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GIOVANNI PLATANIA
COSTELLAZIONI E MITI
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GIOVANNI PLATANIA
COSTELLAZIONI E MITI
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Proprietà letteraria riservata
Copyright © 2008 by «Bibliopolis, edizioni di filosofia e scienze» Napoli, Via Arangio Ruiz 83 http://www.bibliopolis.biz – e-mail:
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INDICE Prefazione
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Prima Parte Tra astronomia e mitologia. Brevi linee generali La Mesopotamia I Maya I Cinesi Gli Egizi Altre Cosmogonie I Greci Astronomia in Grecia L'Astronomia in altri popoli Conclusioni
15 17 25 29 31 35 41 95 103 105
Seconda Parte Introduzione Orsa Maggiore Orsa Minore Orione Cassiopea, Andromeda, Cefeo Perseo Pegaso Aquila Auriga Boote Cane Maggiore Cane Minore Chioma di Berenice Cigno
109 111 133 143 165 189 205 219 233 243 251 261 265 285
Corona Boreale Drago Eracle Pleiadi Iadi Serpente Idra Lira, Delfino Ofiuco
301 323 333 351 361 369 381 391 409
Costellazioni Zodiacali Ariete Toro Gemelli Cancro Leone Vergine Bilancia Scorpione Sagittario Capricorno Acquario Pesci
423 451 469 483 493 509 531 541 555 567 579 591
Altre Immagini Bibliografia
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PREFAZIONE Con questo lavoro ho inteso ricostruire i nessi fra la mitologia e le costellazioni, evidenziando i modi in cui, per potersi orientare con le stelle e riuscire a riconoscerle, il mondo antico cominciò a riunirle in gruppi - le costellazioni - ai quali associò i suoi miti, le sue leggende ed i suoi dèi. Il lavoro è diviso in due parti, sostanzialmente differenti per lunghezza che per contenuto. Nella prima parte ho trattato delle civiltà dove sembra sia nata l'astronomia e lo studio delle costellazioni: la Mesopotamia, l'Egitto, la Grecia. Ho appena accennato alle civiltà maia, inca ed azteca, a quella cinese ed ad alcune antiche civiltà africane. Particolare interesse ho attribuito alla civiltà greca, di cui ho narrato la cosmogonia e la nascita degli dèi e degli uomini. Per gli avvenimenti descritti, ho usato una linea differente dall'approccio di Baricco nel suo Omero, Iliade. Nella sua affascinante trasposizione dice: « Per quanto i gesti divini tramandino l'incommensurabile che spesso si affaccia nella vita, l'Iliade mostra un'ostinazione sorprendente a cercare, comunque, una logica degli eventi che abbia l'uomo come ultimo artefice. Se quindi si tolgono gli dèi da quel testo, quel che resta non è tanto un mondo orfano ed inspiegabile, quanto un'umanissima storia in cui gli uomini vivono il proprio destino come potrebbero leggere un linguaggio cifrato di cui conoscono, quasi integralmente, il codice. »
Io, invece, ho focalizzato la mia attenzione quasi esclusivamente sulle leggende, in particolare quelle greche, di cui sento profondamente il fascino, legate in varie forme alla cosmogonia, che hanno per protagonisti gli dei.
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PREFAZIONE
L'astronomia nell'antica Grecia è stata poi trattata con qualche dettaglio storico per me interessante, e, in effetti, ho trattato tutto il periodo in cui ha un senso citare l'astronomia senza l'uso di tecniche “moderne” quali il telescopio. La seconda parte riguarda le costellazioni, ma non tutte le costellazioni esistenti oggi. Mi sono interessato solo delle principali, ed in particolare di quelle visibili ai tempi ed alle latitudini dell'antica Grecia e dell'Egitto, oltre che, naturalmente, alle costellazioni zodiacali. La scelta dell'emisfero Nord era ovviamente obbligata dal fatto che per quelle dell'emisfero Sud non esistono miti ad esse collegate, perché sono state “inventate” molto tempo dopo delle prime. Nell'analisi delle costellazioni, ho mostrato all'inizio le immagini della costellazione stessa, poi alcuni oggetti interessanti presenti, quali nebulose, ammassi stellari, galassie ed ammassi di galassie. Ho descritto inoltre alcune caratteristiche delle stelle delle costellazioni. Sono poi passato al racconto di alcuni dei miti collegati, prima di tutto i miti greci, e poi altri miti di altre regioni della terra. Benché strettamente correlate, le due parti sono relativamente autonome: per questo motivo, molti dei miti raccontati nella prima parte sono ripresi in modo esaustivo anche nella seconda, per consentire al lettore interessato ad una specifica costellazione, ed ai miti ad essa collegati, di poter cogliere nessi e suggestioni mitologiche senza fastidiosi rinvii alla prima parte. Parte dei miti appartengo a più costellazioni, e qualche volta parecchie costellazioni descrivono un solo mito. Questo lavoro è stato realizzato grazie all'aiuto dei molti libri trovati e/o consigliatimi da amici e studiosi di Storia delle Religioni, archeologi, storici e fisici che ho avuto la possibilità di incontrare nella mia carriera di astrofisico.
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Fondamentale è stato l'uso di Internet, di cui ho indicato i siti utilizzati nella bibliografia, e da cui ho tratto tutte le immagini. Un ringraziamento particolare va alla professoressa Silvana von Arx per l'aiuto, di metodo e di merito, datomi in tutto questo periodo di tempo. Senza il suo aiuto il lavoro non sarebbe potuto, non solo terminare, ma anche soltanto iniziare. Voglio ringraziare anche mia sorella Margherita per aver riletto tutto il lavoro e per avermi dato utilissimi consigli e suggerimenti riguardo tutta la stesura dello stesso. GIOVANNI PLATANIA
PARTE PRIMA
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1. TRA ASTRONOMIA E MITOLOGIA. BREVI LINEE GENERALI Per potersi orientare con le stelle occorre riuscire a riconoscerle, ed è questa la ragione per cui si cominciò a riunirle in gruppi - le costellazioni - alle quali gli antichi hanno associato i loro miti, le loro leggende ed i loro dèi. Trasformare un insieme di punti in un diagramma dello spazio per evocare i personaggi e le cose di una storia è un grande aiuto per la memoria: in un'epoca di trasmissione orale questo era non solo particolarmente utile, ma anche necessario. Scriveva Arato (315, 245 a.C.): « …qualcuno degli uomini che non esistono più le osservò [le stelle] e pensò di chiamarle tutte con un nome dopo aver assegnato loro figure definite. Infatti, non avrebbe potuto dire il nome di tutte né conoscerlo, se le avesse considerate una per una. … Per questo egli ritenne opportuno formare gruppi di stelle, affinché, poste in fila l'una accanto all'altra, definissero delle figure. E subito le costellazioni ebbero il loro nome, e ora una stella, sorgendo, non desta più sorpresa, ma esse appaiono raggruppate in figure riconoscibili. »
Alcune costellazioni, o gruppi di stelle (Orione, le Pleiadi, le Iadi, l'Orsa Maggiore, Sirio) sono citate già nell'Iliade, ma sembra addirittura che fin dal paleolitico (40/50 000 anni fa) l'uomo guardasse al cielo come ad un immenso palcoscenico in cui prendevano forma le storie delle divinità. Ne abbiamo dimostrazione dal culto della Grande Orsa da parte di popoli che abitavano al di qua e al di là dello stretto di Bering, che al tempo dell'ultima glaciazione univa, con i suoi ghiacci, America ed Asia. Le civiltà del passato, dall'America all'Estremo Oriente, hanno immaginato nelle forme delle costellazioni, dèi ed eroi,
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potenze cosmiche o semplicemente strumenti e segni trascendenti la nostra volontà. Così avvenne in Mesopotamia, dove si cominciò a studiare sistematicamente il cielo “inventando” molte delle costellazioni che sarebbero poi state adottate in Occidente. La necessità di ordine e di controllo dello spazio celeste si poteva soddisfare solo delimitando porzioni di cielo e dando loro dei nomi che suscitassero un senso di sicurezza e di protezione. Molti dei nomi attribuiti alle costellazioni sono riferibili ai Babilonesi (Toro, Gemelli, Sagittario, Scorpione…). Quanto riportato nel poema Phaenomena (Apparenze) da Arato in termini astronomici corrispondeva infatti pressoché fedelmente agli astri che si potevano osservare nel cielo alle latitudini di Babilonia intorno al 2100 a.C.; inoltre è stato rinvenuto nella zona un elenco con tutte le costellazioni collocate nel cielo, quali noi le conosciamo oggi, con poche differenze. Un discorso importante sarebbe a questo punto da fare riguardo al significato dei nomi tramandatoci dagli antichi Egiziani e Greci, ma ci porterebbe fuori dal nostro obbiettivo. Sembra che già nel Paleolitico Superiore, attorno a 40 000 anni addietro (www.wikipedia.org), l'uomo avesse dato vita ad un sistema di 25 costellazioni, ripartite in tre gruppi, riconducibili metaforicamente alle tre dimensioni con cui tutti i popoli, da sempre, hanno rappresentato il mondo: il Paradiso, la Terra e gli Inferi. Al primo gruppo appartenevano costellazioni riferite al mondo superiore, ovvero dominato da creature aeree. Queste costellazioni avevano la maggiore altezza sull'orizzonte. Il secondo gruppo erano quelle che raggiungevano un'altezza media sull'orizzonte, in realtà le costellazioni zodiacali. Il terzo, invece, conteneva costellazioni relative al mondo inferiore, dominato da creature acquatiche, che si trovano collocate per la maggior parte del tempo sotto l'orizzonte.
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2. LA MESOPOTAMIA La Mesopotamia era il nome con cui dai Greci era indicata la regione asiatica compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate. In quella regione si svilupparono le civiltà sumera, assira e babilonese. Spesso ci si riferisce sbrigativamente a quei popoli con il termine “i Babilonesi”. È opportuno invece tenere presente che si trattò di tre diverse civilizzazioni, spesso in contrasto tra loro, pur dotate di caratteri abbastanza simili. La più antica civiltà ad affermarsi fu quella sumera, nelle pianure meridionali tra i due fiumi. Il nome Sumer, attribuito alla regione stessa, data probabilmente dall'inizio del III millennio a.C. Lo stesso nome fu dato anche alla capitale. All'incirca tra il VI e il IV millennio a.C. i precedenti primitivi insediamenti fortificati si trasformarono in vere e proprie città. Le prime città sumere furono Uruk, Adab, Eridu, Isin, Kish, Kullab, Lagash, Larsa, Nippur e Ur. Nei testi mesopotamici, Sumer è il nome che indica la Babilonia meridionale, in contrapposizione ad Akkad, che è la Babilonia settentrionale. Il re di stirpe semitica Sargon I il Grande (2335 - 2279 ca. a.C.) conquistò l'intera regione trasferendo la capitale da Sumer ad Akkad. I due gruppi etnici si integrarono fino a formare un unico gruppo etnico e linguistico, che divenne noto con il nome di Accadi. L'impero stesso acquisì il nome composto di Sumer e Accad. La dinastia accadica durò circa un secolo. In seguito si eb-
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bero numerose invasioni, intervallate da periodi di ripristino della sovranità accadica. All'inizio del II millennio a.C. i territori sumeri furono progressivamente invasi da nomadi di stirpi semitiche. L'Assiria fu il nome della regione situata a sud dell'attuale confine tra Turchia e Irak, ma limitatamente alle alte vallate di Tigri ed Eufrate. Era già popolata nel Paleolitico, tuttavia non vi si ebbero comunità agricole sedentarie fino al 6500a.C. Nel III millennio a.C. la civiltà sumerica fece sentire il suo influsso anche sull'Assiria, che, dal 2300 a.C. circa fece parte del regno di Sumer e Akkad. All'inizio del II millennio a.C., con il crollo del regno di Sumer e Akkad, anche l'Assiria fu soggetta a ripetute invasioni. Intorno al 1810 a.C. il re assiro Shamshiadad I (1813 - 1780) riuscì nondimeno ad estendere i suoi domini fino al Mediterraneo. Sempre all'inizio del II millennio a. C., dopo la caduta della terza dinastia sumerica, si stabilì in Babilonia, una dinastia Amorrea che, con il suo sesto re, Hammurabi, si affermò sul regno di Babilonia nel 1760 a.C., ponendo termine al regno di Sumer e Akkad, e formando un impero che si estendeva dal Golfo Persico al Mediterraneo. Durante il regno di Hammurabi, il dio Marduk, protettore di Babilonia, venne venerato in tutta la Mesopotamia. Hammurabi fu anche un grande legislatore: il Codice di Hammurabi (stele del Louvre), uno dei più famosi documenti giuridici dell'antichità a noi pervenuti. Ma a partire dai successori del figlio di Hammurabi, il regno babilonese subì un serio declino. Si ebbero moti di indipendenza da parte di alcune importanti città babilonesi e i Cassiti invasero per la prima volta il paese. Dalla metà del dodicesimo secolo fino alla metà dell'ottavo
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secolo a.C. si ebbero una serie di dinastie non notevoli. A questo periodo si fa risalire la serie più antica dei cosiddetti astrolabi rettangolari. Verso la fine di quest'epoca gli scribi incominciarono a tenere un'accurata registrazioni di eclissi, a cicli di diciotto anni. Il regno di Nabonassar (747 - 733) ha, tuttavia, una grande importanza per l'astronomia perché alcuni astronomi greci (diversi secoli dopo) attinsero da questo periodo una gran messe di dati astronomici che presentavano un alto grado di precisione. A partire dal 900 a.C. circa Babilonia cadde sotto l'influenza militare e politica del regno di Assiria. Gli storici fanno riferimento a questo periodo (da circa il 900 a.C. fino all'inizio della dinastia caldea) con il termine di periodo assiro. L'influenza assira giunse al culmine nel 728 a.C. quando l'Assiria assunse il controllo diretto sul regno di Babilonia. Come spesso avviene, i conquistatori militari subirono l'influenza della cultura dei conquistati. L'esempio più evidente di questa attitudine si ebbe con il re assiro Assurbanipal che fece realizzare una sterminata raccolta di testi babilonesi ed assiri sistemandoli in quella che divenne la Biblioteca di Ninive, scoperta da archeologi inglesi nel 1853. Assurbanipal fece anche, tra l'altro, ricostruire il tempio di Esangila in Babilonia. In seguito, gli Assiri, lanciatisi in ambiziose campagne militari, subirono il collasso del loro impero con sorprendente rapidità. La prima dinastia caldea (detta anche neo-babilonese), venne fondata nel 625 a.C. dal re Nabopolassar. Durante le dinastie caldee la cultura ebbe un nuovo impulso, con beneficio anche per l'astronomia. A partire da questo periodo datano i più antichi diari astronomici che ci sono pervenuti. Questa astronomia ebbe grande importanza perché ai dati prodotti durante questo periodo attinsero in un periodo posteriore astronomi greci. Scrittori greci e romani usarono in seguito il termine di “caldei” per indicare astronomi e astrologi di origine mesopotamica.
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Nel 539 a.C. il regno di Babilonia fu conquistato da Ciro il Grande, re dei Persiani. Una generazione dopo, nel 480 - 479 a.C., i Persiani furono sconfitti per mare e per terra dai Greci, e da allora ebbe inizio la decadenza del regno di Persia. Durante il periodo persiano si ebbero grandi progressi nell'astronomia babilonese. Il vecchio sistema di riferimento delle costellazioni zodiacali fu sostituito dall'introduzione dei segni zodiacali, come caselle di 30º di ampiezza. Nel V secolo a.C. si ebbe anche l'adozione del ciclo calendariale di 19 anni che i Greci attribuirono poi all'ateniese Metone. Tale ciclo corrisponde a 253 rivoluzioni sinodiche lunari (una rivoluzione sinodica lunare è l'intervallo di tempo tra due congiunzioni successive tra Luna e Sole), dopo le quali le eclissi si ripetono alle stesse date. Nel 331 a.C. l'impero babilonese fu conquistato da Alessandro il Grande. Dopo la sua morte a Babilonia, nel 323 a.C. si ebbe un periodo di guerre per la successione ad Alessandro. Da questa fase emersero due regni di grande importanza: il primo fu il regno d'Egitto, sotto la dinastia macedone di Tolomeo I. L'altro fu dinastia di Seleuco I, re di Siria, fondatore della dinastia seleucide. Il regno di Tolomeo I si protrasse dalla fine del IV secolo fino alla fine del I secolo a.C. L'ultima dei sovrani macedoni fu la regina Cleopatra. Nel regno d'Egitto l'astronomia greca raggiunse la massima espressione. L'altro grande regno che emerse dopo la morte di Alessandro, regno che si estendeva dai confini d'Egitto ai confini dell'India (comprendente quindi anche la Persia e la Mesopotamia), fu quello del re Seleuco I. Seleuco I ne aveva posto la capitale nella nuova città di Seleucia, e ciò segnò la definitiva decadenza di Babilonia. Mentre l'impero seleucide non seppe garantire la stessa coesione politica e sociale che riuscì invece all'impero d'Egitto, l'astronomia sviluppata nel regno seleucide fu invece importante quanto quella alessandrina. Fu elaborata una teoria planetaria matematica che consentiva un ottimo grado di precisione nelle
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previsioni. Il periodo seleucide fu importante anche per il grado notevole di contatti che si ebbero tra astronomi greci e seleucidi. La dinastia seleucide riuscì a sopravvivere in Siria fino al 64 a.C., quando cadde per la conquista romana. L'uso che Ipparco fece di dati tratti da osservazioni babilonesi è ampiamente attestato. Alcuni hanno suggerito addirittura che Ipparco abbia soggiornato in Mesopotamia per apprendere i metodi astronomici dei Babilonesi. Altri invece hanno suggerito che i continui riferimenti ad astronomi “caldei” in opere di autori greci e romani, indichino che dovette esistere nell'antichità un vero e proprio manuale di astronomia babilonese. Infine, altri sono propensi a credere che ci siano stati degli astronomi babilonesi che siano emigrati in Grecia, portando con loro i propri testi e trasmettendo le proprie conoscenze ai Greci. È difficile in ogni caso pensare che non ci debba essere stato del tutto un certo scambio di informazioni, anche di carattere astronomico, tra le due culture, anche prima delle guerre persiane. Gli scopi e i metodi dell'astronomia babilonese furono molto diversi da quelli dell'astronomia greca. In particolare, i Babilonesi non mostrarono mai interesse per lo sviluppo di indagini finalizzate alla comprensione della meccanica del cosmo nel suo complesso. Lo scopo della loro astronomia, per quanto si sa, fu quello del calcolo aritmetico delle epoche e delle posizioni di particolari fenomeni astronomici, come i pleniluni e i noviluni, le eclissi, le epoche di prima e ultima visibilità dei pianeti, per finalità prettamente astrologiche. L'Enuma Elish è un poema epico babilonese sulla creazione, che raggiunse la sua forma definitiva intorno al 1500 a.C. (le parole del titolo sono la traduzione delle prime parole del testo “Quando al di sopra...”). Descrive la nascita degli dèi con la progressiva conquista del potere supremo da parte di Marduk-Zeus, che in seguito creò il mondo. Nel poema sono contenuti anche espliciti riferimenti alla suddivisione del cielo nelle tre Vie ed altri dati di carattere astronomico, che riguardano la suddivisione dell'anno in mesi a ciascuno dei quali era
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associata una stella (G. de Santillana, H. von Dechend: “Il mulino di Amleto”. Abb. Sant). L'interesse dei Babilonesi per i pianeti fu nella fase iniziale molto maggiore di quello manifestato dai Greci, probabilmente perché presso i primi gli dèi associati ai pianeti giocavano un ruolo maggiore nella religione. Già nel codice MUL.APIN (circa 650 a.C.) si ha un compendio di informazioni sui moti planetari, naturalmente in forma ancora confusa (Sant.). Ora, gli astronomi babilonesi avevano osservato che Mercurio e Venere “accompagnavano sempre” il Sole scostandosi da lui di poco, Mercurio di una trentina di gradi, Venere di circa 45º. Ciò li portò a concludere che i periodi tropici (intervallo di tempo tra due passaggi dei pianeti in un determinato punto) dei due pianeti inferiori si potevano ritenere esattamente di un anno (appunto come quello del Sole). Le nostre conoscenze sulle teorie astronomiche Babilonesi derivano da un complesso di circa 300 tavolette, la maggior parte delle quali ci pervenne da due siti: Babilonia e Uruk. Quasi tutto il materiale di Babilonia venne portato alla luce nel secolo XIX da scavatori locali, che lo vendettero a rappresentanti del British Museum. Parte del materiale proveniente da Uruk è il risultato di scavi tedeschi, condotti negli anni 1912 - 1913. Il materiale di Uruk è suddiviso nei musei di Istanbul, Berlino, Parigi, Chicago e Bagdad. La datazione di queste tavolette va dal 300 a.C. fino al 50 d.C. Gli astronomi di Uruk sembrano essere stati molto attivi all'incirca tra il 220 e il 160 a.C. Invece la maggior parte delle tavolette di Babilonia appartengono al periodo tra il 170 e il 50 a.C. Ricordiamo che Plinio, nella Storia naturale dice che vi erano tre scuole di astronomia babilonesi: Babilonia, Uruk e Sippar. Finora non si è avuta alcuna evidenza di ritrovamenti di carattere astronomico a Sippar. Le costellazioni che noi conosciamo sono tramandate dalla tradizione greca classica, ma in realtà si pensa che esse siano molto più antiche e provenienti originariamente, appunto, dalla Mesopotamia.
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Quasi certamente dobbiamo ai Caldei il raggruppamento delle stelle nelle 12 costellazioni zodiacali. Benché non abbiano mai raggiunto i progressi fatti più tardi dai greci in campo astronomico, i Caldei li precedettero in alcune importanti scoperte. Erano in grado, infatti, di predire, con una certa approssimazione, i moti diretti e retrogradi dei pianeti, le loro congiunzioni e, soprattutto, erano già capaci di calcolare i tempi delle eclissi di Luna. Nell'astronomia babilonese possiamo distinguere due periodi: il più antico, che va dal 4000 a.C. fino alla catastrofe di Ninive (607 a.C.), e quello relativamente più moderno che arriva fino al periodo della nascita di Cristo. Il cielo, per i Babilonesi, era suddiviso in tre parti. La prima parte è il cielo settentrionale, la “Strada di Enlin”, dio dell'aria e delle forze della natura. Poi c'è la fascia zodiacale, che era la “Strada di Anu”, il padre di tutti gli dèi. Infine la parte meridionale che è la “Strada di Ea” (Sant.). Il primo catalogo stellare babilonese fu scritto su tavolette circolari risalenti circa al 1100 a.C. Del primo periodo, come già detto, si sa pochissimo, solo che si tratta di nozioni inerenti al culto religioso ed astrologico. Fra le tavolette di argilla ritrovate negli scavi archeologici ne sono state rinvenute alcune raffiguranti il cielo stellato su cui erano tracciate le figure di qualche costellazione. Allora il calendario babilonese era regolato dal novilunio, con 12 mesi lunari in un anno solare ed un tredicesimo mese in aggiunta di tanto in tanto, quando lo si riteneva opportuno. Un calendario luni-solare, quindi, ulteriormente suddiviso in periodi più brevi corrispondenti alle nostre settimane. L'istante del tramonto del Sole segnava l'inizio del giorno costituito da dodici intervalli detti Kaspu. Il secondo periodo porta ad un computo più esatto del tempo, indispensabile per migliorare la qualità delle osservazioni astronomiche. È, infatti, di questo periodo la prima suddivisione del cerchio in 360 gradi, come conseguenza del cammino percorso dal Sole nel cielo. La maggiore precisione porta
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ad osservazioni sistematiche e fondate sul calcolo di fenomeni celesti come le eclissi, la prima delle quali è stata registrata dai caldei il 19 marzo 721 a.C.. Questa ed altre osservazioni di eclissi lunari vengono usate ancor oggi per i calcoli sul moto della luna. A tale proposito ai caldei si attribuisce la scoperta del “Ciclo di Saros”, una successione di 223 lunazioni secondo la quale, ritornando la Luna nella stessa posizione rispetto ai suoi nodi, al suo perigeo e al Sole, si ripetono nello stesso ordine le eclissi del ciclo precedente. Nel periodo attorno al 750 a.C. i babilonesi divisero la “Strada di Anu” in 12 segni di uguale grandezza. Per quel che riguardava i pianeti, i Caldei eseguirono osservazioni dei loro moti tra le stelle, studiandone in dettaglio le stazioni e le retrogradazioni lungo quella che essi chiamavano “via del Sole”, il nostro Zodiaco. In antiche tavolette si trovano spesso menzionati i cinque pianeti visibili ad occhio nudo, posizionati rispetto alla Luna, alle stelle o al Sole. Pur essendo le loro osservazioni esclusivamente rivolte a previsioni astrologiche, ai caldei va il gran merito di non essersi basati solamente sulla loro fantasia, ma su osservazioni celesti sistematiche ed accurate, estese per un gran numero di anni alla ricerca di una certa periodicità per ogni fenomeno. Essi comunque non arrivarono mai alla conoscenza della geometria e della trigonometria, che forse li avrebbe portati a soluzioni più rigorose dei vari problemi astronomici. Attorno al 500 a.C. la cultura babilonese entra in contatto con la cultura greca e le costellazioni dello zodiaco mesopotamico, una volta mescolate con la tradizione greca, danno origine alle mappe del cielo che noi abbiamo ereditato.
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3. I MAYA Dalle iscrizioni rinvenute su monumenti dell'America centrale, possiamo dedurre che alcune popolazioni del Messico, quali i Maya, sviluppatisi dal II millennio a.C., raggiunsero, tre millenni dopo, attorno al 900 d.C., un grado di civiltà e cultura paragonabile a quello dei Babilonesi, degli Assiri e degli Egiziani. Per queste popolazioni centroamericane l'astronomia era una scienza particolarmente coltivata. Dopo le ultime scoperte archeologiche in questo settore all'Università del Maryland è stato persino creato un centro di archeoastronomia ove astronomi e archeologi lavorano in stretta collaborazione. Pur non essendo a conoscenza della forma della terra, i Maya conoscevano le cause delle eclissi, sapevano usare lo gnomone e sapevano calcolare i momenti dei solstizi e degli equinozi. A tale proposito si è visto come molte delle loro costruzioni siano orientate secondo questi punti di fondamentale importanza per l'astronomia di posizione. Alla base di tali conoscenze sta sicuramente il loro progresso in campo matematico: conoscevano, infatti, lo zero ed adottavano la numerazione posizionale. I cicli, il ripetersi dei fenomeni astronomici, avevano assunto presso i Maya un significato talmente importante che il loro calendario, ad uso civile e religioso, era esclusivamente basato sui fenomeni celesti. Esso utilizzava alternativamente l'anno solare e l'anno di Venere, determinato dalla rivoluzione sinodica del pianeta. Questo pianeta era, tra l'altro, divinizzato perché rappresentava uno dei loro dèi più importanti: il serpente piumato Quetzalcoatl. Anche il Sole e la Luna erano, naturalmente, divinizzati a tal punto che, presso questi popoli, la superstizione religiosa si mescolava con le osservazioni astronomiche. Conoscevano molto bene e seguivano i moti dei cinque pianeti visibili ad occhio nudo e sapevano già che la Via Lattea era nient'altro che
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un grande ammasso di stelle. In particolare considerazione erano tenuti dai Maya i punti ove il cerchio mediano della Via Lattea incontrava la nostra eclittica: era, infatti, rispetto a questi punti, che ricavavano, infatti, i tempi dei fenomeni astronomici, in particolar modo per quel che riguardava i pianeti. Da alcuni ritrovamenti archeologici nella zona di Palenque, in Messico, si evince che i Maya avessero, già cinque secoli prima di Cristo, adottato un anno formato da 365,242 giorni (il suo valore odierno è di 365,2422 giorni!). Questi erano compresi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno più un breve mese addizionale di 5 giorni. Ogni mese aveva un suo nome ed in esso i giorni erano contati da 0 a 19. Questo computo del tempo è così evoluto che in nessun'altra parte della Terra se ne può trovare uno altrettanto avanzato fino all'inizio dell'era moderna. Fra i vari complessi archeologici, rinvenuti in quella zona, ve ne sono alcuni veramente singolari che non potevano servire, vista la loro costruzione e collocazione, che per le osservazioni astronomiche. Citiamo, ad esempio, i templi-osservatori della città Maya di Uaxactun, dai quali si potevano mirare, con opportuni punti di riferimento, i luoghi del sorgere e del tramontare del Sole nei giorni di equinozio e di solstizio. La torre di Palenque è un vero e proprio osservatorio, dalle cui finestrelle opportunamente collocate si potevano scorgere, negli istanti del loro sorgere e tramontare, il Sole, la Luna ed il pianeta Venere. Ed ancora il “Castillio” a Chice`n Itza`, il “Caracul” dalla classica forma a cupola di osservatorio astronomico. Anche i Maya avevano diviso il cielo in costellazioni. Importante era il gruppo delle Pleiadi, che essi chiamavano Tzab, cioè i “sonagli del serpente”. L'Orsa Minore era chiamata Yah Balcui Xaman, vale a dire “quelle che ruotano attorno al Nord”, mentre la stella Polare era spesso rappresentata, nelle iscrizioni, dall'immagine del dio C, una divinità non ancora meglio identificata, dalle sembianze scimmiesche. Questa stella era chiamata Chimal Ek, cioè “astro del nord” o “stella scudo”. I Maya conoscevano anche la costellazione dello Scorpio-
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ne, che era chiamata Zinaam Ek, “la stella scorpione”. Le più importanti figure cosmiche, soprattutto per il loro significato mitico, erano le costellazioni Meheu Ek e Ac Ek, corrispondenti pressappoco ai Gemelli ed ad Orione. Nella costellazione di Orione, importanti erano le stelle della cintura rappresentate da una tartaruga, mentre Rigel, Saiph e le stelle che per noi sono la spada e le gambe, indicavano rispettivamente le pietre e le fiamme del focolare sacro. I Gemelli erano forse rappresentati dalle immagini di due maiali selvatici. La Via Lattea, per i Maya, parte dall'orizzonte sud, cioè dal regno degli inferi, e si estende fino alle regioni del nord, ove vive l'uccello sacro Vacub Caquix, identificato con l'Orsa Maggiore, chiamata “l'albero della vita”.
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4. I CINESI L'antica astronomia cinese è famosa in tutto il mondo per l'accuratissima registrazione e la costanza nel tempo delle osservazioni celesti; osservazioni talmente precise da costituire probabilmente la migliore cronaca astronomica dal 2000 a.C. fino ai nostri giorni. Di solito è abitudine attribuire ai Cinesi grandi ed importanti conoscenze astronomiche prima ancora del secondo millennio prima di Cristo, anche se non esiste a tale proposito alcun documento o reperto archeologico che provi il loro effettivo progresso prima di tale data. I loro studi sui moti della Luna e del Sole, compiuti grazie ad un osservatorio astronomico fatto costruire nel 2608 a.C. dall'imperatore Hoang-Ti, avevano come scopo principale quello di elaborare e correggere l'allora carente calendario. Fra le discipline scientifiche, l'astronomia ha da sempre avuto un ruolo di primissimo piano. Ciò era dovuto al fatto che i cinesi consideravano l'imperatore una creatura divina che era al potere per volere del cielo e, di conseguenza, tutti i fenomeni che si verificavano sulla volta celeste avevano un evidente riscontro sulla Terra, sulle attività umane e soprattutto sul comportamento e le decisioni dell'imperatore. Per questo gli astronomi della corte reale erano responsabili direttamente, con la loro stessa vita, dell'esattezza delle previsioni delle eclissi o di altri importanti fenomeni celesti tanto legati alla vita dell'imperatore e della nazione. Per dare maggiore importanza alla connessione esistente tra imperatore e avvenimenti celesti, ogni nuovo regnante, appena salito al trono, era solito cambiare immediatamente innanzitutto la sede dell'osservatorio astronomico imperiale, portandolo vicino al palazzo della propria città e, in seguito, anche le regole che costituivano le basi per la compilazione del calendario, lasciandovi così impressa l'impronta del proprio passaggio.
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Come nella maggior parte delle popolazioni antiche, il calendario cinese era per lo più un calendario luni-solare riveduto e corretto di dinastia in dinastia. A parte le osservazioni dei moti della Luna e del Sole, gli astri più brillanti del cielo e quindi anche i più facili da seguire, gli astronomi cinesi rivolgevano particolare attenzione ad avvenimenti come l'apparizione di una cometa, l'esplosione di una “nova” (vedi, ad esempio, quella del 1054, così ben descritta nelle cronache cinesi e che ha dato origine alla famosa nebulosa del Granchio nella costellazione del Toro), le congiunzioni planetarie ed ovviamente le eclissi di Sole e di Luna. La ripartizione del cielo, come è possibile immaginare, era fatta in modo completamente diverso da quello occidentale, con piccole costellazioni (circa 250) la più famosa delle quali è conosciuta anche da noi col nome di costellazione del Dragone (il Drago), divenuta in Cina talmente importante (anche per la sua vicinanza al polo nord celeste e per il fatto che anticamente conteneva la stella polare) da diventare simbolo nazionale. Gli scarsi contatti fra il lontano Oriente e l'Europa, soprattutto per le enormi difficoltà di viaggio per raggiungere terre così lontane, portarono la due culture ad incontrarsi molto tardi e ad aumentare il mito di un popolo misterioso e saggio, capace di grandi invenzioni e che era già a conoscenza, 6000 e più anni prima della nascita di Cristo, dei più grandi segreti scientifici.
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5. GLI EGIZI All'inizio dell'estate le piogge equatoriali raggiungono le sorgenti del Nilo bianco e lo scioglimento delle nevi sulle montagne dell'Abissinia riempie il Nilo azzurro: in questo modo enormi quantità d'acqua fluiscono verso Nord fino a sfociare nel Mar Mediterraneo e durante i mesi successivi allagano e fertilizzano l'intero Egitto. La lenta e progressiva trasformazione in deserto delle zone limitrofe all'invaso del Nilo permise la concentrazione della vita umana proprio lungo le fertili rive del fiume. In epoca neolitica, si potevano già contare due popolazioni ben distinte, provenienti da altrettante zone diverse: un primo gruppo di razza africana, proveniente dal centro dell'Africa, ed un secondo di razza mediterranea, dal Nord dell'Africa, cioè dalle regioni che oggi chiamiamo mediorientali. Si formarono così due gruppi di civiltà: uno si fermò nel Nord del paese, sul Delta e là creò il primo agglomerato urbano, Merimda. L'altro gruppo si stabilì nel sud, con capoluogo a Tasa. Il popolo egiziano, dunque, era scisso in due già fin da questa remota epoca, e nonostante la successiva unificazione del paese, sopravvisse quell'impronta di divisione del territorio in “hesep”, specie di macroregioni formate da popolazioni vicine: l'alto Egitto ne aveva 22, quello basso 20 (F. A. Mella: “L'Egitto dei faraoni”). Questa era l'alba della civiltà egiziana, quei tempi che essi avrebbero chiamato “i tempi del dio”, quelli in cui sul trono d'Egitto sedeva il re Osiride, come si può leggere nei “Testi delle piramidi”. Osiride, secondo la leggenda, avrebbe fuso i due gruppi, ma l'unificazione non sarebbe stata di lunga durata: bisognerà giungere al 3200 a.C. perché si possa parlare più propriamente di Storia Egiziana. La storia inizia con il re Narmer, che alcuni vogliono identificare nel mitico re Menes, a cui si deve la grande impresa dell'unione dei due regni, dopo
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la quale ebbe inizio la prima delle 31 dinastie che si avvicendarono sul trono egiziano fino al 332 a.C, anno della conquista dell'Egitto da parte di Alessandro Magno. Quest'ultimo, dichiarato “figlio di Ra”, fondò la nuova città di Alessandria che diventerà in breve la capitale culturale del mondo antico. Alla sua morte ebbe inizio la dinastia dei 15 re Tolomeo, che diede il via al processo di ellenizzazione del paese. Molto prima della costruzione delle piramidi, un'antica popolazione costruì elaborate strutture allineate col Sole e le stelle. Megaliti ed anelli di pietra furono eretti circa 7000 anni fa nella parte meridionale del deserto del Sahara; essi sono i più antichi allineamenti finora scoperti ed assomigliano ai megaliti di Stonehenge e di altre zone europee che furono costruiti 1000 anni dopo. Questo sito si trova nel deserto della Nubia vicino Nabta. Secondo gli Egizi, in principio esisteva solo il Caos (Nun), identificato con l'oceano primordiale in cui viveva Atum, che sorse dall'acqua ed iniziò a splendere sotto forma del Sole (Ra). Ra generò due figli: Shu, dio dell'aria, e Tefnet, dea dell'umidità; da questi nacquero Geb, dio della Terra e Nut, dea del cielo. I due nacquero uniti strettamente, ma il padre li separò sollevando in alto Nut, affinché formasse l'arco del firmamento, e lasciò Geb sdraiato sulla schiena così che diventasse la Terra; Shu rimase poi tra loro perché circolasse Aria tra Cielo e Terra. Da Tefnet e Shu nacquero Osiride e Seth, e dalla loro unione nacquero Iside, Neftis ed Horus. Ra si era stancato di regnare sulla Terra e decise di salire in cielo; Nun, per aiutarlo, chiamò Nut e la trasformò in una mucca, Ra salì sulla sua groppa ma quando Nut si rizzò sulle zampe posteriori si spaventò e Shu la sostenne; da allora il cielo viene rappresentato come sostenuto dalla Vacca celeste sotto il cui ventre splendono le stelle e che viene attraversato dalla barca di Ra nel suo percorso da oriente ad occidente. Quando un uomo moriva, una piuma di Ma'at, l'ordine cosmico, simbolo di verità e di giustizia, veniva posta su uno dei
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piatti di una bilancia usata per pesare il cuore del defunto, durante il giudizio nell'aldilà al cospetto di Osiride, dio dei morti. Se il cuore pesava più della piuma, l'anima del defunto era divorata da un mostro con la testa di coccodrillo, altrimenti era accolta nei “Campi di Pace”. A tale cerimonia partecipavano, oltre alla dea Ma'at, il dio Thot e il dio Anubi, quest'ultimo preposto all'aiuto del defunto. La più importante rappresentazione delle costellazioni egizie resta il soffitto del tempio di Hathor a Dendera, con il suo zodiaco circolare. Risale a pochi decenni prima di Cristo e mostra chiaramente l'influenza della cultura assiro - babilonese filtrata attraverso i Greci. In esso sono disposte le 12 costellazioni zodiacali, che hanno molto probabilmente la loro nascita sulle rive del Tigri e dell'Eufrate, circondate dalle costellazioni egizie, e risulta essere la mappa più completa di tutto il cielo antico.
Zodiaco di Dendera
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6. ALTRE COSMOGONIE Boscimani I Boscimani, popolazione dell'Africa meridionale, ritengono che la notte non porti freddo solo per loro, ma anche per il Sole, descritto come un vecchio dormiglione che vive solitario in una capanna isolata. Così, per proteggersi dal freddo, il vecchio si tira addosso la sua coperta per stare caldo, ma la coperta è vecchia quanto lui ed è piena di buchi. È per questo che l'oscurità della notte è rotta dalla luce che filtra attraverso i buchi della coperta, le stelle. Per i Boscimani, la Luna è una divinità maschile creata da Kaggen, la figura centrale della loro mitologia, che combina in un unico personaggio un uomo, un mago ed un semidio. Una notte, per poter vedere al buio, lanciò in cielo un suo sandalo e questo divenne la Luna. Kaggen è anche il creatore dell'eland, una grossa antilope africana, molto pregiata come selvaggina ma anche, nella considerazione popolare, dotata di poteri magici e sovente presente nelle pitture e nelle incisioni su roccia. La Luna piena è così perché le è cresciuto un grosso stomaco. Allora illumina la Terra, mentre la gente dorme. Quando però il Sole esce all'alba, è così pieno d'invidia che la colpisce con i suoi raggi, che sono coltelli affilati. Così ogni mattina taglia via piccoli pezzi dal suo corpo, finché non ne rimane una sottilissima striscia, la spina dorsale. Da quel piccolo osso comincia di nuovo a riacquistare la sua vecchia forma fino a tornare a sconfiggere la notte. Allora il Sole, geloso, l'aggredisce di nuovo e ricomincia il ciclo. Quando la Luna è crescente porta nell'incavo tra i due corni gli spiriti dei morti e le nubi che a volte la coprono sono in effetti i capelli dei trapassati. Nella visione cosmogonica boscimana non c'è separazione tra uomo e natura. Dall'intima unione con tutto ciò che lo circonda, nasce nell'uomo quella conoscenza profonda delle leg-
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gi che governano il cosmo nelle sue manifestazioni sensibili che ancora oggi ci affascina e avvince, perché è stata in gran parte perduta nella nostra civiltà. I Bantu prima e gli europei dopo hanno proceduto ad un sistematico sterminio dei Boscimani considerati “pericolosi animali”. La maggior parte dei gruppi originari sono scomparsi o ridotti a poche decine di individui: attualmente i Boscimani sono nel complesso circa 85000 individui, sull'orlo dell'estinzione culturale. A tutt'oggi anche i nuovi governi africani non hanno fatto nulla per salvaguardare la sopravvivenza di questo popolo, anzi! Il loro territorio è diventato luogo di ricerca di risorse naturali, effettuate senza tener conto delle conseguenze che ciò potrà avere su tale minoranza: costretti ad abbandonare la terra ed a trasferirsi nelle città, che considerano “luoghi di morte”, i Boscimani sono spesso vittime di malnutrizione e malattie mortali, oltre che di droghe ed alcool. Il Sole, la Luna e le Stelle occupano un posto preminente nella cosmogonia dei Boscimani. Non sono entità astratte ed esterne al contesto in cui vivono, ma sono creature reali, che in un'altra epoca erano loro stesse uomini e cacciatori e vagavano sulla terra in cerca di selvaggina ed avevano la facoltà di parlare. Nonostante ora risiedano nel cielo, non vengono percepite come distanti e separate, ma piuttosto come parte integrante della stessa famiglia, e come tali vengono trattate con gentilezza e benevolenza. Popolazioni Sud-africane Sulla riva occidentale del lago Turkana, in Kenia, è presente un sito, chiamato Namoratunga, eretto nel 300 a.C. dalla tribù dei Borana, dove 19 colonne in pietra sono allineate con gli azimut della levata di alcune stelle o gruppi di stelle: Aldebaran, Bellatrix, Saiph, Sirio, Pleiadi, Cintura di Orione, Triangolo. Nel corso di metà dell'anno i mesi sono identificati con la levata di tali stelle in congiunzione con il novilunio; le stelle o i gruppi di stelle appaiono successivamente in questo ordine: Triangolo, Pleiadi, Aldebaran, Bellatrix, Cintura di
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Orione, Saiph, Sirio. Nella seconda metà dell'anno si usa solo il Triangolo, a cominciare da quando sorge in congiunzione con la Luna al plenilunio. I mesi seguenti sono identificati attraverso la relazione del Triangolo con le fasi della Luna calante. Il calendario che ne deriva, divide un anno di 354 giorni in 12 mesi. I simboli usati dalle tribù di tutta l'Africa per rappresentare oggetti celesti comprendono un cerchio con una croce per il Sole, un cerchio con un punto per la Luna piena ed una croce celtica per la luce. Per una popolazione dello Zambesi, la Luna aveva aspettato che il Sole apparisse dall'altra parte della terra e poi gli aveva rubato una parte del suo fuoco. Adirato da questo furto, il Sole aveva gettato fango sul volto della Luna, cosicché questa era rimasta coperta di macchie scure. Colma d'odio e di desiderio di vendetta, la Luna schizza di fango il Sole, che in conseguenza di ciò smette di risplendere per varie ore (la notte) o per pochi minuti (le eclissi). In un canto di una tribù sudafricana si trova un concetto che ben di rado si trova in comunità antiche: « …Ti venererò e girerò attorno a te, come fa la Terra con il Sole… »
Maori Le leggende maori si presentano molto simili alle leggende greche ed egizie, riguardo alla creazione del mondo. Nella religione maori, Taatoa (“l'intimo dell'essere interiore”) rappresenta l'essere supremo, il capostipite di tutte le divinità, il padrone dell'universo, ed il suo nome può essere solo sussurrato. Dalla sua unione con Feii-Feii-Maiterai derivano la notte ed il crepuscolo, la luce del giorno (entità maschile, Rangi) e la terra (entità femminile, Papa). In seguito regnarono le tenebre perché Rangi, il cielo, era strettamente unito a Papa, la terra. I figli, sebbene fossero di-
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venuti molto numerosi, non conoscevano la differenza tra luce e tenebre poiché erano rimasti nascosti nel grembo dei propri genitori. Così decisero di separarli, ma nonostante gli sforzi non ci riuscirono finché non provò Tane-Mahuta, il dio degli alberi, che facendo leva fra di loro, sollevò il Cielo sopra la Terra. Così il popolo uscì e divenne visibile. I figli rappresentano i dodici dèi della natura di grado più elevato, noti complessivamente come Atua. Di questi fanno parte Tangaroa, dominatore del mare e dei pesci e capostipite dei capi; TaneMahuta, il signore dei boschi, degli alberi e degli insetti; Tu, colui che è instabile, signore della guerra; Rongo, il dio della pace e delle piante coltivate; Haumia, signore delle piante selvatiche; Tawhiri, divinità del vento e delle forze della natura. Le divinità locali come Hina, dea della Luna, dell'aria e del mare e Atea, dea dello spazio, costituiscono gli Aku. Taaroa si unì anche con la dea dell'aria Ohina e diede vita alle nuvole rosse, all'arcobaleno e al chiaro di Luna. Nella mitologia hawaiana il dio del cielo è Lono, che è anche il dio dell'agricoltura, della fertilità e della pace, ed in questa veste è legato alle Pleiadi. Il periodo dell'anno a lui dedicato è il mahahiki, che durava circa quattro mesi ed era annunciato dal sorgere annuale delle Pleiadi al tramonto. In questo periodo Lono ritornava e portava con sé le piogge fertilizzanti dell'inverno, mentre tutte le normali attività umane erano sospese per potersi dedicare a sport, giochi, canti e danze hula. Alcune di queste ultime, simboleggiando una copulazione cosmica, avevano lo scopo di eccitare il dio affinché fertilizzasse la terra. Il Sole fu concepito un giorno in cui sua madre si trovava in un giardino presso il mare quando vide un grande pesce che si trastullava nell'acqua bassa. Attratta dallo splendore delle sue squame, entrò in acqua e si mise a giocare con lui. Il pesce era in realtà un dio. Qualche tempo dopo la gamba della donna, contro cui esso si era strofinato, cominciò a gonfiarsi e a dolere, e quando il marito incise il rigonfiamento ne balzò fuori un bambino, Dudugera. Crescendo, l'aggressività di Dudugera incuteva timore negli altri ragazzi, che avevano paura
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di giocare con lui, e suscitava una tale avversione che venne gravemente minacciato. La madre, per metterlo al sicuro, decise allora di inviarlo a suo padre. Scese dunque al mare ed il dio pesce comparve, prese in bocca suo figlio e si allontanò verso oriente. Prima di essere portato via, Dudugera raccomandò alla madre di rifugiarsi all'ombra di una grande roccia perché egli stava per diventare il Sole, flagello dell'umanità. Sua madre ed i suoi parenti seguirono il consiglio e dal loro riparo videro il calore del Sole aumentare e distruggere a poco a poco le piante, gli animali e gli uomini. Mossa a pietà da quello spettacolo, la madre di Dudugera decise di fare qualcosa. Un mattino, al sorgere del Sole, gli gettò della calce sul viso: in cielo si formarono così delle nubi che da allora proteggono la terra dall'effetto nefasto del calore del Sole. Nareau, divinità creatrice degli abitanti delle isole Gilbert, nel Pacifico settentrionale, all'inizio del tempo era solo. Così, impastando sabbia ed acqua, creò due esseri primordiali, maschio (Na Atibu) e femmina (Nei Teurez). Nareau chiese loro di aggiungere al Creato l'umanità e poi se ne andò in cielo. Sfortunatamente sorse una lite tra i due, che si concluse con l'uccisione e lo smembramento del componente maschile della coppia. Il suo occhio destro venne gettato nel cielo d'oriente e divenne il Sole; l'occhio sinistro fu lanciato nel cielo d'occidente e divenne la Luna; il cervello andò a formare le stelle, la carne e le ossa divennero isole ed alberi.
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7. I GRECI In astronomia hanno rilevanza soprattutto quei miti con cui gli antichi cercavano di dare una spiegazione a fenomeni naturali più grandi di loro ed in gran parte incomprensibili. Il discorso astronomico - mitologico è così frutto di un intreccio di credenze popolari e superstizioni e di un timido approccio scientifico alla conoscenza del cielo. A ciò si aggiunse anche l'esigenza di poter navigare la notte con l'aiuto di quelle figure mitiche cui, per altri versi, ci si rivolgeva anche nella vita quotidiana. Fu così che si posero in cielo, e non in maniera casuale, eroi e dei che accompagnavano la quotidianità dell'uomo. Tentativi di raggruppare le stelle, risalgono, come si è visto, circa al 6000 a.C. Ritrovamenti nella valle dell'Eufrate indicano come i popoli di quella terra individuavano già in cielo le costellazioni del Leone, del Toro e dello Scorpione. Cominciarono così, come abbiamo già detto, i Sumeri ed i Babilonesi e seguirono a ruota gli Egizi, ma soltanto i Greci compilarono i primi cataloghi stellari. Inoltre ricordiamo che, prima dei Greci, le costellazioni non erano associate a grandi miti ma semplicemente ad animali, magari mostruosi o molto possenti e potenti, oppure ad oggetti d'uso più o meno comune. A datare dal V secolo a.C. invece, le costellazioni iniziarono ad essere associate a miti ed Eratostene, nel suo Cataterismi, completò la mitologizzazione del cielo: è in questa fase che si compie la fusione tra astronomia e mitologia. Il più completo catalogo astronomico rimase a lungo quello redatto da Tolomeo che, attorno al 150 d.C., catalogò 1022 stelle raggruppandole in 48 costellazioni. Il suo Almagesto resta ancor oggi, riguardo all'emisfero boreale, la base moderna
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della classificazione delle costellazioni. Tolomeo diede forma compiuta a tutte le informazioni giunte fino a lui, con un'opera sistematica. Fra le fonti cui attinse va ricordata quella che è senz'altro la principale: il Catalogo redatto da Ipparco di Nicea (II secolo a.C.) che era un compendio delle cognizioni dell'epoca. Anche la letteratura dell'epoca non era da meno: riferimenti alle costellazioni si trovano nell'Iliade di Omero, ne Le Opere e i Giorni e nella Teogonia di Esiodo; Eudosso, nei trattati Enoptron (Specchio) e Phaenomena (Apparenze), andati perduti e di cui abbiamo notizia nell'opera di Arato (315-245 a.C.) dallo stesso titolo Phaenomena, fornisce la prima testimonianza concreta di un sistema organizzato di costellazioni greche, sulla base delle acquisizioni raggiunte dai sacerdoti egizi. Altra fusione importante creata dal mondo greco, è quella dei miti e la tragedia, che però, passando dalla tradizione orale ai testi scritti, trasforma, ma non del tutto, quanto era una delle caratteristiche dei miti stessi: la mancanza di fossilizzazione del mito stesso, la perdita delle sue quasi illimitate capacità di adattamento sia di colui che lo racconta che di chi lo ascolta. La drammatizzazione degli episodi mitici porta qualcosa di fondamentalmente nuovo: l'umanizzazione del mondo mitico, il divenire di dèi ed eroi partecipi come simili alle vicende umane. (F. Graf: Il Mito in Grecia) La Creazione. Esistono dei miti pre-ellenici della creazione, riportati, in parte, da Plinio nella sua Storia Naturale e da Apollonio Rodio nelle Argonautiche, in cui si racconta che Eurinome (“vagante in ampi spazi”), dea di tutte le cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi; divise allora il mare dal cielo ed intrecciò una danza sulle onde. Pensò di iniziare l'opera di creazione quando si accorse del Vento che turbinava alle sue spalle: si voltò e sfregò il Vento tra le mani. Su-
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bito apparve il serpente Ofione che, acceso dal desiderio di Eurinome che danzava con ritmo sempre più selvaggio, la avvolse tra le sue spire e si accoppiò con lei. Così Eurinome rimase incinta. Prese la forma di una colomba e, a tempo debito, depose l'Uovo Universale. Per ordine della Dea, Ofione si arrotolò sette volte attorno all'uovo, finché questo non si schiuse. Nacquero così tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome: il Sole, la Luna, i pianeti, le stelle, la Terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi. Eurinome ed Ofione si stabilirono sul Monte Olimpo, ma ben presto Ofione irritò la dea perché si vantava di essere il creatore dell'Universo. Eurinome allora lo colpì sulla bocca con un calcio, gli spezzò tutti i denti e lo relegò nelle buie caverne sotterranee. La dea poi creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna di esse un Titano ed una Titanide: Tia ed Iperione al Sole, Febe ed Atlante alla Luna, Dione e Crio al pianeta Marte, Meti e Ceo a Mercurio, Temi ed Eurimedonte a Giove, Teti ed Oceano a Venere, Rea e Crono al pianeta Saturno. Il primo uomo fu Pelasgo, capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo dell'Arcadia, subito seguito da altri uomini ai quali insegnò come fabbricare capanne e come nutrirsi di ghiande (Robert Graves: I Miti Greci. Abb. Miti). Esiste anche un mito, collegato ai miti olimpici, in cui Crono e Rea si impadroniscono del potere e fanno precipitare Eurinome ed Ofione nel Tartaro. La Nascita degli Dèi. Esiodo, ne Le Opere e i Giorni racconta che cinque differenti epoche si sono succedute dall'origine degli dèi: l'età dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi e l'attuale età del ferro. All'inizio era l'Età dell'Oro, nel periodo in cui Crono regnava in cielo. Gli uomini, liberi da affanni, al riparo dalle fatiche e dalla miseria, non conoscevano la vecchiaia, ma trascorrevano i giorni sempre giovani, tra banchetti e feste e poi,
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giunto il tempo di morire, si addormentavano dolcemente. Non lavoravano e tutti i beni appartenevano loro spontaneamente, la terra produceva abbondante raccolto ed essi vivevano in pace. I romani, che identificavano Crono con Saturno, ponevano l'Età dell'Oro al tempo in cui questo dio regnava sull'Italia, che allora si chiamava Ausonia. Gli dei vivevano in intimità con i mortali, le porte non erano ancora state inventate, poiché il furto non esisteva e gli uomini non avevano niente da nascondere. Ci si nutriva esclusivamente di legumi e di frutta, poiché nessuno pensava ad uccidere. Saturno introdusse l'uso del falcetto ed insegnò agli uomini ad utilizzare meglio la fertilità spontanea del suolo. Gli uomini, però, non potevano riprodursi perché non era nata ancora la donna, e quindi si estinsero (Rosa Agizza: Miti e Leggende dell'Antica Grecia. Abb. Agizza). « Poi, dopo che la terra coprì questa stirpe, essi sono demoni, per il volere di Zeus grande, sulla terra; custodi degli uomini mortali, della giustizia hanno cura e delle azioni malvagie, vestiti di nebbia, sparsi ovunque per la terra, datori di ricchezza »
(Esiodo: Le Opere e i Giorni. Abb. Op) e vivono nel “Giardino degli Asfodeli”. Zeus allora propose agli immortali di creare la successiva stirpe umana, quella dell'Età dell'Argento. Zeus ridusse la durata della primavera e divise l'anno nelle quattro stagioni, si cominciarono a costruire le case con le porte e si cominciò a lavorare ed arare i campi. Pur sempre fortunati nei loro privilegi, questi uomini non compresero né apprezzarono i favori di cui godevano. Immuni dalla vecchiaia, ma non dalla follia, si uccidevano a vicenda. Irato, tra l'altro, per la loro mancata venerazione degli Immortali, Zeus li distrusse, adoperandosi a creare una terza razza umana (Agizza). Questa, l'Età del Bronzo, fu «d'indole più crudele, più proclive all'orrore delle armi, ma non scellerata» (Op). Questi uomini erano carnivori ed amavano la guerra, compiacendosi
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dell'orrore e delle uccisioni gratuite. Avevano una forza gigantesca, ma furono ugualmente precipitati nell'abisso del Tartaro (Agizza). La quarta fu una stirpe migliore di quella del bronzo, quella dell'Età degli eroi. Stirpe semidivina, furono Semidei e furono uccisi dalla “guerra malvagia”. Alcuni a Tebe, altri a Troia, in genere in battaglie. «Ma poi lontano dagli uomini dando loro vitto e dimora il padre Zeus Cronide della terra li pose ai confini» (Op). Infatti, dopo la morte, era loro riservato un posto nell'Isola dei Beati, dove regnava Crono e dove godevano degli onori dovuti agli esseri divini (Agizza). « L'ultima fu quella ingrata del Ferro. E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, e al posto loro prevalsero frodi ed inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere [... ]vinta giace la pietà, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la Terra madida di sangue. »
(Ovidio: Metamorfosi. Abb Met. (I. vv. 125, 150)). Infatti gli dei, che prima vivevano con gli uomini, li abbandonarono e si ritirarono sul Monte Olimpo. Gli uomini, che erano stati creati da Prometeo, in questo periodo vivevano la guerra come loro regola, anzi era «un'ossessione dei vecchi, che mandano i giovani a combatterla.» (Baricco: “Omero, Iliade”). Esiodo, nella Teogonia, espone una teoria cosmogonica in cui racconta come dal Caos, uno spazio tenebroso in cui esisteva solo materia indistinta ed indifferenziata, il Vuoto Primordiale, al tempo in cui l'Ordine non era stato ancora imposto agli elementi del mondo, ebbero origine divinità primordiali, personificazione delle forze della natura, e la cui nascita determinò il passaggio dal Caos al Cosmo, cioè all'universo ordinato. Il Caos generò Erebo, Nyx ed Eros, cioè le Tenebre Infernali, la Notte e la forza attrattiva che spinge gli elementi a
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combinarsi. La Notte non fu mai limitata, nella sua potenza, dagli altri immortali. Fu lei che consigliò a Zeus di ubriacare Crono e poi di fissarlo, legato, all'Etere, e così Zeus riuscì a sconfiggere Crono. Dei suoi figli, Hypnos e Tanatos, il primo era il desiderato liberatore dalle ansie della giornata, mentre l'altro era l'implacabile ministro che realizzava il Fato, essendo ogni mortale, fin dalla nascita, soggetto ad un destino affidatogli dalle Moire, che sono anche loro figlie della Notte. Il potere delle Moire consisteva nella loro facoltà decisionale, che neanche Zeus poteva contrastare. Erano la personificazione del destino di ciascuno. Da Notte nacquero anche Emera (il Giorno) ed Etere (il Cielo superiore), «che lei concepì ad Erebo unita in amore» (Esiodo: Teogonia. (Abb. Teo), v. 125). Eros è l'energia decisiva nella creazione dell'Universo. Un mito, riferito da Apuleio nelle sue Metamorfosi, narra che la mortale Psiche aveva due sorelle, e tutte e tre erano molto belle, ma Psiche era tanto bella che venivano da tutte le parti per ammirarla. Laddove le sorelle avevano trovato marito, nessuno voleva sposare Psiche, perché la sua bellezza faceva paura ai fidanzati. Era così bella che aveva suscitato la gelosia di Afrodite. Questa ordinò ad Eros di darle un amante mostruoso, ma, quando il dio la vide, rimase estasiato dalla sua bellezza e volle averla per sé. Ci riuscì attraverso il trucco di un oracolo, cui un giorno il padre si rivolse e che gli rispose di preparare la figlia come per un matrimonio e di esporla su di una roccia dove un mostro orribile sarebbe venuto a prenderne possesso. I suoi genitori furono disperati, tuttavia agghindarono la giovane e, in mezzo ad un corteo funebre, la portarono fino in cima alla montagna indicata dall'oracolo, poi la lasciarono sola e si ritirarono nel loro palazzo. Psiche, da sola, si lamentava quando si sentì rapire dal Vento e sollevare in aria. Il Vento la sostenne dolcemente mentre ella giungeva al fondo d'una valle profonda e si posava
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su un prato di erba tenera, dove, stremata da tante emozioni, si addormentò profondamente. Quando si svegliò, si trovò nel giardino di un magnifico palazzo, interamente di marmo. Penetrò nelle stanze che si aprivano dinanzi a lei e qui fu accolta da voci che la guidarono e le rivelarono di essere altrettante schiave al suo servizio. Dopo una giornata trascorsa tra stupori e meraviglia, la sera Psiche avvertì vicino a lei una presenza: era il marito di cui aveva parlato l'oracolo, che ella non vide ma che non le sembrò così mostruoso come temeva. Suo marito non le disse chi fosse e l'avvertì che non era concesso che lei potesse vederlo, altrimenti lo avrebbe perduto per sempre. Questa esistenza si protrasse per alcune settimane: di giorno, Psiche era sola nel suo palazzo pieno di voci, di notte, era raggiunta dal suo sposo. Era felicissima. Ma un giorno cominciò a desiderare la propria famiglia ed a rimpiangere il padre e la madre, che la credevano certamente morta. Chiese allora al marito il permesso di tornare presso di loro per un po' di tempo. Dopo molte preghiere, e benché le fosse mostrato il pericolo presentato da questa assenza, Psiche finì per spuntarla. Il Vento la trasportò di nuovo fino alla sommità della roccia dove era stata esposta e, di qui, ella non ebbe alcuna difficoltà a far ritorno a casa. Le furono fatte grandi feste e le sorelle sposate vennero a trovarla. Quando la videro così felice e ricevettero i regali ch'ella aveva loro portato, concepirono una grande gelosia. Si ingegnarono a far sorgere il dubbio nella sua mente, e finirono col farle confessare ch'ella non aveva mai visto il marito. Alla fine la convinsero a nascondere una lampada, di notte, e, alla sua luce, mentre egli avrebbe dormito, a scoprire l'aspetto di colui che amava. Psiche ritornò al palazzo, fece come le era stato consigliato e scoprì, addormentato vicino a sé, un bell'adolescente. Molto emozionata per la sua scoperta, lasciò colare su di lui una goccia d'olio bollente, tanto la sua mano tremava nel sollevare la lampada. Bruciato dall'olio, Eros (poiché era lui il mostro crudele di cui aveva parlato l'oracolo) si svegliò e, conformemente alla
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minaccia fatta a Psiche, fuggì immediatamente per non tornare più. Non più protetta da Eros, la povera Psiche si mise ad errare per il mondo, dove la inseguì la collera di Afrodite, indignata per la sua bellezza. Nessuna divinità acconsentiva ad accoglierla ed infine fu presa da Afrodite stessa, la quale la rinchiuse nel suo palazzo, la tormentò in mille modi e le impose vari incarichi. Dovette mondare semi, raccogliere lana di montoni selvatici, infine discendere agli Inferi, dove dovette chiedere a Persefone una boccetta d'acqua di Giovinezza, che peraltro le era vietato aprire. Sfortunatamente, sulla via del ritorno, Psiche aprì la boccetta e cadde addormentata di un sonno profondo. Frattanto, Eros era disperato, perché non poteva dimenticare Psiche. Quando la vide addormentata di un sonno magico, volò verso di lei, la svegliò con una puntura delle sue frecce e, risalendo all'Olimpo, chiese il permesso a Zeus di sposare quella mortale. Zeus gliel'accordò ben volentieri e Psiche si riconciliò anche con Afrodite. Sempre dal Caos, nacque Gea, la Madre Terra, e che da sola, senza l'aiuto di alcun elemento maschile, generò Urano, le Montagne e Ponto. Gea poi giacque con Urano e nacquero non più le semplici potenze elementari, ma i primi dèi: i Titani e le Titanidi. I sei Titani erano Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto e Crono; le sei Titanidi erano Teia, Rea, Temi, Mnemosine, Febe e Teti. Oceano si unì con Teti ed ebbe, tra gli altri figli, Eurinome, che ovviamente non è la stessa dea di cui si è parlato a proposito dei miti pre-ellenici. Febe si unì con Ceo e gli diede i figli Latona, Ortigia ed Asteria. Fondò l'oracolo di Delfi e lo regalò ad Apollo, suo nipote, figlio di Latona.
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Poi, sempre da Gea ed Urano, nacquero i Ciclopi, giganti con un occhio solo, Arge (la Folgore), Sterope (il Lampo) e Bronte (il Tuono), ed infine gli Ecatonchiri, esseri con cento braccia e cinquanta teste ciascuno, giganteschi e violenti, che si chiamavano Cotto, Briareo e Gige. Urano fu generato da Gea per esigenze di accoppiamento e di generare e non ebbe altra attività che quella sessuale. Egli, probabilmente per questo, odiò fin dall'inizio tutti i suoi figli e li costrinse a non vedere la luce ed a restare sepolti nelle profondità delle viscere della Madre Terra. Gea, afflitta dal peso opprimente e dalla proibizione ai suoi figli di vedere la luce, decise di liberarli e chiese loro di vendicarsi del padre, ma nessuno acconsentì, tranne il più giovane, Crono, che le rispose: «Madre, sarò io, lo prometto, che compirò questa opera, ché d'un padre esecrabile cura non ho, sia pur mio, che per primo compì opere infami» (Teo. vv. 170 sgg.). Gea gli consegnò allora una grande falce d'acciaio affilatissimo e, quando Urano venne, portando la Notte, e «desideroso d'amore incombette e si stese dovunque», Crono gli tagliò i genitali afferrandoglieli con la mano sinistra (che da quel giorno fu sempre la mano del malaugurio) e li gettò dietro di sé, nel mar Egeo. Dallo sperma e dal sangue caduto dalla ferita, Gea fu di nuovo fecondata e così nacquero le Erinni, Aletto, Tisifone e Megera, forze primitive, che non riconoscevano l'autorità degli dèi della giovane generazione. Anche Zeus doveva ubbidire alle loro decisioni. Avevano corpi alati, capelli intrecciati di serpenti ed avevano in mano torce e fruste. Quando s'impadronivano di una vittima, la facevano impazzire, torturandola in ogni modo possibile. Vivevano nell'oscurità degli inferi, nell'Erebo. Anche i Giganti e le ninfe dei frassini, chiamate Melie, nacquero dalla nuova fecondazione di Gea. In seguito, dalla spuma del mare che era attorno al mem-
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bro immortale di Urano, trasportato dai flutti fino a Cipro, nacque Afrodite, la donna “nata dalle onde”, o anche la donna “nata dallo sperma del dio” (Miti). È proprio dall'evirazione di Urano che inizia la misurabilità del tempo, rappresentata, nel Timeo di Platone, dall'obliquità dell'eclittica, cioè dell'inclinazione dell'eclittica rispetto all'equatore, evento catastrofico avvenuto come conseguenza di quella evirazione (Sant). Afrodite fu sposa di Efesto, il dio fabbro zoppo. Infatti Efesto nacque così gracile che sua madre Era, disgustata, lo gettò giù dalla vetta dell'Olimpo. Egli però sopravvisse perché cadde in mare e fu recuperato da Teti e dalla figlia Eurinome, che lo tennero in una grotta sottomarina dove Efesto installò la sua prima fucina e ricompensò le sue ospiti fabbricando per loro ogni sorta di oggetti utili ed ornamentali. Quando Era vide una spilla, fabbricata da Efesto, sulla veste di Teti, riportò subito il figlio sull'Olimpo, dove preparò per lui una splendida fucina ed inoltre combinò le sue nozze con Afrodite. Efesto, dopo la riconciliazione con Era, osò rimproverare Zeus per averla appesa al cielo quando si era ribellata, e Zeus lo scagliò giù dall'Olimpo una seconda volta. Precipitò, questa volta, un giorno intero, e cadde sull'isola di Lemno, fratturandosi entrambe le gambe, e quindi rimase zoppo per l'eternità. Ma Afrodite amava Ares, il dio dal membro eretto, l'impetuoso e ubriacone dio della guerra. I due amanti furono sorpresi dal Sole, che riferì l'avventura ad Efesto, il quale preparò una trappola: una rete magica, che solo lui poteva manovrare. Una notte in cui i due amanti erano uniti nel letto di Efesto, questi richiuse la rete su di loro e chiamò a guardare tutti gli altri dei, che furono molto divertiti dalla scena. Pregato da Poseidone, Efesto acconsentì a ritirare la rete, a patto che gli fosse restituita la preziosa dote che aveva dovuto pagare a Zeus, padre adottivo della sposa. Ritirata la rete, Afrodite fuggì piena di vergogna a Pafo, dove recuperò la propria verginità bagnandosi nel mare, ed Ares ritornò in Tracia. Da quest'amore nacquero Antero, Deimos, Fobos ed Armonia. Alla fine Efesto rinunciò al risarci-
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mento, perché era pazzamente innamorato di Afrodite e non aveva intenzione di divorziare da lei (Miti). Figlio di Afrodite fu anche Enea, nato da lei e da Anchise, e quindi Afrodite fu l'origine della “Gens Julia”, del mondo Romano. Dopo la mutilazione di Urano, Gea si unì al figlio Ponto e generò con lui cinque divinità marine: Nereo, Taumante, Forci, Ceto ed Euribie. Nereo aveva il dono delle metamorfosi e lo regalò anche a Proteo ed a tutte le divinità marine. Da Nereo e Doride, figlia di Oceano, nacquero le Nereidi. Queste Nereidi, che personificano le onde del mare, sono molte, a volte cinquanta, a volte addirittura cento, e non hanno alcuna parte individuale nelle leggende, a parte Teti (da non confondere con la Titanide Teti), che fu la madre di Achille, il “piè veloce”. L'altra Nereide che si distingue è Anfitrite, che Poseidone rapì e poi sposò (v. Delfino). Nereo e Doride ebbero anche un figlio maschio, Nerite, giovane bellissimo, amato da Afrodite al tempo in cui ella viveva ancora in mare. Allorché la dea volò verso l'Olimpo, Nerite si rifiutò di seguirla benché ella gli avesse dato le ali. Arrabbiata ed indignata, la dea lo trasformò in un mollusco, incapace di muoversi attaccato alla roccia, e diede le ali ad Eros, che accettò di essere suo compagno. Nereo collaborò al fallimento della congiura degli dèi Olimpici contro Zeus, coinvolgendo gli Ecatonchiri. Ceto generò, unita al fratello Forci, le Graie, le “Vecchie Donne”. Esse non sono mai state giovani, ma sono nate vecchie, e si chiamano Enio, Pefredo e Dino. Avevano tutte e tre solamente un occhio ed un dente che si prestavano a turno. Vivevano nell'estremo occidente, nel paese della notte, dove il Sole non sorge mai. Anche le Gorgoni, Steno, Euriale e Medusa, quest'ultima mortale, e uccisa da Perseo, erano figlie di Ceto e Forci. Mo-
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rendo, Medusa generò, dal suo sangue, il cavallo alato Pegaso ed il grosso Crisaore, “nato con la spada d'oro in mano”, da cui nacquero, unito alla figlia di Oceano, Calliroe, il gigante tricefalo Gerione, che fu ucciso da Eracle, ed Echidna, mostro col corpo di donna, ma che terminava con una coda di serpente. Echidna, unita con Tifone, generò tra gli altri Cerbero, il cane di Ade, l'Idra di Lerna, uccisa da Eracle e Chimera dalle tre teste, uccisa da Bellerofonte. Poi, giacendo col figlio Orto, generò la Sfinge ed il Leone Nemeo, ucciso da Eracle. Rea, figlia di Urano e Gea, quindi una Titanide, si unì al fratello Crono, con il quale divise la sovranità del mondo e ne ebbe sei figli: Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. Però Crono, istruito da un oracolo dei genitori, divorava tutti i propri figli man mano che nascevano, poiché sapeva che uno di loro doveva spodestarlo. Rea era furibonda per questo comportamento e, incinta di Zeus, su consiglio dei suoi genitori Urano e Gea, fuggì a Licto, nell'isola di Creta, per partorire «prendendolo con le sue mani, in un antro scosceso, sotto i recessi della terra divina, nel monte Egeo, coperto di folta foresta.» (Teo. vv 482-484). Nascose il piccolo Zeus e diede da divorare a Crono una pietra avvolta in pannolini. Zeus fu affidato ad Adrastea ed Io, figlie di Melisseo ed Amaltea; quest'ultima, talvolta presentata come capretta, fu nutrice amorevole per lui e per il fratellastro Pan, ed in seguito, alla sua morte, Zeus stesso ne recuperò la pelle costruendo l'egida che lo avrebbe aiutato nella lotta contro i Titani e immortalò tra le stelle la sua immagine come costellazione del Capricorno. Avendole rotto un corno giocando, per scusarsi promise che da quel corno sarebbero usciti tutti i cibi e le bevande desiderati: il Corno dell'Abbondanza o Cornucopia. (Agizza). Zeus aveva una culla dorata che era appesa ai rami di un albero affinché Crono non potesse trovare suo figlio né in cielo né in terra né in mare. Accanto alla culla, montavano la guardia armata i Cureti, figli di Rea, e battevano le spade contro gli scudi e gridavano per coprire i vagiti del piccolo, per-
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ché Crono non potesse udire nemmeno da lontano. (Miti). Col passare del tempo, tuttavia, Crono cominciò a sospettare la verità e si mise ad inseguire Zeus, che trasformò se stesso in Serpente e le nutrici in Orse: ecco perché ci sono in cielo le costellazioni del Serpente (Drago) e delle Orse. Zeus crebbe tra i pastori fino a quando, divenuto adulto, non si rivolse alla Titanide Meti, dea dell'intelligenza, che gli consigliò di affidarsi a Rea per poter ricevere l'incarico di coppiere di Crono ed usare ciò con lo scopo di togliergli il potere. Rea lo aiutò fornendogli anche l'emetico da mescolare alle bevande del padre Crono “dai torti pensieri”, che bevve ignaro la droga e risputò fuori i suoi figli. Per prima vomitò la pietra che aveva mangiato per ultima, che Zeus pose a Pito, a meraviglia dei mortali (pare che si tratti di un meteorite). Poi balzarono fuori, illesi, i fratelli e le sorelle di Zeus e, in segno di gratitudine, gli chiesero di guidarli in una guerra contro i Titani, che si erano scelti il gigantesco Atlante come capo. (Miti). Crono era legato fortemente al potere e si accinse alla resistenza contro i suoi figli, i quali furono subito pronti alla battaglia assieme anche ai Titani Iperione, Teti, Temi e Mnemosine che lottarono al fianco di Zeus, mentre Oceano assunse un atteggiamento pressoché neutrale. La lotta fu dura e dopo dieci anni Zeus si rivolse per consiglio a Gea che gli rivelò che il segreto della vittoria era nella liberazione delle altre due serie di figli di Crono, i Ciclopi e gli Ecatonchiri. Zeus scese subito nel Tartaro e scarcerò i nuovi e necessari alleati. I Ciclopi, riconoscenti, offrirono a Zeus la folgore, il lampo ed il tuono; Ade ebbe l'elmo che rendeva invisibile chi lo indossava, e Poseidone ebbe il Tridente. Gli Ecatonchiri Cotto, Briareo e Gige rappresentavano la sottomissione delle antiche forze primordiali al nuovo, futuro regno. La resistenza dei Titani richiese ancora l'intervento di Zeus che, dall'alto dell'Olimpo, iniziò a bruciare ogni cosa col fulmine, fino a raggiungere i Titani che non poterono più porre alcun ostacolo alla forza devastante degli Ecatonchiri. Il colpo di grazia fu inferto dalle tremende urla demoniache del dio Pan che li disperse selvaggiamente.
