l’obbligo di dire che ogni funzione si debba necessariamente conformare a un’unica struttura che garantisce l’integrazione delle diverse funzioni, né tantomeno che al di là di tale struttura non si dia altro che devianza o disgregazione sociale. Come ha a suo modo eccepito Robert K. Merton, critico seguace di Parsons, è più opportuno prendere atto che in ogni società esistono sempre delle vaste realtà che sono semplicemente non-funzionali e non integrate, senza essere necessariamente disfunzionali o disintegranti. È il caso ad esempio di quelle popolazioni in condizioni di precarietà lavorativa, abitativa e/o assistenziale, per le quali le questioni di funzionalità sociale non si pongono nemmeno; e ciò non solo in quanto subiscono le soluzioni funzionali prese da altri, ma anche perché devono rendere possibili delle condizioni di lavoro e di vita che di per se stesse non funzionano. A riguardo, lo struttural-funzionalismo ha in riserbo una ricetta, tutta stelle e strisce, ottimista e da “nuova frontiera” sempre da oltrepassare: la prescrizione secondo cui ogni realtà sociale prima o poi può e deve arrivare a funzionare, così come ogni individuo emarginato deve e può avere l’opportunità di riscattarsi. Il che però ha come implicazione meno edificante che, in caso contrario, tali realtà e tali individui non possono non essere considerati e trattati come devianti e disgreganti. I considerevoli tassi delle popolazioni carcerate in USA illustrano bene come simile concezione del sociale possa funzionare. Dal punto di vista del metodo si tratta allora piuttosto di chiedersi come possano coesistere una realtà sociale più o meno funzionale con realtà sociali
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non funzionanti. Una domanda, questa, che richiede anzitutto risposte politiche, contingenti o strategiche, governative o non governative, concertate o conflittuali, comunque mai definibili tramite un metodo o una teoria sociale, meno che mai funzionalisti. Concludo quindi su quella che è in fondo la prescrizione più evidente dello struttural-funzionalismo: l’integrazione. Il merito che più spesso viene riconosciuto all’opera di Parsons è infatti di avere contribuito a concepire quello che è stato chiamato «il più importante e notevole esperimento dopo le invasioni barbariche». Sarebbe a dire quell’amalgama di popolazioni diverse che gli USA hanno reso possibile, specie nel momento del loro presentarsi al mondo come potenza egemone. L’integrazione è in effetti oggi parola d’ordine obbligatoria dei governi di tutti i paesi più ricchi nei confronti dell’immigrazione. Obbligo, questo, senza dubbio necessario, specie di fronte alle ricorrenti tentazioni puramente discriminatorie, ma sicuramente insufficiente e non unico, tantomeno esclusivo. L’integrazione delle nuove popolazioni nelle funzioni sociali esistenti non può comunque essere accompagnata dalla condanna come devianti o disgreganti di tutti e di tutto ciò che nell’integrazione non rientra. Se ciò avviene, è perché chi ha il potere sulle funzioni sociali le usa ignorando, deliberatamente o meno, le condizioni della vastissima realtà sociale che non rientra, né rientrerà mai nell’integrazione. Un’ignoranza che nei punti più equivoci dello struttural-funzionalismo può trovare i titoli per presentarsi come dotta. Per questo la ripresa e la critica di questo metodo è sempre importante, anche per la sperimentazione delle nostre ipotesi che hanno altri campi d’applicazione. . L’etnografia statunitense a) Molto più vicina ci è la problematica etnografica dedicata a realtà sociali metropolitane, che ha avuto grande sviluppo sempre negli USA, a partire dagli anni Dieci e Venti del Novecento, con ricerche condotte presso la “Scuola di Chicago”, come quelle di Thomas e Znaniecki, che promuovevano a fonte di studio dei problemi migratori la corrispondenza di un contadino polacco, o di Neils Anderson, mescolatosi a lavoratori senza fissa dimora, o ancora dei coniugi Lynd sui comportamenti della città media americana verificati nell’arco dei dieci anni, tra il e il , che abbracciano la grande crisi del Ventinove. Tutto un ciclo di grandi ricerche sul campo, che arriva fino ai primi anni Quaranta, segnati dalla ricerca di William Foore Whyte tra quartieri poveri con popolazioni d’origine italiana. Ma è con gli anni Sessanta che l’etnografia conosce, oltre che un nuovo sviluppo, anche dei tentativi di teorizzazione, spesso in polemica più o meno esplicita con lo struttural-funzionalismo alla Parsons e Merton. Tra gli autori più citati a riguardo ci sono nomi come Howard S. Becker, Aaron W. Cicourel, Harold Garfinkel, Erving Goffman. Un
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vastissimo insieme di contributi alle scienze sociali che in Italia ha in Alessandro Dal Lago uno dei più noti sostenitori. Come egli stesso chiarisce, caratteristica peculiare di questo metodo etnografico sta soprattutto nell’attenzione microsociologica per le pratiche di ogni giorno: la vita quotidiana, opportunamente osservata al di là delle sue apparenze scontate, rivelerebbe un senso pragmatico ben diverso da quello comune. Ad esempio, a diverso titolo, si è dimostrato che le pratiche svolte quotidianamente dai tribunali risultano funzionali ben più a necessità di routine istituzionale che al valore della giustizia intesa secondo il senso comune. Netta è dunque l’opposizione nei confronti del metodo di cui Parsons è stato caposcuola e che abbiamo appena considerato. Se il suo struttural-funzionalismo punta infatti a offrire una teoria sistematica e macrosociologica, focalizzata sull’ordine sociale inteso come integrazione di strutture oggettive più o meno costanti e tenute insieme dal senso comune condiviso dai più, del tutto diversamente l’etnografia osserva la realtà sociale con un’ottica microsociologica, volta a cogliere le percezioni e i comportamenti dei soggetti così come agiscono quotidianamente all’interno della “cornice simbolica” che caratterizza ogni situazione concreta. Questa opposizione di metodo può essere intesa con diverse accentuazioni: in modo più o meno conflittuale o invece ridotta a semplice divisione di compiti accademici. Negli USA degli anni Sessanta e Settanta l’etnografo era per lo più una figura di ricercatore impegnato a rivelare l’assurdità della sociologia dominante ispirata allo struttural-funzionalismo e a contestare le sue teorie dell’ordine sociale e del senso comune. Così, in Italia, anche assai recentemente, si è ripresa questa accezione dell’etnografia in senso alternativo e conflittuale combinandola con una rinnovata problematica dell’antagonismo di genere classista. Ne è conseguita la già citata “conricerca”: un termine a suo tempo coniato da Romano Alquati e che ha conosciuto un nuovo successo nell’ispirare delle inchieste condotte all’interno dei movimenti dei no o new-global e più in particolare dei “disobbedienti”. D’altra parte, nelle scienze sociali si è cercato di mantenere il dissidio nei termini del dibattito tra diverse scelte tra loro compatibili. Si è così ammessa la legittimità della problematica etnografica sotto l’insegna di una qualità da distinguere rispetto alla quantità, che sarebbe l’elemento privilegiato da teorie come quelle struttural-funzionaliste. Micro e macro; soggettivo e oggettivo; qualità e quantità; pragmatico e strutturale; osservazione partecipante, sul campo e teorie distaccate, sistematiche, fondate su dati statistici: queste alcune delle coppie più usate per riassumere l’alternativa metodologica cruciale di tutte le scienze sociali. Alternativa che non dimostra altro se non la ricchezza delle scienze sociali, tanto varie, tanto produttive di infiniti modi di pensare e conoscere il sociale da non potersi mai ridurre a una sola. In effetti, si può dire che l’unico principio da tutte condiviso sta proprio nel dovere sempre separare, in ogni questione sociale, quello che è un problema sociologico da quelli che sono
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invece problemi antropologici, etnologici o etnografici. Ciò senza pretendere di risolvere entrambi: senza quella pretesa universalistica, onnicomprensiva, di derivazione filosofica, che rispunta spesso tra gli stessi ricercatori sociali. Degli esempi in questo senso si possono trovare nelle maggiori critiche rivolte all’etnologia, che ne denunciano l’incapacità ad affrontare le questioni d’insieme di una società e quindi a spiegare le sue trasformazioni progressive o regressive. L’idea così difesa è evidentemente quella secondo cui il sociale soggiace a un’unica evoluzione storica di cui tutte le scienze sociali non possono non tenere conto. Un’idea, dunque, che sottopone queste ultime all’imperativo di un pensiero unico, di un metodo unico. A simili conclusioni può del resto portare anche la stessa alternativa tra le già citate coppie di quantità e qualità, macro e micro, oggettivo e soggettivo, se intese in senso dialettico, ossia avente tra loro un ponte discorsivo che permette allo stesso ragionamento di passare dall’una all’altra. Il problema nuovo e cruciale posto dall’etnografia, che così contribuisce ulteriormente al relativismo delle scienze sociali, è invece proprio che la molteplicità della realtà sociale è impensabile e inconoscibile come un’unica realtà. Così si afferma una delle più clamorose e difficili novità impostasi in modo più o meno latente o manifesto a tutto il sapere del secondo Novecento: l’irrimediabile obsolescenza di qualsiasi principio, idea o categoria che sotto qualunque punto di vista pretenda di valere per tutto il genere umano o per ogni società. Anche le nostre ricerche etnografiche presuppongono una simile constatazione, ma il loro metodo diverge su più di un punto da questa etnografia d’ispirazione anglosassone. Se condividiamo la sua critica allo struttural-funzionalismo e al senso comune, nonché il suo interessarsi alle soggettività in modo pragmatico e microsociologico, “qualitativo”, tuttavia ci discostiamo da sue categorie fondamentali quali la vita quotidiana e l’ordine funzionale che vi sarebbe empiricamente osservabile. b) L’etnologo d’ispirazione nordamericana ha una precisa prescrizione per chi vuol seguirlo: “scendi in strada e guardati intorno!”. Imperativo pragmatico, questo, che andrebbe corredato da una mobilitazione di tutti i sensi (non solo il vedere, ma anche l’“annusare”!), quanto da un robusto e svariato sapere. Così il ricercatore, col suo sguardo sensorialmente dilatato nonché sapiente, mescolandosi tra la gente, dovrebbe riuscire a osservarla per quel che essa realmente fa. E, al di qua di tutte le teorie sulle opinioni manipolate, sul senso comune, sull’ordine sociale più o meno ben strutturato, si dovrebbe vedere che gli attori sociali, per ottenere gli scopi funzionali alla loro vita quotidiana, sanno organizzarsi in proprio. Non è difficile riconoscere qui all’opera le convinzioni già riscontrate nel funzionalismo anglosassone: quelle di un empirismo sempre teso a confer
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mare le possibilità di uno spontaneo autogoverno del sociale. Convinzioni, queste, che hanno delle immediate implicazioni sulle scelte che orientano la politica della ricerca sociale. La categoria della vita quotidiana ha in effetti una chiara portata polemica: in suo nome si mette a distanza ogni teoria sociale deduttiva, fatta a tavolino, “dall’alto”, e non tra la gente, vicino alle sue esperienze più dirette; meno chiaro, però, è come, in nome della vita quotidiana, si possa scegliere ciò che vi è di intellettualmente rilevante da ciò che è semplicemente banale e futile. Nell’indecisione che così si crea, nulla impedisce che a imporsi allo sguardo siano proprio i fatti più banali e futili. In effetti, è proprio quanto suggerisce la dialettica proposta da Dal Lago: «trattare l’ovvio come se fosse strano e ciò che appare strano come ovvio». Un’alternativa, questa, tra lo “strano” e l’“ovvio”, che porta a fare della percezione la misura del lavoro intellettuale richiesto da ogni ricerca sociale. Conversazioni casalinghe o fatti di costume, come tifoserie calcistiche, diventano casi di studio di grande importanza. Ma, contrariamente alla sua parvenza evidente e intuitiva, l’idea di dover studiare il sociale nella sua dimensione quotidiana ha come condizione il precoce imporsi negli Stati Uniti di quello che, dopo il film di Orson Welles del , è stato stigmatizzato come “quarto potere”. Sarebbe a dire quel potere che surrettiziamente si accompagna agli altri tre legittimamente pubblici (governo, magistratura, parlamento) e che è costituito dai quotidiani. Sarebbe a dire quelle testate della stampa a grande tiratura che, specie nel corso della Seconda guerra mondiale, creano un’opinione pubblica favorevole all’ascesa degli Stati Uniti a potenza mondiale e che ha per protagonisti quei giornalisti che Nietzsche, un secolo prima, chiamava con una delle sue espressioni violente, ma illuminanti, “schiavi cartacei del giorno”. Insomma, la figura dell’etnologo nordamericano che, anziché passare il suo tempo tra costruzioni teoriche e statistiche, va per strada e si mescola a gente qualunque, magari anche poco raccomandabile, cercando di capire come se la passa giorno per giorno, non può certo non risultare simpatica. Ma se essa si distanzia dalla mentalità universitaria più tradizionale, lo fa solo perché converge verso un’altra mentalità, sostenuta da un centro di potere, quello della stampa, che nella seconda metà del Novecento diventa concorrente con quello universitario. Resta che, mentre la ricerca sociale punta sempre a essere scientifica e dunque a confrontarsi col massimo del sapere già acquisito, il giornalismo ha l’obiettivo non solo di dare delle informazioni a chi non ne ha, ma anche di farlo dovendo cercare ogni giorno di colpire di più un pubblico sempre sedotto anche da altri giornali concorrenti. Cosicché, concepire la ricerca sociale come un “reportage” non può comunque non abbassarne il livello intellettuale. c) Quanto si distanzia dunque il metodo delle nostre ipotesi da questo approccio, posto che entrambi si vogliono pertinenti all’etnografia?
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Certo è che si tratta di andare tra la gente, senza considerarla del tutto manipolata o assoggettata al senso comune, per incontrarla laddove essa fa esperienze decisive per la sua stessa vita, prendendo sul serio quel che dice e fa. Cose, tutte queste, su cui, grazie al metodo dell’etnografia americana, sono state fatte infinite ricerche e prodotto un grandissimo patrimonio di conoscenze, come appena accennato. Se non se ne vogliono seguire i canoni, è dunque tutto da spiegare il perché. Ciò è ancora più importante in quanto le nostre ipotesi possono vantare dalla loro solo un modesto insieme di contributi. Tuttavia, come cerco ora di mostrare, c’è più di una buona ragione per cercare un’alternativa a questo metodo etnografico e per rinnovare altrimenti le ricerche sul terreno. Parto dunque da quella che si può considerare la prescrizione più nota che solitamente viene assunta da questo tipo di ricerche: procedere a un’“osservazione partecipante” dei “comportamenti” e delle “percezioni” degli “attori sociali” nella loro “vita quotidiana”. Prescindo da tutte le argomentazioni filosofiche tra cui simili temi potrebbero far disperdere il discorso, per mantenerlo nel linguaggio più semplice e naturale. Chiediamoci quale sia il piano su cui dovrebbe avvenire la “partecipazione” cui allude l’espressione “osservazione partecipante”. Si tratta in effetti di una domanda decisiva, poiché con questa “partecipazione” il metodo che la rivendica punta a superare, o quantomeno ad attenuare, quelle differenze rispetto alla gente comune, che di solito sono invece mantenute dai ricercatori in scienze sociali. Differenze che possono essere ricondotte essenzialmente a tre: al fatto che il ricercatore è solitamente esterno ed estraneo alla realtà sociale della gente; al fatto che il ricercatore, essendo un esperto in scienze sociali, è in possesso di un sapere sconosciuto alla gente; al fatto che, infine, avendo finalità scientifiche, il suo problema è conoscere in termini trasmissibili e riproducibili anche altrove, per altri ricercatori, quell’esperienza che invece la gente vive e conosce direttamente. Ora, la partecipazione all’esperienza della gente, secondo questo metodo, è possibile sul piano delle sensazioni, delle percezioni, dei comportamenti o tutt’al più dell’uso di simboli. È essenziale che queste sensazioni, percezioni, comportamenti o uso di simboli siano rispondenti a necessità, per cogliere le quali lo stesso ricercatore non deve fare affidamento sul suo bagaglio di conoscenze. Se così non fosse, anziché attenuare le differenze con la gente, le accentuerebbe, reintroducendo la sua superiorità di esperto. Decisiva è allora la categoria di “vita quotidiana”. Con essa si allude infatti all’unità di tempo più naturale, il volgere del sole, di cui ognuno, esperto e non esperto, ha esperienza costante e diretta. Il ricercatore può così partecipare delle sensazioni, delle percezioni, dell’uso dei simboli della gente comune, nella misura in cui si pone e la interpella sul piano delle necessità della vita quotidiana.
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Ora, è proprio qui che c’è il problema. O meglio: è proprio qui che questo metodo rivela il suo aspetto equivoco, di proporre una soluzione che non solo lascia aperto, ma nasconde un problema cruciale. Ogni ricerca sociale non è mai una cosa spontanea. I suoi tempi non sono mai quelli del quotidiano. La sua durata, i suoi luoghi, le sue scadenze sono previste secondo un protocollo o un progetto per il quale il ricercatore deve aver lavorato preventivamente e a cui è necessario lavorare anche a ricerca sul campo conclusa. Da questo punto di vista, l’“osservazione partecipante” risulta una formula troppo semplicistica, se non equivoca, in quanto sottace o comunque trascura tutta una serie di operazioni decisive per la ricerca sociale. Tra di esse, il fatto che il ricercatore, se vuol davvero capire la gente che interpella, non può limitarsi a usare il suo sapere al ribasso, solo per lasciare spazio, dilatandoli o acuendoli, ai suoi sensi. Tutto al contrario, egli deve attivare il più possibile le sue conoscenze e le sue percezioni in funzione di una precisa attività intellettuale. È infatti solo tramite il pensiero, che ogni ricerca sul campo può avventurarsi in quei campi altrimenti sconosciuti e inconoscibili, dai quali solamente viene la sua legittimità scientifica. Uno dei difetti maggiori del metodo etnologico dell’“osservazione partecipante” sta dunque in questa omissione del pensiero, dell’intelligenza attiva da parte del ricercatore come condizione decisiva per la riuscita della ricerca stessa. Ma suo difetto ancora maggiore è che, interpellando i soggetti sociali sul terreno delle loro percezioni e comportamenti nella vita quotidiana, non li interpella come esseri pensanti. In effetti, secondo lo schema empiristico tipico della tradizione anglosassone, la dimensione intellettuale si giustifica sempre solo come passiva e strumentale, solo in quanto riceve sensazioni e serve a scopi pratici. La possibilità che il pensiero, l’attività intellettuale modifichi le sensazioni e gli scopi pratici è un’eventualità vista con sospetto, in quanto esposta al libero arbitrio e quindi a rischio d’errore. Ciò perché si continua a ritenere che l’unico soggetto pensante possa essere l’individuo, cosicché più pensa a suo modo più rischia di farsi idee personali diverse da quelle degli altri. Quegli altri, quella dimensione collettiva, che quindi ha senso positivo solo se considerata nel modo più “naturale”, il più vicino possibile alle necessità della “vita quotidiana”. Ove, “naturale” deve suonare proprio come il contrario di “intellettuale” e il più vicino possibile alla dimensione sensitiva, animale, dell’umanità. Insomma, tutte le nostre ipotesi sul fatto che chiunque, la gente come soggetto collettivo, pensi e che questo pensiero possa essere fonte decisiva per conoscere la realtà sociale sono decisamente escluse da questo metodo. Ma, come ho cercato di mostrare, non gli mancano i difetti che giustificano la ricerca di alternative. Una, ma non la sola, è appunto fare del pensiero il terreno su cui il ricercatore sociale deve porsi allo stesso livello della gente, per incontrarla.
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Note . Nella sterminata bibliografia su questo argomento, tra i riferimenti imprescindibili ricordo, per le origini, F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (), Roma ; i coniugi Webb, Storia delle Unioni operaie in Inghilterra (), Torino ; e, per l’Italia, in tempi più recenti, oltre alle inchieste dei “Quaderni rossi” dei primi anni Sessanta, Pizzorno, Reyneri, Regini, Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo - in Italia, Bologna , nonché R. Alquati, Per fare conricerca, Torino , e il n. della rivista “Posse”, Roma . . C. Darwin, L’origine delle specie (), Torino e Id., L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (), Roma . . Cfr. anche A. Badiou, Le Siècle, Paris . . A questo proposito si può vedere, oltre al mio Sulle origini e la fine, cit., A. Badiou, La Révolution Culturelle: la dernière révolution?, Paris . . E. O. Wilson, Lineamenti di sociobiologia, Bologna . . Gustoso, da questo punto di vista, è l’aneddoto narrato da C. Geertz (in Antropologia e filosofia, Bologna , p. ) sulle definizioni di cultura che suoi colleghi di Harvard negli anni Cinquanta erano laboriosamente arrivati a censire. . E. B. Tylor, Alle origini della cultura (), Roma -. . L. H. Morgan, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (), Milano . . F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (), Roma . . Cfr. E. Leach, voce “Anthropos”, Enciclopedia Einaudi, Torino . . Cfr. A. Barnard, Precursori della tradizione antropologica, in Id., Storia del pensiero antropologico, Bologna . . Ad esempio M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico: una storia della teoria della cultura (), Bologna . . Oltre al già citato Tylor, non può non essere menzionata la monumentale e celeberrima opera di J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (), Torino . . É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia (), Milano ; Id., Le origini dei poteri magici (), Torino . . M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi (), Torino . . A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva (), Milano . . E. E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande (), Milano ; Id., I Nuer. Un’anarchia ordinata (), Milano . . F. Boas, Antropologia culturale. Testi e documenti, a cura di L. Bonin e A. Marazzi, Milano . . Id., Introduzione alle lingue indiane d’America (), Torino . . Id., Antropologia e vita moderna (), Perugia . . Id., L’uomo primitivo (), Bari . . Ad esempio Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. . . Boas, Antropologia e vita moderna, cit., p. . . Tutto quel che segue, salvo indicazioni diverse, è un commento a É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (), Milano . . Id., La concezione materialistica della storia (), in La scienza sociale e l’azione, Milano , p. . . Id., La divisione del lavoro sociale (), Milano . . Mauss, Teoria generale della magia, cit. . M. Halbwachs, La memoria collettiva (), Milano . . E ciò anche grazie alla rivista “L’année sociologique”, cui lo stesso Durkheim darà i maggiori contributi durante i quindici anni in cui uscirà, tra il e il . . É. Durkheim, Définition de l’État, in Leçons de sociologie (-), Paris . . Id., Montesquieu et Rousseau, précurseurs de la sociologie (), Paris .
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. Ad esempio R. Guiducci, L’interpretazione del suicidio da Durkheim ad oggi, in É. Durkheim, Il suicidio (), Milano . . Una delle analisi più famose di questo “affaire” è in H. Arendt, Le origini del totalitarismo (), Milano . . L’individualismo e gli intellettuali (), in É. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Milano . . Del , ed. it. Milano . . Cfr.: M. Toscano, Trittico sulla guerra, Roma-Bari ; W. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca -, Bologna . . W. Dilthey, Critica della ragione storica (-), Torino . . W. Windelband, Preludi (), Milano . . Salvo diverse indicazioni, d’ora in poi commento soprattutto M. Weber, Economia e società (), Milano . In ogni caso, al di là di ogni sua parvenza intuitiva, va ricordato che questa, come altre teorie dell’interpretazione, deriva dalla tradizione ermeneutica. E va anche ricordato che il problema originario di questa tradizione è come sia possibile che un mortale possa comprendere il senso immortale di un testo sacro. Di qui tutte le questioni dei limiti dell’interpretazione, del rischio del libero arbitrio, dell’errore soggettivo, di fronte alla saggezza infinita ed eterna del divino. Che le scienze sociali abbiano assunto tali questioni indica solo la loro difficoltà a costruire un proprio campo problematico distinto da quello delle tradizioni religiose. . M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione (), Torino . . Id., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (-), Firenze . . G. Lukács, La distruzione della ragione (), Torino ; H. Marcuse, Industrializzazione e capitalismo (), in AA. VV., Max Weber e la sociologia oggi, Milano . . C. Geertz, Il senso comune come sistema culturale, in Id., Antropologia interpretativa (), Bologna . . M. Heidegger, Identità e differenza () in “Teoresi”, , pp. - e , pp. -. . Weber, Economia e società, cit., p. . . In direzione molto diversa da quella qui seguita, cfr. A. D’Attorre, Le basi teoriche della sociologia del potere, in “Filosofia politica”, , . . Come F. Leonardi, Di che parla il sociologo? Problemi di epistemologia delle scienze sociali, Milano . Sull’argomento cfr. anche A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna , p. . . Su tutto ciò cfr., più sotto, CAP. , PAR. a, Il linguaggio come risorsa. . B. Malinowski, Gli argonauti del Pacifico Occidentale (), Torino , p. . . Ivi, pp. e . . Id., Teoria scientifica della cultura (), Milano , p. . . Id., Giornale di un antropologo (), Roma . In proposito cfr. C. Geertz, “Dal punto di vista dei nativi”: sulla natura della comprensione antropologica, in Id., Antropologia interpretativa, cit. . Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. . . Radcliffe-Brown, Struttura e funzione della società primitiva, cit.; Id., Il metodo dell’antropologia sociale (), Roma . . Cfr. a riguardo M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni europee, Torino . . Cfr. G. Arrighi, B. Silver, Caos e governo del mondo, Milano . . Evans-Pritchard, I Nuer. Un’anarchia ordinata, cit. . Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p. . . G. Valdevit, I volti della potenza. Gli Stati Uniti e la politica internazionale del Novecento, Roma . . T. Parsons, La struttura dell’azione sociale (), Bologna , p. . . Id., Il sistema sociale (), Milano , p. . . R. K. Merton, Teoria e struttura sociale (), Bologna . . La categoria chiave di questo tipo di problematica è quella di empowerment. Cfr. C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrato sulle persone, Milano .
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. Cfr. P.-N. Giraud, Qu’avons nous appris de cinq décennies de développement?, in www.cerna.ensmp.fr. . Cfr. la raccolta di saggi di T. Parsons, Comunità societaria e pluralismo, Milano . . S. E. Morrison, H. S. Commager, Storia degli Stati Uniti (), Firenze , pp. -. . Cfr. ad esempio G. Zincone (a cura di), Primo e Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Bologna -. . Per trattazioni sistematiche di questa impostazione problematica in lingua italiana cfr.: A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma-Bari ; G. Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Roma . . W. I. Thomas, F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America (), Milano . . N. Anderson, Il vagabondo (), Roma . . R. S. Lynd, M. H. Lynd, Middletown (), Milano ; Idd., Ritorno a Middletown (), Milano . . W. F. Whyte, Little Italy. Uno slum italo-americano (), Bari . . A. Dal Lago, R. De Biasi, Introduzione a Idd., Un certo sguardo, cit., p. XXIV. . Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., pp. -. . È un motto della scuola di Chicago ripreso da Dal Lago, De Biasi, Introduzione, cit. . Secondo quanto diceva un autore come Georg Simmel, che, come altri sociologi tedeschi tra Ottocento e Novecento, pensava che le scienze dello spirito dovessero provare a “rivivere” l’esperienza dei soggetti da loro indagati. L’attuale etnografia d’ispirazione anglosassone riprende in effetti anche questi temi accanto a quelli fenomenologici, oltre a quelli più prettamente empiristi. . Dal Lago, De Biasi, Introduzione, cit. . Su questo tema in campo filosofico sono imprescindibili W. Dilthey, Critica della ragione storica (-), Torino ed E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (-), Milano ; mentre, più in prossimità con le questioni proprie delle ricerche sociali, cfr. A. Schutz, La fenomenologia del mondo sociale (), Bologna e E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (), Bologna .
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In filosofia è espressione corrente, ma di rado la si sente usare tra le scienze sociali. Tuttavia, anche queste come quella sono state interessate dal grande sommovimento che, specie nella seconda metà del Novecento, ha segnato tutti i campi del pensiero e della conoscenza. Si tratta della “svolta linguistica”. Il fatto, cioè, che il linguaggio si sia imposto come questione prioritaria per ogni forma di razionalità. Detto banalmente, è come se, nel corso del XX secolo, ma soprattutto a Seconda guerra mondiale finita, tra i paesi più ricchi del mondo, nello stesso periodo in cui le differenze sociali e l’analfabetismo al loro interno si riducevano come mai, avesse preso corpo e forza la convinzione che ogni cosa, ogni realtà, ogni evento muti radicalmente a seconda di come se ne parla; di più: che pensare e conoscere è anzitutto pensare e conoscere il linguaggio, in quanto elemento primo di ogni pensiero e di ogni conoscenza. La particolarità di tale questione per le scienze sociali sta nel fatto che essa impone al ricercatore un ripensamento sul suo stesso linguaggio, non solo su quello che si trova davanti, quello parlato dalla popolazione su cui la ricerca è condotta; ma soprattutto sul rapporto tra il proprio linguaggio da esperto e quello di altri non esperti nel suo stesso sapere. Già negli anni Dieci del Novecento Malinowski, ad esempio, notava quanto l’interiorizzazione del linguaggio dei trobriandesi avesse mutato il senso delle sue ricerche. Se uno dei capitoli più importanti del suo Argonauti del Pacifico Occidentale è intitolato Kula, è proprio perché il senso di questo sistema di scambi è intraducibile con qualsiasi espressione esistente nelle lingue indoeuropee. Il fatto stesso che, per trattarne, Malinowski decida di nominare questo sistema con l’espressione trobriandese, mostra una prima decisa apertura del linguaggio delle scienze sociali nei confronti del linguaggio naturale. Quel che chiamo la svolta linguistica, che, come detto, si imporrà in tutta la sua ampiezza solo più tardi, porterà alle estreme conseguenze tutte le questioni che i ricercatori sociali avevano già toccato sperimentando, al di là dei problemi di traduzione tra lingue diverse, quanto la loro scienza restasse sempre debitrice del più puro e semplice linguaggio, quale quello usato da popolazioni senza sapere scientifico. Nel far valere l’importanza universale di tale dimensione, ha contribuito una scienza particolarmente sviluppatasi nel Novecento e che è appunto la
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scienza del linguaggio. Ad aprire questo percorso sta il Corso di linguistica generale, costituito da note prese da allievi, durante i corsi tenuti tra il e il e pubblicato postumo a Parigi nel , ma divenuto noto anche fuori delle cerchie dei linguisti solo negli anni Sessanta. In tale testo il suo autore, Ferdinand de Saussure, propone una grammatica comparativa fondata su una teoria dei “fonemi” e dei rapporti tra il suono e la parola, tra il significante e il significato. Così si arriva a formalizzare la matrice del sanscrito fino al punto di potere produrre regole e parole prima del tutto sconosciute, ma con ogni probabilità utilizzate dalle lingue indoeuropee di tempi oramai del tutto remoti e neanche storicamente situabili. Un’impresa, questa della scienza del linguaggio, fondata essenzialmente su ricerche grammaticali, che ha continuato ad avere svariati e proficui sviluppi nel corso del secolo. Tra di essi, campeggia il progetto universalistico, nel corso degli anni Sessanta, della “grammatica generativa” di Noam Chomsky, il quale ha tentato di formalizzare un’unica matrice di tutti i linguaggi possibili, nell’ambiziosissimo, e discutibile, intento di potere così contribuire anche allo studio neuro-biologico delle funzioni cerebrali. Senza entrare nel merito degli infiniti altri e straordinari sviluppi della linguistica novecentesca, c’è un punto che qui interessa particolarmente. Il fatto che questi sviluppi hanno tratto le loro maggiori risorse non dalla semantica o dalla sintassi, ma dalla grammatica in rapporto con la fonetica. Di più: che le prime e più importanti scoperte non hanno riguardato le regole dei rapporti tra le parole e i loro significati, bensì la dimensione del “fonema”, ossia laddove la parola è ancora a livello significante, prima di divenire un significato tra i significati. In effetti, nelle ricerche sulle lingue indoeuropee, anche l’innovazione decisiva, costituita dall’individuazione di regole comuni a tali lingue, è stata possibile solo grazie alla fissazione di corrispondenze fonetiche. Intendendo con ciò quelle che, ad esempio, danno come risultato l’etimo indoeuropeo *pHater, il quale altro non è che il prodotto dalla comparazione tra il latino pater, il greco πατη´ρ, il sanscrito pitar- e il germanico Vater. Decisivo è capire che “dietro” questo etimo, come qualsiasi altro, non sta nulla, se non la stessa operazione della grammatica comparativa che lo crea. In altri termini, perché un padre viene chiamato “padre”? O un cavallo, “cavallo”? Sono domande destinate a restare comunque senza risposta. Ciò semplicemente perché il rapporto tra il significante e il significato è di per sé insondabile, puramente casuale o, come dice lo stesso de Saussure, “arbitrario”. Il che comporta che tra fonetica e grammatica non si dà alcuna regola, quale invece si dà nelle implicazioni sintattiche e semantiche della grammatica. Il significante, dunque, come pura possibilità di incontro tra il semplice suono e il suono con funzione di linguaggio. Sarà proprio da qui, da questa categoria del significante, che nell’acme della “svolta linguistica”, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Jacques Lacan prenderà le mosse per rinnovare la problematica dell’inconscio della psicoanalisi di Freud.
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Nelle scienze sociali è invece prevalso un orientamento opposto. Tale orientamento è consistito nell’accogliere la “svolta linguistica” come se essa ponesse il problema di studiare la realtà sociale cercando soprattutto di leggervi regole di tipo sintattico e semantico. Da questo punto di vista, si può dire che la società appare come un “grande libro”, proprio allo stesso modo in cui si parla del “grande libro della natura”: l’una come l’altra da decodificare secondo le loro stesse regole. Questo prevalere tra le scienze sociali di un’interpretazione in senso sintattico e semantico della svolta linguistica ha una sua spiegazione. Si può infatti dire che in tal modo esse hanno potuto restare anche nella seconda parte del Novecento in continuità col retaggio della loro tradizione ottocentesca. Di quella tradizione evoluzionistica e storicistica che ha sempre trattato la società come una “seconda natura”, condizionata dalle necessità della prima. Così, la svolta linguistica tra le scienze sociali si è potuta molto spesso ridurre a una sorta di conversione di ciò che evoluzionismo e storicismo ponevano come leggi (dell’evoluzione e della storia) in regole di tipo sintattico e semantico, la cui origine viene ricondotta all’esistenza di convenzioni sociali. Se nel primo caso le leggi venivano giustificate in nome dei bisogni naturali della società, nel secondo caso le regole sociali vengono giustificate in nome delle convenzioni imposte dal senso comune. Insomma, dalle leggi alle regole, dai bisogni alle convenzioni, dalla natura al senso comune: questi tra i maggiori spostamenti tematici nei quali si è ridotto l’impatto della svolta linguistica sulle scienze sociali. Grazie a tale riduzione la realtà sociale ha continuato a venire presentata e studiata come intimamente determinata da vincoli oggettivi. Tuttavia, questa idea oggi diffusa che la realtà sociale, se non risponde a leggi dell’evoluzione o della storia, è quantomeno regolata da convenzioni, rappresenta un uso estensivo del tutto improprio del concetto grammaticale di regola, che resta il più scientificamente fondato e da cui le stesse scienze sociali novecentesche hanno preso più o meno direttamente ispirazione. Per arrivare subito al nocciolo della questione, basti solo una brevissima riflessione sulle funzioni delle grammatiche. Tutte quelle più comunemente in uso hanno essenzialmente due ragioni d’essere: da un lato, censire le molteplici possibilità di significanti che sono le parole, per stabilirne gli usi prevalenti relativamente a un determinato tempo; usi peraltro sempre assai variabili, visto l’incessante afflusso di neologismi e l’altrettanto incessante deflusso di arcaismi all’interno di ciascuna lingua. Dall’altro, stabilire delle misure, ovvero delle regole all’interno dei rapporti mediamente utilizzati tra le parole. Dal che si può trarre la conseguenza che qui interessa più direttamente: la grammatica, quand’anche sia intesa come scienza, non può stabilire regole cogenti come leggi, ma solo regole come misure per un migliore utilizzo del linguaggio. Regole, il cui rispetto resta sempre nell’ordine del possibile, ma non del necessario. Tant’è che nella società a un uso sgrammaticato del lin
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guaggio in genere non segue alcuna punizione, salvo quelle, peraltro assai modeste, che sono inflitte laddove, come nella scuola, l’uso scorretto della grammatica è sanzionato. Così, la scelta stessa di una parola piuttosto che un’altra resta sempre del tutto soggettiva, nell’ordine del possibile, ma al tempo stesso decide di come chi l’enuncia diventi soggetto d’enunciazione, ovvero decide della realizzazione delle possibilità intrinseche alla potenza significante della parola. Nulla, dunque, giustifica che la regola in senso linguistico, cioè grammaticale, possa venire assunta come modello di riferimento per individuare delle regole sociali. Se le scienze sociali devono tenere conto delle scoperte prodotte dalle scienze del linguaggio, non è affatto obbligatorio trarne l’idea che la realtà sociale sia da leggere come una sintassi, né tantomeno come una semantica vincolata. Più giustificato è invece trarre insegnamenti dalla categoria del significante per cercare come e quale realtà sociale venga resa possibile dall’uso soggettivo di certe parole piuttosto che di altre. Tornando al senso che la svolta linguistica ha avuto per le scienze sociali, si può concludere che esso è stato assunto da esse in due direzioni. Da un lato, quella dominante, che, curandosi anzitutto di regole sintattiche e di conseguenze semantiche, ha assunto il linguaggio come necessità del sociale, come una sua funzione più o meno fondamentale. Dall’altro, quella che, più attenta alle effettive novità apportate a tale svolta, ha assunto il linguaggio come risorsa, come miniera inesauribile di possibilità significanti e soggettive all’interno del sociale. Quest’ultima è la direzione entro cui si situano le nostre stesse ipotesi. Ritorniamo ora alle nostre tre domande: a) cos’è la società? b) Perché studiarla? c) Come studiarla? Se, pur nella loro rudimentale semplicità, esse hanno una loro utilità per testare i paradigmi più classici delle scienze sociali, non è più così in riferimento alla svolta linguistica. Per seguire, sia pur sempre a grandi linee schematiche, come le scienze sociali abbiano affrontato tale svolta dopo la metà del Novecento, occorre riformulare le domande. Invece di chiedere loro cos’è la società, perché e come studiarla, è più appropriato porre loro domande come: che effetti ha il linguaggio sulla società? Perché e come studiarli? Dovrebbe essere evidente infatti che, dal momento in cui il linguaggio emerge come questione cruciale anche per il sociale, tutto quello che è stato detto e scritto a suo riguardo, tutto il linguaggio che lo ha riguardato, va rimesso in discussione. La questione diventa, quindi, come ripensare le scienze del sociale, le loro finalità, i loro modi di ricercare, dopo la svolta linguistica. L’alternativa di fondo è: o riconfermare l’essenziale di ciò che se ne sapeva anche prima o cercare nuovi modi di sapere. Come si vedrà, la prima soluzione sta essenzialmente nel considerare il linguaggio in modo strumentale. Il che significa ritenere che, per dar spazio alla
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svolta linguistica, le scienze sociali debbano sì studiare con maggiore attenzione gli effetti propri del linguaggio, ma che per farlo sia loro sufficiente considerarlo uno strumento rispondente a necessità e fini sociali già noti e studiati. Nel PAR. a sarà quindi illustrato, in tre punti (a., a., a.), come è proprio assumendo una visione strumentale del linguaggio che le impostazioni, già viste nel capitolo precedente, del classismo, del funzionalismo e dello strutturalfunzionalismo, ma anche, almeno in parte, dell’etnometodologia nordamericana, possono continuare a far ricerca più o meno sulle stesse rotte intraprese alle loro origini tra Ottocento e Novecento. Della seconda soluzione che assume la svolta del linguaggio in senso più innovativo verranno invece mostrati due orientamenti maggiori. Il PAR. a è dedicato al primo, corrispondente a ciò che è noto come lo strutturalismo francese tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. A questo proposito saranno menzionate soprattutto le straordinarie e sofisticate ricerche volte ad analizzare il sociale per trovarvi quali profondi e duraturi vincoli gli imponga il linguaggio. Annotazioni particolari saranno dedicate ai due studi esemplari: sul mito di Edipo da parte di Lévi-Strauss (a.) e sulla categoria del tempo in Edmund Leach (a.). Il PAR. a è dedicato a un secondo orientamento nel modo di recepire la svolta linguistica da parte delle scienze sociali. Tale orientamento viene rintracciato trasversalmente a diverse impostazioni metodologiche, dall’ipotesi Sapir-Whorf e dall’etnometodologia di Harold Garfinkel e Roy Turner all’antropologia interpretativa di Clifford Geertz e all’antropologia del nome di Sylvain Lazarus. In questo svariato ed eterogeneo campo problematico verrà individuato un tema decisivo anche per le nostre ipotesi. Quello di assumere il linguaggio in quanto tale, il linguaggio naturale come risorsa di infinite possibilità di agire, pensare e conoscere la realtà sociale, cui le stesse scienze sociali possono aprirsi senza dover sempre restare per forza trincerate nei loro metalinguaggi da esperti (in a.). A chiarimento di questo punto si discuterà dell’alternativa tra la categoria d’origine anglosassone di “performance” e quella d’origine francese di “prescrizione” (in a.). Il PAR. a. tratterà della semiotica a partire dall’opera di uno dei suoi maggiori epigoni, Roland Barthes. Se ne sottolineerà (in a.) il ruolo egemone ottenuto tra le scienze sociali a partire dagli anni Settanta del Novecento e ne verrà criticata la tesi secondo cui “tutto è segno” e quindi “tutto è linguaggio”. Annotazioni particolari saranno quindi (in a.) dedicate alla categoria di sistema, del sociale come sistema, quale la semiotica ha contribuito a rilanciare. Infine, col PAR. a sarà esaminata la tematica tutt’oggi dominante, quella delle identità comunitarie, in cui verrà polemicamente riconosciuta una propensione regressiva. Nella seconda parte (b) di questo stesso capitolo si affronterà la questione del perché, a quali condizioni e per quali scopi politici le scienze sociali, nel cor
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so del Novecento abbiano prestato tanta attenzione alle questioni del linguaggio. L’importanza dei partiti e dei regimi partitici sarà particolarmente messa in evidenza, ma attribuendo anche una rilevanza epocale all’evento Sessantotto nei rapporti tra il linguaggio, il sociale e la politica. Il capitolo si concluderà con una terza parte (c) nella quale verranno esaminati i problemi di metodo che si pongono con l’apertura delle scienze sociali verso il linguaggio naturale. a Il linguaggio come strumento In generale si può dire che le scienze sociali hanno reagito alle nuove questioni poste dalla svolta linguistica rettificando ad hoc risposte già date: date cioè quando il linguaggio nelle scienze sociali era semplicemente usato come uno strumento, senza metterlo in discussione. Così, il modo più semplice di affrontare la svolta linguistica è consistito nello studiare gli effetti del linguaggio sul sociale, senza rimettere in discussione i modi già acquisiti di conoscere il sociale. a.. Anche Stalin sulla linguistica Quanto mai paradigmatico è ciò che avviene a questo proposito, nell’ambito delle scuole di pensiero classiste, fondate cioè sull’idea secondo cui il destino di ogni società è deciso dalla lotta di classe. Lo stesso leader del comunismo mondiale, Stalin, che certo genio scientifico non era, nel , in piena guerra fredda, si sente di dire la sua a proposito delle nuove questioni del linguaggio. Così, arriva a redigere un testo a diffusione universale, Marxismo e questioni linguistiche, in cui, pur riaffermando i principi del materialismo storico e dialettico, si cura di metterli a confronto con le questioni poste dalle ricerche dei linguisti sovietici. Le necessità storiche oggettive della lotta di classe e del suo esito comunista si trovano così ad accompagnarsi, senza sovrapporvisi, alle necessità storiche dello sviluppo delle lingue. Il linguaggio, dunque, come strumento rispondente a necessità sociali diverse, ma non escludenti quelle della lotta di classe. a.. L’interazionismo simbolico Sia pur in tutt’altra temperie e con ben altre conseguenze, anche il funzionalismo e lo struttural-funzionalismo d’area anglosassone propendono per soluzioni meno diverse di quanto si può credere. Il linguaggio viene infatti da essi considerato per lo più alla stregua di altre funzioni sociali; come esse, rispondente alle necessità oggettive e naturali di ciascun individuo. Per studiare gli effetti del linguaggio sulla società anche in quest’ottica non occorre ripensare la stessa so
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cietà e il modo di farvi ricerca, basta estendere e precisare le idee disponibili: quelle formulate prima che l’importanza della questione del linguaggio si imponesse. Lo si trova confermato anche nelle enciclopedie che a un certo punto, nel corso del secolo passato, tra le scienze sociali ci si è accorti che a far la differenza tra “natura” e “cultura” è appunto il linguaggio. Ciò vuol dire, da un punto di vista evoluzionista e funzionalista, che la società altro non è che una “seconda natura”, diversa dalla “prima”, quella “naturale”, solo perché “coltivata”: coltivazione di cui il linguaggio è strumento. Insomma, l’umanità resterebbe essenzialmente eguale a se stessa, sia in natura che in cultura, salvo il fatto che nella seconda userebbe strumenti di cui nella prima non sarebbe dotata. Cosicché, ogni spiegazione, tanto della società quanto del linguaggio, sarebbe sempre da cercarsi tra i bisogni e le necessità naturali dell’umano. Il fatto è che tra le scienze sociali d’area anglosassone la questione del linguaggio si impone precocemente, senza riferimenti a ricerche propriamente linguistiche, ma sotto l’influenza del pragmatismo filosofico di John Dewey, nonché della psicologia evoluzionista e fisiologica di Max W. Wundt. Questi, l’uno nordamericano, l’altro tedesco, sono due riferimenti decisivi per l’opera, Mente, sé e società, che esce postuma nel , raccolta delle lezioni tenute fin dai primi del secolo presso l’università di Chicago da George H. Mead, la cui impostazione della questione del linguaggio farà scuola per ogni versione del funzionalismo, fino praticamente ai nostri giorni. Nel Herbert Blumer, trattando di questa impostazione, le attribuì un’etichetta che ha avuto grande fortuna: “interazionismo simbolico”. Esso, secondo la versione di questo autore, si fonda in ultima analisi su tre semplici premesse. La prima […] è quella secondo cui gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose (oggetti fisici, altri esseri umani, istituzioni o idee guida come la libertà) sulla base dei significati che tali cose hanno per loro. […] La seconda premessa è che il significato di tali cose è derivato dall’interazione sociale che il singolo ha con i suoi simili o sorge da essa. La terza premessa è che questi significati sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo in atto da una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.
Per quel che qui interessa, una delle novità maggiori dell’interazionismo simbolico sta nel suo attribuire al linguaggio la capacità di creare la realtà sociale. Il che parrebbe una vera e propria anticipazione della svolta linguistica. Ma non è esattamente così. Infatti, in Mead l’affermazione della creatività del linguaggio non si fonda su un’analisi dello stesso linguaggio, né ad esso viene assegnato un rilievo problematico a sé stante. Quel che interessa sono solo i suoi effetti utili a confermare e arricchire una visione del sociale fisiopsicologica e pragmatica. Una visione cioè per la quale ogni possibilità di pensiero e d’azione soggettiva conta solo se oggettivamente necessaria, funzionale a qualche finalità già data e
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conosciuta, quantomeno per il ricercatore. Al centro dell’attenzione non sono gli effetti del linguaggio sul sociale, ma il linguaggio pensato come strumento che rende le interazioni tra individui necessarie allo stesso modo di quelle naturali. Il punto di partenza di tutto il ragionamento è quanto mai biologistico, naturalistico: gli esseri umani sono considerati sullo stesso piano di qualsiasi altro organismo. L’origine del linguaggio è ricondotta alle reazioni che ha un qualsiasi “organismo”, animale o umano poco conta, nei confronti di qualsiasi altro. È a questa reazione che viene attribuita la capacità di dar significato ai gesti: così come la fuga di un animale rispetto a un altro implica che il primo dà il significato di minaccia al secondo. Il linguaggio non sarebbe allora che un insieme di significati resi necessari dall’interazione di ogni individuo con altri. Un’interazione che, nel caso degli individui pensanti, può anche essere indiretta, determinata dalle necessità psicologiche, e non solo semplicemente fisiologiche, in relazione con gli altri. È qui che diviene decisiva la categoria dei simboli. Essi sarebbero i significati del linguaggio utilizzati nell’interazione di ogni individuo cosciente nei confronti degli altri. La società stessa allora non sarà che la realtà creata dai simboli condivisi, dal “senso comune” che lega necessariamente come un organismo naturale tutti gli individui che lo compongono. Come giustamente osserva Izzo, anche se in un senso del tutto divergente dal mio, possiamo qui riconoscere il tema del “senso comune”, già fondamentale per Max Weber, del resto quasi contemporaneo di G. H. Mead, ma anche per il successivo Parsons. In effetti, questo tema è obbligatorio ogni volta che, diversamente dalle nostre ipotesi, si parte dalle questioni delle possibilità soggettive solo per arrivare a stabilire quali sono le loro necessità oggettive; detto altrimenti, quando il soggettivo non interessa che come assoggettamento all’oggettivo. Di questo tipo di dialettica tra soggettivo e oggettivo, già rintracciabile nelle origini ottocentesche del classismo, dell’evoluzionismo, come dello stesso funzionalismo, l’“interazionismo simbolico” offre solo una versione aggiornata. Una versione che, come si è appena visto, anticipa già negli anni Trenta temi che nel giro di un ventennio saranno propri della svolta linguistica, ma che, proprio perciò, resterà sempre in esteriorità alle questioni più profonde aperte da quest’ultima. a.. L’etnometodologia Negli anni Sessanta non mancano comunque diversi interessanti tentativi di un maggiore approfondimento in questo senso. Uno dei più importanti è rappresentato dal programma di ricerche microsociologiche proposte da Harold Garfinkel sotto il nome dell’“etnometodologia”. Pur mantenendosi in fondo fedele alle premesse dell’interazionismo simbolico e dell’etnologia anglosassone, egli lo porta alle estreme conseguenze nel sostenere e nel comprovare con ricerche sul campo la capacità del linguaggio di creare realtà sociale. Egli conte
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sta infatti che tale realtà possa essere ricondotta ai simboli del senso comune, e quindi spiegata in base a necessità psicologiche, fisiologiche e macrostrutturali. Tesi centrale è, detta in termini semplificati, che la realtà delle situazioni sociali organizzate è quella di cui rende conto chi agisce in tale situazione. Ogni situazione è pensata come frame, cioè come cornice simbolica, di cui alcuni simboli hanno capacità “indicali” cioè di essere indici di realtà. L’analisi di tali indici può avvenire solo laddove si realizzino pratiche di organizzazione – come ad esempio le procedure diagnostiche e terapeutiche di ospedali psichiatrici alle quali sono state dedicate pionieristiche ricerche etnometodologiche. L’uso corrente del linguaggio, dove e come esso è effettivamente utilizzato, diviene così fonte privilegiata della conoscenza sociale. Quindi pare ci si orienti decisamente verso la ricerca degli effetti del linguaggio sul sociale. Ma non è esattamente così. Garfinkel, restando fedele alla problematica della “vita quotidiana”, è da essa che trae i suoi indici. L’etnometodologia non sfugge infatti al difetto già riscontrato nell’etnologia in genere e che consiste nel non distinguere tra i casi di studio di indubbio interesse, come appunto quelli degli ospedali psichiatrici, e quelli decisamente frivoli rappresentati dalle più banali conversazioni domestiche. Nel rivelarne i paradossi impliciti, nel portare fino alle estreme conseguenze le loro inavvertite assurdità, Garfinkel e i suoi allievi erano convinti di poter scoprire qualcosa di molto importante: che, una volta rivelata la loro insensatezza, i modi di dire del senso comune rivelano degli indici reali delle situazioni sociali in cui sono utilizzati. Ma una tale convinzione in fondo riposa su un assunto dell’interazionismo simbolico per nulla innovativo: quello secondo cui l’uso dei simboli risponda sempre a ben precise necessità, più che mai oggettive: quelle, appunto, della vita quotidiana. Resta comunque interessante l’idea di Garfinkel secondo cui la realtà sociale è conoscibile solo tramite indici, da trovare e analizzare nel linguaggio. Per svilupparla al meglio, per trarre le sue conseguenze oltre la svolta linguistica, occorre rinunciare alla convinzione, oramai superata, che al fondo della realtà sociale ci sia un serbatoio di necessità naturali alle quali sono facilmente riconducibili gli indici del linguaggio. Una rinuncia, questa, cui si deve accompagnare la sfida a pensare la realtà sociale come posta in gioco e arena di diverse possibilità create nel linguaggio e indicate da esso. Come la ricerca può procedere in questo senso lo si vedrà in seguito. a Il linguaggio strutturante «Nell’ambito delle scienze sociali, al quale indiscutibilmente appartiene, la linguistica occupa tuttavia un posto eccezionale: non è una scienza sociale come le altre, ma quella che di gran lunga ha compiuto i maggiori progressi». E ancora: «Quando un evento di tale importanza ha luogo in una scienza dell’uomo, i
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rappresentanti delle discipline limitrofe non solo possono, ma debbono verificarne subito le conseguenze e la possibile applicazione a fatti d’altro ordine». Queste le idee del padre dell’antropologia strutturale. Si tratta di Claude Lévi-Strauss, che tra i suoi maestri annovera anche Franz Boas e che, come questi, è stato uno straordinario ricercatore sul campo. Essenziale per la sua impostazione problematica è il libro del da cui sono tratti i passi ora citati, dove sono anche riportati alcuni risultati dei seminari condotti a New York assieme a Roman Jakobson, già fondatore nel del famoso Circolo linguistico di Praga. Qui scienze sociali e scienza del linguaggio si confrontano direttamente. Strutturalismo significa anzitutto questo. E la Francia tra gli anni Cinquanta e Settanta ne sarà la patria, sia pur con infiniti e duraturi echi planetari. In psicoanalisi, come già accennato, si dovranno a Jacques Lacan ricerche in questo stesso senso, che approderanno a ripensare la problematica dell’inconscio e dei malesseri mentali nel solco aperto da Freud, ma sviluppato ulteriormente nei termini di una inedita “logica del significante”. Per quanto riguarda le ricerche più propriamente dedicate al sociale, va notato come l’orientamento strutturalista vada in direzione assai diversa da quella dell’interazionismo simbolico. Se quest’ultimo obbliga a pensare il linguaggio come strumento i cui effetti sono in un rapporto più o meno diretto con la natura e gli organismi che interagiscono tra loro, tutt’altra è l’impostazione di Lévi-Strauss. Ed è importante sottolineare questa distanza di metodo proprio perché grandi antropologi contemporanei come Edmund Leach e Clifford Geertz la superano senza dar conto di quanto in essa ci sia ancora da imparare. Punto distintivo di un approccio strutturalista come quello di Lévi-Strauss è lo studiare gli effetti sociali del linguaggio, prescindendo da qualsiasi particolare situazione di interazione, per analizzarli al di là del tempo e dello spazio, o meglio in modo tale da abbracciare sequenze temporali e zone geografiche dalle estensioni pressoché incommensurabili. Esemplare, da questo punto di vista, come vedremo tra poco, è lo studio di quelle singolari configurazioni narrative del linguaggio che sono i miti, specie quelli tanto potenti, come l’Edipo, da attraversare più epoche e più continenti lasciando una loro impronta in infiniti rapporti sociali. Ma, per fare ciò, lo studio del linguaggio deve esaminare anzitutto i significanti e il loro latente concatenarsi prima ancora di diventare significati espliciti, fruibili come strumenti di comunicazione. La struttura che lo strutturalismo rivendica allude proprio ai contenuti impliciti che il linguaggio cela condizionando il sociale sempre di più e altrimenti rispetto a quanto risulta nell’interazione nonché nella comunicazione. La grande novità degli approcci che sono riconducibili allo “strutturalismo” francese è quindi consistita nel fare un passo indietro rispetto al considerare il linguaggio anzitutto per i significati che esso assume in rapporto al sociale. La svolta linguistica qui acquista il senso più profon
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do di uno scendere nei recessi significanti del linguaggio per trovare i suoi condizionamenti di lunga durata su vaste molteplicità di realtà sociali. a.. L’Edipo Quanto mai esemplare da questo punto di vista è come Lévi-Strauss fa procedere la sua analisi del mito di Edipo. Al centro dell’attenzione non è una qualche sua versione particolare, storicamente situabile, ma le parole, le frasi, i frammenti narrativi che lo evocano e che sono rintracciabili nella più ampia gamma delle sue interpretazioni censibili, dall’antichità addirittura fino ai giorni nostri. «La nostra proposta – dice chiaramente Lévi-Strauss – è […] definire ogni mito in base all’insieme di tutte le sue versioni». Tant’è che, per studiare quello di Edipo, egli tiene conto dei più svariati riferimenti: dalla versione originaria, dovuta alla tragedia di Sofocle, all’interpretazione da cui Freud ha ricavato uno dei concetti centrali della sua teoria dell’inconscio. La struttura, dunque, come struttura di ciò che nel linguaggio ritorna, si ripete, si dà come concatenarsi ripetitivo di significanti. Così risulta che, all’interno delle complesse e controverse versioni che sono state offerte del racconto del personaggio Edipo, è individuabile un va e vieni del senso, un’ambiguità fondamentale dei significati. Un’ambiguità che si può riassumere nella domanda: “il medesimo nasce dal medesimo o da altro?”. Un interrogativo che rivela al fondo la difficoltà di «capire come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre più un padre». La complessa argomentazione con cui Lévi-Strauss giunge a questa conclusione ha due passaggi decisivi. Da un lato, egli ricorda la credenza diffusa nella Grecia del tempo di Sofocle nell’autoctonia dell’uomo, nel fatto cioè che la sua origine venisse da madre Terra. Dall’altro, egli nota che il nome Edipo, come quello di suo padre e di suo nonno, evocano tutti un rapporto irrisolto con la terra, ovvero una difficoltà a reggersi in piedi (Edipo=“piede gonfio”; Laio, suo padre =“sbilenco”; Labdaco, suo nonno =“zoppo”). Dal che si ricava che tutte le peripezie di questi personaggi, tra cui stermini, amori, uccisioni di mostri, enigmi, autoaccecamento, nonché, e non da ultimo, l’incesto, ruotano attorno al dilemma sulle possibilità o meno dei soggetti umani di separarsi, di differenziarsi dalle necessità imposte dal destino naturale. Detto altrimenti, Edipo come emblema del fatto che la differenza tra l’umano e il bestiale non è mai decisa una volta per tutte. Da ciò vanno tratte almeno tre considerazioni decisive per le nostre stesse ipotesi di ricerca etnografica. In primo luogo, occorre riconoscere che nei pressi del suono delle parole, degli enunciati, dei frammenti dei discorsi c’è sempre una riserva significante, delle possibilità a significare, le quali si ripetono, ritornano, indipendentemente dal significato loro attribuito da qualsiasi discorso, narrazione o interazione comunicativa, per quanto siano ben formate, corrette, convincenti, convenzio
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nalmente accettate: insomma, occorre assumere fino in fondo l’idea che le parole spesso contano più dei discorsi, lo si voglia o no. In secondo luogo, ammettere l’esistenza nel sociale di strutture significanti ripetitive, le quali comunque non si piegano facilmente a ogni loro uso discorsivo, narrativo o comunicativo, non equivale affatto a sostenere che tali strutture facciano ostacolo alle decisioni soggettive, a un uso singolare del linguaggio; tutto al contrario, la lezione di Lévi-Strauss appena citata dimostra proprio l’ambiguità costitutiva di ogni struttura significante, la sua sempre costante apertura polisemica a diverse interpretazioni. Come dire, con una battuta: se tutti abbiamo a che fare con l’“Edipo”, ognuno ce l’ha a suo modo. In terzo luogo, soppesiamo una differenza cruciale tra l’approccio strutturalista e l’approccio funzionalista alla questione degli effetti sociali del linguaggio. Quest’ultimo approccio, come si è accennato, ammette certo che il linguaggio può creare una realtà sociale, ma questa stessa viene concepita come una variante della realtà oggettiva, esistente indipendentemente dal linguaggio stesso. Ad esempio, l’etnologia all’americana sostiene sì che le pratiche sociali più ordinarie producano la realtà della “vita quotidiana” in cui si svolgono, ma ciò ha senso solo se si suppone che la realtà sociale, indipendentemente da quel che se ne dice, sia oggettivamente la realtà della vita quotidiana. Sono quindi le necessità di questa vita a verificare ciò che il linguaggio realizza; ovvero la sua funzionalità; ovvero il suo essere strumento adeguato a scopi reali. Insomma, è il fine oggettivo (la vita quotidiana) che giustifica il mezzo soggettivo (il linguaggio). Lo strutturalismo dispone la questione in tutt’altro modo. Esso postula che esista una potenzialità del linguaggio, come ad esempio quella evocata dal mito di Edipo, che persiste, che si ripete, indipendentemente dagli usi che se ne fanno. Soggetti e fini qui sono esclusi. Concepire i processi storici e sociali senza soggetto né fine è esattamente una prescrizione di Althusser, il quale deve la sua grandezza proprio all’aver tentato di combinare marxismo e strutturalismo. Si tratta dunque di un oggettivismo estremo, ma tutto incentrato sul linguaggio. Un linguaggio concepito sì come necessità inaggirabile, ma dal senso costituzionalmente ambiguo, polisemico, mai univoco, sempre da decidere in ogni situazione concreta. È proprio qui che lo strutturalismo raggiunge i suoi limiti. Ciò per cui lo strutturalismo è stato criticato, anche per vie interne, fino ad esaurirne le capacità propositive, è stato proprio il fatto di non confrontarsi mai con le possibili realizzazioni concrete, soggettive, delle potenzialità del linguaggio. Non è forse solo per caso che Parigi, già culla dello strutturalismo, lo sia anche stata di un Sessantotto particolarmente intenso, il fatidico e infuocato “maggio”. In ogni caso, tutto lo scatenamento di energie soggettive innescate da questo evento ha come fatto esplodere lo stesso strutturalismo. Dopo di che è venuta la gran fama a livello d’opinione, ma anche scarse innovazioni a livello di ricerca. L’eredità lasciata però persiste tutt’oggi. E sta nella rottura con ogni dia
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lettica tra oggettività e soggettività, nell’avere aperto una prospettiva per la quale non c’è oggettività sociale prima, dopo o comunque fuori del linguaggio. Il che vuol dire, tanto per riprendere un esempio già evocato, che oggi la realtà della fame nel mondo non dipende da necessità naturali, quali le carenze globali di cibo o l’impossibilità materiale di fornire mezzi per sviluppare le economie arretrate, ma da quel che è detto di questo fenomeno: basterebbe infatti che i paesi ricchi proclamassero misure pertinenti perché il problema fosse risolto; e con quali misure potrebbe esserlo è sempre questione da discutere, quali che siano gli interessi difesi. A questo proposito lo strutturalismo insegna a non supporre alcuna evidenza di tali interessi e a fare attenzione a quale linguaggio, a quali parole sono presentate a loro difesa. Questo nella convinzione che non si possano distinguere i buoni e i cattivi interessi, se non a partire da quel che si dice in loro nome. Se, ad ulteriore esempio, l’interesse che si dice di difendere è quello dell’intera “umanità”, non si può non tenere conto di tutte le critiche che gli strutturalisti hanno rivolto all’equivocità naturalistica di ogni terminologia “umanistica”. a.. L’equivocità del tempo Altra questione cruciale aperta nelle scienze sociali dall’approccio strutturalista riguarda la categoria del tempo. Una delle critiche più insistenti che è stata rivolta a questo approccio gli ha imputato di negare la storia, e con essa il principio stesso dell’evoluzione, e quindi ogni distinzione tra progresso e regresso. In effetti, la struttura per lo strutturalismo è analizzabile facendo il più possibile astrazione da ogni variazione dei rapporti tra linguaggio e società e concentrandosi invece su ciò che comunque si ripete, ritorna. Del resto, come si è appena visto, anche a proposito dell’Edipo la domanda che Lévi-Strauss finiva per porsi non era forse se il medesimo nasce da sé o da altro? Ebbene, lo strutturalismo non solo chiude con ogni storicismo, ma addirittura rimette radicalmente in discussione la categoria stessa del tempo. E lo fa a suo modo, attraverso l’analisi del mito. Mi riferisco a due saggi del di Edmund Leach. Anche qui il punto di partenza è la constatazione di un’ambiguità essenziale: quella intrinseca alla categoria del tempo. Con essa infatti viene designata la ripetitività dell’alternarsi del giorno e della notte o del tic-tac del pendolo; ma viene anche designata l’irreversibilità, ovvero il fatto che ad esempio tutti invecchiamo e siamo destinati a morire. La ripetitività risulta quando ogni tic-tac viene comparato agli altri tic-tac che precedono o seguono; l’irreversibilità risulta invece quando, concentrandosi su un singolo tic-tac, ci si rende conto che esso può scandire il tempo solo perché ha un inizio e una fine entrambi irreversibili. Ora, la tesi di Leach è che il mito di Kronos contiene già questa duplice dimensione e che proprio qui sta la ragione, altrimenti poco comprensibile, per
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la quale questa divinità, fin dagli albori della cultura occidentale, abbia rappresentato il mito del tempo. Il simbolo chiave è la falce con cui questa antica divinità greca appare sempre raffigurata. Il suo movimento oscillante (il quale tra l’altro ricorda ai moderni quello del pendolo) evoca esplicitamente il gesto della mietitura che si ripete ogni anno nella stagione del raccolto. Ma evoca anche un taglio quant’altro mai irreversibile e creatore: quello con cui Kronos castra il padre Urano, il Cielo. Il sangue così sparso cade infatti nel mare, fecondandolo e facendo nascere Afrodite, dea della fecondità universale. Solo allora possono generarsi altre divinità e in seguito anche gli uomini, fino a quel momento inesistenti. Il fatto è che i genitori di Kronos sono i due elementi primordiali, Gè, la terra, e Urano, il Cielo. Tra loro copulavano, ma Urano ricacciava tutti i figli nel ventre di Gè, finché essa, oberata di tanti feti, dota l’ultimo della falce con cui dare la terribile lezione al padre e liberare le sorelle e i fratelli già concepiti. Crescendo Kronos, la storia si ripete, per poi subire una nuova repentina interruzione. Egli si accoppia con una sorella, ma divora i figli, finché la stessa sorella, ingannandolo, gli fa ingoiare una pietra al posto di Zeus, ultimo nato, il quale può così divenire adulto. Nel frattempo, il pesante boccone fa vomitare Kronos, che rigetta così anche gli altri fratelli e sorelle di Zeus; questi allora coglie l’occasione per uccidere il padre. La terza parte del mito, sempre come ce la presenta Leach, costituisce una specie di apoteosi di tutta la vicenda, in cui ripetizione e irreversibilità si combinano, dando luogo a una inversione generale del movimento. Il tema principale è il contrasto tra le due epoche, quella dominata da Kronos e quella dominata da Zeus. Nella prima regna l’abbondanza e la felicità: i campi danno i raccolti senza essere coltivati, ogni sorta di conflitti è assente e tra i mortali, che nascono dalla terra come piante, ci sono solo maschi. Nella seconda, invece, le cose vanno in un modo che ci è più familiare: le donne esistono, i conflitti pure (le due cose nel mito sono connesse) e i campi devono essere coltivati. Ma il punto più interessante qui è la profezia di un ritorno del regno di Kronos, nel frattempo relegato nei Campi Elisi, paese dei morti felici. Con tale ritorno tutto si ripete al contrario: gli uomini, invece di invecchiare, ringiovaniscono, i morti rinascono dalle loro tombe e le donne (non servendo più!) cominciano ad estinguersi. Tutto il mito quindi contempla, oltre al prologo sulla coppia sterile formata da Cielo e Terra, tre fasi (quella di Kronos, quella di Zeus e infine quella del ritorno di Kronos) con due interruzioni, di cui l’ultima porta alla ripetizione della prima fase, ma in senso invertito. Il Tempo, dunque, come divinità dell’interruzione e del ritorno, dell’irreversibile e del ripetitivo. Mito degli antichi greci, questo, ma anche nostro mito, che ritorna ancora oggi quando si parla del tempo, se è vero che con questa parola ci riferiamo sempre a due dimensioni irriducibili, quella della ripetizione e quella dell’in
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terruzione irreversibile, senza distinguerle, e anzi alludendo alla loro coincidenza. Leach si dice convinto che questa confusione venga dalla paura dell’irreversibilità, che è in fondo paura della morte. Ed è proprio per lenire questa paura che, a suo avviso, le religioni introducono un terzo termine, oltre a quelli che designano o la ripetizione o l’irreversibilità: nel caso degli antichi greci, come si è visto, il tempo, personificato nella figura di Kronos. Figura, questa, che rivela tutta la sua oscurante soperchieria. Fa notare sempre Leach: anche in termini sessisti, il suo mito ha infatti tratti inequivocabilmente maschilisti. Non più storia, né tempo, né dialettica tra il ripetersi necessario e il possibile irreversibile: questa, in sintesi, la prospettiva qui aperta allo studio degli effetti sociali del linguaggio. Secondo le nostre ipotesi, ciò significa che le necessità sociali non esauriscono il campo di ricerche sulla realtà sociale: che il ripetersi sincronico e diacronico di queste necessità è comunque soggetto a interruzioni. Se esse vanno dunque studiate a partire da ciò che se ne dice e se ne può dire, c’è anche un altro dire che va interpellato e può essere rintracciato solo oltre l’interruzione del necessario: laddove si trovano i soggetti sociali che non possono decidere delle necessità del resto della società. a Il linguaggio come risorsa Pensare il linguaggio come una risorsa è diverso dal pensarlo sia come uno strumento, sia come una struttura. Ora considero, infatti, una terza possibilità nell’affrontare la svolta linguistica rispetto alle due appena esposte. Quando si parla di una risorsa, si parla in effetti di una materia prima, non per analizzarla anzitutto nella sua struttura interna e neanche in funzione di un suo uso, ma per considerarne le potenzialità, la molteplicità dei suoi usi possibili. Considerare il linguaggio come risorsa significa in effetti considerarne la molteplicità degli usi possibili. Da questo punto di vista, sostenere che il sociale è costituito anzitutto in termini linguistici significa sostenere che la sua realtà è costituita a partire dalle molteplici possibilità reali che si presentano nel linguaggio. È esattamente questo il terreno di ricerca assunto dalle nostre ipotesi. Qui infatti ci si spinge oltre la svolta linguistica delle scienze sociali, laddove queste si liberano da ogni vincolo naturalistico. Quel vincolo che ancora restava in modo quanto mai coercitivo nell’approccio funzionalistico, strumentale, del linguaggio e che ancora si faceva sentire pure nell’approccio strutturalista. Per vedere il tutto in altra ottica, ripensiamo alla tradizionale distinzione d’ispirazione evoluzionistica tra natura e cultura: tra di esse, si dice, sta il linguaggio che, facendo da interfaccia, mediando tra la prima e la seconda, dà forma alla società. Tutto sta allora nel modo in cui si concepisce questa supposta mediazione, questo suo essere interfaccia del linguaggio rispetto a natura e cultura.
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Per il funzionalismo si tratta anzitutto di una mediazione passiva, di un filtro minimo. Si può allora pensare che la natura agisca sulla cultura e quindi sulla società tramite il linguaggio. Quest’ultimo non sarebbe insomma che lo strumento grazie al quale la natura farebbe valere le sue necessità nella società. Il linguaggio, detto altrimenti, non farebbe che tradurre le cause, gli impulsi, i bisogni naturali in cause, impulsi, bisogni sociali. La società non sarebbe insomma che una seconda natura, causata, determinata, necessitata come la prima: la prima natura che resterebbe la vera chiave di lettura della seconda. Un po’ come dire che gli uomini restano sempre al fondo scimmie, anche se parlano e si organizzano soprattutto parlando, cioè usando il linguaggio. L’etologia e la sociobiologia in effetti restano per lo più, tutt’oggi, ancorate a questa visione naturalistica del sociale, che riduce al minimo lo spazio problematico del linguaggio. Per lo strutturalismo, invece, la mediazione, il filtro che opera il linguaggio tra natura e cultura è attivo e massimale. Che il linguaggio abbia una propria struttura vuol dire proprio che esso ripresenta la natura a modo tutto suo, con simboli, immagini, miti che hanno anzitutto cause, necessità, determinazioni, condizionamenti reciproci, tutti loro. In questa ottica, la riscoperta del rapporto tra il linguaggio e la natura è quanto mai difficile, dubbia e problematica. Preliminare a tale riscoperta è l’analisi minuziosa, quanto mai dettagliata, delle strutture linguistiche. Si ricorderà il più sopra riportato studio di LéviStrauss sul mito di Edipo. Le sue conclusioni non portano affatto a scoprire qualche causa naturale. Laddove un funzionalista molto probabilmente non esiterebbe a concludere che tale mito ha la funzione di vietare l’incesto e dunque di “arricchire il sangue” della specie umana, lo strutturalista francese scopriva invece il dubbio sul mistero tutto intellettuale e in fondo linguistico di come “uno possa nascere da due”. Sarebbe troppo, comunque, non riconoscere il permanere di qualche presupposto naturalistico anche nello strutturalismo, quantomeno in quello di Lévi-Strauss. E questo permanere è per me riconoscibile soprattutto nel fatto che il linguaggio visto come struttura finisce per essere coercitivo, vincolante, oggettivamente necessitante, infinitamente ripetitivo, esattamente come la natura. In effetti, come a suo modo ha dimostrato l’ontologia di Alain Badiou, per naturale solitamente si intende tutto ciò le cui possibilità devono dimostrarsi necessarie, tutto ciò in cui non c’è novità se non come variazione di una ricorrenza, tutto ciò per cui non c’è soggetto che non sia interamente condizionato da una oggettività. Da questo punto di vista, si può dire che la struttura del linguaggio anche per lo strutturalismo è molto spesso concepita come una seconda natura, con termini e modi tutti suoi, ma che si presenta secondo una logica naturale. Ora si può forse capire meglio quale portata innovativa possa avere il pensare il linguaggio come risorsa e dunque come molteplicità di infinite possibilità sociali. Così la distanza col naturale è definitiva, tutto si gioca nel linguaggio, all’interno delle sue possibilità di incidere sul reale. Come si diceva, ad
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esempio, oggi nel mondo nessuna popolazione muore più di fame per cause naturali, perché manchi il cibo o le capacità di distribuirlo in qualunque luogo, ma ciò può accadere solo perché nessuno che ne avrebbe il potere giunge a prendere le “risoluzioni”, a dire le parole adeguate a contrastare simili catastrofi. Il che ovviamente non esclude che dietro a tali impossibilità vi siano dei vincoli, delle necessità, ma sono sempre delle necessità, dei vincoli che si decidono a livello del dire. Ad esempio, non c’è certo alcuna necessità naturale nel fatto che i paesi più ricchi del mondo non concedano poco più o poco meno dello ,% (gli USA solo qualcosa di più dello ,%!) del loro prodotto interno lordo in aiuti a paesi poveri. Quasi tutti sanno che solo aumentando di pochissimo queste cifre il destino di molti paesi poveri potrebbe svoltare al meglio. Tuttavia, se ciò non avviene, è perché nessuno sa come convincere i governi dei paesi ricchi. In essi dunque c’è un ostacolo, una necessità ben reale nell’eludere le questioni degli aiuti. L’economia politica ci può spiegare fino a che punto tale elusione sia giustificata per ragioni di mercato, concorrenziali, e fino a che punto sia invece solo frutto di scelte politiche ispirate a pregiudizi o paure ingiustificate. Lo strutturalismo può spiegare da quali miti, discorsi, immagini o simboli vengano simili paure e pregiudizi, nonché come si sono riprodotti. Ma è solo assumendo il linguaggio come risorsa che si può pensare di prestare seriamente attenzione ai più direttamente interessati: a quegli stessi poveri che non hanno alcun potere nell’ottenere aiuti, né sicuramente sanno come riuscirci, eppure si rendono possibile un’esistenza che dall’esterno, dal punto di vista delle popolazioni più ricche e potenti, sembra talmente impossibile da non essere neanche degna di attenzione, se non filantropica. Le loro parole, il loro pensiero, se opportunamente interpellati, possono rivelare invece delle realtà sociali altrimenti sconosciute. E conoscerle tramite queste stesse parole e questo stesso pensiero può avere anche un uso, una funzione pragmatica, politica, ad esempio precisando le richieste di aiuti. In definitiva, studiare il linguaggio come risorsa significa studiare la realtà sociale come un campo sul quale si affrontano, si scontrano ed eventualmente si confrontano diverse possibilità soggettive identificabili a partire da quel che è detto e pensato a proposito di tale realtà. A imporsi in modo evidente, di solito sono gli enunciati di chi ha il potere di governo e che organizza un consenso, una circolazione di opinioni favorevoli a questi stessi enunciati. Qui l’analisi deve allora valutare in che misura il sapere disponibile su tale realtà giustifica o meno le scelte dichiarate di chi governa e quindi anche il consenso creato attorno a esse. Ma occorre ammettere che in ogni realtà sociale esistono anche le altre risorse del linguaggio: quelle costituite da chi non ha potere di governo, né conoscenze disponibili, e che rende possibile quantomeno una parte di tale realtà. Di solito, le popolazioni che non hanno parte né nel potere né nel sapere sono chiamate popolazioni emarginate, proprio perché non decidono nulla rispetto al resto della società. Ma anche le loro parole e i loro modi di
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pensare possono essere considerati delle risorse e la loro marginalità trattata come una zona di frontiera per nuove possibilità di tutto il sociale. Questo è in effetti l’obiettivo primo delle nostre ipotesi e delle nostre ricerche. E per questo ci collochiamo sicuramente nella scia di chi considera che le scienze sociali debbano assumere il linguaggio non tanto e non solo come uno strumento, non tanto e non solo come una struttura, ma anzitutto come risorsa. a.. Linguaggio e pensiero L’espressione “linguaggio come risorsa” l’ho trovata in Roy Turner, che ha contribuito alla discussione della filosofia di John Austin tra le scienze sociali. Ma prima di tutti, nella promozione di questo orientamento, è da citare quella che è stata chiamata l’ipotesi Sapir-Whorf. È di queste due questioni che ora tratterò brevemente, per meglio chiarire come le nostre ipotesi si situino rispetto a questi antecedenti, per poi concludere con un richiamo a Clifford Geertz, da cui trae ispirazione l’idea stessa di un’etnografia del pensiero. Anzitutto, l’ipotesi Sapir-Whorf, questione quanto mai controversa nelle scienze sociali, le quali le hanno appunto riservato il nome singolare di “ipotesi”, come se mai fosse dimostrata o dimostrabile fino in fondo. È anche in omaggio a questo singolare e controverso riconoscimento che pure le nostre tengono a chiamarsi ipotesi. Ma anche l’accoppiamento di due nomi (Sapir e Whorf) è già abbastanza strano e risponde al fatto che il primo, accademico quanto mai riconosciuto al suo tempo – si tratta degli anni Trenta e Quaranta negli USA –, abbia fatto sue e sviluppate le ipotesi del secondo, che potremmo dire accademico quasi solo per caso. Whorf infatti arrivò alle scienze sociali dopo aver studiato da ingegnere di una compagnia di assicurazione le casistiche degli incendi, nonché per coltivare un amore quanto mai appassionato per le lingue dei nativi messicani e del Nordamerica. Tant’è che egli arriva a riconoscere delle qualità scientifiche, oltre che estetiche e d’efficacia, alle lingue algonchine, «parlate da gente molto semplice, indiani (d’America) dediti alla caccia e alla pesca» e del tutto «sconosciute alle lingue e alle mentalità indoeuropee». L’esempio riportato a sostegno di questo apprezzamento riguarda la possibilità dei nativi d’America di usare una frase come “il padre disse al figlio di portargli il suo arco”. Una frase che è impossibile per una lingua indoeuropea, dal momento che in questo “suo” non si capisce se viene indicato “il padre” o “il figlio”, cosicché si è costretti o a tediose ripetizioni o ad altrettanto tediosi “giri di parole”. La questione è invece del tutto elegantemente e concisamente risolta nelle lingue ammirate da Whorf, dal momento che esse contemplano l’esistenza di due terze persone pronominali, cosicché nell’esempio citato ci sono due modi diversi di dire “suo” a seconda che si riferisca al padre o al figlio.
