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Este/le Blanc
... Que um con;unto rea! e verdadeiro è uma doença das nossas ideias. Pessoa
Paul Veyne
I greci ha...
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Este/le Blanc
... Que um con;unto rea! e verdadeiro è uma doença das nossas ideias. Pessoa
Paul Veyne
I greci hanno creduto ai loro miti?
il Mulino
VEYNE, Paul I greci hanno creduto ai loro miti? Bologna, Il Mulino, 1984. 177 p. 21 cm. (lntersezioni, 11). l. Mitologia e cultura - Grecia antica Grecia antica
2. Mitologia e Storiografia -
907.238 88-15-00530-7
ISBN
Edizione originale: Les Grecs ont-ils cru à /eurs mythes?, Paris, Editions du Seuil, 1983. Copyright © 1983 by Editions du Seuil, Paris. Copy· right © 1984 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Ca terina Nasalli Rocca di Corneliano. Per l'illustrazione in copertina: Copyright
© 1984 by SIAE, Roma.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effet
tuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non au torizzata.
Premessa
. Come si può credere a metà o credere a cose contrad dittorie? I bambini credono, nello stesso tempo, che sia Babbo Natale, attraverso il camino, a portare loro i giocat toli e che questi giocattoli siano stati messi sotto l'albero dai loro genitori; allora credono veramente a Babbo Na tale? Si, e la fede dei dor.cé non è da meno; agli occhi di questi etiopi, ci dice Dan Sperber, «il leopardo è un ani male cristiano, che rispetta i digiuni della Chiesa copta, os servanza che, in Etiopia, è la base della religione; tuttavia un dor.cé il mercoledi e il venerdi, giorni di digiuno, non è meno preoccupato di proteggere il suo bestiame degli altri giorni della settimana; egli crede sia che i leopardi digiu nino, sia che mangino tutti i giorni; che i leopardi siano pe ricolosi tutti i giorni, lo sa per esperienza; che siano cri stiani, glielo garantisce la tradizione». Sull'esempio della fede dei greci nei loro miti, mi ero dunque proposto di studiare la molteplicità delle modalità del credere: credere sulla parola, credere in base all'espe rienza, ecc. Questo studio mi ha, a due riprese, proiettato un po' piu lontano. Si è dovuto riconoscere che invece di parlare di convin zioni, si doveva proprio parlare di verità. E che le verità erano esse stesse delle immaginazioni. Noi non ci facciamo una falsa idea delle cose: è la verità delle cose che, attra verso i secoli, si è formata in modo tanto singolare. Lungi dall'essere la piu semplice esperienza della realtà, la verità è la piu storica di tutte. Vi fu un'epoca in cui i poeti o gli sto rici inventavano di sana pianta origini favolose alle dinastie reali, con il nome di ogni tiranno ed il suo albero genealo gico; non erano dei falsari e tanto meno erano in malafede: seguivano il metodo, allora normale, per arrivare a delle ve rità. Seguiamo questa idea fino in fondo e, una volta chiuso
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il libro, vedremo che noi riteniamo vere, nello stesso loro modo, quelle che noi chiamiamo finzioni: l' Iliade o Alice sono vere, né piu né meno che Fuste! de Coulanges. Come pure riteniamo fantasticherie, senza dubbio interessanti, tutte le produzioni del passato e non riteniamo vero, e in modo molto provvisorio, che l'«ultimo stadio della scien za». Ecco la cultura. Non voglio assolutamente affermare che l'immagina zione rivelerà le verità future e che dovrà trovarsi al potere, ma che le verità sono già esse stesse immaginazioni e che l'immaginazione è al potere da sempre; essa, e non la realtà, la ragione o il lungo lavorio del negativo. Questa immaginazione, lo si vede, non consiste nella fa coltà conosciuta sotto questo nome sul piano p$icologico e storico; essa non amplia né in sogno, né con profezie le di mensioni del vaso di vetro in cui noi siamo racchiusi: essa al contrario ne erige le pareti e, al di fuori di questo vaso, nulla esiste. Nemmeno le future verità: non si saprebbe dunque come dare a queste la parola. In tali vasi di vetro si plasmano le religioni o le letterature o anche le politiche, i comportamenti e le scienze. Questa immaginazione è una facoltà, ma nel senso kantiano del termine; è trascenden tale, costituisce il nostro mondo invece di esserne il lievito o il demone. Soltanto - cosa che farebbe fuggire per il di sgusto ogni kantiano responsabile - questo trascendentale è storico, perché le culture si susseguono e non si assomi gliano. Gli uomini non trovano la verità: essi la costrui scono come costruiscono la loro storia, ambedue secondo la � loro utilità. I miei ringraziamenti amichevoli vanno a Miche! Fou cault, con cui ho discusso di questo libro, ai miei colleghi dell' Association des étudés grecques, J. Bompaire e J. Bou squet, e a F. Wahl per i suoi suggerimenti e le sue critiche.
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Prologo
I greci credevano alla loro mitologia? La risposta è diffi cile, poiché credere vuoi dire tante cose . .. Non tutti crede vano che Minosse continuasse ad essere giudice 1 negli In feri, né che Teseo avesse combattuto il Minotauro 2, ed essi sapevano che i poeti «mentono». Tuttavia, il loro modo di non crederci continua a imbarazzare: poiché Teseo, ai loro occhi, era comunque esistito; bisogna solamente «epurare il Mito con la Ragione» 3 e ridurre la biografia del compagno di Eracle al suo nocciolo storico. Quanto a Minosse, Tuci dide - al termine di un prodigioso sforzo di pensiero arriva, da parte sua, alla stessa conclusione: «di tutti quelli che noi conosciamo per sentito dire, Minosse fu il primo a possedere una flotta» 4; il padre di Fedra, marito di Pasifae, non è altro che un re che fu signore del mare. L'epurazione del mitico attraverso il logos non è un episodio della lotta eterna, dalle origini a Voltaire e Renan, tra la superstizione e la ragione, che farebbe la gloria del genio greco; il mito e il logos, malgrado Nestle, non si contrappongono come l' er rore e la verità'. Il mito era argome.nto di approfondite ri flessioni 6 e i greci non avevano finito di preoccuparsene an cora sei secoli dopo quel movimento dei Sofisti che si dice sia stato il loro Aufk/iirung. Lungi dall ' essere un trionfo della ragione, l'epurazione del mito attraverso il logos è un programma molto superato, la cui assurdità sorprende: per ché i greci si sono voluti dare tanta pena per nulla nel voler separare il buon grano dal loglio, invece di rifiutare con un solo gesto, nella fabulazione, sia Teseo che il Minotauro, sia l'esistenza stessa di un certo Minosse, sia i fatti invero simili che la tradizione attribuisce a questo favoloso Mi nosse? Si vedrà l'ampiezza del problema quando si saprà che questo atteggiamento di fronte al mito è durato due buoni millenni; in un libro di storia dove le verità della reli7
Prologo
gione cristiana e le realtà del passato si appoggiano le une alle altre, il Discours sur l'histoire universelle, Bossuet ri prende a sua volta la cronologia mitica concordata con la cronologia sacra dalla creazione del mondo, e può dunque collocare nella data giusta, «poco dopo Abimelech», «fa mosi combattimenti di Eracle, figlio di Anfitrione» 7, ed alla morte di «Sarpedone, figlio di Zeus». Cosa aveva in te sta il vescovo di Meaux nel momento in cui scriveva que sto? Cosa abbiamo in testa quando crediamo nello stesso tempo a cose contraddittorie, come facciamo continua mente in politica o nel campo della psicanalisi? Avviene lo stesso ai nostri studiosi del folklore di fronte al patrimonio delle leggende popolari o a Freud di fronte alla logorrea del presidente Schreber: che fare di tanta futilità? Come potrebbe tutto ciò non avere un senso, una motiva zione, una funzione o almeno una struttura? Il problema di sapere se le favole hanno un contenuto autentico non si pone mai in termini positivi: per sapere se Minasse è esistito, biso gna prima decidere se i miti non siano che vaghi racconti o se siano storia alterata; nessuna critica positivistica arriva a capo della fabulazione e del soprannaturale 8 • Allora, come si può smettere di credere alle leggende? Come si è smesso di credere a Teseo, fondatore della democrazia ateniese, a Ro molo, e alla storicità dei primi secoli della storia romana? Come si è smesso di credere alle origini troiane della monar chia franca? Per i tempi moderni, noi possiamo vedere piu chiaro gra zie al bel libro di George Huppert su Estienne Pasquier 9 • La storia come noi la concepiamo è nata non quando è stata in ventata la critica, dato che essa esisteva già da molto tempo, ma il giorno in· cui il mestiere di critico e quello di storico sono diventati uno solo : «La ricerca storica è stata praticata per secoli senza intaccare seriamente il modo di scrivere la storia stessa, restando le due attività separate l'una ,dall'al tra, alle volte nella mente di una stessa persona>>. E stato cosi anche nell'antichità ed esiste una retta via della ra gione storica, la sola e la stessa in ogni epoca? Prendiamo come filo conduttore un'idea di Arnaldo Momigliano 10: «il metodo moderno della ricerca storica è tutto fondato sulla 8
Pro/()go
distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano». Non è molto certo che questa idea di un grande studioso sia giusta; io la credo anche non pertinente. Ma essa ha il merito, anche se non si è d'accordo, di porre un problema di metodo facendola ritenere valida. Pensiamo a Beaufort o a Niebuhr, il cui scetticismo riguardo ai primi secoli della storia di Roma si fondava sulla mancanza di fonti e di do cumenti contemporanei a quei tempi lontani, o, quanto meno, si giustificava con questa mancanza 1 1• La storia delle scienze non è quella della scoperta pro gressiva del buon metodo e delle vere verità. I greci hanno un modo, il loro, di credere alla loro mitologia o di essere scettici, e questo modo rassomiglia solamente in modo ap parente al nostro. Essi hanno anche il loro metodo di scri vere la storia, che non è il nostro, e questo metodo si basa su un presupposto implicito, cioè la distinzione tra fonti originali e fonti di seconda mano, che, lungi dall'essere ignorato per un vizio di metodo, non è pertinente al pro blema. Di tutto ciò, Pausania è un esempio che vale quanto un altro, e lo citeremo spesso. Pausania non è assolutamente una mente da sottovalu tare, e non è giusto dire che la sua Periegesi dell'El/ade fu il Baedeker della Grecia antica. Pausania è il parallelo di un filologo o di un archeologo tedesco del primo Ottocento; per descrivere i monumenti e raccontare la storia delle dif ferenti contrade della Grecia, ha frugato nelle biblioteche, ha viaggiato molto, si è documentato, ha visto tutto con i suoi occhi 12; mette tanto ardore nel raccogliere leggende lo cali dalla viva voce quanto un nostro studioso provinciale al tempo di Napoleone III; la precisione delle indicazioni e l'ampiezza dell'informazione sorprendono quanto la sicu rezza del colpo d'occhio (a forza di osservare delle sculture e di informarsi sulla loro data, Pausania ha imparato a da tare la scultura sulla base di un criterio stilistico) . Infine Pausania è stato ossessionato dal problema del mito e, come si vedrà, ha a lungo dibattuto su questo enigma.
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Prologo
Note 1 I morti continuano, sotto terra, a condurre la vita che avevano avuto da vivi; Minosse, agli Inferi, continua a giudicare, come Orione continua a cacciare sotto terra: M. Nilsson, Geschichtedergriechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2, vol. l, p. 677. Non bisogna dire, come Racine, che gli dei hanno fatto di Minosse il giu dice dei morti. Sulle menzogne molto consapevoli dei poeti, si veda Plutarco, Qu o modo aJulescens poetas, Il, pp. 16F - 17F.
2 Plutarco, Vita di Teseo, 15, 2-16, 2. Cfr. W. den Boer, Theseus, the Growth of Myth in History, in «Greece and Rome», XVI (1969), pp. 1- 1 3 . 3 Plutarco, Vita d i Teseo, l , 5 : cilnrythOdes epurato dal /ogos», l'opposizione del /ogos al nrythos viene da Platone, Gorgia, 523A.
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4 Tucidide, l, 4, l; «Conoscere per sentito dire» è conoscere attraverso il mito; si veda per esempio Pausania, VIII, 10, 2. Erodotò, III, 122, si faceva la stessa idea di Minosse. Si veda Aristotele, Politica, 1271B38.
' W. Nestle, Von Mythos zum Logos, Stuttgart, Metzler, 1940. Un altro impor tante libro per i diversi argomenti di cui noi qui ci occupiamo è quello diJohn Fors dyke, Greece before Homer: Ancient Crono/og:y and Mytho/og:y, New York, Norton, 1957.
6 A. Rostagni, Poeti alessandrini, Roma, Bretschneider, 1972, pp. 148 e 264. A prova di ciò, l'esegesi storica o naturalista dei miti, attraverso Tucidide o Eforo, l'e segesi allegorica degli stoici e dei retori, l'evemerismo e la stilizzazione romanesca dei miti attraverso i poeti ellenistici.
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Citata da G. Couton in un importante srudio su Les «Pensées» de in «XVII• siècle», XXXII (1980), p. 183.
Pasca/ contre
tèsedes Trois Imposteurs,
8 Come diceva pressappoco Renan, basta ammettere il soprannarurale, per non poter piu dimostrare l'inesistenza di un miracolo. Basta avere interesse a credere che Auschwitz non c'è stata, perché tutte le testimonianze su Auschwitz diventino incredibili. Nessuno ha mai nemmeno dimostrato che Zeus non esisteva. 9 G. Huppert, IO
L'idée de /'histoire parfaite,
Paris, Flammarion, 1973, p. 7.
Citato da Huppert, op.cit., p. 7, n. l. I diversi saggi di A.D. Momigliano rela tivi a questi problemi di storia e di metodo della storiografia si possono ora trovare agevolmente nelle sue due raccolte: Studies in Historiography, London, Weidenfeld & Nicholson, 1966, e Essays in Ancient and Modem Historiography, Oxford, Black well, 1977.
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Se si vuole vedere fino a che punto il «rigore», il «metodo», la «Critica delle fonti» servono poco in questi domini, basterà citare queste righe, dove, ancora nel 1838, V. Ledere vuole rifiutare Niebuhr: «Proscrivere la storia di un secolo, perché vi si uniscono delle favole, è proscrivere la storia di tutti i secoli. I primi secoli di Roma ci sono sospetti a causa della lupa di Romolo, degli scudi di Numa, dell'appa rizione di Castore e Polluce. Cancellereste dunque dalla storia romana tutta la sto ria di Cesare, a causa dell'astro che apparve alla sua morte, e quella di Augusto, per ché lo si diceva figlio di Apollo travestito da serpente?», in Des joumaux chez /es Ro mains, Paris, 1838, p. 166. Da dove si vede che lo scetticismo di Beaufort e Niebuhr non ha per fondamento la distinzione d_elle fonti primarie e di seconda mano, ma piuttosto la critica biblica dei pensatori del XVIII secolo.
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Ci si è domandati altre volte se Pausania non avesse viaggiato soprattutto nei libri; si può affermare che è sbagliato: Pausania ha lavorato soprattutto sul terreno; si veda la pagina molto viva di Ernst Meyer nella traduzione abbreviata da Pausa nia, Pausanias, Beschreibung Griechenllln ds, Miinchen e Ziirich, Artemis Ver lag, 1967 2 , introduzione p. 42. Su Pausania si veda infine K.O. Miiller, Geschichte der antiken Ethnografie, Wiesbaden, Steiner, 1980, vol. II, pp. 1 76-180.
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Capitolo primo
Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»
Vi è un buon motivo per cui uno storico antico rara mente ci dà l'occasione di sapere se distingue fonti primarie e informazioni di seconda mano: uno storico antico non cita mai le sue fonti o, al massimo, lo fa raramente, irrego larmente e non per le stesse ragioni per cui lo facciamo noi. Dunque, se ricerchiamo cosa voglia dire questo silenzio e se ne traiamo le conseguenze, tutto risulterà chiaro: vedremo che la storia di allora non aveva in comune che il nome con quella che noi conosciamo. Non voglio dire che fosse im perfetta e che dovesse progredire per diventare la scienza che è stata da sempre: nel suo genere era definita, come strumento per dimostrare il vero, quanto il nostro giornali smo, al quale assomiglia molto. Questa «parte nascosta del l'iceberg» di ciò che un tempo fu la storia è cosl grande . . . da non essere piu lo stesso iceberg. Uno storico antico non «mette mai note a pie' di pa gina». Sia che egli compia ricerche originali o lavori su ma teriale di seconda mano, vuole essere creduto sulla parola; a meno che non sia fiero di aver scoperto un autore poco co nosciuto o voglia valorizzare un testo raro e prezioso, che è, solo per lui, una specie di monumento piuttosto che una fonte 1• Piu spesso, Pausania si accontenta di dire: «ho ap preso che . . . » o «secondo i miei informatori . . . »; e questi in formatori o esegeti rappresentavano fonti scritte o informa zioni raccolte dalla viva voce di sacerdoti o di eruditi del luogo incontrati durante i suoi viaggi 2• Questo silenzio sulle fonti continua ad incuriosire . . . e ha dato luogo alla Quellenforschung.
Torniamo, dunque , a Estienne Pasquier, le cui Recher ches de la France vennero pubblicate nel 1560. Prima della
pubblicazione, ci dice George Huppert 3, Pasquier aveva fatto circolare il suo manoscritto tra i suoi 'amici; il rimpro11
Verità storica: tradizione e wu/gpta»
vero che costoro gli rivolgevano piu frequentemente riguar dava la sua abitudine di fornire molto spesso i riferimenti sulle fonti che citava; tale modo di procedere - gli si fece notare - ricordava fin troppo «l'umbre des escholes» e non si adattava affatto ad un'opera storica. Era veramente ne cessario che confermasse ogni volta «le sue parole con qual che autore antico?». Se si ·trattava di dare alla sua narra zione autorità e credibilità, il tempo ci avrebbe pensato da solo; dopo tutto, le opere degli antichi non venivano affa stellate di citazioni e, quindi, la loro autorità si è affermata con il tempo; che Pasquier lasci al tempo il giudizio sul suo libro! Queste righe sconcertanti mostrano quale abisso separi la nostra concezione della storia dall'altra concezione, che fu quella propria di tutti gli storici dell'antichità e che an cora era quella dei contemporanei di Pasquier. Secondo questa concezione, la verità storica era una vulgata che con sacra l'accordo degli spiriti nel corso dei secoli; questo ac cordo sancisce la verità come sancisce la reputazione degli scrittori ritenuti classici, o, ancora, immagino, la tradizione della Chiesa. Lungi dal dover stabilire la verità a colpi di ci tazioni, Pasquier avrebbe dovuto aspettare di essere lui stesso riconosciuto come testo autentico; mettendo note a piè di pagina, fornendo prove come fanno i giuristi, egli ha indiscretamente cercato di forzare il consenso della poste rità alla sua opera. In una simile concezione della verità sto rica, non si può affermare che venga dimenticata la distin zione delle fonti primarie e secondarie o ancora che essa venga ignorata e che non sia ancora stata scoperta; sempli cemente non ha né senso né utilità e, se si fosse fatto osser vare agli storici antichi la loro supposta omissione, essi avrebbero risposto di non aver nulla a che fare con questa distinzione. lo non dico che essi non abbiano avuto torto, ma soltanto che, data la loro diversa concezione della ve rità, tale lacuna non poteva essere una spiegazione. Per comprendere questa concezione della storia come tradizione o vulgata, possiamo riferirei al modo molto simile con cui si pubblicavano gli autori antichi, o le Pensées di Pasca! non piu di un secolo e mezzo fa. Quello che si stam12
Verità storica: tradizione e «VU/wtta»
pava era il testo tramandato, la vulgata; il manoscritto di Pasca! era accessibile a tutti gli editori, ma non lo si andava a consultare alla Bibliothèque du Roi : si ristampava il testo tradizionale. Gli editori di testi latini e greci, invece, ricor revano ai manoscritti; ma tuttavia non stabilivano l'albero genealogico di tali copie, non cercavano di costruire il testo su basi interamente critiche e facendo tabula rasa: essi pren devano un «buon manoscritto», lo mandavano alla stampa e si limitavano a migliorare, in alcuni dettagli, il testo tradi zionale J;icorrendo a qualche altro manoscritto che avevano consultato o scoperto; costoro non ponevano in discussione l' autenticità del testo ma completavano o miglioravano la
vulgata.
Quando narrano della guerra del Peloponneso o dei se coli leggendari della piu antica storia di Roma, gli storici antichi si copiano l'un l'altro. E ciò non soltanto perché, in mancanza di altre fonti o di documenti autentici, erano co stretti a farlo; dato che noi stessi, che ancor meno di loro disponiamo di documenti e dobbiamo !imitarci alle affer mazioni di tali storici, ugualmente non crediamo loro. Ve diamo in costoro delle semplici fonti, allo stesso modo in cui loro stessi consideravano la versione tramandata dai loro predecessori come una tradizione. Anche se avessero potuto, non avrebbero cercato di porre in discussione que sta tradizione, ma soltanto di migliorarla. Del resto, per i periodi sui quali essi disponevano di documenti, non · Ii hanno utilizzati, o, se lo hanno fatto, li hanno utilizzati molto meno di quanto noi faremmo, e in tutt' altro modo. Tito Livio o Dionigi d'Alicarnasso hanno dunque rac contato imperturbabilmente i quattro secoli oscuri della storia primitiva di Roma, mettendo insieme tutto quello che avevano affermato i loro predecessori, senza doman darsi: «è vero?», ma limitandosi a trascurare quei dettagli che sembravano loro falsi o piuttosto inverosimili e inatten dibili; essi davano per scontato che il loro predecessore di cesse la verità. T ale predecessore poteva essere di parecchi secoli posteriore agli avvenimenti che raccontava, ma Dio nigi o Tito Livio, in proposito, non si sono mai posti quella domanda che a noi sembra cosi ovvia: «ma, allora, come 13
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
lo sa?». Forse perché supponevano che quel predecessore avesse egli stesso avuto dei predecessori, il primo dei quali era stato contemporaneo agli stessi avvenimenti? Certa mente no, essi erano esattamente informati che i piu anti chi storici di Roma erano stati di quattro secoli posteriori a Romolo e, del resto, essi non se ne preoccupavano affatto; questa era tradizione e la tradizione era verità, ecco tutto. Se avessero appreso come si era formata questa tradizione primaria, presso i primi storici di Roma, quali fonti, quali leggende e quali ricordi si fossero fusi nel loro crogiolo, avrebbero conosciuto soltanto la preistoria della tradizione: essi non l'avrebbero considerata come un testo piu auten tico; i contenuti di una tradizione non sono la tradizione stessa. Questa si presenta sempre come un testo, una narra zione che stabilisce l' autorità: la storia nasce come tradi zione e non si elabora partendo dalle fonti; abbiamo visto che, secondo Pausania, il ricordo di un'epoca è definitiva mente cancellato se coloro che sono vicini ai grandi non si curano di riportare la storia del loro periodo; nell'introdu zione della sua Guerra Giudaica, Flavio Giuseppe ritiene che lo storico piu meritevole sia chi narra gli avvenimenti del suo tempo ad uso della posterità. Perché era piu merite vole scrivere una storia contemporanea piuttosto che una storia dei tempi passati? Perché il passato ha i suoi storici, mentre l'epoca contemporanea attende che uno storico ne divenga la fonte storica e ne stabilisca la tradizione; lo si può vedere, uno storico antico non utilizza fonti e docu menti; è esso stesso fonte e documento; o piuttosto la sto ria non si elabora a partire dalle fonti: essa consiste nel ri petere quello che ne hanno detto gli storici, correggendo o, eventualmente, completando quello che essi ci hanno già fatto conoscere. Succede talvolta che uno storico antico segnali che le sue «autorità» presentano divergenze su· alcuni punti o, me glio, che dichiari di rinunciare a conoscere quale fosse la verità su questo punto, data la diversità delle versioni. Ma queste manifestazioni di spirito critico non costituiscono un apparato di prove e di varianti a sostegno di tutto il suo te sto, come l' apparato critico che sostiene le fondamenta di 14
Verità storica: tradizione e «Vu/gpta»
tutte le nostre pagine di storia: sono unicamente dei punti controversi ed incerti, dei dettagli sospetti. Lo storico an tico innanzitutto crede, e dubita soltanto dei dettagli che non può credere. Accade che uno storico citi un documento e lo trascriva o descriva qualche reperto archeologico. Fa questo o per ag giungere un dettaglio alla tradizione o, piuttosto, per illu strare il suo scritto ed aprire una parentesi di intimità con il lettore . In una pagina del suo libro IV, Tito Livio fa le due cose insieme. Si domanda se Cornelio Cosso, che uccise in un duello il re etrusco di Veio, fosse tribuno, come affer mavano tutte le sue fonti, o se fosse console, e fra queste sceglie la seconda soluzione, perché l'iscrizione sulla co razza di questo re, che Cosso vincitore consacrò in un tem pio, lo dice console: «ho sentito io stesso», scrive, «dire da Augusto, che ha fondato o restaurato tutti i templi, che en trando in questo santuario in rovina aveva letto la parola console scritta sulla tunica di lino del re; ecco perché trove rei quasi un sacrilegio togliere a Cosso, e al suo trofeo, la testimonianza dell'imperatore in persona». Tito Livio non ha ricercato documenti: ne ha trovato uno per caso o, piut tosto, ha raccolto la testimonianza dell'imperatore a quel proposito e questo documento non è una fonte di cono scenza bensi piuttosto una curiosità archeologica ed una reliquia, con la quale il prestigio del sovrano si aggiunge a quello di un eroe del passato. Spesso gli storici d'altri tempi, ed ancora quelli di oggi, citano dei monumenti sem pre visibili del passato, non tanto come prove di quello che dicono, ma piuttosto come illustrazioni che ricevono luce e splendore dalla storia, molto piu di quanto essi non illumi nino la storia stessa. Dal momento che uno storico è una fonte per i suoi suc cessori, succederà anche che essi lo critichino. Essi non hanno messo in discussione e rifatto da capo il suo lavoro per il fatto di aver scoperto in lui degli errori e di averli corretti : essi non ricostruiscono, correggono. O, ancora, lo stroncano; dal momento che l'individuazione degli errori può essere un processo alle intenzioni sulla base di un cam pione. In breve, non si critica un'interpretazione d'insieme 15
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
o il dettaglio, ma si può incominciare a demolire una repu tazione, a minare una attendibilità immeritata; la narra zione di Erodoto merita di essere considerata come una fonte o, piuttosto, Erodoto non è altro che un bugiardo? In materia di fonti, di tradizione, è come in materia di orto dossia: tutto o niente . Uno storico antico non menziona le sue fonti perché si sente egli stesso una fonte potenziale. A noi piacerebbe sa pere come Polibio sa tutto quello che sa. Ci piacerebbe an cora di pio sapere perché, ogni volta che la sua narrazione o quella di Tucidide acquistano una bellezza plastica e sem brano pio vere del vero, essi si adeguano a qualche raziona lità politica o strategica. Quando un testo è vulgata, si è tentati di confondere quello che il suo autore ha material mente scritto con quello che ha dovuto scrivere per essere degno di se stesso; quando la storia è vulgata, si distingue male quello che è effettivamente successo da quello che non è potuto non succedere, in nome della verità delle cose ; ogni avvenimento si uniforma alla sua tipologia; ed ecco perché la storia dei secoli oscuri di Roma è ricca di narra zioni molto dettagliate, i cui dettagli stanno alla realtà come i restauri alla Viollet-le-Duc stanno all'autenticità. Una simile concezione della ricostruzione storica offriva ai falsari, come vedremo, agevolazioni che la storiografia mo derna non offre pio loro. Se è consentito fare un' ipotesi circa il luogo di nascita di questo programma di verità, dove la storia è vulgata, cre deremo che il rispetto degli antichi storici per la tradizione trasmessa loro dai predecessori deriva dal fatto che in Gre cia la storia è nata non dalla controversia, come da noi, ma dalla ricerca (in effetti, questo è il significato della parola greca «historia») . Quando si fa una ricerca (come viaggia tore, geografo, etnografo o cronista) non si può non dire : ecco quello che ho constatato, quello che mi hanno detto negli ambienti bene informati; sarebbe forse utile aggiun gere I' elenco degli informatori, ma chi li andrebbe a con trollare? Dopo tutto, non è per il rispetto delle fonti che si giudica un giornalista, ma per la sua coerenza o, ancora, su qualche dettaglio dove lo si sarà colto per caso in flagrante 16
Verità storica: tradizione e
«VUIIJilta»
delitto d'errore o di parzialità. I passi stupefacenti di Estienne Pasquier non avrebbero piu nulla di stupefacente, se fossero dedicati ad uno dei nostri cronisti, e ci si potrebbe divertire a sviluppare l'analogia tra gli antichi storici e la deontologia o la metodologia del giornalista. Da noi un croni sta non aggiungerebbe nulla alla sua credibilità, se precisasse inutilmente l'identità dei suoi informatori; noi giudichiamo il suo valore con criteri nostri: ci basta leggerlo per sapere se è intelligente, imparziale, preciso e se possiede una solida cul tura generale, ed è in questo modo che Polibio, nel suo libro XII , giudica e condanna il suo predecessore Timeo; egli non discute sulle sue opere, salvo in un caso (la fondazione di Lo cri) dove Polibio, per un caso fortunato, ha avuto modo di trovarsi sulle tracce di Timeo. Un buono storico, dice Tuci dide, non accetta ciecamente tutte le tradizioni che gli ven gono riferite 4: deve essere capace di controllare l'informa zione, come dicono i nostri cronisti. Solamente, lo storico non metterà tutto questo lavoro sotto gli occhi dei suoi lettori. E tanto meno lo farà quanto piu sarà esigente per se stesso: Erodoto si diletta a riferire le differenti tradizioni contraddittorie che ha potuto racco gliere; Tucidide non lo fa quasi mai: riporta soltanto quello che pensa vero 5, si assume le sue responsabilità. Quando egli afferma categoricamente che gli Ateniesi si sbagliano sull' as sassinio dei Pisistratidi e ne dà la versione che ritiene piu esatta 6 ' si limita a fare delle affermazioni: non riporta nessun elemento di prova; non si vede d' altronde come avrebbe po tuto procurare ai suoi lettori il modo di controllare ciò che ha detto. Gli storici moderni propongono un'interpretazione dei fatti e forniscono al loro lettore i mezzi per controllare l'in formazione e per formulare un' altra interpretazione; gli sto rici antichi controllano essi stessi e non lasciano questa noia al loro lettore: questo è il loro dovere. Essi distinguevano molto bene, come si dice , la fonte primaria (testimonianza vi siva o, in mancanza, la tradizione) e le fonti di seconda mano, ma tenevano questi dettagli per loro, perché il loro lettore non era egli stesso uno storico, come i lettori del giornale non sono giornalisti. Questi e quelli credono alla professionalità. 17
Verità storica: tradizione e «Vulgata»
Quando e perché il rapporto dello storico con i suoi let tori è cambiato? Quando e perché si è cominciato a fornire i propri riferimenti? Non sono un grande studioso di storia moderna, ma alcuni dettagli mi hanno colpito. Gassendi non dà riferimenti nel suo Syntagma philosophiae Epicureae; parafrasa o approfondisce Cicerone, Ermarco, Origene, senza che il lettore possa sapere se gli si sta presentando il pensiero di Epicuro stesso, o quello di Gassendi: cosi quest'ultimo non fa dell'erudizione, ma vuole far rinascere l'epicureismo nella sua verità eterna, e, insieme, la scuola epicurea. Nella sua Histoire des variations des Eglises prote stantes, Bossuet, in compenso, fornisce i suoi riferimenti, e Jurieu li fornirà anche nelle sue repliche; ma queste sono opere scritte per una controversia. La grande parola è pronunciata: l'abitudine di citare le fonti, l'annotazione erudita non è stata un'invenzione degli storici, ma deriva dalle controversie teologiche e dalla pra tica giuridica, dove si allegavano la Scrittura, le Pandette o gli atti di un processo; nella Summa contra Genti/es, San Tommaso non rimanda ai brani di Aristotele, poiché si as sume la responsabilità di reinterpretarli, e li considera la verità stessa, che è anonima; in compenso, cita le Scritture, che sono rivelazioni, e non verità dell'anonima ragione. In un ammirevole commento del Codex Theodosianus, nel 1695, Godefroy fornisce i propri riferimenti: questo storico del diritto, come diciamo, si considerava esso stesso un giu rista e non uno storico . In breve, l'annotazione erudita ha un'origine cavillosa e polemica: si è creata per se stessa delle prove prima di condividerle con gli altri membri della «comunità scientifica». La vera ragione è l'ascesa dell'uni versità con il suo monopolio sempre piu esclusivo sull'atti vità intellettuale. La causa è economica e sociale; non ci sono piu possidenti terrieri che vivono di passatempi, come Montaigne o Montesquieu, e non è piu neanche onorevole vivere alle spalle di un grande anziché lavorare . Ora, nell'università, uno storico non scrive .piu per dei semplici lettori, come fanno i giornalisti o gli «scrittori», ma per altri storici, suoi colleghi; e questo non era il caso degli storici dell'antichità. Anche questi hanno, di fronte al 18
Verità storica: tradizione e
«VU/WJ/4»
rigore scientifico, un atteggiamento in apparenza !assista che ci sorprende o ci colpisce . Arrivato all'ottavo dei dieci libri che costituiscono la sua grande opera, Pausania scrive: «all'inizio delle mie ricerche, non vedevo che stupida cre dulità nei nostri miti; ma, adesso che le mie ricerche arri vano all'Arcadia, sono diventato piu prudente. Nell'epoca arcaica, in effetti, coloro che chiamiamo i Saggi, si esprime vano per enigmi piuttosto che esplicitamente e suppongo che le leggende su Cronos contengano parte di questa sag gezza». Questa confessione forse tardiva ci insegna dunque, retrospettivamente, che Pausania non ha creduto a una sola parola delle innumerevoli ed incredibili leggende che ci ha imperturbabilmente raccontato nelle cento pagine prece denti. Riflettiamo su un'altra confessione non ··meno tar diva, quella di Erodoto alla fine del settimo dei suoi nove libri. Gli abitanti di Argo hanno tradito la causa greca nel 480 e si sono alleati con i Persiani, che pretendevano di avere il loro stesso mitico antenato, cioè Perseo? «Da parte mia», scrive Erodoto, «il mio dovere è di dire quello che mi è stato detto, ma non di credere a tutto, e ciò che sto di chiarando vale per tutto il resto della mia opera» 7• Se uno storico moderno desse in lettura alla comunità scientifica fatti o leggende alle quali esso stesso assoluta mente non crede, farebbe un attentato alla probità scienti fica. Gli storici antichi hanno, se non una diversa idea del l'onestà, comunque lettori diversi, che non sono dei profes sionisti e che costituiscono un pubblico eterogeneo come quello di un giornale; hanno anche un diritto, e un dovere, di riservatezza e dispongono di un margine di manovra. La verità stessa non si esprime attraverso le loro righe: spetta al lettore farsi l'idea di questa verità; ecco uno dei tanti particolari poco visibili che rivela come, malgrado le grandi rassomiglianze, il genere storico degli antichi sia molto dif ferente da quello dei moderni. Il pubblico degli storici anti chi è composito; alcuni lettori cercano una distrazione, altri leggono la storia con occhio critico, altri ancora sono dei professionisti della politica e della strategia. Ogni storico fa la sua scelta: scrivere per tutti, tenendo conto delle diverse categorie di lettori, o specializzarsi, come Tucidide o Poli19
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bio, nell'informazione tecnicamente sicura che fornirà dati sempre piu utllizzablli da parte dei politici e dei militari. Ma la scelta era obbligata; in piu, l'eterogeneità del pubblico la sciava. allo storico qualche margine: poteva presentare la ve rità sotto tinte piu forti o piu dolci, a suo piacimento, senza tuttavia tradirla. Non bisogna neanche stupirsi o scandaliz zarsi delle lettere, molto commentate dai moderni, dove Ci cerone domanda a Lucceio «di gonfiare i meriti del suo con solato» piu di quanto forse lui stesso non l' avrebbe fatto e <
Verità storica: tradizione e «Vulfllta»
Farsi da parte davanti all'oggettività: prima dell'epoca delle controversie, in effetti, e prima dell'epoca di Nietz sche e di Max Weber, i fatti esistevano. Lo storico non ha né da interpretare (poiché i fatti esistono), né da dimo strare (poiché i fatti non sono la posta di una controversia) : gli è sufficiente riportare i fatti sia come «cronista», sia come «compilatore». Non gli servono per questo delle doti intellettuali eccelse; gli basta avere tre virtu che sono quelle di un buon giornalista: zelo, competenza e imparzialità. Dovrà informarsi con zelo consultando dei libri o dei testi moni, se ce ne sono ancora, o raccogliendo le tradizioni, «i miti»; la sua competenza sulle materie politiche, quali la strategia o la geografia, gli permetterà di capire le azioni degli uomini politici e di mettere in discussione le sue in formazioni; la sua imparzialità farà sf che non mentirà e che non ometterà nulla. Il suo lavoro e le sue virtu fanno sf che lo storico finisca per scoprire le verità sul passato, a differenza della massa; poiché, dice Pausania, «si raccon tano molte cose false tra la gente, che non capisce nulla di . storia e che crede vero ciò che ha sentito fin dall'infanzia nei cori e nelle tragedie. Molto si racconta su Teseo, per esempio; ma, in realtà, Teseo fu un re che sali sul trono alla morte di Menesteo, e i suoi discendenti conservarono il potere fino alla quarta generazione» 10• . Come si vede, Pausania ha diviso il buon grano dal lo glio; ha estratto dalla leggenda di Teseo il nocciolo auten tico. Come l'ha estratto? Nel modo che noi chiameremo la dottrina delle cose attuali: il passato assomiglia al presente o, se si preferisce, il meraviglioso non esiste; ora, ai nostri giorni, non vediamo mai uomini con la testa di toro, ed esi stono dei re; quindi, il minotauro non è mai esistito e Te seo fu semplicemente un re. Poiché Pausania non dubita della storicità di Teseo né di quella di Aristotele 11, né se ne dubitava maggiormente cinque secoli prima di lui. Prima che si imponesse l'atteggiamento critico che riduce il mito al verosimile, l'atteggiamento del greco medio era diverso: secondo il suo umore, considerava la mitologia come rac conti da vecchia credulona o piuttosto conservava di fronte 21
Verittì storica: tradizione e «
al meraviglioso passato un atteggiamento tale che il pro blema della storicità o quello della finzione non avevano al cun senso. L'atteggiamento critico, quello di Pausania, di Aristo tele e anche quello di Erodoto 12, consiste nel vedere nel mito una tradizione orale, una fonte storica, che bisogna criticare; il metodo è eccellente ma è ciò che ha creato un falso problema del quale gli antichi non hanno potuto libe rarsi in mille anni; c'è voluto un cambiamento storico, il cristianesimo, non tanto per risolverlo quanto per farlo di menticare. Tale problematica era la seguente: la tradizione mitica trasmette un nocciolo autentico di fatti che, nel corso dei secoli, si è circondato di leggende; sq_lo queste leg gende creano difficoltà, ma non il nocciolo. E a proposito di queste aggiunte leggendarie, e di esse sole, che il pen siero di Pausania si è evoluto, come abbiamo visto 1 3• La critica delle tradizioni mitiche è dunque un pro blema mal posto; Pausania assomiglia apparentemente al nostro Fontenelle, che, lungi dal separare il buon grano dal loglio, riteneva che tutto nelle leggende fosse falso 14• E , malgrado l e apparenze, l a critica antica del mito assomiglia non meno falsamente alla nostra; noi vediamo nella leg genda una storia ampliata dal «genio popolare»; per noi tale mito sarà l' ampliamento epico di un grande avvenimento, come l' «invasione dorica»; ma, per un greco, lo stesso mito sarà una verità alterata dall'ingenuità popolare; avrà, per essenza autentica, alcuni piccoli dettagli veri, perché non hanno nulla di meraviglioso, come i nomi degli eroi e la loro genealogia. Il paradosso è troppo conosciuto perché sia lecito insi stervi ancora: se si dichiara che le leggende tramandano spesso ricordi collettivi, si crederà nella storicità della guerra di Troia; se le consideriamo finzioni, non vi si cre derà e si interpreteranno diversamente i risultati molto equivoci degli scavi archeologici. I problemi di metodo e della ricerca positiva presuppongono una domanda piu fon damentale 1 5: che cos'è il mito? E storia alterata? Storia am pliata? Una mitomania collettiva? Un'allegoria? Che cos'era agli occhi dei greci? Tutto ciò ci darà l'occasione di consta22
Verità storica:
trtulizione e
«Vulgata»
tare che il senso della verità è molto grande (include facil mente il mito) ma anche che «verità» vuoi dire molte cose . . . fino ad includere la letteratura della finzione. Note I Formule quali «la gente del paese dice che . » o «i Tebani raccontano . . . » possono ben nascondere in Pausania ciò che noi chiameremmo una fonte scritta; solamente, agli occhi di Pausania, questo scritto non è una fonte: egli ha per fonte la tradizione, evidentemente orale, della quale lo scritto non è altro che la trascrizione. Nelle sue ricerche arcadiane (Vlll , 10,2) Pausania dichiara per esem pio: «Ho imparato questo per akoè, per sentito dire, e anche tutti i miei prede cessori»; è anche per akoè che la storia di Tiresia (IX,33 ,2) è conosciuta; ciò vuoi dire che Pausania e i suoi predecessori (che noi consideriamo come le fonti di Pausania) non hanno visto le cose con i loro occhi (cfr. IX, 39, 1 4), ma non hanno fatto altro che trascrivere ciò che riportava la tradizione orale; come si vede, Pausania distingue molto bene la fonte primaria (akoè) e le secondarie. I suoi predecessori, li conosciamo: Pausania menziona per inciso e una volta per tutte, all'inizio delle sue ricerche arcadiane, un poeta epico, Asia, di cui egli ha letto molto, e che cita molto anche altrove (VIII, 1 ,4: «ci sono questi versi di Asia su questo argomento»; sette righe piu su Pausania scriveva: «Gli Arcadi di cono che [ . ]»). Asia riproduce, diremmo, le tradizioni arcadiane. La sola vera fonte, per Pausania, è la testimonianza dei contemporanei all'avvenimento, di coloro che vi hanno assistito; è dunque una perdita irreparabile se questi contem poranei si dimenticano di trasmettere per scritto ciò che hanno visto (1,6, 1); cfr. anche Flavio Giuseppe, La Gut!7Ta Giudaica, l, prefazione, 5, 15. Questa fonte orale o scritta, gli storici non fanno che riprodurla; essi stabiliscono senza tregua la versione corretta dell'avvenimento. La cosa va da sé, tanto che citano la fonte solo quando se ne allontanano (anche Pausania, 1,9,8, cita Geronimo di Cardia solo al momento di separarsi da lui su un dettaglio). La verità è anonima, solo l'errore è personale. In certe società, questo principio è spinto molto piu in là; cfr. ciò che scrive Renan sulla formazione del Pentateuco in Oeuvres complètes, vol. VI, p. 520: «L'antichità non aveva l'idea dell'autenticità del libro; ognuno voleva che il suo esemplare fosse completo e ci faceva tutte le aggiunte necessarie per tenerlo aggiornato. In quest'epoca non si ricopiava un testo: lo si rifaceva componendolo con altri documenti. Tutto il libro era composto con una oggetti vità assoluta, senza titolo, senza nome dell'autore, trasformato in continuazione e con aggiunte senza fine». Ai giorni nostri, in India, si pubblicano delle edizioni popolari delle Upanisad vecchie di uno o due millenni, ma troppo ingenuamente complete per essere vere: ci si vede citata la scoperta dell'elettricità. Non si tratta di un falso: quando si completa o si corregge un libro completamente vero, come l'elenco del telefo�o�o, non si fanno falsificazioni. Detto in altre parole, quello che qui è in gioco non è la nozione di verità, ma quella d' autore. Cfr. an che H. Peter, Wahrheit und Kunst; Geschichtschreibung und Plagiat im klassi schen Altertum, 1 9 1 1 , ristampato nel 1965, Hildesheim, G. Olms, p. 436. Sulla conoscenza storica per sentito dire, cfr. ora F. Hartog, Le Miroir d 'Hérodote: es sai sur la représentation de l'autre, Paris, Gallimard, 1 981, p. 272. . .
. .
2 Gli informatori («esegeti») che Pausania cita una ventina di volte, non sono stati i «ciceroni» del nostro autore: per «esegeti» Pausania designa anche fonti scritte (E. Meyer, Pausanias, Beschreibung Griechenlands, Miinchen e Ziirich, Arte-
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Verità storica: tradizione e «Vulgafll» mis Verlag, 1967 2, p. 3 7 , citando 1,42,4). Su questi esegeti cfr. anche W . .Kroll,
Studien zum Verstiindnis des r6mischen Literatur, Stuttgart, Metzler, 1924, p. 3 13 . 3 G. Huppert, L'idée de l'histoire parfaite, Paris, Flammarion, 1973, p. 36.
4 Tucidide, 1,20-22. �A. Momigliano, Studies in Historiography, London, Weidenfeld & Nichol son, 1966, p. 214 . 6 Tucidide, 1,20,2. 7 Pausania, VIII,8,3; Erodoto, VII,152, 3. Cfr. Kurt Latte, Entretiens sur /'Antiquité c/assique, in Histoire et Historiens de /'Antiquité, Fondations Hardt, IV, 1 956, p. 1 1: Erodoto riporta due versioni, non crede per niente alla seconda, ma «ne parla lo stesso, poiché se ne parla»: ciò che si dice ha già una specie di esistenza. 8 A. Momigliano, Essays in Ancient and Modern Historiography, London, Wei denfeld & Nicholson, 1 966, p. 1 4 5 ; Studies in Historiography, cit. , p. 2 1 7. 9 Cfr. la nota l per questo motto di Renan. I tesLi curiosi che la Historia Au gusfll cita sono dei falsi, come tutti sanno; ma essa rispecchia il gusto per il pasti che di stili e per il gran numero di curiosità di ogni tipo che aveva tutta l' anti chità ellenistica e romana. Svetonio o Diogene Laerzio citano parallelamente delle lettere di Augusto o i testamenti di filosofi, non per stabilire i fatti, ma come passi curiosi e rari; il documento qui è fine a se stesso e non un mezzo; questi autori non arrivano a nessuna conclusione su nessun argomento dei passi che citano e che non sono assolutamente dei «pezzi giustificativi». Sul modo di citare di Porfirio nel De Abstinentia, cfr. W. Potscher, Theophrastos, Peri Euse bias, Leiden, Brill, 1964, pp. 12 e 120; cfr . Diodoro, Il, 55-60. Cfr. anche P. Ha dot, Porphyre et Victorinus, Paris, Etudes Augustiniennes, 1 968, vol. l, p. 33. IO Pausania, 1,3,3. 1 1 I n effetti, Aristotele non dubita della storicità di Teseo, non piu di Tucidide (Il, 15); vede in lui il fondatore della democrazia ateniese (Costituzione degli Ate niesi, XLI, 2), e riduce alla verosimiglianza il mito dei bambini ateniesi deportati a Creta e consegnati al Minotauro (Costituzione dei Bottiei citata da Plutarco in Vifll di Teseo, 16 , 2); per quanto riguarda il Minotauro, lo storico Filocoro lo ri duceva alla verosimiglianza, piu di quattro secoli prima di Pausania; pretendeva aver raccolto presso i Cretesi una tradizione (orale o scritta, non lo precisa), se condo la quale questi bambini erano non divorati dal Minotauro, ma dati in pre mio agli atleti vincitori dei giochi ginnici; questi giochi furono vinti da un uomo crudele e molto forte di nome Toro, citato da Plutarco, 16, l. Poiché questo Toro comandava l'armata d� Minosse, era veramente il Toro di Minosse o Minotauro. 12 Erodoto, III , l22: «Policrate è, dei Greci che noi conosciamo, il primo che pensava alla sovranità marittima, fatta eccezione per Minosse di Cnosso e altri se ce ne furono, che prima di questi regnarono sul mare; ma, dai tempi delle genera zioni che si chiamano umane, Policrate fu il primo». Già nell'Iliade, quello che si è chiamato «razionalismo omerico» limita alle generazioni mitiche l'intervento de gli dei nelle cose dell'uomo. 13 Pausania, VIII, 8,3; per i greci non ci sono problemi del mito; c'è sola mente il problema di elementi inverosimili che il mito possiede. Questa critica del mito comincia con Ecateo di Mileto (che si burlava già delle cose ridicole che raccontavano gli Elleni, fr. l Jacoby). Cfr. presso Pausania stesso, III,25,5 la cri tica del mito di Cerbero da parte di Ecateo. 14 H. Hitzig, Zur Pausaniasfrage, in Festschrift des phi/o/ogischen Kranzchen, in
Zurich z:u der in Ziirich im Herbst 1887 fllgenden 39. Versamm/ung deutscher Phi/o/ogen und Schulmanner, p. 57.