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Alla fine il figlio Ade, col suo elmo, si introdusse segretamente nella dimora del padre Crono per rubargli le armi e, mentre il secondo figlio Poseidone lo minacciava con tridente, arma regalatagli dai Ciclopi, l'ultimo figlio, Zeus lo colpì con la folgore. Crono ed i Titani sconfitti, ad eccezione di Atlante, furono esiliati nel Tartaro sotto la sorveglianza degli Ecatonchiri. Ad Atlante, come loro capo, fu riservata una punizione esemplare: doveva sostenere sulle sue spalle il peso del cielo. Le Titanidi, invece, furono risparmiate per intercessione di Meti e di Rea. (Agizza, Miti). Ricordiamo che il Tartaro è la regione del mondo più profonda, posta al di sotto degli stessi Inferi. Fra questi ed il Tartaro vi è la stessa distanza che fra il Cielo e la Terra. In seguito, in memoria dell'Età dell'Oro, Crono fu perdonato, liberato dalle catene e, riconciliato con Zeus, prese dimora nell'Isola dei Beati, all'estremo occidente del mondo. Più tardi, nell'Età del Ferro, gli uomini erano diventati così malvagi che Crono fu riaccettato da Zeus sull'Olimpo. Esiodo descrive nel dettaglio (Teo. 626-735), tutte le fasi della guerra, durata dieci anni. Estia, dea del focolare, era la prima figlia di Crono e Rea. Benché corteggiata da Apollo e Poseidone, ottenne da Zeus di conservare eternamente la sua verginità. Inoltre Zeus le concesse onori eccezionali: avrebbe ricevuto un culto in tutte le case degli uomini e nei templi di tutti gli dèi. A reggere il Tartaro fu posto Ade con la moglie Persefone e lo spietato cane Cerbero. Sempre nel Tartaro dimora la terribile Stige, prima figlia di Oceano, il fiume che forma i confini occidentali del Tartaro stesso; ha come affluenti l'Acheronte, il Flegetonte, il Cocito, l'Averno ed il Lete. Il cane con tre teste, Cerbero, monta la guardia sulla sponda opposta dello Stige, pronto a divorare i viventi che cerchino di entrare, o le ombre che cerchino di fuggire.
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Nella prima zona del Tartaro si trova la “Prateria degli Asfodeli”, dove sono le anime della maggioranza degli Eroi, quelli meno illustri. Oltre la prateria si trovano l'Erebo ed il palazzo di Ade e Persefone. Lì accanto, le ombre appena discese vengono giudicate da Minosse, Radamanto e Sarpedone (alcuni dicono che il terzo giudice sia Eaco). Al termine di ogni giudizio le ombre vengono indirizzate lungo una di tre strade: la prima conduce alla Prateria degli Asfodeli, dove si riuniscono coloro che non furono né virtuosi né malvagi; la seconda al campo di punizione del Tartaro, destinata ai malvagi e la terza ai Campi Elisi, destinati ai virtuosi e su cui regna Crono e la vita è simile a quella dell'Età dell'Oro. Una delle “ministre” di Ade fu Echidna, figlia di Ceto e Forci, che aveva un volto femminile ed il corpo di serpente. Echidna, con Tifone, generò Chimera, Argo, Orto e Cerbero. Sempre nel Tartaro vivevano le Kere, dee della morte, le tre Erinni Aletto, Tisifone e Megera, dee della vendetta che punivano i crimini di sangue, e le tre Parche Lachesi, Cloto ed Atropo, intente a filare il destino di uomini e dei. I Giganti erano furibondi, perché Zeus aveva confinato nel Tartaro i loro fratelli Titani. Essi, che erano nati da Gea, fecondata dallo sperma di Urano quando era stato evirato da Crono, complottarono per dare l'assalto all'Olimpo. Cominciarono col buttare massi e tizzoni ardenti verso l'alto, e gli olimpi si trovarono in difficoltà. La dea Era profetizzò che i Giganti non sarebbero mai stati uccisi da un dio, ma solo da un mortale che vestiva pelle di leone, e che anche costui non sarebbe riuscito nell'intento se non avesse trovato, prima dei Giganti stessi, una certa erba che rendeva invulnerabili (il nome di quest'erba è sconosciuto) e cresceva in un luogo segreto sulla terra. Zeus si consigliò con Atena e la mandò ad informare Eracle della situazione; poi proibì ad Eos, a Selene ed al Sole di brillare per qualche tempo e, alla debole luce delle stelle, Eracle trovò l'erba magica, e la portò in cielo. Zeus poté allora cominciare la battaglia (la Gigantomachia). Eracle scoccò la prima freccia contro Alcioneo, il capo dei Giganti, che cadde
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al suolo e subito si rialzò, poiché quella era la terra dove era nato. Eracle, allora, su consiglio di Atena, si caricò Alcioneo sulle spalle e lo portò oltre il confine della Tracia, eliminandolo poi a colpi di clava. La battaglia fu molto dura, anche con un tentativo di violenza ad Era da parte di Porfirione, che fu fermato, prima da Zeus con un fulmine e poi da una freccia mortale di Eracle. In particolare fu dura per Eracle, che si dovette assumere l'onere di vibrare tutti i colpi mortali ai Giganti. La battaglia finale si svolse a Cuma, presso Napoli, dove Eracle e gli Olimpici ebbero finalmente la meglio. Gea, allora, per vendicare la morte dei suoi figli, giacque con Tartaro e generò il più giovane dei suoi figli: Tifone (o Tifeo), il mostro più grande che mai vedesse la luce del sole, l'ultima grande rappresentazione del primigenio disordine cosmico. Era metà uomo e metà belva e superava tutti gli altri figli di Gea per forza e per statura. Dalla cintola in giù era circondato da serpenti ed aveva il corpo alato e gli occhi che lanciavano fiamme. Allorché gli dei videro questo essere attaccare il Cielo, fuggirono fino in Egitto e si nascosero nel deserto, dove assunsero forme animalesche: Apollo diventò un nibbio, Ermes un ibis, Ares un pesce, Dioniso un caprone, Efesto un bue ecc. Soltanto Atena e Zeus resistettero al mostro: Zeus gli scagliò da lontano dei fulmini e, lottando corpo a corpo, l'abbatté con la sua falce d'acciaio. La lotta si svolse su monte Casio, ai confini fra l'Egitto e l'Arabia Petrea. Tifone, il quale era soltanto ferito, riuscì ad avere il sopravvento, e strappando la falce al dio, gli tagliò i tendini delle braccia e delle gambe e lo caricò indifeso sulle proprie spalle portandolo fino in Cilicia, dove lo rinchiuse in una caverna, nascose i tendini ed i muscoli in una pelle d'orso e li affidò alla custodia della dragonessa Delfine. Ermes e Pan sottrassero i tendini e li rimisero al loro posto nel corpo di Zeus, che recuperò subito le proprie forze e, risalendo al Cielo su di un carro trainato da cavalli alati, si mise a colpire il mostro col fulmine. Tifone fuggì sul monte Nisa, in Tracia, poi sul monte Emo (dal sangue che colò dalle sue feri-
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te) ed infine in Sicilia, dove Zeus gli lanciò addosso il monte Etna. Le fiamme che nascono dall'Etna sono quelle che il mostro vomita (Agizza, Miti). L'Olimpo era così finalmente libero dai residui del Caos ed era nelle mani sicure del Cosmo. Etna, il cui nome divenne quello del vulcano, era una ninfa siciliana, figlia di Urano e Gea, e fu mediatrice nella contesa tra Demetra ed Efesto per il possesso della Sicilia. Crono ebbe anche, come figlio, il Centauro Chirone, avuto dall'Oceanina Filira. Per generarlo, Crono aveva assunto la forma di un cavallo, perché questa si rifiutò a Crono e si trasformò in giumenta per sfuggirgli, ma il dio assunse la forma di un cavallo e la violentò. Chirone nacque sul monte Pelio, in Tessaglia, dove sua madre si stabilì con lui in una grotta. Chirone era quindi un immortale metà uomo e metà cavallo. Fu Chirone a dare a Peleo il consiglio di sposare Teti, insegnandogli come obbligarla a questo matrimonio impedendole di trasformarsi. Peleo affidò a lui il figlio Achille. Chirone, che era al fianco di Eracle quando vi fu il massacro dei Centauri, fu da lui ferito accidentalmente. Prometeo, figlio di Giapeto, lo liberò dal problema di essere immortale, cedendogli il suo diritto alla morte. E così Chirone poté trovare riposo. Zeus e Poseidone si erano disputati la mano di Teti, ma Temi predisse loro che il figlio di Teti sarebbe stato, in virtù del fato, più potente del padre. Subito le due divinità abbandonarono il corteggiamento e si pensò di farla sposare ad un mortale, per il quale il compimento di tale profezia non avrebbe rappresentato alcun inconveniente. Gli dèi risolsero di darle Peleo come marito, ma lei si rifiutò. Poiché era una dea marina, aveva il dono di assumere
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tutte le forme che voleva. Ed usò tale dono per sfuggire a Peleo. Si trasformò ripetutamente ma Peleo, istruito da Chirone, la trattenne solidamente, ed alla fine la sposò. Il titano Giapeto sposò Climene, figlia di Oceano e Teti, che gli generò Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. Prometeo è, secondo alcuni, colui che ha creato i primi uomini, modellandoli con la creta. Per Esiodo, invece, è solo il benefattore dell'umanità, e non il suo creatore. Comunque, a favore degli uomini, Prometeo aveva ingannato Zeus due volte. La prima volta a Mecone, durante un sacrificio, aveva diviso un bue in due parti: da una parte aveva messo sotto la pelle la carne e le viscere, dall'altra parte aveva disposto le ossa spolpate della carne e le aveva ricoperte di grasso bianco. Poi aveva detto a Zeus di scegliere la sua parte; il resto doveva andare agli uomini. Zeus scelse il grasso bianco e, quando scoprì che non nascondeva che ossa, fu invaso da grande rancore contro Prometeo e contro i mortali che erano stati favoriti da quell'inganno. Così, per punirli, decise di non inviare più loro il fuoco. Allora Prometeo li soccorse per la seconda volta: sottrasse semi di fuoco alla ruota del Sole e li portò nascosti in una canna sulla terra. Zeus punì sia i mortali che Prometeo. Contro i mortali mandò Pandora, la prima donna. Essa fu dotata dagli dei di tutte le qualità, ma Ermes mise nel suo cuore la menzogna e la furbizia. Zeus la destinava alla punizione della razza umana, alla quale Prometeo aveva appena dato il fuoco divino (Teo). La inviò ad Epimeteo, fratello di Prometeo, il quale, dimenticando il consiglio del fratello di non accettare alcun regalo da Zeus, ne fece la propria moglie. Con lei aveva mandato un vaso che conteneva tutti i mali, ed era chiuso da un coperchio che impediva al contenuto di uscire. Zeus aveva anche avvertito di non aprirlo. Pandora invece, divorata dalla curiosità, aprì il vaso e tutti i mali si riversarono sull'umanità. Solo la Speranza non poté uscire poiché Pandora aveva richiuso il coperchio. Anche Prometeo fu punito: fu incatenato sul Caucaso e
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un'aquila, nata da Echidna e da Tifone, di giorno gli divorava il fegato, che di notte ricresceva. Ma Eracle, passando nella regione del Caucaso, trafisse con una freccia l'aquila e liberò Prometeo. Prometeo stesso spiegò a suo figlio Deucalione come salvarsi dal diluvio con cui Zeus meditava di annientare la stirpe umana e che egli aveva saputo prevedere. La madre di Zeus, Rea, prevedendo i guai che la sua lussuria avrebbero provocato, gli proibì di sposarsi ma il dio, infuriato, la violentò. Cominciò così la sua lunga serie di avventure amorose. La prima sposa di Zeus fu Meti, che gli generò Atena. In realtà le cose andarono in maniera un po' diversa dal normale. Alcuni mesi prima che Meti partorisse, Zeus inghiottì la stessa Meti, dietro consiglio di Urano e Gea, che gli rivelarono che, se Meti avesse avuto una figlia, questa avrebbe poi avuto un figlio che avrebbe tolto a Zeus il comando del cielo. Alcuni mesi dopo, Zeus fu afflitto da indicibili dolori e si struggeva dolente per il male che l'opprimeva. Il concilio degli dèi, riunitosi d'emergenza, rimase impietrito dalla costernazione, mentre nessun sedativo divino valeva a calmare il tormento che torturava Zeus. L'intuito di Ermes riuscì a porre fine alle doglie divine: egli si recò a chiamare Efesto e lo indusse ad aprirgli una fessura nel cranio con un colpo d'ascia, e così dalla sua testa uscì una giovane in armi: la dea Atena. Il suo primo vagito fu un grido di guerra così acuto e tonante da far scuotere Cielo e Terra. Eterna vergine, fu educata da Tritone ed ebbe come compagna di giochi Pallade, la figlia dello stesso Tritone. Un giorno Pallade stava per colpire Atena con la lancia ma Zeus, timoroso per le sorti della figlia, la riparò con l'egida. Terrorizzata alla vista della corazza magica, Pallade non riuscì ad evitare il colpo mortale dell'avversaria. Angosciata per la morte della compagna, Atena ne assunse il nome, e fu per sempre Pallade Atena. (Agizza). La seconda sposa di Zeus fu Temi, figlia di Urano e Gea,
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da cui generò prima le Ore: Eunomie, Dike (v. Bilancia) ed Eirene. Dopo di loro Temi generò le Moire Cloto, Lachesi ed Atropo. Esse, per ogni mortale, regolavano la durata della vita dalla nascita alla morte, con l'aiuto di un filo che una filava, la seconda avvolgeva e la terza tagliava allorché la vita corrispondente era terminata. Zeus ebbe anche tre figlie dall'oceanina Eurinome, Aglaia, Eufrosine e Talia. Poi generò, con Demetra, Persefone, sposata da Ade che l'aveva rapita e le aveva dato da mangiare un chicco di melograno, ed il mangiare qualcosa nel regno degli Inferi impediva a chiunque di ritornare a stare definitivamente nel regno dei Viventi. In seguito Zeus amò Mnemosine e ne nacquero le nove Muse: Calliope, musa della poesia epica; Clio, della storia; Erato, della poesia d'amore; Euterpe, della musica; Melpomene, della tragedia; Polimnia, del canto sacro; Talia, della commedia; Tersicore, della danza ed Urania, dell'astronomia. Con Latona, figlia di Febe e del Titano Ceo, generò Apollo ed Artemide. Secondo una leggenda, Era aveva giurato che Latona non avrebbe potuto partorire in nessun luogo sul quale brillassero i raggi del sole. Per ordine di Zeus, Borea portò allora la giovane donna da Poseidone, il quale, sollevando i flutti del mare, formò una specie di volta liquida, e, così riparata dal sole, Latona poté dare alla luce i suoi due figli. I dolori del parto durarono nove giorni e tutte le dee accorsero ad assisterla, tranne Era ed Illizia. Infine Iride, promettendole una collana di ambra e d'oro lunga nove cubiti, convinse quest'ultima ad andare ad assistere Latona, che così poté partorire. Poi, con i due neonati, Latona si sarebbe fermata vicino ad una sorgente, per lavare i figli, ma alcuni pastori le impedirono l'accesso e lei li trasformò in rane. Latona fu molto amata dai suoi figli. Per lei uccisero i figli e le figlie di Niobe, figlia di Tantalo, la quale affermò un gior-
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no di essere superiore a Latona, che non aveva che un figlio ed una figlia, mentre lei invece di figli ne aveva venti: per vendicarsi Apollo uccise i figli di Niobe ed Artemide le figlie, tutti a colpi di frecce. Si salvarono solo un maschio ed una femmina. I figli di Latona uccisero anche il gigante Tizio, il quale aveva cercato di violentarla. Apollo, alla nascita uccise a Delfi il serpente Pitone perché l'aveva minacciata. Pitone era figlio di Gea ed un oracolo aveva affermato che sarebbe morto per mano di un figlio di Latona. Tre giorni dopo la sua nascita, Apollo uccise Pitone, ne rinchiuse le ceneri e fondò, in suo onore, dei giochi funebri, i Giochi Pitici (v. Acquario). L'ultima sposa di Zeus fu Era. Era, figlia di Crono e Rea, nacque nell'isola di Samo, e Zeus era suo fratello e la corteggiò in Argolide, dapprima senza successo. Allora egli si trasformò in un cuculo infreddolito che Era riscaldò teneramente sul proprio seno. Zeus riassunse subito il suo vero aspetto e la violentò, così Era fu costretta a sposarlo. Trascorsero la prima notte di nozze a Samo, e fu una notte che durò trecento anni. Ne nacquero i figli Ares, Efesto ed Ebe. Ma questi non furono gli unici figli di Zeus. Tra gli altri da Maia, figlia di Atlante, ebbe Ermes, messaggero degli dei; con Semele, figlia di Cadmo, ebbe Dioniso, che sposò Arianna, figlia di Minosse (v. Toro e Corona Boreale) ; con Alcmena generò il forte Eracle, che sposò Ebe. Il matrimonio tra Zeus ed Era non fu tra i più pacifici: si azzuffavano di continuo, finché un giorno, su richiesta di Era, Poseidone, Apollo e tutti gli altri dei dell'Olimpo, ad eccezione di Estia, lo circondarono all'improvviso mentre dormiva e lo legarono al letto con corde di cuoio, annodate cento volte, cosicché non si potesse muovere. Mentre festeggiavano la loro vittoria, e già cominciavano a discutere su chi dovesse succedere a Zeus, la nereide Teti, prevedendo una guerra civile sull'Olimpo, andò a chiamare l'Ecatonchiro Briareo che rapida-
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mente sciolse tutti i nodi con le sue cento mani, e liberò il suo padrone. Zeus, appena liberato, appese Era al cielo con due bracciali d'oro ai polsi e le legò un'incudine ad ogni caviglia. Zeus infine decise di liberarla se tutti avessero giurato di non ribellarsi mai più, e ciascuno obbedì a malincuore. Apollo e Poseidone furono puniti costringendoli a servire il re Laomedonte, per il quale costruirono le mura di Troia, ma Zeus perdonò tutti gli altri, perché avevano agito istigati dai primi (Miti). Laomedonte, figlio di Ilo e di Euridice, fu uno dei primi re di Troia. Per costruire le mura della città fu aiutato, appunto, da Apollo e Poseidone e dal mortale Eaco, ma alla fine del lavoro rifiutò di pagare il salario agli dèi: non volle dargli i cavalli divini che possedeva e che aveva promesso, allora Eracle arrivò alla testa di un esercito, prese Troia, aiutato da Telamone, ed uccise Laomedonte e tutti i suoi figli, tranne Priamo. Zeus sedusse anche Antiope, figlia di Nitteo il Tebano, e si unì a lei sotto forma di satiro; ne ebbe due gemelli, Anfione e Zeto nati ad Eleutri in Beozia. Temendo la collera del padre, Antiope si rifugiò presso il re Sicione, che acconsentì a sposarla. Ma lo zio di Antiope, Lico, sconfisse ed uccise Sicione in una sanguinosa battaglia e la riportò, vedova, a Tebe. Antiope subì per molti anni ogni sorta di maltrattamenti da parte della zia Dirce, ma alla fine riuscì a fuggire e riparò nella capanna dove vivevano i figli Anfione e Zeto. Essi la scambiarono per una schiava fuggiasca e rifiutarono di darle asilo. Dirce allora si precipitò su Antiope in preda alla ”frenesia bacchica” e la trascinò via. I gemelli, avvertiti da un mandriano dell'accaduto e riconosciuta la madre, si lanciarono subito all'inseguimento, salvarono Antiope e legarono Dirce per i capelli alle corna di un toro, che la uccise in pochi minuti. Demetra e Giasone generarono Pluto, che «colui che egli incontra per caso e in cui si imbatte lo fa ricco e lo adorna di molta opulenza» (Teo. vv. 973-974).
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Zeus stesso lo avrebbe accecato, per impedirgli di ricompensare le persone dabbene e costringerlo così a favorire i cattivi. Infine furono generati gli ultimi eroi: Teti ebbe da Peleo Achille, mentre Afrodite, unita ad Anchise, generò, sulle cime del monte Ida, l'eroe troiano Enea, progenitore del mondo Romano. Ovviamente, anche per Helios, Il Sole, ci sono miti e leggende nelle teogonie di tutti i popoli. Nella tradizione greca, il Sole si distingue da buona parte delle altre divinità perché appartiene alla generazione dei Titani, ed è perciò anteriore agli dèi Olimpici. Discende da Urano e Gea, è figlio di Iperione e Teia e fratello di Eos, l'Aurora e di Selene, la Luna. Ha come moglie Perseide, una delle figlie di Oceano e Teti, e parecchi figli, come la maga Circe, Eete, re della Colchide, Pasifae, che fu moglie di Minosse, Perse, che spodestò il fratello Eete e fu ucciso egli stesso dalla propria nipote, Medea. Inoltre, il Sole si unì a varie altre donne: la ninfa Rodo, dalla quale ebbe sette figli, gli Eliadi, Climene, una delle sorelle di sua moglie Perseide, la quale gli diede figlie, anch'esse chiamate Eliadi, e Leucotoe, figlia di Orcamo e di Eurinome. Helios ha la testa circondata di raggi dorati e percorre il cielo su un carro di fuoco trainato da quattro cavalli chiamati Piroide, Eoo, Etone e Flegone. Ogni mattina si slancia dal suo palazzo in Oriente, nella Colchide, su una strada stretta che taglia il cielo a metà. Cammina tutto il giorno e giunge all'Oceano dove i cavalli, affaticati, si bagnano. Si riposa in un palazzo d'oro nelle Isole dei Beati dove si adagia, con cocchio e cavalli, in un enorme cocchio alato forgiato da Efesto e, dormendo in una comoda cabina, è ricondotto al suo palazzo in Oriente, da dove ricomincia il suo eterno percorso. Il Sole è una divinità un po' particolare. Non partecipò alle lotte per la conquista del potere, ma anzi, come Oceano, contemplò distaccato sia la Titanomachia che la Gigantomachia.
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Quando Zeus provvide alla spartizione territoriale fra gli immortali, dimenticò di assegnare una quota al Sole, che era assente alla divina assemblea. Notato il grave errore, Zeus se ne rammaricò e decise di annullare la distribuzione avvenuta per rifarne un'altra. Il Sole cortesemente ringraziò, ma per amore di tranquillità si oppose a qualsiasi fastidioso sconvolgimento (Agizza). Aveva notato una nuova isola a Sud dell'Asia Minore e si accontentò volentieri di quella: Rodi. Zeus chiamò la Moira Lachesi a testimone e promise che l'isola sarebbe appartenuta ad Helios, che ne prese possesso con la ninfa Roda, da cui ebbe sette figli ed una figlia. I sette figli governarono sull'isola e divennero famosi astronomi; la loro sorella Elettriona morì vergine e fu onorata come semidea. I Rodi costruirono in suo onore il “Colosso”, alto settanta cubiti. Il Sole, però, non può vendicare personalmente le offese, ad esempio quelle arrecatigli dai compagni di Ulisse che uccisero e mangiarono una parte delle sue mandrie nella Trinacria, per cui dovette chiedere riparazione a Zeus ed agli dèi, minacciando di ritirarsi sottoterra qualora gli fosse stato rifiutato il castigo dei colpevoli. È considerato l'occhio del mondo, colui che vede tutto, ed in questa veste guarì la cecità di Orione. Egli per primo vide l'adulterio di Afrodite, moglie di Efesto, con Ares. Narra Ovidio (Met. IV, 169 sgg.) che Efesto allora fabbricò una catena sottilissima e praticamente invisibile. « Quando la moglie e l'amante si unirono sul letto per amarsi, sorpresi dal marchingegno preparato con proprietà nuovissime dal marito, rimasero intrappolati nell'atto dell'amplesso. Il dio di Lemno allora spalancò di colpo la porta d'avorio e fece entrare gli altri dèi: i due giacevano avvinti in posa vergognosa, e qualcuno dei numi meno severo s'augurò di essere svergognato così. Scoppiarono a ridere gli dèi e in tutto il cielo questa storia passò di bocca in bocca per anni »
(Met. IV, 182-189).
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Quando il Sole si innamorò di Leucotoe, abbandonò Clizia, ma questa svelò al padre di Leucotoe gli amori della figlia, che per punizione fu rinchiusa in una fossa profonda, dove morì. Il Sole, che aveva preso l'aspetto della madre Eurinome, figlia di Oceano e di Teti, entrò nelle stanze di Leucotoe e, dopo aver fatto uscire le ancelle, le si svelò e le dichiarò il suo amore « e la vergine, benché atterrita da quella visione inattesa, vinta dal fulgore del dio, subì la violenza senza un lamento. S'ingelosisce Clizia (il suo amore per il Sole era sfrenato) e in un accesso d'ira contro la rivale divulga la tresca, rivelandola al padre. Furibondo e pieno di collera, malgrado Leucotoe lo scongiurasse e, tendendo le mani verso la luce del Sole, dicesse: Mi ha violentato, io non volevo!, lui allora la seppellì in una fossa, coprendone il tumulo di macigni. Con i suoi raggi lo perforò il figlio di Iperone, offrendoti una via che ti permettesse di estrarre il volto sepolto, ma tu ormai, ninfa, più in grado non eri di sollevare il capo schiacciato dal peso della terra e giacevi, corpo senza vita. »
(Met. IV, 235-244). Clizia anche fu punita, poiché il Sole non tornò più a vederla. Si consumò d'amore, giacque «sulla nuda terra a capo nudo coi capelli scomposti» e si trasformò in eliotropo (girasole), il fiore che volge sempre il volto verso il Sole, come se cercasse di vedere il suo antico amante. Il dio del fiume Asopo, figlio di Oceano e Teti, sposò Metope, figlia del fiume Ladone, da cui ebbe due figli e venti figlie. Esse furono quasi tutte rapite e violentate da Zeus, Poseidone ed Apollo, e quando sparì anche la più giovane, Egina, Asopo ne andò alla ricerca. A Corinto seppe, da Sisifo, che il colpevole era, ancora una volta, Zeus; lo trovò, infatti, che faceva l'amore con Egina in un bosco. Zeus fuggi tra i cespugli e si trasformò in una roccia finché Asopo non si fu allontanato; poi risalì sull'Olimpo, da dove scagliò le sue folgori contro il dio del fiume. Asopo, da allora, si muove a fatica per via delle
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ferite riportate. Zeus portò Egina nell'isola di Enopia dove si giacque con lei in tutti i modi possibili, finché Era non scoprì che Egina aveva generato a Zeus un figlio chiamato Eaco, e mossa dalla collera decise di sterminare gli abitanti di Enopia. Eaco, divenuto re dell'isola, ne aveva cambiato il nome in Egina e vi regnava indisturbato, quando Era inviò due grossi flagelli: avvelenò l'acqua con un serpente che vi depose migliaia di uova, e fece scatenare una terribile calura. Ben presto migliaia di serpenti strisciarono per i campi e contaminarono l'acqua di tutti gli altri fiumi e cominciò anche la carestia, Ogni appello a Zeus fu vano. Ben pochi restarono in vita. Eaco supplico allora Zeus di ripopolare l'isola deserta. Zeus rispose alle preghiere di Eaco con un lampo seguito da un tuono, concedendogli tanti sudditi quante erano le formiche che trasportavano chicchi di grano presso una quercia lì accanto; mentre Eaco pregava, un fremito passò tra foglie, sebbene non soffiasse un alito di vento. Quella notte, in sogno, vide una pioggia di formiche cadere dai rami della quercia e subito balzare dal suolo trasformate in uomini. Quando si destò udì la voce di suo figlio Telamone che lo chiamava perché venisse a vedere una schiera di uomini che si avvicinava al palazzo: appena li vide, Eaco riconobbe i volti degli uomini che gli erano apparsi in sogno. Inoltre i serpenti erano spariti e la pioggia cadeva abbondante dal cielo. Eaco rese grazie a Zeus e divise la città e le terre circostanti tra il nuovo popolo, che chiamò “Mirmidoni”, cioè “formiche”. Questi Mirmidoni seguirono poi il figlio di Peleo nel suo esilio e combatterono a Troia accanto ad Achille ed a Patroclo. Eaco sposò poi Endide di Megara, figlia di Scirone, da cui ebbe due figli, Telamone e Peleo. Ebbe grande fama per la sua pietà e fu tenuto in così grande onore che meritò di essere scelto per rivolgere a Zeus una solenne preghiera a nome di tutti i Greci durante un periodo di sterilità che colpiva i campi del paese. Apollo e Poseidone presero con loro Eaco quando edificarono le mura di Troia, ben sapendo che, se un mortale non
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avesse partecipato a quel lavoro, la città sarebbe stata inespugnabile ed i suoi abitanti avrebbero potuto sfidare gli dèi. Quando Eaco morì, divenne uno dei tre giudici del Tartaro, con gli altri figli di Zeus, Minosse e Radamanto (altri dicono che il terzo giudice fosse Sarpedone e non Eaco). (Miti). Achille era figlio di Peleo e di Teti e nacque nella città di Ftia, in Tessaglia. Egli fu chiamato così da Chirone, suo tutore, mentre prima si chiamava Ligirone. Peleo era figlio di Eaco e di Endide. Eaco aveva tre figli. Oltre Telamone e Peleo, anche Foco, che era figlio della nereide Psamate, che si era inutilmente trasformata, come potevano fare la maggior parte delle divinità marine e fluviali, in foca per sfuggire all'amplesso di Eaco. Foco era il prediletto di Eaco e la sua eccellenza nei giochi atletici faceva ingelosire Telamone e Peleo. Per amor di pace, dunque, Foco guidò un gruppo di emigranti di Egina in un paese che chiamò Focide. Lì si alleò con Iaseo e sposò Asteria, figlia di Deione e di Diomeda, che, attraverso il nonno Suto, discendeva da Deucalione. Un giorno Eaco mandò a chiamare Foco, forse per lasciagli il regno dell'isola; ma, incoraggiati dalla loro madre Endide, Telamone e Peleo lo uccisero al suo ritorno. In particole fu Telamone che uccise Foco lanciandogli sulla testa un disco durante i loro esercizi fisici. Insieme nascosero il corpo in un bosco, dove Eaco poi lo ritrovò e volle vendicarsi esiliando gli altri due figli. Telamone si rifugiò nell'isola di Salamina, dove regnava Cicreo, figlio di Poseidone e di Salamina, figlia di Asopo. Si racconta che Cicreo allevò un serpente che, scacciato da Euriloco, cominciò ad uccidere uomini e donne ed a devastare l'isola di Salamina. Allora Cicreo lo uccise e divenne in seguito uno degli eroi tutelari di Salamina. Durante la battaglia navale di Salamina, infatti, un serpente apparve tra le navi, e l'oracolo di Delfi rivelò che era l'incarnazione di Cicreo, corso ad aiutare i Greci ed a predire la loro
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vittoria. Telamone inviò di là in patria un messaggero perché proclamasse la sua innocenza. Eaco, però, gli proibì di rimettere piede ad Egina, pur permettendogli di dire le proprie ragioni dal mare. Non prestò fede all'eloquente arringa di difesa di Telamone, né volle credere che la morte di Foco fosse accidentale. Telamone ritornò dunque a Salamina dove sposò la figlia del re, Glauce, e succedette a Cicreo. Alla morte di Glauce, Telamone sposò Peribea di Atene, nipote di Pelope, che gli generò il grande Aiace. Peribea, prima di sposare Telamone, aveva fatto parte del tributo inviato a Minosse da Egeo. Minosse se ne sarebbe innamorato, con grande collera di Teseo, il quale avrebbe impedito a Minosse di violentare la ragazza. (v. Corona Boreale). Peleo, invece, si rifugiò alla corte di Attore, re di Ftia, e fu purificato del suo delitto dal suo stesso figlio adottivo Eurizione. Attore gli diede in sposa sua figlia Polimela e la terza parte del regno in dote. Un giorno Eurizione, che regnava su un altro terzo del regno, portò con sé Peleo per cacciare il cinghiale Caledonio, ma Peleo lo colpì incidentalmente con la lancia ed Eurizione morì. Peleo fuggì ad Iolco, dove fu purificato di nuovo, questa volta da Acasto, figlio di Pelia e di Anassibia e nuovo re di Iolco. La moglie di Acasto, Cretide, cercò di sedurre Peleo e, quando vide respinte le sue profferte amorose, disse a Polimela che Peleo intendeva abbandonarla per sposare la sua figlia Sterope. Polimela credette alla menzogna di Cretide e si impiccò. Cretide, allora si recò da Acasto e accusò Peleo di aver cercato di violentarla. Acasto sfidò allora Peleo ad una gara di caccia sul monte Pelio; ma Peleo possedeva una spada magica, forgiata da Dedalo e regalatagli dagli dei, che aveva la virtù di assicurare al suo proprietario la vittoria in battaglia ed in caccia. Alla fine della caccia vinse lui, mostrando le lingue tagliate degli animali uccisi. Pelia e Neleo, entrambi figli di Poseidone e di Tiro, si disputarono il potere di Iolco, e Neleo fu cacciato dal fratello e si rifugiò in Messenia, a Pilo.
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Pelia, frattanto, sposò Anassibia e ne ebbe un figlio, Acasto, e quattro figlie, Pisidice, Pelopia, Ippotoe ed Alcesti, la più bella e la più pia di tutte. Fu la sola che non partecipò all'uccisione di Pelia, allorché Medea, con i suoi inganni ed i suoi sortilegi, fece in modo che questi fosse massacrato dalle proprie figlie. (v. Ariete). Eretteo, figlio di Pandione, re di Atene, e di Zeusippe, aveva come fratello Buto. Alla morte di Pandione, Eretteo ebbe il potere regale di Atene, mentre Buto divenne il sacerdote dei due dèi protettori della città, Atena e Poseidone. Eretteo sposò Prassitea, da cui ebbe molti figli: i maschi erano Cercope, Pandoro, Metione, Alcone, Orneo, Tespio ed Eupalamo, mentre le femmine erano Protogenia, Pandora, Procri, Creusa, Ctonia, Orizia e Merope. Durante una guerra fra Ateniesi ed Eleusini, questi ultimi avevano come alleato Eumolpo, figlio di Poseidone e di Chione. Eretteo chiese all'oracolo di Delfi come avrebbe potuto riportare la vittoria, e l'oracolo gli rispose che avrebbe dovuto sacrificare una delle sue figlie. Di ritorno ad Atene, egli sacrificò Ctonia, ma le sorelle della vittima, le quali avevano giurato di non sopravviverle, si uccisero anch'esse. Eretteo e gli Ateniesi furono vittoriosi ed Eumolpo fu ucciso in battaglia, ma Poseidone, irritato per la morte del figlio, ottenne che Zeus uccidesse Eretteo con un colpo di fulmine. Dedalo, figlio di Metione, nipote di Eretteo, e di Alcippe, è il tipo dell'artista universale: architetto, scultore ed inventore di mezzi meccanici. Lavorava ad Atene, dove aveva come allievo suo nipote, figlio della sorella Perdice, Talo, che era abilissimo, tanto che Dedalo ne divenne geloso. Un giorno Talo, ispirandosi alla mascella di un serpente, inventò la sega, Dedalo lo gettò dall'alto dell'acropoli. Il delitto fu scoperto e Dedalo fu trascinato davanti all'Aeropago, che lo condannò all'esilio. Fuggì a Creta, dove divenne architetto e scultore di Minosse, per il quale egli costruì il Labirinto dove rinchiudere il Minotauro (v. Toro).
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Fu Minosse stesso che, poi, lo rinchiuse nel suo Labirinto assieme al figlio Icaro, per l'aiuto che aveva dato a Teseo nell'uccisione del Minotauro. Ma Dedalo si fabbricò delle ali che attaccò con la cera ed altrettanto fece per il figlio. Entrambi volarono via. Prima di partire, Dedalo aveva raccomandato ad Icaro di non volare troppo basso né troppo alto, ma Icaro, pieno di orgoglio, non ascoltò i consigli del padre e salì in cielo tanto vicino al Sole che la cera si sciolse ed Icaro precipitò in mare. Dedalo poi giunse sano e salvo a Cuma, dove innalzò due colonne, una in memoria del figlio e l'altra dedicata ad Apollo. Minosse l'inseguì in tutti i paesi, mentre egli si nascondeva in Sicilia, vicino l'odierna Agrigento, da re Cocalo. Allorché Minosse si presentò per cercarlo, Cocalo lo nascose, ma Minosse ricorse all'astuzia: offriva ovunque passasse una conchiglia di chiocciola ed un filo, promettendo una ricompensa a chi avesse saputo far passare il filo attraverso le spirali della conchiglia. Nessuno trovava la soluzione del problema, e Cocalo, tentato, propose la difficoltà a Dedalo, che attaccò il filo ad una formica e spinse l'insetto in quel nuovo labirinto. Quando Cocalo riportò, trionfante, la conchiglia infilata a Minosse, questi capì che Dedalo, l'uomo ingegnoso per eccellenza, era nei paraggi, e non ebbe nessuna difficoltà a farlo confessare a Cocalo. Questi dovette allora promettere di consegnargli Dedalo. Ma, per salvare il suo ospite, Cocalo incaricò le figlie di affogare Minosse nel bagno con acqua bollente. Una volta che Minosse fu ucciso dalle figlie di re Cocalo, Dedalo costruì numerosi edifici, come ringraziamento verso l'ospite. Tornando a Peleo, questi, dopo il banchetto celebrativo, ubriaco, cadde in un sonno profondo ed Acasto gli rubò la spada magica che nascose sotto un mucchio di letame di vacca. Peleo, al risveglio, si trovò solo, disarmato e circondato da Centauri che erano sul punto di ucciderlo. Il loro re, Chirone, tuttavia, non soltanto gli salvò la vita, ma indovinò dove era sepolta la spada e gliela restituì.
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Frattanto, per consiglio di Temi, Zeus decise che Peleo doveva sposare la Nereide Teti. Chirone, però, aveva previsto che Teti avrebbe a tutta prima sdegnato quelle nozze con un mortale e, seguendo le sue istruzioni, Peleo si nascose sulla spiaggia di un'isoletta della Tessaglia, dove Teti si recava spesso, cavalcando nuda un delfino. Non appena Teti si fu addormentata, Peleo le balzò addosso. La lotta fu silenziosa e selvaggia. Teti si trasformò successivamente in fuoco, acqua, leone e serpente, ma Peleo se l'aspettava e non allentò la presa, nemmeno quando Teti divenne un'enorme seppia e gli schizzò addosso una nube d'inchiostro. Peleo, benché ustionato, ferito, coperto lividi e di appiccicoso inchiostro di seppia, non si lasciò respingere; ed infine Teti cedette: giacquero stretti in un appassionato abbraccio e fecero l'amore per tre giorni. Le nozze furono celebrate dinanzi alla grotta di Chirone, sul monte Pelio, ed anche gli dèi parteciparono al banchetto. Eris, dea della discordia, una delle forze primordiali, era anche lo spirito dell'emulazione, messa nel mondo come “molla” per i vari mestieri. Essa, che non era stata invitata, decise di far nascere una baruffa tra gli dèi e, mentre Era, Afrodite ed Atena conversavano amichevolmente, lasciò cadere una mela d'oro ai loro piedi. Peleo la raccolse e lesse perplesso ciò che vi stava scritto sopra: “Alla più bella”. Quella mela, come vedremo, fu una delle cause della guerra di Troia. In seguito Peleo ritornò ad Iolco, dove Zeus permise all'esercito di formiche trasformate in guerrieri, che egli stesso aveva inviato al padre Eaco, di seguirlo, ed ecco perché egli divenne noto come re dei Mirmidoni. Conquistò la città, uccise Acasto e Cretide ed invitò i Mirmidoni ad entrare in città tra i resti sanguinanti dei loro corpi smembrati. Teti, nel frattempo, aveva bruciato le parti mortali di tutti i sei figli avuti da Peleo per renderli immortali come lei, e li fece salire uno dopo l'altro all'Olimpo. Ma Peleo riuscì a strapparle il settimo quando già essa aveva reso immortale il suo cor-
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po, salvo il tallone. Irritata per l'intrusione del marito, Teti si congedò da lui e ritornò alla sua dimora marina, chiamando Achille suo figlio, poiché non aveva posato le labbra sul suo seno. Peleo affidò Achille a Chirone, che dissotterrò Damiso, il più veloce di tutti i Giganti, sotterrato a Pallene, e gli prese l'osso della caviglia per sostituire quella del bambino. Il destino dimostrò in seguito che questa era stata una mossa sbagliata. (Miti). Mida, figlio della dea Ida e di un Satiro, fu un uomo amante dei piaceri. Era re della Frigia, crebbe sotto la tutela di Orfeo, e piantò un famoso giardino di rose. Egli succedette al trono che era stato di Gordio, il quale aveva consacrato a Zeus il suo carro unitamente al giogo dei buoi, che egli aveva annodato al timone in un modo particolare. Un oracolo dichiarò allora che chiunque fosse stato capace di sciogliere quel nodo sarebbe divenuto signore dell'intera Asia. Alessandro il Macedone sfrontatamente tagliò il nodo con la sua spada. Un giorno il vecchio satiro Sileno, un tempo pedagogo di Dioniso, si addormentò ubriaco nel giardino delle rose di Mida. I giardinieri lo inghirlandarono di fiori e lo condussero dinanzi al re. Il re, riconosciutolo, attese che si svegliasse e gli chiese di parlargli e d'insegnargli la saggezza. Sileno iniziò a raccontare la strana storia di due città favolose ma profondamente dissimili fra loro, situate al di fuori del mondo. Una era Eusebe, città pacifica ed onesta, i cui abitanti vivevano felici e spensierati, accogliendo la morte con il sorriso sulle labbra. L'altra era Machimo, città feroce e guerriera, i cui abitanti nascevano già armati, e si dilettavano degli intrighi e dei combattimenti. Questi due popoli regnavano su grandi domini ed erano molto ricchi. Possedevano tanto oro ed argento che questi metalli preziosi erano per loro quello che per noi è il ferro. Un giorno questi due popoli decisero di visitare il paese degli Iperborei, situato all'estremo nord, ed organizzarono una grande spedizione, di almeno dieci milioni di uomini. Essi
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affrontarono il lungo viaggio attraverso l'Oceano, per raggiungere il miraggio di quel magnifico paese del vecchio mondo. Ma, una volta giunti dagli Iperborei, fu tanta la loro delusione nel constatarne il misero tenore di vita, che essi ritornarono in patria, rivalutando la loro abituale esistenza. (Agizza). Dopo la nascita di Apollo, Zeus gli ordinò di andare a Delfi, ma questi si recò prima presso gli Iperborei, dove rimase per qualche tempo; soltanto dopo fece il suo solenne ingresso a Delfi. Ogni diciannove anni, periodo in capo al quale gli astri hanno compiuto una rivoluzione completa e sono sulla stessa posizione, si reca di nuovo presso gli Iperborei e qui, ogni notte, fra l'equinozio di primavera ed il sorgere delle Pleiadi, lo si sente cantare i propri inni, accompagnandosi con la Lira. Il loro territorio ha un clima molto dolce, felicemente temperato ed il suolo produce due raccolti l'anno. Gli abitanti hanno costumi gentili, vivono all'aria aperta, nel campi e nei boschi sacri e sono estremamente longevi. Allorché i vecchi hanno abbastanza goduto della vita, si precipitano in mare dall'alto di una scogliera, contenti, con la testa coronata di fiori e trovano una morte felice in mezzo ai flutti. Per questo modo di vita, che gli abitanti di Eusebe e Machino considerarono troppo misero, questi se ne tornarono delusi alla propria vita abituale. Tra gli altri prodigi, Sileno raccontò di un gorgo vorticoso che nessuno poteva mai superare. Due corsi d'acqua vi scorrevano vicino e gli alberi che crescevano sulle rive del primo portavano frutti che facevano piangere e gemere chi li mangiava, mentre gli alberi che crescevano sulle rive del secondo fiume recavano frutti che ridonavano la giovinezza ai vecchi: anzi, procedendo a ritroso attraverso la maturità, l'adolescenza e l'infanzia, divenivano neonati ed infine sparivano! Mida, deliziato dalla fantasia di Sileno, lo trattenne per cinque giorni e cinque notti e poi ordinò ad una guida di scortarlo fino alla sua dimora. Dioniso, che si era assai preoccupato per la sorte di Sileno, mandò a chiedere a Mida quale ricompensa desiderasse, ed il re chiese di poter avere la capacità di
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trasformare in oro tutto ciò che avrebbe toccato. Inizialmente si sentì l'uomo più felice del mondo, godendo con incosciente ingenuità dell'aureo luccichio che lo circondava. Ma quando si accorse che anche il cibo e le bevande che portava alla bocca si trasformavano in oro, comprese che sarebbe ben presto morto di fame e sete. Scongiurò allora Dioniso di liberarlo da quell'incantesimo. Il dio lo accontentò e gli ordinò di purificarsi nel fiume Pattolo. Dopo essersi lavato, Mida fu salvo e lasciò nel fiume le numerose pagliuzze d'oro che lo ricoprivano. (Agizza) (Miti). In un'altra versione della storia, Mida era andato a visitare una provincia lontana del suo regno e si trovò sperduto in un deserto. Non c'era neppure una goccia d'acqua per dissetarsi e per far bere il suo seguito. Gea, impietosita, fece scaturire una sorgente, ma successe che questa fonte, invece che acqua, versava un flutto d'oro. Mida implorò allora Dioniso, il quale trasformò la fonte d'oro in una fontana zampillante, che prese il nome di Fonte di Mida. Non potevamo dimenticare, in questo breve racconto legato alla teogonia greca, uno degli avvenimenti cruciali della mitologia, la guerra di Troia, generata dal fatto che la Grande Madre Terra, Gea, era troppo gravata dall'enorme aumento della popolazione terrestre e, non riuscendo a sostenerne il peso, ne chiedeva la riduzione. Il concilio divino accolse le proteste dell'antica ava, e la accontentò: l'umanità sarebbe stata assottigliata da una violenta e lunghissima guerra. Zeus si mise subito all'opera per compiere il suo divino disegno. Innanzitutto concepì la bellissima Elena, ignaro strumento per la distruzione dell'umanità. Sotto forma di cigno, egli si era unito a Nemesi, dea della vendetta. È importante notare che Nemesi rappresenta una concezione fondamentale dello spirito ellenico: tutto ciò che si innalza al si sopra della sua condizione, nel bene e nel male, si espone a rappresaglia degli dèi, perché tende a sconvolgere l'ordine del mondo, a mettere l'equilibrio universale in pericolo, e, a questo titolo, deve essere castigato, se si vuole che tutto l'Universo resti quello che è. Così Creso, troppo fortunato per
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le sue ricchezze e la sua potenza, è coinvolto dalla Nemesi nella spedizione contro Ciro, che finisce per comportare la sua rovina. L'uovo prodotto dall'unione di Nemesi con Zeus fu raccolto con amore da Leda, regina di Sparta, e portato a corte. Quando ne nacque Elena, perfino Tindaro, sposo di Leda, fu così sorpreso e catturato dalle sue meravigliose fattezze, che l'allevò con affetto ed interesse paterno. Nel frattempo Zeus studiava l'occasione propizia per suscitare l'immane guerra che avrebbe coinvolto uomini e dèi. La saggia Temi gli suggerì di approfittare dell'occasione delle nozze di Peleo e Teti per suscitare un dissidio fra le dee presenti. Eris, dea della discordia, per ordine del re dell'Olimpo, gettò tra i partecipanti una mela d'oro del Giardino delle Esperidi, come dono alla più bella presente al banchetto nuziale. Si originò così una gara fra Era, Atena ed Afrodite. La disputa iniziò nella grotta di Chirone e terminò sul monte Ida, dove il mortale Paride, figlio del re di Troia, Priamo, dovette decidere a chi assegnare il pomo d'oro, dando così l'avvio all'estinzione della stirpe degli eroi ed alla distruzione di Troia. Per quanto riguarda la fondazione di Troia, ci sono in verità molte leggende, ma la più nota è quella ateniese, che narra di Teucro, figlio di Scamandro e della ninfa Idea. Teucro emigrò da Atene nella Frigia, e Dardano, figlio di Zeus e della figlia di Atlante, Elettra, un giorno, dopo un diluvio, approdò su una zattera alla riva asiatica di fronte a Samotracia, dove regnava Teucro, che lo ricevette ospitalmente e gli diede una parte del suo regno insieme alla figlia Batieia alla condizione che Dardano lo aiutasse a sottomettere alcune tribù vicine. Ricordiamo che Foscolo, nei Sepolcri, così narra la morte terrena di Elettra: Ed oggi nella Troade inseminata Eterno splende a' peregrini un loco Eterno per la ninfa a cui fu sposo
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Giove, ed a Giove diè Dardano figlio Onde fur Troia e Assaraco e i cinquanta Talami e il regno della Giulia gente. Però che quando Elettra udì la Parca Che lei dalle vitali aure del giorno Chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove Mandò il voto supremo: E se, diceva, A te fur care le mie chiome e il viso E le dolci vigilie, e non mi assente Premio miglior la volontà de' fati La morte amica almen guarda dal cielo Onde d'Elettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea L'Olimpio; e l'immortal capo accennando Piovea dai crini ambrosia sulla Ninfa, E fe' sacro quel corpo e la sua tomba. Alla morte di Teucro, Dardano gli succedette e chiamò tutto il paese Dardania. Da Batieia ebbe tre figli: Ilo, Erittonio e Zacinto, ed una figlia, Idea. Secondo una tradizione, Dardano avrebbe sottratto la statua di Pallade, chiamata Palladio, conservata in Arcadia, e l'avrebbe portata a Troia. Vari miti, sia greci che romani, sono nati attorno a questa statua, di tre cubiti, circa un metro e mezzo (un cubito è pari 0.45 m), fatta costruire da Atena, che avrebbe accidentalmente ucciso la sua amica Pallade. La dea Atena fu allevata, durante l'infanzia, dal dio Tritone, il quale aveva una figlia chiamata Pallade. Mentre le due bambine si esercitavano nell'arte della guerra e Pallade stava per colpire Atena, Zeus ebbe paura per la figlia ed interpose la sua egida davanti a Pallade, la quale si spaventò e non poté parare il colpo che le vibrava Atena. Pallade cadde ferita a morte, ed Atena, sconvolta, modellò una statua a somiglianza della compagna e le tributò onori come ad una divinità. Un giorno Zeus tentò di violentare Elettra, ma la giovane si
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rifugiò presso quella statua divina e Zeus, incollerito, avrebbe scagliato il Palladio dall'alto del cielo sulla terra. La statua, caduta nella Troade, sarebbe stata considerata un segno di approvazione alla fondazione della città di Troia da parte degli dèi, e fu conservata in un tempio nella città. Il Palladio aveva la virtù di garantire l'integrità della città che lo possedeva e gli tributava un culto. Un'altra leggenda racconta che Ilo, il primo dei figli di Dardano, si era recato in Frigia per partecipare a dei giochi, in cui vinse la gara di lotta. Per questo ebbe in dono una vacca e gli fu consigliato da un oracolo di fondare una città là dove la vacca si fosse sdraiata. Ilo seguì l'animale e lo vide sdraiarsi sulla collina di Ate. Lì fondò la città di Ilio. Tracciato il solco che segnava i confini della città, Ilo pregò Zeus perché gli desse un segno, ed il mattino seguente trovò dinanzi alla sua tenda un oggetto di legno, per metà sepolto nella terra e coperto di erbacce: era il Palladio, un simulacro senza gambe alto tre cubiti, fatto da Atena in memoria della sua compagna morta, Pallade. Apollo consigliò ad Ilo di aver cura del Palladio, ed Ilo innalzò sulla cittadella un tempio che ospitasse il simulacro. Ilo poi sposò Euridice, figlia di Adrasto, che gli generò Laomedonte e Temista. Laomedonte decise di erigere le mura di Troia ed ebbe tanta fortuna da poter godere dell'aiuto di Apollo e Poseidone. Priamo ricostruì Troia sulle antiche fondamenta e sposò Arisbe, figlia del veggente Merope. Quando ella gli ebbe generato Esaco, Priamo la maritò ad Irtaco. La seconda moglie di Priamo fu Ecuba, figlia di Dimante, re della Frigia, e della ninfa Eunoe. Essa generò a Priamo diciannove dei suoi cinquanta figli, gli altri essendo figli di concubine. Il loro primo figlio fu Ettore, che sposò Andromaca, figlia del re di Tebe, Eezione. Dopo la morte di Ettore, Andromaca toccò in sorte a Neottolemo, figlio di Achille, a cui diede anche un figlio, Molosso, che nacque a Ftia.
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Ma Ermione, che aveva sposato Neottolemo e non poteva avere figli, era gelosa di questo bambino. Perseguitò Andromaca e Molosso ed era sul punto di ucciderli allorché l'intervento di Peleo li salvò entrambi. Alla morte di Neottolemo per mano di Oreste, Andromaca andò in sposa ad Eleno, fratello di Ettore, di cui si parlerà tra poco. Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, giunse, assieme alla sorella Ifigenia, in Aulide quando quest'ultima avrebbe dovuto essere offerta in sacrificio ad Artemide. Infatti l'indovino Calcante aveva detto che la collera di Artemide contro Agamennone si sarebbe placata solo col sacrificio della figlia Ifigenia. Agamennone la fece venire da Micene con il pretesto di fidanzarla ad Achille, e la fece offrire sull'altare di Artemide, ma la dea all'ultimo momento ebbe pietà della giovane e la sostituì con una cerbiatta. Il cieco Tiresia era il veggente più famoso in Grecia a quei tempi. Alcuni raccontano che Atena, dopo aver accecato Tiresia perché l'aveva vista nuda mentre faceva il bagno in una fonte, si lasciò commuovere dalle lacrime della madre di lui e, preso il serpente Erittonio dalla sua egida, gli ordinò di lavargli le orecchie affinché egli potesse intendere il linguaggio profetico degli uccelli. Un altro mito racconta invece che Tiresia vide un giorno due serpenti nell'atto di accoppiarsi. Quando i serpenti lo attaccarono, egli li colpì col suo bastone, uccidendo la femmina. Subito fu trasformato in donna e divenne una celebre prostituta. Sette anni dopo gli capitò di assistere alla stessa scena nello stesso luogo ed allora riacquistò la sua virilità uccidendo il serpente maschio. Nel frattempo Era rimproverò a Zeus le sue molte infedeltà e Zeus si difese replicando che, quando egli divideva il suo letto, Era ne traeva il più grande godimento, perché le donne assaporano, nell'atto sessuale, un piacere molto maggiore. «Che assurdità!» gridò Era «accade esattamente il contrario e tu lo sai!». Tiresia fu convocato per por fine alla discussione in base alla sua esperienza personale, e rispose: «Se
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in dieci parti dividiamo il piacere d'amore, tre volte tre vanno alla donna e una sola all'uomo». Era fu così esasperata dal sogghigno di trionfo di Zeus che accecò Tiresia, ma Zeus lo ricompensò con il dono della chiaroveggenza ed una vita che si sarebbe prolungata per sette generazioni. Tiresia fece il suo ingresso alla corte di re Edipo e rivelò ad Edipo stesso la volontà degli dèi: la pestilenza che decimava il suo regno sarebbe cessata solo se uno degli uomini Sparti, gli uomini che erano sorti dalla terra quando Cadmo aveva seminato i denti di serpente, fosse morto per il bene della città. Meneceo, il padre di Giocasta, la moglie di Edipo, subito si gettò giù dalle mura e tutta Tebe elogiò il suo spirito di sacrificio. Tiresia annunciò che Meneceo aveva fatto bene e la pestilenza ora sarebbe finita, ma che gli dèi tuttavia avevano in mente un altro degli uomini Sparti, uno della terza generazione, che uccise suo padre e sposò sua madre: «Sappi, o Giocasta, che egli è tuo marito, Edipo!» Dapprima nessuno volle credere a Tiresia, ma le sue parole ebbero presto conferma da una lettera di Peribea da Corinto. Peribea scrisse che l'improvvisa morte di re Polibio l'autorizzava a rivelare in quali circostanze era stato adottato Edipo, e lo fece con i più minuti particolari. Giocasta allora si impiccò per la vergogna e per il dolore, mentre Edipo si accecò con uno spillo tolto dalle vesti della regina (Miti). Eteocle e Polinice erano figli di Edipo. Tra i due fratelli scoppiò una forte rivalità per assicurarsi il potere su Tebe. Questa rivalità provocò la guerra dei Sette contro Tebe e la spedizione di Adrasto contro la città. All'origine di questa rivalità, esisteva una triplice maledizione del loro padre. Quando Edipo si fu accecato, i suoi figli, invece di aver pietà di lui, l'insultarono. Polinice gli servì, malgrado l'espresso divieto che gli era stato fatto, la tavola d'argento di Cadmo insieme alla sua coppa d'oro. Era questo un modo di prenderlo in giro e di ricordargli la sua origine, insieme al suo delitto. Era un modo di prenderlo in giro e di ricordargli la sua origine, insieme al suo delitto. Quando se ne accorse, Edipo li maledisse entrambi, predicendo loro che non avrebbero potuto vivere in pace né sulla terra né in morte.
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Più tardi, durante un sacrificio, i due fratelli inviarono al loro padre, invece di un buon pezzo, le ossa della coscia della vittima. Edipo, adirato, gettò violentemente le ossa a terra e pronunciò contro di loro una seconda imprecazione. Predisse loro che si sarebbero uccisi reciprocamente. La terza maledizione, infine, fu pronunciata da Edipo quando i suoi figli lo rinchiusero in una prigione oscura per farlo dimenticare, e gli rifiutarono gli onori che gli erano dovuti. Predisse loro che si sarebbero divisi la sua eredità, armi alla mano. Rimasti i soli padroni di Tebe, Eteocle e Polinice decisero di spartirsi il potere. Avrebbero regnato alternativamente ognuno per un anno. Eteocle regnò per primo ed in capo ad un anno, si rifiutò di dare il potere al fratello. Cacciato così dalla patria, Polinice giunse ad Argo, portando con sé il manto e la collana di Armonia. La collana era d'oro, fabbricata da Efesto ed in origine era stata donata da Zeus alla sorella di Cadmo, Europa; essa conferiva irresistibile fascino a chi la possedeva. Anche il manto di Atena conferiva dignità divina a chi lo indossasse, e questi oggetti saranno fondamentali nella storia di Calliroe ed Alcmeone, che racconteremo fra breve. In quel tempo Adrasto regnava ad Argo e Polinice si presentò al suo palazzo in una notte di tempesta, contemporaneamente a Tideo, figlio di Eneo e di Peribea, il quale era fuggito da Calidone per aver ucciso lo zio Alcatoo. I due eroi si batterono nel cortile del palazzo ed il rumore attirò Adrasto, il quale li separò, li accolse e diede loro le sue due figlie in spose. Così Polinice sposò Argia ed Adrasto gli promise che lo avrebbe aiutato a riconquistare il regno, mentre Tideo fu purificato dallo stesso Adrasto e sposò l'altra sua figlia Deipile. Per mantenere la sua promessa, Adrasto riunì i capi argivi, Capaneo, Ippomedonte, Anfiarao il veggente e l'arcade Partenopeo, invitandoli a prendere le armi ed a marciare verso Tebe insieme ad egli stesso, a Tideo ed a Polinice. Nel corso della loro marcia attraversarono Nemea, dove regnava Licurgo. Gli chiesero il permesso di abbeverare le
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truppe nelle sue terre e Licurgo acconsentì. La schiava Ipsipile li guidò alla sorgente più vicina. Ipsipile era stata una principessa di Lemno, ma quando le donne di Lemno giurarono di uccidere tutti i loro uomini per vendicarsi di un oltraggio, essa salvò la vita a suo padre Toante. Fu perciò venduta come schiava (v. Ariete) ed ora, in Nemea, era bambinaia del figlio di Licurgo, Ofelte. Posò a terra il bambino per un momento mentre guidava l'armata argiva alla sorgente e subito un serpente si avvinghiò alle membra di Ofelte e lo uccise con un morso. Adrasto ed i suoi uomini ritornarono dalla sorgente troppo tardi e non poterono fare altro che uccidere il serpente e seppellire il bambino. Quando Anfiarao li avvertì che quello era un segno di malaugurio, i Sette istituirono i Giochi Nemei in onore del fanciullo, e ciascuno dei capi ebbe la soddisfazione di vincere una delle sette prove. Giunto sul monte Cicerone, Adrasto inviò Tideo come suo araldo ai Tebani, con la richiesta che Eteocle rinunciasse al trono in favore di Polinice, ma tale richiesta fu respinta. Tideo allora sfidò i capi tebani a duello, l'uno dopo l'altro, ed emerse vittorioso da ogni scontro. Allora i Tebani non osarono più farsi avanti e gli argivi si avvicinarono alle mura della città e ciascuno dei campioni si piazzò dinanzi ad una delle sette porte. Eteocle seppe allora da Tiresia, il veggente, che i Tebani sarebbero stati vittoriosi se un principe di sangue reale si fosse volontariamente offerto in sacrificio ad Ares. Fu allora che Meneceo, figlio di Creonte, si uccise dinanzi alle porte. Appena Capaneo appoggiò una scala alle mura e cominciò a salirvi, Zeus lo colpì al capo con un fulmine. I Tebani ripresero coraggio, fecero una furibonda sortita, uccisero tre dei sette campioni ed uno dei loro, che si chiamava Melanippo, ferì Tideo al ventre. Atena nutriva grande affetto per Tideo, e mossa da pietà, mentre egli giaceva a terra morente, si affrettò a chiedere a Zeus un filtro miracoloso che subito l'avrebbe rimesso in piedi. Ma Anfiarao odiava Tideo perché aveva spinto gli Argivi
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alla guerra e, essendo uomo dall'ingegno pronto, si avvicinò di corsa a Melanippo, gli tagliò la testa e la porse a Tideo invitandolo a mangiarne il cervello. Tideo lo fece, nel momento in cui Atena arrivava con il filtro; disgustata da quello che aveva visto, rovesciò a terra il filtro e fuggì. Polinice, per evitare un'ulteriore strage, si offrì di stabilire la successione al trono in un duello con Eteocle. Eteocle accettò la sfida e nel corso del duello i due contendenti si ferirono mortalmente a vicenda. Creonte, loro zio, assunse allora il comando dell'esercito tebano e mise in rotta gli Argivi. Anfiarao fuggi sul cocchio e stava per essere colpito alle spalle da un suo inseguitore tebano quando Zeus spaccò la terra con una folgore ed Anfiarao sparì col carro, ed ora regna vivo tra i morti. Vedendo che la battaglia era perduta, Adrasto montò il suo cavallo alato Arione e si diede alla fuga; ma allorché in seguito udì che Creonte non voleva concedere sepoltura ai nemici morti, si recò ad Atene come supplice e persuase Teseo a marciare contro Tebe per punire l'empietà di Creonte. Teseo si impadronì della città con un attacco a sorpresa, fece prigioniero Creonte ed affidò i cadaveri dei morti guerrieri ai loro parenti che innalzarono un grande rogo funebre. I figli dei sette eroi caduti dinanzi a Tebe giurarono di vendicare i loro padri. Essi sono noti come gli Epigoni. L'oracolo di Delfi promise loro la vittoria se Alcmeone, figlio di Anfiarao, avesse assunto il comando. Ma egli non provava desiderio di attaccare Tebe e si accalorò a discutere dell'opportunità di quella guerra col fratello Anficolo. Poiché i fratelli non riuscivano ad accordarsi se combattere contro Tebe, rimisero la decisione alla loro madre Erifile. Tersandro, figlio di Polinice, vedendo cosi ripetersi una situazione a lui familiare, seguì l'esempio di suo padre: corruppe Erifile con un magico manto che Atena aveva donato alla sua ava Armonia in occasione delle nozze, così come Afrodite le aveva donato la collana. Erifile decise per la guerra ed Alcmeone assunse di malavoglia il comando.
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In una battaglia davanti alle mura di Tebe, gli Epigoni perdettero Egialeo, figlio di Adrasto, ed il veggente Tiresia predisse allora ai Tebani che la loro città sarebbe stata distrutta: le mura avrebbero resistito finché l'ultimo dei sette antichi eroi fosse rimasto in vita. Adrasto, l'unico superstite, sarebbe morto di dolore alla notizia della fine di Egialeo. Era dunque opportuno che i Tebani fuggissero dalla città quella notte stessa. Col favore delle tenebre, i Tebani fuggirono a Nord portando con sé le mogli, i figli, le armi e poche suppellettili e, quando si furono allontanati abbastanza, si fermarono e fondarono la città di Estiea. All'alba Tiresia, che era andato con loro, si dissetò alla fonte Tilfussa ed all'improvviso spirò. Anche Adrasto, come previsto da Tiresia, ebbe la notizia della fine di Egialeo e morì per il dolore. Gli Argivi rasero al suolo le mura di Tebe. Tornati a casa, Alcmeone sposò Calliroe e si stabilì su di una terra formata di recente dal limo del fiume Acheloo. Un anno dopo Calliroe, che temeva di perdere la sua bellezza, rifiutò di accogliere Alcmeone nel suo letto finché egli non le donasse la collana ed il manto di Armonia. Alcmeone allora tornò a Psofide e, ingannando Tegeo, convinse Arsinoe a consegnargli la corona e la veste. Stava per impossessarsene quando uno dei servi raccontò la verità sulla richiesta di Calliroe. Tegeo si infuriò a tal punto che ordinò al suoi figli di tendere un'imboscata ad Alcmeone e di ucciderlo appena fosse uscito dal palazzo. Arsinoe assistette all'assassinio da una finestra e, ignara della doppiezza di Alcmeone, a gran voce rimproverò il padre ed i fratelli poiché avevano violato le leggi dell'ospitalità e l'avevano resa vedova. Tegeo la supplicò di starlo ad ascoltare finché le avesse spiegato tutto, ma Arsinoe si tappò le orecchie ed augurò che morte violenta cogliesse lui ed i suoi fratelli prima della nuova luna. Per ripicca Tegeo la chiuse in una cassa, la mandò in dono come schiava al re di Nemea e disse ai suoi figli di portare la collana ed il manto al tempio di Apollo Delfico, che avrebbe provveduto affinché non causassero altri
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danni. I figli di Tegeo gli ubbidirono, ma frattanto Calliroe, informata di quanto era successo a Psofide, pregò perché i bambini che essa aveva avuto da Alcmeone diventassero adulti in un giorno e vendicassero la morte del padre. Zeus ascoltò le sue suppliche ed i fanciulli sbocciarono all'improvviso nella virilità, afferrarono le armi e si recarono a Nemea dove i figli di Tegeo avevano interrotto il loro viaggio di ritorno da Delfi, nella speranza di indurre Arsinoe a ritrattare la sua maledizione. Cercarono di dirle la verità sul conto di Alcmeone, ma ella non volle ascoltare neppure loro. Ed i figli di Calliroe li sorpresero e li uccisero; poi, affrettandosi verso Psofide, uccisero anche Tegeo prima che la nuova luna fosse apparsa nel cielo. Nessun re o dio in Grecia acconsentì a purificarli dei loro crimini, ed essi viaggiarono verso occidente fino all'Epiro e colonizzarono l'Acarnania, che fu chiamata così dal nome del maggiore dei due fratelli, Acarnano. Il manto e la collana furono deposti a Delfi. (Miti) Dopo l'assassinio d'Agamennone, tornato in patria, da parte di Egisto e Clitennestra, Oreste sfuggì al massacro grazie all'altra sorella, Elettra, che lo portò di nascosto da Strofio, in Focide, e lo allevò insieme a Pilade. Quando fu adulto, Oreste ricevette da Apollo l'ordine di vendicare la morte del padre uccidendo Egisto e Clitennestra. Oreste si fece passare per un viaggiatore a cui Strofio aveva dato l'incarico di annunciare la morte di Oreste, veniva dalla Focide ed andava ad Argo. Clitennestra si abbandonò alla gioia e mandò a chiamare Egisto che era assente. Appena arrivato al palazzo, quest'ultimo cadde sotto i colpi di Oreste. Clitennestra, udendo il grido che egli emise morendo, accorse e trovò il figlio con la spada sguainata ed insanguinata. Lo supplicò di risparmiarla, gli mostrò il seno che lo aveva nutrito ed Oreste era sul punto di cedere, ma Pilade gli ricordò il carattere sacro della sua vendetta. Allora egli la uccise. Come assassino della propria madre, fu perseguitato dalle Erinni, che lo portarono davanti all'Areopago dove fu assolto
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poiché Atena, la quale presiedeva il tribunale, unì il suo voto a quello di coloro che volevano l'assoluzione. Atena, con abilità di argomentazioni, era riuscita a portare le furiose Erinni a non essere di conseguenza in collera contro Atene, ma a stabilirsi nella città come dee della fortuna, Eumenidi (F. Graf: Il Mito in Grecia). Oreste, dopo l'assoluzione, andò in Tauride con Pilade, ma lì fu fatto prigioniero, perché gli abitanti avevano l'usanza di catturare tutti gli stranieri allo scopo di sacrificarli alla loro dea. La sacerdotessa li fece slegare e li interrogò sulla loro patria e ben presto li riconobbe, perché era Ifigenia, la sorella di Oreste, che avrebbe dovuto essere stata sacrificata dal padre Agamennone. Ifigenia decise aiutarli a fuggire e s'imbarcò con loro sulla nave portando con sé la statua di Artemide. Poseidone, tuttavia, scagliò la nave sulla costa ed il re Toante era sul punto d'impadronirsene allorché un'apparizione di Atena gli ingiunse di cessare l'inseguimento. Così Oreste ed i suoi potettero approdarono in Attica. Oreste regnò ad Argo, dove tornò solo dopo aver rapito Ermione, che sposò e da cui ebbe un figlio, Tisameno, ed anche a Sparta, come successore di Menelao, e vi morì molto vecchio, a novant'anni. Tra i figli minori di Ecuba vi erano i gemelli Cassandra ed Eleno, che avevano il dono della profezia. Quando erano da poco nati i gemelli Cassandra ed Eleno, Priamo ed Ecuba diedero una festa nel tempio di Apollo, appena fuori dalle mura di Troia. La sera essi ritornarono dimenticando i bimbi, che passarono la notte nel santuario. L'indomani mattina, quando si andò a ricercarli, furono trovati addormentati con due serpenti che posavano la lingua sui loro organi genitali. Alle grida dei genitori spaventati, gli animali si ritirarono in mezzo agli allori sacri che si trovavano in quel luogo. I bambini, in seguito, rivelarono doni profetici, trasmessi loro dai serpenti.
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Un'altra leggenda interessante racconta diversamente il modo in cui Cassandra ebbe il dono: un giorno si addormentò nel tempio di Apollo ed Apollo stesso, apparsole all'improvviso, promise di istruirla nell'arte della profezia se avesse acconsentito a giacersi con lui. Cassandra, dopo aver accettato il suo dono, rifiutò di tener fede ai patti; Apollo allora le chiese un solo bacio e, mentre Cassandra lo baciava le sputò nella bocca per far sì che nessuno credesse mai a ciò che essa avrebbe profetizzato. Eleno invece interpretava il futuro dal volo degli uccelli e dai segni esterni. Egli ebbe il dono da Apollo, perché era il suo favorito. Quando, dopo alcuni anni di prudente e saggio governo, Priamo ebbe ridonato a Troia la ricchezza e la potenza di un tempo, convocò il consiglio per discutere il caso di sua sorella Esione che Telamone, figlio di Eaco, aveva rapita e portata con sé in Grecia. Esione, figlia di Laomedonte, sposò Telamone, che ebbe da lei il figlio Teucro. Benché Priamo fosse incline a ricorrere alla forza, il consiglio volle che prima si tentasse di risolvere la questione pacificamente. Il cognato di Priamo, Antenore, e suo cugino Anchise andarono dunque in Grecia e presentarono le proposte dei Troiani ai Greci riuniti nel palazzo di Telamone; ma, fra risate di scherno fu loro risposto che tornassero pure a casa e badassero agli affari propri. Questo incidente fu la prima causa umana della guerra di Troia, di cui già Cassandra prediceva la disastrosa fine. Inoltre la prima distruzione della città non avvenne a conclusione della guerra tra Greci e Troiani. Infatti, le mura di Troia erano state costruite da Apollo, Poseidone e dal mortale Eaco. Quando tali mura stavano per finire di essere costruite, tre serpenti si slanciarono sulle mura stesse. Due, che si avvicinarono alla parte costruita dagli dèi, caddero morti, ma il terzo riuscì ad oltrepassare la parte costruita dal mortale. Apollo interpretò così il presagio: Troia sarebbe stata presa due volte, la
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prima da un discendente di Eaco (in effetti fu Eracle, assieme a Telamone e Peleo) e la seconda ancora da un discendente di Eaco, ma alcune generazioni più tardi (e questa volta fu Neottolemo, pronipote di Eaco e figlio di Achille). La scelta di Zeus, che Paride, ultimo figlio di Priamo ed Ecuba, dovesse essere lo strumento dell'attuazione della divina volontà e della distruzione di Troia, era avvenuta già prima della sua nascita. Mentre era incinta, sua madre Ecuba aveva sognato di partorire una fiaccola che avrebbe arso Troia. Sbigottita da quell'incubo, ella si era confidata col suo sposo, Priamo, che consultò Esaco, suo figlio veggente, il quale lo avvisò di uccidere il nascituro, che sarebbe stato la rovina del genere umano. Ma il re di Troia non ebbe il coraggio di commettere l'infanticidio e pensò di disfarsi del neonato affidandolo al pastore Agelao, con l'ingrato compito di sopprimerlo. Il pastore preferì abbandonare il piccolo Alessandro sui monti. Allattato per cinque giorni da un'orsa, poi raccolto ed allevato poi dallo stesso Agelao che lo ritrovò vivo, il principe troiano, che aveva assunto il nome di Paride, divenne un affascinante guerriero, dotato di grande prestanza fisica e di viva intelligenza. Egli aveva fama di uomo saggio e, per questo, Zeus gli inviò Ermes con le tre dee perché decidesse quale fosse la più bella. Paride fu dapprima riluttante: non si sentiva in grado di poter giudicare le fattezze degli immortali, né si sentiva al sicuro dalle reazioni delle perdenti. Le dee e lo stesso Ermes si adoperarono a rassicurarlo, promettendogli di accettare il suo giudizio come insindacabile e di astenersi da eventuali vendette. Paride esaminò singolarmente le tre dee, nude, e ciascuna di loro volle influenzarlo offrendogli un dono in cambio della vittoria. Era, che fu la prima ad essere giudicata, gli propose di diventare ricchissimo padrone dell'Asia mentre Atena gli offrì la saggezza e l'invincibilità in guerra. Afrodite, però, fu la prescelta, colei che dapprima lo aveva affascinato con la sua prorompente bellezza e poi si era riservata il pomo d'oro, prospettandogli le nozze con Elena. Con questo giudizio si attirò l'odio insanabile di Era ed
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Atena, che si allontanarono a braccetto complottando la distruzione di Troia. Mitografi scettici hanno affermato talvolta che Paride fu in questa faccenda la vittima di un raggiro di tre campagnole, desiderose di provare la loro bellezza. Bionda, delicata e terribilmente seducente, Elena, diventata adulta, era stata contesa da tutti i capi della Grecia, ponendo notevoli problemi di scelta al suo padre mortale Tindaro. Questi era veramente disorientato dal prestigio dei pretendenti e dalla ricchezza dei doni offerti. Era presente anche Ulisse che, consapevole di non avere la ricchezza necessaria per competere con i suoi rivali in amore, propose un patto a Tindaro. Egli lo avrebbe consigliato nella scelta del futuro sposo di Elena, in cambio dell'aiuto a sposare Penelope, figlia di Icaro. Tindaro accettò ed il figlio di Laerte gli spiegò il suo piano. Il re di Sparta avrebbe dovuto esigere da tutti gli aspiranti alla mano di Elena, il solenne giuramento di difendere e proteggere il futuro sposo prescelto, chiunque egli fosse. Così fu fatto ed Elena scelse come suo sposo Menelao, fratello di Agamennone. Per riscuotere il premio promessogli da Afrodite, Paride, ormai riconosciuto dal re Priamo come figlio legittimo con la nota dichiarazione “Perisca pure Troia, ma non il mio bel figlio”, si recò prima ad Amiclea, ospite di Tindaro e poi a Sparta con la scusa di incontrare Menelao, che lo accolse con piacere e gli dedicò nove giorni di festeggiamenti. Paride già si struggeva d'amore e di desiderio per la bella sposa dell'ospite allorché, un'improvvisa partenza del poco attento Menelao sembrò favorire i suoi progetti: partì per Creta, per i funerali di Catreo, uno dei figli di Minosse, ucciso dal suo stesso figlio Alatemene. Menelao affidò ad Elena la cura degli ospiti, ordinandole di tenerli a Sparta per tutto il tempo che avessero voluto rimanerci. Ben presto Paride si fece amare da lei con grandi regali e col suo fascino. Fu aiutato nella sua conquista dal fasto orientale di cui era circondato e dalla propria bellezza, accre-
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sciuta anche dalla volontà di Afrodite, sua protettrice. Elena fece l'amore con lui, riunì tutti i tesori che poté e, abbandonata la propria figlia Ermione, di nove anni, fuggì con lui la sera stessa dell'allontanamento del marito. Alcuni mitografi dicono che lo stesso Tindaro, in assenza di Menelao, accordò a Paride la mano di Elena. Durante il viaggio di ritorno a Troia, la nave di Paride fu spinta da una tempesta, suscitata da Era, fino in Fenicia, a Sidone, città che Paride conquistò e saccheggiò. Comunque i due adulteri raggiunsero Troia, accompagnati da cinque ancelle tra cui Etra, figlia di Pitteo, re di Trezene e madre di Teseo, Tisadia e Piritoo. Etra fu corteggiata da Bellerofonte, ma Pitteo, come vedremo (v. Corona Boreale), la diede poi in sposa ad Egeo. I cittadini di Troia accolsero con calore ed entusiasmo la bella regina, ma Era, che stava aspettando il momento favorevole per vendicarsi di Paride, subito inviò Iris ad avvertire Menelao. Questi, sorpreso ed irato, corse dal fratello Agamennone per organizzare la spedizione contro Troia, dopo aver invano richiesto la restituzione della sposa. Esiste anche un'altra versione della leggenda, secondo la quale Ermes rapì Elena per ordine di Zeus e la affidò a re Proteo d'Egitto; frattanto un fantasma di Elena, fabbricato da Era con una nuvola, fu mandato a Troia con Paride, al solo scopo di provocare la guerra. Achille, che non aveva conosciuto Elena, concepì il desiderio di conoscerla e le dee Teti ed Afrodite prepararono fra loro un incontro, poco prima della morte stessa di Achille, ed essi fecero l'amore per lungo tempo. Successivamente i due si sposarono e vissero eternamente nell'Isola Bianca, nel Mar Nero, alla foce del Danubio. In realtà i mitografi raccontano che Elena ebbe cinque “mariti”: Teseo, Menelao, Paride, Achille e Deifobo, un altro figlio di Priamo, che Elena sposò dopo la morte di Paride. Parteciparono all'impresa contro Troia i più valorosi guerrieri greci, coloro che, come antichi pretendenti di Elena, ave-
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vano giurato fedeltà e protezione al suo sposo. La guerra, tremenda e distruttiva, durò dieci anni, decimando le eroiche forze di ambo i fronti. Anche Achille fu ucciso da Paride con una freccia che lo ferì nel suo unico punto vulnerabile, il tallone. Ma la freccia fu guidata nella sua corsa da Apollo. Infine c'era un'altra leggenda sulla morte di Achille. Questi, innamorato di Polissena, la figlia di Priamo ed Ecuba, era disposto a tradire i Greci per amore della giovane ed a combattere al fianco dei Troiani, ma fu attirato in un'imboscata da Paride nel tempio di Apollo e qui fu ucciso. Paride, spinto dal fratello Ettore, aveva sfidato Menelao, a sua volta spinto da Agamennone ad accettare la sfida, in un duello dal quale dovevano essere decise le sorti della guerra, che ormai durava da nove anni, e così tutti avrebbero visto «morire la guerra, e l'arroganza di chi la vuole, e la follia di chi la combatte». (Baricco). Ma quest'episodio non riuscì a por fine alla guerra perché Paride, preso dalla paura fuggì dopo i primi colpi, e si rifugiò nelle sale del palazzo di Priamo. Gli unici abitanti di Troia che avevano continuato ad inveire contro i Greci furono Cassandra, che aveva il dono della profezia e la maledizione di con essere creduta e che sarebbe stata rapita e stuprata da Aiace Oileo che la strappò dal suo rifugio presso l'altare di Atena, e Laocoonte, che invitava i suoi concittadini a non accogliere dentro le mura di Troia il cavallo di legno apparentemente lasciato dagli Achei agli dèi. Quando presero Troia, Cassandra fu strappata, da Aiace, dalla statua di Atena, facendola vacillare rivolgendo gli occhi al cielo. I Greci, davanti a questo sacrilegio, erano pronti a lapidare Aiace, ma egli si salvò rifugiandosi presso l'altare della dea poco prima offesa. Cassandra fu poi data ad Agamennone e gli dette due gemelli, Teledamo e Pelope; fu uccisa poi dalla moglie di Agamennone assieme a quest'ultimo.