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Dal che si deve concludere anche che, in un simile caso, un nativo d’America, potendo risparmiare le parole rispetto a uno che parla con una lingua indoeuropea, ragiona meglio e più velocemente di quest’ultimo? Se così fosse, che dei “selvaggi” hanno un’intelligenza più agile ed efficace dei “civilizzati”, non si dovrebbero forse rimettere in discussione gli stessi principi dell’evoluzionismo? È per il fatto di non avere mai risolto tali dubbi che l’ipotesi Whorf legittimata da Sapir ha goduto fama di essere “sovversiva e provocatoria”. Il contenuto più preciso di tale ipotesi sta in ogni caso nel sostenere che il pensiero dipende dalle categorie elaborate dal linguaggio. Dal che «Siamo […] indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili». Per capire il senso di questo nuovo principio di relatività, che si richiama evidentemente a quello già fatto valere da Einstein in fisica, è opportuno precisare rispetto a quale principio assoluto prenda le distanze. Ebbene, si tratta proprio della pretesa di qualsiasi linguaggio di valere in assoluto, a priori, tanto per la natura tutta, quanto per la molteplicità dei linguaggi. Contestare questa pretesa universalistica tradizionale non significa però escludere che tra i diversi linguaggi e i modi di pensare da essi condizionati ci possano essere dei nuovi incontri. Anzi, è proprio a questo che le ricerche di Whorf si sono dedicate. Il limite di relatività che esse pongono è di non supporre che tutto sia sempre pensabile in unico modo e quindi con unico linguaggio. Tutto il nuovo problema sta dunque nel trovare come, con quali approcci, su quali terreni problematici, far incontrare linguaggi e modi di pensare diversi, tenendo conto del fatto che ci si trova sempre all’interno di un pensiero e di un linguaggio, in rapporto ad altri pensieri e linguaggi. Così intesa, questa ipotesi non è che un’anticipazione quanto mai radicale di quella che ho chiamato la svolta linguistica. In effetti, se si postula il contrario dell’ipotesi suddetta, cioè che è il linguaggio a dipendere dal pensiero, significa che si continua a trattare il linguaggio come uno strumento; che si continua cioè a ridurlo entro i limiti dell’impostazione evoluzionista, la quale, come si è visto, considera minimo il filtro che il linguaggio pone tra natura e cultura; per cui è sempre alla prima che andranno ricondotte le necessità più profonde della seconda e quindi anche di ogni forma di pensiero e di qualsiasi società. Tutt’altre sono invece le conseguenze che si possono trarre dall’ipotesi secondo cui è dal linguaggio che dipende ogni pensiero. Una di queste conseguenze è, ad esempio, che quando un ricercatore sociale intende studiare una popolazione deve partire dal linguaggio di questa stessa popolazione, senza anteporre pregiudizi sulle sue capacità di pensare, ma supponendo solo che ogni parlare implica sempre un pensare. Si pone quindi il problema di come sia possibile un incontro scientificamente proficuo tra il ricercatore e la popolazione da lui interpellata. Whorf, da linguista, lo cercava anzitutto sul piano della
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grammatica. Per chi cerca di conoscere la realtà sociale le cose devono quindi andare altrimenti. Se il ricercatore resta fedele all’assunto che il pensiero dipende dal linguaggio, egli deve misurarsi con la difficoltà di fare una ricerca a partire da un altro linguaggio che non è il suo. La soluzione più adottata, allora, è quella dell’interpretazione ai fini della traduzione: della traduzione del linguaggio della popolazione studiata in quello del ricercatore che la studia. Questa è comunque la soluzione “anti-anti-relativistica” proposta e praticata dall’antropologia detta appunto “interpretativa” di Clifford Geertz. Ma qui può insorgere un’obiezione. Il linguaggio che viene tradotto si può dire infatti che venga ridotto a un linguaggio oggetto da parte del linguaggio in cui viene tradotto e che in logica, quella di Tarski, ma anche in teoria linguistica, quella di Louis Hjelmslev, viene detto metalinguaggio. Dal che insorgono tutti i legittimi dubbi su quanto di un linguaggio ridotto a oggetto possa restare nel metalinguaggio in cui è tradotto. Geertz, nel saggio in cui postula possibilità di un’etnografia del pensiero, coglie perfettamente il problema e ne cerca una soluzione nel pensiero stesso, nonché nelle ricerche novecentesche di un suo nucleo fondamentale originario (la psicoanalisi inaugurata da Freud e la grammatica generativa di Chomsky sono portati ad esempio). È dunque da questa facoltà essenziale del pensare che dipenderebbe la possibilità di incontro, di interpretazione e di traduzione tra linguaggi diversi, proprio come avviene quando, anche tra gli individui più diversi, ci si riesce comunque a intendere. Il paragone chiaramente ironico con cui Geertz pone diverse comunità scientifiche sullo stesso piano di villaggi tribali ha proprio questo senso: di ridimensionare il linguaggio da esperti delle scienze sociali, la loro presunta superiorità metalinguistica, banalizzandola e abbassandola allo stesso livello di dialetti e convenzioni tradizionali. Resta che in tal modo si rischia di ritornare a quella tradizionale idea dell’anteriorità del pensiero rispetto al linguaggio che viene superata dall’ipotesi Sapir-Whorf, se assunta nelle sue conseguenze più radicali. In effetti, ricondurre, come fa Geertz, la questione dell’incontro tra diversità di linguaggio e di pensiero a questione di traduzione e interpretazione, più che apportare chiarimenti, non fa che aprire altre questioni, d’ordine filosofico ed ermeneutico, come il libero arbitrio e l’impossibilità dell’individuo d’evitare l’errore. La domanda su dove il ricercatore sociale possa trovare le risorse per pensare un pensiero diverso dal suo e per parlare un linguaggio diverso dal suo necessita di risposte più operative. In ciò che dice Whorf, per quanto in modo ellittico e allusivo, c’è di che trovarne. Si rifletta ad esempio sulla sua sentenza secondo cui «la parola è quanto di meglio l’uomo sappia fare». La parola è qui chiaramente intesa come vera potenza del linguaggio. Tutto sta allora nel decidere a quale aspetto del linguaggio si dà la priorità: se alla potenza significante delle parole o invece alle regole discorsive che esistono tra i significati delle parole. Solo in quest’ultimo caso le questioni di interpretazione come traduzione diventano cruciali, perché
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solo in questo caso, per indagare la realtà sociale di una popolazione, bisogna anzitutto tradurne il linguaggio nel metalinguaggio di chi fa l’indagine. Nell’altro caso, in cui tutto è affidato alla potenza delle parole e delle loro concatenazioni significanti, non vi è alcuna differenza insormontabile tra il linguaggio di chi fa l’indagine e quello di chi è interpellato dall’indagine. Qui può valere a chiarimento una categoria proposta dall’Antropologia del Nome, di Sylvain Lazarus: quella di “molteplicità omogenea”. Il linguaggio, dunque, come molteplicità differenziata, infinitamente differenziata, ma fondamentalmente omogenea: originata e attivata dalla stessa risorsa, quella delle parole, della capacità significante delle parole. Quanto possa essere potente questa capacità lo si può cogliere pensando all’esempio della poesia: più precisamente, al caso in cui una poesia così intensa che non perde il proprio contenuto artistico, pur passando tra lingue diverse. Ciò evidentemente può avvenire solo a condizione che il traduttore sappia intercettare l’ispirazione del poeta, se ne faccia trasportare e si prenda le sue responsabilità nel renderla, anche forzando, eventualmente, i rapporti tra i significati letterali delle parole. E non si tratta di un esempio del tutto a caso. In effetti, ai fini della ricerca etnografica come la intendo, per conoscere la realtà sociale racchiusa in ciò che dicono i soggetti incontrati, è molto più opportuno leggere e pensare i loro enunciati come un testo poetico, ben più che come una narrazione. Da cercare è infatti non la logica discorsiva, che tiene insieme i significati delle parole, non la coerenza o meno del rapporto tra presupposti e conclusioni, tra inizio e fine, ma quanto danno da pensare le parole stesse, le frasi o i frammenti di discorsi, presi in quanto tali, nella loro potenza significante. Come nel caso delle poesie, le quali per essere apprezzate fino in fondo devono essere imparate a memoria, lo stesso o quasi è consigliabile fare con i testi raccolti dalle interviste etnografiche: ripeterli e ripensarli, fino a che alcuni di loro possono tornare alla mente senza essere letti. Quando si tenta così di pensare un pensiero, allo scopo di incontrare la realtà che sta tra le sue parole, la traduzione come l’interpretazione risultano per quello che sono: questioni accessorie, pressoché tecniche. a.. Performance o prescrizione? Un semplice “sì” e le nozze sono fatte, cambiando la realtà, anche sociale, di lei e di lui, dal momento in cui diventano moglie e marito. Il matrimonio è un classico esempio di performance. Termine che, come insegna Victor Turner, viene dal francese arcaico parfournir e significa concludere, portare a termine. John Austin è famoso per avere eretto atti simili a temi filosofici e logici di prima importanza, contribuendo a suo modo a quella che ho chiamato la svolta linguistica. Le sue categorie chiave sono appunto gli “enunciati constativi” e gli “enunciati performatici”. Questi ultimi essendo appunto in grado di fare, di portare a termine, di realizzare cose (un matrimonio ad esempio), mentre gli al
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tri, i constativi, no. Roy Turner, per trattare del linguaggio come di una risorsa, è proprio a queste idee di Austin che si riferisce. Qui, linguaggio e realtà tendono a confondersi, sia pur occasionalmente. In fondo, si sostiene che non sempre il dire è fare, ma talvolta, quando la performance riesce, ovvero è “felice”, secondo un termine caro ad Austin, sì. Ma ciò che decide di questa eventualità non è tanto l’enunciato, quel che si dice, quanto rispetto a che cosa lo si dice, rispetto a quale contesto, rispetto a quali convenzioni preesistenti. La realtà, dunque, è sempre anzitutto una realtà convenzionale a cui, dicendo, si può aggiungere o togliere qualcosa. Il linguaggio come risorsa è così certo esaltato, fino al punto di attribuirgli capacità d’agire realmente, ma le sue possibilità di azione restano comunque quanto mai modeste, sempre entro una cornice di convenzioni da rispettare, pena l’“infelicità”, degli enunciati, s’intende. Ne consegue che la realtà sociale diventa quella che si può conoscere tramite ogni sorta di conversazione, purché colta all’interno della “vita quotidiana”. Tanto le chiacchiere domestiche più banali (ad esempio, quelle telefoniche) quanto le discussioni più sofferte e problematiche (ad esempio che decidono le attività di un ospedale psichiatrico o di un tribunale) sono messe tutte allo stesso livello di interesse primario da questo tipo di approccio, che può essere ricondotto all’“etnometodologia”. Sui pregi e i difetti che questa impostazione ha dal punto di vista delle nostre ipotesi ho già scritto più sopra. Ora mi interessa piuttosto mettere a confronto questa categoria degli enunciati performativi con un’altra, d’altra impostazione e che pur riguarda sempre le possibilità del linguaggio di dar luogo a effetti reali. Si tratta degli “enunciati prescrittivi” così come sono presentati da Sylvain Lazarus. La questione è dunque che differenza fa per la ricerca sociale analizzare il linguaggio come performance o analizzarlo invece come prescrizione. Anzitutto, se inteso come performance, il linguaggio porta a termine, conclude, esaurisce una realtà (lo si è visto nell’esempio delle nozze concluse), mentre non è così dal punto di vista della prescrizione. Da questo punto di vista, infatti, la realtà resta sempre distinta dal linguaggio. Ma ciò non per lasciare aperto lo spazio ad altri tipi di problematiche del reale (riguardanti per esempio i bisogni naturali, gli interessi economici, di classe o la psicologia dei soggetti parlanti), bensì perché la realtà stessa è concepita come campo in cui coesistono sempre più prescrizioni, di cui nessuna può mai essere completamente realizzata. Così, da questo punto di vista, dal punto di vista prescrittivo, tutto risulta possibile, nell’ordine del possibile, aperto su un ventaglio più o meno limitato. Per analizzare questa molteplicità di possibili, la prima distinzione da operare è quella tra le possibilità prescritte da chi ha potere di governo sulla realtà sociale e invece le possibilità prescritte da chi, pur aderendo a tale realtà, non vi ha alcun potere di decisione. Ecco allora che anche le realtà sociali che più interessano le ricerche sul linguaggio come prescrizione sono diverse da quelle che lo considerano come
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performance. Se in quest’ultimo caso la realtà sociale è anzitutto quella dei frammenti della vita quotidiana, non è così nel primo caso. Quando si va alla ricerca, non di performance, ma di prescrizioni, a interessare sono anzitutto le realtà sociali dove risulta più netta e più problematica la distinzione tra chi ha potere e chi no: tra chi, prescrivendo, decide del governo di una molteplicità indistinta ed eterogenea di altra gente e chi invece può prescrivere solo per sé e solo eventualmente con altri governati come lui. L’esempio più evidente, ma non l’unico, né quello eminente, allora è rappresentato dalla realtà della fabbrica. E ciò perché la polarizzazione delle prescrizioni è solitamente massimale. Da un lato, infatti, chi ha il potere di governare un’impresa, con le sue prescrizioni non condiziona solo la stessa impresa a tutti i diversi livelli del lavoro, da quelli più intellettuali o tecnici a quelli più duramente manuali, ma condiziona anche il consumo, e quindi il mercato, anche finanziario, con tutte le sue ricadute sull’economia globale. Dall’altro lato, invece, quello del prestatore di mano d’opera, ossia dell’operaio, non si può quasi mai nulla, né si sa come potere qualcosa, per quanto ci siano sindacalisti che bene o male lo sanno e lo fanno, con prescrizioni che spesso pretendono di essere le uniche varianti rispetto a quelle della direzione. Ma, confidando nel linguaggio come risorsa inesauribile, anche tra gli stessi operai, se la ricerca sociale li interpella come esseri parlanti e pensanti, si trovano parole, enunciati e frammenti di discorsi, che possono essere presentati come ulteriori prescrizioni sulla stessa realtà della fabbrica. Questa, dunque, è da intendersi come luogo di coesistenza di molteplici prescrizioni, all’interno del quale la ricerca deve scegliere su quali di esse concentrarsi. La scelta di parte, della parte della popolazione della quale individuare le prescrizioni, è decisiva. Per trattare tutte le prescrizioni presenti in una realtà sociale, occorrerebbe infatti identificarsi in un metalinguaggio che supponga di ridurre a linguaggio-oggetto ogni tipo di prescrizione. Ma poiché, secondo le nostre ipotesi, nella ricerca si deve evitare ogni metalinguaggio, per conoscere la realtà non resta che provare a individuare un insieme di prescrizioni tenendolo distinto dagli altri. Nel nostro esempio: quelle della direzione, quelle dei sindacati o quelle degli operai. Ognuna infatti ha una problematica diversa. Per studiare quelle della direzione, ma anche quelle dei sindacati, sicuramente occorre analizzare quanto esse siano giustificate o meno rispetto al sapere disponibile sui diversi piani, economico, finanziario, giuridico, di relazioni aziendali e così via. Mentre, per studiare quelle degli operai, occorrerà analizzare il contenuto di quello che dicono una volta interpellati dall’inchiesta. Ma non a partire dalle regole di coerenza del discorso, né per la coscienza che essi dimostrano di avere a proposito di ciò che il ricercatore stesso presume di sapere e neanche per quanto aggiungono o tolgono alle convenzioni esistenti nella loro vita quotidiana. Ciò che interessa è piuttosto la lettera delle loro stesse parole, dei loro frammenti di discorso, la loro risorsa significante. Nel loro ricorrere o, viceversa, nel loro spez
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zarsi in un detto singolare, nelle loro associazioni e dissociazioni previste o impreviste, non meno che nei loro equivoci, questi pezzi sparsi di linguaggio, se combinati e scombinati, se letti e riletti, danno sempre da pensare al ricercatore che voglia davvero conoscere questa realtà. Egli può allora scoprire cosa per gli operai va e cosa non va, cosa è fuori discussione e cosa invece può migliorare: tutte “cose” che molto probabilmente risultano ben diverse da quello che direzione, sindacati e altri tipi di ricerche sociali si immaginano. Ma non sono certo solo le fabbriche le realtà sociali che rispondono al requisito di essere al centro di più prescrizioni tra loro diverse. Come dimostrano i rapporti d’inchiesta riuniti in questo libro, le nostre ipotesi si possono applicare anche a centri di servizi sociali, scuole o associazioni di volontariato. L’essenziale è che si tratti di realtà sociali ben localizzabili, di luoghi in cui sono riunite delle molteplicità di soggetti che lavorano sotto il governo di un qualche potere pubblico o privato. In definitiva, si può quindi concludere che, secondo le nostre ipotesi, per studiare la risorsa del linguaggio in rapporto alla realtà sociale, è opportuno studiarne i luoghi dove si presentano più prescrizioni, all’interno delle quali si possono distinguere quantomeno quelle provenienti dalla soggettività costituita da chi governa e quelle provenienti dalla soggettività costituita da chi è governato, tenendo presente comunque che ogni soggettività capace di prescrizioni merita un approccio diverso. a Segni ovunque a.. La semiotica alla moda Una sottolineatura di quanto appena scritto: se escludo la possibilità di far ricerca con gli stessi metodi e approcci su chi ha potere nella società e chi no, è perché ritengo che il linguaggio, e dunque il pensiero, non possano mai abbracciare tutta la realtà e meno che mai quella sociale. Così bisogna ammettere che le scienze sociali non possono mai pretendere di conoscere una qualsiasi realtà sociale nella sua interezza, ma solo per pezzi o frammenti e solo concentrando le loro ricerche su uno di essi, senza volere contenerli tutti all’interno di un’unica problematica. Mantengo dunque uno scarto, una differenza fondamentale tra linguaggio e realtà, intendendo quest’ultimo termine come sinonimo di “ciò di cui non c’è nulla da dire”, proprio perché è altro rispetto al linguaggio stesso. Un indicibile, un impensabile, un incognito, un indeterminato, che, occorre ammetterlo, rappresenta il limite di ogni ricerca. Contemplare questo limite significa prendere una distanza decisiva rispetto alla già considerata teoria della performance, la quale, come si è già visto, porta a confondere il dire col fare, il linguaggio e la realtà. Ma così ci si discosta anche da un’altra grande galassia del cosmo sociolo
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gico e antropologico. Intendo quelle impostazioni problematiche che hanno cominciato a circolare nel corso degli anni Sessanta del Novecento e che si sono imposte sostenendo slogan come “tutto è segno”, ovvero l’idea secondo cui ogni società si fonda sullo scambio sistematico di segni. Ad avvalorare queste ipotesi, nell’Italia di Umberto Eco, forse il più famoso cultore di questa materia nel mondo, c’è chi ha parlato di “svolta semiotica”, anziché di “svolta linguistica”. In quest’ottica, la grande novità novecentesca per le scienze sociali starebbe nell’assumere l’importanza non del linguaggio in quanto tale, ma dei segni in genere (inclusivi ad esempio anche del far segno come gesto manuale), tra cui quelli linguistici non sarebbero che una componente più o meno decisiva. L’obiettivo cognitivo così raggiunto sarebbe quello di poter sfruttare le maggiori scoperte in campo linguistico per altri campi scientifici, come quello appunto delle ricerche sociali, a esso esteriori. Il tutto, peraltro, in conformità a quanto auspicato dallo stesso padre della linguistica novecentesca. In effetti, lo stesso de Saussure si era augurato che la fondazione a venire di una semiologia avrebbe potuto accogliere e completare i risultati che le ricerche linguistiche del suo tempo stavano ottenendo. Se i maggiori successi stavano arrivando dal separare, in ogni parola, significante (fonologico) e significato (semantico), per aprire così un nuovo spazio alla perlustrazione grammaticale, la speranza era che un giorno si sarebbe giunti a ricomporre significanti e significati come le due facce di uno stesso segno, cui la parola stessa avrebbe dovuto essere ricondotta. Ma così non è stato. Cosicché, fino a oggi «la semiologia non ha avuto contenuto che non sia stato preso in prestito dalla linguistica». Studiare la società dal punto di vista dello scambio dei segni equivale non solo a studiare la società come se fosse riducibile a un linguaggio, ma anche a considerare il linguaggio come se fosse fatto di segni e dunque in un modo in buona parte estraneo a ogni nuova scoperta linguistica. Così, con una sola mossa, la semiotica si pone al di sopra tanto delle scienze sociali quanto delle scienze del linguaggio. Del resto, è chiaro che l’ipotesi secondo cui tutto è segno, tutto è linguaggio, ha forza solo se intesa in senso polemico: solo come contestazione dell’evidenza banale, ma ben difficilmente confutabile, secondo la quale non tutto è segno e/o linguaggio. Tale contestazione, almeno ai suoi inizi, negli anni Sessanta, ha avuto l’indiscutibile merito di innalzare il livello di attenzione tenuto dalle scienze sociali rispetto alla questione del linguaggio e alle novità delle ricerche linguistiche. Più discutibili sono invece gli effettivi contributi apportati dalla semiologia alla conoscenza della realtà sociale. Quanto mai significativo a questo proposito è il percorso delle ricerche di uno dei suoi padri fondatori, Roland Barthes. Se egli nel dà infatti a questa sua disciplina un programma scientifico quanto mai ambizioso, quello di «sviluppare un’analisi generale dell’intelligibile umano», che viene realizzato negli Elementi di semiologia, dopo tre anni, nel , egli arriva a fare della moda una questione intellettua
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le di prima grandezza. Addirittura la teorizza come “sistema”. E ciò in un’epoca, quella degli anni Sessanta, in cui, quando la parola “sistema” veniva usata, lo era quasi solo per alludere, oltre che a quelli matematici, a quello capitalista e a quello socialista. Una vera e propria provocazione, dunque, quella di mettere la dimensione dell’haute culture sullo stesso piano dei due modelli socio-politico-economici che si dividevano il mondo. Così anche in Francia, una delle patrie più importanti delle scienze sociali, si ha il fenomeno per cui temi sociali solitamente ritenuti superficiali vengono promossi allo stesso rango intellettuale di quelli ritenuti più profondi. Qualcosa di simile a quello che in area anglosassone è accaduto, praticamente negli stessi anni, ergendo la vita quotidiana a dimensione sociale decisiva. Del resto, sono questi i tempi in cui i ceti medi dei paesi più ricchi celebrano il loro trionfo grazie a politiche di distribuzione del reddito che ne favoriscono la crescita, come mai era avvenuto prima della metà degli anni Quaranta e come mai più avverrà dopo la metà degli anni Settanta. Oggi che tempi simili sono passati, anche la semiotica non ha più quel primato tra le scienze sociali che aveva a suo tempo conquistato. Resta comunque la sua eredità, fatta dell’enorme massa di ricerche sociali dedicate a fenomeni come la moda. Senza nulla togliere alla loro legittimità, peraltro unanimemente riconosciuta, resta da discutere come mai siano proprio esse a essere privilegiate da questa impostazione semiologica, la quale si vuole d’orientamento generale sia per le scienze sociali sia per le scienze linguistiche. Il punto è che, dal momento in cui si considera che il segno è tutto, il problema principale diventa necessariamente lo scambio tra i segni dal punto di vista più ampio possibile. Ecco dunque che la linfa di ogni società viene trovata nella “comunicazione di massa”. Non per nulla, lo stesso Barthes aveva promosso un pionieristico Centro studi delle comunicazioni di massa. Se quindi sono le comunicazioni di massa a rivelare quel che più conta della realtà sociale, è chiaro che a essere privilegiato è qualunque fatto su cui le opinioni, anche quelle più banali, sono attratte e polarizzate. Moda, gossip, cronache, specie se relative a personaggi ricchi e potenti, qualsiasi scandalo o curiosità, dal momento in cui sono configurabili come decisivi entro un sistema di scambio e circolazione dei segni, sono visti anche come socialmente decisivi. Così, il ricercatore sociale diventa il compagno di strada del giornalista, per dare un tono più scientifico alle inchieste d’opinione. In effetti, sociologi, antropologi e psicologi da talk show sono divenuti oggi personaggi quanto mai familiari. a.. Il ritorno del sistema Ma vi sono anche altri tipi di esperti del sociale più o meno influenzati dalla corrente semiologica oggi declinante. La sua crescente influenza, a partire dalla fine degli anni Sessanta, è stata infatti tale da attraversare praticamente ogni ambito delle scienze sociali. Tra i suoi altri svariati effetti, uno mi pare qui degno di no
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ta. Si tratta del rilancio alla grande della categoria di “sistema”. Vecchia categoria filosofica, questa, celebrata dalla filosofia hegeliana. A far di tutto un sistema, in questo caso, è lo Spirito Assoluto per cui, secondo la nota formula, “quel che è reale è razionale, quel che è razionale è reale”. Insomma, poiché si suppone che ovunque aleggi uno Spirito Assoluto che costituisce l’unità del Tutto, l’importante per la ragione è saper riconoscere la sua presenza in modo sistematico, poiché solo così può avere un’efficacia reale. In tal senso, Hegel finiva per esaltare lo Stato costituzionale tedesco, che al suo tempo faceva i primi passi, come incarnazione dello Spirito Assoluto, tale da rendere la società civile un sistema reale e razionale. È da qui che poi Marx, e in seguito tutti i marxisti, prendono le mosse per definire il loro nemico, sempre usando la parola “sistema”: il sistema capitalista, che forse si può dire rappresenti l’uso della parola “sistema” di maggior successo tra le scienze sociali. Invece dello Spirito Assoluto, qui a costituire l’unità del sistema è l’“equivalente generale”, il denaro, di cui il comunismo si supponeva avrebbe saputo fare a meno. Barthes, quando, negli anni Sessanta, tirò fuori l’idea di considerare la moda come un sistema, sapeva certo di riutilizzare in un modo nuovo e un po’ ironico quella stessa parola che i comunisti usavano per criticare la società capitalista. L’unità del sistema semiotico è ovviamente data dal segno in quanto tale, il quale, come lo Spirito Assoluto per Hegel o il denaro per Marx, è ovunque, cosicché solo la sua conoscenza sistematica permette di conoscere la realtà sociale. “Sistema” è stato quindi usato quasi come sinonimo di quest’ultima, senza dover riferirsi all’hegelismo o al marxismo. Un’opera di passaggio assai significativa è La società dello spettacolo di Guy Debord, che nel coniuga una ripresa della visione hegelo-marxista coi temi emergenti della semiotica, così da riutilizzare tutte le categorie della vecchia critica del capitalismo per denunciarne gli ultimi sviluppi come “spettacolarizzazione” della società. Ma, a lato della scia semiologica, sono state possibili anche nuove teorizzazioni della realtà sociale come sistema. Una delle più note, anche in Italia, è quella di Niklas Luhmann, che ha impresso una svolta alla tradizione tedesca hegelo-marxista mantenuta viva dalla scuola di Francoforte e da notevoli figure del secondo dopoguerra, come Herbert Marcuse o Jürgen Habermas. Una svolta che, per l’essenziale, si è realizzata tramite un ripensamento della classica categoria di “sistema” in rapporto all’“ambiente”, il tutto con forti richiami alla biologia, la quale si è così ritrovata a svolgere quel ruolo di scienza-modello già svolto tra Ottocento e Novecento, quando l’evoluzionismo dettava legge. Inaggirabile vincolo posto dalla semiologia resta comunque che il centro focale di ogni studio dei sistemi sociali stia in ciò che viene più spesso definito “sistema delle comunicazioni di massa”. Da esso viene fatto dipendere tanto il consenso di cui necessita la politica, a sua volta da intendersi come sistema, come sistema politico, quanto l’opinione pubblica, ossia ciò che più conta di quel che chiunque pensa. Da qui l’esaltazione del potere detenuto da parte del sistema delle comunicazioni di massa nel manipolare ogni forma di consenso e
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opinione. In effetti, una volta ammesso che tutto è segno, è chiaro che si è indotti a riconoscere una potenza enorme ai mezzi che legano, che mettono i segni in comunicazione tra loro: i tanto celebrati “mass media”. Cosicché, chi accetta di far suo l’universo semiologico diviene molto facilmente propenso a riconoscere nella realtà sociale una sorta di “quarto potere” all’ennesima potenza, al cui vertice possono comparire figure come quella del “Grande fratello”, quale se lo immaginava Orwell. Insomma, la semiologia, per quanto critica voglia essere, con l’enfasi che pone sul potere dei media, finisce per accrescerne il seguito. Facendo un brusco tuffo nell’attualità più prossima, trovo del tutto sostenibile che in una figura come quella di un Berlusconi al governo ci sia anche da vedere una sorta di avveramento più o meno involontario di profezie semiotiche sul ruolo crescente dei “media” nel manipolare le masse ignoranti. Dal punto di vista delle nostre ipotesi, le cose stanno del tutto diversamente. Non che sia da negare il potere della comunicazione, da negare è piuttosto che l’unico modo per conoscerlo stia nel pensarlo come sistema autosufficiente o, secondo un termine più sofisticato, caro a Luhmann, “autopoietico”. Un’altra possibilità sta nel pensare che tutto il potere della comunicazione risieda più semplicemente in una ripetizione di alcune opinioni selezionate, le quali tanto più sono diffuse e amplificate quanto più si degradano, perdono di senso, come già nel secondo dopoguerra notavano Lazarsfeld e Merton. Così, si tratta di capire che ogni potere di governo comporta certo una qualche forma di consenso e di capacità di manipolarlo, ma sempre solo entro un più o meno lungo lasso di tempo, scaduto il quale, si pone comunque la questione di come rinnovare il consenso. Una questione, questa, che si pone anche per chiunque abbia un grande potere sui mezzi di comunicazione. Sia pur solo per essere mantenuto, questo potere richiede dunque delle decisioni periodiche. Ed è proprio in queste decisioni che sta la cosa più interessante da studiare nella gestione del consenso e dei mezzi di comunicazione. Chiedersi perché una campagna d’opinione piuttosto che un’altra, perché si propaga questo messaggio pubblico piuttosto che quell’altro, a volte può infatti rivelare svolte altrimenti impercettibili nei giochi di potere. E per capire il senso di queste eventuali svolte, a nulla serve considerarle nella loro funzionalità sistematica, come se non servissero ad altro che a oliare sempre lo stesso meccanismo. Da analizzare sono invece anzitutto le conoscenze che hanno spinto alla decisione colui che l’ha presa. Solo così infatti tale decisione potrà venire analizzata, distinguendo in che misura essa sia stata, al peggio, arbitraria e menzognera, o, al meglio, razionale e intelligibile ai più, e quindi democratica. Insomma, occorre sempre distinguere tra consenso e consenso, tra comunicazione e comunicazione, tra svolta e svolta nella loro gestione. E trattarli in blocco, come sistemi di segni o effetti sistematici della potenza di mass media, non giova certo a tali distinzioni. D’altra parte, l’approccio semiotico, col suo assunto secondo cui tutto è segno, risulta decisamente incompatibile con le ipotesi stesse delle nostre inchie
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ste. La prima di queste ipotesi, infatti, lo ricordo ancora una volta, sostiene che chiunque, anche senza sapere e senza potere, può pensare, nonché che questo pensiero può rientrare tra i temi più importanti delle ricerche sociali. Possibilità, queste, che sono invece prive di ogni interesse per chi vede tutto ruotare attorno alle comunicazioni di massa e al potere di manipolare le opinioni. Le ricerche possibili nei confronti delle popolazioni che non hanno questo potere sono allora solo quelle che le interpellano come campioni dai quali trarre “indici di gradimento” o “di ascolto” o rozze dicotomie tra “favorevoli” e “contrari”. Le loro parole insomma non contano nulla, se non come ripetizione, conferma o diniego di discorsi elaborati da altri, più potenti in materia di comunicazione. Ora, è chiaro che anche nelle nostre inchieste si tiene conto della ripetizione delle opinioni, del consenso più o meno manipolato, degli effetti della comunicazione di massa, fenomeni tutti sempre ben presenti nelle parole e nel pensiero di chiunque, e dunque, a maggior ragione, di chi ha pochi mezzi propri o non ne ha affatto. Ne teniamo conto, ma con due distinguo. Anzitutto, che il pensiero dei nostri intervistati va cercato proprio laddove le loro parole dicono di più o di meno rispetto ai discorsi e alle opinioni consensuali che circolano tra loro come nel resto della società; il che significa fare attenzione anche ai lapsus, alle forzature, agli equivoci, alle stranezze, alle scorrettezze, che sono riscontrabili in quanto i nostri interpellati dicono anche quando ripetono il già sentito. L’altro distinguo riguarda il fatto che, anche quando una popolazione pare particolarmente passiva nel ripetere luoghi comuni, ciò non significa che la si debba ritenere completamente manipolata; a essere rilevante, in un caso simile, è analizzare in dettaglio quali siano i luoghi comuni ripetuti, come sono ripetuti, perché proprio quelli anziché altri. Decisiva, per orientare su tutte queste questioni, è la categoria di “luogo”, cui si è già accennato e che considereremo meglio in seguito. Decisivo è che ogni popolazione sia interpellata in riferimento al luogo in cui vive, lavora, apprende, a seconda del caso che interessa la ricerca. La realtà sociale, per le nostre ipotesi di ricerca, non è che la realtà di luoghi, per conoscere i quali non ci fidiamo in fondo che delle parole di chi vi è governato. Per concludere, alle categorie semiologiche di “segno”, “sistema” e “comunicazione” le nostre ipotesi oppongono “parola”, “luogo” e “pensiero”. a Dalla comunicazione alle comunità a.. Doni non richiesti La semiologia, sul finire del XX secolo, ha perso non poco del suo fascino, un tempo quasi irresistibile. Le sue teorizzazioni si sono oggi tanto più ridotte quanto più diffusi e disparati sono stati i suoi successi tra le scienze sociali. L’e
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spansione insomma si è realizzata in effetti, che ora si stanno combinando in nuove configurazioni problematiche. Ma, col nuovo secolo, a diventare egemone tra le scienze sociali, più che una problematica o una metodologia, è piuttosto un tema: il tema comunitario. Sia chiaro, si tratta di un tema vecchio e ben noto. Tra i suoi teorici il più famoso risale all’Ottocento. Si tratta di F. Tönnies con la sua opera Comunità e Società del , dalla quale, si può dire, non c’è ricercatore sociale che non abbia attinto. Tant’è che molto spesso società e comunità compaiono come sinonimi, o accomunati in espressioni come “comunità sociale”. Ma è degno di nota che Tönnies stesso facesse dell’opposizione tra questi due termini il centro stesso del suo discorso; un discorso, peraltro, pervaso dal rimpianto per un’autentica dimensione comunitaria, resa sempre meno possibile dall’inesorabile e progressivo imporsi della società. L’idea è che la comunità corrisponda alla condizione più originaria e naturale dell’umanità. La famiglia, il legame di sangue tra familiari fanno qui da riferimenti sostanziali. Il modello di riferimento è costituito dal patriarcato e dall’economia domestica, quali quelli con cui solitamente si caratterizza il Medioevo. Nella comunità, dunque, vige la più naturale unità delle volontà e dei sentimenti di coloro che la compongono. Con l’imporsi della società, invece, i rapporti tra individui si ridurrebbero a rapporti essenzialmente contrattuali, a scapito della naturalezza e dei sentimenti sostituiti da concorrenza, egoismo, individualismo, il tutto dominato dal denaro. Qui il modello di riferimento è la società borghese, più o meno quale Marx, citato da Tönnies, l’aveva presentata. Ora, è chiaro che questa è una visione tipica di una certa tradizione tedesca romantica e storicista. Che al suo centro stia ancora un riferimento alle necessità naturali, di cui si lamenta proprio lo svanire nel presente, ciò fa chiaramente intendere che si tratta di un discorso da fine Ottocento, mezzo secolo prima del culmine della svolta linguistica. Come ha dimostrato Roberto Esposito, la parola stessa “comunità” contiene già nel suo stesso etimo latino l’idea di un legame passivo, causato da un dato precedente ed esterno, che chi ne subisce gli effetti non può mutare. Communitas significa infatti cum-munus, con dono, l’essere accomunati da un dono ricevuto. Ad esempio, nella tradizione biblica, si tratta del dono della grazia; un dono, di cui l’umanità stessa – a seguito della storia della mela, altro dono, questo diabolico, accettato da Eva – non si è dimostrata degna; da qui il peccato originale che ciascuno in vita si porta addosso, avendo come unica scappatoia di arrivare alla morte senza avere troppo aggravato la propria condizione di peccatore congenito. In effetti, il dono che accomuna in comunità è un dono che nessuno ha voluto e di cui tutti devono sentirsi debitori insolventi. Questo, dunque, detto in due parole, il senso più profondo e quanto mai coercitivo della categoria di comunità. Essa suppone la figura di un donatore originario, sempre in credito, come una immutabile ipoteca su ogni possibilità soggettiva.
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Nella tradizione biblica si tratta chiaramente di Dio, l’Ente da cui tutto dipende e che sta prima di ogni cosa, l’Uno. Ma un Uno, dato una volta per tutte e che di tutto dà la misura, è sempre obbligatorio quando si parla di comunità. A differenza di quel che si intende normalmente per società e che evoca comunque delle diversità di condizione tra chi ne fa parte, comunità significa una popolazione unita attorno a una identità. Identità che vuol dire appunto Uno, ovvero il contrario di qualsiasi differenza. L’identità di ogni comunità viene quindi sempre da un atto di fede, da un principio fideistico che esclude ogni sua messa in discussione. Ora, è del tutto incontestabile che dagli ultimi due decenni del secolo scorso fino a oggi il “comunitario” abbia ripreso quota. Nella realtà sociale in effetti circolano sempre più rivendicazioni di identità comunitaria. Al posto di un donatore divino si mette la natura, così ecco che l’identità rivendicata può essere sessuale, etnica o peggio razziale, oltre che religiosa. I principi attorno a cui le comunità prendono corpo sono in ogni caso sempre naturalistici, mitici o mistici, e si realizzano solo grazie ad atti di fede. Victor Turner di questa grande svolta antropologica intervenuta col declinare del XX secolo parla in questi termini: «Nelle coscienze moderne, cognizione, idea, razionalità erano dominanti. Con la svolta postmoderna, la cognizione non viene detronizzata, ma si colloca piuttosto sullo stesso piano della volizione e dell’affetto». Sarebbe dunque su questo “piano” intermedio tra il razionale e l’affettivo che ritornerebbe in auge il comunitario. Resta che alle scienze sociali spetta sempre di fare ricerche razionali. E se la loro razionalità non è mai una, e deve sempre rinnovarsi, è in ogni caso discutibile che la via migliore sia quella postmoderna proposta da Turner. In effetti, il suo obiettivo di giungere a un’“antropologia liberata” lo porta a cercare nell’arte, anziché nella scienza, un modello di riferimento. Così, è dal teatro che egli trae espliciti orientamenti per trattare le realtà sociali come “drammi” e performances. Ma il fatto è che in tale ottica teatrale del sociale le identità comunitarie finiscono per avere una parte del tutto reale. Un altro modo di assumere, sia pur criticamente, i temi delle identità comunitarie lo si può trovare in Geertz. Egli infatti introduce il concetto di “politiche di identità”. Queste consisterebbero nelle operazioni di “inclusione” ed “esclusione” con cui in molte parti del mondo si starebbe ridisegnando la vecchia geografia basata su distinzioni nazionali oramai superate. Per spiegare tali politiche, egli fa ricorso a un altro concetto, quello di “lealtà primordiali”, che sarebbero forme di attaccamento a fatti come sangue, lingua, costume, fede, residenza, famiglia, sembianza fisica e così via. Fatti, questi, che verrebbero percepiti dagli attori sociali come «dotati di una forza coercitiva ineffabile e schiaccianti in sé e per sé». Egli tiene, però, a sottolineare che la ricerca sociale non deve assumere queste percezioni come dati del tutto affidabili, ma deve contestualizzarli e relativizzarli nello spazio e nel tempo. Come dire che l’identità de
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rivante dall’attaccamento al proprio “essere” musulmano, cristiano o ebreo, serbo o croato, hutu o tutsi e così via, muta radicalmente col mutare delle circostanze e delle situazioni. Geertz però non spiega fino a che punto tale variabilità delle “lealtà primordiali” non sia tale da far dubitare che abbiano una consistenza propria. Viene in mente la critica, più sopra citata, che Boas rivolgeva a ogni determinismo: si ammetta pure l’esistenza di leggi che determinano l’evoluzione in generale, ma nello studio di ogni situazione particolare si trovano tante casualità singolari che sono esse a decidere del senso e dell’incidenza di queste determinazioni. In altre parole, si ammettano pure “lealtà primordiali”, ma si deve anche ammettere che esse non hanno senso, se non quello che è loro dato dalla situazione contingente, singolare. È proprio quanto dice un proverbio arabo amato dal grande storico francese Marc Bloch, secondo il quale “ognuno è figlio più del proprio tempo che del proprio padre”. Se è dunque legittimo dubitare che queste cosiddette “lealtà primordiali” abbiano una consistenza propria, non si capisce cosa possano spiegare della politica. Viene allora da chiedersi se non sia piuttosto il caso di ammettere che sono invece le scelte politiche a spiegare quando, quanto e come miti o fedi comunitari si scatenino. Così, ad esempio, la maggior parte dei conflitti che hanno dilaniato la ex Jugoslavia, anziché essere considerati come scontro tra diverse identità etniche o religiose, sono ben più razionalmente analizzabili come effetti perversi della decomposizione del socialismo di Tito e dei conflitti tra spezzoni dell’esercito, nonché delle manovre della diplomazia internazionale in questa zona geopolitica. Dal che esce del tutto discutibile l’etichettare queste politiche che si sviluppano nel decomporsi dei quadri nazionali come “politiche d’identità”. Ciò proprio perché non sono le cosiddette lealtà primordiali a poterle spiegare. Anziché rovistare col concetto comunque rigido e dogmatico, oltre che fideistico, di “identità”, qui come altrove, le nostre ipotesi consigliano l’uso della categoria delle prescrizioni. E quindi di fare delle diverse prescrizioni, e dei conflitti tra di esse, la prima chiave di lettura della politica, in generale. Ove, per “prescrizione” – è il caso di insistere – si deve intendere apertura di possibilità singolare, da analizzare, se avanzata nell’esercizio di un potere – ad esempio, nel caso citato, militare –, in base al sapere da cui è orientata. Nel caso delle immani catastrofi come quella delle “pulizie etniche” nella ex Jugoslavia o degli stermini in Ruanda, è chiaro che, nelle decisioni politiche che li hanno resi possibili, di sapere ce n’era poco o nulla. Ma è solo qui, in quel minimo di razionalità che ogni prescrizione politica contiene, fosse anche nella forma delle più avventate astuzie o del più cinico e criminale calcolo d’interessi, che la ricerca sociale può trovare un appiglio per condurre l’analisi sull’unico piano che conta per la scienza, quello razionale. Tra i ricercatori sociali sono però rari gli esempi di chi si oppone decisamente all’assunzione delle identità comunitarie come indici credibili della
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realtà sociale. Si può forse dire che questo tipo di tematica, delle identità comunitarie, ha preso nelle scienze sociali il posto egemone già detenuto dalla semiologia. Dal prevalere dei problemi della comunicazione al prevalere di quelli delle comunità, dunque. Ma se questo passaggio è stato possibile, è perché tra queste due tematiche c’è qualcosa di profondamente omologo. Il fatto di essere, entrambi, due tipi di “pensiero unico”, di metodi e di problematiche “a una dimensione”. Sia la categoria semiotica di segno, sia quella comunitaria dell’identità non fanno infatti che rimettere insieme, rimescolare ciò che la ricerca scientifica aveva già distinto e separato, aprendo nuovi e diversi orizzonti al pensiero e alla conoscenza. Nel primo caso, il segno inteso semiologicamente, come si è già detto, rappresenta un ritorno a quanto stava prima di quella distinzione tra significante e significato, distinzione dalla quale hanno preso le mosse tra le più importanti scoperte linguistiche del Novecento. Nel secondo caso, la ripresa attuale dell’arcaica categoria della comunità rappresenta un ritorno a quell’unità tra natura, cultura e società (alla Tönnies), che la svolta linguistica nelle scienze sociali aveva già da decenni e decenni mandato definitivamente in frantumi. a.. Identità o soggettività? Insomma, che da qualche decennio nelle scienze sociali ci sia stagnazione, se non riflusso, è per me constatazione obbligatoria, anche riflettendo sul successo semiologico seguito da quello comunitario. È come se fosse in corso una sorta di “delinguistizzazione” delle problematiche sociali a profitto di una loro “rinaturalizzazione”. Invece di discutere delle differenze tra chi ha potere e chi no, delle responsabilità dei primi e delle condizioni al limite dell’impossibile dei secondi, l’opinione dominante, insistendo sui temi comuni della natura, finisce anche per privilegiare le immagini più naturali o tradizionali dei conflitti, i quali oramai sembrano avere perso ogni carattere sociale, per apparire invece quasi solo in vesti etniche o religiose. Con l’unica prospettiva di esasperarsi all’estremo. Un simile spirito del tempo mette a rischio l’abc stesso delle scienze sociali, ma anche offre loro un campo di ricerca più che mai vasto e tendenzialmente omogeneo. Se infatti la polarità tra ricchi e poveri aumenta, grazie al rapido sviluppo di grandissimi paesi già sottosviluppati, come Russia, India e soprattutto Cina, diminuisce invece la polarità tra paesi ricchi e poveri. La globalizzazione vuol dire anche questo: un mondo ovunque più socialmente e più similmente diversificato. A ciò si connette la tendenza oramai pluridecennale che spinge quasi tutti i governi alla riduzione degli impegni sociali. Le scienze sociali possono temere dunque di vedere calare l’interesse statale nei loro confronti, ma possono anche risollevarsi riprendendo la svolta linguistica nelle sue conseguenze ultime, quelle che portano a ridurre l’uso di metalinguaggi da specialisti per far proprio il linguaggio che è già di chiunque.
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Il successo in tali scienze dei temi identitari e comunitari significa già una rinuncia a impostazioni sofisticate, ma solo per dar spazio alle opinioni più circolanti. Da questo punto di vista, a poco valgono tutti i tentativi di rendere meno univoco e totalizzante il tema comunitario parlando di identità multiple. Fatto sta che questa tematica delle identità multiple in molte ricerche sociali ha finito per accompagnare, se non soppiantare, quella precedentemente più usuale delle differenze sociali. In termini puramente accademici tutto può risolversi riconoscendo una diversità di ambiti della ricerca. Il tema delle differenze sociali può infatti apparire di competenza più della sociologia quantitativa, mentre il tema delle identità collettive tirerebbe in ballo aspetti più soggettivi, per i quali sarebbero più adatte sociologia qualitativa, antropologia ed etnografia. Ma al fondo c’è un problema quanto mai delicato, che riguarda il modo stesso in cui le scienze sociali accettano di aprirsi alle questioni della soggettività. Tali questioni infatti scontano una lunga quarantena tra queste scienze. Si può dire che tutti i loro approcci più importanti, tanto nell’Ottocento, quanto nel Novecento, hanno sempre considerato i soggetti sociali solo come accessori di questioni oggettive: la soggettività, cioè, sempre, o quasi, intesa come puro assoggettamento a vincoli oggettivi, ai quali poco o nulla aggiunge o toglie. Ma a seguito della svolta linguistica, come si è visto, tale noncuranza non è più ammissibile. Dal momento che al dire si riconosce la possibilità di produrre effetti sociali del tutto reali, infatti, la questione di chi parla, di quali sono le condizioni soggettive del suo dire non può più essere elusa. Come pensare e conoscere chi parla a partire dal suo stesso parlare e nel rapporto che questo parlare ha con la realtà sociale? Questa è sicuramente una domanda di fondo e di frontiera per le scienze sociali d’oggi. Le risposte che qui tentiamo si fondano sulla già più volte menzionata distinzione fondamentale: quella tra chi può e chi non può sulla stessa realtà sociale; tra chi ha mezzi e capacità per condizionare lavoro, vita, esperienze di un’infinità d’altri e chi invece no. È in base a questa distinzione che si può procedere ad analisi differenziate sui diversi rapporti soggettivi tra linguaggio e realtà. In altri termini, così si fa diventare un’ipotesi di ricerca l’assunto, di per sé ben intuitivo, del diverso peso che le parole hanno nel sociale a seconda del potere che ha chi le pronuncia. Procedendo da questo assunto di partenza, si ha il vantaggio di mantenere la questione della soggettività sociale entro la prospettiva aperta dalla svolta linguistica tra le scienze sociali. In senso del tutto opposto va invece la soluzione delle questioni soggettive in termini di identità. Per quanto all’interno di una stessa soggettività collettiva se ne possano riconoscere di infinitamente molteplici, tra loro differenziate o, se si preferisce, “meticciate”, “ibridate”, secondo la greve terminologia di moda; per quanto si insista sui loro intrecci sessuali, etnici, religiosi, tradizionali o quant’altro, tali identità hanno senso solo se ciascuna di esse si suppone fondata su degli elementi originari tan
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to uniti da non potere mai essere distinti al loro interno, dunque senza contraddizioni: insomma, su delle sostanze naturali o mistiche, che possono certo attirare l’immaginazione e la fede di chiunque, ma non del ricercatore sociale edotto dalla svolta linguistica.
b Scienze sociali e politica nel Novecento In un libro recentemente uscito ho sostenuto che il Novecento dal punto di vista della storia della politica non sia riducibile allo scontro tra democrazia e totalitarismo, come molti sostengono, e che è invece da considerarsi, specie a partire dal primo dopoguerra, il “secolo dei partiti”. Sarebbe a dire dei regimi in cui i rapporti tra Stato e società sono stati organizzati, decisi e governati anzitutto dalla figura dei partiti. Sarebbe dunque il loro formarsi, la loro espansione e, infine, il loro declino ad avere segnato il destino degli Stati e delle società più ricche. E non viceversa. Questa tesi riguarda anche le scienze sociali e la loro svolta linguistica. E ciò in ragione della promessa senza precedenti che ogni partito del Novecento ha fatto: quella di essere la soluzione esplicita, dichiarata, di ogni profonda disparità sociale. b. I partiti, il linguaggio, il sociale, la guerra In effetti, fascisti, nazisti, comunisti, socialisti, liberaldemocratici, tutti, tra dirigenti, militanti e simpatizzanti, coi loro immensi seguiti, hanno avuto un tratto di fede comune: quella nel potere di risolvere il perenne dualismo di ogni società. Intendo la divisione tra ricchi e poveri, tra potenti e non potenti, tra governanti e governati, tra chi ha i mezzi di decidere dei destini del resto della società e chi invece ha sempre da inventarsi come rendere possibile il proprio. “Comunismo”, “socialismo”, “impero ariano”, “pari opportunità per ciascun individuo”: queste le maggiori promesse con cui i partiti, da quello sovietico a quelli socialisti, da quelli fascisti e nazisti a quelli statunitensi e inglesi, con tutte le loro numerose imitazioni locali disseminate nel mondo, si sono proposti come organizzazioni capaci di realizzare la riduzione di tutte le diversità sociali. Per comunisti e socialisti, infatti, il “mondo dell’avvenire” non avrebbe più avuto né sfruttati né sfruttatori; per i nazisti avrebbero dovuto cadere sotto il dominio degli ariani (tra cui i fascisti speravano di far passare anche un po’ di stirpe italica); per i liberaldemocratici, con la loro incrollabile e in fondo arcaica fede nell’indissolubile potenza dell’individuo, il futuro avrebbe dovuto essere migliore per i più meritevoli. Le realizzazioni sono state comunque enormi. Nei paesi più ricchi si è infatti formato quel “ceto medio” che ha dato agli Stati di questo secolo uno zoccolo
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duro e resistente contro ogni possibile divisione sociale interna. In compenso, quando attorno agli anni Trenta si è trattato di contendersi il mondo, tutti questi Stati mono o pluripartitici, non si sono fermati di fronte a nessun orrore. Da un punto di vista propriamente politico, è d’obbligo far precise differenze. Stante che nessun regime può essere considerato pacifista, bisogna sapere distinguere quali sono i diversi tipi di guerra (di difesa o d’attacco, esterna o interna) che vengono assunti come modello dalle diverse politiche. Se la guerra in difesa dello Stato contro i nemici interni è stato il motivo ispiratore delle leggi “fascistissime” del in Italia, per il nazismo lo è stato la guerra d’assalto contro il mondo intero, mentre per il comunismo l’ideale cui tendere è sempre stato il riscatto dei proletari e la difesa della patria socialista, in nome dei quali non si sono comunque risparmiate guerre, gulag e deportazioni. D’altra parte, i regimi pluralisti anglosassoni non hanno mai voluto rispondere dei “crimini contro l’umanità” da essi perpetrati con la tecnica a basso rischio per chi la usa dei bombardamenti a tappeto e delle bombe atomiche. Da un punto di vista antropologico, la Seconda guerra mondiale, con tutti i suoi strascichi “freddi”, può essere considerata quasi come una guerra di religione, non più tra nazioni, sia pur con dimensioni imperialistiche, come nella Prima, ma tra i vari modelli di partiti(o) al comando degli Stati. I partiti-Stato del XX secolo, dunque, come vere e proprie chiese laiche: non dichiaratamente religiose, ma rette su fedi univoche o pluraliste che possono essere paragonate alle tradizioni monoteiste o pagane. In effetti, non si fa alcuna fatica a riconoscere, nella vita di ognuno di questi partiti, culti, riti e sacramenti vari. Tutto ciò non deve far dimenticare che, sempre tramite la figura dei partiti-Stato, nel Novecento sono avvenute due svolte epocali senza precedenti. Da un lato, l’assunzione e l’organizzazione sistematica da parte degli Stati di quell’assistenza al sociale più emarginato che precedentemente riceveva attenzione praticamente solo dalle chiese. Dall’altro, il fatto che la gestione del potere di Stato ha finito per perdere gran parte della sua tradizionale aura mistica e oscura, per accettare invece sempre più il vincolo di esplicitarsi, di dichiararsi, di configurarsi in una dimensione linguistica, leggibile, trasparente per chiunque se ne interessasse. Programmi, propaganda, campagne per la conquista dei consensi, che sono stati la risorsa prima dei partiti-Stato, sono stati tutti fattori che hanno portato, come mai prima, il potere a legittimarsi anzitutto tramite parole: parole che ognuno può comprendere ed eventualmente controbattere. I partiti-Stato, dunque, come indiscutibili portatori di democrazia, intendendo con ciò soprattutto il manifestarsi pubblico, il dirsi, da parte di chi ha potere. Qui sta dunque una delle condizioni politiche essenziali che hanno sospinto le scienze sociali ad assumere il linguaggio come questione decisiva. In quanto scienze per lo più sovvenzionate dallo Stato, non potevano essere estranee alla figura del partito che ne gestiva o viceversa ne contestava il potere soprattutto tramite parole. È solo grazie alle parole dei partiti, alle loro prescrizioni,
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che si sono realizzate politiche capaci di portare i loro paesi a quella grande vittoria sulla natura, qui già ricordata, per cui per nutrire tutta una popolazione può bastare solo il lavoro di una sua infima parte. b. Scienze sociali e regimi politici Per seguire lo sviluppo novecentesco delle scienze sociali, nulla è più fuorviante del pensarlo al di sopra o estraneo alla storia politica di questo secolo. I tipi di regime in cui si sono trovate a operare le hanno infatti condizionate in modo decisivo. Laddove i regimi sono stati monopartitici, queste scienze o hanno accettato di svilirsi in apologia di regime o sono state semplicemente tacitate, represse, perseguitate, esiliate come, o anche più, di altre attività intellettuali. Dal che il panorama d’insieme di tali scienze, tra gli anni Venti e Trenta, finisce per ridursi a unica prospettiva, quella di lingua anglosassone, con l’unica eccezione francese. In particolare, la situazione delle scienze sociali in Italia ha uno sviluppo con suoi tratti singolari. Se tra Ottocento e Novecento essa appariva punteggiata da opere di notevole portata (da quelle sociologiche, psicologiche, pedagogiche di Roberto Ardigò a quelle marxiste di Antonio Labriola, a quelle di politologi come Mosca, Pareto e Michels), col trionfo della filosofia neoidealistica di Croce e Gentile, si ha un punto di arresto che il monopartitismo fascista rende irreversibile. Un qualche interesse per le ricerche sociali sembra sopravvivere tramite le varie dottrine più o meno corporativistiche del regime o vaste operazioni di raccolta del consenso intellettuale, quali quelle attivate dallo stesso Gentile con la redazione dell’enciclopedia Treccani. Ma il regime, monopolizzando una già ridotta ricerca sociale, ne ha scoraggiato ogni possibilità di rinnovamento problematico e metodologico. Una condizione di depressione, questa, che non si può dire venga completamente riscattata con la fondazione della Repubblica. Le scienze sociali del nostro paese, infatti, pur sempre aggiornate su ricerche e dibattiti di altri paesi, non hanno mai prodotto studi che abbiano lasciato segni indelebili, tranne l’eccezionale Ernesto De Martino, negli studi di etnografia del folklore, e la già citata corrente dell’operaismo con tutti i suoi diversi aggiornamenti. Il fatto è che l’Italia dal monopolio del Partito fascista passa al quasi duopolio della Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano, che per molto tempo sono stati i più sostenuti e foraggiati dalle rispettive superpotenze di riferimento, Stati Uniti e Unione Sovietica. Contrariamente alla visione tutta nazionalpopolare della storia repubblicana del nostro paese, anche parlando dello sviluppo delle scienze sociali, sono ancora quasi tutti da censire gli enormi condizionamenti internazionali subiti da questa penisola, geopoliticamente tanto decisiva per tutto il lunghissimo secondo dopoguerra. Una sequenza storica,
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questa, che in fondo si è conclusa solo attorno all’Ottantanove con la caduta del muro di Berlino. Il fatto è che entrambi i due partiti egemoni (nell’occupazione del potere la DC e nel campo del sapere il PCI) hanno da sempre avuto una loro dottrina del sociale, cristiana la prima, marxista la seconda. Due dottrine che per tradizione non hanno mai avuto come luogo privilegiato di insegnamento, d’organizzazione e di sperimentazione quello pubblico dell’università, ma quelli, come sezioni o parrocchie, più decisamente controllati dal partito o dalla Chiesa. Così non si può certo dire che nel gestire i rapporti tra società e Stato questi due maggiori partiti abbiano particolarmente stimolato le scienze sociali a darsi delle politiche di ricerca indipendenti, orientate da pure e semplici esigenze della conoscenza. E si deve invece dire che tali scienze in Italia non hanno mai goduto, né tutt’oggi godono di un grande prestigio o di notevoli mezzi. Per chiedersene il perché, oltre che tra le appena accennate caratteristiche dei maggiori partiti, occorrerebbe probabilmente cercare anche tra le altre svariate ragioni che hanno contribuito a far sì che la prima repubblica di questo paese abbia sempre dimostrato poco entusiasmo per la conoscenza scientifica del sociale. Si dovrebbe allora analizzare quanto e come altre figure abbiano tenuto il posto e svolto le funzioni che altrimenti avrebbero dovuto spettare a ricercatori sociali. Particolare attenzione andrebbe alla tradizionale opera caritatevole del clero cattolico, al quale lo Stato ha affiancato un esercito di tutori dell’ordine pubblico che (tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie municipali), rispetto al totale della popolazione del nostro paese, è tra i più folti del mondo e forse anche tra i meglio informati in materia sociale. Senza dimenticare peraltro la presenza sociale dei sindacati, i quali anch’essi, almeno dagli anni Settanta del Novecento, hanno costituito un’istituzione particolarmente diffusa e incisiva nel nostro paese. Ma non si dovrebbe neanche trascurare la tradizionale funzione sociale svolta dalla famiglia, che per lungo tempo ha assorbito e risolto a suo modo problemi economici cruciali come la disoccupazione giovanile, specie nel Meridione. In primo piano dovrebbe comunque risultare l’abituale propensione governativa a delegare alle figure fin qui menzionate gli interventi sociali, trascurando peraltro dimensioni e luoghi che, per le loro caratteristiche decisamente anonime e collettive, come la grande industria (oggi oramai quasi scomparsa), richiedono strategie politiche e sociali di vasta prospettiva. Insomma, se in Italia le informazioni sul sociale sono più o meno sempre venute da una considerevole massa di addetti, quali militanti di partito, preti, tutori dell’ordine pubblico, sindacalisti, familiari, e se, d’altra parte, i governi non hanno mai avuto estrema necessità di ulteriori informazioni, si può ben capire perché in questo paese gli investimenti intellettuali, oltre che finanziari, nei confronti di ricercatori sociali, non siano mai stati troppo generosi. Ma così si può capire anche perché le conoscenze rigorose, scientifiche, del sociale non vi abbiano mai abbondato, con tutte le conseguenze, anche politiche, del caso.
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b. Il Sessantotto e le sue conseguenze Fatto sta che col XXI secolo si è voltato pagina rispetto alla storia politica del XX secolo. Tutti i partiti-Stato su scala planetaria non solo non godono più del prestigio e della vitalità di un tempo, ma si può dire che siano entrati addirittura in una fase di decomposizione. I loro funerali sono stati celebrati in vario modo: nei paesi comunisti, dove il partito era unico, il regime stesso è clamorosamente crollato; in Italia, a spazzare via i partiti che occupavano lo Stato ha provveduto l’inchiesta del nota come “mani pulite”; negli USA, la cosa è avvenuta col pateracchio delle penultime elezioni che, discreditando il sistema elettorale, hanno discreditato anche il bipartitismo che ne è sempre stato emanazione, per cui ora la lobby della guerra non ha rivali nel trovare consensi; in Inghilterra, poi, si sa che Blair è socialista come la Thatcher; in Francia, infine, Chirac, che ha potuto godere di una maggioranza schiacciante come mai, si può dire sia leader di tutti i partiti e di nessuno in particolare. La lista potrebbe continuare, ovviamente con le dovute eccezioni (quella cinese in testa), che non fanno tuttavia che confermare la regola generale: quella del disfacimento avanzato di ogni organizzazione dei regimi di partito, quale ha dominato buona parte del XX secolo. Così, oggi, nel XXI secolo, non è più questo il tipo di organizzazione che unisce e/o divide tutti quelli che siedono in governi o in parlamenti, né meno che mai quelli che sono i loro seguiti più o meno clientelari. Non ci sono più né “basi”, né “vertici”, né rapporti sistematici tra i due. Culti, riti, sacramenti, simboli, bandiere appaiono sempre più solo come anticaglie o rimasugli del passato. Il nome stesso “partito” è quasi del tutto desueto e sempre meno gradito. Un momento inizialmente scatenante di questo declino lo si può rintracciare nel fatidico Sessantotto. Evento sul quale le interpretazioni si sprecano e che qui non saranno commentate, per venire subito al punto. Tra i tanti nodi che vi vengono al pettine, ce n’è uno che qui interessa in particolare. Si tratta della presa del potere della parola da parte di chiunque in qualunque luogo sociale, di lavoro, di insegnamento. È da ciò, da questa esplosione del linguaggio, che i fondamenti dei regimi partitici sono stati minati. L’intensità, la durata e i modi di questa esplosione sono stati diversi a seconda dei paesi in cui è avvenuta. Ma la sua contemporaneità praticamente universale è indubbia. E al cuore c’è la radicale contestazione di ogni competenza a parlare, di ogni qualifica e privilegio nel poter dire invece di e su altri. Per spiegarne le cause profonde, si può ricordare una cospicua serie di condizioni storiche singolari che avevano cominciato a riunirsi in molti paesi ricchi e meno ricchi dal secondo dopoguerra: più scuola, più università, più mobilità sociale, più servizi sociali, ma anche, come si è visto, più importanza al linguaggio in quanto tale nelle ricerche sociali. Il tutto però sempre politica
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mente organizzato da regimi partitici che garantivano la gerarchia e la fitta rete dei poteri di chi, nelle istituzioni e nell’economia, dai livelli più alti a quelli più bassi, ma anche all’interno della famiglia, continuava a decidere del destino altrui. È dunque stato contro questa gerarchia e questa rete che il Sessantotto è insorto, interpellando, incoraggiando ognuno a dire la sua o ad urlare o protestare se non gliela si lasciava dire. Il potere della parola è diventato dunque alla portata di tutti, ovunque. E questa conquista è restata e resta tutt’oggi. Contro ogni teoria del riflusso che sarebbe seguito a questa stagione e che l’avrebbe del tutto estinta, va assolutamente difesa l’idea che da allora non si è mai più tornati indietro, che l’essenziale è rimasto. Anche chi non ha potere, né sa come ottenerne nel luogo dove lavora o apprende, il potere della parola ce l’ha e lo esercita. È questo che le nostre stesse inchieste verificano nella maggioranza dei casi. La paura di parlare, la reticenza a dire, il desiderio di tacere o sorvolare non li si trovano quasi mai. La gente non solo pensa, parla anche, e liberamente. E ciò viene dal Sessantotto. Il prima e il dopo questo anno simbolico formano uno spartiacque epocale, ancora da ripensare e conoscere nelle sue conseguenze. Il che non vuol dire che ne siano seguite solo “meravigliose sorti e progressive”. Anzi. Il potere della parola, alla parola, appena conquistato, ha cominciato la sua corruzione. Non che si sia perduto, dunque, ma più precisamente è stato contaminato dagli altri poteri più tradizionali, quelli delle ricchezze private e dei potentati pubblici. Tutti questi, preso atto della novità dei tempi, vi si sono adattati. Hanno allora cominciato come mai prima a lasciare parlare, a lasciare dire a ognuno quello che gli pareva, puntando sempre più a esercitarsi, tacendo, in silenzio, con mosse e decisioni meno esplicite, quasi mai dichiarate. Si esauriva così il tempo dei grandi programmi di partito, delle eclatanti dichiarazioni dei politici, delle accattivanti promesse di benessere per tutti, delle leggi che scandivano con clamore la vita pubblica. Finiva questo tempo che era iniziato proprio coi partiti novecenteschi e iniziava il tempo delle “emergenze”. Dei decreti e delle leggi d’eccezione. Decreti e leggi speciali, d’emergenza e d’eccezione che vogliono proprio dire che chi le fa valere è in uno stato di necessità tale da non poter perdere tempo a dichiarare, a spiegare bene, a dare forma compiuta, universale, di legge, a quello che sta facendo. L’Italia, con le leggi speciali in materia di terrorismo, seguite all’assassinio di Moro, nel – nelle quali si concentrava e si rilanciava la lunga tradizione delle normative “non normali”, iniziata già con l’Unità, attorno al , contro i briganti e, poi, nel secondo dopoguerra, contro la mafia e più in generale contro la criminalità organizzata – ha dato in questo senso un contributo universalmente riconosciuto da molti governi e personaggi pubblici. E se questa propensione a non dire bene cosa si sta facendo ha preso piede tra le istituzioni statali, nel privato non si è voluto essere da meno. Tutte le grandi tendenze sociali ed economiche che caratterizzano il passaggio dal XX al XXI secolo, dalla globalizzazione al ridursi della sovranità degli Stati e dei loro impegni nel so
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ciale, dalla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro alla rimessa in discussione dei modi tradizionali di far scuola, sono quindi accompagnate da una grande libertà di linguaggio, ovunque e per chiunque, ma che comprende anche la libertà di dire poco o nulla di ciò che si sta facendo da parte di chi ha il potere di condizionare la vita di altri. Che da qualche anno la parola sia passata alle armi, alle armi dei terroristi e dei governi che non trovano modo migliore di contrastarli se non facendo guerra, questo è un fenomeno derivato anche dalle sorti del linguaggio. Il fatto che tutti parlino di più di chi ha il potere condiziona anche la diffusione dell’opinione, che tacita ogni discussione, mettendo avanti i problemi di “sicurezza” contro la criminalità di qualunque genere. Di qui l’importanza del fatto che le scienze sociali assumano il linguaggio come questione decisiva, proprio per dar voce e ascolto alle parole di chi solitamente non conta, se non come esecutore e governato.
c Questioni di metodo: discorsi o parole? Conoscere le lingue dei “nativi” per parlare con loro, come loro, per porsi dal loro punto di vista è sempre stato un obbligo inderogabile per tutti i maestri dell’antropologia e dell’etnografia. Tale obbligo però diventa cruciale solo per le ricerche sociali che portino alle estreme conseguenze la svolta linguistica. Una delle maggiori questioni di metodo che si pone in questa prospettiva riguarda la rimessa in discussione della pretesa delle scienze sociali di avere un proprio linguaggio da esperti, un metalinguaggio capace di includere e trattare il resto dei linguaggi come oggetti. Ora, questa pretesa è quasi scontata dal momento che le scienze sociali si vogliono scienze. In effetti, da Galileo in poi praticamente non c’è scienza sperimentale che non abbia rinunciato al linguaggio corrente per assumere invece dei metalinguaggi matematizzati. Il che non vuol dire un semplice ricorso tecnico ai calcoli matematici, ma l’assunzione delle matematiche come modelli di pensiero e conoscenza. Così, per scienze come la fisica o la chimica tutto ciò che chiunque può dire sulla natura può essere accolto o respinto a seconda che sia o meno traducibile nelle loro formule. Formule che a loro volta non sono traducibili in linguaggio comune, se non a prezzo di volgarizzazioni molto impoverenti, se non fuorvianti. Ciò perché i linguaggi scientifici come quelli della chimica o della fisica hanno come destinazione di venire esposti a esperimenti “da laboratorio”, del tutto estranei al resto delle possibili esperienze. Ora, le somiglianze con le scienze sociali non mancano. Ad esempio, ognuna delle loro ricerche può certo venire considerata come un esperimento scientifico, “da laboratorio”. Ciò che viene messo alla prova non è infatti una realtà sociale pura e semplice, ma un suo frammento campionato, selezionato e isolato grazie a conoscenze del sociale che sono non da tutti, bensì di competenza solo di esperti.
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Al di là di queste somiglianze esteriori con le altre scienze, occorre chiedersi anche da dove, da quali fonti le scienze sociali cercano di trarre le loro proprie nuove conoscenze sulla realtà. Il punto è, come più volte sottolineato, che, se si prende sul serio la svolta linguistica, è chiaro che questa fonte non è altro che il linguaggio stesso, il linguaggio in quanto tale, quello parlato da chiunque, esperti e non esperti. Una delle possibilità più proprie delle scienze sociali rispetto alle altre scienze risulta allora quella di non fare del metalinguaggio un proprio obbligo assoluto. Assumere fino in fondo il fatto che la realtà sociale si dà anzitutto e soprattutto attraverso il linguaggio significa che esso è da assumere in quanto tale, senza distinzioni a priori, senza gerarchie prestabilite tra linguaggi, lingue, gerghi o dialetti. Il fatto bruto, la dimensione puramente empirica, non diviene allora altro se non quello che viene detto nel luogo che il ricercatore ha scelto come proprio campo di indagine. Le nostre inchieste hanno tutte al loro cuore un insieme di interviste (su un unico questionario, ma del tutto aperto) rivolte a un campione di popolazione incontrata sul suo luogo di lavoro, di apprendimento o di utenza di un servizio. E nostro obiettivo principale è conoscere il loro pensiero attraverso le loro stesse enunciazioni, senza supporre a priori che tra queste enunciazioni ci debba essere alcun legame. Tale questione del legame o meno tra gli enunciati è decisiva. Nella maggioranza delle scienze sociali si opta per presupporre tale legame. Senza di esso pare proprio impossibile qualsiasi conoscenza del linguaggio. Per la conoscenza linguistica del linguaggio, tale legame sta essenzialmente nella regola grammaticale. Il rispetto o meno di questa regola nel parlare è una delle questioni cruciali di ogni scienza del linguaggio. Così, tutte le scienze sociali che vanno al seguito delle scienze del linguaggio possono affrontare la realtà sociale solo se sono armate di una qualche regola di tipo o di derivazione grammaticale. Esiste anche tutto un campo di dottrine interdisciplinari che hanno tra gli obiettivi proprio quello di amplificare il senso delle regole grammaticali in una logica polifunzionale, direttamente assumibile, né più né meno, da ogni campo dello scibile, e quindi a maggior ragione dalle scienze sociali. Tra di esse, ad esempio, gode ancora di buon credito un’opera come quella di van Dijk, che propone non solo una semantica formale, ma anche una pragmatica del discorso, universalmente applicabili tanto in psicologia cognitiva, quanto in antropologia e sociologia, nonché in filosofia e poetica. Il tutto in nome di una teoria capace di ricostruire gli enunciati del linguaggio naturale come “sequenze di frasi”, in cui ogni frase viene considerata “in relazione” a quelle delle altre frasi della stessa sequenza. Detta sequenza, concepita come relazione, costituirebbe allora il “contesto verbale” da analizzare come “discorso”, dalla cui coerenza o meno dipenderebbero le sue conseguenze pragmatiche. Al di là della portata logica e linguistica di questa teoria, le sue implicazioni per la conoscenza della realtà sociale possono riassumersi in una prescrizione con una sua chiara evidenza: quella di dover analizzare tale realtà a partire
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dalla coerenza o meno dei discorsi che la riguardano. Il che è quasi ovvio. Va da sé che la coerenza o meno dei discorsi interessa le scienze sociali, oltre ad avere diretti effetti sulla stessa realtà sociale. Nessun sapere che si rispetti, infatti, può essere pensato e presentato senza un minimo di coerenza, così come nessuno con responsabilità di governo nella società dovrebbe sentirsi esonerato dalla responsabilità di far discorsi con un minimo di coerenza. Ogni esercizio del sapere e del potere ha sempre le sue necessità e, per parlarne senza troppe omissioni, occorre evitare il più possibile di contraddirsi. Qui, dunque, sotto questo duplice aspetto, il rapporto tra linguaggio e realtà sociale non può non essere analizzato senza considerare come e se il linguaggio si tenga insieme, abbia o meno coerenza. Il punto è però che questo non è il solo aspetto del rapporto tra linguaggio e realtà sociale, né quello che più interessa le nostre ricerche. A essere interpellati da esse non sono esperti o governanti, ma gente che non può nulla, né sa come ottenere potere, dal momento che fa un lavoro duro, cioè oggettivamente al limite del possibile. Nelle interviste a tali soggetti, la coerenza o meno dei loro discorsi ha poca o nulla importanza. La loro realtà sociale non la cerchiamo prendendo come regola, come misura, il legame o meno tra le frasi che vengono come risposte. La cerchiamo direttamente tra le parole, tra le frasi, supponendo che questo “tra” non designi nulla, se non una semplice possibilità significante, e dunque senza alcun intrinseco significato. Realtà sociale è dunque ciò verso cui parole e frasi degli intervistati tendono senza mai raggiungerla; il che non toglie, ma anzi precisa, che frasi e parole degli intervistati sono l’unica fonte per la conoscenza della realtà sociale, in quanto luogo di una molteplicità di prescrizioni diverse e a volte in conflitto tra loro. Insomma, nel dire degli intervistati il ricercatore non deve trovare alcuna necessità, ma solo delle possibilità di prescrizione sulla realtà sociale: possibilità, che sta allo stesso ricercatore presentare a suo modo, con tutte le responsabilità del caso. Il dubbio accademico che in tal modo non vi sia alcuna garanzia di obiettività della ricerca è in fondo un dubbio antisperimentale, legittimista: che valuta la ricerca stessa a partire dalla sua legittimità rispetto a canoni accademici realistici, oggettivistici, i quali, per quanto godano ancora di una qualche credibilità istituzionale, da un punto di vista sperimentale, sono praticamente scaduti, desueti. In realtà, ciò che ha sempre deciso dell’obiettività di una ricerca non è altro che la sua comparabilità col sapere esistente delle scienze sociali, nonché la sua efficacia nell’offrire delle conoscenze utili alle decisioni politiche. Da questo punto di vista, far ricerca su parole e frasi assunte in modo slegato e frammentario non è meno giustificato del cercarvi una qualche coerenza o leggerle tramite un qualche codice di lettura fissato a priori. Non è altro che questione di scelta. A negare la possibilità di questa scelta possono essere solo metodologie a una dimensione e con una propensione egemonica, cioè meno che mai legittime nel nostro tempo.
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Resta che le nostre ipotesi di fare ricerca sul rapporto tra linguaggio e realtà sociale solamente localizzandolo, senza supporvi alcun legame, sono eccentriche rispetto a quasi tutte le maggiori tradizioni delle scienze sociali. Tutte le categorie centrali di queste tradizioni, come “lotta tra le classi”, “evoluzione”, “definizione”, “tipo ideale”, “funzione”, “struttura”, “sistema”, “vita quotidiana”, “performance”, “discorso”, non sono infatti che dei sinonimi della realtà sociale, che garantiscono a priori un legame tra quest’ultima e il linguaggio. Studiare il sociale ha significato quasi sempre applicare nei più svariati modi queste categorie. Secondo un marxista, essere obiettivo significava riconoscere in ogni società le divisioni e le lotte delle classi; secondo un evoluzionista, riconoscervi e compararvi i diversi gradi di sviluppo; secondo un durkheimiano, distinguervi, per poi studiarlo, cosa fosse definibile come fatto sociale; secondo un weberiano, costruire un tipo ideale di agire sociale, per poi valutarne l’approssimazione alla realtà; secondo un funzionalista, riconoscervi la funzionalità e così via. Sono stati questi sinonimi dell’essenza della realtà sociale a costituire l’abc dei metalinguaggi delle scienze sociali: dei linguaggi da esperti, dei gerghi tecnici che hanno trattato il linguaggio naturale, corrente, come un insieme di linguaggi-oggetto. Ma è del tutto degno di nota che le certezze su cui si fondavano questi metalinguaggi erano comunque esogene, derivate da campi del sapere estranei alle stesse ricerche sociali. “Lotta di classe” è categoria derivata essenzialmente dalla militanza intellettuale e politica dei marxisti; “evoluzione”, “funzione” e “sistema” dalla biologia; “definizione” dalla filosofia positivista e “tipo ideale” dalla filosofia neokantiana; “struttura”, “discorso” dalla linguistica; “performance”, oltre che dalla filosofia del linguaggio, dal teatro. Essere obiettivi, pur chiamandosi fuori da queste tradizioni, non significa altro che ottenere dei risultati comparabili a quelli ottenuti da ricerche condotte in nome di queste categorie. E se i linguaggi da essi organizzati si sono presentati come linguaggi da esperti, non è detto che non si possa fare altrimenti. È quanto prescrive la svolta linguistica assunta nelle sue ultime conseguenze. Ed è quanto le nostre ricerche tentano. Note . Tra la fine degli anni Quaranta e lungo tutti gli anni Sessanta vedono la luce svariate opere filosofiche che fanno epoca e che hanno tutte al centro il tema del linguaggio: da Martin Heidegger (a partire dal con la Lettera sull’umanismo, Torino ), a Ludwig Wittgenstein (Ricerche logiche [], Torino ); da John Austin (Come fare cose con le parole [], Genova ) a Richard Rorty (La svolta linguistica [], Milano ). Su tutto ciò, mio riferimento decisivo qui, come altrove, resta Alain Badiou, di cui cfr. Logique, philosophie, “tournant langagier”, in Court traité d’ontologie transitoire, Paris . . Milner, Périple structural, cit., p. . . Per tutte le questioni della scienza del linguaggio cfr. J. C. Milner, Introduction à la science du language, Paris .
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. Ivi, p. . . Cfr., ad esempio, E. Leach, La comunicazione non verbale (), Torino e, in particolare, il modo in cui applica alle scienze sociali la distinzione tra “competenze” ed “esecuzione” proposta da Chomsky per lo studio sintattico delle lingue parlate in Saggi linguistici, I-II (), Torino . . Cfr. Leach, voce “Anthropos”, cit. . G. H. Mead, Mente, sé e società (), Firenze . . H. Blumer, Symbolic interactionnism (), citato in Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., p. . . Ivi, p. . . A. Garfinkel, Cos’è l’etnometodologia? (), in P. P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Bologna . . Ivi, p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. . . Non si può non ricordare la sua opera imprescindibile, Tristi tropici (), Milano . . Cfr. Leach, Comunicazione non verbale, cit. e Id., Nuove vie dell’antropologia (), Milano . . Cfr., ad esempio, C. Geertz, Antropologia e filosofia (), Bologna , pp. -. . C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano , p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. . . L. Althusser, Umanesimo e stalinismo (), Bari . Sulla figura di Louis Althusser, cfr. S. Lazarus (a cura di), Politique et philosophie dans l’oeuvre de Louis Althusser, Paris . . Da questo punto di vista è del tutto interessante notare come non pochi allievi di strutturalisti, quali Althusser, Lacan e Lévi-Strauss, si siano ritrovati protagonisti del Sessantotto francese. Cfr. N. Michel, Ô jeunesse! Ô vieillesse! Le mai mao, Paris . . Milner, Le périple, cit., p. . . Strutturalisti maggiori come Althusser, Foucault e Lacan fecero dell’“umanismo” uno dei loro più costanti bersagli polemici. Cfr. A. Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male (), Parma . . Tra gli altri, cfr. A. Schmidt, La negazione della storia. Strutturalismo e marxismo in Althusser e Lévi-Strauss (), Padova . . E. Leach, Due saggi sulla rappresentazione simbolica del tempo (), in Id., Nuove vie dell’antropologia, Milano . . Cfr. di questo autore il cap. La Natura non esiste, in L’essere e l’evento, cit. . P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari , p. . . Cfr. il testo del Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, cit. . E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica (), Torino . . B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà (), Torino , p. . . Ivi, cfr. l’introduzione di A. Mioni, Presenza e attualità di Whorf nella linguistica. . B. L. Whorf, Scienza e linguistica, in Id., Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. . . In Whorf non è estranea la prospettiva di una nuova visione cosmologica integrale. Nella già citata conferenza e che avviene presso la società di teosofia per cui simpatizza egli parla di un nuovo avanzamento che lo “spirito scientifico come totalità” è chiamato a fare, ma subito aggiunge che esso comporta «un completo allontanamento dalle tradizioni». E a tal scopo uno dei passi più importanti che la scienza occidentale deve compiere per lui sta nel «riesame del retroterra linguistico del suo pensiero», ivi, p. . . Che il confronto tra diversità sia una via obbligata è ribadito spesso da Whorf in affermazioni come la seguente: le «strutture (del pensiero) sono complesse sistemazioni non percepite del suo proprio linguaggio, che vengono prontamente in luce rilevabili con un confronto con altre lingue», ivi, p. .
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. Cfr. il paragone dell’impostazione di Whorf con quella del contemporaneo Lévy-Bruhl proposta da Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit. . Non per nulla uno dei suoi testi maggiori si intitola proprio Antropologia interpretativa (cit.). . Cfr. Antimo Negri (a cura di), Novecento filosofico e scientifico, II, Milano . . L. Hjelmslev, Essais linguistiques, Copenhagen . . Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo, cit. . Cfr. CAP. , nota . . Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. . . Considerazioni non troppo distanti, sia pur condotte in termini propriamente filosofici, le si possono trovare in A. Badiou, Philosophie et poésie, in Conditions, Paris . . V. Turner, Antropologia della performance (), Bologna, . . R. Turner, Parole, enunciati e attività, in Giglioli, Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, cit. . In Lazarus, Anthropologie du nom, cit. . In Antropologia della performance, cit., Victor Turner opera una distinzione tra «processi di regolarizzazione» e «processi di aggiustamento situazionale» (pp. -), la quale, sia pur alla lontana, può essere accostabile alla nostra distinzione tra le prescrizioni che hanno il potere di condizionare il resto della società e quelle che invece non fanno che rendere possibile l’esistenza sociale di popolazioni senza potere. Inoltre, questo stesso autore insiste sul fatto che il contesto sociale postmoderno risulta sempre più condizionato dal “fattore indeterminatezza” e dunque irriducibile a ogni processo di regolarizzazione e aggiustamento situazionale, secondo il suo lessico. Il che può anche apparire un autorevole antecedente dell’idea qui esposta che la realtà sociale è irriducibile a ogni prescrizione o insieme di prescrizioni, proprio perché ne costituisce l’arena e la posta in gioco. Resta comunque almeno un punto in cui le divergenze tra le nostre ipotesi e quelle di Turner risultano chiare. È quando sostiene l’esigenza postmoderna di una “coscienza multiprospettica” (p. ). A parte l’uso discutibile della categoria di “postmoderno”, ciò che trovo non condivisibile è proprio la possibilità di pensare e di conoscere la realtà sociale da una prospettiva che, volendosi pluralista, non si dà limiti. Nostra idea è infatti che ogni ricercatore, trovandosi sempre dentro una realtà sociale, non può che studiare le prescrizioni di una popolazione rispetto alle altre presenti in quella stessa realtà. E ciò tenendo conto del fatto che la prima distinzione da operare è sempre tra le popolazioni che hanno potere sul resto della società e quelle che non lo hanno. . Anche se un po’ troppo citato e anche malamente evocato, perché il suo riferimento non dia adito a confusioni, il famoso “principio di indeterminatezza” del Nobel per la fisica W. Heisenberg (Lo sfondo filosofico della fisica moderna [], Palermo ) non può mancare di essere annoverato tra le fonti ispiratrici delle nostre ipotesi. . U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano . . P. Fabbri, La svolta semiotica, Roma-Bari . . Milner, Introduction à la science du language, cit., p. . . Citato in Id., Le périple, cit., p. . . R. Barthes, Elementi di semiologia (), Torino . . Milner, Le périple, cit., p. . . Giraud, L’inégalité du monde, cit. . Milner, Le périple, cit., p. . . G. Debord, La società dello spettacolo (), Bolsena (VT) . . N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (), Bologna . . H. Marcuse, Eros e civiltà (), Torino ; Id., Ragione e rivoluzione (), Bologna ; Id., L’uomo a una dimensione (), Torino . . J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali (), Bologna ; Id., Prassi politica e teoria critica della società (), Bologna . . P. F. Lazarsfeld, R. K. Merton, Mezzi di comunicazioni di massa, gusti popolari e azione sociale organizzata, in M. Livolsi (a cura di), Comunicazioni e cultura di massa, Milano . . È sintomatico che Eco, nel (Semiotica e filosofia del linguaggio, Milano ) tratti, sia pur non senza ironia, della “morte del segno”.
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. F. Tönnies, Comunità e società (), Milano . . R. Esposito, Communitas, Torino . . Turner, Antropologia della performance, cit., p. . . Ivi, p. . . Seguendo un orientamento cui E. Goffman ha dato uno dei maggiori contributi, specie con La vita quotidiana come rappresentazione (), Bologna . . C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna , p. . . Merito va dunque a F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari . . È una delle tesi centrali di Giraud, L’inégalité du monde, cit. . V. Romitelli, Storie di politica e di potere, Napoli . . R. Ardigò, Sociologia, Padova ; Id., La scienza dell’educazione (), Milano . . A. Labriola, Del materialismo storico (), Roma . . G. Mosca, Teoria dei governi e governo parlamentare (), Milano . . W. Pareto, Trattato di sociologia generale (), Milano . . R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (), Bologna . . Cfr. L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, RomaBari, ; G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna . . Nella vasta bibliografia storiografica sull’argomento, cfr.: P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino ; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia ; P. Craveri, La Repubblica dal al , Milano . . E. De Martino, Il mondo magico (), Torino ; Id., Sud e magia (), Milano ; Id., Magia e civiltà (), Milano . . Cfr. CAP. , nota . . Cfr. G. Galli, I partiti politici italiani -, Milano . . E. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, Bologna . . L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino . . R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna . . Traduco con “laboratorio” ciò che J. C. Milner chiama “il dispositivo dell’osservatorio”, per ispirarmi alle sue considerazioni su scienze e scienze umane e sociali in Introduction à la science du language, cit. . T. A. van Dijk, Testo e contesto, Bologna .
Le nostre risposte
Prima di passare alle nostre risposte, faccio il punto, con l’aggiunta di qualche commento ulteriore a quanto finora sostenuto. . Il dualismo delle scienze sociali La svolta linguistica, quale avviene nelle scienze sociali nel corso del Novecento, significa che non è più possibile pensare che nella realtà sociale vi siano decisivi condizionamenti naturali, ma che tutto o quasi dipende da quel che è detto a proposito del sociale: anzitutto da quel che è detto da chi vi ha potere di condizionare la vita altrui. Ora, il fatto è che in questo secolo chi ha avuto tale potere è stato organizzato soprattutto da partiti che si sono presentati essenzialmente nella forma scritta, dichiarata, discutibile, dei programmi, dei discorsi, delle parole d’ordine. Un linguaggio, questo, di cui i partiti sono vissuti, che è stato caratterizzato dalla promessa secondo la quale prima o poi non sarebbe più esistito un sociale emarginato e che presto o tardi tutto il sociale sarebbe stato integrato attorno allo stesso modello di umanità: comunista, fascista, ariano o liberaldemocratico, per non parlare di tutte le altre possibili variazioni e sfumature intermedie. A partire dall’esplosione del Sessantotto e dal disseminarsi illimitato del potere della parola, i partiti, con tutti i loro programmi e leggi per ridurre la polarità tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra chi ha potere e chi no, hanno esaurito il loro ciclo d’esistenza. Tale polarità oggi, dunque, torna fuori più che mai. Dei modi per nasconderla non mancano. Ad esempio, quello di ritirare in ballo delle differenze naturali o religiose, come quelle evocate dalle identità comunitarie. Ma la natura di fronte alla società è oramai solo ambiente, sfondo di una scena che è decisa altrimenti: anzitutto da quel che si dice che sia possibile fare. Ed è quanto mai significativo che, quando l’opinione mediatica tratta d’ambiente, lo faccia soprattutto in nome di una sua “difesa”: come se si trattasse di fare il meno possibile, di lasciarlo al suo stato naturale, come se tutti, indipendentemente dai propri status e ruoli, avessero pari responsabilità. Mentre è chiaro che lo stato dell’ambiente naturale non è altro che il risultato delle politiche di
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chi ha il potere su industrie, trasporti, gestione dei rifiuti, ricerche scientifiche e altre attività del genere, su cui la stragrande maggioranza della popolazione non ha alcun minimo potere. La prescrizione della “difesa dell’ambiente” rischia dunque di fare da paravento alle responsabilità di chi gestisce quelle che invece sono (come quella già citata, sulla fame, raggiunta, sia pur relativamente da pochi paesi, nel secondo dopoguerra) delle conquiste sulle necessità naturali: conquiste da allargare ed estendere per rimodellare ulteriormente anche ciò che della natura trasformata in ambiente si è rivelato un residuo incompatibile con la vita sociale. Ma il fatto stesso che ovunque si parli di natura solo come di un’armonia originaria che tutti indistintamente hanno l’obbligo morale di rispettare, il fatto che quasi mai sia messo in discussione il potere di chi la trasforma costantemente, tutto ciò mostra chiaramente solo una cosa, che qui interessa. Che non tutte le parole hanno lo stesso peso, che non si tratta solo di segni che si scambiano, che comunicano tra loro. Ciò perché le parole di chi condiziona le sorti del sociale sono parole con un’efficacia diversa da quella delle parole di chi fa tanto se riesce a rendersi possibile una propria realtà sociale. Alle scienze sociali sta dunque decidere dove indirizzare le proprie ricerche. Le nostre sono indirizzate in quest’ultimo senso, verso quei soggetti che sono senza potere dove lavorano o apprendono, ma hanno la capacità e la volontà di dire cosa pensano e come fanno a rendere possibile il sociale oltre ciò che già gli esperti conoscono. Ma non è l’unica direzione. C’è infatti quanto mai bisogno di scienze sociali capaci anche di offrire proprie prescrizioni nei confronti di quelle politiche di chi, nel pubblico come nel privato, ha potere e competenze di governo. L’essenziale è che nei due casi, sia in quello delle ricerche tra i governati, sia in quello delle ricerche tra i governanti, non si pretenda di integrare anche l’altra casistica svuotandola di contenuti propri. Nel triangolo tra governati, governanti e scienze sociali nessuno deve pretendere di dettare legge, di trovare la soluzione che accontenti tutti. I rapporti reali non possono che essere bilaterali e il “terzo”, come insegna la logica più tradizionale, non può che essere escluso. Solo così si può rispettare la società nelle sue divisioni, per avvicinarle senza farle scontrare. L’immagine delle scienze sociali che ne risulta può apparire un po’ schizofrenica, intimamente e irrimediabilmente divisa tra le ricerche al servizio di chi governa e le ricerche al servizio dei governati. Ma questa divisione di fatto esiste già fin dalle loro origini di metà Ottocento. Fin da quando, cioè, a ricercatori come Tylor venne in mente di studiare dei “selvaggi”, quali gli Anahuac del Messico, e non certo allo scopo di asservirli o gestirli, ma per dar loro la dignità di rappresentare una grande questione per l’antropologia nascente. Se dunque simili ricerche su popolazioni senza potere sono da sempre state un punto di forza delle scienze sociali, esse si sono sempre accompagnate a ricerche del tutto funzionali alle esigenze dei governi più potenti. Questa doppia attitudine a guardare la realtà “dall’alto” o “dal basso”, da sempre esistente, nei fatti, tra so
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ciologi, antropologi ed etnografi, è apparsa più che mai composta nel Novecento, grazie anche alle diverse promesse partitiche convergenti nel far sperare in un mondo in cui le differenze di condizione tra esseri umani si sarebbero in un modo o in un altro ridotte, se non addirittura estinte. L’attuale venir meno di tali promesse richiederebbe però che questo dualismo delle scienze sociali, questo loro oscillare, di fatto, tra popolazioni di governanti e popolazioni di governati, fosse finalmente riconosciuto anche di diritto. Il che per loro non comporterebbe alcuna scissione metodologica o istituzionale, ma solo delle più chiare assunzioni di responsabilità quanto alla politica scientifica perseguita, se più in favore dei governanti o più in favore dei governati. . Prescrizioni per la ricerca Le nostre risposte verranno esposte in forma di prescrizioni. Prescrizioni di come può prendere l’avvio e orientarsi una ricerca ispirata dalle nostre ipotesi. Supponiamo di essere qualcuno che ne sa qualcosa di scienze sociali (ovvero che ha già letto le parti precedenti di questo testo e ha preso visione di qualche libro segnalato in nota) e che ha intenzione di fare una ricerca. Anzitutto, si cerca di avere qualche informazione su quel che si dice nel presente a proposito del sociale. A tale scopo l’operazione più semplice consiste nello sfogliare qualche giornale. In questi mezzi della comunicazione di massa si trova ovviamente una miriade di opinioni circolanti sui fatti più diversi. ... Ricerche sociologiche sui governanti Tra queste opinioni circolanti, solitamente campeggiano quelle di coloro che hanno capacità e competenze di governo sulla vita degli altri. Poco importa che siano imprenditori, sindacalisti, politici o funzionari, poco importa che siano o meno favorevolmente commentati dai giornalisti, ancora meno se le loro parole godano di un consenso unanime, l’essenziale è soffermarsi su quello che dicono a proposito di quello che stanno facendo: su ciò che dichiarano a proposito di quello che stanno rendendo possibile. Solitamente queste dichiarazioni contengono delle giustificazioni del proprio operato. Chi ha potere per lo più non si sottrae del tutto alla responsabilità di dare qualche spiegazione del perché sta facendo quello che sta facendo. E gli argomenti per tale spiegazione non possono non contenere un minimo di razionalità: cioè, di coerenza logica rispetto a un insieme di conoscenze riguardanti le condizioni in cui si agisce. Insomma, i discorsi di chi ha potere tendono sempre o quasi a evocare le cognizioni di causa che giustificano le loro scelte. Ora, è proprio questo, queste cognizioni di causa, la prima cosa che è opportuno studiare, se a interessare è l’analisi di una decisione che ha conseguenze prescrittive sul resto della società.