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Verità storica: tradizione e «VUlfiJtt.l» U Eccone un esempio: Newton constata che i sette re di Roma hanno re gnato in tutto duecentoquarantaquattro anni e ci si rende conto che una cosf lunga durata di regno è senza esempio nella storia universale dove la durata me dia di un regno è di diciassette anni; avrebbe potuto concludere che la cronologia della Roma reale era leggendaria; ne conclude invece solamente che fosse falsa, la riporta a sette volte diciassette anni e riporta dunque la data della fondazione di Roma al 630 prima della nostra epoca. Cfr. Isaac Newton, La Chronologie des an ciens royaumes, trad. dall'ingl., Paris, 1 728 .
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Capitolo secondo
Pluralità e analogia dei mondi di verità
Insomma, la mitologia greca, il cui legame con la reli gione era tra i piu deboli 1, non è stata in fondo altro che un genere letterario molto popolare, una grande perfor mance letteraria, soprattutto orale, sempre che si possano già usare i termini letterario e letteratura, prima della di stinzione tra realtà e finzione, quando l'elemento leggenda rio viene tranquillamente accettato. Leggendo Pausania, possiamo capire che cosa fosse la mitologia: la piu piccola borgata che il nostro erudito de scrive ha la sua leggenda, relativa a qualche locale curiosità naturale o culturale 2 ; questa leggenda è stata inventata da qualche narratore sconosciuto e, piu recentemente, da uno di quegli innumerevoli eruditi locali che Pausania ha letto e che chiama esegeti. Ognuno di questi autori, o narratori, conosceva le opere dei suoi colleghi, dato che le differenti leggende hanno gli stessi eroi, riprendono gli stessi temi, e dato che le genealogie degli dei o degli eroi, per sommi capi, concordano per lo piu tra di loro o comunque non presentano contraddizioni troppo rilevanti. Tutta questa letteratura, che non si conosceva, ne ricorda un'altra; le vite dei martiri e dei santi del luogo, dall'epoca merovingia alla Legenda Aurea; A. van Gennep ha dimostrato che que ste agiografie apocrife, per rendere giustizia alle quali i Bol landisti hanno · molto faticato, erano in realtà una lettera tura di sapore molto popolare: non vi si tratta che di princi pesse rapite, spaventosamente torturate o salvate da santi cavalieri; snobismo, sesso, sadismo, avventura. Il popolo ri maneva incantato da queste opere, l'arte le illustrava e una vasta letteratura in versi e in prosa le riprendeva 3 • Questo mondo leggendario era creduto vero, nel senso che non se ne dubitava, ma non vi si credeva come si crede alla realtà che ci circonda. Per la massa dei credenti le vite 27
Pluralità
e
analogia dei mondi di verità
dei martiri, colme di un qualcosa di meraviglioso, si colloca vano in un passato senza età di cui si sapeva solamente che era anteriore, diverso, al di là del tempo attuale; questo era «il tempo dei pagani». Lo stesso avveniva per i miti greci; si erano svolti «allora», nel corso delle generazioni eroiche, quando gli dei si confondevano con gli uomini. Il tempo e lo spazio della mitologia erano profondamente eterogenei rispetto ai nostri 4 ; un greco riteneva che gli dei dimoras sero «in cielo» ma sarebbe rimasto stupefatto di vederli «nel cielo»; sarebbe stato non meno sorpreso se lo si fosse preso in parola riguardo al tempo e se lo si fosse informato che Efesto si era appena risposato o che Athena ultima mente era molto invecchiata. Avrebbe allora «realizzato» che, a suo parere, l'era mitica aveva solamente una vaga analogia con la temporalità quotidiana, ma anche che una specie di letargo gli aveva sempre impedito di rendersi conto di questa diversità. L' analogia tra questi mondi tem porali mascherava la loro segreta molteplicità. Non è detto che si debba pensare che l'umanità abbia un passato, cono sciuto o sconosciuto che sia: non si vede piu il limite dei se coli, di cui si è conservata una memoria che non distingue la linea dell '-orizzonte; non si vedono estendersi dei secoli oscuri: si finisce di vedere, ed ecco tutto. Le generazioni eroiche si collocavano dall'altra parte di questo orizzonte del tempo, in un altro mondo. Ecco il mondo mitico alla cui esistenza i pensatori, da Tucidide a Ecateo a Pausania o Sant'Agostino 5 , continueranno a credere; solo che essi smetteranno di vederlo come un mondo diverso e vorranno ridurlo alle cose del mondo attuale . Faranno come se il mito fosse stato ripreso dallo stesso insieme di conoscenze della storia 6• In compenso, coloro che non erano pensatori scorge vano, oltre l'orizzonte della memoria collettiva, un mondo ancora piu bello del buon vecchio tempo; troppo bello per essere empirico; questo mondo mitico non era empirico, era nobile. Questo non significa che esso abbia personificato o simboleggiato i «valori»: non si può dire che le generazioni eroiche abbiano coltivato le virtu piu degli uomini d'oggi; ma esse avevano piu «valore» di questi ultimi: un eroe è piu 28
Pluralità
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analogia dei mondi di verità
di un uomo, come, agli occhi di Proust, una duchessa ha piu valore di una signora borghese. Di questo snobismo (se è permesso ricorrere all'umori smo per essere piu sintetici) , Pindaro costituirà un buon esempio. Si conosce il problema: cos'è che fa l'unità, se unità c'è, degli Epinici di Pindaro? Perché il poeta racconta al vincitore questo o qu�l mito, senza un apparente rap porto con l'argomento? E un superbo capriccio del poeta? O piuttosto l'atleta non è che un pretesto che consente a Pindaro di esprimere alcuni punti di vista che gli sono cari? O ancora il mito è un'allegoria e fa allusione a qualche pe culiarità della biografia del vincitore o dei suoi antenati? La spiegazione corretta è stata fornita da Frankel: Pindaro eleva il vincitore e la sua vittoria fino al mondo superiore del poeta 7 ; in quanto Pindaro, come f>oeta, ha familiarità con il mondo degli dei e degli eroi, ed innalza, fino al suo mondo, il vincitore, questo meritevole plebeo, trattandolo da pari a pari e parlandogli di questo mondo mitico, che, grazie a lui che ve l'ha introdotto , sarà ormai il suo. Non c'è necessariamente uno stretto rapporto tra la personalità del vincitore e gli argomenti su cui il poeta lo intrattiene: per Pindaro non è un punto d 'onore il far si che il mito contenga sempre una sottile allusione al vincitore; l'impor tante per lui è trattare il vincitore come suo pari, intratte nendolo con familiarità su questo mondo mitico. Nel nostro secolo, l'inclinazione naturale è quella di spiegare in chiave sociologica le opere dell'ingegno; di fronte ad un'opera ci domandiamo: «Cosa era destinata ad apportare alla società?». Questo significa lavorare troppo in fretta. Non bisogna · ridurre il significato della letteratura, o la sua ermeneutica, ad una sociologia della letteratura. Nella Paideia, Werner Jaeger ci sembra aver esagerato tali istanze. Secondo lui, quando l'aristocrazia ellenica abban donò le sue ultime lotte, trovò in Pindaro il suo poeta e poté soddisfare, grazie a lui, un bisogno sociale; in effetti, questa classe aristocratica di guerrieri si vedeva, secondo Jaeger, innalzata, con i suoi valori, nel mondo del mito; gli eroi dunque sarebbero stati altrettanti esempi per questi guerrieri; Pindaro avrebbe fatto l'elogio degli eroi mitici 29
Pluralità e analogia dei mondi di verità
per esaltare il coraggio del suo nobile pubblico: nei suoi versi, il mondo mitico sarebbe l'immagine sublime di tale aristocrazia. È vero? In Pindaro, si osserva facilmente come il ri corso al mito non serva assolutamente ad esaltare l' aristo crazia ma piuttosto ad innalzare la posizione del poeta ri spetto ai suoi interlocutori; come poeta si degna di innal zare fino a lui il vincitore del quale fa l'elogio: non è questo che s 'innalza da solo. Il mito per Pindaro non svolge una funzione sociale, non ha per contenuto un messaggio; esso gioca ciò che la semiotica ha recentemente chiamato un ruolo pragmatico: stabilisce una certa relazione tra gli ascol tatori e lo stesso poeta. La letteratura non si riduce ad un rapporto di causa o effetto con la società, e la lingua non si riduce nemmeno a un codice o all'informazione : essa com porta anche una illocuzione, cioè l'istituzione di diversi rapporti specifici con l'interlocutore; il promettere o l'ordi nare sono atteggiamenti che non possono essere ridotti al contenuto del messaggio; essi non si limitano a comunicare una promessa o un comando. La letteratura non sta tutta quanta nel suo contenuto; quando Pindaro intona l'elogio degli eroi, non lascia al suo pubblico un messaggio sui va lori e su loro stessi: egli stabilisce con loro un certo tipo di rapporto dove lui stesso, poeta al quale i miti sono aperti, occupa una posizione dominante. Pindaro parla dall' alto in basso e, proprio per questo, può tributare elogi, onorare un vincitore, innalzarlo fino a lui. Il mito instaura una illocu zione di elogio. Lungi dali' assimilare l'aristocrazia alle figure eroiche del mito, Pindaro, al contrario, divide decisamente il mondo mitico da quello dei mortali; non smette mai di ricordare al suo nobile pubblico che gli uomini valgono molto meno de gli dei e che si deve quindi essere modesti; volersi parago nare agli dei sarebbe una hybris. Rileggiamo la decima Pi tica; Pindaro dà al guerriero di cui tesse l'elogio l'eroe Per seo come modello? No. Parla di leggende esaltanti, di un popolo lontano ed irraggiungibile, delle imprese sovrumane di Perseo, che una dea aiutò . Piu che per i loro meriti, gli eroi vengono onorati per la benevolenza degli dei che li giu30
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dicarono degni del loro appoggio; cosi che questo do vrebbe incitare i mortali alla modestia, dato che anche gli eroi non poterono riuscire senza l'aiuto di qualche divinità. Pindaro esalta la gloria del suo vincitore esaltando quell'al tro mondo piu elevato, dove la gloria è essa stessa piu grande. Questo mondo superiore è un modello o una le zione di modestia? L'uno o l'altro, secondo l'uso che ne po trà fare un predicatore, e Pindaro, che non è un predica tore, ne fa un piedistallo; esalta la festa e il vincitore esal tando se stesso. Proprio perché il mondo mitico è tutt'altra cosa, inaccessibile, differente ed esaltante, il problema della sua autenticità restava in sospeso ed il pubblico di Pindaro oscillava tra Io stupore e la credulità. Non si portano ad esempio storie di fate e di magia: se Perseo fosse stato dato come modello, alla maniera di Baiardo, il cavaliere «senza macchia e senza paura», questo mondo eterogeneo risulte rebbe piuttosto pura finzione e solo i Don Chisciotte ci cre derebbero ancora. È dunque un problema che non possiamo evitare di porci: i greci credevano a queste fabulazioni? Piu concreta mente, facevano la distinzione tra ciò che essi ritenevano autentico, la storicità della guerra di Troia, o l'esistenza di Agamennone o di Zeus e ciò che ritenevano invenzioni pa lesi del poeta desideroso di divertire il suo pubblico? Ascol tavano con la stessa fiducia gli elenchi geografici del cata logo dei vascelli e il racconto galante, degno di Boccaccio, sugli amori di Afrodite e di Ares sorpresi in flagrante dal marito tradito? Se credevano realmente alla favola, sape vano almeno distinguere la favola dalla finzione? Bisogne rebbe piuttosto sapere con esattezza se la letteratura o la religione sono finzioni piu della storia o della fisica, e vice versa; diciamo che un'opera d'arte, a suo modo, è ritenuta vera anche là dove passa per finzione; poiché la verità è una parola omonima che dovrebbe essere usata solo al plu rale: esistono solo programmi eterogenei di verità e Fustel de Coulanges non è né piu né meno vero di Omero, seb bene lo sia in modo diverso; possiamo dire della verità ciò che diciamo dell'Essere secondo Aristotele: essa è omoni mica e analogica, dato che tutte le verità ci sembrano tra 31
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loro analoghe, come ci sembra che Racine abbia dipinto la verità dell'animo umano. Partiamo dal fatto che tutte le leggende, siano la guerra di Troia, i Sette contro Tebe o la spedizione degli Argo nauti, passavano per essere globalmente autentiche; un let tore dell'Iliade era dunque nella stessa posizione nella quale si trova oggi un lettore di storia romanzata. Quest'ultima si riconosce dal fatto che i suoi autori mettono in scena i fatti autentici che raccontano; se raccontano gli amori di Bona parte e di Giuseppina, li metteranno sotto forma di dialogo e faranno dire al dittatore corso e alla sua bella moglie creola discorsi che, alla lettera, non hanno alcuna autenti cità; i loro lettori lo sanno, non se ne curano e nemmeno ci pensano. Ciò non toglie che questi lettori non vedano in questi amori una finzione: Bonaparte è esistito e ha vera mente amato Giuseppina; questa globale fiducia è suffi ciente, e non trovano da ridire sul dettaglio che, come si di rebbe nei termini dell'esegesi neotestamentaria, è solo «re dazionale». I lettori di Omero credevano alla verità globale e non si sottraevano al piacere del racconto di Ares e Afrodite. Sta di fatto comunque che la biografia di Napoleone è, non soltanto vera, ma verosimile; in compenso, si dirà, il mondo dell'Iliade, la cui temporalità è quella dei racconti e in cui gli dei si confondono con gli uomini, è un mondo di finzione. Certamente una Madame Bovary credeva vera mente che Napoli fosse un mondo diverso dal suo, che la felicità vi regnasse intensamente ventiquattr'ore su venti quattro con la densità di un «in sé» sartriano; altri hanno creduto che nella Cina maoista gli uomini e le cose non avessero la stessa umile quotidianità che da noi; prende vano disgraziatamente questa fiabesca verità per un pro gramma di verità politica. Un mondo non può essere fitti zio di per sé, dipende solo dal fatto che ci si creda o meno; tra una cosa reale ed una finzione la differenza non è ogget tiva, non è nella cosa in se stessa, ma è dentro di noi, nella misura in cui soggettivamente vediamo o meno in essa una finzione: l'oggetto non è mai incredibile di per sé e la sua lontananza dalla realtà non potrebbe toccarci, dato che non 32
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ce ne accorgiamo quasi, essendo tutte le verità fondate sul l'analogia. Einstein è vero per noi nel contesto di un programma di verità, quello della fisica deduttiva e quantificata; ma se noi crediamo nell'Iliade essa non sarà meno vera, nel suo programma di verità mitica. E cosi Alice nel paese delle meraviglie. Poiché, anche se noi pensiamo che Alice o Ra cine siano finzioni, tuttavia vi crediamo mentre leggiamo o piangiamo nella nostra poltrona a teatro. Il mondo di Alice, nel suo programma di magia, ci sembra essere plausibile e vero come il nostro, altrettanto reale in rapporto a se stesso, per cosi dire; abbiamo cambiato piano di verità, ma restiamo sempre nel vero o nella sua analogia. Ciò av viene perché la letteratura realista è falsamente somigliante (essa non è la realtà) e possiede nello stesso tempo un fer vore inutile (il fiabesco sarebbe non meno reale) e la piu estrema sofisticazione (fabbricare realtà con la nostra realtà, che preziosità! ) . Lungi dal contrapporsi alla verità, la finzione ne è solamente un sottoprodotto: ci basta aprire l'Iliade per immergerci nella finzione, come si dice, e per diamo l'orientamento; la sola differenza è che dopo non vi crediamo piu. Vi sono società in cui, una volta chiuso il li bro, si crede ancora, ed altre in cui non si crede piu. Cambiamo piano di verità quando dalla nostra routine quotidiana passiamo a Racine, ma non ce ne rendiamo conto. Noi scriviamo una lettera di gelosia confusa ed in terminabile, che un'ora piu tardi precipitosamente smen tiamo con un telegramma, e passiamo poi a Racine o a Ca tullo dove un grido di gelosia, nella sua intensità, dura quattro versi, senza fare una piega: troviamo che questo grido è proprio vero! La letteratura è un tappeto magico che ci trasporta da una verità all' altra, ma come in uno stato di letargo : quando ci risvegliamo, arrivati alla nuova verità, crediamo ancora nella precedente ed ecco perché è impossibile far comprendere a degli ingenui che Racine o Catullo non hanno né disegnato il cuore umano né raccon tato la loro vita, e ancora meno Properzio. Pertanto questi ingenui, a modo loro, hanno ragione; sembra che tutte le verità ne costituiscano una sola; Madame Bovary è «un ca33
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polavoro per chi ha vissuto in provincia». È l' analogia dei sistemi di verità che ci consente di entrare nelle finzioni ro manzesche, di trovare «viventi» i loro eroi e di dare senso e interesse alle filosofie ed ai pensieri di un tempo. Ed a quelle di oggi. Le verità, quella dell'Iliade, e quella di Ein stein, sono figlie dell 'immaginazione e non della luce natu rale. Letteratura ante litteram, né vera, né fittizia, perché al di là del mondo empirico, ma di questo piu nobile; il mito ha un' altra particolarità: come dice il suo nome, è un rac conto, ma anonimo, che si può ascoltare e ripetere, ma di cui non si potrebbe essere l' autore. Quello che lo spirito ra zionalista, a cominciare da Tucidide, interpreterà come «tradizione» storica, come un ricordo che chi ha vissuto o assistito a quegli avvenimenti ha trasmesso ai suoi discen denti. Prima che venisse mascherato da storia in questo modo, il mito era un' altra cosa: consisteva non nel comuni care ciò che si era visto ma nel ripetere ciò che «si diceva» sugli dei e sugli eroi. Come si riconosceva formalmente un mito? Dal fatto che l'esegeta parlava di un mondo superiore facendo del suo discorso un discorso indiretto: «si dice che . . . », «La M usa canta che . . . », «un logos dice che . . . »; il locutore diretto non compare mai, dato che la stessa Musa non faceva che «ripetere», ricordare, questo discorso che era per lei il suo stesso padre 8• Quando si tratta di dei o di eroi, la sola fonte informativa è il «si dice», e questa fonte ha una misteriosa autorità . Non che non vi siano degli im postori : le Muse, Esiodo sanno dire il vero come sanno mentire 9, e i poeti che mentono si ricollegano ugualmente alle stesse Muse che hanno ispirato sia Omero che Esiodo . Il mito è un'informazione; esistono delle persone infor mate che la sanno lunga non per una rivelazione, ma sem plicemente per una conoscenza diffusa che hanno avuto la fortuna di captare: se sono dei poeti, saranno le Muse le loro informatrici accreditate, che faranno loro sapere ciò che si sa e si dice; il mito non è dunque una rivelazione dal l' alto o un arcano: la M usa non fa che ripetere loro ciò che si sa e che, come risorsa naturale, è a disposizione di coloro che vi potranno attingere. Il mito non è dunque una forma 34
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di pensiero specifico; non è altro che la conoscenza attra verso l'informazione riferita a campi del sapere che, per noi, sono soggetti di discussione, sperimentazione ecc . Come scrive Osvald Ducrot in Dire et ne pas dire, l'informazione è un'illocuzione che non può aver senso se il de&tinatario non riconosce innanzi tutto a colui che comunica competenza ed onestà; in tal modo l'informazione è posta subito fuori del l'alternativa del vero e del falso. Per osservare questo genere di conoscenza mentre sta operando, si può leggere una pa gina dove l'ammirevole padre Huc racconta come, un secolo e mezzo fa, convertiva i Tibetani: «abbiamo adottato una modalità d'insegnamento del tutto storica, avendo cura di bandire tutto ciò che poteva avere un sapore di disputa e di spirito di contesa; facevano loro molta piu impressione i nomi propri, e le date ben precise, dei piu logici ragiona menti. Quando conoscevano i nomi di Gesu, di Gerusa lemme, di Ponzio Pilato e le date di quattromila anni dalla creazione del mondo, non dubitavano piu del mistero della Redenzione e della predicazione del Vangelo; del resto, non abbiamo mai osservato che i misteri o i miracoli creassero loro la pur minima difficoltà. Siamo persuasi che attraverso l'informazione, e non attraverso il metodo della polemica, si possa efficacemente lavorare alla conversione degli infedeli». Pa.rallelamente, esisteva in Grecia un campo, quello del soprannaturale, dove c'era tutto da imparare dalla gente che era informata; questo campo era costituito da avvenimenti e non da verità astratte alle quali l' ascoltatore avrebbe potuto opporre la sua stessa ragione; i fatti erano precisi: i nomi de gli eroi e i loro patronimici non mancavano mai e l'indica zione del luogo della scena non era meno precisa (Pelio, Cite rone, Titarese . . . ; esiste nella mitologia greca tutta una «ar monia» nei nomi di luogo) . Questo stato di cose sarebbe po tuto durare piu di mille anni; non è cambiato perché i greci hanno scoperto la ragione o inventato la democrazia, ma per ché il campo del sapere è stato sconvolto dalla formazione di modi piu efficaci di dimostrazione (l'indagine storica, la fi sica speculativa), che facevano concorrenza al mito e, a diffe renza del mito, ponevano espressamente l' alternativa del vero e del falso. 35
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Ecco allora la mitologia che ogni storico critica, senza, al contrario, abbandonarsi al gusto del meraviglioso, e senza riconoscerne, peraltro, il carattere: la prenderà per storiografia; prenderà il mithos per semplice «tradizione» locale; parlerà della temporalità mitica come se essa fosse quella del tempo storico. Non è tutto . Lo storico era ugual mente alle prese con un secondo tipo di letteratura mitolo gica, in versi epici o in prosa: quella delle genealogie miti che, delle eziologie, dei racconti di fondazioni, delle storie o epopee locali; questa letteratura è fiorita nel sesto secolo e dura ancora, in Asia Minore, sotto gli Antonini e oltre 10• Opera di uomini di lettere, questa soddisfaceva piu il desi derio di conoscere le origini, che il gusto del meraviglioso. Riflettiamo, da noi, sulla leggenda delle origini troiane della monarchia franca, da Fredegario a Ronsard; poiché sono stati i troiani che hanno fondato i reami degni di que sto nome, sono dunque questi che hanno fondato anche quello dei franchi e, poiché il nome dei luoghi ha origine da quello degli uomini, il troiano in questione non poteva che chiamarsi Francione . Pausania, per le sue ricerche sulla Messenia, ha utiliz zato sia un poeta epico della tarda epoca ellenistica, Riano, sia lo storico Mirone di Priene 1 1 ; per l'Arcadia, ha seguito una «genealogia raccontata dagli Arqtdi», cioè una tradi zione raccolta probabilmente da un poeta del ciclo epico, Asio 1 2 ; il nostro autore conosce anche la dinastia dei re del l' Arcadia per numerose generazioni, da Pelasgo, contempo raneo di Cecrope, alla guerra di Troia; conosce i loro nomi, i loro patronimici, i nomi dei loro figli; ha ricostruito que sta genealogia sulla base del tempo storico e può anche sta bilire che Enotria, fondata da Enotro, figlio di Licaone, è sicuramente la piu antica colonia che i greci abbiano fon dato, e di gran lunga. Questa letteratura genealogica, dove Pausania ha visto una storiografia, in realtà raccontava degli aitia, delle ori gini, cioè ha tracciato le grandi linee dell'ordine delle cose; l'idea implicita (ancora presente nel libro V del poeta Lu crezio) è che il nostro mondo è finito, costituito, com pleto 1 3 (ho sentito un bambino dire, non senza stupore, 36
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guardando dei muratori lavorare: «Papà, non sono già state costruite tutte le case?») . Fondazione che per definizione si colloca prima dell'inizio della storia, nel tempo mitico degli eroi; il tutto si riduce al racconto delle origini di un uomo, un costume o una città. Una volta nata, la città non dovrà fare altro che vivere la sua esistenza storica, che non appar tiene alla conoscenza delle origini. L'eziologia, che un Polibio 14 troverà puerile, si accon tentava dunque di spiegare una cosa dalla sua origine: una città, dal suo fondatore; un rito, da un avvenimento che è servito da precedente, poiché lo si è ripetuto; un popolo, da un primo uomo, nato dalla terra o da un primo re. Tra que sto primo fatto e la nostra epoca, che inizia con. la guerra di Troia, si articola la successione delle generazioni mitiche; il mitografo ricostituisce o piuttosto trasforma in favola una genealogia regale senza lacune che si estende attraverso tutta l'era mitica e, quando l'ha inventata, prova la soddi sfazione di un sapere completo. Da dove tira fuori tutti i nomi propri che aggancia ad ogni stadio della sua genealo gia? Dalla sua immaginazione, alle volte dall' allegoria e, piu spesso, dai nomi dei luoghi: i fiumi, le montagne e le città di un paese provengono dai nomi dei primi individui che l'hanno abitata e che talvolta si pensa possano essere stati i re del paese o semplicemente i suoi abitanti; la traccia umana senza età che costituisce i toponimi ha per origine l' onomastica umana dei tempi mitici. Quando il nome di un fiume deriva dal nome di un uomo siamo portati a risalire alla originaria presenza umana dopo la quale la regione è di ventata un territorio abitato 1 � . Ma in base a quale avvenimento il nome di quel tal re di allora è scomparso o è stato dato a questo fiume? Ecco qualcosa che il genealogista nemmeno si chiede: gli basta l'analogia delle parole ed il tipo di spiegazione che preferi sce è archetipo; sarebbe come domandarsi che rapporto concreto vi sia tra Fauno e i fauni, tra Elleno e gli Ell�ni, tra Pelasgo ed i Pelasgi, tra l'Elefante e gli elefanti, come in questa parodia di eziologia: «una volta gli elefanti non ave vano la proboscide, ma un dio tirò il naso dell'Elefante per punirlo di qualche inganno e, da quel giorno, tutti gli ele37
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fanti hanno una proboscide». Pausania non capisce più que sta logica archetipica e prende l'archetipo, che, come Adamo, era il solo ad esistere, come il primo re del paese: «gli Arcadi» dice 1 6 , «dicono che Pelasgo fu il primo abitante del loro paese, ma, secondo la logica, sarebbe piu plausibile pensare che non fosse solo ma avesse altri uomini con sé; al trimenti, su chi avrebbe regnato questo re? Erano la sua sta tura, la sua forza, la sua bellezza che lo distinguevano ed an che la sua intelligenza, ed è per questo, immagino, che fu scelto per regnare su di loro. Da parte sua il poeta Asio ha composto su di lui i versi che seguono: "Pelasgo, eguale agli dei fu creato con la terra nera dei monti boschivi, affinché nascesse la razza degli Umani"». Queste poche righe sono una specie di collage; la vecchia verità mitica si fonde con il genere di razionalismo proprio di Pausania, mentre questi sembra essere poco sensibile alla differenza di questi mate riali. Note
1 M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2 , vol. l, pp. 14 e 3 7 1 ; A . D . Nock, Essay on Re/igjon and the Ancient Wor/d, Oxford, Clarendon Press, 1972, .vol. l, p. 26 1 ; non sono neanche sicuro che bisognasse mettere da parte i miti eziologici: pochissimi miti greci spiegano i riti e quelli che lo fanno non sono tanto l'invenzione di sacerdoti che vogliono fondare un mito, quanto il risultato dell'immaginazione di ingegnose menti locali che hanno inven tato una spiegazione romanzesca a questa particolarità culturale che incuriosiva i viaggiatori; il mito spiega il rito, ma questo rito è solo una curiosità locale. La tri partizione stoica di V arrone, che .distingueva gli dei della città, ai quali gli uomini tributavano un culto, gli dei dei poeti, cioè quelli della mitologia, e quelli dei filo sofi, resta fondamentale (P. Boyancé, Etudes sur la re/igjon romaine, Rome, Ecole Française de Rome, 1972, p. 254). Sui rapporti tra il mito, la sovranità e la genea logia dell'epoca arcaica, il problema è stato rinnovato da J.P. Vernant, Les Origj nes da la pensée grecque, Paris, PUF, 1962, e Mythe et pensée chez le grecs, Paris, Maspero, 1 965 ; e da M . l . Finley, Myth, Memory and History, in «History and Theory», IV ( 1 965), pp. 28 1 -302; noi parliamo molto superficialmente di questo pensiero mitico, essendo il nostro argomento la sua trasformazione fino all'epoca ellenistica-romana, ma siamo d'accordo con la dottrina della storicità della ra gione di J.P. Vernant, Re/igions, Histoires, Raisons, Paris, Payot, 1979, p. 97. 2 Un esempio tra mille ma molto gustoso: Pausania, VIII, 23; sugli eruditi lo cali, W. Kroll, Studien zum Verstiindnis des romischen Literatur, S tuttgart, Metzler, 1 924, p. 308. ) A. van Gennep, Religjons, moeurs et légende, Paris, 19 1 1 , vol. III, p. 150; E. Male, L 'art religieux du XIII siècle en France, Paris, Colin, 1948, p. 269; L 'Art reli gjeux de la fin du XVI siècle, Paris, Armand Colin, 1 95 1 , p. 1 32 . 38
Pluralità e analogia dei mondi di verità 4 Cfr. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, Paris, Seuil, 1976, p. 589 (trad. it. Il pane e il circo, Bologna, Il Mulino, 1 984) . 5 Sant'Agostino non crede alla storicità di Enea, ma essendo il mito riportato alla verosimiglianza, Enea non è piu figlio di Venere come Romolo non è figlio di Marte, Città di Dio, I, 4 e III, 2-6. Noi vedremo che Cicerone, Tito Livio e Dio nigi d'Alicarnasso non credevano tuttavia alla nascita divina di Romolo. 6 La molteplicità dei modi di credere è un fatto troppo banale perché sia utile insistere; cfr. J. Piaget, La formation du symbole che: l'enfant, Paris, Delachaux e Niestlé, 1939, p. 1 7 7 ; trad. it. La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1979 2 . Alfred Schutz, Colkcted Papers, La Haye, Nijhoff, coli. «Phaenomenologica», 1960- 1966, vol. I, p. 232: On multiple rea/ities; vol . 2, p. 1 3 5 : Don Quixote and the probkm of reality (trad. it. Scritti sociologici, Torino, U.T.E.T., 1 9 8 1 ) ; Pierre Janet, De l'angoisse à l'extase, Paris, Alcan, 1926, vol. I , p. 2 4 4 . N o n è meno banale che si creda a verità diverse sull o stesso argomento; i bambini sanno contemporaneamente che i giochi sono portati da Babbo Natale e regalati dai loro genitori. J. Piaget, Le ]ugement et le Raisonnement che: l'enfant ( 1924), Paris, Delachaux et Niestlé, 1945, p. 2 1 7 , trad. it. Giudizio e ragiona mento nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1 966 . M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Miinchen, Beck, 1955 2 , vol. I, p. 50: «un bambino di tre dici anni che faceva il bagno in un ruscello dalle mille piccole onde diceva: "il ru scello arriccia le sopracciglia" ; se quell'espressione fosse presa alla lettera, sa rebbe un mito; ma il bambino non sapeva nemmeno che, allo stesso tempo, il ru scello era acqua, che ci si poteva bere, ecc. Allo stesso modo, un primitivo può vedere ovunque nella natura gli spiriti, può vedere in un albero forze sensibili e operose, che deve placare o onorare; ma un'altra volta nondimeno taglierà questo albero per farne materiali da costruzione e combustibile». Cfr. anche Max We ber, Wirtschaft und Gesellschaft ( 1 922), Tiibingen, Mohr, 1 976, vol. I, p. 245 ; trad. it. Economia e società, Milano, Comunità, 1 968 2 . Wolfgang Leonard, Die Revo/ution ent/lisst ihre Kinder, Frankfurt, Ullstein, 195 5 , p. 58 (l'autore ha di ciannove anni ed è un komsomol al momento della Grande Purga del 1937): «Mia madre era stata arrestata, io avevo assistito all'arresto dei miei professori e di sei miei amici e, beninteso, avevo notato da molto tempo che la realtà sovie tica non assomigliava per niente al modo in cui era rappresentata sulla "Pravda " . Ma in un certo modo separavo queste cose, cosi come l e mie manifestazioni e le mie esperienze personali, dalle mie convinzioni politiche di principio. Era un po' come se ci fossero stati due piani: quello degli avvenimenti quotidiani o delle mie proprie esperienze (sul quale non era raro che io dessi prova di spirito critico) e un altro piano, quello della Linea Generale del Partito che continuavo, malgrado un certo disagio, a ritenere giusta, "almeno fondamentalmente" . Credo che molti komsomol conoscano una simile frattura». Non sembra affatto che si sia preso il mito per storia, che si sia abolita la differenza tra leggenda e storia, malgrado E. Kohler, Idea/ und Wirklichkeit in der hofische Epik, Tiibingen, Max Niemeyer, 1970; diciamo piuttosto che possono crederci tanto quanto alla storia, ma non al posto della storia né alle stesse condizioni della storia; i bambini non pretendono piu dai loro genitori i doni della !evirazione, dell'ubiquità e della invisibilità che attribuiscono a Babbo Natale. Bambini, primitivi e credenti di ogni genere non sono degli ingenui. «Anche i primitivi non confonddno un riferimento immagina rio con un riferimento reale», E . E . Evans Pritchard, Theories of Primitive Re ligion, Oxford, Oxford University Press, 1 967; il simbolismo degli Huichol am mette identità tra il grano e il cervo; M. Levy-Bruhl non vuole che si parli qui del simbolismo, ma piuttosto di pensiero prelogico. Ma la logica degli Huichol sarebbe prelogica «solo il giorno in cui preparasse un bollito di grano credendo di fare ragli di cervo» (Olivier Leroy, La Raison Primitive, Paris, Geuthner, 192 7 , p.
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Pluralità e analogia dei mondi di verità 70) . «l Sedang Moi d'Indocina, che hanno istituito dei modi di permettere al l'uomo di rinunciare al suo stato di essere umano, e di diventare cinghiale, reagi scono non meno differentemente, secondo che abbiano a che fare con un cin ghiale vero o un cinghiale nominale» (G . Deveureux, Ethnopsychanalyse Complé mentariste, Paris, Flammarion, 1972, p. 1 0 1). «A dispetto delle tradizioni verbali, raramente si prende un mito nello stesso senso di come si prende una verità em pirica; tutte le dottrine che sono nate nel mondo riguardo all'immortalità dell'a nima hanno a mala pena intaccato il sentimento naturale dell'uomo di fronte alla morte» (G. Santayana, The Li/e of Reason, III. Reason in Religion, New York, 1905, p. 52). Sono dunque molteplici i modi di credere o, per meglio dire, i re gimi di verità di uno stesso oggetto. 7 Hermann Friinkel, Wege und Formen friihgriechisches Denkens, Miinchen, Beck, 1960 2 , p. 366. Pindaro, parlandogli del bel mondo degli eroi, onora piu il vincitore di quanto non lo farebbe se pronunciasse il suo elogio; essere ricevuti dai Guermantes è piu lusinghiero che ricevere dei complimenti; anche, dice Friinkel, «l'immagine del vincitore resta spesso piu evanescente di quella degli eroi». Bisogna dire perciò, con lo stesso Friinkel (Dichtung und Phi/osophie des friihen Griechentums, Miinchen, Beck, 1 962, p. 557), che questo mondo eroico e divino sia un «mondo di valori»? Ma non si vede assolutamente come dei ed eroi possano essere dei santi; essi onorano i valori come lo fanno gli stessi illustri mor tali, né piu né meno. Qui ancora non disconosciamo lo «snobismo» mitologico: il mondo degli eroi ha valore, è piu grande di quello dei mortali. Come, per Proust, una duchessa è al di sopra di una borghese, ma non perché essa coltivi tutti i va lori e tutte le virtu: soltanto perché è duchessa. Certo, come duchessa e �rché duchessa, avrà una distinzione morale e la coltiverà, ma per forza di cose. E per essenza e non per i suoi meriti, che il mondo ha piu valore di quello dei mortali. Se si pensasse che la parola snobismo, detta anche cum grano sa/is, è troppo forte per Pindaro e per i vincitori, si rilegga un divertente passo delle Leggi di Platone, 205CD, che meriterebbe di essere messo in epigrafe in tutte le edizioni di Pin daro. l , 8: Musa, mihi causas memora, per questa 8 È ancora cosi nell' Eneide espressione ellenistica, Virgilio domanda alla Musa di «ripetergli» e garantire ciò che «si dice» a proposito di �nea, e non di «ricordargli» qualche cosa che avrebbe dimenticato o ignorerebbe. E per questo, si potrebbe credere, che le Muse sono figlie di Mnemosine, la memoria. Contra Nilsson, Geschichte der griechischen Re/i gian, cit . , vol. I, p. 254. ,
9 W. Kroll, Studien zum Verstiindnis, cit . , pp. 49-58 . I versi 27 e 28 della Teo gonia non sono semplici; le Muse ispirano menzogne ma anche verità. I posteri capiranno che spesso i poeti sostituiscono, confondendole, verità alle menzogne o menzogne alle verità. Cfr. Strabone, l , 2, 9, C. 20, su Omero. Altri vedranno l'opposizione tra l'epoca, che mente, e la poesia didattica, che dice il vero. Senza dubbio sarebbe meglio sapere che, senza spacciarsi per poeta «didattico», Esiodo oppone la propria versione delle genealogie divine ed umane alla versione di Omero, che egli considera suo predecessore e rivale. IO Su questa storiografia cfr. per esempio ]. Forsdyke, Greece be/ore Homer: Crono/ogy and Mythology, New York, Norton, 1967; M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit. , vol. II, pp. 5 1 -54. 1 1 Pausania, IV, 6, l , per Mirone: per Riano, IV, 1 -24 passim. Su questo Riano, A. Lesky, Geschichte des griechischen Litth'atur, Bern e Miinchen, Francke, 1 963, p. 788; non ho detto di J. Kroymann, Pausanias und Rhianos, Berlin, 1943, né di F. Kiechle, Messenische Studien, Kallmiinz, 1959. Sulle fonti dell'archeologia arcadiana di Pausania, W. Nestle, Vom Mythos zum Logos, Stutt-
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Pluralità e analogia dei mondi di verità gart, Metzler, 1940, p. 1 4 5 . Sulle nozioni d'inizio, istituzione (Katastasis) e «ar cheologie», cfr. E. Norden, Agnostos Theos, Darmstadt, Wiss. Buchg. , 1965 , p. 372 . 12 Pausania, VIII, 6, l. Ma tutto l'inizio dell'ottavo libro sarebbe da citare. Per la fondazione di Enotria, cfr. VIII, 3, 5 . 1 3 Qualunque cosa s i dica, l e concezioni piu diffuse nel tempo non sono, né quelle del tempo ciclico, né quelle del tempo lineare, ma quelle del declino (Lu crezio la considera una prova) : tutto è fatto o inventato, il mondo è adulto e non ha dunque piu che da invecchiare, cfr. P. Veyne, Comment on écrit l'histoire, Pa ris, Seui!, 1979 2 , p. 57 (trad. it. Come si scrive la storia, Bari, Laterza, 1973). Questa concezione è la chiave implicita di una frase difficile di Platone, Leggi, 677C, secondo cui non ci sarebbe piu posto per le invenzioni (che non sono che reinvenzioni), se la maggior parte dell'umanità non fosse periodicamente di strutta con tutta la sua esperienza culturale. 1 4 Polibio, X, 2 1 (sulle fondazioni delle città) ; XII, 260 (vanteria di Ti � eo sulle fondazioni e le parentele tra le città) ; XXXVIII, 6 (racconti storici che si li mitano a raccontare le origini e non dicono niente del seguito della storia) . Il pensiero popolare opponeva il passato delle «fondazioni» e il monotono presente; il primo era incantevole: quando lppia andava a fare conferenze a Sparta, parlava di «genealogie eroiche, o umane, di fondazione di città all'epoca primitiva, piu generalmente di ciò che si riferiva all'epoca antica» (Platone, Ippia maggiore, 285E). Questa visione del mondo comprende tre elementi: «la fondazione della città, l'invenzione delle arti e la stesura delle leggi» (Flavio Giuseppe, Contro Apione, l, 2, 7). Erodoto percorre il mondo, descrive ogni popolo, come si de scriverebbe una casa, e passa al sottosuolo: ecco l'origine di questo popolo. 15 Di tutti questi fatti, si troveranno esempi in tutte le pagine di Pausania e particolarmente nei primi capitoli dei suoi diversi libri. La spiegazione di un to ponimo attraverso un antroponimo permette di risalire alle origini umane, tanto che si preferisce spiegare una montagna chiamata Nomia con il nome di una ninfa piuttosto che con la parola che vuoi dire «pascoli», che sarebbe piu eviden temente la migliore spiegazione, come insinua Pausania stesso (VIII, 38, 1 1 ); Pausania vorrebbe anche spiegare il nome di Egiale con la parola aigialos, <
gli elefanti; è una dinastia reale, che ha regnato su una moltitudine di uomini. Se si vuole sapere quello che è una eziologia storica, la cosa piu semplice è vedere l'imitazione che ne fa Aristofane, Uccelli, 466-546.