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Laocoonte era un sacerdote di Apollo, che attirò su di sé la collera del dio, unendosi alla moglie Antiope davanti alla sua statua. Quando i Greci finsero di imbarcarsi, lasciando il cavallo di legno sulla riva, i Troiani incaricarono Laocoonte di offrire un sacrificio a Poseidone chiedendogli di accumulare le tempeste sulla rotta della flotta nemica. Ma Laocoonte, da parte sua, gridò: [...] O ciechi, o folli, o sfortunati! Ai nemici, ai Greci voi credete? A loro credete voi, che siano partiti. E sarà mai che doni siano i loro doni, e non piuttosto inganni? Così vi è noto Ulisse? O in questo legno sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina contro le nostre mura [...] Quand'ecco che da Tènedo (m'agghiaccio a raccontarlo) Due serpenti immani venir si vedon parimenti a lito. Ondeggiando coi dorsi onde maggiori delle marine allor tranquille e quete. [...] e gli angui s'affilar direttamente a Laocoonte, e pria di due suoi pargoletti figli le tenerelle membra ambo avvinghiando, se fero crudo e miserabil pasto.
Virgilio: Eneide II. vv. 74 segg. Il gemello di Cassandra, Eleno, interpretava il futuro dal volo degli uccelli e dai segni esterni. Egli ebbe il dono da Apollo, perché era il suo favorito. Ora Calcante, l'indovino dei Greci, aveva annunciato che soltanto Eleno poteva rivelare le condizioni alle quali la città di Troia avrebbe potuto essere conquistata. Ulisse riuscì ad impadronirsi di Eleno e, un po' con la forza, un po' con la corruzione, riuscì a farsi predire l'oracolo. Troia sarebbe stata conquistata a patto che Neottolemo, figlio di Achille, avesse combattuto con i Greci, i Greci stessi si fossero impadroniti delle ossa di Pelope, e se il Palladio, la statua miracolosa che era caduta dal cielo, fosse stata sottratta ai Troiani. Infine, sarebbe stato proprio lui a consi-
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gliare di utilizzare un cavallo di legno per introdurre i guerrieri all'interno delle mura. Tutto ciò, unito all'atteggiamento contrario di Eleno al rapimento di Elena e l'aver impedito ai Troiani di abbandonare il cadavere di Achille agli uccelli, gli valsero di aver salva la vita dopo la conquista della città. Neottolemo, figlio di Achille e Deidamia, fu generato quando Achille era stato nascosto dalla madre nell'harem di Licomede e nacque dopo la partenza del padre per la guerra di Troia. Tutto l'esercito greco ritrovò in Neottolemo un nuovo Achille quando questi morì. Durante il combattimento decisivo, Neottolemo fece precipitare il piccolo Astianatte dall'alto di una torre, e, nel bottino di guerra, ottenne Andromaca, vedova di Ettore, ed in memoria di suo padre Achille, gli offrì in sacrificio Polissena, che immolò sulla sua tomba. Dalla sua unione con Andromaca nacquero tre figli, Molosso, Pielo e Pergamo. Oreste, a Delfi, uccise Neottolemo per due motivi: per vendicare Ermione tradita, e perché Neottolemo gli aveva rapito la stessa Ermione quando era la sua fidanzata. L'unico che si salvò dalla distruzione di Troia fu Enea, figlio di Anchise e della dea Afrodite. Enea era il più valoroso dei troiani, inferiore soltanto ad Ettore. La sua complessa figura univa ad un'eccezionale abilità nelle arti marziali, una profonda adesione ai valori più puri della “pietas” umana. Quando Afrodite aveva fatto l'amore con l'affascinante pastore troiano Anchise, era rimasta incinta di Enea. Il bambino fu poi affidato alle ninfe del monte Ida, affinché lo allevassero. Anchise, ubriaco, si era vantato del suo rapporto con la dea, suscitando l'ira di Zeus che lo punì rendendolo storpio. Lasciato il suo amante troiano, Afrodite continuò a sorvegliare il figlio con costante amore e la sua vigile presenza protettiva caratterizzò sempre le numerose avventure di Enea. Enea approvò il ratto di Elena ed il rifiuto troiano di resti-
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tuirla a Menelao. Fu però solo un disastroso saccheggio di Achille a spingerlo alla battaglia in qualità di capo dei discendenti di Dardano. Lo scontro con Achille avvenne sul monte Ida e si risolse con l'intervento di Poseidone che salvò Enea. L'appoggio incondizionato degli dèi venne confermato da altri numerosi interventi in suo favore. Quando fu ferito da Diomede, Afrodite scese a salvarlo, ma fu anche lei ferita ed in loro soccorso dovette intervenire Apollo che trascinò Enea lontano dal campo di battaglia, avvolgendolo in una nube. In un secondo scontro con Achille, vicino al cadavere di Patroclo, Enea stava di nuovo per avere la peggio, ma anche questa volta si ripeté l'aiuto divino nella persona del dio Poseidone, che lo nascose in una nuvola. Fu quell'occasione che Poseidone dichiarò solennemente l'alto destino a cui era stato eletto Enea che, insieme ai suoi discendenti, avrebbe dominato sui troiani, mentre la stirpe di Priamo, invisa agli dèi, sarebbe stata dispersa. Mentre Troia era preda del saccheggio Acheo, Enea partì con il padre Anchise sulle spalle ed il figlioletto Ascanio per mano. Alla vista di quel mirabile esempio di amore filiale e paterno, Agamennone si commosse ed ordinò che fosse concessa l'incolumità al degno nemico. Egli raccolse i pochi fuggiaschi Troiani e partì dalla costa Troade, per volontà divina, verso occidente, in cerca di una nuova patria, forse portando con sé il vero Palladio. Si diresse, tra molte vicissitudini, verso l'Italia meridionale, dove l'accoglienza riservatagli non fu delle migliori. In seguito arrivò in Sicilia, dove fu colpito dalla morte del vecchio Anchise, che fu seppellito sul Monte Erice. Quando la flotta riprese il largo, una violenta tempesta la spinse sulle coste africane. La regina dei Cartaginesi, Didone, li accolse con grande ospitalità e fu subito colpita dalla personalità di Enea. Si innamorò perdutamente dell'eroe ed iniziò a trascorrere gran parte del suo tempo insieme a lui. Durante una battuta di caccia, una violenta pioggia li spinse a trovare rifugio in una grotta. Qui, con la complicità di Era ed Afrodite, i due divennero
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amanti. Per Didone questo rapporto assunse tutte le connotazioni di un grande amore, ma Zeus volle che il destino si attuasse ed ordinò ad Enea l'immediata partenza e la rottura della sua relazione con Didone. Quest'ultima, alla notizia della partenza dell'amato, fece allestire un'enorme pira sul punto più alto della città e, mentre la flotta troiana si allontanava, si gettò tra le fiamme del rogo funebre. Enea riprese il viaggio e, seguendo gli ordini divini, si recò di nuovo in Italia. In una breve sosta in Sicilia, egli vi abbandonò gli anziani troiani ormai stanchi del viaggio e desiderosi di una vecchiaia tranquilla. Sbarcò poi a Cuma, dove incontrò la Sibilla, che gli concesse di scendere in Averno, per poter rivedere il padre Anchise, il quale gli illustrò il glorioso futuro che il Fato riservava alla loro stirpe. Lasciati gli Inferi, Enea riprese il suo cammino in direzione del Lazio, dove sbarcò alle foci del Tevere, meta del suo viaggio. Fu accolto cordialmente da Latino, re di Laurento, che gli diede in sposa la figlia Lavinia. Turno, re dei Rutuli, cui era stata in precedenza promessa in sposa la fanciulla, non gradì la decisione di Latino, considerandola un indegno tradimento. La guerra che seguì impegnò Enea a ricercarsi degli alleati. Si schierarono al suo fianco Evandro, re di Pallantea, e Tarconte, re degli Etruschi. La battaglia fu difficile, ed il suo esito incerto, fino a quando i due grandi antagonisti, Turno ed Enea, non si scontrarono in un famosissimo e violento duello, in cui Turno vi trovò la morte. Enea cominciò così ad attuare il suo compito di fondare una nuova città per i discendenti di Troia.
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8. ASTRONOMIA IN GRECIA Parlare di astronomia presso gli antichi Greci vuol dire percorrere alcune delle tappe fondamentali di questa scienza. Il primo astronomo a noi noto fu Talete di Mileto (624 546 a.C.) che, dopo essersi recato in Mesopotamia per studiare con i matematici caldei, predisse un'eclissi totale di Sole, che si verificò puntualmente nel maggio 585 a.C., interrompendo la guerra in corso tra Lidi e Medi. Studiò la sfera celeste e le antiche costellazioni ed introdusse quella dell'Orsa Maggiore che, prima di lui, era nota come il Grande Carro. Della scuola di Talete fece parte anche Anassimandro, che, completando gli studi del predecessore, fu il primo a fare delle osservazioni celesti utilizzando strumenti come lo gnomone (pare da lui stesso inventato). Intorno al V secolo a.C. nacque la scuola fondata da Pitagora, nel centro della cultura mondiale di quel tempo, la Magna Grecia, ed in particolare a Crotone. A questa scuola si attribuiscono le prime idee sui moti, di rotazione e di rivoluzione, della Terra. Un passo importante che pone il nostro pianeta fra i corpi celesti (pianeti), anche se ancora al centro dell'Universo. Di questa scuola era Filolao, che verso la fine del V secolo a.C., ipotizzò una prima struttura dell'Universo, con un fuoco centrale, ed i pianeti, Sole compreso, ruotanti intorno ad esso. Un sistema, quello di Filolao, che resisterà fino a che non verrà sostituito dalle nuove concezioni aristoteliche. Nel frattempo, però, fra il 429 ed il 347 a.C. appare una figura che lascerà una notevole traccia del suo passaggio: Platone. Tra le allusioni astronomiche ritrovate nei suoi scritti, che sono più che altro a carattere mistico-poetico, si possono, ad
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esempio, rintracciare i primi accenni ad epicicli e deferenti, ai moti della Luna e dei pianeti ed alla materia che componeva le stelle. Conviene, a questo punto, cercare di capire perché epicicli e deferenti erano importanti nella costruzione del sistema geocentrico, per interpretare i moti planetari ed in particolare i loro moti retrogradi. I pianeti, come Platone descriverà nel Timeo, devono necessariamente muoversi uniformemente lungo orbite perfettamente circolari attorno alla Terra, ma ciò non riesce a giustificare completamente il loro moto, visto che spesso hanno dei rallentamenti ed anche delle inversioni di moto (moto retrogrado: è questa la ragione per cui vennero chiamati “pianeti” cioè “erranti”). Fu “inventato” allora da Ipparco un nuovo sistema geocentrico che prevedeva il moto, sempre circolare uniforme, ma non sul deferente, circonferenza attorno alla Terra, bensì su di un “epiciclo”, piccola circonferenza con centro sul deferente e percorsa dal pianeta sempre di moto uniforme. Ciò poteva giustificare anche i moti rallentati e retrogradi: bastava aggiustare opportunamente i raggi sia degli epicicli che dei deferenti che la velocità con cui il pianeta ruotava sull'epiciclo. Platone, infatti, descrive nel Timeo, l'Universo: «...Egli [Dio] lo fece tondo e sferico, in modo che vi fosse sempre la medesima distanza fra il centro ed estremità...e gli assegnò un movimento, proprio della sua forma, quello dei sette moti. Dunque fece che esso girasse uniformemente, circolarmente, senza mutare mai di luogo...; e così stabilì questo spazio celeste rotondo e moventesi in rotondo».
Quello di Platone era dunque un sistema geocentrico, a sfere concentriche, che fu in seguito perfezionato da Eudosso e a cui Aristotele, per altro suo discepolo e amico, attingerà in gran parte. E la prima descrizione sistematica delle costellazioni risale proprio ad Eudosso di Cnido (408 - 355), che costruì il primo
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osservatorio astronomico greco di cui ci è giunta notizia. Quasi tutti i suoi scritti sono andati perduti, ma ne conosciamo i contenuti grazie al poema Fenomeni di Arato. Fu Eudosso che per primo tentò di risolvere, da valente geometra qual'era, in modo meccanico il problema dei movimenti irregolari (stazionari e retrogradi) dei pianeti. Per tentare di dare risposta alle sue teorie, egli si recò a studiare addirittura in Egitto dove i sacerdoti custodivano un'innumerevole serie di cronache su antiche osservazioni celesti. Riuscì nel suo intento, dotando il sistema planetario di una serie di sfere motrici (in tutto 27) le quali contenevano i poli delle sfere dei pianeti, in modo che questi ultimi potessero muoversi nel cielo indipendentemente gli uni dagli altri e tracciare nel cielo le traiettorie da noi osservate e solo apparentemente irregolari. Il sistema di universo costruito da Eudosso e perfezionato da Callippo qualche anno più tardi con l'aggiunta di alcune sfere per Mercurio, Venere, Marte e per la Luna ed il Sole, diede lo spunto ad Aristotele per parlare di astronomia. Egli, infatti, a dispetto degli anni in cui le sue teorie rimasero valide per tutti o quasi, non è da considerare un vero e proprio “astronomo”. Aristotele aveva diviso il cosmo in due parti: la prima perfetta e incorruttibile, quella oltre la Luna, costituita da sfere concentriche ove erano incastonati i pianeti e le stelle; l'altra, sublunare, costituita dal mondo caotico e corruttibile, formata da quattro sfere (Terra, Acqua, Aria e Fuoco) in cui l'ordine era solo una tendenza per ogni cosa. Di là dalla più esterna di queste sfere concentriche, quelle delle stelle fisse, Aristotele collocava il “motore” di tutto l'Universo, che trasmetteva il moto con una serie di sfere di collegamento per un totale di 55: un sistema geocentrico che resisterà per ben 18 secoli, fino alla teoria copernicana che, però, ammettendo ancora per i pianeti solo orbite circolari, aveva ancora bisogno di epicicli e deferenti, anzi ne necessitava di qualcuno in più della teoria geocentrica tolemaica (II sec d.C.). Prima di Copernico, però, alcuni filosofi avevano già tentato di ipotizzare un Universo costruito con un sistema eliocen-
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trico, mettendo così la Terra a ruotare intorno al Sole e ponendola quindi fra i pianeti. Fra questi, degni di nota, troviamo Aristarco di Samo (310-230 a.C.), appartenente alla scuola alessandrina, che aveva teorizzato non solo un sistema eliocentrico, ma aveva trovato anche una spiegazione al fenomeno delle stagioni, attribuendolo alla diversa inclinazione dell'asse della Terra rispetto allo Zodiaco e quindi rispetto al piano dell'eclittica. Sembra, inoltre, che egli avesse già idea della natura stellare del Sole e della distanza infinitamente grande delle stelle. Aristarco espose per primo una teoria eliocentrica secondo la quale le stelle fisse ed il Sole restavano immobili. Intorno al Sole orbitavano i pianeti fra cui la Terra, intorno a cui girava a sua volta la Luna. La sua ipotesi non ebbe molta fortuna: l'astronomo venne accusato di delitto contro la religione per aver turbato il “riposo di Estia”, il fuoco divino racchiuso nella Terra; la visione geocentrica del cosmo continuò a regnare fino all'epoca moderna. Aristarco tentò anche una misura della distanza fra la Terra ed il Sole, circa nel 270 a.C. Egli sapeva che quando la Luna è in quadratura, cioè quando dalla Terra si vede metà superficie della Luna illuminata dal Sole e l'altra metà è al buio, le direzioni Sole-Luna e Luna-Terra determinano un angolo retto. Perciò in quel momento i tre corpi celesti formano in cielo un triangolo rettangolo, del quale è possibile misurare l'angolo compreso tra le visuali dirette dalla Terra rispettivamente al Sole e alla Luna. Aristarco valutò quell'angolo 87° e, in base a questo valore, dichiarò che il Sole doveva essere circa 20 volte più lontano dalla Terra di quanto non fosse la Luna. In realtà il Sole è 400 volte più lontano della Luna, ma per arrivare a questo risultato egli avrebbe dovuto stimare con precisione l'angolo compreso tra le direzioni Terra-Luna e Terra-Sole che non è di 87°, ma di 89°51', una misura impossibile da ottenere con gli strumenti disponibili a quel tempo. Il modello eliocentrico di Aristarco fu condannato dalla cultura del suo tempo e ignorato nei secoli successivi. Eratostene di Cirene (276 ca - 194 ca a.C.), che il faraone
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Tolomeo Evergete aveva chiamato ad Alessandria d'Egitto per dirigerne la biblioteca, il centro culturale più grande e famoso dell'antichità, compì uno studio approfondito del cielo, giungendo a calcolare anche la circonferenza massima della Terra in 250 mila stadi, poco meno di 40 mila chilometri: una misura sostanzialmente esatta. La misura fu compiuta quando, nel 240 a.C. ad Eratostene capitò di leggere, su un papiro, che a Siene (l'attuale Assuan), il 21 giugno (il giorno più lungo dell'anno), si verificava un fenomeno strano: il Sole, a mezzogiorno, si portava esattamente a perpendicolo sopra la testa degli abitanti del luogo, e quindi lo si poteva vedere, ad esempio, riflesso sul fondo dei pozzi. Egli si chiese per quale motivo quel fenomeno non accadeva anche ad Alessandria, e concluse che ciò doveva dipendere dal fatto che la Terra era sferica. Su una Terra piatta, infatti, i raggi del Sole, arrivando da grande distanza tutti paralleli tra loro, avrebbero dovuto formare sulla superficie terrestre lo stesso angolo. Poiché ciò non avveniva, la Terra doveva essere sferica; anzi egli intuì che proprio dalla differenza dell'inclinazione dei raggi del Sole fra Siene ed Alessandria, si sarebbe potuto risalire al valore del raggio di curvatura della Terra. Misurò quindi l'angolo che i raggi del Sole formavano con la verticale ad Alessandria a mezzogiorno del 21 giugno, quando a Siene cadevano perpendicolari al suolo, e constatò che quell'angolo era un cinquantesimo dell'angolo giro. L'ampiezza di quest'angolo, come è facile dimostrare, corrisponde a quella tra i due raggi che, dal centro della terra, passano per Alessandria e Siene. Ora, se l'angolo fra le due località misurato al centro della Terra è un cinquantesimo dell'angolo giro, anche la distanza fra le stesse due città doveva essere un cinquantesimo di tutta la circonferenza terrestre. La distanza tra le due città era valutata in 5000 stadi; pertanto, moltiplicando 50 per 5000, Eratostene ricavò che la circonferenza terrestre doveva misurare 250 000 stadi. Questo valore, riportato alle unità di misura attuali, corrisponde a 39 675 km: una lunghezza molto prossima a quella misurata attualmente con metodi molto più precisi. Il primo vero astronomo di quel periodo fu però Ipparco
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di Nicea (194-120 a.C.), scopritore anche della precessione degli equinozi. Confrontando le sue osservazioni con quelle dei suoi predecessori, egli scoprì degli spostamenti di lieve entità che potevano essere rilevati solo con osservazioni fatte a distanza di molto tempo le une dalle altre e che espose nella sua celebre opera Spostamenti dei punti dei solstizi e degli equinozi. La precessione degli equinozi è un lento anticipo dell'istante in cui avvengono gli equinozi, pari a circa 50 secondi d'arco l'anno (un periodo di 26 000 anni e di ampiezza di 23°27'), dovuto alla lenta rotazione dell'asse della Terra in senso contrario a quello di rotazione della Terra stessa, generato dall'attrazione combinata del Sole e della Luna. Di notevole importanza anche il suo Nuovo catalogo stellare ove erano catalogate oltre 1 000 stelle, con le coordinate corrette per la precessione e suddivise in sei classi (grandezze) a seconda della loro luminosità. Ipparco fu spinto alla compilazione di questo catalogo dall'apparizione di una “stella nuova” nel 134 a.C.. Le osservazioni astronomiche fatte da Ipparco per determinare l'entità della precessione lo portarono a determinare anche le lievi differenze fra anno siderale (misurato col transito delle stelle al meridiano) ed anno tropico (misurato col passaggio del Sole nel punto equinoziale di primavera). Ad Alessandria, Ipparco di Nicea fissò per la prima volta una suddivisione delle stelle in luminosità, espresse in sei magnitudini (o grandezza). Le stelle più luminose venivano classificate di magnitudine 1, le meno luminose di magnitudine 6. Con il perfezionamento della scala di magnitudini, alcune stelle molto luminose finirono per trovarsi con luminosità superiore a quella necessaria per essere classificate di prima grandezza. A queste stelle vennero assegnati valori di magnitudine zero o anche negativi. Inoltre, misurando con strumenti precisi la luminosità di ogni stella, si è giunti ad attribuire anche valori decimali, come m = 2.8. Per quel che riguarda i pianeti, Ipparco, cercò di determinare, con la maggiore precisione possibile, i loro tempi di rivoluzione, senza peraltro costruire un vero e proprio sistema.
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Negli anni che seguirono la morte di Ipparco non vi è da registrare alcun progresso di una certa rilevanza nelle scienze astronomiche, né nomi di una certa rilevanza. Tutte queste definizioni sono oggi rese più precise. Gli astronomi definiscono “Magnitudine assoluta” M di una stella la sua luminosità intrinseca, e magnitudine apparente m, quella che si misurava otticamente ed oggi si misura con metodi fotografici molto sofisticati. La relazione che lega M ed m è, a parte correzioni dovute ai vari assorbimenti interstellari, di cui qui è inutile parlare: M = m + 5 - 5 log d in cui d è la distanza della stella, ed in generale dell'oggetto (galassia, nube, QSO...), da noi. Per ritrovare un risveglio dell'astronomia bisogna arrivare a Tolomeo (sec. II d.C.). Claudio Tolomeo nacque ad Alessandria d'Egitto e fu l'ultimo rappresentante dell'antica astronomia greca. Visse nel II secolo d.C. e, secondo la tradizione, svolse la sua attività di astronomo nei pressi della sua città natale. Il merito principale di Tolomeo fu quello di aver raccolto tutto lo scibile astronomico, quale era ai suoi tempi, dopo i grandi progressi dovuti ad Ipparco, e, coordinato ed arricchito con le sue esperienze, di averlo esposto nella sua opera principale, l'Almagesto. Il titolo originale di quest'opera, che è rimasta come testo fondamentale astronomico fino a tutto il medio evo, era Al Magistri, che in arabo significa Grande Composizione da cui il titolo a noi conosciuto Almagesto. In esso Tolomeo aveva esposto un sistema del mondo, oggi noto come sistema tolemaico anche se non si trattava completamente di farina del suo sacco, che poneva la Terra al centro dell'universo ed i pianeti, compresi il Sole e la Luna, ruotanti intorno ad essa col sistema degli epicicli e dei deferenti. In questo sistema Tolomeo negava anche la rotazione della Terra intorno al proprio asse, essendo il movimento diurno proprio della sfera celeste. Nell'Almagesto, pri-
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ma di avere a che fare col suddetto sistema, a dimostrare la compiutezza dell'opera, il lettore si viene a trovare davanti a capitoli che trattano di coordinate celesti, di trigonometria piana e sferica, di dimensioni della Terra, di eclissi di Sole e di Luna, di strumenti di osservazione e, a completamento, di un catalogo completo delle posizioni di ben 1022 stelle. L'Almagesto di Tolomeo, come abbiamo già detto, fu considerato per parecchi secoli come “il Libro” dell'astronomia. Questo perché i metodi matematici e geometrici di cui Tolomeo si servì lo fecero preferire alle opere simili di quel tempo. Inoltre, per la sua completezza, ebbe una rapida ed ampia diffusione. L'Almagesto fu tradotto infatti una prima volta in latino da Boezio (traduzione mai giunta a noi). Più importante invece la traduzione in arabo, per ordine del califfo Al Manum nell'827, traduzione che si diffuse in Europa e che fu ritradotta in latino, assai prima che si scoprisse l'originale in greco, a Napoli nel 1230. Per tornare al sistema costruito da Tolomeo ed esposto negli ultimi cinque libri, o capitoli, dell'Almagesto, bisogna riconoscere che si tratta di un sistema piuttosto complicato, che però risponde con una buona approssimazione alle posizioni dedotte col calcolo matematico. Le irregolarità dei moti dei pianeti, del Sole e della Luna erano facilmente spiegabili mettendo la Terra non esattamente al centro delle orbite planetarie, ma leggermente decentrata. Era in tal modo evidente che a questo fatto era possibile anche attribuire la diversa velocità del Sole nel cielo e soprattutto, l'alternarsi delle stagioni. Di questo sistema Dante Alighieri fece l'impalcatura del suo “Paradiso”. Ma non solo. Esso continuò ad essere insegnato nelle scuole del tempo anche dopo le innovazioni di Copernico, Keplero e Galileo fin quasi ai primi del settecento. Con Tolomeo finisce la storia dell'astronomia greca fatta di poche osservazioni, ma arricchita dalla matematica e dalla geometria che assumeranno una sempre maggiore importanza nell'aiutare questa scienza a progredire ed a perfezionarsi.
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9. L'ASTRONOMIA DI ALTRI POPOLI Il centro della ricerca astronomica divenne dapprima Damasco, attorno al V secolo, dove regnavano i califfi Omayyadi, e poi Bagdad, fondata dai califfi Abbasidi, i quali attirarono i maggiori astronomi del tempo e fecero tradurre la Sintassi Astronomica di Tolomeo, che da quel momento si chiamò Almagesto. Nel XIII secolo, re Alfonso X di Castiglia, detto El Sabio, compilò, insieme con numerosi ricercatori, che aveva raccolto intorno alla sua corte, le Tavole Alfonsine, uno studio illustrato del cielo stellato che sarebbe stato uno dei testi più letti in Europa. Fu allora che i lunghi nomi arabi delle stelle furono contratti ed europeizzati in un'unica parola. L'ultimo catalogo stellare elaborato prima dell'invenzione del telescopio fu quello di Tycho Brahe (1546-1601), le Tavole Rudolfine (in onore dell'Imperatore Rodolfo II), di circa 800 stelle; fu redatto tra il 1576 ed il 1579. Ovviamente anche la cristianità ha voluto entrare in tutto ciò cercando di liberare il cielo dagli antichi dei. Julius Schiller presentò, nel 1627, una serie di mappe incise nel Coelum stellatum christianorum. Ad esempio i dodici segni zodiacali erano diventati gli apostoli, Boote si era trasformato in San Silvestro, la Chioma di Berenice nel Flagello di Cristo, la superba Cassiopea in Santa Maria Maddalena, la Nave Argo nell'Arca di Noè, lo sfavillante Orione nell'umile San Giuseppe, il Cancro in San Giovanni Evangelista. Ma la proposta non venne presa in considerazione neanche dai papi e cardinali romani, che continuarono a far affrescare i loro palazzi con le immagini astrali classiche. L'atlante stellare dell'astronomo tedesco Johann Elert Bode (1747 - 1826) fu il primo a rappresentare tutte le stelle visi-
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bili ad occhio nudo, cioè fino alla sesta magnitudine. Egli ne catalogò 17 000. Fu l'ultimo grande atlante classico ed anche quello che segnò la fine delle mappe stellari figurate. L'Unione Astronomica Internazionale ha redatto, nel 1922, l'elenco ufficiale delle 88 costellazioni ed i limiti estensivi di ciascuna, ad opera dell'astronomo belga Eugène Delponte (1882 - 1955), usando come delimitatori gli archi di Meridiani e Paralleli celesti nelle vicinanze di ciascuna costellazione. L'opera fu pubblicata nel 1930 col titolo Délimitation Scientifique des Costellations, ed è oggi il trattato ufficiale sull'argomento.
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10. CONCLUSIONI Tutti i giardini delle delizie dell'antichità originariamente erano governati da deità femminili e, per combattere questo matriarcato quei giardini vennero usurpati dagli dèi solari maschili. Era (Giunone) era la dea del giardino fiorito e Signora del Melograno prima dell'arrivo di Zeus, di cui diventò moglie rassegnata ma non troppo. I miti della caduta, presenti in quasi tutte le storie primordiali, costrinsero l'uomo a disprezzare la donna per tutti i mali derivati da lei ed a pretendere che lavorasse ai suoi ordini, ad escluderla dagli uffici religiosi ed a vietarle di occuparsi di problemi morali. In tutto questo furono aiutati da Esiodo che, nella sua Teogonia ci rappresenta la donna degli umani come una punizione di Zeus. Adamo, nel mito cristiano, è sempre impacciato nel suo ruolo di favorito da Dio, anche dopo la caduta. Diventato il primo patriarca non sa decidere da solo, mentre Eva sembra essere molto più a suo agio nel mistero della nuova realtà. Si accoppia con Samaele (il Serpente), poi se ne va da sola verso occidente fino all'Oceano, dove si costruisce una capanna e solo quando arrivano le doglie per il figlio che ha concepito chiede al Sole e alla Luna di chiamare Adamo perché venga ad aiutarla nel parto. Nasce un bellissimo bambino ed Eva ne riconosce immediatamente l'origine divina. Egli è figlio del drago e lo chiama Caino, che significa “stelo” perché appena nato, il bambino si era alzato in piedi per andare a prendere uno stelo che aveva poi donato ad Eva.
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INTRODUZIONE In questa seconda parte tratteremo delle costellazioni più importanti dal punto di vista del collegamento con i miti. Il modo migliore di cominciare ci è sembrato quello di partire da una costellazione molto nota e facilmente individuabile quale l'Orsa Maggiore, che, oltre ad essere una costellazione circumpolare, cioè una costellazione che alle nostre latitudini non tramonta mai, è anche sede degli allineamenti necessari per raggiungere buona parte delle altre, comprese quelle zodiacali, cioè quelle dodici costellazioni (in realtà ne sono tredici, ma se ne contano solo dodici perché è più facile dividere la fascia zodiacale in dodici parti di 30 gradi di ampiezza) che fanno la parte del leone specialmente in astrologia, che peraltro a noi non interesserà in questo lavoro.
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ORSA MAGGIORE
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L'Orsa Maggiore con più dettagli
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Galassia M51 con una Supernova
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Galassie M81 ed M82
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Galassia M101
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Nebulosa planetaria “Gufo”
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Galassia M108 con Supernova
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Allineamenti stellari dall'Orsa Maggiore
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Rappresentazione di Hevelius
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Costellazione circumpolare, ovvero costellazione che non tramonta mai alle latitudini del Mediterraneo. Le stelle più luminose della costellazione sono: Alfa è Dubhe, il dorso dell'Orsa, ed ha m = 1.8. Beta è Merak, il fianco ha m = 2.4. Gamma è Fegda, la coscia, con m = 2. Delta è Megrez, la radice della coda, con m = 3. La prima stella della coda è la Epsilon, Alioth, il cavallo nero, di m = 2; la seconda è la Zeta, Mizar, stella doppia visuale (stelle che sembrano vicine solo per ragioni prospettiche; le loro distanze da noi sono d = 88 anni luce e d =20 anni luce, quindi non c'è alcun legame gravitazionale) con m = 2.5 e m = 4.5, e la terza è Eta, con m = 1.8, è Benetnasch, ex polare nota anche come Alkaid. La più interessante è Mizar, posta al centro della barra del timone: accanto ad essa si può scorgere una stella di quarta magnitudine, chiamata Alcor, “il piccolo cavaliere”. Stranamente gli antichi non la citano; il primo a ricordarla è il persiano Al-Sufi che, nel 950 d.C. indicò come test di buona acutezza visiva la capacità di vederla. Dubhe è una stella tripla. Mizar forma con Alcor una doppia solo visuale perché le stelle sono lontanissime tra loro, e tra esse non esiste alcun legame fisico. D'altra parte Mizar è anche una stella doppia (circa il 50% delle stelle che possiamo osservare sono doppie o multiple) spettroscopica, nel senso che E. C. Pickering la scoprì “doppia” in seguito all'analisi spettroscopica della struttura della stella nel 1889. In realtà Mizar è un sistema quintuplo di stelle. L'Orsa Maggiore contiene anche parecchie galassie, come la M51, nella quale è stata anche fotografata una supernova.
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L'Orsa Maggiore è definita in tre parti essenziali. Le prime due formano il Grande Carro, a sua volta formato dal timone, quattro stelle disposte a quadrilatero, e dalla barra del timone, costituito da altre tre stelle ad arco. La terza è formata da numerose altre stelle meno luminose, molte delle quali non sono visibili ad occhio nudo. Le sette stelle più luminose dell'Orsa Maggiore, che formano il “Grande Carro”, sono il punto di riferimento obbligato in tutti gli allineamenti stellari sulla sfera celeste, almeno per quanto riguarda le latitudini nord. La costellazione fu introdotta da Talete, che le dette il nome di “Grande Carro” perché, avendola conosciuta quando era in Mesopotamia, ne riportò il nome babilonese. Le mitologie, ovviamente, fanno riferimento a stelle note nell'antichità, quando non vi erano ausili tecnologici; d'altra parte la mancanza dell'inquinamento atmosferico permetteva, molto meglio di oggi, di osservare il cielo notturno ed anche di distinguere i colori delle stelle, tanto che l'antica classificazione stellare basata sul colore è quasi equivalente a quella odierna, basata sulle temperature superficiali, misurate con tecniche estremamente sofisticate. Dall' Orsa Maggiore derivano i vocaboli “Artico” (dal greco Arctos, cioè Orso) e “Settentrione” (dal latino Septem Triones, cioè i Sette Buoi, che formano il Grande Carro). Nella Grecia arcaica queste stelle erano associate alla “Ruota di Issione”, che simboleggiava il movimento circolare delle stelle intorno al polo. Issione fu condannato da Zeus a restare legato ad una ruota che girava incessantemente, come punizione dei suoi reiterati tradimenti, terrestri e celesti. Issione, figlio di Flegia, era re della Tessaglia e regnava sui Lapiti. Sposò Dia, figlia del re Deioneo. Quando chiese la giovane in moglie, fece a Deioneo grandi promesse, ma allorché
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quest'ultimo, dopo il matrimonio, gli richiese i regali pattuiti, Issione lo fece precipitare a tradimento in una fossa piena di carboni ardenti. Si rese così colpevole di spergiuro e di omicidio ai danni di un membro della sua famiglia, ciò che nessuno prima di lui aveva osato commettere. L'orrore suscitato da questo delitto fu tale che nessuno acconsentì a purificare Issione, conformemente all'usanza. Soltanto Zeus, che si comportava altrettanto male quando voleva giacersi con una donna, ebbe pietà di lui e lo purificò, liberandolo così dalla follia che lo aveva colpito in seguito al suo crimine. Issione però mostrò un'estrema ingratitudine nei riguardi del suo benefattore: osò tentare violenza sessuale verso Era, moglie di Zeus. Zeus, allora, modellò una nuvola che rassomigliava alla dea ed Issione si unì a questo fantasma con cui generò un figlio, Centauro, padre dei Centauri. Davanti a questo nuovo sacrilegio, Zeus decise di punire Issione. Lo legò ad una ruota infuocata, che girava incessantemente e lo lanciò in tal modo attraverso il cielo. Ma, poiché quando lo aveva purificato, Zeus gli aveva fatto assaggiare l'ambrosia che rende immortali, Issione dovette subire il castigo senza la speranza che un giorno finisse. I miti greci successivi sull'Orsa Maggiore si presentano in due forme principali, ognuna delle quali ha diverse versioni. Una ci è tramandata da Ovidio nelle Metamorfosi. Ovidio racconta che Callisto, figlia di Licaone, re di Arcadia, faceva parte della scorta di Artemide, di cui divenne la favorita. Artemide le chiese di fare voto di castità. Zeus, che aveva notato Callisto fra tutte, se ne innamorò, ma non potendo esternare direttamente il suo sentimento, prese le sembianze di Artemide, avvicinò Callisto e la sedusse. Quando Artemide si accorse che Callisto aspettava un figlio per opera di Zeus, la cacciò dalla sua corte per cui la giovane fu costretta a vagare per i boschi dove partorì il figlio al quale dette il nome di Arturo. Era, la sposa di Zeus, infuriata per l'accaduto, condannò
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Callisto ad essere trasformata in un'orsa. Arturo, spaventato da quell'orsa, fuggì via e venne allevato da una famiglia di cacciatori; crescendo divenne un giovane tanto bello quanto abile nella caccia. Un giorno, durante una battuta di caccia, mentre si preparava a scoccare dal suo arco il dardo per colpire un'orsa, la bestia alzò lo sguardo verso l'arciere ed incontrò i suoi occhi; Arturo fu colto da un indugio avvertendo un fluido amoroso intercorrere fra lui e l'orsa Callisto. Zeus, dall'Olimpo, notò quegli sguardi che si cercavano, fermò la mano del giovane prima che commettesse un matricidio e trasportò i due in cielo. Da allora, Arturo (nella costellazione di Boote) e l'Orsa (Maggiore) si contemplano eternamente e ruotano insieme intorno alla stella Polare. Ma l'ira di Era non si era placata e nel vedere Callisto piantata in cielo come costellazione, non potendo opporsi completamente al volere del suo consorte, la condannò a non potersi mai bagnare nelle acque del mare dell'emisfero boreale. Infatti l'Orsa Maggiore non scende mai sotto l'orizzonte nel nostro emisfero. Così Ovidio racconta la storia: (Zeus è Giove nella lingua Latina, Era è Giunone, figlia di Saturno (Crono) e quindi Saturnia, ed Artemide è Diana, sorella di Apollo (Ermes), chiamata anche Cinzia, perché nata sulle pendici del monte Cinzio, dell'isola di Delo, mentre la vergine di Nonacre è Callisto ed Arcade è Arturo). « E mentre [Zeus] va e viene di continuo, è colpito da una vergine di Nonacre e la passione che concepisce gli divampa in petto [...]. Alto era il sole, ormai giunto oltre la metà del suo cammino, quando lei entrò in un bosco inviolato dal tempo dei tempi: qui dalla sua spalla depone la faretra, allenta la tensione dell'arco, e si sdraia sul tappeto erboso del suolo, appoggiando il capo reclinato sulla faretra dipinta. Come Giove la vide così stanca e indifesa, si disse: Di questa tresca certo mia moglie non saprà nulla, ed anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba!”. Subito assunse l'aspetto e il portamento di Diana, dicendo: “O vergine che compagna mi sei fra le compagne, su quali monti hai cacciato?”. Dal prato balza la fanciulla e:
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“Benvenuta, dea,” risponde, “che, anche se mi sente, per me sei più grande di Giove!”. Sorride lui, divertito nel sentirsi preferito a se stesso, e la bacia con impeto sulla bocca, con troppo impeto, come non s'addice a una vergine. E mentre lei si accinge a raccontare in quale bosco ha cacciato, la cinge in un amplesso e nel violarla si rivela. Lei si ribella, sì, per quanto almeno può fare una donna (o se tu l'avessi vista, Saturnia, saresti più comprensiva!); si ribella, sì, ma quale fanciulla o chi altro mai potrebbe vincere il sommo Giove? In cielo ritorna vincitore Giove, mentre lei ora odia quei boschi e quegli alberi che sanno; e fuggendo di lì quasi si scorda di raccogliere la faretra con le sue frecce e l'arco appeso a un ramo. Ed ecco che mentre, fiera della selvaggina uccisa, s'inoltra col suo séguito fra i gorghi del Mènalo, la dea di Ditte la scorge e, riconoscendola, la chiama. Quella al suo nome fugge, temendo sul momento che in lei si nasconda Giove; ma poi, quando vede che al suo fianco compaiono le ninfe, si rende conto che non c'è inganno e si unisce a loro […]. Per il nono mese rinasceva in cielo la falce della Luna, quando a caccia la dea, spossata dalla vampa del fratello, trovò un bosco freschissimo, dal quale mormorando, fra granelli di sabbia impazziti, zampillava a valle un ruscello. Il posto le piacque, e con la punta del piede saggiò l'acqua; anche questa le piacque e allora disse: “Qui non ci vede nessuno: immergiamoci nude in queste limpide correnti”. La fanciulla di Parrasia arrossì. Tutte si tolgono le vesti: lei sola prende tempo, ma mentre indugia viene spogliata e, quando è nuda, il suo corpo mette in luce la colpa. Smarrita lei si affanna a nascondere il ventre con le mani: “Via di qui!” le grida Cinzia; “non profanare questa fonte sacra!” e le impone di abbandonare il suo sèguito. Da tempo la moglie del gran Tonante era al corrente della cosa, ma aveva rimandato di trarne vendetta alla giusta occasione. Ormai non c'era più motivo d'attendere: alla rivale (altro colpo inferto a Giunone) è già nato un bambino: Àrcade. Appena a ciò volse, puntando gli occhi, il cuore esasperato: “Mancava solo questo, svergognata,” si sfogò, “che tu restassi incinta, che partorendo rendessi nota a tutti l'offesa e testimoniassi l'indegna azione del mio Giove! Non potrai sfuggirmi: ti toglierò questa figura di cui tanto ti compiaci, sfacciata, e per la quale piaci a mio marito!”. Disse e, affrontandola, l'afferrò davanti per i capelli e la gettò bocconi a terra. Lei tendeva le braccia implorando: ma ecco che pian piano
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le braccia si coprono di peli neri; le mani si curvano e, crescendo in artigli adunchi, fungono da piedi; il viso, che aveva un tempo incantato Giove, si deforma in fauci mostruose. E perché non piegasse nessuno con suppliche e preghiere, le è tolto l'uso della parola: dalla sua gola rauca esce solo un ringhio di rabbia minacciosa, che incute paura […]. Ed ecco apparire, sul punto di compiere quindici anni, Arcade, nipote di Licaone, che nulla sapeva della madre. Mentre insegue la selvaggina, sceglie gli anfratti più adatti e circonda con maglie di rete i boschi dell'Erimanto, s'imbatte in sua madre. Quando lo vede, lei s'arresta come se lo riconoscesse; ma Arcade, all'oscuro di tutto, di fronte a quegli occhi che immobili lo fissavano senza sosta, s'impaurisce ed arretra; quando poi lei accenna ad avvicinarsi, è lì per trafiggerle il petto con un dardo micidiale. Ma l'Onnipotente l'impedì: rimovendoli entrambi, rimosse il delitto, e sollevatili in aria con un turbine di vento, li pose in cielo facendone due costellazioni contigue. Scoppiò d'ira Giunone, quando la rivale sfavillò nel firmamento, e discesa nel mare, s'accostò all'argentea Teti e al vecchio Oceano, che incutevano rispetto a tutti gli dei, e quando le chiesero ragione della visita: “Vi domandate perché io, regina degli dei,” sbottò, “dalle sedi celesti qui venga? Un'altra sta in cielo al posto mio! Che io menta, se voi, quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete, a mia offesa, stelle appena assunte agli onori del cielo, nel punto più alto, là, dove l'ultimo cerchio, il più breve, circonda l'estremità dell'asse celeste. E chi vi sarà mai che si trattenga dall'offendere Giunone e tremi d'averla offesa, se premio, io sola, chi vorrei punire? Oh che gran cosa ho fatto! Che straordinaria autorità è la mia! Non la volevo più donna: è diventata una dea! Così io infliggo ai colpevoli le pene, così immenso è il potere mio! […] Ma voi, se avvertite l'affronto subito da chi avete allevato, respingete dai vostri gorghi azzurri le sette stelle dell'Orsa, bandite una costellazione accolta in cielo a prezzo di uno stupro, così che un'adultera non s'immerga in acque pure!” Gli dei del mare acconsentirono. »
(Metamorfosi. II. vv. 417-531) Secondo un'altra versione, Callisto, inseguita dal figlio ignaro, si sarebbe rifugiata nel tempio di Zeus e, siccome l'accesso ad esso era vietato a chiunque, pena la morte, Zeus stes-
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so li afferrò e li portò in cielo per evitare loro la punizione. Un'altra versione ancora racconta che sarebbe stato Zeus a mutare Callisto in orsa, per farla sfuggire alla moglie gelosa, anche se quest'ultima la riconobbe e la fece uccidere da Artemide, convincendola che si trattava di un comune animale selvaggio. L'addolorato Zeus quindi collocò in cielo la sua immagine come la costellazione dell'Orsa Maggiore. Arturo, il figlio, conosciuta la vicenda e straziato dal dolore, chiese a Zeus di essere trasferito anch'egli sulla sfera celeste per stare insieme a sua madre. Zeus, commosso da un così grande amore di figlio, lo accontentò e lo trasformò nella stella Arturo della costellazione di Boote. La seconda interpretazione ci è stata tramandata da Arato: l'Orsa Maggiore rappresenterebbe Adrastea, che insieme ad Ida (l'Orsa Minore) furono le nutrici di Zeus. Circolava la profezia che Crono, il più potente dio di allora, marito di Rea, avrebbe perso il suo trono per mano di suo figlio. Perciò lo stesso Crono ingoiava tutti i suoi figli appena nati, per paura che la profezia si avverasse. Rea, sul punto di dare alla luce Zeus, si nascose e diede al marito una pietra avvolta nelle fasce. Poi lo nascose in una grotta del monte Ditte a Creta, affidandolo, assieme al suo fratello di latte Pan, alle cure di Adrastea, Ida (note anche come Elice e Cinosura) ed Amaltea, la capretta che lo allattava. Di guardia alla grotta erano i Cureti, pronti a far baccano con spade e scudi per coprire il pianto del bambino. Zeus crebbe, e Crono, quando capì che era vivo, si mise alla sua caccia. Zeus, per salvarsi, trasformò se stesso in serpente (la costellazione del Drago) e le sue nutrici nelle Orse (v. anche Prima Parte). In ogni caso, alla fine Zeus rovesciò Crono e lo costrinse a rigurgitare i bambini che aveva inghiottito. Questi bimbi divennero i condottieri dei giovani dèi che, in una guerra durata dieci anni abbatterono la supremazia dei Titani ed assunsero il dominio del mondo. Alla fine della guerra, Zeus (v. Prima Parte), in segno di riconoscenza, pose le sue nutrici in cielo, Adrastea come Orsa Maggiore ed Ida come Orsa Minore.
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Un piccolo mistero sono le dimensioni delle code, di solito corte in un orso. Thomas Hood, astronomo inglese della fine del cinquecento, non trovando altra giustificazione, suggerì che Zeus, nel lanciare le orse in cielo le prese per la coda, che per lo strattone si allungarono. Le stelle dell'Orsa sono state associate col Carro di vari eroi leggendari e divinità. Per i Gallesi si tratta del carro di re Artù, per i Germani, del dio Thor, per i vichinghi di Odino. Gli americani vi riconoscono un mestolo e gli inglesi un aratro. Anche i popoli indiani degli USA avevano leggende su queste stelle: per i Navahos l'Orsa era il Primo uomo, o il Freddo uomo del Nord e Cassiopea la Prima donna. Si trovano l'uno di fronte all'altra con al centro il Fuoco del focolare: la Stella Polare. Essi mai si allontanano da questa parte del cielo e nessuna costellazione si avvicina per interferire nella loro vita quotidiana. Questa sistemazione delle costellazioni stabilisce una legge che dura fino ai giorni nostri: “Solo una coppia può vivere nella stessa tenda”. Una storia di diverso sapore, ma non meno carica di fantasia e di fascino, lega la mitologia del popolo degli Irochesi (indiani del Nord America) alle sette stelle dell'Orsa Maggiore: quattro di esse, quelle del carro, rappresentano una grande orsa mentre le altre tre, quelle del timone, sono tre coraggiosi cacciatori che la inseguono su per le montagne. Il più vicino all'animale è l'arciere, il secondo trasporta sulle spalle una grossa pentola (Mizar e la compagna Alcor) il terzo è più arretrato perché si sofferma a raccogliere la legna per il fuoco. In primavera, a sera non inoltrata, guardando verso est, si vedono i tre cacciatori che inseguono l'orsa che fugge verso le montagne e, quando arriva la calda estate, la caccia continua sulla cima delle montagne dove la temperatura è più fresca infatti le sette stelle sono alte nel cielo. Alla fine dell'estate, sul far dell'autunno, i tre cacciatori fi-
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nalmente trovano il momento propizio per sorprendere ed uccidere l'orsa: si appostano ai piedi della montagna e l'arciere scocca la freccia e ferisce l'animale. La ferita è grande e la poveretta perde molto sangue che cola sulle foglie degli alberi tingendole di rosso. Giunge il freddo e l'orsa e i suoi inseguitori si rifugiano nelle caverne per trascorrere l'inverno: le sette stelle sono basse sull'orizzonte. Alla fine dell'inverno, quando torna la primavera, l'orsa si sveglia dal letargo che ha favorito il rimarginarsi della ferita mentre i tre cacciatori hanno avuto il tempo di riprendersi dalla umiliazione di aver soltanto ferito l'animale. L'orsa esce dalla tana per riprendere la sua vita ed i tre cacciatori tornano ad inseguirla. Gli indiani Shoshoni tramandano invece una leggenda che ha come protagonista un grizzly. Il grande orso un giorno salì un'alta montagna per andare a caccia nel cielo. Mentre ascendeva la vetta, la neve si attaccò al pelo delle zampe: quando cominciò ad attraversare la volta celeste, i cristalli si staccarono poco alla volta dando origine alla Via Lattea. Gli Egiziani vi vedevano un ippopotamo, che rappresentava Horus, ma anche l'imbarcazione che portava il dio Osiride sul Nilo. In un'altra rappresentazione egizia, l'Orsa Maggiore è una zampa di toro (C. Gallo: L'Astronomia Egizia). Nello zodiaco egiziano, inciso nella pietra e scoperto nel tempio di Iside a Dendera, il Grande Carro simboleggiava il Dio Seth. Anche il Giappone ha una leggenda connessa all'Orsa Maggiore. Sull'isola di Hokkaido vivono gli Ainu. Fra questa etnia era diffuso il culto dell'orso, considerato il dio dei monti Kim Un Kamui. Un antico rituale prevedeva il sacrificio dell'animale affin-
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ché il suo spirito fosse liberato dal corpo per salire in cielo, in qualità di messaggero celeste e ambasciatore degli Ainu. I popoli dei deserti mediorientali adombrarono nelle quattro stelle, che formano i vertici del Grande Carro, la “Grande Bara” (la “Piccola Bara” era l'Orsa Minore), seguita dalle tre stelle successive del timone, le quali, per completare la scena funebre, diventavano le “lamentatici” ossia le donne prezzolate con l'incarico di spargere lacrime e lamenti dietro il feretro. In realtà, l'Orsa Maggiore era già conosciuta dall'uomo dell'età neolitica, poiché ne sono stati trovati disegni su conchiglie e ricci marini fossili. I fenici chiamavano Dubé questa costellazione, e Dubhe fu chiamata dagli arabi la sua stella più luminosa. I Sumeri la chiamavano “il lungo carro”, o vi scorgevano scorgeva un aratro. Per i Celti rappresentava un cinghiale, riprodotto anche sul dorso delle loro monete. Anche gli Eschimesi della Groenlandia hanno un mito collegato all'Orsa Maggiore. Una volta, il figlio di un'eschimese morì lasciando la madre nella disperazione più profonda. Quando non riuscì più a sopportare il dolore, la donna scappò dal suo villaggio. Presto raggiunse una casa che aveva pelli d'orso appese nell'atrio. La madre entrò e scoprì che gli abitanti della casa erano in realtà orsi sotto forma umana. Malgrado questo la donna si fermò presso di loro per un certo tempo. Dopo un po', la donna cominciò a sentire nostalgia di casa e disse alla grande orsa che avrebbe voluto tornare tra la sua gente. La grande orsa, temendo che gli uomini sarebbero venuti ad uccidere lei ed i suoi cuccioli, le chiese di non parlare a nessuno di loro. Quando la donna ritornò al suo villaggio, aveva una gran voglia di raccontare cosa aveva visto e dove era stata. Resistet-
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te più che poté, ma alla fine il desiderio di parlare ebbe il sopravvento, e disse a suo marito degli orsi. Non aveva ancora finito di parlare, che l'uomo chiamò a raccolta i compaesani e con loro uscì per uccidere gli orsi. L'orsa li vide arrivare, e riuscì ad eluderli abbastanza a lungo per trovare la casa della donna ed ucciderla, ma i cani si accorsero dell'orsa e la circondarono. Improvvisamente tutti i cani e l'orsa cominciarono a brillare ed a salire in cielo. Così nacque Qilugtussat, la costellazione che somiglia ad un branco di cani che tengono a bada un orso. Un mito azteco racconta che Quetzalcoatl era gentile e generoso, ma suo fratello Tezcatlipoca era uno stregone attaccabrighe che provocava ogni sorta di guai al genere umano. Spesso prendeva l'aspetto di un giaguaro, e sotto questa forma una volta i suoi nemici gli lanciarono contro una porta ed egli perse una gamba. Da quel momento fu obbligato a camminare con un bastone. Una volta egli cercò di distruggere le buone azioni di Quetzacoatl e ciò fece arrabbiare moltissimo il fratello, che lo trasformò prima in un giaguaro e poi in un burattino, finché lo collocò in cielo, dove non avrebbe più potuto far male a nessuno. (Stelle).
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ORSA MINORE
L'Orsa Minore si raggiunge dall'Orsa Maggiore
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L'Orsa Minore e la Stella Polare
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Precessione degli Equinozi
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Cerchio della Precessione degli Equinozi
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La Polare in una nota foto
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Hevelius
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Anche l'Orsa Minore è una costellazione circumpolare. Sono stati i Fenici i primi a notare l'immobilità della Polare, che è la Alfa, chiamata Al Gady (il capro) ed ha m = 2.1. La stella Kochab, la Beta, con m = 2, è detta “Stella del nord” perché è stata l'ultima polare precedente l'attuale, attorno al 1200 a.C. Gli astronomi arabi la chiamano Kochab, cioè “piolo del mulino”, e chiamano Fas arrahha”, “foro del piolo del mulino” le stelle dell'Orsa Minore che circondano il Polo Nord, perché rappresentano come un foro in cui gira l'asse del mulino, dal momento che l'asse dell'equatore si trova in quella zona (Sant.). A causa della precessione degli equinozi, nel 2102 la distanza tra la stella polare ed il polo nord celeste sarà al minimo. Da lì in avanti la distanza andrà aumentando. La prossima polare sarà Aldebaran, attorno all'anno 7000, poi sarà il turno di Deneb, attorno al 10000, e quindi di Vega nel 14000, come è possibile vedere nelle foto precedenti. La Polare è una variabile che oscilla di poco intorno alla magnitudine 2 ( D m = 0.2m) con un periodo di circa 4 giorni. Inoltre, le variazioni nella velocità radiale indicano la presenza di una terza stella invisibile, che ruota attorno alla Polare con un periodo di 30,5 anni. È da notare che l'altezza della Polare sull'orizzonte è uguale alla latitudine del luogo da cui la si osserva. Il filosofo Talete, attorno al 600 a.C., parlò per primo dell'Orsa Minore, introducendo questa figura nel mondo occidentale dal vicino oriente. Nell'antichità, il mito dell'Orsa minore era quasi sempre legato a quello dell'Orsa Maggiore.
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Callisto, figlia di Licaone, re dell'Arcadia, colpì Zeus per la sua bellezza. Zeus stesso l'aveva resa incinta di Arcade. Era, gelosa moglie di Zeus, decise di tramutarla in orsa. Ma un giorno il figlio di Callisto, Arcade (o Arktos, rappresentato dalla stella Arturo, nella costellazione Boote), durante una battuta di caccia, s'imbatté nella madre, trasformata in orsa, e, non riconoscendola, la colpì a morte. Fu grazie all'intervento di Zeus che anche Arcade fu trasformato in costellazione: l'Orsa Minore o, per altri mitografi, Boote (v. peraltro Orsa Maggiore). Pietro Apiano (1495-1552) attribuì alle stelle dell'Orsa Minore una rilevanza mitologica separata dall'Orsa Maggiore, vedendovi nelle sue stelle principali le Esperidi, ninfe figlie di Atlante e di sua nipote Espero: Egle, Espera, Aretusa, Estia, Eritea, Esperusa ed Esperia. Esse rappresentavano le onde dell'oceano o i colori del tramonto. In un meraviglioso giardino all'estremo occidente del mondo, sul monte Atlante, esse curavano l'albero delle mele d'oro, donato ad Era dalla dea Gea per le sue regali nozze con il supremo Zeus. Il re d'Egitto, Busiride, loro vicino, aveva mandato briganti a razziare il loro gregge ed a rapire le giovani. Allorché Eracle giunse nel paese, uccise i briganti, sottrasse loro il bottino, liberò le Esperidi e le restituì ad Atlante. Questi, come ricompensa, consegnò all'eroe i pomi d'oro che era venuto a cercare (v. Eracle). Ed inoltre gli insegnò l'astronomia, giacché Atlante è considerato il primo astronomo. Secondo un'altra leggenda greca, l'Orsa Minore sarebbe il cane di Boote, e per questa ragione la stella polare ebbe il nome di Cinosura, “coda del cane”. La mitologia classica identifica anche la ninfa Ida con l'Orsa Minore ed Adrastea con la Maggiore. (v. Orsa Maggiore). I pellirosse, invece, narrano di un gruppo di guerrieri che
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si erano smarriti nella foresta e stavano per perdere le speranze di ritrovare l'accampamento quando comparve una fanciulla che indicò loro la costellazione dell'Orsa Minore e raccomandandosi di seguire la direzione della stella polare; difatti, orientandosi secondo quella stella, riuscirono a ritrovare la via del ritorno. Meno felicemente, la mitologia araba vede nell'Orsa Minore una piccola bara e nella stella polare un assassino condannato all'immobilità per scontare i suoi delitti, specialmente quello compiuto contro un nobile guerriero che poi fu sepolto nella grande bara rappresentata dall'Orsa Maggiore. I cinesi ravvisavano nelle stelle della costellazione la dea Tou Mu, protettrice dei naviganti. I mongoli chiamarono l'Orsa Minore “la costellazione della calamita” avendo scoperto che l'ago della bussola si orientava sempre verso quella direzione. Gli antichi egizi videro, invece, in quelle stelle uno sciacallo. I vichinghi furono i primi a vedere nelle stelle dell'Orsa Minore un piccolo carro.
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ORIONE
Orione
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Orione con maggiori dettagli
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Nebulosa Testa di Cavallo
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Nebulosa di Orione
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Nebulose NGC2024 e IC434
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Nebulosa di Orione in altre frequenze
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Nebulosa “L'uomo che corre”
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Questa è una notissima costellazione invernale. Anche le sue stelle sono molto note. Alfa è Betelgeuse, la “spalla orientale del gigante”; è una stella a luminosità variabile con m = 1 e variabilità D m = 0.3 in poco più di cinque anni. Non è la stella più luminosa della costellazione, che è la Beta, cioè Rigel. Vicina a Betelgeuse, c'è Bellatrix, la “spalla occidentale”, nota anche come “stella dell'amazzone”, che ha m = 1.6. Le stelle ai vertici del lato opposto del quadrilatero sono Rigel che, con m = 0.1, è la sesta stella tra le più splendenti del firmamento e la quarta del cielo boreale; in ogni caso è, come già detto, la più luminosa della costellazione ed è Beta, il “ginocchio occidentale”: è una stella doppia. L'altro ginocchio è Saiph, con m = 2.2. Le stelle della cintura sono, da oriente, Alnitak (m = 1.8), Alnilam (m = 1.7) e Mintaka (m = 2.2). Studiando lo spettro di Mintaka, nel 1904 l'astronomo Hartmann, rilevò la presenza di righe di assorbimento e le giustificò ritenendo che la luce emessa dalle stelle attraversasse, prima di raggiungere la terra, considerevoli masse di materia interstellare diffusa. Betelgeuse, con Sirio del Cane Maggiore e Procione del Cane Minore, forma il “Triangolo Invernale”. La Grande Nebulosa di Orione è uno degli oggetti più famosi del cielo. È una gigantesca nube di idrogeno, con qualche impurità dovuta ad elio, carbonio ed altri pochi elementi, ed è visibile anche ad occhio nudo. Al suo interno sono visibili, con il telescopio, numerose stelle in formazione, circondate da dischi di materia da cui potranno anche svilupparsi sistemi planetari. Nella mitologia greca vi sono parecchie storie collegate a questa costellazione.
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Orione era un cacciatore, figlio di Euriale e di Poseidone (oppure, come vedremo, di Irieo). Sposò dapprima Side, donna così bella e fiera della propria bellezza che osò rivaleggiare con Era, che per punizione la fece precipitare nel Tartaro. Allora Orione si recò a Chio, dove si innamorò di Merope, la figlia del re Enoprione, che non lo volle come genero. Infine fu Eos che si innamorò di lui, lo rapi e lo trasportò a Delo e lo amò da Dea. Una versione del mito narra che Orione si era innamorato delle Pleiadi, le bellissime sette sorelle e le amava intensamente tutte, contemporaneamente e le inseguiva senza sosta tanto che esse furono costrette a rivolgersi a Zeus, che le sottrasse all'attenzione del cacciatore portandole in cielo. Orione, allora, per sfogare la sua collera, prese a cacciare ogni animale presente sulla terra, anche quelli prediletti da Artemide, la dea dalla caccia: ella, indignata, creò allora lo scorpione e lo mandò contro Orione. Questi, viste le piccole dimensioni dell'animale, non considerò la pericolosità dell'attacco, e quindi fu punto mortalmente. Come esempio per gli uomini, i due protagonisti della storia furono portati in cielo ed Orione si trovò, dunque, di nuovo ad insidiare le Pleiadi. Queste si lamentarono nuovamente con Zeus della cosa poco piacevole. Zeus, allora, mise le sette fanciulle sotto la protezione di un possente Toro (v. Toro). Affinché Orione fosse ricordato, non certo per l'innata crudele violenza ma per l'impareggiabile bravura di cacciatore, lo trasformò nella bellissima costellazione che ne porta il nome, non dimenticando di porre anche in cielo i due cani, Sirio e Procione, nelle costellazioni del Cane Maggiore e del Cane Minore, che in vita gli furono fedeli compagni. Un altro mito racconta di un vecchio contadino tebano, Irieo, vedovo e senza figli, che aveva il culto dell'ospitalità. Zeus, Ermes e Poseidone, scesi dall'Olimpo per indagare sulle vicende umane, giunsero a Tebe. Qui come fuggiaschi stranie-
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ri attraversarono la campagna di Irieo, che incontrarono mentre il vecchio era intento ai lavori dei campi. Accolti amorevolmente come ospiti, Irieo onorò la loro presenza con cortesia, lealtà e generosità: uccise l'unico bue che gli era rimasto e preparò un pranzo “regale”. Soddisfatti dell'accoglienza, i divini ospiti domandarono al vecchio che cosa desiderasse dalla vita. Irieo rispose che il suo più grande desiderio era quello di avere un figlio, senza però dover prendere moglie, perché era ormai divenuto impotente. Gli dèi invitarono allora a portar loro la pelle del bue che avevano mangiato, la fecondarono con le loro urine e ordinarono di sotterrarla e di tirarla fuori dopo nove mesi. Grazie a Gea e all'urina nacque un bambino bellissimo che Irieo chiamò Urione, in ricordo della sua origine: col tempo la “U” di Urione si è trasformata in “O”, cioè Orione. Orione è quindi anche figlio di tre dèi e della Madre Terra. In un'altra leggenda si racconta che Orione era figlio di Poseidone e di Euriale, figlia del re Minosse di Creta, avvenente fanciulla cretese sedotta dallo stesso dio. Orione, in seguito, si recò all'isola di Chio, il cui re Enoprione, figlio di Dioniso, gli dette il compito di uccidere le belve che devastavano le terre del suo reame, divoravano uomini e greggi e distruggevano villaggi, promettendogli in cambio la mano di sua figlia Merope. Egli eseguì il suo compito, donando ogni sera alla figlia di Enoprione le pelli degli animali uccisi. Quando ebbe terminato la sua fatica, reclamò Merope in moglie, ma Enoprione rifiutò dicendo che belve erano state viste ancora vagare sulle colline: in realtà non voleva dargliela perché era anch'egli innamorato della figlia. Invitato a partecipare ad un banchetto a corte, Orione, pur non avido di vino, si ubriacò e violentò Merope. Enoprione, senza curarsi dell'ira che avrebbe potuto scatenare negli dèi, invocò suo padre Dioniso che incaricò i Satiri di offrire altro vino ad Orione, finché il giovane cadde addormentato. Allora Enoprione lo fece accecare e lo gettò sulla riva del mare, disattendendo al sacro concetto dell'ospitalità.
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Orione, disperato, si recò a Lemno nelle officine di Efesto, che gli assegnò una guida, Cedalione, un nano che Orione si portò sulle spalle perché lo conducesse ai confini del mondo, nell'isola dove dimorava Helios, il solo che potesse rendergli la vista. Helios non soltanto guarì il giovane, ma affascinato dalla sua bellezza, se ne innamorò; e così accadde anche per Eos, sorella di Helios, che sedusse Orione, lo rapì e lo condusse a Delo. Dopo aver visitato Delo in compagnia di Eos, Orione ritornò a Chio per vendicarsi di Enoprione, ma non riuscì a trovarlo sull'isola, perché egli si era nascosto in una caverna sotterranea preparata per lui da Efesto. Salpato per Creta, dove pensava che Enoprione si fosse rifugiato per invocare l'aiuto del nonno Minosse, Orione si imbatté in Artemide, che nutriva come lui una grande passione per la caccia. La dea lo indusse a rinunciare ai suoi propositi di vendetta ed a recarsi a cacciare in sua compagnia. Ma Apollo, fratello di Artemide, geloso della sorella che trascurava persino il compito di illuminare il cielo notturno, e sapendo che Orione non aveva rifiutato di giacersi con Eos nell'isola sacra di Delo, si recò da Artemide e la indusse a scatenare contro di lui la furia di un velenosissimo scorpione. Orione si difese dapprima con le frecce, poi con la spada, ma, resosi conto che lo scorpione era invulnerabile, si tuffò in mare e nuotò verso Delo, dove sperava che Eos l'avrebbe aiutato e protetto. Apollo allora sfidò Artemide chiedendole di colpire con la freccia quello che sembrava un piccolo punto fra le onde. Artemide accettò la sfida e colpì il bersaglio, ma solo più tardi scoprì di aver ucciso il suo amato Orione. Invocò Asclepio, figlio di Apollo, perché ridonasse la vita al giovane. Ma Asclepio morì prima che si potesse mettere all'opera. Zeus, impietosito, trasformò Orione in costellazione, ponendolo in cielo insieme ai suoi cani Sirio e Procione (v. Cane Maggiore e Cane Minore) ed eternamente inseguito dallo Scorpione (v. Scorpione); la sua ombra discese nel Giardino degli Asfodeli. (Miti, Agizza).
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Per gli Egizi, la costellazione era chiamata Sahu, ed era ritenuta l'incarnazione di Osiride, il dio dell'oltretomba, ed in particolare “l'anima di Osiride”, la principale divinità maschile: sembra che le piramidi della piana di Giza, risalenti alla IV dinastia, abbiano, rispetto al Nilo, la medesima posizione delle stelle della cintura della costellazione rispetto alla Via Lattea. Nel soffitto della tomba di Senmut, Orione e Sirio sono raffigurati sulla loro barca. Di Orione sono riprodotte le tre stelle della cintura ed accanto a loro una figura tondeggiante che è identificabile con la nebulosa. Orione è anche rappresentato, sui coperchi di alcuni sarcofagi, come un dio che ha uno scettro nella mano sinistra ed una croce ansata, simbolo della vita, nella mano destra (C. Galli: L'astronomia egizia). È notevole la particolare disposizione delle tre piramidi principali. Le due più grandi, quella di Cheope e quella di Chefren, sono perfettamente allineate tra loro. Diversamente, la piramide di Micerino è spostata rispetto alle altre due, oltre ad essere la più piccola delle tre. Se ora si osserva la costellazione di Orione, si nota che le tre stelle della cintura sono disposte esattamente come le tre piramidi di Giza, compreso il fatto che la terza stella, Mintaka, ha una luminosità minore rispetto alle altre due. Dunque la piana di Giza potrebbe essere la riproduzione di quella regione celeste, compresa la Via Lattea, rappresentata dal Nilo. Il dio egizio Osiride governava due regni: quello del cielo e quello dell'oltretomba, e nelle bende che avvolgevano la mummia indossava la bianca corona d'Egitto, che è, in pratica, quasi la costellazione che noi chiamiamo Toro. Sotto la costellazione di Orione c'è la costellazione del trono di Osiride. La leggenda di Osiride, il sovrano del regno dei morti e compagno di Iside, nasce con Thot, che introdusse tutte le arti e le scienze in Egitto, compresa l'Astronomia e l'arte dei geroglifici. In seguito il faraone diventerà una incarnazione del dio e, dopo la sua morte, l'anima di Osiride.
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Osiride era un mitico re, dio degli abitatori del Nilo. Sovrano benefico, indusse i suoi selvaggi sudditi a vivere in pace, ad abbandonare l'avventurosa vita nomade, a non sbranarsi a vicenda. Insegnò loro a coltivare la vite ed ad ottenere il vino, a coltivare l'orzo ed ad ottenere la birra. Iside, sua sorella e sua sposa, guariva le malattie. I due dèi inventarono la civiltà e così l'Egitto si trovò nell'età dell'oro. Compagno ed amico di Osiride, Thot era il dio delle scienze, cui spettò il compito di insegnare agli Egizi a leggere e scrivere. Osiride volle portare la sua benefica missione anche nel resto del mondo e, durante la sua assenza lasciò la reggenza del trono ad Iside. Ma ecco che il fratello Seth, escluso dal trono perché figlio cadetto, cominciò subito a tramare per usurparglielo: la vigile Iside riuscì però a stroncare ogni manovra. Osiride tornò dal viaggio felicemente concluso in compagnia di Thot e di Anubi, dio dei morti. Seth però ordì un tranello: organizzò una grande festa in onore del fratello e durante il banchetto mostrò agli ospiti un magnifico scrigno finemente istoriato e tempestato di gemme e, scherzando, proclamò che ne avrebbe fatto dono a chi, entrandovi, lo avrebbe occupato esattamente con il proprio corpo (l'aveva fatto costruire su misura per Osiride, che aveva una statura gigantesca). Ognuno dei commensali ci provò, ma risultava sempre troppo piccolo. Alla fine fu la volta del re, la cui statura si attagliò a pennello allo scrigno. Seth, fulmineo, con i suoi complici rinserrò il coperchio, lo sigillò col piombo fuso e gettò lo scrigno nel Nilo. Gli dèi, atterriti, presero forme di animali per sfuggire ad una simile sorte. Iside, disperata, si strappò le vesti e con l'aiuto di Thot riuscì a fuggire e partì alla ricerca della salma dello sposo per dargli almeno degna sepoltura. Era scortata da sette velenosissimi scorpioni. Giunse esausta alla città di Pa-sin, ma, lacera e sfinita com'era, non trovò ospitalità: una donna, che si chiamava Usa, le chiuse ostentatamente la porta in faccia. I sette scorpioni si consultarono tra loro sul modo di vendicare l'affronto alla dea e, uno ad uno, avvicinandosi al loro capo, Tefen, iniettarono nella sua coda tutto il proprio veleno.
