THOMAS COOK NOTTE SENZA FINE (Flesh And Blood, 1989) 1 Guardandosi intorno e passando in rassegna con lo sguardo i vari ...
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THOMAS COOK NOTTE SENZA FINE (Flesh And Blood, 1989) 1 Guardandosi intorno e passando in rassegna con lo sguardo i vari gruppi di invitati, Frank si rese conto di come Karen avesse sistemato bene l'appartamento. Viveva con lei da più di un anno, ma forse allora per la prima volta notava la sobria armonia dell'arredamento: il divano di broccato, il tappeto orientale dai toni smorzati, i pesanti tendaggi rosso scuro, i mobili antichi. Tutti gli oggetti che lo circondavano avevano sicuramente un nome preciso, o provenivano da un luogo particolare. Forse il tavolo in fondo alla stanza era un Chippendale; forse il tappeto ai suoi piedi era stato tessuto a mano in qualche remoto e affascinante villaggio del Medio Oriente. Karen conosceva senz'altro il nome e la provenienza di ogni oggetto. Talvolta pensava che lei possedesse dalla nascita questa raffinatezza di gusti, estranea e irraggiungibile per lui che proveniva dall'umile mondo contadino del Sud, ignorante e povero. Ricordava le mani ruvide e il linguaggio rozzo, i biscotti raffermi e la minestra. Il sapore e le emozioni del suo passato non lo abbandonavano mai, e i fasti dell'alta società di Manhattan a cui Karen apparteneva non avrebbero mai potuto cancellarli. «In questi giorni lei e Karen fate notizia,» gli disse qualcuno. Frank alzò lo sguardo e vide davanti a sé un uomo molto alto, che indossava una giacca di velluto blu scuro. Le sue dita lunghe e affusolate reggevano così delicatamente lo stelo di cristallo della coppa di champagne che per un attimo Frank provò l'impulso di togliergliela di mano prima che gli cadesse. Lo sconosciuto gli si sedette accanto e gli tese la mano presentandosi. «Mi chiamo Zachary Chapman e sono un vecchio amico di Karen.» «Piacere,» rispose educatamente Frank. «Ho trascorso gli ultimi due anni in Europa,» riprese Chapman, «e questa è la prima volta che rivedo Karen, dopo molto tempo.» Scosse il capo mestamente. «Le ho scritto in occasione dell'assassinio di Angelica, ma non sono proprio potuto venire ad Atlanta per il funerale.» Frank non disse nulla. L'altro lo scrutò con attenzione. «Non so come abbia fatto Karen a superare questa prova.»
Per un attimo Frank rivide il corpo di Angelica nell'erba del campo dove Toffler l'aveva abbandonata. Ricordava ancora il caldo di quella lunga estate ad Atlanta, quell'afa soffocante come un'edera che ti si avvinghia addosso togliendoti il respiro. «Era una così bella ragazza,» sospirò Chapman. «L'ho conosciuta quando aveva solo nove anni, e già allora era deliziosa.» Il volto di Angelica riapparve nella mente di Frank, i suoi occhi lo fissavano dal terreno incolto dov'era stato ritrovato il suo corpo, con i capelli sparsi intorno al viso come un ventaglio d'oro lucente. «Ho sentito dire che la sua bellezza è stata in parte la causa della sua morte.» «Sì,» rispose Frank. Intorno a lui gli invitati conversavano allegramente e per un secondo gli parve di essere del tutto estraneo a quella gente, diverso, lontano. A pochi metri da lui una trentina di persone chiacchieravano tranquille; poteva sentire le loro parole distintamente, ma era come se appartenessero a un altro mondo. Lasciando vagare lo sguardo gli sembrava che ogni volto sfumasse in un altro fondendosi in un unico leggero velo bianco. «È stato lei a catturare l'assassino,» osservò Chapman. «Era il mio lavoro,» rispose Frank in tono secco. «È morto?» domandò Chapman. Per un istante Frank pensò si riferisse a Caleb, il suo collega. Rivide la mano di Toffler afferrare lo scalpello e affondarlo nella schiena di Caleb e Caleb crollare in avanti mentre Toffler continuava a colpirlo. Poi si rese conto che Chapman alludeva a Toffler. «No,» rispose Frank. Chapman sembrò sorpreso. «Perché no?» domandò. «Si sa com'è il Sud.» Sorrise. «Voglio dire, da quelle parti non si fa certo esercizio di indulgenza.» «Toffler era malato di mente,» replicò Frank in tono monocorde. «O almeno la giuria la pensava così.» In fondo alla sala intravedeva Karen conversare con i suoi eleganti ospiti da perfetta padrona di casa. Aveva l'aria felice, inaspettatamente felice, e lui si chiese perché quella felicità lo turbasse; era qualcosa che non aveva previsto quando si era innamorato di Karen quell'estate e quando l'aveva seguita a New York. Ora quella felicità lo faceva sentire a disagio e irrequieto, e desiderava tornare in un luogo di vette scoscese, di strapiombi e cascate. «Anche lei la pensa così?» chiese Chapman.
Frank si girò verso di lui. «Più o meno,» rispose. Rivedeva Toffler, giovane, biondo, con penetranti occhi azzurri, seduto accanto al suo avvocato, lo sguardo fisso verso il banco dei testimoni, mentre lui descriveva minuziosamente ciò che aveva fatto alla sorella di Karen, di come le avesse iniettato liscivia fino a farla morire, abbandonando poi il suo corpo in un campo incolto dopo averle gettato sul viso un pugno di terra. «C'è qualche possibilità che esca?» Frank scosse stancamente il capo. «Non molte.» Guardò di nuovo Karen. Indossava un malizioso abito lungo di seta rossa che metteva in risalto la sua pelle chiara e vellutata. Eppure, la preferiva vestita come il giorno in cui si erano incontrati: con un paio di jeans scoloriti e una casacca da pittore tutta macchiata, ormai reliquie del passato. «Però potrebbe accadere, o no?» «Una possibilità c'è sempre,» rispose Frank senza guardarlo. Karen intanto, scostando il bicchiere dalle labbra, rideva con grazia alla battuta dell'uomo che le stava di fronte, un certo Lancaster, di cui apprezzava molto il lavoro. Aveva esposto le sue opere alla galleria che aveva aperto in Madison Avenue vendendole a prezzi sempre più alti. «Deve essere l'incubo di ogni poliziotto,» osservò Chapman. Frank lo guardò. «Che cosa?» «Che gente come l'assassino di Angelica possa uscire di prigione.» «Ha ragione.» «E venire a cercarla.» «Già.» Chapman strizzò gli occhi. «Che cosa farebbe se dovesse accadere?» «Lo ucciderei,» rispose Frank. E improvvisamente avvertì dentro di sé, come una fitta, la voglia di fare del male. «Lo ucciderei,» ripeté. «Senza pensarci due volte.» Chapman rise, ma era un riso nervoso. «Non credo che un simile comportamento piacerebbe ai suoi superiori di New York,» osservò esitante. «Non sono più un poliziotto,» precisò Frank. Pensò al piccolo ufficio al piano interrato che aveva affittato nella Quarantanovesima Strada. C'erano una scrivania di metallo grigio, alcune sedie recuperate dal vicino deposito dell'Esercito della Salvezza, un divano, un telefono e una segreteria telefonica. In mezzo a quelle carabattole d'occasione, un'elegante lampada di ottone, regalo di Karen, creava un contrasto che faceva apparire tutto il resto ancora più squallido. «Davvero? E che cosa fa adesso?»
«Mi sono messo in proprio.» «Investigatore privato?» «Sì.» «Deve essere emozionante,» riprese Chapman con entusiasmo. «Non avevo mai conosciuto un investigatore in carne e ossa.» «Be', non è poi così interessante,» minimizzò Frank con un leggero sorriso sulle labbra. Aveva sperato di entrare nella polizia di New York, ma, dopo aver picchiato quasi a morte Toffler, lo avevano bollato come incline alla violenza, che equivaleva a farsi sbattere la porta in faccia dovunque avesse cercato un impiego. E così, alla fine, aveva deciso di prendere la licenza di investigatore privato e aveva speso fino all'ultimo dollaro per sistemare l'ufficio. Non c'era stato molto lavoro fino a quando Karen non aveva sparso la voce fra i suoi conoscenti dell'alta società; da allora, il lavoro era diventato ragionevolmente continuativo. «Così le piace il suo lavoro?» domandò Chapman. «Va bene,» rispose Frank mentre passava in rassegna i casi a cui aveva lavorato. Era stato incaricato da una gioielleria di trovare tra gli impiegati il responsabile di alcuni furti, da un medico abbiente di Park Avenue di scovare del marcio sul conto di un uomo che lo accusava di negligenza e da una ricca signora residente a ovest di Central Park di ritrovare il suo cane, della cui scomparsa sospettava il figlio malvagio. «Non hanno molto in comune con i casi a cui ero abituato, ma per ora mi accontento.» Chapman aveva l'aria di voler dare il via a una nuova serie di domande quando una donna alta e magra gli si sedette accanto. «Mi fa piacere rivederti, Zack,» disse. «Sei tornato definitivamente a New York?» I due cominciarono a chiacchierare amabilmente e Frank ritornò a vagare per la stanza con lo sguardo. Appesi alle pareti tinteggiate di un rosa chiaro vi erano i dipinti che Karen aveva collezionato quell'anno. Da quando si era trasferita a New York il suo gusto era diventato più sobrio, i toni malinconici e scuri avevano lasciato il posto a delicate tinte pastello. Frank lo aveva notato dipinto dopo dipinto; era come se Karen avesse deciso di smorzare i toni della propria vita, di circondarsi progressivamente di colori più tranquilli, in contrasto con la visione pessimistica del mondo che lui riteneva si nascondesse ancora nella sua mente. Non c'era da meravigliarsi, tenuto conto di tutto ciò che le era accaduto; ma c'era qualcosa che lo turbava, e spesso cercava di distogliere lo sguardo dalle allegre scene di vita e dalle nature morte che lo fissavano da ogni parete e gli davano
una vaga sensazione di stantio. «Ti presento Frank Clemons,» udì improvvisamente dire da Chapman. Si volse verso la donna e fece un cenno con il capo. «Imalia Covallo,» si presentò la signora. «Piacere.» «Frank è un investigatore privato,» dichiarò Chapman. «Davvero?» si meravigliò Imalia. Frank si limitò ad annuire. La donna sorrise dolcemente. «Se avrò bisogno di qualche indagine...» «... sono sull'elenco,» la interruppe Frank con freddezza. I tre conversarono per un po', quindi Chapman e Imalia si allontanarono insieme. Altri si sedettero al loro posto, per poi alzarsi e ritornare in mezzo alla folla, ma a Frank importava sempre meno: verso mezzanotte andò in camera sua e, completamente vestito, si sdraiò sul letto. Pensò a Karen, che ancora intratteneva i suoi invitati, a Sheila, la sua ex moglie che aveva lasciato nel Sud, e poi a quella indecifrabile presenza femminile che sembrava seguirlo ovunque, lontana, evanescente, pronta a dissolversi al minimo tocco. Era in uno stato di dormiveglia quando finalmente arrivò Karen. Si sedette accanto a lui e gli scrollò leggermente le spalle. «Non è stato molto carino da parte tua,» gli disse. Lui si strofinò gli occhi con i pugni. «Che cosa?» «Sparire quando c'erano ancora tutti i nostri ospiti.» «Mi dispiace,» si scusò Frank. «Ero stanco. Tutto qui.» «È la qualità che ti ha annoiato?» «La qualità di che cosa?» «Degli invitati!» «No,» replicò Frank. «No, sono simpatici. Il tuo amico Chapman, una persona davvero molto cordiale.» Karen sembrò sollevata. Gli si avvicinò e gli sfiorò prima la spalla e poi il collo. «Perché non ti spogli?» gli propose dolcemente e sorrise. Frank si mise a sedere lentamente. «Pensavo di uscire.» «Sono le tre del mattino,» disse Karen quasi in tono di supplica. Lui la guardò con tenerezza. «Sai com'è.» «No, io non lo so. Non l'ho mai capito.» «Non starò via a lungo.» Karen scrollò le spalle disorientata. «Come vuoi.» Si alzò in piedi bruscamente e andò in bagno chiudendosi dietro la porta con decisione.