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Capitolo terzo
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Distribuzione sociale del sapere e modi di credere
Come abbiamo potuto credere a tutte queste leggende, ammesso che vi abbiamo creduto veramente? La domanda non è di ordine soggettivo: i modi di credere si ricollegano alle modalità di possesso della verità; attraverso i secoli esi ste una molteplicità di programmi di verità che contengono diverse distribuzioni del sapere 1 e sono questi programmi che spiegano i gradi soggettivi d 'intensità delle credenze, la mala fede, le contraddizioni in uno stesso individuo. Noi crediamo a Michel Foucault: la storia delle idee inizia vera mente quando si storicizza l'idea filosofica di verità. Non esiste il senso del reale e non è neanche necessario, al contrario, che si rappresenti quello che è passato o estra neo come analogo a quello che è attuale o vicino. Il mito aveva un contenuto che era collocato in una temporalità nobile e platonica, cosi estranea all'esperienza individuale ed ai suoi interessi quanto lo sarebbero state frasi ministe riali o teorie esoteriche imparate a scuola e credute sulla pa rola; il mito era del resto un'informazione appresa basan dosi sulla fede di altri. Ecco quale fu il primo atteggia mento dei greci di fronte al mito: con questo tipo di fede si trovavano in uno stato di dipendenza rispetto alla parola di altri. Da questo derivano due conseguenze . Dapprima, una specie di indifferenza letargica o per lo meno di esitazione di fronte alla verità e alla finzione, poi, una rivolta, che questa dipendenza finirà per suscitare: si vorrà giudicare su tutto da sé, secondo la propria esperienza, e proprio questo sarà il principio delle cose attuali che porterà a misurare il meraviglioso con la realtà quotidiana ed a passare ad altre modalità. Può essere sincera la credenza che non ha i mezzi per agire? Quando una cosa è lontana dalla nostra compren sione, non sappiamo neanche noi stessi se ci crediamo o no; 43
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già Pindaro esitava di fronte al mito, ed il linguaggio della decima Pitica, per rispettabile che sia, tradisce qualche in certezza: «Né per terra, né per mare si trova la strada che porta alle feste dei popoli del Grande Nord: l'audace Per seo, un tempo, poté andare da loro, da questi popoli felici: Athena era la sua guida ed egli uccise la Gorgone! Da parte mia, niente mi sbalordisce e niente mi sembra incredibile quando sono gli dei a realizzarlo». Il modo di credere piu diffuso è quello in cui si crede basandosi sulla fede di altri; io credo nell'esistenza di To kio, dove ancora non sono andato, perché nç>n vedo che in teresse avrebbero i geografi e le agenzie di viaggio ad im brogliarmi 2• Questa situazione può durare finché chi crede dà fiducia a dei professionisti o fino al momento in cui non esistessero più professionisti capaci di dettare legge sull' ar gomento: gli occidentali, o almeno quelli tra loro che non sono batteriologi, credono nei microbi e moltiplicano le precauzioni asettiche per la stessa ragione per cui gli Zande credono agli stregoni e moltiplicano le precauzioni magiche contro di loro : essi ci credono ad occhi chiusi. Per i con temporanei di Pindaro o di Omero, la verità si definiva sia a partire dall'esperienza quotidiana, sia a partire da chi rac contava, leale o mistificatore che fosse; le affermazioni che rimanevano estranee all'esperienza non erano né vere né false; non erano neanche menzognere, poiché non c'è men zogna quando il mentitore non ha niente da guadagnarci e non fa torto a nessuno: la menzogna disinteressata non è un inganno . Il mito era un tertium quid, né vero né falso. Lo stesso potremmo dire di Einstein se la verità non prove nisse da una terza fonte, quella dell' autorità dei professio nisti. In quel tempo lontano, questa autorità non era nata e non esisteva teologia, fisica o storia. L'universo intellet tuale era esclusivamente letterario; i veri miti e le inven zioni dei poeti si alternavano all'orecchio del pubblico, che ascoltava docilmente l'uomo che sapeva, non aveva nessun interesse nel separare la verità dalla menzogna e non era in dignato di fronte a finzioni che non contrastavano con l' au torità di nessuna scienza. Gli uomini ascoltavano nello 44
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stesso modo i miti veri e le invenzioni; Esiodo sarà obbli gato a creare uno scandalo ed a proclamare che spesso i poeti mentono, per far uscire i suoi contemporanei da que sto letargo; poiché Esiodo, per suo interesse personale, vorrà costituire un quadro di verità dove non si possa piu raccontare qualsiasi cosa sugli dei. La credenza fondata sull'altrui fede, con la sua man canza di simmetria, poteva servire in effetti come supporto ad iniziative individuali che opponevano la loro verità al l'errore generale o all'ignoranza. Questo vale per la teogo nia speculativa di Esiodo, che non è una rivelazione data dagli dei: Esiodo ha appreso dalle Muse, cioè dalla sua pro pria riflessione. Riflettendo su tutto ciò che si diceva sugli dei e sul mondo, ha capito molte cose e può disporre di un vero e completo repertorio delle gene alogie : prima ci fu rono Caos e Gea, la terra, come anche Eros, l'amore; Caos generò la Notte, Gea creò Urano, il cielo, e Oceano; que st'ultimo ebbe quaranta figli di cui Esiodo dice i nomi: Pei tho, Admeto, lante, la bella Polidora ecc. Molte di queste genealogie sono delle allegorie e si ha l'impressione che Esiodo prenda i suoi dei-concetti piu seriamente di quelli dell' Olimpo. Ma come fa lui ad avere una conoscenza tanto precisa e con tanti nomi? Come accade che tutte le vecchie cosmogonie sono veri romanzi? Dipende dall' asimmetria che caratterizza la conoscenza basata sulla fede di altri; Esiodo sa che gli si crederà sulla parola e tratta se stesso come lo si tratterà: egli è il primo a credere a tutto quello che gli passa per la testa. Riguardo ai grandi problemi, dice il Pedone, quando non si è riusciti a trovare da soli la verità, e non si è nem meno ricevuta la rivelazione da qualche dio, non resta che adottare quanto si dice di meglio o imparare da uno che sa 3• Il «si dice» del mito, allora, cambia di significato; il mito non è piu un'informazione che vola per aria, una ri sorsa naturale, e coloro che riescono a captarla non si di stinguono solamente per maggiore fortuna o abilità: è un privilegio delle grandi menti, il cui insegnamento si ripete. «Dicono che, quando si muore, si diventa come stelle in cielo», dichiara un eroe di Aristofane che ha sentito parlare 45
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del grande e profondo sapere detenuto da alcune sette del l'epoca 4 . Accanto alle speculazioni piu o meno esoteriche, la ve rità basata sulla fiducia era caratterizzata da un altro genere di eroi: il solutore di enigmi; questa fu la nascita della fisica o della metafisica, cioè niente di meno che i supposti inizi del pensiero occidentale. Creare una «fisica», una scienza della natura consisteva nel trovare la chiave dell'enigma del mondo 5, poiché vi era l'enigma ma, una volta risolto que sto, tutti i segreti si rivelavano improvvisamente o, per me glio dire, svaniva il mistero e ci si aprivano gli occhi. Ecco come, per esempio, la tradizione greca dipingerà gli inizi della filosofia. Talete, per primo, troverà la chiave della spiegazione di ogni cosa: «tutto è acqua». Credeva nell'unità del mondo, era sulla strada che doveva portare al monismo, ai problemi dell' Essere e dell'unità della natura? In effetti la sua ipotesi, se vogliamo credere alla tradizione, non era metafisica, né ontologica, ma piuttosto allegorica e . . . chimica: le cose sono composte di acqua come per noi il sale marino è composto di cloro e di sodio, e, dato che tutto è acqua, tutto passa, scorre, cambia e fugge. Strana chimica: come pretende di ricomporre la diversità dei com ponenti partendo da un unico elemento semplice? Non pre tende nulla di ciò; non vuole essere una spiegazione, ma una chiave di lettura del mondo, e una chiave di lettura deve essere semplice. Monismo? Neppure: non è per moni smo che noi parliamo al singolare del «motto» di un e�ma. Ora una chiave non è una spiegazione. Mentre una spiegazione dimostra un fenomeno, una chiave fa dimenti care l'enigma, lo cancella, lo sostituisce nello stesso modo in cui la frase chiara fa scomparire la precedente formula zione confusa e poco comprensibile. Talete, cosi come lo presenterà la tradizione filosofica greca, non cerca di spie gare il mondo nella sua diversità: egli ne dà il vero signifi cato che è «acqua» e che si sostituisce ad una confusione enigmatica, subito dimenticata. Si dimentica infatti il testo di un indovinello, esso serve solo a condurre alla soluzione. La spiegazione si cerca e si dimostra; la chiave di un enigma si trova e, una volta trovata, agisce istantanea46
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mente : non c'è nessun bisogno di discutere: i veli cadono e gli occhi si aprono, basta pronunciare la formula magica. Ciascuno dei primi fisici dell'antica Grecia credeva che tutto si fosse rivelato a lui solo, tutto in una volta; due secoli piu tardi, la fisica di Epicuro sarà ancora un romanzo di questo genere . Quel che può darcene un'idea è l'opera di Freud; è sorprendente che la sua stranezza ci stupisca cosi poco: questi opuscoli penetrano nella profondità della psi che, senza l' omb,ra di una prova, senza una dimostrazione, senza alcun esempio, neanche a scopo di chiarezza, senza la minima spiegazione clinica, senza che si possa comprendere donde Freud abbia ricavato tutto questo e come lo sappia; dall'osservazione dei suoi pazienti? O piu probabilmente da se stesso? Non ci si stupirà che quell'opera cosi arcaica sia stata seguita da una forma di sapere altrettanto arcaica: il commento. Cos'altro si può fare se non commentare quando è stata trovata la soluzione dell'enigma? Per di piu, solo un genio, un ispirato, quasi un dio, può indovinare la risposta di un simile enigma: Epicuro è un dio, si, proprio un dio, proclama il suo discepolo Lucrezio. Colui che ha decifrato l'enigma è creduto sulla parola e non esigerà da se stesso piu di quanto i suoi ammiratori esigano da lui; i suoi discepoli non sviluppano la sua opera: se la trasmettono senza aggiun gervi nulla; si limitano a difenderla, ad ill u strarla, ad appli carla. Abbiamo dunque parlato di discepoli e di maestri. E precisamente, per ritornare al mito stesso, l'incredulità ha cominciato ad essere tenuta in considerazione per alm•o due motivi: un guizzo di indocilità di fronte alla parola di al tri e la costituzione di centri professionali di verità. Nei confronti delle leggende, l'aristocrazia greca oscil lava tra due atteggiamenti, come avverrà ancora nel caso dell' aristocrazia nel diciottesimo secolo: favorire la credulità popolare a proprio vantaggio, poiché il popolo crede con la stessa docilità con cui obbedisce, oppure respingere, da parte sua, una sottomissione umiliante, sentita come espres sione di ingenuità; essere illuminati è il primo dei privilegi. Nel primo caso, gli aristocratici traggono vantaggio, tra l'altro, dal potersi richiamare alle genealogie mitiche; il Li47
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side di Platone aveva come antenato un figlio naturale di Zeus che aveva ricevuto in casa il fratellastro Eracle, altro figlio illegittimo del dio 6 • Altri membri del bel mondo, al contrario, preferivano essere colti e pensare in modo di verso dalla massa. Senofane non vuole che "durante i ban chetti i commensali si abbandonino a dispute e dicano sciocchezze e proibisce di conseguenza di parlare «di Ti tani, di Giganti, di Centauri, tutte invenzioni degli Anti chi» 7• La lezione fu appresa; alla fine dd Calabroni di Ari stofane, un figlio che cerca di inculcare un po' di educa zione a suo padre, le cui idee sono plebee, gli insegna che a tavola non è conveniente raccontare miti: bisogna parlare di cose che riguardano gli uomini 8; è questa, conclude, la conversazione delle persone per bene . Non credere a tutto era una qualità greca per eccellenza; «non è da oggi - dice Erodoto - che la Grecità si è distinta dalle popolazioni barbare nell'essere piu attenta e piu libera da una stupida credulità». La mancanza di sottomissione alla parola di altri è un tratto di carattere piu che una questione d'interesse di classe, e si avrebbe torto nel vederne un privilegio dell' ari stocrazia; non si avrebbe meno torto nel supporre che que sta sia caratteristica di certe epoche che si alternano con epoche di fede. Che si rifletta sulle pagine degli Etudes de sociologie religieuse in cui Gabriel Le Bras 9 analizza i rap porti che facevano i vescovi dell'Ancien Régime dopo aver ispezionato le loro diocesi: ogni vill aggio aveva i suoi mi s.denti, che, non osando sottrarsi all'obbligo della dome nica, restavano in fondo alla chiesa durante la Messa op pure restavano sul sagrato. Ogni società ha avuto i suoi in dolenti di fronte alle pratiche di fede, piu o meno numerosi e sfacciati a seconda che l'autorità fosse piu o meno indul gente. La Grecia ha avuto i suoi, come dimostra un verso eccellente dei Cavalieri di Aristofane; uno schiavo che ha perso la speranza di vivere dice al suo compagno di sven tura: «non ci resta che gettarci ai piedi delle immagini degli dei», e il suo compagno gli risponde: «veramente! Dimmi, credi veramente che esistano gli dei?» 1 0 • Io non sono sicuro che fosse stato il sapere dei sofisti ad aprire gli occhi a que48
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sto schiavo: egli appartiene alla schiera irriducibile degli in creduli, il cui rifiuto è dovuto meno a ragionamenti e cor renti di pensiero che non ad una reazione contro una sottile forma di autorità, quella stessa che Polibio attribuiva al se nato romano e che praticheranno tutti coloro che assoce ranno i loro troni all' altare n. Non che la religione abbia necessariamente un'influenza conservatrice: un certo modo di credere rappresenta una forma di obbedienza simbolica; credere è obbedire. Il ruolo politico della religione non è as solutamente un fatto di contenuto ideologico. Una seconda ragione per non credere piu a tutto quello che veniva tramandato fu che in materia di informazione il mito subl la concorrenza di alcuni esperti del vero, i «ri cercatori», o storici, che, come professionisti, nutrivano la speranza e l'ambizione di «fare testo». Ora, ai loro occhi, era necessario che i miti fossero coerenti con il resto della realtà, dal momento che essi li davano per veri. Facendo una ricerca in Egitto, Erodoto scopre là il culto di Eracle 1 2 (un dio infatti è dovunque un dio, nello stesso modo in cui una quercia è dovunque una quercia, ma ogni popolo gli dà un nome differente, anche se i nomi divini si traducono da una lingua all'altra esattamente come i nomi comuni) ; poi ché l'epoca che gli egiziani assegnavano a questo Eracle non coincideva assolutamente con la cronologia leggendaria dei greci, Erodoto cercò di risolvere la difficoltà informan dosi sull'epoca che i fenici attribuivano al loro Eracle e la sua confusione non fece che aumentare; tutto ciò che poté concludere su questo argomento fu che tutti gli uomini erano d' accordo nel vedere in Eracle un dio molto antico e che si poteva superare la difficoltà distinguendo due Eracli. Non è tutto; «i greci dicono molte altre cose inconsulte; non piu credibile è un mito che raccontano su Eracle, se condo il quale, quando costui arrivò in Egitto», gli abitanti di questo paese avrebbero deciso d'immolarlo a Zeus, ma Eracle non lo avrebbe permesso e li avrebbe uccisi tutti; impossibile, protesta Erodoto: gli egiziani non sacrificano degli esseri viventi, come sanno coloro che conoscono le loro leggi; e poi Eracle era ancora solo un uomo, a quel che si dice (egli diventa dio infatti solo alla sua morte) : ora «sa49
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rebbe possibile che un uomo da solo riuscisse ad ucciderne una quantità enorme?». Si vede quanto Erodoto è lontano dalla conoscenza basata sulla fede di altri. Questo fornisce alcune informazioni: qual è la città capitale di questo re gno? Quali sono i vincoli di parentela di Tizio? A quale epoca risale Eracle? Coloro che vi informano sono dunque informati e, in questo campo, la verità si oppone meno al l'errore di quanto l'informazione non si opponga all' igno ranza. Soltanto, un ricercatore di professione non ha la stessa acquiescenza degli altri uomini nei confronti dell'in formazione: egli appura e verifica l' informazione . La distri buzione sociale del sapere ne è trasformata: ormai gli altri uomini dovranno riferirsi di preferenza a questo professio nista se non vorranno essere considerati persone ignoranti. E come il ricercatore o l'informatore impongono alla realtà l'obbligo della coerenza, il tempo mitico non può piu re stare unitamente eterogeneo alla nostra temporalità: non è piu altro che passato. La critica del mito ha avuto origine dai metodi di ri cerca e non ha niente a che vedere con la scuola dei Sofisti, che si indirizzavano piu verso una critica della religione e della società, né con le cosmologie della Fisica. Qual è la spiegazione di una simile trasformazione? Non ne so nulla, e non sono ansioso di saperlo. Da tempo la storia è stata definita un racconto esplicativo, una narra zione con delle cause; il dare spiegazioni era considerato la parte sublime del mestiere dello storico . Si pensava infatti che la spiegazione consistesse nel trovare, come causa, una ragione, cioè uno schema (l'ascesa della borghesia, i fattori della produzione, la rivolta delle masse} che mettesse in gioco grandi idee avvincenti. Ma supponiamo che la spiega zione si riduca al considerare un insieme di cause irrilevanti che cambiano da un contesto all' altro senza riempire gli spazi specifici che uno schema avrebbe loro precedente mente assegnato: in tal caso la spiegazione diventa occasio nale e aneddotica e non sarà altro che un insieme di ele menti casuali e perderà quasi ogni interesse. In compenso si presenta un altro compito non meno in teressante : chiarire i contorni imprevedibili di questo in50
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sieme di elementi che non ha piu la forma convenzionale, l'ampio drappeggio che fa della storia una nobile tragedia. Restituire agli avvenimenti il loro profilo originale che si nasconde sotto vesti fittizie. La vera forma infatti, distorta in tal modo, non è piu assolutamente visibile: i presupposti «vanno da sé», passano inosservati, e, al loro posto, com paiono genericità convenzionali. Non si scorge ricerca né polemica: la coscienza storica appare attraverso i secoli ed i loro progressi; la critica greca del mito diventa un episodio del progresso della Ragione e la democrazia greca sarebbe Democrazia eterna, non tara dello schiavismo. Se dunque la storia si propone di strappare questi drap peggi e di chiarire ciò che si determina autonomamente, essa smette di essere esplicativa; diventa ermeneutica. Non domandiamoci, dunque, quali cause sociali sono all'origine della critica del mito; ad una specie di storia sacra dei Lumi o della Società, dobbiamo preferire e sostituire una conti nua ridistribuzione casuale di piccole cause sempre diverse, che generano effetti non meno casuali ma che sono conside rate grandi e rivelatrici del destino dell'uomo. Schema per schema, quello di Pierre Bourdieu, che considera la specifi cità e l' autonomia di un campo simbolico diviso tra centri di forza, ci sembra preferibile allo schema per classi sociali: due schemi valgono piu di uno. Apriamo qui . quella che potrà apparire inizialmente una divagazione di qualche pagina ma che porterà, in effetti, al centro del nostro problema del mito. Se bisogna dire tutto, è tanto piu facile rassegnarsi a non spiegare quanto siamo propensi a credere , vale a dire che l'imprevedibilità della storia tenga meno alla sua occasionalità (la quale non impe dirà una spiegazione post eventum) che alla sua capacità di invenzione . L'idea farà sorridere poiché tutti sanno che ,è mitico ed antiscientifico credere a dei principi assoluti. E allora spiacevole constatare che il pensiero scientifico ed esplicativo si fonda, senza saperlo, su dei presupposti altret tanto arbitrari . Diciamo qualche parola destinata a coloro che, nella loro vita pubblica o privata, si sono trovati un bel mattino a fare o pensare cose di cui il giorno prima non avevano ancora la minima idea; destinata anche a coloro 51
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che si sono trovati nell'incapacità di prevedere il comporta mento del loro piu intimo amico, ma che dopo un avveni mento hanno trovato retrospettivamente nel carattere o nel passato di questi un tratto che si scopriva essere stato premonitore. Non vi è niente di piu empirico e di piu semplice, in ap parenza, della causalità; il fuoco fa bollire l' acqua, l'ascesa di una nuova classe conduce ad una nuova ideologia. Que sta apparente semplicità maschera una complessità che viene ignorata: una polarità tra l'azione e la passività; il fuoco è un agente che si fa obbedire, l' acqua è passiva e fa ciò che il fuoco le impone di fare. Per sapere quello che ac cadrà basta dunque vedere quale direzione la causa fa pren dere all'effetto, il quale nori può apportare piu modifica zioni di quanto lo possa una pallina da biliardo spinta verso una determinata direzione da un' altra pallina. Stessa causa, stesso effetto: causalità significherà successione regolare . L'interpretazione empiristica della causalità non è diffe rente: essa rinuncia alla concezione antropomorfica di un effetto obbligato, che obbedirebbe regolarmente all'ordine impartitogli dalla sua causa, ma ne conserva l'essenziale: l'i dea della regolarità; la falsa sobrietà dell'empirismo na sconde una metafora. Ora, dato che una metafora vale l'altra, si potrebbe an che parlare del fuoco e dell'ebollizione, o di una classe in ascesa e della sua rivoluzione, in termini differenti, in cui tutti i soggetti sarebbero attivi: si direbbe allora che, quando si ha un dispositivo contenente insieme fuoco, pen tola, acqua e un'infinità di altri dettagli, l'acqua «inventa» la bollitura; e che essa la «inventerà» di nuovo ogni volta che la si metterà sul fuoco: come un attore, essa reagisce ad una situazione, attualizza un complesso di possibilità, svolge un' attività che canalizza un insieme di piccole cause; queste sono piu ostacoli che limitano questa energia che non motori. La metafora non è piu quella di una palla lan ciata verso una determinata direzione ma quella di un gas elastico che occupa tutto lo spazio che gli è permesso . Non è piu considerando «la» causa che si potrà sapere cosa farà questo gas, o piuttosto non esiste una causa: l'insieme di 52
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piccole cause consente di prevedere le future configurazioni di questa energia in espansione meno di quanto non venga rivelato dall'espansione stessa. Questa elasticità naturale è chiamata anche volontà di potenza. Se noi vivessimo in una società in cui questo schema metaforico fosse legittimato, non avremmo nessuna diffi coltà ad ammettere che una rivoluzione, una moda intellet tu ale, un'ondata di imperialismo o il successo di un sistema politico non rispondono alla natura umana, ai bisogni della società o alla logica delle cose, ma che sono mode, progetti che provocano entusiasmo. Non solo avrebbe potuto non scoppiare la rivoluzione del 1 789 (dato che la storia è con tingente) , ma inoltre la borghesia avrebbe potuto «inven tare» un sistema tutto diverso. Accettando questo schema energetico e indeterminato, noi ci rappresenteremmo il di venire come l'opera piu o meno imprevedibile di soggetti esclusivamente attivi, che non obbediscono ad alcuna legge. Si potrebbe obiettare a questo schema di non essere ve rificabile e di essere metafisico come gli altri, che lo sono altrettanto; questo è vero, ma esso ha il vantaggio sugli altri di essere una soluzione alternativa che ci permette di sba razzarci dei falsi problemi e di liberare la nostra immagina zione: cominciavamo ad annoiarci nelJa nostra prigione del funzionalismo sociale ed ideologico . Si potrebbe ugual mente obiettare che, se il divenire non presuppone che sog getti attivi, diventano incomprensibili quelle regolarità cau sali che riappaiono qua e là. Non necessariamente: se met tiamo di fronte due pugili, un peso massimo ed un peso piuma, sarà sicuramente il pugile piu pesante che vincerà. Ma se supponiamo che nel mondo i pugili siano mescolati e accoppiati a caso dalla fortuna, questa regolarità nelle vitto rie cesserà di essere la regola generale, e il mondo della boxe diventerà un arcobaleno che va dalla completa regola rità all'irregolarità totale ed al colpo di genio . Nello stesso modo tratteremo i momenti piu significativi del divenire storico : sono costituiti da una serie di avvenimenti che vanno dai piu prevedibili e regolari ai piu imprevedibili. Il nostro energetismo è un monismo casuale, cioè un plurali smo: noi non opporremmo, come fanno i monarchi, l'iner53
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zia al cambiamento, la materia allo slancio vitale e alle altre trasformazioni del Male e del Bene. L' accoppiamento a caso dei pugili diversi ci spiega bene tanto la necessità fisica quanto l'innovazione radicale; tutto è invenzione o reinven zione, volta per volta. A dire il vero, la parte di successione regolare, di rein venzione, è l'effetto di una suddivisione post eventum o an che di una illusione retrospettiva. Il fuoco spiegherà l' ebolli zione e l'asfalto sdrucciolevole spiegherà un tipo frequente di incidente automobilistico se noi prescindiamo da tutte le altre circostanze, infinitamente diversificate, che fanno parte di questi innumerevoli e inestricabili intrecci. Anche gli storici e i sociologi non possono non prevedere mai nulla ed avere sempre ragione; come dice Bergson nel suo mirabile saggio sul possibile ed il reale, la creatività del divenire è tale che il possibile sembra preesistere al reale solo attraverso un'illu sione retrospettiva: «come non vedere che, se l'avve nimento si spiega sempre, a posteriori, con questi o quegli av venimenti precedenti, un avvenimento completamente di verso si sarebbe potuto ben spiegare, nelle stesse circo stanze, attraverso precedenti scelti in modo diverso - che dico? attraverso gli stessi precedenti scomposti, distribuiti, percepiti in modo diverso, infine, attraverso un esame retro spettivo?». Noi non ci accaniremo quindi a favore o contro l'analisi post eventum delle strutture causali nella popola zione degli studenti di Nanterre nell' aprile 1 968; nel maggio 1 968 o nel luglio 1 789, se i rivoluzionari, per qualche piccolo motivo, avessero inventato di infervorarsi per una nuova re ligiosità, noi troveremmo senz' altro, nella loro mentalità, la via per rendere questo atteggiamento comprensibile a poste riori. La cosa piu semplice è scomporre comodamente lo stesso avvenimento, piuttosto che le sue cause: se il maggio del 1 968 è un'esplosione di malcontento nei confronti del l'amministrazione (circondata, ahimè, da una farsa che, es sendo esagerata, non esiste veramente) , la vera spiegazione del maggio 1 968 starà sicuramente nella cattiva organizza zione amministrativa del sistema universitario dell'epoca. La seriosità richiede che, dopo Marx, noi ci raffiguriamo il divenire della storia e delle scienze come una successione 54
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di problemi che l'umanità si pone e risolve, mentre l'evi denza dei fatti dimostra che l'umanità, agitata o saggia che sia, non smette di dimenticare i problemi per pensare ad al tro, tanto che sarebbe meno realistico chiedersi: «Come fi nirà tutto questo?» piuttosto che: «Cosa vogliono ancora in ventare, questa volta?». Il fatto che vi sia creatività signi fica che la storia non si adatta a degli schemi: l'hitlerismo fu un'invenzione, nel senso che non si spiega attraverso l'e terna politica né attraverso i fattori di produzione: fu un incontro di piccole serie causali. La famosa idea che «i fatti non esistono» (queste parole sono di Nietzsche e non di Max Weber) non si riferisce alla metodologia della cono scenza storica né alla molteplicità delle interpretazioni del passato da parte dei diversi storici: essa descrive la strut tura della realtà fisica ed umana; ogni fatto (il rapporto di produzione, il «potere», il «bisogno religioso» o le esigenze del sociale) non gioca lo stesso ruolo o, piuttosto, non è la stessa cosa, passando da una situazione all'altra; deriva ruolo ed identità solo dalle circostanze. Del resto, se c'è qualche cosa di strabiliante, non sta tanto nella spiegazione degli avvenimenti storici quanto piuttosto nel vero e proprio verificarsi di simili avveni menti; la storia è complicata quanto creativa: cos'è questa capacità che possiedono gli uomini di attualizzare, per nulla e a proposito di nulla, quelle grandiose costruzioni che sono le opere e le prassi sociali e culturali, complesse e sorpren denti come le specie viventi, come se essi non sapessero cosa fare della loro energia? L'elasticità naturale, o volontà di potenza, spiega un pa radosso conosciuto sotto il nome di «effetto Tocqueville»: le rivoluzioni scoppiano quando un regime comincia ad es sere piu liberale. Le sommosse - non essendo come una pentola che, a forza di bollire, fa saltare il suo coperchio consistono, invece, in un leggero sollevamento del coper chio, sollevamento dovuto a qualche causa estranea che fa entrare la pentola in ebollizione, cosa che finisce per rove sciare il coperchio. Questa lunga parentesi ci porta al nocciolo del nostro tema: il fiorire del mito e delle sciocchezze di qualsiasi ge55
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nere cessa di essere misterioso, con tutta la sua arbitrarietà e la sua futilità, se la storia stessa è continuamente inven zione e non conduce la vita razionale di un piccolo bor ghese. Si ha l'abitudine di spiegare gli avvenimenti attra verso una causa che spinge qualche cosa che passivamente si muove in una direzione prevedibile («Guardie, obbedi temi! ») ma, dato che il futuro è imprevedibile, ci si rasse gna alla soluzione di compromesso di risolvere l'intelligibi lità con la contingenza: un sassolino può fermare o deviare l'oggetto in movimento, la guardia può non obbedire (e, se avesse obbedito, scrive Trockij , non ci sarebbe stata a Le ningrado la rivoluzione del febbraio 1 9 1 7) e la rivoluzione può non scoppiare (e, scrive Trockij , se vi fosse stato un sassolino nella vescica di Lenin, la rivoluzione dell'ottobre 1 9 1 7 non sarebbe scoppiata) . Sassi cosi piccoli, che non hanno né la dignità di schemi comprensibili né quella di screditare i suddetti schemi. Ma supponiamo che al posto di una causa, corretta dal caso, noi avessimo l'elasticità e un poligono con un numero indefinito di lati (poiché spesso il taglio dei lati sarà con dotto alla luce retrospettiva dell' avvenimento) . L'avveni mento prodotto è esso stesso attivo: occupa come un gas tutto Io spazio lasciato libero tra le cause, e Io occupa in vece di non occuparlo: la storia si prodiga per nulla e non viene incontro solo ai suoi bisogni. La possibilità di fare una previsione dipenderà dalla configurazione di ciascun poligono e sarà sempre limitata, dal momento che noi non saremo mai capaci di prendere in considerazione un nu mero in(de)finito di lati, ciascuno dei quali non è piu deter minante degli altri. Il dualismo della intelligibilità, corretta dall'approvazione della contingenza, scompare o piuttosto viene sostituito dalle contingenze con un significato diverso e, a dire il vero, piu ricco di quello del naso di Cleopatra: negazione di un primo motore della storia (quali il rapporto di produzione, il politico, il desiderio di potere) e afferma zione della molteplicità dei motori (noi diremmo piuttosto: la molteplicità di quegli ostacoli che sono i lati del poli gono) . Mille piccole cause prendono il posto di una intelli gibilità. Questa scompare anche perché un poligono non è 56
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uno schema: non c'è uno schema transtorico delle rivolu zioni o delle preferenze sociali in materia di letteratura o di cucina. Quindi ogni avvenimento assomiglia piu o meno ad una imprevedibile invenzione . Rendere esplicito questo av venimento sarà piu interessante che snocciolare le sue pic cole cause e sarà in ogni caso il compito preliminare . Infine, se tutto è storia e se ci sono tanti differenti poligoni quante rivoluzioni, di cosa potrebbero ancora parlare le scienze umane? Cosa potrebbero ancora insegnarci sul mito greco che la storia non ci abbia insegnato? Note 1 Sul possesso e la distribuzione del vero, cfr. il bellissimo libro di Marcel Detienne, Les Maitres de vérité dans la Grèce archai"que, Paris, Maspero, 1 967 (trad. it. I maestri d i verità nella Grecia arcaica, Bari, Laterza, 1 983); sulla distri buzione del sapere, cfr. Alfred Schutz, Collected Papers, coli. «Phaenomenolo gica», voli. XI e XV, vol. l, p. 1 4 : The social Distribution of Knowledge, e vol. 2 , p. 1 2 0 : The WelJ.Informed Citizen (trad. i t . Scritti sociologici, cit.); G . Deleuze, Différence et Répétition, Paris , PUF, 1 968, p. 203 (trad. it. Differenza e ripeti zione, Bologna, Il Mulino, 1 9 7 1 ) . I pensatori cristiani sono stati portati ad appro fondire questa idea, soprattutto S. Agostino; la chiesa non è una società basata sulla credenza? Il De utilitate credendi di S. Agostino spiega che noi crediamo so prattutto sulla parola, che c'è un commercio di conoscenze non ugualmente di stribuite e anche forzando la gente a credere si finisce per credere realmente: è il fondamento del dovere del persecutore e del tristemente celebre Compelle in trare. Bisogna fare il bene delle persone malgrado loro (le ineguaglianze del sa pere e del potere vanno insieme) e il sapere è un bene. Questa sociologia della fede si leggeva già presso Origene, Contro Celso, l , 9 - 1 0 e III, 38. Donde la dot trina della fede implicita: chi ha fiducia nella Chiesa si penserà che sappia tutto ciò che questa professa; problema: a cominciare da quale grado di ignoranza un cristiano fedele sarà solo cristiano di nome? Si ha la fede, se il solo articolo di fede che si conosca è che la Chiesa sa e ha ragione? Cfr. B. Groethuysen, Origi nes de l'esprit bourgeois en France: l'église et la bourgeoisie, Paris, Gallimard, 1 952, p. 12. Su tutto questo e su S . Agostino, cfr. G . E . Leibniz, Nouveaux Essais, IV, 20. Oltre alle sue conseguenze politiche e sociali, la distribuzione del sapere ha degli effetti sul sapere stesso (non si impara e non si inventa se non se ne ha il diritto socialmente riconosciuto: altrimenti si esita, si dubita di sé) . Quando non si ha il diritto di sapere e di interrogare, s'ignora sinceramente e si resta ciechi; anche Proust diceva: «non confessate mai». Le fonti e le prove del sapere sono esse stesse storiche. Per esempio, «se l'idea greca della verità è quella di una tesi vera perché non contraddittoria e verificabile, l'idea giudeo-cristiana di verità ri guarda la sincerità, l'assenza di frode o di duplicità nelle relazioni personali», R. Mehl, Traité de sociologie du protestantisme, Paris e Neuchitel, Delachaux e Nie stlé, 1 966, p. 76. Donde, suppongo, la strana conclusione del Quarto Vangelo, dove il gruppo di discepoli di San Giovanni dichiara: «Noi supponiamo che la sua testimonianza è veritiera», XXI , 24; se vi era là una testimonianza nel senso greco della parola (il testimone era là e ha visto la cosa con i suoi occhi), la frase
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Distribuzione sociale del sapere sarebbe assurda: come possono testimoniare della veridicità del racconto che fa San Giovanni sulla morte di C risto, dato che non era là? Ma i discepoli vogliono dire che hanno ben conosciuto Giovanni ed hanno riconosciuto in lui un cuore sincero e incapace di mentire. 2 Questa idea di cui si sa l'importanza presso S. Agostino, in particolare nella De utilitate credendi, si legge anche in Galeno, A Trasibu/o, 1 5 . ' Platone, Fedone, 85 C e 9 9 C D . 4 Aristofane, Pace, 832; cfr. Uccelli, 471 sq. 5 F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, scelta di frammenti po stumi 1 879- 1 8 8 1 , edizione italiana a cura di G. Colli e F. Masini, Milano, Adel phi, 1964, p. 258 § 547 : «l tiranni dello spirito . Oggi il cammino della scienza non è piu ostacolato dal fatto casuale che l'uomo vive per circa settant'anni, eventualità, questa, già troppo a lungo verificatasi. Una volta c'era chi voleva, in questo spazio di tempo, pervenire al termine della conoscenza, e i metodi cono scitivi venivano valutati secondo questo generale desiderio [ . . ] dato che tutto nel mondo pareva ordinato in vista dell'uomo, si pensava che anche la conoscibilità delle cose fosse ordinata su una misura temporale umana. Risolvere tutto d'un colpo, con una parola, era questo il segreto desiderio: si pensava al compito ricor rendo all'immagine del nodo gordiano o a quella dell'uovo di Colombo; non si dubitava sulla possibilità di giungere alla meta, anche nella conoscenza, alla ma niera di Alessandro o di Colombo e di liquidare tutti i problemi con una sola ri sposta [ . . ] si doveva innanzitutto trovare l'enigma e condensare il problema del mondo nella semplice forma dell'enigma [ . . ] uno stadio di sviluppo della vita umana . . . Risolvere tutto in un sol colpo, con una sola parola, questo era il desi derio segreto; ci si raffigurava questo compito sotto l'aspetto del nodo gordiano o dell'uovo di Colombo: non si dubitava che fosse possibile . . . liquidare tutte le domande con una sola risposta: cioè che si doveva risolvere un enigma». 6 Platone, Liside, 205 CD. 7 Senofane, frammento l. 8 Aristofane, Calabroni, 1 1 79; Erodoto, l, 60. 9 G . Le Bras, Etudes de sociologie religieuse, Paris, PUF, 1955, pp. 60, 62, 68, 75, 1 12, 1 99, 240, 249, 26 7 , 564, 583 (trad. it . Studi di socio/ogia religiosa, Milano, Feltrinelli, 1969 ) . Questa relazione di docilità nel campo del sapere (il campo simbolico di Bourdieu) ci sembra almeno tanto importante quanto il con tenuto ideologico della religione, piu facile da vedere, piu facile da attribuire a degli interessi sociali, ma anche piu equivoco. Per Proudhon, il culto cattolico in segnava il rispetto della gerarchia sociale, poiché, a messa, e ovunque dove le precedenze sono marcate, la pratica mette in rilievo la gerarchia sociale; senza dubbio, ma c'è nel Dictionnaire Phi/osophique di Voltaire una frase anticristiana nell'intenzione dell'autore che non lascia di essere curiosa: «un volgo grossolano e superstizioso . . . che andava ai templi per ozio e perché i piccoli sono uguali ai grandi (sub voce Idoles)». IO Aristofane, Cavalieri, 32, cfr. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Miinchen, Beck, 1952 2 , vol. I, p. 780. I l Polibio, VI, 56; per Flavio Giuseppe, Contro Apione, Mosè ha visto nella religione un mezzo per far rispettare la virtu (Il, 1 60) . Stesso legame utile della religione e della morale presso Platone, Leggi , 839 C e 838 BD. E presso Aristo tele, Metafisica, 1074 84. 12 Erodoto, Il, 42-4 5 , citato da M . Untersteiner, La Fisiologia del mito, Fi renze, La Nuova Italia, 1 972 2, p. 262 . .
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C apitolo quarto
Diversità sociale delle credenze e «balcanizzazione» dei cervelli
Non si sa ciò che non si ha il diritto di cercare di sapere (donde la sincera cecità di tanti mariti o genitori) e non si dubita di quello che credono gli altri se questi sono degni di rispetto: i rapporti tra le verità sono rapporti di forza. Da ciò nasce quella che si chiama malafede. Si distinguevano due domini: gli dei e gli eroi; dato che non si conosceva la favola o la funzione della finzione in generale ma si giudicavano i miti dal loro contenuto. La critica delle generazioni eroiche consisteva nel trasformare gli eroi in semplici uomini e nel rendere le loro generazioni simili a quelle che si chiamavano le generazioni umane, cioè alla storia dopo la guerra di Troia. Il primo passo di questa critica fu quello di eliminare dalla storia l'intervento visi bile degli dei. La stessa esistenza di questi dei non era asso lutamente messa in dubbio; ma, ai giorni nostri, gli dei vi vono quasi sempre invisibili agli uomini : non era cosi prima della guerra di Troia e tutto il meraviglioso di Omero non è altro che invenzione o ingenuità. Certamente esi steva una critica delle credenze religiose ma essa era molto diversa: alcuni pensatori negavano semplicemente e senza riserve o l'esistenza di qualche dio particolare o forse addi rittura di tutti gli dei nei quali si credeva; in compenso la stragrande maggioranza dei filosofi, e con loro le persone colte, criticavano meno gli dei di quanto non ricercassero una dottrina che non fosse indegna della maestà divina: la critica religiosa consisteva nel salvare l'idea degli dei, depu randola di tutte le superstizioni, e la critica dei miti eroici salvava gli eroi rendendoli cosi verosimili da sembrare semplici uomini. Le due critiche erano indipendenti e gli animi piu de voti sarebbero stati i primi ad eliminare dall'epoca detta «eroica» gli interventi puerili, i miracoli e le battaglie degli ·
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Divenità sociale delle credenze
dei che Omero racconta nell'Iliade; nessuno sognava di
«écraser l'infame» e di fare della critica degli eroi una mac
china da guerra o una guerriglia di allusioni contro la reli gione. Ecco il paradosso: c'era chi non credeva nell'esi stenza degli dei, ma mai nessuno che dubitasse di quella de gli eroi. E a ragione: gli eroi sono stati semplicemente uo mini, che la credulità ha rivestito di un che di meraviglioso, e come dubitare che gli esseri umani esistano e siano esi stiti? In compenso non tutti erano disposti a credere nell'e sistenza degli dei, poiché non li potevano vedere con i loro occhi. Ne risulta che, durante il periodo che prendiamo in considerazione e che si estende per circa un millennio dal quinto secolo avanti Cristo al quarto dopo Cristo, assoluta mente nessuno, cristiani compresi, ha avuto il minimo dub bio sulla storicità di Enea, di Romolo, di Teseo, di Eracle, di Achille e dello stesso Dioniso, o meglio, tutti hanno di chiarato la loro storicità. Preciseremo piu tardi i presuppo sti di questa lontana convinzione; vediamo prima quali greci credevano e a che cosa nel corso di questi nove secoli. Esisteva, a livello popolare, una pluralità di supersti zioni folcloristiche che talvolta si ritrovavano anche in quella che già era chiamata «mitologia». Nelle classi sociali colte questa mitologia era accettata con fede totale, come all'epoca di Pindaro: il grosso pubblico credeva all'esistenza dei Centauri, e non criticava minimamente la leggenda di Eracle o quella di Dioniso; l'ingenuità dei lettori della Le genda Aurea sarà la stessa per le stesse ragioni; essi crede ranno ai miracoli di San Nicola e alle leggende di Santa Ca terina (la «Minerva dei Papisti», come la chiameranno i protestanti) , per accondiscendenza alla parola di altri, per l'assenza di una sistematizzazione dell'esperienza quoti diana e per uno stato d'animo rispettoso e pio. Gli eruditi, infine, facevano la critica storica dei miti con il successo che conosciamo . Il risultato curioso, da un punto di vista sociologico, è questo: l'ingenuità del pubblico e la critica degli eruditi non si abbandonavano a dispute per il trionfo della ragione, né la prima era, da un punto di vista cultu rale, piu disprezzabile; ne risultava, nel campo dei rapporti di forza simbolici, una coesistenza pacifica che ogni indivi60
Diversità sociale delle credenze
duo, anche se apparteneva alla coterie degli eruditi, interio rizzava: ciò creava in costui, da un lato, semicredenze, esi tazioni, contraddizioni, e dall'altro, la possibilità di giocare su diversi tavoli. Ne deriva, in particolare, un uso «ideolo gico», o meglio retorico, della mitologia. Nel Satyricon di Petronio, un nuovo ricco racconta, nella sua ingenuità, di aver visto con i suoi occhi una Sibilla, magicamente miniaturizzata e chiusa in una bottiglia come si racconta di un genio delle Mille e una notte: nell' Atrabi liare di Menandro, un misantropo pagherebbe caro per pos sedere magici oggetti dell'eroe Perseo: il cappello che lo rendeva invisibile e la maschera di Medusa che gli permet teva di trasformare i seccatori in altrettante statue; egli non parla per metafora; crede a tutte queste cose mirabili. Nella stessa epoca, quegli eruditi che appartenevano ad una classe sociale elevata, e che erano scrittori celebri, come Plinio il Giovane, si domandavano se bisognasse credere ai fantasmi con la stessa serietà con cui se lo domanderanno gli inglesi contemporanei di Shakespeare. Non si può dubitare che i greci abbiano creduto alla loro mitologia per tutto il tempo in cui la loro nutrice o la loro madre la raccontavano loro; «Arianna 1 fu abbandonata mentre dormiva nell'isola di Dia dal perfido Teseo; la tua nutrice ha dovuto farti questo racconto, poiché le donne di questa condizione sono preparate su simili argomenti, e piangono apposta mentre raccontano; non ho bisogno per ciò bambino mio, di dirti che è Teseo ad essere portato via dalla nave e che è Dioniso che si · vede sulla riva . . ». Noi supporremo dunque che «la fede nei mitF è l' accettazione di avvenimenti non autentici ed inventati, come i miti rela tivi a Cronos, per esempio; in realtà tale ipotesi è condivisa da molti». Ma quali miti le nutrici raccontavano ai bambini? Parla vano loro degli dei sicuramente perché lo richiedeva la reli giosità e la superstizione; li spaventavano con spauracchi e Lamie; raccontavano, poiché piacevano a loro stesse, favole sentimentali, Arianna o Psiche, e piangevano. Ma esse inse gnavano loro i grandi cicli mitici, Tebe, Edipo, gli Argo nauti? I ragazzini e le ragazzine 3 non dovevano forse .