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Tefen, introdottosi nella casa della poco cortese Usa e trovato il suo bambino, lo punsero: la potenza del veleno era tale che la casa prese fuoco. Intanto, una misericordiosa ed umile contadina, Taha, impietosita da quel volto impietrito dal dolore, accolse Iside spontaneamente; l'altra non trovò una sola goccia d'acqua per spegnere l'incendio e disperata, col bambino morente fra le braccia, vagava in cerca di aiuto, ma nessuno le rispondeva. Fu Iside stessa che ebbe pietà di lei: impartì al veleno l'ordine di non agire e il bimbo guarì subito, mentre una pioggia miracolosa spegneva l'incendio. L'ira del cielo si era placata; Usa, pentita, capì di trovarsi di fronte ad un essere soprannaturale ed offrì doni ad Iside, implorandone il perdono. Iside riprese a vagabondare tra le infinite insidie che gli spiriti maligni, al servizio di Seth, tessevano sulla sua via. Presso Tanis seppe, da alcuni bimbi, che la cassa, sul filo della corrente di quel ramo del Nilo, aveva raggiunto il mare aperto. Disperata, giunse a Biblo. Proprio qui tempo prima era approdata la bara tra i rami di un cespuglio che, al contatto col corpo divino, si era trasformato in una splendida acacia che aveva rinserrato lo scrigno nel proprio tronco. Un giorno il re di Biblo, vedendo lo stupendo albero, ordinò che si tagliasse per farne una colonna del suo palazzo. Iside, giunta in città, tutte le notti si trasformava in rondine e svolazzava intorno alla colonna, lanciando strida strazianti, ma nessuno le faceva caso. Alla fine decise di agire: un giorno si sedette presso la fonte, e quando le ancelle della regina vennero ad attingere acqua, prese a conversare, poi a pettinarle, ad offrire profumi, con loro grande gioia. Anche la regina volle conoscere la straniera che, in brevissimo tempo, entrò nelle sue grazie e fu nominata governante del principino. Ogni notte, però, ripreso il suo aspetto di rondine, non cessava il suo pianto. La regina, una sera, volendo sincerarsi che il bambino dormisse, entrò nella sua camera e trovò uno spettacolo raccapricciante: la culla del figlioletto era circondata da alte fiamme
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e, ai piedi del letto, sette minacciosi scorpioni facevano la guardia. Atterrita, urlò, accorsero le guardie, accorse il re e la stessa Iside, al cui cenno le fiamme si spensero d'incanto. La dea svelò la propria natura, e disse alla regina che, riconoscente per l'ospitalità aveva deciso di rendere il principe immortale, e, per questa ragione, ogni notte lo immergeva nelle fiamme purificatrici. Ma purtroppo ora l'incanto era rotto. La regina ne fu profondamente rattristata e il re, onorato d'aver dato accoglienza ad una dea, le offrì tutto ciò che lei volesse. Iside, naturalmente, chiese la grande colonna e lei stessa ne trasse lo scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in bende odorose e lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa reliquia. Ripresa la via del ritorno scortata da due figli del re, non seppe resistere a lungo: ordinò alla carovana di fermarsi e aprì la cassa. All'apparire del volto del marito le sue urla di dolore riempirono l'aria in modo tale che uno dei figli del re uscì di senno. Peggiore sorte toccò all'altro: Iside s'era chinata lacrimando sul viso di Osiride, e l'ignaro ragazzo la osservava incuriosito; la dea, accortasene, gli lanciò una tale occhiata che il poveretto cadde fulminato. Rimasta sola, Iside tentò di tutto, usò invano tutte le possibile formule magiche per richiamare in vita lo sposo, e, trasformatasi in falco e agitando su di lui le ali per cercare di ridargli il soffio della vita, miracolosamente rimase fecondata. Giunta in Egitto, nascose la bara in un luogo presso Buto, tra le inestricabili paludi del Delta per proteggerla dai pericoli. Ma per caso Seth, andando una notte a caccia al chiaro di luna, la trovò. Quando l'aprì e vide la salma del fratello, in preda al più scatenato furore, la fece a brandelli, tagliandola in quattordici parti che sparpagliò per tutto l'Egitto. L'infelice Iside, al nuovo scempio, ricominciò la pietosa ricerca dei macabri resti e dopo immense fatiche riuscì a ricomporli tutti, tranne il membro virile divorato da un ossirinco (una specie di storione del Nilo). Sui luoghi dove i resti furono trovati, sorsero cappelle e poi templi ai quali si compivano pellegrinaggi
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chiamati “della ricerca di Osiride”. Ricomposto il corpo, Iside chiamò a sé la diletta sorella Neftis (incolpevole sposa del malvagio Seth), Thot e Anubi. E con la scienza ereditata da Osiride, tutti insieme si prodigarono per rendere a Osiride la vita. Anubi imbalsamò il corpo e confezionò così la prima mummia, che fu fasciata e ricoperta di talismani. Sui muri del sepolcro, ad Abido, furono incise le formule magiche di rito. Accanto al sarcofago fu posta una statua del tutto somigliante al defunto. Osiride così resuscitò, ma non poté regnare più su questa terra e divenne Re del "Sito che è oltre l'Orizzonte occidentale", che trasformò da luogo cupo e triste in una landa ubertosa e ricca di messi. Compiuto il rito della sepoltura, Iside tornò a nascondersi nelle paludi per proteggere se stessa e soprattutto il nascituro dalle vendette di Seth. Quando nacque il figlio Horo, la madre lo protesse con tutto l'amore, invocò su di lui l'aiuto di tutti gli dèi, poi gli insegnò la scienza e lo educò nel culto del padre. Horo crebbe “come il sole nascente, il suo occhio destro era il sole, quello sinistro la luna” ed egli stesso era un grande falco luminoso che solcava i cieli. Quando fu abbastanza grande, Osiride tornò una volta sulla terra per farne un soldato. Horo, radunati tutti i fedeli del re tradito, partì alla ricerca di Seth per vendicare il padre. Lo trovò ed ingaggiò con lui una tremenda battaglia che durò tre giorni e tre notti; Seth e i suoi si trasformarono nei più terribili e imprendibili animali per cercare di sfuggire alla sconfitta: Horo mutilò Seth, ma questi di trasformò in un enorme maiale nero e ingoiò l'occhio sinistro di Horo: la luna cessò così di splendere, l'umanità era attonita. Alla fine Seth stava per soccombere, quando Iside cominciò ad intromettersi, a supplicare il figlio perché il massacro avesse termine: dopo tutto, Seth era suo fratello e marito della sorella Neftis. Horo, in uno scatto d'ira, taglio la testa alla madre ma Thot la guarì subito ponendole, al posto della sua, una testa di mucca.
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La battaglia riprese e durò all'infinito senza vincitori né vinti. S'intromise allora con autorità Thot, che guarì Seth ma gli impose di restituire l'occhio a Horo. La luna tornò così a risplendere. Intervennero allora anche gli altri dèi e posero la questione al giudizio di Thot. Fu un processo fiume che durò ottant'anni. Seth accusò Horo di non essere figlio di Osiride, poiché era nato troppo tempo dopo la morte del vantato padre. Horo controbatté tacciando Seth di malafede; e alla fine il Divino Tribunale sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e Seth quello dell'Alto Egitto. Un mito ci è stato tramandato anche dai pellerossa Irochesi. Racconta che molto tempo fa, viveva un uomo ormai troppo vecchio e debole per andare a caccia o lavorare. Era diventato un peso per la sua famiglia ed un reietto per gli altri. Egli sapeva che i suoi giorni sulla terra stavano finendo, così, con grande fatica, si arrampicò su un'alta montagna con la gerla sulle spalle ed il bastone in mano. Quando raggiunse la cima, il vecchio cominciò a cantare il suo canto di morte, pregando che il suo viaggio spirituale continuasse anche dopo la vita terrena. La sua voce giunse anche giù, nel villaggio, dove la gente smise ogni attività per osservare la figura solitaria in cima alla montagna. Mentre tutti guardavano, il vecchio cominciò a salire lentamente in aria. E mentre saliva, la sua voce si faceva sempre più flebile. Presto non si riuscì più a sentirla. Così egli prese posto tra le stelle, dove è visibile ancora oggi come il Vecchio: la costellazione che corrisponde al nostro Orione. Il Vecchio non morì, ma assunse un ruolo nuovo. Recuperò la sua forza e la sua potenza ed ora conduce il sole attraverso il cielo d'estate. Egli sa quanto sia importante il sole, così lo porta in alto, fornendo luce e vita ai campi ed alle genti. Ma quando iniziano a soffiare i venti invernali, i muscoli del vecchio cominciano a dolere sotto lo sforzo, così egli passa la sua gerla al figlio. Come molti giovani, il figlio del vecchio cerca di lavorare il meno possibile, e quindi tiene basso il corso del sole, rendendo i giorni brevi e freddi. In questo periodo
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il vecchio è visibile di notte come la Luna: la gerla in cui porta il sole è buia e vuota. Ma in primavera egli riprenderà il sole e lo porterà ancora in alto, regalando di nuovo calore e lunghe giornate. (Stelle). Esiste anche un altro mito del popolo degli indiani d'America Tewa che racconta che nei tempi antichi esso si affidava ad un grande e saggio guerriero di nome Lunga Fascia. Una volta, durante un brutto periodo, la gente chiamò in aiuto Lunga Fascia. Egli li condusse lungo il “Sentiero Infinito”: la Via Lattea. Dopo un po', essi cominciarono a sentirsi stanchi ed a lamentarsi. Lunga Fascia si fermò vicino a due stelle brillanti, i Gemelli, e chiese alla gente di seguirlo senza lamentele o di andarsene. I Tewa chiamarono il luogo dove si erano fermati “Posto della Decisione” e decisero di seguire Lunga Fascia. Ma dopo un periodo di tempo che a loro parve un'eternità, ricominciarono a lamentarsi ed a dubitare dell'abilità di Lunga Fascia. Si fermarono ancora, ed il grande guerriero si tolse il copricapo. La gente chiamò quel luogo il “Posto del Dubbio”. Dopo che Lunga Fascia ebbe fatto un sogno illuminante, condusse il suo popolo nella “Terra di Mezzo”, la patria definitiva. Lunga Fascia vive ancora lì, nelle stelle di Orione. Il suo copricapo è visibile nel gruppo delle Pleiadi (Stelle). I Babilonesi e gli Indù associavano la costellazione di Orione alle bufere invernali. Secondo i Maia, le stelle di Orione e dei Gemelli formavano il Citalthachtli, ossia il campo da gioco per la palla. Per gli Incas raffiguravano i bastoncini da strofinare per accendere il fuoco. Questa costellazione, poiché ha la forma simile ad una figura umana, è stata identificata da molti popoli come un eroe,
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spesso un guerriero o un cacciatore. Ad esempio i Sumeri la associarono a Gilgamesh, re di Uruk ed eroe epico.
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CASSIOPEA, ANDROMEDA, CEFEO
Costellazioni circumpolari
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Cassiopea
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Andromeda
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Cefeo
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Galassia di Andromeda
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Nebulosa a Bolla in Cassiopea
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Galassia NGC6946 in Cefeo
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Nebulosa NGC7023 in Andromeda
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Residuo di supernova in Cassiopea: Cas A.
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Galassia attiva M82 in Cassiopea
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NGC 147 in Cassiopea
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NGC 185 in Cassiopea
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Nebulosa Boomerang in Andromeda
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Galassia NGC 891 di profilo in Andromeda
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NGC 7023 in Cefeo
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Hevelius
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Hevelius
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Hevelius
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Andromeda, Cassiopea e Cefeo sono costellazioni circumpolari. La stella Alfa di Andromeda è Alpheratz, la testa di Andromeda, che costituisce anche uno dei vertici del quadrato di Pegaso ed è di magnitudine 2. Coincide con la delta di Pegaso, anche nota come Sirrah, l'”ombelico del cavallo” Beta è Mirak e Gamma è Almak, anche loro con m = 2. Caratteristica in questa costellazione è la grande galassia a spirale M 31, la galassia di Andromeda, uno dei corpi celesti più famosi di tutto il cielo, con la quale la nostra galassia, la Via Lattea, ed alcune galassie irregolari più piccole tra cui le Maffei I e Maffei II e la Piccola e la Grande Nube di Magellano, formano il “Gruppo Locale”, ammasso di galassie gravitazionalmente legate. Riguardo a Cassiopea, Alfa è Schedar, il “seno”, stella doppia con m = 2.2 e m = 9. Beta è Caph, la “mano” con m = 2.2. Gamma è Taih, con m variabile tra 1.6 e 3, all'intersezione tra le due V. Delta è Ruchbah, il “ginocchio”, con m = 2.7 ed Epsilon è Segin, con m = 5, stella doppia con il periodo di rotazione di 480 anni, il più lungo che si conosca. In Cassiopea, nel 1572, apparve la stella di Tycho Brahe, oggi ritenuta una supernova. Brahe la descrisse nel libro De Nova stella. È la ragione per cui alle Nove si dà questo nome, però quella oggi si conosce come supernova. Nella stessa costellazione vi è anche il residuo di un'altra supernova contenente la radiosorgente nota come Cas A. In Cefeo, Alfa è Alderamin, la “spalla destra”, con m = 2.4; ad essa spettò il ruolo di polare circa duecento secoli fa.
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Beta è Alfirk, “il gregge”, variabile tra le magnitudini 3.2 e 3.3 in 4 ore. Gamma è Alrai, in arabo il pastore. Delta è il prototipo delle stelle variabili chiamate “Cefeidi”: la loro luminosità varia in maniera regolare, con un periodo che è legato alla loro magnitudine assoluta. Per questa ragione, tramite la loro misura è possibile calcolare la distanza di ammassi e galassie: infatti conoscendo M ed m di una stella di una galassia o di un ammasso stellare è possibile ricavarne la distanza, come abbiamo detto precedentemente: M = m + 5 5 log d. Delta varia la magnitudine tra 3.5 e 4.4 in 5.4 giorni. La costellazione di Cassiopea corrisponde alla Casyapi sànscrita, seduta con un fiore di loto nella mano, ovvero alla regina del Caucaso Chasiapati, ed anche alla dea Kasseba, rappresentata dai Fenici come patrona della prosperità, seduta con un fascio di spighe tra le braccia. Poiché nei manoscritti arabi Cassiopea era indicata come “la donna seduta” e i latini la chiamavano Solium (trono, seggio), si può notare un unico filo conduttore che ha collegato popoli tanto lontani nel tempo e nello spazio. Per gli Egiziani, la costellazione di Cassiopea rappresentava il faraone Cheope. Quella di Andromeda è una costellazione molto antica, già documentata presso le civiltà mesopotamiche. In una carta araba del X secolo essa appare come una fanciulla con le braccia alzate che viene aggredita dal mostro marino, mentre popoli arabi più antichi la raffigurarono come una foca legata con una lunga catena ad uno dei Pesci sottostanti. Queste costellazioni sono raggruppate perché si riferiscono alla stessa leggenda greca. Si tramanda che a Poseidone, figlio di Crono e Rea, fratello
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di Zeus, dio del cielo, nella spartizione dei poteri successiva alla vittoria nella Titanomachia, era toccato il regno del mare. Si innamorò di Alia, figlia di Ponto e di Gea e sorella dei Telchini, che erano esseri anfibi, metà marini e metà terrestri, ed erano così ostili e violenti da proibire, senza alcuna ragione, alla giovane Afrodite in viaggio verso Cipro, di sbarcare a Rodi, la loro isola. Afrodite li punì duramente facendoli impazzire, tanto che violentarono la madre: Poseidone li fece inghiottire dalla terra. Sposa di Poseidone fu Anfitrite, figlia di Nereo e Doride, quindi una delle Nereidi. Poseidone ebbe, come Zeus, molti amori adulterini. Ad esempio si innamorò di Scilla, figlia di Forco ed Ecate, che Anfitrite, per gelosia, trasformò in una cagna con sei teste e dodici zampe. Sotto forma di cavallo, violentò Demetra, in lutto per la scomparsa di Persefone. Si trasformò nel dio del fiume Epigeo per violentare la bellissima Tiro, figlia di Salmoneo, re di Tessaglia, che era innamorata, non ricambiata, dello stesso Epigeo. Anche Pelope, figlio di Tantalo e della Pleiade Dione, non sfuggì alle brame sessuali di Poseidone. Tantalo, che riuscì a costruirsi la fama di giusto e magnanimo re della Libia, era onorato dagli dèi. Una volta aveva invitato gli dèi ad un banchetto sul monte Sibilo, ma notò che non aveva cibo sufficiente per tutti. Allora uccise il figlio Pelope e ne servì le carni agli dèi. Alcuni mitografi sostengono che Tantalo in questo modo aveva voluto mettere alla prova la chiaroveggenza degli dèi, ma tutti gli dèi riconobbero la carne servita loro e nessuno ne mangiò, fuorché Demetra che, affamata, divorò una spalla prima di accorgersi di cosa si trattava. Gli dèi lo punirono con la fame e la sete eterne: immerso nell'acqua fino al collo, non poteva bere, poiché il liquido fuggiva ogni volta che lui cercava bagnarsi la bocca, ed un ramo carico di frutti sovrastava la sua testa, ma, se alzava un braccio, il ramo risaliva bruscamente al di fuori della sua portata. Le membra di Pelope furono ricomposte e gli fu permesso di rivivere.
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Una leggenda vuole che, dall'osso della spalla di Pelope fosse stato intagliato il Palladio, e che questo fosse stato sottratto a Sparta da Paride insieme ad Elena (v. Prima Parte). Altro figlio mortale di Poseidone, fu Teseo, che Etra, figlia del re di Trezene Pitteo, generò dopo una notte in cui aveva fatto l'amore con Egeo prima e con Poseidone dopo. Quest'ultimo concesse la paternità del bambino ad Egeo. Altri figli di Poseidone furono oliremo, acerrimo nemico di Ulisse, Antifate, feroce omicida, Anteo, re di Cirene, Amico, re della Bitinia, che affrontava in un combattimento a pugni gli stranieri che passavano sulla sua terra. Sconfitto da Polluce, fu costretto a giurare di desistere dal suo modo di operare. L'unico figlio immortale di Poseidone fu Tifone, figlio di Anfitrite. Comunque, ricordiamo che Tifone è anche, e forse con più ragione, considerato figlio di Gea e Tartaro (v. peraltro Prima Parte). Poseidone aveva fatto nascere il primo cavallo percuotendo la terra con il tridente, per cui era detto il “domatore dei cavalli”. Istituì anche le corse con i cocchi. Suo regno fu Atlantide, al di là delle Colonne d'Ercole, che gli abitanti resero fertile con enormi lavori d'irrigazione e l'avevano fornita di monumentali opere architettoniche. Zeus sommerse il paese, perché gli abitanti, che avevano come re Atlante, figlio di Poseidone, erano diventati avidi e crudeli. Egli condannò Atlante a portare il Cielo sulle spalle per l'eternità (v. peraltro Prima Parte). Cassiopea era moglie di Cefeo, re di Giaffa e madre di Andromeda. La vanità era il difetto più grande della meravigliosa regina di Etiopia Cassiopea, la quale, non accontentandosi di essere bellissima, volle perfino competere con le Nereidi, seducenti creature marine, che non accettarono di buon grado la sfida. Così si rivolsero a Poseidone, loro tutore e dio del mare, affinché intimorisse Cassiopea. Il dio, allora, inviò verso le coste di Giaffa un orribile mostro, Ceto, la Balena (da cui “cetaceo”), con l'ordine di provo-
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care un'onda immensa tale da sommergere mezza Palestina. Cefeo, per salvare il suo regno, consultò l'oracolo di Ammone. L'oracolo gli disse che l'unica soluzione era quella di sacrificare al mostro sua figlia Andromeda. Con il dolore nel cuore, il re ordinò di incatenare la sfortunata principessa agli scogli davanti a Giaffa in attesa del sacrificio. Ma proprio quando Ceto stava per afferrare la povera fanciulla, ecco che Perseo, ritornato dall'impresa contro Medusa, lo uccise con facilità liberando contemporaneamente Andromeda dal mostro e Giaffa dalla distruzione. (v. Perseo). In cambio Perseo chiese di sposare la giovane. I genitori cedettero a tale richiesta senza però molta convinzione. Per punire Cassiopea della sua vanità, Poseidone l'assunse in cielo imponendole, tuttavia, una posizione ridicola e indecorosa: seduta sul suo trono ma con la testa in giù e le ginocchia in alto. Ovidio, nelle “Metamorfosi”, narra che Perseo vide Andromeda, ma «se non fosse stato che una leggera brezza le agitava i capelli e tiepido pianto le stillava dagli occhi l'avrebbe scambiata per una statua marmorea” e “incantato dalla vista di tanta bellezza, per poco non dimenticò di battere le ali”. Atterrò e si informò del nome della ragazza e del perché fosse così legata. Andromeda “per la timidezza si sarebbe nascosta il volto con le mani, se non fosse stata legata» (Met. IV, 678 segg.), tuttavia prese a dare le informazioni richieste. Non aveva ancora finito che comparve il mostro dalle onde. Le grida di terrore della fanciulla fecero accorrere Cefeo e Cassiopea in lutto che, invece di portare aiuto, cominciarono a disperarsi. Allora Perseo, dopo essersi debitamente presentato, si offrì di salvare la fanciulla a patto che diventasse sua moglie. «Se io la chiedessi in sposa, io, Perseo, figlio di Giove e di colei che fra le sbarre Giove rese madre fecondandola con l'oro, io, Perseo, che ho vinto la Gorgone dalla chioma di serpi e spazio senza timore nel cielo con un battito d'ali, sarei certo preferito a tutti come genero. Ma ancora un merito, se mi assistono gli dèi, cercherò di aggiungere a tanto prestigio. Facciamo un patto: che sia mia, se la salvo col mio valore!» (Met. IV, 697
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sgg.). I genitori acconsentirono, perché la promessa fatta a Fineo, fratello di Cefeo, del matrimonio con Andromeda non era considerata più valida, dopo che questi aveva accettato che Andromeda stessa fosse sacrificata. Il seguito della storia è raccontato nella costellazione di Perseo. Un'altra leggenda narra che Cefeo, re della Fenicia, aveva una figlia molto bella, Andromeda, corteggiata da Fenice, eponimo della Fenicia, e dallo zio Fineo, fratello di Cefeo. Dopo molti tentennamenti, Cefeo decise di dare la figlia a Fenice, senza però che suo fratello potesse offendersi per essere stato rifiutato; così simulò un rapimento. Andromeda sarebbe stata rapita su un isolotto dove aveva l'abitudine di sacrificare ad Afrodite. Così fece Fenice e salì su una nave chiamata La Balena. Ma Andromeda, che ignorava che era soltanto una messa in scena destinata ad ingannare lo zio, gridava e chiamava aiuto. Ora, per caso, Perseo, figlio di Danae, passava di là. Vide la giovane in procinto di essere rapita e, al primo sguardo, se ne innamorò. Si slanciò, mise a soqquadro la nave, lasciò i marinai “pietrificati” con l'aiuto della testa di Medusa e portò via Andromeda, che sposò; dopodiché, regnò tranquillamente ad Argo.
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Perseo con dettagli
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Nebulosa NGC1275
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Nebulosa NGC1499 “California”
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Hevelius
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Costellazione autunnale. Alfa, o Algenib, il “fianco”, con m = 1.8, è nota anche come Mirphak, il “gomito”. Da notare che Algenib è anche il nome di una stella di Pegaso. Beta è Algol, la “stella del diavolo”: è una variabile scelta come prototipo delle variabili ad eclisse. Durante il periodo di variabilità, di 2,87 giorni, la magnitudine varia da 2.1 a 3.5. La possibilità di osservazione di questa variabilità viene dal confronto con la Epsilon, quasi sullo stesso parallelo. Perseo è immaginato mentre tiene in mano la testa della Medusa, di cui un occhio è raffigurato dalla stella Algol. Gamma è una stella doppia con m = 3. In Perseo è anche situato il punto radiante di una delle maggiori piogge meteoriche che si verificano ogni anno nel periodo tra il 25 luglio ed il 17 agosto: le Perseidi, e che nelle notti del 10, 11 e 12 agosto raggiungono la loro manifestazione massima. Il regno di Argo, antica città della Grecia centrale, situata nel Peloponneso, vicino a Corinto, risale all'età del bronzo ed è considerato il centro urbano più antico della Grecia e la più importante fucina per la creazione di leggende mitologiche. Re di questa città era Acrisio, il cui nome significava “uomo delle alture”. Era figlio di Abante, re di Argo e della ninfa Aglaia. Egli governava felicemente il suo regno coadiuvato dalla moglie Euridice dalla quale ebbe una bellissima figlia: Danae. Acrisio era marito di Euridice, figlia di Lacedemone e di Sparto. Aveva un gemello, Preto, con cui si scontrava fin da prima della nascita, perché riviveva in essi l'odio reciproco dei loro antenati Egitto e Danao. Quando giunsero alla divisione dell'eredità paterna, lo scontro fu inevitabile. Abante chiese loro di regnare alternati-
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vamente sull'Argolide, ma inutilmente, perché i loro rapporti si erano ancor più inaspriti: Preto aveva violentato Danae, la figlia di Acrisio, e quest'ultimo aveva rifiutato di abdicare in favore del fratello alla scadenza prevista. Preto si rivolse ad Iobate, re di Licia, per avere armi e guerrieri ed ottenne anche in sposa Antea, figlia del re Licio. Attaccò il fratello, rivendicando i propri diritti, ma la lunga battaglia fu vana e si concluse senza vincitori. I due fratelli convennero, sebbene a malincuore, di dividersi il regno: Acrisio ebbe Argo, mentre a Preto spettò Tirinto. (Agizza) (Miti). Acrisio, avendo saputo da un oracolo che sua figlia Danae avrebbe avuto un figlio che lo avrebbe ucciso, escogitò un espediente per eludere il fato: fece rinchiudere la vergine assieme ad una ancella in una prigione inaccessibile affinché nessuno potesse avvicinarla. La prigione di Danae era veramente inviolabile, ma non per Zeus che, innamoratosi della bellissima fanciulla, volle unirsi a lei e per far ciò si tramutò in una sottile polvere d'oro che filtrando attraverso gli spiragli e le fessure del carcere, si depositò sulla ignara creatura e la fecondò. Da questa unione nacque un meraviglioso fanciullo: Perseo. Dopo parecchi mesi trascorsi da Danae nella prigione col bambino e la propria nutrice, il re Acrisio, un giorno, udì un grido del bimbo. Non credendo che la figlia fosse stata sedotta da Zeus, ma pensando che fosse Preto il padre del bambino, Acrisio uccise la nutrice come sua complice. Non avendo il coraggio di uccidere anche la figlia ed il piccolo, li gettò in mare in una cassa di legno. La cassa arrivò sulla spiaggia di Serifo, apparentemente in maniera fortuita. La navigazione ispirò un carme al poeta greco Simonide di Ceo (VI sec. a.C.). Del componimento rimane un frammento, appunto il “Lamento di Danae”, che costituisce una delle pagine più commosse e poetiche della lirica greca. La donna, consapevole del pericolo, è presa da angoscia per la sorte propria e del figlioletto, che, invece, bimbo ignaro di tutto, continua a dormire tra le sue braccia.
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Lamento di Danae Quando nell'arca regale l'impeto del vento e l'acqua agitata la trascinarono al largo, Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa le mani su Perseo e disse: “O figlio, qual pena soffro! Il tuo cuore non sa; e profondamente tu dormi così raccolto in questa notte senza luce di cielo, nel buio del legno serrato da chiodi di rame. E l'onda lunga dell'acqua che passa sul tuo capo, non odi; né il rombo dell'aria: nella rossa vestina di lana, giaci reclinato al sonno del tuo bel viso. Se tu sapessi ciò che è da temere, il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce. Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete abbia il mare; ed il male senza fine, riposi. Un mutamento avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre; e qualunque parola temeraria io urli, perdonami, la ragione m'abbandona”. L'avventura ebbe in ogni modo una conclusione felice. Zeus, invocato da Danae, intervenne facendo approdare l'arca sulla spiaggia di Serifo, dove il re Polidecto, figlio di Magnete e di una naide, salvò i due naufraghi. Danae era oggetto dei desideri di Polidecto, che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo, ma lei, il cui unico pensiero era il figlio Perseo, non ricambiava il suo amore ed allevò il figlio in un tempio di Atena. Fu così che Polidecto decise di allontanare Perseo dalla sua vita e con l'inganno lo convinse a portargli la testa della Gorgone Medusa. In realtà Polidecto sperava che l'impresa fosse fatale per il giovane perché mai nessun mortale era riuscito in simile impresa. Medusa, una delle tre Gorgoni, era un tempo tra le donne
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più belle. Figlia di Forci e Ceto, era mortale, a differenza delle sorelle Euriale e Steno. Abitava con loro nell'estremo occidente, non lontano dal giardino delle Esperidi. L'unico dio che non aveva temuto la Gorgone era stato Poseidone, che l'aveva resa incinta di Pegaso, il cavallo alato, e di Crisaore. Medusa era stata resa madre nel tempio di Atena che, inorridita dell'affronto subito, aveva trasformato la fanciulla in un orribile mostro: aveva trasformato le mani in pezzi di bronzo; aveva fatto comparire delle ali d'oro e ricoperto il corpo di scaglie; i denti erano diventati simili alle zanne di un cinghiale, i capelli erano stati trasformati in serpenti ed al suo sguardo aveva dato la capacità di trasformare in pietra tutto ciò che guardasse. L'impresa di Perseo non era facile, ma accorsero in suo aiuto Atena, che non aveva mitigato il suo risentimento verso la Gorgone, ed Ermes. Gli donarono, la prima uno scudo lucente e ben levigato, attraverso il quale guardare riflessa la Gorgone ed evitare così di essere pietrificato dallo sguardo; il secondo l'antica spada dei Titani, a forma di falce, con cui decapitarla poiché le sue squame erano più dure del ferro. I due dèi suggerirono anche di farsi donare dalle ninfe Stigie i calzari alati per volare veloce nel regno di Medusa, l'elmo di Ade che rendeva invisibile chi lo portasse ed una sacca magica nella quale riporre la testa di Medusa, una volta tagliata. Infatti i suoi poteri non sarebbero venuti meno con la morte ed i suoi occhi sarebbero stati ancora in grado di pietrificare chiunque la guardasse. Nessuno però sapeva dove vivevano le ninfe Stigie, tranne le sorelle delle Gorgoni, le tre Graie, dal corpo di cigno ed che avevano un occhio solo ed un dente solo in comune. Perseo raggiunse il monte Atlante, dove le Graie sedevano sui loro troni, e cogliendole di sorpresa strappò loro l'occhio ed il dente mentre una delle sorelle li porgeva all'altra, né acconsentì a restituirli prima di aver saputo dove vivessero le ninfe Stigie.
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Forte dei consigli e delle armi, Perseo si avvicinò a Medusa durante il suo sonno, nel paesaggio desolato di uomini ed animali che il suo sguardo aveva pietrificato, camminando all'indietro e guardandola riflessa nello scudo lucente. Non appena le fu vicino vibrò il colpo mortale che tagliò di netto la testa della Gorgone mentre i serpenti tentavano in tutti i modi di avvolgerlo nelle loro spire. Presa la testa, la ripose immediatamente nella bisaccia mentre dal sangue che sgorgava copioso nacque, con sua sorpresa, Pegaso, il magico cavallo alato che divenne il fedele compagno di Perseo, ed il gigante Crisaore, che alla nascita brandiva una spada d'oro. (Miti). Questo sangue aveva proprietà magiche. Quello che era colato dalla vena sinistra era un veleno mortale, mentre quello colato dalla vena destra era un rimedio capace di resuscitare i morti (v. Ofiuco). Inoltre, un solo ricciolo dei suoi capelli, mostrato ad un esercito assalitore, aveva il potere di sconfiggerlo. Le sorelle della vittima cercarono in tutti i modi di inseguirlo ma grazie all'elmo di Ade che lo rendeva invisibile ed al magico cavallo volante Pegaso, riuscì a sfuggire, “volando via più veloce del pensiero da quell'isola tetra e nefasta”. Approdò per riposare nella regione dell'Esperia, dove regnava il titano Atlante, figlio di Giapeto e quindi nipote di Urano e Gea. Costui viveva nel giardino delle Esperidi, posto ai confini occidentali del mondo, dove cresceva l'albero dalle mele d'oro, regalato da Gea ad Era, nel giorno delle sue nozze con Zeus, albero che era custodito da un drago e dalle Esperidi. Atlante era molto sospettoso e diffidente nei confronti degli estranei in conseguenza di una profezia di Temi, secondo la quale il suo regno sarebbe stato distrutto da uno dei figli di Zeus. Perseo (che non sapeva della profezia) gli rivelò la sua origine divina e, nell'apprenderla, Atlante cercò di ucciderlo. Il giovane, sorpreso dalla sua reazione, fu costretto a difendersi in una lotta impari contro il titano, fino a che, aperta la bisaccia dove teneva la testa di Medusa, pose fine al combattimento giacché Atlante iniziò a pietrificarsi trasformandosi in
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un'alta montagna, «e tutto il cielo con le sue innumerevoli stelle poggiò su di lui» (Met. 661-662). Perseo riprese il suo volo verso casa, percorrendo una zona di terra arida e desolata della Libia, senza accorgersi che alcune gocce di sangue fuoriuscivano dalla bisaccia che conteneva la testa di Medusa e che, cadendo nel terreno, davano origine a tanti serpenti velenosi i quali in seguito avrebbero popolato per sempre il deserto. Tornando, giunse in vista della terra degli Etiopi, dove vide, incatenata ad un masso, una fanciulla, Andromeda, che era lì per colpa della madre, che aveva osato sfidare le dee (v. Cassiopea). Si mostrò deciso a salvarla, purché i genitori acconsentissero a dargliela in moglie. Avendo loro accettato, Perseo ingaggiò una furiosa lotta con il mostro Borea, che alla fine fu vinta, e pose sopra il suo corpo la testa della Medusa. Delle ninfe curiose rubarono un po' del sangue che fuoriusciva dalla testa di Medusa e che, a contatto dell'acqua marina, trasformava i ramoscelli in coralli. Da quel momento i fondali marini furono allietati dalla presenza di questi straordinari echinodermi. Mentre tutti erano al banchetto nuziale tra Perseo ed Andromeda, fece ingresso nella sala Fineo, fratello del re Cefeo, e quindi zio, ed ex promesso sposo di Andromeda. Questi la reclamava pur avendone perso il diritto nel momento in cui aveva lasciato che la stessa andasse in sacrificio al mostro. Nella sala nuziale si scatenò una cruenta lotta. Fineo, dopo aver giurato su lealtà e giustizia, sugli dèi ospiti, Atena ed Ati, che tutto accadeva contro il suo volere, con l'aiuto di molti alleati iniziò a combattere contro Perseo. La battaglia coinvolse tutti i presenti, tra cui molti guerrieri ed eroi, e stava per essere vinta da Fineo e dalla moltitudine dei nemici di Perseo, quando questi, decise di farsi aiutare dal nemico: aprì la sacca magica e mostrò la testa di Medusa che, ancora una volta, portò la morte, pietrificando uno ad uno i compagni di Fineo. Solo allora questi si pentì dell'iniqua battaglia e supplicò Perseo di nascondere la testa di Medusa, ma Perseo, non im-
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pietosito, pietrificò anche lui. Perseo ed Andromeda decisero di lasciare la terra degli Etiopi per ritornare a Serifo, da Danae dove arrivarono appena in tempo per salvarla dalla morte alla quale il re Polidecto, dopo aver tentato di violentarla, l'aveva condannata perché continuava a non ricambiare il suo amore. Il re, che non credeva nella morte di Medusa, fu messo di fronte alla testa e fu pietrificato all'istante. Morto Polidecto, Danae e Perseo potevano finalmente far ritorno alla loro terra natale, Argo, per riconciliarsi con il re Acrisio, verso il quale gli anni avevano ormai cancellato il risentimento. Perseo, riconsegnati i calzari e l'elmo alle ninfe, la spada ad Ermes e la testa di Medusa ad Atena, che la pose come trofeo in mezzo al suo scudo, e mentre il magico Pegaso volava via verso l'Olimpo, con la madre ed Andromeda salpava alla volta di Argo. Acrisio, saputo dell'arrivo del nipote Perseo e di sua figlia, per paura dell'antica profezia, fuggì via dal suo regno e riparò a Larissa in Tessaglia. Perseo fu invitato a partecipare a delle gare sportive proprio a Larissa. Durante il lancio del disco, la potenza impressa da Perseo all'attrezzo lo mandò oltre gli spalti, a colpire uno sfortunato spettatore che altri non era che re Acrisio che si era mischiato alla folla. Scoperta la triste fine toccata al nonno al quale Perseo, nonostante tutto, non portava rancore, il giovane, triste e sfiduciato abbandonò quella regione scambiando il regno di Argo (che ereditava dal nonno) con quello di Tirinto, del cugino Megapente, figlio di Preto, dove regnò in pace e con saggezza fino alla fine dei suoi giorni, fondò, tra l'altro, il regno di Micene, così chiamata perché una volta Perseo, tormentato dalla sete, notò un meraviglioso ruscello, sgorgato magicamente da un fungo (mycos) . Perseo ed Andromeda ebbero molti figli tra cui Alceo, progenitore del grande Eracle e Perse, capostipite dei Persiani. Ebbero anche una figlia, Gorgofone, che fu la prima donna greca a risposarsi dopo la morte del marito Periere, perché,
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fino a quel momento, le vedove non dovevano conoscere altre unioni, anzi molto spesso si uccidevano sulla tomba dei loro mariti. Il suo secondo marito fu Ebalo, re di Sparta e discendente di Lacedemone. Ebbe da Periere due figli, Afareo e Leucippo, e due da Ebalo, Icario e Tindaro, che poi sposerà Leda da cui nacquero Castore, Polluce, Clitennestra ed Elena, futura causa della guerra di Troia (v. Prima Parte). Icario e Tindaro avevano anche un altro fratellastro, Ippocoonte, che il loro padre aveva avuto prima da una ninfa chiamata Batia. Periere, aiutato da suo figlio, scacciò da Sparta Icario e Tindaro, che si rifugiarono a Pleurone, presso Tesio, dove rimasero finché Eracle non ebbe ucciso Ippocoonte ed i suoi figli. Tindaro fece allora ritorno a Sparta, dove riprese il potere, mentre Icario restava in Acarnania dove sposò Policasta, figlia di Ligeo. Ne ebbe tre figli, Alizeo, Leucadio e Penelope. Icario pose sua figlia come premio in una corsa che egli istituì fra i pretendenti che chiedevano la sua mano. Ulisse fu il vincitore, ma sembra che lo zio Tindaro favorisse questa vittoria, per l'accordo preso con Ulisse per il buon consiglio che costui gli aveva dato, invitando a legare ad un giuramento i pretendenti alla mano di Elena, nella speranza di evitare qualsiasi contestazione una volta che ella avesse scelto il marito. Così Ulisse sposò Penelope (v. peraltro Capricorno). Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione cui pose accanto la sua amata Andromeda e la madre Cassiopea la cui vanità aveva fatto sì che i due giovani si incontrassero. Un'altra versione della leggenda racconta invece che Polidecto riuscì a sposare Danae ed allevò Perseo nel tempio di Atena. Alcuni anni dopo, Acrisio seppe che la figlia ed il nipote erano ancora in vita e salpò per Serifo, deciso ad uccidere Perseo con le proprie mani. Polidecto intervenne e fece loro giurare solennemente di non attentare mai l'uno alla vita dell'altro. Tuttavia si alzò una tempesta e mentre la nave di Acrisio era in secco sulla spiaggia, Polidecto morì.
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Durante i giochi funebri in suo onore, Perseo lanciò un disco che per accidente colpì Acrisio al capo e lo uccise. Perseo raggiunse poi Argo ed avanzò le sue pretese al trono, ma Preto l'aveva preceduto, usurpando il potere, e Perseo lo trasformò in pietra. Egli riuscì a regnare su tutta l'Argolide, finché Megapente non lo uccise vendicando la morte del padre. (Miti). La figura di Perseo fu tanto celebre nell'antichità che l'ultimo re della dinastia di Alessandro il Macedone, regnante nel II secolo a.C., si vantava di discendere direttamente dalla sua stirpe, ne aveva adottato il nome e si fece raffigurare con i suoi attributi nelle monete. Un'altra leggenda oppone Perseo a Dioniso. Perseo, infatti, si sarebbe opposto vittoriosamente all'introduzione del culto di Dioniso ad Argo. Proprio allora Dioniso avrebbe terminato la sua vita terrena e, dopo essersi riconciliato con Era, avrebbe preso posto nell'Olimpo. I romani raccontano, invece, che Perseo e Danae, gettati in mare da Acrisio, sarebbero approdati sulle coste del Lazio. Il re Pilunno avrebbe sposato Danae e con lei avrebbe fondato la città di Ardea. Da questo matrimonio nacque Turno, re dei Rutili.
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Ammassi globulari NGC869 ed NGC884
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NGC7331 in ammasso di galassie
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dal “Quintetto” di Stephan...
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dal “Quartetto” di Stephan
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Costellazione autunnale. Alfa è Markab, la “sella”, con m = 2.5. Beta è Scheab, la”gamba”, variabile con m che assume i valori limite 2.2 e 2.8. Gamma è Algenib che appartiene anche alla costellazione dei Pesci, ha m = 2.8, e varia di luminosità tra m = 2.8 ed m = 2.9 in circa tre ore e mezza. Delta coincide con Sirrah, la Alfa di Andromeda, che in quella costellazione si chiama Alpheratz ed ha m = 2. Queste stelle formano il “quadrato di Pegaso”. Epsilon è Enif, il “naso”, anch'essa variabile tra m = 0.7 e m = 3.5; quindi al massimo di luminosità è molto più brillante della Alfa. Fuori dalla portata dei telescopi amatoriali, in questa costellazione c'è il “Quintetto di Stephan”, formato da cinque galassie di magnitudine 14, quattro delle quali interagiscono gravitazionalmente fra loro: la quinta, NGC 7320, appare vicina alle altre, ma invece è molto più prossima a noi. Per questa ragione oggi si chiama “Quartetto di Stephan”. La costellazione contiene anche un grande ammasso di galassie. Pegaso, secondo l'etimologia fenicia del nome della costellazione, potrebbe avere il significato di polena, la figura umana o animale che ornava la prua delle navi, e ciò spiegherebbe perché del cavallo si rappresentasse nel cielo sempre solo la parte anteriore. Secondo Esiodo, Pegaso nacque, assieme a Crisaore, dal sangue scaturito dalla testa troncata della Medusa, che era stata ingravidata da Poseidone, e fu poi uccisa da Perseo. Crisaore nacque brandendo una spada d'oro. Si accoppiò
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con Calliroe, figlia di Oceano e Teti, che gli generò Gerione, il gigante dai tre corpi, ed Echidna, che si sarebbe unita con Tifone. Pegaso, allevato dalle muse, era un meraviglioso cavallo, bianchissimo, dalle grandi ali di cigno, che “cavalcava” con eguale agilità le vie della terra e quelle dell'aria. Venne il tempo in cui Pegaso decise di allontanarsi dalle muse, ma prima volle ringraziarle per quello che avevano fatto per lui: con lo zoccolo colpì una roccia del monte Elicona e ne nacque una fonte, Ippocrene o “Sorgente del Cavallo”. Poseidone, dio del mare ma anche dei cavalli, donò Pegaso a Bellerofonte, altro figlio suo, che aveva per padre umano Glauco, figlio di Sisifo, e per madre Eurinome. Gli fece questo dono perché riuscisse ad uccidere la Chimera, mostruoso animale tricefalo, il cui alito di fiamme procurava la morte a chi ne era investito. Sisifo era uno degli abitanti primordiali della terra, ed era il più astuto ed intelligente fra gli uomini. Era figlio di Eolo ed aveva fondato Corinto e sposato la pleiade Merope, figlia di Atlante. Suo vicino era Autolico, figlio di Ermes, che aveva ereditato dal dio padre l'inclinazione al furto e la capacità di trasformare la refurtiva: le bestie bianche diventavano nere, quelle cornute perdevano le corna, e così via. Sisifo aveva una bellissima mandria e cercò di tutelarsi incidendo all'interno degli zoccoli delle sue bestie un segno di riconoscimento. Quando Autolico gliele rubò, non si rese conto delle tracce lasciate dal bestiame. E così Sisifo poté denunciarlo ai vicini. Mentre fra i vicini si accendeva la disputa per il colpevole scoperto, Sisifo entrò nella casa di Autolico e ne violentò la figlia Anticlea, moglie di Laerte. Anticlea partorì Ulisse, la cui indole astuta derivava da quella paterna. Autolico dette anche ad Ulisse un elmo di cuoio che questi portò nella sua spedizione notturna con Diomede contro Troia. Non fu, però, la sua scaltrezza ad essergli imputata come colpa, ma piuttosto l'essere riuscito ad ingannare gli dèi. Quando Zeus rapì Egina, figlia del dio fluviale Asopo, Sisifo, dalla sua acropoli, vide tutto.
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Asopo, figlio di Oceano e Teti, giunse a Corinto in cerca della figlia e si diresse da Sisifo. In cambio delle informazioni volute, il padre di Egina gli fece sgorgare una fonte sull'acropoli, e Sisifo gli raccontò tutto ciò che era accaduto. Sfuggito miseramente alla collera di Asopo, Zeus bramò vendetta ed inviò a Sisifo il dio della morte, Tanatos. Ma Sisifo riuscì a vederlo in tempo e lo chiuse nei ceppi a lui destinati, avendolo pregato di mostrargli come funzionavano. Tanatos rimase così prigioniero nella casa di Sisifo, creando una situazione gravissima perché nessuno poteva morire, neanche decapitato. Intervenne Ares, che liberò Tanatos ed imprigionò Sisifo, ma questi, prima di scendere nell'Ade, ordinò a sua moglie Merope di non rendergli gli onori funebri. Una volta in Averno, poté così raggirare Persefone, regina dell'Ade, lamentandosi dell'empietà della sua sposa e suscitando la compassione e l'indignazione della dea che lo rimandò fra i vivi, affinché provvedesse di persona ai suoi funerali. Aveva così vinto per due volte il suo destino di morte, anche se non erano che vittorie temporanee. Tornato sulla terra, Sisifo evitò di tornare negli inferi, e visse fino a tarda età. Ma, quando morì veramente e giunse definitivamente nel Tartaro, gli dèi inferi gli imposero una pena esemplare: doveva eternamente rotolare un enorme masso fino alla sommità di un monte, ma quando stava per raggiungere la cima, una Furia alata gli buttava giù il masso che, cadendo, travolgeva l'eroe. Sisifo, allora, coperto di sudore e di polvere, ricominciava l'inutile e gravosa fatica. Merope, vergognandosi di essere l'unica Pleiade con un marito nell'Oltretomba e per giunta criminale, abbandonò le sue sei sorelle nel cielo notturno e nessuno la vide mai più. (Agizza, Miti). Tornando a Bellerofonte, la mitografia racconta che egli uccise involontariamente il fratello Bellero, tiranno di Corinto e da allora, quasi per non dimenticare la sua colpa, scelse il nuovo nome Bellerofonte ovvero “uccisore di Bellero”. A causa della morte del fratello, Bellerofonte si rifugiò
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presso Preto, re di Argo. Il re Preto aveva tre figlie, Lisippa, Ifinoe ed Ifianassa che, per offese di Preto a Zeus, furono colpite da pazzia. Melampo, famoso mago, figlio di Minia e nipote di Creso, si offrì di curare le tre invasate, purché Preto lo ricompensasse con un terzo del suo regno. Melampo, l'uomo dai piedi neri, era chiamato così perché sua madre, appena nato, lo aveva posto all'ombra, ma, inavvertitamente, aveva lasciato i piedi esposti al sole. Aveva acquisito il dono della divinazione perché, trovato un serpente morto, gli aveva celebrato i funerali su un rogo; i figli dell'animale, riconoscenti, purificarono le sue orecchie con la lingua, per cui egli capì da quel momento il linguaggio degli uccelli e, in genere quello di tutti gli animali. Preto rifiutò perché il prezzo gli sembrava troppo alto, e Melampo si ritirò, ma la pazzia si diffuse tra le donne argive e molte di loro uccisero i propri figli, abbandonarono le case e fuggirono sulle montagne per unirsi alle figlie di Preto. Questi allora mandò a chiamare in gran fretta Melampo che, però, questa volta gli chiese di più: voleva un terzo del regno per sé ed un altro terzo per suo fratello Biante. Questa volta Preto acconsentì e le donne furono inseguite da Melampo assieme ai giovani più vigorosi di Argo, sulle montagne con grandi grida e violenze orgiastiche. Ifinoe morì per consunzione, ma le altre guarirono e furono purificate in un pozzo sacro. Melampo e Briante sposarono poi Lisippa ed Ifianassa. In seguito Antea, la moglie del re Preto, si innamorò del giovane Bellerofonte, che per gratitudine e rispetto al sovrano rifiutò le profferte della regina: essa, offesa dal rifiuto, nella sua ira, accusò Bellerofonte di aver cercato di violentarla. Preto credette alle accuse, ma per onorare l'ospitalità non osò mettere a morte il giovane, che fu inviato presso il re di Licia, Iobate, padre di Stenebea, con una missiva in cui comunica al suocero che Bellerofonte aveva tentato di violentare Stenebea e pertanto meritava la morte. Iobate, dal canto suo, parimenti restio ad uccidere un ospite, volle vendicare l'offesa meditando di raggiungere lo scopo facendo compiere all'ospi-
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te imprese pericolose, dalle quali Bellerofonte non sarebbe dovuto tornare vivo. Come prima impresa gli chiese di uccidere la Chimera. Simile ad un drago, la Chimera era un mostro con la testa di leone, il corpo di cavallo, la coda di serpente. Di origine divina, faceva parte di una famiglia di mostri. Era figlia di Tifone, drago dalle cento teste, e di Echidna, per metà donna e per metà serpente. I fratelli erano il drago Cerbero ed il leone Nemeo, le sorelle, la Sfinge e l'Idra di Lerna. Bellerofonte, con l'aiuto di Atena, domò il cavallo alato Pegaso, e dall'alto del cielo si diresse a picco sul drago, infilzandone le fauci con una lunga asta a punta di ferro tagliente, la picca, e la Chimera colpita a morte, stramazzò al suolo. Dopo la strepitosa vittoria Bellerofonte ritornò da Iobate che subito lo inviò a combattere prima contro la vicina popolazione dei Solimi, che sconfisse, e poi contro le Amazzoni: l'eroe con l'aiuto del suo cavallo alato sconfisse anche le bellicose donne guerriere della Cappadocia colpendole con lancio di pietre dall'alto. Iobate credette di farla finita affidando ad un gruppo di suoi valorosi e fidati soldati lidi il compito di uccidere Bellerofonte in un agguato accuratamente preparato: l'eroe si difese audacemente dall'assalto improvviso dei soldati e ne uscì vincitore solo dopo aver ucciso tutti i suoi aggressori. Stanco di questa ingiustificata persecuzione, Bellerofonte pregò, ed ottenne, da Poseidone di allagare la pianura del fiume Xanto. Mentre Bellerofonte avanzava a piedi verso il palazzo di Iobate, le acque lo seguivano nel suo cammino. Pur di indurre Bellerofonte a fermarsi, le donne xantie rialzarono le sottane fino alla cintura e si offrirono al suo piacere incondizionatamente. Timido ed imbarazzato dalle profferte, egli ritornò sui suoi passi, evitando l'inondazione. E Iobate, finalmente, cominciò a dubitare dell'infamante accusa ascritta al giovane ed a credere che fosse prediletto dagli dèi. Volle sapere la verità, e per ottenerla gli mostrò la lettera di Preto. Così Bellerofonte gli raccontò la storia.
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Iobate, allora, consapevole della rettitudine morale del giovane, oramai acclamato eroe alla corte del vecchio re, acconsentì alle nozze della bella figlia Filonoe con Bellerofonte e lo nominò suo erede al trono di Licia. (Agizza). Da Filonoe, Bellerofonte ebbe due figli, Isandro ed Ippolco, e una figlia, Laudamia, che generò con Zeus l'eroe Sarpedone. Bellerofonte tornò in Licia deciso a vendicarsi delle calunnie di cui era stato vittima, ma Preto guadagnò tempo e consentì ad Antea di fuggire sul cavallo alato di Bellerofonte, Pegaso. Durante la fuga, Antea fu disarcionata da Pegaso, cadde in mare e morì. Il suo corpo fu raccolto da pescatori e riportato a Tirinto. Bellerofonte pensò, forse, che allora tutto gli era possibile e volle addirittura tentare, cavalcando Pegaso, la scalata all'Olimpo. Zeus punì la superbia del temerario eroe, accecandolo; e contro Pegaso inviò un tafano che gli si attaccò alla coscia. In preda ad un folle delirio, Pegaso disarcionò lo sconsiderato cavaliere che, pur precipitando al suolo, ebbe salva la vita, che concluse, però, in miseria poiché, per volere di Zeus, il Fato gli aveva tenuto in serbo un'amara vecchiaia: vagare per la Terra “fuggiasco e vagabondo”. Quanto a Pegaso, non appena si sentì liberato del suo cavaliere, ascese maestosamente in cielo per “fissarsi in eterno” tra le stelle accanto ad Andromeda e Perseo.
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Una rappresentazione dell'Aquila
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L'Ammasso globulare NGC6749
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L'ammasso aperto M16
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Costellazione visibile in estate. La stella più brillante della costellazione è Altair (m = 0.8), che significa “Aquila Volante”. Questa stella rappresenta uno dei vertici del cosiddetto “Triangolo Estivo”, completato da Vega (della Lira) e Deneb (del Cigno). Vicino ad Altair ci sono due stelle abbastanza brillanti: Alshain (m = 3.5) e Tarazed (m = 2.7). La stella Eta dell'Aquila è una cefeide, con m che varia tra 3.5 e 4.4 in circa 7 giorni; con un poco di pazienza è quindi possibile osservare anche ad occhio nudo la sua variabilità, in confronto con le stelle vicine, la beta e la teta. Nella costellazione si trovano, oltre che galassie, anche molti ammassi globulari ed ammassi aperti: si tratta di ammassi stellari di differente età e numero di stelle. Gli ammassi globulari sono le prime formazioni stellari che hanno origine durante la formazione di una galassia. Si tratta quindi di stelle molto vecchie, estremamente utili nello studio dell'evoluzione stellare. Un ammasso globulare può contenere fino ad un milione di stelle. Questi ammassi formano un alone, il cui baricentro indica in centro galattico. Gli ammassi aperti, invece, sono formazioni stellari molto “recenti”, anzi, in qualche caso (come ad esempio nell'ammasso delle Pleiadi), è possibile vederne alcune ancora in formazione. Un ammasso aperto contiene da poche centinaia ad alcune migliaia di stelle, e, in una galassia a spirale come la Via Lattea o Andromeda, giacciono tutte nei bracci della spirale. La mitologia greca è ricca di riferimenti a questo uccello collocato fra le costellazioni per varie cause. Il più noto è il mito narrato da Ovidio secondo il quale Zeus si era innamorato di Ganimede, un affascinante giovane che ebbe i suoi natali in Frigia. Figlio di Troo, Ganimede, che non sapeva far altro che
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portare a pascolo le pecore, contarle, suonare il flauto, fu visto da Zeus che restò colpito dalla sua bellezza. Deciso a sedurlo ad ogni costo, anche ricorrendo al rapimento, il sommo dio prese l'aspetto di un'aquila, animale a lui sacro per la sua magnificenza, per la sua velocità e perché, secondo una leggenda, era l'unico essere vivente in grado di fissare direttamente il Sole senza subirne alcun danno. Per tali motivi all'aquila era affidato l'incarico e il vanto di recare i fulmini che il dio scagliava contro chi lo faceva adirare o lo offendeva. Con quelle sembianze, quindi, Zeus si lanciò in un maestoso volo verso il giovane, lo afferrò saldamente per le spalle con i suoi poderosi artigli e librandosi elegantemente verso i cieli più alti lo trasportò nella sua dimora sull'Olimpo dove lo nominò coppiere degli dei. Tale compito era già svolto con molta eleganza dalla giovane Ebe, prediletta da Giunone; questa nel vedere che la sua protetta era stata sostituita dal bel Ganimede, si adirò ma non potendo opporsi alla volontà del suo autorevole consorte, finì per rassegnarsi. Secondo alcuni mitologi, Zeus diede ad una vera aquila di rapire il giovane che venne poi immortalato nella costellazione dell'Acquario (v. Acquario), mentre l'Aquila ne ebbe una tutta per sé. Altri mitologi sostengono che la costellazione dell'Aquila si trovi vicino a quella della Freccia - che rappresenta il dardo di Eros, l'autore dell'innamoramento di Zeus - affinché la custodisca perennemente. Un ulteriore mito racconta che Zeus, mentre si preparava per combattere contro Crono, suo padre, per conquistare la supremazia fra gli dei, fu visitato da un'aquila, animale a lui sacro, che gli fece una premonizione favorevole alla sua causa: difatti sua fu la vittoria nella battaglia. Per esprimere all'uccello la sua riconoscenza, Zeus lo trasformò in costellazione trasportandolo fra gli astri. Un mito diverso è raccontato da Igino: Ermes si era innamorato di Afrodite, ma la dea gli dimostrava solo indifferenza.
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Il profondo sconforto di Ermes turbava perfino Zeus, suo padre, che decide di aiutarlo. Poiché aveva notato che Afrodite era solita bagnarsi nelle acque del fiume Acheloo, Zeus vi mandò un aquila perché “rubasse” una scarpa della dea e la portasse ad Ermes, che viveva in Egitto. Uscita dall'acqua, la dea non trovò la scarpa, la cercò inutilmente e pur di trovarla, decise di mettersi in viaggio: raggiunse l'Egitto e qui, in una località dove Ermes era ad attenderla, ricevette la sua scarpa ed in cambio concesse se stessa. Appagato nel suo desiderio, Ermes premiò l'aquila che egli stesso trasferì sulla sfera celeste, trasformandola in costellazione. Sempre secondo Igino, l'Aquila potrebbe anche rappresentare Merope, re dell'isola di Cos, da non confondere con l'omonima Pleiade. Merope aveva sposato una ninfa seguace di Artemide: Etemea. Ma questa spesso dimenticava di compiere i dovuti sacrifici in onore della dea. Artemide, allora, punì l'empia ninfa trafiggendola con una freccia e, mentre era agonizzante, la portò nell'Ade. Merope, distrutto dal dolore, si uccise: Zeus, mosso a compassione per l'insano gesto compiuto per immenso amore, lo assunse in cielo trasformandolo in costellazione. In un'altra versione del mito, sempre riferita da Igino, si associa la costellazione dell'Aquila con quella del Cigno. Zeus si era invaghito della dea Nemesi, ma quest'ultima non era affatto disposta a concedersi a lui. Così Zeus si trasformò in un cigno e diede istruzioni alla dea Afrodite affinché fingesse di inseguirlo sotto forma di un'aquila. Nemesi cadde nel tranello: impietosita, diede riparo al cigno in fuga e si ritrovò tra le braccia di Zeus. Per ricordare questo trucco amoroso, Zeus pose tra le stelle le figure del Cigno e dell'Aquila. Sculture ellenistiche rappresentano un altro mito: l'Aquila è fissata tra le stelle nell'atto di divorare il fegato di Prometeo, legato alla rupe del Caucaso.
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Prometeo, figlio del titano Giapeto e dell'oceanina Climene, è giusto e saggio; suoi fratelli sono Epimeteo, Atlante e Menezio. La famiglia dei Titani, cui appartiene Prometeo, si era schierata contro Zeus e gli dèi dell'Olimpo che volevano detronizzare Crono. Ne nacque una guerra, la Titanomachia, che durò dieci anni e fu vinta da Zeus, che inflisse severe punizioni agli sconfitti: tra questi, Atlante fu condannato a reggere sulle proprie spalle il peso dell'intero globo celeste (v. Prima Parte). Atlante possedeva una terra al di là delle colonne d'Ercole, che il suo popolo coltivava e su cui aveva costruito palazzi e templi: Atlantide. Un giorno, però, gli abitanti del luogo si lasciarono vincere dall'avidità e dalla crudeltà e Zeus li punì scatenando un diluvio che allagò l'intera Atlantide. Atlante e Menezio scamparono al disastro e, per vendetta, si allearono con Crono nella guerra contro Zeus ma furono sconfitti. Prometeo, che era più saggio di Atlante ed aveva partecipato alla guerra dei Titani a fianco di Zeus, inducendo anche Epimeteo ad imitare il suo esempio, ricevette il premio dell'accesso libero al divino palazzo, posto sotto la vetta dell'Olimpo. È un grande riconoscimento alla fedeltà e un onore concesso soltanto a pochi. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza. Atena gli insegnò l'architettura, l'astronomia, la matematica, l'arte di lavorare i metalli ed altre cose utilissime, che egli a sua volta insegnò ai mortali. Era il tempo in cui gli uomini erano ammessi alla presenza degli dèi e partecipavano anche ai loro banchetti. Un giorno venne portato un enorme bue, di cui metà destinata a Zeus e l'altra metà agli uomini; Zeus diede l'incarico a Prometeo di procedere all'equa spartizione. Prometeo, nell'assolvere l'incarico, decise di ascoltare la voce del cuore e nel dividere il bue esattamente in due, rinchiuse le carni migliori nella parte che preparò meno accuratamente. Zeus scelse per sé la metà dell'animale preparata con più cura, ma che conteneva carni meno pregiate. Gli uomini
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gioirono dell'inganno perpetrato contro Zeus, che, avvedutosene, scatenò la propria ira sull'umanità privandola del fuoco, simbolo della vita. Prometeo giudicò eccessivo il castigo inflitto agli uomini e decise di rubare il fuoco dall'Olimpo per riportarlo sulla Terra. Lo cercò nell'Olimpo e trovatolo nel Carro del Sole, ne prese alcune scintille, le nascose in un giunco, e giunto sulla Terra, le restituì agli uomini che, felici, durante la notte prepararono altari ed accesero fuochi per festeggiare la vita ritrovata. Zeus se ne avvide e, comprendendo di essere stato ingannato, liberò da ogni freno la propria ira che rivolse contro Prometeo e l'umanità. Ordinò a Bia (dea delle passioni violente), ad Efesto (dio della metallurgia e delle arti meccaniche) ed a Cratos (divinità della forza e del potere) di rapire Prometeo, di incatenarlo su una vetta del gelido Caucaso con lacci di acciaio e conficcargli nell'addome una massiccia colonna. Il castigo, però, non era ancora finito: Zeus gli mandò contro l'Aquila, figlia di Echidna e di Tifone, la quale durante il giorno gli divorava il fegato che, però, durante la notte gli si rigenerava. Il castigo era quindi eterno. Quanto all'umanità, Zeus la punì con il flagello di Pandora. Pandora fu la prima donna comparsa sulla Terra, creata da Efesto ed Atena, aiutati da tutti gli dèi, per ordine di Zeus. Ognuno la ornò di una qualità: la bellezza, la grazia, l'abilità manuale, la persuasione ecc. Ma Ermes mise nel suo cuore la menzogna e la furbizia. Pandora ricevette l'incarico da Zeus di consegnare a Prometeo un vaso chiuso contenente tutti mali, con la raccomandazione di non aprirlo, ma lei, incuriosita, si affrettò a sollevare il coperchio e all'istante tutti i mali si diffusero nel mondo. Infatti, il vaso era pieno degli spiriti della malattia, della carestia, dell'odio che, una volta fuori, da allora affliggono l'umanità. Ma, nel momento in cui Pandora rimette il coperchio al proprio posto, all'interno resta ancora la “Speranza”. La “Spe-
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ranza” di ciò che dovrà accadere, non ha fatto in tempo ad uscire fuori. Trascorsi trent'anni, giunse all'orecchio di Zeus una voce divina che lo mosse a pietà verso Prometeo. Era la voce di Chirone che, nella guerra contro i Centauri, colpito involontariamente da una freccia mortale scagliata da Eracle, invocava Zeus di concedergli la morte in cambio della propria immortalità. Chirone fu il più saggio e il più sapiente dei Centauri. Nacque sul monte Pelio, in Tessaglia ed era figlio di Crono e di Filira, una figlia di Oceano. Per generarlo, Crono si era unito a Filira sotto la forma di un cavallo, perché lei, rifiutandolo, si era trasformata in giumenta per sfuggirgli, ma il dio assunse la forma di un cavallo e la violentò. La madre insegnò a Chirone ad allevare i bambini che gli venivano affidati, come Achille, Asclepio e Giasone. Protesse in particolar modo Peleo, padre di Achille, durante le sue peripezie alla corte di Acasto, difendendolo dalla brutalità degli altri centauri, gli dette il consiglio di sposare Teti e gli insegnò come obbligarla al matrimonio. Lei non voleva sposarlo e per sfuggirgli cominciò a trasformarsi in tutti gli animali marini: Chirone gli consigliò come usare una rete! Così Peleo, dopo che si fu separato dalla moglie, affidò a lui il figlio Achille. Per un fatale errore, Chirone, ferito gravemente da una freccia di Eracle durante il massacro dei Centauri, che lo vedeva accanto ad Eracle stesso, soffriva moltissimo. Sebbene lo desiderasse, non poteva morire perché era immortale. Da parte sua Eracle chiese a Zeus l'immortalità di Chirone e la salvezza di Prometeo. Zeus ascoltò quella voce e, volendo procurare onori ed immortalità al figlio Eracle, lo incaricò di liberare Prometeo, anche perché nel frattempo il Titano gli aveva predetto “pericoli” minaccianti il suo regno: Zeus si era innamorato di Teti e voleva sposarla. Le Parche predirono che dal matrimonio sarebbe nato un
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figlio che avrebbe usurpato il potere di Zeus. Prometeo, dotato di facoltà divinatorie, avvertì Zeus del pericolo che stava correndo: memore del padre Crono, Zeus rinunciò a Teti ed il suo trono fu salvo. Eracle allora uccise l'Aquila, sciolse il Titano dalla roccia e l'introdusse nel mondo degli uomini e nel regno degli immortali: Prometeo redento dall'ira di Zeus poté accedere di nuovo liberamente al palazzo degli dèi (v. anche Prima Parte). Col consenso di Zeus ebbe così luogo uno scambio. Prometeo, nato mortale, offrì a Chirone il suo diritto a morire; in cambio prese l'immortalità del più vecchio ed illustre tra i centauri. Un'altra leggenda ancora narra che il “vaso di Pandora” non rinchiudesse i mali ma i beni, e che fosse stato portato ad Epimeteo come dono di nozze, da parte di Zeus. Aprendolo per la sua curiosità, Pandora lasciò che i beni volassero via e se ne ritornassero alle dimore divine invece di restare fra gli uomini. In tal modo gli uomini furono afflitti da tutti i mali; solo la Speranza, per consolazione, rimase tra loro. Tolomeo riporta nell'Almagesto per questa costellazione il nome di Antinoo, un giovane che era stato grande favorito presso l'imperatore Adriano e che era annegato nel Nilo nel 131 d.C.. La costellazione è molto antica: la sua figura ricorre anche in una pietra di origine mesopotamica risalente al 1200 a.C. che rappresenta i cieli e che fu rinvenuta nella valle dell'Eufrate. Anche gli Arabi videro in queste stelle la figura del rapace e chiamarono la costellazione Al Nasr al Tair, cioè “l'aquila volante”, da cui il nome di Altair per la stella principale. Una scoperta che lascia affascinati, ma anche un po' perplessi, è che nell'edificazione della città di Aquila sarebbe possibile ipotizzare la somiglianza tra la disposizione delle chiese della città e le stelle della costellazione.
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AE Aurigae. Stella fuggitiva
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Costellazione invernale. La stella più nota dell'Auriga è Alfa, Capella, m = 0.1; è una stella doppia ed è la sesta stella in luminosità della volta celeste. Beta è Menkalinan; è una variabile ad eclisse che ha m = 1.9. Anche Epsilon è una variabile ad eclisse. La stella AE dell'Auriga è, con 53 Eri e mi-Columbae, un insieme di stelle chiamate da Zwicky, nel 1957, “fuggitive dalla costellazione di Orione”. Hanno tutte moti propri molto elevati, con velocità attorno ai 130 km/s. In particolare AE Aur si trova per caso a passare vicino ad una nebulosa che illumina di luce riflessa. Una leggenda narra che molti dèi, Titani e Giganti avrebbero volentieri sposato Atena, figlia di Zeus, ma essa rifiutò tutte le proposte. Un giorno si recò nella fucina di Efesto, che all'improvviso cercò di violentarla. Efesto, che di solito non si comportava in modo tanto grossolano, era vittima di uno scherzo di Poseidone, che l'aveva informato che Atena stava dirigendosi verso la fucina, col consenso di Zeus, sperando che Efesto facesse l'amore con lei. Quando Atena si divincolò da Efesto, questi eiaculò sulla sua coscia, un po' al di sopra del ginocchio. La dea si ripulì dallo sperma con della lana, che gettò via disgustata. La lana cadde al suolo presso Atene e casualmente fecondò Gea. Ribellandosi all'idea di avere un figlio che Efesto avrebbe voluto generare ad Atena, Gea rifiutò ogni responsabilità per la sua educazione. Atena, allora, prese sotto la sua protezione il bimbo appena nato, lo chiamò Erittonio e, per evitare che Poseidone ridesse del successo della sua burla grossolana, lo celò in un cesto che affidò ad Aglauro, figlia maggiore del re di Atene, Cecrope, raccomandando di averne cura.
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C'era però il problema che sia Cecrope che Erittonio erano metà uomo e metà serpente. Una sera, mentre Aglauro tornava a casa con le sorelle Erse e Pandroso, portando a turno la cesta sul capo, Ermes offrì dell'oro ad Aglauro perché gli permettesse di introdursi nella stanza di Erse, di cui era innamorato. Aglauro si tenne l'oro di Ermes ma non fece nulla per meritarselo, poiché Atena l'aveva resa gelosa dei successi di Erse. Ermes, allora, entrò furibondo nella casa, trasformò Aglauro in pietra e violentò ripetutamente Erse, che gli generò anche un figlio, Cefalo. In seguito Erse volle vedere cosa si celasse nel paniere di Aglauro e ne sollevò il coperchio. Scorgendo un fanciullo con una coda di serpente in luogo delle gambe, lanciò un urlo di terrore e si gettò giù dall'Acropoli. La notizia fu riportata ad Atena da un corvo ed ella ne fu così addolorata che mutò le penne del corvo da bianche a nere (Miti). Erittonio fu allevato da Atena, anche dea della sapienza, e fu addestrato dalla dea stessa nella guida di bighe e cocchi tirati da impetuosi cavalli: divenne così abile da meritarsi l'appellativo di “re cocchiere”, quando diventò re di Atene. Gli si attribuisce generalmente l'invenzione della quadriga e l'introduzione in Attica dell'uso del denaro. Dai cartografi dell'antichità è raffigurato come l'Auriga che porta un bastone in mano e la capretta sulle spalle: la capretta è Amaltea, che nutrì Zeus quando, ancora piccolo, viveva tra i pastori sul monte Ida. Nella cosmogonia Crono, padre di Zeus, è ricordato non solo per essere stato tiranno che divorava i propri figli appena nati e per aver imprigionato i fratelli nelle viscere del Tartaro, ma anche per essere stato il padre dei tre sovrani del mondo: Zeus (del cielo), Poseidone (del mare), Ade (degli inferi). È inoltre ricordato come il dio dell'età dell'oro, inventore dell'agricoltura e costruttore di città. Crono divorava i propri figli appena nati, perché aveva sa-
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puto da Gea ed Urano, suoi genitori, che sarebbe stato detronizzato da un figlio. Rea, incinta di Zeus, volendo salvare il nascituro dalla voracità di Crono, fuggì a Creta e là nacque Zeus, subito affidato al re Erittonio, che, quasi volando sul proprio cocchio, raggiunge il monte Ida, dove nascose il piccolo tra i pastori per preservarlo da sicura morte. Qui Adrastea ed Io, figlie del re di Creta Melisseo, lo nutrivano, in compagnia del suo fratellastro Pan, con il latte della capra Amaltea, figlia di Helios (il Sole), con il miele dell'ape Panacride e con il nettare portato ogni giorno da un'aquila; da parte loro i Cureti, sacerdoti della dea Rea, proteggevano il piccolo nascondendone i vagiti, e quindi la sua presenza sull'isola, con danze orgiastiche durante le quali suonavano strumenti riproducenti assordanti rumori. Intanto Rea, per ingannare Crono, gli presentò un bimbo che era in realtà una pietra avvolta in pannolini, che venne divorato puntualmente e con tanta avidità dall'affamato sposo che non si accorse affatto della sostituzione. Zeus, divenuto re degli dei, non dimenticò Erittonio, il suo salvatore né i pastori che lo avevano allevato né la capretta che lo aveva nutrito: li immortala tutti ponendoli insieme nella regione celeste tra il Toro e Perseo. Il firmamento si arricchisce così di un'altra costellazione, l'Auriga. Riguardo al mito dell'Auriga esistono varie altre versioni che concordano su un unico punto: sarebbe il mortale o l'eroe (forse Erittonio, re di Atene), figlio di una divinità (in questo caso Efesto, il fabbro degli dei), che per primo seppe aggiogare i cavalli ad una quadriga terrestre, imitando il Carro del Sole. Gli Assiri rappresentavano con un carro questa costellazione.
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Boote è una costellazione del cielo primaverile. Alfa è Arturo, con m = -0.05: è la quarta stella più brillante in cielo ed inoltre è uno degli astri con moto proprio maggiore, superiore a 2' l'anno. Può essere trovata prolungando l'arco della coda dell'Orsa Maggiore. Epsilon si chiama “Pulcherrima”; è una doppia con le componenti di magnitudine 2.6 e 4.9. In questa costellazione è possibile vedere uno degli sciami meteorici più ricchi dell'anno: le Quadrantidi, visibili in gennaio, che ricordano la vecchia costellazione del Quadrante Murale, ora caduto in disuso. Mitologicamente, questa costellazione è legata all'Orsa Maggiore; infatti rappresenta un pastore (o bifolco o bovaro) che spinge avanti i buoi alzando il braccio per incitarli nel cammino: gli antichi vedevano nelle sette stelle più luminose dell'Orsa Maggiore i buoi e dietro il bifolco che li incalzava. Dunque il bovaro era un guardiano: infatti era il guardiano dell'Orsa e questo è anche il significato del nome della stella principale della costellazione, Arturo. Secondo una variante del mito, Boote costituirebbe la rappresentazione celeste di Arturo, figlio di Zeus e di Callisto che, tramutata in orsa da Artemide (o da Era) , fu poi trasportata in cielo da Zeus: l'Orsa Maggiore (v. Orsa Maggiore). Una leggenda, narrata da Eratostene, spiega che un giorno Zeus fu invitato a pranzo dal padre di Callisto, Licaone. Questi non era convinto che il suo ospite fosse davvero il sommo nume, per cui lo mise alla prova: uccise Arturo, lo fece a pezzi e lo servì a tavola come pranzo per vedere se Zeus se ne sarebbe accorto. Naturalmente Zeus intuì il tranello: strangolò i figli del malvagio re e trasformò lui stesso in lupo.