Frank sentì l'acqua della doccia scorrere. Lei faceva sempre una doccia dopo una festa, come se avesse champagne e pàté sotto le unghie o tra i capelli. Attese nel buio ascoltando distrattamente lo scroscio dell'acqua fino a quando cessò. Sapeva che sarebbe uscita subito con lo stesso sguardo interrogativo di prima e sperava di avere una risposta da darle, qualcosa che potesse spiegare perché, alla fine, sembrava sempre che lui si allontanasse. Ma non c'era nulla da dire, proprio nulla, e così quando udì la porta del bagno aprirsi si infilò in fretta il soprabito e uscì. Park Avenue era semideserta, e mentre si dirigeva verso il centro della città sentiva nell'aria il soffio pungente dell'inverno. Le vie erano misteriosamente tristi e deserte nelle prime ore del mattino, come se durante la notte un terribile allarme avesse suonato facendo scappare tutti verso i quartieri periferici e lasciando vuoto il centro della città. Era quella la solitudine che lui desiderava, ma solo per poco. Così si diresse a ovest, verso quella parte della città dove le vie erano animate a qualsiasi ora del giorno e della notte. Alla tristezza misteriosa si sostituirono le luci abbaglianti delle insegne al neon e la corrente incessante del traffico che si muoveva lungo le arterie principali. Nell'Ottava Avenue le prostitute erano appoggiate alle porte di squallidi alberghetti, con i volti illuminati dalle insegne dei cinema porno, mentre i loro protettori giocavano a poker o vendevano droga. Era a solo quindici minuti a piedi dai palazzi di Park Avenue, ma era un altro mondo, brulicante, immediato, vivo. Era l'unica zona della città dove si sentisse a casa sua; a volte, quando si trovava in quei locali umidi e maleodoranti, oppure negli angoli più bui dei vicoli, o quando ancora passeggiava lungo le vie grigie e spettrali, sentiva un amore così improvviso e impetuoso per quella gente che avrebbe voluto abbracciarla e sollevarla in quella luce particolare che la loro vita oscura meritava. 2 «Non ti ho sentito rientrare stanotte,» disse Karen voltandosi verso di lui. «Non volevo svegliarti,» farfugliò Frank. Si mise a sedere sul letto e si strofinò stancamente gli occhi. «Fino a che ora sei rimasto fuori?» «Fin quasi all'alba.» Lei gli accarezzò lievemente il braccio nudo. «Perché non resti a casa oggi? Alla galleria può sostituirmi Felix. Potremmo andare al parco, o al
cinema, o fare qualcos'altro insieme.» Lui scosse il capo. «No.» Karen lo guardò inquieta. «Frank, sto veramente cominciando a preoccuparmi per...» Frank la interruppe alzandosi di scatto e si avvicinò alla finestra in cui vedeva specchiarsi una grande tela bianca, un piccolo sgabello e una tavolozza che ormai da diversi mesi non venivano più usati. «Perché non resti a casa?» suggerì lui cauto, sapendo che Karen non desiderava parlarne. «È tanto che non dipingi più.» Karen si irrigidì visibilmente. «Non sono dell'umore adatto,» replicò con una nota di asprezza nella voce. «Ricomincerò a dipingere solo quando mi sentirò di farlo. Devi smetterla di insistere.» Frank aprì la porta a vetri che dava sulla terrazza e sentì sul corpo la fredda brezza invernale. Ad Atlanta lei dipingeva in una stanza buia, senza finestre, con i muri macchiati di colore, le tele accatastate l'una sull'altra, un vecchio tavolo coperto di schizzi e un cavalletto malconcio e traballante. Quello era un luogo vitale e dalla sua confusione traspariva qualcosa che lui ammirava, un impegno profondo e irreprensibile. «Be',» sospirò Karen alzandosi dal letto, «se non vuoi stare a casa, io vado alla galleria,» e con passo deciso si diresse in bagno chiudendo la porta dietro di sé. Ancora una volta Frank sentì la doccia, e ancora una volta immaginò l'acqua scivolare su di lei. C'era stato un tempo in cui quel suono gli procurava una sensazione strana e violenta, ma ora riusciva a pensare solo alle tele bianche, ai colori intatti, a quella vita di indifferenza, al fatto che lei non si impegnava più. Sentiva crescere dentro di sé una collera sorda al pensiero che lei stava sprecando tutta la sua arte, la sua capacità di creare, e per reprimerla fece ciò che aveva sempre fatto. «Io vado a lavorare,» annunciò. Un'anziana donna stava dormendo profondamente in fondo alla scala, avvolta in un groviglio di vecchi indumenti indossati l'uno sopra l'altro. Da alcune mattine Frank la trovava sempre nello stesso posto, e si era abituato a scavalcarla in silenzio per percorrere poi lo stretto corridoio fino al suo ufficio. Per le nove di mattina, orario di apertura, lei aveva già raccolto i suoi pochi averi e risalito furtivamente i gradini di cemento. Alcuni giorni prima era rimasto alla finestra a guardare mentre se ne andava: osservandola sistemare meticolosamente il proprio abbigliamento per affrontare il
nuovo giorno, Frank si era chiesto che cosa l'avesse portata sulla strada. Di chi era figlia? Di chi era madre? Di chi era sorella? Quali legami e vincoli aveva dovuto troncare per ritrovarsi così sola? Quando Frank aprì la porta dell'ufficio lo investì un'ondata di aria calda, con un odore stantio e vagamente dolciastro come se, durante la notte, uno strano marciume avesse intaccato tutto. Lasciò la porta aperta per cambiare l'aria, richiudendola poco dopo per non fare entrare il freddo. Sopra la massiccia scrivania color grigio piombo sistemata in fondo al locale c'erano gli incartamenti relativi ai casi che aveva concluso. Si diede da fare per metterli in ordine, calcolando per ognuno la cifra che gli spettava e scrivendo le lettere di sollecito di pagamento. In genere il denaro arrivava tutto e senza reclami alcuni giorni dopo, ogni assegno in una busta con monogramma, e qualche volta con accluso anche una nota di ringraziamento su carta intestata. Nel periodo in cui aveva lavorato come detective alla sezione omicidi di Atlanta non aveva mai ricevuto un biglietto di ringraziamento: ricordava però che a volte, dopo la cattura e la condanna di un omicida, qualcuno l'aveva avvicinato nel corridoio fuori dell'aula del tribunale e senza una sola parola l'aveva abbracciato in segno di gratitudine. In quei momenti aveva avuto l'assoluta certezza di aver fatto qualcosa di buono. Stava riponendo nello schedario dietro la scrivania l'ultimo fascicolo quando squillò il telefono. «Frank Clemons.» «Frank?» «Ciao, Sheila.» Vi fu un attimo di silenzio e Frank capì che lei stava cercando di trattenere le lacrime. «Questo è sempre il periodo più difficile per me, Frank,» riuscì a dire infine. «Ti capisco.» «Anche per te è lo stesso?» «Già.» «Ieri avrebbe compiuto vent'anni.» «Lo so.» «Sono andata sulla sua tomba. Le ho portato un mazzo di fiori.» L'avevano sepolta in un piccolo cimitero fuori Atlanta, sua figlia Sarah, che a sedici anni si era incamminata lungo il fiume Chattahoocb.ee in un pomeriggio di fine estate e aveva inghiottito una manciata di sonniferi.
«Vent'anni, Frank,» ripeté Sheila. «Sì, lo so.» Sheila fece per riprendere a parlare, ma scoppiò in lacrime; Frank la sentiva piangere sommessamente, a mille miglia di distanza. «Sei ad Atlanta?» le chiese dopo un attimo. Sheila si schiarì la voce. «Sì. Sono venuta per un paio di giorni.» «Vivi ancora con tuo padre?» «No, ho un piccolo appartamento vicino al tribunale. Ho finito il corso di stenografia e ho trovato un impiego.» «Bene.» «Sono contenta di essere andata via da Atlanta, non mi trovavo bene.» Si era trasferita nella loro cittadina natale sulle colline dell'Alabama, e a volte Frank la ricordava ancora giovane e irrequieta tra i precipizi di granito e i ruscelli serpeggianti. «Mi fa piacere che tu sia tornata lì, Sheila.» «Sono sempre stata una ragazza di campagna,» aggiunse lei con una risata breve e forzata. «Non riesco a credere che adesso tu vivi a New York.» Frank non disse nulla. «Sei felice lì?» provò a chiedere Sheila. «Mi conosci.» «Non potrò mai dimenticare, Frank.» «Nessuno dimentica.» «Ma questa settimana è stato peggio che mai.» Frank scrollò il capo nell'aria pesante e grigia della stanza. «Non possiamo farci nulla.» «Se non continuare a vivere.» «Nient'altro, Sheila,» la consolò Frank. Non sapeva che cosa volesse da lui, ma si rendeva conto che non aveva ottenuto nulla. Era meglio interrompere quella conversazione. «Salutami tuo padre,» concluse lui. «Non mi permette nemmeno di parlare di te, Frank. Non vuole nemmeno sentire pronunciare il tuo nome.» «Mi dispiace.» «Be', lo sai come sono i padri.» «Sì, lo so.» Ci fu una lunga pausa. La sentiva respirare, quasi ne avvertiva il soffio tra i capelli. «Ora devo andare, Sheila,» disse infine.
«Va bene,» replicò lei, «mi dispiace, volevo solo...» «Ti capisco.» «È l'unica cosa che ci unisce, ormai.» «Sì,» mormorò Frank appendendo la cornetta, ma si chiese che cos'altro potessero dirsi due persone che non avevano più nulla in comune se non il loro dolore. L'anziana donna era ancora raggomitolata nei suoi stracci quando, alcuni minuti dopo, Frank lasciò l'ufficio. Erano circa le otto del mattino e dal cantiere al di là della strada proveniva già un rumore assordante. Enormi gru alzavano tonnellate di travi d'acciaio dai camion allineati lungo la via, i cui motori rombavano senza sosta superando il rumore del traffico e le grida della strada. Entro due anni i lavori sarebbero stati ultimati e un gigantesco condominio di lusso sarebbe sorto, incombente sopra le case popolari occupate abusivamente che ora lo circondavano. Avrebbe cambiato tutto, trasformando i vecchi negozietti in boutique eleganti, le vie adiacenti in una sfilata di ristoranti alla moda e di pasticcerie sfiziose mentre le limousine provenienti dalla Nona Avenue e da Broadway avrebbero parcheggiato lungo quei marciapiedi. Dalle verande malandate gli abitanti dei vecchi quartieri assistevano sgomenti alla costruzione del colosso: ancora qualche tempo e se ne sarebbero dovuti andare via tutti, spazzati come legna alla deriva. Il marciapiede della Quarantanovesima era invaso da malconci bidoni di metallo e da enormi sacchi neri della spazzatura per cui Frank, come tutti, dovette camminare su uno stretto tratto di marciapiede per evitarli. Alcuni sacchi erano già stati aperti e rovistati durante la notte da qualcuno in cerca di lattine di birra o soda da rivendere ai piccoli supermercati della zona a cinque centesimi l'una, e montagne di cartacce e verdure marce si accumulavano vicino ai canali di scolo dei marciapiedi. La strada aveva lo stesso aspetto tutte le mattine, e ogni volta che Frank la percorreva ripensava ai quieti quartieri e ai giardini di Atlanta, e si domandava perché, paragonato a tutto questo, gli riuscivano insopportabili. Entrò in un piccolo locale, all'angolo tra l'Ottava e la Quarantanovesima, si sedette a un tavolo sul fondo e ordinò un caffè. Sull'altro lato della strada c'era un negozio di liquori con le vetrine stracolme di bottiglie e Frank sentì ancora quella vecchia smania, come sempre gli accadeva la mattina presto. Per non pensarci volse lo sguardo, cercando di concentrarsi su una cosa qualsiasi, in direzione di un tavolo dove due uomini, uno con i capelli
grigi e un po' paffuto, l'altro giovane e magro, stavano conversando. «Pensi davvero che non lo sappia, Paulie?» domandò il più anziano, con tono di risentimento. «Eh? Credi che non sappia dov'è finito?» L'altro non disse nulla. Una lunga coda di capelli castano chiaro ondeggiava ritmicamente sulla sua schiena quando scuoteva la testa. «Te lo dico io dov'è finito... Su per il tuo naso, ecco dov'è finito quel dannatissimo denaro.» Si era messo a gridare. Il giovane restò in silenzio, con lo sguardo rivolto al suo bicchiere di succo di pomodoro. «Ciò che fai riguarda solo te, Paulie. Ma nessuno mi può prendere in giro, hai capito?» Il ragazzo, lentamente, fece cenno di sì con il capo, ma non osò alzare la testa. L'uomo più anziano tirò un sospiro, come per calmarsi, e quando riprese a parlare la collera era scomparsa dalla sua voce. «Paulie,» lo supplicò. «Paulie, devi essere così veloce a tirarti fuori da questa merda che non te lo immagini nemmeno. Non te lo immagini nemmeno, Paulie. Cristo, se ti fermi un attimo ti seppellisce.» Qualche minuto dopo Frank era di nuovo in strada, immerso in quel rumore forte, assordante. Per un attimo ripensò ai boschi di Atlanta, tutti bianchi e rosa in primavera: in tutta la sua vita, niente gli era sembrato più falso. Vagò senza meta sul viale, guardando le vetrine dei negozi e la gente che andava di fretta. Aveva voglia di cominciare qualcosa, ma non sapeva che cosa, e si meravigliò di aver già resistito tanto in quello stato di inutile attesa. Non sapeva che cosa stesse aspettando, ma sentiva che l'avrebbe colto di sorpresa, come una mano nel buio che colpisce alle spalle. Erano le dieci quando ritornò sulla Quarantanovesima, diretto al suo ufficio. I bidoni della spazzatura erano stati svuotati, i sacchi neri erano scomparsi, e anche l'anziana donna che dormiva in fondo alla scala se n'era andata. Al suo posto c'era Imalia Covallo. 3 Era appoggiata al muro di mattoni in fondo alla scala, e se non fosse stato per la carnagione pallida e per i luminosi occhi scuri Frank non l'avrebbe mai riconosciuta.