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Diversità
sociale delle credenze
aspettare di essere sotto la bacchetta del maestro per cono scere le grandi leggende? 4 Bisogna dire una parola su un testo celebre ma ancora poco studiato, il Discorso eroico di Filostrato; testo difficile, poiché la stilizzazione, la fantasia e l'ideologia nostalgica e patriottica, come accade nella Seconda Sofistica, si fondono con la realtà contemporanea. Filostrato ha conosciuto un povero contadino 5 che coltivava delle vigne vicino alla tomba dell'eroe Protesilao; il vignaiolo lascia incolta una parte delle sue terre (lui stesso le coltiva e le ha liberate dai suoi schiavi, che gli rendevano troppo poco) , perché queste terre sono state consacrate all'eroe dal proprietario prece dente, cui era apparso il fantasma di Protesilao. Questo fantasma continua ad apparire al nostro vignaiolo ed ai pae sani del vicinato, come anche i fantasmi degli Achei partiti con Protesilao per l'assedio di Troia: ogni tanto si vedono le loro ombre piumate agitarsi nella pianura. Lungi dal far paura, il fantasma dell'eroe è molto amato; dà consigli ai coltivatori, è presagio di pioggia e di bel tempo; la gente del paese indirizza voti a questo eroe, scrive confusamente la sua preghiera sulla statua 6 divenuta ormai informe che si erge sulla sua tomba, poiché Protesilao guarisce tutte le ma lattie. Favorisce anche le iniziative degli innamorati che ri cercano i favori di un adolescente; in compenso, è implaca bile verso gli adulteri, poiché possiede un senso morale . Come si vede, questa storia del culto degli eroi è anche una storia di fantasmi 7• Il seguito del dialogo consiste in una fantasia america, come piaceva allora, in cui il vignaiolo ri vela una quantità di dettagli sconosciuti sulla guerra di Troia e sui suoi eroi; egli apprende questi dettagli dal suo amico Protesilao in persona; questa parte del dialogo è la piu lunga e, secondo Filostrato, la piu importante. Si ha l'impressione che Filostrato abbia conosciuto l'esistenza di qualche superstizione contadina relativa a un vecchio san tuario rustico e che l'abbia messa in relazione con la mito logia, divenuta classica e scolastica; inoltre egli immerge i lettori, suoi compatrioti, in un ellenismo senza età, quello di Luciano o di Longo, nella Grecia eterna cosi cara al classicismo nazionalista del suo tempo, dove il patriottismo 62
Diversità soci4/e delle credenze
ellenico reagiva contro la dominazione romana. È certo che i contadini che gli sono serviti da modello non sapevano nulla della guerra di Troia; è facile a credersi che il loro culto ingenuo avesse per centro una vecchia tomba di Pro tesilao; ma cosa sapevano di piu sull'eroe cui continuavano a dare questo nome? Il popolo aveva le sue leggende in cui si parlava di certi miti; vi erano anche eroi come Eracle, di cui tutti conosce vano il nome e la natura, se non i particolari delle avven ture; altre leggende, del tutto classiche, erano conosciute attraverso canti 8• In ogni modo, la letteratura orale e l'ico nografia facevano conoscere a tutti l'esistenza ed il tipo di finzione di un mondo mitologico, di cui si conosceva il sa pore, anche se se ne ignoravano i dettagli. Questi dettagli erano conosciuti soltanto da chi aveva frequentato la scuola. Ma, in modo un po' diverso, non era sempre stato cosi? Si crede veramente che l'Atene classica sia stata una grande collettività civica con una sola anima, dove il teatro suggellava l'unione dei cuori ed il ceto medio sapeva tutto su Giocasta o sul ritorno degli Eraclidi? L'essenza di un mito non sta tanto nell'essere cono sciuto da tutti quanto nel fatto che se ne riconosca l'esi stenza e lo si ritenga degno di esistere ; dopotutto general mente non lo si conosceva. Nella Poetica 9 vi sono parole che vanno lontano; non siamo affatto tenuti, dice Aristo tele, a !imitarci ai miti consacrati quando scriviamo una tra gedia. Il pubblico ateniese conosceva globalmente l'esi stenza di un mondo mitico, al quale si ispiravano le trage die, ma ignorava i dettagli delle storie; non aveva nemmeno bisogno di conoscere i piu piccoli dettagli della leggenda di Edipo per seguire Antigone o i Fenici: il poeta tragico aveva cura di insegnare tutto al suo pubblico, come se avesse in ventato lui l'intreccio . Ma il poeta non si collocava al di so pra del suo pubblico poiché si presumeva che il mito fosse conosciuto; non ne sapeva piu degli altri, non faceva della letteratura erudita. Tutto cambia nell'epoca ellenistica; si pretende una let teratura erudita; non che essa venga destinata ad un'élite per la prima volta (Pindaro o Eschilo non erano proprio 63
Diversità sociale delle credenze
scrittori popolari) : ma essa esige dal suo pubblico uno sforzo culturale che mette da parte gli amatori; i miti fanno posto allora a quella che noi chiamiamo ancora mito logia e che sopravviverà fino al XVIII secolo. Il popolo continuava ad avere le sue storie e le sue superstizioni, ma la mitologia, diventata erudita, si allontanava da esso: pos sedeva ai suoi occhi il prestigio di una cultura di élite 1 0 , che dà prestigio a chi la possiede. All'epoca ellenistica, quando la letteratura è diventata un'attività specifica che autori e lettori coltivano per se stessa, la mitologia diventa una disciplina che ben presto si imparerà a scuola. Non sarà tuttavia una cosa morta, ma resta al contrario un elemento importante della cultura e continua a rappresentare un impegno per i letterati. Calli maco raccoglieva versioni rare delle grandi leggende e dei miti locali, non certo con frivolezza (non c'è niente di meno frivolo dell'alessandrinismo) , ma con un fervore da patriota; si è anche supposto che lui ed i suoi emuli percor ressero il mondo greco con il deliberato proposito di racco gliere tali leggende 1 1 • Quattro secoli dopo, Pausania ha percorso la Grecia ed ispezionato le biblioteche con la stessa passione. Diventata libresca, la mitologia continuava a svilupparsi, ma le pubblicazioni erano influenzate dalle preferenze del momento: la nuova letteratura leggendaria 12 di intrattenimento preferiva coltivare le metamorfosi ed i catasterismi, che saranno ancora coltivati al tempo di Ca tullo , della Ciris e di Ovidio. Infine, grazie agli studiosi di grammatica ed ai retori, la favola, scritta in manuali, cono scerà una codificazione che la semplificherà, conferirà ai suoi granc!i cicli una versione ufficiale e farà dimenticare le varianti. E questa versione popolare scolastica, destinata allo studio degli autori classici, che costituisce quella mito logia che si ritrova in Luciano; è la stessa che verrà inse gnata agli studenti dell'Europa classica. Rimaneva l'aspetto serio della questione: cosa pensare di tutti questi racconti? Abbiamo due scuole, che a torto si confondono sotto il termine troppo moderno di trattamento razionale del mito; da una parte gli ingenui, come Diodoro, ma anche Eve mero; dall'altra gli eruditi. 64
Diversità sociale delle creden:le
Esisteva in effetti un pubblico ingenuo ma colto, che esigeva un meraviglioso diverso; questo meraviglioso non doveva piu essere situato al di là del vero e del falso, in un passato senza età: volevano che fosse «scientifico», o piut tosto storico. Non si poteva piu credere infatti al meravi glioso alla vecchia maniera; la ragione non è, credo, l' Aufkliiru ng dei Sofisti, ma il successo del genere storico; per far presa ormai il mito dovrà passare per storia. Ciò darà a questa mistificazione l'apparenza ingannatrice di una razionalizzazione; da qui l'aspetto falsamente contrad dittorio di Timeo, uno dei grandi operatori del genere: Ti meo ha scritto una storia «piena di sogni, di prodigi, di storie incredibili, in una parola, di superstizioni grosso lane, e di racconti da comari 13»; lo stesso Timeo dà una in terpretazione razionale dei miti. Molti storici, scrive Diodoro 14, «hanno schivato come una difficoltà la storia dei tempi favolosi»; lui stesso cer cherà di colmare questa lacuna. Zeus fu un re, figlio di un certo Cronos, che regnò a sua volta su tutto l' Occidente; questo Zeus fu veramente maestro del mondo; non si con fonderà Zeus con uno dei suoi omonimi 1 5, che fu solo re di Creta ed ebbe dieci figli, chiamati Cureti. È lo stesso Diodoro 1 6 che prende per oro colato, cento pagine dopo, i viaggi immaginari di Evemero in isole meravigliose, una delle quali ebbe per re Urano, Cronos e Zeus, che furono consacrati a causa delle loro «evergesie», come lo provano le iscrizioni incise nella lingua di questo paese, e che noi abbiamo preso per dei. Evemero ha forse nascosto sotto forma di fantasia qualche tentativo di demistificazione religiosa o anche po litica? Non vuole invece fornire ai suoi lettori giustifica zioni moderne per credere al mito ed al meraviglioso? C 'era tanta indulgenza per i fabulatori. Non si dava grande importanza alle favole scritte dagli stessi storici, anche se essi non riconoscevano di aver fatto della mito grafia, poiché, dice Strabone 17, si sapeva che essi non ave vano avuto altra intenzione che divertire e sorprendere con un meraviglioso d'invenzione. Solo il meraviglioso del l' epoca ellenistica ha tinte razionaliste tanto che i moderni 65
Divmità sociale delle credenze
sono tentati di riconoscervi per sbaglio una lotta in nome della verità e dei lumi. In effetti vi erano lettori per cui esisteva l'esigenza di verità ed altri,per cui non esisteva. Un brano di Diodoro ce lo dimostra. E difficile, dice questo storico, raccontare la storia dei tempi mitici non fosse altro che per l'impreci sione della cronologia; questa imprecisione fa si che molti lettori non prendano sul serio 18 la storia mitica. Inoltre gli avvenimenti di quell'epoca remota sono troppo lontani ed inverosimili per poterei credere facilmente 1 9• Cosa fare? Le imprese di Eracle sono tanto gloriose quanto sovrumane; «o si passeranno sotto silenzio alcune di queste imprese glo riose e la gloria del Dio verrà diminuita, o si racconteranno tutte e non si sarà creduti. Molti lettori infatti esigono in giustamente nelle vecchie leggende lo stesso rigore degli av venimenti del nostro tempo; essi giudicano le prodezze e le contestano sulla base di una forza fisica che è quella attuale e si raffigurano la forza di Eracle sul modello della debo lezza degli uomini di oggi». Questi lettori, che erronea mente giudicano Eracle con il metro delle cose attuali, hanno anche il torto di pretendere che sulla scena le cose si svolgano come nella realtà, e questo significa mancare di ri spetto agli eroi: «Per quanto riguarda la storia leggendaria non si può pretendere rigorosamente la verità poiché tutto si svolge come a teatro: qui non crediamo all'esistenza dei Centauri mezzi-uomini e mezzi-animali, né a quella di un Gerione con tre corpi, ma non per questo apprezziamo di meno le favole di questo genere e nell' applaudirle rendiamo omaggio al Dio. Dato che Eracle ha trascorso la sua vita a rendere la terra abitabile, sarebbe scandaloso che gli uomini perdessero il ricordo del loro comune antenato e gli conte stas�ero la sua parte di merito». E un testo rivelatore, nel suo ingegnoso candore. Pos siamo scorgervi la coesistenza conflittuale dei due pro grammi di verità: l'uno critico e l'altro rispettoso 20• Il con flitto aveva portato i sostenitori di quest'ultimo dalla spon taneità alla fedeltà a sè stessi: essi avevano ormai delle «convinzioni» e ne esigevano il rispetto; il problema della verità passava in secondo piano : la mancanza di rispetto era 66
Diversità sociale delle credenze
scandalosa e ciò che era scandaloso era anche falso. Es sendo ciò che è buono anche vero, diventa vero solo ciò che è buono. Diodoro, che si vende al suo pubblico, tiene il piede in due staffe; arriva a vedere le cose dall'uno e dal l' altro punto di vista, a dare l'impressione ai benpensanti di conciliare il punto di vista dei critici con il loro e schierarsi cosi dalla parte dei benpensanti. Sembra essere in mala fede poiché mostra di credere nel rispetto come questi, usando il linguaggio critico degli altri. Ciò ci prova quanto meno che i credenti erano sempre numerosi: nella loro ver sione modernizzata Eracle e Dioniso non erano piu figure divine, ma dei che erano stati uomini o uomini divini ai quali l'umanità doveva la civilizzazione. Ed in effetti, pas sando da un'epoca all'altra, un avvenimento sensazionale 2 1 rivelò che la massa e l'élite continuavano a credere in que sto meraviglioso semidivino. Le testimonianze sono convergenti: la maggior parte del pubblico credeva alle leggende di Cronos, dice Sesto Empi rico; essa crede a quello che le tragedie raccontano su Pro meteo, Niobe e Teseo, scrivono Artemidoro e Pausania. Perché no? Anche gli eruditi credevano certamente a Te seo: la massa si limitava a non epurare il mito; come nell'e poca arcaica il passato dell'umanità era stato preceduto, ai suoi occhi, da un periodo meraviglioso, un mondo diverso. Reale per se stesso ed irreale in rapporto al nostro. Quando un personaggio di Plauto 22 , privo di risorse, dichiara: «Pre gherò Achille di darmi l'oro che ha ricevuto per il riscatto di Ettore», indica il mezzo piu fantastico di procurarsi l'oro. In questa cultura non si scorgeva nulla al di là di un orizzonte temporale molto ravvicinato: ci si chiedeva con Epicuro se il mondo fosse vecchio un millennio o due, non di piu, o ci si chiedeva con Aristotele e Platone se esso non fosse eterno, ma sconvolto da catastrofi periodiche, dopo ciascuna delle quali tutto ricominciava · come prima, il che riportava a pensare come Epicuro. Essendo cosi breve il ciclo di vita del nostro mondo, questo ha potuto raggiun gere evoluzioni considerevoli; l'epoca omerica, quella delle generazioni eroiche, costituiva l'Antichità agli occhi di que sta cultura antica. Quando Virgilio vuole descrivere Carta67
Diversità sociale delle credenze
gine arcaica, come doveva essere undici secoli prima, le at tribuisce un carattere omerico; niente di meno flaubertiano della città di Didone . . . Erodoto distingueva già le generazioni eroiche da quelle umane. Molto piu tardi, quando Cicerone vorrà bearsi in un sogno filosofico di immortalità, cui darà il carattere di un idillio nell'Elisio 2 3 , gli piacerà pensare che, in questo giar dino luminoso, la sua anima converserà con quella del saggio Ulisse o del sagace Sisifo; se la fantasticheria di Cicerone fosse stata meno fiabesca, si sarebbe piuttosto ripromesso di intrattenersi con delle figure storiche romane come Sci pione, Catone o Marcello, di cui rievoca il ricordo quattro pagine dopo. Un erudito della stessa epoca aveva chiarito di datticamente questi problemi: secondo Varrone 2 4 , da Deu calione al diluvio si estendeva l'età oscura; dal diluvio alla prima olimpiade (e qui la cronologia diventa certa) era l'età mitica, «cosi chiamata perché caratterizzata da molte fa vole>>; dalla prima olimpiade, nel 776 avanti Cristo, all'e poca di Varrone e di Cicerone, si estende l'età storica, i cui «avvenimenti sono riportati in alcuni libri di storia che si at tengono alla verità». Gli eruditi, è chiaro, non sono disposti a lasciarsi ingan nare; ma, primo paradosso, dubitano molto piu facilmente degli dei che degli eroi. Prendiamo come esempio Cicerone. Nella politica e nella morale è molto simile a Victor Cousin ed è capace di credere in ciò che piu conviene ai suoi interessi. Al contra rio, ha un temperamento freddo da un punto di vista reli gioso, ed è incapace di professare ciò che non crede affatto; chiunque abbia letto il suo trattato sulla natura degli dei sarà d'accordo nel pensare che egli non crede molto in que sti e non tenta neppure di far credere il contrario, per un calcolo di tipo politico. Egli fa capire che alla sua epoca, in quanto a religione, gli individui erano divisi come alla no stra epoca; Castore e Polluce erano realmente apparsi ad un certo Vatinio su una strada nelle vicinanze di Roma? Se ne discuteva tra devoti all'antica maniera e scettici 25 ; ci si di videva anche sulle leggende: secondo Cicerone, l'amicizia di Teseo e di Piritoo e la loro discesa agli Inferi erano 68
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un'invenzione, una fabula ficta. Risparmiamo dunque ai no stri lettori le considerazioni di rigore sull'interesse di classe della religione e della mitologia. Ora lo stesso Cicerone, che non crede all'apparizione di Castore e di suo fratello, né crede certamente all'esistenza stessa di Castore, e che non lo nasconde, ammette sicuramente la storicità di Enea e di Romolo; questa storicità infatti non è stata messa in dubbio che nel XIX secolo. Secondo paradosso, quasi tutto ciò che si racconta di questi personaggi non è che una favola inconsistente, ma il totale di questi zeri dà una somma positiva: Teseo è pro prio esistito . Nel suo De Legibus, Cicerone, fin dalla prima pagina, scherza piacevolmente sulla pretesa apparizione di Romolo dopo la sua morte e sui colloqui del buon re Numa con la ninfa Egeria: nel De re publica 26 non crede neanche che Romolo sia figlio del dio Marte, che avrebbe messo in cinta una vestale: una favola venerabile, ma comunque una favola; nello stesso modo non crede all'apoteosi del fonda tore di Roma: la divinizzazione postuma di Romolo non è che una leggenda buona per le età ingenue. Romolo non è neanche un personaggio storicamente autentico e ciò che la sua divinizzazione ha di curioso, secondo Cicerone, è pro prio il fatto di essere stata inventata in piena era storica, dato che si colloca dopo la settima olimpiade. Per quanto riguarda Romolo e Numa, Cicerone mette in dubbio tutto tranne la loro stessa esistenza. Piu precisamente abbiamo qui un terzo paradosso: talvolta gli eruditi sembrano molto scettici sulla leggenda nel suo insieme e la liquidano in po che parole, talvolta invece sembra siano tornati a credere, e questo ritorno alla credulità avviene ogni volta che, di fronte a qualche episodio della leggenda, si propongono di essere pensatori seri e responsabili. Malafede? No, piutto sto oscillazione tra due criteri di verità, uno dei quali era il rifiuto del meraviglioso e l' altro la persuasione che non fosse possibile mentire del tutto. La favola è vera o falsa? Essa è sospetta; da qui ha ori gine il loro cattivo umore: questi sono racconti da comari. Le differenti città, scrive un retore 27 , devono la loro origine o a qualche dio, o ad un eroe, o all'uomo che è stato loro fonda69
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tore; «di queste diverse eziologie, quelle divine ed eroiche sono leggendarie (mythodes) mentre quelle umane sono piu degne di fede». La parola mito ha cambiato valore dall'e poca arcaica; quando un autore non si prende la responsabi lità di un racconto e lo riporta in forma indiretta («un mito dice che . . . ») non pretende piu di rendere nota a tutti un'in formazione che vaga nell'aria: egli intende cavarsela con eleganza e lasciare che ognuno ne pensi ciò che vuole. «Mito» è diventata una parola con senso leggermente peg giorativo, che qualifica una tradizione sospetta. Un testo è decisivo: Isocrate 28 un giorno senti il bisogno di affer mare virtuosamente che una leggenda non trovava incre duli; «Zeus, egli scrive, generò Eracle e Tantalo, come di cono i miti e come tutti credono»; questo zelo inopportuno tradisce un senso di colpa. Non sapendo piu cosa pensare, lo storico Eforo decise di iniziare la sua storia con il rac conto del ritorno degli Eraclidi 29 e si rifiutò di risalire piu indietro; ai nostri occhi questo rappresentava ancora una grossa parte di passato leggenç ario: Eforo rifiutava i rac conti piu antichi perché falsi? E piu facile pensare che egli non avesse speranze di trame la verità, e preferisse aste nersi. In effetti gli dispiaceva dover rinunciare alla ten denza degli storici antichi di accettare in blocco tutte le tra dizioni come vulgata. Eforo si asterrà dall'approvare, ma sia lui che i suoi pari si asterranno comunque dal condannare; qui ha inizio il se condo movimento di cui parliamo: il ritorno alla credulità attraverso una critica metodica. C ' è un fondo di verità in ogni leggenda; di conseguenza, quando passano dal gene rale, che è sospetto, al particolare ed ai miti analizzati uno per uno, tornano ad essere prudenti. Dubitano dei miti presi in blocco, ma nessuno di loro ha negato un fondo di storicità ad ogni leggenda; quando non si tratta piu di ma nifestare il proprio dubbio globale, ma di pronunciare una sentenza su di un aspetto determinato e di impegnare la propria parola di erudito serio, lo storico ritorna a credere. Egli si impegna a sfrondare e salvare quel fondo di verità. Stiamo attenti: quando Cicerone, nel suo De re publica, o Tito Livio riconoscevano che gli avvenimenti «che hanno 70
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preceduto la fondazione di Roma» sono conosciuti unica mente perché «esaltati da leggende buone giusto per dei poeti e non trasmesse attraverso opere importanti non alte rate», essi non intuiscono quella che sarà la critica storica moderna, non sono sullo stesso piano di Beaufort, Niebuhr o Dumézil, non denunciano l'incertezza generale dei quat tro secoli che hanno seguito la fondazione, né denunciano l'assenza di un qualsiasi documento contemporaneo a que sto periodo : essi si lamentano semplicemente che i docu menti relativi ad un periodo ancora piu antico non siano certi; poiché questi documenti esistono: sono tradizioni, ma sospette. Non perché esse sono molto posteriori ai fatti ma perché sono contaminate da credulità. Ciò che Tito Livio o Cicerone rifiutano di condividere è la nascita divina di Ro molo o il miracolo della navi di Enea trasformate in ninfe. La conoscenza dei periodi leggendari sta derivando dunque da una modalità di sapere che a noi è del tutto abi tuale, ma che metteva a disagio gli antichi, quando si trat tava di storia: la critica, la conoscenza congetturale, l'ipo tesi scientifica, la congettura, l' eikasis, si sostituiscono alla fiducia nella tradizione . Il suo fondamento sarà questo: il passato è simile al presente. Questo era già stato il fonda mento su cui Tucidide, cercando di sapere piu della tradi zione, aveva basato la sua ricostruzione geniale ma perfet tamente falsa e gratuita dei primi tempi della Grecia. Dal momento che questo principio permetteva anche di sfrondare il mito della sua parte di meraviglioso, diventa possibile credere a tutte le leggende ed è quello che hanno fatto gli uomini piu grandi di questa epoca famosa. Aristo tele, per esempio, è padrone delle sue parole e, quando vuoi dire «si racconta che . . . » o «secondo ciò che si crede», lo dice; egli distingue il mito da ciò che non è mitico 30 • Or bene, l' abbiamo visto non dubitare della storicità di Teseo e dare una versione razionale del racconto del Minotauro H . Tucidide 32 , che come lui non dubitava della storicità di Mi nosse, credeva anche a quella di Elleno, antico re degli El leni, e ricostruf il vero ruolo politico che avevano avuto lti, Pandione, Procne e Filomene (i quali, secondo le leg gende, furono trasformati in uccelli) ; si rifiuta, in com71
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penso, di pronunciarsi sui Ciclopi e sui mostruosi Lestri goni: ognuno ne pensi quello che vuole o quello che ne di cono i poeti! H Infatti una cosa è credere che nel passato siano già esistiti dei re, un'altra cosa è credere che siano esistiti dei mostri come non ne esistono piu. Per il millen nio che seguirà, i principi della critica delle tradizioni erano stati determinati: li troviamo già in Platone 34 • Strabone può allora, da degno erudito, separare il vero dal falso; Dioniso ed Eracle sono esistiti, furono grandi viaggiatori e geografi, tanto che la leggenda vuole che essi abbiano percorso in trionfo la terra intera; Ulisse è esistito, ma non ha fatto tutti i viaggi che gli attribuisce Omero, il quale è ricorso a questo pretesto per poter fornire delle co noscenze geografiche utili al suo pubblico; per quanto ri guarda Giasone, la nave Argo, Eeta, «tutti sono d' accordo nel crederci» e fino a qui, «Omero è d' accordo con i dati storici»: l'invenzione comincia quando il poeta vuoi far cre dere che gli Argonauti abbiano raggiunto l'Oceano. Altri grandi viaggiatori sono Teseo e Piritoo: essi hanno esplo rato il mondo spingendosi tanto lontano che la leggenda li fa arrivare sino agli Inferi 3 5 • Gli spiriti non conformisti non ragionavano i n modo di verso da questo geografo stoico; per l'epicureo Lucrezio 36 , che aborriva le favole, le guerre di Troia e di Tebe non fanno sorgere alcun dubbio: sono i piu antichi avvenimenti conosciuti. Finiamo con il grande Polibio 37 • Quando si trova di fronte ad una versione ufficiale, la riporta senza commenti: «gli Achei hanno avuto come primo re un figlio di Oreste, Tisamene, che fu esiliato da Sparta al ritorno de gli Eraclidi»; quando riferisce un mito senza importanza, prende le sue distanze: quella casupola in un paese acheo «era stata costruita da Eracle, per quanto dicono i miti»; ma quando è coinvolta la sua responsabilità di storico, sot toppone i miti alla metodologia critica che si è dimostrata valida e può sostenere che «Eolo indicava la direzione da prendere nello stretto di Messina, là dove una doppia cor rente rende il passaggio difficile a causa del riflusso; si è poi raccontato che fosse il padrone dei venti, lo si è preso per il re dei venti; nello stesso modo Danao, che insegnò la tec72
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nica delle cisterne che si vedono ad Argo, o Atreo, che in segnò il movimento retrogrado del sole, sono stati descritti come re, dei, profeti». Oggetto di un'ingenua credulità, di un esitante scettici smo e di rischiose congetture, il mito è diventato qualcosa di cui non si parlava piu se non con mille precauzioni. Ma queste precauzioni erano molto calcolate. Quando raccon tano i dettagli di qualche leggenda, gli scrittori dell'epoca ellenistica e romana sembrano esitanti; spesso si rifiutano di pronunciarsi di persona; «si dice che . . . », scrivono, o «se condo il mito»; ma poi, nella frase dopo, accetteranno senza esitazioni un punto diverso della stessa leggenda. Questo alternarsi di audacia e di riservatezza non avviene a caso; esso segue tre regole: non pronunciarsi sul meravi glioso ed il soprannaturale, ammettere un fondo di storicità e declinare ogni responsabilità per quanto si riferisce ai det tagli. Basterà un esempio. Parlando della fuga di Pompeo verso Brindisi e Durazzo, dopo che Cesare aveva attraver sato il Rubicone, Appiano ricollega a questo avvenimento le origini della città di Durazzo, l'antica Dirrachia, sul mar Jonio. La città deve il suo nome a Dirraco, figlio di una principessa «e, si dice, di Poseidone»; questo Dirraco, af ferma Appiano, «ebbe come alleato Eracle» in una guerra che sostenne contro i principi suoi fratelli ed è per questo che l'eroe è onorato come un dio dalla gente del paese; que sti indigeni «dicono che, durante la battaglia, Eracle uccise per errore Jonio, proprio il figlio del suo alleato Dirraco, e che gettò il cadavere nel mare affinché quel mare prendesse il nome dello sventurato». Appiano crede ad Eracle ed alla guerra, non crede alla paternità di Poseidone e lascia agli abitanti del luogo la responsabilità di un aneddoto . Tra gli eruditi la credulità critica, per cosi dire, si al ternava ad uno scetticismo globale ed andava di pari passo con la credulità impulsiva dei meno eruditi; questi tre at teggiamenti non erano incompatibili tra loro e la credulità popolare non era culturalmente svalorizzata. Questa coesi stenza pacifica di credenze contraddittorie ebbe un effetto sociologicamente curioso: ogni individuo interiorizzava la contraddizione e pensava del mito cose inconciliabili, per lo 73
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meno agli occhi di una persona logica; l'individuo non sof friva delle proprie contraddizioni ma al contrario ognuna di esse serviva a scopi diversi. Prendiamo per esempio una mente filosofica di prim'or dine, il medico Galeno 3 8 • Crede o non crede alla realtà dei Centauri? Dipende. Quando si esprime da competente ed espone le sue teo rie personali, parla dei Centauri in termini che implicano che, sia per lui che per i suoi piu selezionati lettori, questi esseri meravigliosi non avevano nessuna esistenza; la medi cina, dice Galeno, insegna conoscenze basate sulla ragione o «Teoremi» e la prima condizione di un buon teorema è di poter essere comprensibile; «poiché, se il teoremi! non è ve rificabile, come questo: la bile del Centauro calma l'apoples sia, è inutile, poiché sfugge alla nostra percezione»; non ci sono Centauri, perlomeno nessuno ne ha mai visto uno. I Centauri appartenevano ad un bestiario meraviglioso, come quello del nostro Medio Evo, e si intuisce che la realtà di questo bestiario era oggetto di imbarazzo o di irritazione . Galeno trova puerile la serietà con cui gli Stoici scrutavano le finzioni poetiche cosi come il loro accanimento nel dare un senso allegorico a tutto ciò che i poeti raccontavano sugli dei; cosi facendo, aggiunge imitando Platone, si arriverà a «rettificare l'idea dei Centauri, delle Chimere, ed allora di lagherà la confusione sulle Gorgoni, su Pegaso e su altri es seri assurdi ed irreali di questo genere; se, senza credere alla loro realtà, si cerca di renderli verosimili, in nome di una saggezza un po' rustica, ci si darà molto da fare per niente». Se nessuno, ai tempi di Galeno, avesse preso alla lettera la leggenda dei Centauri, che necessità avrebbero avuto i filo sofi di parlarne seriamente e di renderli verosimili? Se nes suno ci avesse creduto, che necessità avrebbe avuto lo stesso Galeno di distinguere espressamente quelli che non ci crede vano? Anche Galeno, nel suo grande libro sulle finalità delle parti dell'organismo, si batte a lungo contro l'idea che pos sano esistere nature miste come i Centauri; sarebbero stato ridicolo farlo se non vi fosse stato chi credeva ai Centauri. Ma quando lo stesso Galeno non cerca piu di imporre le sue idee, ma piuttosto di trovare nuovi discepoli, sembra 74
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passare dalla parte dei credenti; riassumendo in cento pa gine tutta la sua medicina e deciso a fornire la migliore im magine di questa scienza, ce ne riporta l'origine elevata; i greci, dice, attribuiscono la scoperta delle diverse arti ai fi gli o ai familiari degli dei; Apollo ha insegnato la medicina a suo figlio Asclepio. Prima di lui, gli uomini avevano un'e sperienza limitata a qualche semplice rimedio «e in Grecia c'era, per esempio, tutto il sapere del centauro Chirone e degli eroi di cui divenne educatore». Questo ruolo storico assegnato ad un centauro sicura mente non è altro che linguaggio pomposo e convenzione: è certamente ciò che l' antichità diceva della retorica, e la re torica era l'arte di vincere, piti che di aver ragione; per vin cere, il che significa convincere, bisognava partire da ciò che pensava la gente piuttosto che contraddire i giuristi e dir loro che si sbagliavano in tutto e che dovevano cam biare la propria visione del mondo per assolvere l'accusato; Parigi val bene una messa, ed un discepolo in piti vale un centauro. Sarebbe però pretestuoso contrapporre la reto rica, come atteggiamento interessato, alla filosofia; non vo glio dire che la retorica non abbia una dignità filosofica: al contrario, ritengo che la filosofia e la verità sono interes sate; non è vero che gli intellettuali mentono quando sono interessati e che essi sono disinteressati quando dicono il vero. Galeno aveva tutto l'interesse a dire il vero sui Cen tauri, a negarne l'esistenza, quando il suo interesse si ba sava sulla vittoria delle sue idee personali a fianco dei suoi discepoli piuttosto che sul reclutamento di nuovi discepoli. A seconda del momento infatti i ricercatori adottano di versi obiettivi di battaglia e differenti strategie; questo vale per tutti noi, anche se prendiamo le nostre gelosie per sa crosanti sdegni e facciamo un ideale del nostro disinteressa mento scientifico ed etico, ed i nostri discepoli insieme a noi. Noi facciamo la guerra per quella che Jean-Claude Pas seron chiama la spartizione della simbolica bistecca e le no stre politiche sono diverse come quelle degli stati e dei par titi: conservare le proprie posizioni, organizzare un' alleanza di aiuto reciproco, un'alleanza di conquista, regnare senza governare, stabilire la Pax Romana, farsi un impero, divi75
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dere i propri domini, ricercare terre vergini, avere una dot trina di Monroe, organizzare una rete di public relations per controllare un gruppo di reciproco sostegno . . . Ma quando, come succede spesso, questa politica di idee ignora la propria natura, si interiorizza; è difficile, per esem pio, non credere un poco ai principi d'altri con cui si è costi tuita un'alleanza offensiva o difensiva. Si mettono le pro prie credenze in accordo con le proprie parole. Cosi si fini sce per non sapere piu ciò che si pensa veramente. Dunque, al momento in cui si appoggiava alla credenza popolare nei Centauri, Galeno, in assenza di cinismo, fu preso probabil mente da un vortice di vaniloquio nobile ed indulgente da non capire piu molto bene cosa pensare. Cosi ha origine questo modo esitante di credere, questa capacità di credere nello stesso tempo a verità incompatibili, che caratterizza i periodi di confusione intellettuale: la «balcanizzazione» del campo simbolico si riflette su ogni cervello. Questa confu sione corrisponde ad una politica di alleanza tra sette. Per ciò che riguarda il mito, i greci hanno vissuto mille anni in questo stato. A partire dal momento in cui si vuole convin cere e farsi accettare bisogna rispettare le idee degli altri, se questi sono forti, e bisogna un po' condividerle. Ora noi sappiamo che gli eruditi rispettavano le idee popolari sul mito e che essi stessi si dividevano tra due principi: il rifiuto del meraviglioso e la persuasione che le leggende avessero un fondo di verità; qui è la causa della loro confusione mentale. Aristotele o Polibio, cosi differenti di fronte alla fa vola, non hanno creduto alla storicità di Teseo o di Eolo, re dei venti, per conforrtrismo o per calcolo politico; non hanno neanche cercato di rifiutare i miti, ma soltanto di rettifi carli. Perché rettificarli? Perché non si può credere in qual cosa che attualmente non esiste. Ma allora perché non rifiu tarli in blocco? Poiché i greci non hanno mai ammesso che la leggenda potesse mentire del tutto; l'antica problematica del mito, si vedrà, è limitata da due dogmi che s'ignorano poi ché erano evidenti: nessuno puo mentire inizialmente o completamente poiché la conoscenza· non è che uno spec chio; e lo specchio si confonde con ciò che riflette cosi che il mezzo non si distingue dal messaggio. 76
Diversità sociale delle credenze Note 1 Filostrato, Immagini, l, 14, ( 1 5 ) , Arianna. Il tema della balia o della madre che raccontano favole risale a Platone, Repubblica, 3 78C e Leggi , 887D. Le balie raccontavano storie spaventose sulle Lamie o sui capelli del Sole, scrive Tertul liano, Ad Valentinianos, 3 . Per Platone, sono questi i racconti delle vecchie, Li side, 205D ; sono le Ani/es fabulae di cui parla Minucio Felice, XX, 4, che noi ab biamo dai nostri imperiti parentes XXIV, l . Nell'Eroica di Filostrato, il vignaiolo domanda all'autore: «Quando hai cominciato a trovare le favole incredibili?• e Filostrato o il suo portavoce, risponde: «Da molto tempo da quando ero adole scente; perché quando ero bambino, credevo a queste favole e la mia balia mi di vertiva con questi racconti, che accompagnava con una deliziosa canzone; alcune di queste favole, la facevano anche piangere; ma, diventato ragazzo, ho pensato che non bisognasse piu accettare alla leggera queste favole•, Heroikos, 136- 1 3 7 Kayser; p. 8, 3 d e Lannoy. Anche Quintiliano parla d i Ani/es /abulae (lnst. , l , 8, 19). Neii'Ippolito di Euripide, la balia compromette i dotti in questo caso: prima di riportare la favola di Semele, ella cita alcuni dotti che hanno letto dei libri ri guardo questa leggenda (45 1 ) . In un sorprendente epitaffio metrico di Chios (Kaibel, Epigrammata, 232) due vecchie «di una eccellente famiglia di Cos• rim piangono la luce: «Oh dolce Aurora, te per la quale abbiamo cantato alla luce della lampada, i miti dei semidei !». Può essere: in effetti, le canzoni che erano sulle bocche di tutti avevano per soggetto un mito: Orazio, Odi, l, 1 7 , 20. La bella Tindari canterà ad Orazio, nell'intimità, Penelopen vitramque Circen.
2 Sesto Empirico, Lineamenti di Pirromismo, l, 147.
' Dato che le bambine seguivano l'insegnamento del grammatico, ma si fer mavano prima di passare sotto la bacchetta del retore; aggiungo che le classi erano «miste•: bambine e bambini ascoltavano fianco a fianco il grammatico. Questo dettaglio, che sembra poco conosciuto, si legge presso Marziale, VIII, 3 , 15 e I X , 58, 2, e presso Sorano, Sulla malauia delle donne, cap. 92; cfr. Friedliin der, Siuengeschichte Roms, Leipzig, Hirzel, 1 9 1 9 9 , !, p. 409. La mitologia si im parava a scuola. 4 Sulle Lamie ed altri mangiabambini greci, cfr. soprattutto Strabone, l, 8, C. 19, in un capitolo del resto importante per lo studio degli atteggiamenti di fronte al mito. Su Amore e Psiche, O. Weinreich, Das Marchen von Amor und Psyche und Andere Volksmarchen im Altertum, nella nona edizione della Sittenge schichte Roms di Friedliinder, cit . , vol. IV, p. 89.
' Cosi povero che, sebbene non viva in autarchia, ignora l'uso della moneta e baratta il suo grano con un bue o una pecora, l, 129, 7 Kayser. Questo è plau sibile; cfr. J. Crawford in «]ournal of Roman Studies•, LX, 1970, sulla rarità delle scoperte monetarie nelle località non urbane. 6 Heroikos, IX, 1 4 1 , 6. Alle fonti del Cliturnno, i muri e le colonne del san tuario erano coperti da graffiti «che celebrano il Dio•, Plinio, Epistolario, VIII, 8 . Cfr. in Mitteis-Wilcken, Chrestomathie der Papyruskunde, Hildesheim, Olms, 1 963, una lettera di un certo Nearco (n. 1 1 7). Si conosce l'esistenza di simili graffiti di proscyneme in Egitto (per esempio, sulle pietre di un tempio, a T almis, A.D. Nock, Essays, Oxford, Clarendon Press, 1972, p. 358) . Il primo frammento dei Priapei (di cui si dispone anche di una copia epigrafica, Corpus inscriptionum latinarum, V, 2803 . . . a meno che non si tratti dell'originale) vi fa allusione: «Per poco che valgano i versi che seguono, che ho scritto a volontà sulle mura del tem pio, compiacciati di interpretarli in bene, te ne prego [o Priapo]•. 7 Sulla «disputa dei fantasmi• nel secondo secolo, cfr. Plinio, Epistolario, VII, 27; Luciano, Fi/opseude; Plutarco, Introduzione alla Vita di Dione.
77
Diversità sociale delle creden�e 8
Su queste canzoni, cfr. nota l, ad finem. Aggiungere Euripide, Ione, 507.
9
Aristotele, Poetica, IX, 8 . W . Jaeger, Paideia, Paris, Gallimard, 1 964, vol. I, p. 326. 1 0 È l'idea che si fa Trimalcione (Petronio, Satyricon, XXXIX, 3-4; XLVIII, 7 ; LII, 1-2). 1 1 E . Rohde, Der griechische Roman, Berlin, 1 876, pp . 24 e 99. 2 . 1 M Nilsson, Geschichte der griechischen Religjon, Miinchen, Beck, 1955 2, vol. II, p. 5 8 . 13
Polibio, X I I , 2 4 , 5 .
14 Diodoro, I , 3 . 1 5 Diodoro, III, 6 1 ; i libri I V e V I sono consacrati alle generazioni eroiche e divine della Grecia. La guerra di Troia figurava senza dubbio nel libro VII. Que sti primi libri di Diodoro, con il loro giro d'orizzonte geografico e l'enorme parte di mitico, danno un'idea di quello che furono i primi libri del Timeo. 1 6 Nel V, 4 1 -46, e nel frammento del VI libro conservato da Eusebio, Prepa ratio evangelica, Il, 59. H. Dorrie, Der Konigskult des Antiochos von Kommagene, in «Abhandlungen der Akademie Gottingen», III, 60 ( 1 964), p. 128, reputa che il romanzo di Evemero fosse un'utopia politica e uno specchio dei principi; dava il modello o la giustificazione del re Evergete. Può essere; comunque, la parte di meraviglioso e di pittoresco sorpassa di gran lunga quella delle allusioni politiche; del resto, tutta l'isola di Panchaia non obbediva ad un re: ci si trova anche una città, una specie di repubblica sacerdotale. Infatti, l'idea che gli dei sono degli uomini meritevoli che abbiamo divinizzato e che abbiamo preso per dei è dovun que e sorpassa largamente l'opera di Evemero, che si è limitato a prenderne una parte per scrivere un racconto. 17
Strabone, I, 2, 3 5 , p. 43C
18
Diodoro, IV, l, l .
.
l 9 Diodoro, IV, 8. Nella Preparatio evangelica, nel libro Il, Eusebio cita lun gamente le mitografie di Diodoro su Cadmo o Eracle. 2 0 Verso il 1 873, Nietzsche scriveva: «A quale libertà poetica non erano ahi· tuati i Greci con i loro dei ! Noi abbiamo preso troppo l'abitudine di paragonare la verità e la non-verità; quando si pensa che bisogna assolutamente che i miti cristiani si credano storicamente autentici! [ . ]. L'uomo esige la verità e l'ap· porta (Leistet sie) nel commercio etico con altri uomini; tutta la vita collettiva poggia qui sopra: si anticipano gli effetti nefasti delle menzogne reciproche; è da qui che nasce il dovere di dire il vero . Ma si permettono le menzogne al narra tore epico, dato che lf non c'è da temere nessuna conseguenza nociva; dunque la menzogna è permessa, là dove procura dell' approvaziope: bellezza e grazia della menzogna, ma a condizione che non faccia del male! E cosi che i sacerdoti inventano i miti dei loro dei : la menzogna serve a provare che gli dei sono su blimi. Noi abbiamo molte difficoltà a rivivere il sentimento mitico della libertà di mentire; i grandi filosofi greci vivevano ancora interamente con questo diritto alla menzogna (Berechtigung �ur Liige) . La ricerca della verità è un'acquisizione che l'umanità ha fatto con estrema lentezza». Philosophenbuch, 44 e 70, al vo lume X dell'edizione Kroner. . .
21 Dione Cassio, LXXIX, 1 8 , trovandosi in Asia, è stato nel 22 1 il piu vicino testimone dell'avvenimento che segue, al quale crede senza riserve: «un daimon che dice di essere il famoso Alessandro di Macedonia, che gli rassomigliava di faccia, ed era equipaggiato come lui, spuntò dalle regioni danubiane, dove era ap parso non so come; traversò la Mesia (?) e la Tracia, comportandosi come Dio78
Diversità sociale delle credenze niso, con quattrocento uomini, muniti del tirso e di un nebris, che non facevano del male a nessuno». La gente si prodigò, governatori e procuratori in testa; «Si trasportò [o: «gli si fece un corteo»] firio a Bisanzio, di giorno, cosi come l'a veva annunciato, poi lasciò questa città per Calcedonia; là compi un rito not turno, sotterrò un cavallo di legno e disparve». 22 Plauto, Mercator, 487, commentato da E . Fraenkel, Elementi Plautini in P/auto, Firenze, La Nuova Italia, 1 960, p. 74. 2 3 Cicerone, Tuscolanae, l, 4 1 , 98. 2 4 V arrone, citato da Censorino, De die Natali, 21 (Jahn, p. 62) . 2 5 Cicerone, De natura deorum, III, 5, 1 1 . Nell'Arte di amare, l, 637, Ovidio confessa che crede agli dei solo con esitazione e riserva, dr. Herman Friinkel, Ovid, ein Dichter zwischen zwei Welten, Darmstadt, Wiss . Buchg . , 1 974, p. 98 e n. 65 , p. 194. Filemone aveva scritto: «Abbi degli dei e professa per loro un culto, ma non ti chiedere nulla su di loro; la tua ricerca non ti porterà niente di piu; non voler sapere se esistono o no; adorali come se esistessero e come molto vicini a te», frammento 1 1 8 AB Kock, di S tobeo, Il, l, 5. Cfr. già Aristofane, Cavalieri, 32. Per l'amicizia di Teseo e di Piritoo come fabula ficta, cfr. il De fini bus, l, 20, 64. 26 Cicerone, De re publica, 2, 4 e lO, 1 8 . Si è creduto alla storicità di Romolo fino in pieno diciannovesimo secolo, ma per altre ragioni da quelle di Cicerone, come si vedrà: Cicerone crede a Romolo, fondatore di Roma perché il mito con tiene un nocciolo storico (non ci sono fumate senza fuoco) e che la storia è la po litica del passato; Bossuet crede a Romolo e a Ercole per rispetto ai testi, che di stingue male dalla realtà. 27 Menandro di Laodicea, Trattato sugli encomi (Rhetores Graeci, vol. III, p. 359, 9 Spengel). 2 8 Isocrate, Demonico, 50. 29 Diodoro, IV l , 2 . 30 Cfr. per esempio Politica, 1284A: <
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Polibio, II, 41, 4 ; IV, 59, 5 ; XXXIV , 4. Noi citeremo successivamente: Galeno, De optima secta ad Thrasybulum, 3 (Opere, vol. l, p. 1 1 0 Kiihn); De placitis Hippocratis et Platonis, III, 8 (V, 357 Kiihn; per l'espressione «ridurre la leggenda alla verosimiglianza», cfr. Platone, Fedra, 229E, che Galeno trascrive quasi letteralmente) ; De usu partium, III, l (III, 1 69 Kiihn; l, 123 Helmreich); lsagoge seu Medicus, l (XIV, p. 675 Kiihn) . l8
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Diversità sociale delle credenze Notare che Galeno cita qui Esculapio (Asclepio) con spirito retorico; ma, allo stesso tempo, aveva consacrato ad Esculapio una devozione personale (vol. XIX, p. 1 9 Kiihn) di cui l'esempio del suo contemporaneo e pari in devozione Elio Ari stide vieta di sospettare la sincerità; ciò che non impedisce a Galeno di farsi un'i dea smitologizzata sugli dei: come molti saggi pensava che il politeismo greco era la deformazione popolare della vera conoscenza degli dei, i quali, letteralmente, non sono altro che gli astri, le stelle, considerati come altrettanti esseri viventi, nel senso ordinario della parola, ma dotati di facoltà degli uomini; cfr. le sru pende pagine che questo anatomista ha scritto sulla perfezione di questi corpi di vini: De usu partium corporis humani, XVII, l (vol. IV, p. 358 ss. Kiihn; cfr. ibi dem, III, 10, vol. III, p. 238 Kiihn) .