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Gea allora intervenne in tempo per salvare il figlio più giovane, Nittimo, che gli succedette nel regno. Poi, con amorevole premura, raccolse i brani dell'adorato figlio e li ricompose. Arturo rinacque, così, a seconda vita e diventò un possente cacciatore; come già raccontato nel mito dell'Orsa Maggiore, egli s'imbatté in una grossa orsa e, non riconoscendo in essa sua madre Callisto, stava per ucciderla quando Zeus intervenne e fermò la mano del giovane evitando l'orribile, ma inconsapevole, scelleratezza. Portò poi i due in cielo trasformando Arturo (Boote) nel custode di sua madre, l'Orsa Maggiore. Esiodo suggerisce come seminare nel modo migliore per ottenere raccolti abbondanti ne “Le opere e i giorni”: “quando poi Zeus [farà comparire] l'astro Arturo […] è questo il tempo migliore”. Virgilio, nelle Georgiche, ricorda al contadino di dissodare il terreno quando all'alba la stella si trova sull'orizzonte: Ma sarà sufficiente un'aratura in superficie Al sorgere di Arturo, anche se la terra dovesse essere infeconda Libro I. VV. 67-68 Un altro mito è in Igino ne l'”Astronomia”. Demetra aveva avuto Persefone dal fratello Zeus, ma in seguito non era rimasta insensibile alle attenzioni di un mortale, Giasone: a costui affida i suoi misteri e gli insegna l'arte della semina. L'amore della dea per Giasone scatena l'ira degli dèi, che non approvano quell'unione e Zeus colpisce Giasone con un fulmine. Dall'amore di Giasone, Demetra ha due figli, Pluto e Filomelo: il primo, dio delle ricchezze; il secondo, inventore dell'aratro. I due fratelli crebbero in un conflitto che si protrarrà nel tempo fin oltre la maturità: Pluto, ricco, non aiuta Filomelo, povero. La povertà non scoraggia Filomelo che, non senza sacrifici, compra due buoi e, primo fra gli uomini, costruisce un
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aratro con il quale lavora la terra: vivrà dignitosamente del suo faticoso lavoro. Così Demetra, dea della fertilità della terra, può gioire per l'invenzione del figlio e lo premia donandogli l'immortalità: lo incastona sulla volta celeste trasformando lui agricoltore nella costellazione Boote o Bifolco e cioè Contadino. Un'ulteriore leggenda, anche questa narrata da Igino, raffigura Boote come l'agricoltore Icario: costui era particolarmente devoto al culto di Dioniso, e per questo il dio gli aveva dato in dono alcune piante di vite insieme alle regole necessarie per produrre il vino. Icario ricavò da queste piante divine un liquore ineffabile del quale andava molto fiero e ne offriva volentieri l'assaggio ai suoi amici. Un giorno ne offrì ad alcuni pastori che erano a guardia del gregge che pascolava vicino ai suoi poderi e questi, data la prelibatezza del nettare, ne bevvero in quantità; ma, un po' per la quantità bevuta, un po' perché non erano abituati a berne ed un po' perché trascurarono di tagliarlo con l'acqua, si ubriacarono, cominciarono a vedere doppio e poi si addormentarono profondamente. Di lì a poco giunsero i pastori che dovevano dar loro il cambio per la sorveglianza del gregge e vedendoli stesi a terra immobili, si convinsero che erano stati avvelenati; incolparono allora Icario di quel misfatto; lo uccisero per vendicare i loro amici e lo seppellirono sotto un pino, quindi fuggirono. Alla tragedia aveva assistito Mera, la cagna di Icario; la bestia corse, ululando, verso la casa dove era affaccendata Erigone, la figlia di Icario e la condusse presso l'albero ove il povero contadino era sepolto, scavando il terreno con le zampe. Erigone, disperata per tale evento, si impiccò all'albero stesso pregando perché le figlie di Atene subissero il suo stesso destino finché Icario non fosse stato vendicato. Gli dèi udirono la sua preghiera mentre i pastori fuggirono, e ben presto molte fanciulle ateniesi furono trovate impiccate ad alcuni pini e l'oracolo delfico spiegò che era stata Erigone ad esigere le loro vite. I pastori colpevoli furono subito ritrovati ed impiccati e si istituì la festa della vendemmia, durante la quale si versano li-
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bagioni ad Icario ed a Erigone, e le fanciulle si dondolano su corde appese ai rami degli alberi, appoggiando i piedi su un'asticella: ecco come fu inventata l'altalena. Gli dei si commossero e trasformarono Icario in Boote, Erigone nella costellazione della Vergine e Mera nella stella Procione, della costellazione del Cane Minore. Una notevole utilizzazione della costellazione di Boote si riferisce ad un fatto storico. Quando dovettero progettare la Fiera Mondiale del 1933, la Century of Progress Exposition di Chicago, gli organizzatori cominciarono a studiare un sistema per enfatizzarne l'apertura. Si accorsero che un'altra Fiera Mondiale, la World's Columbian Exposition del 1893, era stata tenuta a Chicago. I promotori della Fiera del 1933 decisero che sarebbe stata una buona idea avere un “tedoforo” che abbracciasse il periodo tra la precedente Fiera Mondiale di Chicago e la loro. Con spirito d'iniziativa si rivolsero all'astronomia per trovare una soluzione. All'epoca si credeva che la stella Arturo fosse distante dalla Terra 40 anni-luce, in altre parole la luce di Arturo impiegava 40 anni a raggiungere la Terra. (in realtà si trova a solo 37 anni-luce dalla Terra). I promotori si dissero che la luce prodotta da Arturo nel 1893, durante la Fiera Mondiale precedente, era appunto la fiaccola di cui avevano bisogno: quella luce sarebbe arrivata sulla Terra proprio nel periodo della Century of Progress Exposition. Gli astronomi usarono un piccolo telescopio, tipo quello costruito da Galileo, per focalizzare la luce di Arturo su di una fotocellula, un meccanismo allora nuovo. Il 2 ottobre 1933, un po' della luce di Arturo terminò il suo lungo viaggio verso la Terra passando attraverso le storiche lenti di Galileo, dentro la nuova fotocellula che accese i grandi fari che segnalavano l'apertura dell'Exposition. Così la luce di una stella lontana collegò due eventi ed inaugurò la mostra. (Stelle).
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Galassia doppia
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Foto di Sirio e Cucciolo (Sirio B)
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Costellazione invernale. Il Cane Maggiore, pur essendo una costellazione totalmente australe, è visibile anche da tutte le zone temperate. La sua stella più luminosa, Sirio, la “bellissima”, è nota a tutti e può facilmente essere individuata sia verso sud-est nella direzione del prolungamento della cintura di Orione, sia procedendo nella direzione delle tre stelle Megrez e Merak dell'Orsa Maggiore e Polluce dei Gemelli. Sirio, con m = -1.4, è la più luminosa del cielo; è anche al secondo posto tra le stelle più vicine al Sole, con una distanza d = 9 anni luce. È superata, in vicinanza, solo da Proxima, la Alfa del Centauro. È una stella doppia. La compagna, Sirio B, è nota come “Cucciolo” ed è una Nana Bianca, stella molto densa, giunta alla fine dell'evoluzione stellare e, data la sua piccola massa, circa uguale a quella del Sole, non può fare altro che perdere il suo calore e lentamente “spegnersi”. Il suo periodo di rivoluzione è di circa 50 anni. Fu vista nel 1862 dall'astronomo americano Alvan Clark, ma era stata scoperta trent'anni prima “teoricamente” da Bessel, con lo studio delle perturbazioni che il “piccolo” satellite esercitava sull'orbita di Sirio. La stella beta è Mirzam, con m = 2. Gamma è Wezen, con m = 1.8. Venti secoli fa, Sirio sorgeva contemporaneamente al Sole, allora in transito nella costellazione del Cancro: erano i giorni caldi di Luglio, giorni che portano ancora oggi l'appellativo di “canicolari” ovvero “giorni del cane”. Sirio, con Procione del Cane Minore e Betelgeuse di Orione, forma un grande triangolo equilatero noto come “Triangolo Invernale”.
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Secondo alcune leggende, il Cane Maggiore rappresenta uno dei due cani del cacciatore Orione, Lelapo. Lelapo era un cane eccezionale, fedele compagno di Orione. Prima di legarsi al leggendario personaggio, l'animale aveva avuto molti altri padroni; la più amata era Pocri, la sfortunata moglie di Cefalo. Narra il mito che Lelapo, per la sua lealtà e destrezza, fu scelto da Zeus per fare la guardia ad Europa, la bellissima fanciulla da lui stesso rapita e resa sua amante; questa in seguito, lo regalò a suo figlio Minosse, re di Creta. Un giorno Minosse si ammalò gravemente e la sua malattia non riusciva ad essere guarita da nessun medico, tanto che si cominciavano a fare i preparativi per i suoi funerali, quand'ecco che si presentò una donna, Pocri, che in poco tempo riuscì a restituire al re la piena salute. Furono indette grandi feste, furono attribuiti grandi onori alla guaritrice e le fu dato in dono da Minosse, a titolo di riconoscenza, il cane Lelapo e un giavellotto che aveva la virtù di non fallire mai il colpo. Questo dono, molto gradito, si rivelò fatalmente avverso alla sventurata Pocri. Durante una battuta di caccia, suo marito Cefalo, scambiandola per un cerbiatto dietro un rovo, la ferì mortalmente proprio con quell'arma. Dopo la morte della diletta compagna, Cefalo, rimasto solo col fedele Lelapo, si recò a Tebe per cacciare un'inafferrabile e pericolosissima volpe che razziava abilmente pollai ed ovili nelle campagne presso la città. Cefalo incitò Lelapo contro la volpe, sicuro che la velocità e l'abilità nella caccia del suo cane gli avrebbero fatto avere ben presto la meglio sulla predatrice, ma la furbizia e l'agilità della bestia la salvarono sempre anche se tallonata e quasi raggiunta dall'inseguitore. La caccia si protrasse per lungo tempo, tanto che Zeus in persona, vista l'equivalenza di doti dei due animali, per non prolungare ancora di più l'inseguimento, li trasformò in pietre e poi li portò in cielo come costellazioni: Cane Maggiore e Volpetta. Un'altra leggenda narra di Cefalo, figlio di Deione e discendente di Deucalione attraverso il padre Eolo. La madre è
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Diomeda, figlia di Suto e Creusa. Creusa, figlia di Eretteo e di Prassitea, quando era appena giovinetta si offrì, con le sorelle, come volontaria vittima espiatoria, per la patria, durante la guerra contro Eumolpo, ma fu salvata per la giovane età. Divenuta adulta, fu violentata da Apollo in una grotta dell'acropoli di Atene, e gli dette un figlio, Ione, che abbandonò nello stesso luogo dove era stata sorpresa dal dio. Ione fu poi portato da Ermes a Delfi ed allevato nel tempio. Creusa sposò Suto, che si era rifugiato ad Atene perché accusato di furto dai fratelli. Suto fu proclamato arbitro della successione al trono dopo la morte del padre Eretteo e dichiarò che il suo cognato più anziano, Cercope Secondo, era il legittimo erede, ma la sua decisione non fu approvata dal popolo e Suto, condannato all'esilio, fuggì in Acaia, dove alcuni anni dopo morì (Miti). Cefalo era così bello che Eos, l'Aurora, si innamorò di lui e lo rapì e con lui generò Fetonte che sarebbe stato rapito appena fanciullo da Afrodite, affinché custodisse i suoi templi più sacri. Procri amava molto Cefalo e quest'amore era ricambiato, ma un giorno Cefalo cominciò a dubitare della fedeltà della moglie. Infatti Procri, a Creta, fu sedotta da Minosse, che le regalò un cane da caccia che non mancava mai la preda ed un giavellotto che non mancava mai il bersaglio. Cefalo decise di metterla alla prova e si travestì da Pteleone con l'aiuto Eos: senza farsi riconoscere, s'introdusse in casa sua, mentre lei lo credeva assente, e le offrì dei regali sempre più preziosi, se ella avesse acconsentito a concedersi a lui. La giovane resistette a lungo, ma alla fine fu tentata e cedette. Allora Cefalo si fece riconoscere e Procri, in preda alla vergogna ed all'ira, fuggì sulla montagna. Qui Cefalo, pieno di rimorsi, l'inseguì e finirono col riconciliarsi, ammettendo ognuno i propri torti. Procri diventò gelosa, perché vedeva spesso il marito andare a caccia e si chiedeva se le ninfe dei boschi non lo tentassero. Interrogò un servitore che l'accompagnava e questi le rispose che, dopo la caccia, il marito si fermava ed invocava una
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misteriosa “Brezza”, chiedendole di venire a rinfrescare il suo ardore. Procri, gelosa, decise di sorprendere gli amori colpevoli di Cefalo. Lo seguì a caccia, ma Cefalo, udendo muovere la macchia, lanciò nella sua direzione il giavellotto infallibile. Procri fu ferita a morte ma, prima di morire, comprese il suo errore: Cefalo le era stato sempre fedele e la brezza che invocava non era che il vento. Accusato d'omicidio davanti all'Aeropago, Cefalo fu giudicato colpevole e condannato all'esilio. Abbandonò l'Attica e raggiunse Anfitrione che accompagnò nella spedizione contro i Tafi. Dopo la loro vittoria, l'isola di Cefalonia prese questo nome da Cefalo. Qui egli sposò Lisippa, dalla quale ebbe quattro figli, eponimi delle quattro tribù di Cefalonia. In un'altra versione del mito, il Cane Maggiore è identificato con Mera, la fedele cagna di Icario che venne poi tramutata da Zeus nella costellazione di Boote. Presso gli Egizi il sorgere eliaco di Sirio, cioè il primo apparire dell'astro nella luce del crepuscolo mattutino, serviva agli astronomi dell'epoca per stabilire l'inizio del nuovo anno agricolo, quando aveva inizio l'esondazione del Nilo. Gli Egizi veneravano nella stella, da loro chiamata Sopdet, la presenza benefica del dio Sothis, insieme a quella del Nilo (Sihor) ed a quella di un cane premuroso, e tutta la costellazione era dedicata al dio Anubi che veniva rappresentato appunto con la testa di cane. Quasi sempre, nel passato, la costellazione del Cane Maggiore è stato identificato con la stella Sirio, tanto che per i Fenici questa stella era chiamata “l'abbaiante”, ed anche i Caldei, gli Accadi, i Babilonesi, i Persiani e gli antichi Cinesi vedevano in essa un dio con sembianze di cane. Il nome Sirio può anche derivare dal vocabolo “il Risplendente”, in sanscrito Surya, in greco Seir, ed in arabo al-Shi'ra.
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Costellazione invernale. La stella Alfa è Procione, che simboleggia il secondo cane di Orione, ed ha m = 0.4: è l'ottava, dopo Capella, nell'Auriga, Rigel in Orione e poche altre. È una binaria, con periodo di circa 41 anni, ed ha un compagno, Procione B, che è una Nana Bianca. La beta si chiama Gomeisa, ed è legata ad un'antica leggenda Araba. Procione, con Sirio del Cane Maggiore e Betelgeuse di Orione, forma il cosiddetto “Triangolo Invernale”. La leggenda araba racconta che due sorelle, Al Ghumaisa (Gomeisa) ed Al Shira (Sirio, del Cane Maggiore) vivevano su una delle rive del grande fiume stellare, la Via Lattea; il giovane Al Jauzah (Orione) su quella opposta. Innamoratesi del giovane, le sorelle decisero di raggiungerlo, ma solo Al Shira riuscì ad attraversare la Via Lattea: da qui i nomi di Al Shira, che significa “colei che è passata”, e Al Ghumaisa, “colei che piange”. Secondo una leggenda greca, questa costellazione si identifica con uno dei cani del cacciatore Atteone, che, durante una battuta di caccia, passò presso una fonte nella quale la dea Artemide stava facendo il bagno. Questa, infuriata per essere stata sorpresa nella sua nudità, anche se involontariamente, trasformò Atteone in cervo ed incitò i suoi stessi cani a sbranarlo. Un'altra leggenda greca è collegata al culto del dio Dioniso. Un uomo, di nome Icaro (non è il figlio di Dedalo ed alcuni lo chiamano Icario), aveva imparato da lui l'arte del vino. Lo fece bere ad alcuni pastori, che caddero ubriachi; ma altri pastori, che li avevano raggiunti, sospettando che Icaro avesse cercato di avvelenarli, lo uccisero. Il fedele cane Mera corse al-
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lora dalla figlia di Icaro e la condusse al cadavere del padre. Presa dalla disperazione, la fanciulla si uccise, ed anche il cane si lasciò morire. La pietà degli dèi portò in cielo il cane sotto forma di costellazione, ma anche Icaro avrebbe avuto un posto sulla volta celeste, nella costellazione di Boote. (v. Boote).
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Henri Chatelain
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M100 nella Chioma di Berenice
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NGC 4341 vista dal telescopio Hubble
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Costellazione primaverile. Alfa e Beta hanno circa la stessa luminosità con m = 4.3, ma la più luminosa è la beta. Questa costellazione contiene anche il polo nord galattico. La costellazione divide, con la costellazione della Vergine, l'ammasso di galassie più ricco che è possibile vedere con i telescopi terrestri: l'ammasso Chioma-Vergine. Berenice è personaggio storico: figlia di Magas, re di Cirene, sposa di Tolomeo III Evergete, figlio di Tolomeo Filadelfo. Quest'ultimo è noto per aver fatto tradurre ed assemblare gli episodi della Torà, i primi cinque libri della Bibbia attribuiti dalla tradizione a Mosè, che narrano la storia del popolo d'Israele dalle origini fino alla Terra Promessa. Ad Alessandria, divenuta la città con la più grande comunità ebraica, Tolomeo promosse la traduzione in greco del Vecchio Testamento. Alla morte di Tolomeo Filadelfo, il figlio Tolomeo III Evergete divenne faraone. Pochi giorni dopo le nozze con Berenice, Tolomeo partì in guerra contro Seleuco II, re di Siria, e Berenice promise solennemente che avrebbe offerto agli dèi la sua bellissima chioma biondo-ambra, se Tolomeo fosse tornato illeso. Il desiderio della regina fu esaudito: Tolomeo tornò indenne e vittorioso. Berenice allora si recò al tempio di Iside per sciogliere il voto: offrire agli dèi la sua splendida capigliatura tanto celebrata in Egitto ed oltre i confini. Dopo qualche giorno la chioma della regina scomparve dal tempio. L'atto sacrilego suscitò scalpore nella popolazione incredula, arrecò dolore alla regina, accese l'ira nell'animo del faraone, fece gridare vendetta ai soldati pronti a punire il responsabile che con quel gesto aveva offeso gli dèi, i sovrani, il popolo. Così l'astronomo e matematico di corte, l'alessandri-
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no Conone, già di gran fama, nella speranza di riportare serenità nella vita dei sovrani, asserì che gli dèi, innamoratisi della chioma, non aveva esitato a prelevarla dal tempio per trasformarla in costellazione, perché tutti gli uomini potessero ammirarla per l'eternità. E, certo di rendere felici i sovrani, l'astronomo additò loro nel distretto sidereo tra l'Orsa Maggiore, Boote, Vergine e Leone, un delicato, esteso ed indefinito sciame di stelle, tenuemente brillante: la chioma della regina, ormai costellazione Chioma di Berenice. Il poeta lirico greco Callimaco dedicò alla Chioma di Berenice una famosa lirica, della quale Catullo fece una traduzione in latino, la cui versione in italiano è questa: Chi scrutò dell'immenso firmamento tutte le luci e apprese delle stelle albe e tramonti e come il fiammeggiante lume del sole rapido si oscuri e in tempi fissi le costellazioni vengano meno e come il dolce Amore tra le rocce del Latmo di nascosto spinga lontano Trivia, dirottandola dal suo giro nell'aria, quel Conone nel chiarore celeste vide me, una ciocca recisa dalla chioma di Berenice, fulgida splendente, che, tendendo le braccia levigate, ella promise a molte dee, nel tempo in cui, accresciuto dalle nuove nozze, il re si era recato a devastare le terre degli Assiri. Con sé aveva dolci le tracce del notturno assalto condotto alla conquista della vergine. Hanno davvero un odio per l'amore le nuove spose, oppure è falso il fiume di lacrimette, sparso sulla soglia della stanza nuziale, a render vana
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la letizia del padre e della madre? Così mi favoriscano gli dèi, non sono vere lacrime: l'ho appreso dal pianto intenso della mia regina, quando il nuovo marito era sul fronte di sinistre battaglie. O non piangevi, rimasta sola, il letto abbandonato, ma piuttosto il distacco doloroso da un amato fratello? Quanto in fondo fin nelle fibre invase da tristezza l'ansia ti consumò! Come la mente per la totale angoscia venne meno e i sensi ti mancarono! Ma pure avevo conosciuto il tuo coraggio da quando eri bambina., O non ricordi l'azione ben condotta - nessun altro ne avrebbe con più forza l'ardimento con cui ottenesti per marito un re? Ma che tristi parole hai pronunziate allora, alla partenza dello sposo! Per Giove, quanto spesso con la mano sfregasti gli occhi! Qual è il grande dio che ti mutò? E gli amanti perché mai non vogliono restare separati dal corpo amato? E allora agli dèi tutti mi promettesti per il dolce sposo - ed il sangue di toro non mancava se ottenesse il ritorno. In breve tempo egli aggiunse ai confini dell'Egitto la conquista dell'Asia. Ed io per questo, resa al consesso dei celesti, sciolgo, con un'offerta nuova, un voto antico. Regina, a malincuore dal tuo capo, a malincuore, mi staccai. Lo giuro su te e sul capo tuo. Chi giura il falso abbia la giusta pena. Ma col ferro chi può stare alla pari? Anche quel monte, il più alto di quanti sulla terra
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travalichi passando il luminoso figlio di Thia, venne abbattuto, quando dettero vita i Medi a un nuovo mare e in mezzo all'Athos navigò su flotta la gioventù dei barbari. Se al ferro cedono cose tali, dei capelli cosa faranno mai? Tutta la razza possa andare, per Giove, alla malora dei Càlibi e di quanti sotto terra per primi ricercarono la vena e la tempra forgiarono del ferro! Piangevano il mio caso le sorelle della chioma, staccate poco prima, quando il gemello dell'etiope Mèmnone si presentò da me, cavallo alato della Locrese Arsinoe, aprendo l'aria col moto oscillatorio delle penne. E, portandomi via, passò tra le ombre del cielo in volo e dentro il casto grembo di Venere mi pose. A questo scopo aveva delegato il servo suo la greca Zefiritide, abitante sui lidi di Canòpo. Qui la dea, - perché non solo la corona d'oro dalle tempie di Arianna avesse posto nel vario lume del divino cielo, ma vi mandassi luce anch'io, la spoglia offerta in dono da una testa bionda, mi pose, tra le antiche, stella nuova che si accostava al tempio degli dèi umida un poco d'acqua. Della Vergine e del fiero Leone tocco gli astri, nei pressi di Callisto Licaonia volgo al tramonto, dirigendo il corso dinanzi al lento Boote, che si immerge nell'Oceano profondo, a stento tardi. Ma sebbene mi calchino di notte i passi degli dèi, mentre la luce
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alla candida Tethi mi riporta (mi sia lecito dirlo con tua pace, Vergine di Ramnunte, non potrei coprire il vero per nessun timore e non svelare in pieno il mio pensiero, neppure a costo d'esser fatta a pezzi dalle parole ostili delle stelle), non mi dà tanta gioia questo stato, quanto mi cruccia l'essere lontana, esser lontana dalla mia padrona e dal suo capo. Ed io, priva con lei d'ogni profumo, finché fu fanciulla, molte semplici essenze con lei bevvi. Ora voi che la fiaccola congiunse nel giorno atteso, non abbandonate ai concordi mariti il vostro corpo, tolta la veste e denudato il seno, prima di offrire a me dall'alabastro, dall'alabastro vostro lieti doni. La polvere leggera beva invano le male offerte delle impure adultere: non chiedo doni alle persone indegne. Abiti sempre, spose, la concordia, sempre l'amore senza interruzione dentro le vostre case. Tu, regina, quando, guardando le costellazioni, nelle feste farai propizia Venere, non lasciare che resti io che son tua senza offerte di unguenti, ma piuttosto onorami con doni sontuosi. Magari rovinassero le stelle! Vorrei tornare chioma di regina: presso l'Acquario splenda pure Orione!
Questa fu in seguito ripresa da Ugo Foscolo, che la tradusse come:
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Quei che spiò del mondo ampio le faci Tutte quante, e scoprì quando ogni stella Nasca in cielo o tramonti, e del veloce Sole come il candor fiammeo si oscuri, Come a certe stagion cedano gli astri, E come Amore sotto a' Latmii sassi Dolcemente contien Trivia di furto E la richiama dall'aëreo giro, Quel Conon vide fra' celesti raggi Me del Berenicèo vertice chioma Chiaro fulgente. A molti ella de' Numi Me, supplicando con le terse braccia, Promise, quando il re, pel nuovo imene Beato più, partia, gli Assiri campi Devastando, e sen gìa con li vestigi, Dolci vestigi di notturna rissa La qual pugnò per le virginee spoglie. Alle vergini spose in odio è forse. Venere? Forse a' genitor la gioia Froderanno per false lagrimette Di che bagnan del talamo le soglie Dirottamente? Esse non veri allora, Se me giovin gli Dei, gemono guai. Ben di ciò mi assennò la mia regina Col suo molto lamento allor che seppe Vôlto a bieche battaglie il nuovo sposo: E tu piangesti allora il freddo letto Abbandonata, e del fratel tuo caro II lagrimoso dipartir piangevi. Ahi! tutte si rodean l'egre midolle Per l'amorosa cura; il cuore tutto Tremava; e i sensi abbandonò la mente. La donzelletta non se' tu ch'io vidi Magnanima? Lo gran fatto oblïasti, Tal che niun de' più forti osò cotanto, Però premio tu n'hai le regie nozze? Deh che pietà nelle parole tue Quando il marito accomiatavi! Oh quanto
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Pianto tergeano le tue rosee dita Agli occhi tuoi! Te sì gran Dio cangiava? Dal caro corpo dipartir gli amanti Non sanno mai? Tu quai voti non festi, Propizïando con taurino sangue, Per lo dolce marito agli Immortali S'ei ritornasse! Né gran tempo volse Ch'ei dotò della vinta Asia l'Egitto. Per questi fatti de' Celesti al coro Sacrata, io sciolgo con novello ufficio I primi voti. A forza io mi partia, Regina, a forza; e te giuro e il tuo capo; Paghinlo i Dei se alcun invan ti giura; Ma chi presume pareggiarsi al ferro? E quel monte crollò, di cui null'altra Più alta vetta dall'eteree strade La splendida di Thia progenie passa, Quando i Medi affrettaro ignoto mare E con le navi per lo mezzo Athos Nuotò la gioventù barbara. Tanto Al ferro cede! or che poriano i crini? Tutta, per Dio! de' Calibi la razza Pèra, e le vene a sviscerar sotterra E chi a foggiar del ferro la durezza A principio studiò. - Piangean le chiome Sorelle mie da me dianzi disgiunte I nostri fati, allor che appresentosse, Rompendo l'aer con l'ondeggiar de' vanni, Dell'Etïope Mennone il gemello Destrier d'Arsinoe Locrïense alivolo: Ei me per l'ombre eteree alto levando Vola, e sul grembo di Venere casto Mi posa: ch'ella il suo ministro (grata Abitatrice del Canopio lito) Zefiritide stessa avea mandato Perché fissa fra' cerchi ampli del cielo La del capo d'Arianna aurea corona Sola non fosse. E noi risplenderemo
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Spoglie devote della bionda testa. Onde salita a' templi de' Celesti Rugiadosa per l'onde, io dalla Diva Fui posto fra gli antichi astro novello. Però che della Vergine, e del fero Leon toccando i rai, presso Callisto Licaonide, piego all'occidente Duce del tardo Boote cui l'alta Fonte dell'Oceàno a pena lava. Ma la notte perché degli Immortali Mi premano i vestigi, e l'aurea luce Indi a Tethy canuta mi rimeni, (E con tua pace, o Vergine Rannusia, Il pur dirò: non per temenza fia Che il ver mi taccia, e non dispieghi intero Lo secreto del cor; né se le stelle Mi strazin tutte con amari motti), Non di tanto vo lieta ch'io non gema D'esser lontana dalla donna mia, Lontana sempre! Allor quando con ella Vergini fummo, io d'ogni unguento intatta, Assai tesoro mi bevea di mirra. O voi, cui teda nuzïal congiunge Nel sospirato di, né la discinta Veste conceda mai nude le mamme, Né agli unanimi sposi il caro corpo Abbandonate, se non versa prima L'onice a me giocondi libamenti; L'onice vostro, voi che desïate Di casto letto i dritti: ah di colei Che sé all'impuro adultero commette, Beva le male offerte irrita polve! Ché nullo dono dagli indegni io merco.Sia così la concordia, e sia l'amore Ospite assiduo delle vostre sedi. Tu volgendo, regina, al cielo i lumi Allor che placherai ne' dì solenni Venere diva, d'odorati unguenti
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Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna Con liberali doni. A che le stelle Me riterranno? O! regia chioma io sia, E ad Idrocoo vicin arda Orïone. Foscolo: Le Poesie. Secondo gli Egizi, questo gruppo di stelle era formato dai chicchi di grano sfuggiti dal fascio tenuto in mano dalla dea Iside, raffigurato nella costellazione della Vergine
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Nebulosa “Velo” NGC 6992 nel Cigno
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Nebulosa del “Pellicano” nel Cigno
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Nebulose “Nord America”
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Costellazione estiva, il Cigno è chiamato anche “Croce del Nord”. . Alfa è Deneb, dall'arabo Dhanab al Dajajah cioè “la coda dell'uccello femmina”ed ha m = 1.2. Beta è Albireo, il “becco”, con m = 3.1. Gamma, Sadr, il “petto”, con m = 2.2, è la stella centrale della croce. Epsilon è Gienah, l'”ala”, con m = 2.5 Interessante è la stella doppia 61 Cygni, (m = 5.5), la prima di cui fu determinata la distanza col metodo della parallasse (Bessel 1838): d = 11 a.l. (10.3 a.l. è il valore calcolato di recente). Vi appartengono anche Cygnus A, la prima radiosorgente extragalattica scoperta nel 1944-46, e la sorgente di raggi X, Cygnus X1, scoperta all'inizio degli anni Settanta. All'altezza di Deneb, la Via Lattea si biforca in due rami; il primo si dirige verso l'Aquila, il secondo verso il Toro. La biforcazione è determinata da nubi oscure di gas e polveri. Deneb, Vega della Lira ed Altair dell'Aquila, costituiscono il “Triangolo Estivo”. Uno dei molti miti legati alla costellazione del Cigno è quello di Orfeo, il celebre musicista dell'antichità che fu ucciso dalle sacerdotesse di Dioniso e dopo la sua morte fu trasformato in cigno e posto in cielo accanto alla sua Lira. Orfeo è figlio di Eagro, re della Tracia e della Musa Calliope. Quando non gli si accorda l'onore di essere l'inventore della lira, gli si attribuisce l'aumento del numero delle corde, che in principio sarebbero state soltanto sette, ma che diventarono per opera sua nove a causa del numero delle muse.
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Egli partecipò alla spedizione degli Argonauti (v. Ariete), dove svolse la mansione di capovoga, cioè di colui che dà la cadenza hai rematori e calma i flutti col canto. Quando la giovane sposa di Orfeo, Euridice, morì, morsa al tallone da un serpente (v. Lira), per sfuggire ad Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, che voleva violentarla, Orfeo non esitò a scendere fino allo Stige e a rivolgersi agli dèi degli inferi, Ade e Proserpina, chiedendo loro, in nome di Eros, che gli restituissero Euridice, almeno fino a quando il destino non avesse compiuto il tempo stabilito per lei. Gli dèi degli inferi acconsentirono, con l'ordine, però, di non volgere indietro lo sguardo, finché non fossero usciti dall'Ade. Erano quasi usciti quando Orfeo si voltò e subito Euridice ritornò nell'Ade. Morendo di nuovo, ella non ebbe per Orfeo parole di rimprovero, ma per l'ultima volta gli dice “addio”. Orfeo rimase impietrito per la doppia morte della moglie ed invano scongiurò Caronte di traghettarlo di nuovo, restando lì sette giorni, accasciato sulla riva, senza cibo. Poi, sconsolato, fece ritorno tra gli umani. Si narrava altresì che Orfeo, non volendo avere più alcun rapporto con le donne, si circondasse di giovani uomini ed avesse anche “inventato” la pederastia. Orfeo, al ritorno dagli inferi, istituì i Misteri Orfici, fondati sulle esperienze nell'altro mondo, ma proibì di ammettervi le donne. Gli uomini si riunivano con lui in una casa sbarrata, lasciando le armi davanti alla porta. Una notte le donne della Tracia, istigate dalle Menadi, si impadronirono delle armi, e, quando gli uomini uscirono, uccisero Orfeo con i suoi seguaci, poi dilaniarono Orfeo e gettarono i pezzi del suo cadavere in un fiume, che li trasportò in mare. La testa, con le labbra che ancora cantavano, giunsero a Lesbo, e gli abitanti, per volere di Apollo, tributarono al poeta onori funebri e gli eressero una tomba. Orfeo scese così un'altra volta nell'oltretomba e ritrovò Euridice. «Abbracciati passeggiano insieme: a volte accanto, a volte lei davanti e lui dietro; altre volte è invece Orfeo che la precede e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice.» (Met. XI. 64, 66).
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Troviamo altri miti riguardanti la morte di Orfeo. Uno di questi riguarda una disputa tra Afrodite e Persefone. Afrodite aveva dovuto, per ordine di Zeus, sottomettersi all'arbitrato di Calliope riguardo a chi, tra lei e Persefone, dovesse tenere il piccolo Adone, nato dalla relazione di Mirra, figlia del re di Siria Teia, con il padre, di cui è innamorata. La madre di Mirra, Cencri, aveva offeso Afrodite sostenendo che la figlia era più bella di lei e, per punire questo sbaglio, la dea aveva ispirato a Mirra l'amore criminale. Ovidio fa dire a Mirra: « Dove mi porta l'indole? Cosa sto facendo? O dei, pietà filiale, vincoli sacri dei parenti, vi supplico: impedite questa empietà, opponendovi al mio crimine, ammesso che sia un crimine, ma non pare che il rispetto condanni quest'unione. Gli animali si accoppiano senza pensarci e non si ritiene turpe che una giovenca si faccia montare dal padre; il cavallo sposa la figlia, il capro si unisce alle capre che ha generato e la stessa femmina degli uccelli concepisce da chi l'ha concepita. Felici loro, che possono farlo! Gli scrupoli umani hanno creato leggi perfide e principi astiosi vietano ciò che natura ammette. Eppure si racconta che vi siano genti tra cui la madre si accoppia al figlio, la figlia al padre, e l'affetto tra i coniugi cresce per questo sommarsi d'amore. Misera me, che non ho avuto in sorte di nascere lì, ma dove non ho pace. Una continua ossessione, perché? Via, via, sogni proibiti! Teia è degno, sì, d'essere amato, ma come padre. Se non fossi dunque la figlia, potrei giacere accanto a lui; ora invece, poiché lui è mio, mio non può essere: nasce da questo legame la mia sventura. Se fossi di un altro, sarei più libera. Vorrei andarmene da qui, lasciare il suolo della patria, per sottrarmi all'infamia, ma l'ardore del mio male mi trattiene, perché con tutto il mio amore io possa guardare Teia, toccarlo, parlargli e baciarlo, se altro non mi è concesso. Perché? Oseresti, vergine empia, sperare forse di più? Ti rendi conto quante leggi e norme tu sovverti? Vuoi essere rivale di tua madre e amante di tuo padre? Esser chiamata sorella di tuo figlio e madre di tuo fratello? Non hai timore delle Furie con le chiome nere di serpenti, che appaiono a chi è in colpa e con torce crudeli si avventano contro gli occhi e il viso? Ma, visto che il tuo corpo è
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ancora puro, non concepire empietà con la mente e non violare con un amplesso vietato le leggi che ha imposto natura. Se anche lo volessi, la realtà lo vieta, perché lui è pio, virtuoso. Oh, come vorrei che il mio stesso furore vibrasse in lui! »
(Met. X. 320, 355). Mirra si sfoga così con se stessa, e, combattuta tra il dovere ed il desiderio, decide di impiccarsi. Ma la vecchia nutrice la salva ed alla fine decide di aiutarla nel suo desiderio. Approfittando delle feste in onore di Demetra, in cui per nove giorni si fa divieto alle mogli di aver rapporti con i mariti, ed approfittando anche dell'ubriachezza di Teia, la nutrice porta Mirra nell'oscurità al letto di Teia. E le notti successive l'evento si ripete. Ma alla dodicesima notte Teia si accorse dell'inganno della figlia e la inseguì armato di coltello per ucciderla. Mirra chiese allora aiuto agli dei, che, impietositi, la trasformarono nell'albero della mirra. Dieci mesi dopo la corteccia dell'albero si spaccò e ne uscì un bambino, che ricevette il nome di Adone. Afrodite, commossa dalla bellezza del neonato, lo raccolse e lo affidò segretamente a Persefone perché lo allevasse. Quest'ultima, a sua volta, si invaghì del bel bambino e non volle restituirlo ad Afrodite. Ne nacque un contrasto tra le dee, e la Musa Calliope, in nome di Zeus, decise che Adone avrebbe vissuto un terzo dell'anno con Afrodite, un terzo con Persefone ed un terzo dove voleva lui. Adone passò sempre due terzi dell'anno con Persefone ed uno solo con Afrodite. Afrodite si era molto adirata per questa decisione e, non potendo vendicarsi con Calliope, aveva ispirato alle donne della Tracia l'odio per Adone. Poi incitò contro di lui un cinghiale che, nel corso di una caccia, lo uccise. Zeus trasformò Orfeo nella costellazione del Cigno e vi pose accanto la costellazione della Lira. Un altro mito narra che Zeus che, per sedurre la riluttante Nemesi, ordinò ad Afrodite di trasformarsi in Aquila, mentre
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egli si sarebbe tramutato, appunto, in Cigno. Fingendo di sfuggire agli attacchi dell'aquila, il cigno si rifugiò tra le braccia di Nemesi che, invece di mandarlo via, lo abbracciò intenerita; il volatile era così docile e tranquillo che Nemesi si addormentò tenendolo tra le braccia. Mentre dormiva senza alcun timore, il dio abusò di lei e poi volò via: gli uomini, vedendo il magnifico cigno volteggiare altissimo nel cielo, credettero che questo uccello vivesse nel firmamento e Zeus, per non far scoprire loro la verità, decise di porre in cielo la sua figura alata, assieme a quella del suo complice, l'Aquila (v. Aquila). Un ulteriore mito ha ancora Zeus come protagonista ed è il più noto. Il dio si trasformò in cigno per conquistare Leda, la regina di Sparta, moglie di Tindaro. Da questa unione nacquero due gemelli: Castore e Polluce. Polluce è il gemello immortale e fu concepito dall'unione di Zeus e Leda; mentre Castore, il gemello mortale, fu concepito da Leda la stessa notte con suo marito Tindaro. Castore fu ucciso, forse, durante la guerra di Troia, ma Polluce, che aveva deciso di accettare l'immortalità solo a patto che il fratello ne fosse partecipe, lo ricordò a Zeus, che stabilì che per l'eternità essi potessero vivere un giorno agli inferi ed un giorno fra gli dei dell'Olimpo. (v. Gemelli) Altra versione del mito narra che furono due bimbe ad essere partorite da Leda: Elena e sua sorella Clitennestra. Elena (che sarà la causa della guerra di Troia) era la figlia di Zeus, e quindi immortale, e Clitennestra la figlia del mortale Tindaro. Leda dette a Tindaro anche un'altra figlia Timandra, che sposò Echemo, re dell'Arcadia. Ma si raccontava anche che Elena fosse figlia di Zeus e di Nemesi. La dea aveva cercato di sottrarsi alle profferte d'amore di Zeus e si era trasformata in oca per sfuggirgli. Zeus si era subito mutato in cigno e si era unito con lei. Nemesi aveva poi fatto un uovo, che aveva abbandonato e che era stato trovato da un pastore e portato a Leda, che l'aveva posto gelosamente in un cofanetto. Ne uscì fuori Elena, che Leda fece passare per sua figlia, poiché era una bambina bellissima.
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Per i Romani il Cigno era Cicno, re dei Liguri, l'amico di Fetonte che si impadronì del carro solare e provocò distruzioni in cielo ed in terra. Zeus, per punirlo, annegò Fetonte nel fiume Po (è questa una delle attribuzioni che gli antichi dettero all'Eridano, il fiume nato da Teti ed Oceano; un'altra fu il Rodano) e Cicno tentò inutilmente di salvarlo. Zeus commosso dal gesto lo collocò in cielo. La leggenda di Fetonte è abbastanza nota. Era figlio del Sole e della ninfa oceanina Climene, ma fu allevato dalla madre senza che egli sapesse chi fosse suo padre. Divenuto adolescente, la madre gli rivelò chi era il padre. Climene «fissando la luce del sole, disse: per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo, che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta di guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei occhi!» (Met. I. 768 sgg). Fetonte si recò allora alla dimora del Sole, che sedeva su un trono sfolgorante di smeraldi e con a lato il Giorno, il Mese, l'Anno, i Secoli e le Ore, disposte ad uguale distanza fra loro; la Primavera incoronata di fiori, l'Estate nuda che portava ghirlande di spighe, l'Autunno imbrattato di mosto e l'Invero gelido con i bianchi capelli increspati (Met. II). Il Sole dice a Fetonte che è veramente suo figlio, «e perché tu non abbia dubbi, chiedimi quello che vuoi: da me l'avrai; ed alla mia promessa sia testimone quella palude misteriosa su cui giurano gli dei» (Met. II. 44, 46). Appena tacque, Fetonte chiese al padre il permesso di lasciargli guidare il suo carro. Dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì, ma gli fece mille raccomandazioni. Fetonte partì e cominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste, ma ben presto fu spaventato dall'altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura ed abbandonò la rotta che gli era stata tracciata. Discese troppo in basso, e rischiò di appiccare il fuoco alla Terra. A questo punto Gea, con i capelli in fiamme e cosparsa di cenere per il fumo, invocò l'aiuto di Zeus che, chiamati a testimone gli dei, e per primo il Sole, constatò che se non fosse intervenuto, tut-
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to si sarebbe fatalmente estinto; colpì allora con un fulmine l'auriga, sbalzandolo dal cocchio e dalla vita. Fetonte, con fiamme che gli divorano i capelli, precipitò, lasciando nell'aria una lunga scia, nel fiume Eridano. Le sue sorelle, le lidi, gli resero gli onori funebri e sulla lapide incidsero i versi: Qui giace Fetonte, auriga del cocchio del padre; e se non seppe guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa. Esse lo piansero tanto che furono trasformate in pioppi. A questo prodigio assistette Cicno, legato a Fetonte da grande affetto, che riempì di lamenti le correnti dell'Eridano, quando «la voce gli si affievolì, sotto candide piume scomparvero i capelli, sporgendo dal petto si protese il collo, una membrana congiunse le dita rossicce, due ali vestirono i fianchi ed un becco smussato sostituì la sua bocca. E Cicno diventa un insolito uccello che, memore dei fulmini scagliati con crudeltà da Zeus, diffida di lui e del cielo: cerca gli stagni, i laghi aperti e, detestando il fuoco, sceglie come dimora i fiumi, che sono l'opposto delle fiamme» (Met. II, 367-380). Un'altra storia racconta di Cicno, figlio di Poseidone e di Calice, che partecipò ai giochi dati in onore di Paride, figlio minore di Priamo ed Ecuba, prima della guerra di Troia. Paride era ritenuto morto, avendo avuto Priamo la profezia della distruzione di Troia a causa sua. Ma Ecuba, invece di uccidere il bambino, lo fece esporre sul monte Ida, e Paride fu allevato da alcuni pastori, che lo chiamarono Alessandro, prima di tornare a Troia. Un giorno alcuni servitori di Priamo andarono a cercare, nella mandria custodita da Paride, un toro per il quale egli aveva un attaccamento particolare. Sapendo che l'animale era destinato ad essere il premio dei giochi funebri istituiti in memoria del figlio di Priamo, che si riteneva morto in tenera età e che altri non era che lui stesso, Paride seguì i servitori, ben deciso a prendere parte anch'egli a quei giochi ed a riconquistare il suo animale favorito. E, in effetti, riportò la vittoria in tutte le gare, contro i propri fratelli, i quali non sapevano chi fosse. Irritato, uno di loro, Deifobo, brandì la spada contro di lui tentando di ucciderlo. Paride cercò allora rifugio presso la
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statua di Zeus, ma Cassandra lo riconobbe e Priamo, felice di ritrovare quel figlio che credeva morto, lo accolse e gli restituì il posto che apparteneva nella casa reale. (v. Prima Parte). Un'altra storia racconta che Cicno, figlio di Poseidone e di Calice, durante la guerra di Troia era alleato dei Troiani e corse in loro aiuto con una flotta durante lo sbarco dei Greci. Impedì per lungo tempo ai nemici di avanzare, fino a che non si scontrò con Achille. Data la sua origine divina, Cicno era invulnerabile e quindi Achille, per aver ragione di lui, dovette colpirlo al volto con il pomo della spada e ricacciarlo indietro a colpi di scudo, fino a che Cicno, indietreggiando, inciampò in una pietra e cadde. Allora Achille lo schiacciò sotto di sé, ma Cicno, per intervento del padre, fu trasformato in cigno ed incastonato tra le stelle. Un'ulteriore leggenda racconta di Cicno, figlio di Apollo e di Tiria, che viveva in Etolia. Era molto bello ma capriccioso e duro, tanto che scoraggiò tutti i suoi amici ed innamorati. Di tutti quelli che gli facevano la corte, uno solo finì col restare: Filio. Cicno gli impose allora una serie di prove, una più faticosa dell'altra, e Filio le superò tutte, grazie anche all'aiuto di Eracle. Alla fine, si stancò ed abbandonò Cicno, il quale, disonorato e tutto solo, si buttò in un lago insieme alla madre. Apollo, per pietà, lo trasformò in Cigno e lo trasferì in cielo. In Mesopotamia era chiamato “l'uccello della foresta”. Fu ribattezzato “il Cigno” da Eratostene. Per gli Arabi era un'“Aquila volante” o anche “l'uccello femmina”. Per i primi cristiani era ovviamente la croce di Cristo.
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Costellazione primaverile. Alfa, con m = 2.2, è Gemma, la stella più luminosa della costellazione. Beta si chiama Nusakan. Strano è il comportamento della stella tau, normalmente invisibile ad occhio nudo con m = 10; però essa è soggetta ad improvvise esplosioni, che la portano fino a m = 2, rivaleggiando con Gemma. Queste esplosioni sembra riguardino solo gli strati superficiali della stella. Fu vista per la prima volta nella notte tra il 12 ed il 13 maggio 1866 da M. Birmingham che la osservò con m = 2, e qualche giorno dopo con m = 1; raggiunta tale luminosità occorsero appena otto giorni perché ritornasse a m = 10. Anche la piccola Corona Boreale contiene molte galassie, alcune delle quali appartengono ad ammassi. Egeo, re di Atene, non riusciva a darsi pace per la mancanza di un erede maschio dalle sue nozze, prima con Melite, figlia di Oplete e poi con Calciope, figlia di Ressenore. In seguito si innamorò di Etra, figlia del re di Trezene Pitteo, ex promessa sposa di Bellerofonte. Egeo aveva consultato l'oracolo di Delfi avendone una risposta oscura: “non slegare, tu, il più eccellente degli uomini, la bocca che sporge dall'otre di vino prima di essere giunto alla sommità della città di Atene”. Pitteo, figlio di Pelope, l'uomo più saggio e colto del suo tempo, grande oratore ed eccellente indovino, che aveva accolto Egeo a Trezene, udendo l'oracolo, seppe interpretarlo e si affrettò ad ubriacare Egeo, che giacque con Etra e dopo aver fatto l'amore cadde in un sonno profondo. Dopo l'amplesso, la fanciulla si alzò, si diresse verso l'isola di Sferia e, quella stessa notte, fece l'amore anche con Posei-
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done, che lasciò ad Egeo la paternità del figlio che sarebbe nato. Grazie a questo stratagemma, Pitteo diventò nonno di Teseo. La mattina dopo, Etra dormiva al fianco di Egeo. Questi la pregò di tenere nascosto il bambino che sarebbe nato, per evitargli inutili rischi. Le consigliò di educarlo severamente e le lasciò la sua spada ed i suoi sandali, coprendoli con un'enorme pietra: una volta cresciuto, il ragazzo avrebbe potuto sollevare la roccia e presentarsi ad Atene, con quei segnali di riconoscimento. Etra partorì, ed il bambino fu accolto con amore da Pitteo: era nato Teseo, e precocemente mostrò il coraggio che l'avrebbe caratterizzato, potendosi vantare di avere anche un dio, Poseidone, per genitore. Compiuti poi i sedici anni, Teseo decise di tornare dal padre mortale Egeo. Si recò al santuario di Delfi, per propiziarsi l'aiuto di Apollo e per consacrargli la sua prima chioma virile, e, indirizzato dalla madre, raggiunse il posto dove suo padre aveva nascosto spada e sandali. Scostò senza difficoltà la pietra, ne prese gli oggetti paterni che essa nascondeva, e s'apprestò ad incamminarsi in direzione di Atene. Durante il viaggio ebbe parecchie avventure, scontrandosi con i personaggi che rendevano pericoloso il viaggio via terra da Trezene ad Atene. Incontrò ed uccise Perirfete, lo zoppo che gli sbarrava la strada. Egli soleva uccidere i viandanti con un'enorme mazza di bronzo. Teseo gli stappò la mazza dalle mani e lo percosse a morte e poi la portò sempre con sé. Nel punto più stretto dell'istmo di Corinto viveva Sini, figlio di Polipemone e di Silea, figlia di Corinto. Era noto come il “Piziocante”, ossia “colui che piega i pini”, poiché aveva tanta forza da piegare la cima di un pino finché toccasse terra. Spesso si rivolgeva agli ignari passanti perché lo aiutassero, ma all'improvviso mollava la presa e, mentre l'albero scattava di nuovo verso l'alto, chi si era prestato ad aiutare Sini faceva un volo in aria e rimaneva ucciso precipitando a terra. Teseo lottò con Sini, lo vinse e fece a lui ciò che egli aveva fatto agli altri.
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Lungo la strada costiera verso Atene, alcune rocce scoscese ed a picco sul mare erano il rifugio del bandito Scirone. Scirone soleva sedersi su una roccia e costringeva i passanti a lavargli i piedi; quando essi avevano finito di lavarglieli, con un calcio li scaraventava in mare dove una gigantesca testuggine li divorava. Teseo si rifiutò di lavare i piedi a Scirone, lo sollevò dalla roccia e lo buttò in mare. Si imbatté poi nell'arcade Cercione, figlio di Poseidone, che soleva sfidare i passanti a battersi con lui e poi li stritolava tra le sue braccia possenti. Teseo lo afferrò per le ginocchia e lo scaraventò a terra dove istantaneamente morì. Egli faceva più affidamento sulla sua abilità che sulla sua forza poiché aveva codificato l'arte della lotta libera, di cui nessuno fino a quel giorno aveva compreso l'importanza. Raggiunta Coridallo, in Attica, Teseo uccise il feroce Polipemone, padre di Sinni, che era soprannominato Procuste, il “tenditore”, perché faceva scegliere ai suoi ospiti il letto su cui riposare, ma mentre un letto era troppo piccolo, l'altro invece era enorme, e Procuste era pronto a tagliare loro le estremità o a stirare loro le membra, affinché i loro corpi assumessero le dimensioni del letto scelto. Teseo uccise anche questo brigante servendosi degli stessi strumenti che egli aveva inventato. Ebbe anche un'avventura amorosa con Perigine, figlia di Sinni, da cui nacque Melanippo. Poi abbandonò Perigine, dandola in sposa a Deioneo, per riprendere il viaggio verso Atene. (Miti). Egeo, intanto, aveva sposato Medea ed era nato il figlio Medo. Medea, saputo del prossimo arrivo del potente eroe, convinse Egeo dei danni che poteva apportare alla pace del paese. Teseo arrivò alla reggia, dove si sarebbe tenuto un banchetto in suo onore. Il re non lo riconobbe e, ormai in balia di Medea, si apprestava ad offrirgli una coppa di vino avvelenata. Nel frattempo era stato servito a tavola un grosso bue arrostito e Teseo, per essere riconosciuto dal padre, estrasse la spada con l'impugnatura d'avorio, per tagliate la carne. Immediatamente Egeo notò le vecchie incisioni sull'elsa dell'arma, rove-
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sciò la letale coppa e fu sommerso da una gioia incredibile, per il ritrovato figlio che aveva rischiato di perdere. Medea riconobbe la sconfitta e fuggì col figlio Medo, per evitare la vendetta di Teseo. Una tempesta aveva fatto affondare la nave con cui i due erano fuggiti ed aveva gettato Medo sulla costa del regno del suo prozio, Perse. Quest'ultimo era stato avvertito da un oracolo di diffidare dei discendenti di Eete, come era Medo. Medo era a conoscenza di questo particolare e, condotto davanti a Perse da alcuni soldati che lo avevano arrestato, disse al re di essere Ippote, figlio del re di Tebe, Creonte, e di ricercare Medea per punirla di aver ucciso Creonte e Creusa. Perse non gli credette e, aspettando un supplemento d'indagine, lo fece imprigionare. A questo punto, una carestia s'abbatté sul paese. E Medea, arrivando da Perse sul suo carro trainato da draghi, sostenne presso lo zio di essere una sacerdotessa di Artemide giunta per liberare il paese dalla carestia che lo prostrava. Il re, senza sospettare, le disse che teneva prigioniero Ippote, figlio del re di Tebe. Medea gli chiese che le fosse consegnato e, quando lo vide, riconobbe il proprio figlio. Lo prese allora in disparte e gli consegnò un'arma con cui Medo uccise Perse. Intanto Pallante, figlio di Pandione, sperava che, alla morte di Egeo, potesse prendere il potere sull'Attica, perché aveva cinquanta figli, con i rispettivi eserciti. I Pallantidi si divisero in due schiere: una, capeggiata dallo stesso Pallante, aggredì la città di Atene da un lato mentre l'altra era in agguato a Gargetto, dal lato opposto. Teseo, avvertito da Leo, un arciere di Pallante, sterminò prima i Pallantidi appostati a Garretto, poi mise in fuga tutti gli altri. Teseo catturò anche il toro di Maratona che, secondo un oracolo, doveva essere catturato senz'armi. Il toro era stato portato da Eracle e, lasciato libero, aveva mietuto centinaia di vittime umane. Teseo afferrò il toro per le corna, costringendolo ad inginocchiarsi, poi tenendolo per le narici, lo obbligò a seguirlo fino ad Atene, dove lo sacrificò ad Apollo.
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Androgeo, figlio di Minosse e di Pasifae, si era intanto recato ad Atene per prendere parte ai giochi annuali della città, e vinse tutte le gare. Egeo però sapeva che egli era amico dei Pallantidi e temendo che potesse indurre suo padre Minosse ad appoggiarli, cospirò con i Megaresi per tendergli un'imboscata nei pressi di Enoe, sulla strada per Tebe. Androgeo si difese valorosamente, ma fu ucciso nel corso di un'accanita battaglia. Per vendicare la morte di Androgeo, Minosse, re di Creta, mosse guerra ad Atene. Sia per la potenza numerica della flotta, sia perché la città aggredita era già indebolita dalla peste e dalla carestia inviate da Zeus su richiesta di vendetta dello stesso Minosse, i Cretesi riportarono una schiacciante vittoria. Gli Ateniesi furono costretti a pagare un pesante tributo umano: ogni nove anni, sette giovani e sette fanciulle ateniesi erano inviati a Creta e divorati dal Minotauro. Per liberare la patria dal macabro tributo, Teseo partì con la sua nave alla volta di Creta. Figlio di Pasifae, figlia di Helios, il Minotauro era stato generato dalla passione della madre per il toro che Poseidone aveva inviato a Minosse. Il Toro di Cnosso aveva la brutta abitudine di cibarsi di carne umana, ed anche per arginarne la violenza Minosse aveva incaricato il famoso architetto Dedalo di costruire un labirinto impenetrabile (v. Toro). Rinchiuso il Minotauro nel labirinto, Minosse provvedeva a cibarlo di prigionieri di guerra, di criminali e degli inermi giovani ateniesi. Teseo, prima di partire alla volta di Creta, chiese al padre delle vele bianche da inalberare al ritorno per segnalare la vittoriosa riuscita dell'impresa. Infatti nei viaggi precedenti, ed anche quella volta, le vele della nave che andava a Creta erano nere. Quando la nave giunse a Creta, Minosse si recò al porto per contare le vittime e si innamorò di una delle vergini ateniesi, il cui nome era Peribea, futura moglie di Telamone e madre di Aiace di Salamina. L'avrebbe violentata sul posto se Teseo non fosse insorto, dichiarando che era suo compito, come figlio di Poseidone, di difendere le vergini dall'oltraggio
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dei tiranni. Minosse, allora, gettò in mare l'anello d'oro che portava al dito e gli chiese, se era figlio di Poseidone, di recuperarglielo; intanto chiese a Zeus di far vedere che era suo figlio. Zeus inviò subito una folgore. Teseo allora si gettò dalla nave che ancora navigava e fu accolto da alcuni delfini che lo condussero al palazzo delle Nereidi, che trovarono l'anello e lo consegnarono al fratello mortale. La dimensione della gioia dei fanciulli ateniesi, quando rividero Teseo, si poté solo paragonare a quella dello sgomento che invece provò Minosse. Alla reggia di Cnosso una piacevole sorpresa doveva allietare Teseo: l'amore di Peribea e Ferebea, due delle vergini ateniesi, che lo invitarono a giacersi con loro e non furono respinte, e quello della bella Arianna, figlia di Minosse e Pasifae. «Poiché a Creta usa che anche le donne assistano ai giochi, Arianna, presente, rimase attonita davanti all'apparizione di Teseo ed ammirò attonita la sua bravura, quando uno dopo l'altro superò tutti gli avversari» (Plutarco, Vita di Teseo). Spinta dall'amore, offrì il suo aiuto all'eroe, che, «desideroso di affrontare il mostro feroce aspirava ad avere la morte oppure il premio glorioso». Arianna accompagnò Teseo nel labirinto, facendogli, secondo alcuni mitografi, luce col suo diadema, regalatole da Dedalo e fabbricato da Efesto con oro e rubini indiani disposti a forma di rose. Secondo altri, donò, su suggerimento di Dedalo, all'eroe un gomitolo di filo, spiegandogli come avrebbe dovuto utilizzarlo per uscire dal labirinto. Egli doveva aprire la porta d'ingresso ed assicurare allo stipite un capo del filo; il gomitolo si sarebbe poi srotolato fino alla camera segreta dove si trovava il Minotauro. Teseo seguì il consiglio di Arianna e, sorpreso il Minotauro addormentato, lo uccise e lo sacrificò al padre Poseidone. Arrotolando poi il filo, di nuovo, in un gomitolo, raggiunse la porta d'ingresso. Quindi rapì la fanciulla, che doveva fuggire dall'ira di Minosse, promettendole le nozze ad Atene. Durante il viaggio, i due giovani, uniti dal giuramento d'amore, furono separati dal Fato. L'infuriare improvviso di una tempesta fece approdare la
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nave sull'isola di Nasso: qui Teseo sbarcò con Arianna che, stanca, chiese di riposare nel bosco vicino alla spiaggia. Quando si svegliò, vide la nave di Teseo che si allontanava dalla riva. Ci piace ricordare che nella frase italiana “Piantare in asso”, “asso” è una corruzione della parola “Nasso”, indicante l'isola sulla cui spiaggia fu abbandonata Arianna. Arianna non restò a lungo col suo dolore. Presto arrivò Dioniso, con la sua corte di Satiri e Baccanti, e le regalò una corona luminosa. Egli era comparso in sogno a Teseo, minacciandolo se non gli avesse ceduto la principessa cretese. Il dio portò «aiuto ed abbracci, e, per immortalarla con una costellazione le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò in cielo» (Met. VIII 177-179). Poi la portò con sé nel paese degli dèi, perché Zeus le aveva concesso l'immunità dalla morte e dalla vecchiaia. Arianna fu l'unica vera compagna di Dioniso. La corona fu immortalata in cielo da Dioniso, nella costellazione della Corona Boreale. (Miti, Agizza). Teseo avrebbe dovuto cambiare le vele sulla via del ritorno, ma se ne dimenticò. Egeo, il quale spiava il suo ritorno sulla riva, scorse le vele nere e, credendo che il figlio fosse perito, svenne e precipitò nel mare, che assunse da allora il nome di Mar Egeo. Teseo divenne re dell'Attica e si propose di unificare le dodici comunità locali nello stato di Atene. I capi delle varie borgate erano abbastanza diffidenti del progetto, ma Teseo, con un'insospettata abilità diplomatica, riuscì a convincerli. Abolì la monarchia, istituendo una democrazia federativa di cui egli manteneva il potere di comandante in capo e giudice supremo. La sua riforma fu l'origine dello splendore di Atene. Volle che ogni anno si celebrasse il “Giorno della Federazione” in onore di Atena e della pace. Ai giochi Ateniesi diede il nome di “Panatenee”, poiché tutta l'Attica poteva parteciparvi. Fu anche il primo ateniese ad introdurre l'uso della moneta, coniata con l'immagine di un toro. Costituì una divisione della società in tre classi: gli “Eupatridi”, la classe dominante formata da giudici e sacerdoti; i “Georgi”, che erano la
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fascia economicamente produttiva, formata da contadini e pastori, ed infine i “Demiurghi”, cioè i medici, gli artisti e gli artigiani di ogni tipo (Miti, Agizza). Qualche tempo dopo, Teseo si recò, con l'amico Piritoo, figlio di Zeus e di Dia, moglie di Issione, nel paese delle Amazzoni. L'amicizia tra Teseo e Piritoo aveva origine dalla decisione di Piritoo di mettere alla prova Teseo, sottraendogli alcune mandrie nella regione di Maratona. I due giovani s'incontrarono, ma furono sedotti dalla reciproca bellezza e spontaneamente, mentre sembrava che dovessero iniziare a combattere, Piritoo offrì a Teseo riparazione per gli animali sottratti e si proclamò suo schiavo. Punto dall'emulazione, Teseo rifiutò l'offerta e dichiarò di dimenticare il passato. Da allora, i due eroi compirono insieme tutte le loro imprese. Le Amazzoni, rallegrate dall'arrivo di così aitanti guerrieri, non si opposero ad essi con la violenza. La loro regina, Antiope, volle anche offrire dei doni a Teseo, ma, appena salita sulla nave, fu subito rapita e portata ad Atene. Orizia, sorella di Antiope, assediò allora la città con un potente esercito di Amazzoni. Solo dopo quattro mesi di dura lotta, esse furono piegate e chiesero la pace, stipulando un decoroso armistizio. Piritoo aveva nel frattempo sposato l'Amazzone Ippodamia, figlia di Bute, ed al loro matrimonio erano intervenuti anche i Centauri, parenti della sposa. Questi, eccitati dal vino, tentarono di violentare Ippodamia e di rapire le donne presenti. Si scatenò così una lotta violenta fra Centauri e Lapiti, compatrioti di Piritoo, durante la quale molti Centauri furono uccisi. Antiope aveva generato un figlio, Ippolito, a Teseo che, alleato con Deucalione, re di Creta, stava per sposarne la sorella Fedra. L'irruzione di Antiope durante il banchetto nuziale e le sue minacce di uccidere i partecipanti, risolsero Teseo ed i suoi compagni a chiudere le porte della sala del banchetto ed ad eliminarla. Dopo le nozze con Fedra, Teseo mandò il figlio Ippolito da
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Pitteo, che lo adottò come suo erede al trono di Trezene, per evitare conflitti di interesse riguardo al potere su Atene, con Acamante e Demoofonte, figli di Fedra. Ippolito aveva ereditato dalla madre Antiope una profonda devozione per Artemide. Afrodite, che considerò ciò un tradimento verso di lei, fece in modo che Fedra si innamorasse perdutamente di lui. La sua passione la spinse a confessare il proprio amore ad Ippolito che, inorridito da quelle proposte, la rifiutò disprezzandola. In preda alla follia, Fedra si strappò i vestiti, accusando Ippolito di averla violentata e si impiccò ad una trave del soffitto, lasciando a Teseo un biglietto in cui accusava Ippolito dell'orrendo crimine. Teseo maledisse il figlio e pregò Poseidone perché morisse in quello stesso giorno. Poco dopo, sulla strada per Epidauro, un maremoto sommerse Ippolito, le sue redini si impigliarono nei rami di un albero e lui andò a sbattere prima contro il tronco dell'albero, poi contro le pietre ed infine fu calpestato a morte dai suoi cavalli. Alcuni mitografi sostengono che gli dei ne posero l'immagine fra gli astri come costellazione dell'Auriga (v. Auriga). Teseo, con la collaborazione di Piritoo, rapì Elena, sorella dei Dioscuri, mentre eseguiva una danza rituale nel tempio di Artemide. I due compagni decisero di tirare Elena a sorte, e colui che sarebbe stato favorito avrebbe aiutato l'altro a conquistare Persefone. Teseo ottenne Elena, ma, poiché lei non era ancora in età da marito, la lasciò in custodia a sua madre Etra, nella città di Afidna. Poi partì alla conquista di Persefone. I due amici consultarono l'oracolo di Zeus, che diede in risposta: «Perché non scendete nel Tartaro per chiedere che Persefone, moglie di Ade, diventi la sposa di Piritoo? Essa è la più nobile delle mie figlie». Teseo allibì quando Piritoo, che aveva preso sul serio quel consiglio, gli chiese di tener fede al giuramento; ma non osò rifiutarsi di partire ed insieme discesero nel Tartaro. Ade ascoltò con calma la loro richiesta e, simulando cordialità ospitale, li invitò a sedersi. Senza sospettare nulla, essi presero posto sulla Sedia dell'Oblio, che divenne subito carne della loro carne, ed essi non avrebbero più potuto alzarsi senza subire una mutilazione. Per quattro anni Teseo
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e Piritoo subirono il supplizio di essere attorniati da serpenti sibilanti, fustigati dalle Moire e dilaniati dai denti del cane Cerbero, mentre Ade li osservava sogghignando. Eracle scese nell'Ade per catturare Cerbero e li riconobbe mentre gli tendevano le mani, invocando silenziosamente il suo aiuto. Persefone concesse ad Eracle di liberare i due imprudenti, se gli fosse stato possibile. Eracle afferrò Teseo per le mani e tirò, finché, con uno strappo lacerante, Teseo fu liberato, ma buona parte della sua carne rimase attaccata al sedile: ecco perché i discendenti ateniesi di Teseo hanno le natiche minuscole. Eracle afferrò anche le mani di Piritoo, ma la terra tremò minacciosamente e l'eroe desistette. Così morì il più grande amico di Teseo. Durante l'assenza di Teseo, i fratelli di Elena, Castore e Polluce (v. Gemelli), invasero l'Attica e cominciarono col reclamare pacificamente la sorella presso il popolo di Atene. I Dioscuri avevano riunito un esercito di Lacedemoni e di Arcadi, ma gli Ateniesi risposero che Elena non era nella loro città, e che essi non sapevano affatto dove si trovasse, e i Dioscuri allora cominciarono a devastare l'Attica, finché gli abitanti di Decelea, che non approvavano il ratto di Elena da parte di Teseo, li guidarono ad Afidna, dove essi ritrovarono la sorella. Essi rasero al suolo Afidna, ma i Decelei furono esentati dalle tasse ed ebbero diritto ai posti d'onore durante le feste Spartane. Inoltre i Dioscuri richiamarono dall'esilio Menestreo, figlio di Peteo, che era stato esiliato da Egeo, e lo elessero reggente ad Atene. I Dioscuri divennero cittadini onorari di Atene e riportarono a Sparta Elena con la madre di Teseo Etra e la sorella di Piritoo come ancella. Elena, nel frattempo era rimasta incinta di Teseo, e sulla via del ritorno, diede alla luce una bimba, Ifigenia. Teseo fece uscire segretamente dalla città i suoi figli, che ripararono in Eubea presso Elpenore, figlio di Calcodonte e, dopo aver maledetto Atene dall'alto del monte Gargetto, salpò per Creta, dove Deucalione aveva promesso di dargli asilo.
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La nave di Teseo, spinta da tempesta, approdò nell'isola di Sciro dove il re Licomede, benché grande amico di Menestreo, gli fece una splendida accoglienza, degna della sua fama e del suo lignaggio. Teseo, che aveva ereditato delle terre in Sciro, chiese il permesso di stabilirsi nell'isola, ma Licomede, che da molto tempo considerava quelle terre come sue, col pretesto di mostrargli dove giungessero i loro confini, lo guidò su un alto promontorio e di là lo fece precipitare in mare, dicendo poi a tutti che vi era caduto incidentalmente, mentre passeggiava dopo cena con il cervello annebbiato dal vino (Miti). Menestreo, oramai signore incontrastato di Atene, fu uno dei pretendenti di Elena e guidò l'esercito Ateniese a Troia, dove ebbe fama di grande stratega; ma morì in battaglia. Gli succedettero i figli di Teseo.
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Costellazione circumpolare. Il Drago contiene il polo nord dell'eclittica, cioè il centro della circonferenza descritta dal polo celeste in 26000 anni e dovuta al moto di precessione dell'asse di rotazione terrestre. Alfa, o Thuban, il Drago, con m = 3.7, non è tra le più brillanti della costellazione. Attorno al 2700 a.C. era la polare, in particolare per l'antico Egitto, e nel 2830 a.C. distava dal polo nord celeste solo 10'; tra circa 21000 anni sarà di nuovo la polare. La più luminosa è invece Gamma, o Etamin (la “testa del Drago”), con m = 2.2; cercando di misurarne la parallasse, si scoprì l'aberrazione della luce, prima prova diretta del moto orbitale della Terra. Anche Beta, Alwaid, con m = 2.8, è più luminosa di Alfa. Secondo la mitografia, il Drago rappresenta il feroce Ladone, con cento teste, custode dei frutti d'oro di un melo, dono di nozze di Gea ad Era. Gea piantò l'albero delle mele d'oro nel proprio giardino e concesse ad Atlante il permesso di libero pascolo per le greggi e le mandrie di proprietà del titano, in cambio dell'impegno di custodire il melo dai frutti d'oro. Temi, la prima moglie di Zeus, mise in guardia Atlante: “il tuo albero sarà spogliato dei pomi d'oro da un figlio Zeus”. Atlante, preoccupato della predizione della dea, affidò l'albero dalle mele d'oro alle proprie figlie, le Esperidi, ninfe di ponente, che abitavano nel meraviglioso giardino, noto come il giardino delle Esperidi, ai piedi del monte Atlante. Le Esperidi erano Espera, Egle ed Eriteide, figlie di Atlante e della Notte. Esse cantavano in coro presso fonti sorgive che diffondevano ambrosia. Un altro mito sulle Esperidi racconta che erano sette figlie
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di Atlante e di Esperide, sua nipote. Possedevano grandi greggi di montoni ed il re d'Egitto, Busiride, loro vicino, aveva mandato dei briganti a razziare il loro gregge ed a rapire le giovani. Eracle giunse nel paese, uccise i briganti, sottrasse loro il bottino, liberò le Esperidi e le restituì ad Atlante. Questi, come ricompensa, gli insegnò l'astronomia. Le fanciulle, attratte dalla bellezza delle mele d'oro, ne colsero tre ed Era, contrariata, ordinò al drago Ladone di avvolgersi attorno all'albero e di non permettere ad alcuno di avvicinarsi. Eracle ignorava il luogo dove si trovavano le mele d'oro e perciò arrivò al Giardino delle Esperidi dopo un lungo peregrinare: attraversò l'Illiria, raggiunse il fiume Eridano e qui affrontò e vinse il dio del mare profondo, Nereo. Nereo, figlio di Gea e Ponto, ebbe come moglie Doride, figlia di Oceano, e con lei generò le Nereidi. Aveva il potere di trasformarsi in qualunque specie di animale e di essere, ma Eracle riuscì a bloccarlo ed a farsi dare le informazioni volute sul Giardino delle Esperidi. Nereo inoltre gli consigliò anche di non cogliere i pomi con le proprie mani ma farle cogliere ad Atlante, ormai condannato a reggere eternamente la sfera terrestre sulle spalle. Giunto al giardino, Eracle chiese ad Atlante di cogliere i frutti d'oro del melo sacro ad Era promettendo in cambio di sostituirsi a lui per un'ora nel sorreggere il globo terrestre. Pur di avere un breve riposo Atlante accettò ma temeva il drago Ladone e così Eracle uccise il drago colpendolo con una freccia imbevuta del sangue velenoso dell'Idra di Lerna, la cui uccisione era stata una delle sue fatiche: ora Atlante era tranquillo e poté offrire il proprio aiuto all'eroe tebano. Eracle si sostituì ad Atlante che, finalmente libero dal peso del globo, prese le tre mele d'oro, quelle che le figlie avevano già raccolto in precedenza, le mostrò ad Eracle e, venendo meno ai patti, gli disse che sarebbe stato lui stesso a portarle ad Euristeo; lo rassicurò, però, nello stesso tempo, che avrebbe ripreso il proprio posto ed il proprio peso al ritorno dalla consegna. Euristeo era il sovrano, fratello di Eracle, che si era “inva-
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ghito” delle mele d'oro del giardino delle Esperidi e che aveva imposto ad Eracle di compiere le dodici fatiche, di cui una era l'uccisione del Drago Ladone. Eracle, memore dei consigli di Nereo, non reagì alla provocazione di Atlante, anzi fingendo di essere d'accordo, chiese al titano di reggere solo per alcuni minuti il globo, perché potesse meglio fasciarsi il capo e sopportare così più agevolmente l'enorme peso durante la sua assenza. Atlante, ingannato dalla naturalezza di comportamento di Eracle, pose a terra le tre mele d'oro e riprese sulle proprie spalle la sfera terrestre. Ed Eracle salutò beffardamente il titano, prese le tre mele d'oro e si allontanò. Il drago Ladone fu trasformato da Era in costellazione perché gli uomini, ammirandola alta nel cielo, avrebbero ricordato il terribile animale non per la sua mostruosità, ma quale esempio di fedeltà e di ubbidienza. Un altro mito racconta che Eracle, per appagare l'ultimo desiderio di Euristeo e compiere l'ultima fatica, discese nel regno dei morti per catturare Cerbero e condurlo alla presenza del sovrano cui doveva ubbidienza per volere di Zeus. L'Ade è diviso in tre zone: la prima, l'Erebo, il regno della notte e della Morte, la seconda, il Tartaro, che accoglie le anime malvagie, l'ultima, i Campi Elisi, dove pace e delizia rallegrano le anime dei buoni. All'Erebo si entra da larghe porte ma non è consentito uscirne: le porte sono custodite da Cerbero, mostruoso animale, metà cane e metà Drago che, con tre bavose teste, latra di continuo e strazia di morsi chiunque tenti di fuggire. Eracle, accompagnato da Hermes, ottenne da Ade, re dell'oltretomba, il consenso di lottare contro il cane a tre teste, purché lo affrontasse senz'armi. E così Eracle lo assalì con la sola forza delle mani: afferrate e tramortite le tre teste, incatenò il mostruoso animale che, ormai innocuo, fu trascinato fuori dall'Erebo e condotto alla reggia di Euristeo ed a lui consegnato. Il tiranno, impressionato da quell'orribile bestia che, pur incatenata, cercava di assalire e dilaniare i presenti, ebbe pau-
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ra ed ordinò all'eroe tebano di riportarla nell'Ade (v. Eracle). Gli antichi erano convinti che il ricordo del trionfo della forza del bene sulle tenebre del male del Drago-Cerbero veniva perpetuato nella disposizione delle stelle della costellazione Drago, non lontana da quella di Ercole, ed erano sicuri che l'eroe tebano anche da lassù sarebbe stato sempre pronto ad intervenire per abbatterlo in caso di necessità. Un altro mito ancora racconta che il Drago era uno dei mostri che lottarono con i Titani, i vecchi dèi, nella guerra cosmica nella quale gli dei olimpici soppiantarono i Titani stessi nel governo dell'Universo. Verso la fine della guerra, la dea Atena si trovò di fronte al Drago. Essa lo afferrò per la coda e lo scagliò tra le stelle. Il Drago colpì la volta celeste e si attorcigliò con le sue spire intorno al centro di rotazione del cielo. Si congelò sul posto e non poté districare le sue spire, così continua tuttora a girare intorno al polo. I Sumeri consideravano il Drago come il mostro femminile Tiamat, simbolo del caos primordiale, che fu sconfitta da Marduk in un epico duello alla fine del quale Tiamat fu tagliata in due pezzi, una metà divenne la costellazione del Drago e l'altra la costellazione dell'Idra. Il fatto che le stelle del Drago non tramontassero mai, ma occupassero anche una grande zona centrale tra le costellazioni circumpolari, faceva di questa creatura il vero simbolo dell'eternità, della consapevolezza e della vigilanza.