Al posto dell'abito di velluto della sera precedente indossava una lunga gonna di cotone pesante e una giacca in tinta e i capelli, non più raccolti in un severo chignon, le ricadevano morbidi sulle spalle. Era più naturale senza collane e braccialetti. «Buongiorno,» lo salutò lei. «Ho seguito il suo consiglio, ho consultato la guida telefonica.» Poi, notando lo sguardo perplesso di Frank, spiegò: «È un abito da passeggio.» Provò a sorridere. «Si ricorda di me, vero?» «Era alla festa, ieri sera.» «Esatto,» confermò lei. «Sono Imalia Covallo.» Frank non rispose. Imalia aveva un'espressione strana, quasi infantile che, nonostante fosse oltre la quarantina, gli ricordava sua figlia Sarah, quello sguardo confuso che aveva spesso quando fissava fuori della finestra, in silenzio. «Forse le sembro in maschera,» riprese Imalia, poi lo fissò in modo così strano che per un attimo Frank sospettò che fosse veramente una creatura nascosta dietro una maschera. «Be', non proprio in maschera,» aggiunse subito Imalia. Guardò verso lo stretto corridoio che conduceva all'ufficio. «È qui che lavora, vero?» «Sì.» «La maggior parte delle persone inizia a lavorare alle nove,» gli disse in tono di leggero rimprovero, sforzandosi però di essere delicata, allegra, per rompere il ghiaccio. Frank non disse nulla. «Non è proprio un quartiere di lusso, questo. Per un attimo ho pensato di aver segnato l'indirizzo sbagliato. Sa, pensavo che vivendo con Karen...» Si interruppe, come se si fosse resa conto della propria mancanza di tatto. Abbassò rapidamente gli occhi, poi li riportò su di lui. «Non intendevo...» «È qui per lavoro?» le domandò asciutto Frank. «Sì, per l'appunto,» confermò Imalia assumendo un tono formale. «La scorsa notte, alla festa di Karen, Zack mi ha detto che lei è un investigatore privato.» «È esatto.» «Credo sia ciò di cui ho bisogno.» Frank le passò davanti e si diresse verso l'ufficio. «D'accordo,» disse. «Si accomodi, prego.» L'aria sapeva ancora di stantio e chiudendo la porta dietro di sé Imalia arricciò il naso. «È molto che è qui?» domandò poco dopo.
«Da alcuni mesi.» «Prima era un poliziotto?» «Sì.» In silenzio Imalia si guardò intorno, e Frank intuì dal suo sguardo che si era fatta un'idea precisa, anche se non riusciva a capire se fosse positiva o no. «Dà l'impressione di essere un luogo dove un segreto sarebbe ben riposto,» osservò lei. Frank si sedette dietro la scrivania e si accese una sigaretta. «Che cosa posso fare per lei, Miss Covallo?» Imalia si accomodò sulla traballante sedia di legno. «Non so da dove cominciare. È stato un tale choc.» Fece un cenno verso il pacchetto di sigarette mezzo vuoto sulla scrivania. «Posso?» Frank le porse il pacchetto. Imalia si accese la sigaretta e tornò a sedersi, con calma. «Il fatto è che non ho mai avuto a che fare con niente di simile prima d'ora.» «Di che cosa si tratta esattamente?» le domandò Frank, incalzandola. Ancora una volta Imalia sembrò esitare, come se non riuscisse a trovare le parole giuste. «Be',» disse alla fine, «credo che potremmo parlare di omicidio.» E subito proruppe in una fragorosa risata. «Mi scusi,» aggiunse subito cercando di controllarsi. «È un mio vecchio problema: riso nervoso.» Scosse il capo indispettita. «Lo odio, mi fa sembrare un'isterica.» Frank si fece più vicino. «Chi è stato assassinato, Miss Covalo?» «Una donna. Una donna di nome Karlsberg, Hannah Karlsberg.» «Una sua parente?» «No, una mia collaboratrice.» Frank estrasse un piccolo taccuino verde, lo aprì alla prima pagina e in alto scrisse il nome Hannah Karlsberg. «Quando è successo?» «Due settimane fa.» «Dove?» «Qui a New York,» disse Imalia, «sulla Settantaseiesima Strada. Forse lo ha letto sul giornale, credo ci fosse un articolo sul Post.» «Qual è l'indirizzo?» «Central Park West, cinquantasette.» «Sa dirmi l'ora in cui è stata uccisa?» «Di mattina presto,» rispose Imalia. «È tutto quello che so.» «Ed era una sua collaboratrice.»
«Già.» «Di che cosa si occupa, Miss Covallo?» Imalia sorrise. «Ma come, non lo sa?» Frank scrollò il capo. «Sono una designer,» spiegò. «Non per vantarmi, ma sono molto conosciuta...» «Designer di che cosa?» «Abiti, abiti molto eleganti.» Frank prese nota. «Qual era il lavoro di Miss Karlsberg?» «Aveva diverse mansioni, e da molti anni.» Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta e poi soffiò fuori una sottile colonna di fumo. «Da molti anni,» ripeté guardandosi intorno. «Non ha un calendario appeso al muro. Non ne ha bisogno?» «Da quanti anni?» domandò Frank. Imalia esitò. «È importante?» «Voglio avere il maggior numero di informazioni possibile,» spiegò lui. Imalia sembrò rassicurata. «Ha ragione. Mi scusi.» Aspirò un'altra lunga boccata. «Hannah era un'impiegata molto brava. Lavorava con me da più di vent'anni.» «Di che cosa si occupava esattamente?» «All'inizio era sarta, poi è diventata dirigente. Negli ultimi dieci anni è stata la mia assistente più fidata e valida.» Frank trascrisse tutto velocemente, poi riportò lo sguardo su Imalia. «Quest'ultima domanda potrà sembrarle strana, ma è importante.» Imalia si irrigidì leggermente, come a richiamare le proprie forze per farsi coraggio. «È sicura che si sia trattato di omicidio?» domandò Frank. «Intendo dire, non potrebbe essersi suicidata?» «Hannah è stata colpita a morte, Mr Clemons. Non si è uccisa.» Le dita strinsero più forte la penna, la cui punta prese a calcare sempre di più sul taccuino via via che Frank sentiva crescere dentro di sé un'incontenibile energia, come accadeva ogni volta che all'improvviso qualcosa diventava importante. «Quindi la polizia si è occupata del caso?» chiese Frank. «Sì.» «Hanno parlato con lei?» «Sì, più di una volta.» «A proposito di che cosa?»
«Mi hanno chiesto che cosa sapevo di Hannah. Ma non ho potuto aiutarli. Hannah era molto riservata.» «Ha idea di ciò che pensa la polizia?» «No, nessuna,» rispose Imalia. «Penso che siano un po' come Hannah. Non rivelano mai nulla.» «Ma non le hanno detto niente riguardo le indagini?» «Solo che dall'appartamento di Hannah non mancava nulla.» «Aveva oggetti di valore?» domandò Frank. «Aveva gioielli,» disse Imalia. «E non paccottiglia da grandi magazzini. Il suo portagioie era aperto, ma non mancava nulla.» «Aveva una polizza assicurativa?» «La polizia non me ne ha parlato, ma non credo.» Frank prese una piantina di New York e la spiegò sulla scrivania. Erano indicati anche i distretti di polizia, e l'abitazione di Hannah risultava nel distretto di Midtown North. «Sa chi si occupa del caso?» le domandò. «Sono venuti molti poliziotti nel mio ufficio,» precisò Imalia. «Sembrano tutti uguali.» Sorrise. «Con quelle giacche di poliestere.» Poi il sorriso svanì e il tono di voce si fece gentile e quasi di scusa. «Non voglio darle l'impressione di essere sprezzante e maligna. Desidero solo che Hannah abbia una sepoltura decente.» «Sepoltura?» «Sì, proprio.» «Non è ancora stata sepolta?» domandò incredulo Frank. «No,» confermò Imalia. «Ed è questa la ragione per cui mi sono rivolta a lei.» Frank la guardò perplesso. «La polizia non rilascerà il corpo fino a quando non sarà un parente a richiederlo.» «Miss Karlsberg non aveva parenti?» «Non lo so,» gli disse Imalia. «È per questo che mi sono rivolta a lei.» Si sentiva a disagio su quella sedia. «Una volta accennò a una sorella. Forse ne aveva una, ma non lo so con sicurezza.» Frank prese nota e poi tornò a fissare Imalia. «Ha idea del perché la polizia non voglia rilasciare il corpo?» «No, non ne ho la più pallida idea.» «Glielo ha chiesto?» «Certo che l'ho fatto, immediatamente.» «E che cosa le hanno risposto?»
«Che occorreva un parente,» disse Imalia. «Chi si occupa del caso?» «Un uomo di nome Tannenbaum, credo. O perlomeno è con lui che ho parlato più spesso.» Improvvisamente parve pensierosa. «Volevano sapere se Hannah aveva nemici sul lavoro, cose di questo tipo. Che cosa faceva quando lavorava, chi aveva conosciuto. Erano queste le domande che Tannenbaum mi poneva in continuazione.» «Leo Tannenbaum?» «Mi pare proprio di sì,» confermò Imalia. «Lo conosce?» «Abbiamo avuto qualche contatto in passato,» le disse Frank senza precisare. Era stato riguardo a una persona scomparsa: si sospettava un caso di rapimento, forse un omicidio, e Frank aveva parlato con alcune persone al distretto di Midtown North tra cui Tannenbaum. Alcune settimane dopo la persona scomparsa era tornata a casa, carica di souvenir da Honolulu. «Comunque il nome è questo, e ho avuto l'impressione che fosse lui la persona incaricata di investigare su questo caso.» «Perché le ha fatto le solite domande?» Imalia alzò le spalle. «Credo di sì,» convenne. «Ma mi guardava come se mi odiasse. Come se in qualche modo volesse farmi del male.» «Perché avrebbe dovuto?» «Non lo so,» ammise con calma Imalia. «Non lo so proprio.» Aspirò una boccata veloce dalla sigaretta. «Gli dissi che Hannah lavorava per me, ma che non la conoscevo molto bene. Che cos'altro potevo dire? Era la verità.» «E così non ha potuto aiutarlo?» «Credo di no,» confermò Imalia. Scosse il capo. «Non sapevo molto della vita privata di Hannah. Lei era una dipendente, io il suo capo. Sa come vanno queste cose. Molto spesso i rapporti finiscono lì.» Alzò le spalle, in un gesto di impotenza. «Ha lavorato per me a lungo. A questo punto desidero solo che abbia una sepoltura decente. Penso che se la meriti.» Aspirò un'ultima boccata e poi spense la sigaretta nel piccolo portacenere di latta sulla scrivania. «Non si tratta di una questione personale,» aggiunse, alzando gli occhi verso di lui. «Non era come una madre per me né nulla di simile. Era una dipendente molto valida e per questa ragione non voglio che il suo corpo rimanga ancora a lungo all'obitorio.» «Avranno le loro buone ragioni, Miss Covallo.» Imalia lo fissò con freddezza. «Se ci sono ragioni così importanti, perché non mi dicono quali sono?» «Non lo so,» ammise Frank, «ma non credo che insisterebbero senza
motivo.» «Forse,» convenne Imalia, «ma non ho molta fiducia nella polizia, Mr Clemons... Frank.» Lo guardò attentamente, poi disse: «Posso chiamarla Frank?» Lui fece cenno di sì con il capo. Imalia abbozzò un sorriso. «Per quanto ne so, non hanno fatto molti progressi nelle indagini.» «Non ha dato loro molto tempo.» «Due settimane,» osservò Imalia con improvvisa durezza. «Hanno scombussolato tutto.» «Scombussolato?» «Sì, la mia vita,» disse Imalia. «Che cosa crede, che alle persone che lavorano con me piaccia essere interrogate? Va avanti così da due settimane. Quanto ci vorrà ancora perché Hannah riposi in pace?» «Miss Covallo, se un caso di omicidio non si risolve entro ventiquattr'ore potrebbe andare avanti per parecchi anni. O potrebbe non risolversi mai.» «Vuol dire che non accetta l'incarico?» chiese Imalia senza mezzi termini. «No,» rispose Frank. «Ma se avesse la pazienza di aspettare ancora qualche giorno, potrebbe risparmiare dei soldi.» «Non mi preoccupo della parcella,» lo rassicurò Imalia. «Posso permettermela.» Distolse lo sguardo nel tentativo di controllarsi. «Desidero solo che Hannah abbia una sepoltura decente. Solo questo.» Si voltò verso Frank, e per un attimo il suo sguardo parve quasi supplichevole. Poi raddrizzò le spalle e il capo, con fare autoritario. «Spero che vorrà aiutarmi, Mr Clemons.» «Le farò sapere ciò che scopro,» replicò Frank con fermezza. «Non posso fare di più.» «Il denaro non è un problema, si ricordi.» «Può darsi,» disse Frank, «ma se comincio a distribuire in giro troppo denaro, comprerò solo bugie.» Imalia non sembrò troppo convinta. «Voglio solo che sappia che sono disposta a pagare qualsiasi cifra,» insistette lei. Poi si alzò e si avviò alla porta. «Parlerò con Tannenbaum,» dichiarò Frank. «La terrò informata.» «Anch'io vorrei poterla contattare. Quando non è in ufficio la trovo da Karen?»