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C apitolo quinto
Sotto questa sociologia un implicito programma di verità
I rapporti di forza, simbolici o meno, non sono delle co stanti; possiedono l'arbitrarietà delle forme analogiche, sen za dubbio, ma sono differenti: la loro apparente transtori cità è un'illusione analogica. La loro sociologia è inserita nei limiti di un programma arbitrario e storico. Criticare i miti non consisteva nel dimostrarne la fal sità, ma piuttosto nel ritrovarne il fondo di verità. Perché questa verità è stata ricoperta di menzogne. «Da sempre, innalzando un edificio di immaginaziòni su di un fonda mento di verità, si è portata la maggior parte delle persone a non credere ad avvenimenti che sono accaduti altre volte o che accadono ancora; coloro a cui piace ascoltare il rac conto dei miti sono anche portati ad aggiungere a questi le loro futilità; non raggiungono altro, in questo modo, se non negare quella verità che contaminano di menzogne» 1 • M� da dove vengono queste menzogne ed a cosa servono? E questo che i greci non si sono domandati, non avendo una menzogna nulla di positivo: è un non-essere, ed ecco tutto. Non si domandavano affatto perché alcuni avessero men tito, ma piuttosto perché gli altri vi avessero creduto; è solo con i moderni, da Fontenelle a Cassirer, a Bergson e Lévi Strauss, che il problema del mito diventa quello della sua genesi . Per i greci, questa genesi non creava difficoltà: nel loro intimo i miti sono autentiche tradizioni storiche; come si potrebbe infatti parlare di ciò che non esiste? Si può alte rare la verità, ma non si potrebbe parlare del nulla. I mo derni si domandano su questo punto se si può parlare per niente, senza avere un qualsiasi interesse a farlo; lo stesso Bergson, che ha dato tanto spazio all'idea della fabulazione gratuita 2 , mostrò dapprima come la fabulazione avesse all'i nizio una funzione vitale: solo che questa funzione spesso si guasta e gira a vuoto. Fontenelle fu senza dubbio il primo 81
Un
implicito programma di verità
ad affermarlo 3 : le leggende non hanno alcun nocciolo di ve rità e non sono neanche allegoriche. «Non cerchiamo dun que nelle favole qualcos'altro che non sia la storia degli er rori dell'animo umano». I greci cercavano una verità tra le menzogne ; si doman davano dove fosse l'errore: nell'innocenza, nell'ingenuit�, nell' euetheia 4 , questa, infatti, era la parola consacrata. E per innocenza che si crede a «ciò che di falso si aggiunge al fondo storico» 5 e queste falsità che si sono aggiunte al mito si chiamano myth6des 6 • L'innocenza è la vera responsabile delle menzogne: ci sarebbero meno fabulazioni, se vi fos sero meno ingenui 7• L' antiqua credulitas spiega come la maggior parte dei miti risalga ad epoche antiche 8 • Il mito è una coesistenza di avvenimenti veri e di leggende che si moltiplicano con il tempo: piu una tradizione è antica e piu il myth6des la ostruisce 9 e la rende meno credibile. Per i moderni, al contrario, il mito sarà piuttosto il reso conto di un grande avvenimento; da qui il suo aspetto leg gendario. Questo avvenimento è meno alterato da elementi occasionali di quanto non sia amplificato da un punto di vi sta epico; poiché l'animo popolare ingrandisce i grandi fatti nazionali e la leggenda ha per origine lo spirito dei popoli, che elabora fabulazioni per dire ciò che è veramente vero; ciò che è piu vero nelle leggende è proprio il meraviglioso: qui si esprime l'emozione dell'animo nazionale. A torto e a ragione antichi e moderni credono alla storicità della guerra di Troia, ma per ragioni opposte; noi vi crediamo per ciò che ha in sé di meraviglioso, gli antichi vi hanno creduto nonostante questo elemento meraviglioso. Per i greci la guerra di Troia è esistita poiché una guerra non ha niente di meraviglioso: se si toglie da Omero il meraviglioso resta una guerra come tante altre . Per i moderni, la guerra di Troia è vera per il meraviglioso di cui Omero la circonda: solo un avvenimento autentico, che ha commosso l'animo nazionale, può far nascere l'epopea e la leggenda. Una tradizione mitica, per i greci, è vera malgrado il meraviglioso; Origene lo spiega molto bene 10 : gli avveni menti storici non possono essere oggetto di dimostrazione anche quando sono autentici; per esempio sarebbe impossi82
Un implicito programma di verità
bile dimostrare che la guerra di Troia è veramente avve nuta, se qualcuno la negasse perché il racconto di tale guerra comporta cose inverosimili, come il fatto che Achille era figlio di una dea, che Enea era figlio di Afrodite e Sar pedone di Zeus; la dimostrazione sarebbe tanto piu difficile se noi fossimo ostacolati da «tutte le finzioni mitiche che sono inestricabilmente mescolate alla credenza secondo cui a Troia c'è realmente stata una guerra»; supponiamo an cora, continua Origene, che qualcuno «si rifiuti di credere a Edipo, Giocasta, Eteocle e Polinice, perché questa storia è associata a quella della Sfinge, mostro per metà uomo e per metà fiera; anche qui la dimostrazione sarebbe impossibile; si dirà altrettanto degli Epigoni, anche se la loro storia non comporta alcuna finzione, del ritorno degli Eraclidi, e di mille altre storie». I miti hanno dunque un fondo di verità e, se la storicità delle guerre di Troia e di Tebe, che tutto il mondo riconosceva, non è dimostrabile, è perché qualche avvenimento non può essere dimostrato. Ma allora, se il mito insieme al falso contiene del vero, la cosa piu urgente da fare non è un'analisi psicologica del l'elaborazione di queste fabulazioni, bensi imparare a guardarsi dal falso : la vittima è piu interessante del colpe vole; i greci hanno sempre pensato che le scienze umane fossero piu normative che descrittive, o meglio non hanno nemmeno pensato a fare una distinzione 1 1 : una scienza del mito, secondo loro, non dovrebbe proporsi di far compren dere l'errore, ma di insegnare a guardarsene . Invece di do mandarsi se il mito spiega il rito, se attraverso la sua strut tura rivela quella dello spirito umano, se vi è una fabula zione funzionale o divenuta folle, etc . , si istituirà piu util mente una «polizia del pensiero»: si denuncerà l'ingenuità umana e si separerà il buon grano dal loglio. E, dal momento che vi è la «polizia», è meno urgente comprendere i motivi del falsario piuttosto che identifi carlo. Chi è l'autore della mitologia? Chi ha inventato que sta massa di leggende inverosimili e , peggio ancora, inde centi, da cui i fanciulli traggono una falsa immagine degli dei? Chi ha attribuito agli dei una condotta indegna della loro santità? Ebbene, di ciò non si sapeva abbastanza: si 83
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ignorava il nome dell'inventore della mitologia; per cui, dato che era necessario un colpevole, lo si identificò in Omero, Esiodo ed altri poeti 1 2 , «poiché sono stati loro, senza dubbio, a consegnare agli uomini questi racconti menzogneri»: per lo meno essi hanno creato alcuni miti. E poi, chi ha inventato le menzogne se non · i professionisti dell'invenzione menzognera? Anche se queste invenzioni avessero un altro senso allegorico, sarebbero comunque pe ricolose sul piano pedagogico. Ecco perché Omero sarà cac ciato dalla città 13 ; Omero, è chiaro, non è qui il poeta che conosciamo: non è l'autore dell'Iliade, ma piuttosto il pre sunto autore di tutta la mitologia. Platone non regola i rap porti tra lo Stato e la letteratura, ma quelli tra lo Stato e la coscienza collettiva; la sua posizione non si comprende at traverso l'idea greca che ogni poeta crea dei miti, ma attra verso l'idea che tutti i miti sono stati creati dai poeti 14• Mi rivolgo ad un razionalista, ad uno piu che razionali sta: si può veramente credere che i poeti abbiano creato la mitologia per divertire? L'immaginazione può essere futile? Non basta dire, con Platone, che i miti possono essere edu cativi, se scelti bene : Strabone 15 ritiene che ogni mito ab bia uno scopo istruttivo e che il poeta non abbia scritto l' Odissea per divertire, ma per insegnare la geografia. Alla condanna razionalista dell'immaginario come falso, si con trappone l'apologia dell'immaginario come analogo ad una ragi�ne nascosta. Infatti non si potrebbe mentire. E dunque impossibile che un mito sia interamente mi tico. I greci hanno potuto criticare le favole nei particolari, ma non trascurarle. Il solo problema stava nel decidere se la mitologia fosse veritiera in parte o se lo fosse interamente. I viaggi di Ulisse sono un corso di geografia dove tutto è veritiero e la leggenda di Athena, che nasce dalla testa di Zeus, prova, secondo Crisippo, che le tecniche sono conte nute nella parola, la cui sede è la testa. Il mito è veritiero, ma in senso figurato; non è verità storica mista a menzo gna: è un alto insegnamento filosofico interamente vero, a condizione che invece di prenderlo alla lettera vi si veda un'allegoria. Due scuole, dunque: la critica delle leggende da parte degli storici e l'interpretazione allegorica delle leg84
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gende da parte della maggioranza dei filosofi, tra i quali gli stoici 16; ne deriverà l'esegesi allegorica della Bibbia, desti nata a quindici secoli di trionfo. La ragione dell' allegorismo stoico era la stessa dell' alle gorismo biblico: il testo considerato era ritenuto un'auten tica autorità; !Utto ciò che dicevano Omero o gli altri poeti faceva testo. E questo un aspetto del pensiero greco sul qua le è opportuno soffermarsi un momento. Per dimostrare qualche cosa o persuadere su qualche verità, un pensatore poteva procedere almeno in tre modi: sviluppare un ragiona mento ritenuto rigoroso, toccare l'animo dell' ascoltatore at traverso la retorica, riferirsi all' autorità di Omero o di un altro poeta antico. Gli stoici 17, scrive infastidito Galeno, sono estremamente dotati in materia di logica, ma, quando, si tratta di applicare questa logica a qualche specifico pro blema, essi non valgono piu niente e ricorrono al modo piu contorto di argomentare: riempiono il testo di citazioni di poeti e di testimonianze. Argomentazione rigorosa? Grande lettore degli Analitici secondi, Galeno 18 conosce come dimostrazione solo quella sillogistica (egli arriva a dire: geometrica) ; io non sono si curo che egli abbia mantenuto le sue promesse nel De usu partium, dove dimostra la finalità di ciascun organo del corpo umano attraverso l' analogia con le apparecchiature costruite dagli uomini. La pretesa di rigore e, al tempo stesso, di deduzione, secondo l'idéale aristotelico, si riduce generalmente ad un atteggiamento morale (si vuole essere sobrio, non si dirà qualsiasi cosa) ed ad un certo tipo di rap porto con gli altri: si distingueranno dimostrazione e per suasione e ci si rifiuterà di operare sulla sensibilità dei let tori, come fa la retorica. Certamente, l'arte della retorica forniva anche ai conferenzieri o ai predicatori dei discorsi tipo, dei modelli dialettici, dei luoghi, comuni o meno, che bastava sviluppare; la specificità della retorica consisteva anche nel rifiutare l' apparenza tecnica e la freddezza, prefe rendo persuadere attraverso un entusiasmo comunicativo, un fascino penetrante, movimenti travolgenti o talvolta con avvincente tensione nervosa. Questa arte da predicatori laici era riconosciuta come un tipo di persuasione perfetta85
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mente legittimo, o meglio il pubblico si divideva tra questo modo ed il precedente. Ma esisteva anche un terzo tipo di persuasione, per lo meno tra i fondatori dello stoicismo: appellarsi alla testimo nianza dei poeti ed in particolare di Omero. Galeno 19 è indi gnato nel vedere un Crisippo rinunciare così spesso alla di mostrazione scientifica preferendo moltiplicare le citazioni di Omero, nello stesso modo in cui gli oratori cercano di im pressionare i giudici chiamando alla sbarra il maggior numero possibile di testimoni. Così Crisippo volendo dimostrare che la ragione governante ha la sua sede nell'animo piuttosto che nel cervello, aveva riempito lunghe pagine di citazioni poetiche di questo genere: «Achille decise nel suo animo di sguainare la spada». Non so se si è riconosciuti la vera natura di questa dimostrazione attuata dagli stoici attraverso la poe sia; non sono stati loro a formulare questa teoria, a quanto pare, ma la loro pratica costituisce una teoria implicita. Il prestigio di Omero 20 come classico, o piuttosto come simbolo nazionale in cui si riconosce tutta la grecità, non c'entra molto, né c'entra il prestigio della poesia in generale: Crisippo non è Heidegger; oltre ad Omero egli citava molti altri poeti tra cui poeti tragici, dimenticando che i tragici fanno dire ai loro personaggi ciò che esige 2 1 il ruolo piuttosto che la verità. Oltre la poesia, Crisippo e tutti gli altri stoici ci tavano i miti ai quali avevano sistematicamente applicato un'interpretazione allegorica. Tuttavia non ritenevano che i miti e la poesia trasmettes sero una saggezza rivelata, dato che accadeva loro spesso di citare allo stesso titolo detti ed anche etimologie: il senso «etimologico» era secondo loro il senso «autentico», il senso «vero» (questo è il significato della parola etimo) ; essi non ve devano dunque nell'attività poetica un metodo privilegiato d'accesso alla verità. Cosa avevano in comune la poesia, i miti, le etimologie ed i proverbi? Era questa una dimostra zione basata sul consenso generale? No, dato che allora sa rebbe stata convincente anche la prosa, o semplicemente una frase uscita dalla bocca di un passante. Era basata sull ' anti chità di questa testimonianza? No, visto che anche Euripide era chiamato a sostegno. 86
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La spiegazione, penso, sta nel fatto che la poesia è sullo stesso piano del vocabolario, del mito e delle frasi idiomati che: lungi dal trarre la sua autorità dal genio del poeta, la poesia, nonostante il poeta esista, è una specie di parola senza autore; essa non ha un locutore, essa è ciò che «si dice»; essa dunque non può mentire, poiché solo un locutore lo potrebbe. La prosa ha un locutore, che dice il vero, op pure mente o si sbaglia; ma la poesia ha un autore quanto può averlo il vocabolario; essa assomiglia al mito, e la ragione profonda che faceva dire ai greci che per definizione un poeta raccontava miti, si fonda probabilmente, piu che sulla frequenza delle allusioni mitologiche nelle opere poetiche, sul fatto che mito e poesia traggono da se stessi la pro pria autorità; la verità veniva dalla bocca dei poeti cosl na turalmente come da quella dei bambini: essi si limitano a ri flettere le cose stesse. Essi esprimevano la verità in modo na turale, cosl come sgorgano le sorgenti, e non avrebbero po tuto riflettere ciò che non esiste; stando a ciò che si dice, sia per Crisippo che per Antistene, non si può parlare di ciò che non è 22 • La poesia è specchio spontaneo e veritiero, ed è pro prio perché essa riflette involontariamente che Crisippo non si stancava di accumulare le testimonianze dei poeti: se i poeti fossero stati, ai suoi occhi, pensatori riflessivi, che si assumevano la responsabilità di una dottrina, sarebbe ba stata una sola citazione, come gli fa notare Galeno; ma essi dicono la verità senza pensarci: C,risippo, sbalordito, non si stanca di dimostrare come le basi sui cui poggia la sua filoso fia lascino scaturire la verità da tutte le parti. Dato che gli stoici sono sicuri a priori che miti e poesia dicono il vero, non resta loro che tormentarli perché possano accordarsi con questa verità; l'allegoria sarà questo letto di Procuste. Essi non indietreggiavano di fronte a nulla. Un giorno fecero ve dere a Crisippo un quadro ove l' immaginazione lasciva dei ciceroni vedeva Hera mentre sottoponeva Zeus ad un piace vole trattamento che per decenza non si può nominare; Cri sippo riuscì a vederci un'allegoria della materia che assi mila la Ragione spermatica per la creazione del cosmo. Per il filosofo il mito era dunque un' allegoria di verità fi losofiche; per lo storico, era una leggera deformazione delle 87
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verità storiche. Detto per inciso sia l'una che l'altra ver sione si ritrovano in Platone, ma sorvoliamo su questo argo mento che farebbe indietreggiare i commentatori piu intre pidi; piu Platone crea i suoi miti, che sono approssimazioni dell'Idea, e più, come si è accennato prima, incontra sulla sua strada qualche mito storico greco e lo sottopone allo stesso genere di critica che facevano gli storici del suo tempo. Tuttavia in Platone l'allegoria filosofica, questa se miverità, corrispondeva nello stesso tempo alla partecipa zione della realtà sensibile alla verità delle Idee e, non di meno, all'impossibilità di una scienza di tale realtà. Come spiegano gli stoici che i poeti hanno detto il vero attraverso l'allegoria? Per nascondere e dimostrar� la verità in un enigma? Per qualche antica ingenuità? E possibile anche che tali pensatori non abbiano mai riflettuto su questa do manda: per i greci il mezzo sparisce dietro il messaggio. Allegorie o tradizioni appena alterate, i miti general mente erano creduti, tanto che, in piena Metafisica, Aristo tele 2 3, poco portato a sviluppare critiche facili, ritiene tut tavia opportuno discutere, con un tono di tagliente ironia, le leggende sull'ambrosia e il nettare, filtri d'immortalità. Anche coloro che diffidavano dei miti non osavano rifiu tarli del tutto: da ciò il loro imbarazzo; per questo, cosi spesso, sembra che essi credano solo a metà alle loro leg gende, o credano di crederci. . . Ma esistono anche modi parziali di credere? Non esitavano essi piuttosto di fronte a due programmi di verità? Non era la loro fede che era di visa, ma il mito che secondo loro era falsato, dato che pro veniva da due verità: una critica dell'inverosimile o dell'in degno che si applicava al contenuto, ed un razionalismo dell'immaginazione, secondo cui era possibile che il reci piente non contenesse nulla e che si possa immaginare a vuoto. Il mito, dunque, mescolava sempre il vero con il falso, la menzogna serviva ad ornare la verità 24 allo scopo di renderla più accettabile oppure esponeva la verità attra verso enigmi o allegorie, o ancora era arrivata a mescolarsi ad un fondo di verità. Ma inizialmente non si saprebbe mentire. Il mito trasmetterà sia un qualunque insegna mento utile, sia una dottrina fisica o teologica sotto il velo 88
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dell'allegoria 2\ sia il ricordo di avvenimenti del tempo pas sato. Come dice Plutarco 26 , la verità ed il mito stanno tra loro come il sole e l' arcobaleno, che trasforma la luce in una varietà di diversi colori. Ciò che ci interessa in questo discorso è il mito come tradizione storica. Infatti, non essendo stata mai messa in dubbio la forma mitica, la critica antica si è divisa sul con tenuto: dare un'immagine più rispettosa agli dei mitici, tra sformare gli eroi in personaggi storici. Le leggende, in ef fetti, riportano aneddoti o racconti relativi a grandi perso naggi dei tempi eroici; sono altrettante fonti per la storia e, del resto, che cos'è stata la storia se non la politica di altri tempi? Si dà dunque al mito un senso politico. I greci non saranno gli ultimi a farlo, lo farà ancora Machiavelli: Mosè, secondo lui, fu un principe che dovette conquistarsi il trono, e questo presuppone un merito molto superiore ri spetto a coloro che si sono limitati ad ereditarlo; egli condi videva tuttavia questo merito con Ciro, Romolo e Teseo, che conquistarono anche loro il potere, e «benché non si debba parlare di Mosè, poiché non fece altro che eseguire la volontà di Dio, tuttavia» si converrà che i suoi metodi «non sembrano molto differenti» da quelli degli altri prin cipi; «chi legge la Bibbia con buon senso vedrà che Mosè, per assicurare l'osservanza delle tavole della Legge, fu co stretto a far morire un'infinità di persone». Non c'è affatto bisogno della Bibbia perché Machiavelli dia questa versione politica di Mosè; gli sarebbe bastato leggere le Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, che infligge a Mosè lo stesso trattamento che Tucidide o Aristotele avevano inflitto a Teseo o Minasse 27• E probabilmente con la stessa intima convinzione che non ci si debba fare un'idea puerile dei principi: quella grande e sublime cosa che è chiamata poli tica non è fatta per gli ingenui. Ora niente è piu ingenuo della leggenda; essa vede i principi con gli occhi di un bam bino; troviamo solo amori con gli dei, imprese stravaganti, miracoli fatti per abbagliare le vecchiette. Come restituire al testo della storia piu antica 1&. sua serietà politica? Per fortuna ciò è possibile; poiché, se le puerilità inve rosimili sono evidentemente false, il falso, da parte sua, 89
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non è altro che verità deformata. È dunque possibile ripri stinare la versione reale della storia e si è visto come Poli bio o Aristotele abbiano ritrovato il senso originale di Eolo o del Minotauro; ma il correttore piu magistrale fu Palèfato. I suoi principi sono molto validi: a meno che non siano istruiti, gli uomini credono a tutto ciò che si rac conta loro, ma i saggi non credono a niente; e su questo punto hanno torto, dato che ciò di cui si parla è esistito (altrimenti come se ne potrebbe parlare?) ; soltanto, ci si atterrà con decisione alla regola secondo cui è possibile solo ciò che ancora oggi 28 esiste. Per passare dal mito alla storia basterà dunque rettifi care degli errori, che spesso sono semplicemente confusioni di parole. I Centauri di cui parlano i poeti sono impossi bili, poiché, se fossero esistiti degli esseri ibridi, ve ne sa rebbero ancora oggi; un attimo di riflessione permette di capire da dove ha avuto origine la leggenda; per poter uc cidere dei tori selvaggi, qualcuno inventò di montare a ca vallo e di trafiggerli con un giavellotto (Kento) . Dedalo non fabbricò nemmeno statue animate e mobili, ma fu ca ratterizzato da uno stile piu elastico e vivo di quello dei suoi rivali. Pelope non ebbe mai cavalli alati, ma aveva un vascello sul quale erano dipinti cavalli alati. Palèfato, no tate bene, non mette in dubbio neanche per un attimo la storicità di Dedalo, di Pelope e di Eolo (che egli dimostra come farà Polibio) . Egli ammette anche che in quei tempi lontani gli dei si univano agli uomini; Athena e Apollo hanno partecipato al supplizio di Marsia, ed Apollo ha realmente amato Giacinto, ma sarebbe puerile credere che questo dio abbia scritto il nome del suo innamorato sui pe tali di un fiore; la verità è che Apollo si è limitato a dare a questo fiore il nome del bell'adolescente. Si vede fino a che punto Palèfato spinge l'ottimismo razionalista; il testo della verità non è irrimediabilmente compromesso, ed a ragione: non si potrebbe mentire ex ni hilo, si può soltanto deformare la verità. Il pensiero di Pa lèfato cessa di essere incredibile quando si considera che è sostenuto da quest'idea cara ai greci, e dall'idea che il pro blema di ritrovare il testo. originale è definito in modo · ab90
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bastanza rigoroso, visto che l'errore è molteplice ed il buon senso è uno. E come ritrovare questo buon senso? Andando contro corrente. Esiste infatti una tendenza alla deformazione ne gli uomini, i quali passano sopra tutti gli ostacoli costituiti dalle relazioni delle cose con le loro parole; essi prendono una parola per una cosa, una parola per un' altra, un dipinto per la realtà, una cosa per un'idea. Si vede l'originalità di Palèfato di fronte alla critica dei miti, nel modo in cui ve niva fatta dopo Ecateo: secondo lui il mito non ha ricevuto aggiunte esterne ma ha subito alterazioni. Per questo Palè fato è il solo a lasciar sopravvivere l'intervento degli dei: non giudica il passato mitico secondo la realtà presente, in cui gli dei non intervengono piu, ma considera il mito in se stesso e lo trova falsificato da controsensi o da giochi di pa role involontari. Invece di togliere il soprannaturale, egli corregge le deformazioni semiologiche . Il mito è una copia del passato e questa copia è piu alte rata che interpolata. Palèfato non considera il mito come veicolo di storia, che trasmette il ricordo di re, di fonda tori, di signori del mare; o per lo meno i soli miti cui ap plica la sua critica sono aneddoti privati, semplici fatti di un tempo passato , che le deformazioni semiotiche hanno reso falsamente meravigliosi: un mito nasce da un gioco di parole. Palèfato cosi riduce la leggenda di Pandora (poco importa con quale risultato) ad un aneddoto di una ricca dama cui piaceva truccarsi. Fatti diversi, il cui ricordo si è conservato fino ai giorni nostri a causa del meraviglioso che vi si era appiccicato·. Ma siamo noi a dirlo: non erano i greci; essi non si sono mai domandati né come né perché le tradizioni fossero traman date. Queste erano H: non avevano bisogno di altre. I greci non si stupiscono · neanche per un momento che vi fosse riflesso un passato; essi raccolgono miti dappertutto. Come sono arrivate fino a loro queste meteoriti? Non ci pensano; essi non vedono il mezzo e percepiscono solo il messaggio. Non sono neanche meravigliati che il passato abbia lasciato un ricordo: va da sé che ogni cosa abbia il suo riflesso, come i corpi hanno la propria ombra. La spie91
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gazione del mito sta nella realtà storica che esso riflette, dato che una copia si spiega attraverso il suo modello. Essi non si domandano come i riflessi abbiano potuto attraver sare tanti secoli, per quali vie e con quali scopi. Allo stesso modo, nel Crati/o, le parole si spiegano con le cose cui si ri feriscono, il tempo si limita ad alterare le parole, e queste alterazioni non meritano assolutamente il nome di storia: esse non obbediscono a leggi fonetiche, sono casuali e non essenziali; non presentano regolarità e non hanno alcuno scopo. Non si penserà piu che il mito abbia potuto defor mare la verità per delle ragioni positive, come lo stupore o l'emozione nazionale: la causa delle sue alterazioni è solo negativa, consiste nella mancanza di senso critico. I greci non hanno mai avuto una scienza del mitò come tale, ma solamente una scienza della storia che veniva trasmessa da miti. Il modo in cui viene trasmesso infatti non conta; la pa rola è un semplice specchio; per parola i greci intendevano il mito, il lessico o piuttosto l'etimologia, la poesia, i pro verbi, in breve tutto ciò che «si dice» e parla da sé (dal mo mento che noi non facciamo altro che ripeterlo) . Ma allora come potrebbe la parola parlare di niente? Sappiamo quale grosso problema abbia costituito l'esistenza del nulla per la filosofia greca fino a Platone: è un'altra conseguenza di questo «discorso» dello specchio che abbiamo appena tro vato nel problema del mito. Per sbagliarsi, mentire o par lare a vuoto, bisogna parlare di ciò che non è; bisogna dun que che ciò che non è esista perché se ne possa parlare; ma che cos'è un nulla che non è nulla? Platone si decide a sal tare il fosso, ad uccidere «nostro padre Parmenide» e, con un colpo di forza grande come qu�llo con cui i matematici greci arrivarono ad accettare l'esistenza dei numeri non nu merabili (i famosi «irrazionali») , ammise che il non essere esiste. Noi ci stupiamo che lo sforzo sia stato cosf grande; ma se la parola è uno specchio, possiamo capire la diffi coltà: come potrebbe uno specchio riflettere un oggetto che non c'è? Riflettere ciò che non esiste equivale a non riflet tere; al contrario, se lo specchio riflette un oggetto, questo oggetto esiste; dunque il mito non sarebbe capace di parlare 92
Un implicito progamma di verità
di niente. Conclusioni: noi siamo sicuri che anche il mito piu ingenuo avrà un fondo di verità; e se ci domandiamo, con Palèfato, quale sia l'origine degli errori che vi si celano, constateremo che questi errori sono semplici sbagli di ripro duzione: l'originale era autentico, ma rifletrendolo, si è presa una parola per un' altra, una cosa per una parola, etc . . . Riflettere il nulla è non riflettere; riflettere la nebbia, sarà ugualmente riflettere in modo confuso: quando l' og getto è oscuro, anche lo specchio lo è. I livelli del sapere sa ranno dunque paralleli a quelli dell'essere; qui abbiamo tutto il platonismo. Il giovane Aristotele si arrovellerà an cora sul problema che segue: il principio secondo il quale tutto è mortale deve dunque essere esso stesso mortale, ma, se questo principio muore, allora le cose cessano di morire . . . Ciò che si dice delle cose condivide la sorte delle cose; una scienza del confuso sarà perciò essa stessa confusa, una po vera scienza basata su congetture. Al contrario, una scienza sarà nobile se le cose che essa riflette sono esse stesse ele vate. In materia di miti, scrive Platone, «[ . ] non rendiamo utile [la menzogna] quando nelle favole mitiche or ora ricor date foggiamo il falso quanto piu possibile simile al vero, ignoranti come siamo del vero svolgersi di quei fatti anti chi?» 29. Platone non fa dell'ironia; la falsità, lo sappiamo, non è altro che inesattezza e perciò noi correggiamo le tradi zioni inesatte per ritrovare ciò che ci sembra sia la verità; in termini moderni, noi formuliamo ipotesi storiche verosimili. Di fronte alla loro epoca mitica, i greci hanno avuto due at teggiamenti: l'ingenuità, che vuole credere per poterne su bire il fascino, e questo sobrio regime perennemente in so speso che si chiama ipotesi scientifica; ma non hanno mai raggiunto quella tranquilla sicurezza con cui, non appena ri torniamo al periodo propriamente storico, credono sulla pa rola agli storici, loro predecessori, che riproducono. Bene o male essi esprimevano lo stato di dubbio scientifico che con servavano di fronte al mito dicendo che l'epoca eroica era troppo lontana, troppo corrosa dal tempo, perché se ne po tessero distinguere i contorni con assoluta certezza 3 0 • . .
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Un implicito programma di verità Note l Pausania, VII, 2, 6-7.
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Sulla funzione fabulatrice, cfr. di Bergson, lo stupendo capitolo delle Deux sources de la morale et de la religion, Paris, PUF, 1932, pp. l l l , 124, 204 (trad. it. Le due fonti della morale e della religione, Milano, Comunità, 1 9796). 3 B . de Fontenelle, De l'origine des /ab/es, in Oeuvres diverses, Amsterdam, 1 742, pp. 48 1 -500. La concezione di Fontenelle resta del tutto originale e non rassomiglia né a Voltaire, né alle idee del ventesimo secolo: il mito, per lui, parla di niente e parla per niente. In Fontenelle, in effetti, il mito non nasconde nes suna verità, ma tuttavia la fabulazione non esiste; tutto si spiega per il fatale in contro di numerosi piccoli innocenti difetti: ignoranza, entusiasmo, gusto di ar· chitettare l'aneddoto, vanità dell'autore, lodevole curiosità, ecc. Non ci sono due campi, quello dei falsari e quello degli ingenui: tutti gli uomini sono le loro pro prie vittime. L'uomo è fatto di piccoli difetti: non ci sono delle grandi essenze. 4 La parola si sussegue da Erodoto, I, 60 e II, 45, a Strabone e a Pausania, IX, 3 1 , 7, VIII, 29, 3, e VIII, 8, 3. Si trova anche in Dionigi. 5 Strabone, l, l, 8, C. 6. 6 La parola si sussegue da Tucidide, l, 2 1 , a Strabone, citato nella nota pre cedente, a Plutarco e a Filostrato. Si aggiunge Isocrate, Panegirico, 28. In Me nandro di Laodicea, il MythOdes si oppone alla storia semplicemente umana, che è piu «credibile>>, Trattato sugli encomi, Rhetores Graeci, vol. III, p. 359, 9 Spen gel. 7 Cicerone, De re publica, II, 10, 1 8 : «minus eruditis hominum saeculis, ut fingendi proclivis esset ratio, cum imperiti facile ad credendum impellerentur». 8 Seneca, De constantia sapientis, II, 2 . 9 Tucidide, l , 2 1 , l . Contra lsocrate, Panegirico, 3 0 : piu numerose sono le persone che hanno affermato una tradizione attraverso i secoli, e piu questo con senso secolare prova la sua verità. IO Origene, Contro Celso, I , 42, Patrologia Graeca, Xl, 738. Origene ag giunge: «per essere giusti senza, tuttavia, lasciarsi ingannare, bisogna dunque leg gere i libri di storia distinguendo tra avvenimenti autentici, ai quali aderiamo, avvenimenti dove bisogna discernere un senso allegorico segreto, e che sono in senso figurato; infine avvenimenti non degni di credibilità che sono stati scritti per procurare qualche approvazione» (il testo è dubbioso; altri leggono: «che sono stati scritti per lusingare alcuni») . Sull'antico problema della storia e del l'empirismo, cfr. le notevoli pagine di Galeno, Trasibulo, capp. 1 4 - 1 5 (1, 149 Kiihn). Sulla storicità della guerra di Troia, noi condividiamo lo scetticismo di Finley, in «Journal of Hellenic Studies», 1 964, pp. 1-9. I l G. Granger, La Théorie aristotélicienne de la science, Paris, Armand Colin, 1976, p. 374. 1 2 Platone, Repubblica, 337D. 1 3 Repubblica, 3 78D e 382D. Sul senso figurato e allegorico, cfr. Origene, Contro Celso . Già Senofonte protestava contro le azioni indegne rivolte agli dei; cfr. anche lsocrate, Busiride, 3 8 . 14 Pedone, 6 1 B . Questi miti poetici possono dire i l vero (Fedro, 2 5 9 C-D; Leggi , 682A.) 1' Strabone, l , l , 10, C . 6-7; l , 2, 3 , C . 1 5 . Citiamo anche il testo sensazio nale della Metafisica di Aristotele, 1074, Libro XII (A) , 8, 1 074b, 1 : «da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato tramandato ai posteri sotto
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Un implicito programma di verità forme mitiche che questi corpi celesti sono dèi [ . ]. E le altre cose sono state ag giunte in tempi posteriori sempre in forma mitica per suscitar persuasione nelle masse e per indurle al rispetto delle leggi e delle comuni utilità; e cosf si dice che gli dèi hanno forma umana [ . . . ]. Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltanto la concezione originaria, [ . . ], si potrebbe reputare che gli antichi parlarono in modo divino e che, mentre verosimilmente ogni arte ed ogni filoso· fia si è piu volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo è andata perduta, quelle loro opinioni, invece, sono state conservate fino ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti soltanto ci riesce chiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensatori piu antichi». (trad. it. Bari, Laterza, 1 97 1 , p. 364). La religione astrale dei pensatori greci, per noi cosf sorpren· dente, è stata eccellentemente caratterizzata da P. Aubenque, Le Prob/ème de l'Etre chez Aristate, Paris, PUF, 1 962, pp. 3 3 5 s . . .
.
16 Aristotele apparteneva alla prima scuola e detestava l'allegoria: «[ . ] non è il caso di prendere in seria considerazione le mitiche sottigliezze», Metafisica, Li bro III (B) 4, 1 000 A, 19 (trad. it . Bari, Laterza, 1 9 7 1 , p. 74) . . .
1 7 Galeno, De p/acitis Hippocratis et P/atonis, nuto conto del contesto.
Il, 3
(vol.
V,
p.
225
Kiihn), te
1 8 De p/acitis, II, 3 (p. 222 Kiihn) , per gli Analitici Secondi; per il sillogismo e la logica di Crisippo (p. 224, Kiihn) dove Galeno contrappone la dimostrazione scientifica alla dialettica con le sue topiche, alla retorica con i suoi luoghi e alla sofistica con i suoi giochi di parole capziosi. Galeno si .ritiene lui stesso uno spi rito rigoroso, avido di apoditticità (De /ibris propriis, 1 1 ; vol. X I X , p. 3 9 Kiihn) e, in medicina, preferisce le «dimostrazioni grammiche», cioè geometriche, alle «pisteis retoriche» (De foetuum formatione, 6; vol. IV, p. 695 Kiihn); succedeva agli stessi retori di ricorrere alla dimostrazione scientifica (De praenotione ad Epi genem, l ; vol . XIV, p. 605). Nella distinzione che qui faccio fra rigore ed elo quenza, descrivo due atteggiamenti; non prendo piu nel senso antico e in tutta la loro precisione ciò che le scuole filosofiche chiamavano dimostrazione, dialettica e retorica; la retorica usava sillogismi o almeno entimemi; e la dimostrazione, sebbene inconsapevolmente, era spesso piu dialettica e retorica, piuttosto che di mostrativa, P. Hadot, Phi/osophie, dia/ectique, retorique dans l'Antiquité, in Stu dia philosophica, XXXIX ( 1 980), p. 1 4 5 . Noi studiamo qui piu gli atteggiamenti di fronte alla persuasione e alla verità che i metodi di persuasione; a questo ri guardo è interessante vedere Galeno rifiutare certi mezzi di persuasione; non vuoi credere senza prove, «come si crede alle leggi di Mosè e di Cristo» (De pu/ suum dilferentiis, vol. VIII , pp. 5 7 9 e 6 5 7 ) ; non meno interessante è vedere che presso gli stoici, «le condizioni oggettive della persuasione si confondono con una forte convinzione soggettiva» (E. Béhier, Crysippe et /'ancien Stoicisme, Paris, PUF, 1 9 5 1 , p. 6 3 ) . 19 De P/acitis, VI, 8 , vol. V , p. 5 8 3 Kiihn. Sulle citazioni di poeti celebri, da Omero a Euripide, che Crisippo aumentava, volendo dimostrare che I'Hegemo nikon risiedeva nell'anima e non nella testa, cfr. De P/acitis, III, 2 e 3 (p. 2 9 3 ) . Secondo Galeno, Crisippo s'immaginava che quanto più avesse citato poeti come testimoni, tanto più avrebbe dimostrato che è solo un comportamento da retore (III, 3, p. 3 1 0). Come potevano gli stoici giustificare questo ricorso alla poesia e ai miti come autorità? Come espressioni del senso comune? Senza dubbio è la ri sposta che avrebbero dato; ogni uomo trae delle informazioni di significato, delle nozioni comuni, ognuno crede nella realtà degli dei, nell'immortalità dell'anima ecc. , Bréhier, Crysippe, cit. , p. 65 . Oltre ai miti e alla poesia, l'etimologia delle parole era un'altra testimonianza di questo senso comune (sull'etymon, sia signifi cato originario sia significato vero di un vocabolo, cfr . Galeno, vol. V , pp. 227 e
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Un implicito programma di verità 295). I proverbi, i detti e i modi di dire facevano ugualmente prova. Ma, ancora qui, noi consideriamo meno ciò che gli stoici credevano di fare, piuttosto ciò che facevano a loro insaputa. In ogni caso, coesistevano in loro due idee: in tutti i tempi gli uomini hanno delle nozioni comuni che sono veritiere, da una parte, dall'altra, gli uomini hanno avuto alle origini una conoscenza della verità piu grande e piu divina degli uomini d'oggi; le due idee, che male si accordano, pro vano sia l'una che l'altra di giustificare tanto bene che male questa misteriosa au torità che gli stoici attribuivano alla parola mitica poetica ed etimologica. Sulla poesia quale detentrice del dono di dire il vero, vedere soprattutto Platone, Leggi , 682 A. La poesia è dunque ispirata e ogni testo, dunque, ispirato (per esempio quello di Platone) sarà assimilato con la poesia, anche se è in prosa (8 1 1 C). Se la poesia è assimilata con il mito, non è perché i poeti raccontano dei miti, ma perché mito e poesia sono entrambi inevitabilmente veri e, si può dire, d'ispi razione divina. Si capisce allora la vera ragione per la quale Epicuro condannava la poesia; non condannava il fatto di scrivere in versi piuttosto che in prosa, né, tanto meno, precisamente il contenuto mitico - e in tal modo, a suo parere, menzognero - di molti versi: egli condannava la poesia come autorità, come se dicente fonte di verità e la condannava allo stesso titolo e sullo stesso piano del mito. Condannava ugualmente un altro modo di sedicente persuasione della quale abbiamo pure già parlato: la retorica. 20 Questa superstizione su Omero e sulla poesia in generale meritava uno stu dio. Essa durerà fino alla fine dell' antichità; all'inizio del quinto secolo, gli animi si dividevano anche su Virgilio: alcuni lo ritenevano un semplice poeta, un autore di finzioni, .mentre altri vedevano in lui un pozzo di scienza, di cui il piu piccolo verso diceva il vero e che meritava di essere studiato fino nelle sue pieghe piu re condite; cfr. Macrobio, Satuma/i, I, 24 e III-V. Qui si tratta di un altro pro blema: quello dei supposti rapporti tra un testo e il suo referente. Sulla verità della poesia presso gli S toici le indicazioni di M. Pohlenz, Die Stoa, Gottingen, Vandenhoeck Ruprecht, 1978, vol. I, pp. 183 e 235, sono meno pertinenti del resto del libro. 2 1 Galeno, De placitis, V, 7 (vol. V, p. 490 Kiihn) . Su Crisippo, Omero e Ga leno, cfr . F. Buffière, Les mythes d 'Homère et la pensée grecque, Paris, Les Belles Lettres, 1956, p. 274. 22 P. Aubenque, Le Problème de /'Etre chez Aristate, cit . , p. 1 00 . 2 3 Aristotele, Metafisica, B 4 , 1000 A 1 2 . 2 4 S ul mito come lustro o come attrattiva per fare accettare l a verità, cfr. Lu crezio, l, 935; Aristotele, Metafisica, 1074 B l; Strabone, l, 6, 19, C. 27. Sull'i dea che inizialmente non si può mentire, cfr . P. Aybenque, Le Prob/ème de l'Etre chez Aristate, cit . , p. 72 e nota 3 . 2 5 Sul vasto argomento dell'interpretazione allegorica dei miti e prima di tutto di Omero, ci sarebbero tante cose da dire; solo dopo aver citato il libro di Pepin, Mythe et Allegorie, Paris, Les Belles Lettres, 1958, e ricordato che questa è diventata decisamente popolare ben prima degli stoici (Diodoro III, 62; inter pretazione fisica di Diodoro come fosse uva; cfr. Artemidoro, Dell'interpretazione dei sogni, II, 37, p. 169, 24 Pack e IV, 47, p. 274, 2 1 ) e che questa sboccherà sull'allegorismo biblico, ci si limiterà a citare Porfirio, le Allegorie Omeriche di Eraclito, il Compendio di teologia di Cornuto, e a rimandare a F. Cumont, Recherches sur le symbo/isme funéraire, Paris, Geuthner, 1 942, p. 2 s.; F. Buffière, Les Mythes d 'Homère et la pensée grecque, cit . ; P. Decharme, La Critique des traditions re/igieuses chez /es grecs, des origines à P/utarque, Paris, 1 905 .
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Un implicito programma di verità 26 Plutarco, De Iside, 20, p. 358 F]. Plotino approfondirà un'idea del tutto rassomigliante, Ennéadi, III, 5, 9, 24. 27 Machiavelli, Il principe, capitolo 61; Discorsi sopra la prima deca di Tito Li via, III, 30; cfr . anche il Contro Apione di Flavio Giuseppe, 157 ss. (notare al ca pitolo 1 60, l'idea che la religione è servita a Mosè per rendere il popolo docile). 28 Per Palèfato ho a disposizione solo up'edizione del 1689, negli Opuscola mythologica, physica et ethica, pubblicata ad Amsterdam da Th. Gale. Su Palè lato, cfr. W. Nestle, Vom Mythos zum Logos, Stuttgart, Metzler, 1 940, p. 1 49; K. E . Miille r, Geschichte der antiken Ethnographie, Wiesbaden, Steine, 1 980, vol. I, p. 2 1 8; F. Jacoby, Atthis, The Local Chronicles of Ancient Athens, Oxford, Ox ford University Press, 1 949, p. 324, nota 3 7 . 29 Platone Repubblica, I I , 3 8 2 d. 30 Plinio, Naturalis Historia, XI, 17, 1 : «reliqua vetustatis situ obruta»; Tuci dide, I, 2 1 , l; Diodoro, IV, l, l .
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C apitolo sesto
Come restituire al mito la verità delle sue origini
Per emendare il mito e farne una tradizione esclusiva mente storica sarà sufficiente eliminare tutto ciò che non ha un equivalente dimostrato nella nostra epoca storica; «
Il mito
e
la verità delle sue origini
quanto mi riguarda», scrive Pausania 4 , «io credo, in effetti, che un musicista sia stato re in quel paese; ma che un uomo fosse diventato uccello non è, secondo me, una cosa degna di fede». Non possono esistere dei mostri. Cosa dire di Cerbero? Sul Tenaro si mostrava la grotta attraverso cui Eracle riportò sulla terra il cane infernale; sfortunatamente, dice ancora Pausania, «non c'è, in fondo a questa grotta, una via che conduce sotto terra e non bisogna nemmeno credere che gli dei abbiano una specie di dimora dove par cheggiare le anime»; è Ecateo di Mileto in persona che ha trovato «una spiegazione verosimile»: il «cane» infernale era in realtà un gigantesco serpente, il cui veleno era mor tale, e che Eracle ammazzò 5 • Gli eruditi non credevano a mostri, ippocentauri, chimere e Scilla 6 , e Lucrezio 7 con fermò questo scetticismo avvalendosi della fisica epicurea. Ecco la ragione per cui nessuno credeva neanche alla Gi gantomachia; che gli dei abbiano dovuto combattere contro giganti dai piedi di serpente è una concezione indegna della loro grandezza ed impossibile da un punto di vista biologico 8. . Pausania è un nuovo Palèfato. Ma non solo questo; Omero, che mostrava gli dei mentre si univano agli uomini nell'epoca eroica, ammetteva tacitamente che essi avevano cessato di farlo in . seguito. Ma, dal momento che la storia di ieri assomiglia a quella di oggi, non l'avrebbero dovuto fare neanche nei tempi eroici. Un mito storico sarà un mito senza dei. Quando gli dei, gli uomini e le fiere si frequenta vano familiarmente era l'età dell'oro; ma da quando il mondo è diventato reale gli dei si nascondono e nessuna co municazione è più possibile 9 : «ahimè», conclude Pausania, «al giorno d'oggi, in cui la cattiveria è salita al livello che sappiamo, gli uomini non sono pio trasformati in dei, se non nella retorica che l'adulazione indirizza al sovrano» 10 • Da allora si poteva fare, insieme ad Artemidoro 1 1 , una specie di classificazione delle tradizioni mitiche a seconda della loro dignità culturale. Alcune tradizioni sono verosi mili, sia da un punto di vista storico che da un punto di vi sta naturale, tanto che sono ritenute vere; cosi le tradi zioni in cui intervengono gli dei ma che restano fisicamente 1 00
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la verità delle sue origini
credibili: «non sono vere, in fondo, ma sono ritenute vere
a
priori dalla massa», per esempio «i racconti su Prometeo,
Niobe e su diversi eroi delle tragedie». Al contrario, le leg gende che vanno contro natura, come «la Gigantomachia, i guerrieri nati dai denti del drago in Colchide ed a Tebe, ed altre leggende simili», non hanno «assolutamente alcun fon damento e sono piene di stupidaggini e di assurdità». Miti veri, verosimili, inverosimili; nella storia si accettano solo i primi, ma i secondi sono ammessi nella cultura generale: se ne possono trarre soggetti di tragedie e citarli come exempla retorici 12, come gli psicologi ed i filosofi moderni citano esempi tratti da romanzi; questi exempla, dicevano Quinti liano e Dione, sono, se non creduti, per lo meno accettati come argomenti. Se si sogna un mito falso ma verosimile, Artemidoro consiglia di interpretare il sogno nel senso giu sto; ma se si sogna un mito assurdo, le speranze che si nu trono saranno vane. È un dovere degli storici eliminare gli dei dal periodo mitico. Né Cicerone né Tito Livio credevano che Romolo avesse per padre Marte, e Pausania ,non crede che Orfeo abbia avuto una ninfa per madre 1 3 • E per questo che quel che noi chiamiamo «evemerismo» piaceva tanto ai pensatori di quel tempo; è impossibile credere al dio Eracle 14 , ma è storicamente giusto considerare Eracle, Dioniso ed i Dio scuri come grandi uomini che, per riconoscenza, sono stati considerati dei o figli di dei 15• Pausania, che è uno speciali sta di miti piu che uno storico propriamente detto, riporta senza batter ciglio la maggior parte delle leggende che sono state raccontate, ma talvolta si ribella ed esclude dai miti l'intervento degli dei; Atteone, si dice, fu dilaniato dai suoi cani, per volontà di Artemide, «ma io credo che, senza l'in tervento divino, i cani di Atteone abbiano preso la rabbia e l'abbiano dilaniato come avrebbero dilaniato il primo ve nuto» 16• Il nostro mitografo va dunque piu lontano del suo collega Palèfato. Dioniso non ha niente a che fare con la morte di Tritone, o di un tritone o di ·tritoni: è meglio cre dere ad un'altra versione della leggenda, che vede in Dio niso un'allegoria fisic a, e spiega che i pescatori di Tanagra hanno versato del vino nel mare per ubriacare un tritone 101
Il mito
e
la verità delle
sue
origini
che infestava la riva e per poterlo uccidere piu facilmente. I tritoni esistono infatti e Pausania ne ha incontrati: a Roma, il procuratore imperiale a mirabilibus gliene ha mostrato uno, i cui resti erano conservati nelle collezioni dell'impera tore 17• I criteri delle cose attuali, presi come metro di giudizio universale, costituiscono un principio giusto ma delicato da utilizzare; Pausania dubita di molte cose ma non dei tri toni, egli non dubita nemmeno degli uccelli del lago Sti� falo, poiché in Arabia 18 se ne vedono ancora. Non bisogna, in effetti, misurare le cose attuali con il metro delle nostre conoscenze 1 9 ; un certo Cleone di Magnesia del Sipilo, au tore dei Paradoxa, aveva fatto notare che coloro che non hanno visto niente negano a torto certe cose strane 20 e Pau sania ammette che, quando si fa un sacrificio a Eteocle ed a Polinice, la fiamma che sale dall'altare consacrato ai fratelli nemici si divide miracolosamente in due parti; poiché que sta meraviglia rientra nella serie e Pausania l'ha vista con i suoi occhi 2 1 • Il problema sta dunque nel conoscere le fron tiere della realtà; dobbiamo credere che Aristomene, il campione dei Messeni contro Sparta, abbia partecipato dopo la sua morte alla battaglia di Leuttra? Se i caldei, gli indiani e Platone hanno ragione nell'affermare che l'anima è immortale, diventa difficile rifiutare questo mito 22• Non si risponda che l'anima può essere immortale e che il mito di cui parliamo possa comunque essere un'invenzione; si presume che ogni mito sia vero e spetta al critico provarne la falsità, poiché la verità è piu naturale della menzogna; i nostri filologi continuano a ripetere, con una logica un po' confus"a, che il testo dei manoscritti deve essere considerato vero, finché non risulti insostenibile. Non è dunque edificante la storia che noi qui raccon tiamo, quella della ragione contro il mito. La ragione infatti non ha vinto, come vedremo (il problema del mito è stato dimenticato piu che risolto), non combatteva per una giusta causa (il principio delle cose attuali fu il rifugio di tutti i pregiudizi: Epicuro e Agostino negavano nel suo nome l'e sistenza degli antipodi) e poi non era la ragione a batter si ma solo un programma di verità i cui presupposti sono 1 02
Il mito
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14 verità delle sue origini
tanto estranei che ci sfuggono, o ci sbalordiscono quando li comprendiamo. Per quanto riguarda il vero, il falso, il mito, la superstizione, non abbiamo mai una visione completa, una certezza, un index sui. Tucidide credeva negli oracoli 2', Aristotele nella divinazione attraverso i sogni, Pausania ob bediva alle sue visioni 24 • Una volta corrette le inesattezze della tradizione si ot tengono fatti autentici. La letteratura mitologica, orale o scritta, con i suoi innumerevoli autori, conosciuti o scono sciuti, e con le sue molteplici varianti, dovrà ormai fare concorrenza allo stato civile: dovrà possedere la coerenza cronologica, prosopografica e biografica della storia. Dun que, se ad Atene esiste una tomba di Edipo, bisognerà che questo dato coincida con il resto: «a prezzo di lunghe ricer che, ho scoperto che le spoglie di Edipo erano state traspor tate da Tebe ad Atene, perché Omero», secondo cui Edipo era morto e sepolto a Tebe, <<m'impediva di credere ciò che Sofocle dice della morte di Edipo» 2 5 • Il tempo mitico non possedeva né profondità, né mi sura 26; come se ci si domandasse se le avventure di Polli cino si fossero svolte prima o dopo quelle di Cenerentola. Tuttavia gli eroi, questi nobili personaggi, avevano un al bero genealogico; accadeva anche che una predizione po tesse annunciare ad un eroe che le sventure della sua fami glia avrebbero coinvolto anche cinque o dieci generazioni dopo di lui 27 • I mitografi potrebbero perciò stabilire molto facilmente una cronologia delle generazioni mitiche; si cessò cosi di essere ridotti a dire: «C 'era una volta un re ed una ninfa», fu possibile trionfare su coloro che dubita vano delle leggende, in quanto queste non presupponevano una cronologia 2 8 , e grazie ai sincronismi 29 fu possibile di stinguere le false leggende da quelle vere; già lsocrate potè riscattare Busiride dalle calunnie di un oratore, provando che Busiride era anteriore di sei secoli a quell'Eracle che si pretendeva l' avrebbe punita per alcuni crimini '0• La «pro sopografia» divenne ugualmente coerente; vennero esami nate e discusse alcune omonimie (Pausania stabilì che quel Telamone, la cui tomba si vede a Peneo, non è il padre di Aiace, ma uno sconosciuto omonimo) H. Fu anche neces103
Il mito
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la verità delle
sue
origini
sario dare unità ad alcuni -avvenimenti. Poiché la piu antica vittoria olimpica di cui si fosse conservato il ricordo risaliva al 776 a.C . , si era giunti alla conclusione che questa data fosse anche quella della fondazione della manifestazione; ma, poiché si sapeva che Apollo aveva vinto Hermes ed Ares ad Olimpia, era stato necessario immaginare che una prima olimpiade fosse stata istituita in tempi molto antichi, sospesa per un certo tempo e ripresa nel 7 76 a . C . Inven zione di qualche storico alla maniera di D�odoro, o di qual che filologo, per cui i testi rappresentano la stessa realtà; Strabone e Pausania, da parte loro, non vi credono affatto 32, essi si fanno degli dei una concezione meno pue rile. È comunque significativa questa ossessione di una cro nologia rigorosa. Le leggi storiche pretendevano e preten dono che si riferiscano i fatti dando loro una data, se è pos sibile un giorno preciso. Perché questa precisione spesso inutile? Perché la cronologia è l'occhio della storia e per mette di verificare o rifiutare certe ipotesi? E vero che essa lo permette, ma non è per questo che le si attribuisce tanto valore; la cronologia, come anche la geografia e la prosopo grafia, è autosufficiente, in un programma di verità in cui si conosce il tempo e lo spazio, quando è possibile sis!emare il loro contenuto, uomini, avvenimenti e luoghi. E la piu chiara concezione della storia; quando uno è capace di ap prezzare un dipinto è un esteta, ma, se è in grado di stabi lirne la data, è uno storico dell'arte: conosce da che cosa è fatto il passato della pittura. I greci fecero dunque una cro nologia storica delle genealogie eroiche ed il tempo mitico, diventato omogeneo al nostro, lo precedette fino alla fati dica data del 1200 a . C . circa, in cui vi fu la guerra di Troia e da dove comincia la storia propriamente umana 33• Cosa bisognava sapere per conoscere la storia delle epo che eroiche? Le genealogie; la fondazione di Patrasso, per prendere questo esempio tra cento, fu l'opera di Patreo, fi glio di Preugene e nipote di Agenore, ed egli dette il suo nome alla città; questo Agenore aveva avuto per padre Areo, figlio di Ampide lui stesso figlio di Pella, figlio di Eginete, figlio di Derite, figlio di Arpalo, figlio di Amide, 1 04
Il
mito
e
la verità delle sue origini
figlio di Lacedemone 34 • Conoscere completamente il pas sato si riduceva a conoscere la lista completa dei re o degli archetipi senza ignorare i legami di parentela che li uni vano: si possedeva allora una trama dei tempi. Poeti e sto rici locali tessero dovunque questa trama: il mito, che si considera senza autore e che si confonde con la verità, fu reinterpretato come ricordo storico o religioso che si sa rebbe trasmesso di generazione in generazione avendo ori gine da testimonianze oculari. Se si volevano conoscere le origini di una città, era necessario interrogare la gente del luogo; il grammatico Apione, che voleva sapere quale tipo di gioco giocassero i pretendenti di Penelope, seduti da vanti alla porta del Megaron, con dei gettoni in" mano, lo do mandò ad un abitante di ltaca 35 • Pausania non agf diver samente: visitò la Grecia, di città in città, e, in ogni luogo, si rivolgeva a quei notabili che erano interessati alle origini locali e che spesso possedevano una copia di uno storico poco conosciuto; l'insieme di questi eruditi e questi Jibri rappresenta ciò che Pausania chiama gli «esegeti dell'anti chità», in cui a torto si son voluti vedere «ciceroni» o sacre stanP 6 . Il piu delle volte Pausania non ci dice il loro nome: lo storico antico, lo sappiamo, non mette mai note a piè di pagina . . . Ma perché questa trama dei tempi era infarcita di ge nealogie? Perché i miti raccontavano le biografie degli eroi, dei re e degli archetipi; questa vecchia letteratura orale par lava solo di origini, di fondazioni, di imprese belliche, di drammi di famiglia, i cui protagonisti erano di origini prin cipesche. Abbiamo visto che gli archetipi, Elleno, Pelasgo, furono considerati come antichi re, da quando il mito stesso fu interpretato come tradizione storica; la storia della città divenne quella della sua famiglia reale; anche gli eroi erano personalità principesche. Se ne conclude che «dovunque in Grecia un tempo ci sono stati re e non città libere» 3 7 • Anche alla patetica letteratura mitica dei drammi familiari fu data questa veste di storia seria; la storia ar caica dell' Acaia 38 era piena di · rivolte di palazzo come quella dei Seleucidi o dei Lagidi; sotto la penna di Pausania la guerra dei Sette contro Tebe diventa una specie di 1 05
Il mito e itJ verità delle sue
origini
guerra del Peloponneso e «la piu mirabile di tutte quelle che i greci fecero tra di loro, durante il periodo eroico», come scrive il nostro autore imitando candidamente Tucidide 3 9 ; sia Argo che Tebe avevano città loro alleat e in tutta l'Ellade; il conflitto comportò diversi periodi, assedi, guerra di movi mento, battaglie decisive. Cosi si è costituita, durante il periodo ellenistico e ro mano, questa imponente storiografia locale, studiata in modo eccellente dal nostro maestro Louis Robert, che dava ad ogni città le sue origini, i suoi antenati, il che permetteva agli uomini politici di appellarsi a leggendarie parentele tra città per fondare un'alleanza o per richiedere favori, grandi o piccoli; questi legami erano spesso inattendibili: tra Lanuvio e Centuripé , Sparta e Gerusalemme, Roma e Troia 40 • È , si può dire, una storiografia di mistificatori, dove tutto è inven · tato a partire dagli elementi irrilevanti o dall'immaginazione dell'autore; i tempi moderni, fino ad un'epoca molto recente, hanno avuto una storiografia dinastica o regionale che era ugualmente immaginaria 4 1 • Non dobbiamo vedere in questa ideologia delle origini un tormento metafisico; non si tratta di una ricerca male orien tata che cerca nel passato la concretezza di una base. L'ezio logia era semplicemente un bisogno di identità politica. Ciò che appare strano, in effetti, in questa storiografia locale, è il fatto che si limitava alle origini: non raccontava la vita della città, i ricordi collettivi, i momenti salienti. Ba stava sapere quando e come la città era stata fondata; una volta nata, la città doveva semplicemente vivere la propria vita, che si presumeva simile a quella che, piu o meno, po teva essere la vita di una città e che sarebbe stata come po teva essere. Non importava: una volta che lo storico aveva raccontato la sua fondazione, la città era collocata al suo posto nello spazio e nel tempo; essa aveva la sua carta d'i dentità. Questa conoscenza dell'identità attraverso la colloca zione nello spazio e nel tempo era familiare agli antichi. Certi epitaffi identificavano cosi il defunto e Virgilio li imita nei bei versi sulla morte del guerriero Eolo [Eneide, Libro XII, 544-550] : 1 06
Il mito e iiJ verità delle sue origini E videro i campi Laurenti, Eolo, anche te morire e coprire del vasto tuo dorso la terra: cadi tu pure, che i Greci non seppero abbattere né Achille, dei regni eversori di Priamo; meglio morire era là: ché un alto palazzo tu avevi ai piedi dell'Ida e un alto palazzo a Lirneso ed ora hai per sepolcro il suolo Laurente.
e questo sarà l'epitaffio di Virgilio stesso: Mantua me genuit C alabri rapuere.
Io leggo allo stesso modo, nel Petit Larousse del 1 908, le righe che seguono: Zichy (Eugène de),
uomo politico ed esploratore ungherese, nato a Zichyfalva nel 1837. Zieg/er Claude, pittore francese, nato a Londra ( 1 804- 1 856) .
Cosi, grazie all'eziologia, anche la piu piccola città della Grecia avrà la sua personalità; avrà una sua moralità, potrà essere membro a pieno diritto della società delle città. Sarà come un uomo pienamente uomo, un uomo nato li bero; simili città «dalla loro nascita avranno una loro im portanza e non avranno cominciato con l'essere schiave», scrive Menandro il Retore 42 nel trattato che ha dedicato ai discorsi solenni in cui i conferenzieri facevano l'elogio di una città di fronte ai suoi abitanti. Note t Filostrato, Heroikos, VII, 9 , p. 136 (p. 7, 26 de Lannoy). 2 Cicerone, De natura deorum, III, 16, 40. Cfr. anche De divinatione, Il, 57,
1 17.
l
Filostrato, Heroikos, V I I , 9, p . 1 36 (p. 7 , 29 d e Lannoy) .
4 Pausania, I , 30, 3 .
5 Pausania, I I I , 25, 5 .
6 Artemidoro, Dell'interpretazione dei sogni, Il, 44 (p. 1 78, 7); IV, 47 (p. 272,
16 Pack) . 7 Lucrezio, V, 878; IV, 730. 8 Platone, Repubblica, II, 3 7 8 ; Cicerone, De natura deorum, Il, 28, 70; Pau sania, VIII, 29, 3; Artemidoro, Dell'interpretazione dei sogni, IV, 47, p. 274, 16 Pack; Aetna, 29-93 .