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La prima domanda che ci si può porre riguarda il metodo, la scuola di pensiero con cui tali conoscenze sono state ottenute. E, poiché normalmente si tratta di conoscenze fondamentalmente economiche, giuridiche o militari, si tratterà di capire da quale indirizzo all’interno di queste dottrine venga tratto il sapere necessario a decidere. Qual è insomma la formazione degli esperti, dei consiglieri di chi spiega pubblicamente perché è stata presa una decisione di governo piuttosto che un’altra. In tal modo si potrà capire se con tale decisione non si fa che applicare dogmaticamente un sapere già acquisito oppure se ne rappresenta una variante innovativa più o meno giustificata. Ad esempio, una critica molto spesso rivolta al Fondo monetario internazionale è stata quella di seguire dogmaticamente un approccio economico neoliberista e monetarista. Invece, in Italia, a un ministro come Tremonti è stata imputata una finanza “creativa”, ironizzando sul fatto che le cifre addotte non giustificavano le decisioni prese in loro nome. Una seconda domanda che ci si può porre riguarda la coerenza tra le conseguenze sociali prevedibili della decisione presa e la sua giustificazione. Per esempio, se l’obiettivo di estirpare dal sociale ogni forma di terrorismo giustifichi, da un punto di vista militare, la decisione di una guerra infinita ai cosiddetti “Stati-canaglia”. Personalmente, altrove, ho provato a dimostrare che, anche alla luce della tradizionalissima e sempre rispettata dottrina bellica del generale prussiano del primo Ottocento, Karl von Clausewitz, tale giustificazione è introvabile. La domanda più impegnativa consiste nel chiedersi se, alla luce delle conoscenze disponibili intorno alle condizioni di una decisione a rilevanza sociale, non fosse opportuno pensare un’altra decisione. Ogni problema sociale infatti ha sempre più soluzioni possibili. Possibilità che aumentano tanto più e meglio è conosciuto il problema. E dato che nessun problema ha solo una soluzione, ogni decisione di politica sociale è tanto più contestabile quanto più si giustifica come l’unica possibile. Tale giustificazione infatti non fa semplicemente che nascondere quali siano i settori di popolazione che sono più premiati e quelli che sono più penalizzati. Ogni soluzione di un problema sociale, in quanto attuata comunque col concorso di finanze pubbliche, implica infatti una inevitabile redistribuzione del reddito, di cui sarebbe sempre opportuna una discussione pubblica, cui le scienze sociali dovrebbero contribuire. La semplice deduzione della soluzione politica, tratta per via puramente logica dalla conoscenza del problema, come si trattasse di un’operazione naturale e a costo zero, è solo falsità, che le scienze sociali dovrebbero sempre denunciare. Così pure dovrebbero denunciare l’uso sempre più frequente e sistematico tra i governanti di categorie giuridiche come “stato d’emergenza”, “leggi speciali” e “d’eccezione”. Tale uso, che è finito nell’evidente perversione di rendere normale l’eccezionale, non punta infatti che a tacitare sul nascere ogni discussione sull’opportunità di altre decisioni.
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Ma c’è anche un altro insieme di questioni che possono suscitare l’interesse di ricerca. Specie in Italia si tratta di quelle che si possono chiamare indecisioni o le decisioni del tutto implicite da parte di chi ha il potere: le famose disfunzioni o inefficienze dello Stato, i conflitti di interessi. Ad esempio, l’incapacità di avere procedure omogenee e credibili nell’accoglimento dei lavoratori stranieri, la delega spesso tacita alla famiglia o alla chiesa per risolvere questioni sociali che riguardano tutti i cittadini, con o senza famiglia, credenti o non credenti, o, d’altra parte, il fatto che il lavoro continui a essere per metà, o quasi, “nero”, cioè non censito, fuori di ogni conto e norma. Qui le domande da porsi riguardano tutte le decisioni che sono prese al posto di quelle che, alla luce delle conoscenze economiche e giuridiche, parrebbero importanti. D’altra parte, in qualsiasi problematica sociale del nostro paese occorre sempre tenere conto di un dato caratteristico della situazione giuridica. L’inflazione legislativa, il fatto che esistono troppe leggi, il fatto che, ad esempio, quando se ne fa una, non si abrogano le precedenti su analoga materia, insomma, l’esistenza su ogni questione di garbugli normativi che finiscono per lasciare molto spazio discrezionale all’autorità del caso: magistrati, tutori dell’ordine pubblico, clero, funzionari o grandi e piccoli manager con prestigio e qualifiche pubbliche o semipubbliche. Di qui l’interesse a studiare come, caso per caso, sulla base di quali conoscenze tali governanti prendano le loro decisioni. L’importante, per mantenere la ricerca a livello scientifico, è concentrare l’attenzione sulle conoscenze e sulla coerenza o meno delle decisioni che vengono prese. Diversamente, se l’attenzione è dedicata soprattutto a stabilire gli intrecci personali più o meno occulti che stanno dietro le decisioni, oppure a sollevare scandali per la loro segretezza, in tali casi si scivola inevitabilmente nella cronaca. Non si deve mai dimenticare che ogni Stato, per definizione, rivendica di avere dei segreti, e che questi coprono l’essenziale di quella dimensione decisiva degli affari pubblici costituita dalla tutela dell’ordine interno e dalle questioni militari. Insomma, la supposta trasparenza delle istituzioni pubbliche e democratiche riguarda solo una parte di queste ultime. Le conoscenze delle ricerche sociali su chi ha potere possono contribuire a estendere questa trasparenza, ma solo puntualmente e relativamente. Da notare bene è che ovunque l’opinione circoli, ovunque l’informazione arrivi, c’è sempre un potere che decide o al quale si può comunque imputare lo stato del problema sociale che si incontra. Il ricercatore sociale non deve cioè cedere alla tentazione di credere a qualcosa come l’autogoverno della società. Credenza, questa, favorita dall’uso di categorie quali quella della “società civile” o della “cultura”, intesa come stadio evolutivo contiguo a quello naturale e quindi condivisa da tutti e da nessuno in particolare. Ad esempio, tipico, da questo punto di vista, è un certo tradizionale e sempre diffuso modo di concepire il “sottosviluppo” del meridione italiano, attribuendone la causa, o meglio la colpa, ai difetti che caratterizzerebbero “società civile” o “cultura” da
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Roma in giù. Ma anche a proposito di fenomeni come le “tifoserie” calcistiche, la grande, la piccola criminalità o altri fenomeni di rilevanza sociale generale, il focus della ricerca deve sempre puntare a individuare le sedi pubbliche o private, manifeste od occulte, dove si concentra il potere di prendere decisioni sul destino di tali fenomeni. E anche qui l’analisi deve concentrarsi sulle conoscenze in base alle quali tali decisioni sono prese e quindi sulla coerenza o meno di queste ultime rispetto a quanto viene dichiarato per giustificarle. In ogni caso, da evitare è credere che il risultato ideale della ricerca dovrebbe consistere in pure e semplici descrizioni oggettive di quel che la realtà sociale è. Dal momento in cui la svolta linguistica impone di ammettere che la realtà sociale è quello che il linguaggio ne presenta, anche il ricercatore sociale non può non sentirsi corresponsabile della sua presentazione. Così, le sue ricerche non possono non avere una portata pragmatica, effettuale, quantomeno nello spingere in un senso piuttosto che in un altro la circolazione delle opinioni. Come si è visto, tutto questo genere di ricerche sui governanti richiede comunque delle precise competenze e conoscenze in materie da esperti: giuridiche, statistiche, economiche, urbanistiche, criminologiche, militari e così via. Senza padroneggiare almeno uno di questi tipi di sapere, tali ricerche su come si esercita il governo del sociale non sono possibili. Se questi si possono chiamare studi sociologici, quelli cui si dedica il nostro gruppo sono altri, che rientrano piuttosto tra gli studi che si chiamano antropologici, etnologici o ancora più precisamente, nel nostro caso, etnografici. ... Ricerche etnografiche tra i governati Per spiegare come orientarli, ritorniamo allo spoglio dei giornali. Più spesso tra le righe, possiamo notare il riferimento a gente che è semplicemente governata, che non ha alcun potere di decidere i destini del resto del sociale e che stenta a rendere possibile il proprio. Si tratta di popolazioni che fanno lavori duri, obiettivamente al limite del possibile, o che sono senza lavoro e che si arrangiano come possono a sopravvivere. Un sociale che, volendo, si può chiamare marginale, ma intendendo così che si tratta di una realtà alla frontiera del possibile, che rende possibile ciò che per il resto della società non lo è. I margini che occupa questo genere di popolazione sono più o meno grandi a seconda della ricchezza e dello sviluppo economico del paese in cui si trova, ma sono comunque molto più vasti di quanto la circolazione delle opinioni solitamente ammetta. E ciò, non perché queste sono manipolate dai mass media e da chi li comanda, ma perché questa realtà sociale, senza potere, non ha nulla da comunicare, né da far notizia. Così, a livello d’opinione, essa compare solo tramite i discorsi di chi ne trae anche solo un minimo di potere, come i sindacati. Il recente disfacimento dei partiti, soprattutto di quelli che tiravano avanti il movimento operaio, ha sicuramente fatto recedere, come mai prima,
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poveri, operai, lavoratori precari o senza lavoro a semplici cifre statistiche. Ma, d’altra parte, oggi nessuno può pensare seriamente che queste siano delle popolazioni in più o meno rapida ascesa sociale o estinzione. Si allargano, allargando sempre più i margini del sociale rispetto ai suoi centri decisionali. Dunque, l’etnografo che oggi voglia studiare queste popolazioni, dette marginali, si trova in una posizione assai nuova e singolare. Da un lato, la sua scelta di ricerca può assomigliare a quella di quei primi etnografi che, contro l’opinione pubblica del proprio tempo e sfidando ogni sorta di rischi, si avventuravano tra capanne sperdute nelle foreste per ergere a grande questione scientifica il pensiero di semplici “selvaggi”; dall’altro, anziché a remoti e sparuti villaggi, si trova di fronte a immense popolazioni ovunque in crescita, come in crescita sono povertà, lavoro precario e mancanza di assistenza. Punto di partenza è che tra queste popolazioni di governati comunque si parla e quindi si pensa. E lo si fa non diversamente da come lo può fare ogni ricercatore non troppo scolastico, non troppo chiuso nella sua presunzione di essere uno scienziato o nella smania di rispettare riti e corpi accademici. Primo passo da fare è quindi scommettere che tra le parole e il pensiero di chi dalla ricerca è interpellato e le parole e il pensiero di chi la ricerca la fa ci possa essere incontro. Un incontro come tutti quelli che chiunque può fare, ma con qualcosa di un po’ speciale. Quel qualcosa che chi fa la ricerca deve riuscire a metterci, col suo sapere: il fatto che l’incontro non si riduca a semplice scambio di opinioni, a ulteriore mulinello nella circolazione delle comunicazioni. In effetti, ammettere che un soggetto senza potere possa avere un suo pensiero non deve far credere che tutto quel che esso dice sia frutto di pensiero. Occorre invece ammettere che esso, come chiunque, possa parlare, anche semplicemente ripetendo quel che ha sentito dire in giro. Anzi, è chiaro che questo secondo caso è sicuramente il più probabile, mentre è più difficile il precedente, quello in cui si dà del pensiero in modo singolare. La scommessa è che solo in quest’ultimo, nella sua singolarità, si trovino le tracce di quel che è la realtà sociale per chi è governato. Presentarle come risultato scientifico, nonché come prescrizione per le politiche sociali è dunque tra i nostri obiettivi ultimi. Ma la realtà sociale di chi non può deciderne nulla, in generale, è identificabile solo se viene localizzata. Come il “villaggio” è una delle categorie dell’etnografia del “pensiero selvaggio”, così la nostra etnografia del pensiero ha come prescrizione obbligatoria la localizzazione della realtà sociale. Fabbriche, centri di assistenza, scuole sono tra i luoghi principali delle nostre inchieste. Cosa sia o non sia un luogo è a volte problematico. Che un quartiere lo sia è tutto da valutare. Così come invece un solo reparto di una fabbrica può esserlo. L’essenziale è capire se e fino a che punto il luogo è luogo che dà da pensare a chi ne fa esperienza diretta. Decidere su questo punto è importante, perché è proprio a proposito di questi luoghi che interpelliamo il pensiero dei soggetti che ne fanno esperienza diretta.
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Importante è anche conoscere tutto quel che si può sapere a priori di questi luoghi. Qual è la loro storia, come si situano rispetto al complesso industriale, educativo, formativo o assistenziale in cui sono inseriti, quel che ne dicono le cronache, i dirigenti o le opinioni circolanti intorno a essi. Ma tutte queste conoscenze da esperti, da raccogliere prima dell’incontro con gli intervistati, non devono costituire gli argomenti cruciali dell’incontro stesso. Ciò accade, ad esempio, se interpelliamo i nostri soggetti cercando di capire il grado della loro coscienza rispetto alle conoscenze che noi già abbiamo. La distinzione tra coscienza e pensiero è qui decisiva. Ciò cui puntiamo è stimolare un pensiero, non verificare delle coscienze. E per stimolare il pensiero occorre supporre che esso ci possa dire qualcosa del tutto diverso da quel che si può sapere altrimenti, per quanto scientifico possa essere. Per conoscere la realtà sociale di cui parla un pensiero, occorre pensarlo, e per pensarlo occorre dargli spazio, lasciare che si dispieghi in un suo spazio intellettuale. È solo trovando uno spazio intellettuale proprio degli intervistati, ciò di cui discutono, su cui si confrontano, di cui parlano, che si può pensare e conoscere il loro pensiero dall’interno. A tale scopo, tutte le conoscenze che si possono fare del luogo dell’incontro cogli intervistati, prima dell’incontro stesso, devono servire solo come preliminari. Tra i preliminari ci sono anche i contatti coi responsabili del governo del luogo, le direzioni. Decisivo è infatti che le interviste si svolgano sul luogo e durante l’orario di lavoro. Per questo è decisiva anche la collaborazione con le direzioni, alle quali si può assicurare che dai risultati della ricerca si potranno ricavare prescrizioni utili ad avvicinare il governo del luogo a quanto pensano i governati. Per campionare il gruppo di soggetti con cui svolgere le interviste, a parte altri dettagli più tecnici, il principio solitamente seguito sta nel non cercare di costruire una media o un tipo ideale di interlocutore, il che supporrebbe una precisa conoscenza preliminare di tutta la popolazione interpellata, ma nell’evitare ogni eccesso di caratteristiche particolari (ad esempio, di sesso, provenienza, età o mansioni). Poiché l’essenziale sta nella riuscita degli incontri, la formulazione del questionario o della guida per le interviste che avvengono durante tali incontri, è quanto mai delicata. Essa deve tenere presente questi limiti, ma varia completamente da luogo a luogo. Il tipo di domande di cui è composto il questionario è comunque il più aperto, il più generico possibile, proprio per lasciare la massima libertà di riflessione all’intervistato, al quale peraltro va garantito il più assoluto anonimato. Non va risparmiato alcuno sforzo, perché metodo e intenti della ricerca siano il più possibile chiari per tutti quelli che sono da essa interpellati. Gli incontri sono interviste faccia a faccia tra uno o più intervistatori e un intervistato. Il questionario è lo stesso per tutte le interviste, ma su ogni risposta l’intervistatore è legittimato a ogni sorta di rilancio per ottenere risposte più precise. Il magnetofono è sconsigliato, per il clima da chiacchiera che permette, ma anche perché, registrando tutto, registra anche gli enunciati che l’intervistato non desidera siano registrati. E contrariare un intervistato non giova all’intervista così come la intendiamo. Viene prefe
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rita l’immediata trascrizione su supporto cartaceo delle risposte, anche a costo di qualche malaugurata perdita di enunciati. Si vuole infatti che l’intervistato si senta del tutto responsabilizzato sulle risposte che dà, parola per parola. In alcune ricerche simili alle nostre, una volta raccolte le risposte, l’inchiesta può ritenersi prossima alla conclusione. Nel nostro caso, l’analisi del contenuto è la parte più complessa. L’importante è che il ricercatore impari a pensare e conoscere il luogo dove la ricerca è avvenuta tramite gli enunciati stessi che vi ha raccolto. Iterazioni o singolarità, silenzi o malintesi, reticenze o logorree: ogni carattere riscontrato in una o in tutte le interviste può acquistare un aspetto diverso a seconda dell’inchiesta. L’importante è non cercare conferme o critiche dell’opinione che circola dentro e fuori il luogo, ma cercare ciò che viene pensato in quel luogo e in quello solamente. Problemi e soluzioni incontrati per rendere possibile un lavoro, un’esperienza che dall’esterno del luogo è poco o nulla immaginabile: queste le prime cose da conoscere e che spesso risultano ignote anche a chi governa quello stesso luogo, nonché agli esperti che provano a conoscerlo seguendo modelli o definizioni universali. Quanto al rapporto finale, esso deve essere pertinente ad almeno una questione già discussa dalle scienze sociali, della quale l’inchiesta stessa possa presentarsi come una sperimentazione. Il tutto comunque in un linguaggio accessibile anche a non esperti, in quanto tra i suoi destinatari vi sono anche gli stessi intervistati, oltre agli esperti del tema trattato dall’inchiesta e a chi esercita il governo del luogo. Far confrontare queste tre soggettività, senza confonderle o esasperarne i conflitti, va infatti sempre presentato come uno dei primi obiettivi pragmatici perseguiti dalla nostra etnografia. Note . Un terremoto devastante come quello di fine nel Sud-Est asiatico dimostra quanto, contrariamente all’immagine d’armonia perfetta e rassicurante che ne offre l’attuale opinione ecologista più scadente, la natura possa sempre essere anche crudelissima “matrigna”, secondo la nota espressione di Leopardi, il poeta. Giustamente subito ci si chiede come si potrebbero difendere da simili eventi le società di quei territori costieri, le quali ora sono non solo con popolazioni tragicamente falcidiate, ma addirittura strutturalmente disarticolate. Già Machiavelli alla fine del Principe, prendendo ad esempio le alluvioni, sosteneva che quel che accade agli uomini è attribuibile per metà alla “fortuna”, su cui niente si può, e per metà alla “virtù”, che dipende tutta dagli uomini. Il che comporta il non accontentarsi di piangere la sfortuna dell’alluvione, ma il pensare anche a quanto si poteva fare e non si è fatto per prevenire e contenere gli effetti di tale evento naturale. Ragionamento, questo, in cui si può notare già una chiara critica contro ogni ricorso a necessità naturali per spiegare questioni sociali che invece dipendono anzitutto dalle “virtù” o meno di chi vi ha potere. . È opportuno segnalare che molte delle indicazioni di metodo che seguono sono indirettamente ispirate a Giraud, L’inégalité du monde, cit., ma anche a M. Foucault, soprattutto ai suoi testi raccolti da Fontana e Pasquino in Microfisica del potere: interventi politici, Torino . . Romitelli, Storie di politica e di potere, cit. . Cfr. G. Agamben, Lo stato d’eccezione. Homo sacer, Torino , sia pur in una direzione problematica diversa da qui. . R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano .
Parte seconda Ricerche
Presentazione
I testi che seguono sono il risultato di inchieste svoltesi in tempi e modi differenti. Le discussioni e i lavori, che hanno portato alla loro raccolta e presentazione, hanno contribuito alla recente costituzione del Gruppo di ricerca di etnografia del pensiero, cui tutti gli autori aderiscono, con la prospettiva di nuovi progetti di indagine. Pur nella loro relativa disomogeneità, dovuta sia alla diversa formazione degli autori, sia ai diversi ambiti in cui le inchieste sono nate (alcune si sono svolte nell’ambito di corsi universitari, altre in quello di tesi di laurea e di dottorato), questi lavori condividono esiti convergenti. Presentiamo le inchieste in ordine cronologico rispetto alla loro realizzazione. Più possibilità di vivere, del , costituisce un primo esperimento di coinvolgimento di studenti universitari nella fase delle interviste ed è un’inchiesta condotta tra gli utenti dell’Ufficio immigrati della CGIL di Bologna. Nel , sempre nell’ambito di un corso universitario, si è svolta l’inchiesta Una scuola diversa dalle solite, tra ragazzi di - anni frequentanti il Nuovo obbligo formativo, corsi di formazione professionale organizzati dalla Provincia di Bologna. Una fabbrica da rifare – La qualità del lavoro e Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa sono invece i risultati di inchieste condotte nell’ambito di due tesi di dottorato presso l’Università di Paris. Sono state effettuate in grandi fabbriche dell’Emilia-Romagna (la BredaMenarinibus, la Cesab e la Bonfiglioli) tra i loro operai. Annesso al testo Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa, col titolo Da operaio a operaio, è il sunto di un intervento tenuto in occasione della discussione della tesi di dottorato da cui è tratto. Una benevola forma di egoismo è l’estratto di un’inchiesta svolta per una tesi di laurea, tra i volontari della Casa dei Risvegli, un’associazione che si occupa dell’assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio. Il senso della fabbrica, del , è frutto di un’inchiesta condotta per la Provincia di Ravenna tra gli operai della Marcegaglia S.p.a., una fabbrica assolutamente in controtendenza in Italia: tra le grandi industrie non solo non è in crisi, ma è anzi in forte espansione. Qui si indaga la questione dell’immigrazione,
GRUPPO DI RICERCA DI ETNOGRAFIA DEL PENSIERO
per lo più dal sud verso il nord d’Italia. Grande fabbrica e migrazione interna: temi che rimandano a un passato recente che continua a esistere, ma con nuove questioni problematiche. Sarebbe il lavoro del futuro, dello stesso anno, è il risultato di un’inchiesta condotta, nell’ambito di un corso universitario, tra i lavoratori della cooperativa sociale bolognese CADIAI, i quali si occupano di assistenza ad anziani e disabili. I risultati di quest’inchiesta hanno avuto un primo utilizzo in alcune ore di formazione svolte all’interno della cooperativa. Tutte le inchieste sono state seguite da V. Romitelli. Ringraziamo tutti gli intervistati, che volontariamente hanno accettato di partecipare alle nostre inchieste. Ringraziamo inoltre: Roberto Morgantini dello sportello per i lavoratori stranieri della CGIL di Bologna; i tutor del NOF, Agnese Maio, Raffaele Rani, Roberto Panzacchi, Gianni De Giuli, Samantha Mongiello; Antonella Migliorini e Sonia Bianchini, responsabili della formazione per la Provincia di Bologna; tutti i volontari della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana; Riduttori Bonfiglioli S.p.a., in particolare il dott. Bonvicini; BT Cesab S.p.a., in particolare il dott. Zanaboni; BredaMenarinibus S.p.a., in particolare il dott. Fiorillo; Roberto Bennati (FIOM Emilia-Romagna); Emilio Pascale (Assindustria Bologna); Marcegaglia S.p.a., in particolare l’ing. Zangaglia e Simone D’Andrea, rispettivamente direttore dello stabilimento e responsabile dell’Ufficio sicurezza all’epoca della ricerca, e Massimo dell’Ufficio sicurezza; Germano Savorani, assessore alle politiche del lavoro e della formazione professionale per la Provincia di Ravenna; Alberto Alberani, responsabile politiche sociali di Legacoop Bologna; Rita Ghedini, presidente CADIAI; Franca Guglielmetti, responsabile ufficio marketing CADIAI; Roberto Malaguti del servizio marketing e sviluppo CADIAI. Un particolare ringraziamento a Gianluca Borghi, assessore alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna, per il sostegno dato alle nostre ricerche. Un grazie per la loro collaborazione al testo a Davide Baroncini, Brigitte Luggin, Samuele Paganoni. GRUPPO DI RICERCA DI ETNOGRAFIA DEL PENSIERO
Più possibilità di vivere* di Valerio Romitelli
Una ventina di studenti che, per un corso semestrale di Metodologia delle scienze sociali dell’Università di Bologna, intervistano una cinquantina di utenti dei centri per lavoratori stranieri della CGIL. Il tutto, poi, sintetizzato e presentato in relazioni durante un seminario presso la stessa CGIL, cui partecipano, oltre a qualche lavoratore straniero, altri operatori del settore. Un’interessante esperienza didattica non solo per me, che l’ho diretta, ma anche per gli stessi studenti, che hanno partecipato e concluso questa esercitazione con impegno ed entusiasmo. I suoi risvolti metodologici, cognitivi e anche politici, oltre che didattici, credo, meritano di essere riportati. Vediamoli uno a uno. La didattica, un’esperienza sul campo Sul piano didattico occorre subito dire che, trattandosi di un corso di Metodologia delle scienze sociali presso il Dams, gli studenti frequentanti non avevano alcuna dimestichezza particolare con le questioni di tipo sociologico, antropologico o etnologico. In effetti, si tratta di un insegnamento comune, fondamentale, ma in fondo accessorio rispetto alle tematiche di musica, arte e spettacolo che costituiscono il cuore di questa istituzione universitaria. Inatteso è stato dunque l’entusiasmo col quale gli studenti hanno accolto la mia proposta di tentare l’esercitazione di una ricerca sul campo, oltretutto su un tema come quello dei lavoratori stranieri in Italia, che sicuramente ha ben poco di musicale, artistico o spettacolare. Tuttavia, per una volta almeno, la mia scommessa è stata proprio quella di puntare su una didattica intimamente legata a una ricerca su un tema d’attualità. È il caso di spiegare alcune ragioni di fondo di tale scelta. . Perché, nonostante tutto il gran parlare che si fa all’università del legame tra didattica e ricerca, ben raramente si prova a sperimentare effettivamente questo * Un’inchiesta sulle parole dei lavoratori stranieri condotta a Bologna da studenti universitari.
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legame; cosicché, invece di indirizzare gli studenti a cimentarsi su delle incognite, l’insegnamento finisce quasi sempre per essere una rassegna il più possibile enciclopedica di quanto è già conosciuto di una materia; col risultato di demotivare ogni desiderio di indagine dell’ignoto e incutere invece un sacro, e non di rado annoiato, timore per tutto quello che si presenta sotto il nome di Scienza. . Perché, come da alcuni anni tento di insegnare, una delle più importanti novità introdotte dalle scienze sociali, a partire dal XIX secolo, sta proprio nell’affermare il valore cognitivo delle ricerche “sul campo”. Solo così tali scienze, infatti, hanno saputo distinguersi dai loro grandi concorrenti, quali teologia e filosofia; sarebbe a dire dei modi di pensare certamente sempre validi, ma che si fondano su presupposti per i quali non c’è aspetto reale che possa essere conosciuto senza essere legittimato e situato in un quadro di principi universali. . Perché ho ritenuto che una questione come quella dei lavoratori stranieri, oggi, sia di una tale importanza e attualità che anche degli studenti, non necessariamente interessati a essa, gradissero averne una conoscenza diretta. Ecco dunque il mio puntare sul triplice obiettivo didattico: tentare un insegnamento decisamente orientato alla preparazione e alla realizzazione di una ben precisa ricerca; mostrare che solo nella ricerca, all’interno di una ricerca si può capire qual è il vero senso delle scienze sociali; verificare la portata anche scientifica e intellettuale della questione dei lavoratori stranieri oggi. Per perseguire questi obiettivi il corso ha dunque insistito sulla necessità di dare alla nostra ricerca un dispositivo problematico singolare, ad hoc. Il che significa non solo dotato di ipotesi del tutto proprie, cioè non necessariamente condivisibili da altre ricerche, ma anche esplicitamente delimitato rispetto ad altri possibili campi di ricerca. In parole più semplici, ci si è chiesto in modo approfondito secondo quale ottica avremmo studiato la questione dei lavoratori stranieri. Così ci si è addentrati in importanti questioni di metodo. Su di esse mi dilungherò un poco, perché è stato proprio il modo in cui sono state affrontate ad aver reso possibile un proficuo coinvolgimento in questa esperienza di studenti poco o nulla esperti. Il metodo, la quadruplice dimensione soggettiva Prendere sul serio le questioni di metodo nelle scienze sociali significa anzitutto non scambiarle per semplici questioni di tecnica di ricerca. Ovvero non credere che si tratti solo di mezzi e di misure, ma assumere che si tratta essenzialmente di questioni di approccio: di come ci si pone di fronte a ciò che si vuole studiare. La maggiore difficoltà di questo problema sta proprio nel porlo e nel farlo accettare. Troppa cultura, da quella religiosa a quella marxista, passando anche attraverso il pragmatismo all’anglosassone, alimenta la credenza che ci sia un
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unico modo di vedere il mondo. Il “pensiero unico” abita ancora nelle nostre menti, anche se si presenta in svariati modi, come appunto quelli teologici, classisti o individualisti. Insegnare la metodologia delle scienze sociali per me significa anzitutto prendere le distanze da ogni forma di “pensiero unico”. Durante il corso, ho quindi particolarmente insistito sulla tesi che i metodi d’approccio nelle scienze sociali possono essere infiniti, ma che l’essenziale è deciderne uno, senza peraltro pretendere che sia l’unico e il migliore. E che a tale scopo conviene distinguere il proprio, almeno da un altro possibile approccio contiguo. Abbiamo così esaminato due possibili approcci alla questione dei lavoratori stranieri: in esteriorità o in interiorità; da un punto di vista oggettivo o da un punto di vista soggettivo; in senso quantitativo o in senso qualitativo; in termini statistici e sociologici o in termini antropologici ed etnografici; osservandoli a distanza, come un determinato insieme di popolazione, o andando tra loro, per incontrare direttamente qualcuno di essi. Il primo tipo di approccio è sicuramente obbligatorio per fornire delle conoscenze necessarie a funzionari di Stato, di partito, di sindacati o di qualunque altra istituzione che abbia il potere di condizionare l’esistenza di questi lavoratori, come di qualsiasi altro soggetto senza potere. Ma come tutti i metodi d’approccio, anche questo ha i suoi limiti: non offre alcuna conoscenza appropriata di quel che soggetti simili pensano e dei modi in cui rendono possibile la loro vita. Conoscenza, questa, comunque degna di interesse, a meno di non credere che ogni sapere conti solo se direttamente al servizio della gestione di qualche potere. Il nome di Lévi-Strauss e le sue memorabili ricerche sul “pensiero selvaggio” sono stati qui citati a dimostrazione del fatto che nell’antropologia, come nell’etnologia, ha trovato spazio questo tipo di conoscenza senza alcuna diretta utilità per la gestione di poteri esistenti. È quest’ultimo l’approccio che è stato assunto per la nostra ricerca, senza peraltro pretendere che esso fosse sostitutivo dell’altro approccio oggettivo, quantitativo, statistico, sociologico, in esteriorità. Non si è infatti trascurato di passare in rassegna alcuni dei risultati più significativi apportati dalle maggiori ricerche condotte in tal senso: il VII rapporto Caritas e il Primo e Secondo rapporto sull’integrazione dell’immigrazione, alcuni dei più importanti documenti della Commissione della UE, i testi della legge Bossi-Fini, il libro bianco di Biagi e Maroni. Per configurare in modo operativo l’approccio della nostra ricerca, mi sono avvalso degli insegnamenti desunti dalla singolarissima, pionieristica e poco nota opera di Sylvain Lazarus. La sua antropologia, secondo una classica distinzione, può anche dirsi orientata in un senso radicalmente qualitativo. Ma non vi è alcuna parentela con approcci come l’“osservazione partecipante” o l’“interazionismo simbolico”. Si tratta di una problematica del tutto sui generis.
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Tra le tante suggestioni che ne ho ricavato, una primeggia: quella, detta a modo mio, di privilegiare nella ricerca antropologica le parole rispetto ai discorsi. Il che vuol dire: . cercare il reale a partire dal linguaggio, da quel che ne viene detto e non da qualche teoria del mondo, della storia o del sociale; . analizzare il rapporto tra il linguaggio e il reale, non a partire dai rapporti discorsivi tra parola e parola, ma a partire dalle parole stesse, ipotizzando che in alcune di esse il reale sia effettivamente problematizzato. I due punti sono evidentemente connessi: non ammettere altra teoria che quella di partire dal linguaggio, dal dire, è lo stesso che rifiutare qualsiasi discorso, come orientamento generale per la ricerca. Attenzione dunque alle parole, alle parole solamente, non ai discorsi che si suppongono “stare dietro” le parole. Quei discorsi che solo l’esperto (universitario, di partito o sindacale, poco importa) sarebbe in grado di conoscere a fondo e quindi riconoscere negli altri. Ecco quindi che, per adottare il metodo d’indagine interno al soggettivo, il ricercatore deve astenersi da qualsiasi discorso da esperto: deve rinunciare a qualsiasi logica generale, a qualsiasi dialettica, a qualsiasi teoria della comunicazione, a qualsiasi “pensiero unico”; deve andare ed esporsi semplicemente come essere parlante tra altri esseri parlanti. Ciò che si deve supporre possa esserci tra le parole è la capacità condivisa, tanto da chi fa ricerca quanto da colui sul quale la ricerca è condotta, la capacità intellettuale, la capacità soggettiva a pensare. È quindi responsabilità del ricercatore riuscire a incontrare e pensare il pensiero di coloro su cui fa ricerca, ed è proprio a tale scopo che il ricercatore deve ipotizzare che vi siano delle parole più importanti, più problematiche di altre. Il primo obbligo è quindi prestare fede alle parole e al pensiero, propri e degli altri. Il che ad esempio significa escludere sia che le parole siano dei mezzi di comunicazione, sia che il pensiero sia un’opinione più o meno manipolata. In tali casi, infatti, si ritiene che la realtà stia nella comunicazione e/o nella manipolazione dell’opinione, mentre, se sono le parole e il pensiero a essere presi sul serio, è in questi stessi, che va cercato un rapporto con il reale. Queste le sponde essenziali della nostra metodologia, che configurano già tutto un protocollo d’inchiesta. In effetti, la ricerca così concepita esige comunque un protocollo capace di individuare la ricerca stessa, di renderla una. Solo in tal modo, solo delimitando l’inchiesta come un’inchiesta, con un suo inizio e una sua fine, la responsabilità di tipo cognitivo può essere rispettata. Tale responsabilità, infatti, non significa altro che assumersi il compito di arrivare a concludere la ricerca presentandone dei risultati utili alla conoscenza, commisurabili con quanto è già conosciuto del fenomeno studiato. Questi dunque i lineamenti metodologici essenziali, che hanno permesso di tentare un’inchiesta con degli studenti affatto esperti né di scienze sociali, né della questione dei lavoratori stranieri.
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Primo punto operativo per la nostra ricerca è stato quindi fissare una serie di parole problematiche attorno alle quali configurare un questionario, che permettesse di mantenere un minimo comun denominatore alla serie di interviste con lavoratori stranieri condotte dagli studenti. “Immigrato”, “politica d’immigrazione”, “lavoro”, “diritti”, “paese” sono state alcune delle parole problematiche che sono parse tra le più indicate a costituire il questionario. Che diritti per i lavoratori stranieri? è stato il titolo generale assegnato alla ricerca. Pur rendendoci conto della vastità di tale questione, del tutto sproporzionata rispetto alla limitata esercitazione di inchiesta con cui l’avremmo affrontata, si è deciso di mantenere questo titolo. Ciò in quanto esso permetteva di offrire un orientamento generale, un orizzonte all’insieme delle interviste. “Straniero” infatti significa comunque una differenza ben chiara, quantomeno sul piano giuridico, rispetto a “cittadino”; e il nostro primo obiettivo era conoscere cosa i diretti interessati di questa differenza dicevano e pensavano. Tenendo nella massima considerazione i gradi più elevati di questa differenza: quelli costituiti dai “senza documenti”, che l’opinione pubblica autoctona troppo spesso ed equivocamente equipara a “clandestini”, “irregolari” o “illegali”, mentre vengono di fatto legittimati dalla prevista e pur sempre insufficiente misura delle “sanatorie”. Per fissare operativamente il modo in cui le inchieste andavano condotte, ho parlato di una quadruplice dimensione soggettiva. Nessuna ricerca di oggettività, ma una ricerca tutta interna alla soggettività, eppur quanto mai rispettosa delle differenze. La prima è quella che si istituisce nell’intervista, che va concepita come incontro, come un incontro di cui il soggetto intervistante si assume tutta la responsabilità e tutti i rischi. Ivi compreso quello che l’intervista stessa possa essere un incontro mancato, un incontro in cui i due pensieri, quello dell’intervistatore e quello dell’intervistato, non si incontrano. Niente di più fuorviante a tal proposito dell’idea che l’intervistato, magari anche senza saperlo, non aspetti altro che farsi intervistare. Così si ragiona ad esempio in quello che ho chiamato un approccio “coscienziale” all’intervista. Si tratta di un approccio dialettico, il quale suppone solitamente che l’intervista vada interpretata e analizzata alla luce di un discorso di classe e/o sulla democrazia. In altri termini, l’intervistatore interpella l’intervistato solo per conoscere lo stato o meglio il grado di maturazione della sua coscienza di classe e/o democratica. Coscienza di classe e/o democratica di cui ovviamente l’intervistatore si suppone già esperto e quindi in una pur implicita posizione di superiorità rispetto all’intervistato. Ecco che la dimensione soggettiva non è più duplice, ma unica, quella imposta dall’intervistatore che va incontro all’intervistato solo per accoglierne le parole, solo per comprenderle e/o spiegarle all’interno del discorso di classe. Decisivo, per non cadere in simili invasioni del
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la soggettività dell’intervistatore nei confronti di quella dell’intervistato, è tenere ben ferma la distinzione tra pensiero e coscienza. La coscienza è sempre coscienza “di”, coscienza di qualche oggettività, di solito i rapporti tra le classi o i “valori democratici”; l’analisi così finisce per essere sempre in termini di adeguatezza o meno, di riflesso più o meno chiaro, rispetto a un dato già conosciuto. Diversamente, il pensiero è pura possibilità soggettiva, che può essere analizzata solo riuscendo a farsene sorprendere, solo pensandone la singolarità, ossia i suoi eccessi o le sue mancanze rispetto a tutto quanto già si sa. Due soggettività, due pensieri per un incontro, che può riuscire o mancare: questa la sostanza dell’intervista. Per esaltare questa duplicità di responsabilità, un mezzo efficace, che è stato assunto nella nostra ricerca, è stato quello di trascrivere immediatamente su supporto cartaceo le risposte. Chi le offre si trova così a dover rilasciare delle dichiarazioni, e chi le raccoglie si trova sempre a doversi fare ben spiegare quanto ascolta. Così, certo, si può perdere in confidenza, ma si guadagna in rispetto delle distanze, che sono effettive, tra chi intervista e chi è intervistato. Ma non è finita. Le risposte di una o più interviste non sono che un materiale grezzo. Esibite in quanto tali non servono a nessuna inchiesta. Esse devono essere scomposte e ricomposte per un rapporto finale dell’inchiesta. Se nella/e intervista/e il ricercatore ha a che fare con singoli intervistati, quando si tratta di fare un rapporto d’inchiesta che tenga conto dell’insieme delle interviste, occorre dar la parola alle soggettività ritenute a diverso titolo più significative. Ma questa significatività è chi fa il rapporto a configurarla, è lui a doversene assumere la responsabilità. È sbagliato credere che il rapporto d’inchiesta debba esprimere semplicemente, il più oggettivamente possibile, quel che gli intervistati hanno detto. In questo tipo di ricerca si deve sempre tenere presente che l’oggettività non è mai decisiva. Bisogna rendersi conto che quando si fa il rapporto d’inchiesta entra in gioco una terza dimensione soggettiva, rispetto alle due precedenti dell’intervistato e dell’intervistatore. Tant’è che può accadere che lo stesso ricercatore sia un ottimo intervistatore, ma un pessimo relatore o viceversa. Il problema resta rispettare le differenti dimensioni soggettive: evitare che facendo il rapporto d’inchiesta si finisca per forzare e/o trascurare le parole risultate dalle interviste. Il rischio è notevole, poiché il rapporto non può non presentarsi in una forma discorsiva più o meno logica, dialettica e comunicativa, mentre il suo obiettivo cruciale deve restare quello di presentare la problematizzazione del reale quale si dà attraverso le parole degli intervistati. Per contenere il rischio di sacrificare tali parole a profitto del discorso che le riporta, non c’è che un modo: rispettare il più rigorosamente possibile alla lettera gli enunciati delle risposte, fare del rapporto una composizione i cui elementi costitutivi non sono che le parole degli intervistati. Solo così si può tentare che il risultato finale sia il
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pensiero di un pensiero: il fatto che il ricercatore sia riuscito a pensare qualcosa di quello che gli intervistati pensano. Il fatto che questo tipo di ricerca si tenga sempre a distanza rispetto all’oggettività rende sicuramente discutibile il suo carattere scientifico. Ma occorre anche ammettere che tra le scienze sociali niente è più costantemente discusso del loro statuto scientifico, cosicché non mi pare arbitrario far rientrare in tale discussione il metodo di ricerca ora abbozzato. In ogni caso, i risultati cognitivi che si ottengono con esso non possono non avere una destinazione assai particolare, comunque non solo scientifica. Si tratta quindi di problematizzare una quarta dimensione soggettiva: quella dei destinatari dei risultati cognitivi di questa inchiesta. Tra di essi vanno sicuramente contemplati anche i diretti interessati: chiunque si può supporre sia in una condizione soggettiva prossima a quella degli intervistati, chiunque si può supporre faccia un uso simile delle parole su cui la ricerca è stata condotta. È anche a loro quindi che il rapporto d’inchiesta deve indirizzarsi, per dir loro qualche parola significativa sulle loro parole ritenute più importanti. Il linguaggio del rapporto deve quindi risparmiarsi il più possibile ogni discorso scientifico. Il che non vuol dire affatto ricorrere alla volgarizzazione. Se è vero che il rapporto dell’inchiesta deve parlare di pensiero, di conoscenze ottenute attorno a un pensiero, ciò sicuramente non può essere fatto tramite alcuna volgarizzazione. Semplicemente vanno evitati il più possibile i discorsi da esperti, ovvero di tipo scientifico, proprio perché, se tali sono, devono obbligatoriamente legittimarsi in rapporto ad altri discorsi da esperti. Mentre il nostro tentativo deve essere quello di un discorso conclusivo giustificato anzitutto e soprattutto dalle parole più significative degli stessi intervistati. Ecco dunque la quadruplice soggettività che ha costituito un parametro fondamentale della nostra inchiesta: la prima dimensione è quella dei soggetti intervistati, la seconda quella dei soggetti intervistanti, la terza di chi fa il rapporto d’inchiesta, la quarta di coloro ai quali sono destinati i risultati cognitivi di tutto il lavoro, tra i quali vanno contemplati anche i diretti interessati aventi condizioni soggettive prossime a quelle degli stessi intervistati. È stato il confronto tra le parole connesse a queste quattro soggettività che ha fatto da motore a tutto il lavoro di ricerca. L’inchiesta, più possibilità di vivere Venendo ai risultati del lavoro, vanno subito sottolineati, oltre la già menzionata inesperienza degli studenti, i tempi assai stretti entro cui l’inchiesta ha dovuto essere prima da me proposta e illustrata, poi preparata assieme a tutti gli interessati, quindi eseguita e alla fine rielaborata e presentata. Il tutto nell’arco di tre mesi, tra marzo e maggio, che rappresenta l’effettiva durata di un corso detto semestrale. Lungi dall’essere una vera e propria inchiesta, non si è mai
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preteso che fosse niente più che un’esercitazione di inchiesta. Interessante proprio per questo, ma dai risultati cognitivi che possono essere apprezzati solo come primo passo per ulteriori ricerche. Per circoscrivere il campione da intervistare, si è preso contatto col Centro lavoratori stranieri della CGIL di Bologna, coordinato da Roberto Morgantini. Le interviste si sono svolte cogli utenti dello sportello di questo centro, al momento in cui vi si rivolgevano per chiedere informazioni. Gli operatori del centro hanno attivamente e discretamente collaborato per trovare soggetti disponibili a sottoporsi all’intervista. La maggiore cura quanto al campione è stata rivolta non tanto al fatto che esso fosse rappresentativo, quanto al fatto che esso non fosse sovradeterminato da caratteristiche impreviste. Il risultato in effetti ci è parso abbastanza soddisfacente. Sufficientemente vario e differenziato. Il tutto, come richiesto dalla nostra scelta metodologica, stando unicamente e rigorosamente a quanto i nostri intervistati ci hanno dichiarato. Dopo aver scartato qualche intervista mal riuscita, gli intervistati sono risultati . Essi si sono presentati prevalentemente come lavoratori in attività: , tra operaie e operai, badanti, un muratore, un caporeparto, una barista, un giardiniere, un artigiano, una mediatrice culturale, uno studente-operaio, uno studente-parcheggiatore e un artigiano ambulante; inoltre, in cerca di occupazione. Più svariati sono i loro paesi d’origine: Tunisia, Albania, Ecuador, Colombia, Repubblica Dominicana, Cile, Pakistan, Cuba, Polonia, Sri Lanka, Romania, Filippine, Bangladesh, Nigeria, con una forte prevalenza marocchina. In maggioranza maschi (), ma con una consistente componente femminile (); di età tra i e i anni, tra i e i , e sempre tra i e i . In hanno detto di abitare con famiglia o familiari (di cui donne e uomini); in con amici (tra cui donne); in soli (sono: una barista cubana di anni, in Italia da un anno e mezzo; un artigiano tunisino, di anni e da anni in Italia; uno studente-lavoratore albanese di anni e da sei in Italia; un disoccupato marocchino di anni e da anni in Italia; una quarantasettenne polacca, che rientra ogni mesi nel suo paese e che qui alloggia con l’anziana italiana presso la quale lavora); i restanti dichiarano di abitare con un/a convivente, nessuna/o con italiane/i. Il livello d’istruzione è mediamente assai alto in rapporto all’occupazione svolta. Tutti vantano titoli di studio superiori alla scuola elementare, e in (una colf nigeriana di anni, una marocchina disoccupata di e un caporeparto pakistano di anni) persino una laurea. Quanto alla durata della loro presenza nel nostro paese, è varia, ma per lo più non breve: , tra i e i anni; , tra e anni; , oltre anni; , meno di un anno. Le interviste, che erano introdotte da un preciso chiarimento quanto alla natura universitaria dell’inchiesta, sono mediamente durate tra un’ora e un’o
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ra e mezza. Gli studenti le hanno condotte per lo più in coppia. Il questionario che è stato somministrato era passibile di rilanci su ogni domanda, a discrezione dell’intervistatore e allo scopo di poter ottenere delle risposte il più possibile chiare ed esaurienti. Le risposte, come previsto, sono sempre state trascritte immediatamente su supporto cartaceo. Per arrivare a un rapporto finale dei risultati dell’inchiesta, si è proceduto per fasi. In un primo momento gli studenti hanno tenuto durante il corso una prima relazione sulle loro stesse interviste. In seguito, si sono tutti esercitati a valutare l’insieme complessivo delle risposte. Ne sono venute delle relazioni intorno ad alcune parole problematiche incontrate durante le interviste. Questo lavoro è stato prima presentato durante una riunione di preparazione e poi al seminario finale alla CGIL di Bologna. Eccone un’ultima e rapida sintesi. Anzitutto, si può dire che l’insieme dei nostri intervistati, a un primo sguardo panoramico, sono oggettivamente inquadrabili all’interno della figura quanto mai attuale di lavoratori avvezzi ad accettare le condizioni più richieste dai mercati del lavoro globalizzati: mobilità e flessibilità. In ciò assai simili a tutti i lavoratori autoctoni o meno che oggi si trovano esposti a queste nuove condizioni di precarietà del lavoro. Una peculiarità soggettiva cui fanno pensare le nostre interviste è piuttosto l’assunzione della mobilità e della flessibilità come dimensioni oramai normali, all’interno delle quali si apre comunque un campo di infinite possibilità di vita e di scelte. È la varietà delle scelte di tali possibilità soggettive che qui si proverà a delineare. Cominciamo con un tratto caratteristico assai netto, ma di difficile definizione: il fatto che la maggioranza dei nostri intervistati non si pensa in una condizione costantemente nomade, né ha come massima aspirazione una condizione sedentaria. In infatti si sono dichiarati del tutto indecisi sul restare o meno nel nostro paese. Mentre in hanno dichiarato di volere o cambiare paese o tornare in quello di provenienza. E se in hanno espresso il desiderio di restare in Italia, di essi hanno comunque espresso vari dubbi sul mantenimento di questo loro proposito. Senza che, peraltro, le differenze di sesso, provenienza o occupazione sembrino particolarmente significative sotto questo profilo. Assai significativo è che l’ottenimento della cittadinanza e/o del diritto di voto sono stati rivendicati solo da intervistati (un operaio, due colf, una mediatrice culturale e una disoccupata, tutti residenti in Italia tra i e i anni). D’altra parte, occorre sottolineare che neanche la mobilità è quasi mai considerata un valore in sé. Unica eccezione, un ventitreenne ecuadoregno da mesi in Italia, il quale non ha permesso di soggiorno e, essendo diplomato al conservatorio del suo
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paese d’origine, si guadagna da vivere ora con la musica, ora vendendo “cose indiane”; già passato per la Svizzera e la Germania, pensa di trasferirsi in Austria, «ho amici anche lì», malgrado gli piaccia stare in Italia; vivere così, secondo le sue parole, gli «va bene, perché mi sento libero», anche se giudica male la politica d’immigrazione non solo in Italia, ma anche nel resto dell’Europa. Il migrare qui, a questo giovane musicista e venditore ambulante, appare dunque come una vera e propria scelta esistenziale. Ma va ripetuto che si tratta del solo caso tra i nostri intervistati. Per la maggioranza degli altri intervistati l’essere migrante è pensato come una condizione con cui dover comunque fare i conti, ma più o meno relativamente transitoria. Chiarificanti a questo riguardo sono le parole di un operaio marocchino di anni, residente con moglie e figlia da anni in Italia. Da un lato egli dice: «dovete pensarci come rondini e farfalle che migrano da un territorio all’altro»; e inoltre sostiene che «se mi cacciano non c’è problema». Enunciati, questi, che attestano certo una soggettività particolarmente incline alla mobilità e alla flessibilità. Tuttavia, essi sono compensati da altri di senso opposto. Dall’altro lato, lo stesso operaio sconsiglia ai “ragazzi” nelle sue “condizioni” di «venire in Italia senza documenti», ricordando i momenti più difficili da lui stesso attraversati in tale situazione. Da notare che i disagi maggiori citati in proposito sono l’impossibilità di trovare casa, che lo costrinse a dormire in macchina. E non ad esempio il lavoro. Egli rivendica inoltre di far parte di «una seconda generazione di immigrati […] più preparata della prima, che ha lasciato agli italiani una brutta immagine di sé». La condizione del migrante è quindi alla fin fine presentata come una condizione dovuta a una scelta soggettiva che richiede una buona immagine e perciò anche “preparazione”. Secondo una terminologia circolante tra i social forum, si potrebbe forse etichettare questo operaio come un’“avanguardia” della “moltitudine in movimento”, che prende coscienza dell’“esodo” mondiale dischiudente la prospettiva di una globalizzazione dal basso antagonista a quella dell’Impero. Ma sarebbe dire non troppo, ma troppo poco sulla singolarità di questa figura. Essa, assieme alle altre dei nostri intervistati, va studiata, nel nostro approccio, non per quello che rappresenta o riflette, né per legittimarla, ma per le possibilità che ci offre di conoscere nuovi e differenti modi di pensare. E, per cogliere questa novità e queste differenze, sicuramente l’ultima cosa da fare è tentare di comprenderle dentro una visione totale, del mondo, della storia, dell’umanità, quale quella implicata in categorie onnicomprensive come moltitudine, impero ecc. Così non si fa che riproporre un’ennesima versione di pensiero unico. L’interesse dell’inchiesta, così com’è qui intesa, sta proprio nel dar la parola agli intervistati, non nell’attribuire loro un discorso già noto, solo per articolarlo ulteriormente. Ma sarebbe egualmente fare un torto al nostro operaio marocchino, come agli altri intervistati, cucirgli addosso un’immagine assoggettata, del tutto de
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terminata dalle circostanze oggettive, quale quelle che ricorrono in certi sinistri ritratti giornalistici, ma purtroppo a volte anche “scientifici”, degli “immigrati disperati”, la cui unica aspirazione dovrebbe essere quella di diventare un bravo “cittadino normale”. Il nostro operaio ha già un’idea tutta sua della politica. E questa sua idea non lo predispone certo a sperare molto nella sua eventuale partecipazione da cittadino alla “vita democratica”. Senza appello è la sua sentenza: «tante parole e pochi fatti: questa è la politica». Ma non si tratta di una semplice espressione di disinteresse. Si tratta di una conclusione derivata da una precisa esperienza di trattative avuta col Comune di Bologna. Il quale «si mostra disponibile, ma poi non fa niente» (il contenzioso riguarda le condizioni di vita nel centro di accoglienza di via Stalingrado, dove il nostro operaio abita con la famiglia). Ma egli racconta anche della denuncia che ha rivolto a un capo che sul lavoro è arrivato a prenderlo a calci. Ecco dunque una figura soggettiva singolare, capace di scelte ben decise, tanto più di libertà, quanto più deliberatamente prese in una condizione di estrema precarietà. Ma anche altri intervistati hanno mostrato simili tratti soggettivi. «Sono convinto che il mondo è un paese – dice un giardiniere algerino di anni, da in Italia –. Se lavoro e pago le tasse, questo è il mio paese». Il “paese”, “un paese” dunque, come categoria di identificazione del mondo, il lavoro e le tasse, e nient’altro, che bastano a dare appartenenza a un paese. Enunciati radicali ed essenziali, che potrebbero dare lezione di sobrietà e di pragmatismo a tante discussioni sulle origini etniche o religiose dei lavoratori stranieri o a tante leggi più o meno ispirate al jus sanguinis. Anche il racconto di vita di questo giardiniere è quanto mai disincantante: «Lavoravo in Svizzera nel commercio delle auto e spesso venivo in Italia. Qualcuno mi ha invitato a rimanere. Così ho fatto. […] Quando sono entrato in Italia sono diventato clandestino. Bisogna evitare i poliziotti. Se possono umiliano. […] Ho messo su un’officina abusiva con un marocchino. Riparavamo le auto degli extracomunitari. La polizia sapeva di questa attività, ma non ci ha creato problemi». Si tratta evidentemente di un paradosso, quello di una polizia che, da un lato, «se può, umilia», dall’altro, «non crea problemi» a un’attività abusiva. Ma ci pare assai significativo. Mette in luce una condizione quanto mai diffusa nel nostro paese: quella di chi si trova a lavorare senza documenti e in nero. Una condizione del tutto sospesa all’arbitrio delle autorità, in primis quelle di polizia, rispetto alle quali l’unica strategia possibile è evitarle. Malgrado molte reticenze ad aprirsi su tali temi durante le nostre interviste, intervistati in effetti ci hanno parlato del lavoro nero come loro unica possibilità. Una colf salvadoregna di anni, da anni in Italia, e tutt’ora sen
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za documenti, rivendica addirittura che «è giusto lavorare in nero, l’importante è lavorare». In effetti, la ricerca del lavoro per il lavoro, senza troppe preoccupazioni riguardo alle sue condizioni o qualità, primeggia tra le ragioni del migrare e/o del restare in Italia. Un operaio pakistano di anni, da cinque anni in Italia, chiude ogni questione: «l’importante è lavorare, non mi posso neanche chiedere se mi interessa o no». Da notare è che la paura di perdere il lavoro non è prevalente, ma abbastanza diffusa; viene, infatti, ammessa da intervistati. È comunque superiore a quella di non trovarne uno nuovo, qualora si cada nella disoccupazione: solo in infatti lo temono esplicitamente. Viene da pensare a una sorta di compensazione, per cui la paura di perdere il lavoro viene attenuata dalla convinzione di poterne ritrovare uno. Si conferma così la figura di soggetti con una capacità singolare di far fronte alla precarietà e dunque anche alla saltuarietà del lavoro. Il che d’altra parte non esclude che le stesse condizioni del lavoro siano oggetto di diffuse insoddisfazioni: l’imposizione dei «lavori più sporchi» o «che gli italiani non vogliono fare», «i pregiudizi», il «razzismo», il «salario basso», gli orari disagevoli, l’arbitrarietà dei comportamenti dei capi, il sottoutilizzo delle proprie capacità, lo scarso affidamento di responsabilità sono temi di denuncia ricorrenti in molte interviste. Una delle più amareggiate a questo proposito è quella di un’operaia senegalese di anni: «il mio livello di salario è molto basso, anche se sono tanti anni che lavoro; […] mi fanno fare i lavori più sporchi perché ho la pelle nera e pensano che sia giusto così; […] alcuni sono razzisti, […] usano pregiudizio, […] mi oppongo e ho paura di essere mandata via». Tra i diversi tipi di occupazione, le meno scontente forse sono le badanti, in totale, di cui solo si dichiarano insoddisfatte del loro lavoro. Una, rumena, di anni, pur soddisfatta del suo lavoro, preferirebbe lavorare in fabbrica, ma lamenta di non poterlo fare perché priva di documenti. Va peraltro notato che, secondo la maggioranza degli intervistati, , sul lavoro la differenza relativa al paese di origine si attenua. Un operaio marocchino di anni distingue nettamente: sul lavoro «non conta», mentre «fuori sì». Quanto poi ai problemi di documenti, pur essendo solo una minoranza (in ) ad ammetterli, il risultato più interessante forse viene dalle risposte dei intervistati che temono di perdere il lavoro; più della metà di loro ha associato questa paura a quella connessa di perdere il permesso di soggiorno. In tal senso, la prima preoccupazione di un disoccupato marocchino è «se non trovo lavoro, non mi rinnovano i documenti». Come se il lavoro contasse anzitutto come condizione per avere i documenti. Quella relativa ai documenti si conferma così una delle preoccupazioni più sentite.
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Così è emerso anche nella nostra inchiesta un segno caratteristico di tutta la questione dei lavoratori stranieri in Italia. È noto infatti che «essere in regola con il permesso di soggiorno costituisce una fatica di Sisifo, la continua ricostruzione di una condizione giuridica esposta a una continua distruzione». E ciò perché «il collegamento tra occupazione e rinnovo del permesso di soggiorno si trasforma, in un sistema produttivo come quello italiano caratterizzato da un’ampia quota di economia informale, in un continuo rischio di ricaduta nella irregolarità». Una badante colombiana di anni, da noi intervistata, ha ben presente la soluzione del problema: «il governo dovrebbe dare il permesso indipendentemente dal lavoro, per togliere il sommerso». Altro punto critico di tutti i lavoratori stranieri in Italia confermato anche dai nostri intervistati: il problema della casa. Discriminazioni razziste durante la ricerca, mancanza di aiuto, difficoltà estreme nel trovare la dura alternativa al dormire per strada o in auto: queste le lamentele più ricorrenti. Venendo ora al tema dei diritti, occorre un inciso. È già stato scritto più sopra della evidente complessità della questione, che comunque non ha scoraggiato la nostra inchiesta, non solo a inserire nel questionario delle domande su tale tema, ma anche a porlo come titolo generale di tutta la ricerca. Ora pare opportuno chiarire in che senso e a che titolo abbiamo ritenuto di potere interpellare a questo proposito i lavoratori stranieri. Essi sono certamente degli inesperti di diritto sotto un doppio profilo: non solo in termini tecnici come qualsiasi altro lavoratore, ma anche per il fatto stesso di essere stranieri, e quindi per avere una dimestichezza nulla o assai limitata con giurisprudenza e leggi del nostro paese. Nell’approccio che si è più sopra chiamato di tipo “coscienziale”, il compito dell’inchiesta a questo proposito è assai chiaro: sondare il livello di coscienza ovvero conoscenza da parte del lavoratore straniero in merito ai diritti esistenti che gli spettano. Compito chiaro, ma poco proficuo. Poco proficuo a causa dell’incontestabile incertezza che regna su tali diritti. E ciò almeno per quattro ordini di questioni. In primo luogo, per il fatto che i nuovi fenomeni della migrazione rivelano nuovi limiti alla stessa giurisprudenza dei paesi accoglienti, la quale si trova così a doversi rinnovare sotto non pochi aspetti. In secondo luogo, per il fatto che in Italia gli stessi diritti del lavoro sono quanto mai in discussione, una discussione che, qualunque ne sarà l’esito politico, porterà a considerevoli cambiamenti. In terzo luogo, per il fatto che nella disputa sui diritti del lavoro in Italia non giocano solo le particolarità della situazione politica del nostro paese, ma anche le grandi modificazioni del lavoro indotte dai processi di globalizzazione rispetto ai quali ogni giurisprudenza nazionale si ritrova indebolita. In quarto luogo, per il fatto che tra i tanti ritardi dell’unificazione europea spiccano proprio le questioni dell’armonizzazione, sia dei diritti del lavoro, sia delle politiche di immigrazione, entrambe ancora assai diverse tra gli Stati membri.
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Ecco dunque che i diritti spettanti ai lavoratori stranieri, in Italia e anche in altri paesi europei, sono in gran parte un’incognita, anche da un punto di vista tecnico, oltre che politico. Un’incognita, che non si può risolvere semplicemente nei termini dell’“integrazione”. Se è vero, infatti, che questa parola ha senso solo in riferimento a un’idea ben chiara e distinta del contesto di integrazione, è altrettanto vero che tutti i fatti ora citati mostrano che tale contesto, rappresentato dallo stato giuridico degli Stati accoglienti, fa acqua da molte parti. Una soluzione non può essere la “fortificazione” di questi stati giuridici, paventandone la disintegrazione per colpa di invasori. Sono gli stessi discorsi integrazione/disintegrazione o inclusione/esclusione che vanno quantomeno ridimensionati, evitando di attendersi da essi ricette giuridiche e/o legislative su come risolvere tale urgente questione dei diritti dei lavoratori stranieri. A essa si può e si deve contribuire in molti modi. Uno di questi può essere appunto quello di interpellare gli stessi diretti interessati per conoscere il loro pensiero in materia appunto di diritti, per conoscere cosa evoca loro questa parola, se e in che misura si pone loro come problema. A questo proposito i risultati della nostra inchiesta sono di non facile lettura. In estrema sintesi si potrebbe dire che tutti gli intervistati pensano di avere dei diritti, ma non vi è alcuna certezza sul come li si possa ottenere. Il lavorare e il pagare le tasse, altre volte il semplice fatto di esistere come essere umani: queste le condizioni che, secondo la maggior parte dei nostri intervistati, danno diritto ad avere diritti. «La politica italiana […] è ingiusta, se uno lavora deve avere i documenti e vivere liberamente, come gli italiani», ci ha detto una colf ecuadoregna di anni. Una disoccupata marocchina di anni ha sottolineato invece l’esigenza di poter arrivare a una completa parità: «la cittadinanza è un diritto che lo Stato deve riconoscere agli immigrati che lavorano e che hanno i documenti in regola». Ma in parecchi insistono anche sul diritto alla casa. Alloggio, documenti, libertà, cittadinanza: il quadro dinamico dei diritti che gli intervistati ritengono di avere risulta abbastanza chiaro. Chiara è anche l’imputazione delle responsabilità politiche, quanto ai diritti: «il diritto me lo deve dare il governo, non mi puoi dare solo il documento per stare qui e basta». «Lo Stato dovrebbe garantire certi diritti». È ad esempio quel che pensano un operaio tunisino di anni e una badante rumena di anni. In ogni caso, tra il fatto di avere diritti e come sia possibile rivendicarli non c’è nessun chiaro rapporto. In pensano che sia meglio agire da soli, individualmente. Inoltre, dalla maggior parte degli intervistati è risultata l’opinione che tra i comportamenti più consigliabili vi è il «restare tranquilli», «non mettersi in mostra», «non andare troppo in giro». Solo in dichiarano di appoggiarsi solitamente alla CGIL (ma si tenga presente che era la sede stessa delle nostre interviste) e/o ad associazioni varie (una cattolica, due di donne dello stesso paese d’origine e un social forum). Se ne deve concludere che tra i lavoratori stranieri c’è una doman
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da di diritti, ma che essa non trova alcuna risposta politica? O, almeno, nessuna che essi pensano condivisibile? Certo è che la politica d’immigrazione in Italia è molto mal giudicata. In interviste prevalgono giudizi decisamente negativi. «Le leggi italiane non si capiscono perché cambiano subito»; «lo Stato italiano non fa abbastanza»; «non fa niente»; «la politica d’immigrazione italiana fa schifo, cambia da regione a regione»; «la legge non ci aiuta». Questi, alcuni dei tanti pareri negativi che abbiamo raccolto (rispettivamente da un operaio marocchino di anni, una badante filippina di anni, un operaio marocchino di anni, un’operaia marocchina di anni e da un operaio marocchino di anni). Solo intervistati hanno espresso apprezzamenti del tutto positivi (due colf, una ventottenne nigeriana e una trentottenne colombiana; e due giovani con meno di un anno di presenza nel nostro paese, un ambulante ecuadoregno di anni e uno studente-operaio cinese di ). Mentre una disoccupata della ristorazione Camst (laureata in lingue, marocchina di anni) è la sola in decisa controtendenza a criticare la politica d’immigrazione italiana perché troppo permissiva. Anche l’Italia come paese d’accoglienza non gode di una buona immagine tra i nostri intervistati. «È difficile vivere in Italia»; «il permesso di soggiorno dovrebbe equiparare i diritti di un cittadino non comunitario a quelli di un cittadino italiano, ma nella realtà non è così»; «gli italiani devono conoscere i problemi degli extracomunitari e non generalizzare senza cercare di capire»; «mi sento male, sono ignoranti gli italiani»; «c’è molta ignoranza in Italia». Questi i giudizi rispettivamente di un operaio marocchino di anni, uno studente lavoratore albanese di anni, un’operaia marocchina di anni, un operaio tunisino di anni e un’operaia nigeriana di anni. Tra la maggioranza degli intervistati che criticano l’Italia e la sua politica d’immigrazione, in citano come esempio più positivo la Francia o altri paesi europei. «In Francia – dice ad esempio un operaio marocchino di anni – la situazione è molto diversa. Sono abituati ad avere immigrati di altri paesi». Un altro operaio marocchino di anni è ancora più netto: «in Francia ci sono più di milioni di immigrati e stanno bene». Si tratta, in tutti i casi (tranne quello di una badante rumena di anni), di lavoratori il cui paese d’origine (Marocco, Algeria, Tunisia, Senegal) conosce una tradizionale immigrazione verso la Francia. È quindi presumibile che tali giudizi si basino su informazioni provenienti da parenti o amici. In ogni caso, è chiaro che si tratta di comparazioni oggettivamente del tutto discutibili. Ma ciò non toglie, anzi avvalora, il loro significato soggettivo. Significato che sta nell’ulteriore e più profonda conferma del fatto emerso fin dalla prima intervista commentata: che i lavoratori stranieri in Italia si pensano particolarmente esposti all’arbitrio di autorità e istituzioni, che appaiono estremamente imprevedibili, ora umilianti ora permissive, comunque, si può ag
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giungere, poco trasparenti, troppo informali e occasionali. Cosicché, nelle nostre interviste abbiamo anche sentito dirci, tra le tante parole di questo tono, «se stai calma e non commetti reati non sanno neanche che esisti» (una colf ecuadoregna di anni). Un ancora più grave difetto in termini di categorie e linguaggio politico di tutti i paesi accoglienti è sollevato da un insieme di risposte ottenute tramite una domanda sulla parola “immigrato”. In effetti, quasi / dei lavoratori stranieri da noi intervistati si dissociano in vario modo da questa stessa parola. E ben la trovano decisamente offensiva. «Non voglio essere chiamato immigrato, mi offendo»; «immigrato mi fa pensare a sfruttamento»; «fa schifo»; «è da razzisti, è una parola che mi dà fastidio»; «mi sembra una parolaccia»; «non mi piace come termine, io sono una persona diversa da chi vive di spaccio o ruba o altre cose simili»; «non la sento quasi mai usare, forse solo dai poliziotti o in questura». Queste alcune delle frasi da noi raccolte (tra tre operai marocchini di , e anni, un operaio tunisino di anni, un disoccupato pakistano di anni, uno studente-operaio cinese di anni e una colf ecuadoregna di anni). Il che evidentemente pone un grave problema nei confronti di questa parola considerata la migliore da tutti gli esperti, i politici e i funzionari che in Italia come in tutta la UE si occupano di lavoratori senza la cittadinanza di uno Stato membro. A conclusione, ancora qualche citazione. Anzitutto, le parole di un operaio marocchino di anni che titolano questo stesso testo: «più possibilità di vivere». Più possibilità di vivere rispetto a che? Rispetto alle due altre possibilità che questo stesso operaio indica. La prima è «l’aver fortuna». L’altra è «essere discriminati» o «trattati da schiavi». Analogamente un giardiniere marocchino di anni dice: «è importante avere la fortuna di trovare amicizie di persone serie che già lavorano e che sono in regola, allora ci si mette sulla strada giusta, altrimenti può finire male». Ove è detto ben chiaramente che l’aver fortuna non dipende da alcuna associazione, istituzione o politica esistenti nel nostro paese. Ecco dunque un punto importante e qui conclusivo. Quel che alcuni lavoratori stranieri da noi intervistati pensano, e che sembra ben mettere in luce un problema comune a tutti gli altri, è che nel nostro paese non c’è per loro che un’alternativa secca: o l’aver fortuna o una condizione da schiavi. Un ventaglio di opportunità evidentemente troppo ristretto, troppo tragico, per essere accettabile anche per tutti coloro che sono a pieno titolo di questo paese e che, nonostante tutto, ci sono attaccati. Allargare questo ventaglio, dare più possibilità di vivere a questi lavoratori stranieri, è sicuramente un obiettivo politico urgente e imprescindibile anche per rendere più degne sia l’Italia sia l’Europa.
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Immigrazione zero, un fallimento politico La Commissione dell’UE, in una comunicazione al Consiglio e al Parlamento sulle politiche di immigrazione, denuncia il fatto che negli ultimi anni queste politiche sono state di “immigrazione zero”. Sarebbe a dire che hanno proceduto facendo finta che la realtà dell’immigrazione non esistesse. Un po’ come qualcuno che si benda gli occhi e va avanti a tentoni, convinto di poter andare dove vuole respingendo tutto quello che incontra. Quando si parla di lavoratori stranieri in Europa, si dovrebbe sempre tenere in mente che questa parte da “zero”, da un punto di vista politico. E se questa è la media, si può ben capire che qua e là in questa stessa Europa pullulino comportamenti da “sotto zero”, ovvero che addirittura vogliono colmare la mancanza di politiche nei confronti dei lavoratori stranieri attribuendo loro la colpa di ogni problema economico, sociale e culturale. È chiaro, peraltro, che i politici degli Stati nazionali, mediamente degli zero in politica d’immigrazione (stando alla lettera dello stesso parere della Commissione), hanno tutto l’interesse all’esistenza di simili comportamenti “sotto zero” che comunque alzano la loro stessa media. Un vero circolo vizioso, nel quale sicuramente i paesi europei di fatto più avvezzi all’immigrazione si giovano complessivamente di un maggior savoir faire (peraltro non di rado contraddetto da clamorose cadute di tono) rispetto a paesi come l’Italia solo più recentemente interessati da considerevoli flussi migratori. E non è che l’inizio. Anche i dati demografici parlano chiaro. Entro il infatti i vicini poveri e poverissimi degli europei, sarebbe a dire gli abitanti del Nordafrica e Medio Oriente, sono destinati a raddoppiare, mentre gli stessi europei resteranno stabili. Stante quindi l’estrema e crescente mobilità di merci e capitali poco o nulla regolata specie in paesi come l’Italia, ogni forma di protezionismo nei confronti del movimento delle persone si rivela quanto mai cieca. Di una cecità interessata, si dirà. È infatti chiaro che le politiche di immigrazione “zero” sono del tutto complementari a uno sfrenato sfruttamento dei lavoratori stranieri i quali, di fatto, sono tanto più presenti in Italia e in Europa e tanto più compressi su un livello zero di diritti. Ma la diagnosi di questa cecità, per quanto critica, non equivale a una prognosi. Dal momento che questo male non lo si vince con la sola volontà, ammesso e non concesso che questa cambi. Per vedere meglio, in questo caso, occorre comunque costruire da zero una nuova ottica, imparare a guardarci dentro, trarne dei nuovi calcoli e così via. In una parola, si tratta di vincere l’“ignoranza” (come denunciano alcuni nostri intervistati) sulla questione dei lavoratori stranieri e assieme a essa tutta la cultura, le opinioni e il sapere che la legittimano; solo così si potrebbe inaugurare un nuovo modo di conoscere questo fenomeno gigantesco che sta cambiando la faccia di quel pezzetto del mondo in cui ci capita di abitare.
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Ma per combattere l’ignoranza non basta mai diffondere ed estendere quel che già si sa. Una situazione di diffusa ignoranza è sempre, in parte o in tutto, dovuta all’obsolescenza dei pregressi modi di conoscere. Per aprire alla conoscenza la questione dei lavoratori stranieri ci vogliono nuove ricerche e nuovi modi di far ricerca. Trattare i lavoratori stranieri come flusso, come problema di sicurezza, come comunità da integrare da parte di uno stato certo di cittadinanza è già un modo superato di affrontare la questione. Un modo che finisce per farne anzitutto una questione elettorale incentrata sul condizionamento di voto tra i cittadini che ne hanno diritto. In realtà, occorre render conto del fatto che l’essere lavoratore straniero è e sarà una condizione del tutto normale per una fetta importante delle popolazioni attive in Europa e in Italia; e che l’insieme degli usi e dei costumi di tutte queste popolazioni e delle loro istituzioni sarà così più o meno profondamente trasformato. Tutto starà nel vedere come: con sempre maggiori conflitti e disordini o in modi più pacifici e razionali. Per rendere possibili questi ultimi modi non c’è altra via che un incontro tra nuove ricerche e nuove politiche: in particolare, quelle ricerche che si volgessero a conoscere qual è il pensiero di questi lavoratori e tramite quali parole lo presentano; e in particolare quelle politiche che, accantonando ogni calcolo puramente elettoralistico, promuovessero simili ricerche per poter essere accettabili anche per questi lavoratori. Per tutte queste ragioni, penso che la nostra esperienza, per quanto davvero infima, anche da un punto di vista politico non sia comunque zero. Note . Roma . . Della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati e a cura di G. Zincone, editi a Bologna nel e . . Nel corso, Brigitte Luggin, che lavora al Parlamento europeo, ha tenuto una relazione su questi argomenti. . Franca Tarozzi dell’associazione “Trame di terra” di Imola e Davide Baroncini della CGIL sempre di Imola hanno tenuto delle relazioni a questo riguardo. . Lazarus, Anthropologie du nom, cit.; Id., Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine: état des lieux et problématique, in “Ethnologie française”, XXXI, . . È un uso tutto mio di una celebre formula dello psicoanalista Jacques Lacan. . Del resto il risultato cambia ben poco se si converte il discorso della “lotta di classe” in quello oggi più in voga dell’“antagonismo tra moltitudine e impero”. . Ad essa ha contribuito in modo decisivo Marta Alaimo. . Oltre che il testo di riferimento obbligatorio (Hardt, Negri, Impero, cit.), a questo riguardo vanno sicuramente citati; S. Mezzadra, Diritto di fuga, Verona e il periodico “Posse. Filosofia, politica, moltitudini”, /, . . G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna , p. . . Ivi, p. . . Commissione dell’UE, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione, Bruxelles, novembre , COM (), .
Una scuola diversa dalle solite* di Marta Alaimo e Valerio Romitelli
Ipotesi e problemi Come nel avevamo condotto un’inchiesta sui fruitori dello sportello per lavoratori stranieri della CGIL Bologna col concorso di studentesse e studenti che frequentano il corso di Metodologia delle scienze sociali per la Facoltà di Lettere e Filosofia, quest’anno, avvalendoci anche del contributo di studentesse e studenti di Lingue e Letterature straniere, abbiamo svolto un’inchiesta sulle ragazze e i ragazzi che frequentano i corsi del NOF (Nuovo obbligo formativo). Nel tentare di far sì che gli studenti universitari assumessero il metodo d’inchiesta da noi proposto, abbiamo incontrato un ostacolo maggiore. Per lo più essi, infatti, spontaneamente erano portati a equivocare il nostro approccio. Per diradare gli equivoci è stato quanto mai utile distinguere “pensiero” e “coscienza”, insistendo sul fatto che al centro della nostra ricerca è ciò che pensa la gente, non ciò di cui ha coscienza. La questione può sembrare astratta, ma ha delle conseguenze del tutto concrete, tanto nella conduzione delle interviste, quanto nella lettura dei suoi risultati, nonché nel momento in cui si tratta di trarre le conclusioni di tutta l’inchiesta. In effetti, se la ricerca è impostata secondo l’approccio che si può chiamare coscienziale, il ricercatore deve supporre di sapere in partenza quale sia l’oggetto su cui misurare la coscienza degli intervistati. Tale oggetto può essere costituito dai principi democratici, dai diritti, da questo o quel tema culturale o dalla conflittualità sociale. E gli intervistati possono essere interpellati per conoscere quale sia il loro livello di coscienza democratica, di coscienza dei diritti, di coscienza culturale o di coscienza della conflittualità sociale. Ma la sostanza non cambia: il ricercatore in questo modo si pone comunque, anche al di là delle sue intenzioni, in una posizione di superiorità. In effetti, coscienza vuol dire etimologicamente “con scienza”: interrogare qualcuno per la coscienza che ha di questo o quel tema, significa sempre giudicarlo per quel che sa. * Inchiesta sul NOF condotta assieme a studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia e Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bologna.
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Nel nostro metodo invece è del tutto decisivo indagare il pensiero, come dice Geertz, «là dove lo si trova»; aggiungiamo noi: così come lo si trova, ossia nei diversi modi e forme in cui presenta, senza prevedere a priori il primato di alcuna forma o contenuto della coscienza. E per far ciò è necessario porsi sullo stesso piano dei soggetti che interpelliamo, nonché escludere qualsivoglia oggettività su cui misurare la capacità a pensare. Il che ovviamente non esclude la conoscenza di vincoli sociali oggettivi. Ma essi sono da conoscere solo per individuare la singolarità del luogo su cui la ricerca viene condotta. Mentre il focus della ricerca deve sempre attenersi solo all’incontro tra le due diverse soggettività, quella di chi fa inchiesta e quella di coloro tra i quali l’inchiesta è condotta, senza mai confonderle, scambiarle o sovrapporle. Un incontro che non deve essere condizionato da altro se non dall’obiettivo del ricercatore di conoscere una realtà sociale così come viene soggettivamente pensata da chi ne ha esperienza diretta. Così dunque ci siamo sforzati di impostare gli incontri tra i nostri studenti universitari e le ragazze e i ragazzi del NOF. Ragazze/i tra i e anni, che nell’insieme, sia per esperienze di vita, sia per percorsi scolastici quantomeno accidentati, sicuramente risultano assai deboli rispetto a qualsiasi supposto livello di coscienza civica, culturale o conflittuale. Che il problema centrale della nostra ricerca non fosse constatare forme e gradi di questa debolezza, né tantomeno come porvi rimedio: questo, come detto, è stato l’osso più duro da far digerire ai nostri studenti universitari. La loro maggiore difficoltà è stata infatti proprio nell’interpellare le ragazze e i ragazzi del NOF, anzitutto per pensare quello che essi pensavano. Ma dopo aver subito parecchi e severi richiami, quali ad esempio: «In realtà loro, nelle interviste, stanno dimostrando di pensare molto più di voi!», anche i ricercatori in erba del nostro corso hanno per lo più apprezzato il metodo loro proposto. Il NOF, questo sconosciuto A noi, che non siamo esperti di istruzione o formazione, il NOF è apparso come realtà quasi sconosciuta, incontrata casualmente, alla ricerca come eravamo di un nuovo campo di indagine per far esercitare gli studenti del corso di Metodologia delle scienze sociali. Comunque si tratta di una struttura generalmente poco nota perché assolutamente nuova e attiva di fatto solo in Emilia-Romagna, anche se il Nuovo obbligo formativo corrisponde a una normativa nazionale introdotta nel . Conoscendola più da vicino, grazie soprattutto alla fruttuosa collaborazione di coordinatori e tutor, ci siamo resi conto della sua complessità. In poche parole, sono corsi finanziati con fondi sociali europei per giovani tra i quindici e i diciotto anni d’età che abbiano frequentato le scuole almeno
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per nove anni. L’amministrazione di questi fondi è delegata dalla Regione alla Provincia, la quale accoglie e seleziona dei progetti di percorsi formativi che poi vengono affidati a enti gestori. Tali percorsi sono normalmente della durata di / ore nell’arco di due anni. Una quota di ore in aula e in laboratorio, con lezioni tenute da esperti incaricati di funzione docente, viene affiancata da una quota di ore di stage presso qualche azienda. Il tutto organizzato da un coordinatore e gestito dalla figura del tutor, che segue l’insieme del percorso, oltre a tenere lezioni di orientamento sul tipo di professione cui si è avviati. L’obiettivo di chi si iscrive è infatti il raggiungimento di una qualifica professionale e/o della certificazione di competenze. Per essere ammessi ai corsi, nella fase d’iscrizione è previsto un colloquio informativo e orientativo. Il NOF dunque non è propriamente una “scuola”, come di solito la si intende, ma non è neanche semplicemente apprendistato: come la prima è gratuita e rilascia qualifiche, come il secondo è un canale di formazione on the job. Intento dichiarato è facilitare la transizione dei giovani dalle sedi scolastiche a quelle lavorative, ossia di colmare quel vuoto che c’è tra il lavoro dopo la scuola dell’obbligo e la prosecuzione degli studi secondo un percorso più canonico come liceo o scuola superiore e poi eventualmente università. Tutto l’insieme comunque concepito nel contesto del decentramento delle politiche di formazione e impiego a enti locali più radicati nel territorio e più vicini alle imprese autoctone. E in effetti nei percorsi NOF le imprese sono direttamente interpellate come soggetti attivi nel rendere possibile per i ragazzi l’esperienza dello stage. Una realtà complessa, dunque, nuova e singolare. Come sempre di fronte a simili realtà, le prime tentazioni sono proprio di negarne l’originalità. Così è stato anche nel nostro corso universitario, dove i partecipanti all’inchiesta, fin dai suoi inizi, hanno accanitamente discusso sul giudizio d’insieme da dare allo stesso NOF. I voti più negativi sono venuti da due parti: l’una sicuramente più incline a discorsi di tipo sindacale e ispirata alla coscienza della conflittualità sociale, l’altra più improntata a un linguaggio classicamente pedagogico. Nel primo caso la critica principale rivolta al luogo su cui abbiamo fatto inchiesta è stata radicale: lo si è infatti accusato di essere poco più che apprendistato non pagato, ossia un regalo di giovane mano d’opera gratuita fatto dagli enti locali alle imprese, le quali invece agli apprendisti propriamente detti devono comunque corrispondere una retribuzione. Da questo punto di vista i corsi di formazione che nel NOF accompagnano gli stage sarebbero poco più che una copertura al limite dell’ipocrisia, in considerazione anche del fatto che lo stesso apprendistato retribuito contempla dei corsi di formazione. Nel secondo caso, invece, più che di critiche, si è trattato di insistenti dubbi sulla capacità dello stesso NOF a dare quell’istruzione polivalente e in termini di cultura generale necessaria per degli adolescenti non ancora diciottenni. Come ben si vede, al di là dei modi in cui sono stati presentati, si tratta di due ordini di problemi del tutto o in parte non fittizi.
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Tuttavia, non sono stati questi a essere posti al centro della nostra inchiesta, la quale invece, come abbiamo sempre insistito a chiarire, ha riguardato i modi in cui ragazze e ragazzi frequentanti il NOF ne parlano e cosa ne pensano. Così, senza tacitare i dubbi e le critiche su questo luogo in quanto tale, abbiamo spinto i nostri ricercatori in erba a mettere alla prova i loro dubbi e le loro critiche, confrontandoli con le parole e i pensieri di chi di questo luogo fa esperienza diretta. Chi, dove e come I corsi su cui abbiamo condotto la nostra ricerca sono per meccanici, parrucchieri, aiuto acconciatori, estetiste, ciascuno frequentato da - allievi. Il primo, di durata biennale, è gestito dalla Fondazione Aldini-Valeriani, presso l’Istituto professionale Aldini-Valeriani di Bologna, e prevede la formazione a commercio, manutenzione e riparazione di autoveicoli e motocicli, per un totale di . ore, di cui di stage/tirocinio. I moduli didattici affrontati nel percorso sono Meccanica ed elettronica dei motori ( ore), Informatica ( ore), Inglese ( ore), infine ore tra Comunicazione, Diritto del lavoro, Simulazione aziendale, Ambiente e sicurezza e Ricerca attiva del lavoro. Gli altri percorsi di formazione gestiti dall’ECIPAR di Bologna invece sono rispettivamente di . ore circa per parrucchieri ed estetiste (di cui di stage) e di ore (di cui di stage) per quello di aiuto acconciatori. In particolare il percorso per estetiste, dove abbiamo avuto l’opportunità di condurre il maggior numero di interviste, contempla materie come Anatomia, Chimica, Comunicazione, Lingua inglese, Informatica e Diritto, con particolare attenzione al Diritto del lavoro. In tutti questi corsi gli insegnanti, sia di pratica che di teoria, sono selezionati liberamente e senza vincoli di graduatorie dall’ente gestore. Si tratta di solito non semplicemente di insegnanti, ma di persone che già lavorano in questi settori. Quanto all’utente medio di questi corsi, in particolare i tutor degli aspiranti meccanici, prima che iniziassimo le nostre interviste ce ne hanno dato un ritratto pieno d’ombre: ragazzi rifiutati o ritiratisi dalla scuola, spesso con notevoli difficoltà anche nella vita privata, che preferirebbero lavorare, ma, dovendo assolvere l’obbligo formativo, vi si ritrovano senza esserne troppo convinti. Cosicché, almeno buona parte del primo anno i tutor ci hanno raccontato di averla passata anzitutto a convincere con ogni mezzo i ragazzi delle loro stesse capacità di apprendimento. Per appassionare al corso di inglese, ad esempio, si è ricorsi alla realizzazione in lingua di un cortometraggio di cui tutti, studenti e tutor, erano autori e attori. Una volta redatto ogni singolo episodio, alla lezione successiva ciascuno recitava la propria parte. Questa originale soluzione è stata pensata e rea
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lizzata dopo che la docente d’inglese si era ritirata, rinunciando all’incarico, del tutto esaurita dalle resistenze non solo verbali incontrate in aula. Solo un esempio, questo, di quanto può accadere al NOF, delle difficoltà di questo luogo, ma anche delle possibilità inventive sicuramente tra le più ampie godute da qualsiasi scuola. Per quanto riguarda le ragazze, aspiranti estetiste, parrucchiere e aiuto acconciatrici, ci è stato raccontato di alcuni loro gravi disagi familiari, dei loro frequenti pregiudizi nei confronti di stranieri o, per converso, delle difficoltà per le poche straniere di avere rapporti con le italiane, della spregiudicatezza con cui molte hanno rapporti sessuali, con tutte le conseguenze del caso. Una tutor ci ha detto di essersi dovuta più volte e in più casi recare a casa di alcune alunne, che per vari motivi non volevano più frequentare la scuola, spingendole e riuscendo infine a fare loro terminare il corso. Fin dai primi nostri approcci alla realtà del NOF, ci è apparsa evidente la centralità della figura del tutor, fondamentale non solo per gestire il rapporto tra aula e laboratorio e tra questi e l’impresa dove avviene lo stage, ma per tutta l’esperienza soggettiva che compie chi frequenta questi corsi. Dopo questi primi approcci esteriori al tema centrale della nostra inchiesta, abbiamo proceduto alla stesura del questionario seguendo alcuni modelli, adattandoli alle nostre esigenze, discutendone approfonditamente cogli studenti universitari e consultandoci continuamente con i tutor. Le domande erano trentuno, divise in tre gruppi. Il primo di carattere più generale, con informazioni biografiche, pur nell’assoluto rispetto dell’anonimato. Il secondo incentrato sul NOF: come i suoi frequentanti hanno saputo dell’esistenza di questa scuola, quanto sono soddisfatti della scelta compiuta, i problemi e le incomprensioni, le aspettative deluse. Il terzo gruppo riguardava invece la loro vita al di fuori del corso di formazione, le loro esperienze personali. Abbiamo incontrato le ragazze e i ragazzi nelle loro scuole in giorni prestabiliti, in modo da non intralciare le loro attività didattiche e da lasciare il tempo ai tutor di spiegare di cosa si trattasse. Gli incontri, una settantina, alla fin fine sono andati molto meglio del previsto. Sono durati all’incirca un’ora, ma a volte anche di meno. Le ragazze e i ragazzi del NOF si sono rivelati assai più interessanti e dalle personalità complesse. Con alcuni di loro si è instaurata una buona intesa, che ha permesso interviste piuttosto ricche. Quanto alle studentesse e agli studenti universitari, nella maggior parte, hanno dimostrato di appassionarsi a questa prima loro esperienza di intervistatori, fino a contendersi le ragazze e i ragazzi da intervistare. Durante il corso di Metodologia delle scienze sociali, si sono in seguito tenute delle relazioni a commento dei risultati ottenuti dalle interviste, con discussioni molto intense.