«Il più delle volte sì.» «Altrimenti dove posso cercarla?» domandò Imalia abbozzando un sorriso. «Non ha un rifugio?» «Talvolta frequento in orari strani un piccolo bar,» svelò con riluttanza. «Qual è il numero di telefono?» gli domandò Imalia senza esitazione. «Non è il caso che mi chiami lì.» Imalia distolse lo sguardo. «Non conosco molto bene quel tipo di locali,» si scusò imbarazzata. «Si trova all'angolo tra la Decima e la Quinta Avenue. Secondo piano. È aperto dalle due fino all'alba.» «La cercherò lì solo in caso di emergenza,» lo rassicurò Imalia. Poi lasciò vagare il suo sguardo per l'ufficio, e il suo volto improvvisamente fu offuscato da un'ombra di malinconia. «Questo posto è come una tana, come una stanza nelle viscere della terra.» Poi si voltò di scatto e se ne andò. 4 La grande facciata di mattoni del distretto di polizia di Midtown North dominava la via, enorme e incombente come un gigantesco cane da guardia fulvo. Lungo i marciapiedi erano parcheggiate le auto bianche e azzurre della polizia, accanto alle moto e ad altri veicoli, quasi tutti blu o verde scuro con il codice della polizia sulla targa. Nella stanza all'ingresso alcune persone, appoggiate a un banco lungo quasi quanto tutta la parete, si guardavano intorno con occhi torvi, ammanettate dietro la schiena e tenute per un braccio da un poliziotto. A destra entrava e usciva un flusso ininterrotto di poliziotti, testimoni, avvocati, donne malmenate, protettori e giocatori d'azzardo con giacche sgargianti, investigatori di mezza età che salivano pesantemente la scala verso le sezioni omicidi, narcotici o buoncostume. In attesa di poter parlare al sergente alla scrivania, Frank lasciò vagare lo sguardo sulle persone sedute sulla panchina di legno alla sua destra. Una tossicodipendente ciondolava la testa in uno stato di semincoscienza e ogni tanto rialzava di scatto il volto pallido e smunto. Seduta accanto a lei una vecchia rovistava in una valigia sistemata ai suoi piedi: era piena zeppa di riviste fradicie che la donna consultava attentamente, una pagina alla volta. C'era anche un uomo ben vestito con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva il colletto e i calzoni strappati e un'espressione strana, come se la recente aggressione subita in strada avesse cambiato irrimediabilmente il suo modo
di vedere il mondo. «Salve, Clemons.» Frank si voltò verso la scrivania del sergente. Si chiamava Calvino e svolgeva il suo lavoro come se fosse stato il direttore di un circo, muovendosi freneticamente da un gruppo di persone all'altro, rispondendo al telefono e gridando ordini attraverso i piccoli altoparlanti marrone qua e là nella stanza. «Tannenbaum è in ufficio?» domandò Frank. «Certo, è di sopra.» «Sta lavorando ancora al caso di Hannah Karlsberg?» «Per quanto ne so io, sì,» rispose Calvino. A un tratto spostò lo sguardo alle doppie porte rovinate del distretto. Tre uomini, scortati da una decina di poliziotti, erano appena entrati facendole sbattere. «Merda,» mormorò Calvino. «Oggi c'è una vera tempesta di carta.» Poi i suoi occhi tornarono su Frank. «È di sopra,» disse sbrigativamente. «Tannenbaum è da qualche parte di sopra.» Frank si avviò alla scala di legno scricchiolante che conduceva al primo piano, con il corrimano lucido e liscio per l'usura e gli scalini consumati al centro. Un flusso costante di persone aveva percorso quella scala, e mentre saliva Frank sentì una strana affinità con tutti loro, non solo con i poliziotti stanchi e annoiati, ma anche con gli assassini, i piromani, gli ubriachi e i ladri, un mare di delinquenti incalliti le cui vite disordinate sentiva vicine alla sua. Tannenbaum sedeva alla scrivania della sezione omicidi, con il Daily News aperto davanti. Indossava una giacca costosa, scarpe di pelle lucida, e Frank pensò che la commissione interna doveva aver controllato i suoi registri più di una volta ma, non avendo scoperto nulla, doveva aver concluso che Tannenbaum era uno di quelli che preferivano spendere i soldi in abbigliamento piuttosto che in una vacanza alle Bahamas o in una villetta a Staten Island. «Ciao, Leo,» lo salutò Frank dirigendosi verso la scrivania. Tannenbaum alzò lo sguardo dal giornale, poi lo riabbassò. «Hai letto questa, Frank? La scorsa notte al Queens due poliziotti si sono sparati. Erano amanti. Incredibile! Ed entrambi erano sposati. Dio solo sa quanti figli avevano.» Guardò Frank. «È quel genere di notizia che fa palpitare il mio cuore. Come ti va?» Frank avvicinò una sedia alla scrivania e si sedette. «Un paio di settimane fa è stata uccisa una donna sulla Settantaseiesima.
Si chiamava Hannah Karlsberg.» «Esatto.» «Stai ancora lavorando al caso?» «È un po' presto per chiuderlo, Frank.» «Te ne occupi tu?» «Più o meno,» rispose Tannenbaum. «Perché?» «Mi è stato chiesto di indagare.» «Davvero?» disse Tannenbaum. «Chi te lo ha chiesto?» «Un cliente che paga.» Tannenbaum rise. «Dai, Frank, non siamo in televisione. Poliziotti e investigatori privati lavorano insieme, lo sai. Guardiamo in faccia la realtà. Senza di noi non puoi fare molto. Almeno quando si tratta di omicidio.» Ammiccò scherzosamente. «A Cesare quel che è di Cesare. Intendo dire che quando si tratta di cogliere qualche politico tra le braccia dell'amante, voi avete senz'altro la meglio su di noi.» Frank non replicò e così Tannenbaum, sventolandogli sotto il naso un dito dopo l'altro, elencò gli innumerevoli inconvenienti cui va incontro un investigatore privato che sceglie di non condividere le proprie informazioni con la polizia. «Voglio ricordarti che non avete un laboratorio, né uno schedario con le impronte digitali. Non potete fare analisi balistiche, prendere campioni di capelli o di pelle, o esaminare agli infrarossi un'unghia. Odio dovertelo ricordare, ma non puoi analizzare lo sperma in una vagina o individuare il gruppo sanguigno di quell'animale che ce l'ha lasciato. Non puoi analizzare gli escrementi né le impronte delle scarpe, e neppure preparare un identikit.» Si sporse in avanti. «Mi sono spiegato?» Frank lo fissò, inespressivo. «Non puoi fare autopsie, profili psicologici e ricerche anagrafiche con il computer,» continuò Tannenbaum. «Per concludere, quando si tratta di un caso di omicidio, tu hai molto più bisogno di me che non io di te.» «Covallo,» disse Frank. «Imalia Covallo.» «È lei la tua cliente?» «Già, proprio lei.» Tannenbaum sorrise. «Me lo immaginavo.» Si appoggiò allo schienale. «E così lei crede che tu possa acciuffare il tizio che ha ucciso Miss Hannah Karlsberg.» «Desidera soltanto dare una sepoltura decente alla donna.» «Nient'altro?» «No.»
«Non le interessa sapere chi l'ha uccisa?» «Per questo si affida a voi.» Tannenbaum scosse il capo. «In effetti è comprensibile. Intendo dire, che voglia seppellire la sua amica. Anche a me non piace tenere i corpi all'obitorio. Che cos'altro ti ha detto?» «Solo ciò che le ha riferito la polizia.» «E cioè?» «Che non volete rilasciare il corpo,» disse Frank. «E che deve essere un parente a richiederlo.» «È la legge, Frank,» dichiarò Tannenbaum. «Ti ha detto nient'altro?» «Che la Karlsberg era un'impiegata fedele.» «E lei vuole che tu trovi un suo parente. Esatto?» «Sì.» Tannenbaum alzò le spalle. «D'accordo,» disse. «Forse ti posso aiutare.» Estrasse un fascicolo dal primo cassetto della scrivania e lo infilò nella tasca della giacca. «Andiamo a fare una passeggiata,» propose alzandosi. Usciti dall'edificio della polizia, Tannenbaum si diresse verso la Nona Avenue, poi a nord, verso Central Park. «L'atmosfera del distretto comincia a darmi sui nervi,» gli spiegò. «È capitato anche a te?» «Sempre.» «Lavorare fuori mi va bene, ma il distretto è una vera fogna,» aggiunse Tannenbaum. «Era così anche ad Atlanta?» «È sempre così quando preferisci lavorare da solo.» Tannenbaum emise un respiro profondo. «Quando ti libererai di quell'accento da montanaro? Pensavo che ormai l'avessi perso.» «Certe cose sono dure a morire.» «Dovresti sentire mio cognato,» disse Tannenbaum ridendo. «Dice che voi da quelle parti avete un liquore che chiamate 'Grido del Ribelle'. È vero?» «Certo.» «Lo trovi anche qui?» «Non l'ho mai cercato.» Tannenbaum lo guardò serio. «Come, non hai nostalgia di casa?» Frank non rispose, e i due si incamminarono in silenzio verso Columbus Circle. Tannenbaum comprò un hot dog da un venditore ambulante, poi si sedette su una panchina e invitò Frank a mettersi accanto a lui. Prima di addentare il panino, lo sollevò come un trofeo.