107
Il mito e la verità delle sue origini 9 Ho riunito dei riferimenti in Le Pain et le Cirque, Paris, Seui!, 1976, p. 5 8 1 e nota 1 0 2 , p. 74 1 ; citiamo soprattutto Senofonte, Memorabili, I V , 3, 1 3 . I O Pausania, VIII, 2 , 4-5 . I l Artemidoro, IV, 47, p. 274, 2-2 1 Pack. 1 2 Diane di Prusa, XI, Troiano, 42; Quintiliano, lnstitutione oratoria, XII, 4. 13 Cicerone, De re publica, II, 10, 1 8 ; Tito Livio, Introduzione, 7; nel I, 4 , 2 , egli scrive che l a Vestale attribui l a paternità dei gemelli a Marte, «sia che lo creda veramente, sia per nascondere il suo sbaglio sotto un'illustre paternità». Pausania, IX, 30, 4 ; nel IX, 37, 7, scrive anche con una precisazione rivelatrice: «i re Ascalafo e Ialmeno, detti figli di Ares, e Astioche, figlia di Zeus». 1 4 Cicerone, De natura deorum, III, 16, 40sq . 1 5 Cicerone, Tusco/anae, l, 12, 27sq. 16 Pausania, IX, 2, 3-4. ' 1 7 Pausania, IX, 20, 4 e IX, 2 1 , l. È un procurator a mirabilibus, o un Mini ster a mirabilibus, o qualche altro titolo equivalente, che bisogna riconoscere, io credo, dietro il greco di Pausania (VIII, 46, 5 ) : ol lnì wi� 8cxu114atv. Su questi Thaumata che si esaminavano a Roma, cfr. Pausania, IX, 2 1 , l ; non mi ricordo che questa funzione sia epigraficamente attestata. 1 8 Pausania, VII, 22 , 4. Stesso ragionamento nel l , 24, 1: il Minotauro fu un uomo ed è solo un mostro nella leggenda? Non è certo che si vedano spesso donne dare alla luce dei mostri . 19 S. Agostino lo dirà ancora, per spiegare la lunga vita di Matusalemme (Città di Dio, XV, 9 ) . 20 Pausania parla di Cleone di Magnesia nel X, 4, 6. 2 1 Pausania, IX, 18, 3-4. 22 Pausania, IV, 32, 4. 2 � Tucidide, II, 1 7 . 24 Pausania, I , 3 8 , 7 e IV, 3 3 , 5 . Questi sogni gli hanno impedito d i rivelare certi misteri sacri . Nulla di piu frequente nelle persone letterate di questa epoca, che obbedire ai propri sogni; Artemidoro ha ricevuto da Apollo, in sogno, l'or dine di scrivere la sua De//'interpretll:r.ione dei sogni (Onirocritica, II, introduzione; Diane Cassio ha ricevuto dagli dei , in sogno, l'ordine di scrivere la sua Storia ro mana (XXIII, 2); Galeno si è dato alla medicina in seguito ai sogni di suo padre, che vedeva in suo figlio un medico (vol. X, 609 e XVI , 223 Ki.ihn); un sogno gli ha indicato la preparazione di una medicina (XVI , 222) . 25 Pausania, I, 28, 7 . 26 L. Rademacher, Mythos und Sage bei den Griechen ( 1 938), 1 962, p. 8 8 . F . Prinz, Griindungsmythen und St:zgenchrono/ogie, Mi.inchen, 1979, è estraneo al no stro problema . 27 Eschilo, Prometeo incatenato, 774 e 85 3 . 2 8 Diodoro, IV, l , l . 2 9 Esempi di discussioni di varianti leggendarie per mezzo di sincronismi: Pausania, III, 24, 1 0- 1 1 ; IX, 3 1 , 9; X , 17, 4 . Su queste cronologie leggendarie W. Kroll, Studien :r.um Verstiindnis der riimischen Literatur, S tuttgart , Metz ler, 1 924, cap. III e p. 3 1 0. Si pretendeva che i nomoteti Onomacrite, Talete, Licurgo, Caronda e Zaleuco, fossero stati discepoli gli uni degli altri. Aristotele ci fa un'obiezione cronologica (Politica, 1274 A 28); Tito Livio prova allo stesso modo che Numa Pompilio non è potuto essere il discepolo di Pitagora ( 1 , 1 8 , 2). Si veda anche Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I l , 5 2 . Sui sincronismi
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Il mito e la verità delle sue origini
della storiografia greca, A. Momigliano, Essay in Ancient and Modem Historiogra· phy, Oxford, Blackwell, 1977, p. 192 , e Studies in Historiography, London, Weidenfeld & Nicholson, 1 966, p. 2 1 3 . 3 Ò lsocrate, Busiride, 36-3 7 . 3 1 Pausania, VIII, 1 5 , 6-7 . Pausania discute d i altre omonimie nel VIII, 1 9 , 9- 1 0 e V I I , 2 2 , 5 . È per risolvere problemi cronologici e prosopografici che nel l' epoca ellenistica si fini con il concludere che fossero esistiti parecchi Eracle omonimi, parecchi Dioniso e anche parecchi Zeus (io dicoao anche Diodoro, Strabone e Cicerone) ; cfr. Pausania, IX, 2 7 , 8. 32 Su questo primo concorso olimpico, cfr. S trabone, VIII , 3, 30, C. 355 (che distingue in questa occasione Eracle, figlio di Alcmena e Eracle dei Cureti, e conclude: «tutto ciò è raccontato in molti modi e non è assolutamente degno di fiducia») ; Pausania, V, 4, 5 ; V, 8, 5 ; VII, 26, 4; sull ' inizio del computo olimpico, VI, 19, 13 e VIII, 2, 2 (nella sua data dei sincronismi dei piu antichi concorsi greci, Pausania si rifiuta di prendere in considerazione i primi giochi olimpici, quelli ai quali presero parte Eracle e Apollo) . Pausania sa, d'altronde, che fu un'epoca nella quale gli Elei non conservavano ancora i nomi dei vincitori (6, 19, 4). Sul sincronismo nell'anno 776, il re Ifito, che fondò («rifondò») i giochi, e Li curgo, cfr. Pausania, V, 4, 5 e Plutarco, Vita di Licurgo, I . H S u questa data, cfr. Timeo, citato d a Censorino, De die natali, XXI, 3 . Sul collegamento del tempo mitico e del tempo storico, cfr. per esempio Pausania, VIII, 1 -5 e 6. 34 Pausania, VII, 18, 5 ; altro esempio, VII, 4, l. 35 Ateneo, l , 16 F- 1 7 B (Odissea, I, 107). 36 Cfr. nota 14. Pausania cita, per esempio, un certo Callipo di Corinto, au tore di una storia di Arcomene (IX, 29, 2 e 38, 10). Dice di aver interrogato «le persone del paese», «il popolo» (VIII, 4 1 , 5), che alle volte non sanno; si indi rizza allora a «quegli indigeni ai quali sono stati tramandati vecchi libri storici (hypomnemata)»; un'altra volta, solo il vecchio del villaggio sa l'origine di un co stume (VIII, 42, 1 3 e VI, 24, 9). Tra i suoi informatori, c'è un nomophilax di Elio (VI , 2 3 , 6), le Triadi di Atene (X, 4, 3), il suo ospite a Larissa (IX, 23, 6), un efesino (V , 5 , 9). Cfr. pertanto F. Jacoby, Atthis, the Local Chronicles of An cient Athens, cit . , p. 237, nota 2 e p. 399. 37 Pausania, IX, l, 2 . Su tutti questi argomenti di genealogia e di eziologia, cfr . F. Jacoby , Atthis, cit . , particolarmente pp. 1 4 3 ss. e 2 1 8 ss. L'importanza politica della storia locale mitica è confermata dall'epigrafia (Marmo di Pario, li sta dei sacerdoti di Poseidone ad Alicarnasso, Cronaca di Lindo). 3 8 Pausania, VII, l e 2. l 9 Pausania, IX, 9. 40 Si sa che, fin dall'epoca classica, le parentele tra città erano argomento di plomatico (cfr. per esempio Erodoto, VII, 150, Senofonte, Elleniche, VI, 3 , 6). Per Lanuvio e Centuripe, cfr . J . e L. Robert, Bulletin épigraphique, in «Revue des études grècques», LXXVIII ( 1 965}, n. 499, p. 197; per Sparta e Gerusalemme, Secondo libro dei Maccabei, IV; gli Etruschi conoscevano anche il resto della leg genda troiana, e avevano per mitologia la mitologia greca; non ne consegue af fatto che essi abbiano conosciuto una leggenda di Enea fondatore di Roma; in compenso, questo genere d'invenzioni va completamente nel senso della pseudo storia ellenistica ed io credo, da parte mia, che la tesi di J. Perret è quella buona. Si sa, del resto, che la letteratura del nome di Enea su un cippo arcaico di Tor Tignosa è una mistificazione, «Année épigraphique», 1 969- 1970, n. 2. 41 Jacopo da Varazze, l'autore della Legenda Aurea, ha scritto ugualmente
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Il mito e la verità delle sue origini
una storia di Genova, la sua patria, dove si viene a sapere che questa città ha avuto per fondatore Giano, primo re d'Italia, poi, come secondo fondatore, un secondo Giano, omonimo del precedente, e cittadino di Troia come Enea. La storia dell' arte nell'Italia del sud è stata per molto tempo falsata da un erudito napoletano che, nel 1743, ha inventato di sana pianta gli artisti, i loro nomi, le loro date, la loro biografia (E. Bertaux, L 'Art dans I'Italie Meridione/le, Roma, Ecole Française de Rome, 1980, Introduzione). Immagino che questo falsario vo lesse dare un V asari ali' Italia del sud. 42 Sui discorsi epidittici, in Rhetores Graeci, vol. III, p. 365, 30 Spengel.
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Capitolo settimo
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
Affermare che il mito fosse diventato un'ideologia poli tica non è sbagliato, ma resta comunque poco istruttivo. Un dettaglio porta al di là di queste affermazioni generi che: spesso abbiamo l'impressione che i greci non credano molto ai loro miti politici, ed essi erano i primi a riderne quando li esponevano nelle cerimonie. Facevano ·im uso so lenne dell'eziologia; il mito infatti era divenuto verità reto rica. Si intuisce allora che essi non provavano tanto incre dulità, per essere precisi, quanto un sentimento di conven zionalità o di derisione di fronte al carattere artificiale di questa mitologia. Da qui un modo particolare di credere: il contenuto dei discorsi solenni non era sentito vero né tanto meno falso, ma verbale. La responsabilità di questo «linguaggio stereotipato» non era dei poteri politici, ma di un'istituzione caratteristica di quest'epoca, vale a dire la retorica. Gli interessati, tuttavia, non vi si opponevano poiché sapevano distinguere il significato letterale dalle buone intenzioni: se non era vero, era comunque una buona trovata. I greci avevano un antico compiacimento per il «ben trovato», che conferma un'idea del giovane Nietzsche: non esiste menzogna, quando il mentitore non ha interesse a mentire 1 ; non si può mentire quando si dice, riguardo ai valori, piu bene di quanto, a rigore, si dovrebbe. L'ome rico Inno ad Hermes è una illustrazione umoristica di que sto zelo devoto; secondo il poeta, il dio Hermes, giovane prodigio dalle mille malizie, appena uscito dal ventre di sua madre inventò l'arte del canto; la prima composizione di questo privilegiato testimone consistette nel raccontare gli amori di suo padre e sua madre. La folla di pellegrini che senti recitare per la prima volta questo inno si senti necessariamente complice ed applaudi volentieri: 111
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
nessuno era vittima di un'ingegnosa finzione, non ci si aspettava meno da Hermes e si era grati al poeta di aver in ventato questa leggenda. Questi pellegrini erano persone oneste: essi rispetta vano i valori. Le persone serie, i caratteri responsabili, ri solvono infatti in senso nobile il caso di coscienza che se gue: si può, senza essere pedanti, condannare qualcuno che abbraccia con zelo la giusta causa, quella del Bene che è an che il Vero, per ragioni che non sono vere alla lettera? Non è meglio ignorare questo errore di dettaglio puramente ver bale? Una simile indifferenza alla veridicità, quando ven gono difesi i veri valori, definisce tutta una serie di com portamenti storicamente differenziati. In Grecia questi comportamenti verbali, in cui il linguaggio, piu che infor mare, adempie una sua funzione, si riscontrano nelle rela zioni internazionali; in politica interna erano rappresentati da un genere letterario: il panegirico della città, pronun ciato di fronte ai cittadini. Nel 480 a.C . , subito dopo la vittoria sui persiani, i greci si riunirono in congresso; la vittoria definitiva era in vista, e già Atene, che aveva salvato l'Ellade dal Barbaro, appa riva come la città egemone; ne aveva la potenza e posse deva il linguaggio adeguato. Appena un'altra città tentava di opporre, a questo primato nuovo, i suoi privilegi tradi zionali, gli Ateniesi replicavano che i loro stessi diritti non erano meno antichi: Atene era già stata vittoriosa un tempo, all'epoca degli Eraclidi, della Tebaide e dell'inva sione delle Amazzoni 2; tutti capirono cosa ciò significasse ed Atene vinse la causa. I titoli mitici erano serviti a defi nire i rapporti di forza, giustificandoli, il che dispensava dal nominarli. Copertura ideologica? Non è un rapporto di so vrapposizione, come quella che si stabilisce tra ciò che è na scosto e ciò che lo ricopre; è il rapporto della carta moneta delle parole rispetto alle riserve auree della potenza. Velato tentativo di elogio? Non solo: appellandosi a nobili ragioni, invece di mostrare la propria forza, si incitano gli altri a sottomettersi deliberatamente e per ragioni onorevoli, che salvano la faccia. L'ideologia non è semplice apparenza: essa si conficca come un cuneo nel meccanismo. I titoli mi1 12
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
tici della gloria, cosi come i leggendari legami di parentela tra i popoli 3, servivano da etichetta nella società interna zionale; ogni città proclamava le sue origini leggendarie ai suoi alleati, che si guardavano bene dal dubitarne; era un modo di affermare la propria individualità. La società delle città era anch'essa composta di persone nobili, che avevano i loro legami di parentela; quando si accettavano queste fin zioni come articoli di fede, si dimostrava di accettare le re gole di vita internazionale delle città civilizzate. Cosa curiosa, l'affermazione della personalità di ogni città, cosi come l'individuazione attraverso la colloca zione nello spazio e nel tempo, ricoprivano entrambe un ruolo importante in politica interna; non si può immaginare infatti il piacere che provavano i cittadini nell'ascoltare un oratore mentre faceva il panegirico della loro città; questi discorsi di elogio rappresentavano una moda che durò un millennio, fino alla fine dell'Antichità. In Grecia si parlava di origini mitiche e di parentele tra città, nello stesso modo e per gli stessi motivi per cui si discuteva di alberi genealo gici nei salotti del Faubourg Saint-Germain 4 • Sia che fosse del luogo o che fosse venuto da un'altra città, l'oratore ce lebrava le origini della città e questo rappresentava un mo mento importante dell'elogio; i cittadini provavano un pia cere immenso ad ascoltarlo. Dice con ironia Socrate 5: [ ] un elogio [ ] da dotti uomini pronunciato, che non lodano a brac cia, ma con discorsi preparati da lungo tempo; e lodano in modo tanto bello che , mentre dicono di ciascuno quali sono le sue doti, e quali no, e variamente colorano il proprio dire con le piu belle parole, seducono le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra, i pro genitori tutti, che ci hanno preceduti, e lodano noi stessi che siamo an cora vivi, tanto che anch'io [ ] grazie alle loro lodi, mi sento veramente nobile, e ogni volta, preso d' incanto ad ascoltarli, mi sembra d'essere immediatamente divenuto piu grande, piu nobile, piu virtuoso. [ ] In me questo sentimento di venerabilità dura piu di tre giorni. . . .
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Nel ridicolo, nelle difficoltà, nelle ironie della vita quo tidiana, affiorano alla coscienza processi piu seri. Tutte le città, grandi o piccole, avevano le loro origini e si poteva farne l'elogio: i manuali di retorica insegnavano il modo di scoprire qualche merito per una qualunque borgata. Inoltre 1 13
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questi panegirici non si proponevano tanto di esaltare una città al di sopra di tutte le altre quanto di riconoscere alla città la propria dignità individuale. E questo elogio era de stinato piu agli individui che al gruppo; in questi panegirici pronunciati di fronte alla città riunita, non era il gruppo che esaltava se stesso, come a Norimberga: l'elogio della città faceva sentire a ciascun cittadino non di essere spinto da una forza collettiva, ma di possedere, oltre ai propri me riti, una dignità personale in piu, cioè la qualità di citta dino. L'esaltazione del gruppo era esaltazione degli indivi dui, come se venisse fatto l'elogio della nobiltà di fronte a dei nobili. Non si trattava d'orgoglio patriottico; l'indivi duo non era orgoglioso di appartenere a questa città piutto sto che a quell' altra, ma di essere cittadino piuttosto che di non esserlo. La cittadinanza infatti non era un aspetto sen tito come universale, una specie di base di partenza dell'in dividualità, come noi siamo francesi o italiani in quanto non possiamo non essere qualcosa: tutti tenevano ad appar tenere ad una città, si era fieri di essere cittadini. Per spie garne il perché, bisognerebbe esaminare la parte nascosta dell'iceberg della politica antica; diciamo solo che la città non era una «popolazione»; non era costituita dalla fauna umana che era nata per caso entro i confini di questo o quello spazio territoriale: ogni città si sentiva essa stessa una specie di corpo costituito, come una corporazione del nostro Ancien Régime o l' Ordine dei notai o dei medici. Strano privilegio in questa Ellade o in questo Impero ro mano dove ogni uomo libero, o quasi, è cittadino di qual che città; si capisce che la contraddizione di un privilegio universale abbia suscitato qualche inquietudine nel subcon scio degli interessati; questo vago senso d 'angoscia faceva sentire un vivo piacere quando si ascoltava un panegirico, in cui uno dei due termini della contraddizione era esaltato, e l'altro era escluso . Noi abbiamo infatti la capacità di reagire, da un punto di vista emotivo, alle contraddizioni di cui non abbiamo co scienza. Non potendo conoscere con chiarezza il motivo, avvertiamo in alcune circostanze una reazione di malessere che si chiama senso del ridicolo. I greci erano i primi a ridi1 14
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
colizzare questo loro gusto di panegirici civici: «Voi siete, o Ateniesi, un popolo di creduloni; quando i rappresentanti delle città volevano ingannarvi, cominciavano a chiamarvi la brillante Atene, e voi, sentendo questo, gongolavate di gioia». In un altro poeta satirico 6, un mercante di schiavi che si lamenta di uno dei suoi clienti ricorda ai giurati che la loro giustizia deve dimostrarsi degna dei fondatori della loro città, Eracle ed Asclepio. L'inquietudine e il dubbio possono nascere anche da una disfunzione. Da un punto di vista diplomatico, il fatto di appellarsi ad illustri antenati era giustificato in assenza d'interessi piu sostanziali; ma questo diveniva ridicolo e puramente verbale 7 quando que sti interessi esistevano ed il momento richiedeva che si par lasse di affari. Un'altra fonte di scetticismo era la presenza della reto rica, che si era costituita come tecnica cosciente di se stessa; questa gente aveva imparato a scuola l'arte di con vincere o di comporre delle frasi e non si facevano abbindo lare 8 . Spingevano a volte la malafede fino ad essere didat tici; nel suo Panegirico di Atene, Isocrate 9 vuole che si cer chino «ben prima della guerra di Troia» le prove della gran dezza e della generosità ateniese e aggiunge che, «sebbene il racconto di queste prove sia mythodes, conviene comun que farlo»; come può questo oratore essere tanto maldestro da smentire anche le proprie affermazioni? Perché egli è an che professore di retorica e commenta ogni sua tecnica ora toria, per insegnarla ai suoi lettori. Una fonte in piu di scetticismo era la mancanza di pro fessionalità dell'attività di storico. Abbiamo già visto che il buon nome di storico era portato sia da autori come Dio doro, che miravano soprattutto a divagare i loro lettori o ad intrattenerli nelle loro convinzioni religiose, sia da storici «seri», cioè «pragmatici», che avevano lo scopo di lasciare lezioni istruttive ai politici. A volerei credere. Infatti essi tendevano soprattutto a raccontare ai politici del futuro storie interessanti, se non istruttive, che si riferivano ai col leghi della corporazione politica; al calzolaio infatti piace sentir parlare di calzolai . Cosi per il ktéma es aei di Tuci dide e per le sue lezioni di storia. C 'erano dunque libri di 115
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
storia seria e ce ne erano anche molti che non lo erano, ma il fatto piu grave era che nessun segno esterno distingueva i primi dai secondi: il pubblico era ridotto a giudicare sull'o pera. La non professionalità aveva effetti nefasti, come si può vedere . Aggiungiamo velocemente che l' attuale profes sionalità universitaria ha altri effetti non meno perversi, sebbene i sociologi universitari, che sorpresa, sembrino in dividuarli meno bene . Accadeva cosi che la non distin zione del meglio dal peggio sconvolgeva gli animi, rovinava il morale dei lettori e manteneva uno scetticismo ipocrita. Gli storici di quel tempo dovevano dunque tener conto di tutte le tendenze di un pubblico abbastanza eterogeneo; quando Tito Livio o il De re publica scrivono che Roma è una città abbastanza grande perché si rispettino le favole con cui ha impreziosito le sue origini, non fanno propa ganda ideologica; al contrario: nella cronaca seria, lasciano sprezzantemente che siano le diverse tendenze dei loro let tori a scegliere la versione dei fatti che preferiscono; la sciano comunque vedere che, da parte loro, non credono una parola di queste favole. Si può notare quanto l'antico candore fosse lontano dalla dittatura ideologica o da moine edificanti. La fun zione creava sf il suo strumento, cioè il «linguaggio stereo tipato» dell'eziologia o della retorica, ma nessuna autorità politica né religiosa vi aggiungeva il proprio peso. Parago nata ai secoli cristiani o marxisti, l 'Antichità ha spesso un'aria voltairiana; due auguri non possono incontrarsi senza sorridere l'uno dell' altro, scrive C icerone; sento che sto diventando un dio, diceva un imperatore agonizzante . Tutto questo pone un problema generale. Come i Dorzé, che ritenevano allo stesso tempo che il leopardo di giunasse e che bisognasse guardarsi da lui tutti i giorni, cosi i greci credono e non credono ai loro miti; essi ci cre dono, ma se ne servono e smettono di crederci quando non c'è piu un interesse; bisogna aggiungere, a loro discarico, che la loro malafede consisteva piu nel credere che nell'uti lizzazione interessata; il mito non era altro che una super stizione di semi-letterati, che gli eruditi mettevano in dub bio. La coesistenza in uno stesso animo di verità contrad1 16
Il mito uStJto come «linguaggio stereotipato»
dittorie è comunque un fatto universale. Lo stregone di Lé vi-Strauss crede alla sua magia e la manipola cinicamente; il mago, secondo Bergson, ricorre alla sua magia solo nel caso in cui non esistano formule tecniche garantite, i greci inter rogano la Pizia e sanno che questa profetessa riesce a fare propaganda per la Persia e la Macedonia, i romani falsifi cano la loro religione di Stato a fini politici, gettano in ac qua i galli sacri se non predicano ciò che dovrebbero, tutti i popoli danno una spintarella ai loro oracoli o ai loro indici statistici per farsi confermare ciò che desiderano credere . Aiutati che Dio t'aiuta; il Paradiso sf., ma piu tardi possi bile. Come non si sarà qui tentati di parlare di ideologia? Se possiamo credere a cose contraddittorie, sarà dunque perché in certi casi la conoscenza che abbiamo di un og getto è falsata da influenze interessate. Esistono infatti na turalmente oggetti che rientrano nella sfera della realtà ed una luce naturale dello spirito ce ne riflette l'immagine; tal volta questo raggio di luce ci raggiunge direttamente, tal volta è invece distorto dall'immaginazione e dalla passione, come si diceva all'epoca di Luigi XIV, o dall'autorità o dal l'interesse come si dice oggi; con la conseguenza che ad uno stesso oggetto corrispondono due riflessi di cui il secondo è falsato. L'ideologia è un tertium quid accanto alla verità e a quelle difficoltà inevitabili ed aleatorie della verità che sono gli errori; è un errore costante e controllato. Ciò che confe risce plausibilità a questo schema è la sua vicinanza alla vecchia idea della tentazione e della corruzione: l'interesse, il denaro, possono piegare la coscienza piu retta. La nozione di ideologia è un tentativo lodevole e fallito di far fronte alla leggenda di una conoscenza disinteressata, secondo cui esisterebbe una luce naturale che sarebbe una facoltà autonoma, diversa dagli interessi della vita pratica. Questo tentativo finisce sfortunatamente in un compro messo: l'ideologia unisce insieme due concezioni della cono scenza fra loro incompatibili, quella della conoscenza come riflesso e quella della conoscenza come azione. A prima vi sta poco sorprendente, questa contraddizione, se ci si ri flette un momento, è completamente assurda: la cono scenza non può essere a volte corretta ed a volte distorta; 117
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
se forze come l'interesse di classe o il potere la deviano quando essa è falsa, allora le stesse forze operano anche nel caso in cui essa dice la verità: essa è il risultato di queste forze, non il riflesso dell'oggetto cui si riferisce. Sarebbe meglio riconoscere che ogni conoscenza è inte ressata e che verità ed interesse sono due parole differenti per una stessa cosa, poiché la pratica pensa nel modo in cui agisce. Si è voluto distinguere la verità dall'interesse solo per provare a spiegare le limitazioni della verità: si riteneva che essa fosse limitata dall'influenza dell'interesse . Questo significa dimenticare che gli stessi interessi sono limitati (sono sempre condizionati dai limiti storici; sono arbitrari nel loro feroce tornaconto) e che hanno gli stessi limiti delle verità corrispondenti: essi si inseriscono nell'orizzonte che i casi della storia assegnano ai diversi programmi. Altrimenti, si giungerà a trovare paradossale che degli interessi possano cadere vittime della loro propria ideolo gia. Se si dimenticasse che pratiche ed interessi sono limi tati e rari, si prenderebbe l'imperialismo ateniese e l'impe rialismo hitleriano come due esempi d 'imperialismo eterno ed allora il razzismo hitleriano risulterebbe solo una coper tura ideologica, variopinta, certo, ma che importa? Se la sola funzione del razzismo fosse quella di giustificare il to talitarismo o il fascismo, non sarà altro che una supersti zione o una maschera. Si giungerà poi a constatare con stu pore che Hitler, attraverso il suo razzismo, ha compro messo a volte il successo del suo imperialismo totalitario. La verità è piu semplice: Hitler si limitava a mettere in pra tica le sue idee razziste, questo era il suo interesse; come Jackel e Trevor-Roper hanno dimostrato, la sua strategia era veramente quella di annientare gli ebrei e di riprendere la colonizzazione tedesca dei paesi slavi; russi, ebrei e bol scevichi erano per lui veramente la stessa cosa ed egli non pensava di compromettere la sua vittoria sugli ultimi perse guitando i primi due . . . Per essere «interessato» non si può essere razionale; anche gli interessi di classe sono figli del caso. Poiché interessi e verità non provengono <(dalla» realtà né da una potente infrastruttura, ma sono limitati tutti e 1 18
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
due insieme dai programmi del caso, ritenere che la loro eventuale contraddizione possa essere lacerante significhe rebbe dare loro troppa importanza: non ci sono verità con traddittorie in uno stesso cervello, ma solamente pro grammi diversi, ognuno dei quali contiene verità ed inte ressi differenti, anche se queste verità hanno lo stesso nome. Conosco un medico, omeopatico per convinzione, che ha comunque la saggezza di prescrivere degli antibiotici quando la malattia è grave: riserva l'omeopatia ai casi insi gnificanti o disperati; la sua buona fede è intatta, lo garan tisco: egli da una parte è affascinato dalle medicine non conformiste, e, dall'altra, giudica che l'interesse del medico come quello del malato sia che il malato guarisca; questi due programmi non hanno niente di contraddittorio né di comune; l'apparente contraddizione sta solo nella lettera delle verità corrispondenti, la quale vuole che si sia omeo patici o non si sia omeopatici. Ma le verità non sono inse rite come stelle nella sfera celeste: c:sse sono come un pic colo cerchio luminoso che compare sulla lente di un pro gramma, tanto che a due programmi differenti corrispon dono due verità differenti, anche se il loro nome è lo stesso. E questo è molto importante per la storia delle cre denze. Il nostro animo non si tormenta quando, contraddi cendosi apparentemente, cambia in modo impercettibile il programma di verità e d'interesse, come fa in continua zione; non c'è qui ideologia: è il nostro modo di essere piu abituale . Il romano che manipola la religione di Stato se condo i suoi interessi politici può agire con la stessa buona fede del mio amico omeopatico; se è in malafede, lo sarà in quanto non crede ad uno dei suoi due programmi, pur uti lizzandolo, ma non in quanto crede a due verità contraddit torie. La malafede non consiste allora sempre in ciò che ge neralmente si ritiene; il nostro romano può essere sincera mente devoto; se egli finge uno scrupolo religioso, in cui non crede affatto, allo scopo di interrompere una riunione elettorale in cui il popolo rischia di votare male, questo non dimostra che egli non crede ai suoi dei, ma piuttosto che non crede nella religione di Stato e la considera un'utile im1 19
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postura inventata dagli uomini. Piu probabilmente ancora, penserà che bisogna difendere tutti i valori, religione o Pa tria, e che una ragione non è mai sbagliata quando sostiene la buona causa. La nostra vita quotidiana è fatta di un gran numero di programmi differenti e l'impressione della mediocrità quo tidiana nasce proprio da questa molteplicità che, in certi stati di scrupolo nevrotico, è sentita come ipocrisia; pas siamo senza sosta da un programma all'altro, come si cam bia di lunghezza d'onda alla radio, ma lo facciamo a nostra insaputa. Ora la religione è solo uno di questi programmi e non interferisce affatto con gli altri. Come dice Paul Pruyser nella sua Dynamic psychologs of Religion, la religiosità, durante una giornata, occupa solo una minima parte dei pensieri di un uomo religioso, ma si potrebbe dire altrettanto dei pensieri di uno sportivo, di un militare o di un poeta. Essa occupa una piccola parte, ma la occupa in modo sincero ed intenso . L'autore di queste ri ghe ha avvertito per molto tempo un senso di disagio di fronte agli storici della religione : gli sembrava a volte che essi si facessero della religione un'idea monolitica, mentre il pensiero non è un masso, ed attribuissero a questa un pre dominio effettivo sulle altre pratiche, tanto grande quanto può essere grande l' importanza che la religione ricopre da un punto di vista teorico . Ora la vita di tutti i giorni smen tisce queste nobili illusioni: la religione, la politica o la poe sia possono ben essere le cose piu importanti che vi siano in questo mondo o nell' altro; esse occupano comunque uno spazio ristretto nella pratica e tollerano tanto piu facil mente di sentirsi contraddette in quanto la contraddizione le lascia generalmente indifferenti. Esse sono comunque sincere ed intense: l'importanza metafisica o la sincerità in dividuale di una verità non si misurano secondo la limita tezza della loro lunghezza d'onda; dopo tutto parliamo al plurale e crediamo che la storia della religione possa guada gnarci qualcosa. Ci si sente piu a proprio agio nello studiare le credenze, religiose o altre, quando si comprende che la verità è plu rale ed analogica. Questa analogia del vero fa sì che l'ete120
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
rogeneità dei programmi passi inavvertita: noi siamo sem pre nel vero quando cambiamo a nostra insaputa la lun ghezza d'onda; la nostra sincerità è intatta quando dimenti chiamo gli imperativi ed i presupposti della verità di cinque minuti prima per adottare quelli della nuova verità. Le diverse verità sono tutte vere secondo' noi ma non le pensiamo con la stessa parte della nostra testa. Ne Il sacro, Rudolf Otto analizza di sfuggita la paura dei fantasmi. Pre cisamente: se pensassimo ai fantasmi con lo stesso spirito con cui pensiamo ai fatti fisici, noi non ne avremmo paura o, almeno, non nello stesso modo; ne avremmo paura come avremmo paura di una pistola o di un cane cattivo, mentre la paura dei fantasmi consiste nella paura di fronte all'in trusione di un mondo diverso. Da parte mia io ritengo i fantasmi semplicemente una finzione ma sento comunque la loro verità: la mia paura nei loro confronti è quasi nevro tica ed i mesi che ho trascorso a selezionare le carte di un amico morto rappresentarono per me una lunga sofferenza; nel momento stesso in cui sto scrivendo queste parole un brivido di terrore mi sale alla nuca. Niente mi rassicure rebbe di piu del venire a sapere che i fantasmi esistono «realmente»; questi sarebbero allora un fenomeno come gli altri, che si potrebbe studiare con stru�enti adeguati, mac china fotografica o contatore Geiger. E per questo che la fantascienza, lungi dal farmi paura, mi rassicura deliziosa mente. C ' è qui della fenomenologia? No: è storia, e doppia mente. Si deve proprio ad Husserl, in Esperienza e giudizio, una suggestiva descrizione di ciò che egli chiama il mondo dell'immaginario: il tempo e lo spazio delle narrazioni non sono quelli del mondo dell'esperienza reale, come lui lo chiama, e l'individuazione vi resta incompleta; Zeus non è che il personaggio d'un racconto, senza un vero stato civile, e sarebbe assurdo chiedersi se egli ha sedotto Danae prima o dopo aver sedotto Leda. Solo che Husserl, molto classicamente, ritiene che vi sia un terreno transtorico di verità. Ora, primo, non è molto storico distinguere dall'esperienza un mondo dell'immagi nario la cui verità sarebbe non solo differente, ma infe riore; secondo, il numero e la struttura dei mondi di espe12 1
Il mito
usato come «linguaggio stereotipato»
rienza od immaginari non sono una costante antropologica ma variano storicamente. La verità non ha di costante che la sua pretesa ad esserlo e tale pretesa è solo formale; il suo contenuto normativo dipende dalla società o meglio, in una stessa società, vi sono molte verità che, per essere diffe renti, sono vere sia le une che le altre. Cosa vuoi dire im maginario? L'immaginario è la realtà degli altri, come, se condo un detto di Raymond Aron, le ideologie sono le idee degli altri. «Immaginario», a differenza d' «immagine», non è una parola da psicologo o antropologo, ma un giudizio dogmatico su certe credenze altrui. Ora, se la nostra inten zione non è quella di costruire dei dogmi sull'esistenza di Dio o degli dei, dovremo !imitarci a constatare che i greci credevano ai loro dei, anche se, secondo loro, questi dei erano esistiti in uno spazio-tempo essenzialmente differente da quello in cui vivevano i loro fedeli; questo credo dei greci non ci obbliga a credere ai loro dei, ma ci dice molto su ciò che per gli uomini è la verità. Sartre diceva che l'immaginario è un analagon del reale; si potrebbe dire che l'immaginario è il nome che attribui vano a certe verità, e che tutte le verità sono analogiche tra loro. Questi differenti mondi di verità sono essi stessi og getti storici e non costanti della psiche; Alfred Schutz ha cercato di fare un elenco filosofico di questi differenti mondi e si possono leggere, nei Collected Papers, i suoi studi, i cui titoli dicono molto sull'argomento: On multiple realities e Don Quixote and the problem of reality; quando uno storico li legge prova una leggera delusione: le molte plici realtà che Schutz scopre nella psiche sono quelle cui crede il nostro secolo, ma un po' scolorite, un po' vaghe, il che conferisce loro un senso di eternità; questa fenomeno logia è tipica della storia contemporanea, che ignora se stessa, e invano vi si potrebbe cercare uno spazio per le cre denze mitiche dei greci . Schutz ha comunque il merito di affermare la moltepli cità dei nostri mondi, che gli storici delle religioni a volte disconoscono. Consideriamo un altro di questi «linguaggi stereotipati» che servivano come ideologia presso gli anti chi: la divinizzazione dei sovrani; gli egiziani consideravano 122
Il
mito usato come «linguaggio stereotipato»
il loro faraone un dio, i greco-romani divinizzavano i loro imperatori morti o viventi e possiamo ricordare come Pau sania non vedeva che «vana adulazione» in queste apoteosi. Ci si credeva veramente? Un fatto mostra fino a che punto arriva la nostra doppiezza con noi stessi: anche se gli impe ratori erano considerati dei e gli archeologi hanno ritrovato decine di migliaia di ex-voto dedicati a diversi dei per guari gione, felice ritorno, ecc . non esiste tuttavia neanche un solo ex-voto dedicato ad un imperatore-dio; quando i fedeli avevano bisogno di un vero dio non si rivolgevano all'impe ratore. Nello stesso tempo prove altrettanto lampanti dimo strano che questi fedeli consideravano il sovrano un perso naggio sovrumano, una specie di mago, di taumaturgo. E inutile accanirsi a decidere quale fosse «il>> vero pen siero di questa gente ed è ugualmente inutile voler risolvere la contraddittorietà di questi pensieri attribuendone uno alla religione popolare e l'altro alla classe sociale privile giata. I fedeli non consideravano il loro potentissimo si gnore come un uomo ordinario e l'iperbole ufficiale che fa ceva di questo mortale un dio era vera nello spirito: essa corrispondeva alla loro devozione filiale e, trascinati da questo verbalismo, essi provavano ancora piu forte questo sentimento di dipendenza; la mancanza di ex-voto, tuttavia, dimostra che essi non prendevano alla lettera l'iperbole. Essi sapevano anche che il loro sublime maestro era allo stesso tempo un pover'uomo come a Versailles si adorava Luigi XIV e si spettegolava sulle sue mediocri avventure. G. Posener ha chiarito come, nei racconti popolari dell'an tico Egitto, il faraone fosse ormai solo un despota banale e a volte ridicolo. Ciò non impedisce che, in questo stesso Egitto, gli intellettuali ed i teologi abbiano elaborato una teologia faraonica in cui il faraone non è divinizzato attra verso una semplice iperbole o slittamento m.etonimico; que sta dottrina fu «una scoperta intellettuale, frutto di ragio namenti metafisici e teologici», scrive François Daumas, che la qualifica, in un'espressione contraddittoria ed inge gnosa, come realtà verbale; perché no? I testi costituzionali del diciannovesimo e ventesimo secolo, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo o il marxismo ufficiale sono altrettanto 123
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reali ed altrettanto verbali. In Grecia e a Roma, al contra rio, la divinità degli imperatori non è mai stata oggetto di una dottrina ufficiale e lo scetticismo di Pausania era nor male presso gli intellettuali o presso gli stessi imperatori, che erano spesso i primi a ridere della propria divinità. Tutto questo è storia, poiché miti, apoteosi o Dichiara zione dei diritti, immaginari o non, rappresentarono co munque forze storiche, ed anche perché un mondo immagi nario in cui gli dei possono essere uomini e sollo maschi o femmine è datato: è anteriore al cristianesimo. E storia an che per una terza ragione: poiché queste verità non sono al tro che il mascheramento di forze, esistono su un piano pratico e non teorico; quando gli uomini dipendono da un uomo molto potente, lo sperimentano come uomo e vedono in lui un semplice mortale, secondo l'ottica del cameriere, ma lo sperimentano anche come loro padrone e lo vedono dunque nello stesso tempo come un dio. La molteplicità delle verità, paradossale per la logica, è la conseguenza nor male della molteplicità di forze. L'uomo debole, il «roseau pensant» di Pasca!, nella sua umiltà, si inorgoglisce di op porre la sua fragile e pura verità alle forze brute, dal mo mento che questa verità è essa stessa una di queste forze; il pensiero appartiene al rnonismo infinitamente pluralizzato della volontà di potere. Forze di ogni genere: potere poli ' tico, autorità culturale, socializzazione ed addestramento. Ed è proprio perché il pensiero è una forza che esso non si distingue dalla pratica come l'anima si distingue dal corpo: ne fa parte; Marx ha parlato di ideologia per sottolineare che il pensiero era azione e non semplice teoria ma, mate rialista alla vecchia maniera, egli ha riattaccato l'anima al corpo, invece di non distinguerla per niente da esso e di la vorare sulla pratica in blocco; il che ha obbligato gli storici ad esercizi dialettici (l'anima reagisce sul corpo) per ripa rare a questo disordine. La verità è balcanizzata da forze e bloccata da forze. L'adorazione e l' amore per il sovrano sono tentativi impor tanti di riacquistare il sopravvento sulla sottomissione : «se io lo arno, egli non può volermi male». (Un amico tedesco mi ha raccontato che suo padre aveva votato per Hitler, per 124
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rassicurarsi: dato che io voto per lui, ebreo come sono, vuoi dire che in fondo egli pensa come me.) E , se l'imperatore si faceva o, piu spesso, si lasciava adorare, questo serviva come «monito minaccioso»: dal momento che egli è degno d' adorazione, nessuno si azzardi a contestare la sua auto rità. I teologi egiziani, che hanno elaborato tutta un'ideolo gia del re-dio, dovevano certamente avere un interesse a farlo, se non altro quello di fabbricare un romanzo esal tante. Sotto l' Ancien Régime si credeva, si voleva credere, alla bontà del re mentre tutto il male proveniva solo dai suoi ministri; altrimenti, non vi sarebbe stata piu alcuna speranza, poiché non si poteva sperare di cacciare il re come si può cacciare un semplice ministro. Come potete ve dere, la causalità è sempre attiva anche presso le cause pre sunte: il padrone non cerca di inculcare un'ideologia allo schiavo, gli basta farsi vedere piu potente di lui; lo schiavo farà quello che potrà per reagire, creandosi una verità im maginaria. Lo schiavo fa ciò che Leon Festinger, psicologo istruttivo, perché nato scaltro, chiama una riduzione della dissonanza. Psicologia, in effetti, poiché spesso la contraddizione dei comportamenti diventa manifesta e tradisce gli sposta menti delle forze che agiscono al di sotto; affiorano il senso di colpa e la malafede o il farisaismo; la vita quotidiana ne è piena e tutta una psicologia aneddotica ci permetterà di concludere piu velocemente in tono minore. Poiché le forze sono la verità delle verità, noi sappiamo solo ciò che ci è permesso sapere: noi ignoriamo sinceramente quello che non abbiamo il diritto di conoscere. «Non confessare mai», consigliava Proust all'autore di Corydon; cosi nessuno ve drà l'evidenza, poiché la giustizia dei salotti accetta solo le confessioni e condanna chi si fa inquisitore dei suoi pari. Nello stesso modo i mariti ingannati sono ciechi poiché essi non hanno il diritto di sospettare la loro moglie senza indizi di prova; non resta loro che ignorare, fino a quando un fatto capita sotto i loro occhi. Ma ignorano troppo: li si sente tacere. Nel Tristano del . vecchio Béroul, c'è un episodio che la scia perplessi. lsotta ha lasciato il re Marco ed è fuggita con 125
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Tristano nella foresta. Dopo tre anni i due amanti si sve gliano un mattino senza provare piu niente l'uno per l'al tro: il filtro d'amore, nei cui effetti eterni Béroul non crede, ha esaurito il suo potere; Tristano decide che la cosa piu saggia da fare è che Isotta ritorni da suo marito. Egli la restituisce dunque a Marco, sfidando a duello d' ordalia chiunque affermi che egli abbia mai toccato Isotta; nessuno accetta la sfida e l'innocenza della regina appare incontesta bile. Che ne pensava Béroul o il suo pubblico? Niente qui può sostituire il testo ed il suo profondo candore. Béroul è convinto che, come amante geloso, Marco sa peva tutto, ma che, come marito e re, non aveva il diritto di sapere. In Marco ed in Béroul, questo conflitto si svolge nella coscienza o meglio ad un livello situato appena al di sotto della coscienza, dove noi sappiamo molto bene di cosa non dobbiamo diventare coscienti: mariti ingannati o geni tori ciechi vedono arrivare da molto lontano ciò che non devono vedere ed il tono di voce furioso ed angosciato con cui preparano veloci una scenata non lascia alcun dubbio sulla loro lucidità inconscia. Da questa cecità alla malafede ed al vaniloquio dei salamelecchi tutti i gradi psicologici sono concepibili; accadeva lo stesso presso i greci in materia · di miti, a cominciare da Isocrate : Platone tradisce un senso di disagio quando, nel libro VII delle Leggi , dice di avere due ragioni per credere che le donne siano adatte al me stiere della guerra: «Da una parte, io credo in un mito che si racconta», quello delle Amazzoni, «e dall'altra, io so (poi ché questo è il termine) che, ai giorni nostri», le donne della tribu dei Sauromati praticano il tiro con l' arco. Detto ciò, gli aneddoti psicologici sono una cosa e l'immagina zione creativa è un'altra: nonostante il suo senso di colpa, o proprio a causa di questo, Platone non getta alle ortiche i miti ma ricerca il loro indubitabile nocciolo di verità, poi ché egli era prigioniero di questo programma, ed insieme a lui tutti i suoi contemporanei. Il fatto è che noi sappiamo (o crediamo, è lo stesso) solo ciò che abbiamo diritto di sapere: la chiarezza è prigioniera di questo rapporto di forza, che si scambia facilmente per superiorità di competenze. Da qui un certo numero di casi 126
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tipo. Abbiamo già visto come è importante sapere che le opi nioni sono divise e questo porta alla balcanizzazione di ogni cervello; a meno che non si voglia coltivare la mancanza di rispetto come metodo di ricerca, non si può condannare con due parole ciò che molti credono, né si può, di colpo, condannarlo completamente neanche nel pensiero: ci si crede un po' noi stessi. Nello stesso modo è importante sa pere che si può sapere; Raymond Ruyer ha scritto da qualche parte che i russi per fabbricare a loro volta la bomba ato mica non avevano assolutamente bisogno di spiare gli ame ricani; bastava loro sapere che era possibile fabbricarne una, ciò che sapevano da quando sapevano che gli ameri cani l'avevano fatto. In questo consiste tutta la superiorità degli «eredi» culturali; lo si vede per contrasto nel caso de gli autodidatti: ciò che è decisivo per questi non sta nel fatto che si indichino loro buoni libri, ma che essi vengano loro indicati da autodidatti come loro; essi riterranno allora possibile capire questi libri, dato che i loro simili li hanno capiti. Un erede è qualcuno che sa che non ci sono misteri: egli si ritiene in grado di fare quello che i suoi antenati sono riusciti a fare e, se vi fossero stati dei misteri, i suoi antenati avrebbero avuto accesso ad essi. Poiché è fonda mentale sapere che altri sanno o, al contrario, sapere che non c'è nient'altro da sapere e che, al di fuori del piccolo am bito di conoscenza che si possiede, non esiste una zona mi nata dove solo altri, piu competenti, possono avventurarsi; se si crede che esistono anche misteri che solo altri cono scono, la ricerca e l'invenzione sono paralizzati: non si osa fare un passo da soli. In una visione ottimistica delle cose, la distribuzione sociale del sapere (nessuno sa tutto ed ognuno beneficia della competenza degli altri) porta ad effetti neutri e bene fici come lo scambio dei beni sul mercato ideale degli eco nomisti; cosa c'è di piu innocente, di piu disinteressato, della coqoscenza della verità? Essa è l'opposto dei rapporti brutali. E vero che c'è competenza e competenza; nel libro IV delle Leggi, questa volta Platone oppone il sapere servile dello schiavo del medico, che applica senza capirli i proce dimenti che gli ha insegnato il suo maestro, alla vera com127
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petenza dell'uomo libero, il medico, che conosce il perché di questi procedimenti e che, avend<2 condotto studi libe rali, «conosce secondo la natura». E certo che i lunghi studi dei nostri ingegneri e medici permettono loro di ca pire la ragione delle tecniche che essi applicheranno e, di conseguenza, di inventarne forse delle nuove; è altrettanto vero, e forse ancora piu vero, che l'effettivo valore di que sti studi sta nel conferire loro fiducia nella propria legitti mità: essi sono i maestri nel loro campo, essi hanno il di ritto di parlare e gli altri possono solo ascoltare. Non sono paralizzati dall'idea di una competenza ufficialmente supe riore. Note l Su questo punto, si ha piacere a citare anche il libro originale e coraggioso di Paul Feyerabend, Wider den Methodenzwang. Entwurf einer anarchistischen Er kenntnistheorie, Frankfurt, Suhrkamp, 1976 (trad. it. Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 198 1 ) sulla menzogna · e la finzione nella Grecia arcaica. 2 Erodoto, IX, 26-28. Il ruolo di Atene nella guerra delle Amazzoni è ugual mente esaltato nell Epitaffio di Lisia (II, 3ss . ) . Cfr. Y. Thébert, L 'image du Bar bare à Athenes, in «Diogène», 1 980, n. 1 12, p. 1 00. ' In materia di diplomatica, il ricorso al mito colma l'eventuale intervallo tra gli interessi in gioco e gli impegni presi. Gli Ebrei affermano agli Spartani, che si guardino bene dal dubitare, che i loro popoli sono fratelli attraverso Abramo; la fraternità cosi suggellata ha raramente l'occasione di essere messa alla prova, tanto che bisogna rinnovarne periodicamente le manifestazioni este riori (Primo libro dei Maccabei, XIII); questa serve di quando in quando, e il sommo sacerdote Giasone, vinto, andrà a finire i suoi giorni a Sparta; cfr. B. Cardanus, Juden und Spartner, in «Hermes», XCV ( 1 967), p. 3 14 . In compenso, quando un'alleanza o un capovolgimento di alleanza sono fondati su interessi vi vi e attuali , non resta altro da fare che invocare parentele leggendarie, e sarebbe an che ridicolo farlo: questo è ben dimostrato nelle Elleniche di Senofonte (VI, 3), opponendo il discorso pomposo e ridicolo di Callia a quello di altri deputati ate niesi. 4 È un passo divertente dell'Ippia maggiore, 285 DE. Questo tipo di elogi ha il suo culmine nell'epoca imperiale; Apuleio ha pronunciato parecchie volte l'e logio di Cartagine (Florida, 1 8 e 20); Favorino, quello di Corinto (questo elogio è stato messo sotto il nome di Dione di Prusa e forma il suo discorso XXXVII) e Tertulliano, quello dei compatrioti cartaginesi. In tutti questi casi, si vedrà che Cartagine e Corinto, colonie romane, sono considerate antiche città: si pre sume che Corinto debba mantenere la vecchia città greca, distrutta dai Romani allora da piu di due secoli e rimpiazzata da una colonia che porta lo stesso nome; Cartagine è ugualmente tenuta a mantere la città di Didone e di Anni bale. Qui si vede continuare il pensiero eziologico, che cancella la storia e indi vidualizza attraverso le origini . ' Platone, Menesseno, 235ab. '
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Il mito usato come «linguaggio stereotipato» 6 Arisfofane, Arcanesi, 635 (cfr. Cavalieri, 1 329) ; Eroda, Il, 9 5 . 7 Senofonte, Elleniche, V I , 3 . 8 È cosf che Pausania e S . Agostino (Confessioni, V I , 6 ) ironizzano s u u n al
tro tipo di panegirico, che si indirizzava agli imperatori. 9 Isocrate, Panegirico di Atene, 54 (cfr. 68) e 28.