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Infine, in due occasioni, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno sono state tenute due sedute seminariali, prima alla Fondazione Aldini-Valeriani, poi presso la sede dell’ECIPAR dove docenti, ricercatori, studentesse e studenti universitari, coordinatori, tutor e responsabili NOF hanno potuto discutere dei risultati di tutti i lavori dell’inchiesta. I prossimi paragrafi ne daranno un’ultima sintesi. A proposito dell’intervista, della provenienza e del lavoro Ci piace cominciare con uno dei risultati che più ci hanno gratificato. Esso è venuto dalle risposte all’ultima domanda di tutto il questionario, relativa al gradimento dell’intervista: su circa una settantina di intervistati, se in dodici dicono che non serve a niente o solo ai ricercatori e otto circa non capiscono a cosa serve o non rispondono, i restanti quarantasei si dimostrano entusiasti. Questi alcuni dei commenti più positivi: «Bellissimo non volevo più smettere»; «È stata grande»; «Bella, sono delle domande belle, mi piace essere ascoltata e le domande erano buone»; «È carina ’sta cosa delle domande, mai nessuno mi fa tutte queste domande! Fa bene qualche volta»; «Mi piace, mi sento importante»; «È stata bella anche se è durata troppo poco». In particolare, un’aspirante estetista di quindici anni dice: «Molto interessante, è servita anche per sfogarmi. Ho detto cose che anche con le compagne non ci diciamo». Enunciato che mette in luce l’interessante problema dei rapporti tra compagne e compagni di classe su cui ci soffermeremo più avanti. Altre risposte molto incoraggianti per la nostra ricerca sono le seguenti: «È un buon metodo per capire e chiedere com’è il nostro corso»; «Spero che il risultato di questa intervista venga trasmesso ad altri ragazzi». Un meccanico, che in altre risposte non sembra soddisfatto della scelta del NOF dice: «Serve a conoscere i ragazzi di questa scuola, a capire cosa vogliono dalla vita». Ma la risposta più interessante e su cui avremo modo di tornare è quella di una ragazza di sedici anni: «Penso che serva a qualcosa, per capire come sono fatta io, per capire la gente che avete nel corso. Sicuramente è utile per raccogliere opinioni diverse, vedere come va questo corso, perché se abbiamo delle buone idee adesso, il corso può andare avanti anche in futuro». Ma vediamo ora un po’ di dati quantitativi, che per comodità a volte saranno esposti in percentuali, anche se la limitatezza del campione li rende un po’ artificiosi. Abbiamo condotto settantuno interviste, incontrando ventidue meccanici, tutti di sesso maschile, trentaquattro estetiste, tutte di sesso femminile e quindici, tra parrucchieri e aiuti acconciatori, di cui solo due maschi e il restante femmine. Oltre alla distinzione del percorso scelto, si è verificata un’evidente divi
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sione anche di genere. Dopo parecchie discussioni, abbiamo trovato il compromesso di considerare questa distinzione di sessi, ma evitando di ricondurre o di spiegare ogni differenza tra l’uno e l’altro corso sulla base di questa diversità. Tutti questi ragazzi hanno un’età compresa tra i quindici e i diciotto anni; tra le aspiranti estetiste, tre di quindici anni, dodici di sedici anni, quattordici di diciassette e le restanti di diciotto anni. Per quanto riguarda i meccanici, la maggioranza, nove, ha sedici anni, mentre otto ne hanno quindici e quattro diciassette e uno solo diciotto. Quanto ai parrucchieri, in sette sono di sedici anni, in cinque di quindici anni e in tre di diciassette. Quanto ai paesi di provenienza, la maggior parte, il %, viene dalla provincia di Bologna, mentre il % non specifica; a Bologna città risiede solo il %. Per quanto riguarda i ragazzi della Fondazione Aldini-Valeriani, il % vive nella provincia, il % a Bologna, inoltre la metà di loro vive con i genitori; un % cita anche fratelli e sorelle; il % dichiara di vivere con un solo parente, mentre solo il % non specifica. Le ragazze estetiste vivono con genitori e un solo parente, rispettivamente il % e il %; delle restanti, o non specificano o parlano di fratelli e sorelle. Dei parrucchieri, il % dichiara di vivere con i genitori, il % anche con altri parenti, il % con un solo parente, mentre il % preferisce non parlarne. Poco più della metà vive da sempre nello stesso posto, il % da meno di un anno, i restanti da più di dieci anni, stante però che un % non ne parla. I più stabili sono i maschi con il %, che non ha mai cambiato residenza, mentre i meno fissi sono i parrucchieri. Tra i luoghi di provenienza, oltre la provincia bolognese, la regione più presente è la Puglia con il %, pressappoco con percentuali simili Calabria, Sicilia, Campania, con la presenza di tre sole straniere, una marocchina, una ragazza venezuelana e una sola estetista polacca. Alla domanda in cui viene chiesto quali lingue sappiano parlare l’intervistata/o, le risposte cambiano parecchio da un corso all’altro: i maschi per la maggior parte, in dieci, dicono di conoscere solo l’italiano, in otto dicono di sapere l’inglese o il francese, in tre l’inglese e il francese, uno solo l’inglese e il croato. Undici estetiste conoscono anche l’inglese, nove l’inglese e il francese, otto dicono di parlare tre lingue, inglese, francese e spagnolo, e altrettante solo l’italiano. In maggioranza, i parrucchieri dicono di saper parlare due lingue oltre l’italiano: l’inglese e il francese, uno solo l’inglese, un altro solo il tedesco e due altri, rispettivamente, il francese e il bosniaco e solo uno il polacco. Per quanto riguarda le scuole precedentemente frequentate, otto meccanici hanno frequentato solo le medie inferiori, ma dato che uno dei requisiti fondamentali per iscriversi al NOF è avere nove anni di scuola pregressa, questi ragazzi sono stati bocciati almeno un anno. Hanno frequentato in undici istituti professionali, due l’alberghiero e uno l’ITIS. Tra le ragazze, in sette sono state rimandate alle medie e poi si sono iscritte al corso per estetista, in cinque ven
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gono da istituti professionali, in quattro dal Liceo socio-psico-pedagogico, in tre da Ragioneria e sempre in tre da Grafica pubblicitaria, mentre le restanti da corsi per operatore sociale, dall’Istituto turistico e alberghiero, dal Liceo scientifico, dall’Istituto d’arte, dall’Istituto chimico-biologico, dal Liceo linguistico e da un corso per operatore di moda; una sola non specifica. Anche le aspiranti parrucchiere/i per la maggior parte provengono direttamente dalle medie, dal professionale, dall’Istituto d’arte, dall’Istituto alberghiero, dal Liceo scientifico, dall’Istituto turistico e da Ragioneria; la ragazza polacca invece frequentava il ginnasio nel suo paese. Da questa serie di dati si nota che c’è maggiore varietà nelle scelte operate dalle giovani estetiste e parrucchiere, ma, analizzando gli enunciati, si scopre che le scelte di alcune ragazze e ragazzi sono state prese soprattutto per temporeggiare. Ad esempio, un’aspirante estetista ci ha detto che: «Fin da piccola mi è sempre piaciuto fare l’estetista, ho fatto un anno così, alle superiori, poi mi sono iscritta al corso per estetiste». Di contenuto non troppo diverso è anche la frase di una ragazza di sedici anni che ha frequentato un anno alle Aldini-Valeriani al professionale per operatore tecnico-sociale: «Ho fatto tutto fino alle medie, poi un anno alle superiori per forza perché è obbligatorio, poi adesso tre anni da estetista». Come molte sue colleghe, una quindicenne aspirante parrucchiera conferma: «Un anno d’operatrice di moda per raggiungere l’età, poi il NOF». Così pure un’altra aspirante estetista: «Sono andata alle superiori perché dovevo fare un anno per forza; mi hanno segata e la stessa estate ho fatto il colloquio con Samantha [la tutor, N.d.R.] per l’ECIPAR che già conoscevo». Dal che si ricava che molte ragazze hanno dovuto aspettare un anno per raggiungere l’età giusta per realizzare la loro intenzione già maturata di iscriversi al NOF. Da questo punto di vista, è tutto molto diverso per i maschi. Infatti, nessuno di loro accenna al fatto di aver perso un anno aspettando d’iscriversi al corso al quale invece sono approdati con diverse motivazioni. Alcuni, essendo in obbligo formativo, l’hanno scelto come alternativa all’apprendistato, che comporta comunque almeno ore medie annue di formazione. Un aspirante meccanico spiega così la propria scelta: «Quando ho smesso le Aldini, volevo andare a lavorare, ma ho capito che andavo a spaccarmi la schiena per pochi soldi. Mio padre mi ha detto: “prenditi almeno una qualifica”, così ho deciso di iscrivermi». Un altro dice di avere soprattutto seguito l’esempio di amici: «Avevo degli amici che venivano qui, quindi sono venuto anch’io: o andavo a lavorare o venivo qui». Dai più, comunque, quella del NOF viene presentata come una scelta di ripiego, dopo fallimenti scolastici, magari ripensati senza rimpianto, come nel caso del diciassettenne che in tutta l’intervista ci ha tenuto a fare un po’ lo strafottente: «Mi hanno cacciato dall’ITIS, comunque non mi hanno lasciato niente. I prof. erano teste di cazzo e adesso sono qui».
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Per molte ragazze il NOF è il mezzo per raggiungere un sogno, a volte dichiaratamente infantile: «È stato sempre il mio sogno, mi piace fare la truccatrice… era una decisione che avevo dentro di me»; «Mi sentivo pronta. Mi è sempre piaciuto. È realizzare il mio sogno, diventare estetista»; «L’idea di fare la parrucchiera mi piaceva fin da piccola». Meno convinte di queste sono le risposte dei ragazzi a proposito del loro futuro lavoro. Anche se non manca la passione per gli scooter. Uno di loro, peraltro reticente su molti argomenti, su questo non ha dubbi: «Per essere un buon meccanico conta la passione!». Ma sicuramente qui la decisone del percorso formativo è più incerta di quella riscontrata tra le ragazze. Le opzioni per altri corsi NOF o per altre prospettive di lavoro tra questi ragazzi sembrano restare più spesso aperte: «Ad andare a lavorare, sarei stato forse più contento, sicuramente anche in fabbrica. Mi accontento»; «Avrei voluto fare termotecnica, se non avessi passato il test, avrei fatto quella. Sono sempre dei lavori dove si guadagna bene»; «Inizialmente avrei voluto fare proprio questo corso. Ora sto pensando di fare un altro NOF, ma è solo un pensiero». C’è anche chi già rimpiange una ben altra strada: «Avrei voluto fare il pilota di moto». Comunque, ancora più fantasiose sulle loro scelte di vita alternative alle attuali sono le ragazze dei tre altri corsi: «All’inizio volevo fare l’hostess, perché mi piaceva volare, e mi piace ancora adesso, ma mio padre mi ha detto che sono troppo bassa e mi ha tolto la voglia»; «Informatica»; «L’architetto»; «Avrei voluto fare la scuola di volo, ma non ho avuto occasione»; «Mi sarebbe piaciuto esser tanto ricca da non dover lavorare»; «Avrei voluto fare l’insegnante di danza»; «Il mio sogno nel cassetto? Bello, bellissimo però impossibile, il mio sogno è quello di fare il chirurgo plastico, è il mio sogno irrealizzabile»; «Prima di venire qui avrei voluto fare il turistico (lingue), ma mi piace anche l’estetista, anche se all’inizio lo reputavo un bel lavoro, ma che non faceva per me»; «Il mio sogno è fare l’hostess, ma ho una cugina che fa l’estetista e mi piace fare i massaggi». Non manca chi voleva continuare la scuola: «Sicuramente l’intenzione era quella di finire i precedenti studi, ma ho avuto delle difficoltà e ho scelto il NOF». Tra i ragazzi sono più ricorrenti dei calcoli ben precisi sul valore di un percorso formativo piuttosto che un altro. Per uno di essi «la qualifica che ti danno qui vale meno, meglio la quinta delle Aldini». Un altro, con un po’ di rimpianto per il proprio insuccesso, concorda: «I miei amici, con cui ero alle Aldini, sono stati promossi e stanno andando avanti lì; secondo me è meglio che vadano avanti là invece che qua. Qui puoi andare a lavorare solo fino a un certo punto, poi devi essere ingegnere... se hai la qualifica alle Aldini salti qualche gradino».
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Un altro ancora afferma, con un desiderio di rivalsa: «Sono considerato più ignorante da chi fa altre cose, come quelli del professionale, che mi vedono sempre senza zaino, ma per smentirli il prossimo anno mi iscrivo alle Aldini». Quanto a ciò che dicono i ragazzi e le ragazze a proposito del lavoro, se ne possono ricavare i seguenti dati quantitativi. Il % degli intervistati dice di non aver mai lavorato, il restante % sì. Tra i ragazzi che hanno avuto un’occupazione, il % dice di averlo fatto senza contratto, il % dichiara di essere stato regolarmente assunto, mentre il restante % non specifica. In particolare, il % dei parrucchieri dice di non avere mai lavorato, il % dice di avere fatto il parrucchiere, un altro % non specifica, mentre due dicono di aver fatto rispettivamente il muratore e l’ambulante. Tra i meccanici, il % dice di non avere mai svolto nessun lavoro, il % non entra nel particolare, il % solo stage, solo il % il meccanico, mentre i restanti rispettivamente camerieri ed elettricisti. Infine, tra le estetiste, delle quali il % dice di non avere mai lavorato, soltanto il % considera lavoro lo stage, pur avendolo già fatto praticamente, il % dice di aver già svolto o di svolgere lavori da estetista, mentre tra le restanti vengono ricordate le occupazioni più varie: operaia, barista, pulizie, volantinaggio e cameriera. Il dato più interessante, oltre alla predominanza di lavoro nero, è la differenza dei modi in cui viene considerato lo stage. Per i ragazzi e le ragazze che frequentano i corsi per estetiste, parrucchiere e aiuto acconciatrici si tratta per lo più di un momento formativo che fa parte dell’apprendere. La maggioranza dei ragazzi dei corsi per meccanici considerano invece lo stage un lavoro, anche se non tutti ne hanno ancora esperienza. Peraltro, lo stage per alcuni/e è lavoro, per altri/e no. C’è chi, tra le estetiste in erba, dice infatti: «Non ho mai lavorato, ho fatto solo lo stage per tre settimane». Tra i meccanici invece: «Come esperienza lavorativa ho fatto solo lo stage». Ma le ambiguità su questo tema sono rintracciabili nelle parole dei frequentanti di tutti e quattro i corsi. Un problema tutto da approfondire si profila poi tra i modi assai controversi in cui i ragazze e le ragazze parlano delle possibilità di lavorare mentre seguono il NOF e che di norma sarebbe consentito solo per venti ore settimanali. Il punto è che questa confusione non sembra dipendere solo da loro incomprensioni. Un’apprendista estetista infatti lamenta: «Molte cose non coincidono, perché la vecchia tutor mi aveva detto che potevo lavorare purché venissi a scuola, lui [il nuovo tutor, N.d.R.] non me lo permette più». Equivoci non da poco paiono anche circolare sui modi in cui vengono gestiti gli stage. Una ragazza che frequenta un corso da parrucchiera dice: «Ho lavorato, ma non in regola, in regola non ci vogliono mettere, ora. Al pomeriggio lavoro nello stesso salone dove farò lo stage, quindi lo faranno [metterla in regola, N.d.R.] a scuola finita».
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Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica Un altro dato decisamente positivo della nostra inchiesta sta nel fatto che ragazzi e ragazze da noi intervistati si dimostrano per lo più assai soddisfatti della scelta del percorso formativo in cui sono inseriti: la rifarebbero e la consiglierebbero ad altri. Un dato che risalta maggiormente se confrontato coi bilanci prevalentemente negativi che essi danno delle loro precedenti esperienze scolastiche. Fallimenti di cui a volte non si sentono responsabili: «Mi piaceva la moda, ma i proff. se ne fregavano. Non mi serviva a niente, ci andavo perché ci andava la mia amica», ci racconta un’estetista in erba. Un aspirante meccanico invece rievoca così il suo passato scolastico decisamente negativo: «Fino alla terza media ho imparato a leggere e a scrivere… e a fare l’asino! Fino alla terza media cosa vuoi fare? Gli anni sono lunghi quando ci sei dentro. Informazioni ne ho avute. Sono io che non mi interesso. Ero tutti i giorni dal preside. Alla fine, ci ho preso anche il gelato insieme. Non portavo i compiti, non ci andavo, così alla fine ho perso un anno». Un altro ragazzo dei corsi alla Fondazione Aldini-Valeriani esprime così la sua incomprensione per l’insegnamento scolastico tradizionale: «A me cosa mi interessa di geografia? Se voglio andare in una città, ci vado!». A proposito del NOF, tutt’altro è il tono prevalente: «Il corso è molto bello e fatto bene, l’ho consigliato e lo continuerò a consigliare»; «Sì, consiglierei di venire qui, perché, nonostante tutto, se uno vuole imparare ci riesce»; «È un posto bellissimo, dove ti aiutano se hai dei problemi tuoi, a casa. Ne puoi parlare con i tutor che ti danno una mano»; «È una bella scuola dove sanno insegnare bene, e gli insegnanti sono bravi e comprensivi»; «È una scuola diversa dalle solite». Questi alcuni dei giudizi più entusiasti tra le iscritte ai corsi per estetiste, parrucchiere e aiuto acconciatori. Ma ancora una di esse trova “vaga” la scuola tradizionale rispetto a quella ora frequentata: «L’ho scelta perché volevo fare una scuola che mi formasse sul lavoro, non una scuola più vaga». Un’altra apprezza il collegamento tra teoria e pratica, che esiste per lei solo al NOF: «Mi insegna a saper collegare la teoria con la pratica, cosa che nei licei manca. Al NOF la teoria è strettamente collegata con la pratica». Infine, c’è chi tra queste ragazze dichiara che solo nel NOF ha trovato le motivazioni a studiare: «In una scuola normale sarei andata solo per fare fuga e divertirmi, non per studiare, se fossi andata in un’altra scuola non mi sarebbe piaciuto e non avrei studiato. Mi piace il lavoro, la scuola un po’ meno, ma mi devo mettere nell’ottica che devo studiare». Anche nelle parole degli aspiranti meccanici, ritorna il paragone con le scuole tradizionali.
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C’è addirittura di chi si dice «fiero di aver fatto questa scuola!». Sottolineando: «Non portiamo neanche lo zaino e i libri», segni, questi ultimi, per lui tipici del più tradizionale Istituto Aldini-Valeriani, al quale peraltro egli stesso dice poi di voler iscriversi in futuro. Un altro oppone libertà a fissità: «Come scuola qui stai polleggiato. Sei libero. Se vai in una scuola superiore sei lì fisso». Semplice, ma sempre positivo è il giudizio di un altro aspirante meccanico: «Questa scuola almeno ti fa fare qualcosa». Un altro ragazzo ancora sottolinea la prospettiva che gli apre il NOF: «Mi insegna la responsabilità di un lavoro, un mestiere, il mio futuro». Ma ovviamente non mancano le spine. Due ci paiono i maggiori problemi sollevati dai nostri intervistati/e. Uno riguarda i rapporti non sempre dei migliori tra gli stessi compagni/e di corso. L’altro le ore del corso dedicate agli insegnamenti teorici e i rapporti cogli insegnanti che ne sono incaricati. Sul primo problema abbiamo raccolto parecchi enunciati interessanti. Eccone alcuni. «Non mi piacciono nemmeno le mie compagne – dice un’aspirante estetista – tutte queste impiccione. Non essere capita e non essere ascoltata è il problema. Io divento una bestia». Un’altra dello stesso corso: «Il problema più grosso è stato l’inserimento con le altre ragazze, infatti al primo anno avevo pensato di ritirarmi». Altre estetiste in erba parlano in tono simile dello stesso tema: «Con le compagne? Male, malissimo, sono tutte molto strafottenti e immature»; «Con alcune non lego tanto perché abbiamo idee diverse»; «Non andare d’accordo con le compagne, è un problema che non si riesce a risolvere, con alcune persone parli, con altre non riesci». Qualcuna ha trovato la soluzione, ma solo prendendo le distanze: «Il problema era non andare d’accordo con alcune compagne, che magari prendono in giro. Non ci faccio più caso e così si è risolto da solo»; «Tra le compagne, ci sono gruppetti. Qualcuna con cui lego di più, altre con cui ho meno feeling. Io sono una ragazza aperta. Se vedo che qualcuno si interessa a me ci parlo, altrimenti la saluto e basta»; «Non c’è nessuno con cui non vado d’accordo; verso le persone troppo diverse da me c’è indifferenza, non abbiamo alcun rapporto»; «Ogni tanto qualche lite, così! Non si può sempre andare d’accordo. Se c’è antipatia si cerca di evitare». Anche tra le future parrucchiere più di una si lamenta: «Mi danno fastidio alcuni atteggiamenti dei miei compagni di classe»; «Mi danno fastidio la maggior parte dei miei compagni di classe perché hanno atteggiamenti stupidi». Tra i meccanici, uno ci racconta di avere avuto noie in classe: «Una volta, perché uno mi rompeva le scatole, ne ho parlato con il tutor. Se loro non rompono le balle a me, io non le rompo a loro». Un altro parla di «rapporti tranquilli» coi suoi compagni, ma subito aggiunge: «non mi interessa più di tanto avere rapporti con loro». Un altro ancora dice: «Lego con chi ha i miei stessi interessi, con gli altri è soprattutto questione di distanza».
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L’altro problema notevole, si diceva, riguarda le ore in classe durante le lezioni frontali di teoria: «Faccio troppe ore in classe, sono noiose»; «La cosa che mi piace di più è che non devo stare in un banco, così [incrocia le braccia]»; «In classe non riesco a stare seduto, non riesco a stare seduto con un libro in mano»; «Non vado d’accordo con i proff. Lei è là, io sono qua». Questi alcuni degli enunciati ricorrenti tra i frequentanti di tutti i corsi. Ma è tra parrucchiere e aiuto acconciatori in erba che abbiamo raccolto i rifiuti più decisi delle lezioni di teoria: «Voglio togliere qualche materia teorica. Alcune non hanno senso con il nostro lavoro»; «È una buona scuola e ci fanno fare più pratica che teoria. La teoria non serve a niente, quello che spiegano i professori in realtà non serve nel nostro lavoro»; «Mi piace tutto tranne la teoria. Chimica la odio. Alcune non servono, tipo l’inglese»; «La teoria è pallosa: stare cinque ore seduta ad ascoltare una che parla»; «Teoria è troppo pallosa; stare seduta lì cinque ore a sentire una che parla, se non te ne frega niente». Tra le estetiste si può invece notare un maggiore apprezzamento della teoria, considerata sì più faticosa della pratica, ma della quale si capiscono comunque l’importanza, la necessità, l’utilità. Ad esempio, una ragazza alla quale è chiesto quale sia la cosa che conta di più per essere una brava estetista, risponde: «Studiare la chimica e l’anatomia, perché se non sai dove mettere le mani, non conta niente». Così pure delle sue compagne di corso usano parole simili: «Preferisco la pratica alla teoria. Non sono portata per lo studio, ma è importante la conoscenza; bisogna infatti saper collegare teoria e pratica. Vorrei fare il terzo anno integrativo. Vorrei continuare a formarmi»; «È importante anche la teoria, perché senza di quella non si può fare la pratica. Mi piacciono materie come chimica e anatomia anche se sono complesse»; «Questa scuola ti dà la possibilità di fare un bel lavoro, anche se bisogna studiare, ma ne vale la pena»; «Le materie sono un po’ difficili, ma ho capito che se volevo farcela dovevo studiare di più. Occorre sapere bene anatomia e teoria perché sono elementi fondamentali per svolgere il proprio lavoro». Tra i futuri meccanici, prima e più di tutto contano l’osservazione e l’esperienza diretta. Secondo uno di loro, quel che conta di più per imparare è «guardare chi ne sa più di te, poi fare molta esperienza». Un altro ragazzo va più nel dettaglio: «A me studiare non mi è mai piaciuto. È meglio venire qua. Non hai problemi. Bisogna stare attenti. Se c’è una cosa che non sai fare, devi stare attento e guardare. Guardando poi magari ti ricordi, ce l’hai lì davanti e magari ti ricordi come l’ha smontato. In stage ho imparato come si usa il computer per fare dei controlli. Un collega lo usava e io pensavo “ora va lì” e lui lo faceva». C’è poi chi pensa che per essere un buon meccanico ci vogliono qualità quali: «fantasia, capacità di risolvere i problemi nel minor tempo possibile, pazienza ed esperienza».
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Il rapporto con gli insegnanti risulta più o meno problematico in ogni corso. «Con i miei insegnanti ci sono stati dei disguidi perché non avevamo rapporto» riferisce una futura estetista. Un’altra pensa che gli insegnanti «sono abituati a classi di persone più grandi e non sono abituati a noi che abbiamo sedici anni». Un’altra ancora si lamenta: «Quella di anatomia parla a busso; alzi la mano e non ti caga neanche». Un meccanico sentenzia: «I professori non è che insegnano, ti dicono quello che sanno». E così di seguito, frasi di scontento su questo argomento paiono accomunare tutti i ragazzi e le ragazze da noi intervistati. «È un po’ difficile avere rapporti con gli insegnanti, perché molti dopo la lezione vanno via subito»; «La teoria è molto noiosa, e i prof. te la fanno pesare»; «Lego poco con gli insegnanti perché sono antipatici»; «Qui gli insegnanti sembrano appena usciti da scuola. Io non ci arrivo forse; ma gli insegnanti leggono e basta. Questo non aiuta»; «Con gli insegnanti non c’è rapporto». Tutt’altre sono invece le parole riservate alla figura dei tutor, che è sicuramente un elemento centrale tra i più innovativi di questo progetto di formazione. In effetti, i ragazzi li considerano molto di più che insegnanti, e non solo per problemi strettamente legati alla scuola. A loro si rivolgono infatti anche per questioni personali. Questo emerge da tutti e quattro i gruppi intervistati, sia pur con qualche differenza. Tra le aspiranti parrucchiere e aiuto acconciatori due ragazze sottolineano con forza l’importanza del loro rapporto con la tutor: «Più di tutti nel corso, lego con la tutor, perché lei mi ascolta di più»; «Sono stata quasi sospesa a scuola, ma l’ho risolta con il mio tutor poiché mi ha perdonato». Per quanto riguarda i meccanici, i pareri sono discordanti ed estremi; si parla di rapporti conflittuali coi tutor, ma allo stesso tempo tutti gli intervistati riconoscono loro un ruolo basilare: «I tutor non li sopporto!»; «Il rapporto con i tutor non è come quello con i professori, li vedo più come amici»; «Mi danno fastidio i tutor perché sono pesanti»; «Con i due tutor c’è un rapporto d’amore-odio. Quando sono bravo e mi impegno scherziamo. Quando faccio l’asino litighiamo»; «Puoi parlare un po’ con tutti, qui siamo tutti amici, vado meno d’accordo con i tutor»; «Ho rischiato la sospensione dai corsi per atti vandalici e l’ho superata grazie a un atto di bontà dei tutor». Un ragazzo fa dei tutor la pietra di paragone tra la scuola tradizionale e il NOF: «Va molto bene, si può parlare in confidenza, cosa che nelle altre scuole non succede, soprattutto con i tutor». Le estetiste hanno invece un rapporto praticamente idilliaco con la loro responsabile, e dimostrano d’avere una grande fiducia in lei. «Con la tutor ci diamo anche del tu e anche se le raccontiamo le nostre cose ci fidiamo». «Per i problemi della scuola ho parlato con la mia tutor. Ci ho messo tanto. Sono riuscita a superare tutto, ma ero da sola e con la mia tutor». «Lego di più con alcune com
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pagne e con la tutor con cui faccio battute». «Il NOF è un posto bellissimo, dove ti aiutano. Se hai dei problemi, tuoi a casa, ne puoi parlare con la tutor che ti dà una mano. Per qualsiasi problema puoi rivolgerti a lei». Anche alla domanda su quale sia stata la difficoltà più importante incontrata nella vita, più di una di queste ragazze ricorda la tutor: «La difficoltà più grossa l’ho risolta chiedendo aiuto alla tutor e alla mia famiglia, insomma a mia madre»; «Con la tutor riesco a legare meglio: lei sa tutto di me anche al di fuori della scuola». E sempre la tutor, in altre risposte, sembra la figura risolutiva nel problema rivelatosi non trascurabile dei rapporti tra compagne e compagni di ognuno dei quattro corsi: «Ho litigato molto con una mia compagna di corso, perché mi ero fatta il piercing all’ombelico e lei l’ha detto ai miei genitori che non volevano. E poi si sono intromesse anche altre ragazze del corso. Per questo abbiamo litigato molto. La tutor ha proposto di fare un’assemblea con tutta la classe per parlare. E con l’assemblea è stato risolto questo problema»; «Il problema più grosso è stato l’inserimento con le altre ragazze; infatti al primo anno avevo pensato di ritirarmi, perché all’interno di ogni classe si formano gruppetti e non riesci a fare amicizia. L’ho risolto parlandone con la tutor e alla fine con qualche difficoltà mi sono integrata»; «Il primo anno ero considerata una secchiona, ora lego con tutte grazie alla tutor Samantha che ci ha fatto unire». Ma anche su altri problemi l’intervento della tutor è considerato decisivo: «Il mio problema più grande era la lingua perché i proff. non mi capivano e pensavano che mi rifiutassi d’apprendere, poi ho parlato con la tutor e ho risolto»; «Al lavoro nello stage, mi hanno trattata male. Mi piace fare l’estetista, ma se continuavano a trattarmi male non ce la facevo più. Mi ha aiutata Samantha, la tutor»; «All’inizio dell’anno c’erano problemi con le materie che non avevo mai fatto, ma la tutor mi ha aiutata». Formazione e/o istruzione? Da quanto precede risulta per tutti i ragazzi del NOF l’importanza della figura dei tutor, i quali in effetti si trovano nell’intersezione di più insiemi problematici. Da quello che hanno detto le ragazze e i ragazzi direttamente interessati se ne possono enucleare almeno cinque: . i rapporti tra le lezioni teoriche in aula e quelle pratiche nei laboratori; . i rapporti tra i corsi nelle sedi preposte e gli stage presso le aziende; . i rapporti non di rado contrastanti tra lo stesso percorso formativo e le condizioni diremmo proprio esistenziali (familiari, abitative, adolescenziali ecc.) di allieve e allievi; . i rapporti tra lo stesso percorso formativo e i modi in cui i suoi fruitori e fuitrici pensano il proprio avvenire; . i rapporti tra gli stessi compagni di corso che non sempre si risolvono da soli. Ci parrebbe comunque sbagliato pensare che sia sufficiente sommare tutte que
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ste problematiche. Ad essere più problematico è il loro stesso insieme. Da come esso è trattato, e soprattutto da parte dei tutor, dipende la capacità del NOF di funzionare anche come scuola, dunque anche come luogo d’istruzione polivalente, non strettamente finalizzata all’avviamento a una professione, ma capace di mettere allievi e allieve in condizione di pensare alla possibilità di spendersi in altre attività e lavori. Un’esigenza, questa, che rientra tra quelle che vanno oggi sotto il nome tecnico ed economico della “flessibilità”, ma che è pensata a loro modo anche dai nostri stessi intervistati. Quando parlano del NOF, i nostri ragazzi/e, che sicuramente hanno più a cuore una formazione direttamente utile al lavoro, non mancano comunque di apprezzarlo anche come scuola che insegna più che un semplice avviamento professionale: «Mi insegna il lavoro e a stare in mezzo alla gente»; «[…] a fare la parrucchiera e a dialogare con le persone»; «[…] a presentarti bene alle clienti, come parlare ed essere sempre educata»; «[…] sia a imparare un mestiere che a realizzarmi con gli altri, avere un buon rapporto con le persone»; «[…] a saper comunicare con le persone, a stare con le persone»; «[…] a relazionarmi meglio con le persone». Queste, alcune frasi ricorrenti tra la maggior parte dei nostri intervistati/e sulla funzione d’istruzione in senso ampio offerta sul NOF. Luogo che peraltro tutti tengono a chiamare “scuola”. Prendendo sul serio questa denominazione, si può riflettere se dalle nostre interviste possa venire qualcosa che riguardi più in generale la scuola in quanto tale. Sicuramente, come scuola, il NOF, sia per chi la frequenta sia per chi vi opera, si presenta come un luogo tra i meno in crisi di quelli che l’istruzione pubblica italiana prevede per le stesse fasce d’età, tra i quindici e i diciassette anni. Stando a ricerche condotte su questo tema, gli studenti, le loro famiglie, gli stessi insegnanti, esprimono per lo più un grave scontento sul funzionamento della scuola. Tra i punti salienti di questa indagine, viene evidenziato il senso di frustrazione del corpo insegnanti. Anche professori a tempo pieno, con una carriera più che avviata, spesso lamentano una sensazione di inadeguatezza nei confronti dei ragazzi, nell’avvicinarsi a loro e alle questioni difficili e nuove che li riguardano. Il che appare assai simile a quanto emerge dal disagio espresso dai nostri intervistati nei confronti degli insegnanti. Ora, da questo punto di vista, dall’esperienza del NOF crediamo possa venire uno spunto utile. Anziché considerare la figura del tutor, che qui è centrale, una figura altrove solo sperimentale e marginale, si potrebbe cominciare a pensare come farla diventare un importante perno per il rinnovamento di ogni scuola. Sicuramente essa potrebbe comunque apportare qualche contributo per far fronte ai più gravi difetti attualmente sofferti dall’istruzione pubblica. Tra tutti, quello rappresentato dalla tradizionale offerta di un’educazione nazionale fissata entro schemi validi ovunque e comunque e senza troppa attenzione a quel mutevole differenziarsi delle situazioni locali e sociali che attualmente è oramai on
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nipresente. Conoscere direttamente e in dettaglio le diverse popolazioni dei ragazzi che si iscrivono nelle scuole, adeguare alle loro esigenze i corsi, legare questi ultimi a esperienze pratiche (che nel caso delle materie più teoriche e classiche potrebbero coincidere con esperienze di ricerca): tutte queste iniziative, che solo delle figure simili a quelle dei tutor presso il NOF potrebbero attivare, sicuramente male non farebbero in ogni tipo e grado di scuola. Del resto, i diversi apprezzamenti che i nostri intervistati/e hanno dato dei loro rispettivi tutor segnalano sicuramente un problema ancora aperto. Sarebbe a dire l’inevitabile incertezza e diversificazione del loro modo di operare, ancora ovviamente allo stato della sperimentazione pionieristica anche laddove, come nel NOF, sono già istituiti, comunque da pochissimo tempo. In particolare, il rapporto cogli stessi fruitori/trici di questo luogo ci sembra passibile di miglioramenti metodologici. Miglioramenti che crediamo possano venire solo approfondendo la conoscenza diretta dei pensieri e delle parole di questi ragazzi, piuttosto che cercando di classificare i loro comportamenti in modelli magari logicamente coerenti, ma poco aderenti alla mutevole e diversificata realtà dei soggetti considerati. Da questo punto di vista, ci azzardiamo a suggerire che inchieste come quella qui riportata, se sviluppate in modo sistematico potrebbero non essere inutili a orientare e consolidare il lavoro dei tutor. Del resto, è proprio quello che alcuni dei ragazzi/e da noi intervistati ha auspicato. A loro, dunque, ancora una volta, le ultime parole: «È carina ’sta cosa delle domande, mai nessuno mi chiede tutte queste domande!»; «Mi piace, mi sento importante»; «È stata bella anche se è durata troppo poco»; «Molto interessante, è servita anche per sfogarmi. Ho detto cose che anche con le compagne non ci diciamo»; «È un buon metodo per capire e chiedere com’è il nostro corso»; «Spero che il risultato di questa intervista venga trasmesso ad altri ragazzi»; «Serve a conoscere i ragazzi di questa scuola, a capire cosa vogliono dalla vita»; «Penso che serva a qualcosa, per capire come sono fatta io, per capire la gente che avete nel corso. Sicuramente è utile per raccogliere opinioni diverse, vedere come va questo corso, perché se abbiamo delle buone idee adesso, il corso può andare avanti anche in futuro». Note . Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo, cit. . Tra di essi dobbiamo ringraziare in particolare Maria Agnese Maio, Samantha Mongiello, Marisa Gervasi, Gianni De Giuli, Roberto Panzacchi, Raffaele Ranni. Alcuni dei quali sono anche venuti a presentare la loro esperienza al nostro corso universitario, per fornire le conoscenze preliminari necessarie all’avvio dell’inchiesta. . Cfr. il sito www.osof.provincia.bologna.it, ma anche l’opuscolo della stessa Provincia Dal corso al percorso, curato da Sandra Zaramella e Beatrice Draghetti.
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. D. Sacchetto, La vita professionale degli insegnanti nelle loro parole, in Dal Lago, De Biasi, Un certo sguardo, cit. La vita degli insegnanti viene qui raccontata attraverso le loro stesse parole, raccolte in una serie di interviste condotte nel periodo tra maggio e settembre nell’ambito di una ricerca nazionale sullo stato di salute della scuola, promossa dal ministero della Pubblica istruzione e affidata all’Università di Genova. L’indagine si compone di una serie d’interviste condotte da cinque equipe di ricerca distribuite in altrettanti ambiti territoriali, ritenuti particolarmente rappresentativi, che hanno raccolto circa duecento interviste semistrutturate, a cui sono state affiancate alcune storie di vita finalizzate ad approfondire la questione.
Una fabbrica da rifare e la qualità del lavoro. Gli operai della BredaMenarinibus e della BT Cesab di Bologna di Mirco Degli Esposti
Nei mesi di luglio e dicembre ho condotto due inchieste di fabbrica presso altrettante industrie metalmeccaniche di Bologna: BT Cesab, azienda leader a livello nazionale nella produzione di carrelli elevatori controbilanciati, e BredaMenarinibus, seconda produttrice italiana di autobus. Tali inchieste sono state svolte nell’ambito di una ricerca di dottorato in Antropologia presso l’Università Paris . Con essa si intendeva studiare le forme di soggettività degli operai, oggi, nel capoluogo emiliano. L’obiettivo di queste inchieste, così come io le propongo sulla base soprattutto dei lavori di Sylvain Lazarus e del suo gruppo di ricerca, è quello di conoscere cosa pensano gli operai di una certa fabbrica. Per chi conduce l’inchiesta, “operai” non designa né un soggetto determinato, né un gruppo, né una classe, ma un’incognita per il pensiero che l’inchiesta prova a investigare interpellando ciò che dice la gente che tale termine nomina nella lingua corrente. Così la ricerca non ha alcuna pretesa di rappresentatività: gli operai sono interpellati semplicemente in quanto gente che è chiamata in questo modo nella lingua comune, non in quanto gruppo il cui pensiero sarebbe determinato da una serie di variabili oggettive (prime fra tutte, in questo caso, la condizione socio-professionale dei suoi membri e il tipo di lavoro da loro svolto). Ciò che l’inchiesta prova a individuare è cosa dice e pensa questa gente, permettendo così d’identificare i tratti della soggettività degli operai che questo dire e questo pensiero costituiscono e rendono pensabili. In questa inchiesta si è proceduto intervistando operai in ogni fabbrica durante l’orario di lavoro. Al momento dell’indagine la “popolazione” operaia era in BredaMenarinibus di unità e in BT Cesab di . Ogni intervista è durata tra l’ora e un quarto e l’ora e mezza ed è stata effettuata sulla base di un questionario guida, a risposta aperta, organizzato per capitoli tematici. Essenzialmente, le questioni poste sono state di due tipi: . domande descrittive e biografiche (età, anzianità nella fabbrica, posto e tipo di lavoro svolto, percorso professionale); . domande che chiedevano di esprimere giudizi soggettivi rispetto alle parole “operaio” e “fabbrica”, all’organizzazione del lavoro, ai sindacati, alla politica in fabbrica.
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Gli operai intervistati sono stati sorteggiati dalla lista del personale. La partecipazione all’intervista era volontaria. Attraverso un volantino affisso alla bacheca delle comunicazioni al personale e, successivamente, attraverso il breve colloquio che ha preceduto ciascuna intervista, si è spiegato che si trattava di una ricerca universitaria indipendente rispetto all’azienda e ai sindacati; che le interviste erano anonime e confidenziali; che i risultati, invece, sarebbero stati resi pubblici tramite un rapporto scritto. Presento subito, sinteticamente, i principali risultati di questo lavoro. Gli operai della BredaMenarinibus, a partire dalla situazione di grave difficoltà della loro azienda, hanno posto all’ordine del giorno dei temi complessi. Questi temi permettono di pensare a delle nuove possibili politiche del lavoro, nella crisi di quel singolare sistema di gestione istituzionale dello sviluppo economico del territorio e del mercato del lavoro locale che è stato il “modello emiliano”. Infatti, nel pensiero degli operai intervistati, “fabbrica” è la parola per pensare diverse politiche che decidono, decidendo questo luogo, come pensare il lavoro. Delle politiche come quelle che secondo i nostri interlocutori erano in atto alla BredaMenarinibus al momento dell’inchiesta, che subordinano completamente la fabbrica, la sua esistenza, la gente che vi sta dentro, al mercato (lo stabilimento è in vendita, in cerca di un acquirente), impedendo di pensare il lavoro come una realtà di cui si possono decidere alcune condizioni. Ma secondo gli operai ci possono essere delle altre politiche: delle politiche che fanno esistere la fabbrica come luogo della gente che ci sta dentro – nelle nostre interviste prima di tutto gli operai stessi – e in cui il lavoro che in essa si svolge è pensabile come un ambito di possibilità che si misurano a partire dalle scelte rispetto a questo stesso luogo. La fabbrica, dunque, non solo e non tanto come luogo della produzione, ma come condizione (politica) del lavoro, categoria per pensare il lavoro che in essa si svolge come un ambito di decisioni soggettive. Per chiarire questo modo di pensare, confrontandolo con questioni forse più note a chi si occupa dei temi del lavoro da un punto di vista politico e sociale, si può richiamare un famoso giudizio di Marx: non vi è alcun “senso” e significato intrinseco del lavoro «in quanto sono le sue condizioni che, sole, possono dargli un senso». Per pensare il lavoro occorre pensare le sue condizioni: le condizioni in cui si effettua, cioè le condizioni produttive, tecnologiche, giuridiche ecc., che stabiliscono i modi in cui si lavora. A partire da quello che dicono gli operai della BredaMenarinibus, tra queste condizioni possono essere pensabili anche delle condizioni politiche. E queste condizioni sono pensabili proprio facendo esistere la fabbrica come luogo dove si possono decidere alcuni aspetti del lavoro che si svolge o si può svolgere in essa (e come vedremo, anche alcuni aspetti e condizioni del come uscire dalla fabbrica in crisi, cessando un lavoro). Tutto ciò, aggiungiamo noi e argomenteremo in seguito, può forse fornire delle risorse intellettuali utili per riqualificare da un punto di vi
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sta politico il cosiddetto “modello emiliano”, la cui crisi, o la cui fine, sono oggi da più parti certificate. Questioni diverse, ma a nostro avviso di notevole interesse, quelle poste dagli operai della BT Cesab. Gli intervistati hanno presentato come centrale il problema della qualità del lavoro. Un tema, questo, oggi ampiamente discusso sia nelle riflessioni inerenti all’implementazione di “circoli di qualità” e “sistemi di qualità” nella gestione dei processi produttivi, sia nel dibattito relativo alle politiche pubbliche dell’impiego: il famoso Libro bianco sul mercato del lavoro del governo Berlusconi, che ha ispirato la successiva legge Biagi, non ha forse per sottotitolo proprio Per una società attiva e per un lavoro di qualità? Gli operai BT Cesab presentano la questione della qualità in una maniera del tutto originale e specifica: la minore o maggiore qualità, la presenza o l’assenza di qualità, non sono doti pensate come oggettivamente intrinseche al lavoro che svolgono. La qualità del lavoro che svolgono non è già “contenuta” nei contenuti tecnici delle mansioni da effettuare, ma è l’effetto di una possibile relazione soggettiva col lavoro che è da loro stessi decisa. Ciò significa che la qualità è il risultato di un rapporto degli operai con il loro lavoro che può qualificarlo o meno; è l’effetto di una qualificazione – soggettiva e autonoma – delle mansioni necessarie per realizzare un certo risultato produttivo oggettivo. La questione della qualità del lavoro è dunque relativa al rapporto degli operai con una certa produzione da realizzare attraverso certe determinate operazioni tecniche. Gli operai BT Cesab vogliono poter decidere della qualità del loro lavoro, cioè vogliono poter decidere del loro rapporto con una certa produzione da svolgere, facendo così “bene” e “meglio” il loro lavoro. Un “bene” e un “meglio” che sono loro stessi a stabilire. Per descrivere questo modo di pensare proviamo anche in questo caso a rapportarlo a dei temi forse più conosciuti da sociologi e studiosi di questioni del mondo del lavoro: decidere il rapporto tra gli operai e una certa produzione, da realizzare attraverso certe operazioni tecnicamente determinate, significa decidere e intervenire sulla dimensione “socializzata”, “cooperativa”, “in comune” del lavoro di produzione. In effetti, i nostri interlocutori vorrebbero una diversa organizzazione del lavoro, che incrementasse sia le rotazioni e le mansioni in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, sia il sapere, l’esperienza e la formazione, così da garantire agli stessi operai più risorse per pensare il loro rapporto con la produzione da realizzare. Queste questioni ci paiono di notevole interesse. Si parla frequentemente, nelle più recenti teorie di gestione delle risorse umane, di assumere l’intelligenza di chi lavora come risorsa decisiva per incrementare la produttività del lavoro. Alcuni autori hanno recentemente sostenuto che la stessa nozione di produttività è da rivedersi proprio partendo dalla priorità che, nelle attuali economie competitive, assume l’innovazione e la creatività per rispondere rapidamente, con nuovi prodotti e soluzioni d’uso, a una domanda sempre più fram
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mentaria e volatile . A partire da ciò che è emerso dall’indagine effettuata in BT Cesab, incrementare la produttività con la creatività di chi lavora è questione del tutto subordinata a un altro ordine problematico di natura non tecnica ma politica, che non concerne la produzione, ma le possibilità che hanno gli operai di contare in fabbrica. In effetti, lavorare bene, e dunque aumentare l’interesse sul lavoro e ridurre la fatica durante il suo svolgimento, liberando eventualmente nuove risorse soggettive nel processo di produzione, per i nostri interlocutori significa in primo luogo intervenire sull’organizzazione del lavoro a partire da quel che essi pensano del loro rapporto con le mansioni da svolgere quotidianamente. Ciò significa che la qualità del fattore produttivo “lavoro” non concerne le sua dimensione tecnica, non deriva da una diversa qualificazione “oggettiva” delle mansioni, ma da un intervento politico che riguarda le possibilità degli operai di organizzare e decidere del loro rapporto con un certo lavoro tecnicamente dato; cioè dalla possibilità che gli operai hanno di contare in fabbrica come soggetti, e non come semplici agenti (per quanto intelligenti o creativi) della produzione. A partire da come i nostri interlocutori intendono la qualità, è dunque una politica che assume l’operaio in fabbrica come proprio soggetto a poter qualificare o meno il lavoro che in essa si svolge. Le pagine che seguono danno conto di cosa hanno detto gli operai intervistati e di come si sia proceduto nell’analisi delle loro parole per individuare i temi e le questioni qui sinteticamente riassunti in premessa. Le parole degli interlocutori presentano molteplici punti di vista, dispongono una molteplicità di pensieri e giudizi: ma tali giudizi e pensieri, oltre che molteplici, identificano anche delle singolarità, delle questioni ricorrenti, degli ambiti problematici omogenei. Nel testo si è voluto rendere il più possibile identificabile dal lettore l’operazione intellettuale d’individuazione, in tale molteplicità, di queste questioni singolari. Ciò proprio perché queste ultime non erano presupposte, non era cioè presunto a priori dal ricercatore che gli operai fossero accomunati da problemi condivisi, oggettivamente dati dalla loro condizione sociale, dal tipo di lavoro svolto, o dalla situazione della loro azienda. La scommessa di questo tipo di ricerche, infatti, è che nel dire degli intervistati è possibile individuare una specificità problematica, ma sono loro stessi che la decidono costituendola soggettivamente: sono cioè i nostri intervistati che dispongono la realtà sociale da investigare, i temi e le questioni di cui sono soggetti e che il ricercatore prova a conoscere pensando il pensiero che incontra. Le due inchieste sono qui presentate separatamente, in quanto ciascuna dotata di una sua singolarità. Nelle conclusioni si proporrà infine una brevissima lettura d’insieme di quelle che, secondo noi, sono le questioni principali emerse da queste due indagini rispetto all’attuale congiuntura politica ed economica italiana.
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L’inchiesta alla BredaMenarinibus .. «Quando il padrone non c’è, non c’è nessuno»: la fabbrica come luogo della valorizzazione del lavoro Nell’inchiesta condotta tra gli operai della BredaMenarinibus abbiamo incontrato una riflessione singolare rispetto a ciò che stava accadendo nella fabbrica al momento dell’indagine. Per chiarire i termini di tale riflessione è opportuno descrivere brevemente la situazione dell’azienda quando vi abbiamo condotto l’inchiesta. L’industria Menarini viene acquistata nel dalla Breda, gruppo dell’holding di Stato Finmeccanica, assumendo il nome attuale di BredaMenarinibus S.p.A. Dopo il passaggio di proprietà, fino alla metà degli anni Novanta la società vive un periodo di forte difficoltà produttiva. Tra il e il l’andamento dell’impresa migliora nettamente e la produzione più che quadruplica. In questi stessi anni l’azienda avvia un significativo processo di decentramento produttivo: per le attività di carpenteria e di preparazione dei sottogruppi più complessi da montare, ma anche per quel che riguarda le stesse operazioni di montaggio dell’autobus, che possono essere gestite sulle linee interne allo stabilimento o date all’esterno, ad altre aziende che effettuano anch’esse il montaggio finale dei veicoli. Questo processo viene implementato sia per abbassare i costi di produzione, sia per ridurre i tempi di consegna delle commesse, senza che sia necessario un aumento massiccio del personale e della capacità produttiva dello stabilimento. Contemporaneamente, nel , la proprietà Finmeccanica dichiara la propria volontà di vendere BredaMenarinibus. Questa scelta è la conseguenza della decisione di abbandonare il settore trasporti, in quanto considerato non strategico per le attività industriali dell’holding di Stato. Ma, nonostante la dichiarazione di messa in vendita, nessun acquirente viene trovato. A partire dal , in un contesto di calo complessivo della domanda e di una sempre più forte concorrenza di multinazionali come Mercedes (connessa alle loro dimensioni, alla loro proiezione internazionale e alle conseguenti economie di scala di cui possono approfittare), la produzione si riduce fortemente (da circa autobus all’anno a poco più di ). Al momento dell’indagine questa crisi produttiva e strategica comincia a palesarsi sempre più chiaramente (alcuni mesi dopo l’inchiesta è avviata la cassa integrazione straordinaria per circa la metà del personale). Nelle parole degli operai questa situazione è pensata attraverso la categoria di “padrone”. In effetti, durante le interviste gli operai presentano uno scarto tra un “prima” e un “adesso” in fabbrica e una differenza tra BredaMenarinibus e le altre fabbriche. Questo scarto e questa differenza sono molto frequentemente indicate attraverso l’uso di questa parola. Le difficoltà dell’azienda sono considerate derivare dall’assenza di un “padrone”. Si tratta solo del rimpianto per un model
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lo industriale a capitalismo familiare ormai perduto? Secondo noi non solo. Vediamo perché, analizzando alcuni degli enunciati che abbiamo incontrato nel corso delle interviste. Secondo un operaio con una lunga esperienza in Menarini «da dieci anni, da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo, sono cambiate molte cose nel sistema delle lavorazioni, […] lavoro di meno ma a livello professionale è peggio, non c’è più quella atmosfera per poter andare avanti, […] non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore». Un altro interlocutore sottolinea come l’azienda sia «in una situazione critica. […] Dal , da quando siamo andati sotto alla Breda, […] la gente se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, deve sottostare ad un padrone, a un fittizio padrone […] stanno distruggendo la fabbrica». Per un’operaia «sono venute a sparire tante lavorazioni, […] danno molto lavoro esterno, perciò noi qui dentro abbiamo poca roba da fare. […] Col gruppo Breda sono proprio andati male, c’è del menefreghismo, […] mentre un padrone teneva d’occhio». E un operaio della linea d’allestimento afferma: «In un’altra fabbrica, quando uno si comporta bene ti riconoscono, se vai male ti licenziano, invece se non fai niente qui ti tengono e sei un peso sulle spalle degli altri, per la produzione. Se tutti lavorassero, qui, ci sarebbe una gran produzione. […] Se fosse una fabbrica che avesse un padrone andrebbe meglio, andrebbe meglio per tutti, ma, quando il padrone non c’è, non c’è nessuno». Un altro interlocutore sottolinea, parlando delle qualifiche e dei passaggi di livello, come in BredaMenarinibus «chi decide il passaggio di livello non è chi ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora sceglierebbe chi vale». Altri due intervistati, che lavorano alla preparazione dei pezzi da montare sulle linee, identificano il presente della fabbrica come il tempo del venir meno del “padrone”: «Adesso ormai appaltano tutto, le lavorazioni vengono date tutte fuori, […] qua non sai che padrone hai, chi dirige». «Credo sia proprio chi organizza dall’alto, adesso un padrone non ce l’abbiamo più. […] Una volta la macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della linea, c’è da recuperare, si perde tempo». Infine, tre operai sottolineano la differenza tra le fabbriche dove il “padrone” c’è e BredaMenarinibus, dove esso è, a parer loro, assente: «In altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone». «Nelle fabbriche piccole, dove c’è il padrone c’è più attenzione». «Quello che c’è da fare lo facciamo, a volte devi andare a fare le saldature alla verniciatura, sinceramente se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore proprio, […] si vede la differenza quando c’è il padrone e quando non c’è». Sia la parola “padrone” che la separazione tra un “prima” e un “adesso” rendono intelligibili dei modi di pensare una differenza del “lavoro” in fabbrica rispetto alla situazione presente al momento dell’indagine. Questa distinzione s’articola attraverso delle locuzioni relative al “lavoro” in quanto fattore produttivo oggettivo («se tutti lavorassero, qui, ci sarebbe una gran produzione»;
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«una volta la macchina si finiva in linea, adesso non si finisce mai alla fine della linea, c’è da recuperare, si perde tempo»; «da quando […] non c’è più il padrone effettivo […] lavoro di meno»), o alla cura e all’attenzione rispetto all’efficienza del processo di fabbricazione dei veicoli («un padrone teneva d’occhio»; «dove c’è il padrone c’è più attenzione»; mentre in BredaMenarinibus «sinceramente se ne fregano abbastanza, non è che ci mettano del cuore, […] si vede la differenza quando c’è il padrone e quando non c’è»). Ma il “prima”, che secondo molti giudizi indica il periodo dove c’era il “padrone”, in molti altri enunciati degli operai intervistati si caratterizza anche come il tempo dove vi era più soddisfazione nel lavoro, un’altra forma di soggettività nei suoi confronti: «Una volta eri anche premiato, c’era un “bravo”, il lavoro ti dava soddisfazione»; «Quando c’era Menarini, si lavorava anche alla domenica mattina, era un altro lavoro, si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità però è vero»; «Lavorare con soddisfazione ti gratifica, il lavorare solo perché devi lavorare, adesso, ti annoia, ti distrugge pian piano»; «Era diverso una volta, si veniva con un altro spirito, […] tu venivi a lavorare e sapevi che si lavorava tranquillamente, ora non sai cosa fai»; «Prima avevi tanti lavori da fare e ti passava di più la giornata, adesso ti annoi»; «I soldi van bene ma ci vogliono le motivazioni; […] la gente era più invogliata, avevi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri considerato solo un numero». Dunque, per i nostri interlocutori, rispetto alla situazione attuale dello stabilimento, nella fabbrica del “padrone” c’è una forma di coesistenza di una doppia dimensione del “lavoro”: da un lato, il lavoro come fattore produttivo oggettivo, in un processo di produzione più efficiente e in cui la quantità di lavoro erogata è maggiore; dall’altro lato, il lavoro che dà “soddisfazione”, rispetto a cui vi sono delle “motivazioni”, “uno spirito”, una soggettività all’opera (una soggettività capace anche di annullare la fatica connessa a dei livelli di produzione quantitativamente maggiori: «Si lavorava anche alla domenica mattina. Era un altro lavoro, si lavorava di più ma si era meno stanchi, è un’assurdità, però è vero»). Nei giudizi degli operai, “padrone” è la categoria che costituisce una specifica relazione tra il lavoro come fattore della produzione e il lavoro come termine soggettivo: una relazione dove i più alti livelli quantitativi di utilizzo della forza-lavoro e quella che è considerata una maggiore efficienza nello svolgimento del processo produttivo rinviano anche a una maggiore soddisfazione rispetto al lavoro. Si articola, allora, una sorta di corrispondenza tra questa dimensione soddisfacente, interessante, soggettiva del lavoro, e la sua dimensione di fattore oggettivo della produzione. Tale corrispondenza è posta, nelle parole dei nostri interlocutori, da specifiche relazioni di lavoro in fabbrica. Come abbiamo visto, per alcuni degli intervistati «da quando è passata sotto la Breda, che non c’è più il padrone effettivo, […] non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore»; «In un’altra fabbrica, quando uno si comporta bene ti riconoscono, se vai male ti licenziano; […] se fosse una fabbrica che avesse un padrone andrebbe meglio»; «In
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altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone»; «Chi decide il passaggio di livello non è che ci guadagna; se fosse chi ha interesse, il padrone, allora sceglierebbe chi vale». Un ex saldatore, oggi agli allestimenti, afferma che «la direzione non sa neanche chi siamo, noi qua siamo un numero. Una volta l’operaio era più controllato, non ci si parlava, era più considerato, si parlava dei problemi, adesso non c’è più nessuno». Mentre per altri tre interlocutori, che lavorano alle preparazioni dei pezzi da montare in linea, «prima avevi un riconoscimento, un merito di quello che facevi, una piccola soddisfazione personale: è valido quello che fai… oggi è cambiato tutto»; «Una volta era diverso, eri premiato, se facevi un tipo di lavoro eri premiato, se ti davi da fare, se t’impegnavi c’era un premio…»; «Una volta eri anche premiato, c’era un “bravo”». In questi enunciati, le distinzioni tra BredaMenarinibus e le “altre fabbriche”, e tra il “prima” e l’“adesso”, sono il modo per presentare delle specifiche relazioni tra operai e impresa: relazioni basate sulla “valorizzazione”, sul “riconoscimento” di colui che si “comporta bene”, di colui che “vale”, sull’attribuzione di un “premio” per chi si impegna e di un “valore” al lavoro ben fatto, sulla “considerazione” rispetto all’operaio. È questo tipo di relazioni di lavoro a essere identificato attraverso la parola “padrone”. In termini generali, si può dunque sostenere che il “padrone” è, nel pensiero degli operai BredaMenarinibus, la categoria di una qualificazione della fabbrica come luogo di una forma di corrispondenza tra il lavoro come fattore della produzione del valore, da un lato, e il lavoro come termine d’identificazione della soggettività dell’operaio, dall’altro lato: il lavoro qualificato come “soddisfacente”, “motivante”, interessante ecc. è pensato in questo modo in quanto l’operaio è “riconosciuto”, “valorizzato”, “premiato” (dal “padrone”) come soggetto del lavoro-fattore produttivo. La capacità di produzione dell’operaio si lega, in quanto riconosciuta dal “padrone”, a una forma di soggettivazione del lavoro da parte degli operai. Come afferma molto chiaramente un’operaia, «avevi più soddisfazioni sul campo lavorativo, forse non eri considerato solo un numero, […] perché chi dà è sempre un operaio che lavora, non si deve mettere alla fine ma all’inizio, è lui che dà i risultati, è lui che fa la macchina. Noi abbiamo bisogno del padrone ma lui ha bisogno di noi». Questo enunciato presenta in modo esemplare ciò che abbiamo fin qui sostenuto. In effetti, la dimensione soddisfacente del lavoro – che permette all’operaio di non essere considerato solo un numero e di pensarsi dunque come soggetto –, non dispone una distinzione del lavoro stesso dai “risultati”, dalla produzione quantitativa («avevi più soddisfazioni sul campo lavorativo; […] chi dà è sempre un operaio che lavora […] è lui che dà i risultati»). “Padrone” è quindi la categoria che presenta la prescrizione della centralità del “lavoro” nel processo di produzione del valore economico e, contemporaneamente, della centralità dell’operaio soggetto di questo lavoro. La fabbrica è, per gli operai della BredaMenarinbus, il luogo della “valorizzazione del lavoro”, ove “del lavoro” è contemporaneamente un genitivo soggettivo e
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oggettivo: il lavoro-fattore produttivo valorizza il capitale, ma, a sua volta, il capitale valorizza il lavoro, valorizzando il suo soggetto, l’operaio. Gli operai di questa fabbrica, attraverso questa doppia dimensione della parola “lavoro” (termine che indica un fattore della produzione, ma anche ciò che qualifica la loro soggettività in fabbrica), si pensano come soggetti del valore (economico) insieme al soggetto capitalistico “padrone”, in quanto da esso valorizzati e riconosciuti come figura del lavoro produttivo. Così il “valore” è una parola che transita anch’essa tra il soggettivo e l’oggettivo: il valore è identificabile con la sua produzione (oggettiva) che implica il riconoscimento soggettivo (la “valorizzazione”) dell’operaio come figura di questa produzione («Non c’è più soddisfazione, se hai montato giusto o sbagliato ha poco valore»; «In altre fabbriche ti valorizzano di più, qui non c’è il padrone»; «Se ci fosse chi ha interesse, il padrone, allora sceglierebbe chi vale»; «Prima avevi un riconoscimento, un merito di quello che facevi, una piccola soddisfazione personale: è valido quello che fai; oggi è cambiato tutto»). C’è allora, negli enunciati che abbiamo raccolto, una reciprocità tra la fabbrica del “padrone” e la fabbrica come luogo dove c’è l’operaio: «Quando il padrone non c’è, non c’è nessuno»; «Noi abbiamo bisogno del padrone ma lui ha bisogno di noi». La parola “bisogno”, utilizzata nell’ultimo enunciato citato, è molto significativa. Infatti, a partire da questo giudizio, nella fabbrica del “padrone” la produzione del valore è pensabile come condizionata da un rapporto tra due soggetti, “noi” e il “padrone”, a carattere necessariamente cooperativo: essa è dunque condivisa tra “padrone” e “operai”. La parola “padrone” e il “prima” indicano allora un modo di pensare la fabbrica che presenta delle singolari relazioni di lavoro al suo interno: delle relazioni tra operai e impresa che, secondo i nostri interlocutori, non sono più presenti. La cooperazione tra operai e “padrone” in un processo produttivo pensato come tra loro condiviso in quanto basato sulla “valorizzazione del lavoro”, oggi, in BredaMenarinibus, è per la maggior parte degli operai inoperante, assente. Cercheremo di analizzare come gli operai identificano la situazione presente della fabbrica in termini affermativi, in termini cioè non riducibili semplicemente all’assenza del “padrone”. Ma, prima di procedere in questa direzione, ci soffermeremo su alcuni temi e questioni che una ricerca sugli operai a Bologna può utilmente investigare alla luce dei giudizi fin qui analizzati: ci riferiamo alla nozione di “modello emiliano”. Una nozione che ha caratterizzato per lungo tempo le ricerche socioeconomiche relative a questa regione e al suo sistema industriale. .. Modello emiliano, distretti industriali, sistemi produttivi locali a specializzazione flessibile. Soggettività operaia in un modello di relazioni industriali Questa ricerca ha come obiettivo l’individuazione di alcuni tratti dei modi di pensare degli operai oggi a Bologna, ovvero in quella regione italiana, l’Emilia
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Romagna, che è stata oggetto, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, di molte analisi relative ai suoi specifici caratteri economici e sociali. Dei caratteri che molto spesso hanno fatto di questa regione la rappresentante esemplare, a livello nazionale, di quella realtà produttiva che generalmente è stata (ed è ancora) analizzata attraverso la nozione di “distretto industriale”. È soprattutto durante gli anni Settanta che l’Emilia-Romagna si presenta come “modello” d’amministrazione, a guida comunista, inserita in un tipo di sviluppo industriale singolare, non solamente dal punto di vista economico, ma anche politico. Una singolarità data dalle dimensioni piccole e medio-piccole delle imprese del suo tessuto industriale, dalle capacità competitive di queste imprese e dalla loro stretta integrazione sul territorio. Molti studi hanno isolato sia gli aspetti tecnico-produttivi (l’integrazione territoriale, la specializzazione di più aziende in fasi differenti di uno stesso ciclo che permette una riduzione della scala minima efficiente degli impianti, la flessibilità produttiva all’interno degli stabilimenti), sia quelli economico-sociali e culturali che caratterizzano i sistemi territoriali di produzione a specializzazione flessibile. Ma la questione che qui ci preme sottolineare è il tipo di relazioni industriali e di gestione del mercato del lavoro che ha caratterizzato lo sviluppo delle aree di piccola-media impresa. In effetti, analizzando le ricerche di Barca e Magnani relative all’andamento del sistema industriale italiano negli anni Settanta e Ottanta, si può notare come le imprese piccole e medio-piccole (tra i e i addetti) abbiano, durante questo periodo (gli anni, ricordiamolo, della strutturazione e del consolidamento delle realtà distrettuali italiane), una redditività superiore del capitale investito rispetto alle imprese medie e grandi. Questo risultato è ottenuto nonostante che nelle PMI il capitale investito rispetto al valore aggiunto prodotto sia costantemente inferiore in confronto alle imprese delle altre classi dimensionali e che sia inferiore anche la produttività del lavoro. Tra il e il la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto, indotta dall’incremento dei redditi da lavoro, è sempre maggiore nelle piccole e medio-piccole imprese; nonostante ciò, la quota dei loro profitti è sempre superiore rispetto alle imprese più grandi. I fattori decisivi che garantiscono queste performances sono due: in primo luogo, la dinamica di crescita dei prezzi dei prodotti delle PMI è più intensa rispetto a quella dei prodotti delle aziende delle altre classi dimensionali; secondariamente, i salari dei dipendenti delle aziende piccole e medio-piccole sono sempre inferiori, benché lo scarto tenda a ridursi, rispetto alle retribuzioni dei dipendenti di quelle più grandi. Nel , lo scarto tra la classe composta dalle aziende piccole e medio-piccole rispetto alle altre imprese, per quel che riguarda la produttività, era uguale a –,%; nel a –,%. Avendo come riferimento lo stesso periodo, lo scarto delle retribuzioni era uguale a –,% e a –,%. Secondo Barca e Magnani, nel quadro stabilito dai contratti nazionali di lavoro, la contrattazione aziendale decentrata avrebbe garantito salari significativamente più al
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ti nelle imprese medie e grandi rispetto a quelle piccole e medio-piccole delle realtà distrettuali italiane. Ciò benché si assista a una progressiva riduzione del divario, che induce un maggior incremento del costo del lavoro per unità di prodotto nelle PMI, “scaricato” attraverso le dinamiche più intense di crescita dei prezzi dei beni da esse fabbricati. Per quel che concerne più specificamente il sistema produttivo manifatturiero emiliano-romagnolo, Sebastiano Brusco notava, all’inizio degli anni Ottanta, come la struttura industriale della regione fosse nettamente divisa in due fasce di imprese. Una prima fascia, nella quale vi era una forte presenza dei sindacati, caratterizzata da un sistema di relazioni industriali molto strutturato, che comportava una sorta di cogestione della forza lavoro a natura “cooperativa” tra impresa e sindacato. Questa fascia comprendeva, secondo Brusco, le imprese con più di dipendenti, ovvero all’incirca la metà dei lavoratori impiegati all’epoca nel settore manifatturiero della regione . In queste aziende i livelli salariali erano più alti rispetto al livello minimo fissato dal contratto collettivo nazionale. La seconda fascia era composta da imprese artigiane e da piccole imprese per conto terzi, con dei livelli salariali più bassi e senza alcuna presenza organizzata del sindacato al loro interno. Una zona del mercato del lavoro istituzionalmente molto meno regolamentata. In ogni modo, secondo altri autori, la forte integrazione produttiva del sistema industriale locale ha potuto permettere un intervento indiretto dei sindacati anche rispetto alla galassia delle microimprese distrettuali. Infatti, si è rilevato sin dagli anni Settanta «un complesso sistema di regole» sul territorio, «una rete di relazioni e di accordi, più o meno formalizzati, per la difesa del posto, sulla mobilità e sulle retribuzioni». I sindacati, in relazione alla domanda e offerta d’impiego nel settore manifatturiero, sarebbero stati dunque capaci di cogestire, in una maniera spesso informale, l’intero mercato del lavoro locale nei sistemi industriali a specializzazione flessibile emiliano-romagnoli. Questo a partire dalla loro presenza organizzata nelle imprese maggiori, alla testa dei diversi stabilimenti decentrati della catena di fornitura e subfornitura. Entrambe le letture risultano coerenti rispetto ai dati di Barca e Magnani. I caratteri “cooperativi” delle relazioni industriali avrebbero garantito nelle imprese piccole e medio-piccole una più bassa incidenza della contrattazione aziendale sulle retribuzioni. Del resto, la crescita costantemente superiore dei redditi reali da lavoro, registrata nelle piccole e medio-piccole imprese rispetto alle altre, confermerebbe un processo progressivo di riduzione dello scarto retributivo che può avere coinvolto anche le microimprese del sistema produttivo territoriale. Come Trigilia ha fatto notare per quel che riguarda in generale i sistemi industriali a specializzazione flessibile del Centro-Nord (Emilia e Toscana in particolare) – regioni dove «i tassi di sindacalizzazione sono nelle aree di piccola impresa […] superiori a quelli esistenti nelle grandi imprese» del Nord – i sindacati «non pongono vincoli all’uso flessibile del lavoro – sia
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dentro che tra le aziende – ma ne contrattano il compenso e […] le modalità. In cambio ottengono incrementi spesso sensibili nei salari negoziati localmente che si estendono anche alle aziende più piccole e una situazione di pieno impiego a livello territoriale». In questo quadro, la presenza sindacale (che si struttura nelle fabbriche dopo il biennio delle grandi lotte operaie e sindacali -) e il sistema di relazioni industriali organizzato a livello di aree-sistema risultano decisivi a costituire in “modello” l’azione politico-amministrativa delle istituzioni locali emiliano-romagnole a guida comunista. Infatti, seppure in presenza di una estrema frammentazione del tessuto industriale, il carattere fortemente integrato a livello produttivo di questo stesso tessuto e la strutturazione della presenza sindacale nelle fabbriche dispongono le condizioni per delle forme di gestione istituzionalizzata delle politiche industriali e del mercato del lavoro sull’intero territorio. Si è parlato di regional productivity coalitions per definire le pratiche consensuali di mediazione tra i soggetti economici che hanno caratterizzato negli anni Settanta e Ottanta il potere regionale in Emilia-Romagna. Un ruolo di mediazione che ha costituito questa regione come rappresentante esemplare di un «meccanismo di gestione del territorio come governo della fabbrica integrata», permettendo al “modello emiliano”, e al PCI, di guadagnare un significativo credito politico anche a livello nazionale. In effetti, in questi due decenni, il Partito comunista risulta capace di promuovere un’azione amministrativa che assume dei ruoli molto articolati. Dei ruoli che, «superando i confini strettamente istituzionali, comprendono delle funzioni di controllo, di mediazione degli interessi, di difesa del tessuto economico» (servizi alle imprese, bassi costi delle zone industriali, appoggio al credito soprattutto per le imprese artigiane) e «di negoziazione rispetto all’amministrazione centrale». Queste funzioni, «almeno nelle regioni del “triangolo industriale”, e se non si considerano gli interventi di sostegno alle piccole imprese e all’artigianato, sono state tradizionalmente gestite sotto il controllo della grande impresa». Si può sostenere che in Emilia-Romagna, in un contesto industriale privo di vere grandi imprese, queste funzioni sono al contrario esercitate dal PCI. Il PCI assume infatti il potere sindacale nelle fabbriche del territorio come risorsa per porre in essere, sotto la sua egemonia, una strutturata attività di mediazione istituzionale tra i diversi attori economici locali. Una mediazione, quindi, basata politicamente sulla cogestione del fattore lavoro, organizzata dai sindacati nelle fabbriche e sul territorio e che, in relazione alla domanda e offerta di lavoro nel settore manifatturiero, assume come modello il sistema di relazioni industriali presente nelle fabbriche del nostro paese: un «sistema di protezione del lavoro dai rischi di downsizing “brutale” e unilaterale», che garantisce contemporaneamente alle stesse imprese «una notevole dose di flessibilità funzionale e di elasticità nei compiti e nelle mansioni dei lavoratori e nelle forme dell’organizzazione produttiva». In generale, l’azione delle rappresentanze sindacali nelle industrie italiane ha infatti «reso molto ela
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stico e flessibile […] l’utilizzo della manodopera» a livello tecnico, irrigidendo contemporaneamente le possibilità da parte aziendale di ricorrere a massicce riduzioni del personale. In Emilia-Romagna, questo sistema di relazioni industriali, che di fatto promuove flessibilità nella gestione della manodopera in cambio di garanzie, almeno relative, rispetto alla stabilità occupazionale, si struttura nell’intero mercato del lavoro dei sistemi produttivi di piccola e media impresa. In effetti, uno dei caratteri distintivi dei distretti, connesso alla forte integrazione del tessuto produttivo, è la loro capacità di riassorbire molto rapidamente (almeno fino a oggi) le espulsioni di forza lavoro da parte di altre aziende del sistema industriale locale. Le forme di mobilità verticale e orizzontale dei lavoratori, registrate da alcune ricerche nelle aree di piccola e media impresa, sembrano confermare che all’interno di queste realtà produttive ha funzionato un mercato del lavoro capace d’unire flessibilità e assicurazione dell’impiego a livello territoriale. Tutto ciò può disporre delle forme di cooperazione produttiva dei lavoratori nell’intero sistema industriale locale, riducendone i costi relativi che sono a carico dei profitti delle imprese. In ogni azienda è naturalmente «indispensabile […] un’attitudine cooperativa degli addetti di cui non si può misurare direttamente l’intensità del lavoro, in ragione della sua stessa complessità, e ancora meno assicurarsi che essi abbiano dato il massimo. Questa cooperazione non può che fondarsi su delle incitazioni e delle assicurazioni, le quali esigono l’utilizzo a questo fine di una parte dei profitti». In Emilia-Romagna, il tessuto produttivo integrato sul territorio, la cogestione sindacale della forza lavoro nelle aree-sistema, la mediazione “consensuale” delle istituzioni amministrative locali e regionali tra i diversi soggetti economici del territorio promossa dal PCI, possono avere costituito delle forme istituzionalmente regolate d’assicurazione dei lavoratori per quel che riguarda la stabilità occupazionale nei distretti industriali. Delle assicurazioni dirette e indirette. Quelle indirette basate sull’appoggio delle istituzioni amministrative municipali e regionali alle imprese locali, soprattutto quelle piccole (sostegno al credito, trasferimenti alle aziende tramite servizi alle attività economiche e produttive ecc.); le assicurazioni dirette basate sull’articolazione, da parte dei sindacati, di relazioni industriali fortemente strutturate nelle imprese e sul territorio, incentrate sull’importanza attribuita al fattore lavoro, alla sua utilizzazione flessibile, ma anche al suo “riconoscimento” come figura decisiva per lo sviluppo economico e industriale. Le istituzioni locali (amministrative e sindacali) avrebbero dunque promosso in questa regione delle forme di cooperazione del “lavoro” nell’intero tessuto produttivo manifatturiero del territorio, garantendo, rispetto ad altre realtà industriali, una minore incidenza sui profitti d’impresa dei costi necessari per ottenere tale cooperazione produttiva. Questo ha permesso di coniugare, da un lato, flessibilità produttiva e, come dimostrano Barca e Magnani, salariale (una riduzione del costo del lavoro a carico delle imprese, che deriva esattamente dalla minore spesa per le assicurazio
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ni alla manodopera e per le incentivazioni allo sforzo produttivo spontaneo); e, dall’altro lato, sistemi politici di regolazione della mobilità del lavoro nelle areesistema. Dei sistemi di regolazione capaci dunque di strutturare delle forme di protezione dell’occupazione a livello territoriale, garantendo, contemporaneamente, flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e significative “economie esterne” per le aziende locali. A partire da questa rapida ricostruzione di alcuni caratteri dei sistemi produttivi a specializzazione flessibile in Emilia-Romagna, la relazione tra la parola “padrone” e la parola “lavoro”, presente nelle interviste effettuate alla BredaMenarinibus, può permetterci d’identificare un modo di pensare che ci pare chiarifichi alcuni tratti del “modello emiliano”. Abbiamo affermato che gli enunciati degli operai fin qui analizzati presentano una sorta di corrispondenza tra la dimensione soggettivamente qualificata del lavoro (“soddisfacente”, “motivante” ecc.) e la sua dimensione di fattore della produzione economica: produrre, in quanto attività valorizzata dal “padrone”, comporta anche una forma di soddisfazione soggettiva dell’operaio. La “valorizzazione del lavoro” coincide con lo spazio delle relazioni industriali in fabbrica: delle relazioni dove l’operaio si rappresenta come “figura del lavoro produttivo”. La valorizzazione economica s’articola insieme a una valorizzazione soggettiva che concerne le due figure della produzione (operaio e “padrone”): la produzione è così pensabile come un processo condiviso tra questi due soggetti. Gli operai intervistati identificano dunque una politica che valorizza il lavoro, riconoscendo la sua figura (l’operaio) in quanto soggetto che coopera con l’impresa nel processo di produzione. Ma la cooperazione col “padrone” qualifica nel pensiero dei nostri interlocutori la stessa soggettività dell’operaio: l’operaio si pensa come la figura della cooperazione produttiva, all’interno della fabbrica, col “padrone”. La specificità politico-istituzionale che ha caratterizzato il cosiddetto “modello emiliano” – ovvero una strutturata mediazione tra imprese, sindacati, amministrazioni locali, basata sulla centralità della gestione del fattore lavoro e che estende il modello di relazioni industriali di tipo cooperativo sull’intero territorio dei sistemi produttivi a specializzazione flessibile –, trova in questo modo di pensare una precisa conferma. Possiamo infatti ritenere che la specificità del cosiddetto modello emiliano si basa anche sul rapporto politico tra “padrone” e operaio, che abbiamo identificato a partire dalle parole degli operai intervistati. In questo modo, l’assenza del “padrone” potrebbe essere interpretata come un giudizio degli operai BredaMenarinibus che riflette una situazione più generale: la fine di un modello di produzione industriale fortemente radicato sul territorio, a relativamente bassa intensità di capitale ma con produzioni specializzate e in cui, dunque, l’organizzazione della manodopera, della sua gestione flessibile e della sua cooperazione nel processo produttivo, può essere una condi
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zione per la competitività particolarmente significativa. Le analisi più recenti sui sistemi produttivi locali sottolineano come negli ultimi anni questo modello sia in una fase di radicale trasformazione, nell’epoca del cosiddetto capitalismo globale e reticolare. Ma nella nostra ricerca non abbiamo individuato solo delle forme d’intelligenza di una situazione oggettiva, bensì anche dei modi di pensare capaci di problematizzare questi cambiamenti oggettivi, qualificando il presente (il presente anche di questa situazione) come ambito di differenti possibilità. In effetti, gli operai intervistati non pensano l’oggi semplicemente come il tempo dell’assenza del “padrone”. Gli operai, problematizzando la situazione della BredaMenarinibus, forniscono contemporaneamente una nuova qualificazione della fabbrica. Una qualificazione in cui essa non è più esclusivamente identificata con il luogo dove il processo di produzione è (o non è) soggettivamente condiviso tra operaio e “padrone”. Vediamo ora in dettaglio questa forma di pensiero. .. «Una fabbrica deve essere una fabbrica, se uno vuole lavorare in privato sta fuori, si mette su la sua fabbrica» È un’operaia a identificare il presente della BredaMenarinibus nei termini intellettualmente più chiari. Secondo questa interlocutrice, la fabbrica è «un punto di lavoro che mi permette di vivere», mentre BredaMenarinibus «non è più una fabbrica, è una fabbrica da rifare. È una fabbrica, è sempre una fabbrica dove ci lavoro, però…». L’intervistata afferma ancora che «una fabbrica deve essere una fabbrica, se uno vuole lavorare in privato sta fuori, si mette su la sua fabbrica». In questi enunciati ci si riferisce al processo d’esternalizzazione produttiva che, come abbiamo già ricordato, è stato implementato dall’azienda soprattutto a partire dal . Questo processo ha anche portato all’utilizzo all’interno dello stabilimento di dipendenti di altre imprese o di lavoratori autonomi. Nelle parole di questa operaia, il problema non è tanto l’identità della fabbrica come spazio produttivo i cui confini sono oggi meno limpidi. Al di là di questo aspetto, la questione che qui è messa in luce riguarda la fabbrica come parola che pone una condizione alla dimensione “privata” del lavoro attraverso una forma di sua localizzazione, alla costituzione di “un punto di lavoro”. Procederemo alla formulazione di quattro tesi per identificare ciò che è pensato in questi enunciati. – La questione principale è posta dalla parola “punto”. La locuzione “un punto” indica una forma di identificazione del “lavoro” come una realtà singolare (“un” punto), come “un esserci” localmente specificato. La fabbrica è un luogo di lavoro «che permette di vivere», affermazione che rinvia alla sua dimensione di luogo d’articolazione del lavoro al capitale per mezzo del salario. Ma la fabbrica fa anche “un punto” del lavoro come fattore oggettivo dello scambio tra tempo (di lavoro) e salario proprio alla produzione capitalistica
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del valore. “Fabbrica”, allora, è la categoria che permette di costituire nel pensiero il “lavoro” come una realtà locale e specifica: “fabbrica” è la parola per prescrivere una specificazione locale del lavoro. Questa dimensione prescrittiva della parola “fabbrica”, che la costituisce come categoria per pensare la parola “lavoro”, è attestata dal carattere possibile, non necessario, non oggettivo di questa stessa dimensione. Infatti, la fabbrica che fa “un punto” del lavoro, che lo singolarizza localmente, può esserci o no, è una possibilità: BredaMenarinibus «non è più una fabbrica», nonostante che «è sempre una fabbrica dove lavoro». La fabbrica non è solamente una realtà industriale ed economica, uno spazio di lavoro, un luogo che «permette di vivere». Essa è un luogo prescrittivo: «una fabbrica deve essere una fabbrica». – La locuzione “lavorare in privato” inscrive il lavoro in una dimensione di scambio, contrattuale: questa locuzione rinvia al lavoro come fattore produttivo nel mercato, ovvero al “lavoro-merce”. Secondo questa interlocutrice, il lavoro, in quanto fattore scambiato nel mercato, può essere sotto condizione di un campo di possibilità: le possibilità poste della sua costituzione in “un punto” prescritta attraverso la categoria di “fabbrica”. “Fabbrica” è la categoria che presenta un modo di pensare il lavoro come realtà singolare e “puntuale” (il “punto di lavoro”) e, contemporaneamente, la separazione tra questa operaia e chi «vuole lavorare in privato» senza restare fuori dalla fabbrica. Così, grazie alla fabbrica, ciò che può contare del lavoro non è il suo essere merce, ma il suo costituirsi come questione di chi in fabbrica ci sta dentro, di una soggettività che fa della fabbrica il luogo di questa specificazione locale del lavoro a carattere prescrittivo. – Se BredaMenarinibus non è più una fabbrica, ciò dipende dalla «volontà» di «lavorare in privato» senza «mettere su» una fabbrica, da una volontà che non permette di fare “un punto” del lavoro. L’inesistenza della fabbrica dipende dunque da un “volere” rispetto alla fabbrica, da prescrizioni ad essa relative che la destituiscono come «un punto di lavoro». – L’identificazione “puntuale”, fare “un punto” del lavoro: la fabbrica può essere ciò che costituisce il “lavoro” in un “esserci” singolare. Il “lavoro” è dunque sotto condizione del possibile (il possibile di questa sua localizzazione) designato dalla categoria di “fabbrica”. Ma la “fabbrica” come luogo che fa “un punto” del “lavoro” è la prescrizione di un modo di pensarla che si confronta con una prescrizione opposta. Ovvero, quella che destituisce la fabbrica come luogo di questa stessa identificazione del lavoro come una realtà “puntuale”. “Fabbrica” è allora la categoria di differenti prescrizioni che la costituiscono o meno come luogo “puntuale” del lavoro. Se la fabbrica è la condizione che può permettere di costituire il lavoro in una realtà locale e singolare non riducibile solo a un fattore produttivo scambiato nel mercato, e ciò presentando contemporaneamente un conflitto di prescrizioni relativo a questa stessa possibilità, allora la fabbrica è pensabile come il luogo di condizioni prescrittive e politiche del lavoro.