«Questo mi mancherebbe molto,» ammise Tannenbaum. Una giovane donna passò velocemente davanti a loro, poi svoltò in una via laterale. A Frank ricordò la sorella di Karen, e per un attimo sentì l'impulso di correrle dietro, di metterla in guardia, di dirle tutto ciò che avrebbe voluto dire a sua figlia: Sii ciò che vuoi, ma non essere mai una vittima. Tannenbaum bevve un sorso di soda da una lattina, poi si pulì accuratamente la bocca con un tovagliolino. «Ho sentito dire che vivi con una donna di classe,» esordì Tannenbaum. Frank continuava a seguire con lo sguardo la donna che si faceva strada nel traffico intenso. «Conosce la Covallo?» «Sì, la conosce.» «Ma questo rapporto tra te e la Covallo è esclusivamente professionale?» «Certo che lo è,» rispose Frank in tono asciutto. «Dovevo chiedertelo, Frank,» si scusò Tannenbaum. «Se hai intenzione di occuparti di questo caso, non voglio che tra noi ci siano segreti.» «È venuta da me questa mattina,» gli spiegò Frank. «Ieri sera era a una festa da Karen. Non l'avevo mai vista prima. Soddisfatto?» «Non c'è problema, Frank, credimi,» disse Tannenbaum. Diede un altro morso al suo panino e masticò rapidamente, mentre il suo sguardo correva da destra a sinistra come se stesse tenendo sotto controllo la strada. «Non c'è nulla di personale,» aggiunse dopo che ebbe deglutito. «Non voglio che nessuno mi metta i bastoni tra le ruote. Tu eri un poliziotto, perciò sai che cosa intendo dire.» Estrasse il fascicolo dalla tasca e lo porse a Frank. «Tieni. Leggilo. Comincerai a informarti.» «Di che cosa si tratta?» «È il rapporto della scientifica,» gli disse Tannenbaum. «Le solite formalità.» «Io non mi occupo di questo caso, Leo,» gli ricordò Frank. «Sto solo cercando di far rilasciare il corpo della donna.» Tannenbaum insistette perché prendesse il fascicolo. «Quando l'avrai letto capirai perché teniamo il cadavere.» Frank infilò il rapporto sotto il braccio. «Dov'è il cadavere?» «È ancora all'obitorio. Il fatto è che ci sono troppe cose che non quadrano.» «In che senso?» «È tutto scritto nel rapporto,» rispose Tannenbaum. «Per quanto ci ri-
guarda, terremo il corpo il più a lungo possibile.» Scrollò le spalle. «A meno che non compaia un lontano cugino.» «Aveva figli?» chiese Frank. «Sembra non avesse eredi. Neanche la tua amica Covallo potrebbe riuscire a trovare qualcuno che abbia legami di sangue con quella donna.» Frank scrutò la cartelletta, poi si rivolse a Tannenbaum. «Foto?» domandò. «Ne avete trovate nell'appartamento?» Tannenbaum scrollò il capo. «Ce n'erano alcune appese a una parete. Una era di Imalia Covallo, scattata in città o nei dintorni. E poi alcune della stessa Karlsberg in occasione di qualche viaggio.» «Con qualcuno?» «Da sola. Forse gliele aveva scattate qualche giovanotto locale.» «Numeri telefonici?» «Aveva una piccola rubrica,» disse Tannenbaum. «Abbiamo chiamato tutti i numeri segnati, ma c'erano solo persone con le quali aveva contatti di lavoro. C'era anche la tua cliente e qualche altro come lei.» Frank lo guardò con aria interrogativa. «Che cosa intendi dire?» «Persone del settore della moda,» gli spiegò Tannenbaum guardandolo distrattamente. «Sai nulla di questo mondo?» Frank ripensò agli edifici di Cabbage Town, il piccolo e polveroso villaggio di baracche che sorgeva al limite del suo vecchio quartiere ad Atlanta, un mondo di sudore e di birra scadente accoccolato da più di cento anni all'ombra scura delle vicine fabbriche tessili. Talvolta, attraversandolo velocemente in auto aveva visto i bambini mezzi nudi giocare nei campi o gli anziani dondolarsi pigramente sulle traballanti sedie a dondolo, ma non si era mai inoltrato in uno di quei vicoli stretti e dissestati. «No, non molto,» ammise Frank. «Bene, Hannah Karlsberg vi ha lavorato per tutta la vita,» sentenziò Tannenbaum con un filo di amarezza nella voce. «In quel mondo si respira un'aria molto pesante, Frank,» aggiunse freddamente. «È molto competitivo. Spietato è la parola giusta.» «Dove vuoi arrivare, Leo?» «Questo fa intravedere un'altra possibilità,» continuò Tannenbaum. «Potremmo frugare nella vita privata della donna e magari scoprire qualcosa di sorprendente, qualcuno che diventa ricco perché riceve un doppio risarcimento o cose simili.» «Hai scoperto nulla di questo genere?» «No, per ora nulla, e pensiamo che sia un vicolo cieco. Se ci fosse stato
qualcosa di losco a questo proposito, puoi star sicuro che l'assicurazione sarebbe stata così gen ile da informarci immediatamente e da fornirci tutte le spiegazioni opportune.» Sorrise con aria scaltra. «In questi casi sono sempre disposti a collaborare.» Frank annuì. «Nient'altro?» «Questioni professionali,» disse Tannenbaum. «Una rogna di lavoro, forse un impiegato scontento. Secondo la Covallo, Hannah aveva maltrattato un po' di persone.» «Hai informazioni certe a questo proposito?» volle sapere Frank. Tannenbaum sorrise. «Perché me lo chiedi, Frank?» Frank non disse nulla. «Non abbiamo nulla di concreto. Sappiamo che non è stata rapinata.» Scrollò le spalle. «Se vuoi sapere la verità, al momento l'unica pista è quella dello psicopatico solitario.» Scosse il capo guardando il rapporto. «Leggilo e capirai.» Finì con un ultimo boccone il suo panino e poi si bevve la soda. «Ora devo tornare al distretto,» disse alzandosi. Guardò Frank e gli sorrise. «Voi investigatori privati avete la vita facile, sei vuoi proprio saperlo. Niente schede da compilare, niente superiori altezzosi, nessun lavoro a tavolino.» Scrollò il capo lentamente. «La vita facile, te lo dico io!» «Posso andare a vedere l'appartamento?» domandò Frank. «Perché no?» rispose Tannenbaum. «Lo abbiamo già messo sottosopra noi.» Si strinse nelle spalle con indifferenza. «Non è una vista piacevole,» aggiunse, «ma ti è già capitato, vero?» «Sì.» «Dovrei farti accompagnare da qualcuno,» disse Tannenbaum. «Potrei venire io.» Frank fece cenno di sì con il capo. «Quando?» «Potremmo fare oggi pomeriggio,» propose Tannenbaum. «Ci troviamo verso le tre?» «Va bene.» Tannenbaum fece un cenno di saluto, incamminandosi. «Miss Covallo pensa di non esserti simpatica,» aggiunse in fretta Frank. Tannenbaum si voltò di scatto e il suo sguardo si incupì. «Davvero?» «Così mi ha detto.» «Non so molto della Covallo, Frank,» esordì Tannenbaum, «ma conosco il mondo della moda. Ne so davvero abbastanza.» Sul suo volto apparve un'ombra di risentimento. «Mia madre si è ammazzata di lavoro in una di quelle dannatissime fabbriche che sfruttavano la manodopera giù in Lower
East Side. Sai che cosa ci ha guadagnato? Nulla. L'hanno usata, e poi l'hanno buttata nel cesso.» Scrollò il capo. «Talvolta spero che esista veramente un Dio. Un Dio vero, tremendo come l'inferno. E sai perché? Perché così puoi dire a un ragazzo: 'Non fare questo, non farlo perché altrimenti andrai a bruciare all'inferno.'» Si voltò di scatto, come per nascondere il viso. Mentre camminava, il suo impermeabile nero sbatteva nel vento gelido. 5 Frank si incamminò lentamente verso il suo ufficio sulla Quarantanovesima Strada a pochi isolati di distanza. L'aria fredda dell'inverno, frizzante e piacevole, gli ricordava le sue prime settimane in città, i giorni passati a scoprire New York con Karen che gli faceva da guida. Ripensò ai lunghi pomeriggi trascorsi a passeggiare allegramente o a visitare le gallerie di Madison Avenue e di Soho. Non si era mai sentito così vicino a Karen come allora e quell'intimità aveva trasmesso alle loro vite una strana e malinconica felicità. Con il passare del tempo il triste ricordo dell'omicidio della sorella si era affievolito nella mente di Karen, ma non in quella di Frank, che certe volte di notte veniva assalito da quelle immagini con una furia improvvisa e non controllabile. Rivedeva il corpo di Angelica, disteso scomposto sul prato con i capelli sparsi intorno al volto e un grumo di terra sotto la lingua. Qualche attimo dopo Caleb moriva tra le sue braccia, e allora Frank afferrava Toffler e lo tempestava di pugni fino a quando i suoi freddi occhi azzurri si trasformavano in piccole pozze di sangue. In quel momento aveva provato una gioia selvaggia, ma dai giorni che avevano seguito l'arresto di Toffler quel ricordo lo infastidiva. Per sfuggire a quei pensieri vagò con lo sguardo sugli enormi palazzi e su quel piccolo ritaglio di cielo che li sovrastava. Lentamente, camminando verso la Nona Avenue, le massicce costruzioni di mattoni lasciavano il posto ai vecchi caseggiati di Hell's Kitchen. All'altezza della Cinquantesima Strada era stato demolito un intero isolato, e guardando al di là del terreno dove una volta sorgevano gli edifici ora rasi al suolo Frank poteva già scorgere il piccolo cancello di ferro da cui si accedeva al suo ufficio. Due uomini con pesanti giacche di cotone e capelli biondi cortissimi erano appoggiati al cancelletto e quando videro Frank girare l'angolo dalla Quarantanovesima e avviarsi verso di loro lo guardarono con sospetto.
Uno dei due infilò la mano sotto la giacca, e Frank credette di vedere le dita tozze e bianche impugnare una calibro 38. Non sapeva assolutamente chi fossero e cercò di individuare qualche piccolo dettaglio che potesse aiutarlo. Nel cuore di Hell's Kitchen avrebbero potuto essere due poliziotti di Midtown North in borghese, oppure due westy, membri di una banda locale composta principalmente da criminali irlandesi. Frank si augurò che fossero poliziotti, ma fissandoli diritto negli occhi a mano a mano che si avvicinava loro aveva sempre più l'impressione che fossero westy. Avevano l'aspetto di uomini che per qualche migliaio di dollari sarebbero stati disposti a sparare a chiunque. Continuò a camminare stringendo la mano sulla calibro 45 nascosta sul fianco. Si fermò proprio davanti a loro, con gli occhi fissi sulla mano che l'uomo teneva sotto la giacca. Quando la sfilò all'improvviso, Frank sentì il cuore balzargli nel petto: era disarmato, e quella mano vuota lo colpì per la sua vulnerabilità. «Devo passare,» disse Frank con calma indicando il cancello. «Oh, certo,» convenne uno dei due. «Scusi.» «Di nulla.» I due uomini si spostarono sollecitamente ai lati del cancelletto. «Ci scusi ancora,» disse uno dei due. «Di nulla,» ripeté Frank, questa volta accennando un sorriso. Passò tra i due, scese la scala e imboccò lo stretto corridoio che conduceva al suo ufficio. Era quasi deluso, e con un'improvvisa fitta di dolore si rese conto che una parte di sé - quella stessa parte, purtroppo, che doveva aver ereditato sua figlia - avrebbe voluto che dalla giacca di quell'uomo fosse saltata fuori una pistola e che avesse sparato e sparato fino a che lui non avesse sentito più nulla. Seduto alla scrivania, Frank accese la lampada che gli aveva regalato Karen e aprì il rapporto della scientifica consegnatogli da Tannenbaum. Era scritto nel solito, disadorno stile poliziesco, ma attraverso il referto sintetico dell'autopsia veniva alla luce il racconto delle ultime ore di vita di Hannah Karlsberg. «Femmina, razza bianca, ben sviluppata, settant'anni.» Non soffriva di alcuna malattia grave, ma presentava un «leggero ingrossamento del fegato» e i suoi polmoni mostravano «chiari segni di deterioramento, soprattutto di rigidità alveolare,» il che conduceva a «una diagnosi di enfisema polmonare avanzato».