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Costellazione estiva. Dal nome latino di Eracle, Ercole, deriva il nome della città campana di Ercolano, sede di famosissimi scavi archeologici. Alfa si chiama Ras Algethi, in Arabo il “capo del ginocchio”; è sia doppia che variabile, con m compreso tra 3 e 4, in modo irregolare. Beta è Rutilico, “zappa”, stella doppia con m = 3.5. Le altre stelle a cui è attribuito un nome sono Lambda, Masym, il “polso” con m = 4.8; Delta, Sarin, con m = 3; Kappa, Mirkaf, il “gomito”, con m = 5; Omega, Cujam, la “clava”, con m = 4. Zeus scelse Alcmena, la bella e saggia figlia di Elettione, re di Micene, per generare un figlio tanto forte da essere la gloria degli uomini e da impedire lo sterminio degli uomini e degli dèi. Alcmena discendeva dirattamente da Perseo ed il re degli dèi desiderava quel figlio che voleva artefice di memorabili vittorie su mostri giganteschi che uccidevano uomini ed animali, che devastavano terre coltivate ed opulenti villaggi. Zeus conquistò Alcmena con un malizioso raggiro: prese l'aspetto del marito Anfitrione, che le aveva annunciato il suo ritorno da una guerra vittoriosa. La giovane sposa, senza sospettare l'inganno, accolse ZeusAnfitrione con grande slancio d'amore per una notte che Zeus stesso fece durare per tre. Ermes, per ordine di Zeus, aveva indotto Helios a non uscire ed al Sonno di intorpidire le menti degli uomini affinchè non si accorgessero di quanto stava succedendo. Contrariamente a quanto era accaduto per i suoi precedenti amori mortali, da Niobe in poi, Zeus non violentò bruscamente Alcmena, ma si prese la briga di assumere le sembianze
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di Anfitrione e di sedurla con parole affettuose e carezze. Alcmena godette delle gioie coniugali col suo supposto marito per trentasei ore e ne nacquero due gemelli, Euristeo ed Eracle. Euristeo era figlio di Anfitrione ed Eracle figlio di Zeus. Infatti Alcmena, durante questa notte di due giorni, si unì anche al vero Anfitrione Anfitrione scoprì l'involontaria infedeltà di Alcmena e volle punirla: decise di bruciarla su una pira, ma Zeus fece cadere un acquazzone che ne spense le fiamme. Di fronte a questo avvenimento, Anfitrione perdonò Alcmena. Nel momento in cui Eracle stava per nascere, Era architettò, per gelosia, un inganno contro Zeus. Zeus aveva, infatti, dichiarato che il discendente di Perseo che stava per nascere, avrebbe regnato su Micene. Era, gelosa, convinse Illizia, la dea dei parti, figlia proprio di Zeus ed Era, a ritardare la nascita di Eracle ed ad affrettare quella di Euristeo, che era soltanto al settimo mese dal concepimento. Euristeo nacque per primo e beneficiò della promessa fatta da Zeus. Dopo il parto Alcmena, temendo l'ira di Era, abbandonò Eracle fuori le mura di Tebe in un luogo impervio. Eracle era destinato a morte sicura, ma lo salvò l'intervento tempestivo di Zeus, che chiese aiuto ad Atena che, con un pretesto, convinse Era a passeggiare con lei. La condusse fuori le mura di Tebe e proprio là le additò, mostrandosi sorpresa, il piccino verso cui si diresse precipitosamente. Si chinò, lo prese tra le braccia, ed inneggiando alla bellezza del piccolo, disprezzò la madre snaturata che l'aveva ha abbandonato e chiese ad Era di allattarlo, porgendoglielo teneramente. La regina degli dèi si denudò il petto ed il piccino, affamato, lo afferrò con tale forza che il divino latte fuoriuscì dal seno di Era e come un getto raggiunse il firmamento: nacque così la Via Lattea. La dea nutrì il piccino che acquistò l'immortalità, perché nutrito con il latte della regina dell'Olimpo, e che chiamò Eracle ovvero “gloria di Era”. Quando Era scoprì chi era il piccino, si sentì tradita e volle vendicarsi. Piena d'ira inviò presso la culla in cui era stato
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adagiato Eracle, due grossi serpenti perché lo uccidessero. Per nulla spaventato il piccolo Eracle soffocò i due serpenti con le proprie “manine”. Vari maestri lo educarono nell'arte della guerra, in cui riuscì ottimamente. Inoltre fu educato da Anfitrione alla giuda del cocchio, da Castore alle armi, da Autolico alla lotta, da Eurito al tiro con l'arco, da Eumolpo alla musica e da Chirone alle lettere ed alle scienze. Egli, per contro, non era per niente incline allo studio della musica e delle lettere: rimproverato e picchiato dal maestro di scrittura, Lino, si infuriò a tal punto che gli spaccò la testa con una pesante cetra, uccidendolo. Accusato di assassinio, il giovane Eracle avanzò a sua discolpa la legge di Radamanto sulla legittima difesa contro un aggressore. Fu prosciolto dall'accusa ma Anfitrione lo confinò in una sua tenuta di campagna, dove visse, irrobustendo il fisico, fino ai diciotto anni, quando decise di affrontare un feroce leone che viveva sul monte Cicerone e che tanti danni aveva fatto al bestiame di Anfitrione ed a quello del suo vicino, il re Tespio. Quest'ultimo aveva sposato Megamede e ne aveva avuto cinquanta figlie. Preoccupato che avessero compagni inadatti alla loro regalità, egli le aveva fatte giacere con Eracle, da cui sperava rimanessero ingravidate. Eracle dormì nella reggia di Tespio per cinquanta notti di seguito, convinto di dormire sempre con la stessa donna, mentre le cinquanta sorelle si scambiavano a turno. Da questi incontri nacquero i cinquanta Tespiadi, figli dell'eroe. Mentre di notte era occupato a letto con le figlie di Tespio, Eracle di giorno continuava la caccia al tremendo leone. Finalmente lo trovò e lo uccise colpendolo con una clava ricavata dal tronco di un albero sradicato, poi ne usò la pelle come trofeo. Eracle lottò anche al fianco dei giovani tebani, in una guerra vittoriosa contro i Mini e sposò Megara, figlia del re di Tebe, Creonte, dalla quale ebbe numerosi figli. Quando Eracle era partito per gli Inferi a cercare Cerbero per conto di Euristeo (v. dopo), nella città di Tebe giunse Lico
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per detronizzare Creonte e metterlo a morte. Era quasi sul punto di uccidere Megara ed i suoi figli, quando Eracle ritornò e cominciò con l'uccidere Lico; ma Era, irata per l'eroismo di Eracle, lo colpì d'improvvisa follia: uccise i suoi figli e la loro madre, per poi recarsi, pentito, presso l'oracolo di Delfi, per sapere come espiare le sue colpe. La Pizia gli consigliò di recarsi a Tirinto, dove regnava Euristeo, gemello di Eracle, del quale doveva divenire suddito con l'obbligo di servirlo per dodici anni e riscattare così la propria libertà. Lietissimo di sentirsi protetto da un così grande eroe, il sovrano, col trascorrere del tempo, incominciò però ad averne timore. Euristeo lo allontanò dalla corte, sospettoso che un giorno lo avrebbe destituito, e gli impose di compiere le “dodici fatiche”, una per ogni anno di sudditanza. Le dodici fatiche simboleggiano le sofferenze che ogni uomo deve saper affrontare per potersi conquistare un'esistenza libera. (Agizza). Le dodici fatiche sono: 1. Il leone di Nemea 2. L'Idra di Lerna 3. La cerva di Cerinea 4. Il cinghiale di Erimanto 5. Gli uccelli del lago Stinfalo 6. Le stalle di Augia 7. Il toro di Creta 8. Le cavalle di Diomede 9. Il cinto della regina delle Amazzoni 10. I buoi di Gerione 11. Il cane Cerbero 12. I pomi d'oro del giardino delle Esperidi La prima fatica è l'uccisione del leone di Nemea. Il feroce animale dalla pelle invulnerabile è figlio di Artemide. Alla sua nascita la madre rimase inorridita e lo gettò sulla Terra, dove cadde vicino Nemea, nell'Argolide. Si insediò in una grotta con due uscite. La belva era invulnerabile e non poteva essere
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uccisa né con frecce né con colpi di clava, ma Eracle con la forza delle proprie mani la soffocò e dalla fulva pelle del leone, ucciso e scuoiato con un suo stesso artiglio, ricavò la tunica invulnerabile che avrebbe indossato per tutta la vita. Egli tornò poi a Micene portando l'enorme carcassa del leone ad Euristeo che fu così impaurito che gli proibì di entrare a palazzo con le sue prede future. La seconda fatica fu quella di distruggere l'Idra di Lerna, un mostro con molte teste, che Era aveva posto all'ingresso del regno di Ade. L'Idra, un serpente d'acqua, se ne stava in agguato in una palude vicino alla città di Lerna, divorando gli incauti passanti. Eracle si cimentò col mostro, ma non appena tagliò una delle sue teste altre due ne spuntarono al suo posto. A rendere le cose più difficili, un grosso granchio sbucò dalla palude e lo attaccò ai piedi. Adirato, l'eroe schiacciò il granchio e chiamò in soccorso Iolao, suo nipote e suo cocchiere, che bruciò il moncone di ciascuna testa del mostro man mano che il suo padrone la mozzava, per evitare che ne crescesse un'altra. La testa centrale, invulnerabile, fu schiacciata con un masso. Eracle sventrò l'Idra ed affondò le sue frecce in quel sangue velenoso, un'azione che alla fine fu la causa della sua distruzione. La fatica seguente, la terza, fu la cattura della cerva di Cerinea, monte tra l'Arcadia e l'Acaia, che aveva corna e zoccoli d'oro ed era sacra ad Artemide: per questo doveva essere catturata viva. Eracle le diede la caccia per un anno, inseguendola per monti e foreste finché, presso il fiume Ladone, ai confini del Giardino delle Esperidi, la raggiunse e la catturò con una rete. Le legò insieme le zampe e se la caricò sulle spalle per portarla a Micene. Per strada incontrò Apollo ed Artemide, irata per i maltrattamenti alla bestia a lei consacrata, e dovette fare le sue scuse ai suoi fratelli, figli di Latona, adducendo come attenuante il fatto che l'impresa non era stata una sua iniziativa, ma eseguita su ordine di Euristeo. La quarta fu la cattura del ferocissimo cinghiale di nome
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Calidonio, che infestava e recava danno nelle regioni vicine ad Erimanto. Eracle doveva catturlo vivo, così come aveva fatto per la cerva di Cerinea. Mentre si trovava sulla via del compimento di quest'impresa, era stato ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno, che gli aveva offerto del vino, il cui odore aveva attirato altri centauri; ne era nata una zuffa durante la quale Eracle ne aveva uccisi alcuni ed altri li aveva ricacciati a Capo Malea, dove era la caverna del centauro Chirone. Eracle uccise, involontariamente, anche lui, poi cercò di soccorrerlo e di curare la ferita della freccia, ma il veleno dell'Idra che ne ricopriva la punta fu implacabile. Chirone, che non riusciva a guarire e non poteva morire, preferì rinunciare all'immortalità, pur di porre fine al suo dolore. Ci fu anche una seconda vittima innocente: Folo. Folo stesso estrasse da un cadavere una delle frecce e la guardava sbalordito, quando gli cadde di mano e lo colpì ad un piede, uccidendolo. Eracle allora riprese la caccia al cinghiale di Erimanto e cominciò a lanciare alte grida per stanarlo. Quando l'ebbe catturato se lo caricò sulle spalle e lo portò ad Euristeo che, alla vista del cinghiale vivo, si nascose impaurito in un orcio di bronzo. La fatica seguente, la quinta, lo portò presso il lago di Stinfalo, nell'Arcadia, dove disperse uno stormo di uccelli con artigli, becco e piume di bronzo, che scagliavano come frecce e saccheggiavano di tutto, nutrendosi anche di carne umana. Pare che fossero stati addestrati da Ares stesso. Ne uccise alcuni con le armi di cui disponeva e gli altri li scacciò spaventandoli con alcuni sonagli di bronzo, opera di Efesto, che gli erano stati donati da Atena. I volatili riuscirono a farla franca fuggendo nel Mar Nero, dove in seguito attaccarono Giasone e gli Argonauti. La sesta consistette nella pulizia delle stalle di Augia, re degli Epei nell'Elide e figlio di Elios. Queste stalle contenevano il più ricco allevamento del mondo, con animali immuni da malattie e con un'incredibile fertilità, ma erano piene del leta-
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me accumulatosi da anni. Eracle concluse col re un affare: in cambio della pulitura delle stalle, il re gli avrebbe dato un decimo del suo bestiame. Egli riuscì nell'impresa deviando il corso di due fiumi, l'Alfeo ed il Peneo. Le acque lavarono le stalle, gli ovili e la vallata. Augia, sostenendo di essere stato ingannato, non tenne fede al patto e bandì Eracle dall'Elide. Euristeo volle inoltre invalidare la prova, accusando Eracle di aver agito per interesse economico. Poi Eracle salpò alla volta di Creta per catturare un toro che lanciava fiamme dalla bocca e che stava devastando quel territorio. Il toro era stato regalato da Poseidone a Minosse perché ne facesse un sacrificio votivo: egli, grazie all'apparizione di questo toro, era diventato re di Micene, però non volle più sacrificarlo (v. Toro). Eracle riuscì a catturarlo ed a riportarlo vivo a Micene. Euristeo lo consacrò ad Era e lo lasciò libero. L'animale provocò lutti e danni in tutto il Peloponneso, finché a Maratona fu ucciso da Teseo, che lo sacrificò ad Apollo. Come ottava fatica Eracle portò ad Euristeo le cavalle divoratrici di carne umana del re Diomede di Tracia, figlio di Ares e di Pirene. Diomede stesso forniva loro il cibo con l'uccisione di tutti gli stranieri che passavano per la sua terra. Eracle, avendo bloccato i servi che avevano la cura delle bestie, le legò e diede loro in pasto lo stesso Diomede, per punirlo delle sue sanguinarie malefatte. Le giumente, ormai placata la fame, furono facilmente addomesticate, catturate e portate vive al re Euristeo, il quale le consacrò ad Era. La nona fu la conquista della cintura di Ippolita, regina delle amazzoni, che era stata un dono di Ares per simboleggiare il potere, ma era desiderata da Admeta, figlia di Euristeo. Ippolita avrebbe acconsentito volentieri a dare la sua cintura ad Eracle, ma Era, gelosa dell'eroe, suscitò una sedizione fra le amazzoni ed Eracle dovette uccidere Ippolita.
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Egli si era recato a Temiscira, la città delle amazzoni, accompagnato da altri eroi quali Teseo, Peleo, Telamone. Teseo rapì Antiope e per vendetta le amazzoni marciarono su Atene, ma furono sconfitte dagli uomini di Teseo. Secondo un'altra leggenda, Eracle ottenne la cintura, ma non uccise Ippolita, bensì la diede in sposa a Teseo (v. Corona Boreale). La decima fu rubare il bestiame di Gerione, un mostro con tre corpi che governava l'isola di Eritea, lontano ad occidente. I buoi erano custoditi da un gigantesco pastore, Eurizone e da un cane bicipite che si chiamava Orto. Bebrice era il re che regnava sulle popolazioni indigene nella regione di Narbona, in quella zona che oggi chiamiamo Francia. Eracle attraversò il paese ed alla corte di Bebrice si ubriacò e violentò Pirene, la figlia di Bebrice, la quale partorì un serpente. Spaventata, Pirene scappò sulle montagne, dove fu dilaniata dalle bestie feroci. Quando Eracle ritornò dalla spedizione, ne ritrovò il corpo al quale tributò onori funebri ed in suo ricordo chiamò quelle montagne Pirenei. Veleggiando sul carro del Sole verso occidente, Eracle giunse a Tartasso, ai limiti del mondo noto. Eracle eresse le colonne dello stretto di Gibilterra, che da lui presero il nome di “colonne d'Eracle (Ercole)”. Uccise i guardiani e portò via i buoi; trafisse anche Gerione con una sola freccia che trapassò tutti e tre i suoi corpi entrando da un fianco e poi portò il bestiame in Grecia. Mentre costeggiava la Liguria, a sud della Francia, fu attaccato da forze locali, guidate dai briganti Alchione e Dercino, figli di Poseidone, tanto numerose da farlo restare a corto di frecce. Buttatosi in ginocchio, supplicò Zeus di aiutarlo, e Zeus fece piovere pietre sulla pianura. Eracle le afferrò e le lanciò contro i suoi assalitori, sgominandoli. Poi si recò lungo il Tevere dove Caco, figlio di Efesto, volle rubargli i buoi, che trascinò per la coda, cosicché le tracce sembravano dirigersi fuori dalla caverna e non verso di essa. Quando Eracle si accorse del furto, partì alla ricerca dei suoi buoi, e sarebbe stato ingannato dallo stratagemma di Caco se
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non fosse stato informato da Caca, la sorella di Caco. Si accese la lotta tra Eracle e Caco, che aveva tre teste e soffiava fuoco da tre bocche. Ma Eracle, con la sua mazza, non tardò a sopraffarlo ed ucciderlo. Il re Evandro, che regnava allora a Pallanteo (la futura Roma), lo ringraziò per aver liberato il paese da un devastatore come Caco e gli predisse, tramite la madre Carmenta, che il Cielo lo avrebbe ricompensato dandogli onori divini. Dopo ulteriori avventure, Eracle tornò in patria e consegnò i buoi ad Euristeo che li sacrificò tutti ad Era. Quando Eracle ritornò dall'ultima delle sue imprese, che doveva essere effettivamente l'ultima, Euristeo si rifiutò di restituirgli la libertà perché era stato aiutato ad uccidere l'Idra e perché aveva tentato di ricavare profitto dalla pulitura delle stalle. Di conseguenza gli diede altri due compiti, più difficili di tutti i precedenti. Il primo fu quello di rubare le mele d'oro dal giardino di Era sulle pendici del monte Atlante. L'albero dai frutti d'oro era un dono della Madre Terra, Gea, ad Era in occasione delle sue nozze con Zeus. Era mise le Esperidi, figlie di Atlante, a guardia dell'albero, ma esse rubarono alcuni di quei frutti. E così adesso c'era il drago Ladone, figlio di Echidna, attorcigliato attorno all'albero per evitare ulteriori furtarelli. Dopo un viaggio eroico, durante il quale liberò Prometeo dalle sue catene, Eracle giunse nel giardino delle Esperidi in cui crescevano le mele d'oro. Lì vicino c'era Atlante, che teneva i cieli sulle spalle. Eracle liquidò Ladone con frecce avvelenate nel sangue dell'Idra di Lerna, anch'essa figlia di Echidna, ed Era pose il Drago in cielo come costellazione. Eracle era stato ammonito da Prometeo di non raccogliere lui le mele, così chiese ad Atlante di prendergliele mentre egli stesso sosteneva temporaneamente i cieli. Poi ripose in fretta quel peso sulle spalle di Atlante e si portò via il tesoro (v. peraltro Drago). I pomi, però, dopo poco tempo furono riportati da Atena al loro posto, dove sarebbero rimasti per sempre, perché a nessun mortale era concesso il possesso di quei frutti che da-
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vano al loro proprietario la conoscenza degli arcani e la percezione del bene e del male. La dodicesima fatica fu la più spaventosa di tutte. Lo portò di fronte al cancello del Mondo dell'Oltretomba per catturare Cerbero, il cane da guardia a tre teste. Eracle fu aiutato, per ordine di Zeus, da Ermes ed Atena, che gli permisero di giungere alle porte dell'Ade, dove ebbe molti incontri ed avventure: l'uccisione della gorgone Medusa, la liberazione di Teseo, la zuffa col pastore di Ade, Menenzio. Ade voleva impedirgli in tutti i modi l'accesso al proprio regno e cercò di fermarlo sull'ingresso, ma Eracle lo ferì con una freccia alla spalla ed Ade dovette essere riportato in gran fretta sull'Olimpo, dove fu guarito da Peano che gli applicò un balsamo meraviglioso che in breve cicatrizzò la ferita. Ade gli permise allora di catturare Cerbero, ma senza fare uso delle armi; permetteva all'eroe di portare il mostruoso animale verso la luce, con l'impegno che lo restituisse subito al regno al quale per sempre doveva appartenere. Cerbero aveva la coda di drago e la schiena ricoperta di serpenti, ma Eracle, protetto dalla coda e dai serpenti dalla pelle del Leone di Nemea, lottò contro Cerbero a mani nude e trascinò il cane prigioniero ad Euristeo, che rimase sbigottito perché non immaginava di rivederlo vivo. Eracle poi lo riportò indietro. Adesso, dopo che tutte le fatiche erano state compiute, il re non aveva altra scelta che restituire all'eroe la libertà. Al ritorno dalla sua ultima fatica, Eracle ripudiò la moglie Megara, che aveva vissuto il grave dolore di vedere i propri figli uccisi dal loro stesso padre in preda del demone della follia Lissa, e la diede in sposa al nipote Iolao (v Prima Parte). Per una lite col fratello Apollo, interrotta da un fulmine Zeus, Eracle fu condannato a servire per tre anni la regina di Lidia, Onfale, figlia di Giordano e moglie di Tmolo, figlio di Ares. Tmolo fu ucciso da un toro scatenatogli contro da Artemide per aver violentato la sua devota Arippe. Onfale, rimasta vedova, regnò sulla Lidia e riuscì a dare un equilibrio interno al paese. Eracle divenne il suo amante e ne ricevette tre figli:
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Lamo, Agelao e Laomedonte. Una notte i due amanti, per gioco, si erano scambiate le vesti e si erano addormentati in giacigli separati in una grotta. Il dio Pan, innamoratosi perdutamente di Onfale, entrò nell'oscura caverna e, ingannato dalle vesti femminili, si sdraiò accanto ed Eracle che, con un poderoso calcio, lo scaraventò lontano. Onfale accese delle torce per smascherare l'intruso, e quando la grotta s'illuminò rivelò il figlio di Ermes ferito e dolorante. Onfale ed Eracle scoppiarono in una fragorosa ed irresistibile risata, che mise in fuga Pan. Per vendicarsi, Pan iniziò a raccontare fasulle inclinazioni lascive sul conto di Eracle. (Agizza). Allo scadere dei tre anni di servaggio, Eracle si congedò da Onfale, ritornò in patria e sposò Deianira, figlia di Eneo, re dell'Etolia, e di Altea. In realtà il padre di Deianira era il dio Dioniso, che si era invaghito di Altea, ed Eneo, che se era accorto, gli prestò la moglie. In cambio Eneo ebbe da Dioniso in regalo la vite ed il modo per coltivarla e trarne il vino. Anche Meleagro non è figlio di Eneo, ma di Ares. D'altra parte Eneo ebbe da Altea numerosi figli e figlie, tra cui Deianira. Altea ebbe, dopo sette giorni dalla nascita del figlio, la predizione dalle Moire, le Fate del Destino, che il figlio sarebbe morto se il tizzone che bruciava allora sul focolare si fosse consumato interamente; subito Altea prese il tizzone, lo spense e lo nascose in un cofanetto. Ora successe che Meleagro, durante una battuta di caccia, uccidesse i suoi zii, i fratelli di Altea, a causa di un diverbio per la spartizione di un cinghiale. Irritata, Altea gettò nel fuoco il tizzone al quale era legata la vita del figlio. Meleagro morì all'istante ed Altea, per la disperazione, si impiccò. Le figlie di Eneo, per la disperazione, furono trasformate in galline faraone, ma, su preghiera di Dioniso, Deianira e sua sorella Gorga riacquistarono la forma umana. Deianira, inoltre, sapeva guidare un carro e conosceva l'arte della guerra.
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Acheloo, figlio di Oceano e Teti, era il dio-fiume dell'Etolia ed aveva il dono della metamorfosi, vale a dire poteva rivestire la forma che preferiva. Chiese la mano di Deianira, che in realtà non ci teneva molto ad avere un marito con un dono per lei tanto scomodo. Quando anche Eracle la chiese in moglie, ella accettò immediatamente. Tuttavia Eracle dovette lottare con Acheloo, che non si rassegnò facilmente a lasciarsi soppiantare. Vi fu un combattimento tra i due pretendenti, e se Eracle usò tutta la sua forza, Acheloo usò tutti i suoi poteri. Quando alla fine si tramutò in toro, Eracle gli strappò un corno, ed allora Acheloo si considerò vinto e si arrese. Gli cedette il diritto di sposare Deianira, ed il corno divenne la Cornucopia (v. peraltro Capricorno). D'altra parte il carattere di Acheloo non doveva essere molto facile. Mentre un giorno quattro ninfe del paese facevano facevano sacrifici sulle rive dell'Acheloo, dimenticarono, fra gli dèi invocati, quello del fiume. Incollerito, questi gonfiò le sue acque e le trascinò nel mare, dove esse diventarono quattro delle isole Echinadi. La quinta isola del gruppo, Perimele, era una ragazza che il dio aveva amato e che aveva sverginato. Il padre di Perimele, Ippodamante, irritato contro la figlia, la gettò nel fiume nel momento in cui la giovane stava per mettere al mondo il bambino che sarebbe nato da quella violenza. Su preghiera di Acheloo, la fanciulla fu trasformata in isola da Poseidone. Intanto Eracle e Deianira erano insieme in viaggio ed arrivarono presso le rapide del fiume in piena Eveno, nel punto in cui il centauro Nesso, figlio di Issione, traghettava i passeggeri sull'altra sponda. Eracle lo attraversò a nuoto, e lasciò che Nesso portasse Deianira dall'altra parte. Il centauro, ammaliato dalla bellezza della giovane, cercò di violentarla, ed Eracle lo colpì con una delle sue frecce intrise nel veleno dell'Idra. Il centauro morente offrì a Deianira la propria veste intrisa del suo sangue, come filtro d'amore. Tornando un giorno a casa, Eracle partecipò ad una gara con l'arco e ne fu vincitore; lo sconfitto era il re Eurito, impareggiabile arciere, la cui bellissima figlia Iole fu presa d'amore per Eracle. Purtroppo voci raggiungono Deianira: la vita sere-
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na della fedele consorte fu sconvolta. Deianira non voleva perdere Eracle che amava e pur tra mille pensieri la coglie il ricordo del dono ricevuto da Nesso. Naturalmente quel dono nascondeva la terribile vendetta per un amore non ricambiato. Intanto Eracle stava per tornare a casa e Deianira, avutane notizia, affidò la veste, intrisa del sangue di Nesso, al fedele servo Lica, e ignara gli disse: “Vai incontro al mio sposo, portagli questa veste e che la indossi per amor mio, in segno della sua fedeltà”. Il servo, che incontrò Eracle mentre celebra un sacrificio di ringraziamento agli dèi per il ritorno a casa, consegnò la veste al suo padrone che, felice, la indossò. Il veleno contenuto nella veste intrisa di sangue si sciolse e si sparse sul corpo dell'eroe, provocandogli dolori acuti e lancinanti. Eracle tentò di strapparsi di dosso la veste, che ormai aderiva completamente alla sua pelle e con il suo gesto rimase come “scuoiato”. L'atroce dolore lo indusse a porre fine alla propria vita: si lanciò sul rogo propiziatorio che aveva preparato, sul monte Eta, per onorare gli dèi e pregò Zeus, invocando per sé la morte. Allorché Deianira riconobbe la vera natura del preteso filtro d'amore, si uccise. In punto di morte, Eracle chiese al figlio Illo di sposare Iole, che era stata sua concubina, perché nessun altro uomo potesse possederla, dopo che aveva giaciuto con lui. E la madre di Eracle, Alcmena, racconta ad Iole come avesse partorito il figlio: nell'imminenza del parto, straziata da sette giorni e sette notti di doglie, invocava Lucina, la dea che favorisce i parti. Questa arrivò ma, istigata in precedenza da Era, si sistemò sull'altare e, accavallando le gambe ed intrecciando le dita, prima differì il parto, poi lo bloccò del tutto. Per fortuna un'ancella, Galanti, intuì che per colpa di Era stava accadendo qualcosa, «vide la dea appostata sull'ara, che con le dita intrecciate teneva le braccia intorno alle ginocchia, e le disse: “chiunque tu sia, rallegrati con la mia padrona; Alcmena di Argo ha partorito: esaudito ha la puerpera i suoi voti”. Balzò in piedi la dea dei parti sbigottita e disgiunse le mani: sciolto il nodo, io partorisco.»(Met. IX, 310, 315) La dea, per vendetta trasformò Galanti in donnola. Zeus comunque ascoltò le invocazioni di Eracle: dopo che
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il fuoco aveva distrutto quanto di umano c'era in lui, lo avvolse in una nuvola e con un cocchio trainato da quattro cavalli bianchi lo trasportò in cielo, trasformandolo in costellazione. La sua figura nel cielo appare rovesciata, in posizione inginocchiata, stringendo con una mano la clava e con un piede che schiaccia la testa del Drago. Morto Eracle, Euristeo fece cacciare Alcmena da Corinto e pretese che gli Ateniesi espellessero i discendenti di Eracle. Gli Ateniesi rifiutarono e, nella guerra che seguì, Euristeo fu ucciso. Portarono la sua testa ad Alcmena, che ne strappò gli occhi. Poi si trasferì a Tebe insieme ai discendenti di Eracle, e vi morì molto vecchia. Quando fu morta, Zeus mandò Ermes a cercare il suo corpo per trasportarlo nelle Isole dei Beati, dove essa sposò Radamanto. Nel cielo cristianizzato la costellazione di Eracle era associata ai re Magi.
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Questo è l'ammasso aperto più brillante e famoso di tutto il cielo, citato in ogni tempo. Si trova nella costellazione del Toro. Ad occhio nudo si possono distinguere nove stelle: Alcione, la stella Eta, che nell'antichità non aveva nome ma è la più brillante, Celano, Electra, Taygeta, Maia, Asterope, Merope, Atlante e Pleione. La stella meno luminosa, e quindi meno facilmente visibile è Merope. Queste sono stelle chesi stanno formando. Pleione, ad esempio, è una stella con un inviluppo esteso che emette anelli di gas ad intervalli regolari, la cui luminosità fluttua imprevedibilmente. Dell'ammasso fanno parte circa 250 stelle. Sull'isola di Chio, Orione, ubriaco, tentò di fare violenza a Merope, ma Zeus la salvò e mutò le sette sorelle in colombe (“peleiades”), collocandole in cielo. Il gesto di Orione suscitò l'ira del re di Chio, Enoprione, che lo punì facendolo accecare. Costretto ad allontanarsi, si diresse a Lemno, dove Efesto, impietosito, lo affidò al suo maestro Cedalione che lo condusse sul monte dell'isola, dove Eos gli restituisce la vista (v. Eracle). Le Pleiadi, secondo un'altra narrazione, sono sempre figlie di Atlante e sono nate sul monte Silene, in Arcadia. Sono ninfe dei boschi al seguito di Artemide, e sono trasformate in stelle da Zeus, impietosito dal loro grande dolore per la fatica del padre, che sorreggeva il mondo sulle spalle. Ed ancora una diversa tradizione racconta che le Pleiadi testimoniano la divinizzazione di Atlante e della sua sposa Pleione trasformati dagli dei in stelle insieme alle loro figlie. Il mito vede tutte le stelle del gruppo dotate inizialmente di uguale luminosità; poi, gli dei decidono di “variare” lo splendore di ciascuna stella e ognuna di esse ora si distingue per una propria luminosità commisurata alla bellezza ed ai meriti
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acquisiti in vita. Ad esempio Merope è la meno luminosa perché fu la sola a sposare un mortale, Sisifo, di cui si vergognò, e per questa ragione divenne meno lucente delle altre Un'altra leggenda narra che le Pleiadi avessero cinque sorelle, chiamate Iadi, dal nome del fratello Iante. Quando questi venne ucciso, durante una caccia, da un leone, le cinque sorelle, sopraffatte da un'infinita tristezza, ne morirono. Poiché la morte del fratello le aveva così gravemente sconvolte, furono definite Iadi per ricordare il fratello (v. Iadi). Quanto alle altre dieci, esse meditarono sulla sorte delle loro sorelle tanto che sette di loro si suicidarono. Un'ulteriore leggenda narra che Merope era la figlia di del re di Arcadia Cipselo e che sposò il figlio di Eracle Cresfonte. In realtà Cipselo l'aveva data in sposa a Cresfonte per assicurarsi l'alleanza degli Eraclidi e conservare il suo regno. Infatti i figli di Eracle, rimasti senza la protezione del padre e temendo l'odio di Euristeo, si rifugiarono presso il re di Trachis, Ceice, il quale si era sempre mostrato ben disposto verso Eracle. Ma Euristeo pretese che li cacciasse da Trachis. Ceice, temendo Euristeo, li respinse sostenendo di non essere abbastanza potente da poterli nascondere presso di sé. Andarono allora ad Atene, dove Teseo accettò di proteggerli contro Euristeo, che però dichiarò guerra agli ateniesi. Nella guerra che conseguì, Euristeo fu ucciso da Iolao e gli Eraclidi furono liberi. Allorché si avvicinarono alle frontiere dell'Arcadia, re Cipselo inviò degli ambasciatori con dei regali e accadde che questi ambasciatori incontrassero i soldati di Cresfonte, mentre questi ultimi avevano appena comprato viveri dai contadini dei paraggi e stavano consumando il pasto. Invitarono gli Arcadi ad unirsi al banchetto, durante il quale si accese una disputa. Gli Arcadi fecero presente che era cosa non conveniente il venire a disputa con i propri ospiti e gli Eraclidi conclusero un patto con gli Arcadi promettendo di risparmiare il paese. Re Cipselo diede anche sua figlia Merope in moglie a Cresfonte. Cresfonte fu in seguito assassinato da uno degli Eraclidi, Polifonte, che aveva anche ucciso i due figli maggiori di Cre-
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sfonte ed aveva sposato la sua vedova Merope, contro il volere di quest'ultima. Merope era riuscita a salvare il figlio più giovane, Epito, mandandolo in Etolia, presso alcuni ospiti. Ella si manteneva in contatto con lui attraverso un vecchio e fedele servitore, che faceva segretamente il viaggio. Polifonte sapeva che il giovane Epito non era morto; questo lo inquietava, e lo faceva ricercare per evitare che si presentasse un giorno, in veste di vendicatore, per fare i conti con lui. Aveva anche offerto una ricca ricompensa a chiunque avesse ucciso Epito. Questi, intanto, era cresciuto ed aveva ideato il piano per vendicare i fratelli ed il padre. Prendendo il nome di Telefonte, andò a trovare il re e gli chiese la ricompensa assicurandolo di aver ucciso Epito. Il re non gli credette sulla parola, ma gli chiese di restare un per un po' di tempo presso di lui, in qualità di ospite, mentre egli avrebbe condotto un'indagine. Durante questo tempo, Merope aveva ricevuto la visita del servitore che fungeva da intermediario col figlio, ed il vecchio l'aveva avvertita che questi era sparito misteriosamente da alcuni giorni. Merope allora credette che lo straniero fosse realmente l'uccisore del figlio, e penetrò di notte nella sua camera per ucciderlo. Aveva già sollevato il pugnale su di lui quando il vecchio, sopraggiungendo, fermò il suo braccio, riconoscendo nel preteso assassino proprio il figlio di Merope. Questi si mise allora d'accordo con la madre per trovare il modo di uccidere Polifonte. Merope portò un gran lutto, il più ostentatamente possibile e Polifonte non dubitò più che suo figlio fosse veramente morto. Inoltre Merope, che fino ad allora si era mostrata ostile a Polifonte, si avvicinò a lui, come se avesse perduto ogni speranza e si fosse rassegnata alla sua sorte. Il re si sentì in obbligo di celebrare un sacrificio di ringraziamento, al quale invitò lo pseudo-Telefonte come ospite d'onore, chiedendogli d'immolare la vittima. Ma, sull'altare, invece di colpire la vittima, il giovane colpì Polifonte e vendicò con un sol colpo il padre, i fratelli e la lunga violenza fatta subire alla madre. Poi non fece alcuna fatica a farsi riconoscere come re. Un'altra leggenda ancora narra che, al momento della ca-
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duta di Troia, la pleiade Elettra, dalla quale discendeva la stirpe dei re Troiani, abbandonò, disperata, la compagnia delle sorelle, e fu trasformata in cometa. Gli antichi astronomi hanno raffigurato queste Pleiadi staccate dal Toro. Gli Arabi chiamarono l'ammasso delle Pleiadi la “Folla” (Ath-thuayya), concordante con il vocabolo “pleiade” nel suo significato di “moltitudine”. Gli hawaiani le collegano a Lono, dio dell'agricoltura e della fertilità: il sorgere delle Pleiadi segnava l'inizio di un periodo di quattro mesi dedicato al dio, portatore delle piogge invernali, momento di fecondazione della terra. I contadini ed i naviganti di quasi tutti i tempi vi vedevano una chioccia con i suoi pulcini, e venivano chiamate le “gallinelle”, il “grappolo” ed in altri modi simili. Un mito degli indiani della tribù del Kiowa narra che sette ragazzine uscirono giocando dal loro villaggio. Si divertivano e non si accorsero che si stavano allontanando troppo. Un gruppo di orsi le vide e cominciò a dar loro la caccia; le piccole erano ormai troppo lontane per tornare al villaggio e troppo lente per sfuggire agli orsi, tutto quello che poterono fare fu arrampicarsi in cima ad un piccolo masso, pregando la roccia di salvarle. Le ragazzine erano buone di cuore e lo spirito della roccia udì le loro preghiere. Improvvisamente il masso cominciò a crescere, portando le sette bambine in cielo. Gli orsi corsero verso la roccia ed iniziarono ad arrampicarsi; i loro artigli affondavano nel sasso, lasciando graffi sempre più profondi a mano a mano che il masso cresceva e loro non riuscirono a raggiungere le sette ragazzine. La roccia crebbe altissima e quando si fermò le bambine furono trasformate in stelle. (Stelle). Esiste anche un mito Maya che racconta che i gemelli cele-
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sti Hun-Apu e Xbalanque erano in lite con il perfido gigante Zipacna. Un giorno, i gemelli domandarono aiuto ad altri giovani per scavare una buca profonda che, dissero a Zipacna, sarebbe servita per le fondamenta di una casa molto robusta e sicura, ma pareva che non riuscissero a scavare oltre, così chiesero a Zipacna di entrare nella buca per scavare più in profondità. Non appena il gigante ne raggiunse il fondo, Hun-Apu, Xbalanque e tutti gli altri cominciarono a gettargli sassi, terra ed anche tronchi d'albero. Il gigante rimase immobile mentre la buca si riempiva sopra i lui. I fratelli ed i collaboratori, pensando che Zipacna fosse morto, portarono a termine la casa: ma egli non era morto, era soltanto in attesa. Zipacna aspettò finché la casa fu completata e tutti si furono riuniti per festeggiare. Improvvisamente il gigante si alzò dalla buca con tanta furia che la casa, i gemelli e tutti i loro amici furono scagliati in cielo, dove si bloccarono contro la volta celeste e furono trasformati nel piccolo gruppo di stelle. Gli aborigeni australiani ricordano invece che un uomo, di nome Wurrunna, mentre camminava capitò nell'accampamento di sette giovani donne. Si fermò un poco con loro e, essendo scapolo, decise che era giunto il momento di prendere moglie: aveva in mente di catturare due delle donne e di portarsele con sé. Wurrunna attese finché le giovani non ebbero preso i loro bastoni da scavo per andare a dissotterrare le patate dolci. Quando le ragazze si fermarono per mangiare le patate dolci che avevano trovato, Wurrunna rubò due bastoni. Finito di mangiare, le cinque che avevano ancora il bastone proseguirono, ma le due rimaste senza restarono indietro per cercarli; Wurrunna saltò fuori dal suo nascondiglio e catturò le due giovani. Le settimane passavano e pareva che le ragazze rapite avessero accettato la loro sorte di mogli di Wurrunna. Un giorno l'uomo ordinò loro di raccogliere legna per il fuoco da certi alberi che si trovavano vicino all'accampamento; le mogli dissero a Wurrunna che se fossero andate per legna, lui non le avrebbe più riviste. Il marito rispose che non avrebbero potu-
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to scappare, e chiese di eseguire il suo ordine; allora le due ragazze presero le loro asce di pietra e si accinsero a tagliare gli alberi. Appena piantate le asce nei tronchi, questi cominciarono a crescere, portando le donne con loro. Wurrunna non riusciva a raggiungerle e le sue due mogli non avevano intenzione di scendere. Poco dopo gli alberi erano arrivati al cielo e le due ragazze ritrovarono le cinque amiche che erano già là. Si erano riunite per vivere per sempre in cielo come il gruppo di stelle che gli aborigeni Daen chiamano Maya-mayi (Stelle).
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L'ammasso aperto delle Iadi
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Le Iadi sono un ammasso stellare aperto nella costellazione del Toro, come le Pleiadi, e sono visibili in inverno. Nei miti greci erano individuate come figlie di Atlante e di una ninfa Oceanina. Un mito racconta che Semele, figlia di Cadmo re di Tebe, amata da Zeus, dà alla luce Dioniso, dio del vino e dell'estasi. Cadmo, figlio di Agenore e Telefassa, insieme alla madre salpò dalla Libia in direzione dell'isola di Rodi, alla ricerca della sorella Europa, rapita da Zeus trasformatosi in un toro (v. Toro). Agenore lo aveva spedito alla sua ricerca proibendogli di ripresentarsi davanti a lui senza la giovane. Ben presto Cadmo si accorse che la ricerca era vana, e decise di vivere in Tracia, dove lui e la madre furono accolti favorevolmente dagli abitanti. Telefassa vi morì e fu sepolta da Cadmo in un luogo dove sorse un tempio in suo onore. Quando Cadmo chiese all'oracolo di Delfi dove potesse trovare Europa, l'oracolo gli consigliò di rinunciare alla ricerca, di seguire invece una vacca e fondare una città nel punto dove l'animale si fosse accasciato, vinto dalla stanchezza. La vacca si accasciò al suolo nel punto dove ora sorge la città di Tebe. Atena gli suggerì allora di attingere acqua alla fonte di Ares, ma Cadmo non sapeva che la fonte era custodita da un serpente, che morsicò ed uccise quasi tutti i suoi compagni. Cadmo allora uccise il serpente schiacciandogli il cranio con una pietra, e poi sacrificò la vacca ad Atena, che gli ordinò di seminare per terra i denti del serpente; subito balzarono dal suolo gli “Uomini Sparti” (col significato di “uomini seminati”), completamente armati e minacciosi. Cadmo allora gettò una pietra tra loro ed essi cominciarono ad azzuffarsi e ad uccidersi: ne rimasero solo cinque, che
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gli offrirono i loro servigi. Tuttavia Cadmo dovette prima espiare la colpa dell'uccisione del serpente, e per otto anni servì Ares come schiavo. Una volta assolto il suo dovere, divenne re di Tebe e, con l'aiuto degli Sparti edificò l'acropoli e poi sposò la dea Armonia, figlia di Afrodite ed Ares. Durante lo sfarzoso banchetto nuziale, in cui erano presenti tutti gli dèi, Demetra fece l'amore con Giasone, in un campo arato tre volte, al fine di assicurare fecondità e ricchezza agli sposi e le Muse allietarono i partecipanti con musiche e melodie. Ebbero anche molti doni, tra cui, per Armonia, una collana d'oro opera di Efesto. Cadmo ed Armonia vissero felici, ma la loro vecchiaia fu colpita da vari lutti delle figlie. La figlia Semele morì folgorata dal suo amante Zeus, Autonoe fu costretta a raccogliere i resti del figlio Atteone dilaniato dai cani per l'ira di Artemide, Agave decapitò il figlio Penteo in preda a delirio bacchico ed infine Ino, dopo aver follemente ucciso i figli di Atamante, si gettò il mare. Cadmo ed Armonia, ormai vecchi, furono trasformati da Zeus in neri serpenti maculati d'azzurro e furono mandati nelle Isole dei Beati. (Agizza, Miti). Un approfondimento del mito racconta che Era è sdegnata perché ha saputo che Semele è in attesa di un bambino da Zeus, e affila la lingua: « Che mai ne ho ricavato, dice, tutte le volte che ho litigato? Colpirla, questo devo; sì, la distruggerò, quanto è vero che mi chiamo Giunone [Era] la suprema, che ho diritto d'impugnare uno scettro sfavillante di gemme, che sono regina, moglie e sorella di Giove [Zeus], sua sorella, certo. Si accontenta di un'avventura, penso, di poco conto è l'offesa al nostro amore. No, è incinta! Questo mi mancava! Che col suo ventre pregno la colpa rivelasse, cercando grazie a Giove d'essere madre, ciò che a stento mi è toccato, tanto confida nella sua bellezza! Farò che l'inganni: non sono figlia di Saturno, se nelle acque dello Stige non finirà travolta proprio dal suo Giove! »
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(Met. III, 261, 272) Si reca da Semele, non prima di aver assunto l'aspetto di una vecchia, incanutendo le tempie, solcando la pelle di rughe e trascinando con passo tremante le membra incurvate; rende senile anche la voce e si presenta come Beroe di Epidauro, la nutrice di Semele in persona. Così attacca discorso, e quando dopo lunghe chiacchiere si arriva a nominare Zeus, si mostra sospettosa perché troppi uomini sono entrati in letti onesti, spacciandosi per dei. «e non basta che per te sia Giove: ti dia una prova del suo amore, se è vero amore; chiedigli che, grande e splendido come l'accoglie l'eccelsa Giunone, grande e splendido così ti stringa a sé, assumendo prima le sue insegne!». (ivi, 283-286). Semele, infatti, chiede a Zeus un dono senza spiegargli prima cosa chiederà e Zeus le risponde “nulla ti rifiuterò; e perché tu più mi creda, sia testimone la divinità del fiume infernale, un dio che anche agli dei incute paura!”. «Lieta ed eccitata, sul punto di perdersi per compiacenza dell'amante, Semele chiede: “Come ti abbraccia la figlia di Saturno, quando vi disponete ai giochi d'amore, così concediti a me!» (ivi, 293-295). Zeus avrebbe voluto tapparle la bocca, ma ormai aveva parlato. Una donna mortale non può sopportare un assalto celeste e così le fiamme sprigionate dal suo luminoso aspetto divorano ed inceneriscono Semele, ma non il frutto del loro amore che Zeus stesso salva: raccoglie il bambino dalle ceneri di Semele, se lo cuce in una coscia e lo riporta alla luce al tempo giusto della nascita. Il bimbo è chiamato Dioniso e viene consegnato ad Hermes perché lo affidi alle cure delle Iadi, ninfe delle fonti e delle paludi e figlie di Atlante e di Pleione, la sua prima moglie. Esse sono Ambrosia, Eudora, Esile, Coronide, Dione, Polisso, Feo. Le Iadi allevano amorevolmente il fanciullo sul monte Nisa, in Asia, dove esse abitano in una grotta tappezzata di viti vergini. Per salvare Dioniso dalla vendetta di Era, le ninfe lo affidano alla protezione della dea Teti, loro nonna, che, un tempo, durante la guerra dei Titani, aveva allevato con grande cura la stessa Era. Zeus, per riconoscenza, trasforma le belle figlie di Pleione in ammasso stellare, dopo averle fatte ringio-
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vanire da Medea, e pone l'ammasso vicino alla costellazione del Toro, il cui occhio “corrusco”, Aldebaran, ne consente un agevole riconoscimento sulla volta celeste. Il piccolo Dioniso, come vedremo il dio “nato due volte”, fu affidato ad Ermes, il quale lo diede, perché lo allevasse, al re Atamante, figlio di Eolo, ed alla sua seconda moglie Ino, che era sorella di Semele. Ermes prescrisse loro di rivestire il piccolo con abiti femminili, per sviare la gelosia di Era. Questa, però, non si lasciò ingannare e fece impazzire Atamante che uccise il figlio Learco. Ino, affranta dalla sciagura, si gettò in mare insieme all'altro figlioletto Melicete, dall'alto di una rupe. Ma Zeus non permise che discendesse nell'Ade: la rese immortale, ed ella divenne Leucotea, la patrona dei naviganti in pericolo. Infatti le divinità marine la trasformarono in una Nereide, mentre il bambino diventava il piccolo dio Palemone. Leucotea aveva un culto anche a Roma, dove l'11 giugno, il giorno dei Matralia, era celebrata come Mater Matuta, rito a cui erano ammesse solo le donne sposate una sola volta ed il cui marito era ancora vivo. Ovidio racconta che Leucotea aveva incontrato le Baccanti che celebravano i riti Dionisiaci nel bosco sacro a Semele, ma, istigate da Era, le Baccanti si erano scagliate su di lei ed avevano tentato di usarle violenza. Messo in guardia dalle sue grida, Eracle, che si trovava proprio nelle vicinanze, era accorso e l'aveva liberata. Poi l'aveva affidata a Carmenta, madre di Evandro, che aveva il dono della profezia, e che le annunciò che a Roma le sarebbe stato tributato un culto, assieme al figlio Palemone (v. Eracle ed i buoi di Gerione). Diventato adulto Dioniso scoprì l'uso della la vite e dell'uva per ottenere il vino. Ma la gelosia di Era era ancora viva, e tale sarebbe stata per tutta la sua esistenza. Ancora fanciullo, mentre era intento a giocare, lo sorpresero i Titani, istigati da Era, e lo assalirono. Dopo averlo squartato e tagliato in pezzi, lo arrostirono. Zeus si accorse dell'accaduto e fulminò i Titani incenerendoli. Atena era stata presente all'uccisione del bambino e ne
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aveva salvato il cuore, nascondendolo in una cesta. Da quell'organo rinacque Dioniso, che fu detto allora “Trigonos”, vale a dire nato tre volte. Era, però, lo riconobbe e lo fece impazzire: il dio errò attraverso l'Egitto, dove offrì il vino al re Proteo, e per la Siria per poi giungere in Frigia, dove fu accolto dalla dea Cibele, che lo purificò e l'iniziò ai riti del suo culto. Dioniso giunse in Tracia con le sue nutrici, ma Licurgo, re di quella regione, lo scacciò, provocandogli una tale paura che egli si buttò in mare, dove fu raccolto da Teti. Zeus allora punì Licurgo accecandolo. In un'altra versione del mito, Dioniso, adulto, volle attraversare la Tracia per combattere gli Indiani, Licurgo gli rifiutò il passaggio e catturò le Baccanti che accompagnavano il dio assieme ai Satiri. Lo stesso Dioniso si rifugiò in mare presso Teti, ma le Baccanti furono miracolosamente liberate dai loro lacci e Licurgo fu colpito da pazzia: credendo che il padre Driante fosse un ceppo di vite, Licurgo lo colpì con l'accetta e l'uccise. Una volta compiuto il delitto, rinsavì, ma la terra divenne sterile ed un oracolo indicò agli abitanti del paese che il solo modo di restituire la fecondità alla terra era quello di squartare Licurgo. Questo avvenne sul monte Pangeo, dove i suoi sudditi lo attaccarono a quattro cavalli che, spinti in direzioni diverse, lo ridussero a brandelli. Dioniso poi conquistò l'India e raggiunse la Beozia, paese d'origine della madre. Si recò ancora a Tebe, ad Argo, a Nasso, dove impose i suoi riti. A questo punto, la potenza di Dioniso fu riconosciuta da tutti, e il dio poté risalire in cielo, avendo compiuto la sua missione sulla terra e stabilito dappertutto il dominio del suo culto. Secondo un altro mito, le Iadi erano sette sorelle, figlie di Atlante e Pleione e sorelle delle Pleiadi. Esse avevano anche un fratello, Iante, di cui si innamorò il cacciatore Orione. Ma Orione si innamorò anche, contemporaneamente, delle Iadi. Iante era anch'egli un cacciatore, ma un giorno che cacciava in Libia, fu ucciso da un leone. Le sue sorelle Iadi piansero tanto la morte del loro unico fratello, che
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gli dèi, non solo per compassione benevola ma anche per ricordare il loro grande affetto fraterno, le mutarono in stelle. Euripide cita le Iadi nella tragedia “Ione”: Creusa, figlia del re di Atene, Eretteo, è amata da Apollo. Ha un figlio, Ione, che abbandona appena nato. Hermes salva il bambino e lo porta a Delfi, affidandolo ai sacerdoti del tempio di Apollo. (v. Cane Maggiore). Creusa, in seguito, sposa Suto, ma l'unione non sarà allietata da figli: decidono di recarsi al tempio di Delfi per interrogare l'oracolo se in avvenire avrebbero avuto figli. L'oracolo, attraverso il sacerdote del tempio, risponde: “Adottate come figlio il primo ragazzo che incontrate fuori del tempio e ne avrete di vostri.” Suto incontra Ione e lo presenta come figlio alla sua sposa; sospettando Creusa che Ione sia figlio di Suto e di una sua amante, tenta di ucciderlo durante un rito. L'intervento degli dèi, però, fa sì che Creusa riconosca in Ione il proprio figlio che aveva abbandonato. Un servo di Creusa descrive, nella tragedia, la scena istoriata sul sacro drappo con cui ha adornato l'altare presso il quale i coniugi si preparano ad innalzare preci ed offrire sacrifici agli dèi prima di interrogare l'oracolo: “…in cima l'orbe della luna piena dardeggiava solcando a mezzo il mese, e c'erano le Iadi, il più chiaro segno pei marinai…”, perché per i greci il sorgere delle Iadi annunciava la stagione delle piogge: Iadi, infatti significa “pioggia”.
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Ammasso Globulare M12
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Ammasso globulare M5
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Nebulosa M16 “Nebulosa Regina” ed Ammasso M5
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Nebulosa oscura nel Serpente
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Costellazione estiva. La costellazione del Serpente ha una particolarità che la distingue da tutte le altre: pur essendo un'unica costellazione, è divisa in due porzioni distinte, separate dall'Ofiuco: ad ovest si trova la testa del serpente, Serpens Caput, la parte più grande ed evidente; ad est si trova la coda, Serpens Cauda. Alfa è Unuk, il “collo” del Serpente, con m = 2.7. Beta ha m = 3.5 e Delta ha m = 3.8. Queste stelle fanno parte della testa. Nella coda è notevole Teta, con m = 4.1. È interessante la Nebulosa diffusa M16, nota come “Nebulosa Regina”, che avvolge completamente l'ammasso stellare M5. Nella costellazione apparve, il 9 ottobre 1604, una “nova”, che fu studiata attentamente da Keplero nella sua pubblicazione De Stella Nova in Pede Serpentarii del 1605. In realtà era una supernova che, per alcune settimane divenne luminosa come Giove che, con m = -2.5, è l'oggetto più brillante del cielo. La mitologia scorse nella costellazione del Serpente il terribile rettile che uccise Laocoonte, sacerdote del tempio di Poseidone alla fine della guerra di Troia. È il serpente cantato da Vigilio nel Libro II dell'Eneide (v. Prima Parte). Il soldato greco Prilide, ispirato da Atena, propose che i greci avrebbero potuto entrare in Troia servendosi di un cavallo di legno. Una volta ottenuto il consenso all'idea, il focese di Parnasso, Epeo, figlio di Panopeo, si offrì di costruirne uno, purché ci fosse stata la direzione di Atena. In seguito però Ulisse rivendicò tutto il merito di quello
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stratagemma. Epeo costruì un enorme cavallo di legno di faggio, vuoto all'interno, con una porticina mascherata in un fianco ed una scritta a lettere cubitali sull'altro, dove si diceva che il cavallo era consacrato ad Atena: “in segno di gratitudine anticipata per un felice ritorno in patria, i Greci dedicano questa offerta alla dea”. Ulisse indusse i più valorosi tra i Greci a raggiungere la porticina con una scala a corda ed ad introdursi completamente armati nel ventre del cavallo. Anche Epeo si unì al gruppo formato da Menelao, Ulisse, Diomede ed una ventina di altri. Diomede, durante il ritorno da Troia, approdò in Italia meridionale, dove fondò la città di Metaponto, ed in seguito quella di Pisa, così chiamata dall'omonima città dell'Elide. Al calar della notte i Greci rimasti al campo con Agamennone diedero fuoco alle tende, spinsero le navi in mare e rimasero in attesa al largo di Tenedo fino alla sera seguente. All'alba del giorno seguente le sentinelle troiane riferirono che l'accampamento greco era ridotto in cenere e che i greci erano partiti, lasciandosi alle spalle un enorme cavallo di legno. Su consiglio di Priamo, il cavallo fu fatto entrare nella città attraverso una breccia nelle mura della città, che fu subito rinchiusa. Scoppiò una violenta discussione quando Cassandra, che aveva avuto da Apollo sia il dono della profezia sia la punizione di non essere mai creduta (v. Prima Parte), annunciò che il cavallo conteneva uomini armati, e le sue parole furono confermate dal veggente Laocoonte, figlio di Antenore. Gridando o sciocchi, non fidatevi mai dei greci, e tanto meno dei loro doni (Timeo Danaos etiam dona ferentes) egli scagliò la sua lancia che si conficcò vibrando nel ventre del cavallo, mentre all'interno echeggiò un clangore di armi. Si alzarono grida tutt'intorno, che chiedevano di bruciare il cavallo, mentre i partigiani di Priamo invitavano alla calma. I Troiani, però, furono anche persuasi dal greco Sinone che, presentatosi al loro campo come perseguitato dai compagni d'armi, fece loro credere che i nemici fossero davvero partiti.
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Il vecchio sacerdote di Poseidone, Laocoonte, gridava minaccioso di non toccare l'apparentemente innocuo cavallo e di non credere alle parole ingannevoli di Sinone, che frattanto era stato benevolmente accolto dai Troiani. Nessuno volle ascoltarlo. Uscirono subito fuori dal mare due enormi serpenti, Porcete e Caribea che, balzando sulla spiaggia, si avventarono contro Laocoonte e i suoi due figli, Antifate e Timbreo, avvolgendoli strettamente nelle proprie spire fino ad ucciderli. I serpenti poi salirono alla cittadella, e mentre uno di essi si accovacciava ai piedi del tempio di Atena, l'altro si rifugiò dietro la sua egida. La morte di Laocoonte e dei suoi figli, sembrando ai Troiani una giusta punizione di Poseidone, protettore di Troia, fece cadere ogni dubbio sul pericolo che si celava nel cavallo, rivelatosi alla fine strumento di distruzione e di morte per la città. (Miti). Zeus accettò la richiesta di Atena e pose l'immagine del Serpente nel cielo.
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IDRA, COPPA E CORVO
Costellazione dell'Idra
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Galassia M83 nell'Idra
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Ammasso di Galassie AAT 116
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Costellazioni primaverili. L'Idra è la più estesa tra tutte le costellazioni. Alfa, Alphard è detta la “solitaria”, perché scintilla entro una plaga di firmamento povero di stelle brillanti; ha m = 3.8. È rintracciabile sulla congiungente Castore - Polluce. Beta ha m = 4.4. Ni è la più luminosa ed ha m = 3. L'Idra contiene anche un ricchissimo ammasso di Galassie, AAT 116. La Coppa ed il Corvo non contengono oggetti particolarmente significativi. Il mito relativo a questa costellazione viene trattato da Eratostene ne “I Catasterismi” (raccolta di 42 racconti mitologici legati ad altrettante costellazioni). In esso si racconta che il corvo era un animale sacro al dio; infatti si tramanda che quando la Gea aveva inviato Tifone, un mostro orrendo che aveva concepito con Tartaro, re degli inferi, contro gli dèi dell'Olimpo per sterminarli in quanto colpevoli di aver sconfitto i Titani, suoi figli, Apollo, per scampare al massacro, si era tramutato proprio in un corvo. Un giorno Apollo decise di compiere un sacrificio in onore di Zeus ed a tal fine diede incarico al corvo di volare verso una fonte d'acqua purissima per attingerne una tazza necessaria per realizzarlo. Durante il tragitto, il corvo scorse un albero di fico carico di frutti prelibati ma ancora non maturi al punto giusto per gustarli; non seppe reggere alla tentazione e si fermò su un ramo dell'albero per attendere che i fichi diventassero dolci per mangiarne a volontà. Trascorsero così alcuni giorni e Apollo, non vedendo tornare l'uccello con l'acqua, dovette andare di persona a prenderla, adirandosi contro il
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suo inaffidabile aiutante. Quando il corvo, rimpinzatosi a dovere di frutti, si ricordò dell'incarico che gli era stato affidato, escogitò una scusa per giustificare la sua inadempienza: afferrò fra gli artigli un serpente (l'Idra) e tornò da Apollo raccontandogli di aver dovuto combattere contro quel serpente che non voleva fargli attingere l'acqua; ma Apollo vedendo il becco dell'uccello tinto del colore vermiglio della polpa del fico, intuì l'imbroglio che l'animale stava tentando di compiere ai suoi danni e quindi, sdegnato non solo per la disobbedienza ma anche per il tentativo di inganno, condannò l'uccello ad una punizione: la perenne sofferenza della sete. A tal fine lo portò in cielo assieme alla tazza colma d'acqua ed al serpente ponendo però quest'ultimo fra la coppa e il corvo in modo che l'uccello non potesse dissetarsi. Secondo un altro mito, la costellazione della Coppa rappresenta l'otre di bronzo nel quale i due giganteschi figli di Poseidone e di Ifimedìa, Oto ed Efialte, imprigionarono Ares. I due enormi gemelli, ad appena nove anni erano già alti diciassette metri; per dimostrare la loro possanza, decisero di raggiungere l'Olimpo per combattere gli dei e per farlo sovrapposero il monte Pelio al monte Ossa, in Tessaglia. Essi, ritenendo che Ares fosse il mandante dell'uccisione di Adone, figlio dell'unione incestuosa fra Cinira, re di Cipro e sua figlia Mirra, catturarono il dio sorprendendolo di soppiatto, lo incatenarono e poi lo rinchiusero, per oltre tredici mesi, nell'otre di bronzo finché Ermes, con uno stratagemma, non riuscì a liberarlo. Appena in libertà, il bellicoso Ares, colmo di furore per l'oltraggio subito, cercò i due fratelli e, incurante del fatto che fossero poco più che bambini, li uccise entrambi; poi, a monito della vicenda, pose fra gli astri il cofano in cui era rimasto per tanto tempo rinchiuso, come Coppa. Esiste un ulteriore mito, che racconta di Re Belo, che regnava nella Tebaide ed era figlio di Libia e di Poseidone; sua moglie Anchinoe, figlia del Nilo, gli generò i gemelli Egitto e Danao ed un terzo figlio, Cefeo. Egitto ebbe in sorte il regno di Arabia, ma conquistò anche
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la terra dei Melampodi e la chiamò Egitto dal proprio nome. Da varie donne libiche, arabe, fenicie e tebane ebbe in totale cinquanta figli. Danao, d'altro canto, inviato a governare la Libia, ebbe anch'egli cinquanta figlie, le Danaidi, da madri diverse. Alla morte di Belo, i gemelli litigarono per l'eredità ma Egitto, dimostrandosi conciliante, propose un matrimonio di massa tra i suoi cinquanta figli e le cinquanta figlie di Danao. Un oracolo, però, avvertì Danao che Egitto aveva in animo di uccidere tutte le Danaidi, e quindi si preparò a fuggire dalla Libia. Quando giunse in Argolide, vi regnava il re Gelanore che gli cedette il regno dopo una lunga disputa oratoria davanti al popolo di Argo, che terminò con un prodigio: un lupo uscì dalla foresta e si precipitò su di una mandria che passava davanti alla città. Il lupo balzò sul toro, uccidendolo. Gli Argivi furono colpiti dall'analogia fra questo lupo, venuto dalla solitudine, lontano dagli uomini, e Danao. Videro in questo prodigio l'effetto della volontà degli dèi, e scelsero Danao come re. Il paese soffriva di una prolungata siccità, poiché Poseidone, irritato per il verdetto di Inaco, che assegnava quella zona ad Era, aveva prosciugato tutti i fiumi e tutti i torrenti. Danao mandò le sue figlie in cerca d'acqua, con l'ordine di placare l'ira del nonno con ogni mezzo possibile. Una delle Danaidi, Amimone, figlia di Danao ed Europa, stava per essere violentata da un Satiro, ma Poseidone, invocato dalla ragazza, si precipitò sul Satiro con il suo tridente. Il Satiro, chinandosi, schivò il colpo ed il tridente si conficcò in una roccia. Poseidone stesso ricevette quello che era stato rifiutato al Satiro, ed Amimone fu ben lieta di portare a compimento in modo così piacevole la missione affidatale dal padre. Saputo infatti che Amimone cercava l'acqua, il dio le disse di estrarre il tridente dalla roccia, e dai tre buchi lasciati dalle punte subito sgorgarono tre zampilli. Questa fonte, ora detta Amimone, è la sorgente del fiume Lerna, e non si prosciuga mai, nemmeno durante la grande calura estiva.
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Danao divenne un re così potente che tutti i Pelasgi della Grecia presero il nome di Danai. Una delle Danaidi, Ipermestra, sposò Linceo, figlio di Egitto, ma Danao voleva sposare le altre sue figlie il più presto possibile e quindi indisse una gara di corsa: il vincitore avrebbe avuto il diritto di prima scelta, e così via fino all'ultimo arrivato. Tutti i discendenti da questi connubi avrebbero avuto il titolo di Danai. Egitto, nel frattempo, mandò i suoi figli ad Argo, ordinando loro di non tornare in patria prima di aver punito Danao e tutta la sua famiglia per le vicende legate all'eredità di Belo. Appena giunti, essi pregarono Danao di tornare sulla sua decisione e concedere loro in spose le sue figlie, ben decisi, naturalmente, ad ucciderle la notte delle nozze. Danao rifiutò ed i figli di Egitto strinsero allora d'assedio Argo. Danao si rese ben presto conto che avrebbe dovuto arrendersi per sete e promise di acconsentire al matrimonio purché levassero l'assedio. Si stabilì la data delle nozze e Danao si affidò alla sorte per la scelta dei mariti, estraendo tessere da un elmo. Durante la festa nuziale, Danao consegnò segretamente alle figlie dei lunghi spilloni che esse dovevano celare nei loro capelli; a mezzanotte ciascuna di esse trafisse il cuore al proprio sposo. Soltanto uno sopravvisse: su consiglio di Artemide, Ipermestra salvò la vita di Linceo che aveva rispettato la sua verginità, su consiglio di Afrodite, e lo aiutò a fuggire nella città di Lincea. Danao seppe che Ipermestra aveva disubbidito ai suoi ordini e la portò in tribunale affinché fosse condannata a morte, ma i giudici la assolsero. Più tardi, Linceo si riconciliò col suocero e restò sposato a Ipermestra, succedette a Danao sul trono di Argo ed ebbe un figlio, Abante, padre di Acrisio e di Preto Le assassine tagliarono le teste degli uomini, che furono sepolte a Lerna. I loro corpi ebbero solenni esequie ad Argo, ma benché Atena ed Ermes avessero purificato le Danaidi col permesso di Zeus, i Giudici dei Morti le condannarono a portare in eterno degli orci d'acqua bucherellati come setacci. Tutti i discendenti da questi connubi ebbero il nome di
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Danai, in sostituzione del precedente nome di Pelasgi. Linceo, in seguito, uccise Danao per vendicate i fratelli. (Miti). Il mito più noto racconta che presso la fonte di Amimone nacque la mostruosa Idra, che è messa a guardia del confine tra il regno dei morti e il nostro mondo. Era figlia di Tifone ed Echidna, la dea serpente, e sorella di Cerbero. Allevata da Era, l'Idra emanava fetori che rendevano l'aria irrespirabile e per di più quando usciva dal lago devastava i campi coltivati, divorava uomini e greggi, distruggeva villaggi e campagne. Eracle, aiutato dal nipote Iolao, affrontò il mostro e cercò di ucciderlo con le proprie armi: la clava e le frecce. Ma grande fu il suo stupore nel costatare che al posto di ogni testa troncata ne rinascevano due più terribili. Desideroso di liberare la città dall'incubo del mostro, Eracle bruciò un bosco vicino al lago e con grandi tronchi in fiamme affrontò in un furioso combattimento il feroce serpente: distrusse col fuoco tutte le teste e tagliò via per ultima, con un netto e potente colpo di clava, la testa immortale, la sotterrò e vi pose sopra un macigno non rimovibile da forza umana. Nel sangue nero del mostro morente Eracle immerse le punte delle proprie frecce, perché le ferite da esse prodotte provocassero piaghe mortali ad eventuali maldestri avventurieri (v. Eracle). L'Idra e il Leone, vicine nel cielo, ricordano l'una all'altra, il male che hanno fatto sulla terra: è la vendetta voluta Zeus.
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LIRA, DELFINO
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Delfino
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Ammasso Globulare nella Lira
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Nebulosa planetaria NGC 6905 in Delfino
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Nebulosa Planetaria NGC 6905 in Delfino
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Nebulosa ad anello in varie frequenze
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Costellazioni visibili in estate. Alfa è Vega, m = 0, che tra circa 12 000 anni sarà la Polare. Il suo nome significa “aquila del deserto”. Gli Arabi identificarono la costellazione in un'aquila ad ali chiuse, “Al Nasr al Waki”. Da quest'ultima parola deriverà il nome di Vega. La osserviamo vicino al vertice settentrionale destro del rombo che forma la parte più luminosa della costellazione. Vega è la quinta per luminosità dell'emisfero boreale. Beta è Sheliak, in arabo “arpa”, con m = 3.5, è una doppia, di cui la componente principale è anche una variabile ad eclisse, che oscilla regolarmente tra m = 3.3 e m = 4.3. La più interessante è le Epsilon, con m = 5. A occhio nudo si vede che questa stella è formata da due astri vicinissimi. Un telescopio da una decina di centimetri mostra che le due stelle sono a loro volta doppie. Queste variabili sono il prototipo delle variabili di tipo RR Lyrae, con periodi di circa un giorno. Nella costellazione della Lira è situato l'Apice Solare, quel punto della sfera celeste verso cui il Sole si dirige nel suo moto all'interno dei moti delle stelle più vicine, quelle che fanno parte del braccio di Orione della nostra Galassia. Vega, con Deneb (del Cigno) ed Altair (dell'Aquila), costituisce il “Triangolo Estivo”. Alfa e Beta del Delfino hanno due nomi curiosi: Sualocin e Rotanev. Tali nomi vennero attribuiti loro nel 1814 dall'astronomo italiano Niccolò Cacciatore: leggendoli al contrario, essi diventano Nicolaus Venator, ossia la traduzione latina di Niccolò Cacciatore (1770-1841), allievo e assistente di Giuseppe Piazzi all'Osservatorio astronomico di Palermo, e dal 1826 direttore dello stesso. Si tratta dell'unico uomo che è riuscito a dare il proprio nome a delle stelle.
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La Lira è lo strumento inventato da Ermes e suonato da Orfeo. Ermes, figlio di Zeus e Maia, la più bella tra le sette sorelle Pleiadi, appena nato, saltò giù dalla culla, dove era stato adagiato dalla madre, trovò una tartaruga, la uccise, ne svuotò il guscio sul quale fissò sette corde (sette in onore delle Pleiadi) preparate con intestini di animali sacrificati agli dei: aveva costruito la “Lira”. Orfeo, figlio della Musa Calliope e di Eagro, re di Tracia, con il suo canto affascinava uomini, animali, piante e pietre. Usò la Lira, a cui diede nove corde, in onore del numero delle muse. Egli si unì agli Argonauti e, con la sua dolce musica, coprì il canto delle sirene, che cercarono, inutilmente, di distogliere gli eroi dalla loro impresa. Durante una tempesta, calmò i membri dell'equipaggio e placò i flutti col suo canto (v. Ariete). In uno dei miti relativi alla Lira si racconta che Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, nacque in Libia e fu affidato da Apollo stesso alla bisnonna Gea. Cirene era una ninfa, figlia di Ipseo, re dei Lapiti, che la naiade Creusa, a sua volta figlia di Oceano e di Gea, aveva avuto dal dio-fiume Peneo. Un giorno Cirene attaccò disarmata un leone e lo domò. Apollo la vide mentre stava compiendo quell'impresa e se ne innamorò. La rapi nel suo carro d'oro e la portò nella regione della Libia. Qui si unì a lei in un palazzo d'oro e le dette il dominio di una parte della regione, il paese di Cirene. Inoltre, poiché un leone stava devastando la Libia, il re Euripilo, figlio di Poseidone, promise una parte del regno a chi lo avesse ucciso. Così Cirene combatté di nuovo con un leone e di nuovo lo sconfisse. Cirene ebbe da Apollo un figlio, Aristeo, che fu allevato dalle Ore e da Gea. Quando Aristeo raggiunse la maturità, sposò utonome, da cui ebbe un figlio, Atteone ed una figlia, Macride, la futura nutrice di Dioniso.
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In seguito Euridice, la sposa di Orfeo, mentre passeggiava con le Naiadi, fu inseguita da Aristeo, che si era invaghito di lei e voleva violentarla. Euridice fuggì lungo il greto del fiume e, nella corsa, non vide una vipera acquattata nell'erba che la morse e la uccise. Inconsolabile per la perdita, Orfeo esprimeva il suo dolore col canto commovendo e turbando, infine, anche i mostri infernali: la ruota di Issione smette di girare, la pietra di Sisifo resta in equilibrio da sola, Tantalo dimentica di avere fame e sete, le Danaidi non si preoccupano più di riempire la loro botte forata e le Furie per la prima volta piangono. Gli dèi degli inferi, Ade e Persefone, vinti dalla potenza del canto e dall'amore, concessero ad Euridice di ritornare sulla Terra col suo sposo. Questi, però, doveva rispettare la norma imposta da Persefone: non avrebbe dovuto voltarsi a guardare la donna finché non fossero giunti alla luce del sole. Ermes li avrebbe accompagnati per verificare che il patto fosse rispettato. I tre si avviarono, Orfeo è quasi riemerso alla luce del giorno, quando, preso da “subitanea passione”, “sopraffatto dai sensi” o forse pregato dalla stessa Euridice, si voltò a guardarla. Infranto il patto, Euridice morì una seconda volta e tornò tra le ombre dei morti, questa volta irrimediabilmente. Orfeo, disperato, continuò per sette mesi a piangere per la sposa perduta ed a commuovere col suo canto “tigri e querce”. Quando Dioniso giunse in Tracia, tra le donne dei Ciconi, Orfeo, dopo un lungo viaggio in Egitto, trascurò di onorarlo, iniziando invece i suoi fedeli a condannare i sacrifici umani ed affermando che il Sole era il più grande di tutti gli dei. (Il culto del Sole come padre di tutte le cose, e quindi come Dio unico, pare fosse stato portato nell'Egeo Settentrionale dai sacerdoti egiziani profughi del culto monoteistico di Akhenaton nel quattordicesimo secolo a.C. e si innestò poi sui culti locali. Ecco perché la leggenda parla di un viaggio di Orfeo in Egitto). Irritato, Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Le Menadi erano delle Baccanti divine al seguito di Dioni-
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so e personificavano gli spiriti orgiastici della Natura. Esse raggiunsero Orfeo in Macedonia ed attesero che i mariti, seguaci di Orfeo, fossero entrati nel tempio, lasciando fuori le armi di cui si impadronirono, irruppero nel recinto sacro, uccisero tutti gli uomini e, irritate per il rifiuto che Orfeo opponeva a qualsiasi nuovo amore: «mai più Venere, mai più nozze piegarono il suo animo» (Virgilio, Georgiche, IV, 516), le donne lo dilaniarono e staccarono la testa dal busto che, caduta nel fiume Ebro, continuava a cantare Euridice. La testa giunse fino al mare e fu portata dalle onde all'isola di Lesbo. Zeus, mosso da pietà collocò Orfeo nella costellazione del Cigno ed inoltre la sua cetra fu immortalata nella costellazione della Lira. Le Muse, piangenti, raccolsero le membra e le seppellirono ai piedi del Monte Olimpo, dove il canto degli usignoli è ora più dolce che in qualsiasi altra parte del mondo. Orfeo condannava la promiscuità delle Menadi e predicava l'amore omosessuale, attirandosi così l'ostilità di Afrodite oltre a quella di Dioniso. I Traci sopravvissuti all'eccidio decisero di tatuare le loro mogli per punirle ed evitare che in futuro uccidessero i sacerdoti. (Miti). L'anima stessa di Orfeo fu trasportata nei Campi Elisi, dove, rivestita di una lunga veste bianca, continua i canti per i Beati. Secondo una diversa versione, la Lira è da ricondurre al mito di Arione. Questi, musico di Lesbo, figlio di Poseidone e della ninfa Onea, maestro nell'arte di suonare la lira, aveva ottenuto dal suo padrone Periandro, tiranno di Corinto, il permesso di percorrere la Magna Grecia e la Sicilia, per arricchirsi col suo canto. Quando volle tornare in patria, i marinai della nave su cui era imbarcato ordirono un complotto per ucciderlo e derubarlo dei suoi guadagni. Gli apparve, però, in sogno Apollo che lo avvertì del pericolo e gli promise il suo aiuto. Quando i marinai lo aggredirono, Arione chiese, ed ottenne, che gli accordassero di cantare un'ultima volta; al suono della sua voce, un branco di delfini accorse verso la nave. Questi animali erano cari ad Apollo ed, infatti, il loro nome
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deriva da Delfi, dove si trovava il principale santuario del dio. Arione, fidando nell'aiuto promesso, si tuffò e fu raccolto da un delfino, che lo condusse illeso a riva. Giunto in salvo, Arione dedicò un ex-voto ad Apollo e tornò alla nativa Corinto, dove raccontò la sua avventura al suo padrone. Quando la nave raggiunse la città, il Tiranno chiese ai marinai cosa ne fosse stato di Arione, e quelli lo dissero perito durante il viaggio. A quel punto Arione si mostrò ed i colpevoli furono messi a morte. In ricordo di quell'evento, Apollo trasformò sia la Lira di Arione che il Delfino in costellazioni. La mitografia registra anche che Arione, approdato poi nell'Italia meridionale, vi fonda la città di Taras (Taranto). Invece, secondo un altro mito, Taras è il figlio di Poseidone e della ninfa Satirea. Proveniente dal Peloponneso, Taras sbarca sulle coste dell'Italia meridionale affacciate sul mar Ionio e là il padre fa apparire un delfino che guizza dalle onde: è il segno che il dio del mare vuole che sorga una città e Taras fonda Taranto. Nel secolo VIII a.C. giungeranno a Taranto gli Spartani i quali la trasformeranno in un importante centro della Magna Grecia. Ci viene riportato da Eratostene che la costellazione rappresentasse il Delfino che riuscì a riportare la Nereide Anfitrite a Poseidone. Poseidone era il dio del mare, e abitava in un magnifico palazzo sott'acqua, al largo delle coste dell'isola Eubea. Quando Zeus, Poseidone ed Ade, dopo aver deposto il loro padre Crono, estrassero a sorte chi dovesse essere signore del cielo, del mare e dell'oltretomba, mentre la terra sarebbe stata dominio di tutti, a Zeus toccò il cielo, ad Ade l'oltretomba ed a Poseidone il mare. Poseidone, che era pari a suo fratello Zeus per dignità ed aveva un carattere cupo e litigioso, subito si accinse a costruire un palazzo subacqueo. Nelle sue stalle spaziose albergavano bianchi cavalli con zoccoli di bronzo e criniere d'oro, ed un aureo cocchio al cui apparire subito
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cessavano le tempeste, mentre mostri marini emergevano dalle onde e gli facevano da scorta. Il suo palazzo sembrava però vuoto senza una moglie, e fu così che decise di trovarsene una; iniziò a corteggiare la Nereide Teti, ma quando seppe che, secondo una profezia, il figlio nato da lei sarebbe stato più famoso di suo padre, rinunciò a sposarla e lasciò che si unisse al mortale Peleo. Posò allora gli occhi su Anfitrite, un'altra Nereide, la quale fuggì dai rozzi approcci del dio e si rifugiò sul monte Atlante. Tra i vari messaggeri che Poseidone volle utilizzare mandò anche un delfino, il quale con modi gentili e lusinghieri, riuscì a convincere la Nereide ed a portarla al dio il quale la sposò. Anfitrite aveva così la stessa funzione di Era rispetto a Zeus e di Persefone rispetto ad Ade. In segno di gratitudine Poseidone pose il Delfino in cielo. Anfitrite diede a Poseidone tre figli: Tritone, Roda e Bentesicima. Poseidone però fece molto soffrire la moglie intrecciando amori con dee, ninfe e donne mortali. Secondo un'altra tradizione mitica, nel piccolo gruppo di stelle che forma il Delfino, vi è raffigurato Tritone, l'unico figlio immortale di Anfitrite e Poseidone, posto in cielo da Zeus per averlo aiutato nella guerra contro i Titani. I Titani, figli di Urano e Gea, erano pieni di invidia per la potenza di Zeus, che aveva usurpato il trono a Crono, suo padre, che, a sua volta, lo aveva usurpato al proprio fratello Urano, che lo aveva ereditato per diritto di successione, quale primogenito. Mostri giganteschi e spaventosi, dalle innumerevoli braccia, insorsero contro Zeus ed il suo regno: il più terribile fu Tifone, spirito degli uragani; la sua testa toccava le nubi più alte. Per la lotta tra i Titani e gli dei dell'Olimpo, la Terra era piombata in un disordine enorme: non era difficile vedere montagne franate e paesaggi cambiare d'aspetto; le rocce staccate dai Titani furono lanciate come proiettili e se cadevano in mare, formavano addirittura isole. Zeus, che guidava gli dèi nella lotta, consigliato da Gea, scese nelle viscere della Terra a liberare i tre giganti che Crono, in una guerra precedente, vi aveva fatto imprigionare: Briareo, Cotto e Gige, mostri dalle
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cento braccia e dalle cinquanta teste. Sceso ancora più giù, raggiunse il profondo Tartaro e vi liberò i Ciclopi con i quali strinse un patto di alleanza ed i giganti monocoli lo ripagarono della libertà, creando per lui la nuova micidiale arma: la folgore. Con i Giganti, i Ciclopi e la folgore, le forze degli dèi furono accresciute ed i Titani vinti, grazie anche all'aiuto di Tritone, dio delle acque marine e figlio di Poseidone. Tritone, metà uomo e metà pesce, si schierò al fianco di Zeus, a capo di uno stuolo di mostri marini, tutti armati di conchiglie sonore (v. Prima Parte). I Titani ribelli sconfitti furono fatti incatenare da Zeus all'interno dei fianchi “ardenti” dell'Etna; Zeus, però, non dimenticò l'aiuto ricevuto da Tritone, e, ad immortale ricordo della sua fedeltà, lo pose nel firmamento con i suoi mostri marini, dando così forma alla costellazione del Delfino. I Cinesi, invece, associarono Vega ad una storia d'amore: rappresenterebbe una tessitrice, Tanabata, che un fiume (la Via Lattea) separa dal suo fidanzato Hikoboshi, un pastore identificato con la stella Altair (nella costellazione dell'Aquila). Distratti entrambi dai loro sogni da innamorati, trascuravano i propri doveri e gli dèi, gelosi del loro amore, li condannarono ad espiare una pena eterna, trasformandoli in astri, sì fulgenti, ma lontani l'uno dall'altro. È da allora che gli uomini ammirano la Tessitrice in Vega ed il Pastorello in Altair (in Aquila): i due astri sono osservati sulle sponde opposte del grande fiume siderale, la Via Lattea. A Hikoboshi fu concesso di attraversare il fiume una notte all'anno, il settimo giorno del settimo mese.