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Possiamo ora leggere gli ultimi enunciati citati come dei giudizi sulla situazione presente della BredaMenarinibus, in particolare rispetto alla politica di decentramento ed esternalizzazione produttive adottata dall’impresa. La situazione dello stabilimento è oggi, per questa interlocutrice, la sua destituzione come “un punto di lavoro”. Esiste cioè una politica rispetto alla fabbrica che rende impossibile alla BredaMenarinbus di essere un luogo in grado di fare del lavoro una realtà localmente specificata, non riducibile solo a lavoro-merce. .. La politica di decentramento: «la fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal piedistallo e parlare con gli operai» Molti altri operai intervistati danno un giudizio sulla politica aziendale di decentramento produttivo adottata in BredaMenarinibus. Un operaio della linea sostiene che «non funziona niente, non è un’azienda che può competere; […] danno lavori fuori mentre mettono gli operai in cassa integrazione; […] non riusciamo, noi tutti, a capire la strategia dell’azienda, ma non sanno loro cosa fare della fabbrica… non c’è una strategia industriale, né politica». Stessa questione quella sottolineata da un altro interlocutore: «È la completa disorganizzazione, […] arrivano gli esterni, non c’è una rivalità, fortunatamente, è un operaio come noi, ma questa azienda si è indebolita a livello strutturale». Un operaio che lavora alle preparazioni afferma: «se uno deve vivere alla giornata, la fabbrica, allora, va bene. Ma se uno vuol star bene, migliorare, la fabbrica non c’è più, vai via dalla fabbrica»; mentre per un altro intervistato «non si capisce cosa vogliono fare, cosa vogliono fare di questa fabbrica, […] la gente se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, […] stanno distruggendo la fabbrica»; e in un passaggio successivo dell’intervista rimarca: «Si vive in un clima di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giornata». Un giovane operaio usa queste parole per dire cosa pensa dello stato attuale della BredaMenarinibus: «La fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal piedistallo e parlare con gli operai»; mentre per un’operaia «non c’è lavoro per noi, perché gli esterni devono venire qui? […] Non riesco a capire e non voglio neanche capire perché non lo ritengo giusto». Secondo altri tre interlocutori «la fabbrica doveva essere un posto dove uno andava a dare il meglio di se stesso, […] invece trovi la fabbrica che è un vuoto, vuoto di tutto, […] manca una cucitura, quello che ti mette insieme»; «Penso che l’organizzazione sia l’anima di tutto, se non c’è organizzazione non si lavora, […] qui dentro non c’è, non esiste più»; «Pensano sicuramente qualcosa, non so cosa, perché lavorare in questo modo è privo di senso». L’ipotesi di lettura di questi giudizi che noi proponiamo, alla luce della tesi che BredaMenarinibus “deve essere una fabbrica”, e cioè ciò che fa “un punto” del lavoro, è la seguente: per i nostri interlocutori bisogna che ci sia una relazione diversa tra impresa e “fabbrica” che permetta di chiarire quali sono le
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condizioni di lavoro possibili per gli operai. Questo perché, come dice l’ultimo intervistato citato, oggi il modo in cui loro ci lavorano è considerato “privo di senso”. Rispetto ai giudizi che abbiamo analizzato all’inizio di questo testo, si può affermare che, attraverso questo modo di pensare la parola “fabbrica”, gli intervistati presentano la situazione attuale del loro stabilimento in una forma che non è riducibile esclusivamente all’assenza del “padrone”. La fabbrica, infatti, non è, secondo gli operai, il luogo certo della presenza o dell’assenza di una politica di valorizzazione del lavoro: la politica del “padrone”. La fabbrica è ora un luogo non più certo («non si capisce cosa vogliono fare di questa fabbrica, si vive in un clima di incertezza, […] sembra sempre di vivere alla giornata»), un termine che rende esplicite delle scelte: quelle che la fanno esistere o no come luogo di possibilità per gli operai, di possibilità per chi in fabbrica ci sta dentro e ci lavora. La questione oggi non è, allora, solo la presenza o l’assenza del “padrone” ma, piuttosto e soprattutto, quali scelte relative alla “fabbrica” sono attualmente all’opera in BredaMenarinibus. Come abbiamo già notato, voler lavorare “in privato” dentro la fabbrica, rende impossibile fare “un punto” del lavoro, l’iscrizione di questa parola in una problematica relativa alla sua possibile specificazione locale, che dispone delle condizioni al lavoro non riducibili a quelle di mercato (che dispone cioè delle condizioni prescrittive e politiche al lavoro). In questo modo «si vive giorno per giorno», «si vive in un clima d’incertezza», «è la completa disorganizzazione». Il decentramento produttivo è allora considerato negativamente soprattutto perché, secondo gli operai, è solo l’effetto di una politica che destituisce la fabbrica come luogo in grado di porre e “organizzare” delle condizioni singolari al lavoro («è la completa disorganizzazione»; «Se non c’è organizzazione non si lavora; […] qui dentro non c’è, non esiste più»; «Non funziona niente, […] danno lavori fuori mentre mettono gli operai in cassa; […] non c’è una strategia […] politica»). Che ritenere di tutto questo? Secondo noi gli operai dicono in fondo una cosa semplice: la fabbrica senza il “padrone” non è una fabbrica senza una politica; piuttosto, è la politica che la riguarda a rendere la fabbrica impensabile come luogo in grado di porre delle condizioni del lavoro non riducibili solo a quelle stabilite dal mercato. BredaMenarinibus «è una fabbrica da rifare» perché questa politica non è tanto volta a costituire l’azienda come un attore sul mercato che mette in campo delle “strategie” per essere più competitivo («non c’è una strategia industriale, né politica»), ma piuttosto subordina semplicemente la fabbrica al mercato, disponendola come una merce in cerca di acquirente (come già detto l’azienda è in vendita), disponendo così come semplice merce anche il lavoro che in essa e grazie ad essa esiste. Per gli operai occorre dunque decidere cosa si vuole fare della fabbrica, in attesa della sua possibile acquisizione, perché «una fabbrica deve essere una fabbrica», anche se è sul mercato, anche se è in vendita. In questo modo, il lavoro che essi svolgono può essere pensato come sottoposto a delle specifiche condizioni: quelle della loro
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fabbrica; quelle decise e “organizzate” a partire da un ambito di scelte, da una politica che ha una “strategia” rispetto a questo luogo. Siamo tornati nell’azienda due anni dopo lo svolgimento di queste interviste, nell’estate del . Ciò che era accaduto in questi due anni ci è parso mettere in luce e confermare proprio le questioni poste dagli operai. La direzione, opponendosi alle proposte avanzate per un certo periodo dalla proprietà, ha deciso di mantenere una produzione di autobus a gamma larga, in grado di conservare anche in prospettiva le attuali posizioni di mercato dell’azienda, che resta comunque la seconda produttrice nazionale di bus. Pur mantenendo una gamma larga, si è deciso di concentrare la produzione verso modelli complementari rispetto a quelli fabbricati da possibili acquirenti. Inoltre, adottata la cassa integrazione guadagni nel corso del e , l’azienda ha avviato un processo di parziale reinternalizzazione di certe funzioni produttive prima decentrate, che ha garantito, insieme a un migliore andamento complessivo del mercato, il progressivo rientro dei dipendenti cassaintegrati, eccezion fatta per i lavoratori che hanno lasciato l’azienda (circa ). In questi due anni si è infatti avviato un piano di stimolazione delle dimissioni individuali volontarie. Ci pare che l’azienda abbia assunto, attraverso una strategia industriale più chiara e un programma d’incentivazione delle dimissioni individuali volontarie, proprio la questione, emersa durante l’indagine, della fabbrica come luogo di condizioni prescrittive del lavoro (in questo caso anche di condizioni prescrittive della fine di un lavoro), in quanto luogo di scelte politiche relative alla fabbrica stessa. Ma, a partire dagli enunciati che abbiamo raccolto durante l’inchiesta, ci sembra che resti aperta una questione importante. La proprietà (Finmeccanica) ha scelto e dichiarato cosa vuol fare della fabbrica (venderla), ma non è riuscita a farlo: la dichiarazione di messa in vendita non è stata sufficiente per vendere lo stabilimento. Questo evidentemente significa che, se Finmeccanica vuole vendere lo stabilimento, deve prima di tutto cambiare strategia rispetto alla fabbrica. È questo quello che oggi decide dei destini della fabbrica (anche della sua vendita), non la sua messa in vendita. Anche per venderla «una fabbrica deve essere una fabbrica». La direzione aziendale ci sembra che abbia di fatto assunto questa prospettiva, articolando una strategia imprenditoriale, una politica rispetto alla “fabbrica”, più chiara. Tuttavia, il piano di stimolazione delle dimissioni individuali volontarie è stato attuato durante il periodo di cassa integrazione. Come abbiamo visto, secondo gli operai, per porre delle condizioni prescrittive al lavoro o alla sua fine, occorre chiarire quali scelte relative alla fabbrica sono oggi in corso in BredaMenarinibus («non si capisce cosa vogliono fare di questa fabbrica; […] la gente se ne va, anche i dirigenti… non hanno spazio, […] stanno distruggendo la fabbrica»). Decidere a quali condizioni andarsene dall’azienda è una questione che riguarda le possibilità degli operai rispetto alle scelte politiche in at
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to relative allo stabilimento: si tratta dunque di una decisione che riguarda l’operaio in fabbrica, non il cassaintegrato fuori dalla fabbrica. Come dice un interlocutore, «la fabbrica dovrebbe muoversi in un altro modo, scendere dal piedistallo e parlare con gli operai». Un piano di riduzione del personale su base volontaria non doveva dunque concernere individualmente i cassaintegrati fuori dalla fabbrica, ma essere discusso con gli operai alla BredaMenarinibus. Riconoscere questo significa proprio riconoscere una delle questioni più importanti che secondo noi gli operai intervistati formulano: la dimensione politica di certe condizioni del lavoro che la fabbrica come luogo soggettivo, come luogo della gente che ci sta dentro e non solo come spazio della produzione, può permettere di porre e organizzare. In conclusione, ci sembra che almeno una precisa indicazione problematica possa desumersi dalla nostra ricerca, tirando le somme di quanto detto fin qui: che sarebbe stato politicamente auspicabile che chi “governava” la fabbrica (la direzione aziendale, ma anche, a loro modo, i sindacati) avessero organizzato un lavoro d’inchiesta volto a identificare, a partire dai pensieri degli operai, delle inedite modalità per affrontare le questioni relative alle condizioni di lavoro possibili nella profonda crisi che ha attraversato l’azienda. Ci sembra cioè che sarebbe stato possibile e utile assumere gli operai in fabbrica come soggetti in grado di fornire importanti indicazioni su come affrontare il problema delle condizioni di lavoro, e anche della fine di un lavoro, durante questa crisi. Ad esempio: decentramento produttivo ed esternalizzazioni, o, piuttosto, forme di lavoro più flessibili anche contrattualmente (e se sì, quali e come), ma comunque riguardanti i dipendenti BredaMenarinibus all’interno dell’azienda? Cassa integrazione (per chi? A rotazione?) o disponibilità di una parte degli operai a lasciare l’azienda a certe (quali) condizioni? Rigidità salariale o disponibilità a forme di legame delle retribuzioni all’andamento dell’azienda? Se sì, a quali condizioni? Solo per gli operai o anche per quadri e dirigenti? Il tutto, e questa pare una condizione preliminare ineludibile che gli operai pongono, a partire dall’esplicitazione dei problemi economico-produttivi dell’impresa e delle strategie in corso da parte aziendale per farvi fronte e competere sul mercato. Questo lavoro d’indagine sarebbe stato una vera e propria politica rispetto alla fabbrica, per quanto minimale, in grado di assumere le indicazioni da me raccolte tra gli operai: facendo «scendere dal piedistallo e parlare con gli operai» la fabbrica, facendo cioè della fabbrica non un luogo distante, estraneo, al di sopra degli operai, ma un luogo d’incontro tra esigenze economico-produttive e le questioni sociali poste da chi ci lavora. Una politica capace forse di farne seguire altre: sulla base delle nuove indicazioni degli operai che da tale inchiesta sarebbero potute venire fuori. Una politica che, seppure in forme diverse, potrebbe essere attuata anche oggi, in un quadro meno drammatico, ma ancora caratterizzato da una situazione di profonda e preoccupante incertezza riguardo al futuro dello stabilimento.
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.. Dalla fabbrica del “padrone” alla fabbrica che “deve essere un punto di lavoro”: la fabbrica luogo di condizioni prescrittive del lavoro Gli operai della BredaMenarinibus, se pur lamentano l’assenza del “padrone”, non si limitano a pensare questo. Essi pensano anche qualcos’altro: pensano che nella loro fabbrica si possa e si debba decidere di molte cose essenziali. Anzitutto del destino stesso della fabbrica, la quale non è più identificabile semplicemente come luogo di lavoro. Il lavoro, in altri termini, non basta più a qualificare cos’è una fabbrica. Al contrario, è quel che viene deciso quanto al destino della fabbrica che qualifica il lavoro, che lo valorizza o meno, che ne può decidere alcune delle condizioni essenziali. Impediti dalla situazione dello stabilimento a confidare su dati oggettivamente certi, gli operai, rispetto a termini come “fabbrica” e “lavoro”, rovesciano la prospettiva abituale con cui tali termini si pensano, e ne fanno delle questioni di tipo politico e soggettivo. Gli operai non si pensano più come soggetti della produzione e non pensano più la fabbrica come luogo, prima di tutto, della relazione tra la figura soggettiva del capitale (il padrone) e quella del lavoro produttivo (l’operaio). Per i nostri interlocutori, l’operaio, al di là di essere una soggettività al lavoro, è colui che è in fabbrica. Essere operaio è per loro esserlo in fabbrica, pensarsi quindi come soggetti attraverso questa categoria che identifica uno spazio di decisioni e non solo uno spazio della produzione. I modi di pensare e prescrivere la fabbrica, in quanto categoria di diverse politiche, fanno del lavoro stesso un ambito di scelte e di possibilità, prima di tutto per chi in fabbrica ci lavora. Rispetto alla situazione dello stabilimento, questo modo di pensare pone delle specifiche questioni, come abbiamo visto nel precedente paragrafo. Possiamo aggiungere qualche considerazione su cosa si può pensare, a partire da queste riflessioni, rispetto al “modello emiliano”. In un volantino distribuito il febbraio , durante le agitazioni che hanno coinvolto lo stabilimento, dopo la decisione di mettere in cassa integrazione straordinaria la metà del personale dell’azienda, le rappresentanze sindacali della BredaMenarinibus affermavano: «Finmeccanica non vuole fare scelte imprenditoriali e industriali. […] Preferisce guardare alla finanza. […] Questa situazione parla anche alla politica e alle istituzioni. […] Significa fare scelte amministrative e di governo che spingano e costringano le imprese a innovare per coniugare ambiente, vita e lavoro. Non farlo significa farsi trascinare dai grandi poteri economici e trasformare l’interesse delle imprese in interesse generale. […] La nostra lotta, difendendo il lavoro, propone una nuova qualità sociale della nostra città». Abbiamo citato questo volantino perché ci pare evocare in maniera esemplare un modo di pensare da “modello emiliano”, da fabbrica del “padrone”. Un modo di pensare in cui istituzioni, impresa, sindacato, amministrazioni pubbliche, cogestiscono lo sviluppo locale attraverso un sistema di mediazioni basato
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sulla centralità attribuita alla produzione e al lavoro. Oggi le questioni poste dai nostri interlocutori ci sembrano diverse e non riducibili a questo modo di pensare. Il “padrone” che valorizza il lavoro riconoscendo la sua figura, l’operaio, non ha il problema di fare una politica rispetto alla fabbrica, perché la fabbrica è un luogo certo della produzione di valore (e di profitto). Oggi la fabbrica è un luogo incerto. Ma se la fabbrica è oggi un luogo incerto anche nella sua oggettiva identità di sito produttivo, ciò significa pure che essa è pensabile come luogo di scelte sempre più decisive e significative. Significative e decisive prima di tutto per chi ci sta, dentro le fabbriche, per chi nelle fabbriche ci lavora. Dunque, l’incertezza della fabbrica segnala anche uno spazio aperto di possibilità da decidere. Da decidere sottoponendo il lavoro a delle condizioni prescrittive e politiche. È proprio questa visione della fabbrica come una risorsa per la politica che gli operai BredaMenarinibus, nell’esaurirsi del “modello emiliano”, ci restituiscono come questione aperta, come questione della contemporaneità. Una questione in grado di sottoporre il lavoro, nel tempo del capitalismo globale e reticolare, a un ambito di possibilità, a delle nuove condizioni locali diverse da quelle “localistiche”, secondo la definizione di Trigilia, proprie del modello istituzionale di relazioni industriali di tipo cooperativo che ha lungamente caratterizzato questa regione. I giudizi degli operai BredaMenarinibus ci indicano dunque una pista: la fabbrica come una risorsa per ripensare e riorganizzare il rapporto politico tra economia e società. Una riarticolazione che gli attuali processi di globalizzazione e riduzione del ruolo di mediazione esercitato dallo stato sociale rendono ineludibili. La fabbrica, allora, come luogo per organizzare in modo inedito questa relazione tra questioni economico-produttive e la realtà sociale di chi lavora. Gli operai promuovono impresa e direzione aziendale a figure di tale riorganizzazione, in quanto soggetti di politiche rispetto a questo luogo: una più precisa assunzione di questa dimensione politica del dire e dell’agire aziendale ci pare una tra le indicazioni che gli operai BredaMenarinibus formulano. Conoscere cosa dicono e pensano gli operai può dunque permettere di fare della fabbrica, di chi ci sta dentro e di chi la governa, la categoria e i soggetti per inventare nuove politiche del lavoro, nell’esaurirsi di quel complesso sistema istituzionale di gestione del mercato del lavoro che è stato il “modello emiliano”. L’inchiesta alla BT Cesab .. «Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene»: la qualità come qualificazione soggettiva del lavoro Nelle interviste condotte presso l’industria BT Cesab, uno dei temi più importanti per gli operai è stato quello relativo a ciò che chiameremo la questio
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ne della qualità del lavoro. Questo tema si dispiega attraverso la riflessione su due fenomeni che oggi caratterizzano, secondo i nostri interlocutori, lo stabilimento e il lavoro che in esso si svolge: da un lato, la presenza massiccia di operai recentemente assunti; dall’altro lato, un processo di mutamento del lavoro che comporta una forte riduzione delle funzioni d’aggiustaggio sui pezzi difettosi da montare. Per quanto riguarda la prima questione, secondo sei degli interlocutori incontrati ( giovani e con una più lunga esperienza in altre aziende), la scarsa presenza di operai con una significativa anzianità è sintomatica di un cambiamento della fabbrica: «Cesab non è una fabbrica che ha una gran cultura. Quello più anziano dentro al nostro reparto ha anni di anzianità. Si riflette nel modo di lavorare […] nel senso che comunque non ti devi chiedere il perché delle cose ma le devi fare»; «Adesso sono tutti giovani, hai più da imparare, adesso; se non c’è l’azienda che fa i corsi non puoi imparare. Gli anziani ti tenevano più lì, parlavano più di lavoro»; «Io penso che prima si lavorava con più perizia. Adesso è tutto reso in modo superficiale. […] È raro sapere quello che si fa»; «Una volta sapevano lavorare meglio, adesso, appena arrivi, il capo officina ti affianca un ragazzo che magari è lì da due settimane»; «La generazione che è andata in pensione […] ne sapeva anche di più dal punto di vista tecnico, per l’esperienza. Vi è una cultura puramente teorica, che è basata sul calcolo, che poi alla fine lascia l’industrializzazione a qualcun altro: l’industrializzazione che era legata al piccolo sbuzzo tecnico era più legata all’altra generazione»; «C’era più voglia di migliorarsi. Adesso mi sembra che ci sia più un atteggiamento di lasciar perdere le cose, non di migliorare». Il fenomeno della ridotta anzianità è connesso, in questi giudizi, a una riflessione sulla modalità di lavorare oggi in Cesab. Questa riflessione si presenta attraverso dei termini che indicano delle capacità soggettive e intellettuali degli operai rispetto al lavoro: “cultura”, “sapere”, “imparare”, “atteggiamento”, “sbuzzo”. Se oggi c’è, secondo i giudizi riportati, una riduzione in Cesab del sapere e della cultura dell’operaio rispetto al lavoro, in molti altri enunciati è comunque reperibile un modo di pensare che presenta una relazione singolare degli operai con il loro lavoro, attraverso l’uso di termini qualitativi a esso relativi. Un intervistato che lavora alla linea dei carrelli elettrici sostiene che «c’è da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo le modifiche, stringendo meglio tubi, bulloni»; mentre un altro interlocutore afferma che «se voglio andare avanti occorre che il lavoro sia fatto bene». Per un addetto alla produzione dei carrelli diesel, «noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene». Giudizio diverso, ma che convoca comunque una dimensione qualitativa del fare dell’operaio, quello di un altro interlocutore secondo cui «la fabbrica è un posto dove devi cercare di dare il tuo meglio per far andare avanti l’azienda, devi cercare di fare il tuo lavoro come si deve». Altri tre intervistati presentano questo tipo di problematica: «Io so che lavoro qua, cerco di fare il lavoro il meglio pos
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sibile»; «Per ogni lavoro ci sono delle responsabilità, le cose sono da fare e le devi fare bene, punto e basta. Non sono negligente, quello che devo fare provo a farlo il meglio che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che sta facendo»; «Adesso il lavoro mi sta interessando, adesso che il lavoro vedo che mi riesce bene […] lo trovo interessante». In questi giudizi le parole “lavoro” e “lavorare” sono poste in relazione con il tema della loro “qualità”. “Fare bene il lavoro”, fare il lavoro “il meglio possibile”, “lavorare bene” sono delle possibilità convocate da un rapporto col lavoro che si presenta attraverso le parole “imparare”, “provare”, “riuscire”, avere “soddisfazione”, o tramite delle locuzioni come “cercare di fare”, “se voglio […] bisogna”. In questo modo, i termini qualitativi utilizzati in questi enunciati sono pensati come l’effetto d’una attività possibile, di capacità, di tentativi, di scelte, di prescrizioni autonome. In un senso “oggettivo” lavorare bene è lavorare senza fare errori: «se il mio lavoro non è fatto bene c’è il rischio che magari il lavoratore che fa il lavoro dopo il mio non si accorge del mio errore»; «La responsabilità è che mi danno da fare un carrello, deve andare bene, che non crei pericoli a chi lo userà, c’è il collaudo, ma anche loro potrebbero sbagliare». Ma la qualità del lavoro ha anche una dimensione totalmente soggettiva e non necessaria: «Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene»; «Quello che devo fare provo a farlo il meglio che posso, poi credo che stia in ognuno di noi interpretare quello che sta facendo»; «C’è da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo le modifiche, stringendo meglio tubi, bulloni». Secondo questi operai, la qualità non è dunque data dai contenuti cognitivi e professionali “oggettivi” delle mansioni da svolgere, ma è l’effetto di una attività, di una operazione soggettiva: esattamente e letteralmente di una “qualificazione” del lavoro. Questa attività è presentata attraverso una separazione tra “lavorare bene” e “quello che ci è chiesto”: quello che non è aggettivato si configura semplicemente come attività oggettiva, come “quello che devo fare”, come necessità. Non si tratta solamente di “stringere tubi, bulloni”, ma d’imparare, lavorando, “usando le mani”, a stringerli “meglio”. Dunque, è il pensiero di questa qualificazione del “lavoro” a costituire questa parola come termine in rapporto alla soggettività dell’operaio. Ciò, attraverso un’operazione che differenzia il lavoro da “quello che è chiesto”, dall’oggettività di ciò che si “deve fare”. Tutto questo ci permette di perlustrare cosa effettivamente sia, ovvero come possa essere pensabile, la “qualità” del lavoro. Come ha affermato Yves Schwartz a questo proposito, «il processo di produzione non è un processo lineare, integralmente descritto quando sono descritte le sue condizioni materiali. […] Ora, da dove viene la qualità? È la stessa questione che oggi si pongono i dirigenti d’azienda quando creano dei circoli di qualità». Noi possiamo affermare in prima battuta che la “qualità” viene, per i nostri interlocutori, da un’operazione di qualificazione del lavoro soggettiva e prescrittiva. La
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qualità è l’effetto di un intervento autonomo dell’operaio sul lavoro “oggettivo” da svolgere. Questa questione risulta evidente affrontando anche un altro tema posto dagli intervistati: quello dell’aggiustaggio. .. L’aggiustaggio: una problematica singolare Un operaio addetto alla linea dei carrelli elettrici afferma che «una volta c’era una cultura dell’operaio; dicevano, anche gli anziani qua, che un operaio era tenuto in considerazione. Adesso, con questa storia della catena di montaggio sei quasi un robot; una volta invece, che dovevi fare aggiustaggio […] eri più qualificato. Stringere viti sono buoni tutti, il come stringi è un altro paio di maniche: forse è anche per questo che non fanno formazione. Vedendoli come robot è uno in più, non è che deve sapere a cosa serve quel pezzo». È lo stesso operaio a sottolineare nuovamente, in un altro passaggio dell’intervista, questo problema: «Qui facevano molto aggiustaggio, sego qui, asolo là, adesso non è più possibile. Quando sono entrato io si facevano . carrelli, adesso .. […] Non si possono permettere di stare lì ad asolare». Un interlocutore che lavora alle postazioni per l’assemblaggio dei carrelli diesel sostiene: «Il montatore interveniva sul pezzo che non andava bene, adesso si dà la precedenza alla produzione e queste cose non si fanno più, è cambiato il sistema di lavorare, adesso siamo degli assemblatori e basta, mentre prima, se c’era qualcosa che non andava bene, si interveniva; […] prima si agiva di più, adesso i pezzi che non vanno bene sono rispediti al fornitore». Giudizio simile quello di un ex collaudatore: «Al collaudo allora […] si interveniva abbastanza anche sulla meccanica; […] c’era da cambiare un pezzo e lo cambiavi tu, adesso va all’addetto, tu lo collaudi solo per le tarature, i tempi di traslazione, non si fanno le riparazioni». Un operaio della linea dei carrelli elettrici sostiene che «Cesab alla fine sta diventando un’azienda che monta le macchine, adesso sembra la FIAT». Mentre, per un altro interlocutore, «adesso tutto è puntato sul numero, più che sulla qualità». Lo stesso operaio spiega così questa affermazione: «Hanno eliminato la creatività. […] Secondo me, come figura di operaio, è quella artigianale; […] forse è ancora possibile questo tipo di lavoro operaio quando viene fatto il lavoro ad isole, in cui vi è ancora una grossa personalizzazione, e quello ti può dare soddisfazione. […] Purtroppo sta peggiorando: […] si riduce il concetto di operaio che produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei proprio, non è un operaio, non si è operai». Bisogna notare che secondo altri interlocutori la dimensione dell’aggiustaggio è, al contrario, presente in Cesab e connota positivamente il lavoro in fabbrica: «Dei grossi tempi di produzione non ce ne sono […] c’è molto da aggiustare, da sistemare […] c’è chi fa prima una cosa, chi la fa dopo, c’è una certa libertà d’interpretazione del lavoro»; «Mi piace quello che sto facendo perché cambi sempre, fai anche dell’aggiustaggio»; «Dov’ero prima, anche qua faccio sempre
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lo stesso lavoro, ma vedo non proprio un lavoro solo di produzione, vedo molto anche un lavoro di aggiustaggio». Dobbiamo sottolineare una distinzione decisiva tra la parola “aggiustaggio” e la parola “produzione”. Nei giudizi che abbiamo riportato è il “lavoro d’aggiustaggio” l’ambito della soggettività degli operai rispetto al lavoro in fabbrica. Questo ambito soggettivo è distinto dal “lavoro di produzione” ed è pensato coincidere con la “qualità” rispetto al “numero”, alla “quantità”. In questi enunciati l’operaio si pensa distinguendo la propria soggettività dalla “produzione”. L’operaio produce, ma la sua soggettività non dipende in alcun modo dalla produzione: «Hanno eliminato la creatività: […] si riduce il concetto di operaio che produce. O diventi un puro esecutore di una catena di montaggio, sei proprio, non è un operaio, non si è operai». Qui è evidente che il “concetto d’operaio”, benché l’operaio sia un soggetto che “produce”, non dipende dalla produzione, ma dall’intervento autonomo di questo soggetto rispetto al lavoro da svolgere, dalla sua “creatività”. In generale, gli operai pensano che questo ambito distinto dalla produzione si sta riducendo nel sistema d’organizzazione del lavoro adottato in Cesab. Un sistema che, secondo i nostri interlocutori, tende a privilegiare il “lavoro di produzione”, il “numero”, la quantità rispetto all’“aggiustaggio” e alla “qualità”. È questa riduzione a disporre una riflessione sull’attività di lavoro in Cesab che chiarisce intellettualmente la separazione posta, tramite il tema della qualità, tra la soggettività degli operai e quello che si “deve fare”, e ciò che “è chiesto”, il “lavoro di produzione”. Vediamo ora di identificare questo modo di pensare, analizzando con più precisione che cosa può essere, secondo gli operai, la “qualità” del lavoro oggi in Cesab, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio. .. «La fabbrica è iniziativa»: la subordinazione del “posto” al “dire” dell’operaio come prescrizione rispetto alla fabbrica Uno dei giudizi ai nostri occhi più interessanti tra quelli raccolti alla Cesab è il seguente: «La fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere il posto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data all’operaio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; all’operaio non viene data la possibilità di farlo». Abbiamo visto che la soggettività rispetto al lavoro è pensata dagli intervistati come attività che “qualifica” questo termine. Tale “qualificazione” si presenta attraverso una distinzione dell’operaio dal “lavoro di produzione” che svolge. Ora, grazie all’ultimo enunciato citato, possiamo sostenere che questo campo di scelte per gli operai s’articola per mezzo di una specifica modalità di pensare la fabbrica. In questo giudizio a far questione sono le possibilità di “dire” che l’operaio ha oggi. Possibilità che dovrebbero permettere di rendere il
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lavoro un’estensione di se stessi, di rendere il “lavoro” l’effetto di una soggettività, quella dell’operaio, capace d’annullare l’“oggettività” del lavoro designata dal termine “posto” (e dalla paura di perderlo in quanto lavoro salariato). Questo pensiero s’articola formulando una prescrizione relativa alla fabbrica che la configura come un luogo del tutto singolare: «La fabbrica è iniziativa». Del resto, in molti altri frammenti citati, gli operai formulano dei giudizi rispetto all’attuale riduzione della creatività e delle loro possibilità soggettive rispetto ai modi di lavorare in fabbrica. Per comprendere questa forma d’identificazione della fabbrica e dell’operaio è necessario approfondire ulteriormente la riflessione relativa alla parola “lavoro” che presentano i nostri interlocutori. Per isolare tale questione è utile ricordare una tradizionale ambivalenza del lavoro sottolineata a suo tempo da Marx. C’è sempre nel processo produttivo una bilateralità “oggettiva”, un carattere doppio del lavoro: la creazione di neovalore e la trasformazione e conservazione del valore dei mezzi di lavoro nel processo di valorizzazione. Come afferma Marx, «con l’aggiunta semplicemente quantitativa di lavoro si aggiunge nuovo valore, con la qualità del lavoro aggiunto vengono conservati nel prodotto i vecchi valori dei mezzi di produzione».Vale a dire che lo stesso lavoro nel processo di produzione è leggibile da due punti di vista: da una parte, la quantità di questo lavoro, misurabile in “tempo” di lavoro, produce del neovalore producendo dei nuovi prodotti; dall’altra parte, e allo stesso tempo, con la sua “qualità”, con la specificità delle operazioni di lavoro svolte, con i suoi contenuti particolari, il lavoro conserva i vecchi valori dei mezzi di produzione nei prodotti che va a produrre. La qualità è così la dimensione del lavoro che non produce alcuna “addizione” di valore e che quindi non è quantificabile attraverso il “tempo”. La qualità è ciò che lega il lavoro come capacità astratta di lavoro (il “tempo” di lavoro) a dei mezzi di produzione specifici durante il processo di valorizzazione: «Il filatore aggiunge tempo di lavoro solo filando, il tessitore solo tessendo, il fabbro battendo il ferro». In effetti, come abbiamo visto, nel lavoro d’aggiustaggio l’operaio articola autonomamente alcune delle operazioni che legano tempo di lavoro e mezzi di produzione e che stabiliscono così la qualità specifica del lavoro necessario per realizzare un certo risultato produttivo domandato. Una forma di lavoro contemplata dall’organizzazione tecnica della produzione, ma che non è fissata a priori da questa stessa organizzazione del lavoro e dalla divisione delle mansioni. Una forma di lavoro, dunque, che l’operaio decide, decidendo così soggettivamente questa qualità oggettiva del lavoro. Insomma, in Cesab, nell’epoca dell’aggiustaggio, la qualificazione da parte degli operai del lavoro era necessaria per produrre: oltre a produrre, l’operaio decideva anche alcune delle operazioni necessarie per produrre, che il sistema d’organizzazione del lavoro delegava al suo intervento autonomo, delegando dunque all’operaio l’organizzazione della modalità d’esecuzione tecnica di queste stesse operazioni. Oggi non
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più: si può produrre in Cesab senza che tale qualificazione sia necessaria. Così, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, questo spazio d’intervento autonomo che decide la qualità oggettiva del lavoro non è più presente. Gli operai, ora, problematizzano la qualità del lavoro in termini diversi. Essi pensano la “qualificazione” come una loro relazione soggettiva con una dimensione oggettivamente qualitativa del lavoro che è già data, che è già decisa (le mansioni oggettivamente necessarie per produrre degli specifici output produttivi, i contenuti tecnici del loro lavoro già fissati nel processo di produzione e che devono necessariamente eseguire). Ecco una serie di enunciati raccolti in Cesab, che presentano questa relazione problematica tra mansioni oggettive da svolgere e una possibile relazione soggettiva con queste stesse mansioni, da ricercare attraverso un maggior “sapere”, più possibilità di apprendere e di “pensare” il lavoro da effettuare, più “esperienza” e “formazione”, una diversa divisione del lavoro: «Un operaio deve sapere quello che fa, a che cosa serve, le funzioni che sta facendo, non che io faccio un muletto, chi s’è visto s’è visto, è giusto che uno sappia quello che sta facendo»; «Cesab non è una fabbrica che ha una gran cultura […] nel senso che comunque non ti devi chiedere il perché delle cose ma le devi fare»; «Adesso c’è più da imparare […] adesso se non c’è l’azienda che fa i corsi non puoi imparare»; «È raro sapere quello che si fa»; «Una volta sapevano lavorare meglio; adesso, appena arrivi, il capo officina ti affianca un ragazzo che magari è lì da due settimane»; «Mi piacerebbe allargare le mie esperienze, perché comunque si impara sempre qualcosa di nuovo e quindi non mi sento mai soddisfatto; mi piace allargare le mie esperienze»; «Gratificante o no, se fai un lavoro che non ti spinge non ti può dare motivazioni sul lavoro perché bisogna farlo, lo fai con più fatica, con meno voglia, lo fai male, senza pensarci […] devi avere la qualità del lavoro, fare sempre un determinato tipo di lavoro non ti porta in là»; «C’è della gente che vuole sapere cosa monta […] che si interessa a ciò che monta»; «La formazione è importante soprattutto per chi lavora»; «Se vuoi lavorare qua dentro, rendere, devi sapere qualcosa in più. […] Non ci sono sufficienti corsi di formazione, qualcosa in più dovrebbero fare»; «Secondo me la formazione è tutto, la coscienza di come funziona il carrello, per poi andarci a mettere le mani è fondamentale»; «Si possono creare automatismi che parcellizzano di più il lavoro, riduci tutto: si lavora parecchio, ore di lavoro al giorno, se vengono svolte con la dovuta attenzione, sono molte. Un uomo che dà il % dell’attenzione per o ore è già un mezzo miracolo. Non è possibile pretendere un’attenzione per ore in un lavoro poi abbastanza smaronante». Maggiore conoscenza sul lavoro, “formazione”, “sapere”, “esperienza”, lavoro meno parcellizzato possono garantire delle possibilità, per gli operai Cesab. Questi enunciati presentano uno spazio possibile d’intervento soggettivo dell’operaio rispetto alle funzioni da svolgere, ai contenuti del lavoro così come essi sono già fissati e dati nel processo produttivo. In questi giudizi, le man
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sioni “oggettive” da eseguire sono comunque connesse prescrittivamente a delle possibilità di scelta, a delle decisioni che concernono la modalità di lavorare, l’organizzazione della divisione del lavoro, lo sviluppo delle conoscenze per aumentare l’interesse sul lavoro e i suoi contenuti, per renderli più vari. Così, le questioni poste dagli operai della Cesab risultano molto ricche e complesse, assolutamente irriducibili a una forma di rimpianto, per quanto in qualche caso presente, per un lavoro più artigianale. Vediamo meglio il perché. Come sostiene un operaio che lavora alle postazioni per la produzione dei carrelli diesel, «il lavoro potrebbe essere interessante dal punto di vista che […] farebbe piacere che fosse presa in considerazione l’esperienza di chi monta il carrello e fosse confrontata con l’Ufficio tecnico, perché nascono delle questioni quando monti il carrello che devono essere risolte. Invece, come in tutte le fabbriche, si tende a privilegiare la quantità; […] se devo montare un variatore di velocità sopra il carrello prendo il pezzo e lo monto sopra ma non so come è composto il pezzo; se io chiedo, non lo sanno». In questo giudizio l’interlocutore afferma che la dimensione “quantitativa” del lavoro riduce la dimensione relativa al rapporto soggettivo dell’operaio al lavoro che, come abbiamo visto, ne configura la possibile “qualificazione”. Secondo questo operaio, l’esperienza del montatore potrebbe essere presa in considerazione per migliorare tecnicamente la produzione, per risolvere i problemi che insorgono nel processo di lavorazione. Ma in questo enunciato si afferma anche un’altra cosa: si può scegliere (“privilegiare”) un certo rapporto tra “quantità” e “qualità”. Preferire la “quantità” è una scelta: una scelta che caratterizza non solo la Cesab, ma “tutte le fabbriche”. A partire dalla problematica posta da questo operaio, si può individuare meglio cosa i nostri interlocutori pensano attraverso le locuzioni “fare bene” il proprio lavoro, “lavorare bene”, lavorare “meglio”. Infatti, cosa vogliono dire, tra i giudizi che abbiamo raccolto, degli enunciati del tipo: «C’è da imparare, sono delle piccole cose che ti vengono usando le mani, facendo le modifiche, stringendo meglio tubi, bulloni»; «Stringere viti sono buoni tutti, il come stringi è un altro paio di maniche»; «Noi lavoriamo, facciamo quello che ci è chiesto, però è come se facessimo un favore a loro, ai capi, lavorando bene»? Stringere meglio bulloni e tubi; stringere in un modo soggettivo tre viti, cosicché questo “modo” di stringere è tutt’altra cosa dal semplice stringere; “lavorare bene” in una maniera tale che non si fa solamente “quello che ci è chiesto”, ma si fa un “favore” ai capi: tutto ciò significa che si possono svolgere in maniera diversa le stesse mansioni tecniche da effettuare. Gli operai così deoggettivano i contenuti e la “qualità” del lavoro tecnicamente fissate, deoggettivano il “lavoro concreto” necessario per realizzare un certo risultato produttivo, garantendo in ogni modo “quello che ci è chiesto”, cioè lo stesso risultato produttivo e tecnico domandato, ovvero la stessa “produzione”. Questo significa che, anche al di fuori del lavoro di aggiustaggio, si può qualificare il lavoro facendo diversamente le stesse operazioni produttive oggettive, qualificando diversa
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mente a livello soggettivo la stessa “produzione” tecnicamente fissata: quello che si “deve fare”, “quello che ci è chiesto”, il risultato produttivo da realizzare, non impediscono in loro stessi una “qualificazione” soggettiva del lavoro. Così, il rapporto tra “quantità” (“produzione”) e “qualità” del lavoro non è per gli operai “oggettivo” e tecnicamente determinato («adesso puntano tutto sul numero più che sulla qualità»), proprio perché la “qualità” è l’effetto del rapporto dell’operaio con i contenuti tecnici dati del suo lavoro. Infatti, privilegiare la “quantità” si traduce in una dequalificazione del lavoro, nell’impossibilità di articolare una relazione soggettiva con le mansioni da svolgere, piuttosto che richiamare a un aumento dei volumi produttivi attraverso un’intensificazione dei ritmi («si tende a privilegiare la quantità… se devo montare un variatore di velocità sopra il carrello prendo il pezzo e lo monto sopra ma non so come è composto il pezzo, se io chiedo, non lo sanno»). A nostro avviso, se molti operai pensano che in Cesab si preferisce la “quantità” alla “qualità” e si punta “tutto sul numero più che sulla qualità”, questo non significa che prima non si producesse quantitativamente; significa che per i nostri interlocutori, assunta come data una loro certa capacità di produzione quantitativa, oggi in Cesab, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, ciò che conta è solo la “produzione”, non un possibile nuovo rapporto soggettivo degli operai con questa stessa produzione da effettuare. I giudizi più sopra citati, che prescrivono una relazione diversa tra gli operai e le mansioni oggettive da svolgere, da ricercarsi attraverso un maggior “sapere”, più “esperienza” e “formazione”, una diversa divisione del lavoro, configurano proprio questo nuovo rapporto possibile tra operai e produzione capace, nel progressivo venir meno dell’attività d’aggiustaggio, di qualificare soggettivamente il lavoro in un modo nuovo. Ma oggi, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio – e cioè, ripetiamolo, di una qualificazione del lavoro necessaria oggettivamente per produrre, che l’organizzazione del lavoro in fabbrica delega all’operaio e a un suo intervento autonomo non formalizzato dalle mansioni da svolgere –, cosa significa concretamente “qualificare” soggettivamente il lavoro? Si tratta di una valutazione dell’operaio relativa alla funzionalità ed efficacia delle operazioni che effettua rispetto, per dirla alla Marx, al “valore d’uso” da produrre? Probabilmente si tratta anche di questo. Ma, come abbiamo visto, nell’attuale organizzazione del processo di fabbricazione, la produzione di “valori d’uso” non richiede oggettivamente alcuna qualificazione del lavoro da parte dell’operaio e, in generale, come abbiamo sottolineato, l’efficacia “qualitativa” del lavoro, non essendo misurabile in tempo, sostanzialmente non è valutabile economicamente. La questione ai nostri occhi più significativa è il carattere prescrittivo di questo modo di pensare. I nostri interlocutori non vogliono mutare i mezzi di lavoro, né la “quantità” di produzione, né le funzioni oggettivamente necessarie per realizzarla. Essi vogliono cambiare il rapporto tra “quantità” e “qualità” del lavoro in fabbrica attraverso il mutamento della relazione degli operai con le
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mansioni necessarie per realizzare una certa produzione data e che oggi, finito l’aggiustaggio, sono tecnicamente già fissate dall’organizzazione del lavoro. In questo modo gli operai pensano di poter fare “meglio” e “bene” il loro lavoro. Un “meglio” e un “bene” che non muta oggettivamente la produzione, ma che muta soggettivamente la qualità del lavoro, cambiando la relazione tra gli operai e le mansioni tecniche necessarie per produrre. Si tratta quindi di un problema di organizzazione del lavoro. Per capire con maggior chiarezza cosa intendono i nostri interlocutori, ci sembra illuminante quello che dice un operaio che lavora alla catena: «Il mio lavoro non sarà gratificante però ha qualcosa che si può mandare avanti, come ideologia: il lavoro nella fabbrica è pesante […] ci si potrebbe impegnare di più, l’azienda potrebbe fare molti più corsi di formazione, che oltre a essere più uniti noi potremmo svolgere più lavorazioni; […] partendo da noi il lavoro […] potremmo entrare più in una mentalità di persone che conoscono di più il loro tipo di lavoro. Essendo proprio in una linea sei chiuso lì, in una linea di montaggio dopo un po’ è pesante». La conoscenza, la possibilità di cambiare “lavorazioni”, la “formazione” e la riduzione della “pesantezza” del lavoro sono delle questioni “ideologiche” e di “mentalità”; esse, dunque, sono principalmente delle questioni intellettuali, o meglio dei modi di prescrivere come pensare l’operaio in fabbrica, come pensare il suo rapporto col lavoro. Per gli operai della Cesab uno dei problemi principali è dunque la capacità di formulare un nuovo pensiero del rapporto tra operai e “lavoro” oggi, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio. Un pensiero capace, cambiando questo rapporto, di ridurre la fatica e aumentare l’interesse sul lavoro, intervenendo sul modo di organizzare il lavoro in fabbrica e garantendo maggiore formazione agli operai. Come già sosteneva Marx, nelle fabbriche «il macchinario […] funziona soltanto in mano al lavoro immediatamente socializzato, ossia al lavoro in comune. […] Il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo di lavoro stesso». La dimensione “socializzata”, “in comune”, cooperativa del lavoro è una necessità tecnica. Ma i modi in cui esiste in ogni fabbrica questa necessità tecnica, imposta dalla natura stessa dei mezzi di produzione, sono essi stessi tecnicamente dati? La dimensione “sociale” è semplicemente già decisa, una volta che si assuma il suo carattere tecnicamente necessario? O, piuttosto, la cooperazione è tecnicamente necessaria, ma ciò non determina, in sé, i modi in cui questa necessità tecnica si articola e si può articolare nel processo di lavoro? È questo ambito, che può essere unilateralmente pensato come solo “tecnico” e oggettivo, a configurare, invece, almeno secondo i nostri interlocutori, uno spazio di scelte, diverse possibilità per gli operai. Tutto questo è pensabile rappresentando il lavoro come qualcosa che “parte” dall’operaio e che s’articola dalla sua soggettività («partendo da noi il lavoro […] potremmo entrare più in una mentalità di persone che conoscono di più il loro tipo di lavoro»). Noi abbiamo visto affermare in un giudizio già precedente
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mente citato che «la fabbrica è iniziativa. […] Non ti poni, per paura di perdere il posto, cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere. Non credo che venga data all’operaio tanta autonomia da dire che il proprio lavoro è un’estensione di sé; all’operaio non viene data la possibilità di farlo». Questo interlocutore pensa la fabbrica come un luogo specifico: il luogo dell’“iniziativa” dell’operaio. La fabbrica può essere il luogo dove il rapporto tra “lavoro” e “operaio” è deciso dall’operaio stesso in una maniera tale che il “proprio lavoro”, il “lavoro concreto” che svolge, sia pensabile come un’estensione della sua soggettività in fabbrica. Una soggettività, dunque, che interviene autonomamente, per mezzo della sua “iniziativa”, sul rapporto dell’operaio con una certa “produzione” e i contenuti tecnici del lavoro necessari per realizzarla. Questa “iniziativa” è prima di tutto (e soprattutto) un “dire”. Un “dire” rispetto alla fabbrica: «Cos’è la fabbrica per te, cosa potrebbe essere»; «La fabbrica è iniziativa». Il “lavoro” come “estensione di sé” deriva allora da una capacità di “dire” in fabbrica, di prescriverla come luogo della soggettività dell’operaio. Il “lavoro” che “parte” dall’operaio è identificabile come il “lavoro” che l’operaio decide, non più come il lavoro che si “deve fare”. Come abbiamo visto, ciò che l’operaio vuol decidere non è né la quantità, la produzione da realizzare, né la qualità oggettiva (il contenuto tecnico) delle mansioni che, nel venire meno di quella singolare attività che è l’aggiustaggio, è oggi già del tutto oggettivamente data e organizzata e, dunque, identificata anch’essa dagli operai come “produzione”. I nostri interlocutori, nel tempo della riduzione dell’aggiustaggio, vogliono decidere del loro rapporto con una certa produzione e certe mansioni da svolgere, realizzando la stessa produzione quantitativa, realizzando in fabbrica le stesse operazioni tecnicamente oggettivabili, ma facendole “bene” e “meglio”, e cioè mutando i modi soggettivi per realizzarle attraverso: . l’allargamento delle lavorazioni in grado di essere svolte da ogni singolo operaio; . una diversa divisione tra gli operai delle operazioni tecniche necessarie per realizzare una certa produzione data e, dunque, una diversa organizzazione della divisione del lavoro in fabbrica; . l’esperienza e la formazione che possono dare non solo più risorse e più sapere per pensare la relazione degli operai con le mansioni da svolgere, ma anche, in questo modo, più sapere e risorse per pensare a una diversa organizzazione possibile di queste stesse mansioni. Così il “lavoro” può non essere solamente un fattore produttivo, un’attività finalizzata e subordinata all’obiettivo di una certa produzione data, un insieme di operazioni tecnicamente fissate, ma il termine che designa un insieme di possibilità che hanno luogo in fabbrica: le possibilità degli operai di “qualificare” il lavoro, d’intervenire sul loro rapporto con una certa produzione e con i contenuti tecnici necessari per realizzarla. Così, anziché la “quantità”, si può “privilegiare” la “qualità”. La fabbrica è pensabile, a partire dalle parole dei nostri interlocuto
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ri, come il luogo della qualificazione del lavoro. Le possibilità di qualificare il lavoro sono dunque delle possibilità che riguardano l’operaio, che riguardano il suo modo di contare in fabbrica, d’essere colui che la configura come il luogo della sua “iniziativa” rispetto al “lavoro” e alla sua “qualità”. Ecco cosa significa qualificare il lavoro per gli operai Cesab, cambiare soggettivamente il lavoro senza che ciò implichi, di per sé, un mutamento “oggettivo” delle funzioni tecniche necessarie per realizzare una certa produzione quantitativa data. Possiamo trovare in questo tipo di riflessione una problematica nota: il tema che, in uno dei più recenti studi sociologici internazionali sull’industria automobilistica, L’avenir du travail à la chaîne, è indicato dalla nozione di “relazione salariale”, più in particolare dal primo dei quattro sottoinsiemi che secondo gli autori la definiscono: quello dell’“organizzazione del lavoro”. Quest’ultimo concetto si riferisce alla «messa in relazione degli operatori tra loro e di fronte a dei mezzi tecnici», implicando dei temi relativi alla «divisione del lavoro» e alla «cooperazione intorno, per esempio, alla questione delle qualificazioni e dell’autonomia nel lavoro». In questo lavoro d’indagine, tali temi sono trattati in termini d’opposizione tra “autonomia” del lavoro e socializzazione della produzione. L’autonomia del lavoro può essere effettivamente incompatibile con delle produzioni a grande scala perché «non si arriva a fabbricare in grandi serie dei prodotti standardizzati […] con delle piccole organizzazioni composte da équipe autonome funzionanti senza gerarchia e senza specializzazione delle mansioni, con la libertà di scegliere i loro metodi e i loro ritmi di lavoro». In questa prospettiva, la qualificazione del lavoro non concerne la sua autonomia ma, piuttosto, la sua socializzazione nel processo produttivo. Oggi, in Cesab, nell’attuale fase di riduzione del lavoro d’aggiustaggio verso una maggiore standardizzazione della produzione, l’ambito d’intervento degli operai rispetto al lavoro è identificato come possibilità di “dire”, come questione di “mentalità”, come “autonomia” che si articola attraverso l’allargamento delle “lavorazioni” in grado di essere svolte da ogni singolo operaio, la “conoscenza” e il “sapere” da accrescersi: i modi identificati prescrittivamente per ridurre la fatica, la noia su lavoro, per aumentare la soddisfazione e l’interesse nel lavoro stesso, per fare questo lavoro “meglio” e “bene”. Non c’è dunque opposizione obbligata tra “autonomia” e “socializzazione”, cioè tra indipendenza del lavoratore nello svolgimento del suo lavoro e interdipendenza produttiva orizzontale e verticale: in effetti, i nostri interlocutori identificano una forma di “socializzazione” tra gli operai delle conoscenze; la “formazione”, la variazione delle “lavorazioni”, sono dei modi per avere una maggiore autonomia nel lavoro. Ma, soprattutto, l’autonomia degli operai rispetto al lavoro si presenta come autonomia di “dire”, d’intervenire e prescrivere rispetto all’ambito dell’organizzazione del lavoro e della divisione tra gli operai delle mansioni da eseguire, decidendo maniere diverse per realizzare queste mansioni oggettive e necessarie. Un ambito che i modi di pensare degli operai Ce
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sab configurano come spazio di scelte indipendenti dalla natura strettamente tecnica della “produzione” e di cui si prescrive una forma di “socializzazione” in fabbrica («oltre a essere più uniti noi potremmo svolgere più lavorazioni»). In conclusione, alcune considerazioni sul rapporto operai-lavoro così come ci pare emerga dalle interviste in Cesab. Il modo di pensare questo rapporto da parte dei nostri interlocutori può sembrare a prima vista vicino alle riflessioni avanzate da alcune delle teorie più recenti di sociologia del lavoro e di gestione delle risorse umane. Secondo queste teorie infatti «lo spartiacque tra lavoro fordista esecutivo e lavoro postfordista “imprenditorializzato” è esattamente questo: il superamento della separazione della soggettività del lavoratore dalla propria attività lavorativa (tempi, modi e contenuti della prestazione sono prerogativa della potente macchina organizzativa) verso la ricongiunzione del soggetto lavoratore con il contenuto intelligente e creativo del proprio lavoro». L’autonomia individuale del lavoratore «cambia di senso: non più margine di manovra rispetto a una regola rigida ma capacità dinamica d’inserirsi in un collettivo». In questo nuovo modo di concepire il lavoro produttivo «il lavoratore, nello svolgimento della propria attività lavorativa, “costruisce” il contesto relazionale dell’attività stessa (che non è più preordinato) e produce (e riproduce) in modo innovativo la natura e la qualità della prestazione lavorativa (che quindi è “misurabile” solo in itinere o ex post ma mai ex ante)». La gestione delle risorse umane dovrebbe dunque sviluppare, in questo nuovo contesto, delle politiche con lo scopo di garantire incentivi ai lavoratori, anche i lavoratori «peripheral, tradizionalmente impegnati in lavori manuali nella parte bassa della gerarchia aziendale», che si ricongiungono col contenuto del loro lavoro. La prospettiva delineata da queste teorie di gestione delle risorse umane può essere considerata prossima a quella che elaborano gli operai della Cesab. Ma a una condizione. Per i nostri interlocutori il rapporto tra gli operai e una certa produzione da realizzare non è “contenuta” nei contenuti delle mansioni da svolgere e nelle competenze tecniche necessarie per realizzare un certo tipo di lavoro: questo rapporto è una questione soggettiva. Vale a dire che la dimensione “creativa” e “intelligente” del lavoro non è intrinseca al lavoro, ma alla sua eventuale dimensione soggettiva. O, in termini più rigorosi, essa non è che il possibile di una prescrizione che sottopone il lavoro alla soggettività di chi lavora, disponendo l’articolazione del carattere socializzato del lavoro stesso come una questione d’ordine politico, indipendente dai mezzi di lavoro (che determinano le mansioni tecniche necessarie per effettuare una certa produzione). Si può affermare in termini del tutto generali che ogni “riunione” della soggettività del lavoratore con il contenuto del suo lavoro, così come essa è proposta da queste teorie, semplicemente non è possibile: la soggettività è altra cosa dalla produzione e dal lavoro tecnicamente necessario per la sua realizzazione, non è in esso contenuta. Si tratta allora di assumere il pensiero degli operai
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come ciò che può decidere cosa è e come può essere la qualità del lavoro. Una qualità che non riguarda la “prestazione lavorativa”, ma la relazione – soggettiva e aperta a più possibilità, e che può anche lasciare inalterata la “prestazione” da un punto di vista oggettivo – tra l’operaio e il lavoro che deve svolgere, tra l’operaio e la “prestazione lavorativa” che deve effettuare. Perché, come ci insegnano gli operai Cesab, la qualità del lavoro, al di là della sua dimensione oggettiva, determinata prevalentemente dai mezzi tecnici disponibili nel processo di fabbricazione, non è altro che l’effetto di questo rapporto da decidere tra chi lavora e i contenuti del lavoro necessari per realizzare una certa produzione. Un rapporto che può dunque essere pensabile solo a partire da chi questo lavoro lo svolge quotidianamente. Un’ultima questione prima di concludere. Se la qualificazione del lavoro come la pensano gli operai intervistati non implica, come abbiamo visto, mutare la sua qualità oggettiva, ma cambiare l’organizzazione dei modi d’effettuare, da parte degli operai, le mansioni da svolgere; se cambiare la qualità delle mansioni non significa cambiare oggettivamente il lavoro ma, piuttosto, mutare soggettivamente la sua organizzazione; allora, le questioni poste dai nostri interlocutori quale interesse possono avere per chi governa l’azienda? In realtà, ciò che dicono gli operai può interessare chi governa l’azienda anche per motivi d’ordine oggettivo. In primo luogo, perché abbiamo visto che, secondo i nostri interlocutori, migliorare il loro rapporto con le mansioni da svolgere quotidianamente in fabbrica potrebbe ridurre la pesantezza del lavoro, potrebbe aumentare l’interesse e l’attenzione sul lavoro. Questo può significare anche ridurre gli errori e incrementare la produttività oraria del lavoro. Ma forse ci può essere anche un altro motivo, più importante, seppure non quantificabile, né ex ante, né ex post. Nell’analisi che abbiamo condotto delle parole degli intervistati, la qualità che loro possono conferire al lavoro che effettuano non è oggettivamente misurabile, è qualcosa che sfugge, in sé, alla valutazione tecnica ed economica. Possiamo dire che essa sfugge perché, come abbiamo visto, è una questione propria a un altro ordine problematico: un ordine non tecnico ed economico, ma soggettivo e politico. Come dice un giovane operaio intervistato, tra azienda e operai «ci deve essere un rapporto di collaborazione, se però uno dà di più, l’altro di meno, l’equilibrio non viene rispettato, e l’equilibrio è sfasciato. L’azienda tende sempre a dare di meno. Questo non è giusto a livello umano, c’è un baratro in mezzo, non si colma mai. Dagli anni Ottanta prevale il discorso economico, che secondo me è un errore». Una dimensione del dare degli operai non può avere una corresponsione da parte aziendale («c’è un baratro in mezzo» che «non si colma mai»): questa dimensione concerne il “livello umano” del rapporto tra impresa e operaio, la parte umana del dare che è irriducibile al “discorso economico”. Ecco, la qualità come la intendono gli operai Cesab è un “dare” irriducibile al “discorso economico” e purtuttavia è una risorsa, un “dare”, anche se intangi
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bile e non oggettivabile, che l’impresa riceve. Un dare soggettivo che può essere una risorsa in fabbrica, a meno che non si pensi la produzione come semplice adeguamento burocratico a modelli di gestione formalizzati. Se oggi, come si sostiene da più parti, ogni modello d’organizzazione e gestione della produzione è sottoposto a delle sempre più intense sollecitazioni, relative alla sua concreta messa in coerenza con la situazione della fabbrica e al suo sviluppo innovativo in un mercato competitivo, ecco che allora può essere decisivo, anche per chi l’impresa la governa, fare di questo dare e di questa risorsa intangibili una capacità (politica) relativa ai modi d’organizzare in fabbrica il lavoro che in essa si effettua. Conclusioni Secondo gli operai di entrambe le fabbriche oggetto dell’inchiesta, si tratta oggi di stabilire condizioni e qualità del lavoro come possibilità per gli operai. I nostri interlocutori identificano alcuni tratti di una singolare figura dell’operaio e della fabbrica come luogo soggettivo, in quanto luogo “della qualificazione e di condizioni prescrittive” del lavoro. Pensare la “qualità” del lavoro come sua “qualificazione” soggettiva; pensare la fabbrica come luogo di condizioni prescrittive del lavoro: questo significa principalmente due cose. . Mettere a distanza le “qualità” oggettive del lavoro e prescrivere una sua “qualificazione” soggettiva che, a partire dalla fabbrica come luogo dell’“iniziativa” dell’operaio, muta il rapporto degli operai con una certa “produzione” quantitativa da realizzare e le mansioni tecniche necessarie per realizzarla (mutando l’organizzazione del lavoro, la sua divisione nel processo di fabbricazione e incrementando la formazione, l’esperienza e le conoscenze degli operai). . Pensare il lavoro come sottocondizione delle prescrizioni (di specifiche politiche) che hanno “fabbrica” come propria categoria e che pongono, attraverso questa stessa categoria, una specificazione locale del lavoro stesso a natura soggettiva e politica. Può essere astrattamente vero che oggi, date la velocità delle trasformazioni tecnologiche e la rapida obsolescenza delle competenze e conoscenze produttive, il lavoro non è più «costituito da specifiche attività produttive ma dall’universale capacità di produrre, e cioè, dall’attività sociale astratta», come «insiemi cooperanti di cervelli e mani, menti e corpi, […] lavoro vivo, diffuso, nomade e creativo, […] il desiderio e lo sforzo della moltitudine dei lavoratori mobili e flessibili»; ma se ciò può essere vero, le categorie intellettuali decisive degli operai sono esattamente la “qualità” del lavoro, come qualificazione soggettiva delle mansioni concretamente effettuate in fabbrica ogni giorno, e la “fabbrica”, come termine per porre localmente delle condizioni prescrittive al lavoro che in essa si svolge. Il modo di pensare che abbiamo incontrato, dun
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que, lungi dal configurare il lavoro (la parola “lavoro”) come un fattore produttivo che non ha più un luogo identificabile e che così dispone delle “nuove forze produttive”, le quali «non hanno luogo, poiché li occupano tutti» e producono «in un non luogo indefinito», presenta al contrario la fabbrica come categoria capace di sottoporre la parola “lavoro” a un pensiero degli operai. Così “fabbrica” è un termine decisivo che permette di pensare il lavoro come un ambito di possibilità per chi lo effettua quotidianamente. Del resto, al di fuori da ogni legame ed espressività di classe e rappresentazione storicista del tipo “nuove forze produttive”, le questioni che pongono i nostri interlocutori possono non concernere solamente gli operai. In effetti, alla base delle attuali politiche dell’impiego adottate in Italia sta l’identificazione del lavoro, operata attraverso la nozione di “occupabilità”, con un fattore produttivo avente differenti livelli di “mobilità” nel mercato: l’“occupabilità” è infatti concepita come dipendente dalla capacità del fattore lavoro di seguire le dinamiche competitive; essa si traduce nella capacità dei lavoratori d’inserirsi, seguendo la domanda e l’offerta nel mercato, nei segmenti e nei settori economici a più alta produttività che garantiscono a chi lavora maggiori redditi e più possibilità professionali e formative. Si tratta dunque di una forma di “destatizzazione” della nozione di lavoro: da nozione “costituente” – basti pensare al primo articolo della nostra costituzione, «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro» –, a termine il cui senso è esclusivamente dato dalla categoria di “mercato”. Come si afferma nel Libro bianco, si tratta oggi di sostenere il passaggio «da un sistema di protezioni rigide e spesso inefficaci, presenti nell’ambito di ogni rapporto di lavoro, a un regime di protezioni nel mercato che sostengano la mobilità del lavoro» e che «devono agire prima di tutto nel mercato, non operare contro il mercato». Quali politiche del lavoro, allora, sono possibili oggi in Italia? Come abbiamo visto nelle due inchieste di fabbrica, una delle possibilità per gli operai, ch’essi stessi individuano, è quella che permette di pensare la parola “lavoro” all’interno di un ambito di scelte e decisioni attraverso la categoria di “fabbrica”: la fabbrica come categoria che fa del lavoro “un punto” (il luogo di condizioni prescrittive del lavoro); la fabbrica come luogo dell’“iniziativa” dell’operaio (il luogo della qualificazione del lavoro). A partire dalle interviste che abbiamo effettuato, l’operaio è pensabile come la figura di un pensiero contemporaneo delle condizioni politiche del lavoro. Delle condizioni da decidere a partire dai luoghi dove il lavoro può essere pensato dalla gente che lo fa come una realtà rispetto a cui si possono fare scelte diverse, non determinate oggettivamente dal mercato. Questo può così permettere di deoggettivare la rappresentazione unilaterale, propria all’attuale congiuntura, che identifica esclusivamente il lavoro con un fattore produttivo, con diversi gradi di “occupabilità” derivanti dalle differenti capacità di chi lavora d’essere mobile, d’inserirsi nei segmenti produttivi a più alto valore aggiunto. Una rappresentazione
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che, proprio in quanto unilaterale, non presenta per chi lavora altra possibilità che rispondere a ciò che il mercato richiede: adeguandovisi oppure opponendovisi specularmente. Un’opposizione, magari, in nome della fede in un movimento “biopolitico” sempre presente e in costante conflitto, manifesto o latente, con le forme della sua oggettivazione disposte dal capitale (o dall’“impero”), in una perenne dinamica dialettica, visibile o “mimetica”, dell’oggettivo e del soggettivo. Gli operai della Cesab e della BredaMenarinibus non configurano delle dinamiche dialettiche o delle forme d’opposizione speculare a quel che c’è. La questione ai nostri occhi più rilevante è che gli operai che abbiamo incontrato prescrivono delle possibilità specifiche del presente identificabili attraverso le categorie che essi stessi elaborano. Delle possibilità che così hanno luogo, in quanto il poter esserci di questo possibile è il poter esserci, singolare e locale, del pensiero che lo presenta. Note . Cfr. Lazarus, Anthropologie du nom, cit., pp. e e Id., Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine, cit., pp. -. . Sulla nozione di “modello emiliano” si rinvia al PAR. . di questo testo. . K. Marx, Critique de Gotha, pp. -, nella citazione di L. Althusser, Lire le Capital (), Paris . . Cfr. P. Bonora, Costellazione Emilia. Territorialità e rischi della maturità, Torino ; P. Bonora, G. Giardini, L’Emilia postcomunista e l’eclissi del modello territoriale, Bologna . . Cfr. P. Veltz, Le nouveau monde industriel, Paris ; P. Zarifian, Le travail et l’événement, Paris . . Per quanto il nostro metodo non consideri decisivi i dati quantitativi, diamo conto che questa problematica è esplicitamente posta da operai sui intervistati ( dei quali pensano tale questione attraverso l’utilizzo della categoria di “padrone” e utilizzando il nome del vecchio proprietario, Menarini). Essa è comunque reperibile con forme diverse (che qui non analizziamo) in quasi tutte le restanti interviste. . Cfr. F. Barca, M. Magnani, L’industria fra capitale e lavoro. Piccole e grandi imprese dall’autunno caldo alla ristrutturazione, Bologna , pp. -. Sulla riduzione della scala minima efficiente degli impianti, cfr. anche R. Varaldo (a cura di), Ristrutturazioni industriali e rapporti fra imprese. Ricerche economico-tecniche sul decentramento produttivo, Milano . . Qui utilizzeremo indifferentemente le nozioni di “distretto industriale” e di “sottosistemi industriali locali e urbani a specializzazione flessibile”, in quanto faremo costantemente riferimento ai caratteri specializzati, flessibili e territorialmente integrati di tali sistemi produttivi di piccola e media impresa. Dei caratteri che sono comuni a entrambe le nozioni. Per una distinzione e un approfondimento, cfr.: V. Capecchi, Una storia della specializzazione flessibile e dei distretti industriali in Emilia-Romagna, in F. Pyke, G. Becattini, W. Sengenberger (a cura di), Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia, in “Studi e Informazioni”, supplemento n. al n. , ; e V. Capecchi, Petite entreprises et économies locales: la flexibilité productive, in M. Maruani, E. Reynaud, C. Romani (éds.), La flexibilité en Italie. Débats sur l’emploi, Paris , pp. -. . Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., pp. e . Cfr. anche F. Barca, Modèle de spécialisation flexible des PME et écarts de rémunération in Maruani, Reynaud, Romani, La flexibilité en Italie, cit., pp. -. . Ivi, p. . Cfr. anche C. Borzaga, Il ruolo della piccola impresa nelle regioni italiane, in R. Innocenti (a cura di), Piccola città e piccola impresa. Urbanizzazione, industrializzazione e intervento pubblico nelle aree periferiche, Milano , pp. -.
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. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. . . Ivi, pp. -. . Ivi, pp. -. . Cfr. ivi, pp. -. . Cfr.: S. Brusco, Flessibilità e solidità del sistema: l’esperienza emiliana, in G. Fuà, C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Bologna , pp. -; Id., The Emilian Model: Productive Decentralization and Social Integration, in “The Cambridge Journal of Economics”, , , pp. -. . Cfr. Brusco, Flessibilità e solidità del sistema, cit., pp. -. . E. Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica: la disoccupazione “entropica”, in “Inchiesta”, XX, -, aprile-settembre , p. . Cfr. G. Becattini, G. Bianchi, I distretti industriali nel dibattito sull’economia italiana, in G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna . . Cfr. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. . Come abbiamo visto, lo scarto retributivo tra PMI e MGI si riduce tra il e il da –,% a –,%. . C. Trigilia, Contesto socio-politico e cambiamento dei distretti industriali, in M. Bellandi, M. Russo (a cura di), Distretti industriali e cambiamento economico locale, Torino , p. . . Cfr. V. Romitelli, Il Sessantanove-Settanta sindacale: di che biennio si è trattato?, in Storie di politica e di potere, Cronopio, Napoli . . Cfr. S. O. Garmise, R. J. Grote, Economic Performance and Social Embeddedness: EmiliaRomagna in an Interregional Perspective, in R. Leonardi, R. Y. Nanetti (eds.), The Regions and European Integration. The case of Emilia-Romagna, London-New York , pp. -. . F. Piro, Utopia e realtà del modello emiliano, in S. Conti, R. Lungarella, F. Piro, L’economia emiliana nel dopoguerra, Venezia , p. . . Cfr. A. Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna , p. . . Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. . Cfr. anche L. Paggi, M. D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo, Torino , p. e C. Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese, Bologna , pp. -. . Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. . . Come già nel affermava l’allora segretario regionale del PCI, Sergio Cavina, sono proprio le conquiste politiche ottenute nelle fabbriche negli anni -, il «nuovo potere per gli operai» così raggiunto, ad espandere le possibilità di intervento politico nella società da parte delle amministrazioni a guida comunista. È in questa nuova possibilità politica aperta dalle lotte sindacali che, secondo Cavina, «si saldano le nuove esperienze e le conquiste in fabbrica con la funzione del potere locale che in Emilia è già espressione della direzione della classe operaia e delle grandi masse popolari». Ed è da questo legame determinato dalla «conquista di un potere nuovo dentro la fabbrica» che riceve nuova spinta «la costruzione del blocco storico classe operaia-contadini-ceti medi» (PCI, Comitato regionale Emilia-Romagna, III Conferenza regionale Emilia-Romagna del PCI, Atti dei lavori, Bologna, -- gennaio , p. ). Sul modello emiliano e l’alleanza tra classe operaia, contadini e ceti medi come modello di una via italiana al socialismo, cfr. P. Togliatti, Ceto medio e Emilia rossa, in Id., Politica nazionale e Emilia rossa, Roma , pp. -. . P. Barbieri, Mercato e politiche del lavoro, transizione postfordista e nuove forme di occupazione: modifiche del modello occupazionale italiano e problemi di regolazione, in “Documenti CNEL”, , Rapporto: postfordismo e nuova composizione sociale, Roma , p. . . Ibid. . Ibid. . Come si sostiene nel Libro bianco sul mercato del lavoro, ancora oggi «la quota del lavoro nel valore aggiunto manifatturiero, […] pur tra fluttuazioni cicliche, non mostra tendenze al declino in confronto con gli anni ottanta» (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Il libro bianco sul mercato del lavoro in Italia: proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità, Roma , p. ).
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. C. Sforzi, I distretti marshalliani nell’economia italiana, in F. Pyke, G. Becattini, W. Sengenberger (a cura di), Industrial District and Interfirm Cooperation in Italy, Genève , p. . . Cfr. A. Michelsons, La problematica dell’industrializzazione diffusa nelle scienze sociali italiane, in Innocenti, Piccola città e piccola impresa, cit., pp. - e Capecchi, Una storia della specializzazione flessibile, cit. . Giraud, L’inégalité du monde, cit., p. . . Giovannetti, Distretto industriale e valutazione macroeconomica, cit., p. . . Si registra per le piccole e medio-piccole imprese un aumento costante degli attivi anche all’inizio degli anni Ottanta, caratterizzati da massicce ristrutturazioni aziendali e da una forte riduzione dei lavoratori del settore manifatturiero (mediamente + ,% annuo durante il periodo - rispetto a una riduzione degli attivi nelle medie e grandi imprese pari, nello stesso periodo, al ,% annuo. Cfr. Barca, Magnani, L’industria fra capitale e lavoro, cit., p. ). Più in particolare, e negli anni più recenti (-), in Emilia-Romagna si registra un incremento degli attivi nel settore manifatturiero che passano, nell’insieme, da . a . unità con una crescita media di circa lo ,% annuo (nello stesso periodo si registra a livello nazionale una riduzione media dello ,% annuo). Dati desunti da Agenzia Emilia-Romagna Lavoro, Regione Emilia-Romagna, Rapporto congiunturale, anno , Economia e lavoro, maggio . . Cfr. G. Becattini, Il distretto industriale, Torino , pp. -. . Cfr.: A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel nord Italia, Torino ; G. Dematteis, P. Bonavero, Il sistema urbano italiano nello spazio unificato europeo, Bologna . . Su questa questione cfr. le considerazioni di Aldo Bonomi: «nella fabbrica modulare» scompare «la separazione fordista data dal fuori e dal dentro le mura delle fabbriche, si lavora come lavoratori autonomi dentro le mura della fabbrica e come proletari fuori dalle mura» (A. Bonomi, Le dinamiche dell’economia postfordista, in “Documenti CNEL”, , Rapporto: postfordismo e nuova composizione sociale, cit., p. ). Cfr. anche le riflessioni sulla fabbrica Peugeot-Sochaux condotte nel suo lavoro storico da Nicolas Hatzfeld: «L’entreprise […] a engagé depuis les années l’externalisation d’une partie de ses activités. Au sein même du site, une partie croissante des activités est assurée par des salariés affiliés à d’autres entreprises ou à des sociétés de travail intérimaire. […] Ainsi, la difficulté à fixer l’usine dans une définition tout au long de la période traduit pour partie une recomposition de son identité: différentes espaces coexistent, plusieur types de cohérence se superposent. En se transformant, l’usine multiple ses définitions» (N. Hatzfeld, Les gens d’usine. ans d’histoire à Peugeot-Sochaux, Paris , p. ). . Questo modo di pensare può avere una sua pertinenza rispetto al presente anche al di là del caso aziendale BredaMenarinibus. Le nuove teorie “postfordiste” della produzione industriale propongono da qualche anno una organizzazione “modulare” del processo produttivo: una forma più articolata di decentralizzazione che supera il modello di produzione “integrato” e dove «il produttore esce completamente dal processo di fabbricazione dandolo a delle altre imprese da cui compra il prodotto finale» (cfr. M. Magnabosco – ex amministratore delegato FIAT ferroviaria –, L’esperienza della grande impresa, in “Documenti CNEL”, , Rapporto: postfordismo e nuova composizione sociale, cit., p. ). Così, il rapporto tra lavoro e produzione può essere gestito come se esso non si articolasse nel luogo fabbrica ma nel mercato, lungo la cosiddetta “catena del valore” che si dispiega in uno spazio di compravendita di beni e fattori organizzato da un produttore che può anche non fabbricare niente. In questo modo di rappresentare e gestire la produzione industriale, le condizioni del lavoro sono immediatamente deducibili dal mercato e dalla dinamica della domanda e offerta dei fattori produttivi. Il lavoro è così gestito e rappresentato come disgiunto da ogni possibile problematica politica e soggettiva relativa alle sue condizioni. . Trigilia, Contesto socio-politico, cit., p. . . L’azienda Cesab è entrata a far parte nel del gruppo svedese BT Industries, a sua volta acquisito, nel corso dello stesso anno, dal gruppo Toyota. Essa ha così assunto il nome di BT Cesab. D’ora in avanti essa verrà indicata in questo testo come facevano all’epoca delle interviste gli operai: utilizzando semplicemente il nome Cesab. . Si può qui ritrovare una conferma di alcuni dei risultati di una ricerca condotta nel presso gli operai di undici industrie metalmeccaniche di Bologna, Brescia e Reggio Emilia. Que-
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sta ricerca aveva mostrato come i giudizi degli operai sulla loro professionalità erano strettamente legati alle funzioni loro attribuite, benché il loro “saper fare” era pensato non identificarsi con queste stesse funzioni. Cfr. Ires, Met, Studio Giano, I mutamenti del lavoro e l’identità. Ricerca nelle fabbriche metalmeccaniche di Bologna, Brescia e Reggio Emilia, Roma , p. . Come vedremo, i giudizi degli operai Cesab ineriscono in realtà a delle capacità prescrittive degli stessi operai rispetto all’organizzazione del lavoro da svolgere e non solo a dei “saper fare”, a delle competenze professionali. . Y. Schwartz, Expérience et connaissance du travail, Paris , p. . . La produzione in Cesab è fortemente aumentata negli ultimi anni: da circa . carrelli nel a . nel (cioè al momento dell’indagine). L’obiettivo dell’impresa è di raggiungere i . carrelli nel corso del . Questo incremento produttivo, oltre a spingere a nuove assunzioni (il personale è cresciuto negli stessi anni del %) ha indotto un processo di “modularizzazione” del processo produttivo (i sottogruppi da montare sono prodotti e preassemblati prevalentemente da altre imprese) e una maggiore standardizzazione del prodotto. In questo contesto, in caso di pezzi difettosi, gli operai non intervengono più, ma si preferisce rinviare il sottogruppo difettoso ai fornitori. . K. Marx, Il capitale, l. I, sez. III, cap. VI, Capitale costante e capitale variabile, Roma , p. . . Ivi, p. . . Secondo Schwartz, in Marx «che i mezzi di produzione non siano consumati se non nel modo richiesto dalla produzione dipende dagli operai in due sensi: un elemento tecnico, l’“addestramento”, la “formazione”, una miscela di conoscenza e apprendimento sul posto di lavoro; un elemento direttamente sociale, la “disciplina”» (Schwartz, Expérience et connaissance du travail, cit., p. ). Come abbiamo visto, secondo i nostri interlocutori, venuto meno l’aggiustaggio, ciò che richiede tecnicamente la produzione non comporta in sé l’impossibilità di una qualificazione soggettiva del lavoro. Ciò che è oggettivamente necessario fare per realizzare una certa produzione non determina quindi la “qualità” del lavoro così come essa è intesa dagli intervistati. . Marx, Il capitale, cit., l. I, sez. IV, cap. XIII, Macchine e grande industria, p. . . Che la dimensione “cooperativa” e “sociale” del lavoro si debba “organizzare” mediante un pensiero specifico è il presupposto di tutto il lavoro di Taylor. La scienza che propone Taylor è un modo di organizzare il lavoro fortemente normativo e prescrittivo. In effetti, uno dei principi più noti del taylorismo, e cioè che «tutta l’attività intellettuale deve essere eliminata dall’officina e concentrata nell’ufficio programmazione» perché «il costo di produzione può essere ridotto separando il più possibile il lavoro intellettuale e di programmazione da quello manuale» (F. W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano , pp. , ), si basa principalmente sull’assioma tutto politico secondo cui «in ogni lavoro che richieda la cooperazione di due diversi uomini o parti, quando entrambi hanno uguale potere quasi sicuramente esiste una certa dose di disaccordo e di incertezza e il successo dell’impresa ne soffre di conseguenza. Se, viceversa, una sola delle due parti assume l’intera direzione, l’impresa progredirà con continuità e probabilmente con armonia» (ivi, pp. -, corsivo mio). Questa dimensione normativa e politica dei principi di Taylor è rintracciabile nella stessa idea di scientificità dell’organizzazione del lavoro da lui proposta: una scienza per il cui sviluppo, secondo Taylor, non è richiesta in realtà alcuna conoscenza propriamente scientifica. Una scienza, quella di Taylor, il cui procedere non dipende tanto dalla sua capacità di fornire nuove conoscenze rispetto a quelle “empiricamente” già disponibili, quanto dall’identificazione dell’organizzazione del lavoro come una problematica (politica) specifica, che richiede risposte e modi di pensare specifici: «lo sviluppo di una scienza (l’organizzazione scientifica del lavoro) che sostituisce le regole empiriche non è, nel maggior numero dei casi, una formidabile impresa e può essere opera di uomini ordinari, senza alcuna preparazione scientifica» (ivi, p. ), perché «le leggi e le norme che vengono stabilite risultano così semplici che a stento una persona di media levatura le degnerebbe del nome di scienza» (ivi, pp. -). Entrando più nel merito: che, come diceva Henry Ford, «l’operaio deve fare possibilmente una cosa sola con un solo movimento» (H. Ford, La mia vita e la mia opera, Milano , p. ) è certamente un buon principio di economicità dello sforzo e dei movimenti che può incrementare fortemente la produttività (e che
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chiunque abbia svolto in vita sua un lavoro manuale sottoscriverebbe); ma che ciò debba portare alla «riduzione della necessità di pensiero da parte degli operai» (ivi) è affermazione che dalla prima non consegue necessariamente. Infine, un’ultima considerazione. Il sistema d’organizzazione del lavoro fordista e taylorista, che ha nella catena di montaggio la sua figura in qualche misura esemplare, è stato veramente un elemento economicamente così determinante per gli eccezionali incrementi della ricchezza prodotta e della produttività che si sono registrati nel corso del Novecento? Se, in effetti, l’organizzazione del lavoro attraverso catene di montaggio ha permesso rapidi guadagni in produttività nelle fabbriche d’assemblaggio (grazie alla forte economizzazione dei tempi di montaggio che una certa dose di parcellizzazione produttiva garantisce), certamente non è stato l’unico fattore a determinare guadagni di produttività in questo tipo d’industrie. Le economie di scala hanno anch’esse potentemente contribuito in questo senso aumentando la produttività del capitale fisso. Ma lo straordinario aumento della produzione di ricchezza registrabile per tutto il secolo scorso deriva principalmente da altri due fenomeni: da un lato, l’eccezionale aumento della produttività nell’agricoltura che, nei paesi industrializzati, permette ormai al % della popolazione di nutrire il restante % (e non è certamente la catena di montaggio ad aver stimolato questo straordinario fenomeno); dall’altro lato, i progressi nella produttività nelle industrie di processo (siderurgia, metallurgia, chimica, materiali da costruzione, energia) che non vengono dall’utilizzo della catena di montaggio, ma, essenzialmente, da economie di scala e dalla meccanizzazione delle mansioni (cfr. Giraud, L’inégalité du monde, cit., pp. -). . È abbastanza intuitivo che, come afferma Gallino, «aumentare la produttività non vuol dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività non aumenta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si possa pensare consiste in un’organizzazione del lavoro che rispetti e utilizzi l’intelligenza delle persone». Mentre lavorare di più «permette di aumentare la produzione, ma non la produttività oraria. […] È anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono» (L. Gallino, Lavorare di più o meglio?, in “la Repubblica”, luglio ). Lavorare soggettivamente meglio può dunque avere delle ricadute anche “oggettive” non trascurabili. . J. P. Durand, Les modèles de la relation salariale, in J. P. Durand, P. Stewart, J. J. Castillo, L’avenir du travail à la chaîne. Une comparaison internationale dans l’industrie automobile, Paris , pp. -. In particolare ci riferiamo qui alle riflessioni condotte da P. Adler, Nummi: de l’autonomie du travail à la socialisation de la production?, in Durand, Stewart, Castillo, L’avenir du travail à la châine, cit., pp. -. . Ivi, p. . . Cfr. ivi, p. . . S. Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali. Lavoro e partecipazione nella piccola e media impresa, Milano , p. . . Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. . Cfr. anche Zarifian, Le travail et l’événement, cit., p. . . Albertini, La gestione delle risorse umane nei distretti industriali, cit., p. . . Ibid. . Cfr.: Veltz, Le nouveau monde industriel, cit., p. ; Durand, Les modèles de la relation salariale, cit., p. ; ma anche Magnabosco, L’esperienza della grande impresa, cit., p. ; S. Vaccà, Scienza e tecnologia nell’economia delle imprese, Milano ; P. Aydalot, D. Keeble (eds.), High Technology and Innovative Environments: the European Experience, London-New York ; E. Rullani, Più locale e più globale: verso un’economia postfordista del territorio, in A. Bramanti, M. A. Maggioni (a cura di), Le dinamiche dei sistemi produttivi locali: teorie, tecniche, politiche, Milano , pp. -; G. Becattini, E. Rullani, Sistema locale e mercato globale, in F. Cossentino, F. Pyke, W. Sengenberger, Le risposte locali e regionali alla pressione globale: il caso dell’Italia e dei suoi distretti industriali, Bologna , pp. -; ma anche, in una prospettiva diversa ma comparabile, il classico P. d’Iribarne, La logique de l’honneur. Gestion des entreprises et traditions nationales, Paris , pp. -.
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. Hardt, Negri, Impero, cit., p. . . Ivi, p. . . In Europa «un quart de tous les salariés à temps plein et plus deux tiers de ce qui travaillent involontairement à temps partiel ont des emplois de faible qualité – c’est à dire des emplois mal rémunérés et à faible productivité, n’offrant ni sécurité de travail ni accès à la formation ni possibilités d’avancement professionnel» (Commission Europeénne, L’emploi en Europe , cit., p. ). Al contrario, «la productivité va de pair avec la qualité du travail, la satisfaction au travail et la formation» (ibid.). . Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, cit., pp. -. . Ivi, p. .
Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa* di Anne Duhin
Questo testo riporta i risultati di due inchieste di fabbrica realizzate a Bologna, all’interno della Bonfiglioli, azienda meccanica che produce riduttori di velocità. L’insieme della ricerca si è svolta in due fasi: da gennaio a marzo e da gennaio a marzo . In ognuna delle due fasi è stata compiuta una ventina di interviste individuali con operai di due stabilimenti del gruppo Bonfiglioli: lo stabilimento B, situato a Calderara di Reno, che produce le parti interne dei riduttori di velocità, e lo stabilimento B, situato a San Lazzaro di Savena, che invece produce la parte esterna dei riduttori (scatole e coperchi). Le interviste, di una durata compresa tra un’ora e trenta e due ore e trenta, hanno avuto luogo dentro la fabbrica, durante l’orario di lavoro, sulla base di un questionario che chiedeva agli operai che cosa pensassero del loro lavoro, degli operai oggi, della fabbrica, del sindacato, della politica. La ricerca che ho condotto si concentra sul pensiero degli operai e ha come cardine una tesi di dottorato in Antropologia. Questo studio si iscrive, in effetti, nel campo di un’“antropologia operaia” che, basandosi sui risultati di ricerche condotte a partire dal in Francia e all’estero, si propone di identificare le categorie per analizzare la realtà degli operai e delle fabbriche, con lo scopo di coglierne i termini attuali. In effetti, se gli operai solitamente non si riferiscono più alla “classe”, al “movimento” e non si identificano più con un gruppo, tuttavia usano concetti come “operaio”, “fabbrica” e “politica” in modi inediti e da analizzare in riferimento alla contemporaneità. Si può dunque ipotizzare che si possa identificare una figura operaia contemporanea. Lavoro, socialità e fabbrica: questi i tre temi principali su cui ho interpellato gli operai durante le interviste. I due questionari che ho elaborato comprendono numerose domande sul lavoro. Ad esempio: “Mi può dire in cosa consiste precisamente il suo lavoro?”; “Direbbe che il suo lavoro è un mestiere?”; “Prende delle iniziative nel suo lavoro?”; “Lavorare bene: cosa significa per lei?”; “Cosa è importante nel suo lavoro?” ecc. * Ricerche di antropologia operaia all’interno di una fabbrica meccanica di Bologna, la Bonfiglioli.