Era minuziosamente indicato anche il peso del cuore e del cervello al momento della morte. Quella sera aveva cenato tardi con pollo e punte di asparagi, verso mezzanotte aveva bevuto una tazza di tè. Non aveva ingerito alcolici né assunto droghe. Non aveva preso medicine nelle ultime ventiquattr'ore. Era stata assalita verso le due del mattino, e aveva cercato di proteggersi con le mani, dato che presentavano «tagli e graffi che si era procutata nel tentativo di difendersi». La morte era avvenuta pochi istanti dopo l'aggressione. Il corpo non era stato spostato, ma era rimasto a faccia in giù fino al momento della scoperta, quasi dodici ore dopo; per la forza di gravità il sangue era defluito nei tessuti in rapido degrado provocando l'inevitabile stato di lividezza riscontrato dal medico legale al suo arrivo. Non era stata violentata, né prima né dopo la morte; ma aveva subito qualcosa di ugualmente perverso, e quando Frank lo lesse si rese conto del motivo per cui Hannah Karlsberg non era ancora stata sepolta. «Mano destra recisa all'altezza del polso.» Qualcuno le aveva tagliato la mano destra e l'aveva portata via con sé. Quelli erano i fatti, ma a Frank parvero, come sempre, insufficienti: si appoggiò allo schienale e cercò di ricostruire la scena. Immaginò Hannah mentre cenava, il suo sentirsi stanca quando cominciava a far notte; la vide andare a letto, alzarsi di scatto per un rumore, scendere dal letto spaventata e andare in soggiorno. Pochi secondi dopo, forse nella completa oscurità o forse dopo che lei aveva acceso la luce, una lama l'aveva trafitta. Ma che cosa fosse accaduto nei terrificanti secondi che erano seguiti all'omicidio era ancora un mistero. La stanza doveva essere stata invasa dai rumori del suo corpo che si dibatteva negli spasmi dell'agonia: una sedia doveva essere rotolata, una lampada doveva essersi fracassata sul pavimento mentre gli spruzzi rossi del suo sangue riempivano l'aria. Ci dovevano essere state anche delle grida oppure un urlo lacerante, oppure semplicemente un gemito sommesso: da qualche parte nell'edificio, di fianco, sotto, sopra, un altro essere umano doveva aver sentito qualcosa, essersi chiesto per un attimo di che cosa potesse trattarsi, ma poi doveva aver deciso di rimettersi a dormire o di continuare a guardare la televisione o a leggere, senza dar peso a sensazioni oscure e irrazionali. In quel momento si era spezzato anche l'ultimo filo di speranza per Hannah Karlsberg, e solo pochi secondi dopo era morta. Erano rimaste ancora le fotografie, che Tannenbaum aveva accluse in
una busta a parte. Mostravano le conseguenze dell'accaduto, e ogni volta che Frank scorreva quelle foto provava la tremenda sensazione che tutto ciò che nella vita è positivo, ogni cosa che l'addolcisce o la rafforza o le dà significato, inevitabilmente arriva qualche secondo, qualche minuto o qualche anno troppo tardi. Hannah Karlsberg giaceva sulla moquette del soggiorno, con il volto verso l'obiettivo, l'occhio sinistro aperto, fisso, il destro chiuso e impastato dopo essere rimasto per ore contro la moquette intrisa di sangue. Un braccio era disteso parallelamente al corpo, mentre l'altro pareva alla ricerca affannosa di qualcosa sopra il capo. Le gambe erano divaricate, e le dita dei piedi sembravano piccole montagne rosa che si ergevano dal pavimento. Un tallone era sporco del suo stesso sangue. Era stata assalita alle spalle e attraverso l'ampio squarcio nella camicia da notte si vedevano brandelli di pelle e piccoli frammenti bianchi di osso. Ancora una volta Frank, osservando il corpo martoriato di Hannah si sorprese a riflettere sulla vulnerabilità e sulla fragilità della vita. C'erano in tutto undici fotografie: dopo aver infilato anche l'ultima nella busta, Frank prese dall'ultimo cassetto dello schedario dietro la scrivania la sua bottiglia di Bushmills. Aveva combattuto con l'idea di bere un goccio fin dal mattino: lo aveva desiderato durante la passeggiata che aveva fatto prima dell'alba a Times Square, e aveva girato a lungo per il quartiere dove sapeva che avrebbe potuto trovarlo facilmente anche se i bar chiudevano alle cinque del mattino. Le imposizioni dello stato di New York non tenevano conto delle esigenze di molti cittadini, alcuni dei quali cercavano di soddisfare le proprie necessità nei locali disseminati nella zona ovest della città, dalla Trentaquattresima fino a Central Park, dove si poteva bere negli orari più impensati. Frank preferiva però andare in un locale buio e tranquillo tra la Decima Avenue e la Cinquantesima Strada, dove ogni cliente percepiva e rispettava il forte desiderio di ogni altro di restare solo. Tolse il bicchierino dal collo della bottiglia, si versò un goccio e lo mandò giù con piacere, come sempre, come se fosse il primo dopo tanto tempo. Anche quando a quindici anni aveva bevuto del whisky per la prima volta non aveva fatto smorfie di disgusto né aveva tossito torcendosi per il bruciore: nessuno aveva potuto deridere la sua inesperienza. Quel primo goccio era stato buono quanto l'ultimo, e da allora gli era rimasto quel senso di benessere leggero e confortante che lo aveva conquistato e a cui non avrebbe mai potuto arrendersi completamente né rinunciare per sempre.
Improvvisamente il telefono squillò. Frank rimise in fretta il tappo alla bottiglia e rispose. «Frank Clemons,» disse asciutto. «Frank, sono Karen.» Ricordò come una volta il suono di quella voce lo elettrizzasse, quanto avesse desiderato udirlo durante quei soffocanti giorni d'estate in cui indagava sull'omicidio di Angelica. «Ciao,» le disse. «Stavo pensando di portarti fuori a cena,» propose Karen allegramente. «È una buona idea,» concordò Frank. Mentre parlava il suo sguardo si fermò sul quadro di Karen che teneva in ufficio, quello che lui stesso aveva acquistato ad Atlanta e che a quel tempo sembrava rappresentasse molto per lei; un vaso di fiori spettrale che grazie a strani giochi di colore acquisiva sfumature evanescenti. «Non è per un'occasione speciale,» aggiunse Karen. «Solo per distrarci.» «D'accordo.» «Conosci un posto carino dove andare?» «Dove preferisci tu.» «Irini sulla Trentottesima?» «Va bene.» «Stasera alle otto?» «Perfetto.» «A presto.» Frank riappese il ricevitore. Per un attimo pensò di riesaminare le fotografie, poi decise di rileggere il rapporto, questa volta più attentamente, come aveva già fatto in passato per dozzine di casi come quello. Trascriveva meticolosamente tutti i particolari sui suoi taccuini verdi dove annotava tutto ciò che riguardava i casi. In tanti anni ne aveva ammucchiati moltissimi, e dopo che si era trasferito, suo fratello Alvin li aveva messi in una scatola e glieli aveva spediti a New York. Ora erano in un angolo dell'unico armadio della stanza, e quando ci pensava o ne cominciava uno nuovo, lo riassaliva la rabbia per ciascuna di quelle morti. Uno dopo l'altro, tutti quei volti gli passavano davanti agli occhi, fermandosi un istante in un ricordo straziante e al termine di quella macabra sfilata tornava al cadavere di turno, riverso sulla riva del fiume, accasciato sul volante o, come nel caso di Hannah Karlsberg, a faccia in giù nella luce del mattino nel suo appartamento al quattordicesimo piano, a metà strada fra i rumori della città e un cielo sordo.
6 L'appartamento di Hannah Karlsberg si trovava in un grande palazzo di mattoni all'angolo tra la Settantaseiesima Strada e Central Park West. Era una costruzione piuttosto vecchia, ma conservava un bell'aspetto, grazie alle finestre nuove e alla recente sabbiatura della facciata. Il portiere, con un lungo cappotto grigio ornato da enormi bottoni d'ottone, presidiava l'ingresso con l'aria annoiata di chi è stanco di assistere alle commedie della strada, e i suoi occhi acquistarono vivacità solo quando Frank si avvicinò al portone. «Posso aiutarla?» gli domandò con sussiego. Frank gli mostrò la propria tessera di riconoscimento, con la foto, il timbro dello stato di New York e il numero della sua licenza di investigatore privato. L'uomo la guardò con indifferenza. «Se ha intenzione di torchiarmi per avere informazioni su qualcuno che abita nel palazzo, se lo scordi,» precisò subito il portiere. «Hannah Karlsberg,» sillabò Frank. Il portiere gli lanciò uno sguardo penetrante. «Penso che sappia che è morta.» «Sì lo so.» «Allora si rivolga alla polizia.» «L'ho già fatto.» «In tal caso non ha bisogno di me, esatto?» «Era in servizio la notte in cui è stata uccisa?» domandò Frank. «No,» rispose l'uomo scrollando le spalle. «Non c'era nessuno in servizio. Il portiere fisso di questo palazzo è morto circa due settimane fa. Solo dopo l'omicidio si sono decisi a sostituirlo. Così adesso ci sono io,» concluse con un ampio sorriso. «Dunque lei non l'ha mai incontrata?» L'uomo scosse il capo. «A dirle la verità, questa divisa da portiere è solo di facciata,» disse. «Io dipendo da una società di vigilanza. E certo non potrei fare questo lavoro per tutta la vita, con tutti questi inchini e riverenze agli inquilini: piuttosto preferirei stare seduto in un magazzino a Brooklyn.» Sorrise. «Le casse di accessori per computer non ti obbligano a bagnarti il culo sotto la pioggia per aprir loro la portiera del taxi.» «Sono qui per visitare l'appartamento,» disse Frank.
«Ha il permesso?» «Non da solo.» «Io non posso abbandonare l'ingresso.» «Intendevo con un poliziotto,» specificò Frank. «Lo sto aspettando.» «Per me va bene,» disse l'uomo. «Preferisce aspettare dentro?» «Grazie, volentieri.» L'atrio del palazzo era simile a molti altri nella zona intorno a Central Park. Lo stile dell'arredamento sembrava studiato apposta per rassicurare i privilegiati residenti sulla loro posizione sociale: vi erano specchi enormi con cornici dorate e tappeti orientali riccamente tessuti, mentre le pareti erano rivestite in mogano scuro e i pavimenti erano di lucido marmo verde. Anche l'aria profumava come se fosse stata appena depurata. Tannenbaum arrivò con alcuni minuti di ritarda Con un gesto sbrigativo mostrò la propria tessera al portiere e raggiunse Frank nell'atrio. «Sei puntuale, Frank,» lo salutò avviandosi verso l'ascensore. «Abitava al quattordicesimo piano. Appartamento A.» Davanti alla porta c'era una striscia di carta gialla sulla quale spiccava la scritta in nero: VIETATO ENTRARE, LUOGO SOTTO SEQUESTRO. Tannenbaum infilò la chiave, aprì la porta, ed entrò nell'appartamento passando sotto la striscia di carta. Frank lo seguì. «Bene, eccoci qui,» esclamò Tannenbaum, mentre Frank lo raggiungeva in anticamera. «Ovviamente è tutto in disordine. È sempre così in questi casi.» Alcuni metri oltre la piccola anticamera, una flebile luce lattiginosa filtrava dalle tende semiaperte. Una fila di macchie rossastre correva in diagonale sul pavimento, e abbassando lo sguardo Frank individuò una grande pozza di sangue coagulato sulla moquette, a non più di un metro dalla finestra, intorno alla quale era stata disegnata con gesso bianco la sagoma del corpo. Era evidente che Hannah Karlsberg era morta a causa delle ferite alla gola e al petto. Tannenbaum camminò a grandi passi verso il salotto, fermandosi accanto alla sagoma di gesso. «Hai visto la porta?» domandò rivolgendosi a Frank. «Vuoi dire i segni lasciati dal piede di porco?» chiese Frank a sua volta. «Esatto,» confermò Tannenbaum. «Sono molto evidenti. Non si può certo dire che fosse un ladro particolarmente abile.» «Sono state divelte entrambe le serrature?»
«No, solo quella più in basso. Probabilmente l'altra non era nemmeno chiusa.» Alzò le spalle e osservò: «Chissà perché?» «Ci sono altri ingressi?» Tannenbaum scosse il capo. «Solo l'uscita antincendio all'esterno della finestra della camera da letto, ma non è stata toccata. La finestra era chiusa e non ci sono segni di effrazione. Sembra proprio che abbia avuto fortuna con quella serratura.» Frank entrò lentamente in salotto. Poco prima, nel suo ufficio, aveva immaginato una sedia rovesciata e una lampada frantumata. Vide invece un portariviste capovolto e il piano di cristallo di un tavolino staccato dal piedistallo di marmo verde. «Come se lei vi avesse inciampato,» osservò Tannenbaum avvicinandosi cautamente al bordo del tavolo. «C'erano macchie di sangue e tracce di carne su uno spigolo.» Si guardò intorno e i suoi occhi sembravano riflettere le gocce di sangue che macchiavano le pareti. «Si deve essere mossa un po',» disse. «Lo si nota dai muri.» Tutti e quattro erano sporchi di sangue, e persino il soffitto. Il coltello doveva aver aperto zampilli di sangue così alti da salire ben oltre il capo dell'assassino. Frank si diresse verso il lato destro del salotto e indicò con il capo il corridoio che conduceva alle altre camere. «C'è nient'altro di là?» domandò. «No,» rispose Tannenbaum. «Tutto pulito.» Frank non disse nulla, e Tannenbaum lo guardò con curiosità. «Vuoi vedere il resto dell'appartamento?» domandò. «Già, perché no?» «Seguimi.» Tannenbaum guidò Frank lungo il corridoio fino alla camera. Il letto era stato rifatto accuratamente. «Deve essere rimasta alzata fino a tardi, quella notte,» disse Frank osservando il letto. Poi guardò Tannenbaum. «Hai notato il numero di mozziconi nel posacenere del salotto?» Tannenbaum indicò un altro posacenere appoggiato sul tavolino bianco accanto al letto. «Anche questo è pieno. Stessa marca di sigarette del pacchetto trovato sul pavimento in salotto.» «Era la marca delle sigarette che fumava lei?» «Sì, abbiamo già controllato.» «Lei aveva un enfisema,» osservò Frank. «Ha sempre fumato così tanto?»