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Costellazione estiva. L'Ofiuco è una delle costellazioni più vaste della volta celeste. Pur essendo attraversata dall'eclittica, non fa parte delle costellazioni zodiacali. In realtà era parte di una costellazione ancora più grande, il Serpentario, successivamente smembrata in Ofiuco e Serpente dall'IAU nel 1930. Ma perché la costellazione di Ofiuco non è mai stata contemplata fra le costellazioni zodiacali? Furono gli astrologi e non gli astronomi ad ignorarla: considerando per comodità solo 12 costellazioni zodiacali, si poteva abbinare ognuna di esse ad un mese dell'anno. Fu l'astronoma inglese Jacqueline Mitton della Royal Astronomical Society a sollevare la questione della tredicesima costellazione, nel 1995. In realtà, anche la suddivisione in “segni zodiacali” corrispondenti ad un mese dell'anno è un'approssimazione, perché le costellazioni reali non coprono esattamente ciascuna un dodicesimo di fascia zodiacale, bensì hanno estensioni diverse fra loro. Alfa, m = 2.1, si chiama Ras Alhague, la “testa dell'incantatore di serpenti”. Beta è Cebalrai, “cane del pastore”, con m = 2.8. Rho, m = 5.3, è costituita da quattro stelle separabili con piccoli strumenti. Osservabile con piccoli telescopi o con un binocolo è la stella di Barnard: con m = 9.5, è la seconda stella più vicina al Sole ed è la stella dotata del maggiore moto proprio che si conosca. Si sposta di 10,29 secondi d'arco l'anno. Questa costellazione è rappresentata da un uomo che stringe con la mano destra la coda di un serpente e con la mano sinistra la testa del rettile che gli si è avvolto attorno alla vita (Ofiuco significa “colui che tiene il serpente”) ed è associata a vari personaggi della mitologia greca. Più comunemente Ofiu-
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co viene riconosciuto in Asclepio, dio della medicina, figlio di Apollo e Coronide, principessa dei Lapìti. Coronide, figlia di Flegia, re dei Lapiti, amante di Apollo, ebbe una relazione con uno straniero mortale, Ischi, perché temeva che il dio si sarebbe stancato di lei, quando avesse perduto la giovinezza. Divenne quindi l'amante anche di Ischi mentre era ancora unita con Apollo. Apollo, informato del tradimento da un corvo, si vendicò dell'offesa prima sul corvo, colpevole di non aveva accecato Ischi a colpi di becco quando il giovane si era avvicinato a Coronide: per questa maledizione le penne del corvo divennero nere e tali rimasero in tutti i suoi discendenti. Apollo si dolse poi con la sorella Artemide dell'offesa ricevuta, ed Artemide lo vendicò scagliando un'intera faretra di frecce contro Coronide, che, in punto di morte su di una pira funebre gli rivelò di essere in attesa di un suo figlio. Apollo, pentito, riuscì a salvare il bambino, Asclepio, che lo stesso dio affidò a Chirone, il più noto fra i centauri per cultura e saggezza, che lo allevò sul monte Pelio e lo educò. Flegia, accecato dall'ira per l'uccisione della figlia, si recò al tempio di Delfo, sacro ad Apollo, e nel suo furore ardente lo distrusse: Apollo reagì, colpendo Flegia con le sue frecce mortali. (Miti). Secondo un'altra versione della leggenda, Flegia, grande saccheggiatore, era arrivato ad Epidauro, nel Peloponneso, per rendersi conto delle ricchezze che conteneva e studiare i modi di impadronirsene. Era accompagnato dalla figlia Coronide, la quale, durante il viaggio, era stata sedotta da Apollo ed aveva segretamente messo al mondo un figlio nel territorio di Epidauro, ai piedi di una montagna chiamata Mirtio, e lì lo aveva abbandonato. Una capra venne ad allattare il bambino ed un cane a custodirlo. Il pastore Arestanate, al quale appartenevano la capra ed il cane, trovò il bambino e fu stupito per lo splendore che lo circondava. Comprese che doveva esservi un mistero e non osò raccogliere il bambino. Questi proseguì da solo il suo destino divino. Asclepio venne educato ed istruito all'arte medica e fu gui-
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dato dallo stesso Chirone nella professione in cui conseguì sorprendenti risultati ricavandone grande popolarità. Asclepio si dedicò con amorevole passione allo studio della medicina, scienza che derivava direttamente da Apollo. Il dio, anche patrono della medicina e guaritore egli stesso, gli permetteva di preparare composizioni miracolose di erbe mediche. Asclepio quindi guarì molti uomini da gravi malattie, strappandoli da sicura morte. Giunse persino a scoprire il modo per sconfiggere la morte stessa utilizzando il sangue colato dalle vene della Gorgone. Prendendo il sangue della vena sinistra, che era benefico, aveva restituito la vita a molti morti, tra cui Capaneo, Licurgo, Glauco, figlio di Minosse, ed Ippolito, figlio di Teseo. Per questa ragione Ade, fratello di Zeus e dio del regno dei defunti, vedendo “spopolarsi” gli Inferi, pregò il re degli dèi di fermare quel giovane mortale, che aveva ormai acquisito il potere di un dio. Zeus indagò e, ingelosito dalla già vasta e tuttavia crescente notorietà di Asclepio, colpì il medico, “rivale della morte”, con un fulmine, uccidendolo. Apollo, a sua volta vendicò il figlio, colpendo con le sue frecce mortali i Ciclopi, che avevano preparato la folgore per Zeus. In seguito, però, Zeus ridonò la vita ad Asclepio e si adempì così una profezia fatta da Evippa, figlia di Chirone, e cioè che Asclepio darebbe divenuto dio, sarebbe morto ed avrebbe poi riassunto la propria divinità, rinnovando così due volte il proprio destino. Gli antichi, memori del “miracoli” operati dalla medicina di Asclepio, ne posero l'immagine nella costellazione dell'Ofiuco, rappresentata dalla nobile figura del medico ai cui piedi era un serpente, l'animale a lui sacro e simbolo tradizionale della medicina e della forza vitale che ringiovanisce. Asclepio aveva avuto da Epione, figlia di Merope, due figli, Macaone e Podalirio. Il primo figura tra i pretendenti di Elena e, a questo titolo, partecipò alla guerra di Troia con un contingente di trenta navi. A Troia Macaone ed il fratello Podalirio si consacrarono alla medicina. A Macaone si attribuiscono le guarigioni delle ferite di Telefo e di Menelao, quest'ultimo colpito da una freccia
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di Pandoro. Egli stesso fu ferito da Paride e fu portato nella tenda di Nestore, dove fu curato da Ecamede, la prigioniera presa da Achille a Tenedo e poi assegnata a Nestore. Macaone è anche nella lista dei guerrieri rinchiusi nel cavallo di legno. L'Ofiuco, o meglio il serpente è colui che fu protagonista di due delle più note guarigioni operate da Asclepio: quella di Glauco e quella di Ippolito, e che diede origine al mito stesso di Asclepio. Glauco, figlio di Minosse e di Pasifae, annegò in una giara di miele, mentre inseguiva un topo. I Cureti spiegarono a Minosse che un uomo avrebbe potuto restituire la vita a Glauco: colui che avesse saputo descrivere meglio il colore di una vacca delle sue mandrie, che cambiava di colore tre volte al giorno. Essa, da bianca diventava rossa, poi nera e l'indomani ricominciava lo stesso ciclo. Minosse riunì tutti gli uomini più abili di Creta e chiese loro di descrivere il colore della vacca meravigliosa. Uno solo, Asclepio, vi riuscì. Egli rispose che quella vacca aveva il colore della mora, che è un frutto che comincia con l'essere bianco, poi rosso e, giunto a maturazione, è completamente nero. Minosse giudicò che Asclepio avesse superato la difficoltà e gli chiese di restituire la vita a Glauco. Asclepio con la sua arte medica tentò di riportarlo in vita. Improvvisamente un serpente assalì il medico, che si difese colpendolo con un pesante legno e lo uccise. Sopraggiunse allora un altro piccolo serpente che portava in bocca un'erba che pose sulla testa del serpente ucciso, riportandolo prodigiosamente in vita. I due rettili, strisciando uno a fianco dell'altro, si allontanarono lasciando là l'erba “miracolosa”, che Asclepio poi utilizzò per strappare Glauco alla morte. Da allora il serpente è ritenuto sotto la protezione del dio della medicina e immortalato fra gli astri. E come Glauco, anche Ippolito è salvato da Asclepio. Ippolito era figlio di Teseo, re di Atene, e di Antiope, regi-
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na delle Amazzoni, popolo femminile guerriero contro cui Teseo aveva combattuto e vinto (v. Corona Boreale). Ma Afrodite, invidiosa della castità di Ippolito, che, devoto ad Artemide e tutto dedito alla caccia, viveva in castità ed era incurante dell'amore secondo le rigide regole della dea, punì il giovane principe inducendo Fedra ad innamorarsi di lui . Fedra lottò inutilmente contro se stessa per celare il proprio sentimento, ma alla fine si ridusse a rivelare la propria ardente passione al giovane, che non accettò le sue profferte d'amore. Fedra, respinta, tramutò il proprio amore in odio: nella sua ira, nella sua gelosia, nel suo furore lo accusò calunniosamente presso Teseo di aver tentato di sedurla. Teseo credette alla sua sposa, maledì il figlio, lo cacciò dalla reggia ed invocò sul figlio prediletto la vendetta di Poseidone: la morte. Ippolito, costretto dal padre a lasciare Atene, abbandonò la città. Montò sul suo cocchio, che guidava lungo una strada fiancheggiata dal mare e riccamente adorna di alberi di ulivo (prezioso dono della dea Atena alla città di Atene, il cui nome deriva da quello della dea donatrice). Un boato improvviso e forte proveniente dal mare generò onde altissime che proiettarono sulla strada un mostro, alla cui vista i cavalli impazzirono e si lanciarono in una corsa cieca senza freni: il cocchio urtò violentemente contro un albero d'ulivo e Ippolito vi trovò la morte. Fedra, regina infelice, appresa la luttuosa notizia, in preda alla disperazione confessò la propria colpa e, attestata l'innocenza del giovane, si impiccò. Artemide affidò alle cure di Asclepio il corpo senza vita di Ippolito; ed è ancora un rettile a portare al dio della medicina l'erba miracolosa che salverà il giovane. Ritornato in vita, Ippolito è condotto da Artemide nel bosco a lei sacro di Ariccia e qui dalla stessa dea è unito alla ninfa Egeria. Secondo un altro mito, l'Ofiuco era Carnabone, re dei Geti, che vivevano in Tracia, ed aveva accolto nel suo regno Trittolemo che, al servizio di Demetra, percorreva la Terra su un
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carro trainato da due draghi, per insegnare agli uomini la coltivazione del grano. Un giorno Carnabone decise di eliminare Trittolemo considerandolo pericoloso per il suo regno. Ordinò di uccidere uno dei suoi draghi in modo da impedirgli di fuggire col carro. Ma Demetra, che vegliava su Trittolemo, accorse nel momento in cui il suo protetto stava per essere ucciso e, dopo averlo sistemato sul carro al quale aveva attaccato un nuovo drago, confinò il re tra gli astri infliggendogli la pena eterna di tenere fra le mani un drago. Secondo un'altra interpretazione, preferita da Igino, nell'Ofiuco sarebbe rappresentato Eracle mentre, sulle rive del fiume Sagaris, stava uccidendo un serpente che massacrava gli abitanti e devastava i campi coltivati. Per ricompensa Onfale, regina di quel paese, lo rimandò ad Argo carico di doni mentre Zeus lo incastonava nel cielo. In un ulteriore mito l'Ofiuco era Triopa, re di Tessaglia. Egli un giorno decise di demolire il tempio di Demetra perché gli servivano le pietre per completare il suo palazzo. Per punirlo del sacrilegio la dea gli inflisse la pena di soffrire eternamente la fame; alla fine della vita lo obbligò ad affrontare un drago che lo uccise. L'incastonò infine nel firmamento con un drago che lo stringe eternamente nelle sue spire. Secondo il poeta alessandrino Polizelo di Rodi, Ofiuco sarebbe stato Forbante, l'eroe tessalo della stirpe dei Lapiti, padre dell'argonauta Tifi, che, spinto da una tempesta, approdò nell'isola dove un enorme drago, che aveva ucciso centinaia di abitanti, aveva costretto i sopravvissuti a fuggire lontano dalla patria. Forbante non esitò a massacrare il mostro insieme con tutte le belve che lo circondavano. Apollo decise allora di premiarlo per l'eternità sistemandolo in cielo nelle sembianze di un uccisore di draghi.
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NGC772 in Ariete
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NGC 972 in Ariete
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Costellazione autunnale. La costellazione della Nave Argo compariva nelle 48 costellazioni dell'Almagesto di Tolomeo; data la sua enorme estensione, nel XVIII secolo l'abate de Lacaille la smembrò ed utilizzò le stelle dell'albero per creare la costellazione della Bussola. Nel 1877 l'astronomo Gould propose che le tre parti che rimanevano si considerassero separate. Nel 1930 la I.A.U. (Unione Astronomica Internazionale) decretò che la costellazione fosse esclusa ed al suo posto ne furono inserite tre: la Carena, la Poppa e la Vela. La stella alfa dell'Ariete si chiama Hamal, la testa del montone, ed ha m = 2. Beta è Sheratan, il “segno”, con m = 2.7. Gamma è Mesarthim, in ebraico il “ministro”, ha m = 4.6. Delta è Botein, in arabo la “pancia”, ed ha anch'essa m = 4.6. Molto interessante è la piccola stella 53Ari, perché possiede un moto proprio molto elevato e per questa ragione è detta “Stella Fuggitiva”. Sono anche chiamate così la stella mi-Columbae e la stella AE Aurigae. Queste tre stelle hanno un punto radiante comune nella Nebulosa di Orione. La stella più interessante della costellazione della Carena (cioè della Nave Argo) è la Eta: questa, nel passato, aveva una luminosità molto maggiore dell'attuale, m = 6, e nel 1843 ha raggiunto anche m = -0.8. In realtà è una stella instabile che dà origine a vari fenomeni esplosivi ed è circondata da una vasta regione di idrogeno ionizzato, materiale che la stella stessa emette. La Nave Argo rappresentava la mitica imbarcazione su cui Giasone raggiunse la Colchide per conquistare il Vello d'Oro
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assieme agli argonauti. Questa leggenda è anche rappresentata nella costellazione dell'Ariete. Atamante, re di Orcomeno, in Beozia, figlio di Eolo, dio dei venti, e di Enarete, sposò la dea delle nubi Nefele con grandi festeggiamenti. La loro unione fu allietata da due figli, Frisso e Leucone, e da una figlia, Elle. Stancatosi di Nefele, per il disprezzo che gli dimostrava, Atamante l'abbandonò e si unì con Ino, figlia di Cadmo e di Armonia, con cui generò Learco e Melicete. Ino, nipote di Afrodite, donna mortale e gelosa dei figliastri, vedendo in loro una minaccia per la propria discendenza, ordì un piano: di nascosto incendiò i magazzini dove era conservato il grano per la semina, cosicché, senza raccolto, il popolo fu ridotto alla fame; corruppe poi il messaggero inviato da re Atamante presso l'oracolo di Delfi, affinché riferisse che, per la ripresa delle colture, era necessario sacrificare il principe Frisso. Questi era già sull'altare del sacrificio quando Nefele, accortasi della congiura di Ino, intervenne a favore dei propri figli, donando loro un Ariete Volante con la pelliccia d'oro, dotato di intelligenza e di parola. Frisso ed Elle, per sottrarsi alla matrigna, balzarono in sella all'ariete e fuggirono, dirigendosi verso la lontana Colchide (l'attuale Georgia), il giardino segreto degli dei. Durante il viaggio, mal reggendo gli scatti di velocità dell'ariete, Elle cadde e sprofondò nel braccio di mare tra l'Europa e l'Asia che fu chiamato Ellesponto ovvero Mare di Elle (antico nome dello stretto dei Dardanelli sulle cui sponde tremila anni fa sorgeva la città di Troia) a ricordo della sfortunata fanciulla. Frisso terminò il viaggio e nella Colchide sacrificò l'Ariete d'oro a Zeus, protettore dei fuggitivi. Dopo l'atto sacrificale, depose la preziosa pelliccia nel bosco di Ares, custodito da un terribile drago, che non dormiva mai. Zeus accettò benevolmente il ringraziamento di Frisso e collocherà poi nel firmamento il vello d'oro come costellazione dell'Ariete. Il re della Colchide, Eete, affascinato da quella meravigliosa pelle d'oro, concesse di buon grado ospitalità a Frisso e cal-
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deggiò il suo matrimonio con la figlia Calciope nella speranza di ricevere in regalo il vello d'oro. Egli espresse il desiderio di avere il vello d'oro, ma questo desiderio, più volte manifestato, non trovò accoglimento presso Frisso per cui Eete, preso da cieco furore, uccise Frisso pensando che con la sua morte anche il drago che custodiva il mantello concludesse il suo compito e lo lasciasse libero di impossessarsene; ciò non accadde ed il vello d'oro rimase sospeso all'albero fin quando Giasone e gli Argonauti non riuscirono, dopo lunghe peripezie, ad impadronirsene. Ino, in seguito, persuase Atamante ad accogliere il piccolo Dioniso e ad allevarlo insieme ai loro figli, Learco e Melicete; ma Era, incollerita perché avevano accolto e protetto il figlio adulterino di Zeus, Eracle, si rivolse ad una delle tre Erinni, Tisifone, perché la aiutasse nella vendetta. Questa accettò e si recò alla casa di Atamante ed Ino, strappò due serpenti dai suoi capelli e li scagliò verso i coniugi; soffiando i loro miasmi su Ino ed il suo sposo, i serpenti non ferirono i corpi: solo le loro menti furono colpite. I due coniugi impazzirono, e dopo aver assassinato i loro figli, si uccisero. Afrodite, turbata dall'ingiusta disgrazia della nipote, invoca la pietà delle divinità marine che acconsentono alle preghiere e trasformano Ino nella Nereide Leucotea ed il piccolo figlio nel dio Palemone (v. Iadi). Era considerò un affronto la loro trasformazione in divinità e si vendicò trasformando a sua volta le compagne di Ino, alcune in pietre ed altre in uccelli. Atamante, bandito dalla Beozia e ormai senza figli perché l'unico superstite, Leucone, era morto di malattia, chiese all'oracolo di Delfi dove potesse stabilirsi, e gli fu risposto: “là dove le bestie da preda ti inviteranno a cena”. Vagando verso il nord, senza bere né mangiare, Atamante si imbatté in un branco di lupi che divoravano alcune pecore. I lupi fuggirono al suo appressarsi, ed Atamante ed i suoi affamati compagni mangiarono le carni rimaste. Allora Atamante si rammentò dell'oracolo e, avendo adottato Aliarto e Coronea, i suoi nipoti corinzi, fondò la città di
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Alo, e la regione fu chiamata Atamania. Qui Atamante sposò Temisto ed ebbe una nuova famiglia. (Miti). In una versione diversa del mito si omette il matrimonio con Nefele, ed Atamante è solo marito di Ino. Questa un giorno uscì a caccia e non fece più ritorno. Un lembo di tunica macchiato di sangue convinse Atamante che Ino era stata divorata dalle bestie feroci, ma in verità, attaccata da una lince, era stata improvvisamente colta dalla “frenesia bacchica”. Strangolata la lince, la scuoiò con le unghie e con i denti e fuggì indossandone la pelle per partecipare ad una lunga orgia sul monte Parnaso. Atamante, trascorso il periodo di lutto prescritto, sposò Temisto, che gli generò due gemelli. In seguito seppe che Ino era ancora viva e subito ordinò che fosse condotta a palazzo, la installò nella camera dei bambini e disse a Temisto che sarebbe stata la nutrice dei figli. Temisto, subito avvertita dalle ancelle, visitò la camera dei bambini e, fingendo di non sapere chi Ino fosse in realtà, le disse di preparare vesti di lana bianca per i suoi figli e vesti a lutto, di lana nera, per i figli della defunta Ino. Temisto ordinò poi alle guardie di irrompere nella camera dei bambini e di uccidere i due gemelli che indossavano vesti nere, risparmiando gli altri due. Ino, però, aveva capito la trama di Temisto e fece indossare le vesti bianche ai propri figli e quelle nere ai figli della rivale. I gemelli di Temisto furono così uccisi e, all'udire quella notizia Atamante impazzì: colpì Learco con una freccia scambiandolo per un cervo, mentre Ino fuggì con Melicete e poi si gettò in mare divenendo entrambi immortali, seguendo il destino raccontato nella precedente versione del mito (Miti). Anche la leggenda di Giasone è legata alla costellazione dell'Ariete, della Nave Argo ed alla prima navigazione dei Greci in regioni lontane. Giasone era figlio di Esone e Polimede, signori di Iolco,
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che ebbero un figlio chiamato Diomede. Pelia avrebbe ucciso il bambino, se Polimede non avesse indotto le sue ancelle a piangere sul corpicino del figlio, come se fosse nato morto, per poi portarlo fuori città, sul monte Pelio. Colà fu allevato dal centauro Chirone e, compiuti i venti anni, chiese allo zio Pelia, figlio di Poseidone e di Tiro, la restituzione della Signoria di Iolco, antica città della Tessaglia, governata un tempo da Atamante, poi passata al fratello Creteo, al quale successe Esone, a sua volta esautorato dal fratellastro Pelia. Quando Pelia lo vide, si spaventò perché indossava una pelle di leopardo, impugnava due lance ed aveva un piede scalzo: l'oracolo gli aveva predetto di stare attento all'eroe con un solo calzare; gli chiese allora il nome suo e di suo padre. Il giovane rispose che Chirone, suo padre adottivo, lo chiamava Giasone, ma egli in realtà era Diomede, figlio di Esone, e rivendicava il regno di Iolco. Alle richieste di Giasone, Pelia si dichiarò disponibile alla restituzione del regno a patto, però, che Giasone riportasse ad Iolco il Vello d'Oro, che era appeso ad un albero nel bosco sacro di Ares nella Colchide, sorvegliato da un drago che non dormiva mai. Giasone fece allora costruire una nave a cinquanta remi che, dal nome del costruttore, fu chiamata Argo, nome che significa anche “rapido”. Costruita nella baia di Pegase in Tessaglia, con i pini del monte Pelio e sotto la guida di Atena, la Nave Argo aveva il dono della parola, perché la dea fece collocare sotto la chiglia un frammento di quercia parlante, sacra a Zeus. Giasone radunò molti eroi, tutti devoti e quindi protetti da Era. I nomi degli Argonauti sono: Acasto, figlio del re Pelia Admeto, figlio di Fere Anceo il Grande di Tegeo, figlio di Poseidone Anceo il Piccolo, il Lelego di Samo Anfiarao, il veggente agrivo Argo di Tespi, costruttore della Nave Argo Ascalafo di Orcomeno, figlio di Ares Asterio, figlio di Comete, un Pelopide Atalanta di Calidone, vergine cacciatrice
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Attore, figlio di Dione il Focese Augia, figlio del re Forbante di Elide Bute di Atene, apicultore Calaide, l'alato figlio di Borea Canto, l'Eubeo Castore, il lottatore Spartano, uno dei Dioscuri Cefeo, figlio dell'arcade Aleo Ceneo il Lapita, che un tempo fu donna Corono il Lapita, di Girtone in Tessaglia Echione, figlio di Ermes, l'araldo Eracle di Tirinto, l'uomo più forte che sia mai esistito, ora un Dio Ergino di Mileto Eufemo di Tenaro, il nuotatore Eurialo, figlio di Mecisteo, uno degli Epigoni Euridamante il Dolopio, del lago Siniade Falero, l'arciere ateniese Fano, il figlio cretese di Dioniso Giasone, capo della spedizione Ida, figlio di Afareo di Messene Idmone l'Argivo, figlio di Apollo Ificle, figlio di Testio l'Etolo Ifito, fratello di re Euristeo di Micene Ila il Driope, assistente di Eracle Laerte, figlio di Acrisio l'Argivo Linceo, la scolta, fratello di Ida Melampo di Pilo, figlio di Poseidone Meleagro di Calidone Mopso, il Lapita Nauplio l'argivo, figlio di Poseidone, famoso navigatore Oileo il Locrese, fratello di Aiace Orfeo, il poeta Tracio Palemone, figlio di Efesto, un Etolo Peante, figlio di Taumaco il Magnesio Peleo il Mirmidone Penelo, figlio di Ippalcino, il Beota Perclimeno di Pilo, il mutevole figlio di Poseidone
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Polluce, il pugile spartano, uno dei Dioscuri Polifemo, figlio di Elato, l'Arcade Stafilo, fratello di Fano Tifide, il timoniere, di Sife, in Beozia Zete, fratello di Calaide “e mai prima d'allora, così nobile compagnia si era imbarcata su una nave”. Eracle, dopo la cattura del cinghiale Erimanzio, fu invitato all'unanimità ad assumere il comando della Nave Argo, ma declinò l'incarico, preferendo obbedire agli ordini di Giasone che, benché novizio, aveva preparato la spedizione. Al suono della lira di Orfeo, salparono alle prime luci dell'alba e si diressero verso Lemno. Circa un anno prima, gli uomini di Lemno avevano litigato con le loro mogli, lagnandosi perché puzzavano. Infatti le donne di Lemno avevano trascurato il culto della dea Afrodite ed erano state punite dalla dea, la quale aveva inflitto loro un odore nauseante. I mariti, non sopportando l'odore delle loro donne, le avevano lasciate e si erano scelte come concubine alcune fanciulle della Tracia catturate nel corso di scorrerie. Per vendicarsi, le donne di Lemno assassinarono tutti gli uomini, giovani e vecchi. L'unico uomo che si salvò fu il re Toante che la figlia Ipsipile salvò in segreto, spingendolo in mare su una barca senza remi (v. Prima Parte). Ipsipile era la nipote di Dioniso e di Arianna e, attraverso la madre Mirina, discendente da Eolo. Mirina era anche lei un'amazzone che, con un esercito di tremila amazzoni che combattevano a piedi e di ventimila a cavallo, conquistò dapprima il territorio di una città di Atlantide chiamata Cerne. Poi conquistò la città stessa e portò i bambini e le donne come prigionieri, mentre uccise tutti gli uomini validi. Gli altri Atlantidi, spaventati, capitolarono subito. Mirina li trattò allora generosamente, stipulò con loro un trattato, costruì una città al posto di quella che aveva distrutto, che chiamò Mirina e la diede ai prigionieri e a tutti quelli che vollero venirvi ad abitare. Più tardi conquistò la maggior parte della Libia e poi passò
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in Egitto, all'epoca in cui vi regnava Horus, figlio di Iside, con cui concluse un trattato di amicizia. In seguito attraversò la Frigia e raggiunse la regione di Caico, termine della sua spedizione. Alla fine Mirina fu uccisa da re Mopso, un Trace cacciato dalla sua patria ad opera di re Licurgo. Quando l'Argo apparve al largo dell'isola, le donne di Lemno la credettero una nave nemica della Tracia e, indossate le armi dei loro mariti defunti, si precipitarono sulla spiaggia per respingere il temuto attacco. Tuttavia l'eloquente Echione, sbarcato come araldo di Giasone, placò i loro animi. Ipsipile, convocato il consiglio, propose di offrire cibo e vino agli Argonauti, senza tuttavia ammetterli nella città di Mirina, per paura che fosse scoperto il massacro degli uomini di Lemno. Polissea, la vecchia nutrice di Ipsipile, disse allora che, senza uomini, la razza dei Lemni si sarebbe presto estinta, e propose che le donne si offrissero agli Argonauti, per dare vita ad una nuova e solida stirpe. Il consiglio di Polissea, ovviamente disinteressato, fu acclamato a gran voce, e gli Argonauti entrarono nella città di Mirina. Ipsipile, inoltre disse a Giasone che il trono di Lemno poteva essere suo, bastava che lo chiedesse. Pur accettando con gratitudine l'offerta, Giasone rispose che, prima di stabilirsi nella fertile Lemno, egli doveva conquistare il Vello d'Oro. Ipsipile, però, riuscì facilmente ad indurre gli Argonauti a ritardare la partenza, poiché ognuno di loro era circondato da belle e giovani donne smaniose di giacersi con lui. Ipsipile stessa volle Giasone tutto per sé e lo intrattenne regalmente ed amorevolmente nel palazzo dove gli concepì i gemelli Euneo e Toante il Giovane. Euneo divenne in seguito re di Lemno e fornì ai Greci il vino durante la guerra di Troia. Molti altri bambini furono generati in tale occasione anche dagli altri Argonauti, e se non fosse stato per Eracle che era rimasto di guardia all'Argo e che, alla fine, spazientitosi, richiamò al dovere i suoi compagni, forse il Vello d'Oro non avrebbe mai lasciato la Colchide. Così gli Argonauti proseguirono il loro viaggio.
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Più tardi, dopo la partenza degli Argonauti, le Lemnie vennero a sapere che la loro regina aveva risparmiato il padre e vollero farla morire per quello che esse consideravano un tradimento. Ma Ipsipile fuggì di nascosto di notte e fu rapita da pirati i quali, dopo averla più volte violentata, la vendettero come schiava a Licurgo, re di Nemea. Qui, al servizio di Licurgo e di sua moglie Euridice, ebbe l'incarico di badare al loro figlio Ofelte. Una volta ella abbandonò per un momento la sorveglianza del bambino, che fu soffocato da un serpente. Euridice e Licurgo volevano metterla a morte, ma sopraggiunsero i due figli di Ipsipile, Euneo e Toante il giovane, che cercavano la madre. La riconobbero grazie ad un ramoscello di vite dorato, che era un dono fatto da Dioniso al loro nonno Toante. Così Ipsipile poté tornare a Lemno. Durante il viaggio degli Argonauti, Eracle lanciò una sfida ai suoi compagni per vedere chi potesse vogare più a lungo. Dopo molte ore di fatica, alleviata solo dal suono della Lira di Orfeo, soltanto Eracle, Giasone ed i Dioscuri continuarono a vogare di lena: i loro compagni si erano dichiarati battuti. Poi anche Castore e Polluce desistettero ed alla foce del fiume Chio, nella Misia, Giasone svenne e subito dopo il remo di Eracle si spezzò. L'eroe si guardò attorno con rabbia e disgusto, ed i suoi compagni, infilati di nuovo i remi nei fori, spinsero la Nave sulla spiaggia presso la riva del fiume. Poco dopo dissero ad Eracle che il suo scudiero, Ila, si era allontanato per attingere acqua dalla vicina fonte di Pege, e non aveva fatto ritorno; Polifemo aveva già iniziato le ricerche. Ila era stato l'amante di Eracle da molto tempo ed Eracle si inoltrò nel bosco per cercarlo; ben presto incontrò Polifemo, che gli disse di aver udito Ila invocare aiuto, ma, alla fonte Pegea, aveva trovato solo l'anfora per l'acqua e non c'erano tracce di lotta. In realtà Driopa e le sue sorelle, Ninfe di Pege, si erano innamorate di Ila e lo avevano condotto con loro in una grotta sotterranea. All'alba del giorno dopo ci fu un vento favorevole, e Giasone diede l'ordine di partire, lasciando Eracle, Polifemo ed Ila alla loro sorte, nonostante le proteste di alcuni Argonauti,
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che dicevano che Giasone avesse abbandonato Eracle per vendicarsi della sua vittoria nella gara di remi. Eracle, d'altra parte, non avendo trovato più Ila, riprese le sue fatiche. La Nave Argo toccò l'isola di Bebrico, nel Mar di Marmara, dove regnava l'arrogante re Amico, figlio di Poseidone, che si vantava di essere un gran pugile ed usava sfidare gli stranieri che invariabilmente erano sconfitti; ma se rifiutavano di battersi, li buttava in mare dall'alto di una roccia. Polluce subito si fece avanti e, alla fine di un duro combattimento uccise Amico e gli Argonauti si difesero vittoriosamente dalla reazione aggressiva dei Bebrici e saccheggiarono il palazzo reale (v. Gemelli). Per placare Poseidone, padre di Amico, Giasone offrì allora in olocausto venti tori fulvi che facevano parte del bottino. Ripresero il mare ed approdarono a Salmidesso nella Tracia orientale, dove regnava Fineo, figlio di Agenore (è un Fineo diverso da quello citato nella leggenda di Andromeda). Egli era stato accecato dagli dei perché profetizzava il futuro con troppa esattezza, ed inoltre un paio di Arpie non gli davano tregua: queste creature alate, figlie di Taumante e dell'Oceanina Elettra, entravano nel palazzo all'ora dei pasti e rubavano cibo alla tavola del re, insozzando il poco che rimaneva, così che tutto fosse immangiabile. Fineo stava facendo preparare un banchetto per gli Argonauti e subito le Arpie piombarono sulle tavole. Calaide e Zete, gli alati figli di Borea, si levarono con le spade in mano ed inseguirono le Arpie nell'aria facendole fuggire lontano, ma non furono uccise perché Ermes avvertì Calaide e Zete che erano le serve di Zeus. Fineo comunque, in segno di ringraziamento, spiegò a Giasone come navigare sul Bosforo, e gli predisse esattamente quali venti, quale ospitalità e quale sorte l'avrebbero atteso lungo la rotta per la Colchide, e gli raccomandò di sacrificare ad Afrodite una volta giunto colà. Aveva inoltre messo in guardia gli Argonauti contro il pericolo delle rocce Simplegadi che, perennemente avvolte dalla nebbia marina, insidiavano le navi dirette al Bosforo: quando un vascello cercava di passarvi
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in mezzo, queste rocce si stringevano l'una all'altra e lo fracassavano. Eufemo allora liberò una colomba perché volasse dinanzi all'Argo e, non appena le rocce ebbero mozzato le penne alla coda dell'uccello, per poi separarsi di nuovo, gli Argonauti si inoltrarono nello stretto passaggio vogando a tutta forza, aiutati da Atena e dal suono incoraggiante della lira di Orfeo, e persero soltanto l'ornamento di poppa, ma entrarono nel Mar Nero sani e salvi. Da quel giorno le rocce rimasero ferme ai due lati dello stretto. Dopo aver visitato nell'isola di Tinia, la città di Mariandine dove morirono il timoniere Tifide ed il veggente Idmone, visitarono Sinope, in Paflagonia, dove Giasone reclutò i fratelli Deileone, Autolico e Flogio di Tricca, la Nave Argo oltrepassò poi veleggiando il paese delle Amazzoni, il paese dei Calibi ed il paese dei Mesineci per giungere nei pressi dell'isola di Ares; qui raccolsero quattro naufraghi: la principessa Calciope, moglie di Frisso, con i suoi tre figli. Giasone, conosciute l'identità e la storia dei naufraghi, intuì che il re Eete aveva voluto sbarazzarsi dei nipoti e della loro madre. Argeo, il maggiore tra i fratelli, si offrì di accompagnare Giasone alla reggia: qui l'eroe avrebbe chiesto al re il permesso di impadronirsi del vello d'oro, custodito nel giardino del campo di Ares. Il campo era sorvegliato da una coppia di tori, i guardiani del campo di Ares; il giardino dove si trovava il vello d'oro era protetto da un terribile e vigile animale: il drago di Ares. Alla reggia Giasone incontrò il re Eete, la regina Idia, il principe Aspirto e la principessa Medea, che, complici Afrodite ed Eros, si innamorò dell'eroe greco. Medea, disobbedendo alla volontà del re, si offrì di aiutare Giasone nella conquista del vello d'oro. Abile maga, dopo aver fornito a Giasone, a condizione che egli la portasse in Grecia come sua moglie, delle erbe incantate per abbattere i due feroci guardiani del campo di Ares, i terribili tori dagli zoccoli di bronzo e dall'alito di fuoco, Medea seppe addormentare anche il drago che era a guardia del giardino di Ares, aspergendo gli occhi del terribile animale
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con un ramoscello di ginepro intriso di un unguento fatato. Il drago non dormiva mai, era irto di creste, aveva tre lingue e denti adunchi. Giasone gli spruzzò addosso l'unguento dell'erba soporifera, come gli aveva detto Medea, e recitò per tre volte la formula che immerge nel sonno: il sonno scese su quegli occhi che non avevano mai dormito. Il re Eete, tuttavia, non aveva intenzione di cedere il Vello e rinnegò il patto concluso, minacciando di dar fuoco all'Argo e di massacrare l'equipaggio. Medea allora guidò Giasone ed alcuni suoi compagni al recinto sacro di Ares, dove era appeso il Vello, che Giasone prese e si affrettò, con Medea, verso l'Argo che, attraverso il Bosforo, donde era venuta, superò l'Ellesponto senza difficoltà perché i Troiani non potevano più opporsi al suo passaggio. Infatti Eracle, al suo ritorno dalla Misia, aveva radunato una flotta di sei navi con cui sorprese e distrusse la flotta troiana, poi si aprì un varco fino a Troia a colpi di clava e chiese al re Laomedonte le cavalle divoratrici di uomini di re Diomede, che gliele aveva affidate qualche anno prima. Quando Laomedonte negò di averne mai sentito parlare, Eracle lo uccise con tutti i suoi figli, salvo il piccolo Priamo, che nominò re in sua vece. Il matrimonio tra Giasone e Medea non fu celebrato in Colchide, ma fu rimandato finché la nave non si fermò presso il re dei Feaci, Alcinoo, e la moglie Arete. Alcinoo aveva infatti deciso di restituire Medea agli inviati di Eete, che la richiedevano per punirla del suo delitto, ma solo se ella non fosse stata più vergine. Arete avvertì di nascosto Medea della decisione del re, e Giasone giacque con lei per salvarla, nella grotta di Macride, a Corfù. Infine la Nave Argo fece ritorno ad Iolco, ma tra coloro che aspettavano Giasone per i festeggiamenti mancava Esone, stremato dalla vecchiaia ed ormai alle soglie della morte. Giasone allora chiese piangendo alla sposa Medea di togliere degli anni dalla sua vita ed aggiungerli a quella del padre. Medea, caduta in ginocchio sulla dura terra, invocò:
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« O Notte, fedele custode di misteri; astri d'oro, che a fianco della luna vi alternate ai bagliori del giorno; e tu Ecate tricipite, che della mia impresa sei conscia e porgi aiuto agli incantesimi e all'arte dei maghi; o Terra, che ai maghi procuri erbe prodigiose; e voi brezze, venti e monti, voi fiumi e laghi, dèi dei boschi, dèi tutti della notte, voi tutti assistetemi! [...] Ora occorrono filtri, perché la vita di un vecchio si rinnovi e recuperi la gioventù, tornando a fiorire. E voi me li darete. »
(Met. VII, 192-217). Un cocchio scese dal cielo e l'aspettava, perché Medea era nipote del Sole. Ella salì sul cocchio e scese sui monti Pelio, Pinto e Olimpo, prese le erbe necessarie e dopo nove giorni fece ritorno. Poi, invocando Ade e Proserpina, ordinò che il corpo di Esone fosse portato all'aperto e lasciato solo con lei. Ed Esone, alla fine ringiovanito, si guardò sbalordito e ricordò di essere stato così solo quarant'anni prima. Anche Dioniso vide quest'inverosimile prodigio e comprese di poter restituire alle proprie nutrici la giovinezza. Giasone consegnò il Vello d'Oro a Pelia, che però rifiutò di restituire il trono di Iolco al nipote. E allora Medea, con un sortilegio legato alla possibilità del ringiovanimento, fece uccidere il vecchio Pelia dalle sue stesse figlie. Infatti ella convinse le figlie di Pelia di essere capace di farlo ringiovanire facendolo bollire in una pozione magica di cui ella possedeva il segreto. Sotto i loro occhi, squartò un vecchio ariete, ne gettò i pezzi in un grande paiolo che aveva posto sul fuoco e, di lì ad un momento, ne uscì un agnello tutto sano e gioioso. Convinte da questo esempio della sua arte, le figlie di Pelia fecero in tal modo a pezzi il loro padre e lo gettarono in un paiolo procurato da Medea, ma Pelia non ne uscì mai. Non fu però Giasone a succedergli nel governo della città, fu invece Acasto, il figlio di Pelia, il sovrano ucciso, che, una volta re, giurò di vendicare l'assassinio del padre. Temendo la collera del nuovo re, Giasone e Medea fuggirono in Beozia, dove, nel tempio dedicato a Zeus, il giovane eroe gli depose
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l'aureo trofeo ai piedi quale ringraziamento della protezione celeste. Dopo il rito, i due fuggitivi raggiunsero Corinto: qui Giasone, sicuro di ottenere protezione ed ospitalità, portò in secca la Nave Argo, che dedicò a Poseidone. A Corinto, Medea, in quanto figlia di Eete, che una volta aveva regnato su quella città, avanzò diritti sul trono, in quell'epoca vacante. I Corinzi, pur accettando Giasone come re, non riconobbero Medea come loro regina, perché maga, e perciò Medea lasciò Giasone, si rifugiò ad Atene, ivi sposò il re Egeo, ricorrendo a vari incantesimi. Giasone si unì con Creusa, figlia del re Creonte. Medea, saputo del matrimonio, inviò come dono di nozze alla sposa un magnifico abito nuziale, naturalmente stregato. La giovane principessa lo indossò e fu subito presa da atroci dolori, la veste nuziale si incendiò e Creusa morì; tutta la reggia si incendiò, e nell'incendio morì anche Creonte. Medea uccise i propri figli nel tempio di Era e poi fuggì ad Atene sul suo carro alato. Qui riuscì a sposare Egeo e ne ebbe un figlio, Medo, che in seguito, con l'aiuto della madre, avrebbe ucciso il re Perse e regnato al suo posto. Medea, infatti, non morì mai, ma divenne immortale e visse nei Campi Elisi. Giasone, intanto, rimasto solo, iniziò a vagare di terra in terra senza meta né pace. Ormai vecchio, volle rivedere la nave che l'aveva portato alla conquista del Vello d'Oro. Raggiunse la spiaggia dell'istmo di Corinto, dove la Nave Argo era in secca da anni, vi salì a bordo, e gli balenarono alla mente le imprese che lo avevano reso famoso, rivide non senza emozione le ombre dei suoi compagni, li sentì vicini. All'improvviso la Nave Argo cadde in pezzi e Giasone fu sotterrato dai rottami e vi trovò la morte. La Nave Argo fu trasferita dagli dei sulla volta celeste. Un altro mito classico riconduce la costellazione dell'Ariete alla capretta Amaltea, che allattò Zeus poppante sul monte Ida a Creta. Zeus, divenuto signore degli dèi, dotò le corna della capra della capacità di donare al suo possessore qualun-
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que cosa desiderasse (ulteriore mito della Cornucopia; v. peraltro Prima Parte, Eracle e Capricorno). L'interpretazione più comune in Egitto è che la costellazione dell'Ariete rappresenti il dio Ra. Presso gli antichi Egizi nella costellazione Ariete fu anche rappresentata la Fenice; il leggendario uccello che risorgeva perennemente dalle proprie ceneri. Questo perché a quel tempo nell'Ariete si trovava l'equinozio di primavera, quindi esso era il primo segno zodiacale incontrato dal Sole nel suo cammino annuale e rappresentava la periodica rinascita della vita. L'aspetto della Fenice è quello di un'aquila di grandi dimensioni ed il suo piumaggio è ornato dei colori più belli, rosso fuoco, blu chiaro, porpora ed oro: è infinitamente più bella del pavone più splendido. Quest'uccello è l'unico della sua specie e, perciò, non può riprodursi come gli altri animali: quando sente arrivare la fine della sua esistenza, raduna piante aromatiche, incenso, amomo e ne forma una specie di nido. A questo punto appicca il fuoco a quel rogo profumato e dalle ceneri nasce una nuova Fenice che, raccogliendo le ceneri della madre, le rinchiude in un tronco di mirra cavo che porta via fino alla città Eliopoli, nell'Egitto settentrionale e lo depone sull'altare del Sole perché sia bruciato dai sacerdoti. Poi riparte per l'Etiopia, dove vive nutrendosi di perle d'incenso fino al termine della propria vita. Dagli Assiri la costellazione era conosciuta come l'Altare per il sacrificio di un Ariete compiuto per celebrare l'equinozio. Per gli Arabi era una pecora e per i Cinesi era un Cane.
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Le Pleiadi
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Nebulosa del Granchio in un'altra frequenza
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Costellazione invernale. La costellazione era già nota ai Caldei che vi identificavano la parte anteriore di un toro che emerge dalle le onde. Alfa ha m = 1 e si chiama Aldebaran, che significa “la seguente”, nel senso che segue gli ammassi delle Iadi e delle Pleiadi. Beta è Al Nath ed è uno dei corni del Toro, con m = 1.7. Si trova quasi nell'anticentro galattico, cioè nel punto direttamente opposto al centro galattico, che è nel Sagittario. Epsilon è Ain, “occhio sinistro”, con m = 3.6. Tra Beta ed Epsilon è possibile osservare le Tauridi, sciame diurno di meteoriti del mese di giugno. C'è anche uno sciame notturno in novembre dovuto all'altra intersezione dell'orbita della cometa con l'orbita terrestre. La Zeta, con m = 3, era, per i cinesi, Tien Kwan, la “porta del cielo”. Fonti cinesi attestano che, vicino alla Zeta, apparve, nel 1054, una nuova stella. Oggi sappiamo che era una supernova di cui è testimonianza la nebulosa del Granchio (Crab Nebula), che raggiunse m = -5, luminosità analoga a quella di Venere al suo massimo splendore; oggi ha m = 8.4. Circa al centro della nebulosa c'è una pulsar, che emette segnali regolari di trenta impulsi al secondo, sia nelle frequenze radio che in quelle visibili, nelle X e nelle gamma. La pulsar è una stella di neutroni che ruota attorno ad un asse diverso da quello magnetico e le sue “fasce di Van Allen” fungono da acceleratori di elettroni che, sulla Terra, danno origine alle aurore boreali, e nella Crab Nebula , al fenomeno, appunto, di pulsar. Igino, ne l'Astronomia, racconta:
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« Il Toro è raffigurato solo a metà rivolto verso il punto in cui sorgono le costellazioni, sembra cominci a piegare le ginocchia verso terra ed ha la testa orientata nella stessa direzione. Le sue ginocchia sono separate dal resto del corpo dal Circolo Equinoziale. Il corno sinistro si congiunge con il piede destro dell'Auriga. Tra il margine del suo corpo e la coda dell'Ariete, vi sono sette stelle che da noi vengono chiamate Vergilie e dai Greci Pleiadi. Esso tramonta e sorge all'indietro. Ha una stella su ogni corno, ma quella di sinistra è più splendente, una su ciascun occhio, una in mezzo alla fronte, una nei due punti in cui fuoriescono le corna. Queste sette stelle vengono definite Iadi, per quanto qualcuno neghi come le ultime due che abbiamo elencato, siano stelle e così le Iadi sarebbero in tutto cinque. Inoltre ha una stella sul ginocchio anteriore sinistro, una sopra lo zoccolo, una sul ginocchio destro e tre sulla schiena, ultima delle quali più splendente delle altre; infine una stella si trova sul petto. In totale, oltre alle Vergilie, diciotto. »
Nella costellazione del Toro sono contenuti due meravigliosi ammassi stellari: le Iadi e le Pleiadi anche essi legati alla mitologia greca (v. Iadi e Pleiadi). Le Iadi erano sette ninfe sorelle, figlie di Atlante e di Etra, una ninfa Oceanina, divinità minore del mare. Narra la leggenda che le sette sorelle avevano trovato, in una grotta sul monte Niso, un neonato bellissimo e credendolo abbandonato lo presero fra loro curandolo e vezzeggiandolo. Zeus, un giorno, si manifestò alle sette ninfe e confidò loro che quel fanciullo, dal nome Dioniso, era figlio suo e di Semele e che lo aveva nascosto nella grotta dove lo avevano trovato per sottrarlo alle furie di sua moglie Era. Per ricompensare la generosità delle Iadi, Zeus le assunse in cielo e le tramutò in sette meravigliose stelle che posizionò a forma di V sul muso del Toro che è la raffigurazione astrale di Zeus stesso. Una seconda versione del mito, vuole che le sette giovani fossero sorelle del cacciatore Laoonte che trovò la morte per opera di un cinghiale durante una battuta di caccia. Per il do-
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lore, le fanciulle si tolsero la vita e per questo atto d'amore fraterno furono assunte in cielo col nome di Iadi, dal verbo greco yein (piovere) perché comparivano in coincidenza delle piogge di primavera. Anche le Pleiadi erano sette sorelle, figlie di Atlante e Pleione. Tutte, le bellissime creature, avevano sposato delle divinità, meno che una: Metope che aveva sposato il mortale Sisifo. Per questo, quando furono assunte in cielo per la loro saggezza, le sei sorelle spose di immortali ebbero una luminosità superiore a quella di Merope che per la vergogna della sua inferiorità si nasconde agli uomini: infatti, sei delle Pleiadi sono visibili ad occhio nudo mentre la settima si manifesta solo a chi possiede una vista acuta. Uno dei miti greci sulla costellazione del Toro racconta come Zeus, vista la straordinaria bellezza di Europa, il cui nome significa “colei che ha grandi occhi”, figlia di Telefassa e di Agenore re di Fenicia, si fosse invaghito di lei. Per rapirla assunse l'aspetto di un toro e si mescolò alle mandrie di Agenore. La ragazza, che giocava ignara sulla spiaggia di Sidone, fu attratta dal maestoso toro bianco che pascolava tranquillo. Dapprima spaventata, prese coraggio nel vederlo mansueto, forte e vivace, non aggressivo e che emanava odore di zafferano. Al suo avvicinarsi, il toro si inginocchiò davanti a lei e la fanciulla gli salì sulla schiena per intrecciargli una ghirlanda di fiori intorno alle corna. « Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere, comincia ad imprimere le sue mentite orme nelle prime onde, poi procede oltre e in mezzo alle acque del mare si porta via la sua preda. Lei terrorizzatasi volge a guardare la riva ormai lontana: la destra cinge un corno, la sinistra s'afferra alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti. »
(Met. II, 870-875) A Creta, Zeus riprese il suo aspetto e la violentò, sotto un meraviglioso platano che, in ricordo di tale rapporto, da quel
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giorno conserva il privilegio di non perdere mai le sue foglie palmate. Europa generò a Zeus tre figli: Minosse, Radamanto e Sarpedone. Minosse divenne poi re dell'isola (vedi Corona Boreale) e fece costruire il palazzo di Cnosso dove si tenevano giochi di abilità con i tori. Radamanto, il fratello Sarpedone e Minosse divennero i tre giudici inflessibili del tribunale di Averno, per essere stati in vita re giusti e prudenti (altri però dicono che il terzo giudice fosse Eaco, insieme a Minosse e Radamanto). Zeus fece in seguito ad Europa tre regali: Talo, l'essere di bronzo che aveva il compito di proteggere Creta, impedendo agli stranieri di penetrarvi senza l'autorizzazione di Minosse. Gli altri doni furono un cane che non poteva lasciarsi sfuggire alcuna preda ed un giavellotto da caccia che non falliva mai il bersaglio. Dopo questa avventura con Zeus, Europa sposò Asterio, re di Creta, ma dalle loro nozze non nacquero figli. Asterio allora adottò i figli di Zeus ed Europa e li nominò suoi eredi. Minosse, mentre era re di Creta, fece innamorare di sé Scilla, figlia di Niso, re di Megara, città in guerra con Creta. La giovane, spinta dall'amore, rubò al padre le chiavi della città e, nottetempo, le portò a Minosse. Di fronte a questo Minosse si ritrasse e rispose: « Che gli dei, o infamia del nostro tempo, ti bandiscano dal loro mondo e a te si neghino la terra e il mare! Non tollererò che un mostro come te metta piede a Creta che è la culla di Giove e il mondo mio! »
(Met. VIII, 97-99) E dopo aver imposto ai nemici, che si erano arresi, le condizioni che ritenne più giuste, ordinò ai suoi guerrieri di tornare a Creta. Quando Scilla vide le navi che partivano, gridò « Dove fuggi, abbandonando chi ti ha soccorso? Alla mia patria, a mio padre io ti ho preferito! Dove fuggi, rinnegato, tu che hai vinto solo per colpa e merito mio? Non il dono che ti ho
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dato o il mio amore ti hanno commosso, neppure il pensiero che tutte le mie speranze in te erano riposte! Dove vuoi che vada così reietta? In patria? Giace sconfitta; ma se anche non lo fosse, mi è preclusa, perché ho tradito! Tornare al cospetto di mio padre, che io ti ho consegnato? I cittadini mi odiano, e con ragione; i vicini temono il mio esempio: tutto il mondo mi sono preclusa, perché solo Creta mi si potesse aprire. Ma se anche questa tu mi vieti e, ingrato, m'abbandoni, tua madre non è stata certo Europa, ma la Sirte inospitale, le tigri dell'Armenia o Cariddi flagellata dall'Austro. E non sei figlio di Giove; da una chimera di toro tua madre non fu rapita: la storia della tua nascita è una favola. A generarti fu un toro, sì, ma un toro vero, feroce, e non certo innamorato di una giovenca! O Niso, padre mio, puniscimi! E voi mura che ho tradito, godete, godete della mia sventura! L'ammetto, non merito che la morte. Ma almeno mi sopprima chi ha subito veramente la mia empietà. Perché tu, che grazie alla mia colpa hai vinto, pretendi di punirla? Per mio padre e la patria questa è un delitto, per te una grazia. Davvero ti è degna compagna chi ti ha tradito con un toro in calore, abbindolato da un simulacro di legno, e nel ventre si è portata un feto mostruoso! Ma alle tue orecchie giunge la mia voce? O i venti, come spingono le tue navi, se la portano via, priva di senso per quell'ingrato che sei? Ormai, no, non è incredibile che Pasifae ti abbia preferito un toro: ben maggiore è la tua ferocia. Sventurata me! Comanda ai suoi di affrettarsi, l'onda sollevata dai remi scroscia, e con me la mia terra svanisce ai tuoi occhi. Ma non ti servirà; invano cerchi di scordare i meriti miei! Se anche non vuoi, io ti inseguirò: avvinghiata all'ansa della poppa, lungo il mare mi farò trascinare! »
(Met. VIII, 108, 142) E si gettò in acqua finche non raggiunse le navi e si aggrappò alla chiglia della nave del re cretese. La vide suo padre, che era stato trasformato in aquila, e si slanciò per straziarla col becco, ma Scilla, impaurita, mollò la presa della poppa e mentre stava cadendo in acqua fu trasformata in un uccello detto Ciris (un airone). Il toro fu collocato in cielo da Zeus perché fosse ricordato per sempre il suo amore per Europa. Secondo un altro mito, invece, Zeus cercò di ripagare Io,
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quando la trasformò in giovenca, collocando il suo corpo tra le stelle in modo che la parte anteriore restasse visibile come quella di un toro ed il resto rimanesse nell'ombra. Io era sacerdotessa del tempio di Era, figlia di Inaro, re di Argo e dio dei fiumi; Zeus, innamoratosi di lei, ogni volta che andava a trovarla, avvolgeva Argo in una nube dorata. Era, però, scoprì la tresca e Zeus fece appena in tempo a trasformare Io in una bianca giovenca. Era, tuttavia, non paga, chiese in regalo l'animale e lo condusse a Micene, custodito dal mostro Argo dai cento occhi, che non dormiva mai. Zeus chiese ad Ermes di liberare Io: l'astuto messaggero riuscì a far addormentare Argo alla melodia del suo flauto magico, cosicché poté decapitarlo e liberare la giovenca. Ma Era, alla quale nulla era sfuggito, mandò un terribile tafano a pungere la giovenca la quale, resa folle dalle punture dell'insetto, percorse tutta la Grecia, oltrepassando anche lo stretto del Bosforo, che significa appunto “guado della giovenca”, finché ai piedi del Caucaso trovò Prometeo che le predisse una prole divina: ella in Egitto avrebbe partorito Epafo, figlio di Zeus, riacquistando le sue sembianze umane. Ma Zeus, sapendo che Era odiava questo figlio e lo perseguitava, lo affidò ai Cureti con il compito di nasconderlo. Questi lo nascosero così bene che Io non poté ritrovarlo. Zeus allora uccise i Cureti ed Io si rimise alla ricerca del figlio. Venne a sapere che era allevato dalla moglie del re di Biblo, in Siria, vi andò e lo riportò con sé in Egitto, dove egli poi regnò, succedendo al padre adottivo Telegono, e sposò Menfi, da cui ebbe una figlia, Libia, che diede il nome al paese vicino all'Egitto. In un'ulteriore versione del mito la costellazione del Toro si identificherebbe con il bianco toro amato da Pasifae, moglie di Minosse, dalla cui unione sarebbe nato il mostruoso Minotauro. Pasifae era una donna estremamente gelosa ed aveva facoltà stregonesche simili a quelle di sua sorella Circe e di sua nipote Medea, figlia di Eete. Per impedir a suo marito Minosse di unirsi ad altre donne al di fuori di lei, l'avrebbe colpito con una maledizione consistente nel far morire tutte le donne
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da lui amate, divorate da serpenti che egli emetteva con il suo sperma. Minosse fu poi guarito da questa maledizione solo da Procri. Quando i tre figli di Zeus divennero adulti, litigarono per amore di un bellissimo giovane chiamato Mileto, figlio di Apollo e della Ninfa Aria. Poiché Mileto mostrava di prediligere Sarpedone, Minosse lo scacciò da Creta ed egli salpò con una grande flotta alla volta dell'Asia Minore, dove fondò la città ed il regno di Mileto. Qui sposò la figlia del dio Eurito, Idotea, dalla quale ebbe Cauno e Bibli. Minosse, però, sospettò che Mileto volesse impadronirsi del regno di Creta, ma per non suscitare l'ira di Apollo, si limitò a rimproverare il giovane. Per regnare da solo su Creta, consacrò un altare a Poseidone e, fatti i preparativi per un sacrificio, gli chiese di far uscire un toro dal mare, per dimostrare ai fratelli che egli avrebbe dovuto avere il potere tutto per sé. In cambio avrebbe sacrificato il toro a Poseidone; ma una volta che fu uscito dal mare un toro di un candore abbagliante, Minosse non volle più sacrificarlo perché era molto bello e voleva conservarne la razza. Le pretese di Minosse al trono furono accettate da tutti i cretesi all'infuori di Sarpedone, il quale non si era rassegnato alla perdita di Mileto e dichiarò che, secondo il volere di Asterio, il regno avrebbe dovuto essere diviso tra i suoi eredi. Così Sarpedone fu allora scacciato da Creta per ordine di Minosse e si rifugiò in Cilicia, nell'Asia Minore, dove si alleò con il re Cilice contro i Mili, li sopraffece e divenne loro re. Zeus gli concesse il privilegio di vivere per tre generazioni e, quando infine morì, il regno fu chiamato Licia, dal nome del suo successore, Lico, che si era rifugiato presso di lui dopo che Egeo l'ebbe scacciato da Atene. Frattanto Minosse aveva sposato Pasifae, figlia di Elios e di Perseide. Poseidone però, per vendicarsi dell'affronto fattogli da Minosse, che non aveva sacrificato come promesso, il toro, fece sì che Pasifae si innamorasse del toro. Ella confidò la sua insana passione a Dedalo, il famoso ar-
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chitetto ateniese, che le promise il suo aiuto. Costruì, infatti, una vacca di legno ricoperta con una pelle di vacca e, montata su quattro ruota abilmente celate negli zoccoli, la spinse in un prato dove il toro di Poseidone stava pascolando tra le vacche di Minosse. Dedalo mostrò a Pasifae come introdursi nella vacca di legno attraverso uno sportello scorrevole sistemando le gambe nelle zampe posteriori, e poi approfittò della situazione egli stesso, violentando in quella posizione Pasifae, che non poteva far altro che accettare, peraltro con gran piacere, il gesto. Il toro bianco, poi, trotterellò verso la finta vacca e la montò. Così Pasifae poté doppiamente soddisfare il proprio desiderio e da quell'“immondo adulterio” (Met.) nacque il Minotauro, mostro metà uomo, dalla vita in giù, e metà toro, dalla vita in su. Minosse consultò un oracolo per sapere come potesse evitare lo scandalo e nascondere il mostruoso figlio di Pasifae. La risposta fu di chiedere a Dedalo di costruire un nascondiglio a Cnosso. Egli si rivolse quindi a Dedalo, che costruì un immenso edificio, il Labirinto, composto di un tale intrico di sale e corridoi che era impossibile a chiunque di ritrovare la strada per uscirne. Radamanto, intanto, più saggio di Sarpedone, rimase a Creta e visse in pace con Minosse, che gli diede un terzo del regno di Asterio. Famoso per la sua equanimità nel far rispettare le leggi ed inflessibile nel punire i trasgressori, egli legiferò sia per i Cretesi sia per gli isolani dell'Asia Minore, molti dei quali adottarono spontaneamente il suo codice. Ogni nove anni, egli si recava nella grotta di Zeus e ne riportava delle nuove leggi: tale pratica fu poi seguita anche da suo fratello Minosse. Radamanto dovette poi fuggire in Beozia perché aveva ucciso un suo parente, e visse colà in esilio, ad Ecalea, dove sposò Alcmena, la madre di Eracle, dopo la morte di Anfitrione. Il toro è stato venerato per la forza e la fertilità ed è presente nei cicli mitologici di numerose culture.
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In epoca romana, nel Toro si identificava Bacco, il dio del vino: durante le feste in suo onore, fanciulle danzanti, rappresentanti le Iadi e le Pleiadi, accompagnavano un toro ornato di fiori. Gli egizi vi vedevano il bue sacro Api. Gli Arabi consideravano la stella Aldebaran l'occhio del Toro. I Persiani vi vedevano il dio Mitra, divinità della luce e della giustizia. Il mito narra dell'uccisione da parte di Mitra del toro Geush Urvan, dal sangue del quale sarebbero nati tutti gli esseri viventi. In altre versioni, l'uccisione del Toro raffigurava la precessione degli equinozi, e Mitra, identificato con la costellazione di Perseo, metteva in movimento l'intero universo, uccidendo il Toro e spingendo la Terra verso la costellazione dell'Ariete all'equinozio di primavera. Tracce di questi miti legati al dio Mitra vi sono anche presso scrittori latini, in quanto il culto di Mitra era assai diffuso ai tempi dell'impero romano. I Celti celebravano la festa dei tori quando il Sole entrava in questa costellazione. Vi sono testimonianze del culto del Toro anche negli Stati Uniti, dove, però, era identificato con il Tapiro, che popolava le foreste americane.
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Nebulosa Eskimo vista da Hubble
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Si distinguono le due figure umane
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Costellazione invernale. Castore con m = 1.6, è la stella Alfa, ma non è la più luminosa della costellazione, che è invece Beta, Polluce, con m = 1.2. Castore è un sistema stellare sestuplo. Fu Piazzi che rilevò per primo, nel 1792, che Beta è più luminosa di Alfa. Gamma è Alhema, con m = 2. Zeta si chiama Mekbuda; è una variabile con m compresa tra 3.7 e 4.2 ed un periodo di 10 giorni. Zeus, innamoratosi della ninfa Leda, principessa d'Etolia e figlia di Tesio, si trasformò in un candido cigno e la sedusse: la ninfa generò due gemelli, Castore e Polluce, detti Dioscuri (figli di Zeus). Una versione del mito racconta che Leda, dopo la notte d'amore con Zeus, giacque anche con il suo sposo Tindaro, re di Sparta, e rimase incinta di entrambi (v. Perseo). Quando dovette partorire, si recò sull'isola disabitata di Pephnos, e lì nacquero due coppie di gemelli: Polluce ed Elena da Zeus e Castore e Clitennestra da Tindaro. I nati dagli amori degli dèi con i mortali avevano destini umani, ma il Fato decise diversamente per uno dei Dioscuri: Castore, abilissimo domatore di cavalli, era mortale ma Polluce, invincibile pugile e cavallerizzo, era immortale. Sempre insieme parteciparono a numerose imprese e ne uscirono ininterrottamente vincitori. Presero parte anche alla spedizione degli Argonauti: durante il viaggio (v. Ariete), la Nave Argo approdò a Bèbrico, in Bitinia e qui Polluce affrontò l'imbattuto pugile Amico, figlio di Poseidone e re dei Bèbrici. Appassionato di lotta, il re sfidava ogni straniero che passasse attraverso i suoi possedimenti: dopo il combattimento, l'avversario, puntualmente sconfitto, era ucciso. In seguito alla vittoria Polluce acquistò grande fama, giac-
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ché inflisse al famoso pugile l'umiliazione della prima sconfitta, e come vincitore impose al re di giurare solennemente che non avrebbe ucciso più i suoi avversari sconfitti nella lotta. Tindaro ed il fratello Icario avevano due fratellastri, Afareo e Leucippo, figli della stessa madre Gorgofone, figlia di Perseo e di Andromeda, e del suo primo marito morto Periere. Ida e Linceo erano fidanzati alle due figlie di Leucippo, Febe ed Ilaria. Castore e Polluce furono invitati alle nozze, ma rapirono le ragazze di cui si erano invaghiti, violando la legge dell'ospitalità. Ne seguì una cruenta lotta: Linceo trovò la morte per mano di Polluce, Ida uccise Castore e Zeus, spettatore dall'Olimpo, lo vendicò colpendo Ida con un fulmine. Questa non è la sola versione del mito conosciuta. In un'altra i Dioscuri rapirono le due fanciulle, ma ebbero da loro dei figli. Con Ida e Linceo, temporaneamente riappacificati, organizzarono una spedizione destinata a rapire bestiame in Arcadia. Mentre tornavano tutti e quattro col bottino, essi litigarono per la spartizione: Ida fece in quattro parti un bue e stabilì che colui che, per primo, avesse terminato di mangiare il proprio quarto, avrebbe scelto i propri animali. Ida terminò prima degli altri ed aiutò Linceo a finire il proprio quarto, cosicché i due Afareidi ottennero i capi migliori, a discapito di Castore e Polluce. Questi ultimi, avendo seguito i cugini per protestare contro la loro disonestà, non riuscirono a trovarli: erano infatti andati sul monte Taigeto per rendere un sacrificio a Poseidone; allora si impadronirono del loro bestiame e si nascosero nel cavo di una quercia per attendere il ritorno dei due rivali. Linceo, però, li aveva scorti dalla vetta del Taigeto ed Ida, precipitatosi giù dalla montagna, scagliò la sua lancia contro l'albero e trafisse Castore. Quando Polluce uscì fuori per vendicare il fratello, Ida strappò dal sepolcro di Afareo la pietra tombale scolpita e gliela scagliò addosso. Benché ferito, Polluce riuscì ad uccidere Linceo con la sua lancia. A questo punto Zeus intervenne in favore del figlio e colpì Ida con una folgore.
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Polluce, che non poteva sopportare di separarsi dal fratello, pregò allora a Zeus di farlo morire con lui; ma Polluce era immortale: le sue implorazioni commossero Zeus che lo esaudì e trasformò i due gemelli in stelle vicine ad immortale ricordo del sovrumano amore che li aveva tenuti uniti nella loro breve ma intensa vita. Esiste un'ulteriore versione del mito che racconta che Zeus propose al figlio Polluce due alternative: vivere da solo sull'Olimpo con gli altri immorali, oppure vivere con il gemello un giorno sull'Olimpo ed uno nell'Ade. Polluce, senza esitazione, scelse la seconda possibilità e da allora i due gemelli appartengono un giorno alla luce ed un giorno all'ombra. Un'altra versione ancora racconta che durante una festa offerta a Sparta dai Dioscuri ad Enea e Paride, che facevano visita a Menelao, con lo scopo segreto di rapire Elena, i figli di Afareo, riscaldati dal vino, rimproverarono ai loro cugini Castore e Polluce di aver sposato le loro mogli senza aver prima pagato ad Afareo la dote d'uso. Castore e Polluce, insultati, risposero, e la discussione degnerò in battaglia terminata come nell'altra versione. Dopo che i Dioscuri furono divinizzati, Tindaro chiamò Menelao a Sparta e gli affidò il suo regno. (Miti). La venerazione per i Gemelli era molto diffusa, soprattutto presso i marinai: un segno della loro presenza sulle navi erano considerate quelle luci che lampeggiavano improvvise sulle cime degli alberi delle navi durante i temporali, fenomeno elettrico ora chiamato “fuoco di sant'Elmo”, ma che anche Plutarco chiamava “luce dei Dioscuri”. Quasi tutti i popoli dell'antichità videro nelle stelle Castore e Polluce le teste di due figure umane appaiate, salvo gli Arabi che vi scorsero invece due pavoni. Per i Fenici ed i Caldei erano due caprette ed in Egitto erano chiamate le “due piante”.
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In Cina, le due stelle rappresentavano due fiumi con “acque rombanti” ed incarnano anche il concetto cinese di Yin ed Yang: la contrastante dualità della vita. I Romani li assimilarono ai leggendari fondatori della città di Roma, Romolo e Remo. In una leggenda tramandataci dalla tribù indiana dei “Piedi Neri”, “medicina” si riferisce al potere spirituale e magico. La medicina “forte” o “grande” era favorevole a chi la possedeva; praticare una medicina “cattiva” era come tirarsi addosso una catastrofe, o disubbidire ai propri principi spirituali. Una volta, ad un uomo di nome Corvo Scaltro apparve in sogno un corvo. L'animale profetizzò che la moglie gli avrebbe dato due figli: uno sarebbe diventato saggio e degno di fiducia, mentre l'altro sarebbe stato disubbidiente. Il corvo lo avvertì anche che un giorno, mentre sua moglie fosse stata sola, si sarebbe presentato uno straniero che avrebbe tentato di ucciderla. Non molto tempo dopo il sogno, Corvo Scaltro partì per la caccia. Quando tornò, scoprì che il suo incubo si era avverato. La moglie era morta ed i due neonati erano rimasti soli in casa. In cerca di vendetta, egli seguì le tracce dello straniero e lo trovò. Stava quasi per ucciderlo, quando costui gli disse: “Ti restituirò tua moglie”. Corvo Scaltro all'inizio non gli credette, ma desiderava tanto riavere la moglie che lasciò andare lo straniero e tornò a casa. Lì trovò i due bambini che piangevano per la fame; da solo non poteva prendersene cura, così ne mise uno su una roccia, pregandola di occuparsene lei. Affidò l'altro ad un amico castoro perché lo allevasse. Quando i bambini ebbero all'incirca sei anni, Corvo Scaltro volle riprenderli con sé. Li trovò in un bosco e, dopo averli convinti che egli era il padre, li riportò a casa. Chiamò uno Roccia e l'altro Castoro. Celebrarono una cerimonia con le ossa della madre morta, che a quel punto ritornò in vita come aveva promesso lo straniero. Roccia e Castoro da allora vissero con i loro genitori come tutti i bambini, tranne per il fatto che entrambi possedevano la medicina forte. Roccia disubbidiva a
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suo padre e spesso convinceva Castoro a fare altrettanto. Una volta tirò una freccia all'Uccello del Mattino, il quale possedeva la medicina grande. Quando la freccia di Roccia lo colpì, esso cadde sul ramo di un albero. Roccia cercò di raggiungerlo, ma ogni volta che si avvicinava l'uccello saliva un po' più in alto. Castoro, restato a terra, non riusciva più a vedere il fratello che era scomparso in cielo. Era così spaventato e pieno di vergogna che decise di non tornare a casa ad affrontare Corvo Scaltro, si sedette sotto un albero e pianse. Dopo un po' una vecchia udì il ragazzo e lo portò a casa sua. Lì Castoro crebbe, si sposò e divenne il capo del suo popolo. Egli era buono e beneamato, ma un giorno fu obbligato a lasciare la sua gente: aveva detto alla moglie di non bruciare più l'artemisia nel fuoco perché secondo lui quella era cattiva medicina. Qualche tempo dopo la donna se ne scordò e bruciò l'artemisia. Castoro non poteva più vivere in quella casa, così prese il suo mantello di bisonte bianco e andò a cercare suo fratello Roccia. La medicina di Castoro era ormai forte, e così trovò Roccia tra i rami alti dell'albero. In quella postazione elevata, essi divennero stelle ed ora vivono per sempre nel cielo: sono i nostri Gemelli (Stelle).