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L’analisi delle risposte al tempo della prima inchiesta mi ha permesso, nella stesura del secondo questionario, di centrare meglio alcune domande. È così che, per esempio, ho introdotto delle domande su forme e modi in cui gli operai si aiutano, ma anche sui trucchi e le astuzie che essi utilizzano nel lavoro, nonché sulla sua dimensione intellettuale. Mostrerò che i discorsi dei lavoratori si basano su una dimensione di interiorità al lavoro che si palesa attraverso una molteplicità di modi di pensarlo. Molteplicità che mette in evidenza il rapporto singolare che ciascuno intrattiene con il proprio lavoro. Ma anzitutto qualche annotazione sul modo in cui è organizzato il lavoro all’interno degli stabilimenti B e B, dove ho effettuato le interviste. La maggior parte degli operai lavora dal lunedì al venerdì su due squadre per sette ore al giorno, dalle . alle ., per quanto riguarda il primo turno, e dalle . alle . per il secondo. Ogni settimana gli operai cambiano di turno. Alcuni operai lavorano su tre turni, effettuando un turno supplementare dalle . alle . del mattino. Altri coprono l’orario cosiddetto “normale”: otto ore di lavoro giornaliero, dal lunedì al venerdì, dalle . alle . e dalle . alle .. Nel turno di sette ore non è prevista alcuna pausa ufficiale, ma vi sono dei momenti in cui c’è meno lavoro (quando la macchina produce i pezzi, per esempio) di cui gli operai approfittano, soprattutto per andare presso distributori di caffè o panini. L’orario normale prevede una pausa per il pranzo tra le . e le .. La produzione avviene in grandi serie e per stock, programmati ogni anno. Le macchine sono prevalentemente a controllo numerico, alcune dotate di robot, ma ci sono ancora alcune macchine semiautomatiche e altre chiamate “manuali”, anche se la tendenza della direzione è quella di eliminarle progressivamente. Ogni operaio lavora generalmente su più macchine, da solo o con altri operai. La direzione favorisce il fatto che gli operai sappiano lavorare su più tipi di macchine e a differenti fasi del processo di produzione, affinché siano sostituibili tra loro. Le macchine a controllo numerico vanno sempre preparate prima dell’inizio del lavoro. Questa operazione viene chiamata “piazzamento” della macchina. Essa richiede un tempo che varia in funzione dell’esperienza e dell’abilità del lavoratore. Si tratta di inserire nella macchina gli utensili necessari e i dati (misure, velocità, numero di pezzi da produrre ecc.) nel programma informatico. Agli operai spetta solo di adattarlo in funzione della produzione prevista. Una volta avviata la macchina, il primo pezzo prodotto deve superare un controllo-qualità. La produzione viene lanciata solo quando giunge il benestare del laboratorio del controllo-qualità. Durante la produzione, il materiale che le è ne
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cessario deve essere vagliato, controllato e misurato dall’operaio, che è anche responsabile del buon funzionamento della macchina, con tutte le operazioni connesse, come rabboccare l’olio, nonché di tutte le attrezzature affidategli. Le macchine semiautomatiche, non dotate di controllo numerico, necessitano invece di una regolazione manuale e ciò è necessario più volte nel corso della produzione, in quanto tali macchine perdono facilmente la taratura. Le macchine manuali, infine, richiedono di essere predisposte adeguatamente ogni volta che la lavorazione cambia. Quando una macchina va in panne, l’operaio non deve intervenire personalmente, ma informarne rapidamente il suo diretto superiore. Si tratta allora di decidere se il guasto è abbastanza modesto da poter essere riparato dallo stesso operaio o se è il caso di far intervenire personale specializzato. Veniamo ora all’analisi delle risposte degli operai. Qualificazioni del lavoro a) Comparazioni Alcuni operai hanno comparato il lavoro in una grande azienda a quello svolto presso un artigiano, mettendo così in evidenza una specificità del lavoro nelle grandi aziende. «Non è difficile, però è abbastanza impegnativo – dice un intervistato – anche perché non c’è il tornio di un artigiano, qui alla Bonfiglioli, la parte riguardante i programmi, che è la cosa più complicata, è già fatta, per cui è più che altro un lavoro di carico, scarico e controllo dei pezzi, perché i programmi li hanno già fatti tutti loro, li hanno già registrati; quando c’è da fare un piazzamento nuovo, le operazioni da fare sono semplici». Un altro operaio considera il contenuto del lavoro svolto presso un artigiano come più professionalizzante, in quanto più complesso e promotore del “talento” dell’operaio. All’opposto, il lavoro in una grande fabbrica viene presentato come un lavoro di sorveglianza della produzione, d’approvvigionamento della macchina e di scarico dei pezzi prodotti. «Dall’artigiano il lavoro è molto vario, in un giorno puoi cambiare due o tre volte lavoro. C’è bisogno che ti arrangi per fare un lavoro: se non c’è l’utensile, te lo devi costruire, ci si diverte lavorando. In una ditta più grande, al livello della Bonfiglioli, sono lavori già selezionati, già tutto fatto, predisposto. L’impegno è quando arriva una macchina nuova. Delle macchine non vengono piazzate per anni, fanno sempre lo stesso lavoro». (Direbbe che il suo lavoro è interessante?) «Interessante magari no, interessante è quando ci sono delle cose nuove da fare, quello mi interessa perché mi impegna, però per il resto, troppe cose sono di routine, diventa un po’ monotono».
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In un’altra intervista, alla risposta allo stesso quesito: «Non secondo me, basta fare attenzione, non è difficile», ho rilanciato chiedendo cosa intendesse per “fare attenzione” e la risposta è stata: «I primi tempi può essere difficile, ma dopo capisci come funziona, e poi è ripetitivo, alla fine diventa sempre la stessa cosa. Tutti i giorni è lo stesso lavoro, per tutta la settimana». Non troppo differenti sono le risposte venute da un altro intervistato: «Di difficoltà non c’è n’è, sono lavori semplici». (Anche fare la preparazione della macchina è semplice?) «Sono tutte cose che si imparano in fretta, anche perché sono lavorazioni standard, sempre uguali, quindi diventa abbastanza noioso, non sono lavorazioni complesse, possono essere lunghe ma non complesse». Per questi operai, dunque, è il carattere “monotono”, “ripetitivo”, “semplice” e “di routine” che qualifica il lavoro nelle grandi fabbriche, essenzialmente perché i pezzi da produrre sono sempre gli stessi e perché i gesti da compiere, una volta appresi, si fanno per abitudine e in maniera automatica. «Il tornitore – annota un altro intervistato – deve saper programmare la macchina, qui con il fatto che alla fine i pezzi sono sempre gli stessi, la parte relativa è stata fatta da tempo, è per questo che quando bisogna cambiare il lotto non c’è bisogno di inserire il programma, lo si inserisce dal computer. […] Da un artigiano questo potrebbe anche essere un mestiere perché ogni giorno tu devi fare un programma diverso; nelle grandi industrie la macchina è regolata e fa . pezzi; tu non impari veramente un mestiere, in dieci anni qui dentro tu non impari questo mestiere, ma da un artigiano in un anno l’impari». Qui l’accento cade dunque sul frequente cambiamento delle operazioni da svolgere, il quale permette, assieme all’esercizio della programmazione, un’acquisizione di saperi; così si pensa venga una vera conoscenza del mestiere, che è ritenuta invece molto difficile, se non impossibile, in una grande azienda. L’opposizione “lavoro manuale/lavoro numerico” è al centro di altre risposte, come la seguente: «Ho seguito un amico che lavorava, è stata la mia rovina, non ho avuto altro pensiero che lavorare in fabbrica». [Per quale ragione dice che è stata la sua rovina?] «Perché non mi piace più l’ambiente dell’officina, è cambiato il modo di lavorare. Una volta era l’uomo che lavorava, era tutto manuale il lavoro, adesso le macchine sono programmate, tu non fai altro che fare del facchinaggio, pagato molto male, perché se uno va a fare il facchinaggio prende il doppio che prendo ora». Dove si può notare che attraverso l’opposizione “lavoro manuale/lavoro numerico” l’operaio denuncia la riduzione del margine di manovra precedentemente concessogli. In questa affermazione, come nelle precedenti, le differenze tra lavoro artigianale e lavoro in una grande fabbrica non sono ricondotte a una questione di ordine produttivo, ma alludono anche ad altro: a una differenza di punti di vista, quello dell’operaio e quello della direzione; a proposito del lavoro si delineano quindi due concezioni di lavoro. Due concezioni che dipendono da fat
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tori oggettivi, ma anche da fattori soggettivi, come la decisione da parte della direzione aziendale di concedere agli operai del tempo per migliorare le loro conoscenze a proposito del lavoro. È parimenti interessante notare come gli operai non sostengano tanto che il lavoro sulle macchine a controllo numerico sia in se stesso “monotono” e “ripetitivo”, quanto il fatto che, a sollecitare in misura maggiore o minore le loro competenze, sia il modo in cui la direzione organizza il lavoro. Resta l’importanza attribuita alle possibilità per gli operai di apprendere il lavoro e di avere proprie iniziative in questo tipo di fabbrica: possibilità che in altre aziende più grandi e più complesse vengono considerate praticamente inesistenti. Nelle affermazioni sopra sostenute, il lavoro svolto su macchine dette “manuali” e semiautomatiche risulta qualcosa di completamente distinto da quello svolto su macchine a controllo numerico. Una distinzione che accomuna tanto gli operai più giovani, che hanno iniziato la loro carriera sulle macchine a controllo numerico, per poi dover imparare anche a lavorare su macchine semiautomatiche e manuali, quanto gli operai più anziani, che hanno seguito un percorso di carriera inverso. Nella risposta che segue, la differenza tra i due tipi di lavoro si pone su un altro piano: decisiva qui è la categoria della professionalità. «C’è un cambiamento importante nella fabbrica, perché all’epoca della macchina manuale diciamo che dovevi fare le cose dalla A alla Z, dal filetto all’angolo del profilo dovevi costruire, invece adesso basta solamente impostare i dati nella macchina e ti viene fatto il pezzo praticamente finito. Era un altro modo di lavorare, molto più professionale di adesso. Nel senso che all’epoca dovevi fare degli ingranaggi, delle formule, dovevi farti i calcoli di questi ingranaggi. Adesso è tutto tramite computer, ti viene già fuori il passo della vite. Prima dovevi farti i calcoli, dopo aver fatto i dati, adesso come professionalità, va be’, ce n’è un po’, ma non ce n’è più come prima, il computer è bello, ma la professionalità cade, non costruisci il pezzo per conto tuo». Dal che risulta che il lavoro su macchine manuali è considerato come fortemente promotore delle abilità lavorative dell’operaio. Lavorando su macchine manuali, la fabbricazione del pezzo dipende totalmente dalle capacità fisiche e dalle conoscenze utilizzate. Questo spiega l’utilizzo di verbi come “fare” e “costruire”, oltre alla locuzione “per conto tuo”. È diverso il rapporto intrattenuto con la macchina a controllo numerico: il lavoro è concepito come un intervento diretto, piuttosto che come un controllo d’insieme del processo di fabbricazione. La tecnicità e la professionalità del suo lavoro si oggettivano così nei gesti fatti, cosa che viene ritenuta impossibile con le macchine a controllo numerico. Assai diverso è quel che pensa un altro intervistato: «Con il controllo numerico bisogna andare dentro il programma e digitare le coordinate sul program
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ma, mentre coi manuali devi fare tutto con semplicità, devi organizzare tu il lavoro, in senso metaforico, vedere se il pezzo viene bene o male, fare delle modifiche con le mani». In fondo qui è il lavoro sulle macchine a controllo numerico a essere considerato più interessante. In effetti è l’utilizzo della tecnica attraverso il ricorso al computer che fornisce il lato professionale del lavoro. Anziché la qualità del gesto manuale, come nel caso della citazione precedente, qui emergono altri valori. “Devi fare tutto con semplicità”, “fare delle modifiche con le mani”, “devi organizzare tu il lavoro, in senso metaforico”: sono tutti argomenti di svalutazione di questo tipo di lavoro. In questo caso, il fatto di dover intervenire su tutte le tappe della produzione del pezzo, ma anche di avere il controllo di tutte le tappe e d’intervenire manualmente è visto come una mancanza di tecnicità nel lavoro, confermando così il carattere obsoleto di questo modo di lavorare. È interessante notare come questo intervistato utilizzi le medesime argomentazioni dell’interlocutore precedente per sviluppare un concetto opposto. Le affermazioni che seguono si configurano diversamente, perché questi intervistati, che hanno lavorato su entrambi i tipi di macchina, non mettono su un piano comparativo i due tipi di lavoro, bensì li assegnano a due spazi diversi. «Sono due fasi diverse – dice un operaio – prima dovevi essere un buon lavoratore manuale, dovevi conoscere gli utensili, il materiale che lavoravi, trovare tutti i giri, era interessante anche prima, adesso è diverso, tutto è già preparato, quello che ti fa fatica è il programma, è molto professionale, permette di avere professionalità e di conoscere il processo». Un altro: «Prima, per lavorare un pezzo, avevo una barra grande così, prendere la barra, l’utensile da me, mentre ora tutto è già predisposto, è già semilavorato, la cosa più difficile è la programmazione della macchina e quindi per chi non ha fatto un po’ d’istruzione, di scuola, è difficile; se non conosci la programmazione, non ti muovi per niente. Sono due esperienze diverse». Qui si presentano dunque due forme di lavoro diverse che fanno riferimento a capacità diverse, non comparabili. Alla luce di questa analisi, si nota una volta ancora che le affermazioni degli operai non sono inscrivibili nel medesimo registro e che la distinzione tra il lavoro su macchine manuali e il lavoro su macchine a controllo numerico attiva il pensiero di ognuno riguardo al proprio lavoro in modi diversi. b) Un lavoro sulle macchine Le citazioni qui raggruppate riguardano il “rapporto operaio/macchina”, come lo chiama un intervistato. È anche messa in evidenza la costruzione di un “sapere”, di una capacità propria di lavorare ottenuta nel tempo e con l’esperienza del lavoro.
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«Il modo di lavorare – dice un intervistato – il saper stare vicino a una macchina, a bordo macchina e avere una visione di quello che si deve fare, poi stare attenti a muovere le mani, mettere le mani dove si deve, al momento giusto perché si rischia di farsi male, poi col tempo viene l’esperienza, cominci ad avere il tuo modo di lavorare, non seguire più gli altri». [Cosa intende per “avere il tuo modo di lavorare”?] «Ci sono vari metodi per poter lavorare, ognuno ha il suo, anche se la sostanza è sempre quella, magari si riescono a trovare delle vie più qualitative per raggiungere l’obiettivo». Qui, inizialmente, si sottolinea l’importanza della postura fisica, del saper muovere il corpo, dell’adattare i propri movimenti per fare al meglio questo tipo di lavoro. Si insiste sull’esigenza di una strategia d’insieme con cui organizzare i gesti da compiere: “avere una visione di quel che bisogna fare”. Ma, sottolineando che ciascuno lo fa a suo modo, questi enunciati sostengono che, anche nel rispetto delle consegne ricevute, questo tipo di lavoro consente all’operaio di dargli la propria impronta, integrandovi astuzie, inventando scorciatoie o trovando altri espedienti. C’è anche chi parla di autonomia: «[Essere autonomo] vuol dire che l’operaio sa stare sulle macchine, ci arriva, si sa gestire bene, un rapporto di confidenza con la macchina, del feeling tra la macchina e l’operaio». (Cosa intende?) «Soddisfazione dell’operaio, anche convivere con il rapporto macchina/operaio, conoscere cosa si fa e come si fa. Se tu conosci quel che fai, conosci la macchina, ti sai gestire bene, sai come fare. [...] Rimanendo degli anni sulle stesse macchine, l’esperienza ti insegna a conoscerle, sai già muoverti bene». Autonomia qui significa dunque capacità di gestire, di convivere con la macchina. Macchina, che un altro operaio associa a qualcosa (come l’auto) di suo possesso. «Sono sempre stato sulle rettifiche manuali, poi meccaniche». (Come ha imparato il suo lavoro?) «Con i tecnici che venivano a installare gli impianti, loro ti davano le basi per iniziare e poi piano piano tu ti applichi al lavoro, piano piano vai avanti, con gli anni, vari trucchi della macchina, è come con la propria automobile, uno sa i difetti della propria automobile, quindi...». Qui siamo dunque in tutt’un altro spazio rispetto a quello delle consegne impartite dalla direzione: è lo spazio di un rapporto di interiorità dell’operaio con il proprio lavoro. c) Un lavoro con la testa Nelle citazioni che seguono, il lavoro è posto in relazione all’intelletto, alla “testa”. Un termine che ritorna in più risposte: «Non c’è tanto da imparare – dice un intervistato – basta esserci con la testa, non distrarsi, ci sono momenti in cui ti puoi distrarre, prendere un caffè, ma quando c’è il pezzo è meglio non esserlo (distratto)». E un altro: «La rettifica è la lavorazione finale del pezzo, si fanno le
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rifiniture sul pezzo, deve avere una certa misura ben precisa, parliamo di centesimi, dopo la rettifica, sono montati. Bisogna essere abbastanza precisi, bisogna essere abbastanza presenti con la testa». Notiamo che l’utilizzo delle capacità intellettuali è considerato “necessario in una certa fase del lavoro”, stando alle affermazioni del primo operaio, mentre viene considerato “costante” dal secondo. Ma ci sono anche enunciati con diversa accentuazione: «Essere presente con la testa vuol dire dare interesse al tuo lavoro, attenzione alla sicurezza. Senza la testa puoi sbagliare, poi se sei serio devi essere soprattutto presente colla testa». Qui “essere presente con la testa” può essere letto in due modi diversi. Il primo è attinente all’idea che abbiamo già incontrato nelle precedenti citazioni, cioè quella della stimolazione dell’attenzione durante le diverse fasi di lavorazione. Il secondo si riferisce a una dimensione più soggettiva (“prestare attenzione al tuo lavoro”), che richiama il rapporto tra il lavoratore e il proprio lavoro. In effetti, prestare attenzione a ciò che si fa, essere presenti soggettivamente, mobilitare le proprie capacità equivale a mettersi in gioco, a investirsi soggettivamente nel proprio lavoro. Vediamo ora come ogni operaio considera il suo lavoro nel senso di “posto di lavoro”. Molteplici posizioni di fronte al lavoro a) “Affrontare il lavoro” Qui gli enunciati ruotano attorno alla questione di come lavorare al meglio. «Personalmente – dice un operaio – io sono molto attento all’ordine, alla pulizia sull’impianto, perché ritengo che l’ordine, la pulizia fa sì che l’operatore lavora meglio. Dopo di che il lavoro che devo svolgere lo faccio con più entusiasmo. È una cosa messa insieme, l’ordine mi aiuta tanto a far sì che le cose vadano bene». (Per quale motivo è importante per lei?) «Credo che per me è un fatto... l’ordine mi dà la sicurezza che ho tutto sotto controllo». Essere ordinati e mantenere la propria postazione pulita sono delle consegne date dalla direzione agli operai per svolgere il loro lavoro. Ma nelle affermazioni dell’intervistato, più che indicazioni a cui conformarsi obbligatoriamente, queste consegne designano uno spazio soggettivo, una propria visione del lavoro: «Dopo di che, il lavoro che devo fare lo faccio con più entusiasmo». Ci sono anche dei momenti di particolare impegno e preparazione al lavoro: «Se succede di rettificare dei particolari molto più impegnativi – dice un altro intervistato – mi metto nelle condizioni di affrontare il lavoro». Cosa intende per “affrontare il lavoro”? «Può capitare che l’azienda ha bisogno di fare uno speci
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fico particolare, che esce fuori della normalità del lavoro. Normalmente lavoriamo con delle qualità più facili, quindi l’operatore lavora con più tranquillità, invece quando ci dobbiamo confrontare con particolari che chiedono più precisione, da parte mia aumenta l’impegno nell’affrontare questo lavoro. Nella normalità delle cose non è che sia facile, ma perché è da anni. Però quando si fa un particolare, io mi metto nella condizione di operare in un modo diverso, è tutto lì». b) Modi diversi d’imparare il proprio lavoro La volontà di apprendere è un tema ricorrente in molti enunciati. Ad esempio: «Considerando la mia voglia di apprendere, perché sono uno così, mi sono sempre migliorato fino ad arrivare alle macchine computerizzate. Io ho sempre avuto voglia di migliorare, di migliorarmi. Anche adesso che ho una certa età, ho sempre voglia di vedere cose nuove». Per quale motivo è importante? «Per una cosa personale. Sono una persona che mi piace sapere, migliorare nella vita, quando lo so sono felice. E nello stesso tempo, a mio avviso, facendo questa cosa, il tempo passa meglio, sempre a livello personale». “Volontà d’imparare”, “di migliorare”, “vedere cose nuove”, “sapere” qui sono tutte parole che non si riferiscono solo al campo del lavoro, si presentano come “qualità” inerenti alla personalità e utilizzate sul lavoro. Così il rapporto in interiorità col lavoro di questo operaio si costituisce in maniera indipendente e soggettiva, cioè a prescindere dalle prescrizioni della direzione della fabbrica. In questo stesso senso va la risposta di un altro intervistato: «Io m’impegno, devo imparare, sempre mettermi a conoscenza di cose nuove, la mia persona cresce, io la penso così, ecco». Ma c’è anche chi vede il “migliorarsi” nel lavoro come una “sfida”. «La persona andando sulla macchina deve sempre migliorarsi nell’organizzazione. Se devi fare un piazzamento nuovo, la prima volta ci metti tre ore, la seconda volta devi andare più velocemente, devi sempre migliorarti. Anche a me dopo tanti anni che lavoro capita che non riesco in qualcosa, ma queste cose qui non devono succedere». Per quale motivo? «Perché hai sbagliato». È importante non sbagliare? «Per me è importantissimo, ogni volta che faccio una cosa, il primo pezzo deve andare bene. [...] È una sfida [...] se io riesco a fare quelle cose lì, anche se si fa poco in un’azienda come la Bonfiglioli, il poco che fai lo devi fare bene, perché raggiungi un buon livello». Questo mettersi alla prova, che è evidentemente richiesto dalla logica della produttività dell’impresa, l’intervistato lo assume come opportunità per dare consistenza a un lavoro che considera poco valorizzante: «anche se si fa poco in un’azienda come la Bonfiglioli, il poco che fai devi farlo bene». L’avverbio “poco” richiama una caratteristica del lavoro già sottolineata da altri intervistati, la monotonia, la ripetitività, ma che l’assunzione di sfide per questo operaio permette di interrompere.
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Da questi enunciati emerge dunque uno spazio soggettivo degli operai rispetto al loro lavoro. Si tratta di uno spazio condiviso da tutti gli intervistati, indipendentemente dalle loro qualifiche ed età diverse, e che non impedisce del resto che gli ordini di produzione posti dalla direzione siano rispettati. c) “Essere se stessi sul lavoro” È interessante notare che nella maggioranza delle risposte alla domanda “cosa pensa delle iniziative nel suo lavoro?”, “iniziative” si sia inteso nel senso di un “fare cose” di cui i “capi” non sono al corrente, vale a dire andare al di là delle consegne ricevute. Ciò fa pensare che tra gli intervistati prevalga la convinzione che la direzione accetti difficilmente le iniziative degli operai. «Se [i capi] lasciassero far qualche operazione in più all’operatore – sostiene un intervistato – rispetto ai tempi di produzione si perderebbe del tempo, la produzione avrebbe degli svantaggi: quando gli operatori possono se ne vanno perché il lavoro monotono non piace». Dal che si può chiaramente intendere che “iniziative” e “produzione/tempo” sono qui in netta opposizione, mentre l’intervistato propone che la fabbrica sia un luogo dove, attraverso delle iniziative, venga lasciato spazio all’apprendimento degli operai. L’avviso di un altro operaio va in direzione opposta: «Bisogna dare un po’ di libertà di scelta». «Prendiamo delle iniziative – egli lamenta – ma la direzione non va in quel senso. [...] Adesso ci sono degli strumenti per togliere ogni iniziativa. È come se ci chiedessero di applicare soltanto». Cosa ne pensa? «Per me bisogna dare un po’ di libertà di scelta; non posso fare come dicono loro perché ognuno ha le sue esperienze, i suoi punti di vista. Il compito è fare bene, fare meglio, fare di più. Tu non puoi dire “devi fare in questo modo qua, fare questo programma qua”, quando io ne so di più. Bisogna dare un po’ di fiducia agli operai». Pronunciandosi in favore della possibilità di più iniziative, d’“un po’ di libertà di scelta”, con questi enunciati si richiede “fiducia” per gli operai da parte della direzione. È in effetti di estremo interesse sottolineare che le parole e le proposizioni di questo operaio non si costruiscono in opposizione all’idea di produrre, di rendere, di fare presto, e che su questo punto egli è in omogeneità completa con la direzione: «il fine è di fare bene, fare meglio, fare di più». Ma c’è anche chi sottolinea che «bisogna essere forte per prendere delle iniziative». E al rilancio (“che cosa intende più precisamente?”), la risposta è: «Perché ti metti contro certi programmi, contro quelli che chiedono». Intende dire forte di carattere? «Sì ma anche essere sicuro, se ti dicono vai a . e tu dici no, vado a ., bisogna essere forte perché loro non lo ammettono». Come spiega ciò? «Questo è un problema informatico, vogliono avere dei dati fissi per un maggior controllo. Questo pezzo mi prende minuti, però se domani mi porti un pezzo che è da minuti e tu vedi che è da minuti perché il lavoro è un
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po’ diverso, il pezzo è diverso, perché io ci guardo, se ci si mette di più, devo metterci di più anche se loro vogliono che ci metta di meno». Queste parole mettono in dubbio che le scelte di gestione del personale operaio dipendano sempre e solo da preoccupazioni di produttività. L’esigenza del controllo viene dunque ritenuta a volte eccessiva. Ed è anche proprio per contenere simili eccessi che viene rivendicato il riconoscimento da parte della direzione delle capacità e delle conoscenze degli operai. Il tema del controllo ritorna anche in altre risposte critiche. Ad esempio la seguente, che paragona l’azienda a una caserma e a una scuola. «Qui è un po’ come una piccola caserma. Il potere è lì per gestire. Non si deve muovere nulla, finché non viene una persona al di sopra di te. È un po’ come essere a scuola». O anche la seguente, che propone un’interessante riflessione generale sul discorso del potere e del rapporto tra questo e il sapere: «Ogni cosa fatta senza il permesso viene vissuta come una prevaricazione, una mancanza di rispetto per il capo, quindi te la bloccano. È molto interessante vedere anche come la più piccola cosa che puoi fare sul lavoro loro la vogliono sapere; si potrebbe fare altrimenti, ma non deve sfuggire nulla di cui loro non siano al corrente. Questa cosa è legata al discorso di potere, il potere ha bisogno di controllare il più possibile, chi gestisce il potere non sopporta di non sapere tutto. Il bisogno di sapere tutto è legato alla paura di perdere il potere, c’è questo bisogno di sapere tutto». Qui è chiaramente denunciata la preoccupazione della direzione aziendale di controllare il lavoro operaio e di limitarlo a un lavoro puramente esecutivo. Ma si prospetta anche come possibile un altro tipo di soggettività operante in fabbrica. Sempre sullo stesso tono, un altro operaio rivela una contraddittorietà nei comportamenti dei capi: «[Quando prendi una iniziativa] se hai fatto bene [i capi] stanno zitti e basta. Se tu sbagli ti danno addosso. È già capitato una volta. Danno una lista di quello che si doveva fare, è capitato che abbiamo già finito tutta la lista, allora abbiamo tenuto ferma una macchina. Quando è arrivato il direttore dello stabilimento, ha chiesto: “perché non avete fatto un altro pezzo?”. Noi abbiamo detto: “ma pensiamo che...”. Lui ha detto: “non dovete pensare, ma agire!”. Invece, se è sbagliato, dicono che si deve pensare e non agire!». Il pensare o meno, dunque, come importante posta in gioco delle relazioni di fabbrica. Ma altri ancora non vedono, né desiderano alcuno spazio per le iniziative. (Prende delle iniziative nel suo lavoro?) «No, perché quando si devono fare i pezzi bisogna farli in un certo modo, nessuno li può fare alla sua maniera». Le piacerebbe prendere delle iniziative? «Per me va bene anche così». Tra le nostre risposte non mancano quelle che danno una versione tutta individualistica di questa questione delle iniziative. Un intervistato, ad esempio, la fa dipendere dalla variabile quanto mai aleatoria dello “stato d’animo”. Qui
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non viene rivendicato alcun riconoscimento da parte della direzione del sapere proprio degli operai, né tantomeno si pensa a una possibile tensione tra operai e direzione rispetto al lavoro. All’opposto, altri intervistati parlano di conflitti e di forme di violenza anche all’interno delle scelte più tecniche. «Tu pensi che la cosa può essere fatta in un modo e loro decidono di farla in un altro modo. E a volte anche l’insistenza dei capi nei nostri confronti è una vera e propria forma di violenza». Cosa vuole dire? «Perché magari non riescono ad avere una grande facoltà di saper ascoltare facendo rimanere la tua parola chiusa in sé. Ma con tranquillità non è una cosa proprio fatta male, magari è perché sono già state fatte delle prove e la cosa doveva proprio andare così e noi magari facciamo fatica ad accertarlo». Lei parlava di violenza? «Perché tu pensi magari che la cosa va fatta in una certa maniera e loro decidono di farla in un altro modo, poi perché ci sono dei giorni in cui la produzione ha una consegna breve, dobbiamo aumentare tutti gli avanzamenti di una macchina e loro cominciano a sentirsi sotto pressione, e quindi ci troviamo a usare di più la forza fisica che quella intellettiva». Cosa vuol dire? «Perché dobbiamo avere come dei paraocchi, dobbiamo solo fare pezzi in quantità senza capire con che metodo lo stiamo facendo e soprattutto con che tipo di qualità». Questo tema dell’intelligenza dell’operaio, e della violenza che può normalmente subire in fabbrica, torna anche in questa altra serie di enunciati molto significativi. «Un operaio deve smettere di pensare quando viene a lavorare, deve fare il robot, se pensa è un difetto. Al lavoro deve fare quello che si dice, secondo me è un errore. È molto grave, ciascuno deve essere se stesso, anche al lavoro, pensare, dire quello che pensa, senza avere paura. Nel mondo del lavoro è così, dappertutto, per fare carriera devi restare silenzioso, ma non è il mio caso. Io sono... io non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso anche perché dico quello che penso, anche perché sono bravo al lavoro. Per me è meglio avere . lire in meno e avere una macchina pulita, non averli sotto. Per me va male perché si è creata... Ognuno pensa a fare le scarpe all’altro per avere un po’ di soldi in più». Non pensare, fare il robot, stare silenzioso, avere paura, fare carriera: da un lato, tutto questo. Dall’altro: essere se stesso, pensare, dire quello che si pensa, essere coraggioso e bravo sul lavoro. Divisione chiara, netta, ma “grave” e sofferta («per me va male») e in un ambiente non favorevole («ognuno pensa a fare le scarpe all’altro»), ma unica via per «non averli sotto». Passiamo ora al tema della socialità. La fabbrica come mondo “Una specie di paese”: tra gli operai c’è anche chi qualifica così la “ditta” Bonfiglioli.
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«La fabbrica ha un aspetto che è molto pettegolo, per passare il tempo, è una specie di paese, giocoso, un po’ cattivo, quello che fai col tuo collega sai che dopo tutta la ditta lo saprà, e questo aspetto non è del tutto positivo ma è molto umano, una maniera di passare il tempo, le chiacchiere vanno in giro da sole». L’aspetto “chiuso” della fabbrica la fa pensare come un piccolo paese, in cui tutti si conoscono, e si tende a sparlare. Ma questo parallelismo tra fabbrica e paese dice anche del risvolto caloroso dei legami tra operai, malgrado la loro apparente durezza: «non è del tutto positivo, ma è molto umano». Altri sottolineano “le grandi simpatie” che si possono creare in questo luogo, qui descritto con un’atmosfera un po’ familiare, con riti precisi. «Si creano anche grandi simpatie, grande solidarietà. Belle amicizie, un po’ di famiglia, e poi lavori molto, tendi a stare con le persone con le quali ti senti più in sintonia, dei riti ben precisi: prendere il caffè, chiacchierare, il secondo caffè della mattina, che prendi coi colleghi con cui senti di avere stima, affetto e simpatia». Dal che risulta che questa notevole socialità ritma anch’essa il tempo della vita di questa fabbrica. Altra espressione che conferma questa dimensione è il paragonare la Bonfiglioli a “un piccolo mondo”. «La fabbrica è una specie di piccolo mondo, trovi di tutto. [...] Nascono anche [...] dei bei rapporti, anche se c’è un’ambiente chiuso, pettegolo. Puoi avere molte molte conoscenze». Qualcuno apprezza la possibilità di incontrare persone belle, intelligenti, geniali, cosa che rende l’ambiente “ancora autentico”. «Dico che dentro la fabbrica dove si annida l’olio… spesso qui cova il genio, trovi delle belle persone, anche proprio ragazzi intelligenti. Un mio collega, prima di venire qua dentro andava in tourné e faceva il ballerino di danza classica con le operette. È incredibile, ci sta bene! È un ambiente ancora autentico». Un altro intervistato oppone un piano professionale a un piano umano, il solo, questo tra operaio e operaio, che fa della fabbrica un luogo soggettivamente positivo. Cos’è la fabbrica per lei? «È stato sul piano umano un bel risultato alla fine, posso dare qualcosa, invece di prendere, a me stesso e agli altri. Sul piano professionale è un fallimento, ritornerei indietro, non verrei, anche se mi piace. La professionalità è negativa per me, però sono solo buono a fare questo. Grazie a degli amici che ho trovato, sono divenuto più uomo». Anche in questa risposta di un giovane operaio ritorna il tema della fabbrica come luogo di formazione della soggettività in senso lato, ma qui si qualifica anche come luogo per un confronto positivo tra generazioni diverse: «Mi sento più cresciuto, questo è sicuro, magari essendo a contatto con più persone, magari molto più grandi di me, che mi hanno insegnato molte cose». Cosa? «Mio nonno direbbe “a stare al mondo”». Più precisamente? «Esperienze sul lavoro, di vita normale, di interessi, un po’ di tutto magari. Solo gente di una certa età possono consigliarti, visto che sono uno dei più giovani. Comunque non avrei mai
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pensato di trovarmi bene con della gente di una certa età, non avrei mai pensato di andare così d’accordo, perché dove lavoravo prima eravamo della stessa età, è una cosa che mi è piaciuta molto essere a contatto con della gente più grande di me, perché sono convinto che c’è molto da imparare...». Conclusioni Dall’analisi di ciò che pensano gli operai del loro lavoro risulta una molteplicità soggettiva, all’interno della quale si può dire che nessuna concezione, classista o meno, prevalga sull’altra. Più e diversi modi di pensare stanno fianco a fianco e ciascuno rivendica una propria singolarità, che solo raramente sconfina nel puro e semplice individualismo. Un chiaro punto di convergenza riguarda l’esigenza di un riconoscimento e di una presa in conto da parte della direzione del sapere e delle capacità degli operai nel loro lavoro. “Essere se stessi”, vale a dire non fare completamente astrazione da quello che si è, da ciò che si sa e si pensa: un’altra questione, questa, che risulta ben presente tra i nostri intervistati e che fa mettere in discussione comportamenti contraddittori dei capireparto, nonché propensioni al puro controllo da parte della direzione. La fabbrica, in effetti, non è mai identificata solo come luogo oggettivo della produzione, ma è assunta soggettivamente. Così la Bonfiglioli, nelle parole di chi pure vi svolge un lavoro prevalentemente esecutivo, viene presentata come luogo di molteplici incontri, tra operaio e operaio. “Paese”, “famiglia”, “mondo”, sono quindi i paragoni che si accostano a quelli con “caserma” e “scuola”, mentre i “pettegolezzi” risultano mischiati alle possibilità di “belle amicizie”, “grandi solidarietà”. Si può dunque riconoscere una socialità tra operai che non implica però che essi abbiano una rappresentazione omogenea dei loro rapporti reciproci. Né tra loro è riscontrabile una cultura circolante tra fabbrica e società, per cui la dimensione della prima si confonderebbe con quella della seconda. Del tutto diversamente, gli operai intervistati hanno dato della fabbrica molteplici rappresentazioni che l’hanno caratterizzata come luogo singolare. L’insieme di questi risultati mostra che l’investigazione della fabbrica è una posta essenziale per la comprensione del mondo contemporaneo. Da operaio a operaio (nota del curatore) I testi precedenti sono stati estratti da un vasto rapporto di inchiesta (di circa pp.). Per rimarcare le ulteriori ragioni d’interesse che merita questo lavo
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ro, da me seguito nel corso del suo svolgimento, riporto qui di seguito una parte dei commenti che gli ho dedicato durante la seduta tenuta l’ dicembre presso l’Université Paris, diretta da Lionel Obadia, alla quale hanno partecipato Sylvain Lazarus, Vittorio Capecchi, Alain Bertho e Jean Pierre Durand e a seguito della quale Anne Duhin ha ottenuto il Doctorat d’État con le felicitazioni della commissione. Quali sono le prescrizioni che si possono trarre dal lavoro di Anne Duhin? In un primo momento può sembrare che si tratti solo di prescrizioni che vengono dal passato. In effetti, è proprio sulle questioni della storia del movimento operaio, del classismo degli anni Settanta, della loro fine e del vuoto che esso ha lasciato oggi tra gli operai della Bonfiglioli, che finora si è prevalentemente discusso. Ricchissime sono infatti le suggestioni in tal senso che vengono dalle risposte contenute in questo rapporto d’inchiesta. Ma a insistere troppo su questo aspetto mi pare si rischi di interpretare l’insieme di questo grosso lavoro in un senso un po’ nostalgico. La nostalgia è del resto proprio la parola che viene usata in quella che trovo una delle risposte più evocative di tutte le interviste: «Io mi definisco un operaio, ma ci sono anche certuni che dicono che sono operatori. Mi fa ridere. [...] Io mi sono sempre sentito operaio. [...] Per me operaio è bello, non si deve dimenticare che io appartengo alla vecchia guardia, una cosa un po’ tradizionale. Ma comunque per me operaio è bello. Mi piace questo termine… mi sembra, mi sembra degno; ha una storia, la classe operaia, gli operai in sciopero! L’operaio ha una storia, perché cambiare? [...] Gli scioperi operai, gli operai in strada, è bello perché è una storia, l’operaio! In questo c’è una componente nostalgica. Il vecchio operaio è scomparso. La classe operaia, operai in strada, è un po’ l’immagine di questi operai, degni, che combattono tutti uniti nel tentativo di ottenere qualcosa!». In questa visione epica ed estetica dell’operaio e del classismo c’è un’oscillazione tra l’ammissione della “componente nostalgica” e la domanda “perché cambiare?” tutta rivolta al presente. La questione sembra essere che è dal bilancio del passato che si può sapere a che punto si è nel presente, ma che questo bilancio è comunque aperto ed è del tutto nel presente, del presente. Un presente che comunque non è affatto accettato per quel che è. Operatore invece che operaio fa ridere… In altri enunciati, qualsiasi conflitto nel presente sembra essere impossibile. La fabbrica viene associata alla scuola, alla caserma. In un altro caso, la fabbrica, ampliata in una prospettiva che include “il mondo del lavoro”, è caratterizzata proprio come un luogo del tutto contrario al pensare e al dire dell’operaio. Ma la questione di esistere come soggetto attivo e pensante resta acuta, quasi bruciante: «Un operaio deve smettere di pensare quando viene al lavoro. Deve fare il robot. Se pensa è un difetto. Al lavoro devi fare quello ti viene detto, ma secondo me è un errore. [...] Ognuno deve essere se stesso, anche
ANNE DUHIN
al lavoro, si deve pensare, dire quello che si pensa, senza avere paura. Nel mondo del lavoro è così, dappertutto, per fare carriera tu devi stare zitto. Ma non è il mio caso. Io sono…, non farò mai carriera, ma sono molto coraggioso, dico quello che penso». “Paura”, “coraggio”, “io”, “dire”, “pensare”, “si deve”. Questo intervistato, che considera la rinuncia a far carriera come condizione di esistere come soggetto parlante e pensante, si esprime esattamente col tono di ciò che intendo per prescrizione. Dove e come si può esercitare questa volontà dell’operaio a dire, a pensare, tutta al presente? Nel capitolo che Anne Duhin dedica al tema “lavorare cogli altri”, mi pare si trovino alcune risposte a questa domanda. Al centro della questione sono i rapporti da operaio a operaio, che riguardano il sapere: la “collaborazione tra chi sa e chi sa meno”. Ma si tratta di rapporti complessi, come mostra la risposta che continua così: «A volte la persona che sa meno comprende qualcosa che può insegnare, magari perché ha più elasticità mentale, riesce ad arrivare dove gli altri non ce la fanno. Anche dai più piccoli si può imparare, succede sempre». Un altro enunciato sottolinea il dovere di dare e ricevere le nozioni ricavate dall’esperienza: «Chi è nel reparto da più tempo ha un’esperienza in più rispetto a chi è entrato da poco, allora questa persona deve trasmettere tutte le nozioni del lavoro che ha imparato [...] e chi gli sta davanti ha l’obbligo di ricevere». Esistono addirittura delle figure riconosciute come “i saggi”: «Persone dai capelli bianchi, quelli che sono chiamati i saggi. Da come si muovono riescono a farti comprendere il modo in cui lavorare: pulizia, calma, usare il tornio, tutte queste cose qui. Per il nostro lavoro è importante seguirli visivamente». Le differenze di qualifica non devono comunque fare ostacolo. Poche parole possono bastare: «L’importante è di intenderci bene, di comprenderci, di rispettarci l’un l’altro, anche se ci sono delle differenze di qualifiche. Uno può anche essere un terzo livello, un quinto superiore, ma non ci devono essere differenze per questo. Quando parliamo tra noi, in due o tre parole sappiamo cosa dobbiamo fare, senza perdere due o tre ore per capirci [...]». Ma, secondo quanto dice questo stesso operaio, «le persone non hanno un sistema predisposto al dialogo. È già successo e succederà di non comprendersi, ma se una persona si impegna e dice “voglio lavorare con questo gruppo”, a mio avviso, ce la può fare». In altre risposte si coglie ancora più nettamente un problema di conoscenza quanto al modo di rapportarsi cogli altri operai: «Ultimamente un collega mi ha fatto una critica che non era giusta, ho risposto con calma, visto che lui lo aveva fatto in modo corretto, e poi ho lasciato cadere la questione. [...] L’autogestione è molto importante: una buona gestione dei rapporti con gli altri, ma non tutti ce l’hanno [...] la gente non sa che questa gestione è possibile».
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Ma c’è anche un giovane assunto da poco che si lamenta: «Non è sempre vero che gli operai si aiutano tra loro, certi operai non vogliono insegnare. [...] Se tu non sai fare una cosa perché non ti ricordi, il tuo collega non è obbligato, anche perché ha il suo lavoro, i capi devono essere più vicini in questa fase». E ancora: «Il sistema d’insegnamento non è efficace, a livello dei responsabili devono insegnare di più». Un altro neoassunto invece spiega: «Sono gli operai a insegnarmi le cose. Loro mi insegnano meglio che il caporeparto». Da tutto ciò ricavo un punto assai preciso. La questione di quel che alcuni sociologi del lavoro chiamano “capitale intangibile” o altrimenti quel che gli economisti à la page chiamano knowledge economy. Insomma, l’importanza del sapere, delle conoscenze nella produzione. Le macchine, lo si sa, non sono che sapere materializzato, tangibile, e tanto più ne contengono, tanto più valgono. D’altra parte, la formazione, l’immissione del sapere tra chi fa lavori esecutivi è uno dei temi più trattati oggi. E il sapere che gli operai stessi accumulano con la loro esperienza, che si trasmettono tra loro, guardandosi, parlandosi, ogni giorno, magari anche disputando, o di nascosto, magari anche contro capireparto o dirigenti fissi nella loro idee di disciplina e di produzione? A me pare che è esattamente di questo che ci parlano queste voci raccolte da Anne Duhin alla Bonfiglioli. E che mostrano quanto sia ampio il terreno di intervento per chi volesse e potesse raccogliere le prescrizioni che su simili argomenti vengono e possono venire da questi stessi operai, se interpellati adeguatamente come gli unici esperti in materie, come questa del loro sapere, poco o nulla conosciute. Note . Cfr. “Ethnologie française”, , : S. Lazarus, S. Moucharik, A. Duhin, A. Kassapi, M. Hérard, D. Corteel, J. Hayem, L. Pitti, M. Kuhlmann, M. Schumann, P.-N. Giraud, M. Hidouci, L. Kundid; Lazarus, Anthropologie ouvrière et enquêtes d’usine, cit. . Cfr. S. Lazarus, Étude sur les formes de conscience et les représentations des OS des usines Renault, rapporto conclusivo della ricerca “Les OS dans l’industrie automobile”, CNRS/RNUR, .
Una benevola forma di egoismo. I volontari della Casa dei Risvegli
di Laura Filippini
Viene qui presentata un’indagine condotta all’interno della realtà vissuta e raccontata con preziose parole da un gruppo di volontari, interpellati come detentori di uno spazio intellettuale che troppo spesso non trova il modo di raccontarsi e che viene rappresentato e descritto da persone e istituzioni che non lo conoscono nella sua totalità. Obiettivo della ricerca è mettere in luce cosa i volontari dicono sul e intorno al volontariato; essi spesso non si identificano nella visione che la società dà di loro, prova inconfutabile di una distanza fra l’opinione pubblica e la realtà del volontariato. Le parole dei volontari possono così avere una portata non solo conoscitiva della situazione che raccontano, ma anche pragmatica, di azione, conseguente a una richiesta di cambiamento migliorativo. Il campione La ricerca aveva lo scopo di intervistare volontari che si occupassero di diverse attività, ma tutte inerenti alla Casa dei Risvegli. Sono stati intervistati: – giovani volontari, dell’età compresa fra i venti e i trenta anni, accomunati da un progetto teatrale che li ha visti in contatto con persone risvegliate dal coma. A parte per tre di essi, per gli altri questa è stata la prima esperienza di volontariato; – giovani volontari intorno ai trenta anni di età molto attivi nell’ambito dell’associazione per la quale si occupano da circa tre o quattro anni di vari aspetti: dal contatto con persone risvegliate dal coma, in ospedale o a domicilio, a sperimentazioni teatrali, ma anche contatto con l’aspetto organizzativo e più burocratico dell’associazione; – volontarie in pensione che si occupano esclusivamente di gestione di eventi promozionali e che hanno alle spalle un’impegnativa attività di volontariato, anche per altre associazioni; – giovani donne di circa quaranta anni con un’esperienza di assistenza domiciliare a una ragazza risvegliata dal coma;
LAURA FILIPPINI
– volontari della Croce rossa italiana di età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni, tranne un signore in pensione, i quali hanno aderito a un progetto proposto dalla Casa dei Risvegli, avendo così l’occasione di seguire alcuni pazienti risvegliati dal coma, in ospedale o a casa degli stessi. Fra i volontari intervistati sono di sesso maschile; di questi, hanno un’età compresa tra i venti e i ventitré anni, uno ha trentacinque anni e un altro è un signore di sessantacinque. I restanti volontari sono di sesso femminile; sono signore di età compresa tra i sessanta e i settanta anni, hanno quaranta anni, sono ragazze di età compresa tra i venti e i venticinque anni, sono donne tra i trenta e i quaranta anni. Al di là del campione utilizzato nella ricerca, va sottolineato che il volontariato all’interno dell’associazione è prettamente femminile, soprattutto per quanto riguarda la fascia d’età più matura, dai cinquanta ai settanta anni. I volontari di sesso maschile, ove ci sono, li si trova in fasce d’età basse, dai venti ai trenta anni, e impegnati in attività creative e sperimentali, comunque mai in attività promozionali o inerenti all’ufficio. La fascia d’età con minore presenza risulta essere quella compresa tra i quaranta e i cinquanta anni, mentre le due fasce esterne, quella tra i venti e i quaranta e quella tra i cinquanta e i settanta risultano essere rappresentative di tipiche forme di attività volontaria; i più giovani sono volontari impegnati in esperienze molto ricche di elementi artistici e creativi, mentre i più adulti o anziani in attività più pratiche e legate all’organizzazione dell’associazione. I luoghi Il presente studio vuole essere molto attento ai luoghi ove si svolgono le attività dei volontari intervistati, per questo si è cercato di usarli come ambientazione delle interviste. Questo perché si è convinti che, per parlare di qualcosa, sia necessario, prima di tutto, rintracciare l’ambiente ove questo qualcosa si articola e si compie. Questa è stata dunque una ricerca “sul campo”, forte dell’idea che tutto il conoscibile vada contestualizzato e che l’astrazione sia un’operazione impropria se non distruttrice di significati. È nella dimensione specifica in cui si articola un fenomeno sociale, non in quella astratta e generica della società, che sostengo debbano essere analizzati e verificati empiricamente concetti come “solidarietà”, “eticità” e tanti altri, con l’intenzione di non rendere questi concetti parole vuote, senza significato, dette senza quasi rendersene conto. – Nel caso dei volontari la cui attività comporta il contatto con persone ospedalizzate, il luogo scelto per l’incontro è stato la biblioteca del Day Hospital dell’Ospedale Maggiore di Bologna in largo Nigrisoli, . – Nel caso dei volontari che svolgono l’attività organizzativa e promozionale, il luogo scelto è stato la saletta riunioni dell’associazione in Via Saffi, a Bologna.
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– Infine, nel caso dei volontari della Croce rossa italiana, il luogo è stato la sede dei Volontari del soccorso in via San Petronio Vecchio, a Bologna. Le interviste Ogni intervista ha avuto la durata di circa un’ora e mezza. Il questionario non è stato consegnato all’intervistato, ma è stato da me letto, permettendomi così di muovermi al suo interno a seconda delle risposte ricevute. Essendo inoltre il questionario unico, c’è stato bisogno di alcuni aggiustamenti a seconda della tipologia dell’attività svolta dal volontario intervistato. Il questionario Il questionario prevedeva un totale di domande. L’intenzione è stata di entrare immediatamente nell’argomento e di aprire subito un dialogo con l’intervistato, per questo le domande per la raccolta dei dati personali e statistici sono state lasciate alla fine. Le altre domande sono state disposte secondo una successione che permettesse un’alternarsi tra momenti più personali e questioni più generali; i temi trattati sono stati molteplici, con lo scopo di avere un quadro il più possibile completo di tutti gli aspetti di questa attività: da argomenti di attualità ad argomenti introspettivi, ma comunque tutti inerenti al personale modo di vedere il volontariato. Il questionario può essere definito “l’anima” del presente lavoro, perché è a partire da esso che si è sviluppato tutto il materiale; ogni domanda rappresenta una finestra che si è aperta su una porzione della realtà del volontariato. Le domande sono state formulate con lo scopo di permettere non solo un’esposizione di risposte, ma anche una eventuale riflessione su qualcosa che si fa, quindi su un agire, sul quale di solito non ci si fanno tante domande. Le domande sono state concepite per rendere l’intervista articolata, ma non dispersiva e avevano lo scopo di portare a una risposta chiara, ma non sintetica. Infine ha avuto luogo l’elaborazione delle interviste, il cui scopo non è stato quello di trovare un’oggettività in esse o quello di stilare una statistica. Ho cercato di rimanere il più possibile fedele alle parole che ho ascoltato, senza condirle e viziarle con significati diversi, con l’intenzione di proporre uno spaccato di una realtà che si è rivelata essere misteriosa e affascinante, enigmatica e cristallina allo stesso tempo, disarmante nella sua spontaneità, imbarazzante nella sua difficoltà di spiegarsi a parole e coinvolgente nella sua volontà di fare. Parallelamente c’è stata l’intenzione di rintracciare le “parole prescrittive”, capaci cioè di intervenire e proporre oltre che di descrivere.
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Una “benevola forma di egoismo”: cosa dicono i volontari del volontariato Un ragazzo, volontario da parecchio tempo all’interno dell’associazione e con un grande bagaglio di esperienze, nel corso dell’intervista si è spesso riferito al volontariato definendolo “una benevola forma di egoismo”. Il termine “egoismo” riferito al volontariato e al perché lo si faccia è tornato più volte nel corso delle interviste e l’accezione che ne è stata data è del tutto positiva. Con grande naturalezza, la totalità degli intervistati ha detto di fare quello che fa in prima istanza perché spinta da questioni e motivazioni personali: «Non esiste volontariato senza crescita personale, […] se non trovi un arricchimento personale non lo fai», sostiene una volontaria con una discreta esperienza alle spalle. Sono proprio i volontari non alle prime armi a riferire di un «bisogno personale di aiutare se stessi aiutando gli altri», come dice quello stesso ragazzo autore della frase per prima citata e che continua affermando: «Sei tu che ti nutri dell’atto del dare». La maggior parte degli intervistati sono volontari a contatto con persone uscite dal coma o che si trovano nella fase del risveglio. In costoro è forte la necessità di fare quello che fanno traendone una soddisfazione personale, altrimenti, come molti dicono, non sarebbe assolutamente possibile sopportare l’“angoscia esistenziale”, come la definisce una volontaria, che deriva dal vivere queste realtà: «Quotidianamente vivi realtà assurde e sconvolgenti e devi essere capace di liberartene in qualche modo». I modi per liberarsi di questi vissuti sono vari, ma per lo più personali; una ragazza che segue vari giovani con esperienza di coma dice: «Mi rendo conto che vederli una volta ogni tanto mi aiuta, non ce la farei a vederli sempre; a volte ho bisogno di sdrammatizzare, per questo li chiamo affettuosamente “handy”». Alcuni dicono di aver ideato tecniche per esorcizzare certi sentimenti, altri dicono che, nonostante le grandi difficoltà, riescono a «non portarsi a casa la sofferenza» che vivono, perché «quando esci devi staccare la spina altrimenti non sopporti la situazione». I volontari non a contatto con il dolore fisico, che si occupano di aspetti organizzativi e burocratici, non parlano di questa esigenza di scaricarsi dal peso delle esperienze vissute in ospedale o al domicilio di persone malate, ma anch’essi parlano della loro attività come di «un’efficace terapia» e anche per loro è un appagarsi donando ore del proprio tempo agli altri. Solo un intervistato, un signore in pensione che, come lui stesso dice, fa “compagnia” a due ragazzi con esperienza di coma, afferma: «Dove non c’è nessun tipo di interesse personale, quello è volontariato»; per il resto degli intervistati la componente di appagamento ricevuto ha una grossa importanza. La soggettività e l’aspetto personale, che rendono “benevolo” l’egoismo, sono gli elementi chiamati in causa nelle motivazioni che spingono ad avvicinarsi alla realtà del volontariato, ma sono anche quelli che continuano ad agire
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durante lo svilupparsi nel tempo dell’attività. Una giovane donna intervistata parla di una sorta di esigenza esistenziale per la quale vive «un bisogno di fare i conti con una qualche parte di te»; bisogno la cui soddisfazione non sembra arrivare mai perché appartiene a un percorso probabilmente senza fine. Spesso è stato detto che sarebbe impossibile sopportare un carico così pesante di sofferenza se chi lo sostiene non fosse spinto da profonde motivazioni personali. Non potrebbe esserci ipocrisia, non potrebbe essere un modo di scaricarsi la coscienza, perché se così fosse si sceglierebbe il volontariato sotto forma di donazioni, non quello che ti coinvolge personalmente; ma non potrebbe esserci nemmeno puro altruismo, per lo stesso motivo, perché «non dureresti un giorno» senza motivazioni personali. Solo un’intervista ha toccato il tema del rapporto fra coscienza personale e religiosità, ma in maniera molto superficiale; quella dell’influenza religiosa è risultata essere infatti una questione molto marginale; le motivazioni religiose non sono mai state presentate come cause e realtà determinanti. In quell’unica intervista è stato detto: «Io sono cattolica, ma il mio volontariato non è mai stato spinto da questo aspetto». Un’intervistata afferma: «Il volontariato deve essere una cosa anonima, discreta e arricchente, invece a volte vedo le persone lì per gratificare se stesse». Le persone intervistate che prestano volontariato solo all’interno della Casa dei Risvegli non hanno riferito di aver mai incontrato gente che facesse volontariato per scaricarsi la coscienza o per motivazioni simili, ma hanno contemplato la possibilità che questo possa verificarsi soprattutto in grosse associazioni e riportano racconti che testimoniano realtà del genere. C’è insomma in costoro la testimonianza diretta e personale di aver sempre incontrato persone spinte da motivazioni profonde, motivazioni in parte egoistiche ma comunque personali e ben salde, ma c’è anche il riportare un ampio “sentito dire” di realtà molto diverse in cui la componente egoistica diventa ricerca di riconoscimenti e sfoggio esibizionistico di ciò che si fa; niente a che vedere con qualcosa di “benevolo”. Un ragazzo afferma: «Sono spinto dal bisogno di fare cose che contribuiscano a definirmi come persona»; altri individui sono stati agganciati a questa attività grazie a una loro personale passione o interesse come la musica, la recitazione o gli studi universitari. Altri argomenti ricorrenti riguardano esperienze personali o familiari che hanno avvicinato alla realtà del coma, ma in generale prevale una forma di curiosità accompagnata a una certa propensione verso le relazioni umane e, in molti casi, una buona dose di casualità. La motivazione personale è predominante tra i giovani volontari, e spesso questi raccontano che la scelta del volontariato è stata fatta durante un periodo di irrequietezza; una ragazza dice: «È stato tutto molto casuale, se mi avessero proposto un corso di salsa lo avrei fatto ugualmente»; un ragazzo dice: «Ti sembrerà strano ma l’ho fatto parecchio per me stesso». Altri ragazzi dicono di essere stati spinti dai loro studi universitari; sono infatti molti coloro i quali hanno svolto il loro tirocinio universitario all’interno
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dell’associazione, poi vi sono rimasti. Assieme a tutte queste motivazioni si accompagna sempre la componente umana, la voglia di conoscere le persone e la loro “benevola forma di egoismo”: «È bene che esista questa realtà, ha una funzionalità sociale importantissima per chi lo fa, certo anche per chi lo riceve; è un nutrimento per tutti». I volontari che lo fanno da più tempo e che offrono parecchia disponibilità perché sono in pensione, sono accomunati dal dire di farlo perché si sentono fortunati e perché hanno ricevuto in famiglia un’educazione fatta di esempi di vita in comune e di aiuto dato agli altri. Un’anziana signora dice: «[...] Pur con tutte le scalogne, nella mia vita mi sono sempre sentita fortunata e ho sempre cercato, al di là del fattore religioso, di seguire e far seguire a mio figlio un principio, quello per cui se ricevi devi dare. Noi siamo sei fratelli, siamo nati nel periodo della guerra in un piccolo paese, eravamo tutti senza soldi ma ci si aiutava… forse è da questo che nasce il mio atteggiamento». Un’altra anziana volontaria afferma: «Penso che ognuno di noi debba sempre fare qualcosa per chi ne ha bisogno, altrimenti questa società va in malora». Questa carrellata sul perché gli intervistati abbiano scelto o si siano trovati nella situazione di diventare volontari non deve esaurirsi qui; parallelamente ci deve essere una riflessione sulle parole che si sono usate e sul pensiero che esprimono. La frase «[...] altrimenti questa società va in malora» possiede una grande potenza prescrittiva, dice molto riguardo a ciò che fanno i volontari nei riguardi di una realtà sulla quale altre parti, come il governo o la sanità, spesso e volentieri non intervengono. Le parole portano in sé dunque una grande potenzialità incisiva sulla realtà che raccontano: lo si farà per una “benevola forma di egoismo”, ma anche perché bisogna darsi da fare e intervenire a fronte di richieste a cui altri non rispondono. Le proposte dei volontari Partendo dal dato di fatto che questa forma di egoismo è considerata parte essenziale dei meccanismi psicologici che portano alla scelta di svolgere un’attività di volontariato e a quella di continuare a impegnarsi in essa, risulta che è fondamentale trovare le strade più giuste e motivanti da proporre per agganciare e rinnovare nel tempo l’interesse dei volontari. «Senza una proposta attiva da parte dell’associazione non credo che avrei fatto questa esperienza, non è partita da me questa cosa. È molto importante che arrivino queste richieste d’aiuto e di collaborazione», dice un ragazzo ventitreenne che fa parte del progetto teatrale per il quale è stato ed è in contatto con ragazzi risvegliati dal coma. La questione portata alla ribalta da tutti gli intervistati è quella del rapporto tra il volontariato e i giovani; si riconosce che «per avvicinare i ragazzi al volontariato bisogna sfruttare agganci e motivazioni loro»,
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e che sarebbe giusto diversificare a seconda dell’età dei volontari le attività all’interno di una stessa associazione e di uno stesso ambito d’azione. Questo da una parte sottolinea l’esigenza di offrire stimoli e input a coloro che potenzialmente vorrebbero avvicinarsi al mondo del volontariato, e dall’altra rivela l’esigenza di trovare il modo per rinnovare questi stimoli diversificandoli e alimentandoli, per evitare l’abbandono dell’attività. Ecco allora che è difficile vedere un giovane volontario che svolga un’attività continuativa e di un cospicuo numero di ore settimanali, se questa attività non ha per lui agganci e spunti che lo colleghino alla sua vita ancora in fase di progettazione. Una ragazza molto determinata e costante nella sua collaborazione con l’associazione dice: «Se mi dicessero di dare la pastiglia alla nonna alle due del pomeriggio non lo farei»; e un suo coetaneo la segue affermando: «Se dovessi pulire il sedere alle vecchiette in maniera meccanica non lo farei perché sarebbe una mancanza di stimoli». Alcuni intervistati adulti si dichiarano molto scettici sulla consistenza futura dell’attività di volontariato e denunciano la perdita dello scopo primario del volontariato, quello umano. Un’anziana volontaria dice: «Parlare con i ragazzi della morte è molto importante perché bisogna conoscerla; ora c’è un brutto rapporto con questo argomento, non come quando ero bambina io. Adesso la gente muore in ospedale e poi sembra sparisca, invece io mi ricordo che da bambina andavo nelle case del paese quando moriva qualcuno e lo vedevamo. Bisogna quindi dare un esempio ai giovani per insegnare loro ad affrontare il dolore della morte». Molto è stato detto riguardo la necessità di una maggiore sensibilizzazione nelle scuole e sono soprattutto i giovani che per primi hanno dichiarato la loro difficoltà nella fase di approccio al volontariato, quelli che hanno più volte fatto presente l’importanza enorme che ci sia qualcuno che fornisca informazioni: «Io ero rappresentante di istituto alle superiori e so che i ragazzi a scuola avrebbero un gran potere e una gran voglia di fare esperienze come queste, ma bisogna presentare temi e iniziative valide e questo non avviene perché c’è un problema di proposta e di ricezione». La maggior difficoltà riportata riguarda il non sapere chi contattare, quale tra le tante associazioni e come contattarla; ecco che allora sono state presentate proposte volte a fornire alle scuole numeri di telefono da utilizzare e referenti a cui fare capo. Altre proposte riguardano l’inserimento di alcune ore di volontariato nei programmi delle scuole superiori per dare la possibilità ai ragazzi di conoscere questa realtà. I volontari più giovani affermano che a scuola non ricevono informazioni sulla possibilità di fare volontariato; un ragazzo dice: «Se qualcuno a scuola me ne avesse dato la possibilità, lo avrei fatto prima». Si sottolinea nuovamente l’importanza dell’approccio iniziale al volontariato, degli agganci a questa realtà e questo è l’ambito in cui, a detta di molti intervistati, lo Stato dovrebbe intervenire con proposte mirate e con propagande efficaci; lo stesso volontario sopra citato aggiunge: «Manca il nesso…
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come entro? Quando senti una sigla di un’associazione di volontariato non sai come avvicinarti, è tutto troppo casuale; a chi lo chiedo? Dove vado? La gente non lo fa perché è una strada in salita, sono gradini che devi fare da solo. Le associazioni sono tante e non sai dove andare; per questo aspetto lo Stato dovrebbe fare qualcosa». Gli intervistati più giovani hanno mostrato un enorme interesse verso la questione della formazione dei volontari e dei problemi che si incontrano in questa attività, soprattutto quelli il cui piano di studi universitari li porta ad essere informati sul rapporto tra volontariato e welfare state. Costoro sostengono che le risorse di quest’ultimo non siano infinite, per questo motivo ritengono sia necessario incentivare il mondo del volontariato partendo dall’educazione scolastica e che sia necessario strutturare in maniera più chiara le associazioni per eliminare quella forte componente di casualità e genericità che spesso avvolge questa realtà. Una giovane donna, che deve gestire con grande impegno il suo lavoro da impiegata d’ufficio per poter ritagliarsi un po’ di tempo da dedicare al volontariato, dice: «Se chiedo un permesso al lavoro per recarmi in ospedale dai ragazzi non me lo danno… dovrebbero riconoscere in questo senso la possibilità di prendere permessi per il sociale». Tratto molto interessante è che le stesse persone che affermano di aver fatto volontariato un po’ per caso, sono poi le stesse che più di altre denunciano la casualità come un aspetto tipico del volontariato, sul quale intervenire portandovi ordine e maggiore sistematicità. Alcuni intervistati ritengono che per migliorare la questione dei referenti e della gestione e formazione dei volontari «dovrebbe esserci a capo un’organizzazione pagata; il lavoro verrebbe fatto meglio perché pagare chi è ai vertici renderebbe la condizione più chiara… credo sia molto importante», dice un’anziana volontaria forte anche della sua esperienza in altre associazioni di volontariato. A riguardo, una ragazza ventenne afferma: «Mi preoccupa che nel volontariato alcune cose siano poco organizzate, bisogna strutturare il volontariato perché funzioni bene e a pieno; oggi è un po’ tutto lasciato così come viene. A volte bisogna stare attenti a non intervenire peggiorando le cose». Un’altra ragazza, sua coetanea, dice: «[...] Se dovessi pensare a un volontariato ideale metterei uno staff di base pagato che si occupi dell’organizzazione, altrimenti si rischia di sprecare molte energie e risorse; metterei precise figure di referenti e organizzatori. Quando fai volontariato devi sentirti utile e apprezzato e una struttura di base risolve molti problemi». Gli aspetti che caratterizzano il volontariato, quindi il suo essere un’attività fatta di creatività, libertà, mancanza di certezze, relazioni interpersonali, sperimentazione, raccolta di sfide e coraggiosi salti nel vuoto, sono tutti aspetti che lo rendono un qualcosa di assolutamente unico, ma sono anche quelli che nelle fasi di avvicinamento spesso scoraggiano, perché, a volte, la volontà da sola non basta. Chi si sente meno parte del mondo del volontariato, chi non si ama
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definire con la parola volontario, chi fatica a dare una definizione precisa di quello che fa, pur condividendo e facendo tanto, è in genere chi sottolinea continuamente l’importanza di trovare il modo di avvicinare la gente a questa realtà e di motivare i giovani: «Conto sul fatto che ci sia qualcuno che mi dice che c’è bisogno di me. Vorrei che ci fosse sempre qualcuno che mi cercasse; avendo tante cose da fare ho bisogno di qualcuno che mi chieda di fare le cose. Nella squadra di calcio dove gioco l’allenatore dei portieri un giorno mi ha detto di essere socio della Casa dei Risvegli, ma ha anche detto che nessuno lo chiama, nessuno lo cerca per avere il suo aiuto… potrei finire così anch’io». Queste sono le parole di un ragazzo di ventidue anni al quale verrebbe da rispondere con le parole di un’altra volontaria, quando dice: «[...] In fin dei conti però ognuno deve metterci del suo, senza aspettare che siano sempre gli altri a prendere l’iniziativa». Rimane il fatto che da parte dei più giovani è tangibile questa esigenza di essere incanalati e sostenuti in quello che fanno. Riconoscimento intellettuale, informazione e formazione nel volontariato I volontari dicono di condividere qualcosa a cui però non sentono di appartenere e per questo non riconoscono a se stessi, intellettualmente e socialmente, un ruolo preciso; per loro la parola “volontariato” è una parola comoda con la quale ci si fa capire dagli altri velocemente, ma in realtà il volontariato è per loro uno spazio delegato alle relazioni umane, è una “questione di ascolto e di relazione avvenuta”, di empatia raggiunta e di scambio di energie. «Anch’io uso spesso questa parola, è comoda e la gente mi capisce al volo»: questo dice un volontario di trentacinque anni molto attivo all’interno dell’associazione. Volontariato e volontario sono considerate categorie e termini da utilizzare per farsi capire dagli altri in ambiti formali. Una giovane donna volontaria dice: «Quando dico che sono una volontaria la gente mi capisce immediatamente». Al di là dell’uso che se ne fa, c’è una diffusa difficoltà nell’identificarsi nel termine “volontario” e quando lo si usa si è spinti da motivi pratici e di comodità, per indicare una realtà a cui non si sente di appartenere ma che comunque si svolge con grande passione. Un solo intervistato, un volontario in pensione che segue due pazienti ospedalizzati con esperienza di coma, afferma con una certa dose di orgoglio di riconoscersi nella figura del volontario e di sentirsi appartenente allo “spirito del volontariato”, come lui lo definisce. Se chi considera comoda la parola “volontariato” rappresenta circa la metà del campione intervistato, l’altro cinquanta per cento mostra una spiccata antipatia verso questa parola e per questo afferma: «Non uso mai parole come volontario, nemmeno volontariato, non mi piace l’identificazione, certe cose come
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aiutare gli altri non si possono dire, ne parlo con te perché è una tua esigenza»; costoro, oltre a non identificarsi nel termine e nella categoria, non lo utilizzano nemmeno in contesti generali e ufficiali. Una giovane donna che nel corso dell’intervista ha mostrato un particolare individualismo, sostiene di non voler essere considerata una volontaria perché non vuole sentirsi obbligata ad avere, ad esempio, un giorno fisso per fare questa attività. C’è in questi casi un vero e proprio rifiuto di usare un termine che alcuni legano in prima istanza a qualcosa di ipocrita e ad atteggiamenti esibizionisti. Una giovane donna dice: «Provo vergogna a vedere certi personaggi esasperati che esibiscono finzione, a volte diventa un modo per apparire e quindi una contraddizione dell’essenza stessa di quello che dovrebbe essere invece un atto di generosità». Volontariato «è un termine troppo generale e che non può coincidere con quello che nello specifico faccio io», dice una giovanissima volontaria. I giovani tendono a dire frasi del tipo: «Non mi sono mai sentito un volontario o di fare volontariato»; «Non mi identifico molto nel volontariato»; non riescono insomma a vedere quello che fanno come fosse volontariato e non si sentono appartenenti all’ambito del volontariato. Il difficile rapporto con le parole “volontariato” e “volontario” può essere dunque considerato il sintomo di una generale assenza di appartenenza a un preciso ambito che proprio per questo è difficilmente raccontabile e riconoscibile attraverso parole precise. Questo meccanismo si riscontra ancora di più se si chiede ai volontari il loro rapporto con altre parole quali “paziente”, “collega” e altri termini inerenti la loro attività. In questo caso tutti gli intervistati sono uniti nel dire di non usare assolutamente mai, nemmeno in ambiti formali, termini come “paziente” o “collega”. Così i pazienti, nel caso di assistenza al malato, non sono mai chiamati “pazienti” e i colleghi mai “colleghi”. Pochissimi usano il termine “disabile”, la maggior parte degli intervistati afferma di non usare mai la parola “portatore di handicap” o “malato”, preferiscono usare anche in questo caso lunghe perifrasi per riferirsi a una persona, usano il nome proprio oppure usano il termine “ragazzo”; quest’ultima parola è usata da tutti gli intervistati e l’aspetto peculiare è che è utilizzata per riferirsi a persone di qualsiasi età, testimonianza del fatto che si viene a instaurare una forte empatia che elimina ogni differenza, anagrafica o fisica. Molti infatti dicono “un ragazzo di anni” e lo fanno con la più grande naturalezza. Gli intervistati più giovani usano spesso termini come “risveglini” per riferirsi ai ragazzi usciti dal coma, oppure alcuni dicono “i regaz usciti dal coma”. Questo dimostra ancora una volta che non esistono categorie chiare e distinte, che non c’è demarcazione tra una categoria del volontario e una del paziente su cui agisce; certo esistono differenze, ma queste vengono a sfumare quando si entra nel territorio relazionale. Una ragazza la cui attività si svolge principalmente a contatto con persone risvegliate dal coma afferma: «[...] Faccio fatica a lavorare se non c’è coinvolgimento affettivo, ho bisogno di conoscerli».
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Lo stesso vale per le parole che si usano per riferirsi ai colleghi, appunto mai chiamati “colleghi”, tranne in rarissimi casi, solo in occasioni particolarmente ufficiali, ma con il nome di battesimo; anche in questo caso molti intervistati dicono “ragazzi”, oppure usano perifrasi del tipo: “Luca, un ragazzo con cui lavoro”. Anche qui le differenze di età vengono superate, tutti si danno del tu e si salutano con il ciao, c’è un grande rapporto di amicizia e complicità, non esistono gerarchie e sudditanze, si vengono a creare veri e forti legami affettivi che proseguono anche oltre l’attività di volontariato. «Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza, con la consapevolezza di non essere un professionista» «Volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza, con la consapevolezza di non essere un professionista»: queste le parole di una volontaria della Casa dei Risvegli. Il volontario è connotato dunque da una grande volontà, volontà che forse chi fa un lavoro dipendente non ha. La necessità di un’adeguata formazione teorica e pratica, che sembra mancare in molti casi, è presentata continuamente da parte dei volontari intervistati, ma rimane sullo sfondo; ciò che primeggia è assolutamente di altro tono e colore, è una questione che rimanda alla libertà di donare un po’ del proprio tempo a qualcuno che ne ha bisogno facendolo con la voglia di essere competenti e pronti, ma facendolo soprattutto con quella consapevolezza, segno di sincera umiltà, di non essere dei professionisti e di non ambire a diventarlo. Ciò che la volontà dona agli altri non può che essere misurato in termini qualitativi, le soddisfazioni derivano da cose apparentemente piccole, da un sorriso o da una smorfia risvegliati in un ragazzo, da un abbraccio disperato ricevuto seduti su un letto di ospedale o anche da un semplice “grazie”. «Il momento più bello è stato con J., quando ha chiuso gli occhi alla fine dell’incontro per dire sì, puoi tornare», dice una ragazza. Se è vero che la frase poco sopra citata («volontario è chi ha la volontà di fare questa esperienza, con la consapevolezza di non essere un professionista») è un po’ l’emblema che rappresenta il punto di vista di tutti gli intervistati, è anche vero che c’è da parte degli stessi l’interesse e l’esigenza di approfondire alcuni aspetti della loro attività attraverso corsi teorici ai quali affiancare una cospicua esperienza pratica: «Mi piacerebbe saperne di più, ma non esistono corsi specifici e comunque nessun corso ti potrebbe insegnare come comportarti in alcune situazioni», così dice un giovanissimo volontario molto coinvolto nella sua attività che lo porta a contatto con persone con esperienza di coma e molto curioso di saperne di più di questa realtà. Nella maggior parte dei casi, comunque, gli intervistati considerano primaria l’esperienza pratica, perché solo con essa si possono trovare metodi e mette
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re alla prova quelli già adottati, soprattutto vista la particolare realtà su cui si opera, quella del coma, ove di sicuro e controllabile scientificamente c’è ben poco. Insomma, come dice una volontaria, «ci vorrebbe una circolarità tra teoria e pratica». La quasi totalità degli intervistati dichiara di non sentirsi affatto padrona delle situazioni che incontra, ma la ritiene una condizione congenita alla propria attività per la quale «non esistono corsi specifici», come dice un’altra volontaria. Diverso è il caso dei volontari che si occupano di promozione e organizzazione pratica di eventi. Costoro non riportano l’esigenza di accedere a corsi teorici e aggiungono che la loro è stata una scelta, che hanno preferito non fare volontariato in ospedale a contatto con persone con esperienza di coma, proprio perché non si sentirebbero in grado di svolgere questo compito. Torna l’aspetto relazionale nel volontariato, torna la diffusa idea che sì, sia importante la preparazione teorica, ma che in fin dei conti sia tutta una questione di capacità personale di relazionarsi, di voglia e propensione a mettersi a disposizione degli altri. C’è una grande attenzione all’aspetto psicologico, proprio e dell’altro, alla capacità di comunicare e alla sensibilità nel capire le risposte che spesso non arrivano o che vanno codificate. La peculiarità di questa realtà nella quale non sono applicabili standard e protocolli appresi attraverso corsi, apporta una buona dose di fatalismo che spesso avvolge il volontariato, come se ci fosse una zona non controllabile e non definibile con esattezza, ove ciò che conta è la buona volontà e l’esperienza, ove non c’è mai un punto di arrivo o una teoria incontestabile. Tornano spesso le parole “sperimentazione”, “creatività” e “invenzione” per riferirsi a un’attività poliedrica ove le varianti sono tanto infinite quanto imprevedibili. In conclusione, si può pensare che nel volontariato primeggino certamente le componenti relazionali, umane, solidaristiche, etiche e gratuite, ma anche che parallelamente il volontariato si riconosca un concreto intervento nei riguardi di realtà disagiate che, proprio perché sempre più crescenti, hanno bisogno di più sistematicità di intervento; un intervento che sperimenti il disagio di quelle situazioni e che risponda con “creatività” e “inventiva” alle questioni che esse pongono. Un intervento pratico ma, dunque, anche intellettuale; un intervento che proprio per il suo carattere innovativo richiede nuovi modi di pensare la stessa nozione di “volontariato” che dalle interviste risulta essere un termine assolutamente ambiguo. Un’ambiguità che pare soprattutto derivare dalla difficoltà di trovare modalità adeguate per organizzare e far durare nel tempo un’esperienza sociale in grado di dare risposte creative a nuovi bisogni, senza farle perdere il suo carattere gratuito e non professionale. Se da una parte ci sono opinioni, standard e luoghi comuni sul volontariato, da parte di tutti coloro che volontariato non lo fanno e nemmeno lo conoscono, dall’altra ci sono le parole di quelle persone che volontà in questo senso ne hanno e che organizzano un pensiero testimone di uno specifico spazio intellettuale che spesso nulla ha a che vedere con i discorsi retorici ed estranei e che tanto ha da dire.
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Grazie a tutti i volontari della Casa dei Risvegli e della Croce rossa italiana, un grazie particolare a Simona, con la speranza che presto possa sfogliare le pagine di questo libro.
Note . Ogni anno molti giovani vanno in coma senza poter contare su valide strutture e su una concreta speranza per il loro recupero. L’associazione Gli Amici di Luca – Casa dei Risvegli Luca De Nigris si occupa di assistenza a pazienti in coma o in fase di risveglio e di sostegno alle famiglie, e ha inaugurato, il recentissimo ottobre , in occasione della sesta Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma – “Vale la pena”, il nuovo centro postacuto per giovani in coma presso l’ospedale Bellaria di Bologna. Il centro è stato chiamato Casa dei Risvegli Luca De Nigris e rappresenta la realizzazione di un progetto all’avanguardia con lo scopo di facilitare il risveglio dal coma e di permettere il ritorno alla vita e il reinserimento nel mondo lavorativo e sociale di giovani con questa patologia; inoltre al suo interno i familiari potranno vivere insieme al paziente e diventare così parte attiva della terapia riabilitativa. La Casa dei Risvegli è pensata più che come un ospedale come una casa, in cui piccoli moduli abitativi offrono punti di riferimento abituali al paziente. La struttura, unica nel suo genere in Europa, è promossa dall’Azienda USL di Bologna assieme al Comune e alla Provincia di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna, dall’Università di Bologna, Dipartimento di Scienze dell’educazione ed è aperta a numerose collaborazioni. Così, dalla vicenda di Luca De Nigris, un ragazzo di sedici anni entrato in coma per duecentoquaranta giorni, conclusasi tristemente nel gennaio del , è nata una gara di solidarietà che ha portato fino a questo importante risultato, a questo centro postacuto che prevede e realizza una necessaria integrazione fra competenze medico-riabilitative, psicopedagogiche, volontariato formato e tecnologie innovative. . Geertz, Antropologia interpretativa, cit. Nel testo l’autore sostiene la necessità di trattare i fenomeni culturali come sistemi di significato e costellazioni di simboli che vanno interpretati tenendo in considerazione il contesto in cui nascono; è tutta una questione di “interpretazioni di interpretazioni”, di voler capire, quindi interpretare, una particolare realtà che a sua volta ha attuato un’interpretazione di ciò che si è trovata davanti. Ecco che le parole verbalizzano l’esperienza, così ascoltare le parole significa farsi raccontare qualcosa della realtà che esse esperimentano. . W. H. Banaka, L’intervista in profondità, Milano . Viene esposta la tecnica dell’intervista in profondità, molto rispettosa della soggettività dell’intervistato. . Qui non si utilizzerà la categoria centrale della “motivazione”, decisiva per altri approcci allo studio di questo fenomeno. «Gran parte delle ricerche condotte nei vari paesi a livello internazionale sulle motivazioni dei volontari […] e basate su domande dirette poste agli interessati danno risultati […] identici, […] al primo posto troviamo […] le motivazioni altruistiche. […] Naturalmente non abbiamo motivi di mettere in dubbio questi risultati. Il problema è che la formulazione predefinita delle domande, tipica di queste ricerche, orienta in qualche modo le risposte, lasciando poco spazio a formulazioni complesse […]» (I. Colozzi, A. Bassi, Da terzo settore a imprese sociali. Introduzione all’analisi delle organizzazioni non profit, Roma , pp. ). Il problema della qualità dei dati raccolti tramite interviste è conseguente alla qualità delle domande poste; ritengo che la durata e la complessità articolata delle interviste da me condotte abbia impedito l’antipatico fenomeno di viziare le risposte. Mi sembra abbastanza evidente che se chiedo a un volontario “sei spinto da motivazioni altruistiche o da motivazioni egoistiche?”, otterrò una risposta qualitativamente di basso interesse e attendibilità, non perché l’intervistato menta ma perché non gli ho dato la possibilità di articolare una risposta complessa. Le cattive risposte derivano per lo più da cattive domande. . Cfr.: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino e Id., Alcune osservazioni sulla forma logica, in Osservazioni filosofiche, Torino . Secondo Wittgenstein il significato dei concetti deriva dal loro uso e si ha dunque un continuo slittamento semantico a seconda dei contesti sociali nei quali vengono utilizzati. Il linguaggio risulta essere un’istituzione sociale, collettiva e tramandata. Così, se il termine “egoismo” venisse usato in un altro contesto avrebbe un altro
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significato. Per una visione generale sul pensiero di Wittgenstein cfr. anche D. Marconi, Guida a Wittgenstein, Roma . . «Il lavoro è sempre stato considerato un’attività fisica che desideravamo finisse quanto prima. Questa è anche la definizione di fatica. Il contrario della fatica è la motivazione. Quando desideriamo che una cosa continui, non finisca, siamo motivati. […] Un lavoratore creativo può fremere dal desiderio di cominciare, che so, a girare un film, a scrivere o a dipingere», o a fare volontariato, aggiungo io (D. De Masi, L’ozio creativo, Roma , p. ). . A proposito cfr. Gli italiani: un popolo di donatori, in AA. VV., L’impronta civica. Le forme di partecipazione sociale degli italiani: associazionismo, volontariato, donazioni, Roma . . «Usando una certa prudenza possiamo dire che si fa del volontariato per una varietà molto grande di motivi, che possono comprendere sia l’interesse del giovane a prepararsi per un possibile lavoro futuro sia l’interesse dell’imprenditore o del professionista di allargare il proprio giro di relazioni, sia l’interesse della casalinga a rompere un certo isolamento» (Colozzi, Bassi, Da terzo settore a imprese sociali, cit., p. ). . A proposito cfr. anche il capitolo L’associazionismo giovanile, in AA. VV., L’impronta civica, cit. . A proposito propongo un “libro per chi vuole cominciare”, come dice il sottotitolo: S. Gawronski, Guida al volontariato. Un libro per chi vuole cominciare, Torino ; un libro destinato a tutti coloro che sentono il desiderio di impegnarsi in un’attività di volontariato ma che non sanno da dove cominciare. Secondo il Censis ci sono milioni e mila cittadini disponibili e non ancora impegnati che attendono proposte per tradurre in concreto la loro teorica disponibilità a impegnarsi nel volontariato. Contiene testimonianze dirette, indirizzi internet e un piccolo indirizzario delle organizzazioni di volontariato. . Cfr. G. Cazzola, Lo stato sociale, tra crisi e riforme: il caso Italia, Bologna . Si occupa del nostro paese e presenta delle proposte per conciliare deficit pubblico e solidarietà sociale. Cfr. anche S. Trassari, Welfare state o neoassistenzialismo?, Milano , che si occupa della questione nel Mezzogiorno italiano. . «Quando ci si propone di affrontare questioni definitorie o classificatorie, in ambito di discipline umanistiche […] accade che ci si venga a trovare di fronte alla dissoluzione o alla scomparsa dell’oggetto dello studio. Questo “effetto” non deve destare sorpresa in quanto è esattamente ciò che ci si deve attendere avvenga quando si vanno a indagare fenomeni di natura sociale» (I. Colozzi, A. Bassi, Una solidarietà efficiente. Il terzo settore e le organizzazioni di volontariato, Roma , p. ). . A proposito cfr. G. Frege, Senso e denotazione, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano : il senso di un nome o di una parola viene afferrato da chiunque conosca la lingua a sufficienza, mentre la denotazione, cioè l’oggetto stesso che designiamo e non la rappresentazione che noi abbiamo dello stesso, non è detto che la si riesca ad afferrare. Lo stesso vale per la parola “volontario”, il cui senso è raggiungibile ma la cui denotazione è difficilmente individuabile. Cfr. anche B. Russell, Sulla denotazione, in Bonomi, La struttura logica del linguaggio, cit. Russell sostiene che un sintagma denotativo, come ad esempio “un uomo”, è parte di un enunciato e trova significanza solo in esso. Cfr. anche K. Donnellan, Riferimento e descrizioni definite, in Bonomi, La struttura logica del linguaggio, cit. e W. O. Quine, Su ciò che vi è, in Id., Il problema del significato, Roma .
Il senso della fabbrica. Condizioni di ambientamento dei lavoratori migranti nella provincia di Ravenna* di Marta Alaimo e Franca Tarozzi
Introduzione Nel periodo che va dalla fine di novembre alla fine di gennaio si è svolta la prima fase della ricerca “Condizioni di ambientamento dei lavoratori migranti nella provincia di Ravenna”. Si è trattato della fase inchiestante che ci ha viste impegnate nella conduzione di quaranta interviste con gli operai di Marcegaglia S.p.A. trasferitisi recentemente nella provincia di Ravenna, provenienti dalle regioni meridionali d’Italia e dall’estero. L’inchiesta si è svolta con il contributo dell’Assessorato alle politiche del lavoro e della formazione professionale della Provincia di Ravenna e con la collaborazione della Marcegaglia S.p.A. che, nella persona dell’ing. Zangaglia – ex direttore dello stabilimento –, ci ha permesso di incontrare gli operai in fabbrica, in una saletta attigua all’Ufficio controllo qualità, all’interno di un capannone, durante l’orario di lavoro. Ogni intervista è durata circa un’ora. La partecipazione all’inchiesta, totalmente volontaria e anonima, ha visto qualche operaio fermarsi oltre la fine del turno per riuscire a completare l’intervista. L’obiettivo L’obiettivo centrale della ricerca sta nel conoscere i modi in cui i soggetti coinvolti pensano il loro trasferimento e il loro adattamento alle nuove condizioni lavorative, abitative e sociali. Sulla base di queste conoscenze, il rapporto finale tende a: – consigliare buone prassi in merito alle soluzioni dei maggiori problemi riscontrati tra questi lavoratori; * Un’inchiesta alla Marcegaglia S.p.A.