«Ci hanno detto che aveva cercato di smettere,» riferì Tannenbaum. Il suo sguardo si soffermò sul posacenere. «Ho l'impressione che quella notte fosse un po' nervosa.» Scosse il capo. «Se fosse stata più giovane, avrei pensato che avesse qualche problema d'amore, sai com'è. Forse aspettava l'amante sposato, o giù di lì. Magari un litigio. Talvolta in questi casi le situazioni si mettono molto male.» Frank annuì con il capo. Tannenbaum andò alla finestra della camera, tirò le tende e sbirciò fuori. «Certamente i segni del piede di porco smentiscono quanto sto per dire,» disse, «eppure quando ho visto il letto fatto, sapendo che era stata uccisa nelle prime ore del mattino, ho avuto la netta sensazione che il suo assassino fosse qualcuno che lei conosceva.» Si voltò verso Frank. «Ciò che voglio dire è che la gente non aspetta alzata gli psicopatici.» «O almeno non quelli che non si conoscono,» precisò Frank. Tannenbaum rise. «Probabilmente mentre il tizio cercava di entrare lei stava sonnecchiando.» Frank lo guardò dubbioso. «Non avrebbe sentito il rumore?» «Può darsi di no,» disse Tannenbaum, indicando una cuffia stereofonica sul pavimento accanto al letto. «Forse stava sentendo della musica. Se aveva in testa questo aggeggio potrebbe non aver sentito nulla se non quando era troppo tardi.» «C'era un disco sullo stereo?» si informò Frank. «Sì, un compact disc,» disse Tannenbaum. «Stava ascoltando musica classica a volume molto alto. La Nona sinfonia di Beethoven.» Alzò le spalle. «In ogni caso, è stata alzata fino a molto tardi.» Fissò Frank attentamente. «Che cosa potrebbe costringerti ad andare avanti e indietro per la stanza tutta notte fino alle prime ore del mattino, Frank?» «L'amore,» replicò Frank. «Il denaro. Problemi di famiglia.» Tannenbaum riavvicinò le tende. «Nessuno ha udito nulla. Incredibile!» «Forse l'ha imbavagliata.» «La scientifica dice di no,» replicò Tannenbaum. «E di sicuro non l'ha drogata prima. Lei non si sarebbe agitata tanto.» «Con chi avete parlato?» «Abbiamo setacciato l'intero palazzo. La famiglia di sotto era in vacanza a Saint Thomas. La donna che abita nell'appartamento accanto quella notte era dal fidanzato. Rimane solo l'inquilino di fronte.» «E allora?» «Il nuovo affittuario non è ancora entrato,» disse Tannenbaum. «Con dei
vicini così che cosa vuoi fare?» Frank scrollò il capo. «Non molto.» «Quando lei ha colpito quel dannatissimo tavolo,» constatò Tannenbaum, «avrebbe dovuto fare parecchio rumore, o no?» «Certo,» confermò Frank. «E per quanto riguarda le urla,» continuò Tannenbaum, «il medico legale dice che l'omicida avrebbe potuto lederle le corde vocali subito.» Sorrise. «Che cosa ne dici, Frank, una lama davvero fortunata?» «Non so.» Tannenbaum scrollò le spalle. «Chissà, forse troveremo una spiegazione,» disse avviandosi fuori della stanza. Frank lo seguì nella stanza di fronte all'ingresso, arredata come uno studio. C'erano una piccola scrivania di legno, una libreria piena di libri sull'industria dell'abbigliamento e uno schedario antico di quercia, molto alto. Sulla scrivania c'erano un computer e una piccola macchina per scrivere portatile, con accanto la carta da lettere azzurra con l'intestazione in eleganti caratteri d'oro: Hannah Karlsberg, consulente di moda. Non erano indicati né l'indirizzo né il numero telefonico. «Per quanto ne sappiamo, non è stato portato via nulla,» disse Tannenbaum. «Aveva bei vestiti, gioielli preziosi, e questo computer potrebbe valere qualche bigliettone.» «C'era del denaro?» «Nel primo cassetto della scrivania c'erano trecento dollari,» rispose Tannenbaum. Aprì il cassetto e indicò un piccolo vassoietto nero. «Erano lì sopra, non erano nascosti.» Frank diede uno sguardo alla stanza. Su una parete c'era appeso un enorme quadro raffigurante un'isola paradisiaca dove degli indigeni neri oziavano felici presso un fiume, mentre sulla parete opposta c'era un grande arazzo tessuto a mano. Vi erano anche alcune fotografie, fra cui quella di una donna di mezza età rigidamente in posa di fronte alla Torre Eiffel. Frank gliele indicò con il capo. «È lei?» «Già,» disse Tannenbaum. «In un momento felice.» Lo sguardo di Frank si spostò sulle altre foto: Hannah a Venezia, Hannah a Roma, e infine Hannah sulla Grande Muraglia Cinese. «Sempre in giro, si direbbe,» osservò Tannenbaum. «Viaggiare così è molto costoso,» disse Frank. «Guadagnava anche molto,» precisò Tannenbaum. «Ci siamo informati presso la tua cliente. A sentir lei, Hannah guadagnava più di centomila dol-
lari all'anno.» «Spendeva molto per l'appartamento,» notò Frank. «Spendeva molto,» confermò Tannenbaum facendo scorrere le dita sull'elegante scrivania di legno. «Ma, come dicono, il denaro non dà la felicità.» «Pensi che non fosse felice?» Tannenbaum alzò le spalle. «E chi lo è, con o senza soldi?» Frank andò verso la porta e guardò di nuovo il salotto. Si soffermò sul contorno della sagoma di Hannah Karlsberg, di fronte a lui, su quel braccio disteso nel vano tentativo di raggiungere qualcosa, quasi per aggrapparsi a un ultimo filo di speranza. «Che cos'altro posso fare per te?» domandò Tannenbaum. «C'erano delle lettere o delle cartoline?» «Le abbiamo cercate dappertutto, ma abbiamo trovato soltanto delle foto. Ne aveva una cassetta piena, come tutti.» «È ancora qui, quella cassetta?» «Già,» disse Tannenbaum. Si avviò verso l'armadio sul lato destro della camera e ne trasse dallo scaffale superiore una scatoletta di legno che porse a Frank. Frank la prese in mano e l'aprì. Al suo interno c'erano svariate fotografie, comuni istantanee a colori. «Ah, e dato che stai cercando i suoi eredi,» gli disse Tannenbaum, «forse ti interessa questa. È arrivata oggi. Ha lasciato tutto all'Associazione americana per la lotta contro il cancro.» Rise. «Pensi che quelli abbiano delle spie, gente che mandano in giro a cercare un ricco benefattore da spennare?» Frank non replicò. Chiuse con attenzione la scatoletta e tornò in salotto. La luce che filtrava dalla finestra investiva ogni cosa, illuminando sia i preziosi dipinti sia i diplomi messi in mostra sulla parete opposta. «Era una persona molto orgogliosa di sé,» osservò Tannenbaum raggiungendolo. Lanciò un'ultima occhiata in giro. «Questo luogo, il modo in cui ha decorato questa parete. Era molto orgogliosa.» Frank abbassò lo sguardo verso l'estesa macchia di sangue che risaltava come una ferita aperta sulla moquette azzurra. Nulla gli era mai parso così fuori posto. Era come se un essere proveniente da un altro mondo si fosse infilato furtivo strisciando dalla finestra, e si fosse preso Hannah in un unico e inesorabile istante omicida.
7 Quella sera Frank non si preoccupò di passare da casa prima di andare all'Irini. Sapeva perfettamente che il suo abito marrone tutto sgualcito non era adatto a un locale elegante, ma del resto anche l'altro, appeso nell'armadio di Karen, non era in condizioni migliori. Si era rifiutato categoricamente di permettere a Karen di rinnovare il suo guardaroba, anche se lei aveva sostenuto che era un modo per investire su di lui e che in cambio si aspettava una percentuale sulle sue entrate quando gli affari avessero cominciato ad andare bene. Al momento aveva pensato di accettare la sua proposta, ma poi aveva ritrovato la ragione e con delicatezza, ringraziandola, aveva rifiutato. Frank doveva comunque riconoscere a Karen il merito di non aver mai più tirato in ballo l'argomento; anzi, lei aveva addirittura sostenuto che forse i suoi potenziali clienti si aspettavano di vedergli indossare giacche spiegazzate e pantaloni lisi, e che qualsiasi altro abbigliamento più elegante o di taglio più moderno avrebbe suscitato in loro un certo sospetto. In ogni caso i suoi abiti erano rimasti gli stessi, e avanzando nell'ingresso raffinato dell'Irini e notando lo sguardo di disapprovazione del maître in smoking, Frank si rese conto che quello che in realtà rifiutava non era il denaro di Karen, ma il tono freddo e distaccato del suo stile, e capì di preferire ancora il proprio aspetto di uomo trasandato a quello proposto dalle riviste di moda. «Posso aiutarla, signore?» gli domandò il maître a bassa voce. «Devo incontrare una persona.» «Di chi si tratta?» «Di Miss Karen Devereaux.» Il maître lo guardò con aria incredula. «La sta aspettando?» «Già, proprio così.» «Da questa parte, prego, signore.» Karen sedeva a un tavolo in un angolo del locale, in fondo a destra. Indossava una camicetta di seta azzurra e una gonna lunga di velluto nero, e avvicinandosi a lei Frank pensò che non avrebbe mai più conosciuto una donna così bella. Lei gli sorrise allegramente mentre lui si sedeva. «Ciao,» lo salutò. Frank appoggiò il cappello sulla sedia accanto alla sua. «È carino, questo locale.» «Ti piace?»
Lui sorrise. «Bello.» Karen si protese verso di lui. «Hai l'aria stanca.» «È stata una giornata faticosa.» «Un caso nuovo?» «Già.» «Hai voglia di parlarne?» Frank, scrollando il capo, rise sommessamente. Sapeva che presto sarebbe stato di nuovo solo: non sapeva quando né come né perché, ma certamente desiderava che, finché gli fosse stata vicina, Karen lo amasse il più possibile. Lei rise allegramente. «Non vuoi mai parlarne. Facevi così anche con Sheila?» «Sheila non mi chiedeva nulla.» «Lo preferivi?» Frank alzò le spalle con indifferenza, e nonostante si sforzasse di sembrare sereno il sorriso gli morì sulle labbra. «Non ha importanza.» Sul volto di Karen apparve un'espressione triste. «Il modo in cui lo dici, Frank, e il tuo sguardo mi danno l'impressione che per te nulla abbia più importanza, assolutamente nulla.» Frank prese il menù e lo aprì. «Che cosa c'è di buono?» «Ordina quello che ti pare,» gli rispose Karen in tono asciutto. «Non voglio cominciare così la serata.» «E perché no? È così tutte le sere.» «È questo che non mi piace.» «Bisogna essere in due per fare conversazione,» disse bruscamente Karen. «E qualsiasi altra cosa, se è per questo,» aggiunse distogliendo lo sguardo. Alludeva ai bambini, lo sapeva bene. Karen desiderava un figlio. Forse voleva un figlio da lui, ma Frank sospettava che non le importasse poi molto dell'identità del padre. Voleva fare l'esperienza della gravidanza, della maternità. Voleva diventare madre. Ma lui sapeva che non avrebbe mai più fatto da padre a nessuno, che non avrebbe mai più conosciuto quella gioia immensa e che non si sarebbe mai più esposto al triste e brutale senso di vuoto che ne era conseguito. Chiuse il menù. «Ordina tu per me, Karen,» sospirò. «Non conosco questi piatti.» Lei lo guardò offesa. «E ne sei fiero?» «No,» disse Frank. «È solo un dato di fatto. Perché? Forse ti metto in
imbarazzo?» «Tu sai leggere quello che c'è scritto sulla lista,» scattò Karen. «Non cercare di farmi passare per una snob, Frank. Con me non funziona.» Frank non replicò. «Ti comportavi così con Sheila?» lo accusò Karen. «La mettevi in un angolo, la inchiodavi da qualche parte, così potevi fare ciò che volevi?» Frank distolse lo sguardo e sospirò. Il cameriere si affrettò al loro tavolo e Karen ordinò un Black Russian per sé e un Bushmills per lui. «Ecco,» disse con tono pungente, «ho ordinato anche per te.» Frank annuì con il capo stancamente. Rimasero a lungo in silenzio. Poi, all'improvviso, Karen si protese verso di lui allungando un braccio. «Tocca, Frank,» lo invitò allegramente nel tentativo di ricominciare la conversazione. «Tocca questo tessuto.» Frank le toccò il polsino della camicetta e gli sembrò di sfiorare qualcosa di liquido, al punto che per un attimo pensò che gli si sarebbe dissolto fra le dita. «Guarda che colore,» aggiunse Karen con entusiasmo. «Non ti dà l'impressione che risplenda di luce propria?» «È molto bella,» concordò Frank. «Tu hai conosciuto la stilista ieri sera alla festa,» lo informò Karen. Frank non disse nulla. «È Imalia Covallo,» aggiunse Karen. «Quella donna molto alta che si è seduta per qualche minuto accanto a te. Te la ricordi?» «Sì,» confermò Frank. «Questa camicetta l'ho acquistata da lei stamattina.» Karen si appoggiò allo schienale della sedia e con movimenti aggraziati sollevò le braccia. «Questo è lo 'stile Imalia Covallo'.» «Ha un negozio?» «Certo, e molto esclusivo.» «Dove?» «Sulla Quinta Strada, naturalmente,» esclamò Karen. «Per poter essere ricevuto, devi fissare un appuntamento.» Rise soddisfatta. «Si tratta di alta moda.» Con il naso alzato, fece una smorfia chiaramente beffarda. «Molto ricercato, caro.» «Avevi preso un appuntamento?» domandò incredulo Frank. «Sì, alla festa. È davvero una persona molto simpatica.» Sfiorò con le dita le maniche della camicetta. «E i suoi abiti, Frank... dovresti vederli.»