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C apitolo ottavo
Pausania non riesce a sottrarsi al suo programma
Ma Pausania crede nei miti religiosi che riporta in ogni pagina? Verso la fine della sua opera, come si ricorda, ci ri vela che, fino a quel momento, aveva considerato come in genuità molte leggende che i greci gli avevano raccontato sugli dei; le aveva quindi riportate, a volte criticandole, come sappiamo, a volte senza criticarle, e questo secondo caso era di gran lunga il piu frequente. Accettava ciò che non criticava ed era uno spirito credente, oppure era un voltairiano che demoliva alcuni miti per "farli vacillare tutti? Riprendiamo dunque lo studio della «questione Pausania», poiché la sua complessità è interessante e mostra allo stesso tempo la ristrettezza del programma in cui si dibattevano gli spiriti piu sinceri. E Pausania, nell'ultima parte delle sue opere, infatti si dibatte. Per essere chiari, è meglio cominciare esponendo le no stre conclusioni. Pausania possiede un razionalismo che non è il nostro; del resto, egli è sia uno storico, che riferisce ciò che è realmente accaduto, sia un filologo, il cui compito è di riferire ciò che si dice. Lungi dall'essere voltairiana, la sua critica dei miti dimostra che egli aveva un'idea elevata degli dei; condannava nello stesso tempo dentro di sé, per pietas, la maggior parte delle leggende che riferiva. Sola mente, piu filologo che storico, egli le riferisce spesso senza giudicarle; meglio ancora, egli entra nel gioco e si mette nell'ottica mitografica, come i nostri storici della filosofia che vedono e giudicano tutte le cose dal punto di vista del pensatore che stanno studiando, compresi i dettagli piu o meno coerenti della dottrina di questo stesso pensatore. Quanto alla storia leggendaria, alle genealogie, egli le ri porta con fedeltà ma crede solo ai punti essenziali; ciò che trattiene nel suo «setaccio» è del tutto paragonabile a ciò che Tucidide trattiene nella sua Archeologia; del resto le sue 131
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invenzioni genealogiche ed eziologiche, che possono ingan nare solo chi ha voglia di farsi incantare, lo scandalizzano meno delle assurdità sugli dei. Questo è il suo atteggia mento fino alla fine del libro VII . Lo troviamo ancora negli ultimi tre libri, dopo che ebbe trovato in Arcadia una «via di Damasco», ma si domanda ormai se talvolta non ci sia una verità allegorica o anche letterale nelle leggende che prima l'avevano scandalizzato. Niente di tutto ciò sorpren derà i nostri lettori, ma, dato che Pausania è un autore ri servato ed ha un umorismo sottile, non è sempre facile da interpretare; Pausania ha personalità (molto piu di quanta ne abbia, per esempio, uno Strabone) . Due o tre volte la penna gli cade dalle mani 1 ; «lasciamo da parte il mito», scrive allora, e, rifiutandosi di raccontare la favola della Medusa, ne dà due versioni razionali, tra cui non sa quale scegliere: Medusa era una regina uccisa in guerra, Medusa era una bestia mostruosa, come se ne ve dono ancora nel S ahara, secondo la testimonianza di uno storico cartaginese. Razionalizzazione politica o fisica dei miti. Tre o quattro volte si diverte 2; si vede a Mantinea un cervo, ora molto vecchio, che ha un collare con sopra scritto: «sono stato catturato da Agapenore quando partiva per la guerra di Troia»; questo dimostra che i cervi vivono ancora piu a lungo degli elefanti. Umorismo che nasconde una certa esasperazione 3 nel vedere degli Elleni ingenui quanto i Barbari. Finirà con il riconoscere 4 che le favole gli sembrano dipendere da una pura e semplice ingenuità e si rifiuta talvolta di assumerne la responsabilità 5 : «lo ripeto ciò che dicono i Greci», scrive allora. Ma, nella grande maggioranza dei casi, egli si astiene dal giudicare: si limita a riportare ciò che dicono i greci, in effetti, e c'era qui, da molto tempo, un programma speci fico di verità dietro il quale Pausania poteva rifugiarsi, quali che fossero i suoi sentimenti personali. Si indovina quale fosse questo progamma quando si legge ciò che Dio nigi d' Alicarnasso, nel suo Giudizio su Tucidide, scrive sugli storici del quinto secolo: «Non hanno che uno scopo, sem pre il medesimo: far conoscere a tutti gli uomini tutto ciò che essi avevano potuto raccogliere in fatto di memorie 132
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proprie delle differenti città, memorie che la gente del luogo aveva conservato, o i cui monumenti erano consacrati nei santuari; non aggiungono e non tolgono nulla; tra questi ricordi, c'erano i miti ai quali si era creduto nel corso dei secoli, come anche quelle avventure romanzesche che oggi sembrano tanto puerili». Questi storici antichi non racco glievano le tradizioni locali senza credervi, come fanno i nostri studiosi del folklore; essi si astenevano comunque dal condannarli per un senso di rispetto verso le convinzioni di altri: essi le consideravano come verità, ma verità che non appartenevano né a loro né ad altri: esse appartenevano alle genti del paese; dato che gli indigeni sono i piu indicati a conoscere la verità su loro stessi, e soprattutto perché que sta verità sulla loro città appartiene loro aJlo stesso titolo della città stessa cui la verità si riferisce. E una specie di principio di non ingerenza nelle verità pubbliche altrui. Sei secoli piu tardi, Pausania poteva ancora imitare la loro neutralità perché i miti conservavano ancora, e conser veranno sempre, un'alta dignità culturale. La favola non era folklore, come i concorsi atletici ad Olimpia od altrove non erano spettacoli per la massa 6: erano costumi nazio nali. Vi sono diverse definizioni possibili del folklore ed una di queste lo caratterizza non sulla base di criteri in terni, ma in base al fatto che viene rigettato al di fuori del l'ambito di una cultura che considera se stessa l'unica buona e l'unica vera. Pausania, da parte sua, non respinge quelle tradizioni nazionali che erano i miti. Egli rispetta an che la sua specializzazione poiché la sua inclinazione lo porta a raccogliere le curiosità di ogni città, leggende e mo numenti; e ci vuole cattiva volontà e rimorso di coscienza per ironizzare su ciò che si studia. Egli intinge la penna nel l'inchiostro dei suoi autori ed entra nel loro gioco . Gli ac cade spesso di dichiarare che la tale versione di una leg genda è piu probabile di quell'altra; stiamo attenti a non credere che egli parli sempre a proprio nome 7 : egli parla in veste di filologo, che si mette nella prospettiva del suo au tore ed applica a lui i propri criteri. Alla critica razionalista dei miti segue allora una critica di coerenza interna. Gli abitanti di Feneo raccontano che 133
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Ulisse, che aveva perso i suoi cavalli, li ritrovò passando di là e che innalzò in onore di Poseidòne una statua di bronzo; è plausibile credere .alla leggenda ma non alla sta tua, poiché ai tempi di Ulisse 8 non si sapeva ancora fon dere il bronzo. Le due critiche sono a volte contrapposte. La leggenda di Narciso, morto per essersi innamorato della propria immagine riflessa, dando cosi vita ad un fiore che porta il suo nome, proviene «da una totale ingenuità», per ché non è naturale che un ragazzo già grande non sappia ancora distinguere la realtà dal suo riflesso e perché il nar ciso esisteva già da tempo: tutti sanno che Kore li racco glieva nella prateria quando Ade la sorprese e la rapi 9• Quando Pausania applica cosf ad un mito la necessità di coerenza interna cui obbedisce la realtà, non si può conclu dere che egli creda nella storicità di questo mito : quanti fi lologi, che non credono alla storicità di Trimalcione o di Lady Macbeth, confondono tuttavia la realtà con la fin zione e forzano Petronio e Shakespeare a fare concorrenza allo stato civile 10: essi vogliono precisare in quale stagione si è svolto il banchetto da Trimalcione e risolvere le con traddizioni del testo, dove figurano frutti di stagioni di verse; vogliono stabilire quanti figli esattamente aveva Lady Macbeth. Pausania non crede tuttavia alla realtà di Ade ed alla storicità del rapimento di Kore; abbiamo visto prima che secondo lui <<non bisogna immaginare che gli dei abbiano una dimora sottoterra». Pausania, come filologo, accetta tacitamente tutte le leggende che non critica, ma egli le rifiuta come uomo . Cal listo, amata da Zeus, non è stata trasformata in costella zione, poiché gli Arcadi possono mostrare la sua tomba: ecco l'esigenza di coerenza interna ed è il filologo che parla; «io ripeto qui ciò che dicono i greci», aveva specificato prima: ecco qui comparire l'uomo che prende le distanze da una leggenda ridicola ed irrispettosa; si concluderà dunque che Zeus si è limitato a dare alla costellazione il nome di C allisto: ecco qui lo storico razionalista che si mette agli or dini del filologo e dà un'interpretazione credibile ad un mito alla cui storicità l'uomo non crede 1 1 • Pausania ha un pensiero chiaro ed uno stile sottile. 134
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È per devozione che Pausania non crede a quasi nes suna delle leggende che raccoglie fedelmente; separiamo la demitologizzazione dalla mancanza di religione . A quell'e poca la miscredenza non si identificava nella critica dei miti, ma piuttosto in quella degli oracoli: Cicerone, Eno mao e Diogeniano 12 non sono assolutamente anime devote; nel mettere in ridicolo gli oracoli, non pensavano assoluta mente di giustificare gli dei. Pausania, invece, crede agli dei ed anche ai loro miracoli: l' «epifania» delle divinità a Delfi, al momento dell' invasione galata, è per lui un fatto indiscu tibile 1 3 • La piccola rivoluzione che è avvenuta in Pausania, in occasione della sue ricerche sulle antichità arcadiche, è con sistita nell'accorgersi che alcune leggende, lungi dal calun niare gli dei, potevano avere un significato elevato 1 4 • Gli era successo di aderire all'interpretazione «fisica» (come si diceva) degli dei; quando, visitando il santuario di Egio, aveva incontrato un fenicio che gli aveva · detto che Ascle pio era l'aria, Apollo il sole, poiché aria e sole danno salute 1 5 , egli era stato d' accordo . Ma, ora che sta studiando l'Arcadia, egli considera inoltre la possibilità di un'esegesi allegorica, dato che gli eruditi di allora «erano abituati a parlare per enigmi»; la stupefacente storia, raccontata dagli Arcadi, di Rhea che offre a Cronos un puledro, per ingan narlo, salvando cosi Poseidone da questo padre orco, non deve essere una inezia 16: essa ha un significato profondo, fisico o forse teologico. Questo fu il primo passo: smettere di prendere i miti alla lettera 17• Il secondo passo fu piu drammatico: rinunciare al prin cipio delle cose attuali ed ammettere che nei tempi mitici potevano esserci condizioni differenti dalle nostre. In ef fetti, una leggenda arcadica diceva che Licaone, poiché aveva sacrificato a Zeus un neonato, fu trasformato in lupo; «e questa storia mi ha convinto», scrive Pausania, «poiché gli Arcadi la raccontano da molto tempo ed ha per loro verosimiglianza. In effetti, gli uomini di quell'epoca erano gli ospiti degli dei e partecipavano alle loro mense, in virtu della loro giustizia e della loro devozione 1 8 ; la ricom pensa o la collera giungeva loro dagli dei senza equivoco a 135
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seconda che essi fossero stati buoni o ingiusti»; tanto che si sono visti, in quei tempi lontani, uomini elevati al rango degli dei. Perché no? Uno spirito poco superstizioso, Epi curo, persuaso che il mondo risalisse a poco tempo fa e fosse ancora in piena evoluzione (è solo in questo senso che egli crede al «progresso») , concludeva che, in pochi secoli, il mondo avesse subito considerevoli trasformazioni; ammet teva perciò che gli uomini d'altri tempi, piu importanti di quelli di oggi, avessero una vita cosi buona da poter ve dere gli dei in pieno giorno, mentre noi non riusciamo piu a captare le emissioni dei loro atomi se non attraverso il so gno t 9 . Pausania stesso, come si vede, mette espressamente la sua evoluzione in rapporto con quanto ha appreso in Arca dia e presta fede alla leggenda di Licaone, poiché la tradi zione è molto antica 20; non è una di quelle fantasie che na scondevano a posteriori la verità originale. Bisogna ricor dare innanzi tutto che Pausania è privo di superstizioni ma non è affatto uno spirito irreligioso; inoltre, saltando tre o quattro secoli di mitologia divenuta scolastica, egli ha ri preso un contatto, libresco ma non banale, con la vita lo cale delle leggende sconosciute; è un topo di biblioteca ed i vecchi libri Io fanno sognare. Anche l'Arcadia: questo paese rude, povero, cosi poco idilli aco, aveva già fatto so gnare Callimaco con il suo arcaismo e si riteneva non avesse apportato nessuna . alterazione ai costumi ed alle credenze originali. Pausania è molto sensibile all ' arcaismo, per la sua vicinanza alla verità. Ne ha una prova curiosa; nei suoi la vori giovanili su Atene, Pausania 2 1 aveva attribuito molto valore agli inni di un certo Pamfo, che i moderni collocano nell'epoca ellenistica e che Pausania riteneva piu antico dello stesso Omero; eccolo ora pensare che Pamfo si fosse istruito all'occasione accanto agli Arcadi. In breve, Pausa nia, prostrato dall'inezia di tanti miti, ma non potendo sup porre, da buon greco qual era, che fosse possibile mentire del tutto, ha finito con l'ammettere sia che i miti dicevano il vero attraverso allegorie ed enigmi, sia anche che dice vano il vero alla lettera, essendo tanto antichi che non li si poteva sospettare di essere stati deformati dalla menzogna. 136
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Rivoluzione spirituale? Non lo so; evoluzione perfettamente logica, senz' altro. Questa evoluzione resta nella linea del pensiero greco a partire da Tucidide e Platone; nella sua religiosità, come nelle sue inquietudini, Pausania resta un classico e nulla in lui preannuncia il neo-platonismo e la religiosità futura. Pau sania non è dunque un autore facile e devo confessare le mie incertezze al lettore: anche se è possibile dipanare i fili della complicata trama tessuta dal nostro autore, resta in com penso difficile decidere, riguardo ai dettagli, se egli parli per suo conto o soltanto come filologo. Ecco che gli Arcadi, sf gli Arcadi, gli raccontano che il combattimento degli dei e dei Giganti ha avuto luogo nel loro paese, sulle rive dell'Al feo; può essere che egli si metta a credere a quelle favole di Giganti di cui già Senofane non voleva piu sentir parlare? Egli cita argomenti ripresi dalla storia naturale e ne discute a lungo 22; ci crede veramente o simula? Rinuncio a decidere. In un'altra occasione 2 3 , a Cheronea, gli viene mostrato lo scettro di Agamennone, che era stato forgiato da Efesto in persona, come racconta l'Iliade; egli discute a lungo su que sta reliquia; esclude, in base a criteri di datazione stilistica, l'autenticità di altre opere che si pretendeva fossero di Efe sto e conclude: «la verosimiglianza ci porta a credere che solo questo scettro sia opera di Efesto». Se questo passo non appartenesse al libro IX, potremmo vederci un atteggia mento da filologo che fa finta di credere a tutto, ma con una punta di umorismo; però, visto che Pausania ci ha detto nel libro VIII che in questi secoli antichi gli dei si univano agli uomini, non so piu che cosa pensare . Non so neanche cosa pensare di un terzo caso 2 \ la genealogia dei re dell'Arcadia, poiché, quando parla di storia, Pausania possiede la stessa sincerità e la stessa astuzia di quando parla di leggende reli giose . Superiamo l'ostacolo ed ammettiamo che lo faccia ap posta: questo greco, che è stato preso per un compilatore, per un Baedeker, si diverte a metterei nel dubbio, come Va léry o Paulhan. O meglio, diciamo come Callimaco; poiché questo era l'umorismo alessandrino. Pausania storico: il suo metodo è quello stesso che ap plica ai miti religiosi ed i nostri dubbi a volte sono gli stessi 137
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(la genealogia dei re dell'Arcadia . . . ) ; si assume la responsa bilità della sfilza di re dell'Arcadia? In religione, egli crede alle divinità, ma non alla mitologia, ed in storia egli crede all'autenticità globale dei tempi eroici. Però la sua globalità non è la nostra, è quella di Tucidide, quando questi scrive che Elleno diede il nome agli Elleni e che Atreo, che era zio di Euristeo, lusingò il popolo e divenne re; ciò che è au tentico si limita ai personaggi ed ai fatti di ordine politico, nonché ai nomi propri. In effetti, c'è un passo dove in definitiva sembra di po ter capire cosa pensa Pausania e, per poterlo capire piu ra pidamente, dobbiamo citarlo 25 : «il popolo dei Beoti deve il suo nome a Beoto, che si dice figlio di Itono e della ninfa Melanippe, e nipote di Anfizione; se si considerano i nomi delle loro diverse città, i Beoti li riprendono da uomini e soprattutto da donne. La gente di Platea, in compenso, mi sembra sia di origine autoctona; il suo noll!e deriva da Pla tea, che si ritiene figlia del fiume Asopo. E chiaro che, in realtà, anche essi hanno avuto originariamente dei re : il re gime monarchico era comune in Grecia, ma i Plateesi non conoscono altri re che Asopo e, prima ancora, Citerone; essi dicono che il secondo dette il nome alla montagna ed il primo al fiume. Io credo, da parte mia, che Platea, da cui prende nome la loro città, fosse figlia del re Asopo e non del fiume Asopo». Se si vuole conoscere il passato di una città bisogna rivolgersi agli indigeni, sperando che essi ne abbiano conservato un ricordo dettagliato, e non c'è ragio ne di mettere in dubbio questi ricordi, a parte le puerilità, le ninfe e le paternità fluviali, che saranno facilmente cor reggibili. Tito Livio non dubitava dell'autenticità dell'elen co dei re di Roma (egli dubitava solamente delle favole bi gotte anteriori a Romolo) ; perché Pausania avrebbe dovuto dubitare degli elenchi dei re di Arcadia e di Acaia? Note l Pausania, Il, 2 1 , 5; cfr . anche l , 26, 6 e VII, 1 8 , 7 , 4. S i troverà un'altra interpretazione «razionalista» di un mito nel V, l , 4; Endimione, anziché essere l' amante di Artemide Luna , amò una principessa che sposò e da cui ebbe dei ·
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Pausania e il suo programma figli, che sono gli eponimi degli Etoli e dei Peoni . Questa è storia, per Pausania; poiché, come discepolo di Tucidide, crede alle sovranità dei tempi eroici e agli avi eponimi. Nel li, 2 1 , l Pausania si rifiuta di discutere. Vedere anche Il, 17, 4.
2 Pausania, VIII, 10, 9; stesso umorismo nel VIII, 10, 4 ; V, 1 3 , 6; VI, 26, 2. Su questo ultimo testo, cfr. R. Demangel in «Revue internationale des droits de l'An tiquité», Il, 1 949, p. 226, che si pone «il problema della buona fede nell'antica de vozione» e ammette che possono esserci delle mistificazioni pie e dunque sincere. 3 Pausania, VI, 26, 2 . 4 Pausania, VIli, 8, 3 . 5 Pausania, VIII, 3 , 6 ; i greci, i n effetti, raccontano qui una favola, quella di Zeus amante di Callisto, che non è degna della maestà degli dei; è altrettanto pue rile e mitologico credere che gli dei trasformino le loro amanti in astri. 6 H. W. Pleket , Zur Soziologie des antiken Sports, in «Mededelingen van het Ne derlands lnstituut te Rome», XXXVI ( 1974), p. 5 7 . In piena epoca imperiale, gli atleti provenivano spesso dalla classe dei notabili (cfr. lo studio di F. Millar su De xippo in «}ournal of Roman Studies>>, 1 969) ed è per questo che gli sport atletici non sono relegati alla sola cultura detta popolare. Quando i Cinici o Dione di Prusa ironizzano nelle loro diatribe contro i giochi atletici, essi biasimano la follia e le va ne passioni degli uomini o piuttosto dei greci in generale; non manifestano disprez zo per un divertimento che sarebbe buono solt�nto per il popolino. A, Roma, inve ce, come fa vedere G. Ville nel suo grande libro La Gladiature, Rome, Ecole françai se de Rome, 1982, gli spettacoli erano considerati manifestazioni di massa, popola ri: Cicerone o Plinio il Giovane pertanto vi assistevano, si, ma ostentando un cer to disprezzo. Proprio a Roma, gli attori di spettacolo, !ungi dal provenire dalla buo na società, erano dei vili buffoni, come Ville ci mostra. Pausania, del resto, ha, di fronte al passato greco, l'atteggiamento comune alla sua epoca; cfr. E.L. Bowie, Greeks and their past in the Sophistic, in «Past and present», 46 ( 1 9 7 0), p. 23.
7 lo preciso, poiché succede che Pausania parli a nome suo quando dichiara che una versione è preferibile ad un'altra; nel IX, 20, 4, egli paragona la giusta spiega zione dei tritoni alla spiegazione mitica; nel VIII, 39, 2, Pausania non dice perché è meglio credere che Figalo sia figlio di Licaone piuttosto che autoctono; la sola spie gazione è che Pausania crede alla genealogia dei re dell'Arcadia (cfr. VIII, 3, l); del resto, egli dichiara che crede espressamente alla storicità di Licaone (VIII, 2 , 4). L'Arcadia, si s a , è stata l a sua «Via d i Damasco».
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Pausania, VIli, 1 4 , 5-8; altro esempio, VIli, 12, 9 .
IO
Pausania, I X , 3 1 , 7-9.
Rimandiamo allo studio classico di L.C. Knights, Exploration, London, 1946; «How many children had lady Macbeth?», cfr. R. Wellek e A. Warren, Theo ry of Literature, New York, Harcourt Brace Jovanovic, 1 956; trad . i t. Teoria della letteratura, Bologna, Il Mulino, 1965 e 1976 2 . I l Pausania, VIII, 3, 6-7. Facendo sempre il gioco filosofico della coerenza in terna, Pausania arguisce allora che «la razza dei Sileni» è mortale, dato che si ve dono tombe di Sileni in diversi luoghi (VI, 24, 8); va da sé che Pausania non crede piu ai Sileni come i contemporanei di Carneade non credevano alle ninfe, a Pan, e ai satiri (Cicerone, De natura deorum, III, 1 7 , 43). 1 2 Cicerone nega gli oracoli tanto quanto nega la «divinazione naturale» (De di vinatione, II, 56, 1 1 5 ) ; di Enomao di Gadara si può leggere nel libro Il della Prepa ratio evangelica di Eusebio; cfr. P. Vallette, De Oenomao Cynico, Paris, 1 908; di Diogeniano si può leggere nei libri Il e V della stessa opera di Eusebio. Plotino crede al contrario agli oracoli (Enneadi, Il, 9, 9, 4 1) .
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Pausania e il suo programma 13 Nel VIII, 10, 9, Pausania si pone seriamente il problema dell'intervento di un dio in una guerra ed invoca il precedente indiscutibile dell'oracolo di Delfi protetto da un miracolo; in effetti (Pausania, X, 23), i Galati furono spaventati da un temporale, un terremoto e un panico collettivo. Sulle «epifanie» divine che proteggono un santuario, cfr. P. Roussel, Un miracle de Zeus Panamaros, in «Bulletin de correspondance hellenique», LV ( 193 1), p. 70; e la quarta sezione della Cronaca di Lindo. 1 4 Pausania, VIII, 8, 3 . u Pausani a, VII, 2 3 , 7·8. 16 Pausania, VIII, 8, 3. 1 7 Per Sallustio, De diis et mundo, 4, per esempio, per i fisici Crono è Chro nos, il tempo che divora i suoi propri istanti; per i teologi, Cronos divorando i suoi propri figli è un «enigma» che rappresenta la fusione dell'Intelligenza con l'Intelligibile, cioè con i suoi propri oggetti; per Plotino, Cronos era l'Intelli genza. 1 8 Pausania, VIII, 2, 3-4. 19 Lucrezio, V, 1 1 70. Poche idee possono essere piu estranee al neoplatoni smo, che ignora la storicità. 20 Pausania, VIII, 2 , 6-7. Sull'Arcadia come tempio della piu antica civilizza zione, ricordiamo che Callimaco aveva scritto un'Arcadia, e che egli situa in Ar cadia la scena del suo inno a Zeus. Gli Arcadi erano famosi per la loro devozione (Polibio, IV, 20) e la loro virtuosa povertà: i liberi cittadini, i capifamiglia stessi, lavoravano con le loro mani, invece di ordinare a dei servitori (Polibio, IV, 2 1 ) . Gli Arcadi s i erano nutriti d i ghiande, primo nutrimento dell'umanità, piu a lungo di tutti gli altri greci (Galeno, vol. VI, p. 62 1 Kiihn). Il tema è rivelatore. Gli Arcadi non sono un popolo arretrato: essi hanno conservato uno stato antico e questo stato, nel corso dei tempi, è rimasto intatto, non è stato alterato. Che le tradizioni siano molto antiche non vuole dire che risalgano ad un passato, piu re moto di altri, ma piuttosto che queste tradizioni possono essere ricondotte senza alterazioni ad un passato il cui ricordo, presso altri popoli, è stato corrotto e in terpolato; vale a dire le tradizioni arcadiche testimoniano uno stato autentico. Le due idee di Pausania sono t) che il passato trasmesso attraverso la tradizione è troppo spesso poco a poco ricoperto di false leggende (ma questo non è il caso di Arcadia) ii) che si può ricostruire il passato a cominciare dalle tracce che ne re stano nel presente; il passato si ritrova nel presente: era già il principio che appli cava Tucidide nella sua Archeologia. 21 Pausania, VIII, 3 5 , 8; questo Panfo è piu antico di Omero (VIII, 37, 9) e solo Oleno è piu vecchio di lui (IX, 27, 2). Bisogna sapere che Pausania aveva fatto ricerche particolari sull'epoca in cui era vissuto Omero, ma aveva rinun ciato a pubblicare le sue conclusioni, a causa dei dogmatismo che regnava tra gli specialisti della poesia omerica (IX, 30, 3). 22 Pausania, VIII, 29, 1-4. Per Senofane, cfr. capitolo terzo, nota 7 . 2 3 Pausania, I X , 4 0 , 1 1 ; 4 1 , 5 . 2 4 Non approfondisco l'argomento per timore d i tediare i l lettore. 2 5 Pausania, IX, l , 1-2.
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Capitolo
nono
Qualche altra verità: quella del falsario, quella del filologo
No, Pausania non dubitava di questi elenchi immagi nari, che facevano tante vittime, a cominciare dal loro stesso inventore. Questa storiografia di falsari sinceri è cosi strana che bisogna soffermarvicisi un momento: vedremo al lora che, se si segue questo problema del falsario, diventa impossibile distinguere tra l'immaginazione ed il reale. Di tutte le pensate bizzarre che abbiamo passato in ras segna dall'inizio di questo libro e che nel loro insieme costi tuiscono quella che di comune accordo viene chiamata «Ra gione ellenica», la piu bizzarra è senza dubbio questa, in cui la finzione raggiunge la sua piu bruta materialità: come si poteva decidere che un re si chia�asse Ampide? Perché que sto nome invece di tanti altri? E dunque esistito un pro gramma di verità in cui era ammesso che qualcuno, Esiodo o un altro, potesse dire il vero quando sciorinava i nomi pro pri che gli erano passati per la testa, o le sue visioni piu sfre nate, alla Swedenborg. Per questa gente l'immaginazione psicologica rappresenta una fonte di veridicità. Questo atteggiamento, normale nel fondatore di una re ligione, non è incomprensibile neanche in uno storico. Gli storici non sono altro che profeti a ritroso ed essi arricchi scono e rianimano a colpi di immaginazione le loro predi zioni post eventum; questa si chiama la retrodizione storica o «sintesi», ed a questa facoltà immaginativa si devono i tre quarti di una intera pagina di storia, mentre l'ultimo quarto proviene dai documenti. C ' è di piu. La storia è anche un ro manzo, con avvenimenti e nomi propri, ed abbiamo visto che si crede vero tutto ciò che si legge mentre lo si legge; lo si ritiene finzione solo dopo, ed è necessario oltretutto che si appartenga ad una società in cui esista l'idea di finzione. Perché uno storico non dovrebbe inventare i nomi dei suoi eroi?. Il romanziere lo fa. Né l'uno né l' altro inventano, 141
Qualche a/ira verità
ad essere precisi: essi scoprono nella loro mente un nome al quale essi nemmeno pensavano. Il mitografo che ha inven tato l'elenco dei re di Arcadia scopriva cosi in se stesso una realtà estranea che egli non vi aveva deliberatamente in serito, e che prima non esisteva; egli era nello stato d'ani mo in cui si trova un romanziere quando «i suoi personaggi gli sfuggono». Egli poteva abbandonarsi a questa realtà, poi ché allora non vi era l'abitudine di chiedere agli storici: «Come sapete questo?». Quanto al lettore . . . Ci si può aspettare da un racconto piacere oppure informazione, il racconto stesso può presen tarsi come vero o come fittizio e, nel primo caso, ci si può credere o reputarlo la menzogna d'un falsario; l'Iliade si presentava in gran parte come opera storica ma, dal mo mento che i lettori si aspettavano del divertimento, il poeta poteva aggiungervi le proprie invenzioni, nell'indifferenza generale. Al contrario, i lettori di Castore, storico creativo della lunga serie dei leggendari re di Argo, lo leggevano per informarsi e credevano a tutto, invece di crogioJarsi nel pia cere della lettura, che non è né vero né falso. Ma, per la precisione, la frontiera fra il divertimento e l'informazione è essa stessa convenzionale ed altre società diverse dalla no stra hanno sperimentato scienze piacevoli; la mitologia, come parte della «grammatica» o erudizione, era una di queste scienze presso gli Antichi. Era possibile assaporare le emozioni dell'erudizione, le delizie del dilettantismo; quando il genitore di un alunno, fine letterato, faceva al grammatico di suo figlio domande tipo «il nome della nu trice di Anchise o il nome della matrigna di Anchemulo», come dice Giovenale, si preoccupava molto poco della sto deità di questi personaggi. Anche da noi esiste il piacere della storia come equivalente del romanzo poliziesco e la strana opera di C arcopino, sotto il suo aspetto universita rio, rientra ampiamente nel campo della fantastoria, a co minciare dal suo voluminoso testo su Virgilio ed Ostia. A dire il vero, il problema è distinguere la nostra fanta storia dalla storia che si vuole seria. Saranno giudicate sulla base della loro verità? Il piu serio erudito può sbagliarsi e , soprattutto, l a finzione non è l'errore. Sulla base del rigore? 142
Qualche altra verità
È ugualmente grande in un falsario, la cui immaginazione
segue inconsciamente i dettami di un programma di verità tanto ·determinato quanto lo è quello che seguono, senza sa perlo, gli storici ritenuti seri; del resto talvolta è lo stesso. Sulla base dei processi psichici? Sono gli stessi; l'invenzione scientifica non è di per sé una facoltà dell' animo; essa è sem plicemente la stessa cosa dell'invenzione. Sulla base dei cri teri della società cui appartiene lo storico? Questo è il punto debole della questione; ciò che è conforme al programma di verità di una società sarà ritenuto un'impostura o un'elucu brazione in un' altra società. Un falsario è un uomo che si è sbagliato di secolo. Il giorno in cui Jacopo da Varazze, conosciuto soprat tutto come autore della Legenda aurea, scopri, nella sua im maginazione, le origini troiane della città di Genova, il giorno in cui un predecessore di Fredegario scopri nella stessa città le origini della monarchia franca, essi fecero una cosa ragionevole : diedero giudizi sintetici sull' «a priori» di un programma del loro tempo. Abbiamo visto che ogni grande impero era stato fondato dai discendenti di Enea (ed ecco, all'occorrenza, Francione) , e che ogni terra prendeva il suo nome da un uomo, la Francia in questo caso. Rimaneva da spiegare cosa fosse andato a fare questo figlio di Enea sulla costa della Frisia, terra di provenienza dei Franchi; la risposta di Fredegario non è piu ipotetica né meno fondata su informazioni rigorose di quanto lo siano le nostre ipotesi sull'origine degli Etruschi e sui secoli oscuri di Roma. Tuttavia, ogni cosa a suo tempo. Gli antichi genealogisti potevano inventare i nomi degli dei o degli antichi re: chiun que comprende che dei miti fino ad allora non identificati erano giunti fino a loro; ma quando nel 1 743 un emulo na poletano del Vasari inventò di sana pianta l'esistenza, i nomi e le date degli artisti dell'Italia meridionale, centocin quant'anni dopo, scoperta la falsificazione, fu ritenuto un mitomane. Infatti, verso il 1 890, la storia dell'arte aveva al tri programmi, peraltro oggi molto accademici e sorpassati. Distinguiamo dunque tra i pretesi falsari, i quali si limi tano a fare ciò che i loro contemporanei trovano normale ma divertono la posterità, ed i falsari che sono ritenuti tali dai 1 43
Qualche altra verità
propri contemporanei. Per prendere i nostri esempi dagli animali piu piccoli, diciamo che questo secondo caso è quello di un personaggio di cui è meglio ridere che pian gere, tanto piu che non è mai esistito, · dal momento che ogni prova della sua esistenza può essere messa in dubbio: un impostore aveva preso il suo posto in tribunale, i suoi li bri erano stati scritti da altri, ed i pretesi testimoni oculari della sua esistenza erano parziali e vittime di un'allucina zione collettiva; una volta che si sa che egli non è esistito, si aprono gli occhi e ci si rende conto di conseguenza che le pretese prove della sua esistenza sono false: sarebbe bastato non avere preconcetti. Questo essere mitico si chiama Fau risson. Se dobbiamo credere alla sua leggenda, dopo aver fatto oscure elucubrazioni su Rimbaud e Lautréamont, giunse verso il 1 980 ad una certa notorietà sostenendo che gli orrori di Auschwitz non avevano mai avuto luogo. Egli si fece insultare. lo affermo che il pover'uomo aveva · ri schiato di avere una sua verità. Era vicino, in effetti, a di versi illuminati contro cui gli storici di questi due ultimi se coli a volte si scontrano: anticlericali che negano la storicità di Cristo (cosa che mi esaspera benché io sia ateo) , menti folli che negano la storicità di Socrate, Giovanna d'Arco, Shakespeare o Molière, si appassionano all'Atlantide e sco prono sull'isola di Pasqua monumenti eretti da extraterre stri. In un altro millennio Faurisson avrebbe fatto una bella carriera come mitologo o, appena tre secoli fa, come astro logo; qualche carenza, dal punto di vista della personalità o della creatività, gli impediva di essere psicanalista. Aveva comunque il gusto della gloria, come l'autore di queste ri ghe, e come ogni persona bennata. Sfortunatamente c'era un equivoco tra lui ed i suoi ammiratori; costoro non rico noscevano che, dato che la verità è molteplice (come noi ci vantiamo di aver stabilito) , Faurisson dipendeva da una ve rità mitica piu che da una verità storica; essendo la verità ugualmente analogica, questi lettori, leggendo Faurisson, ri tenevano di essere nello stesso programma degli altri libri relativi a Auschwitz ed opponevano candidamente il libro di Faurisson a questi libri. Faurisson d'altra parte favoriva la loro letargia imitando il metodo di questi libri, magari 1 44
Q111Jiche altra verità
per mezzo di operazioni che, nel gergo polemico degli sto rici, si chiamavano falsificazioni della verità storica. L'unico torto di Faurisson era di essersi messo sullo stesso piano dei suoi avversari: invece di fare affermazioni assolute, come lo storico Castore, pretendeva di fare della polemica; ora, con il suo delirio sistematico di interpreta zione, metteva tutto in dubbio, ma da un punto di vista unilaterale: questo significava tendere il bastone per farsi bastonare. Avrebbe dovuto, o credere alle camere a gas, o dubitare di tutto, come i taoisti che si domandavano se non erano farfalle che sognavano di essere persone e se sono mai esistite camere a gas . . . Ma Faurisson voleva avere ra gione contro i suoi avversari e come loro: il dubbio iperbo lico sull'intero universo non faceva al caso suo. Lasciamo questo piccolo uomo alle sue piccole osses sioni: il paradosso del falsario (si è sempre falsari rispetto ad un altro programma) è molto al di sopra della sua testa. Questo paradosso pretende di distinguere tra l'errore, che il Grand Siècle attribuiva all'immaginazione psicologica, e l'errante cammino storico della verità, o di ciò che l'imma ginazione creativa pone come verità. Di distinguere tra il falsario che abusa del suo programma e l'estraneo che si serve di un altro programma; Esiodo non era un falsario quando trovava nella sua testa tutti i nomi delle figlie del mare. Restava, attraverso i programmi successivi, un nucleo di fatti accertati che avrebbe potuto costituire l'oggetto di un progresso cumulativo? La discussione dei fatti avviene sempre all'interno di un programma. Certo, tutto può accadere e forse un giorno si scoprirà che i testi greci sono una falsificazione inventata di sana pianta dagli eruditi del sedicesimo secolo. Ma questo dubbio iperbolico, a senso unico in Faurisson, questa possi bilità mai esclusa dell'errore, sono una cosa: lo scetticismo a vuoto non si confonde con il riconoscere che nessun pro gramma si impone; si credeva ancora al Diluvio, un secolo e mez�o fa, e, quindici secoli fa, ai miti. E chiaro che l'esistenza e la non-esistenza di Teseo e delle camere a gas , in un certo punto dello spazio o del tempo, ha una realtà materiale che non dipende dalla no145
Quakhe altra verità
stra immaginazione. Ma questa realtà o irrealtà è percepita o misconosciuta, è interpretata in un modo o in un altro, a seconda del programma in vigore; essa non si impone di per sé, le cose non ci balzano agli occhi. Questo vale anche per gli stessi programmi: un programma valido non nasce natu ralmente. Non vi è una verità delle cose e la verità non è per noi immanente. Per respingere il mito o il Diluvio, non basta uno studio piu attento o una metodologia migliore: bisogna cambiare programma; non si corregge ciò che è stato costruito male, si va ad abitare altrove. Poiché ciò che è il 111atter of facts è conoscibile solo nell'ambito di un'interpretazione. Non vo glio dire che i fatti non esistono: la materialità esiste, ec come, essa è in atto ma, come diceva il vecchio Duns Scoto, essa non è l'atto di nulla. La materialità delle camere a gas non determina la conoscenza che se ne può avere. Di stinti per natura, matter of facts ed interpretazione sono per noi sempre in rapporto, come quei referendum in cui si ri chiede ai votanti una sola risposta per due domande di verse. In altre parole, agli errori all'interno di un certo pro gramma e in relazione a questo, come è il caso di Faurisson o di Carcopino, s 'aggiunge lo stato magmatico, il continuo trasformarsi e modificarsi di tutti i programmi: non si pos sono distinguere le immaginazioni dall'Immaginazione. Se condo le parole di Heidegger in Hokwege, «la riserva del l' ente può essere rifiuto o solo dissimulazione», erranza o errore; «noi non abbiamo mai l'assoluta certezza di sapere se esso sia l'uno o l'altro». Si sa come Heidegger ha impo sto al nostro secolo l'idea che gli enti restano nelle loro ri serve; essi appaiono solo in una schiarita, una radura, e noi, ogni volta, crediamo che questa radura sia senza limiti: gli enti esistono per noi come ciò che è naturale sia cosi. Si potrebbe vedere questa radura come un tutto, si potrebbe dire che non vi sono foreste tutt'intorno, che non esiste niente al di fuori di ciò che crea la nostra immaginazione; che i nostri programmi, lungi dall' essere limitati, sono un qualcosa in piu che noi aggiungiamo all'essere. Ma Heideg ger pensa, al contrario, che la radura non è tutto, tanto che 1 46
Qualche altra 11erità
finisce per ritrovare un fondo di verità, e di una verità a volte anche molto logorata, che lascerà sognanti gli storici e non solo loro («un modo in cui la verità dà prova della sua presenza, è l'instaurazione di uno Stato») . Ci viene il so spetto che un po' di critica storica e sociologica varrebbe piu di molta ontologia. Un falsario è un pesce che, per ragioni caratteriali, non si è sistemato nel vaso giusto; la sua immaginazione scienti fica segue metodi che sono al di fuori del programma. Io sono incline a credere che questo programma sia spesso, anzi sempre, immaginario come quello del falsario. Ma si vede che esistono due tipi d'immaginazione, di cui una sta bilisce i programmi, mentre l'altra serve per eseguirli. Que st'ultima, che è la ben conosciuta facoltà psicologica, è in fra-storica. La prima, o immaginazione costituente, non è un dono d'invenzione che potrebbe trovarsi negli individui; è una specie di spirito oggettivo con il quale gli individui entrano in rapporto. Essa costituisce le pareti di ogni vaso, pareti che �ono immaginarie, arbitrarie, in quanto mille pa reti diverse sono state innalzate e saranno innalzate nel corso dei secoli. Essa non è dunque transtorica, ma piutto sto interstorica. Tutto ciò ci toglie il mezzo di distinguere in modo radicale le opere culturali, che si sono volute vere, dai puri prodotti dell'immaginazione. Torneremo su questo punto, ma raccontiamo prima il breve epilogo della nostra avventura. Ciò che ha permesso la nascita della scienza storica, se condo il concetto moderno, non è stata la distinzione tra fonti primarie e secondarie (le si sono distinte molto presto e questa distinzione non è una panacea) ; ma la distinzione delle fonti dalla realtà, degli storici dagli stessi avvenimenti storici. Ora questi, dopo Pausania, sono sempre piu confusi e saranno confusi per molto tempo, fino a quel Bossuet che stabiliva ancora un sincronismo tra Abimelech ed Eracle ri petendo ciò che aveva affermato la Cronaca di Eusebio. È su questa nuova modalità di credere ai miti che · noi conclu deremo. Le relazioni tra il genere storico e quella che per molto tempo abbiamo chiamato grammatica o filosofia non sono 147
Quakhe altra verità
semplici. La storia vuole conoscere «ciò che è veramente ac caduto [was eigentlich geschehen ist 1] (diceva Ranke) , mentre la filosofia è il pensiero del pensiero, la conoscenza del co nosciuto [Erkenntnis des Erkannten 2] (diceva Boeckh) . Spesso la conoscenza di ciò che è successo è solo un mezzo per spiegare un testo classico, nobile oggetto di cui la storia non è che il referente; è cosf quando la storia della Repubblica romana serve solo a capire meglio Cice rone. Piu spesso i due oggetti si confondono; quella che ve niva chiamata un tempo «Storia letteraria» (cioè storia co nosciuta attraverso la letteratura) e che oggi si chiama uma nesimo guarda Cicerone attraverso gli avvenimenti dell'ul timo secolo della Repubblica e guarda la storia del secolo attraverso gli innumerevoli dettagli contenuti nell'opera di Cicerone 3• Quanto all'atteggiamento inverso, esso è piu raro, ma esiste ugualmente; consiste nel servirsi di un testo per spiegare la realtà cui il testo si riferisc,e e che resta, per il filologo storico, l'obiettivo principale. E l'atteggiamento di uno Strabone; conosciamo l'amore cieco che Strabone aveva per Omero , come il suo maestro Crisippo; tanto che il libro VIII della sua Geografia, che contiene la descrizione della Grecia, si occupa innanzi tutto d'identificare i nomi dei luoghi che si leggono in Omero . Strabone si proponeva di far capire meglio il testo di Omero o, al contrario, di ravvivare lo splendore delle differenti città dando loro un riferimento omerico? La seconda interpretazione è la sola valida, altrimenti sarebbe incomprensibile la frase che se gue: «sarebbe difficile dire dove si trovano Ripe, Stratiea e la ventosa Enispe , di cui parla il poeta, e, se anche le si po tesse individuare, questo non servirebbe a niente, dal mo mento che questa regione oggi è disabitata» 4 • Ma esiste anche un terzo atteggiamento, molto diffuso, per cui non si distingue nemmeno tra la realtà ed il testo che ad esso si riferisce; vi è già questo atteggiamento in quell'Eusebio grazie al quale la storia mitica, cosf come la si trova in un Pausania, è arrivata fino a Bossuet . Non che Eusebio sia incapace di distinguere un avvenimento da un testo ! Ma, per lui, le stesse fonti fanno parte della storia; essere storico significa riferire la storia, e significa anche 1 48
Qualche altra verità
riferire gli storici. La maggior parte dei nostri filosofi e dei nostri psicanalisti fanno diversamente nei loro campi rispet tivi? Essere filosofo, la maggior parte delle volte, significa essere uno storico della filosofia; sapere la filosofia signi fica sapere ciò che i diversi filosofi hanno creduto di sa pere; sapere che cos'è il complesso di Edipo consiste in nanzi tutto nel sapere e nel commentare ciò che ne ha detto Freud. Pio precisamente, in questa mancanza di distinzione tra il testo e le cose di cui questo tratta, talvolta l'accento è messo sulle cose, talvolta sullo stesso testo. Il primo caso è quello di ogni testo ritenuto rivelato o rivelatore: commen tare Aristotele, Marx o il Digesto, approfondire il testo, at tribuirgli coerenza, accreditargli a priori l'interpretazione pio intelligente e la pio aggiornata possibile, significa sup porre che il testo possieda la profondità e la coerenza della realtà stessa. Perciò, approfondire il testo sarà come appro fondire la realtà 5 , il testo sarà ritenuto profondo in quanto sarà impossibile approfondirlo al di là di ciò che ha scritto il suo autore: quello che si approfondisce si confonde cosi con le cose stesse . Ma l'accento può essere messo anche sul libro, considerato come oggetto di superstizione corpora tiva. Questo era l'atteggiamento che l'Antichità attribuiva ai suoi filologi, che venivano chiamati grammatici. Atteg giamento che non si limitava a considerare i testi come clas sici le cui affermazioni, vere o false che fossero, erano in ogni caso importanti da conoscere: ciò che diceva il libro era ritenuto autentico. Succedeva cosi che il grammatico accreditasse per vere leggende alle quali, come uomo, non credeva; si raccontava 6 che il pio grande erudito dell' Anti chità, Didimo, che aveva scritto pio libri di quanti ne po tesse lui stesso ricordare, si indignò un giorno per un aned doto storico che gli avevano raccontato e che, secondo lui, non aveva nessun fondamento; lo si convinse mostrandogli una delle sue stesse opere in cui la storia era data per vera. Atteggiamento differente da quello del mito, dove la parola parla da sola come se ne avesse l' autorità . Differente anche da quello di un Tucidide, di un Polibio, di un Pausa nia: essi, come i nostri reporters, non citano le loro fonti e 1 49
Qualche altra verità
vogliono essere creduti sulla parola, come sembra, poiché scrivono piu per il pubblico che per i loro colleghi. Nean che Eusebio cita le sue fonti: egli le trascrive; questo non significa che egli vi presti fede sulla parola e ancor meno che preannunci la storia · «veramente scientifica»: lo fa per ché ciò che è scritto fa parte delle cose da conoscere; Euse bio non fa distinzione tra conoscere le cose e conoscere ciò che è scritto nei libri. Egli confonde la storia con la gram matica 7 e, se si crede al progresso, si dovrà dire che il suo metodo rappresenta un passo indietro. Un analogo atteggiamento, in cui ci si propone di sapere quello che si sa, era molto appropriato alla funzione di con servazione dei miti. Ne è un bell'esempio la Storia naturale di Plinio. Vi si trova 8 un elenco delle grandi invenzioni; la teoria dei venti si deve a Eolo, l'invenzione del tornio «ai Ciclopi, secondo Aristotele», la botanica a Chirone, figlio di Saturno, l'astronomia ad Atlante, ed il grano a Cerere «che, per questo, venne reputata una dea». Come accade spesso, il metodo di pensiero, cioè il questionario, ha dato forma al pensiero stesso: Plinio è stato succube di una legge del genere; invece di riflettere sulle cose stesse, l'elenco da completare ha sfidato questo infaticabile lettore a rispon9ere a domande tipo: «si sa chi ha inventato questo o quello?» ed egli ha risposto: «Eolo, Atlante» poiché cono sceva ciò che si può trovare in qualsiasi libro. Lo stesso per Eusebio. Il suo Chronicon ricapitola nove secoli di pensiero sui miti e costituirà la base del sapere sto rico fino a Dom C almet compreso 9 • Vi troviamo le genealo gie, quella dei re di Sicione e quella dei re di Argo, di cui il primo fu Inaco, la cui fonte era lo storico Castore; quella di Micene, con Atreo, Tieste, Oreste, e quella di Atene con Cecrope e Pandione. Si dispone di tutti i sincronismi: al tempo in cui Abimelech regnava sugli Ebrei ebbe luogo la battaglia dei Lapiti e dei Centauri, «che Palèfato, nelle sue De incredibilibus, dice essere stati famosi cavalieri tessali»; si posseggono le date: Medea segui Giasone e lasciò suo padre Eeta settecentottanta anni dopo Abramo, e di conse guenza milleduecentotrentacinque anni avanti Cristo. Eu sebio è un razionalista: nel 650 dall'era di Abramo, Gani1 50
Qualche altra verità
mede fu rapito da un principe del vicinato; «una favola ir reale», dunque, · che fosse stato Zeus con il suo uccello da preda. La Gorgone, alla quale Perseo tagliò la testa nel 670 dall'era di Abramo, era semplicemente una cortigiana dal l' affascinante bellezza. Finiamo citando da capo il Discours sur l'histoire universelle del vescovo di Meaux: la guerra di Troia, «quinta era del mondo», è una «epoca adatta a riu nire in sé ciò che i tempi favolosi» - in cui la verità è «ri coperta» di falsificazioni - «hanno di piu vero e di piu ' bello»; in effetti «vi sono gli Achille, gli Agamennone, i Menelao, gli Ulisse, Sarpedone, figlio di Zeus, Enea figlio di Afrodite». Da Erodoto a Pausania ed Eusebio (stavo per dire a Bossuet) , i greci non hanno mai smesso di credere al mito, di considerarlo un problema, ed il loro pensiero non è mai progredito sui dati di questo problema, né sulle sue solu zioni; nel corso di un mezzo millennio vi sono stati molti grandi uomini come Carneade, Cicerone o Ovidio, perché non si credesse agli dei, ma nessuno ha mai dubitato di Eracle o di Eolo, anche se questo avvenne a costo di razio nalizzazioni; i cristiani hanno distrutto gli dei della mitolo gia, ai quali nessuno credeva 1 0 , ma non hanno detto niente degli eroi mitologici, dato che essi ci credevano come tutti gli altri, Aristotele, Polibio e Lucrezio compresi. Come siamo giunti alla fine a non credere piu alla stori cità di Eolo, Eracle o Perseo? Il sano metodo scientifico e la dialettica, materialistica o meno, servono a qualcosa. È raro che grandi problemi politici o intellettuali arrivino ad una soluzione, siano risolti, sistemati e superati: piu spesso questi vengono insabbiati, dimenticati o cancellati. L'av vento del cristianesimo ha cancellato un problema di cui i greci non avevano trov�to la chiave e da cui non riuscivano neanche a distaccarsi. E lecito supporre che essi si fossero appassionati a tale problema per ragioni altrettanto acci dentali. Le nutrici, dopo secoli, avevano infine cessato di par lare ai bambini degli eroi e degli dei, ma gli eruditi, a modo loro, ci credevano ancora. Essi hanno smesso di crederci per due ragioni. Nata dalla ricerca, dal reportage, la storia, 151
Qualche altra verità
con Eusebio, aveva finito con l'essere una storia confusa con la filologia; tra i moderni nasce qualche cosa di molto differente, ma che porta ancora il nome di storia; essa è nata dalla polemica e dalla separazione nei confronti della filolo gia. Si cessò di confondere, tenendoli nella stessa considera zione, la realtà storica ed i testi che la riportavano, mentre la querelle degli antichi e dei moderni spogliava questi testi delle loro aureole. Venne poi Fontenelle, il quale pensò che poteva non esserci una sola parola di vero nella fabulazione. Non ci si è perciò liberati del problema del mito, che si è, al contrario, aggravato 1 1 ; non ci si domanda piu: «quale verità possiede la favola? Poiché essa contiene del vero, giacché non si può parlare del nulla» ma piuttosto: «quale significato o quale funzione ha il ll!.ito? Poiché non è possibile parlare o immaginare un nulla». E evidente. Questa esigenza di trovare una ragione di essere nella fa bulazione tradisce una certa inquietudine da parte nostra di fronte all 'errore ed è il rovescio della nostra mitologia della verità e della scienza. Come ha potuto l'umanità, noi pen siamo, sbagliarsi cosi a lungo e cosi a fondo? Mito contro ragione, errore contro verità, dovrebbe esserci una probabi lità su due. Se la verità resta una ed insospettabile, l'errore si manifesterà forse secondo modalità di credenza differenti in quanto ad intensità e valore. L'umanità avrà avuto forse il torto di essere stata per troppo tempo sottomessa in quanto ad autorità ed a simboli sociali. Ma ci credevano cosi tanto? Gli spiriti voltairiani sono intimamente inclini a dubitare che il loro prossimo creda veramente a queste sciocchezze; sospettano dell'ipocrisia in ogni dottrina. Essi non hanno completamente torto: non si crede ai neutroni, ai miti o all'antisemitismo come si crede alle testimonianze dei sensi ed alla morale delle tribu; poiché la verità non è una. Ma queste verità sono comunque analoghe tra di loro (sem brano essere le stesse) e la loro sincerità è pari, poiché esse fanno agire con la stessa intensità i loro fedeli. La moltepli cità delle modalità di credenza è in realtà molteplicità dei criteri di verità. Questa verità è figlia dell'immaginazione. L' autenticità delle nostre credenze non si misura a seconda della verità 152
Qualche altra verità
del loro contenuto. Dobbiamo ancora comprendere il mo tivo, che è semplice: siamo noi a costruire le nostre verità e non è «la» realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell'immaginazione costituente della nostra tribo. Se fosse altrimenti, la quasi-totalità della cultura universale comin cerebbe ad essere incomprensibile, mitologia, dottrine, far macopee, false scienze e scienze false. Fino a quando parle remo attraverso la verità, non capiremo niente di una cul tura e non riusciremo a metterei ad una certa distanza dalla nostra epoca come facciamo nei confronti dei secoli passati in cui si parlava attraverso i miti e gli dei. L'esempio dei greci dimostra un'incapacità millenaria di distaccarsi dalla menzogna; non sono mai riusciti a dire : «il mito è completamente falso, poiché non ha alcun fonda mento», e neanche Bossuet lo dirà. L'immaginario, come tale, non viene mai rifiutato, come per un intimo presenti mento che, se venisse rifiutato, non sussisterebbe pio al cuna verità. O si dimenticano i miti di una volta, per par lare di altre cose e cambiare d'immaginazione, o si vuole as solutamente trovare quel nocciolo di verità che era rac chiuso nella fabulazione o che la ispirava. Constateremo la stessa cosa passando dai miti eroici, i soli che abbiamo studiato, alle credenze negli dei propria mente detti. In Atheism in Pagan Antiquity, A . B . Drach mann ha mostrato come l'ateismo antico negasse meno l'esistenza degli dei di quanto non criticasse l'idea popolare degli dei; esso non escludeva una concezione pio filosofica della divinità. I cristiani, a modo loro, non sono andati ol tre nella negazione degli dei del paganesimo; essi non hanno detto tanto: «vaghe favole» quanto piuttosto: «con cezioni indegne». Dal momento che essi volevano mettere il loro Dio al posto di quello dei pagani, si potrebbe pensare che il programma pio opportuno fosse dimostrare .che Zeus non esisteva, poi, in un secondo tempo, esibire le prove dell'esistenza di Dio. Il loro programma non è stato questo: sembra che essi, pio che rimproverare agli dei pagani di non esistere, li rimproverassero per il fatto di non essere gli dei giusti; pio che negare Zeus, sembra fossero impegnati a sostituirlo con un re che fosse pio degno del trono divino. 153
Qutikhe altra verità
Ecco perché l'apologetica del cristianesimo antico ci dà una sensazione di estraneità; sembra che, per dare un posto a Dio, bastasse cacciare gli altri dei. Piu che distruggere le idee false ci si proponeva di sostituirle; anche quando i cri stiani sembrano attaccare la veridicità del paganesimo, essi non vanno a fondo. Lo si è visto nelle pagine precedenti: essi criticavano inutilmente la puerilità e l'immortalità dei racconti mitologici ai quali i pagani non avevano mai cre duto e che non avevano niente in comune con la conce zione elevata e sofisticata che il tardo paganesimo si faceva della divinità; il fatto è che lo scopo di questa polemica consisteva piu nell'escludere dei rivali che nel convincere degli avversari; di far sentire che il Dio geloso non tollerava alcuna spartizione, a differenza degli dei del paganesimo, che si sopportavano tutti tra di loro (dato che tutti erano veri e nessuno escludeva gli altri) ; non era molto impor tante che gli attacchi contro gli dei della favola fossero stati poco pertinenti; l'importante era far capire che non si tolle ravano ragionamenti concilianti. Gli dei pagani erano inde gni, ecco tutto; la loro indegnità implicava senza dubbio la falsità; ma, cosa piu importante ancora di questo punto di vista intellettuale, essa implicava soprattutto che non se ne voleva piu sentir parlare; essi non meritavano di esistere . Se si vuole, per scrupolo da pensatore, tradurre in dottrina questa indegnità, si dirà, con Eusebio, che gli dei pagani, piu che essere degli dei falsi, sono dei falsi dei: sono de moni che, per ingannare gli uomini, si sono fatti passare per dei, soprattutto per mezzo della loro conoscenza del fu turo; essi hanno impressionato gli uomini con oracoli veri tieri. È piu facile eliminare un'immaginazione che negarla; è molto difficile negare un dio, anche se è il dio di altri, e lo stesso giudaismo antico ci riusd con difficoltà. Affer mava, piuttosto, che gli dei stranieri erano meno forti del dio nazionale o che non erano interessanti; disprezzo o spa vento, non negazione : ma per un patriota è la stessa cosa; esistono gli dei degli altri? Importa poco la loro esistenza: l'importante è che gli dei degli altri non valgono niente, sono idoli di legno o di pietra che hanno orecchie solo per 154
QUtJkhe altra verità
non ascoltare; questi altri dei non «si conoscono», sono dei <(che non ci sono stati dati in sorte», ripete il Deutorono mio, ed i libri piu antichi sono piu chiaramente espliciti. Quando l'arca venne portata nel tempio di Dagon, si ri trovò il giorno dopo l'idolo di questo Dagon, dio dei Fili stei, prosternato, faccia a terra davanti al dio l'Israele; il li bro di Samuele lo riferisce ed il salmo XCVI dirà: <(Tutti gli dei si inchinano davanti a Jahveh». Si conoscono gli dei delle altre nazioni solo nei trattati internazionali; quando si dice all'amorita: <(Come potresti non possedere ciò che Ca mos, il tuo dio, ti concede di possedere?», è il modo di pro mettergli il rispetto del suo territorio. Le nazioni possono facilmente fare a meno del concetto di vero e di falso, che osservano o credono di osservare solo certi intellettuali in certe epoche. Se ci si riflette un momento, l'idea che la verità non esi sta non è piu paradossale o paralizzante dell' idea di una ve rità scientifica che è sempre provvisoria e che sarà dichia rata falsa domani. U mito della scienza ci impressiona; ma non confondiamo la scienza con la sua scolastica, la scienza non scopre verità, cui possa dare una sistemazione matema tica o una formalizzazione; essa scopre fatti sconosciuti che si possono commentare in mille modi; lo scoprire una parti cella subatomica, una formula tecnica che funziona o la mo lecola del DNA, tutto questo non è piu straordinario dello scoprire gli infusori, il capo di Buona Speranza, il Nuovo Mondo, o l'anatomia di un organo . O la civiltà sumerica. Le scienze non sono piu rigorose delle lettere e, dato che in storia i fatti non sono separabili dalla loro interpretazione ed è possibile immaginare qualsiasi interpretazione si vo glia, lo stesso deve accadere per le scienze esatte. Note 1 A. Momigliano ha ricordato che questa parola classica di Ranke diventa in realtà di Luciano, cfr. P. Veyne, Comment on écrit l'histoire, Paris, Seui!, 1979 2 , p. 39. 2 A. Boeckh, En:zykloptidie und Methodenlehre der phi/o/ogischen Wissenschaf· ten, vol. l, Formale Theorie der phi/o/ogischen Wissenschaft (1877), 1 967, Darm· stadt, Wiss . Buchg.