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Ammasso Aperto “Presepe”
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Costellazione primaverile. La piccola costellazione del Cancro è la meno brillante tra quelle zodiacali. La stella più luminosa di questa costellazione è la Beta, Altarf, con m = 4.3. Alfa, con m = 4.3, è di magnitudine minore nelle successive cifre decimali e si chiama Acubens. Le due stelle gamma e delta sono l'Asellus Australis e l'Asellus Borealis e sono quelle legate alla seconda versione del mito. Igino, ne l'Astronomia, narra che, mentre Eracle è intento a combattere nell'Argolide contro l'Idra di Lerna, un granchio esce da una palude vicina al lago di Lerna e cerca di mordere l'eroe tebano che rabbiosamente lo calpesta e lo riduce in mille piccoli pezzi. La dea Era, nemica di Eracle perché figlio di Zeus e di Alcmena, raccoglie i resti del granchio e li colloca nel firmamento tra il Cane Maggiore ed i Gemelli, trasformandoli nella costellazione del Cancro. Esiste anche una seconda leggenda. La dea Era aveva saputo che Dioniso era figlio di Zeus e Semele. Per suo ordine, i Titani se ne impadronirono, lo uccisero e poi ne bollirono i resti in un calderone, mentre un albero di melograno sorgeva dal suolo inzuppato del suo sangue. Ma la nonna Rea accorse in suo aiuto e gli ridonò la vita. Zeus lo affidò allora a Persefone che lo condusse dal re di Orcomeno, Atamante e da sua moglie Ino, e convinse quest'ultima ad allevare Dioniso negli alloggi delle donne, travestito da fanciulla. Ma Era non si lasciò trarre in inganno e punì la coppia regale con la pazzia, cosicché Atamante uccise suo figlio Learco scambiandolo per un cervo (v. peraltro Ariete). Allora, su istruzioni di Zeus, Ermes trasformò temporanea-
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mente Dioniso in un capretto e lo portò sul monte Nisa, in Elicona, dove le ninfe lo celarono in una grotta e lo nutrirono di miele. Zeus, in segno di gratitudine, pose la loro immagine tra gli astri, come ammasso delle Iadi (v. Iadi). Era però riconobbe ugualmente in lui il figlio di Zeus e, per vendicare l'offesa arrecatale dal consorte punì il giovane facendolo impazzire. Dioniso andò vagando per mondo con il suo amico-educatore, il satiro Sileno (figlio del dio Pan e di una ninfa), saggio e meditativo anche se quasi sempre ubriaco. Si recò nell'Epiro per sapere dall'oracolo del tempio di Dodona, dedicato a Zeus suo padre, come guarire. Durante il viaggio, i due giunsero sulla riva di un'estesa palude che non poteva essere attraversata a piedi. Fortunatamente trovarono due asinelli e, grazie a loro, raggiunsero la riva opposta, dove si trovava il tempio. Là Dioniso guarì dalla pazzia e, felice, ricompensò i due asinelli, incastonandoli nel cielo ad immortale ricordo della sua guarigione. In seguito Dioniso ritornò in Europa passando dalla Frigia, dove sua nonna Rea lo purificò per i molti delitti commessi durante la sua pazzia. A Nasso incontrò la bella Arianna, che Teseo aveva abbandonata, e la sposò senza indugio. Ne ebbe sei figli e pose tra le stelle la corona nuziale di Arianna (v. Corona Boreale). Da Nasso il dio si recò ad Argo dove Perseo gli aveva opposto resistenza uccidendo molti suoi seguaci: Dioniso lo punì facendo impazzire le donne argive, che cominciarono a divorare crudi i loro bambini. Perseo si affrettò ad ammettere la propria colpa e placò Dioniso erigendogli un tempio. Infine, affermato il suo culto in tutto il mondo, Dioniso ascese al cielo ed ora siede alla destra di Zeus come uno dei Dodici Grandi. Dioniso poi discese nel Tartaro passando da Lerna e, donandole del mirto, indusse Persefone a liberare la madre Semele. Semele salì con Dioniso nel tempio di Artemide a Trezene, ma per non ingelosire le altre ombre dei morti, Dioniso le cambiò il nome e la presentò agli dèi olimpici come Dione. Zeus mise a sua disposizione un alloggio ed Era si chiuse in un indispettito ma rassegnato silenzio. Un'altra leggenda racconta che queste stelle rappresentano
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gli asini che aiutarono Zeus nella lotta contro i Titani. Zeus radunò tutti gli dei per combattere i Titani; agli dèi si aggregano le divinità delle acque fecondanti, i Sileni, che facevano parte della corte di Dioniso. I Sileni accorsero numerosi e tutti in sella ai loro asini affrontarono i Titani. Stavano per raggiungere i nemici disposti a schiera, quando gli asini, spaventati dall'aspetto mostruoso dei Titani, ragliarono simultaneamente. Quel ragliare unico ed incontrollato, emesso quasi per annunciare l'ingresso sul campo di battaglia di un animale terrificante e sconosciuto, atterrì i Titani che, non conoscendo gli asini, si dettero ad una precipitosa fuga. Dioniso premiò quegli asini e li immortalò trasferendoli in cielo. Da quest'ultima interpretazione deriva anche il nome di “Mangiatoia” o “Presepe” dato all'ammasso aperto di stelle visibile ad occhio nudo al centro della costellazione. Nella costellazione cadeva, ai tempi degli antichi greci, il solstizio d'estate. Il 21 Giugno, il Sole è in posizione verticale a mezzogiorno: per questo ancora oggi il Tropico del Cancro porta questo nome. Presso gli Egizi la costellazione rappresentava Khepri, lo scarabeo, il dio dell'alba, della fertilità e quindi della vita e della rinascita; era l'aspetto mattutino del Sole, che era Khepri al mattino, Ra a mezzogiorno ed Atum la sera. Khepri era chiamato “lo scarabeo del cuore” perché, scolpito in pietra, veniva posto sulla mummia all'altezza del cuore. Egli nacque autocreandosi dalla propria stessa sostanza, si accoppiò con la propria ombra e diede alla luce Shu, l'aria, e Tefnut, l'umidità. Dall'unione di Shu e Tefnut nacquero Geb, la Terra e Nut, il cielo. Essi, a loro volta generarono Osiride, Iside, Seth e Nefti. Presso alcuni popoli dell'India la costellazione rappresentava una colomba. I Cinesi ritenevano che nell'ammasso del Presepe si trovas-
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sero i corpi abbandonati dai morti all'atto di entrare in cielo, e chiamavano la costellazione “la Porta dell'Uomo”. Plinio il Vecchio menziona questo ammasso come indicatore attendibile del tempo meteorologico a seconda della sua visibilità più o meno distinta. Per gli Arabi, il Cancro era la bocca del vicino Leone. È interessante ricordare che un sacerdote caldeo del IV secolo a. C. naturalizzato greco, asseriva che la Terra sarebbe stata sommersa dal diluvio quando tutti i pianeti fossero stati in congiunzione nel Cancro. L'occasione si è presentata nel giugno del 1895... Per i cristiani rappresentava San Giovanni Evangelista.
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Leone
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Galassie M65, M66 ed NGC3628
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Galassia M65 in Leone
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Galassia M 66
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M95
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M96
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NGC 2903
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NGC 3521
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Costellazione di primavera. La Alfa del Leone è Regolo con m = 1.4. In latino significa “piccolo re”; tale nome è dovuto al fatto che questa stella, quasi sull'eclittica, vede passare la Luna ed i pianeti nelle sue vicinanze, quasi a rendere ad essi omaggio. Tale interpretazione fu data da Tolomeo. Beta è Denebola, la “coda” del Leone, con m = 2.1. Gamma, o Algieba, la “criniera” del Leone, è una doppia e le due componenti hanno m = 2.4 ed m = 3.6. Lambda, con m = 4.3, è Al Tarf, cioè “occhiata”. Delta, con m = 2.5, è la “fascia” del Leone, chiamata Al Thar al Asad. Nella costellazione, il 17 novembre, appaiono le Leonidi, sciame meteorico tra i più noti. Circa duemila anni fa, a causa della precessione degli equinozi, il Sole entrava nella costellazione del Leone esattamente un mese dopo il solstizio d'estate: era il periodo del grande caldo, del “Solleone”. Questa familiare espressione continua ad indicare l'epoca del grande caldo della fine di Luglio, sebbene il Sole non sia più nella costellazione del Leone ma in quella dei Gemelli. Mitologicamente il Leone ha una storia breve ma complessa, legata alla varietà di versioni circa l'origine di questa configurazione astrale. Un mito la riconduce ad Eracle e ad una delle sue leggendarie fatiche. Nel racconto si legge che il Leone era nato dall'unione di Tifone, un gigantesco mostro che lambiva con la testa il firmamento e con le braccia aperte arrivava ai limiti estremi dell'oriente e dell'occidente, e di Echidna un essere metà donna e
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metà serpente. Un'altra narrazione, invece, afferma che Echidna avrebbe generato il Leone unendosi con il cane Orto. Una diversa versione attribuisce a Selene la procreazione del Leone: ella lo generò con un terribile sobbalzo che lo fece “schizzare” via dal suo ventre e lo proiettò sulla Terra, presso Nemea, sul monte Treto, proprio davanti ad uno dei due ingressi di una grotta; lo lasciò in quel posto perché facesse scempio degli abitanti del luogo che si erano resi inadempienti ad un sacrificio a lei precedentemente promesso. Qualcuno racconta, invece, che Selene creò il Leone servendosi della spuma del mare che era rinchiusa in una grossa teca e che Iride, usando la propria cintura come guinzaglio, lo guidò tra i monti Nemei fino alla caverna con le due aperture e qui lo lasciò perché vendicasse l'onta che Selene aveva subito dalle genti del luogo. Nel profondo dirupo, detto Nemeo, tra i monti dell'Argolide, viveva il gigantesco e feroce Leone, che rendeva inospitali quei boschi montani. La belva, nota con lo stesso nome del dirupo in cui si rifugiava per riposarsi dalle faticose scorribande diurne, terrorizzava cacciatori e chiunque attraversasse quei luoghi. Ai pastori, però, riservava un trattamento speciale: la feroce bestia piombava nei loro greggi di pecore, le calpestava e le sbranava. Eracle fu incaricato dal re Euristeo, suo fratello, di uccidere il Leone Nemeo (v. Eracle). Si armò di clava e frecce e gli mosse contro. Ci furono i primi assalti durante i quali Eracle si rese conto che il terribile animale non poteva essere abbattuto né da colpi di clava né da frecce. Il fantastico animale era invulnerabile: nessuna arma, di qualsiasi materiale fatta, riusciva a graffiare anche minimamente la sua pelle per cui ogni tentativo di reazione da parte di chiunque falliva e il malcapitato finiva inesorabilmente nelle fauci della fiera. Eracle, allora, dopo aver chiuso una delle due aperture della grotta del Leone con un immenso masso per impedire alla
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fiera di fuggire, ingaggiò con essa una lotta corpo a corpo e riuscì finalmente a sorprenderla cingendole il collo con le sue poderose braccia. Il mostro si divincolava e dava possenti strattoni per liberarsi dalla presa di Eracle che continuava a stringere sempre più forte il suo collo fino a che il Leone si accasciò in un poderoso rantolo morendo soffocato. Eracle allora, usando gli stessi artigli dell'animale, gli tolse la pelle e lo decapitò; usò poi il teschio come elmo e il vello come mantello. Gli dei, impressionati dalla forza sovrumana e dall'indomabilità di Eracle, immortalarono l'impresa del mitico eroe tebano nel firmamento dove incastonarono il Leone Nemeo. Intorno al IV millennio a.C., la figura del Leone fu associata al Sole del solstizio d'estate, impetuoso ed ardente come la regale belva che Eratostene ed Igino sostengono fosse posta in cielo perché è il re degli animali. Non si sa con certezza chi abbia legato la figura del Leone alla costellazione che ne porta il nome: c'è chi attribuisce questo legame ai Sumeri, altri invece agli Egizi. I mitologi e astronomi egiziani, comunque, non furono del tutto estranei ad un qualsivoglia accostamento Leone - gruppo stellare; essi, infatti furono attratti da un singolare fenomeno: i Leoni del deserto, per sfuggire alla siccità si spostavano in massa nella valle del Nilo proprio nei giorni del solstizio d'estate quando il fiume saliva al massimo livello fino a straripare spargendo sui campi il benefico limo e quindi donando l'abbondanza dei raccolti. L'associazione dell'animale con la benefica acqua del fiume ispirò gli scultori a riprodurne la testa sulle cateratte che regolavano l'apertura e la chiusura dei canali d'irrigazione della vallata. Ed il simbolo fu riprodotto anche nelle fontane dove l'acqua usciva da una bocca leonina. Questa sacralità dell'animale indusse gli antichi sacerdoti che sovrintendevano alle opere sacre a progettare i canali e le condotte delle fontane sacre a forma di leone e per la stessa motivazione, ancora oggi
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nelle campagne, per propiziarsi un raccolto abbondante, si fa una libagione con vino che sgorga dai tini attraverso rubinetti a forma di leone. Nell'elaborazione teologica degli Egizi, il leone assunse il significato allegorico della discesa del “Nume triforme” in Horo, cioè nel Sole divino che era nutrimento cosmico e faceva straripare il Nilo con le sue benefiche conseguenze. Gli antichi Arabi, avevano raffigurato nel cielo un immenso leone comprendendo varie costellazioni: iniziava con gli astri dei Gemelli, continuava col Cancro, l'attuale Leone e la Vergine per concludersi con la Bilancia mentre a nord comprendeva l'Orsa maggiore e a sud l'Idra. A quell'immensa raffigurazione avevano dato il nome di Assad: il Leone. Un'altra versione del mito, probabilmente di origine babilonese, ripresa poi nella classicità greco-latina, ricollega la costellazione alla storia di Piramo e Tisbe. Essi erano due innamorati, contrastati dai rispettivi genitori. I giovani erano soliti parlarsi grazie ad una sottile fessura nel muro che divideva le loro due case, ed incontrarsi di nascosto in luoghi fuori mano. Uno di questi posti era la tomba di Nino, dove cresceva una pianta di gelso, dai candidi frutti, che si specchiava in una fonte. Un giorno Tisbe giunse per prima e sedette sotto la pianta di gelso, in attesa di Piramo, ma vide una leonessa, con le fauci schiumanti di sangue per la strage di un armento, avvicinarsi alla vicina fonte. Nel vederla, Tisbe si diede alla fuga, perdendo il suo velo dalle spalle. La belva, placata la sete, mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra il velo e lo stracciò con le fauci sporche di sangue. Piramo, giunto sul luogo dell'appuntamento, scorse per prima cosa le orme della belva, e poi il noto velo macchiato di sangue; pensò subito che la sua adorata fosse stata sbranata, e, disperato, per l'insopportabile dolore, si trafisse con la sua spada, macchiando di sangue le bacche di gelso. Più tardi, quando Tisbe tornò alla tomba di Nino, sgomenta alla vista del cadavere dell'amato, si trafisse anch'essa con la medesima arma. Da allora Piramo fu innalzato in cielo nella costellazione del Leone, ed i frutti del
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gelso diventarono di colore rosso vivo per tutto il sangue versato. Le ceneri dei due amanti furono riunite nella stessa urna. Anche nella mitologia sumerica si riscontra una versione del tutto analoga a quest'ultima: il mostro ucciso è Khumbaba; l'uccisore è Gilgamesh, l'eroe mesopotamico che vive mille avventure nell'impossibile sforzo di conquistare l'immortalità.
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Quasar 3C273
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Galassia ellittica M60 e spirale barrata NGC 4647
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Galassia spirale M90
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Galassia Ellittica M87
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Ammasso galattico
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Costellazione di primavera. Alfa, o Spica (m = 1.2) è una variabile ad eclisse con un periodo di 4 giorni. Beta è Zavijava, in arabo “angolo”, ha m = 3.8. Gamma è Porrima, con m = 2.8; è una stella doppia con periodo di circa 170 anni. Epsilon è Vindemiatrix, che al suo sorgere indicava ai romani il tempo migliore per la vendemmia; ha m = 2.8. Nella costellazione della Vergine osserviamo il primo “Quasar” (Oggetto Quasi Stellare) scoperto, 3C273. Annoverato tra i corpi celesti più splendenti dell'universo, ha una magnitudine apparente m = 12.5 ed una magnitudine assoluta M = -25; questo ci dice che la sua distanza è di circa due miliardi di anni luce: è in realtà una galassia in formazione agli inizi stessi della formazione delle galassie. La costellazione della Vergine contiene anche uno degli ammassi di galassie più ricco che si possa trovare: l'ammasso Chioma-Vergine, in parte contenuto nella Chioma di Berenice. È una costellazione del cielo primaverile e raffigura la figlia di Giove e Temi, Dike, la giustizia, anch'essa venerata come la dea dei magistrati. Alcuni mitologi, invece, sostengono che Dike sia nata dall'amore di Astreo, il cielo stellato, l'antico padre delle stelle, e di Eos, l'Aurora (alcuni dicono che la madre fosse Temi) ed è per questo che essa viene citata anche col nome di Astrea. La sua immagine è unita al famoso mito delle “età” degli dèi. Nella prima età, quella più felice, l'età dell'Oro, era signore dell'universo Crono e in quella beatitudine Dike svolgeva il suo ruolo di dea dell'onestà ed imparzialità con semplicità e gioia: gli uomini vivevano in pace, in una perenne primavera,
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che spontaneamente donava loro il cibo e tutte le cose di cui necessitavano; essi, quindi, non conoscevano il dolore, la fatica, la sofferenza, la guerra e dunque gioivano della loro esistenza e ringraziavano e veneravano, per questo, le divinità che li guidavano con tanto amore e generosità. Racconta Arato nei Fenomeni che Dike “radunando gli anziani in piazza o su una larga via, cantava piena di ardore le leggi regolatrici del popolo”. Ma Zeus privò Crono del suo potere per cui anche sulla Terra ebbe inizio il secondo periodo: l'età dell'argento e questo comportò alcuni cambiamenti. Zeus, infatti, volle introdurre la periodicità delle stagioni e ciò ruppe l'incantesimo dell'eterna mite primavera che dovette lasciare il posto alla calura dell'estate ed ai rigori dell'inverno; inoltre si insediarono la discordia ed il disinteresse nei confronti degli dèi. Dike, con rammarico e rimpianto verso la precedente età, cercò rifugio sulle più alte montagne per allontanarsi dal degrado dell'umanità. La corruzione, la violenza ed il crimine furono al centro delle successive età: quella del bronzo e quella del ferro. Gli uomini divennero sempre più malvagi, costruirono le prime armi e cominciarono a cibarsi della carne di quei buoi che avevano arato i loro campi. Ormai anche l'esigua porzione di moralità che restava negli uomini aveva finito per essere completamente guastata dal susseguirsi di guerre, soprusi, violenze e malattie. Dike, non riuscendo più a porre rimedio a tanta perversione, disgustata ed afflitta, lasciò definitivamente la Terra e fuggì in cielo dove si tramutò in una costellazione (v. Prima Parte). Un altro mito ci dice che la Vergine simboleggia Demetra, la dea delle messi, dell'abbondanza terrestre, che insegnò agli uomini a costruire l'aratro ed ad arare i campi: è connessa con la maternità e con la fertilità della Terra. Prima di lei l'uomo era nomade, viveva di tuberi, piante e frutta; con lei si civilizzò, divise le terre, le dissodò, fondò le città. Demetra, figlia di Crono e Rea, fu amata da Zeus, suo fratello e gli generò una figlia: Proserpina. La fanciulla e le sue
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amiche erano solite recarsi sulle sponde del lago Pergo (vicino ad Enna, in Sicilia), dove si divertivano raccogliendo fiori. Ade era uscito dal suo regno per controllare le fondamenta della Sicilia a partire dal monte Erice, perché Tifone, il titano che aveva osato aspirare alle sedi degli dèi olimpici, si agitava dibattendosi per rialzarsi e sopra il capo aveva l'Etna da cui “erutta lava e vomita fiamme” (Met. V, 341), vide Proserpina e se ne invaghì subito, e col consenso di Zeus, la rapì e su un cocchio nero trainato da cavalli neri la portò negli Inferi. Tutto si svolse con la rapidità di un fulmine. Intanto Ciane, la ninfa amica di Proserpina, invano aveva osato opporsi al rapimento: «Genero di Cerere (Demetra) non puoi essere, se lei non acconsente: chiederla tu dovevi, non rapirla.» (Met. V, 415 sgg.). Addolorata pianse tanto da tramutarsi in fonte. Intanto Demetra, non vedendo tornare la figlia, la cercò per monti e valli, di notte di giorno, senza mai mangiare o bere. Cercò aiuto presso l'Orsa Maggiore: essa era sempre presente in cielo e poteva osservare tutto ciò che accadeva sulla Terra e quindi essere al corrente di ogni evento. L'Orsa, però, non poté aiutare la dea in quanto Persefone era scomparsa durante il giorno, quando l'Orsa era impegnata altrove (l'Orsa era allora da altre parti del cielo). La dea era sfinita dalla fatica e dalla sete quando vide una capanna di paglia. Al suo bussare «ne esce una vecchia che, vedendola implorare un sorso d'acqua, le porse una bevanda dolce insaporita con orzo tostato. Mentre beveva quel dono, un ragazzo sfacciato e insolente le si fermò davanti, scoppiò a ridere e la chiamò ingorda. Si offese la dea e, senza terminare di bere, gli gettò in faccia, mentre parla, il liquido con l'orzo»(ivi), mutando il suo corpo in quello costellato di chiazze di un geco. Nella sua disperazione privò la Terra della fertilità, particolarmente dei cereali, che aveva donato agli uomini in segno di affetto. Oramai stanca ed avvilita, incontrò la nereide Aretusa, da cui apprese che Proserpina era sposa di Ade e quindi potente signora del regno dei morti.
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Scossa dal dolore, Demetra volò verso Zeus su un cocchio aggiogato a due serpenti alati e gli chiese di usare il suo potere perché la figlia ritornasse da lei nel mondo dei vivi, minacciando, altrimenti, di aggravare il suo castigo già in atto, colpendo questa volta l'intera Terra con un inverno così rigido da sterminare tutta l'umanità. Zeus, temendo la potenza di Demetra, per placarne l'ira, chiese al fratello Ade di restituire Proserpina alla madre, e lo informò del terribile castigo che l'irata dea avrebbe inflitto all'umanità in caso di un suo rifiuto. Il dio degli inferi si disperava: ormai amava Proserpina e non voleva perderla; tuttavia doveva ubbidire a Zeus. Ade le chiese allora con triste dolcezza se desiderasse tornare sulla Terra e lei gli rispose di sì. Pur incapace di provare sentimenti di pietà, Ade, con parole tenere e consolanti, soggiunse “non pretendo che resti qui con me, ti lascio andare da tua madre”. Stupita dell'amore che Ade le manifestava, gli chiese se le volesse veramente bene. La risposta di Ade fu “si” e continuò «sono certo che anche tu me ne vorrai un giorno, quando mi conoscerai meglio» (ivi) e le propose di trascorrere sei mesi sulla terra e sei mesi negli Inferi. Intanto Demetra, instancabile, continuava ad andare peregrinando per le vie del mondo alla ricerca disperata della figlia. Consigliata da Helios, si recò in Grecia, ad Eleusi, dove si presentò, sotto le mentite spoglie di una vecchia pellegrina, al re Celeo ed alla regina Metanira: qui trovò grazia agli occhi dei sovrani. L'accoglienza fu benevola ed in particolare Metanira rivolse alla sconosciuta parole degne di umana regalità. La risposta della “vecchia” Demetra fu ricca di gratitudine. Per l'intervento di Zeus, Proserpina risalì sulla Terra, si recò ad Eleusi dove incontrò la madre: entrambe felici celebrarono riti di ringraziamento nel tempio della città. Da allora, in autunno, il popolo di Eleusi ricordava i “Misteri di Eleusi” per onorare Demetra e Proserpina: Demetra, donatrice del grano; Proserpina, propiziatrice della fertilità della Terra per il suo ritorno dall'Ade. Il mito di Proserpina racconta poeticamente l'alternarsi
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delle stagioni. Proserpina, contesa tra lo sposo e la madre, quando trascorre i sei mesi negli Inferi, induce in Demetra la disperazione e pertanto sulla Terra regnano l'autunno e l'inverno. Quando torna dalla madre la predispone al sorriso e così la natura, diventando gioiosa come il cuore della dea, manifesta la sua allegria con la primavera e l'estate. Nella Vergine furono adombrate anche la dea Artemide e la Sibilla Cumana nell'atto di discendere agli Inferi. Eudosso, a sua volta, vi rappresentò la dea Astrea, mentre risaliva sull'Olimpo, dopo aver donato ai mortali la bilancia della Giustizia. Da sempre la figura disegnata da queste stelle è quella di una donna che tiene in mano una spiga di grano, la stella Spica. Questa figura femminile governava il raccolto dell'orzo e del grano e, a qualunque latitudine, è possibile ritrovarla nelle culture agricole. L'universalità di tale concetto fa riferimento al periodo della nascita dell'agricoltura, attorno al 6000 a.C., quando i rudimenti dell'agricoltura si affermavano nella storia dell'uomo con la rivoluzione neolitica. Nelle prime descrizioni appare come una dea. Era Kanya, madre di Krishna in India, Nana, la dea della vita e della natura presso i Sumeri, specialmente nella città di Uruk in Mesopotamia, Ishtar, dea della vegetazione, a Babilonia, e la sassone Eostre, da cui deriva Easter, la parola inglese per Pasqua. Prima dell'idea del dio creatore maschio, esisteva lei, la Grande Madre Terra, creatrice di tutto, simbolo della legge e del potere della procreazione. Secondo una tradizione egizia, la costellazione della Vergine rappresenta Iside, sorella e moglie di Osiride, che combatté per ricostruire il corpo di Osiride, al fianco del figlio Horo, quando Seth lo dilaniò (Vedi Orione). È lei, con fasci di grano maturo fra le braccia, nell'atto di spargere a piene mani chicchi di frumento per questa vasta zona di cielo, immenso cam-
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po seminato: la Via Lattea. Il tempio fatto costruire da Tolomeo III ad Assuan è dedicato alla figura guerriera di Iside, che si ripromette di rendere tranquillo l'Egitto per il figlio Horo. Solo tra il 530 ed il 540, i Blemmi, popolazione nomade del sud-est dell'Egitto, tra il Nilo ed il Mar Rosso, convertita al cristianesimo, ottennero, da parte di Giustiniano, la chiusura del tempio di Iside sull'isola di File. Ma il culto di Iside suscitò un notevole interesse anche al di fuori dei confini dell'Egitto, diffondendosi in ogni parte del mondo Mediterraneo nel corso del periodo romano ed esercitando una duratura influenza sull'arte e la letteratura. Per quanto riguarda l'Egitto di possono notare cose abbastanza notevoli. Ad esempio nella città di Kerkeosiris, con 1500 abitanti, nel II secolo a.C., vi erano tredici templi dedicati a divinità egizie e di questi ben due erano dedicati al culto di Iside, anche se tre lo erano a Toth. Iside era rappresentata anche come una dea nera (la Luna), con in braccio Horus bambino. Nel bassorilievo di Dendera, nella posizione della costellazione della Vergine, appaiono due figure
femminili, una in piedi con in mano una spiga di grano e
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l'altra seduta con un bambino in braccio. La stella Spica era inoltre legata al culto di Min, dio arcaico della fertilità solitamente rappresentato come un uomo dal membro eretto ed un copricapo con due lunghe piume. Nel corso delle celebrazioni a lui dedicate, i sacerdoti portavano in processione piante sacre e il faraone gli offriva il primo fascio di grano. Successivamente il suo culto fu integrato al culto di Horus, il cui tempio a Tebe era orientato verso Spica. Nel racconto di uno dei miti babilonesi, nella Vergine è rappresentata Ishtar; la dea si innamorò di Tammuz, un giovane che fu ferito mortalmente da un cinghiale durante il solstizio estivo. Ishtar, inconsolabile per la perdita prematura del suo amante, era discesa nel regno dei morti per convincere Ereshkigal, sua sorella e regina degli inferi, a restituirle Tammuz, ma, in risposta, venne incatenata. Durante la sua prigionia, sulla Terra il mondo vegetale smise di procreare mettendo in pericolo la vita di uomini e animali, finché intervenne Ea, il signore degli dèi, che ordinò a Ereshkigal la liberazione di Ishtar e di Tammuz. In seguito Ishtar venne considerata prevalentemente la dea dell'amore, che non poteva essere soddisfatta nemmeno da centoventi amanti: era la dea dell'amore che attira l'uomo verso la donna ed in onore della quale si praticava la sacra prostituzione. I nomadi del deserto chiamavano Spica “al Simak al Azal”, la solitaria indifesa, contrapposta ad Arturo, il solitario armato. I primi cristiani la identificarono, ovviamente, con Maria.
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Ammasso Globulare NGC 5897
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Galassia irregolare 5792
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È una costellazione visibile in primavera. Alfa, di nome Zuben el Genubi, nota come la “chela meridionale” dello Scorpione, è una stella doppia con m1 = 5.2 e m2 = 2.8, ma non è la stella più brillante della costellazione. Lo è invece Beta o Zuben el Schamali, la “chela settentrionale” dello Scorpione, con m = 2.6. Questi nomi ci ricordano che nel passato la costellazione non esisteva, perché era compresa nello Scorpione. Delta è una variabile ad eclisse e l'oscillazione avviene tra le magnitudini 4.9 e 5.9 in circa 2.3 giorni. Le stelle Alfa e Beta individuano i piatti in equilibrio dello strumento. Conosciuta fin dai Sumeri come “Bilancia del cielo”, fu chiamata dai Greci “Chele dello Scorpione”, di cui la consideravano una continuazione; fu anche identificata con Mochis, l'inventore dei pesi e delle misure. Considerata successivamente costellazione autonoma, la Bilancia divenne simbolo del concetto di equilibrio, anche in considerazione del fatto che circa 2000 anni fa il Sole, entrando in essa, indicava l'equinozio autunnale: stessa durata del giorno e della notte. Questa è l'unica costellazione zodiacale che rappresenta un oggetto inanimato, mentre tutte le altre si riferiscono a persone o animali. Come si accennava prima, è stata ricavata, in un momento successivo, dalla costellazione dello Scorpione al quale furono “tagliate” le chele appunto per formarla. Dell'antica unione dei due gruppi stellari rimane la testimonianza data dal nome delle due stelle principali della bilancia: quella più brillante, Beta Librae, situata su uno dei due bracci, si chiama Zuben el Genubi che in arabo significa “la chela a sud”, mentre Alfa Librae, sull'altro braccio, si chiama Zuben
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el Schamali cioè “la chela a nord”. Per i Romani questa costellazione era molto importante, perché secondo la leggenda Roma era stata fondata proprio mentre la Luna transitava in quella porzione di cielo. Nella mitologia greca, una volta accettata l'esistenza della Bilancia, essa è stata anche legata ad alcune leggende. Una è legata al mito di Dioniso, che decise di far conoscere agli uomini il vino e ne portò loro in dono una quantità. La prima tappa fu Atene dove fu ospitato da Icario; qui si innamorò di sua figlia Erigone dalla quale ebbe anche un figlio, Stàfilo. Nonostante questa nuova paternità, Dioniso decise di proseguire il viaggio per far partecipi anche gli altri uomini del suo dono, il vino. Partì quindi da Atene, ma per riconoscenza lasciò ad Icario un grosso otre contenente un vino speciale tratto da viti sacre. Icario, orgoglioso di quel nettare particolare, volle farne assaporare una coppa ai suoi pastori come segno della sua stima e come ringraziamento per i loro servigi; costoro ne bevvero, ma alterati dalle proprietà inebrianti del vino, credendo che lo stato di ebbrezza che li aveva colti fosse opera di un avvelenamento, uccisero il loro ospite e fuggirono via dalla casa. Erigone, tornata dagli svaghi per i campi col figlioletto Stàfilo, trovò il cadavere del padre e si disperò a tal punto che, dopo aver chiesto a Dioniso vendetta per l'accaduto, si tolse a sua volta la vita impiccandosi ad un albero. Dioniso, impietosito, accolse la sua preghiera e affinché non restasse sola in quella disperazione, sconvolse la mente delle fanciulle ateniesi che una dopo l'altra si impiccarono. Gli Ateniesi, per far cessare questi ingiusti quanto inutili suicidi, consultarono l'oracolo di Delfi, che rispose che la follia delle fanciulle sarebbe terminata allorquando fossero stati puniti gli assassini di Icario. Ricercati e giustiziati i pastori che compirono il triste gesto, la maledizione cessò e ad Atene furono istituiti grandi festeggiamenti in onore di Erigone durante i quali, per ricordare la sua terribile morte, le fanciulle della città si dondolava-
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no appese ai rami degli alberi. Successivamente le fanciulle vennero sostituite da piccole maschere di cera o di terracotta. La costellazione della Bilancia fu immaginata, invece, dai Romani per celebrare la giustizia di Augusto nei confronti degli uccisori di Cesare. Alcuni, però, adombrarono nella costellazione lo stesso Giulio Cesare nell'atto di sorreggere i piatti della bilancia, simboleggiante saggezza e giustizia. Cesare, infatti, è considerato da Ovidio (Met. XV. 745 sgg.) un personaggio « eccelso in guerra, eccelso in pace, non tanto per guerre trionfali, per opere compiute in patria o la fulminea gloria che ne ottenne, ma in grazia della sua progenie fu mutato in nuovo astro, in stella cometa. Fra le gesta di Cesare nessuna infatti è maggiore dell'essere stato padre di Ottaviano. Aver domato i Britanni circondati dal mare, aver spinto a vittoria le navi nelle sette foci del Nilo dove cresce il papiro, aver soggiogato al popolo di Quirino i Numidi ribelli, Giuba re del Cinipe e il Ponto arrogante per la fama dei Mitridati, aver meritato tanti trionfi ed averne celebrati alcuni, tutto ciò vale forse di più dell'aver generato un uomo così grande? Dandogli il governo del mondo, o celesti, avete più che favorito il genere umano. Ma perché Augusto non fosse disceso da stirpe mortale, Cesare dio doveva essere fatto ».
Quando Venere, madre di Enea, e quindi progenitrice di Dardano e “della Giulia Gente” (Foscolo, I Sepolcri), si accorse dell'insidia che si stava tramando con l'attentato a Cesare, si rivolse agli altri dèi per cercare di evitarlo. Lo stesso Giove, però, le mostra il futuro deciso dalle Parche: il tempo dato a Cesare è finito, e il figlio Ottaviano Augusto non solo vendicherà l'assassinio del padre, ma, aiutato dagli stessi dèi, giungerà ad ottenere la pace nel mondo, a regolare la vita civile, ad “emanare leggi giustissime”. E Cesare stesso sarà posto in cielo, anche in attesa di Augusto. Nelle Bucoliche (IV 4-10), Virgilio scrive che: « È giunta l'ultima età dell'oracolo cumano:
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nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. Già torna la Vergine e torna il regno di Saturno, già la novella prole discende dall'alto del cielo. Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell'oro: già regna il tuo Apollo »,
Il divino fanciullo, su cui molto si è discusso, porterà l'impero della pace e della prosperità. Augusto, nel sesto libro dell'Eneide, sarà predestinato allo stesso compito. « Ecco l'uomo, ecco è questo che spesso ti senti promettere, l'Augusto Cesare, il figlio di Dio, che aprirà di nuovo [...] il secolo d'oro »
(Eneide, VI 791-793) Virgilio abbraccia quindi la tesi che vede le età dell'uomo come periodi di tempo che ciclicamente ritornano. L'idea di equilibrio diviene, per i Romani, ideale di giustizia: i piatti della Bilancia sono retti da Dike, dea della giustizia associata alla vicina costellazione della Vergine.
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SCORPIONE
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Scorpione
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Nebulosa Planetaria NGC6337
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Ammasso Globulare M4
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Nebulosa M6
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Nebulosa NGC6302
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Nebulosa NGC 6334
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Hevelius
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Costellazione zodiacale estiva. La stella Alfa è Antares, cioè rivale di Marte (Ares in greco), a causa del suo colore rosso; ha m = 1. Nelle sue vicinanze ci sono Sigma, con m = 3, e Tau, con m = 2.8. Beta è Akrab, con m = 2.6 e Delta, Dschubba, con m = 2.3 verso nord-ovest. Verso sud-est si vedono Mi, con m = 4, Teta, Sargas o il “Feritore”, con m = 1.8 e Ni, di nome Lesati, con m = 2.7. Nella costellazione dello Scorpione ci sono molti ammassi stellari e nebulose. Gli antichi greci videro nella costellazione dello Scorpione l'animale dal pungiglione velenoso che uccise Orione. Come già accennato (v. Orione), Artemide, figlia di Zeus e Latona, mentre da sola percorreva i monti dell'Arcadia, incontrò Orione ed invitò il bellissimo e gigantesco giovane, che faceva parte della sua corte, a cacciare in sua compagnia. Apollo, gemello di Artemide, nutriva rancore e gelosia per Orione che, amato anche da Eos (l'Aurora), l'aveva sedotta. Da allora Eos “arrossisce” ogni mattina a causa della violenza subita. Eos, dea dell'Aurora, sorella di Helios (Sole) e di Selene (Luna), aveva il compito di precedere il Sole con il suo cocchio tirato da due agili, vivaci, scalpitanti cavalli, Lampo e Fetonte. In realtà Eos non ha molte ragioni di arrossire, perché la sua vita è costellata di amori. Oltre che di Orione, s'innamorò di Cefalo e di Titono da cui ebbe due figli, Emazione e Memnone. Quest'ultimo regnò sugli Etiopi e morì a Troia combattendo contro Achille. Eos aveva ottenuto da Zeus che Titono diventasse immortale, ma aveva omesso di chiedere per lui l'eterna giovinezza. Così Titono, invecchiando, fu prostrato da infermità ed alla fi-
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ne perse l'aspetto umano e diventò una cicala tutta rinsecchita. Apollo, tremendo nelle sue vendette, si recò da Gea, la Madre Terra e le parlò del cacciatore Orione come dell'uomo che sterminava tutti gli animali che incontrava, solo per gusto di uccidere: lo presentò arrogante, tracotante e disumano. Allora Gea, sdegnata per tanta malvagità, si vendicò inviando contro il cacciatore uno scorpione invulnerabile in grado di iniettare col suo pungiglione un veleno mortale. Lo Scorpione si scatenò contro Orione che si difese con frecce e spada, ma subito si rese conto che il piccolo, apparentemente innocuo, animale era invulnerabile. Orione intuì il pericolo mortale che stava correndo e cercò la salvezza tuffandosi nel mare: a nuoto intendeva raggiungere l'isola di Delo e là chiedere protezione ad Eos, in nome del loro passato amore. Intanto Apollo indicò ad Artemide quel nuotatore che, con forti e potenti bracciate, fuggiva lontano dicendole che era Candaone, il giovane malvagio che aveva appena sedotto la sua sacerdotessa Opide: la sfidò allora a colpirlo con una sola freccia. La dea, sicura di riuscire vincitrice, accettò la sfida e scoccò la freccia mortale che colpì il giovane; si tuffò in mare, lo raggiunse e subito avvertì un brivido di orrore: scorse, nel volto senza vita di quel giovane, il cacciatore Orione, che ammirava e proteggeva. Artemide, piena d'ira, volle vendicarsi; accusò il fratello di averla ingannata, ma Apollo le ribatté di aver detto la verità circa il nome del giovane: Candaone era il nome con cui Orione era conosciuto in Beozia. Artemide non si dette per vinta e tentò di salvare Orione invocando l'aiuto di Asclepio: la dea gli chiese di restituire la vita al giovane ed Asclepio era già pronto ad esaudire la preghiera della dea quando Zeus, timoroso della fama acquistata dal medico, ormai rivale della morte, colpì Asclepio con la folgore, sua arma micidiale. Artemide, allora, trasferì Orione sulla sfera celeste e lo immortalò trasformandolo nella più bella costellazione del cielo; e per ricordare agli uomini quali conseguenze nefaste può produrre l'inganno, fissò sul firmamento anche lo Scorpione, l'aggressivo inseguitore di Orione (v.
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Orione). Ancora oggi l'inseguimento continua e si perpetuerà nei secoli, poiché la rotazione apparente della sfera celeste ci mostra che quando Orione tramonta, lo Scorpione sorge. In origine, lo Scorpione includeva anche la Bilancia, che solo successivamente è stata considerata una costellazione a sé stante. A testimonianza della sua antichissima notorietà siderale, la costellazione dello Scorpione compare nello Zodiaco di Dendera. Anche gli Arabi vi scorsero l'immagine del terribile animale, mentre per gli Ebrei si trattava di Dan, emblema tribale rappresentato da un basilisco incoronato. I Cinesi, invece, la definirono “la costellazione del Drago Azzurro”. Nelle terre della Mesopotamia la ritroviamo raffigurata su alcuni sigilli sotto l'aspetto di un essere mostruoso, metà uomo e metà scorpione. Nella tradizione Maori, la costellazione dello Scorpione rappresenta l'amo da pesca utilizzato dal leggendario eroe Maui. Maui era un dio truffaldino, che non valeva molto come pescatore. I fratelli lo irridevano quando si lasciava scappare una grossa preda. Maui, però, si vendicava convincendoli con l'inganno a lasciar andare i pesci che avevano preso all'amo. Gli antenati di Maui gli avevano dato un amo magico, che lui sapeva dovesse però essere usato solo per motivi importanti, e perciò non lo utilizzava mai per la pesca quotidiana. Un giorno, i fratelli di Maui tornarono da una giornata di pesca con un bottino molto scarso, e Maui si vantò che avrebbe potuto fare assai meglio di loro. L'indomani, i fratelli lo portarono con la loro canoa in una zona molto pescosa e lo canzonavano per la sua incapacità come pescatore. Maui,
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stufo di essere preso in giro, decise che era il momento di reagire: legò l'amo magico alla lenza e gli mise come esca l'ala di un uccello sacro a sua madre, la dea Hina. Lanciò quindi la lenza il più lontano possibile, ben al di là dell'orizzonte e l'amo toccò l'acqua e scese in profondità. Non era passato molto tempo quando Maui si accorse di aver catturato qualcosa di grosso: la superficie del mare cominciò a sollevarsi, mentre onde gigantesche si infrangevano sopra la canoa. Maui chiese ai fratelli, che se stavano cercando di evitare che la canoa si capovolgesse, di aiutarlo a trascinare a bordo l'enorme pesce; per due interi giorni si diedero da fare per mantenere tesa la lenza, ed alla fine il pesce gigante uscì dall'acqua, spaventandoli tutti. Maui avvertì i fratelli di non guardarsi indietro, perché altrimenti avrebbero perso pesce e canoa. Ma non si trattava di un pesce comune: era più grande di un'isola. Per un solo attimo uno dei fratelli si voltò a guardarlo: ne fu così terrorizzato che lasciò allentare la lenza, spezzandola. Il pesce gigante fuggì e si andò a scontrare contro la terraferma. Si formò così la catena di isole delle Hawaii. L'amo magico fu scagliato in cielo e lì si bloccò nella costellazione dello Scorpione. (Stelle). Un mito di Tahiti racconta che un ragazzo di nome Pipiri aveva una sorella, Rehua. Una notte, dopo che i ragazzi furono andati a dormire, i genitori uscirono a pescare alla luce delle torce. Dopo aver catturato un buon bottino, tornarono e cominciarono ad arrostire qualche pesce per fare uno spuntino. L'odore del pesce arrosto svegliò i ragazzi, i quali però, essendo beneducati, attesero a letto finché non fossero stati chiamati. La madre voleva farlo, mentre il padre riteneva che sarebbe stato meglio se avessero continuato a dormire. Perciò disse alla moglie di non svegliarli. I fratelli udirono la conversazione dei genitori e restarono delusi di non poter partecipare al pasto; con lo stomaco che brontolava e feriti nei sentimenti, essi decisero di fuggire e scivolarono via senza far rumore. Quando i genitori ebbero finito, la madre andò a controllarli, si accorse che mancavano e, dopo aver avvertito il padre, iniziarono le ricerche chiamandoli a gran voce. I ragazzi sentivano i ri-
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chiami, ma non volevano tornare perché erano arrabbiati e delusi, anzi si fecero dare un passaggio da un cervo volante che li portò in alto nel cielo: divennero cosi le ultime due stelle dell'uncino dell'amo di Maui, nella costellazione dello Scorpione. Il cervo volante diventò la stella Antares. (Stelle).
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SAGITTARIO
Sagittario
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Sagittario
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Nebulosa M17, Omega
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Nebulose M8, Laguna ed M20, Trifide
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Galassia M105
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Ammasso globulare M22
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Nova del 2005
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Nebulosa M24
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Hevelius
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Questa è una costellazione zodiacale estiva. È immersa nella regione centrale della Via Lattea. In particolare, nella direzione della radiosorgente Sgr A, c'è il centro galattico, individuato come il baricentro dell'insieme degli ammassi globulari della nostra Galassia. Alfa è nota come Al Rami, l'”Arciere” o Rukbat, il “ginocchio”, ma non è la più brillante della costellazione: ha m = 4.1. Beta, Urkab, il “tendine” dell'arciere, è una doppia apparente ed ha m = 4.2. Anche Gamma è una doppia apparente; una delle sue componenti è una variabile di periodo 7.5 giorni, che oscilla tra le magnitudini 4.3 e 5.1; l'altra, Nash, la “punta della freccia”, ha m = 3. La più brillante della costellazione è Epsilon, Kaus Australe, che significa in arabo ”l'arco inferiore”, con m = 1.8. Note sono anche Sigma, Nunki, con m = 2.1 e Zeta, Shaula, l'”Ascella”, con m = 2.7. Nel Sagittario sono visibili molti oggetti come nebulose, galassie, nove ed altri (Sgr A). Un mito racconta che nella costellazione del Sagittario è eternato il satiro Croto, figlio del dio Pan e di Eufemia, nutrice delle Muse. I Satiri, raffigurati dal mito come creature grottesche, sono uomini con orecchie, coda, piedi e corna di capra. I loro attributi sono il tirso, il flauto e degli otri pieni di vino. Sono dispettosi, impudenti, rozzi e selvatici; non sanno fare altro che infastidire le ninfe, intimorire i pastori e disperdere le loro greggi. E Croto è satiro, abile cavaliere, cacciatore impareggiabile ed anche inventore dell'arco. Noto per la sua destrezza d'arciere a cavallo, sa scoccare le frecce con micidiale precisione anche all'indietro mentre cavalca. Ma passa anche giornate
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per i campi e le colline del monte Elicona, dove vive con le Muse. Con vera maestria scova selvaggina: cervi, gazzelle e capre. Croto conosce a fondo l'arte della caccia: si tiene nascosto dietro un cespuglio o segue le tracce della preda; si avvicina ad essa di soppiatto con la freccia affilata e già pronta ad essere lanciata dall'arco, la coglie di sorpresa, l'abbatte, se la carica poi sulle spalle: è il suo dono alle Muse. Croto è il preferito delle Muse, a tal punto estimatrici entusiaste della sua diligenza e del suo ingegno da chiedere a Zeus, loro padre, di incastonarlo sul firmamento, perché gli uomini ricordino che diligenza, ingegno e rispetto sono doni preziosi. Zeus le accontenta, anzi fa di più; sintetizza in una sola immagine le qualità di Croto: gli attribuisce gambe da cavallo, perché è un ottimo cavaliere, gli disegna la coda, perché è un satiro e gli pone nelle mani arco e frecce, perché è abile nella caccia. C'è un altro racconto mitologico che associa questa costellazione a Chirone, il saggio centauro che fu tutore di Giasone, di Achille e di molti altri: fu Chirone stesso ad introdurre la costellazione del Sagittario per guidare gli Argonauti nella loro ricerca del Vello d'Oro. Insegnò ad Asclepio l'arte della medicina. Fu anche il tutore di Eracle, e proprio quest'ultimo ne causò la morte ferendolo per errore con una freccia durante lo scontro con l'Idra (v. Eracle). Chirone è inoltre citato spesso in queste pagine, essendo tutore di molti eroi (v. ad esempio Ofiuco, Aquila ed Ariete, oltre alla Prima Parte). Altre testimonianze sulla costellazione del Sagittario le troviamo presso gli Ebrei, i Babilonesi, gli Arabi. Presso gli Ebrei la costellazione del Sagittario ricordava il simbolo tribale dell'arco di Manasseh, ai Babilonesi richiamava il re gigante della guerra, agli Arabi evocava una mandria di struzzi all'abbeveratoio insieme al loro custode
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Capricorno
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Galassia NGC 6907
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Galassia spirale NGC 6907
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Costellazione autunnale. La stella più luminosa della costellazione è Delta, con m = 2.9, chiamata Deneb Algedi, cioè “la coda della capra”. È una variabile ad eclisse che, con un periodo di poco più di un giorno, muta la magnitudine tra 2.8 e 3.1. Alfa è Algedi (che significa “capra”), sistema doppio con m = 4.2 ed m = 3.6, troppo distanti tra loro per essere gravitazionalmente legate. Entrambe sono a loro volta doppie. Anche Beta, Dabih, con m = 3.1, è una stella doppia. I miti della costellazione del Capricorno più noti sono quelli legati al dio Pan, figlio di Ermes e di Driope (o, secondo alcuni di Penelope), e sono molto antichi: Eudosso cita la costellazione nel IV sec. a.C., ma già i Caldei ne parlavano e la disegnavano sotto forma di Capra. La giovane Driope, figlia unica del re Driope, fu vista da Apollo che, invaghitosi di lei, si trasformò in tartaruga. Driope stava giocando con le Amadriadi, ninfe degli alberi, e cominciò a lanciare la tartaruga come una palla e poi la accolse sulle sue ginocchia. Subito il dio si trasformò in un serpente e la violentò. Spaventata, Driope tornò a casa e non disse niente ai genitori. Poi sposò Andremone, figlio di Ossilo e non tardò a dare alla luce un figlio, Anfisso. Un giorno le Amadriadi, sue antiche compagne, per amicizia la rapirono e ne fecero una di loro. Nel luogo del rapimento s'innalzò un grande pioppo e scaturì una sorgente. Pan era un dio campestre dalle sembianze di capra e con un carattere allegro e dissoluto. Molte sono le gesta amatorie del nume e quella a cui si fa riferimento in questa storia è il tentativo di adescamento della bella ninfa Siringa, seguace di Afrodite. Pan volle conquistare l'amore della fanciulla ma questa, quando vide il suo corteggiatore con il capo adornato da un paio di corna piuttosto vistose e con il resto del corpo simile a
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quello di una capra con i piedi forniti di zoccoli poderosi, spaventata fuggì dirigendosi nei pressi di una palude ai piedi del monte Liceo e giunse fino alle sponde del fiume Ladone; vedendosi raggiunta da Pan che la inseguiva galoppando, invocò le Naiadi affinché la salvassero da quell'amante non desiderato. Le Naiadi erano le ninfe acquatiche, di grande longevità ma mortali. (Si racconta che la Naiade Aretusa un giorno, in Elide, incontrò Alfeo, dio del fiume nel quale si stava bagnando, ed il dio voleva violentarla. Ella supplicò Artemide, di cui era compagna, e questa la circondò con una nuvola e la tramutò in una fonte. Gea allora si spalancò per evitare che il dio mescolasse le proprie acque a quelle della fonte Aretusa e riuscisse così ad unirsi a lei sotto questa nuova forma. Guidata da Artemide, Aretusa percorse vie sotterranee e giunse nell'isola di Ortigia, in Sicilia presso Siracusa, dove poté sgorgare liberamente.) Le Naiadi prontamente tramutarono Siringa in un fascio di canne palustri e Pan, che pensava di aver raggiunto la ninfa, nel momento in cui l'abbracciò si trovò a stringere una fascina di verghe che mosse dal vento mandavano una strana, seducente melodia campestre. Pan, questa volta, non era mosso da puro senso di conquista, ma provava vero amore per quella giovane che invece non aveva voluto saperne dei suoi sentimenti: allora sia per tenere sempre vicino a sé una parte dell'amata, sia perché affascinato da quella musica che gli ricordava il suo regno formato da campi, poggi, corsi d'acqua e boschi profumati, tagliò quelle canne in parti di diversa lunghezza; le legò assieme ricavandone uno strumento musicale a fiato che emetteva un suono delicato ed armonioso; chiamò quel piccolo strumento musicale Siringa, come quella fanciulla che gli aveva rapito il cuore. Pan ebbe il suo maggior successo amoroso nel sedurre Selene, e ci riuscì mascherando il pelo del suo corpo di capra sotto un mantello bianco. Selene non lo riconobbe ed acconsentì a salirgli in groppa: poi lasciò che egli godesse di lei a suo piacimento.
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Ma l'assunzione di Pan fra gli astri è conseguenza di una sua eroica impresa compiuta in favore di Zeus. Nella lotta che gli dèi dell'Olimpo combatterono contro i Titani per la supremazia del potere celeste, alla vittoria degli dèi, per vendetta Gea generò un orrendo essere, Tifone, che istigò contro gli dèi stessi. Zeus, incitato da Atena, affrontò il mostro, gli scagliò contro i suoi fulmini divini stordendolo, poi lo colpì con un falcetto di diamante. Tifone sembrava ormai vinto, ma quando Zeus gli si avvicinò per dargli il colpo di grazia, con un balzo improvviso atterrò il dio, con lo stesso falcetto gli recise i tendini delle mani e dei piedi e li affidò alla sorella Dèlfine affinché ne facesse la guardia; poi trascinò il nume nell'antro di Corico, in Cilicia, incatenandolo. Pan, che aveva seguito tutto non visto, per portare aiuto a Zeus, fece un improvviso balzo urlando davanti a Dèlfine che, presa dal “panico”, fuggì lasciando incustoditi i tendini di Zeus. Ermes, prontamente, li recuperò, li restituì a Zeus e lo liberò dalle catene: immediatamente il dio affrontò Tifone e sorprendendolo lo ferì, quindi lo seppellì sotto il vulcano Etna che, da quella volta, cominciò ad eruttare lava, cenere e lapilli con soffi e boati indescrivibili. Zeus volle esternare la sua riconoscenza a Pan e lo portò fra le stelle conservandogli l'aspetto di capro ma con la parte inferiore del corpo a forma di pesce: ciò perché il Capricorno insieme ad altre costellazioni acquatiche come l'Acquario, i Pesci, la Balena, l'Idra e la Nave Argo, si mostrava agli antichi greci nelle prossimità del mare. I poeti ed i sacerdoti latini raccontano che gli dèi si erano radunati in Egitto quando apparve loro l'acerrimo nemico, il gigante Tifone. Impauriti, tutti cercarono di mimetizzarsi assumendo le forme degli animali più frequenti nella regione: Ermes si trasformò in ibis, Apollo in gru, Artemide in gatto e così via. Pan si immerse fino alla cintola nel Nilo, assumendo l'aspetto di caprone per la parte emergente del corpo e la forma di pesce per la parte sommersa. Zeus, una volta sconfitto Tifone, ammirato per questa tra-
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sformazione, disegnò nel cielo il Capricorno. Secondo un altro mito, Ermes si innamorò della ninfa Penelope, moglie di Ulisse, e ne nacque Pan, il dio dei boschi, del pascoli e dei pastori. Quando la bella Penelope vide il figlio appena nato rimase inorridita perché era di aspetto animalesco: aveva il corpo coperto da ruvido pelo, i denti simili a zanne, i piedi come zoccoli di capra e due corna sulla fronte, ma Ermes lo avvolse in una pelle di lepre e lo portò sull'Olimpo; lo pose presso Zeus e mostrò il figlio agli altri dèi, e tutti, vedendolo, furono contentissimi. Gli diedero il nome di Pan, poiché rallegrava il cuore di tutti. Altra tradizione, ma è sembrato opportuno nasconderla per quanto possibile, narra che Penelope, la moglie di Ulisse, voleva che tutti i Proci fossero suoi amanti, a turno o a gruppi, e che il prodotto di queste unioni multiple fosse stato il dio Pan. Pan sarebbe nato durante l'assenza di Ulisse, e questi, al suo ritorno, afflitto nel ritrovare la moglie infedele, sarebbe ripartito per nuove avventure. Pan crebbe consapevole del suo aspetto orripilante che provocava disagio, turbamento, paura e scelse di vivere isolato nelle lontane selve del monte Mènalo, in Arcadia, anche se in compagnia delle ninfe, splendide fanciulle: le ninfe erano divinità simboleggianti le forze della Natura nei suoi molteplici aspetti e così le Nereidi vivevano lungo i fiumi, le Naiadi vicino alle fonti, le Oreadi sui monti, le Aldeidi nei boschi… Le 50 Nereidi, gentili e benefiche assistenti della dea del mare Teti, sono sirene, figlie della ninfa Doride e di Nereo, un Titano marino con il potere della metamorfosi. Le leggiadre fanciulle, tuttavia, si tenevano lontano da Pan, già noto per le sue imprese erotiche con ninfe e baccanti, anche perché impaurite dal suo rozzo comportamento. Pan è una divinità dotata di una attività sessuale notevole. Insegue ninfe e giovani ragazzi con uguale passione. Aveva anche fama, quando la ricerca amorosa non aveva dato frutti, di
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cercare da solo la propria soddisfazione. Ancora un altro mito collega tutta la costellazione del Capricorno, invece che una sola stella, Capella della costellazione dell'Auriga, alla capra Amaltea, che allattò Zeus appena nato, prima che diventasse Signore dell'Universo (v. Prima Parte). Zeus non solo immortalò la capra, ma prese anche in prestito una delle sue corna e la diede alle figlie di Melisseo: il corno divenne così la Cornucopia, o corno dell'abbondanza, che traboccava di cibo e bevande non appena lo si desiderasse (Miti, v. peraltro Eracle ed Ariete). Nell'antichità il solstizio invernale cadeva in questo segno, per cui ancora oggi si dà il nome di Tropico del Capricorno al parallelo che segna la rinascita dell'estate.
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Costellazione autunnale. La stella più brillante della costellazione è Beta, nota anche come Sadal Suud, ossia “la più fortunata delle fortunate”, con m = 2.9. Alfa ha m = 3 e si chiama Sadal Melik, cioè “la stella fortunata del re”. Zeta è una stella doppia con m = 4.3 e 4.5, con le due componenti che ruotano una attorno all'altra in circa 850 anni e oggi si vedono separate di 2'. Nella costellazione dell'Acquario alcuni antichi vedevano il giovane Ganimede, figlio di Troo (che diede il proprio nome alla città di Troia) e di Calliroe. Egli era il più bello dei fanciulli viventi e Zeus, quando lo vide mentre pascolava le mandrie del padre, fu così colpito che si tramutò in Aquila e lo rapì dalla pianura di Troia per portarlo in cielo e farne il suo compagno di letto ed il suo coppiere personale. Ermes, in seguito, donò a Troo, da parte di Zeus, un tralcio di vite d'oro fatto da Efesto e due splendidi cavalli, per compensarlo della perdita del figlio (per questa versione del mito, anche l'Aquila fu messa tra le stelle come costellazione). Era, la moglie di Zeus, considerò quel ratto come un insulto fatto a lei stessa ed alla sua figlia Ebe, che fino a quel giorno era stata coppiera degli dèi; ma riuscì soltanto ad irritare Zeus, che pose tra gli astri l'immagine di Ganimede, facendone la costellazione dell'Acquario. Il mito di Zeus e Ganimede fu molto popolare in Grecia ed a Roma, perché offriva una giustifica-zione all'amore di un uomo adulto per un giovanetto ed in generale all'amore omosessuale; fu ripreso anche da Platone e, col diffondersi della sua filosofia, la donna greca, che prima aveva il predominio nella vita intellettuale, si trasformò in una lavoratrice domesti-
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ca non pagata ed in una procreatrice di figli. (Miti) (v. anche Capricorno). Un altro mito vede nella costellazione Deucalione, figlio di Prometeo e re di Ftia, in Tessaglia, capostipite della risorta specie umana, dopo il diluvio, il castigo che Zeus inflisse all'umanità per distruggerla. Zeus, resosi conto della cattiveria degli uomini dell'età del bronzo, pensava al diluvio quale castigo per punire l'umanità. Prometeo seppe dallo stesso Zeus quello che stava per avvenire e si recò in Tessaglia per avvertire suo figlio Deucalione dell'imminente sciagura che si sarebbe abbattuta sulla Terra. Deucalione si costruì un'arca per cercare la salvezza insieme alla moglie Pirra ed anche a Pandora, come racconta una versione del mito. Prometeo, senza il divino consenso di Zeus, aveva creato l'uomo col fango, cui Atena aveva infuso forza, astuzia, ambizione, cattiveria. E Zeus, col preciso intento di punire Prometeo, colpì gli uomini: ordinò ad Efesto, il fabbro degli dèi, di creare la donna, « con le mani operando, per compiacere a Zeus padre […], e gli uomini mortali come videro l'alto inganno, senza scampo per gli uomini, da lei infatti viene la stirpe delle donne. Di lei infatti è la stirpe nefasta e la razza delle donne, che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora… »
(Teo. vv 589 sgg.) La prima donna, plasmata con l'argilla e l'acqua, fu dunque Pandora, e piacque molto agli dèi, che le diedero bellezza, astuzia, ingegno, capacità di mentire e di curiosare, ma anche gioielli, abiti eleganti, fiori. Zeus l'aveva destinata alla punizione della razza umana, alla quale Prometeo aveva appena dato il fuoco divino: fu un regalo a tutti gli uomini “per la loro sventura”. Zeus le affidò l'incarico particolare di consegnare a Prometeo un vaso chiuso ricolmo di tutti i mali, rinchiuso da un coperchio, che impediva al contenuto di scappare fuori.
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Prometeo, però, assennato e prudente, sospettava inganni da parte di Zeus e rifiutò di accettarlo, ma Pandora, divorata dalla curiosità, aprì il vaso e tutti i mali si riversarono sull'umanità. Secondo un altro mito, il vaso non conteneva i mali ma i beni e che fosse stato portato ad Epimeteo, “l'imprudente”, oppure “colui che riflette in ritardo”, da Pandora. Apertolo sconsideratamente, Pandora lasciò che i beni volassero via e se ne ritornassero alle dimore divine invece di restare fra gli uomini. In tal modo gli uomini furono affitti da tutti i mali; solo la Speranza, povera consolazione, rimase tra loro. La collera di Zeus fu senza limiti: scatenò gli elementi della Natura. Per nove giorni e nove notti il mondo restò in preda ad acquazzoni torrenziali che, ovunque, cancellarono ogni traccia di vita. Si salvarono solo Deucalione e Pirra, avvertiti da Prometeo. Al decimo giorno la “barca della salvezza” dei due superstiti approdò presso la terra della Focide, dove sorge il monte Parnaso, sacro ad Apollo, a Dioniso ed alle Muse, l'unico punto non sommerso. Qui Deucalione e sua moglie offrirono sacrifici in onore di Zeus che, commosso dalla religiosità dei coniugi, promise di esaudire uno dei loro desideri. Deucalione e Pirra lo pregarono accoratamente di ripopolare la Terra. Zeus li consigliò allora di recarsi al tempio della dea Temi, personificazione delle leggi eterne e naturali dell'Universo, per ascoltarne l'oracolo. Interrogata da Deucalione, la dea rispose che dovevano velarsi il capo, sciogliere le vesti, camminare fianco a fianco e, senza voltarsi indietro, gettare alle spalle “le ossa dell'Antica Madre”. I sovrani meditarono a lungo e compresero che, non avendo essi la stessa madre, ed inoltre essendo ambedue morte, “le ossa dell'Antica Madre” non erano altro se non le pietre della Terra, le ossa di Gea. Camminando fianco a fianco e coperti di veli, come aveva ordinato l'oracolo, gettarono pietre alle loro spalle: a mano a mano che queste cadevano, gli uomini e le donne rinascevano dal fango del diluvio e si generò così la “nuova umanità” che ripopolò il mondo. Dai sassi scagliati dall'uomo nacquero gli
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uomini, da quelli scagliati da Pirra, le donne. Gli animali li generò spontaneamente la terra « e pur non volendo, generò anche te, Pitone smisurato, serpente mai visto prima, terrore delle nuove genti, tanto era lo spazio su cui ti distendevi giù dal monte. Febo … lo seppellì di frecce e svuotò quasi la faretra per ucciderlo, facendogli sprizzare veleno dalle nere ferite. E perché il tempo non potesse annullare la fama dell'impresa, istituì la celebrazione solenne delle gare chiamate Pìtiche, dal nome del serpente vinto »
(Met. I, vv 438 sgg) Il maggiore dei figli di Deucalione fu Elleno, padre di tutti i Greci. Elleno sposò la ninfa Orseide, dalla quale ebbe tre figli, Doro, Suto ed Eolo Il più giovane dei figli di Elleno, Doro, emigrò dalla Tessaglia sul monte Parnaso, dove fondò la prima comunità di Dori. Poi regnò a Ftia, in Tessaglia. Il secondo figlio, Suto, andò ad Atene e lì sposò Creusa, figlia di Eretteo, e da lei ebbe Ione ed Acheo. Apollo, però, si era giaciuto segretamente con Creusa, ed il figlio Ione era suo. L'altro figlio di Elleno fu Eolo, che regnava su Magnesia, in Tessaglia e sposò Enarete, figlia di Deimaco. Da questo matrimonio nacquero sette figli e cinque figlie, l'ultima delle quali è Arne, che Poseidone sedusse non appena diventò donna: da questa violenza nacquero due figli, Eolo e Beoto. Zeus aveva imprigionato i venti nell'isola di Lipari, perché temeva che, se non fossero rimasti sotto controllo, avrebbero potuto, un giorno, spazzar via la terra ed il mare, ed Eolo, per volontà di Era, si incaricò di custodirli. E così i più famosi popoli ellenici, e cioè gli Ioni, gli Eoli, gli Achei ed i Dori, discendono tutti da Elleno. (Miti). Tra gli scampati al diluvio ci furono anche gli abitanti di Parnasso, città fondata da Parnaso, figlio di Poseidone e della ninfa Cleodora. Essi riuscirono a sfuggire al diluvio, rifugiandosi sulla cima del loro monte. La prima donna che viene alla vita, Pandora, è detta Proto-
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genia, colei che nasce per prima. Zeus appena la vide se ne innamorò e la portò sull'Olimpo per sottrarla agli sguardi degli uomini, indegni di guardare una così rara bellezza. Zeus volle premiare il progenitore del genere umano, Deucalione, per la sua religiosità: lo trasformò nella costellazione dell'Acquario. Un'altra leggenda immagina l'Acquario come Zeus stesso che versa l'acqua vitale sulla Terra, dai cui rivoli nascerà il fiume celeste Eridano.
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Galassia spirale M74
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Questa è una costellazione autunnale. La stella più luminosa della costellazione è Eta, con m = 3.6. Alfa è Al Rischa, la “corda”; è una stella doppia con m1 = 4.3 e m2 = 5.2, separate da meno di 2''. Negli atlanti storici essa appare a metà del nastro che unisce le code dei due pesci celesti. Beta è Fun al Samakah, in Arabo “bocca del pesce”, con m = 5. Oggi la costellazione contiene il nodo ascendente dell'eclittica, quello che era, ed è chiamato primo punto d'Ariete, dove il Sole sorge all'inizio della primavera, quando la sua declinazione si annulla e la durata del giorno è uguale a quella della notte. La costellazione è ricca di galassie, come è possibile vedere dalle figure. Questa costellazione è legata ad un mito antichissimo, molto verosimilmente trasmesso ai Greci dai Babilonesi; difatti ogni riferimento mitologico è ambientato nelle regioni dell'Asia occidentale e precisamente sulle rive del fiume Eufrate, sito abitato, appunto, dall'antichissimo popolo babilonese, che tramandò nel mondo la sua civiltà e la sua cultura. Per spiegare l'origine del nome del fiume Eufrate, esiste anche una leggenda. Un uomo, chiamato Eufrate, aveva un figlio di nome Assurta. Un giorno, trovando il figlio addormentato accanto alla madre, lo scambiò per un estraneo e lo uccise. Riconoscendo poi il suo errore, si buttò, disperato, nel fiume Medo che, in seguito a quest'avventura, porta il nome di Eufrate. Il mito legato alla costellazione, invece, narra della lotta fra
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gli dèi e i Titani, figli di Urano e Gea, per la supremazia del potere celeste. Nel terribile scontro (v. Prima Parte), gli dèi riportarono la vittoria sui Titani e Zeus li confinò per l'eternità nella regione più orrenda e profonda del regno dei morti, il Tartaro, dal nome del suo signore; qui i condannati erano soggetti a terribili supplizi e indicibili torture e non era più possibile tornare alla libertà. Gea, per vendicare il crudele destino dei suoi figli, si unì con lo stesso Tartaro e generò Tifone, un tremendo mostro che incitò contro i regnanti dell'Olimpo. Quest'essere era dotato di cento teste di drago e dagli occhi di ciascuna di queste eruttava fiamme; dalle sue cento bocche saettava lingue nere e viscide ed emetteva suoni agghiaccianti simili a muggiti di buoi infernali o ruggiti di belve fameliche; lanciava sibili assordanti e talvolta gli uscivano dalle gole suoni e lamenti comprensibili solo agli dèi contro i quali erano diretti. Pan mise in guardia i Numi della nefasta presenza di Tifone; fra questi Afrodite e suo figlio Eros furono colti da grande spavento e da angoscia per cui fuggirono dall'Olimpo e si rifugiarono fra i folti canneti che prosperavano sugli argini del fiume Eufrate, sperando di non essere scorti dai duecento occhi della nefanda creatura. I due, tremanti di terrore, spiavano fra i giunchi le mosse dell'orrendo mostro quando una folata di vento scompigliò le canne e fece gemere i rami dei salici producendo uno strano suono che fu scambiato per un verso di gaudio emesso dal maligno per averli rinvenuti. Colta dal panico, Afrodite afferrò il figlio e supplicando le ninfe dell'Eufrate affinché assistessero lei e il piccolo Eros, si gettò in acqua per sfuggire all'imminente pericolo. Immediatamente due grossi pesci risalirono dalle profondità delle acque del fiume, ospitarono sulle loro groppe i due dèi e veloci come il fulmine li portarono finalmente al riparo da ogni rischio. Scampato il pericolo, Afrodite pregò Zeus affinché premiasse i due pesci per l'aiuto che avevano dato a lei e al piccolo Eros; Zeus accolse la preghiera e li immortalò fra gli astri. Secondo una versione differente del mito, Afrodite ed Eros appena scesi in acqua si tramutarono essi stessi in pesci e si
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nascosero nelle profondità limacciose del fiume e negli anfratti del suo alveo per sfuggire alla ricerca dell'odioso Tifone. Per tale ragione, secondo un racconto di Igino, il popolo dei Babilonesi che viveva lungo le rive del fiume, si asteneva dal pescare e dal cibarsi dei molti pesci che popolavano quelle acque. Anche un altro mito, ancora tramandato da Igino, collega Afrodite con i pesci: un uovo cadde tra i flutti del fiume Eufrate e alcune creature acquatiche prontamente lo raccolsero e lo depositarono delicatamente fra le soffici erbe sulla riva; qui lo custodirono e lo protessero dai predatori. Successivamente l'uovo si schiuse e venne alla luce la stessa Afrodite. La dea, per ricordare e celebrare i suoi salvatori, creò la costellazione dei pesci. Infine, Eratostene sostiene che i due pesci che si occuparono di portare in salvo Afrodite ed Eros erano figli del Pesce Australe, anch'esso ospitato fra le configurazioni astrali. In Babilonia, Oannes, portavoce della Divina Saggezza, aveva la forma di pesce ed usciva ogni giorno dal mare per trasmettere agli umani i divini insegnamenti. Per gli Egiziani i Pesci erano collegati al mare in cui si gettava il Nilo, mentre, nella parte nord della costellazione, vedevano una cerva inseguita da due cani.
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ALTRE IMMAGINI In quest'ultima parte presenteremo altre immagini di oggetti siderali e non appartenenti alle costellazioni prima discusse. Cominciamo con la galassia M77 nella costellazione della Balena.
Galassia di Seyfert M77
È una galassia di Seyfert, con un nucleo molto denso di stelle e che emette una grande quantità di energia in onde radio. Nello spettro del nucleo sono anche presenti righe di emissione, a conferma dell'energia rilasciata.
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Nella costellazione dei Cani da Caccia vi è la galassia doppia M51.
Galassia doppia M51
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Nella costellazione del Centauro, che non è stata inserita perché riferita al centauro Chirone, di cui si è parlato abbondantemente, sono presenti la galassia ellittica NGC 5128, con una forte componente di nubi oscure e controparte radio nella radiosorgente Cen A. e la Omega Cen, visibile, con apparenze diverse, sia nel visibile che nell'ultravioletto.
NGC 5128 - Cen A
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È presente anche la Omega Cen, visibile, con apparenze diverse, sia nella luce visibile che nell'ultravioletto.
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Nella costellazione del Pesce Dorato, meglio nota come Dorado, nell'emisfero sud, è possibile vedere la Grande Nube di Magellano e la Nebulosa Tarantola (la Piccola Nube di Magellano sarà visibile poi nella costellazione del Tucano).
Grande Nube di Magellano
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Nebulosa “Tarantola” NGC 2070 in Dorado
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Nella costellazione del Triangolo, nell'emisfero nord ma non legato a miti bensì solo alla perfezione del triangolo (sembra un triangolo ottenuto dividendo in due un triangolo equilatero), è presente la bella galassia M33, visibile anche in altre frequenze:
M33 nel Triangolo
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M33 nel Triangolo, anche in ultravioletto
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Nella costellazione dello Scultore, anche questa nell'emisfero sud, è presente un importante ammasso di galassie, in cui la galassia più luminosa è NGC 253.
NGC 253 nello Scultore
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Nella costellazione dell'Unicorno sono visibili parecchi oggetti interessanti: la nebulosa Rosetta, NGC 2237, con al centro l'ammasso aperto di stelle giovani NGC 2244, fucina di stelle, e la nebulosa Cono, che presenta al centro un altro ammasso aperto.
Nebulosa Rosetta, NGC 223 in Unicorno
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Ammasso aperto NGC 2244 nella Rosetta
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Nebulosa Cono con ammasso
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Nella costellazione del Tucano è visibile una stella, la 47Tuc, che, con uno strumento abbastanza potente si risolve in un ammasso aperto in cui sono visibili stelle in formazione. È anche visibile la Piccola Nube di Magellano.
Ammasso aperto 47Tucane
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Piccola Nube di Magellano
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Nella costellazione dell'Eridano, una delle più lunghe del firmamento e visibile principalmente dall'emisfero sud, ci sono oggetti molto interessanti.
Galassia spirale NGC 1300 vista da Hubble
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Nebulosa planetaria NGC 1535 in Eridano
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Spirale NGC 1232 in Eridano
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Nella costellazione della Fornace, uno degli esempi di costellazioni visibili solo dall'emisfero sud e quindi non collegate a miti ma solo ad oggetti in uso nel mondo scientifico (la fornace chimica era appunto uno di questi, introdotta come costellazione intorno al 1750 dall'abate de Lacaille), vi è un ammasso di galassie molto interessante.
Galassia ellittica NGC 1360 in Fornace
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Spirale barrata NGC 1365 in Fornace
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Ellittica NGC 1399 in varie frequenze sovrapposte, in Fornace
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NGC 1316 vista da Hubble in Fornace
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Nella costellazione della Lepre, visibile sempre nell'emisfero sud, è presente la bellissima nebulosa planetaria IC 41, chiamata, dalla forma, nebulosa dello Spirografo, in cui è molto ben visibile la stella madre al centro.
Nebulosa IC 41 “Spirografo” nella Lepre
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Ed ecco una coppia di galassie note come “Gli Occhi”
Coppia di galassie NGC 4438 “Gli Occhi”
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Mostriamo qui alcune supernove in galassie anche già viste.
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Supernova in NGC 2403
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Supernova in NGC 3877
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Supernova in M96
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Supernova in IC 694 nella Lira
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Infine mostriamo come si presenterebbe la nostra galassia, la Via Lattea, vista di faccia, con segnata la posizione del Sole.
La Via Lattea
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