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– contribuire alla valutazione dei costi e benefici per la Provincia stessa dei diversi modi di selezionare, favorire e assistere il trasferimento sul suo territorio dei lavoratori non ravennati. Presentazione e caratteristiche del luogo Aver deciso di circoscrivere l’inchiesta sulle condizioni di ambientamento dei lavoratori migranti nella provincia di Ravenna, portandola avanti con gli operai della Marcegaglia S.p.A., ci ha permesso di lavorare con un campione sociologicamente omogeneo e di indagare non solo le problematiche relative all’ambientamento territoriale dei nuovi arrivati, ma anche il rapporto tra questo tipo di ambientamento e le condizioni di lavoro e di vita in un luogo specifico e molto particolare. Un luogo, lo stabilimento Marcegaglia di Ravenna, che costituisce anch’esso un nuovo punto importante per la vita della città e della provincia, visto l’insediamento relativamente recente (dal ) e le sue prospettive di ampliamento, che contribuiscono a fare di Ravenna, grazie all’acquisizione strategica della banchina del porto, lo stabilimento più importante del gruppo metalsiderurgico Marcegaglia S.p.A., sia dal punto di vista logistico che della produzione. Con i suoi cinquecento dipendenti, più altri duecento contrattisti di ditte esterne che si occupano soprattutto della manutenzione, Ravenna è diventata negli ultimi anni, come dice uno degli operai intervistati, la “punta di diamante” del gruppo. È infatti del mese di aprile l’annuncio che la direzione sta cercando altri centodieci operai da assumere per far partire una seconda linea di zincatura e una seconda di decapaggio, portando così la produzione di acciaio, entro il , a quota , milioni di tonnellate: circa un milione e mezzo di tonnellate verranno ridistribuite tra gli stabilimenti del gruppo, mentre milioni di tonnellate verranno lavorate nello stabilimento di Ravenna, come ha dichiarato il nuovo direttore dello stabilimento ravennate Mauro Bragagni all’agenzia di notizie Apcom. Situato lungo la via Baiona verso Porto Corsini, lo stabilimento produttivo, luogo della nostra inchiesta, si estende su un’area di . mq, di cui . coperti, dove vengono principalmente lavorati coils di acciaio al fine di raggiungere un prodotto rispondente alle richieste del cliente. All’ingresso c’è la palazzina degli uffici amministrativi, la portineria che organizza e gestisce in entrata e uscita tutto il traffico pesante di camion e autoarticolati che trasportano il materiale, la mensa aziendale e, verso il mare, la banchina del porto con le navi cariche di materiali e i capannoni della produzione con il centro servizi, la zincatura, il decapaggio, la ricottura statica, la verniciatura, tandem laminatoio a freddo, la rettificazione. I capannoni sono enormi co
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struzioni che ricordano un po’ gli hangar dell’aviazione, con strutture portanti metalliche e coperture leggere, molto aperti e dotati tutti di strutture aeree di carroponte per lo spostamento dei coils nelle varie fasi della produzione. I lavoratori intervistati sono tutti giovani (tra i e i anni di età) e lavorano in questo luogo prevalentemente da non più di anni. C’è, quindi, un alto tasso di ricambio della forza lavoro che contribuisce a dare alla fabbrica un’immagine giovane e mobile, che contrasta con la durezza e la pericolosità del lavoro che viene svolto. Gli intervistati sono operai addetti alla produzione (esclusi fra impiegati negli uffici e addetti alla portineria) nei diversi reparti che differiscono tra loro, a parte per il tipo di lavorazione del prodotto che viene svolta, per l’organizzazione dei turni di lavoro: quelli del centro servizi lavorano per la maggior parte solo su due turni produttivi (-/-), mentre quelli degli altri reparti lavorano a ciclo continuo su tre turni (-/-/-), compresi quelli della portineria. Gli operai svolgono il loro lavoro principalmente nelle postazioni di comando automatizzate e di controllo lungo le linee di produzione, usano il carroponte per lo spostamento dei coils e intervengono sugli impianti quando si verificano problemi lungo la linea (un esempio sono le saldature corrette a mano). La metalsiderurgia è un tipo di produzione imponente: i coils sono rotoli di acciaio di più di metri di diametro che occupano grandi superfici, le linee di produzione sono dei giganteschi nastri trasportatori dove corrono ad alta velocità le lingue di acciaio sottoposte a trasformazione, tagliate, ridotte di spessore, zincate, verniciate. La materia lavorata è fredda, tagliente, pesante, talvolta arrugginita, gli uomini passano la loro giornata lavorativa tra questi giganti di acciaio in un luogo dove il clangore assordante delle lamiere (anche se congruo ai parametri) è sempre presente. La nostra inchiesta quindi è sì localmente individuata e riguarda persone immigrate nella provincia di Ravenna, ma queste persone passano gran parte del tempo della loro vita in un luogo, questa fabbrica, che è molto significativo sia per loro che per il territorio che lo ospita. Presentazione del campione Trentanove sono state le interviste svolte con i dipendenti, più un incontro finale fatto con i responsabili dell’Ufficio sicurezza. Tutti uomini di età compresa tra i e i anni provenienti da regioni del Sud Italia e dall’estero. Le regioni di provenienza sono: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna, Abruzzo. Gli stati esteri sono: Romania, Marocco, Bangladesh. Tempi di arrivo: sono a Ravenna dal -, circa da un anno; sono a Ravenna dal -, cioè da uno a tre anni; sono a Ravenna da più
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di tre anni. sono a Marcegaglia dal -, circa da un anno; sono a Marcegaglia dal -, cioè da uno a tre anni; sono a Marcegaglia da più di tre anni. Per sedici intervistati il lavoro a Marcegaglia è il primo impiego a Ravenna, mentre ventuno intervistati avevano già lavorato a Ravenna o provincia. Tipo di scuola frequentata: licenza media (); studi superiori (), di cui: Istituto tecnico industriale – Perito elettronico (), Ragioneria (), Ipsia (), Alberghiero (), Operatore turistico (), Segretario d’azienda (), ITIS (). Laureati , di cui: laurea in Matematica, fisica, informatica (), Economia e commercio (), non specifica (). Situazione abitativa: intervistati vivono con la famiglia e con amici o compagni di lavoro. Argomenti rilevanti In fase di rielaborazione abbiamo individuato tre questioni principali che incidono e svelano come questi operai pensano la propria vita a Ravenna e sul luogo di lavoro, alla Marcegaglia, quali sono le loro difficoltà e le cause che fanno da discriminante tra il fermarsi o no. Le sfaccettate categorie individuate sono: punto di appoggio, alloggio, casa; formazione e lavoro; sicurezza. Punto di appoggio, alloggio, casa: «l’importante, all’inizio, è avere un appoggio» Analizzando le risposte degli intervistati, risulta che «il problema qui sono gli affitti», come ci dice un ragazzo proprio alla fine dell’intervista quando alla penultima domanda (“cosa pensa di questa intervista?”) ci risponde così: «È positiva, lo pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri non dicono, porta a visione dei problemi». E continua: «Il problema qui sono gli affitti, ci tocca stare come quei marocchini che venivano qui un po’ di tempo fa. Se ne approfittano, non vedo il motivo, vedono che comunque c’è richiesta e comunque prendono i soldi mensilmente sull’affitto quelli che ti trovano la casa, siccome noi veniamo da fuori, la gente se ne approfitta. euro per un monolocale per chi vuole un po’ di libertà è molto dura. C’è gente che lo fa come secondo lavoro (quello di cercarti la casa e prendere dei soldi). Chi vuole dividere lo stipendio con il padrone di casa?... Lavoro tantissimo, c’è sempre il rischio di farsi male e poi? Molti tornano da dove son venuti perché il sacrificio non ne vale la pena, tanto da mangiare e dormire ce l’hai sempre». Interessante in questa intervista l’utilizzo della parola “sacrificio”, a significare la grande importanza che l’esperienza della migrazione rappresenta nel
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la vita delle persone. Emerge inoltre, come in altre interviste, il fatto che «a Ravenna se ne approfittano»: non solo quindi si trae profitto, ma si fanno affari immobiliari basati sulla elevata richiesta che proviene dai lavoratori immigrati. Questa questione viene detta così in altre risposte: «Gli affitti sono cari, pago euro ma da meno non si trova, Ravenna è costosa e sanno che Marcegaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e magari con la famiglia e gli affittuari se ne approfittano», ci dice un ragazzo pugliese a Ravenna dal . «Qui c’è un po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a settembre per turismo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un anno intero è difficile... La gente di Ravenna sa il fatto suo…». Trovare casa, prendere un appartamento in affitto, è spesso il primo impatto con il territorio e la sua gente. Trattare con la gente di Ravenna (che, come dicono gli intervistati, un po’ se ne approfitta, è diffidente, ha delle pretese un po’ strane), è quindi un problema per chi viene da fuori per lavorare ed è discriminante rispetto all’ambientamento e quindi anche rispetto alla decisione di stabilirsi: «Difficoltà maggiore quella abitativa, un posto letto, senza tv, senza riscaldamento, ho dovuto fare molte telefonate, ho girato molto. Abito a Russi, a km». «All’inizio è stata dura, è difficile trovare alloggio, è molto caro, poi l’ho trovato, ho fatto venire moglie e figlia e lavorando in è più semplice. All’inizio avevo una stanza, eravamo in all’inizio, quello che ti propongono è quello, si trovano appartamenti solo in comune», ci racconta del suo difficile arrivo un operaio siciliano. «In città fai fatica a inserirti, a trovare casa, quelle che si trovano costano un occhio della testa. È un po’ difficile fare amicizia con i ravennati, è difficile fraternizzare». «Abito a Lugo... all’inizio avevo la stanza, ma grossa libertà in una stanza non ce l’hai, come ospitare, far venire gli amici, invece in un monolocale non è così, ma gli affitti sono mazzate…». «Se hai dei problemi non è che sei bene accolto, ma anche per trovare la casa è un gran casino, uno non può girare con una striscia sulla fronte che dice che io sono bravo...», dice un lavoratore marocchino capoturno. «[...] Ho girato un po’ tutta l’Italia e c’è un senso di diffidenza ovunque, ma qui è un po’ peggio, per trovar casa ho faticato molto, il padrone di casa ha avuto pretese un po’ strane». «Quando ho fatto il colloquio qui prima di tornare in Sicilia ho comprato molti giornali di annunci e tramite telefono ho cercato, è stato molto difficile, mi chiedevano da dove venissi e dicendo dalla Sicilia mi dicevano le faremo sapere, il proprietario che poi mi ha affittato ha richiesto una lettera della Marcegaglia con il periodo, la qualifica ecc… Io lo ritengo eccessivo anche se giusto, e così il direttore di stabilimento ha dovuto fare una lettera».
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Trovarsi bene si può, ma «dipende anche dalla situazione contingente, vivo in una bella casa e con un bravo amico con cui mi trovo bene, questo non c’entra con Ravenna, non so altrimenti…», come ci dice un ragazzo che è a Ravenna già da sette anni, ma che si sente un emigrante e non ancora parte della città. Un operaio, che del lavoro è soddisfatto, ma della casa no e che dice che «è un brutto impatto l’ambientarsi», ci suggerisce che proprio doversi ambientare, cioè adattarsi a nuove e diverse condizioni, è comunque difficile. La possibilità o l’impossibilità di avere una casa a determinate condizioni ci descrive quindi un aspetto oggettivo ed esterno della vita dei lavoratori intervistati, ma sicuramente rilevante, e infatti il dato quantitativo lo conferma: intervistati su hanno trattato con enfasi il tema. Pur essendo la nostra un’inchiesta qualitativa, riteniamo importante trattare questo dato, che nomina quindi un’importante questione nella vita delle persone che si spostano per lavorare, anche perché è nel momento in cui esse pensano a molteplici e possibili soluzioni del problema oggettivo casa/alloggio che si comincia a delineare anche l’aspetto soggettivo della questione. Le parole degli intervistati ci indicano che un buon modo di affrontare la situazione dell’arrivo e del primo impatto è quello di “avere un appoggio”: «...Un mio collega che ha fatto domanda prima di me... mi ha aiutato a trovare la casa, l’importante all’inizio è avere un appoggio…»; «…Ho deciso di venire in Italia perché avevo già un appoggio, se dovevo vagabondare non venivo, se devo far la fame la faccio a casa mia…», racconta un lavoratore marocchino che da anni vive in una casa popolare del comune ma che adesso sta comprando casa. Sempre rispetto all’avere appoggio un altro dice: «La casa l’ho trovata, per il prezzo che volevo io è stato difficile, ma dopo un po’ l’ho trovata, forse io ho avuto la fortuna che qua c’era mia sorella in appoggio e quindi ho potuto cercare, in un anno è più facile trovare lavoro che casa». Usare proprio la parola “appoggio” ci fa capire che quello a cui si riferiscono non è una soluzione permanente; all’inizio è importante avere almeno un appoggio transitorio che non getti queste persone nello sconforto della situazione nuova, che spesso è nuova anche in senso lavorativo, non avendo magari mai lavorato in fabbrica. E ancora: «Penso di rimanere perché qui c’è un punto di appoggio con le mie zie», ci dice un ragazzo che però dichiara anche: «A Marcegaglia mi trovo bene, a Ravenna, oddio… noi viviamo in due mondi diversi, culture diverse, non mi sono ancora ambientato ai modi di fare che hanno a Ravenna». L’enunciato che segue mette in luce anche un aspetto molto interessante, legato all’ambientamento e alla fabbrica come luogo fondamentale delle relazioni umane anche di tipo interculturale: «Ho dovuto cambiare completamente il mio carattere e adeguarmi alle diverse culture, prima me la prendevo per qualsiasi cosa, ora tra rumeni e marocchini… sono diventato un po’ più tollerante…». La fabbrica come luogo delle relazioni umane, quindi, che facilitano l’ambientamento, sia perché «è stato facile ambientarmi, ci sono tanti meridionali che
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lavorano qui da parecchi anni», sia perché lavorare con persone di Ravenna, essere colleghi di lavoro aiuta a farsi conoscere, anche se si viene da paesi lontani e culture diverse. A questo proposito è emblematica la dichiarazione di un ragazzo che ha subito un grave incidente sul lavoro: «Io ci stavo bene, sia adesso sia come ci stavo prima, in fabbrica ci stavo bene, a Ravenna ti guardano le scarpe... Io sul lavoro mi trovo bene, l’unico sfogo che ho è qua, ma è fuori dall’ambito di lavoro che non mi trovo bene. A casa sono sempre da solo, sto al lavoro e a casa magari faccio la spesa ma se esci fai un giro di mezz’ora… sempre le stesse cose… Io quando sono giù non sono mai da solo, qua gli amici anche non li vedo mai perché fanno il turno e lavorano sempre, anche il sabato e la domenica, qua ti tocca uscire anche a spendere soldi se no, esci di testa…». «L’inizio, è difficile farsi le amicizie, i ragazzi di Ravenna hanno troppa attenzione al lato estetico, se uno c’ha il pantalone firmato o meno... Sul lavoro invece non ho avuto difficoltà, sono tutti meridionali nel mio reparto e anche fare amicizia è stato facile», come dice un altro ragazzo che la pensa allo stesso modo. Sono gli stessi colleghi che possono fare da tramite con il nuovo territorio, anche per trovare la casa: «Tramite un mio collega, la casa è di suo nonno». «Tramite un ragazzo che lavorava qui, sono stato fortunato...». «Nel ’ non mi son trovato tanto bene, nel è tutta un’altra cosa. Nel ’ sono arrivato da un amico che stava in una casa dell’Enel che hanno passato al Mappamondo per gli extracomunitari e lì mancava un po’ tutto, il riscaldamento, nel mi sono messo in regola con la Turco-Napolitano e ho potuto affittare io e tramite amici ho trovato un buon appartamento», dice un operaio rumeno e aggiunge: «Dopo, tramite amici romagnoli, italiani, ho trovato, se sei raccomandato da un italiano passi e se ti comporti bene puoi raccomandare uno straniero ma se ti comporti così così hai sempre bisogno di un italiano che metta una buona parola». «Tramite un mio collega di lavoro, che poi è un sindacalista, è romagnolo...». «Tramite un collega che conosceva il padrone di casa». «Una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia, ci si aiuta, a cercare la casa, anch’io ho trovato tramite un ragazzo che lavorava qui…». La possibilità di avere una casa, un alloggio è quindi una condizione molto rilevante per la riuscita o meno del percorso di ambientamento. Dalle citazioni fatte, “tramite” risulta essere una parola chiave: la fabbrica diventa il tramite fondamentale per un inserimento positivo nel territorio. La situazione a Ravenna pare essere piuttosto difficile e, come dice, un operaio marocchino: «Per tutti la casa è un problema, non solo per quelli che vengono da fuori, se devo pagare - euro di affitto faccio il mutuo… se non te la trova qualcuno che ti conosce è difficile, per avere la casa popolare devi avere i figli, reddito basso, lo sfratto, tutti i marocchini che hanno più di due figli qui a Ravenna hanno la casa popolare».
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La richiesta della casa popolare non può quindi essere l’unica soluzione, visto che per richiederla servono dei requisiti che non tutti hanno. Gli intervistati ad esempio non sempre hanno famiglia o figli a carico, spesso sono giovani e non hanno reddito basso, visti gli stipendi che paga Marcegaglia. È ancora dalle loro parole e da come essi pensano la questione della casa che si apre un interessante dibattito sulla molteplicità di situazioni possibili che potrebbero contribuire a migliorare le loro condizioni di vita proprio nel momento dello spostamento, nei primi mesi. Col tempo infatti la decisione di rimanere a Ravenna comincia a dipendere da diversi fattori, ma all’inizio l’impatto è forte e incide molto la possibilità di trovare o meno soluzioni che diano il tempo per decidere. Ciascuna idea qui riportata è interessante, perché si colloca in una situazione che, al momento, non ne prevede neanche una di soluzioni possibili. Queste idee sono importanti perché sono gli stessi operai che esperiscono la mobilità nei suoi aspetti negativi, oltre a quelli positivi di aver trovato un buon lavoro, a ipotizzare soluzioni alternative al “farsi ammazzare dall’affitto”, dalle agenzie immobiliari e dai proprietari che se ne approfittano. Pensano l’inesistente, ovvero dispongono le condizioni per l’esistenza di una politica sulla casa. L’approccio non è in termini di diritto alla casa ma, il problema casa/alloggio/punto di appoggio è una specificità della più ampia questione della possibilità di permanenza a Ravenna. L’esistenza di questi enunciati mette in evidenza la latitanza degli altri soggetti coinvolti, ovvero gli imprenditori e le istituzioni locali: «Per determinate aziende sarebbe facile aiutare i propri operai a trovare casa, più vicino alla loro fabbrica, nelle Marche le agenzie e le aziende sono in contatto tra loro dove mettono gli operai finché non trovano la casa...». «Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori…». «Forse mi aspettavo di guadagnare un po’ di più, che la Marcegaglia facesse dei villaggi tipo quelli che ha fatto l’Enichem per i suoi operai, visto che abbiamo tante spese, che ci desse dei villaggi dove vivere». «Forse Marcegaglia potrebbe costruire dei villaggi come fa l’Enichem, o il Comune dovrebbe controllare, perché la gente se ne approfitta, ti fanno contratti in nero oppure metà e metà e comunque i prezzi sono esagerati anche se la casa è del padrone e non so se esiste una regola per dire a quanto la devi affittare». C’è un enunciato che chiarisce bene la questione della difficoltà maggiore nei primi tempi; è quello formulato da un ragazzo, «un papà giovane» che ha comunque deciso di restare. «Quando sono stato assunto qui avrei preferito che l’azienda mi venisse incontro come ospitalità almeno per un paio di mesi, quello me lo aspettavo, ho sentito da amici che a Brescia sono stati ospitati dall’azienda, qui invece no, mi aspet
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tavo di più, io avevo già la casa venendo qui, sono stato fortunato, non vorrei essere nei panni di chi non ha nessuno». Come si legge negli enunciati, le posizioni sono articolate: c’è chi vorrebbe che l’azienda desse ospitalità almeno per un paio di mesi, chi dice che ci vorrebbero relazioni tra le aziende e le agenzie immobiliari, chi chiede il villaggio tipo Enichem e chi invece lo vorrebbe, ma con la chiesa e il campo sportivo; c’è anche chi ha paura che le soluzioni standard tipo villaggio finiscano per diventare dei ghetti. L’idea comune che ritroviamo in tutti questi enunciati è che comunque c’è bisogno di pensare a soluzioni, chiamando in causa anche un ruolo attivo del governo locale (comune e simili). Soluzioni che devono andar bene «almeno per l’inizio, poi uno sceglie», enunciato che sgombera il campo anche dall’idea che queste persone finirebbero per diventare vittime di condizioni abitative degradanti. «Lavorando là, il padrone di prima ci ha trovato la casa... però se l’avessi cercata da solo senza questo padrone sarebbe stato un problema, conosco amici che hanno avuto difficoltà». «Marcegaglia potrebbe fare come ha fatto l’Enichem, che ha costruito le case per gli operai, poi ti trattiene l’affitto dalla busta paga, sarebbe più facile per uno che viene da fuori». «Che lavoro sono soddisfatto, è un lavoro, per la casa no. Lui è Marcegaglia, è un grande imprenditore. Qui a Ravenna l’% siamo del meridione e lui non ha pensato mai di fare un villaggio Marcegaglia con la chiesa, il campo sportivo… nessuno si prende di sua iniziativa e va da lui… noi non è che vogliamo non pagar le tasse, ma siccome produciamo molto e facciamo turni che gli altri non vogliono fare… quelli di qua ti chiedono tanto di affitto e si arricchiscono…». «Io eviterei di fare i quartieri tipo quelli che fa l’Enichem perché sono ghetti, ci vorrebbero più incentivi, qui li danno i contributi, ma dovresti prendere la residenza per averli. Quantomeno, se si mettessero insieme più aziende, anche se alla fine va a finire come un ghetto secondo me, ho questa sensazione strana…». C’è poi la questione della residenza, anch’essa dall’aspetto ambivalente, ovvero che richiama sia un aspetto soggettivo che uno oggettivo e che, per come viene pensata, rientra anch’essa nel più ampio discorso della difficile fase di inizio. Non prendere la residenza può essere una scelta che rivela l’idea che chi si sposta, anche dopo qualche anno di lavoro, vuole lasciarsi aperte delle altre possibilità. Alla domanda su cosa può facilitare la ricerca o l’ottenimento della casa, un operaio siciliano a Ravenna da anni e a Marcegaglia da dice: «O villaggio oppure un aiuto, no dal Comune ma dall’azienda perché il Comune ti dice che devi prendere la residenza per avere lo sconto dalle tasse oppure il contributo per l’affitto, io penso sempre a un futuro migliore al sud, per questo non prendo la residenza…».
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C’è chi invece non prende la residenza perché il contratto a tempo determinato gioca un ruolo di totale incertezza nella vita di una persona, tanto da dire: «Se l’azienda ritiene che sono valido, perché no, tutto è nelle mani dell’azienda, giù non ho il lavoro, qua sì e a calci e morsi vivo e anche mia moglie è giovane, ha trent’anni, un lavoro lo può sempre trovare, ma se prima non ho un contratto fisso, non ho portato ancora la residenza, niente, ho un contratto di formazione, mesi, non è a tempo indeterminato, in base a quello, se porto tutto su dopo è anche più facile anche per lei». E ancora, c’è chi non può prenderla per via dell’atteggiamento del proprietario e viene oggettivamente messo in difficoltà: «Pago euro di affitto e la padrona di casa non mi fa prendere la residenza, mi rinnova il contratto ogni sei mesi, prendo . euro di stipendio e non posso usufruire degli sconti sulle bollette per i residenti». Tutto ciò significa comunque che anche la questione della residenza non si esaurisce nell’aut-aut secco tra il prenderla e il non prenderla. Per chi si muove e si trasferisce per lavorare sembra essere una categoria carica di significato e che, guardata con gli occhi di chi la pone come questione, potrebbe rivelarsi anch’essa utile nel migliorare le condizioni di vita di chi si sposta, ovvero di chi è geograficamente mobile. Al fondo della questione potremo dire, con un enunciato che ritroviamo nell’intervista con un operaio del Bangladesh: «Ci vorrebbe una qualche forma di governo che qui non c’è». Si capisce bene da questo enunciato che la questione della mobilità geografica delle persone per motivi di lavoro richiederebbe un maggior protagonismo da parte dei soggetti coinvolti nel governo locale, una politica governativa che però non c’è, ma anche e soprattutto del mondo dell’imprenditoria che si mostra in questo caso del tutto assente. Formazione e lavoro: «Se non hai mai visto una fabbrica, serve» Dalle interviste emerge che lavoratori intervistati non hanno mai fatto corsi di formazione professionale, invece sì. Dieci di questi ultimi hanno preso parte a corsi organizzati dalla Marcegaglia e dalla Provincia di Ravenna, soprattutto nel momento in cui venivano installate nuove linee di produzione e c’era bisogno di personale che sapesse come farle funzionare. Uno soltanto aveva già svolto un corso nella sua regione finanziato dal Fondo sociale europeo. intervistati, anche quelli quindi che non hanno mai frequentato un corso di formazione, sostengono la loro importanza e l’utilità; solo lavoratori dicono che non servono, aggiungendo che serve fare il mestiere direttamente piuttosto che stare in classe.
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Tutti hanno svolto corsi di carroponte e primo soccorso, rispettivamente di e ore, all’interno dell’azienda. Il primo dato lampante è il riconoscimento dell’utilità dei corsi di formazione che tutti gli operai da noi incontrati rivendicano. «Sì, servono perché ti inseriscono su quello che devi fare, fare un corso di formazione prima secondo me è meglio». «Per me proprio sono obbligatori, io vorrei che chi viene assunto li facesse per forza, perché le cose sono rischiose sia per lui che per gli altri, non è proprio da sottovalutare questa cosa, da noi se non lo conosci fai il botto. Anche fermo ci vogliono due persone fisse per la salvaguardia», racconta un operaio che aveva già lavorato in altre città fuori dalla propria regione, ma che ha scelto Ravenna dopo esserci stato in vacanza. «Sì, perché ti aiutano a capire il lavoro che stai facendo e nella sicurezza, saperti muovere, dove mettere le mani e come metterle. Nel mio reparto solo in due abbiamo fatto il corso e agli altri per passaparola gli abbiamo insegnato noi», dice un ragazzo che ha potuto seguire il corso e poi fare lo stage a Marcegaglia. Da queste prime affermazioni emerge un chiaro rapporto tra corsi e sicurezza. I corsi di formazione servono, quindi, non tanto per imparare il mestiere, ché quello può essere imparato anche con l’affiancamento: «Più che formazione, magari affiancamento». «Secondo me è più importante per il lavoro stare lì che in una classe», sentenzia un lavoratore straniero che ha ancora qualche problema con la lingua. «Il corso deve essere molto anche pratico, se uno deve fare il saldatore deve trovarsi in linea stando vicino a un bravo saldatore, cercando di carpirne i segreti, la modalità, per noi questo non è avvenuto…». La formazione serve soprattutto per lavorare con più sicurezza, intesa sia in senso fisico, cioè non farsi male, che come preparazione al lavoro in senso generale, un impatto graduale con il luogo e l’ambiente: «…Più di tanto non mi è servito per il lavoro che sto facendo ma mi ha aiutato per fare il rappresentante della sicurezza che ho fatto qui dentro, se non hai mai visto una fabbrica serve, per me è stato un po’ uno shock… Non avevo mai visto uno stabilimento, col corso è stato un po’ più graduale», ci spiega molto chiaramente questo operaio. «Per dove sono stato io penso che non servano a niente, penso che servano per lavorare in generale, oggi si lavora su macchinari sofisticati quindi penso che servano», dice un ragazzo che non ha avuto la possibilità di fare corsi. «Certo, già uno impara un po’ e in più per uno che non è mai entrato nel mondo del lavoro… Lì impari come comportarti in mezzo all’altra gente…». «Penso di sì per uno che non ha esperienza di lavoro sicuramente, anche su altri argomenti tipo la sicurezza». Ecco dunque i due aspetti fondamentali per cui, secondo la maggioranza degli intervistati, è utile fare formazione: preparazione all’ambiente-fabbrica ed
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essere informati bene dei rischi per ridurli al minimo, quindi conoscere il funzionamento, le caratteristiche degli impianti e dei macchinari. Chi ha avuto la possibilità di seguire dei corsi si sente privilegiato, fortunato, ma la cosa sembra assolutamente fortuita e casuale: «Non so, forse è una coincidenza, era la fase della costruzione dell’impianto e noi l’abbiamo seguita, ci siamo fatti un certo bagaglio», quasi timoroso ci racconta un operaio. «Ho avuto la fortuna di fare un corso specifico di rettifica e torneria a Gazzoldo di un mese. Penso fosse un corso interno dell’azienda…». Anche quest’altro operaio ha seguito il corso a Gazzoldo, paese del mantovano in cui si trova la sede centrale. La politica dell’azienda, rispetto alla formazione, sembra però essere un’altra. La chiara denuncia che gli operai fanno è quella di essere buttati in linea con pochissima esperienza; in questo viene riconosciuto uno dei motivi del disagio e quindi dell’eventuale abbandono del lavoro e della città: «Alcuni che non fanno i corsi arrivano qui e non sanno cosa aspettarsi, rimangono delusi, non sanno come muoversi e quindi vanno via». Questo, a nostro avviso, è un enunciato chiarificatore della situazione, che svela uno dei nodi cruciali dell’alto numero di dimissioni e quindi dell’alto tasso di turnover che c’è in questa fabbrica. Così come lo sono i seguenti, che mettono in luce la questione della pressione per la produzione, l’interessante opposizione amore/bisogno e la carenza di personale come altri fattori determinanti il grande ricambio del personale: «La pressione che ti mettono addosso per la produzione; un operatore che sta sulla linea è pressato perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Molti non ce la fanno, è per questo che vanno via, c’è un riciclaggio di persone molto alto. Qua diciamo che ci rimane la gente che o ama questo lavoro o ha bisogno». «Sì, soprattutto qui, perché è impossibile assumere della gente e mandarli in zincatura, decapaggio, che richiede delle capacità, è sbagliato assumere persone e metterle subito sugli impianti nuovi – lamenta un lavoratore comunque molto felice di essere a Ravenna e di lavorare in regola –. Non ho fatto corsi, ho fatto affiancamento col caporeparto e il capoturno, io non ho fatto corsi… Forse perché c’era carenza di personale e prendevano tutti, io non l’ho fatto». «…Qui è pericoloso, non pendono per i corsi di formazione, mettono a lavorare la gente senza sapere il lavoro che vanno a fare, è solo lo stipendio che gli importa e avere un lavoro sicuro, per me la fabbrica dovrebbe spendere per la formazione e la sicurezza, tu li prendi, i soldi, e li perdi nel tunnel, qua qualità del lavoro non ce n’è e tu sei sempre ad assumere persone, a buttarle dentro e quelli poi se ne vanno», dice un operaio parecchio arrabbiato anche con i suoi stessi compagni. In quest’altro enunciato ci viene spiegata una delle motivazioni che secondo noi stanno alla base del grande riciclo di personale. Causa-effetto di questa poca preparazione/formazione degli operai è anche la giovanissima età e l’inesperienza dei capoturno o capireparto, ai quali spesso vengono date qualifiche
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e quindi responsabilità quando ancora loro stessi hanno contratti di formazione lavoro, e quindi sono da meno di diciotto mesi nella fabbrica. «L’operatore stesso è un po’ irresponsabile, penso che succeda per inesperienza, siamo tutti giovani, gli stessi responsabili di reparto sono entrati dopo di noi appena laureati e senza esperienza, gli incidenti che ho visto io sono accaduti per inesperienza…». «Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’azienda che è passata da operai a in anni e adesso ci sono anche quelli che non sono specializzati e che coordinano e sono responsabili anche per la sicurezza…». Cosa vorrebbe veder cambiare? – abbiamo domandato –. «Che le persone che effettivamente fanno i capi abbiano una professionalità maggiore, perché noi pecchiamo un po’ su questo...». In questo modo aiuta a capire la situazione un ragazzo che lavora nella fabbrica da circa tre anni, tantissimi per la media di quest’azienda. «Per il momento va bene, ho un contratto di formazione, non so se mi tengono ma siccome hanno intenzione di farmi capomacchina in meno di tre mesi», ci confida un operaio di Foggia che vive come un riconoscimento della sua abilità questa futura promozione, anche se lo caricherà di più responsabilità. Un altro operaio continua dicendo: «Sono capomacchina, ho la qualifica di terzo livello, sono pagato normale, di solito un capomacchina è del quarto o quinto livello, ma hanno visto la mia buona volontà. Contratto… forse mesi, formazione lavoro». Pensi che lo rinnoveranno? «Speriamo, penso di sì, mi hanno dato anche una grande opportunità e responsabilità». Qualche corso di formazione l’azienda lo propone, ma spesso sono di poche ore e fatti dopo che già si lavora; per lo più i corsi sono per l’utilizzo del carroponte, mansione che tutti svolgono perché fondamentale per il tipo di lavoro che si fa negli stabilimenti Marcegaglia. Inoltre, la carenza di personale costringe a cambiare spesso postazioni per supplire alla mancanza di operai: «Ho fatto corsi quando già lavoravo. Quando sono andato a fare il corso, il lavoro lo sapevo già fare…», lamenta un operaio di trenta anni. «Un addetto ci ha spiegato come funziona il carro ponte, ma le cose importanti per non farsi male non le hanno spiegate, io già lavoravo al carro ponte anche perché se uno è ammalato o si licenzia devi farlo tu…». «Il corso di formazione l’ho fatto dopo mesi di lavoro alle spalle…». In sostanza, dopo aver trattato la questione formazione-lavoro-corsi, possiamo quindi sostenere, con uno degli operai intervistati, che i corsi servono «al .%, anzi se ne dovrebbero fare non tanti ma fatti come si deve…». “Fatti come si deve” significa, viste le risposte dei nostri intervistati, che andrebbero fatti prima di entrare in linea e sul posto di lavoro, che prevedano, oltre alla parte teorica, anche fasi di stage nel reparto dove si andrà a lavorare, ma anche informazioni sull’organizzazione della fabbrica e sui rischi del lavoro, una preparazione sostanziale non solamente pratica al lavoro.
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Una formazione per gli operai, fatta in fabbrica, relativa soprattutto alla soggettività dell’operaio e a questo stesso luogo, e non solo e non tanto all’oggettività tecnica della produzione. Una formazione dunque che assuma chi in fabbrica ci lavora come soggetto in grado di pensare e scegliere cosa è importante sapere in fabbrica. Sulla sicurezza: «La sicurezza siamo noi» Sicurezza è la parola che abbiamo individuato come centrale rispetto alla questione lavoro-fabbrica. Questo termine, che compare continuamente nelle parole degli intervistati, svela però diverse ma contigue questioni: «Cultura della sicurezza…», inteso come lavorare in sicurezza, ma anche come sicurezza del lavoro: «Qui c’è un certo futuro…». Questi due temi, che inizialmente tratteremo in modo distinto, si legittimano e si completano l’uno con l’altro. La garanzia di un posto di lavoro fisso e sicuro è tra i motivi che fa scegliere alle persone di spostarsi, accettare la mobilità geografica per il posto sicuro di lavoro, accettarla perché la grande industria è garanzia di lavoro sicuro. Questo può apparire paradossale: mobilità in cerca di posto fisso; ma potrebbe chiarire gli equivoci che spesso sono dietro a parole di largo uso in materia di organizzazione del lavoro come “flessibilità” e “mobilità”. Uno dei primi operai che abbiamo incontrato dice con grande chiarezza: «L’attrattiva era che essendo una grossa azienda dà una sicurezza in più, io vivo da solo da quando avevo anni e sono siciliano e anche per cambiare la macchina hai bisogno di una certa busta paga che deve essere almeno di una S.p.A.». Altri due sostengono: «Al Sud non prendi lo stipendio, al Nord lavori con maggiore sicurezza, un giorno vai a lavorare e uno no al Sud, c’è ancora la manovalanza…». «Giù ci sono tanti lavori in nero, non c’è sicurezza…». «A Catania ho fatto per anni il pasticciere ma in nero; la prima busta paga l’ho conosciuta qui, non è stata una questione economica. All’inizio ho lavorato da un’altra parte ma non mi trovavo bene, industria alimentare, agricoltura; non ci sono i diritti dei metalmeccanici…». Indubbiamente una situazione limite quella di questo ex pasticciere siciliano, ma che evidenzia i due aspetti trainanti di questa ricerca di sicurezza: economica, quindi “busta paga”, ma anche: «Non è stata una questione economica… i diritti dei metalmeccanici». C’è chi in modo molto concreto ci racconta di come un posto fisso faccia da appoggio per concedersi cose altrimenti irraggiungibili: «All’inizio ho visto la cosa positiva, una fabbrica grossa, una S.p.A., lo stipendio era buono, non potevo trovare una cosa migliore…». Le parole di un operaio che ha perso un arto inferiore.
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«Sto meglio, molto meglio. Qua posso permettermi di fare un finanziamento per la macchina, per i mobili e il mutuo per la casa. In Romania non arrivi a fine mese, la macchina nuova me la sognavo, anche qui sempre in due perché se no da solo con tutti questi debiti!». L’altro aspetto di questo largo uso che viene fatto della parola “sicurezza” riguarda la possibilità d’avere diritti che lavorando al Sud o nei loro paesi d’origine non conoscevano: «Io l’operaio giù non l’ho fatto, però operaio giù non è come qui, non c’hai tutti i diritti che hai qui, poi per non parlare del lavoro nero, trovare un lavoro sicuro devi essere raccomandato da un politico, da uno che conta, sono sempre quelli, giù non puoi negare di fare lo straordinario il giorno dopo sei a casa, su è così», racconta un giovane napoletano. «Al Nord c’è una mentalità di lavoro più libera più pulita più sincera, qui si lavora molto in regola, fai il lavoro che ti chiede l’azienda, al Sud non basta fare - ore di lavoro, anzi il datore di lavoro te ne chiederebbe di più, si lavora più sporco, meno sicurezza in tutto e per tutto». Il secondo aspetto che viene svelato passando per la parola “sicurezza” riguarda il non farsi male: «Qui il lavoro è molto rischioso, si può perdere un arto ma anche la vita». Sicurezza sul lavoro che in questo caso vede diversi protagonisti: gli operai da una parte e l’azienda e i sindacati dall’altra. Durante l’intervista un operaio che lavora a Marcegaglia dal ’ ci descrive bene quanto è importante la qualità di rapporti fra operai nei reparti produttivi, anche ai fini della sicurezza: «…Nel compagno operaio bisogna avere grande fiducia, anche per la sicurezza, se fa una cosa sbagliata può rovinarti per tutta la vita». Un lavoratore siciliano dice che sono loro stessi a doversi occupare della loro sicurezza: «Ho imparato, prima ero esterno, a cavare le regge poi mi hanno detto di andare dentro e ho imparato in poco tempo, è facile ma ci sono responsabilità a non farsi male, a te e agli altri, la sicurezza siamo noi, se non sei sicuro tu tutto quello che hai addosso non conta, ci può essere sicurezza intorno ma sta a noi, fino a che il collega non si sposta non lo faccio il lavoro». Si capisce molto chiaramente dalle sue parole che considera il problema soprattutto come sua responsabilità. «È che praticamente il problema ce lo andiamo a cercare, dobbiamo fare tutto in sicurezza, in alcune parti dell’impianto, stanno anche provando a migliorarlo, ma il problema è la sicurezza, in quell’impianto lì c’è scappato anche il morto, lui ha fatto un lavoro non in sicurezza, ma il giorno dopo si è vista gente che lavorava lì intorno, vuol dire che proprio in sicurezza l’impianto non era, se lo facevano prima magari…». Questa è la testimonianza di un lavoratore che ha assistito alla morte di un suo compagno, avvenuta a Marcegaglia nel . Certo non rispecchia l’opinione di tutti quelli presenti alla disgrazia, ma rileva la polivalenza della parola “sicurezza” e i suoi legami con la questione della responsabilità.
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«Non so… Sulla sicurezza le protezioni ci sono, gli sbadati siamo noi, nel mio reparto è importantissima», continua un altro lavoratore. Nelle parole di un ragazzo che ha perso un occhio troviamo un ulteriore pensiero su questo problema che getta luce sulla faccenda: «La pressione che ti mettono addosso per la produzione, un operatore che sta sulla linea è pressato perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai vari capi… Perché poi sei coinvolto tu, alla fine sei solo e non puoi dire va be non lo faccio io, se la linea parte è come un treno, deve arrivare, c’è molta gente che si stressa a farlo, ma sei coinvolto e se ti abitui poi ce la fai, è che devi stare sempre a produrre produrre e molti non ce la fanno, è per questo che vanno via, c’è un riciclaggio di persone molto alto... Dopo mesi al decapaggio ho avuto l’incidente e sono stato a casa mesi». Come si è sentito dopo l’incidente? «È che è capitato a me che ero quello che facevo sempre notare che era pericoloso, io lo dicevo sempre anche ai capi, c’era poca luce, i coil li lasciano in mezzo, è pericoloso, e poi quando piove c’è un sacco di fango, togliendo la reggetta mi è saltata in un occhio perché loro le cose te le danno ma poi con questa cosa che devi produrre sudi e quindi poi te li togli, adesso le cose sono cambiate, l’operatore fuori si mette la visiera integrale, era obbligatorio ma non lo fai perché tu dici a me non mi capita, però è il sistema, è dove stai che è così, purtroppo lì è così, poi i rumori, la polvere, se non avessi cambiato reparto non sarei rimasto là in quel reparto, non sarei rimasto a Marcegaglia…». Le parole di questo operaio ci introducono l’altra faccia della medaglia della questione sicurezza: la chiara denuncia che viene fatta sull’insufficienza di barriere e il poco interesse che l’azienda, oltre che i sindacati, vi dedicano. Un’accusa che riguarda soprattutto l’identità di atteggiamenti tenuti dall’azienda e dai sindacati di fronte alle loro richieste: «…Il loro intervento è dopo che la cosa è già successa». «La sicurezza, qui dentro noi siamo solo dei numeri, se manco io mi sostituisce un’altra persona, ci sono le fotocellule con dei paletti ma non sono mai attivate, i fili non sono collegati, non funzionano, se uno si avvicina si dovrebbero fermare, invece non si accendono, dopo, siccome devi andare più forte o l’ordine è urgente, allora puoi scavalcare le tapparelle, loro pensano solo alla produzione, è stato un po’ messo a posto dopo che le persone si sono fatte male…». Una denuncia forte e molto grave quella di questo lavoratore meridionale. «Lasciamo perdere la sicurezza, penso che l’azienda è grandissima e noi manovriamo tonnellate, cosa ci puoi fare, il problema grosso qui è di Marcegaglia, c’è stato un morto, poi hanno messo le ringhiere… Queste cose succedono perché lui non compra gli attrezzi nuovi, solo usati, i carroponti che sono importanti, quante volte a noi è scivolato un coil, meno male che noi ci troviamo a distanza…». E continua: «Non so che c’è nella testa di Marcegaglia, in fondo noi meridionali lo aiutiamo a lavorare, invece lui non ci aiuta».
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«Un problema è la mancata programmazione, ho a che fare con gli operai e indicano quali sono i problemi che interesserebbero il vertice oltre che l’operaio; se un macchinario non funziona crea problemi a chi lavora ma anche all’azienda, ma non si sa perché non viene fatto, le notizie non vengono nemmeno trasmesse, il problema sorge ma l’informazione non arriva. Ho avuto un infortunio in linea, se ci fosse stata attenzione, infortuni tipo il mio non si sarebbero verificati», le parole di un lavoratore. Ecco come viene detta la responsabilità dei sindacati in questa fabbrica a proposito degli incidenti sul lavoro: «Qua non lavora bene il sindacato, si attacca a delle cose quando dovrebbe lavorare per altro, ha poco potere…». «Quando è morto un anno fa il ragazzo, abbiamo fermato gli impianti, giustamente mi sembrava il minimo, lì c’è stata anche una responsabilità dei sindacati, devi impedire che una persona s’infili dove non deve, il ragazzo ha fatto una cazzata ma la rete non c’era. Questo purtroppo in Italia succede da tutte le parti, prima succede la catastrofe poi si prendono i provvedimenti». «Sono una parrocchia… Fanno la parte dell’industria, non dei lavoratori. Rispetto alla questione della sicurezza fanno poco…», queste le parole di un altro lavoratore molto critico sull’attività del sindacato. «…“Fanno” è una parola grossa, non hanno mai fatto qualcosa, tipo quando è morto quel ragazzo, poi hanno fatto la riunione sulla sicurezza… Non impongono la loro voce, forse mi aspetto di più». Infine, è importante analizzare un enunciato che ratifica l’importanza dell’avere più diritti in fabbrica e che ci dice quanto in questo luogo le persone vogliano stare, essendo anche disposte a lavorare in condizioni, come abbiamo visto, di poca organizzazione e sicurezza: «Qui si vive proprio il senso della fabbrica, al Sud “operaio” proprio non esiste… Qui si fa l’operaio in tutti sensi, ci sono i diritti e i doveri, l’operaio può denunciare cosa non gli va, ci sono i sindacati, giù ci sono solo doveri». Il senso della fabbrica attira le persone e le localizza e, pur non essendo immuni dalla tentazione di andarsene, provano veramente a restare: hanno delle aspettative, spesso rimangono delusi. Abbiamo visto, quindi, nelle parole degli operai, sia un’accezione positiva della parola “sicurezza”, come possibilità (di vivere, avere un lavoro sicuro, un futuro, avere dei diritti, fare delle cose per sé e per la famiglia), ma anche come le possibilità possano trasformarsi in invalidità, mostrando l’accezione negativa della parola, quando essa viene nominata parlando degli infortuni e quando designa il problema maggiore per gli operai in questa fabbrica. La questione della sicurezza non riguarda per gli intervistati solo un problema di norme di sicurezza che devono essere rispettate, ma è soprattutto un problema di come vengono trattati gli operai e di come la proprietà e i sindacati si sono posti di fronte alla tragica morte di un operaio o ai gravi incidenti invalidanti.
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«È un fatto soggettivo... Con la direzione qui di Ravenna è meglio non averci a che fare, una volta gliel’ho detto anche in faccia, non ha niente di umano, e mi è costata una lettera disciplinare. Perché quando ci è morto quel ragazzo lì, lui ci è passato con i piedi sopra… Pensava comunque a produrre, neanche fosse stato un cane lì appeso, con tutto il rispetto per i cani, è logico che il compito suo è pensare alla produzione, però dai, un morto lì, stai scherzando...». «Io non sono iscritto al sindacato, non perché lo temo, però per quello che fa preferisco scegliere la mia strada da me. Secondo me dovrebbe essere più presente, quando abbiamo avuto i problemi coi rilevatori del gas, se non fossimo stati noi a rompere tutti i giorni e a insistere… È vero che l’azienda è grossa e ha tanti problemi… Perché devono passare anni prima che le cose si risolvano? C’entra sia col lavoro da fare che con la pericolosità… Sia la direzione che il sindacato lascia correre un po’. Danno più importanza a problemi che sono grandi per l’azienda e non per noi… Quanto ci abbiamo dovuto dare noi come reparto per ottenere delle cose sulla sicurezza dei carrelli, stavamo tutti i giorni a rompere...». Bisogna avere fiducia nell’operaio e coinvolgerlo nell’organizzazione. Gli operai possono e sanno intervenire sulle questioni organizzative del lavoro e quindi utili anche ai fini della sicurezza sul lavoro. La fabbrica non è solo il luogo della produzione e delle macchine, quindi del capitale, è anche il luogo degli operai e delle loro conoscenze, è un “sistema cognitivo distribuito”, c’è quindi anche del sapere operaio, è un luogo soggettivo ed è solo attraverso il coinvolgimento degli operai che si può pensare la sicurezza come possibilità per i lavoratori e non come minaccia per la loro vita. È proprio perché la fabbrica non si propone come luogo soggettivo che i lavoratori se ne vanno; se sapessero cosa stanno facendo, se partecipassero all’organizzazione del lavoro e alla determinazione delle condizioni di lavoro, probabilmente rimarrebbero. Infatti, la parola “organizzazione”, che spesso ritorna nelle parole degli intervistati, sottolinea proprio l’importanza che questa riveste dentro la fabbrica, sia in quanto legata alla parola “sicurezza” sia in quanto connessa alle motivazioni e alla possibilità per loro di continuare a lavorare alla Marcegaglia e di stare a Ravenna. Il primo intervistato così ci ha risposto alla domanda: cosa non si aspettava venendo qui? «La poca organizzazione nel lavoro, facciamo il lavoro due volte...». E ha continuato in risposte successive sul problema maggiore per gli operai e sui rapporti fra colleghi: «Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’azienda che è passata da operai a in anni e adesso ci sono anche quelli che non son specializzati e che coordinano e sono responsabili anche per la sicurezza». «Se ci fosse più organizzazione ci sarebbero meno attriti fra colleghi». Allo stesso modo, altri mettono in luce come l’organizzazione sia fattore fondamentale per la sicurezza, analizzando gli aspetti della turnistica: «Sul lavoro mi
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aspettavo più organizzazione, in una fabbrica così grande sembra che le cose siano lasciate un po’ al caso, tipo per la produzione o le ferie...», ci dice un saldatore del reparto zincatura e continua: «...Il contratto ci impone di fare altre ore se non c’è il cambio turno, facciamo ore a parte la mezz’ora di pausa, dipende anche da noi, se vedo che il collega è stanco gli dico riposati una mezz’oretta». «La turnistica, il tempo di recupero non c’è, la vita è sempre sballata, un giorno dormi di notte e poi dormi di giorno, è un po’ difficile capire che giorno è e che ora è, perdi la concezione del tempo… prima facendo almeno mattine di seguito ti abituavi». «Prima ero tesserato ma dal giorno in cui abbiamo cambiato la turnistica… L’azienda voleva cambiare i turni e lui, il sindacalista, alle riunioni ci teneva buoni e diceva: tranquilli, quello che non volete fare non lo facciamo. E invece lo facciamo adesso! Dicono che lui parlava con la direzione e diceva: tranquillo, gli operai li faccio stare buoni io, gli operai li convinco io. Sai, magari a uno che ha famiglia gli hanno detto prendi di più e quindi alla fine hanno votato il - ma non hanno capito che alla fine stai sempre qui, non hai mai tempo di stare a casa». È la risposta di un operaio, che ripropone la questione dell’identità di atteggiamenti della proprietà e del sindacato rispetto al non coinvolgimento degli operai nelle scelte della produzione e che segnala quanto l’organizzazione del lavoro si rifletta anche sulla qualità della vita a casa. La parola organizzazione la ritroviamo anche come la responsabile diretta dell’impossibilità di vivere a Ravenna, a riprova del fatto che come si vive dentro la fabbrica influenza in modo importante la vita degli operai anche fuori dalla fabbrica: «Il modo di lavoro a Marcegaglia è organizzato da non permettere a chi non è di qua di vivere Ravenna, sia per i turni, sia per la modalità di lavoro; è in fase di avvio questo stabilimento e quindi molte cose non sono organizzate, ho lavorato alla Fiat e le cose erano più organizzate, quindi la Marcegaglia non è un buon ambiente per poter vivere Ravenna e Ravenna non si fa vivere dai lavoratori di Marcegaglia, anche perché venendo dal sud il tuo ambiente sociale è il collega, non hai la famiglia e gli amici...». Un altro operaio ci risponde così alla domanda su quale sia il problema più grosso per gli operai: «Riguardo alla gestione dei reparti, la prima cosa nel lavoro è avere l’organizzazione... Gestione nel senso di organizzare, nell’organizzazione bisogna essere amici perché ci frequentiamo anche fuori...». C’è, nelle risposte date, un enunciato che nella sua semplicità ci fa capire in modo inequivocabile sia l’importanza che ha il lavoro e la sua qualità sulla vita delle persone, sia l’importanza della possibilità di pensare a quel che si sta facendo. Mette in luce cioè, in maniera prescrittiva, l’importanza di pensare al lavoro affinché il lavoro diventi possibile, non sia cioè solo un fattore necessario alla produzione e al profitto, ma una cosa vivibile, che dia delle possibilità alle persone, invece che toglierle insieme a parti del loro corpo: «...Qui la vita è tutta sul lavoro, non puoi avere un momento di riflessione...».
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Punti di sintesi dei giudizi degli operai e qualche consiglio .. Premessa Essenziale per il nostro metodo di ricerca è assumerci tutte le nostre responsabilità di ricercatori. Non ci limitiamo a dar voce ai nostri intervistati, né pretendiamo di parlare in loro nome. Proviamo anzitutto a far incontrare il nostro pensiero col loro, con quello che ricaviamo dalle loro stesse parole, avendo come primo obiettivo di rendere pensabile la realtà della loro situazione anche ad altri: in particolare, a chi ha responsabilità di gestirla e governarla. È in tal senso che proponiamo i seguenti punti per consigliare buone prassi sia alla Marcegaglia S.p.A., sia alla Provincia di Ravenna, che a diverso titolo hanno favorito lo sviluppo della nostra ricerca sull’ambientamento dei lavoratori migranti in questa azienda e in questo territorio. .. I punti . L’esistenza e lo sviluppo della Marcegaglia S.p.A. è giudicata positivamente in quanto giova a: a) fare esperienza della fabbrica in senso molteplice, non solo come luogo produttivo, ma anche come luogo di fiducia tra operai; b) far ambientare gli operai migranti, italiani e non, nel territorio ravennate; c) far esistere gli operai come figure indipendenti e dotate di propri diritti; d) dare sicurezza del posto di lavoro e di uno stipendio fisso e regolare. . Giudizi negativi riguardano invece il rapporto tra la Marcegaglia S.p.A. e il territorio, nonché l’organizzazione produttiva e la sicurezza sul lavoro nell’azienda. In particolare a essere criticati sono: a) il problema degli alloggi per gli operai: di difficile reperimento, non solo a causa del turismo stagionale, ma anche a causa della crescente domanda abitativa indotta dalle assunzioni operate dall’azienda; b) la disorganizzazione produttiva, nonché le carenze nell’attivazione dei sistemi di sicurezza, nella disponibilità di attrezzi adeguati e nella manutenzione dei locali e dei piazzali; c) la solitudine dell’operaio di fronte ai problemi incontrati nel suo lavoro; d) la pressione subita dagli operai per aumentare la produzione; e) la formazione spesso tardiva e poco adatta alle questioni ritenute fondamentali, quali quelle dell’ambientamento dei neoassunti in fabbrica e della sicurezza sul lavoro;
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f) l’eccessivo ricambio degli operai (sia per flessibilità interna sia per le frequenti dimissioni) che non consente un accumulo di esperienza, considerato uno dei fattori decisivi per la sicurezza sul lavoro; g) l’inesperienza di alcuni capireparto e l’insensibilità di alcuni capoturno nei confronti delle diverse esigenze degli operai; h) le carenze nell’assunzione di responsabilità riguardo alle cause e alle conseguenze degli incidenti. . Critici sono anche i giudizi nei confronti dei sindacati, soprattutto perché si occupano più delle relazioni intersindacali e con la direzione aziendale che non dei problemi di lavoro e sicurezza incontrati dagli operai. . Ravenna e il ravennate risultano territori di difficile ambientamento per gli operai, che non considerano Provincia e istituzioni del territorio come interlocutori. . La nostra inchiesta è giudicata molto positivamente. .. Qualche consiglio Se l’esistenza e lo sviluppo dell’azienda, come risulta dal punto , sono considerati positivamente anche in rapporto alle difficoltà d’ambientamento nel territorio, i problemi evidenziati nel punto (dell’alloggio, della qualità della formazione, dell’organizzazione del lavoro e della sicurezza) sono al centro di notevoli preoccupazioni da cui sono da trarre consigli per migliorare la situazione. In particolare, a proposito del punto a si può notare che il pensiero degli operai si orienta su richieste di “punti di appoggio” nella ricerca di alloggi e/o di un’edilizia più vicina ai loro bisogni: richieste che potrebbero venire affrontate tramite un maggiore impegno dell’azienda, ma anche grazie a forme di cooperazione tra azienda e istituzioni del territorio. Quanto al punto e, riguardante la formazione, è consigliabile un profondo rinnovamento che tenga conto delle notevoli difficoltà di ambientamento dei neoassunti, solitamente senza alcuna conoscenza del lavoro di fabbrica. Senza dubbio, la formazione va resa più tempestiva, da compiersi in prossimità dello stesso posto di lavoro. Inoltre, ci pare utile far riferimento alla pratica dell’affiancamento, che i nostri intervistati ritengono essenziale per il loro buon inserimento. La risorsa fondamentale che viene trasmessa tramite l’affiancamento è l’esperienza accumulata dagli operai più anziani. Esperienza che pare costituire uno degli antidoti più efficaci ai problemi prioritari di questa fabbrica: anzitutto, organizzazione e sicurezza. Cruciale sembra comunque il punto f: il notevole ricambio che, ostacolando l’accumulo soggettivo di esperienza, aggrava i problemi organizzativi e
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aumenta i rischi d’infortunio. Illuminante a questo riguardo è l’enunciato di un operaio: «La sicurezza siamo noi». La sicurezza, dunque, non solo come problema tecnico, di attrezzature, o giuridico, di applicazione delle norme, ma essenzialmente come questione soggettiva, come elaborazione singolarmente meditata di esperienze accumulate. Infine, in considerazione del punto , e cioè del notevole apprezzamento dimostrato dagli intervistati per la nostra inchiesta, ci permettiamo di consigliare analoghe ricerche per ogni miglioramento anche di dettaglio. In particolare, per contribuire a raccogliere le conoscenze acquisite dagli operai nell’esperienza del loro lavoro, che già vengono utilizzate nella pratica dell’affiancamento e che potrebbero costituire una risorsa importante per il rinnovamento della formazione. Riportiamo gli enunciati raccolti tra i nostri intervistati, che sono tra i più significativi per ogni punto. . «Ho coronato il sogno della mia vita, il lavoro che cercavo, non mi sposto più…». «All’inizio ho visto la cosa positiva, una fabbrica grossa una S.p.A. Non potevo trovare cosa migliore…». a) «…Nel compagno operaio bisogna avere grande fiducia…». «…Qui si vive proprio il senso della fabbrica, al Sud operaio proprio non esiste…qui si fa l’operaio in tutti i sensi…». b) «Abbastanza buoni, è stato facile ambientarmi ci sono tanti meridionali che lavorano qui da parecchi anni, mi sono sentito subito a mio agio. Si discute di lavoro all’interno della fabbrica, al cambio turno, per il resto abbiamo rapporti di amicizia anche con ragazzi di Ravenna andiamo qualche sera a prendere una birra». c) «…Ci sono diritti e doveri, l’operaio può denunciare cosa non gli va, ci sono i sindacati, giù ci sono solo doveri». d) «…L’attrattiva è che essendo una grossa azienda ti dà una sicurezza in più… Io vivo da solo da quando ho anni e anche per cambiare macchina hai bisogno di una certa busta paga che sia almeno di una S.p.A.». .a) «Penso che ci debba essere qualcosa che faciliti le persone da fuori, qui c’è un po’ la questione dell’estate, ti affittano tante case da giugno a settembre per turismo, quindi per un operaio cercare casa con un contratto di un anno intero è difficili. Ravenna città è molto cara, fuori sono zone turistiche e quindi vengono affittate per questo. La gente di Ravenna sa il fatto suo». «…Ravenna è costosa e sanno che Marcegaglia si sta ingrandendo e la maggior parte siamo meridionali e magari con la famiglia e gli affittuari se ne approfittano». b) «Il lavoro è mal gestito…». «Un problema è la mancata programmazione, ho a che fare con gli operai e indicano quali sono i problemi che interesserebbero il vertice, oltre che l’operaio; se un macchinario non funziona, crea problemi a chi lavora, ma anche all’azienda, ma non si sa perché non viene fatto, le notizie non vengono nemmeno trasmesse, il problema sorge, ma l’informazione non arriva.
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Ho avuto un infortunio in linea, se ci fosse stata attenzione, infortuni tipo il mio non si sarebbero verificati». «Qui dentro noi siamo solo dei numeri, anche se io mi faccio male o muoio, se manco io mi sostituisce un’altra persona, ci sono le fotocellule con dei paletti ma non sono mai attivate, i fili non sono collegati, non funzionano, se uno si avvicina si dovrebbero fermare, invece non si accendono, dopo siccome devi andare più forte o l’ordine è urgente, allora puoi scavalcare le tapparelle, loro pensano solo alla produzione, è stato un po’ messo a posto dopo che le persone si sono fatte male o uno è morto al decapaggio; nel mio reparto un ragazzo ha perso la gamba e io ero al lavoro, l’ho visto in piedi e poi non l’ho visto più». c) «…Perché poi sei coinvolto tu, alla fine sei solo e non puoi dire va be’ non lo faccio io, la linea è come un treno, deve arrivare». d) «La pressione che ti mettono addosso per la produzione, un operatore che sta sulla linea è pressato perché deve fare un certo quantitativo di roba, è pressato dai vari capi…». e) «…Il corso ti prepara mentalmente al tipo di lavoro che devi fare; alcuni che non fanno il corso arrivano qua e non sanno cosa aspettarsi, rimangono delusi, non sanno come muoversi e quindi vanno via, ad alcuni invece hanno fatto lo stage già facendo il lavoro che poi avrebbero fatto realmente». «Qui è pericoloso, non prendono per i corsi di formazione, mettono a lavorare la gente senza sapere il lavoro che vanno a fare, è solo lo stipendio che gli importa e avere un lavoro sicuro, per me la fabbrica dovrebbe spendere per la formazione e la sicurezza…». f) «Ci vuole un po’ di esperienza, non ci vuole la scienza ma un po’ di esperienza, a saper fare il lavoro…». «…Ci sono responsabilità a non farsi male, a te e agli altri, la sicurezza siamo noi, se non sei sicuro tu, tutto quello che hai addosso non conta, ci può essere sicurezza intorno, ma sta a noi, fino a che il collega non si sposta, non lo faccio il lavoro...». g) «Quel che riguarda l’organizzazione, perché siamo un’azienda che è passata da operai a in anni e adesso ci sono anche quelli che non sono specializzati e che coordinano e sono responsabili anche per la sicurezza. Che le persone che effettivamente fanno i capi abbiano una professionalità maggiore, perché noi pecchiamo un po’ su questo. Io sono delegato e quindi conosco un buon % degli operai, conosco i loro problemi, parliamo della sicurezza e dei livelli di salario». h) «…In quell’impianto lì c’è scappato anche il morto, lui ha fatto un lavoro non in sicurezza, ma il giorno dopo si è vista gente che lavorava lì intorno, vuol dire che proprio in sicurezza non era, se lo facevano prima magari…». . «Qua non lavora bene il sindacato, si attacca a delle cose quando dovrebbe lavorare per altro, gli interessa più scontrarsi tra di loro…». . «Sull’integrazione, l’immigrato è integrato solo dal punto di vista del lavoro, ma socialmente no!».
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. «È positivo, lo pensavo prima di farla ed è così, si parla di cose che gli altri non dicono, porta a visione dei problemi…». «È stata una novità, questa la metto tra le cose positive dell’Emilia-Romagna, che c’è qualcuno che si interessa di noi…». «Mi sono sentito un po’ diverso, che sto facendo parte di questa società un po’, mi avete trattato un po’ come un uguale, mi ha fatto piacere, grazie». Note . Rispetto a questo dato, manca chiarezza nelle risposte di due intervistati, che non vengono quindi conteggiate. . Cfr. nota . . Cfr. L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari . . Ibid. . Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino . . Ibid.
Sarebbe il lavoro del futuro* di Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi
Introduzione Tra il aprile e il maggio del , sessantotto studenti frequentanti il corso di Metodologia delle scienze sociali, tenuto dal prof. Valerio Romitelli presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, hanno intervistato settantaquattro operatrici e operatori sociali, lavoratori della cooperativa sociale bolognese CADIAI (Cooperativa assistenza domiciliare infermi, anziani, infanzia). L’incontro fra studenti e operatori è stato preceduto da un intervento, teso a fornire un quadro della legislazione riguardante le cooperative sociali e della loro storia, del responsabile delle Politiche sociali di Legacoop Bologna, Alberto Alberani, colui che ha inoltre reso possibile la realizzazione di questa inchiesta, contattando la presidente di CADIAI, Rita Ghedini. Un secondo incontro è avvenuto con la responsabile del Servizio marketing di CADIAI, Franca Guglielmetti, che ha illustrato la storia di questa cooperativa, la sua struttura interna, le figure professionali che vi lavorano, dando conto inoltre di alcuni punti problematici caratterizzanti il lavoro all’interno della cooperativa sociale. L’obiettivo delle cooperative sociali, secondo la legge dell’ novembre , n. , è quello di perseguire l’interesse generale della comunità, la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (in questo caso si parla di cooperative di tipo “A”, come CADIAI), oppure attraverso lo svolgimento di attività agricole, industriali, commerciali o di servizi, finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, quali disabili psichici, fisici o sensoriali, persone con problemi di salute mentale, tossicodipendenti o ex tossicodipendenti, minori in difficoltà, carcerati o ex carcerati, alcolisti (cooperative di tipo “B”). Le cooperative sociali nascono negli anni Settanta, in maniera spontanea e improvvisata, come società di persone che, attraverso questa forma di associazione, di impresa democraticamente controllata dai soci, cercano di rendere * Un’inchiesta tra i lavoratori della cooperativa sociale CADIAI.
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
più stabile il proprio lavoro e di migliorarne le condizioni economiche, professionali e sociali; fra il e il conoscono una fase di forte sviluppo e – tappa importante nella loro storia – nel vengono disciplinate dalla legge . Alle origini della cooperazione sociale stanno nuovi bisogni sociali, come il cambiamento della situazione demografica, che vede un forte aumento della popolazione anziana, le modifiche dell’ambito familiare, laddove la donna esce dalla dimensione di cura della famiglia; l’affermarsi della cultura dell’integrazione, con la chiusura dei manicomi (legge Basaglia del maggio , n. ) e l’inserimento nelle scuole dei bambini handicappati (legge maggio , n. ); la creazione del “privato sociale organizzato”, il terzo settore. La nascita delle cooperative sociali è inoltre sia di ispirazione cattolica, poiché guarda all’organizzazione della Chiesa e all’attività delle parrocchie, in particolare al volontariato spontaneo, sia di ispirazione laica, poiché ha innanzi le realtà della cooperazione, del sindacato e degli enti locali che gestiscono situazioni di disagio, per lo più psichiatrico. La cooperativa sociale si è sviluppata o meno a seconda dei diversi welfare territoriali e in conseguenza dei processi di decentramento ed esternalizzazione messi in atto dalle pubbliche amministrazioni negli ultimi decenni. In Italia, dopo un primo sviluppo a macchia di leopardo, che ha visto un picco a ridosso del ’, la diffusione si è molto estesa, per cui si può parlare di zone “mature” e zone “di recente espansione”: nel Sud Italia la presenza di un tessuto sociale che protegge maggiormente dall’esclusione, basandosi sulla famiglia, che qui è ancora la principale struttura di fatto delegata dalle istituzioni a farsi carico della dimensione del disagio sociale, ha fatto sì che non si creassero le condizioni per un particolare sviluppo delle cooperative: perciò in questa zona il quadro è più frammentato. Nel Nord le cooperative si trovano invece a operare in sistemi di protezione sociale spesso strutturati, con reti di servizi, relazioni con i soggetti locali, sia pubblici che privati, consolidate. Veneto, Piemonte e Lombardia (Brescia è la culla della cooperazione sociale: solo nella sua provincia esistono circa duecento cooperative) sono le regioni in cui sono presenti cooperative nate prevalentemente su ispirazione cattolica; Toscana ed Emilia-Romagna quelle che hanno visto nascere cooperative sociali di ispirazione per lo più laica. Fino al (caduta del muro di Berlino) le cooperative sociali in Italia sono state fortemente compartecipate, sostenute dai partiti: o dalla DC o dal PCI. Nella provincia di Bologna oggi sono presenti tre diverse associazioni di rappresentanza del movimento cooperativo: Legacoop, Confcooperative e AGCI (Associazione generale delle cooperative italiane), cui aderiscono cooperative sociali, di tipo “A” e di tipo “B”, le quali danno lavoro a . persone e forniscono servizi a . utenti, fra anziani, disabili, persone con problemi di salute mentale, tossicodipendenti, alcolisti, ex detenuti, disagiati, profughi, immigrati, minori (dati all’ gennaio ).
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Le figure professionali che lavorano nelle cooperative sociali sono educatori, assistenti di base (ADB), operatori socio-sanitari (OSS), responsabili di attività ausiliarie (RAA), impiegati, dirigenti, tecnici (pedagogisti, psicologi, assistenti sociali…), operai, autisti soccorritori, terapisti della riabilitazione, medici, infermieri, addetti alle pulizie. A Bologna, dove dal al quasi tutti i servizi sociali sono gestiti direttamente dagli enti pubblici, fra il e il si sviluppa il “privato sociale” sia associativo, come ANFFAS (oggi Associazione nazionale famiglie di disabili intellettuali e relazionali) e AIAS (Associazione nazionale assistenza agli spastici), sia cooperativo; la prima cooperativa sociale, la Croce azzurra, nasce nel , seguita nel da CADIAI; nel nasce la prima di tipo “B”, COPAPS (Cooperativa per attività produttive e sociali). Se inizialmente le cooperative lavorano in convenzione con l’ente pubblico, dal ai primi anni del si passa al sistema delle gare d’appalto per l’assegnazione dei servizi, che si svolgono per lo più al ribasso, cioè a vantaggio di chi propone il prezzo più basso, senza guardare alla qualità: un sistema che dà il via a un percorso di sfruttamento dell’operatore sociale, poiché le cooperative che offrono il prezzo più basso tutelano meno i propri lavoratori, adottando il “salario medio convenzionale”, il quale permette di non pagare a pieno i contributi. Nel una direttiva regionale ha reso obbligatorio per le pubbliche amministrazioni valutare almeno al % l’elemento qualità, ma i problemi legati alle gare d’appalto al ribasso (soprattutto instabilità e scarsa tutela del lavoro) permangono. Diamo ora, a partire da ciò che abbiamo recepito dall’intervento della responsabile del servizio marketing, un quadro della storia e dell’organizzazione della CADIAI. Cerchiamo dunque di capire cos’è la CADIAI vista “dall’alto”, prima di addentrarci nell’analisi delle parole degli operatori che vi lavorano. CADIAI viene costituita il settembre su iniziativa di persone, di cui donne, provenienti da esperienze di lavoro precario, in qualità di assistenti ad anziani e a bambini, a domicilio o in case di cura, che svolgevano appoggiandosi alle ACLI. Queste persone danno il via alla cooperativa con l’intento principale di assicurare il lavoro ai loro soci, allo stesso tempo qualificandolo in quanto lavoro di cura. In trent’anni la CADIAI è notevolmente cresciuta: al dicembre vi lavoravano persone, di cui a tempo indeterminato, con contratto a termine, liberi professionisti (medici, psicologi, infermieri professionali). Dei assunti a tempo indeterminato avevano un contratto part-time ( ore e mezza su del tempo pieno). Le donne costituivano l’% dei lavoratori e anche il presidente della cooperativa è tradizionalmente una donna. I lavoratori CADIAI non sono obbligati a diventare soci, come solitamente avviene nelle cooperative: da quando è stato stipulato il primo Contratto col
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lettivo nazionale di lavoro delle cooperative sociali, infatti, l’assemblea dei soci CADIAI ha stabilito di non rendere obbligatorio per i propri lavoratori associarsi (prima l’assunzione avveniva tramite associazione), con l’idea che fosse giusto distinguere l’assumersi un rischio d’impresa dall’offrire il proprio servizio. Perciò, sul numero degli occupati, i soci CADIAI sono circa la metà ( nel ). Questo comporta tuttavia dei problemi per la cooperativa, la quale non può così godere degli sgravi fiscali previsti per le cooperative con maggioranza di soci lavoratori. CADIAI applica dunque il CCNL, il quale stabilisce dieci livelli di retribuzione; la maggioranza dei suoi lavoratori si colloca fra il terzo e il sesto livello. Lo stipendio (circa euro per il quarto livello, il più diffuso in cooperativa) è uguale ogni mese (non si tratta quindi di un salario a ore) e ogni sei mesi vengono pareggiati i conti rispetto alle eventuali ore lavorative in più o in meno. In caso di malattia, i lavoratori vengono pagati fin dal primo giorno, ricevendo un’integrazione della copertura da parte dell’Inps, che scatta dal terzo giorno; la maternità viene pagata appieno e le donne, poiché svolgono lavori a rischio, possono assentarsi dal primo giorno di gravidanza al settimo mese di vita del bambino. Oltre al CCNL, CADIAI applica anche la contribuzione piena (invece del salario medio convenzionale, come altre cooperative): se da un lato questo è un vantaggio per soci e lavoratori CADIAI, che sono più tutelati rispetto a quelli di altre cooperative, dall’altro si rivela uno svantaggio nelle gare d’appalto al ribasso, poiché così, avendo costi più alti, CADIAI non è in grado di offrire prezzi competitivi. La cooperativa CADIAI prevede un’Assemblea dei soci; un Consiglio d’amministrazione, eletto dall’Assemblea ogni tre anni e composto da tredici consiglieri, rappresentanti di ogni settore produttivo; un presidente e un vicepresidente, eletti dal CDA; un organo di informazione interna (un giornale) che tiene aggiornati soci e dipendenti. La struttura aziendale è composta dal presidente del CDA, dalla Direzione operativa, formata da cinque responsabili di settore (uno per settore) nominati dal CDA, e da tre responsabili dei servizi di staff. Nessun membro della Direzione operativa può far parte del CDA, esclusa la presidente, in modo da tenere così separate le esigenze della gestione aziendale da quelle dei soci. Prerogativa delle cooperative è di garantire lavoro sicuro a tutti i propri soci e lavoratori, tuttavia questo principio viene evaso con l’assunzione di personale a termine. All’interno della CADIAI si ritiene di dover ridurre questa fascia di lavoro precario, resa ora necessaria sia dal bisogno di coprire periodi di maternità o di lunga malattia e infortuni, cui sono particolarmente soggetti questi lavoratori, che devono tra l’altro sollevare gli assistiti e svolgere diverse mansioni faticose e pesanti, ma anche dalla discontinuità delle richieste di lavoro, in particolare sull’assistenza domiciliare: infatti il monte ore preventivato dal Comune a inizio anno per questo servizio solitamente subisce delle variazioni cui bisogna adattarsi. Vengono fatte molte assunzioni a tempo determinato an
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che per coprire i periodi di ferie, poiché il lavoro aumenta quando le famiglie vanno in ferie e vanno in ferie anche gli operatori. Altro punto critico è dunque l’assenteismo per infortunio o malattia (tasso del %). Questo indica un malessere dei lavoratori: svolgono un lavoro logorante dal punto di vista fisico e psichico (ogni due anni vengono effettuate delle visite mediche, secondo la legge , per stabilire l’idoneità del personale alle varie prestazioni), stanno a contatto con la sofferenza (caratteristica di CADIAI è oltretutto il lavoro con l’utenza più grave), spesso sono sottoposti a tensioni derivanti dal fatto che il lavoro si svolge in gruppi. Da questi motivi dipende anche un eccessivo tasso di turnover (tasso ammissioni/dimissioni dei lavoratori), per cui in un anno può cambiare anche un terzo del personale. Sappiamo infatti che risulta difficile fidelizzare le persone al lavoro di cura: alcuni lo considerano un lavoro di passaggio, altri lo intraprendono poco consapevoli del tipo di mansioni da svolgere e lo abbandonano nel giro di un mese. I settori che risultano più problematici da questo punto di vista sono le case per disabili adulti e l’assistenza domiciliare, poiché si considera che, particolarmente in questi ambiti, non è indifferente chi svolge il lavoro: gli anziani si affezionano agli operatori, i disabili hanno bisogno di punti di riferimento che non dovrebbero cambiare ogni anno, anche perché si instaura un circolo vizioso per cui più cambiano gli operatori, più gli assistiti sono agitati, e più loro sono agitati più il lavoro per gli operatori diventa logorante, facendo sì che il tasso di turnover aumenti ulteriormente. Il marzo ci siamo dati appuntamento per accordarci su luoghi, date e orari delle interviste e per formare i gruppi che le avrebbero effettuate. Si sono così spontaneamente creati ventidue gruppi di due, tre per lo più, o quattro persone al massimo, alcuni dei quali costituiti da studenti che già si conoscevano fra loro, molti altri formati da studenti che hanno trovato allora l’occasione di conoscersi e allo stesso tempo di fare insieme un’esperienza che per tutti è stata in primo luogo nuova rispetto alla didattica solitamente applicata all’interno dell’università, e poi coinvolgente, entusiasmante, formativa. Fare le interviste in gruppo è stato importante poiché, oltre a consentire a tutti i frequentanti il corso di partecipare, ha reso più abbordabile un’impresa che, come prima esperienza, avrebbe potuto dare risultati deludenti, e ha garantito inoltre maggior attendibilità: le parole degli intervistati sono state infatti raccolte tramite scrittura, trascrizione manuale, non registrate, al fine di rendere l’intervistato più responsabile rispetto alle proprie risposte. È stato dunque utile che ci fossero almeno due mani a trascrivere, poiché questo ha reso più responsabili rispetto alle parole degli intervistati anche noi intervistatori alle prime armi. L’adesione all’inchiesta da parte dei lavoratori è stata volontaria e successiva alla ricezione di una nostra lettera, in cui si spiegavano motivazioni e obiettivi della ricerca; che l’intervista sarebbe stata anonima e utilizzata solo a fini
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scientifici; che si sarebbe stabilita una data in cui avremmo pubblicamente presentato i risultati dell’inchiesta. Gli incontri fra studenti-intervistatori e lavoratori-intervistati sono avvenuti sui loro luoghi di lavoro e durante l’orario di lavoro. Le interviste hanno avuto mediamente una durata di un’ora ciascuna. Gli uffici CADIAI del quartiere Navile, del quartiere San Donato, del quartiere Savena-Mazzini, del Centro civico Lame, del Centro civico Savena-Mazzini, la sede CADIAI di via del Monte, i centri diurni per anziani “Il Castelletto” e “Tulipani”, i centri socio-riabilitativi diurni per disabili “Fava” e “Casa dei Boschini”, la residenza protetta per disabili “Casa Rodari”, il gruppo appartamento per disabili di via Sant’Isaia, dunque, i luoghi delle interviste. I nostri strumenti erano il questionario a risposta aperta da somministrare agli intervistati, di cui abbiamo discusso durante il corso, e la volontà di riuscire, servendoci di esso, a raccogliere le parole attraverso cui indagare quale sia il pensiero che rende possibile il pesante lavoro di questi operatori. Descrizione del campione Pur avendo a disposizione meno di un mese, essendo ben ventidue gruppi, siamo riusciti a intervistare settantaquattro persone, da una a sei per gruppo, secondo le disponibilità, arrivando a raccogliere un materiale che consta di circa pagine. Fra quartieri e centri civici, sono stati intervistati trentacinque assistenti domiciliari ad anziani, invalidi o malati terminali, quattro coordinatori, quattro referenti del servizio ADI (Assistenza domiciliare integrata), un responsabile organizzativo; presso la sede CADIAI, quattro educatori e un assistente domiciliare; nei centri diurni per anziani, otto assistenti e un’operatrice che svolge attività di supporto, poiché non può più svolgere mansioni di altro tipo per invalidità sul lavoro; nei centri diurni per disabili, quattro educatori; altri otto educatori presso Casa Rodari e infine quattro assistenti presso il gruppo appartamento. Dunque il nostro campione è così composto: ‒ assistenti domiciliari; ‒ educatori ( in centri diurni – nella casa protetta); ‒ assistenti per anziani in centri diurni; ‒ assistenti per disabili in gruppo appartamento; ‒ referenti; ‒ coordinatori; ‒ Rresponsabile organizzativo. Le donne sono , gli uomini . Di età compresa fra venti e trenta anni abbiamo persone; fra trenta e quaranta: ; fra quaranta e cinquanta: ; fra cinquanta e sessanta: ; uno solo oltre i sessanta; in undici casi non disponiamo del dato.
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Per quanto riguarda l’anzianità di servizio, le persone che lavorano in CADIAI da un periodo compreso fra due mesi e un anno sono ; fra due e cinque anni: ; fra cinque e dieci anni: ; fra dieci e venti anni: ; da più di venti anni vi lavorano persone, di cui quella con maggior anzianità da trentacinque anni. Originari e residenti di Bologna e provincia sono ; provenienti da altre città del Nord Italia: ; provenienti da diverse città del Centro Italia: ; provenienti dal Sud Italia: ; provenienti da altri paesi (Albania, Colombia, Ecuador, Senegal): ; in casi non disponiamo del dato. persone provengono da esperienze di volontariato; hanno cominciato a lavorare in CADIAI per prestare servizio civile e sono stati poi assunti; sono laureati in psicologia e lavorano qui dopo aver svolto attività simili per il proprio tirocinio; per persone è il primo lavoro dopo il diploma (Istituto magistrale, Istituto tecnico per i servizi sociali, Liceo per le scienze sociali, Istituto tecnico commerciale); sono studenti universitari (Scienze antropologiche, Scienze della formazione); lavoravano con diverse mansioni in strutture mediche; facevano privatamente attività di assistenza ad anziani o bambini; faceva la maestra d’asilo; faceva terapie artistiche con bambini disabili; provengono da un lavoro in fabbrica; facevano i commercianti; erano impiegati in uffici vari; provengono dal campo della moda e da un’agenzia pubblicitaria; facevano lavori diversi, come commessa, parrucchiera, cassiera, cameriera, magazziniere, decoratrice, restauratrice, estetista; ha sempre lavorato per CADIAI; faceva l’istruttore militare in Ecuador. Fra costoro donne hanno cominciato a lavorare nella cooperativa dopo aver lasciato da diversi anni un’altra attività per dedicarsi alla maternità. Questo il nostro vario campione. Il maggio, presso la sede CADIAI del quartiere Pilastro, abbiamo esposto i primi risultati della ricerca a un pubblico costituito dalla presidente della cooperativa, Rita Ghedini, dalla responsabile del Servizio marketing, Franca Guglielmetti, da responsabili e coordinatori della CADIAI e dagli studenti del corso di Metodologia delle scienze sociali. Mancavano i diretti interessati, gli operatori, impegnati in quel momento al lavoro, che, tuttavia, abbiamo avuto modo di incontrare più avanti, non solo per restituire loro i risultati dell’inchiesta, ma anche per verificare e approfondire questioni, attraverso un dialogo di gruppo, con lo scopo di arrivare a costruire con loro una serie di prescrizioni utili pragmaticamente. Di questa esperienza daremo conto nell’Appendice a conclusione del testo. «Nel nostro mondo siamo importanti» Il sistema di welfare italiano ha sempre visto prevalere i trasferimenti monetari alle famiglie rispetto all’erogazione di servizi pubblici, favorendo così una lar
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ga autoproduzione di assistenza e servizi alla persona da parte delle famiglie stesse. Il recente sviluppo del terzo settore e in particolare dei servizi assistenziali e sanitari è legato, dunque, alla crescita, dovuta al ritrarsi della famiglia tradizionale, di una domanda che lo Stato sembra sempre meno in grado di soddisfare, sia per quantità che per qualità. Le cooperative sociali costituiscono in quest’ambito una risposta innovativa a tali carenze: secondo C. Borzaga e J. Defourny le cooperative sociali, insieme alle organizzazioni di volontariato, rappresentano la fattispecie organizzativa più innovativa all’interno del settore non profit italiano. Anche nel Terzo rapporto sulla cooperazione sociale in Italia si parla di innovazione: le cooperative sociali sono innovative rispetto alle tradizionali forme di cooperazione, in quanto i beneficiari dei prodotti dell’impresa non coincidono solo con i soci, ma con la più vasta comunità locale. Il loro carattere innovativo è legato anche alla nascita relativamente recente e al loro recente riconoscimento: abbiamo già detto, del resto, che la prima legge che le disciplina (la ) risale solo al . I lavoratori che operano all’interno delle cooperative sociali sono allora figure nuove, le quali si trovano ad affrontare bisogni non soddisfatti dallo Stato, ma anche non più gestiti in seno alla famiglia, con tutto lo sforzo di adattamento e di creatività che ciò – vedremo più avanti – comporta. Ma sono anche figure che non rientrano ancora nel tradizionale panorama delle professioni in Italia, dove l’operatore sociale non è riconosciuto come lavoratore, poiché nemmeno conosciuto o confuso con chi fa del volontariato: non essendo l’assistenza al cittadino percepita come diritto, ma demandata per lo più alla generosità di volontari, i lavoratori che questo diritto lo incarnano non hanno visibilità o, laddove ne abbiano, le loro competenze vengono spesso fraintese e svalutate. La nostra inchiesta è stata subito recepita dagli operatori come un’occasione, un mezzo per diffondere la conoscenza della loro realtà. C’è appunto chi parla di “realtà diversa” da far conoscere all’“esterno”: «È una buona iniziativa per mostrare alle persone una realtà diversa, che all’esterno forse nessuno conosce»; chi di nuovo usa la parola “conoscere”, legandola alla possibilità di arrivare a “sostenere” di più questo lavoro: «Se serve per far conoscere di più il nostro lavoro, ben venga: questo lavoro dovrebbe essere più aiutato e sostenuto»; chi parla, invece, di far “capire” il proprio lavoro, riprendendo l’idea di una “realtà” esterna contrapposta a una interna, in questo caso costituita solo dagli utenti, “gli anziani”: «Spero sia utile per far capire il nostro lavoro, perché lo riescono a capire solo gli anziani»; c’è anche chi ci attribuisce la possibilità di “sensibilizzare” l’opinione pubblica rispetto alla propria realtà: «Queste interviste bisognerebbe farle più spesso per sensibilizzare l’opinione pubblica»; e, ancora, chi si sente “valorizzato” dalla nostra iniziativa rispetto alle abituali condizioni, in cui ci si sente chiamare “lavaculi” (questa parola è ricorsa frequentemente nelle interviste, a rimarcare la sottovalutazione dei compiti del
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lavoratore sociale da parte dell’“esterno”): «Bellissima iniziativa: spesso siamo considerati una categoria di lavaculi. L’intervista ci ha fatto sentire valorizzati». Nelle parole dei nostri operatori l’idea che il proprio lavoro non sia conosciuto si accompagna, e allo stesso tempo contrasta, con quella dell’importanza rivestita da esso non solo per la società, per la gestione di una fetta problematica e non trascurabile di questa, ma anche per ogni soggetto che lo svolge, questo lavoro. Risulta infatti essere un lavoro dalle qualità intrinseche tali da far affermare a un’operatrice: «È un lavoro che mi ha cambiato il carattere». Ma più avanti la stessa lamenta scarsa “considerazione” da parte delle istituzioni: «È dall’alto che questo lavoro dovrebbe essere considerato di più». Un altro rileva l’importanza del proprio mestiere nel caratterizzarsi come scambio reciproco, come “dare e ricevere”: «È un lavoro affascinante: non dai solo, ricevi anche». Gli attribuisce dunque un fascino, pur sentendosi “abbandonato”, non riconosciuto socialmente in rapporto ad esso: «È difficile essere da soli, abbandonati da parte della società». Un’altra mette l’accento sulla piacevole sensazione che si ricava da quest’attività nel dedicarsi agli altri. Sensazione che va poco dopo a scontrarsi con quella derivante – di nuovo – dall’inadeguata “considerazione”: «È bellissimo riuscire a conciliare il bisogno di lavorare con la sensazione di aver fatto qualcosa per qualcuno»; e poi: «In linea di massima penso che ci sia poca considerazione per il nostro lavoro». Emblematico è il seguente enunciato, in cui si ripresentano un “fuori”, legato alla scarsa considerazione, e un “dentro”, che qui viene nominato come il “nostro mondo”, legato all’idea di essere “importanti”: «Al di fuori non siamo presi in considerazione, siamo l’ultima ruota del carro, ma nel nostro mondo siamo importanti». Questi operatori ritengono dunque di appartenere a un mondo chiuso, ricco, quanto poco conosciuto al suo esterno. In primo luogo misconosciuto dalle istituzioni: «Penso che le istituzioni pubbliche ci trattino molto male, che ci sfruttino e che non capiscano nemmeno il nostro lavoro». Anche la stessa organizzazione di lavoro, la cooperativa, è pensata dagli operatori come non riconosciuta e quindi poco “sicura” per quanto riguarda la stabilità e la continuità del lavoro: «La cooperativa non è riconosciuta in campo politico»; «La CADIAI dovrebbe farsi sentire di più»; «La CADIAI dovrebbe rendersi più visibile: per assicurare un futuro a questo settore è indispensabile sensibilizzare la gente e informarla di ciò che avviene all’interno dei nostri centri». Ci poniamo perciò come primo obiettivo di promuovere la conoscenza del lavoro sociale attraverso l’indagine sul pensiero di soggetti che questo lavoro lo svolgono. In linea con chi pensa che questo «sarebbe il lavoro del futuro», anche perché «lavorare nel sociale ti fa vedere altri aspetti della vita», ci proponiamo in
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primo luogo di non deludere chi ci ha detto: «Spero in voi, spero che arrivi il messaggio dell’importanza di questo lavoro». Ma non basta promuovere la conoscenza di questo “mondo”: la parola che assumiamo come parola chiave dei risultati di questa inchiesta è “riconoscimento”: «Questo non è riconosciuto come lavoro»; «Bisogna riconoscere l’importanza della nostra professionalità»; «È un lavoro che mi piace, anche se non è riconosciuto». La assumiamo come tale non solo perché si presenta sovente fra le parole dei nostri intervistati, ma anche perché pensiamo di poter prefiggerci come secondo obiettivo il tentativo di dare a questi operatori, attraverso il nostro lavoro, un riconoscimento del tutto particolare, da anteporre a qualsiasi altro tipo di riconoscimento: un riconoscimento intellettuale. Pensiamo cioè di riconoscere a chi svolge l’attività di operatore sociale all’interno di una cooperativa la dignità di chi esercita un lavoro il quale merita di essere conosciuto e pensato in termini problematici nuovi e singolari, quanto nuove e singolari sono le difficoltà cui si trovano davanti questi operatori trattando ambiti ancora ambigui e poco definiti della vita collettiva. Cercheremo dunque di descrivere attraverso le loro parole questa realtà, con i problemi che porta con sé e le soluzioni che caso per caso vengono da loro stessi elaborate. «Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro» In quest’ottica il malcontento per lo stipendio, che sembra coinvolgere trasversalmente tutte le figure professionali, tutti i livelli, non ci è sembrato da considerare una lamentela banale o scontata, o semplicemente una rivendicazione sindacale, come le tante che ci sono capitate sotto mano occupandoci di questo settore, nel quale le lotte per il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro e per il miglioramento del trattamento economico sono continue: crediamo sia il campo in cui emerge nella maniera più immediata, meno elaborata, forse, la richiesta di riconoscimento, poiché molto frequentemente viene usata, in merito alla questione, la parola “valore”: «Lo stipendio non dà valore al nostro lavoro», dice un educatore. Con lui, altri intervistati ( coordinatori, referenti, educatori, operatori in centri diurni per anziani e assistenti domiciliari) danno rilievo con le loro parole all’inadeguatezza dello stipendio rispetto al valore del lavoro, alla difficoltà, ma anche alle grandi qualità («mi ha cambiato il carattere», «fa riflettere di più sulla vita») di esso. Due assistenti domiciliari dicono: «Dovrebbe essere un lavoro retribuito di più, per quello che vale»; «È basso, considerando quello che si fa». E questo anche perché, come dice un’altra assistente domiciliare, «sono impagabili il coinvolgimento, le energie e le responsabilità che quotidianamente vengono messe in questo lavoro».