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Qualche aliTa verità 3 M. Riffaterre, La Production du texte, Paris, Seuil, 1 979, p. 1 76: «Tutto lo sforzo della filologia è stato di ricostruire realtà scomparse, per paura che il poema non muoia con il suo riferimento». 4 Strabone, VIII, 8, 2, C . 388. Citiamo piu generalmente Strabone, VIII, 3 , 3 , C . 337: «lo paragono l o stato attuale dei luoghi con ciò che dice Omero; è ne cessario: tanto il poeta è illustre e ci è familiare; i miei lettori riterranno che non ho realizzato il mio proposito a meno che non vi sia nessuna contraddizione a quello che dice da parte sua questo poeta nel quale si ha i ma cosi grande fidu· eia». 5 P. Hadot, Philosophie, exégèse et contresens, in Acte du XIV Congrès interna· tiona/ di phi/osophie, Wien, 1 968, pp. 335-337.
6 L'aneddoto si legge in Quintiliano, I, 8, 21. Su tutto questo, cfr. M. Fou cault, Les Mots et /es Choses, Paris, Gallimard, 1966, lrad. it. Le parole e le cole, Milano, Rizzoli, 1978; sulle scienze nel sedicesimo secolo: «La divisione, per noi evidente, tra ciò che vediamo, ciò che gli altri hanno osservato e trasmesso e ciò che altri ancora infine immaginano o credono ingenuamente, insomma la grande tripartizione, tanto semplice in apparenza, e cosi immediata dell'Osse111azione, del Documento e della Favola, non esisteva» (p. 145); «Quando deve essere fatta la storia di un animale, la scelta tra il mestiere del naturalista e quello del compi latore si rivela vana e impossibile: occorre raccogliere entro una sola e medesima forma del sapere tutto ciò che è stato veduto e ascoltato, tutto ciò che è stato rac conllllo dalla natura o dagli uomini, dal linguaggio del mondo, delle tradizioni o dei poeti» (p. 54). Qui ci limitiamo a rimandare a Quintiliano, lnstitutio oratoria, I, 8, 18-2 1 .
7 A . Puech, Histoire de la litterature grecque chretienne, Paris, Les Belles Let tres, 1930, vol. III, p. 1 8 1 : «La storia generale apparirà, presso Eusebio, solo at traverso la storia letteraria e attraverso il mezzo della storia letteraria». Per storia letteraria, Puech intende, nel senso antico dell'espressione, la storia raccontata attraverso la letteratura della quale manteniamo il ricordo. 8 Plinio, Naturalis Historia, VII, 56 (57), 1 9 1 . Troviamo un'altra lista d'in ventori presso Clemente Alessandrino, Stromata, I, 74: Atlante ha inventato la navigazione, i Dattili il ferro, Api la medicina, e Medea la tintura dei capelli; ma Demetra e Dioniso sono scomparsi dalla lista . . . secondo Clemente, grande crono logista, Dioniso, che fu solo un uomo, ha vissuto solo sessantatré anni prima di Eracle e non ha il merito di nessuna invenzione. Plinio o Clemente sono stati tra scinati qui da uno schema; uno strumento della ragione, il questionario: chi ha inventato cosa? Dato che il questionario era una delle tecniche di pensiero del tempo (ve ne sono altre, per esempio le liste per eccellenza: le sette meraviglie del mondo, i dodici grandi oratori . . . ). Come lo scrive G . C . Passeroni, in Les Yeux et /es Oreilles, introduzione a L 'Oei/ à la page, Paris, G . I . D . E . S . , 1 979, p. 1 1 , «
Quakhe altra verità I l In effetti, tutto sembra riprendere dall'inizio. Un grande studio di F. Hampl, Geschichte als kritische Wissenschaft, Darmstadt, Wiss. Buchg. , 1975, vol Il, 1-50 (Mythos, Sage, Marchen), fa vedere che sarebbe inutile la distinzione fra il racconto, la leggenda e il mito, attribuendo loro una scala differente di veri tà o una relazione differente con la religione. Il «mito non è un elemento transto rico, una costante; i concetti che il pensiero mitico pratica sono tanto molteplici, variabili e impercettibili quanto gli altri concetti letterari che attraversano le let terature di tutti i popoli e di tutti i secoli. Il mito non è un'essenza,.. .
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Capitolo decimo
Fra la cultura ed il credere in una verità si deve scegliere
Si è dunque creduto per molto tempo ai miti, fondan dosi su programmi molto diversi da un'epoca all'altra, è vero. Normalmente si crede nelle opere dell'immagina zione. Si crede alla religione, a Madame Bovary mentre la si legge, ad Einstein, a Fustel de Coulanges, all'origine troiana dei Franchi; tuttavia, in certe società, alcune di queste opere sono ritenute delle finzioni. Il campo dell'im maginario non si ferma qui: la politica, ci riferiamo alle pra tiche politiche e non solo alle pretese ideologie, possiede l'i nerzia arbitraria ed opprimente dei programmi stabiliti; la «parte nascosta dell'iceberg» politico dell'antica città è du rata quasi quanto il mito; sotto il ricco drappeggio pseudo classico in cui l'avvolge, rendendola banale, il nostro razio nalismo politico, essa ha avuto contorni bizzarri che appar tengono solo ad essa. La stessa vita quotidiana, !ungi dal l'essere l'immediatezza, è il punto d'incontro delle immagi nazioni e si crede con convinzione al razzismo ed agli ietta tori. L'empirismo e la sperimentazione sono quantità tra scurabili. Si ridarà all'immaginazione il suo giusto valore se si pensa che in Einstein, per prendere questo esempio or mai leggendario, non vi è niente di banale; ha innalzato un grattacielo teorico che ancora non ha potuto essere messo alla prova sperimentalmente; quando anche lo fosse, la teo ria non sarebbe v�rificata; non verrà per questo provata: sarebbe semplicemente non invalidata. E questo non è il peggio. Queste costruzioni fantastiche che si susseguono l'una dopo l'altra e che sono state tutte ritenute vere hanno i piu diversi stili di verità; l'immagina zione che costituisce questi stili non ha nessuna coerenza; essa segue la casualità delle ragioni storiche. Essa non solo cambia progetto, ma anche criterio: lungi dall'essere un in dice che parla da sé, la verità è la piu variabile delle misure. 159
La
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il credere in una verità
Essa non è una costante transtorica, ma una creazione del l'immaginazione costituente. Non è molto grave che gli uo mini abbiano idee differenti da una parte e dall'altra dei Pi renei o dell' anno 1 789. Quello che è molto piu grave è che lo scopo stesso delle nostre affermazioni contrastanti, i cri teri ed i modi attraverso i quali giungiamo alle idee vere, in breve i programmi, variano senza che noi ce ne rendiamo conto. Come scrive Guy Lardreau 1 , «dire che il trascendentale è storicamente costituito, significa anche che non potrebbe essere toccato dall'universalità; bisogna pensare ad un tra scendenta le particolare. Ma non c'è niente di piu misterioso, dopotutto, di ciò che viene comunemente chiamato · cul tura». Il programma di verità storica su cui si fonda questo stesso libro non. consisteva nel dire come progredisce la ra gione, come la Francia si fosse costruita, su quali basi pog giassero il pensiero e la vita della società, ma consisteva nel · riflettere sulla formazione della verità attraverso i secoli, nel voltare la testa per vedere il tracciato del cammino per corso; questo � un prodotto della riflessione . Ciò non im plica che questo programma sia piu vero degli altri ed ancor meno che abbia piu ragioni d'imporsi e di durare degli altri; implica solamente che si può pronunciare senza contraddi zione questa frase: «la verità è che la verità cambia». In questa �oncezione nietzschiana 2, la storia di ciò che è stato detto e di ciò che è stato fatto assume il ruolo di una critica trascendentale . Immaginazione costituente? Queste parole non si rife riscono ad una facoltà · psicologica individuale, ma si rife riscono al fatto che ogni epoca pensa ed agisce nell'ambito di quadri di riferimento arbitrari e statici (è chiaro che in uno stesso secolo questi programmi possono contraddirsi tra loro da un campo di attività all' altro, e che queste con traddizioni il piu delle volte saranno ignorate) . Una volta che si è all'interno di uno di questi vasi, ci vuole un colpo di genio per uscirne e cambiare; in compenso, una volta fatto questo geniale cambiamento di vaso, i bambini piccoli possono essere socializzati sin dalle classi elementari al nuovo programm�. Essi ne sono soddisfatti come i loro an1 60
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tenati erano soddisfatti del loro, e non cercano assoluta mente il modo di uscirne poiché non percepiscono nulla al di là di questo 3 : quando non si vede ciò che non si vede, non ci si rende nemmeno conto di non vedere. A maggior ragione non ci si rende conto della forma bislacca di questi limiti; si crede di vivere entro confini na turali. Inoltre, poiché la falsa analogia della verità si muove a suo capriccio attraverso gli anni, si crede che gli antenati già occupassero la stessa patria, o almeno che il compi mento dell'unità nazionale fosse prefigurato e che qualche progresso lo portasse a termine. Se qualcosa merita il nome di ideologia, questo è proprio la verità. Bisogna ripeterlo? Questo trascendentale è il fatto che le cose vadano in questo modo: ne è la descrizione; non è un'istanza, un'infrastruttura che avrebbe dato loro quel corso; cosa significherebbe una simile logomachia? Non si può dunque affermare che questo significhi ridurre la storia ad un processo tanto implacabile quanto irresponsabile. Ri conosco che l'irresponsabilità è una gran brutta cosa e che, essendo brutta, essa è sicuramente falsa (Diodoro ve lo dirà) ; ma, grazie a Dio, non si tratta di questo. La virtus dormitiva spiega gli effetti dell'oppio, che sono comprensi bili attraverso cause chimiche. I programmi di verità hanno cause storiche; la loro inerzia, la lentezza del loro succe dersi l'uno all' altro, è essa stessa molto empirica: essa è do vuta a ciò che noi chiamiamo socializzazione (Nietzsche di ceva «addestramento» ed è l'idea meno razzista e biologista che possa esserci) . Questa lentezza, ahimè, non è il lento «lavoro» di risveglio dell'inconscio, chiamato anche ritorno del represso; essa non è choc della realtà o progresso della ragione o altri ideali responsabili. La costituzione e la suc cessione dei programmi si spiegano con le stesse cause con cui hanno a che fare gli storici, per lo meno quando non si conformano a schemi precostituiti. I programmi si costrui scono come gli edifici: con file di pietre una dopo l'altra, mentre ogni episodio si spiega attraverso i dettagli degli episodi precedenti (la creatività individuale e l'imprevedibi lità del successo che può essere «ottenuto» o no fanno parte eventualmente di questo poligono di innumerevoli cause) ;
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la costruzione dell'edificio, infatti, non è imperniata su grandi ragioni, quali la natura umana, i bisogni sociali, la - logica delle cose, che sono quello che sono, o le forze di produzione. Ma non minimizziamo la controversia; un pen satore marxista di cosi gran talento come Habermas non va ad accollarsi ipostasi soporifere quali le forze o i rapporti di produzione; se ne sbarazza con due righe. Ma è piu diffi cile sbarazzarsi della ragione; Habermas riassume da qual che parte la sua filosofia in queste parole: «l'uomo non può non imparare»; la questione è tutta qui, mi sembra. Il con trasto Habermas-Foucault, vale a dire Marx-Nietzsche, re- . suscita, nell'epoca della moderna incoerente trinità Marx Freud-Nietzsche, il conflitto fra il razionalismo e l'irrazio nalismo 4 . Ora, tutto ciò non è senza conseguenza per lo stato at tuale della ricerca storica. Da quaranta od ottant' anni, la storiografia affermata ha come implicito programma l'idea che scrivere la storia significhi scrivere la storia della so cietà. Non si crede piu al fatto che esiste una natura umana e si lascia ai filosofi della politica l'idea che esista una verità delle cose, ma si crede alla società e ciò permette di pren dere in considerazione lo spazio che si estende tra ciò che chiamiamo economia e ciò che possiamo classificare sotto l'etichetta di ideologia. Ma allora, che fare di tutto il resto? Cosa ne facciamo del mito, delle religioni (dal momento che esse non hanno solo una funzione ideologica) , della fu tilità di \)gni tipo o, piu semplicemente, dell'arte e della scienza? E molto semplice: o la storia letteraria, tanto per fare un esempio, sarà incorporata nella storia sociale, op pure, se non vuole o non può unirsi a questa, essa non sarà storia, e ci si dimenticherà della sua esistenza; sarà abban donata ad una categoria specifica, gli storici della lettera tura, che saranno storici solo di nome . La maggior parte della vita culturale e sociale resta cosi al di fuori del campo della storiografia, anche se que sta storiografia non è cronaca. Ora, se si prova a prendere in considerazione questa parte, al fine di operarvi un giorno quel «disboscamento» che Lucien Febvre attribuiva come compito alla storiografia allora in voga, ci si accorge che 162
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non lo si può fare se non rifiutando ogni razionalismo, grande o piccolo, in modo tale che tutto questo insieme di immaginazioni non debba piu essere giudicato falso, né d'altra parte vero. Ma allora, se si arriva ap elaborare una dottrina tale, per cui le credenze possono non · essere né vere né false, per contraccolpo, quei campi che sono rite nuti razionali, come la storia sociale ed economica, do vranno essere anch'essi giudicati né veri né falsi: essi non si giustificano attraverso uno schema che fa delle loro cause una ragione; come conclusione di questa strategia di aggior namento, dobbiamo cancellare tutto ciò che ci tiene impe gnati da qualche decennio: scienze umane, marxismo, so ciologia della conoscenza. La storia politica, per esempio, non è sicuramente quella di venti o cinquanta milioni di Francesi, ma, anche se è cronaca e di breve durata, essa non è tuttavia aneddo tica: la miriade di dettagli di cronaca non si spiega attra verso realtà eterne: governare, dominare, il Potere, lo Stato; questi nobili drappeggi non sono altro che astrazioni razionaliste, che ricoprono dei programmi la cui diversità è in fondo enorme: la Politica eterna è tanto cambiata, da LUigi XIV ad oggi, quanto sono cambiate le realtà economi che, ed � il chiarimento di questo programma che permette di spiegare le i:niriadi di trattati e battaglie e di trovarvi un interesse. Potremmo dire la stessa cosa della storia lettera ria; il metterla in rapporto con la società è un'impresa che nessuno è riuscito a realizzare ed è un'impresa forse piu fu tile che falsa; la storicità della storia letteraria non consiste in questo: consiste negli enormi cambiamenti inconsci che, in: tre secoli, hanno colpito ciò che non si è mai cessato di chiamare, con parole ingannevoli, letteratura, bello, gusto, arte; non sono cambiati solo i rapporti «della» letteratura con la «società»: è cambiato il Bello in sé, l'Arte in sé; l'es senza di queste realtà, in effetti, non è una costante da la sciare ai filosofi: è storica e non filosofica; non vi è un'es senza in quanto alle forze ed ai rapporti di produzione . . . Ammettiamo che essi possano determinare il resto (questa tesi è piu superficiale che· falsa: questo «resto» è esso stesso un elemento costitutivo di quelle forze e di quei rapporti 163
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che lo determinano; ma lasciamo perdere questo aspetto) : la produzione ed i rapporti non avvengono essi stessi in un modo qualsiasi, non sono ovvi: essi sono determinati in modo variabile dal tutto storico e nei suoi diversi momenti; essi si inseriscono in programmi che non sono ancora stati chiariti. Un po' come accade quando su uno stesso territo rio, provvisto delle stesse risorse, due varietà vicine di una stessa specie animale hanno modi di vita tanto differenti come l'essere insettivori o carnivori. Noi abbiamo detto piu sopra che non si vede una condotta che non sia a suo modo arbitraria, il che significa che ogni condotta è tanto irrazio nale quanto un'altra. Come scrive Ramsay McMullen in «Past and Present» ( l Q80) , «questo interesse che noi ab biamo per l'irrazionale dovrebbe portare un importante cambiamento nella natura di quella storiografia che si pro pone di essere piu rigorosa». Nel corso di questo libro abbiamo tentato di far stare in piedi il nostro intreccio attenendoci all'ipotesi irrazionali stica; non abbiamo accordato nessun ruolo ad una spinta della ragione, ad una luce naturale, ad una relazione tra le idee e la società che potrebbe essere funzionale. La nostra ipotesi può ugualmente essere esposta in questo modo: in ogni momento, nulla esiste né agisce al di fuori di questi palazzi dell'immaginazione (se non la semiesistenza delle realtà «materiali», vale a dire di quelle realtà la cui esi stenza non è ancora stata presa in considerazione e non ha ancora ricevuto una sua forma 5 , fuoco d 'artificio o esplo sivo militare, se si tratta di polvere da cannone) . Questi pa lazzi non si innalzano nello spazio; essi sono il solo spazio disponibile; essi stessi fanno sorgere uno spazio, il loro, quando si innalzano; non vi è, intorno a loro, una negati vità respinta che cerchi di penetrarvi. Esiste dunque solo ciò che l'immaginazione, che ha fatto sorgere il palazzo, ha creato. Queste specie di radure nel nulla sono occupate da inte ressi sociali, economici, simbolici e via dicendo, a piacer vostro; il mondo della nostra ipotesi avrà la stessa ferocia di quello che noi conosciamo; questi interessi non sono tran storici: essi sono quel che possono essere, a seconda delle 1 64
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possibilità offerte da ogni palazzo, essi sono, sotto un altro nome, il palazzo stesso. Se ora il poligono di cause si modi fica, il palazzo (che è lo stesso poligono sotto un altro nome ancora) sarà sostituito da un altro palazzo, che creerà un al tro spazio; questa sostituzione parziale o totale comporterà eventualmente la possibilità di prendere in considerazione le potenzialità che erano rimaste fino ad allora puramente materiali: ma, se si verifica una simile presa di coscienza, essa sarà dovuta ad un felice concorso di circostanze e non ad una necessità costante. Nessuno di questi palazzi, infine, è opera di un discepolo dell'architettura funzionale; o me glio non vi sarà niente di piu mutevole della concezione che gli architetti successivi si faranno delle razionalità e non vi sarà niente di piu immutabile dell'illu sione secondo la quale ogni palazzo sarà ritenuto adeguato alla realtà; si prenderà infatti ogni dato di fatto come verità oggettiva. L'illusione di verità farà sf che ogni palazzo sembrerà rientrare pie namente entro i limiti della ragione. Nulla è pari alla sicurezza ed alla perseveranza con cui noi continuiamo a costruire nel nulla questi ponti protesi nel nulla. Il contrasto tra la verità e l'errore non è all'al tezza di questo fenomeno: esso conta poco; quello tra la ra gione ed il mito non regge di piu: il mito non è un'essenza ma piuttosto un ripostiglio 6 e la ragione, da parte sua, si di sperde in mill e piccole arbitrarie razionalità. Non era solo il contrasto tra la verità e la finzione che appariva come se condario e storico; la distinzione tra l'immaginario ed il reale lo era altrettanto. Le concezioni meno assolute della verità come una semplice idea regolatrice, l'ideale della ri cerca, non possono giustificare l'ampiezza dei nostri palazzi dell'immaginazione, che posseggono la spontaneità delle produzioni naturali e probabilmente non sono né veri né falsi. Non sono funzionali e non sono tutti belli; essi hanno però un valore di cui si parla troppo raramente, ne parliamo solo quando non sappiamo dire esattamente quale tipo di interesse abbia una cosa: sono semplicemente interessanti. Poiché sono complicati. ·Alcuni di questi palazzi pretendono di riferirsi ad un modello di verità pratica e di realizzare la vera politica, la 165
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una
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vera morale . . . Essi sarebbero falsi se il modello esistesse e l'imitazione fosse mal fatta; ma, se non c'è nessun modello essi non sono né falsi né veri. Altri palazzi sono costruzioni teoriche che pretendono di riflettere la verità oggettiva; ma, se questa pretesa verità non è altro che u:�a luce arbi traria che noi gettiamo sulle cose, il loro programma di ve rità non vale né piu né meno di un altro . Del resto, la ve rità è l'ultima delle preoccupazioni per queste dottrine che pretendono di appellarvisi: la fabulazione piu sbrigliata non li spaventa; non sono spinte in profondità verso il vero ma verso il grandioso. Esse dipendono dalla stessa capacità or ganizzatrice da cui dipendono le opere della natura; un al bero non è né vero né falso: è complicato . Tutti i palazzi della cultura non sono piu utili alla «so cietà» di quanto le specie viventi che compongono la natura siano utili alla natura stessa; ciò che chiamiamo società, del resto, non è altro che l'insieme poco strutturato di questi palazzi culturali (è cosi che una borghesia si adatta altret tanto facilmente alla Ragione ed alla religiosità puritana) . Un aggregato informe, ma comunque proliferante. La fabu lazione mitica rappresenta un bell'esempio di questa proli ferazione della cultura. Proliferazione che sfida i nostri razionalismi; essi de vono estirpare nel modo piu giusto queste escrescenze, ar bitrarie come la vegetazione. Il riduzionismo della fabula zione si è costituito in vari modi ma sempre sulla base del l'egocentrismo, poiché ogni epoca si ritiene il centro della cultura. Primo comportamento: il mito dice il vero. È lo spec chio allegorico delle nostre eterne verità. A meno che esso non sia uno specchio leggermente deformante degli avveni menti passati; questi avvenimenti saranno simili agli avve nimenti politici di oggi (il mito è storico) , oppure saranno all'origine delle individualità politiche di oggi (il mito è eziologico) . Riconducendo il mito alla storia o agli aitia, i greci sono stati portati a far cominciare il mondo poco piu di due millenni prima di loro; prima viene un prologo mi tico, dopo di questo il loro passato storico che durava circa un millennio. Essi, infatti, non hanno messo in dubbio, 166
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nemmeno per un istante, che la piu antica umanità di cui si fosse conservato il ricordo fosse anche la prima umanità che fosse mai esistita; il fondatore è la persona piu antica che si conosca; un nobile del nostro Ancien Régime non pensava certo di seguire questo stesso procedimento quando nella sua cronaca familiare annotava cosi: «
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tabile ritorno degli stessi componenti, lungi dall'avere una ragione, confermerebbe che tutto si combina a caso (e non secondo uno schema causale) ; lo considera, in modo piu confortante, come ritorno ciclico delle stesse realtà, che la verità delle cose fa ritrovare: è un happy end. Noi moderni non crediamo piu ai cicli ma all'evolu zione : l'umanità rimase nell' infanzia per molto tempo, ora è diventata adulta e non si raccontano piu miti; essa è uscita o sta per uscire dalla sua preistoria. La nostra filoso fia ha sempre il compito di riconfortare e consacrare, ma è la rivoluzione/evOluzione che ora bisogna sostenere . Se condo noi, il mito ha smesso di dire il vero; si ritiene, in compenso , che non abbia parlato senza una ragione : ha avuto una funzione sociale o vitale in assenza di una verità. La verità, secondo un punto di vista egocentrico, resta no stra . La funzione sociale che ha avuto il mito dimostra che noi siamo nella verità delle cose quando spieghiamo l'evolu zione attraverso le società; potrebbe dirsi altrettanto della funzione dell'ideologia, ed ecco perché quest'ultima parola ci è tanto cara. Tutto questo è bello e buono, certamente; ma, qui sta il busillis: se non vi erano verità oggettive? Quando si getta in mezzo al deserto una città oppure un palazzo, questo palazzo non è piu vero né piu falso di quanto lo siano i fiumi o le montagne, che non hanno un modello di montagna cui essere conformi o meno ; il palazzo esiste e, con lui, comincia ad esistere un ordine di cose di cui bisognerà dire qualcosa; gli abitanti del palazzo trove ranno che questo ordine arbitrario è conforme alla verità delle cose stesse, poiché questa credenza li aiuta a vivere, ma qualche storico o filosofo, tra di loro, si limiterà a ten tare di dire il vero sul palazzo e a ricordare che non po trebbe essere conforme ad un modello che non esiste da nessuna parte. Per passare da una metafora all'altra, niente brilla nella notte del mondo: la materialità delle cose non è fosforescente di per sé e non vi è una spia luminosa che tracci l'itinerario da seguire; gli uomini non possono impa rare nulla poiché non vi è ancora nulla da imparare. Ma la casualità della loro storia, cosi poco orientata e schema dca come le mani successive di una partita di poker, fa si 1 68
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che essi gettino intorno a sé un chiarore continuamente mutevole: soltanto allora la materialità delle cose si illumina in una qualsiasi · maniera. Questo chiarore non è né piu vero né piu falso di un altro, ma comincia a far esistere un deter minato mondo; è creazione ad libitum, prodotto di una im maginazione. Quando vi è una schiarita di · luce come que sta, la si scambia generalmente per la verità stessa, poiché non ci sono altre cose da vedere; è possibile nello stesso modo costruire delle frasi, che potranno essere vere o false, su ciò che il chiarore di volta in volta fa sorgere. Prodotti dell'immaginazione, poiché queste successive illuminazioni non possono essere conformi ad una materialità che non esiste per noi indipendentemente dall'illuminazione stessa, e la loro successione non si spiega nemmeno attraverso le esigenze dialettiche da una vocazione alla razionalità. Il mondo non ci ha promesso niente e noi non possiamo leg gere in lui le nostre verità . . L'idea che non è possibile appellarsi al vero permette di distinguere la filosofia moderna dalle sue falsificazioni. Si, l'immaginazione è di gran moda, l'irrazionalismo è piu popolare della ragione (il che significa che gli altri non sono per nulla ragionevoli) ed il non-detto fa delle improvvisa zioni. Ma ecco il punto: questo non-detto si limita àd esi stere, o è una cosa buona cui dobbiamo donare la parola (o, è lo stesso, una cosa cattiva cui dobbiamo rifiutarla� poiché c'è una verità che è l' autodisciplina civilizzatrice)? E simile alla natura (o, è lo stesso, alla barbarie sempre risorgente)? Cacciato dalla porta nel vuoto che circonda il palazzo at tuale, esso cerca fatalmente di rientrarvi e bisogna, allora, aprirgli la finestra? C ' è cosi, insita nelle · cose, una ten denza naturale a realizzare la nostra vocazione, tale che, se la seguiamo, siamo gente per bene? Là, versati in otri nuovi, vi sono vini molto invecchiati che ebbero nome, ra gione, morale, Dio e verità. Sembra che questi vini abbiano un sapore moderno se li si versa sulla demistificazione, sul dubitare della coscienza e del linguaggio, sulla filosofia come mondo capovolto, sulla critica delle ideologie; sol tanto questi romanzi aspri e drammatici possono finire bene, come quelli d'altri tempi: l'happy end ci è promesso; 169
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c'è una strada, il che è rassicurante, e questa strada è il nostro cammino, e questo è esaltante. Le falsificazioni si ricono scono dunque facilmente dal calore umano che esse emanano . Nathanael, soprattutto non mi dà passione. Sarebbe demago gico non specificare che l'analisi riflessiva di un programma o «discorso» non porta all'instaurazione di un programma piu vero, né porta a sostituire la società borghese con una società piu giusta; essa introd�ce solo un'altra società, un altro pro gramma o discorso. E certamente lecito preferire questa nuova società o questa nuova verità; basta astenersi dal di chiararla piu vera o piu giusta. Non affermiamo dunque che la prudenza sia la giusta strada e che ci basti non divinizzare piu la storia e condurre una giusta lotta contro le ideologie che ci hanno fatto tanto male: questo programma di conservatorismo è arbitrario come tutti gli altri. Se bisogna misurare secondo il numero di milioni di morti, il patriottismo, di cui nessuno parla piu, ha fatto e farà tante vittime quante ne hanno fatte e ne farann� le ideologie di cui oggi solo ci si indigna. Allora che fare? E proprio questa la domanda che non dobbiamo fare. Essere contro il fascismo e il comunismo o il patriottismo, è una cosa: tutti gli esseri viventi vivono di partiti presi e quelli del mio cane consistono nell'essere contro la fame, la sete ed il porta lettere e nell'esigere di giocare con la palla . Non si domanda tuttavia ciò che deve fare e ciò che gli è permesso sperare. Si vuole che la filosofia risponda a queste domande e la si giudica sulle sue risposte; ma solo un deciso antropocentrismo sup porrà che un problema comporti una soluzione per la sola ra gione che noi ne abbiamo bisogno e che le filosofie che forni scono ragioni di vita siano piu vere delle altre. Inoltre, queste domande sono meno naturali di quanto non si creda; non si pongono da sé; la maggior parte dei secoli non ha dubitato di sé e non si è fatta questa domanda. Ciò che chiamiamo filoso fia infatti è servita da rifugio ai piu differenti interrogativi: che cos'è il mondo? Come essere felici, cioè autarchici? Come mettere d'accordo le nostre domande ed i libri rivelati? Qual è la strada dell' autotrasfigurazione? Come organizzare la so cietà in modo di essere nella direzione della storia? Faremo prima a dimenticare la domanda che a conoscere la risposta. 1 70
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La riflessione storica è una critica che riduce le pretese del sapere e che si limita a dire il vero sulle verità, senza presumere che esista una politica vera o una scienza con la esse maiuscola. Questa critica è contraddittoria e si po trebbe dire che è vero che non ci sono verità? Sf, e non stiamo giocando al gioco, derivato dai greci, del mentitore che mente quando dice «io sto mentendo», il che è dunque vero. Non si è mentitori in genere, ma in quanto si dice questo o quello; un individuo che dicesse: «Ho sempre fa voleggiato» non favoleggerebbe dicendo questo, se preci sasse: «il mio favoleggiare consisteva nel credere che le im maginazioni che si succedevano nella mia mente fossero delle verità iscritte nelle cose». Poiché, se la mia attuale verità dell'uomo e delle cose fosse vera, la cultura universale diventerebbe allora falsa e resterebbe da spiegare questo regno della falsità ed il mio privilegio esclusivo di veridicità. Cercheremo un nucleo di verità nella falsità, come facevano i greci? Attribuiremo alla fabulazione una funzione vitale, come Bergson, o una fun zione sociale come i sociologi? Il solo modo di uscirne è di supporre che la cultura, senza essere falsa, non è nemmeno vera. Mi sono rivolto per questo a Cartesio. Questi confi dava per lettera ai suoi amici, senza osare pubblicarlo, che Dio non aveva creato solo le cose ma anche la verità, tanto che due piu due non farebbero quattro se egli volesse cosi; poiché Dio non creava ciò che era già vero : era vero ciò che egli creava come tale, ed il vero ed il falso esiste vano solo dopo che egli li ebbe creati. Basta dare all'imma ginazione costituente degli uomini questo potere divino di costituire, cioè di creare senza un modello preliminare. Fa uno strano effetto pensare che niente è vero e niente è falso, ma ci si abitua . rapidamente. Ed a ragione: il valore della verità è inutile, ha sempre un duplice impiego; la ve rità è il nome che noi diamo alle nostre scelte, alle quali non rinunciamo; se vi rinunciassimo, le diremmo decisa mente false, tanto noi rispettiamo la verità; anche i nazisti la rispettavano, poiché asserivano di avere ragione: essi non ammettevano di avere torto. Noi avremmo potuto ribattere loro che si sbagliavano, ma a che scopo? Essi non erano 171
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verità
sulla nostra stessa lunghezza d'onda, e poi è platonico tac ciare di falsità un terremoto. Dobbiamo esclamare che la condizione umana è tragica e sfortunata, se gli uomini non hanno il diritto di credere in ciò che fanno e se sono condannati a vedere se stessi con gli occhi con cui vedono i loro antenati che hanno creduto a Zeus e ad Eracle? Questa disgrazia non esiste, è sulla carta, è un tema retorico. Potrebbe esistere solo per la riflessività, che coltivano solo gli storici; ma gli storici non sono sfortu nati: essi hanno interesse. Quanto agli altri uomini, la ri flessività non li soffoca e non paralizza i loro interessi. Nello stesso modo i programmi di verità restano impliciti, ignorati da coloro che li praticano e che chiamano verità ciò cui aderiscono . L'idea della verità fa la sua apparizione solo quando si prendono in considerazione gli altri; essa non è un qualcosa di originario, essa rivela un'intima incrinatura. Come accade che la verità sia cosf poco vera? Essa è la pellicola di autosoddisfazione gregaria che ci separa dalla volontà di potere. Solo la riflessione storica può chiarire i programmi di verità e mostrare le loro variazioni; ma questa riflessione non è una luce costante e non segna una tappa sul cammino dell'umanità. Cammino tortuoso le cui curve non sono orientate dal vero verso l'orizzonte né si modellano sui po tenti rilievi di un'infrastruttura : il cammino va a zig-zag a caso; per la maggior parte del tempo i viaggiatori non se ne preoccupano; ognuno ritiene che la sua strada sia quella vera, e le deviazioni che vede fare agli altri non lo turbano affatto. Ma succede, in rari momenti, che una curva del cammino lasci vedere retrospettivamente un lungo tratto di strada, con i suoi zig-zag, e che l'umore di certi viaggiatori sia tale che questo vagabondare li turbi. Questa visione re trospettiva dice il vero, ma non per questo rende il cam mino piu falso, poiché esso non potrebbe essere vero. An che i lampi di lucidità retrospettiva non sono molto impor tanti; sono solo irregolarità del percorso , non fanno ritro vare il giusto cammino e non seguono una tappa del viag gio. Essi non trasformano gli individui che ne sono colpiti: non ci sembra che gli storici siano piu disinteressati di un 1 72
La cultura e il credere in una verità
comune mortale o che essi votino in modo diverso poiché l'uomo non è come invece dice Pasca! - un «roseau pensant». Sarà perché ho scritto questo libro in campagna? Io individiavo la placidità delle bestie. Lo scopo di questo libro era dunque molto semplice . Solo leggendo il titolo , chiunque avesse una minima cultura storica avrebbe risposto subito: «ma certo che credevano ai loro miti! ». Noi abbiamo solo voluto fare in modo che ciò che era evidente riguardo a «loro» lo fosse anche riguardo a noi e che si desse via libera agli effetti di questa verità ori ginaria. -
Note l G. Lardreau, L 'Histoire comme nuit de Walpurgis, in «Cahiers de l'Herne: Henry Corbim>, 1 98 1 , p. 1 1 5 , articolo molto sobrio e attraversato da un auten tico afflato filosofico. 2 Cfr. Foucault révolutionne I'Histoire, in P. Veyne, Comment on écrit /'histoi re, Paris, Seuil, 1979. 3 Sull'illusione di assenza dei limiti, cfr. P. Veyne, Comment on écrit /'hi stoire, cit. 4 Le parole «l'uomo non può impararle» si leggono in J . Habermas, Legitima tionsprob/eme im Spatkapitalismus, Frankfurt, Suhrkamp, 1975, trad. it. La crisi di razionalità nel capitalismo maturo, Bari, Laterza, 1 9822; per i rapporti di pro duzione, cfr. J. Habermas, Erkentnis und Interesse, Frankfurt, Suhrkamp, 1975, trad. it. Conoscenza ed interesse, Bari, Laterza, 1983 3 . La critica concisa del ma terialismo storico che fa R. Aron, Introduction à la philosophie de l'histoire, Paris, Gallimard, 1938, pp. 246-250, rimane fondamentale; Aron conclude giustamente che questa critica non confuta lo stesso marxismo, che è una filosofia piuttosto che una scienza della storia. 5 F. Jacob, La logique du vivant, une histoire de /'hérédité, Paris, Gallimard, 197 1 , p. 22: «non basta vedere un corpo fin qui invisibile per trasformarlo in og getto di analisi; quando Leeuwenhoek guarda per la prima volta una goccia d'ac qua attraverso un microscopio, trova un mondo sconosciuto, tutta una fauna im prevedibile di cui lo strumento, improvvisamente, rende possibile l'osservazione. Ma il pensiero di allora non ha niente a che fare con rutto questo mondo. Questo non serve a proporre a questi esseri microscopici nessuna relazione per unirli al resto del mondo vivente; qu,.sta scoperta permette soltanto di alimentare le con versazioni». Stessa concezione della materia (che, avrebbe detto Duns Scoto, è in atto, ma senza essere l'atto di nulla) spiega il famoso motto di Nietzsche, spesso attribuito a Max Weber e diventato la pietra angolare del problema dell'oggetti vità storica: «l fatti non esistono>>. Si veda Der Wi/le zur Macht, n. 70 e 604 Kro ner: «Es gibt keine Tatsachen». L'influenza di Nietzsche su Max Weber, che è stata considerevole, meriterebbe un'analisi. 6 Cfr. capitolo nono, nota 1 1 .
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Indice
Indice
Premessa Prologo
p.
5 7
L
Quando la verità storica era tradizione e «vulgata»
11
Il .
Pluralità e analogia dei · mondi di verità
27
III .
Distribuzione sociale del sapere e modi di credere
43
IV.
Diversità sociale delle credenze e «balcanizzazione» dei cervelli
59
V.
Sotto questa sociologia un implicito programma di verità
81
VI .
Come restituire al mito la verità delle sue origini
99
VII.
Il mito usato come «linguaggio stereotipato»
111
VIII.
Pausania non riesce a sottrarsi al suo programma
131
IX .
Qualche altra verità: quella del falsario, quella del filologo
141
X.
Fra la cultura ed il credere i n una verità si deve scegliere
159
17 7