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Si tratta in effetti per gli operatori di avere responsabilità civili e penali rispetto ai propri assistiti, oltre al coinvolgimento personale («lavoriamo con persone, non con macchine») nella cura di costoro, alla fatica fisica e al continuo sforzo di adattamento e di ricerca di soluzioni per ogni caso da affrontare. Connesso a questo aspetto, emerge in più enunciati anche un altro problema, riguardante il riconoscimento che, attraverso lo stipendio, si dovrebbe dare al livello di esperienza e di formazione raggiunte dall’operatore: «Lo stipendio è basso, dieci anni fa prendevo il minimo, ma mi stava bene perché non avevo formazione...». Un’educatrice in proposito parla di impegno che dovrebbe essere “rimborsato”: «L’impegno fisico, psicologico, di preparazione, che è alto, non è rimborsato da questo stipendio». In questa attività, infatti, la continua formazione, più che teorica, legata all’esperienza diretta, la continua costruzione di modalità di agire e di rapportarsi agli assistiti costituiscono – lo vedremo meglio più avanti – la parte più significativa e problematica. Fra i nostri intervistati, della propria retribuzione non è contento nessuno. Ventisei ( coordinatori, referenti, assistenti domiciliari, educatori, assistenti per anziani in centri diurni, assistenti per disabili in appartamenti), quando abbiamo chiesto loro se ci fosse un problema che avrebbero voluto vedere risolto o cosa potesse migliorare le condizioni del loro lavoro, hanno risposto: «Uno stipendio più alto». Molti pensano di percepire uno stipendio che non basta per vivere: prendendo in esame le risposte alla domanda che fa direttamente riferimento allo stipendio, troviamo che sette intervistati ( assistenti domiciliari, educatore, assistente a disabili in appartamento e assistente anziani in centro diurno) danno risposte come: «Non è adeguato al costo della vita»; «Se non avessi mio marito, non riuscirei a viverci»; «Io vivo ancora con i miei genitori, ma se dovessi mantenermi da sola questo stipendio non basterebbe». Da questi enunciati emerge chiaramente che i nostri operatori percepiscono una retribuzione che non li mette in condizioni di costruire una famiglia, per esempio, o semplicemente di mantenersi da soli, senza l’appoggio della famiglia d’origine o dello stipendio di un altro membro della propria famiglia: «Molti di noi fanno un secondo lavoro», ci ha detto un educatore. Questo contribuisce a caratterizzare il lavoro all’interno della cooperativa sociale come transitorio: può dunque essere anche per questo motivo che risulta un lavoro prevalentemente femminile e non solo perché si tratta di mansioni di cura. Secondo un’analisi di Reyneri, il settore dei servizi è a prevalenza femminile, poiché gran parte dei servizi sociali e personali risultano essere la professionalizzazione di attività che venivano svolte fino a qualche decennio fa all’interno della famiglia. Ma afferma anche che il lavoro nei servizi è vissuto da chi lo svolge (per lo più donne, giovani e immigrati) come transitorio o comunque non centrale nella propria esperienza di vita e che, in un sistema di scarsa oc
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cupazione e precarietà del lavoro, scaricarle su tali categorie può risultare meno traumatico per la gestione della società, poiché sarebbero categorie in grado di fondare la propria identità sociale al di fuori del mercato del lavoro (come casalinga, mamma, studente...) e quindi subire l’esclusione dall’occupazione con meno conflitti o tensioni. A questo proposito notiamo che fra coloro che lavorano part-time c’è chi (un assistente anziani in centro diurno, assistenti domiciliari, un educatore), mettendo in relazione stipendio e numero di ore di lavoro, attenua i toni parlando della propria retribuzione, soprattutto perché il part-time è legato alla possibilità di dedicarsi, per esempio, anche alla famiglia. Un’assistente domiciliare, che ha scelto questo lavoro perché la impegna solo la mattina, così ha «il tempo di stare con la sua bimba», ci ha detto: «È un tasto dolente, comunque non mi lamento. Per il momento è tanto già l’aver iniziato a lavorare». La scarsa retribuzione condiziona dunque anche il rapporto con il proprio lavoro, l’intenzione di proseguirlo, influendo sul tasso di turnover, il quale – abbiamo visto – costituisce un grave problema per il lavoro in cooperativa. Sei intervistati ( educatori e assistenti domiciliari) pensano infatti di non potere o volere continuare a farlo per via della “situazione economica”. Una di loro, assistente domiciliare, ci ha detto: «Se riesco a trovare un lavoro pomeridiano, posso rimanere, altrimenti non so: ho bisogno di più soldi per vivere, ora sto solo sopravvivendo». Anche le difficoltà nel reclutamento del personale dipendono in parte dalla questione “stipendio”. È emerso durante l’inchiesta – lo approfondiremo più avanti – che trovare persone motivate e qualificate da assumere è un grosso scoglio, il quale si ripercuote anche sulla vita lavorativa di molti operatori, che lamentano difficoltà imputabili all’inadeguatezza di colleghi poco motivati. Un’assistente domiciliare ci ha detto: «Se fosse più pagato questo lavoro, il personale si troverebbe»; una coordinatrice: «Se pagassero di più, riusciremmo a fare più selezione e a qualificarli meglio». Nove intervistati ( assistenti domiciliari, assistente a disabili, operatore in centro diurno per anziani) usano, in merito alla retribuzione, la parola “sfruttamento”: «Negativo al massimo: siamo sfruttate al massimo»; «Le cooperative sociali stanno diventando una specie di sfruttamento umano». C’è anche chi parla di “agenzia interinale”: «Le persone sono sfruttate. Siamo peggio delle agenzie interinali». Emerge da queste parole un’idea negativa della politica di lavoro messa in atto dalla cooperativa, che si colloca in una più generale sfiducia nella cooperativa come organizzazione. Un’educatrice: «Non significa più niente cooperativa». Il sistema delle gare d’appalto per la gestione dei servizi, che abbiamo descritto nell’introduzione, sicuramente contribuisce a questa sfiducia: «Il sistema
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degli appalti sta distruggendo questo lavoro»; «Le istituzioni pubbliche assegnano posti tramite gare d’appalto, si gioca al ribasso e questo non aiuta molto». Infatti, nel caso in cui la cooperativa perda una gara d’appalto, i lavoratori si trovano comunque a ripartire da zero, almeno per quel che riguarda i risultati raggiunti con gli utenti. In cinque ( referenti, educatore e assistente domiciliare) fanno riferimento al problema del contratto da rinnovare, mettendolo in correlazione ancora con la scarsa “considerazione” in cui si sentono tenuti “dall’alto” in quanto lavoratori: «Non solo si guadagna poco, anche il contratto è scaduto già da tre anni, siamo poco considerati, nonostante sia un lavoro molto importante». Tuttavia, alcuni pensano che comunque, nonostante la scarsa retribuzione, l’importante sia sentirsi “tranquilli”, “tutelati” dalla cooperativa in cui si opera, riconoscendo alla CADIAI di dare delle garanzie ai propri lavoratori che altre cooperative non danno (ricordiamo che la CADIAI è tra le pochissime cooperative sociali ad applicare la contribuzione piena): «Secondo me, per i servizi che diamo, lo stipendio è basso... ma la cooperativa ti garantisce tranquillità»; «È basso... ma la CADIAI tutela il lavoratore, a differenza di altre cooperative che non lo fanno». Per alcuni ciò che manca alla CADIAI e, più in generale, alle cooperative sociali è il peso politico, come abbiamo visto in precedenza, il potere contrattuale, per cui, per quanto si cerchi di tutelare i lavoratori, non si riesce a migliorare le loro condizioni economiche, a ottenere un CCNL più adeguato. Una responsabile organizzativa ci ha detto: «Sullo stipendio stendiamo un velo pietoso, però il contratto è quello e nel nostro statuto abbiamo il massimo che ci possono dare». Due assistenti domiciliari aggiungono al quadro il problema degli spostamenti da effettuare con mezzi propri, fatto che sicuramente ha ripercussioni in termini economici: «Non mi lamento dello stipendio, ma dell’usura della macchina». È una questione che riguarda più in generale l’organizzazione dei servizi. Infatti gli operatori lamentano di dover gestire gli spostamenti da una casa all’altra degli assistiti in soli cinque minuti. «Devi usare il tuo mezzo, ti devi pagare la benzina, devi trovare parcheggio e hai a disposizione solo cinque minuti», dice un’assistente domiciliare. Cosa possibile solo nei casi (che sono risultati rari) in cui il coordinatore del gruppo sia attento o abbia la possibilità (legata alle dimensioni più o meno gestibili dei gruppi di lavoro) di creare percorsi razionali per ognuno. Con le parole di cinque intervistati, tutti assistenti domiciliari, viene nuovamente ribadito, pur nello scontento per lo stipendio, il grande valore che ha per loro il proprio lavoro, il loro estremo coinvolgimento. Hanno tenuto a dirci che, nonostante non si sentano economicamente gratificati, non lo lascerebbero mai: «Non lo lascerei mai nonostante lo stipendio»; «Siamo pagati poco, ma mi è piaciuto tanto che lo farei anche da volontaria»; «Gli stipendi non vanno, ma, per dirsela tutta, meglio morta di fame e aiutare gli altri».
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Vediamo allora quali fattori rendono il lavoro sociale così particolare, da dove i nostri operatori traggono la gratificazione che li spinge a continuare. «La cosa più importante è la gratificazione che si può ricevere dalle persone» Precedente alla nostra, la ricerca più recente sulle cooperative sociali di Bologna riguardava il fenomeno del burnout e del suo possibile rimedio consistente nell’empowerment. Anche se il campione e il settore così indagati erano sensibilmente diversi dai nostri, abbiamo constatato che non mancavano dei punti di intersezione. Così, ai fini della nostra inchiesta, è stato molto importante esaminare approfonditamente metodologia e risultati di questo studio antecedente. Quanto alla metodologia, alcuni tratti lo rendono evidentemente molto diverso dal nostro. Anzitutto, la coppia burnout/empowerment definisce un insieme di comportamenti che vengono verificati tra i soggetti interpellati dalla ricerca. Ciò è necessario per somministrare dei questionari a multiple choice e quindi raggiungere dei risultati essenzialmente quantitativi. La nostra inchiesta invece aveva un obiettivo del tutto opposto, di approfondire il più possibile qualitativamente il pensiero e la soggettività degli operatori. Per questo per noi è stato essenziale tenere come fonte principale di conoscenza le loro stesse parole. E per questa stessa ragione è stato quanto mai importante evitare di definire qualsiasi comportamento a priori, su cui esaminare i nostri intervistati. Ma c’è pure una divergenza metodologica ancora più fondamentale. La coppia burnout/empowerment rappresenta una dialettica evolutiva. L’idea è: c’è il cortocircuito per stress (tra chi fa lavori duri, come gli operatori sociali) e c’è il rimedio (ad esempio, la fiducia nelle proprie possibilità di carriera); constatiamo i rischi del primo, per verificare come si può passare al secondo. Ora, anche seguendo le indicazioni di Romitelli, noi non abbiamo fatto ricorso ad alcuno schema evolutivo. Abbiamo evitato l’idea stessa di constatare un fenomeno e da ciò dedurre la possibilità di un altro, tanto più se di là da venire. Solo così abbiamo potuto sapere dai soggetti intervistati che le possibilità di carriera in futuro, per molti di loro e molto realisticamente, sono da ritenersi assai scarse e comunque poco compensative delle fatiche e dello stress da lavoro, questi sempre duramente e costantemente presenti. Anche se su campione e con finalità euristiche diverse, in tema di ciò che più può compensare fatica e stress, gli intervistati della nostra ricerca, diversamente dai risultati della ricerca su burnout e empowerment, hanno parlato soprattutto degli assistiti e delle soddisfazioni provate in rapporto a essi. La “soddisfazione” che gli operatori dicono di provare rapportandosi agli utenti, dall’analisi delle nostre interviste, risulta essere per loro l’unica fonte di “gratificazione” che si possa ottenere da questo lavoro.
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Un’assistente domiciliare parla di soddisfazione come “punto di forza”: «Per quanto riguarda gli assistiti, le soddisfazioni sono state il mio punto di forza». Un’altra dice di trarla da piccoli gesti di gratitudine, come un “sorriso”, da parte dell’utente: «La soddisfazione più grande è ricevere, dopo un servizio, un sorriso, un “senza di lei non so cosa avrei fatto”». È di nuovo un’assistente domiciliare a parlare invece di “gratificazione”: «La cosa più importante per me è la gratificazione che si può ricevere dalle persone»; e con lei un’altra: «A me interessa di più la gratificazione di questi nonnini». Ancora una, la quale in particolare trova gratificante l’apprezzamento da parte dell’utente, che vuole “trattenerti” oltre il tempo di servizio: «La cosa più importante è la gratificazione da parte degli anziani, quando vuoi andar via perché è finito il tuo tempo e loro cercano di trattenerti». Si tratta di una soddisfazione personale, morale, che a volte fa superare difficoltà grandi, legate allo stipendio troppo basso, agli orari e ai tempi, a volte improponibili, alle strutture troppo spesso carenti di attrezzature, alle tensioni fra colleghi, alla disomogeneità dei gruppi di lavoro e soprattutto allo scarso riconoscimento da parte della società. Ha tanto valore da avvincere a questo tipo di lavoro anche chi lo ha iniziato senza particolare motivazione: «Ho iniziato per curiosità, poi mi sono affezionata»; «All’inizio pensavo che non mi sarebbe piaciuto come lavoro, ma poi ho scoperto che poterli aiutare mi ha spinta a continuare». Una coordinatrice afferma addirittura che preferirebbe tornare a fare l’operatrice per la gratificazione che questo ruolo comportava: «Vorrei tornare indietro perché il lavoro che faccio adesso è molto meno gratificante». Il particolare modo di rapportarsi agli utenti si caratterizza per gli operatori come uno scambio, un “dare-avere”, che valorizza questa attività e il soggetto che la svolge. Il seguente enunciato ci apre tale dimensione: «La cosa più importante sono i rapporti interpersonali con gli anziani, c’è un dareavere reciproco, a volte basta un sorriso». Un’altra parla anche di “aiuto” reciproco: «È che io do del mio e guardo praticamente la persona che sta avendo assistenza… quella gioia e gratitudine che alle volte non si ha nei parenti. Però la cosa strana è che anche loro aiutano me, perché io comunque ho una famiglia e comunque ho la possibilità di dare oltre la mia famiglia. Io aiuto loro e loro aiutano me». Il tipo di rapporto descritto dagli operatori è basato sull’instaurazione della fiducia, perché le attività svolte sono a stretto contatto fisico e mentale con le persone seguite e spesso è necessario farsi “accettare” dall’utente come “esterno” alla famiglia: «A volte succede che all’inizio si faccia un po’ di fatica perché è difficile accettare qualcuno di esterno: preferirebbero che le famiglie si occupassero di loro». Troviamo distinzioni che caratterizzano i diversi tipi di intervento: nel caso degli assistenti ai portatori di handicap l’attenzione dell’operatore è rivolta
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a ottenere una condizione di tranquillità e rispetto reciproco, alla ricerca di un giusto metodo educativo non sempre facile da trovare, sia perché «non c’è formazione che ti faccia capire come fare questo lavoro. C’è sempre da imparare», sia perché a volte, come dice un’educatrice, riferendosi ai propri colleghi, «ognuno vuole fare di testa sua, ci sono modalità di agire opposte». In questo ambito l’operatore, per riuscire a interagire in modo costruttivo con gli assistiti, ha bisogno di far loro riconoscere il proprio ruolo: «Sono ragazzi dolci ma che devono imparare a obbedire e a riconoscere la nostra autorità», dice un educatore. Per ottenere dei risultati, bisogna costruire un particolare percorso insieme all’assistito: «Si deve sempre camminare con loro, non prima o dopo, devo adeguarmi prima io a loro e poi loro si adeguano a me. Loro non hanno la pazienza, gliela devi dare tu». La “pazienza”, se vogliamo, è la soluzione per tenere sotto controllo le situazioni, la parola chiave che chiarisce l’importanza di avere un equilibrio personale per lavorare efficacemente. Quando poi si trovano a lavorare con persone non capaci di intendere e volere o assistiti particolarmente aggressivi, molti operatori prendono come sfida personale il fatto di riuscire a superare l’iniziale paura che alcune patologie destano in loro. È importante per molti operatori “mettere in discussione” se stessi, riconoscere i propri “limiti”, al fine di arrivare ad affrontare in maniera costruttiva situazioni difficili, anche pericolose, in cui è necessario mantenere un controllo tale da trovare l’azione giusta da compiere per proteggere sia l’assistito in crisi che la propria “indennità”: «Ci si mette a confronto con le proprie emozioni e i propri limiti personali, mi sono messa in discussione emotivamente. Qui ho imparato a controllare i miei limiti. Ci sono anche situazioni di crisi, emergenze, devi tutelare l’utente, ma anche la tua indennità». L’operatore si mette “in gioco” come soggetto: «La cosa più difficile è mettere in gioco se stessi»; deve rapportarsi ogni giorno con realtà difficili e deve adattarsi e intervenire a seconda delle persone che si trova davanti. Ci sono situazioni di aggressività in cui, però, gli operatori non riescono a superare le paure. Un’educatrice dice: «Qui c’è un ragazzo molto aggressivo e io ancora non riesco ad affrontarlo, a superare la paura nei suoi confronti», e afferma in seguito che le sarebbe utile un aiuto psicologico. Emerge in più casi una chiara richiesta di aiuto da parte dei lavoratori, per quanto riguarda il proprio equilibrio: «Non so se la CADIAI lo fa, ma un corso di psicologia non farebbe male». Equilibrio che si possa poi essere in grado di mantenere anche al di fuori del lavoro: diversi soggetti lamentano di trovarsi a sfogare lo stress, accumulato attraverso il contatto con l’utente, sui familiari e le persone che fanno parte della loro realtà.
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Per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, la maggior parte degli operatori ritiene fondamentale il “rapporto” da instaurare con l’utente: «Non vai solo a lavarli, è importante parlarci, creare un rapporto»; un rapporto che va costruito ogni giorno, uscendo dai “canali normali” e ricercando nuovi modi di “comunicare”, un rapporto dove il “contatto” e la fiducia sono elementi indispensabili, dove la socializzazione è fondamentale, altrimenti si corre il rischio di essere rifiutati dall’utente e di non poter svolgere bene il proprio lavoro: «Sono rapporti da costruire tutti i giorni. Il nostro lavoro è il contatto… Un modo di comunicare differente da quello che hai nei canali normali… È un rapporto più fisico… carezze, sorrisi… Devono avere fiducia in te, se no non va bene». Gli operatori devono letteralmente inventarsi un modo di comunicare con ogni utente. Le persone seguite, in alcuni casi, non sono in grado di rapportarsi alla realtà, quindi la maggior difficoltà sta soprattutto nel riuscire a trasmettere loro la voglia di interagire; bisogna superare molti ostacoli e una chiave per riuscirci spesso gli operatori sembrano trovarla nel dare “serenità” all’utente, nel fornirgli gli stimoli giusti. A tal proposito riportiamo gli enunciati di due assistenti domiciliari: «La cosa più importante e interessante è quella di vedere lo sguardo delle persone, riuscire a dargli della serenità senza farli sentire umiliati, allontanare anche momentaneamente il dolore»; «Con gli assistiti è bellissimo, tranquillo, divertente, cerco sempre di coinvolgerli: è importante farli ridere». Gli operatori non considerano l’utente oggetto, ma soggetto del proprio lavoro: «Abbiamo a che fare con persone, non con macchine». Perciò le attenzioni a livello personale, l’ascolto, il coinvolgimento risultano essenziali, sono un buon metodo per interagire e rientrano in quell’esperienza di scambio, di “dare-avere” cui abbiamo accennato: «Per me l’anziano è mio nonno, mio padre, un amico, un insieme di cose. Gli anziani sono come dei pozzi dove attingi sempre qualcosa, una carezza, un sorriso, cose anche brutte da commuovermi. Queste cose ti lasciano spiazzata, non sai cosa dirgli non avendole vissute. Sono dei pozzi senza fine, stupendi come bambini, i miei bambini. Sono piccoli grandi uomini»; «Si imparano molte cose dagli anziani: lezioni di vita, parlano di come era la vita e il mondo, di oggi e di ieri, della guerra. Li considero tanti libri… e ognuno racconta la sua storia». Un problema particolare, che mette a dura prova lo sforzo di interazione da parte dell’operatore, consiste nell’affrontare casi difficili come quelli di utenti affetti da depressione. Queste le parole di un assistente domiciliare: «Quando sono depressi... È difficile con le parole tirare su un depresso, quello lucido terminale è il peggiore, lavorare sugli anziani non è la cosa più facile, bisogna saperli prendere: ognuno ha le proprie manie, le proprie abitudini». Notevoli difficoltà si presentano anche di fronte a pazienti anziani “irascibili”, che hanno reazioni violente. In questi casi, come in quelli riguardanti l’handi
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cap, per l’operatore risulta complicato capire quale sia la cosa giusta da fare, riuscire ad avere una reazione controllata che non sconvolga equilibri tanto faticosamente conquistati. Un’assistente in un centro parla di “paura” e trova nel “parlarne” la chiave per avere il “coraggio” di affrontare la situazione: «La difficoltà non mi fa paura, mi fa paura quando l’anziano è molto aggressivo: non sai come comportarti. È successo, ma non mi ha scoraggiata, perché ne parli. C’è l’anziano aggressivo per la sua cattiveria e l’anziano che non capisce; allora devi parlare col medico, per dargli dei medicinali… A me è arrivato un pugno in testa: la prima cosa che ti viene è di reagire, ma ti devi trattenere perché è come un bambino piccolo». Nonostante gli sforzi fatti per entrare in empatia con l’utente, gli operatori si trovano a dover affrontare una contraddizione: parlano della necessità di un “distacco” da mantenere con l’utente per non essere eccessivamente “coinvolti” a livello personale e mantenere dunque una “professionalità” utile ad agire nel migliore dei modi e a non risentire della sofferenza con cui giornalmente si viene a contatto. Si verificano condizioni per cui la continua frequentazione degli assistiti, unita al particolare rapporto che abbiamo visto instaurarsi, crea un “coinvolgimento” contro il quale diviene necessario lottare: «Ho imparato molto da loro, sono coinvolta, cerco di non esserlo, ma non ce la faccio… Vedo più loro che mio marito!». Alcuni parlano di “affezione”, contrapponendola a un “distacco”, che è “necessario”, “dovuto” e legato alla professionalità, alla consapevolezza che “sei lì per lavorare”: «Sapere che sei lì per lavorare ti permette di avere un certo distacco… che è necessario… È molto utile il distacco, anche se alle volte ci si affeziona»; «Spesso ci si affeziona a queste persone, ma bisogna cercare di dividere la propria vita professionale da quella personale con un dovuto distacco». C’è chi lo chiama “vetro”: «Il rapporto è ottimo, gli assistiti sono molto buoni anche se tra loro e me bisogna mantenere un vetro…»; chi parla di “togliersi la pelliccia”: «Devi ascoltare il dolore altrui, ti devi immedesimare nella sofferenza e poi quando hai finito devi toglierti la pelliccia…»; chi lo nomina come “distanza”, conseguibile attraverso il rispetto delle “regole” che stanno alla base della “professionalità”, la quale determina il rapporto fra dentro e fuori il lavoro: «L’assistente deve essere in grado di mantenere una certa distanza, perché ci sono alcune regole che devono essere rispettate, c’è bisogno di professionalità, il lavoro inizia quando entri e finisce non appena esci». I nostri operatori si occupano di disabili, di anziani e anche di malati terminali: l’esperienza della morte è perciò sempre un’eventualità di cui tener conto. Qui il tema del distacco professionale da contrapporre al coinvolgimento emotivo acquista toni più forti: «Delle volte mi affeziono, quando muore qualcuno piango, infatti non va bene affezionarsi»; «La cosa più difficile è, penso proprio, quando muoiono. Si va da loro quasi tutti i giorni per molti anni e, anche se cerchi di avere un distacco, entri comunque in un rapporto che ti coinvolge e la loro morte ti fa star male».
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Molti vorrebbero che si tenessero dei corsi che spiegassero come affrontare la morte; alcuni ne hanno frequentato uno, di cui tuttavia non ci sono chiari i temi e i risultati: «Ci vorrebbe un corso sulla morte»; «Sono stati fatti anche dei corsi per affrontare questa cosa, ma secondo me rimane comunque la cosa più brutta del nostro lavoro in quanto ha ripercussioni psicologiche sull’operatore». È un tema importante nel vivere questo tipo di attività: un assistente domiciliare, che lavora prevalentemente con malati terminali, considera la cosa più importante del suo lavoro l’aver creato un nuovo rapporto con l’idea di vita in base a quello che si è trovato a dover creare con la morte: «[La cosa più importante è] il maggior valore che ho dato alla vita conoscendo la morte. Sai che oggi sei qui e domani può succederti di tutto. Capisci che improvvisamente non ci sarai più. Si imparano ad apprezzare le piccole cose, a valutarle di più». Occupandosi degli utenti, gli operatori si trovano a confrontarsi anche con i loro familiari, soprattutto in contesti domiciliari. Questo rapporto spesso assume l’aspetto di uno scontro: se fino a qualche decennio fa era anzitutto la famiglia a essere interpellata, a occuparsi dell’anziano o del disabile, ora ciò avviene sempre meno, e a supplire a questa funzione sono proprio gli operatori sociali. Lasciamo ai sociologi con prospettive più dall’alto, più panoramiche, stabilire quanto questa dissociazione sia più o meno profonda e variamente trattata nelle diverse zone d’Italia, dell’Europa e del mondo. Noi, stando alla nostra ricerca sul campo, sul luogo CADIAI, possiamo notare una netta diversità tra il modo familiare e il modo “cooperativo” di trattare le stesse questioni. Diversità che è attestata tra l’altro dai notevoli problemi segnalati dagli operatori sociali nei confronti dei familiari degli assistiti. Significativo è come un’assistente caratterizza la sua stessa singolarità soggettiva, affermando che deve confrontarsi come “esterno” con le “regole di casa” caratterizzanti il “metodo familiare” di trattare l’anziano, senza poter peraltro fare appello a “regole definite e condivise” quali quelle vigenti in strutture come gli ospedali: «Con i familiari è più difficile perché, se prima se ne occupavano loro, avevano il loro metodo nell’accudire e fanno fatica ad accettare un esterno, succede che abbiano delle pretese perché si è in casa loro e si devono accettare le regole della casa. Non si è in un ospedale dove le regole sono già definite e condivise». Molti operatori accusano i familiari di essere troppo “pretenziosi”, “esigenti”, di chiedere “la luna nel pozzo”, come spiega un’operatrice, non riuscendo a fare affidamento sulla loro “professionalità” e intromettendosi nel lavoro con l’idea di dover “insegnare” il metodo (il “saper fare”) da adottare: «I familiari sono un grosso scoglio e sono molto pretenziosi»; «Con i familiari è difficile dimostrare la propria professionalità. Per loro è difficile accettare il confronto, pensano di poterti sempre insegnare qualcosa»; «C’è il parente asfissiante che crede di saper fare più di noi, ci sono anche quelli molto esigenti che non tollerano neanche il minimo ritardo».
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Oppure, al contrario, li accusano di delegare loro totalmente la cura dell’assistito («ma noi possiamo starci solo un’ora»), di “fregarsene”: «Si vede molto menefreghismo da parte dei familiari»; «Ci sono quelli che delegano e sono insopportabili»; «I figli se ne fregano»; o anche di “approfittare” del loro servizio per non accudire il parente: «A volte sono menefreghisti perché approfittano del fatto che ci siamo noi assistenti di base a fare tutto». Ma è un delegare che per alcuni operatori, particolarmente per quelli che lavorano all’interno di strutture in cui si prendono a tempo pieno la responsabilità dell’utente, assume un’accezione positiva. Un’educatrice usa la parola “affidare”: «I parenti si affidano piano piano, nel tempo lasciano tutto in mano a noi». Nei contesti domiciliari, invece, risulta da alcuni enunciati che i familiari arrivano addirittura a costituire un intralcio per le loro mansioni, a complicarne il lavoro, opponendosi all’utilizzo degli ausili e dei supporti necessari, poiché condizionati dal rifiuto di modificare l’ambiente casalingo in funzione della malattia: «Ci sono alcuni familiari un po’ difficili perché molto spesso si rifiutano di accettare situazioni, ad esempio una persona di novanta chili che devi girare… Se trovi la famiglia che ti dice che il letto matrimoniale non lo vuole dividere per metterci il letto infermieristico…»; «Ci vorrebbe maggiore collaborazione da parte dei familiari, che per esempio nell’intento di rendere più comoda la vita dell’anziano, tagliano i piedi o bucano i sostegni del letto per inserire il telecomando». Gli operatori si trovano dunque a svolgere azione di supporto non solo agli utenti, ma anche ai loro familiari: si trovano infatti ad affrontare, a doversi confrontare con la particolare situazione in cui si viene a trovare la famiglia, provata dalla gestione di una malattia, che risulta difficile da accettare. Parlano di “comprensione”, di “capire”: «Li capisco, ho assistito mio padre: è uno stress mentale più che fisico, hai dei momenti di abbandono»; «I familiari, sapendo di lasciare un figlio all’interno di un’organizzazione come la nostra, molte volte si sentono in colpa, soprattutto le mamme che a volte con noi sono dolci, a volte isteriche, però questi scatti si possono tollerare, sono comprensibili. Alla fine comunque tutte le famiglie ci apprezzano e ci vogliono bene». Questi operatori sono dunque figure nuove, che si fanno carico di una parte della società di difficile gestione, costruendo caso per caso le modalità per farlo e ricercando nuovi modi di inserirsi in un contesto che non è né familiare, né ospedaliero e di far riconoscere la propria professionalità, affermandosi come una precisa figura, che non va confusa né con quella della badante (perché questa si inserisce nella famiglia, assumendone le medesime modalità di gestione, non sempre efficaci in situazioni che richiedono un intervento specifico, come le demenze), né con quella del volontario, da cui si differenzia sia nell’esercitare una professione, appunto, sia nel rappresentare un diritto nell’assistenza al cittadino, comunque sostenuto dalle istituzioni.
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«Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto» Gli operatori, dunque, pur dovendo compiere continui sforzi di adattamento a nuove condizioni, pur dovendo superare numerose difficoltà nei rapporti con gli assistiti, trovano in essi il motore della loro forza, della loro voglia di impegnarsi in questo tipo di lavoro. Risulta invece dalla nostra inchiesta che i problemi più gravi si creano nel rapporto non solo con referenti, coordinatori, responsabili, ma anche orizzontalmente, fra colleghi. Un’educatrice: «È più difficile lavorare con i colleghi che con i ragazzi». Ci sembra significativo che, durante le interviste, moltissimi abbiano esposto la questione prima che rivolgessimo loro la domanda riguardante direttamente i rapporti fra colleghi, rispondendo ad altri punti del questionario. Nove assistenti domiciliari, ad esempio, pensano che il problema che vorrebbero vedere risolto sul lavoro concerne il rapporto con i propri colleghi: «Fra colleghi ci vorrebbe più collaborazione, rapporto»; «Il problema è la rivalità tra colleghi»; «Il rapporto con i colleghi è il problema: bisognerebbe trovare qualcosa per andare tutti d’accordo». A pensare che un miglioramento del rapporto con gli altri migliorerebbe anche le condizioni del proprio lavoro e lo renderebbe più efficace sono otto assistenti domiciliari, che vorrebbero più occasioni per “conoscere” i colleghi: «Più contatti tra colleghi: non ci conosciamo»; maggior “confronto”: «Ci vorrebbero più assemblee, più confronto»; più “comunicazione”: «Bisognerebbe creare più gruppo, la comunicazione qua dentro è il problema»; maggior scambio di informazioni: «Si parla poco, a volte chi va al posto mio non sa delle cose...». Da questi enunciati emergono diverse problematiche: c’è sì rivalità e carenza di collaborazione, come non è difficile che accada in qualsiasi ambiente lavorativo, ma le vere questioni sono l’insufficienza di occasioni di incontro e di scambio, la mancanza di passaggi di informazioni utili al lavoro, la carenza di conoscenza fra colleghi. Questi sono problemi che gli operatori imputano all’organizzazione stessa della CADIAI, la quale ha seguito un modello organizzativo teso alla crescita delle dimensioni dell’impresa in rapporto ai livelli di domanda: abbiamo visto che è arrivata a dare lavoro a più di settecento persone. Ma la natura relazionale di questa attività discorda con un sistema di grandi dimensioni, dove necessariamente finiscono per instaurarsi rapporti anonimi e burocratici: «Ci vorrebbe meno burocrazia e più succo». Un’assistente domiciliare in proposito parla di organizzazione “caotica” come risultato dell’ampliamento della CADIAI: «Sta peggiorando… è una cooperativa molto corretta, ma trovo che abbia sbagliato ad ampliarsi così tanto: ora siamo più del doppio dei dipendenti rispetto all’inizio e questo dà luogo a un’organizzazione caotica, con risultati decisamente negativi».
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
Sono in molti a pensare che l’eccessiva espansione della CADIAI, il fatto che «non è più una famiglia, ma un’azienda» sia causa di difficoltà nel creare scambio di informazioni, nel comunicare, nell’organizzare il lavoro, nell’instaurare rapporti costruttivi o anche solo nell’aver occasione di conoscere i colleghi. Un’assistente domiciliare parla di “irrigidimento”, facendo riferimento anche a una spersonalizzazione (“siamo numeri”) nei rapporti: «È troppo grande, siamo diventati dei numeri, c’è un irrigidimento totale del rapporto con gli altri»; questione che ritorna nell’enunciato di un altro assistente, che usa di nuovo la parola “numero”, mettendo inoltre distanza fra sé e la CADIAI (dice “per loro”): «La CADIAI tecnicamente va bene, ma dovrebbe migliorare umanamente: per loro sei un numero». Un educatore ritiene di non poter dare risposte sulla CADIAI nel suo complesso, tante sono le persone che vi lavorano e con cui non si ha occasione di entrare in contatto: «Non ti posso parlare di CADIAI: tanti non li conosco nemmeno di vista». Un’assistente domiciliare fa riferimento alla dispersione causata da una simile organizzazione: «Con questa organizzazione a volte sembra difficile capire a chi chiedere cosa: è molto grande, per altre cooperative può essere più semplice mantenere i rapporti con i soci, ma la CADIAI è grande, è cresciuta molto». Un’altra dà rilievo a un aspetto che è emerso frequentemente rispetto all’idea che i nostri operatori hanno del luogo dove lavorano: la struttura “gerarchica” cui ha dato luogo l’ampliamento della CADIAI ha trasformato la sua dimensione da cooperativa in aziendale: «Mentre prima si intendeva per cooperativa cooperazione, adesso praticamente è una struttura aziendale, gerarchica». E ancora: «Ci sono troppe persone che gestiscono»; «Ci sono troppi capi, capini, capetti». Anche una coordinatrice pensa che «tra operatore e coordinatore c’è un rapporto piramidale». Un educatore mette ancora in discussione il concetto di cooperativa, parlando di organizzazione “industriale” che manca di “attenzione” al lavoro degli operatori: «Io penso che la CADIAI, anche se si definisce una cooperativa sociale di sinistra e compagnia bella, la posso definire più un’organizzazione industriale che mette macchine al lavoro: non c’è nessuna attenzione al lavoro che fa un operatore sociale». Il problema delle dimensioni della cooperativa genera anche quello della costituzione di gruppi di lavoro, che risultano difficilmente gestibili per l’eccessiva ampiezza e l’organizzazione verticistica. Questo comporta notevoli tensioni fra gli operatori e chi li coordina. La responsabile organizzativa dice: «Ora come ora, con un gruppo di operatori, la cosa più difficile sono le dinamiche di gruppo. Gli occhi devono vedere anziché guardare, perché si fa presto a scatenare marette». Sedici intervistati ( assistenti domiciliari e educatori) trovano particolarmente difficile rapportarsi con referenti, coordinatori e responsabili («Re
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sponsabili e coordinatori non capiscono il nostro lavoro!»), ritengono difficile districarsi all’interno dell’organizzazione CADIAI, mettendo nuovamente in evidenza la sfiducia nella cooperativa come ente. Un’assistente domiciliare contrappone addirittura gli “interessi” della cooperativa a quelli dei lavoratori: «Le coordinatrici dovrebbero venire incontro a noi e non fare gli interessi della cooperativa». La struttura gerarchica, l’ampiezza eccessiva dei gruppi finiscono per comportare – come dice un’educatrice – “responsabilità” per i coordinatori tali da dover gestire i rapporti con gli operatori in modo “formale”: «I rapporti con coordinatori e responsabili sono alquanto formali; questa figura comporta responsabilità che causano allontanamento dagli educatori». Un’assistente domiciliare, lamentandosi dei coordinatori dice, però, “non possono” soddisfare le richieste: «Con i coordinatori ci puoi parlare, ma non ti senti preso in considerazione, le tue richieste spesso non possono essere soddisfatte». In particolare, alcuni fanno riferimento alla distanza creata dal ruolo di “superiori” di coordinatori e referenti, rimarcando nuovamente la discordanza fra la presente condizione e un’organizzazione cooperativa “ideale”. In un enunciato molto colorito, un operatore usa parole come “piedistallo”, “aristocrazia” per definire i responsabili: «Con i responsabili c’è un po’ una barriera, loro tendono a salire un po’ di più sul piedistallo, capiscono, ma fanno finta di non capire, sta diventando un’aristocrazia... , prima della rivoluzione francese! Se sali in cattedra, perdi il contatto, la fiducia, la stima. Questa è una cooperativa: io non ammetto queste cose». E un’altra dice: «È meglio che non parlo... non c’è collaborazione, specialmente con i referenti: chi ha il titolo se lo tiene, alza la testa e si fa grande». Usa toni meno forti, si dichiara “malleabile”, solo chi ha avuto modo di esperire il ruolo di coordinatore: «Ho imparato a essere malleabile, sono più tollerante, visto che sono stato coordinatore anch’io e so che non è affatto facile fare quel lavoro». Potrebbe allora essere utile un momento di formazione costituito da un periodo di tirocinio o affiancamento che comporti una simile esperienza. I referenti hanno i loro particolari problemi a rapportarsi con colleghi e superiori, dovuti soprattutto alla posizione intermedia della propria figura lavorativa: costituiscono un tramite fra l’operatore e l’utente, ma anche fra operatore e coordinatore, mantenendo comunque mansioni nel servizio. Una di loro usa la parola “sdoppiare”: «La cosa più difficile è doversi sdoppiare fra il ruolo di operatrice e quello di referente, è difficile dire a un collega: hai sbagliato». Un’altra parla di “accontentare”: «La cosa più difficile è accontentare tutti, utente e operatori. Con teste è difficile». Anche in questo caso ritorna il problema del gruppo costituito da troppi soggetti. Le dinamiche di gruppo problematiche arrivano in alcuni casi a costituire una questione talmente insormontabile da spingere l’operatore a voler abban
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donare il lavoro: «Ad essere sincera, sono un tantinello restia a continuare: tra colleghi ci sono problemi, si parla spesso alle spalle. A volte la pazienza scappa», dice un’assistente domiciliare. Sei intervistati trovano che il motivo di simili tensioni vada attribuito alla prevalenza femminile sul lavoro: due assistenti domiciliari e un’educatrice, tutte donne, lamentano questo disagio. L’educatrice: «Il problema è la prevalenza femminile. Quando si è tutte donne è un disastro, ci vorrebbero più uomini che smorzano le cose: fra donne ci sono sviperamenti, le cose non vengono dette direttamente». In proposito, due assistenti domiciliari, sempre donne, parlano di “mancanza di sincerità”. Uno degli effettivamente pochi uomini intervistati, assistente domiciliare, ci ha detto: «Fanno troppe polemiche e sono bagolone», riassumendo poi la sua visione dei problemi sul lavoro con: «Meno donne e più soldi»! Molti pensano che le cose siano rese più difficili dall’eccessivo tasso di turnover, che abbiamo visto essere un problema tutt’altro che trascurabile all’interno della CADIAI (anche nel nostro campione sono in dodici a dichiarare di non voler continuare a lavorarvi). Due assistenti domiciliari: «Non è facile rapportarsi con i colleghi perché cambiano spesso»; «È problematico cambiare continuamente collega». Il turnover si ripercuote anche sui percorsi educativi elaborati dagli operatori e dunque sugli utenti. Un’educatrice: «C’è troppo turnover, i ragazzi si confondono, devono avere dei punti di riferimento. Se il personale cambia in continuazione, non c’è mai un gruppo che porta avanti un lavoro completo». Emerge qui una preoccupazione diffusa, sia tra gli educatori che tra gli assistenti domiciliari: che i cattivi rapporti fra colleghi abbiano ripercussioni negative sull’utente. Anche un’assistente domiciliare infatti dice: «Se non c’è un buon rapporto, gli utenti lo percepiscono e invece è fondamentale che ci sia tranquillità e armonia». Cinque operatori (assistenti domiciliari) lamentano invece «troppa inadeguatezza dei colleghi», come dice uno di loro. Il lavoro di tipo sociale richiede sia delle competenze che una predisposizione, le quali non sempre sono presenti entrambe o in ugual misura in chi tenta di intraprenderlo. Approfondiremo più avanti questo aspetto. Ora ci limitiamo a segnalarlo come problema che interviene a complicare la gestione dei rapporti fra colleghi. La dualità delle qualità necessarie per fare l’operatore sociale si coglie bene nei seguenti enunciati, in cui si parla di “sentire” di più il lavoro e dare più “cultura”: «Per rendere il lavoro più efficace ci vorrebbero più persone che lo sentano»; «Bisognerebbe dare un po’ più di cultura a tutti gli operatori». Alla base di questo problema sta anche la difficoltà nel trovare personale qualificato e motivato, viste la scarsa retribuzione e la scarsa considerazione in cui è generalmente tenuto questo lavoro (i laureati ad esempio puntano “più in
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alto”): «La carenza di offerta di persone preparate costringe ad assumere gente non specializzata», lamenta un’operatrice. Le difficoltà nella selezione del personale, non sempre “motivato” (che “lo senta”), emergono anche dalle parole di una coordinatrice, la quale ritiene che la cosa più problematica del suo lavoro sia «la gestione degli operatori e soprattutto trovarne di motivati». Un’altra coordinatrice, che si occupa anche delle selezioni, parla invece di “qualifica” (“cultura”): «Se pagassero di più riusciremmo a fare più selezioni e a qualificarli meglio». Un’assistente domiciliare critica il “criterio” di assunzione: «Nella scelta degli operatori non c’è un criterio molto adatto, perché spesso si assume in base alle esigenze del momento». Gli educatori hanno quasi tutti lo stesso problema riguardo ai colleghi: diciassette di loro lamentano una carenza di omogeneità nel proprio gruppo di lavoro, una difficoltà nel trovare una linea di lavoro comune. Usano parole come “coordinamento”: «Non c’è coordinamento, ognuno fa come gli pare»; “sintonia”: «La sintonia è abbastanza scarsa perché abbiamo punti di vista diametralmente opposti»; “diversità” nel “modo”: «C’è troppa diversità nel modo di lavorare del gruppo»; o anche “separazioni” riguardo alle “modalità”: «Ci sono separazioni tra colleghi per modalità e mentalità di agire»; “compattezza” nelle “competenze”: «Il problema è la compattezza e la competenza del gruppo». Uno di loro attribuisce alla figura del pedagogista, il quale non è attento al “come” si lavora, la carenza di “riferimenti”: «Dovremmo essere più seguiti da un punto di vista pedagogico. È come se mancasse un punto di riferimento. Il nostro pedagogista non si occupa mai di come svolgiamo noi questo lavoro, dei nostri problemi, delle nostre frustrazioni, finora non è riuscito a mettere insieme un discorso educativo che coinvolgesse tutti gli educatori e creare un clima di tranquillità». Alcuni educatori danno rilievo in particolare alla disomogeneità di formazione all’interno del gruppo, alla mancanza di “direttive”, sempre riguardo al “modo” di agire: «Occorrerebbe una formazione adattata ai problemi specifici, una supervisione, qualcuno che dia delle direttive più mirate al modo di comportarsi con i ragazzi. Ci vorrebbe un coordinamento comune, delle modalità coerenti». Una possibile soluzione viene dalle parole di uno di questi educatori, che ritorna sullo “scambio”, necessario perché circolino fra colleghi informazioni e idee utili per il loro lavoro: «Servirebbero più riunioni. Se si facessero più riunioni fra me e i miei colleghi per scambiarci informazioni, per scambiarci pareri e non essere ogni volta costretti ad andare a berci una birra... non sarebbe male. Solo che queste riunioni non ci sono». Riguardo alle tensioni che comportano le dinamiche di gruppo, alcuni affidano la risoluzione del problema ai propri pregi caratteriali. Un’educatrice ad esempio afferma: «Io parlo anche con le pietre!».
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La formazione: una chiave di lettura del turnover? Uno dei punti critici della cooperativa CADIAI è l’eccessivo turnover, ovvero l’alta frequenza di abbandono del posto di lavoro, tale da far sì che ci sia un costante bisogno di nuove assunzioni. Situazione che chiaramente destabilizza in modo rilevante diversi aspetti della vita della cooperativa. Riflettendo su questo tema, vorremmo anche provare a chiarire cosa intendiamo per “riconoscimento intellettuale” della figura dell’operatore sociale. Le prime considerazioni in merito sono partite dalla lettura delle parole con cui gli operatori intervistati descrivono e giudicano la formazione. A una prima superficiale lettura, la maggior parte degli intervistati sembrerebbe soddisfatta della formazione ricevuta. In molte risposte infatti la formazione è descritta come qualcosa di essenziale, che serve per affrontare i problemi giornalieri; molti poi esprimono la propria approvazione per determinati corsi specifici, come ad esempio quello sulla morte, che prepara ad affrontare questa grave problematica. Volgendo invece lo sguardo alla consistente fetta che, seppure ancora a una lettura “esplorativa” superficiale, ritiene la formazione scarsa o insufficiente, notiamo frasi come quella di un’operatrice che menziona il “paleolitico”: «I responsabili dei corsi sono persone antiquate, paleolitiche. Ci vogliono persone più giovani e un corso fatto bene». E subito ci si accorge anche della presenza di operatori che addirittura ritengono la formazione non adatta a questo tipo di lavoro, come un’assistente di base: «Normalmente la formazione la faccio da sola, andando in giro, frequentando i colleghi. Naturalmente dei colleghi che nel settore lavorativo hanno più anni…». Anche se dunque in prima battuta il giudizio sembrerebbe in larga parte positivo, non si può fare a meno di notare che aleggia sempre un “sottofondo” di lamentela, a volte anche tra i più soddisfatti, alcuni dei quali si lamentano ad esempio dei pochi fondi destinati alla formazione. Penetrando più in profondità le parole degli intervistati, ci accorgiamo di come l’insoddisfazione campeggi più in particolare tra gli assistenti di base (ADB) e gli operatori socio sanitari (OSS), molti dei quali dichiarano di considerare la partecipazione ai corsi solo un mezzo per conseguire una qualifica che poi venga riconosciuta a livello contrattuale, non un’occasione per migliorare le proprie tecniche e ampliare le proprie conoscenze. Un assistente domiciliare, in proposito: «A parte il corso che ci ha formato, per avere un pezzo di carta… perché la formazione te la fai in campo…». Molti intervistati mettono in luce il fatto di non aver ricevuto subito una formazione, teorica soprattutto, ma di aver fatto un periodo di affiancamento con un collega più esperto e di essere stati buttati subito nella mischia: una ra
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gazza, assistente domiciliare agli anziani si ritiene “autodidatta”, ponendo come problematica la questione degli affiancamenti: «Formazione molto scarsa… perché praticamente parti da autodidatta, gli affiancamenti per me sono troppo brevi». E si arguisce che nella maggior parte dei casi è stato questo pur breve periodo di “tirocinio” a fornire il grosso delle competenze agli intervistati. La teoria in sé non è vista con molta considerazione e ciò che sembra contare di più per queste persone è il corpus di conoscenze acquisite col tempo: un assistente a malati terminali: «Quello che ti fanno vedere ai corsi è impossibile da applicare… meglio fare esperienza sul campo»; e, ancora, un assistente anziani in centro diurno (ex domiciliare): «A me i corsi sono serviti solo a livello di qualifica, a livello di fare le cose no». Una delle maggiori ambiguità che scaturiscono dalle descrizioni e dai giudizi di questi intervistati sulla formazione è che questo tipo di lavoro è ancora caratterizzato da un alto livello di praticità, intesa come capacità di acquisire determinate competenze (essenziali per inserirsi in modo adeguato nelle varie tipologie di intervento da effettuare), piuttosto che da una professionalità ufficialmente riconosciuta. Il frequente ricorrere di parole come “autodidatta”, “fare le cose”, “imparare guardando gli altri” palesa il senso di tale ambiguità. Indicativo da questo punto di vista è, da una parte, che gli intervistati pongano il lavoro svolto su due piani (quello più prettamente “manuale” e quello psicologico, “umanitario”. Un domiciliare: «È un lavoro a livello umanitario»; e un assistente a malati terminali: «Bisogna aiutarli con le parole e con il sorriso… è un servizio più umano che manuale»); e, d’altra parte, che lamentino spesso la scarsa considerazione che la cooperativa, ma anche la società, riservano alla loro attività: «Le gratificazioni che ti fanno continuare questo lavoro non sono quelle della CADIAI»; «Al di fuori non siamo presi in considerazione, siamo l’ultima ruota del carro. Ma nel nostro mondo siamo importanti». Dunque, questi operatori parlano spesso di sorrisi, di gesti, di contatto, di buon senso, che portano a gratificazioni date e ricevute, a un continuo scambio di energie psichiche che sembra a molti il più importante, quando non l’unico, motivo per “tirare avanti”, nonostante lo stipendio inadeguato. È questo tipo di competenze che gli intervistati vorrebbero vedersi riconosciuto dalla cooperativa e dalla società, un tipo di professionalità che gli attuali corsi di formazione e di aggiornamento non danno o non riescono a comunicare, una professionalità che gli operatori acquisiscono, anzi costruiscono, giorno dopo giorno sul campo e che trova un riscontro minimo nel corpus di informazioni teoriche che devono sempre essere modificate, “riadattate”: «La teoria si modifica ogni giorno, non siamo uguali noi come non sono uguali loro». Ecco forse un modo per spiegare le “denunce” di incomprensioni quando si tratta di tramutare le conoscenze in operatività, quando bisogna agire sull’assistito. Chi si esprime in modo più diretto dice: «Ognuno lavora a modo suo»; oppure: «Qua ognuno fa come gli pare»; mentre qualcun altro parla più
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esattamente di “lingue diverse”: «Parliamo lingue diverse per l’eterogeneità dei gruppi e degli ascoltatori»; e infine una coordinatrice indica come necessaria la condivisione: «Bisognerebbe essere un gruppo che condivide le stesse cose». Il lavoro, quindi, come descritto dagli intervistati, sembra porsi a metà strada tra l’applicazione meccanica di conoscenze acquisite e la continua messa in discussione delle suddette conoscenze, l’adeguamento del sapere alle esperienze che di volta in volta l’operatore si trova a dover affrontare e che tenta di risolvere, almeno in parte, “a modo suo”. Sapere come comportarsi, come “prendere” l’assistito non è una capacità che i corsi di formazione, almeno a sentire gli intervistati, possono dare. È questa “professionalità” che, ripetiamo, gli intervistati vedono sottovalutata e vorrebbero vedere riconosciuta. Non sono “lavaculi”, come dice espressamente un intervistato, ma professionisti in grado di adeguarsi continuamente alle esigenze dell’assistito. Una frase un po’ poetica di un intervistato potrebbe aiutare a comprendere maggiormente il senso di questa professionalità: «Per nascere c’è bisogno di una persona saggia, l’ostetrica; per lasciare questa terra c’è bisogno di una persona ancora più saggia, un amico. Questo è il mio lavoro, il mio non è un mestiere, ma una professione». Ma nonostante il bisogno di dedizione, pazienza, umiltà e amore, altri operatori spesso capiscono che errare è umano, ma che in questo lavoro devono limitare il più possibile gli sbagli per il benessere fisico e psicologico degli utenti, e allora la formazione è vista come il tassello mancante per lo svolgimento ottimale di questo lavoro. Alcuni usano il termine formazione come imperativo: «Formazione, formazione, formazione!». Da altri enunciati emerge un’insicurezza che si vorrebbe ridotta da conoscenze teoriche un po’ più “sicure”, un’operatrice parla addirittura di una utente con la quale non sa come comportarsi: «…Se io ho una difficoltà con Cristina che urla in continuazione, come devo fare, che cosa devo fare? Esiste una soluzione o non esiste? La devo sapere per sentito dire da parte dei colleghi?». A tutto ciò si devono aggiungere le richieste formative ancora più concrete e “tecniche” come quella di un’altra operatrice che, parlando dei corsi, dice: «Forse ce ne vorrebbero di più perché sarebbero utili come aggiornamento. Perché abbiamo spesso a che fare con ausili che sono tutti diversi (i sollevatori cambiano…). Delle volte mi sono trovata in difficoltà a capire il meccanismo… perché… forse è l’unica cosa che mi crea un po’ di imbarazzo… L’utente vuole vedere la sicurezza, che tu sei pratico». Ci sembra ora di poter affermare che un buon operatore sociale è considerato tale se non manca di entrambe queste caratteristiche: – una certa tendenza innata, una sensibilità, una predisposizione “naturale”, congenita verso questo tipo di lavoro; – precise competenze necessarie per questo lavoro (che si maturano per lo più con l’esperienza), a volte anche competenze puramente tecniche. Dunque una sorta di continua oscillazione fra “personale” e “professionale”.
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A questo punto possiamo indagare in maniera più frontale la questione turnover. Tre quesiti del nostro questionario permettono di venire a conoscenza in un certo senso del passato, del presente e del futuro di questi operatori, sia nella loro dimensione lavorativa, che in quella umana: “Prima cosa faceva?”, “Perché lo ha scelto?”, “Pensa di continuare a fare questo lavoro?”. Analizzare i dati ricavati dalle risposte degli operatori a tali domande ci potrebbe permettere di valutare le molteplici motivazioni dei vari intervistati, e conseguentemente i vari approcci al lavoro. Prendiamo quindi in analisi il primo quesito: “Prima cosa faceva?”. È risultato che su intervistati/e, hanno svolto in passato lavori, attività o studi inerenti al sociale; i restanti hanno invece svolto i lavori più disparati; il gruppo che ne viene fuori è perciò piuttosto eterogeneo: si va dallo studente di veterinaria o dell’accademia delle belle arti, all’ex cuoco, all’ex odontotecnico, all’ex impiegato nel campo della moda. Tra questi operatori che svolgevano attività non inerenti al sociale, ben hanno fatto la scelta di cambiare il loro lavoro impegnandosi nel sociale consapevolmente e con entusiasmo; si può quasi parlare di vocazione o comunque di appagamento personale nell’aiuto del prossimo. C’è chi ha iniziato a dedicarsi agli altri “per alleviare un suo dolore”: «In passato ho subito un’esperienza traumatica e per alleviare ho iniziato ad assistere una persona anziana»; chi cercava una “professione d’aiuto”: «Ero disoccupata, desideravo una professione d’aiuto, è capitata l’occasione ed è stata una sfida fare questo lavoro perché ho iniziato dal nulla»; chi, mettendo in contrapposizione una sua precedente esperienza lavorativa, parla di un passaggio da belli e stupidi a vecchi e malati: «Ho lavorato per un’agenzia di moda, sono passata da belli e stupidi a vecchi e malati»; chi parla di lavoro affascinante e sottolinea l’importanza e la soddisfazione di lavorare con “umani”: «È un lavoro affascinante, non dai solo, ma ricevi anche… Lavori con umani non con macchine, e quindi si possono vedere i cambiamenti»; o chi questi umani li considera una “diversità” positiva: «Per assecondare una tensione interiore e per ritrovarmi nella diversità»; chi parla di motivazione ideologica: «Quando l’ho scelto c’era ancora l’ondata Basaglia, c’era lo stimolo di fare qualcosa. Non mi importava la retribuzione economica. La motivazione era personale e in qualche modo ideologica». Un’ex impiegata in un’agenzia pubblicitaria lo ritiene un lavoro “utile”: «Dopo sei anni di bolle e fatture ho deciso di unire l’utile al dilettevole. Mi sentivo inutile facendo l’altro lavoro». Addirittura, un’ex studentessa dell’accademia delle belle arti parla di “passione” sbocciata attraverso l’arte, di “soddisfazione” nel dare a questa uno “scopo”: «Mi sono avvicinata al sociale proprio attraverso l’arte: ho iniziato a lavorare con dei bambini disabili, facendo delle terapie artistiche e di conseguenza m’è sbocciata questa passione per il sociale. Dare uno scopo per me all’arte era molto soddisfacente, soprattutto perché poi univo due cose che mi piacevano».
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Sempre tra quei operatori che svolgevano in precedenza attività lontane dal sociale, c’è comunque un numero altrettanto importante () di persone che hanno dovuto iniziare questo lavoro per necessità: il più delle volte si tratta di necessità economiche; altre volte invece si tratta necessità di tempo, che la formula part-time proposta dalla CADIAI riesce a risolvere: «Cercavo un lavoro parttime a seguito della nascita dei miei figli e questo si è rivelato l’ideale»; «Lavoro solo di mattina, così ho il tempo di stare con la mia bambina…»; oppure per il fatto non secondario che, per lavorare in questo settore, CADIAI può non richiedere alcun attestato, alcun diploma specifico, particolarmente in periodi di carenza di personale: «È stata più che altro una scelta di necessità in quanto non avevo un diploma e questo era uno dei lavori possibili». In altri casi invece ciò che determina una discriminante per la ricerca di altri lavori è l’età, considerata troppo avanzata per svolgere altri tipi di lavoro: «Perché alla mia età non ci sono tanti sbocchi…». In qualche caso, alla pur non esplicitata, ma sottintesa necessità, si accompagna una chiara propensione all’abbandono del lavoro. Si parla infatti di “fase di passaggio”: «Io l’ ho scelto non, diciamo così, per devozione, perché non sapevo nemmeno… non mi sarei mai immaginata di poter fare questo lavoro e adesso lo vedo comunque come una fase di passaggio». Si può notare in un’ulteriore analisi che i operatori che avevano svolto precedentemente lavori inerenti al campo sociale o conseguito un titolo di studio che implica una propensione all’aiuto e alla cura del prossimo (medicina, psicologia, scienze dell’educazione e affini) hanno iniziato l’esperienza CADIAI per necessità in numero molto esiguo, e spesso la necessità si unisce comunque a una passione di fondo: «Ho sempre avuto la preferenza per i lavori sociali o per lo meno strutturati sul sociale. Il fattore principale è nel sentirsi utili non per necessità, ma per volere proprio o altrui. Inoltre è un lavoro fisso rispetto ad altri»; «Perché studio psicologia, comunque mi serviva un lavoro in cui si potesse interagire con le persone, qualcosa che riguardasse il disagio, e comunque per facilitarmi il tirocinio nelle cooperative per l’università, per non perdere tempo in più…». Un numero superiore di operatori invece ha scelto questo lavoro per passione, dopo aver compiuto studi o lavori affini; le risposte alle domanda “Perché lo ha scelto?” hanno rilevato in questo caso particolare motivazione: «L’ho scelto in base all’indirizzo di scuole superiori, volevo fare l’educatrice». Le parole chiave qui riscontrate sono: “fascino” («Mi è sempre piaciuto questo lavoro e mi ha sempre affascinato stare con gli anziani»), “socializzare” («Alla fine mi piace, perché si tratta di socializzare: quei nonnini ti aspettano»), “innato”, “desiderio”, “utile” («È una cosa innata, avevo il desiderio di aiutare gli altri, mi piace rendermi utile, vedere le persone contente perché a vederle contente mi diverto anch’io»). Giungiamo infine all’ultimo dei tre quesiti presi in esame: “Pensa di continuare a fare questo lavoro?”. Si riscontra qui una tendenza generale a volerlo
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continuare ( intervistati su hanno espresso chiaramente questo desiderio); si tratta ora di comprendere come si relaziona tale desiderio con i dati rilevati dalle due precedenti questioni. Non sorprende che persone che hanno scelto questo impiego con entusiasmo e consapevolezza vogliano continuare a farlo; piuttosto è curioso, e degno di nota, che ci siano persone che, pur avendo intrapreso questa strada per ripiego, siano propense a rimanere in questo campo. Qui le discriminanti maggiori risultano essere il problema dello stipendio – ritenuto inadeguato alle loro mansioni – ma anche il desiderio di cambiare ruolo: «Non lo so, magari sotto altri ruoli». C’è chi, ad esempio, lavorando nell’handicap, preferirebbe lavorare coi bambini: «Ogni tanto vorrei cambiare rimanendo, però, sempre nell’ambito sociale: per esempio dagli handicappati passare a lavorare con i bambini»; chi, da assistente domiciliare, vorrebbe passare a lavorare con i portatori di handicap: «Sì, decisamente, mi piacerebbe di più l’handicap anche se gli stipendi non vanno»; chi preferirebbe un altro ruolo (magari d’ufficio) principalmente a causa del forte logoramento soprattutto fisico: «Finché posso cerco di mantenere il lavoro, anche se piuttosto pesante, soprattutto fisicamente, in quanto difficile da gestire; sei sola in casa di pazienti che non hanno macchinari, come sollevatori». Restano sempre i più convinti: «Ma sì, un po’ per forza, ma in fondo è il mio. E ho anche imparato a farlo»; insieme agli estremamente convinti (che appaiono però ironicamente rassegnati): «Continuo, continuo, sto addirittura diventando socia!». Una particolare intervista colpisce per la provocazione di fondo riscontrabile nella risposta alla domanda “Pensa di continuare a fare questo lavoro?”: «Assolutamente sì, se me lo lasciano fare le istituzioni». La risposta lascia perplessi in quanto l’intervistata, alla domanda “Perché lo ha scelto?” aveva risposto: «L’ho scelto per natura, mi sono sempre occupata di chi era più debole di me, avevo il destino un po’ segnato». Aveva quindi manifestato una grande predisposizione per il lavoro che fa, perciò il riferimento alle istituzioni, con la valenza negativa che abbiamo visto, è il campanello d’allarme che indica un malessere che, comunque, si respira anche nella contraddittorietà di altre risposte: «Se cambia lo stipendio sì. Mi piacerebbe fare qualcosa per conto mio, ma da qui al fare, soprattutto per l’età, manca il coraggio. Mi piacerebbe continuare qui: è un lavoro che mi piace»; «Bella domanda! Sì. Però non nascondo che se si dovesse presentare un’offerta migliore abbandonerei». Le motivazioni di chi alla domanda ha risposto negativamente sono molteplici. – Chi per incomprensioni con i colleghi: «Ad essere sincera sono un tantinello restia a continuare, un po’ mi dispiacerebbe andarmene, e un po’ no. Tra colleghi ci sono problemi, si parla alle spalle e a me dispiace perdere l’amicizia con le persone con le quali lavoro per questi litigi».
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– Chi ritiene di dover necessariamente “staccare”: «Adesso sto qua, perché ci devo stare, perché non c’è nient’altro. Ma non è il lavoro della mia vita. Dopo un po’ ti stanchi. Io me li sogno anche la notte [gli anziani]. Arrivi a un punto che devi staccare. C’è gente che ci lavora da anni, ma non è possibile. Io non credo che lo farò per sempre». Per comprendere meglio questa risposta, integriamo anche ciò che l’intervistata dice alla domanda “Qual è la cosa più difficile, più problematica del suo lavoro?”: «L’ambiente qui: ti soffocano, ti schiacciano, non sei nessuno, sei una matricola, numero .; a volte ti prendi anche dell’ignorante. Non c’è spazio per le tue idee: devi abbassare la testa. Ma io me ne frego, vado contro corrente». – Chi, ancora, vuole tornare al proprio luogo d’origine: «No, perché voglio tornare in Ecuador dalla mia famiglia prima del ». – Chi per fare tutt’altro, per realizzare un sogno nel cassetto: «Vorrei fare l’istruttrice di scuola guida». – Chi vorrebbe trovare un impiego adatto alla sua qualifica perché si sente sminuito nel suo ruolo attuale: «Essendo una psicomotricista, vorrei trovare un impiego adatto alla mia qualifica». – Chi, infine, vuole uscire dalla “trincea” dei problemi di salute che lo sforzo fisico di questo lavoro comporta: «No, perché ho già l’ernia al disco: è un lavoro faticoso, devi stare chinata a lavare persone, sollevarli, è un lavoro che non puoi fare fino alla pensione. Voglio restare nel campo, ma non in trincea». Non mancano le persone incerte, specialmente per l’aspetto economico: «Mi piacerebbe continuare, ma non so, a causa dell’aspetto economico. Vedremo, intanto provo a laurearmi»; «Ultimamente ho dei dubbi, non stanno andando benissimo le cose in generale, soprattutto a livello di stanziamento fondi. È un lavoro che mi piace, ma c’è il rischio di essere tagliati, ci sono problemi per i soldi pubblici». Sembrano esistere tante CADIAI quanti sono gli operatori che la pensano e la vivono. Abbiamo rilevato la convivenza di molti pensieri, anche divergenti tra loro, da cui emergono problemi e possibili soluzioni. Singolare è una risposta alla domanda sulle opinioni circa l’organizzazione della CADIAI: «CADIAI? Sarebbe così anche se andassi in un’altra cooperativa: politica fatta a modo loro, non so mica con che criterio. Non sei nessuno! Le mie soddisfazioni me le prendo da sola. Per le cooperative ci vorrebbe qualcosa di nuovo, di creativo, la creatività di noi giovani. Parto dall’alto, da chi gestisce la cooperativa, alle persone sedute negli uffici. C’è troppa gerarchia! Ti dicono: sei un lavaculo, non sei nessuno». Le parole chiave riscontrate sono, da una parte, pregne di valenza di significato positivo: “soddisfazione”, “appagamento”; dall’altra, con connotazione negativa: “lavaculo”, “non sei nessuno”. È significativo riscontrare il fatto che, se le parole chiave con valenza positiva si riferiscono al rapporto tra operatore e assistito, quelle con valenza nega
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tiva si riferiscono alla politica interna della cooperativa e agli enti pubblici, che non mostrano attenzione alla funzione degli operatori nei vari settori. Infatti il disagio scaturisce dall’insoddisfazione economica, igienico-sanitaria, e dalla consapevolezza di non essere considerati in quanto soggetti: «Non sei nessuno, sei una matricola, numero .». Se da un lato colpisce il malcontento piuttosto diffuso, dall’altro si nota una grande passione per questo lavoro, e un’attenzione particolare al rapporto con l’assistito: «Per me la cosa più importante è l’anziano: per me l’anziano è mio nonno, mio padre, un amico, è un insieme di cose. Sono come dei pozzi da dove attingi sempre qualcosa, sono come bambini: i miei bambini… sono piccoli grandi uomini». Un’ultima particolare citazione in merito a questo argomento, alla domanda “Ci descrive il suo lavoro?”. Un educatore ha risposto: «Porto i ciechi al cinema e i paralitici a passeggio». Senza continuare a dilungarci in questo excursus circa le motivazioni per le quali si è scelto questo lavoro, dobbiamo precisare che la CADIAI non può (questo lo sappiamo) permettersi di selezionare il personale fra brillantissimi curricula. Sappiamo che in teoria i criteri di selezione auspicati sarebbero capacità di lavorare in gruppo, capacità relazionale e orientamento al compito, ma è pur vero che, come dice un operatore, «la CADIAI fa con quel che c’è» e, crediamo, in questo ambito in particolare. Scopriremmo dunque l’acqua calda dicendo che una selezione più “accurata” (se ci fosse più personale e magari più motivato e magari la possibilità di proporre stipendi migliori ecc.) potrebbe contribuire a migliorare la situazione turnover: ma bisogna fare con quel che c’è! Tornando dunque a quel che c’è, riprendiamo la già discussa formazione e proviamo ad accennare, dopo quanto detto, alcune timide proposte di formazione diverse e più vicine ai bisogni che scaturiscono dalle parole degli operatori. – Si potrebbe pensare ad esempio all’inserimento di un aiuto “psicologico” (abbiamo visto che a volte è una richiesta esplicita) da pensare bene e da studiare sia per quanto riguarda le modalità di questi interventi, sia per quanto concerne i tempi e tutta una serie di altre ovvie problematiche organizzative. Ma ci viene anche da pensare: chi sarebbe questo psicologo in grado di affrontare in modo adeguato le problematiche così singolari e poco conosciute legate magari soltanto a questo tipo di lavoro? – Sembrerebbero utili corsi di formazione pensati ad hoc solo per i coordinatori: quella del coordinatore ci è parsa una figura davvero centrale, da cui dipende in larga parte l’efficienza del lavoro, soprattutto considerando che influisce molto sullo stato d’animo dei suoi “coordinati”. – Sarebbe utile una formazione che rendesse l’operatore idoneo a ricoprire più di un ruolo soltanto: alcuni intervistati affermano che dopo un po’ si stancano di stare sempre nella stessa situazione e nello stesso posto e credono che un cambiamento gli possa far ritornare l’entusiasmo.
ANNA LAURA DIACO, SEBASTIANO MIELE, ERIKA PERUZZI
– Un tipo di formazione ad personam, che serva annullare la disomogeneità di formazione tra i componenti di un gruppo. – Sempre in modo sperimentale si potrebbe puntare a migliorare attraverso la formazione anche l’aspetto dei rapporti fra colleghi: e qui sarebbe il caso di pensare e ripensare a tutte le modalità possibili di interventi in questo senso (ad esempio incontri di gruppo, affiancamenti particolari ecc.) – E non sarebbe da tralasciare un altro aspetto: quello di pensare a una formazione che cerchi il più possibile di chiarire all’operatore (soprattutto al più inesperto) che questo lavoro necessita di quella “oscillazione fra personale e professionale” di cui parlavamo prima: qualcosa di mai troppo definibile sic et simpliciter, che sarebbe interessante capire con l’aiuto dell’operatore e delle sue esperienze quotidiane… Una formazione quindi un po’ più “interattiva”, che interpelli gli operatori come fonti di conoscenza. – Si potrebbe anche pensare in questo senso alla nascita di una nuova figura che contribuirebbe a risolvere oltretutto i problemi legati alla gestione di lavoratori anziani che per problemi fisici dovuti all’età non riescono più a svolgere adeguatamente il ruolo ad esempio di assistente di base: un buon operatore anziano potrebbe diventare un “affiancatore esperto” che “tramandi” ai più giovani, tirocinanti o appena arrivati, il giusto equilibrio fra “personale” e “professionale” maturato con la sua esperienza. Crediamo che un tipo di formazione che si ispiri a simili criteri possa contribuire a motivare maggiormente l’operatore nella scelta stabile di questo lavoro, e in questa ottica immaginiamo un possibile argine all’incessante turnover, piuttosto che attraverso un certo tipo di selezione che è purtroppo inattuabile nei fatti. Nuovi, sconosciuti, senza sicure soluzioni tradizionali sono dunque i problemi cui questi operatori si trovano a far fronte. Nuovi dunque devono essere i modi di pensarli, conoscerli e di renderli trasmissibili al di là della singola esperienza. Se si è d’accordo con quel che dice un intervistato, che il suo sarebbe il “lavoro del futuro”, se non si vuole cioè sterilmente immaginare un ritorno dei modi familiari nel trattare anziani e disabili, allora occorre pensare seriamente a presentare un nuovo quadro problematico tramite il quale far assurgere a conoscenza trasmissibile l’esperienza dell’operatore sociale. È questo che chiamiamo un “loro riconoscimento intellettuale”. Il condizionale (“sarebbe”) è d’obbligo. Niente infatti garantisce che tale riconoscimento avverrà davvero. Di sicuro c’è solo che esso può essere comunque tentato. Le parole di un educatore che citavamo poco prima ci sembrano la conclusione migliore. Ci puoi descrivere in poche parole in che cosa consiste il tuo lavoro? «Ti rispondo nello stesso modo in cui rispondo ai miei stessi amici e alle persone che mi conoscono. Dico: “porto i ciechi al cinema e i paralitici a passeggio”.
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Non è vero che porto i paralitici a passeggio e i ciechi al cinema. È vero che uno degli utenti che seguo (sono quattro) ha grossi problemi di vista e vuole andare al cinema. Mentre riguardo i paralitici, li porto in sedie a rotelle in giro per la città. Questo per dire che il rischio di questo lavoro è il fatto di essere scambiato con un “non lavoro”: sia dagli esterni e sia dagli utenti stessi. Proprio giovedì scorso io ero a cena con uno di questi ragazzi e lui mi ha detto: “Tu, Guido, hai visto un bel mondo, ma questo non è un lavoro vero. Tu fai appunto il lavoro più bello che esiste: ti pagano per andare in pizzeria, al cinema. Ti rimborsano quando vai a prenderti il caffè e persino ti pagano l’ora che hai passato con me, quindi questo non è lavoro”. E infatti molti sono convinti che io faccia l’obiettore…». Appendice Nel mese di ottobre la CADIAI ci ha dato la possibilità di svolgere alcune ore di “formazione” per gli operatori sulla base dei risultati della nostra inchiesta. Abbiamo dunque incontrato tre gruppi costituiti da - operatori, ogni gruppo per due volte di seguito, realizzando quindi in totale sei momenti formativi. Gli operatori hanno aderito volontariamente ai corsi, iscrivendosi tramite un modulo interno, proposto dalla cooperativa a tutti: si è trattato quindi per la maggior parte di persone che non erano già state interpellate durante la nostra inchiesta. La possibilità di effettuare un secondo incontro con ogni gruppo di operatori ci ha permesso di strutturare questi interventi in due momenti ben distinti: – il primo per la “restituzione” dei risultati; – il secondo per rilanciare gli argomenti e avviare così una discussione di gruppo. Alla presentazione dei primi risultati, a fine maggio, non si era resa possibile la partecipazione degli operatori, ma solo della dirigenza CADIAI e di alcuni coordinatori. Ritenevamo importante presentare i risultati agli stessi operatori, perché questa dimensione soggettiva, di cui andiamo a indagare il pensiero, è anche una delle principali dimensioni che il rapporto d’inchiesta ha come destinatarie. Il primo momento è stato così scandito dai nostri interventi esplicativi delle questioni di maggior rilievo emerse dall’analisi delle interviste, preceduti da un’introduzione di Valerio Romitelli. Oltre alla cosiddetta “foto di gruppo”, statica e definitiva, credevamo utile provare a interpellare nuovamente queste soggettività, anche considerando il fatto che solo alcuni dei presenti si erano già espressi in un’intervista. Abbiamo concluso così il primo momento, lasciando a ogni operatore un questionario-guida, con l’intento di stimolare il dibattito nell’incontro successivo e al contempo di disciplinarlo in modo da evitare lo sconfinamento nella
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chiacchiera vaga. Più che di un vero e proprio questionario, si trattava di una raccolta di domande per temi tra cui abbiamo proposto di sceglierne, in modo spontaneo e personale, alcune su cui riflettere. Tutto ciò ha dato vita a tre dibattiti molto vivaci dai quali siamo riusciti comunque a “registrare” su carta ulteriore e rilevante materiale. Questo secondo momento è stato innanzitutto utile a verificare e approfondire le principali questioni della nostra lettura delle interviste, ma soprattutto ci interessava qui provare a individuare nel pensiero degli operatori delle prassi, dei suggerimenti, dei “consigli”, delle prescrizioni utili a migliorare il clima e le condizioni del loro lavoro. Abbiamo tentato quindi un’azione cognitiva, tra le parole e il pensiero di queste persone, ma ponendoci un obiettivo pragmatico, concreto. A questo punto, per cercare di spiegarci praticamente, andiamo subito a illustrare, pur molto brevemente, solo alcuni esempi dei risultati cui questa operazione può portare. Per quanto riguarda ad esempio il problematico rapporto con i coordinatori si è giunti a formulare la prescrizione che costoro siano più discreti nel riprendere gli operatori, cioè che lo facciano senza scenate eccessive, e in privato, non davanti agli altri colleghi. O anche: perché il lavoro del coordinatore sia più efficace e meno complicato bisognerebbe creare gruppi di lavoro costituiti da non più di dieci persone e suddividere i gruppi troppo grandi. E ancora, gli operatori preferirebbero che all’interno della cooperativa ci si chiamasse tutti “collega”, senza creare gerarchie anche nel nominarsi. Riguardo alla formazione, gli operatori riterrebbero utili interventi di persone che hanno lavorato per molto tempo in cooperativa e possono riportare la loro esperienza diretta, piuttosto che corsi tenuti da professori ed esperti teorici. Vorrebbero tirocini meno teorici e più pratici. Vorrebbero che si investisse di più sull’affiancamento, il quale dovrebbe avere una maggiore durata e contemplare una valutazione finale da parte di chi affianca. Abbiamo raccolto prescrizioni simili in merito a tutte le altre problematiche emerse nell’inchiesta, con l’obiettivo di utilizzarle per l’elaborazione di un opuscolo, cui attualmente stiamo lavorando, da distribuire all’interno della CADIAI. Convinti della loro utilità, speriamo così di mettere in circolo fra gli operatori stessi queste prescrizioni, tentando per lo meno di mettere in atto in tal modo una delle possibili forme di “conoscenza”, di “scambio”, che abbiamo visto risultare tanto carenti quanto necessarie. Note . C. Borzaga, F. Zandonai, Comunità cooperative. Terzo rapporto sulla cooperazione sociale in Italia, Torino . . Legacoop, Confcooperative, AGCI (a cura di), Cooperazione sociale, ricchezza comune. I servizi e le idee delle cooperative sociali di Bologna e provincia, Bologna .
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. CADIAI, Bilancio sociale . . Cfr. E. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, Bologna . . C. Borzaga, J. Defourny, L’impresa sociale in prospettiva europea, Trento . . Borzaga, Zandonai, Comunità cooperative, cit. . Oltre alle confederazioni sindacali, numerosi sono in Italia i comitati di difesa dei lavoratori delle cooperative, i collettivi delle cooperatrici e dei lavoratori, i coordinamenti cittadini di operatori e operatrici sociali, le rappresentanze di base e continue risultano le loro attività di protesta e rivendicazione. I costanti aggiornamenti su tali attività si possono trovare sui vari siti internet di queste organizzazioni. . Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, cit. . L. Pietrantoni, B. Zani (a cura di), Risorse e difficoltà del lavoro sociale fra burnout ed empowerment. Ricerca sulla condizione lavorativa di professionisti che lavorano con persone handicappate, coord. A. Alberani, Bologna . . La ricerca è stata realizzata su un campione composto da lavoratori del settore dell’handicap di diverse cooperative e associazioni (APAD, Attività sociali, AXIA, CADIAI, CSAPSA, Nuova sanità, ANNFAS).
Indice dei nomi e delle cose notevoli
Accornero A., ACLI, Adler P., Agamben G., AGCI, , AIAS, Alberani A., , , Albertini S., Aldini-Valeriani (Fondazione), , , Alquati R., , Althusser L., , , Anderson N., , ANFFAS, APAD, APCOM, Ardigò R., , Arendt H., Arrighi G., Austin J., , -, AXIA, Aydalot P.,
Biagi M., , Blair A., Bloch M., Blumer H., , Boas F., -, , , , Bonfiglioli S.p.A., , -, , , , -, Bonin L., Bonomi A., , Bonora P., Borzaga C., , , - Bragagni M., Bramanti A., BredaMenarinibus S.p.A., -, - Brusco S., , BT Cesab S.p.A., , - CADIAI, , , - Capecchi V., , , Casa dei Risvegli, -, - Castillo J. J., Cavina S., Cazzola G., CGIL, -, -, , - Chomsky N., , , , Cicourel A. W., Clausewitz K., Colozzi I., - Commager H. S., Comte A., , Comune di Bologna, Confcooperative, , Conti S.,
Badiou A., , , , , - Banaka W. H., Barbieri P., Barca F., -, , - Barnard A., -, Barthes R., , , Bassi A., - Becattini G., -, Becker H. S., Berlusconi S., ,
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Frazer J. G., Frege G., Freud S., , -,
Coop. Attività sociali, Coop. Nuova sanità, COPAPS, Corteel D., Cossentino F., Craveri P., Crespi F., Croce azzurra, Croce B., Croce rossa italiana, , - CSAPSA,
Galilei G., Galli G., Gallino L., , , Garfinkel H., , , , Garmise S. O., Gawronski S., Geertz C., , , , -, , , , , -, -, , , Gentile G., Ghedini R., , Giardini G., Giglioli P. P., - Ginsborg P., Giovanetti E., - Giraud P.-N., , , Gli amici di Luca (Associazione), Gobo G., Goffman E., , , Grote R. J., Guglielmetti F., , Guiducci R.,
Dal Lago A., , , , -, D’Attorre A., Darwin C., , , , De Biasi R., Debord G., , Defourny J., , De Martino E., , De Masi D., De Nigris L., de Saussure F., , Dewey J., Dilthey W., , - D’Iribarne P., Donnellan K., Durand J. P., , Durkheim É., , -, , -, -
Habermas J., , Hardt M., , , Harris M., Hatzfeld N., Hayem J., Hegel G. W. F., Heidegger M., , Heisenberg W., Hérard M., Hidouci M., Hjelmslev L., , Husserl E.,
ECIPAR, , , Eco U., , Enel, Engels F., , Esposito R., , Enichem, - Evans-Pritchard E. E., , -, -
Fabbri P., Fiat, , , Fioravanti M., Fontana A., Ford H., Foucault M., , ,
Innocenti R., , INPS, Izzo A., , -, , Jakobson R.,
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Mereu I., Merton R. K., -, , , Mezzadra S., Michel N., Michels R., , Michelsons A., Milner J. C., , - Mioni A., Mommsen W., Montesquieu C. L., , Morgan L. H., -, Morrison S. E., Mosca G., , Moucharik S.,
Kassapi A., Keeble D., Khulmann M., Kropotkin P., Krugman P., Labriola A., , Lacan J., , , , , Lanaro S., Lazarsfeld P. F., , Lazarus S., , , , -, -, , , , , , Leach E., , , -, Legacoop, , , , Leonardi F., Leonardi R., Leopardi G., Lévi-Strauss C., , -, , , Lévy-Bruhl L., Livolsi M., Luhmann N., , , Lukács G., Lynd M. H., , Lynd R. S., , Lungarella R.,
Nanetti R. Y., Negri Antimo, Negri Antonio, , , NOF, , - Pancino C., Pareto W., , Parsons T., , -, -, Pasquino P., Piccardo C., Pietrantoni L., Piro F., Pitti L., Pizzorno A., Platone, , Provincia di Bologna, , , , Provincia di Ravenna, , -, , Putnam R. D., Pyke F., , ,
Machiavelli N., Maggioni M. A., Magnabosco M., , Magnani M., -, , - Malinowski B., -, , Mangoni L., Marazzi A., Marcegaglia S.p.A., -, -, - Marconi D., Marcuse H., , , Maroni R., Martucci R., Maruani M., Marx K., -, , , , , , , , -, , Mauss M., , , Mead G. H., , -,
Quine W. O., Radcliffe-Brown A. R., , -, - Regalia I., Regini M., Regione Emilia-Romagna, Remotti F.,
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Reyneri E., , , , Romani C., Rorty R., Rousseau J. J., , Rullani E., Russell B.,
Turi G., Turner R., , , , Turner V., , , - Tylor E. B., -, , Vaccà S., Valdevit G., Van Dijk T. A., , Varaldo R., Veltz P., ,
Sacchetto D., Sapir E., , -, Schumann M., Schutz A., Schwartz Y., , Sengenberger W., , Sforzi C., Silver B., Silver M., Simmel G., Sofocle, Stalin J., , Stewart P.,
Webb B., Webb S. J., Weber M., -, , Welles O., Whorf B. L., , -, - Whyte W. F., , Wilson O., Windelband W., , Wittgenstein L., , - Wundt W.,
Tarski A., Taylor F. W., Thatcher M., Thomas W. I., , Togliatti P., Tönnies F., , , Toscano M., Trassari S., Trigilia C., , , -
Zandonai F., - Zangaglia A., Zani B., Zarifian P., , Zincone G., , Znaniecki F., , Zola É.,
Carocci editore
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