Frank continuava a guardare la camicetta scintillante, ammirando la trama fitta del tessuto e la sua raggiante lucentezza. «È molto bella,» ripeté. Lei sorrise dolcemente. «Pensi che potremmo ricominciare, Frank?» Per un attimo lui non disse nulla. Poi, infine, mentì. «Forse.» Rientrarono a casa verso le dieci, e restarono per un po' in terrazza a guardare le luci della città anche se l'aria si era fatta gelida. Seduto sulla sedia bianca di vimini, cullato dai rumori lontani del traffico, Frank ripensò al piccolo porticato di Waldo Street, ad Atlanta, alla sedia di ferro sulla quale passava le notti e sentì crescere quella vecchia malinconia che anche chi gli stava accanto poteva leggergli negli occhi. «A che cosa stai pensando, Frank?» domandò d'un tratto Karen. Si voltò verso di lei. Sedeva dall'altra parte del tavolino di cristallo, avvolta da un pesante maglione le cui ampie maniche nascondevano le sue dita lunghe e magre. «A nulla,» mentì lui. «Non ti credo.» «Niente di importante,» aggiunse. «Non credo nemmeno a questo,» disse Karen, stringendo le braccia attorno ai fianchi. «È una serata fredda,» aggiunse. Poi sorrise. «Perché non la scaldiamo un po'?» Fece scivolare una mano fuori della manica del maglione e la tese verso di lui. «Vuoi?» Lui le prese la mano e la seguì in camera da letto, e per gli istanti che seguirono si mossero l'uno dentro l'altra con quella tenerezza indicibile e travolgente che una volta lo aveva coinvolto in maniera inesprimibile, che era riuscita a smussare gli spigoli del suo mondo e che, per un solo ed elettrizzante attimo, lo aveva convinto che la vita vale la pena di essere vissuta. Karen stava dormendo profondamente quando Frank si alzò senza far rumore, si vestì in fretta e uscì. Erano da poco passate le quattro del mattino; Frank camminò fino alla Decima Avenue, entrò in un portone e bussò a una porta al secondo piano. Immediatamente un uomo molto robusto con mani nerborute e rosse gli aprì, lo riconobbe e lo fece accomodare. «Oggi le consegne sono andate a farsi fottere,» disse. «Ci hanno portato solo roba molto scadente.» «Andrà bene ugualmente,» replicò Frank entrando.
Il locale era quasi vuoto, ma Frank sapeva che si sarebbe riempito appena la gente, uscendo dai bar legali, si sarebbe diretta nei locali senza licenza. Alcune persone ovviamente sarebbero andate a casa, interpretando la chiusura dei bar come un segnale per concludere la serata. Ma le anime più in pena avrebbero continuato a vagabondare, si sarebbero dirette in questa via, avrebbero salito questi gradini, o altri uguali, e si sarebbero seduti ai piccoli tavoli quadrati ordinando da bere. Non era il luogo adatto per sorseggiare un Tequila Sunrise o un Banana Daiquiri, magari servito in bicchieri decorati da graziosi ombrellini rosa: ma per un goccio di quello forte, un posto valeva l'altro. Frank si sedette a un piccolo tavolo in fondo al locale e ordinò un whisky che mandò giù in fretta, per scrollarsi di dosso il freddo della passeggiata. Poi ne ordinò un altro e lo sorseggiò lentamente. La proprietaria era dietro il bancone del bar, a sinistra. Sembrava una portoricana, ma Frank aveva sentito dire che veniva dall'Ecuador: comunque parlava in fretta e scorrettamente, doveva avere circa sessant'anni e i capelli, grigi e disordinati, le scendevano sulle spalle. Tutti la chiamavano Toby ma nessuno sapeva il perché. Si diceva che la sua attività le aveva permesso di far studiare i suoi due figli e che uno di loro adesso lavorava giù in città presso l'ufficio del procuratore distrettuale; ma era quel tipo di notizie fantasiose che girano in quei locali, alle quali Frank non dava mai molto credito. Frequentava da molto tempo quel locale, e anche se non aveva mai scambiato una parola con quella donna, di tanto in tanto Frank sentiva su di sé lo sguardo di Toby, come se la sua lunga esperienza le avesse insegnato ad avere una naturale simpatia per i bevitori solitari. Frank bevve una lunga sorsata, poi posò il bicchiere sul tavolo e ne ordinò un altro. Appoggiato comodamente allo schienale della sedia, lasciò vagare lo sguardo da un tavolo all'altro. I minuti scorrevano velocemente, e presto fu mattino. I clienti venivano e se ne andavano, da soli o in coppia, e il tono del locale cambiava, anche se in maniera impercettibile, dopo ogni arrivo od ogni partenza. Erano circa le sette del mattino quando anche l'ultimo avventore se ne andò, mentre la prima luce grigiastra cominciava a filtrare dalla finestra. Poco dopo il mattino parve rovesciarsi improvvisamente dentro il locale, come se qualcosa l'avesse spinto, investendo ogni cosa. Ora il bar era completamente vuoto, a parte Toby, che asciugava gli ultimi bicchieri, e un uomo robusto che sedeva vicino a una finestra con il cappello sulle ginocchia e un bicchiere in mano. Per un po' Frank lo guar-
dò in silenzio, poi d'un tratto l'uomo si voltò verso di lui, e i suoi grandi occhi neri lo fissarono. «Va via presto?» domandò. Frank fece cenno di sì con il capo. «Bene,» convenne l'uomo. «Mi piace essere l'ultimo.» Aveva uno strano accento, quasi inglese, ma non sembrava un inglese. Anche nella luce ancora incerta Frank notò la sua carnagione scura, le sopracciglia folte e nere e le labbra carnose e violacee. Teneva il busto eretto, e il capo così alzato che il mento era parallelo alla superficie del tavolo. Indossava un abito ampio, con giacca a doppiopetto abbottonata sullo stomaco sporgente. «L'ultimo a lasciare questo locale,» aggiunse come chiarimento. Poi si alzò dalla sedia e si avviò pesantemente verso il tavolo di Frank, ondeggiando a destra e a sinistra come una vecchia petroliera. «Mi chiamo Farouk,» si presentò fermandosi di fronte al tavolo. Abbozzò un sorriso ma non stese la mano verso Frank. «Frank Clemons.» «Lei viene qui spesso,» disse Farouk. Non era una domanda, ma una constatazione. Era come se avesse studiato Frank per un po', come probabilmente faceva con gli altri clienti abituali del locale. «L'ho già vista qui,» aggiunse. «In questo posto, è bene avere un buon spirito di osservazione.» «Già,» disse Frank indicandogli con il capo la sedia vuota sul lato opposto del tavolo. «Vuole sedersi?» Farouk annuì muovendo il capo pesantemente, come se fosse una sfera scura e levigata nella luce immobile e sfumata del mattino. «L'ho vista qui parecchie volte,» confermò mentre si sedeva. Usava un linguaggio formale, come se avesse imparato a esprimersi sui libri e non parlando con la gente. «Lei molto spesso è l'ultimo ad andarsene.» «Faccio fatica a dormire,» spiegò Frank. Per un attimo gli occhi scuri di Farouk scrutarono Frank con solennità, poi sulle sue labbra comparve un lieve sorriso. «Non vale la pena di dormire. È noioso.» «È vero.» «Meglio uscire e restare in piedi,» rifletté Farouk scrollando le spalle e cambiando argomento. «Ha un lavoro?» «Sì.» «E un letto?» «Sì, anche quello.» «Con dentro una donna?»
«Ogni tanto.» «Figli?» Frank scrollò il capo. «No.» Ancora una volta Farouk fece un cenno di assenso. «Che lavoro fa?» Istintivamente Frank ebbe un attimo di esitazione. «Lei fa un sacco di domande,» osservò. «Sono una persona curiosa. Ma credo che lo sia anche lei.» Frank lo fissò in silenzio. «Scommetto che lei è una persona curiosa,» aggiunse Farouk. «E posso anche spiegarle il perché.» «Continui.» «È una questione di colori,» spiegò Farouk. «Lei viene qui spesso. Il che significa che non solo soffre d'insonnia ma che preferisce la notte al giorno.» Frank annuì. «La notte è buia, abitata dalle ombre,» continuò Farouk. «Chi la preferisce, è affascinato dai misteri del mondo.» Sorrise con aria furba. «Non può sopportare l'ovvietà. Odia tutto ciò che è certo, ciò che si rivela troppo chiaramente.» Si appoggiò di nuovo allo schienale squadrando Frank con orgoglio. «Ho ragione, vero?» domandò incrociando le braccia sul petto. «Già,» ammise Frank, «ha proprio ragione.» Farouk si sporse un poco in avanti. «Allora, glielo chiedo un'altra volta. Che lavoro fa?» «Sono investigatore privato.» Farouk annuì come se avesse ricevuto una conferma, ma non parve impressionato. Estrasse un pacchetto di sigarette e ne offrì una a Frank. «No, grazie,» rifiutò Frank accendendone una delle sue e sedendosi più comodamente. «E lei che cosa fa?» Farouk infilò la sigaretta in un bocchino d'avorio e poi l'accese. «Io mi metto al servizio degli altri,» disse soffiando una colonna di fumo al di là del tavolo. «Presto la mia assistenza per questioni difficili.» «A pagamento?» «Non vivo d'aria.» «Ovviamente,» concesse Frank bevendo un sorso di whisky. Farouk drizzò leggermente il capo. «Lei non è di New York.» Anche questa era un'affermazione. «Il suo accento è del Sud.» «Sono di Atlanta,» disse Frank. «Ma ora vivo qui.» «In questa zona della città?»
«Il mio ufficio è sulla Quarantanovesima Strada.» «Hell's Kitchen. Non è un posto per tutti.» «L'affitto è basso,» spiegò Frank bevendo l'ultimo sorso di whisky. «Posso offrirgliene un altro?» domandò subito Farouk. Frank lo scrutò con sospetto. «Mi interessa conoscere una persona che fa il suo lavoro. E a lei probabilmente interessa una persona che fa il mio.» Frank non disse nulla. «Mi farebbe piacere offrirle un ultimo bicchiere,» insistette Farouk. «Se preferisce lo interpreti come un investimento da parte mia.» «Ho già bevuto abbastanza,» tagliò corto Frank. Guardò fuori della finestra, e la luce mattutina gli fece socchiudere gli occhi. «Una tazza di caffè allora?» «D'accordo.» «Perfetto,» disse Farouk. Fece un cenno a Toby. «Traenos dos cafés turcos.» Poi si volse di nuovo verso Frank. «Parla spagnolo?» «No.» «Io studio molte lingue,» disse Farouk senza attribuirsi molta importanza. «È importante per il lavoro che svolgo. Specialmente a New York che è una città internazionale. Tutti dovrebbero conoscere più lingue.» Frank accennò di sì con il capo. «E anche vari caffè,» aggiunse sempre con la stessa disinvoltura. «Ha mai bevuto un caffè turco?» «Non che io sappia,» ammise Frank. Di nuovo sul volto di Farouk apparve un abbozzo di sorriso. «Allora le farà piacere assaggiarlo.» Toby servì loro i caffè, guardò Farouk con sguardo interrogativo e poi tornò dietro il bancone. «È mia moglie,» disse Farouk, come per dare una spiegazione. «Chi? Toby?» «È mia moglie da molto tempo,» specificò Farouk. «Come si dice, 'per liberarla dall'oppressione'.» Bevve velocemente un sorso di caffè. «Per un po' di tempo abbiamo vissuto insieme, ma ormai da molti anni preferisco stare per conto mio. Si addice di più alla mia natura.» Inarcò leggermente un sopracciglio folto e scuro e chiese: «Lei è sposato?» «Non più.» Farouk indicò con il capo la tazza di caffè. «Lo assaggi.» Frank ne bevve un piccolo sorso. «È forte.»
Farouk sorrise allegramente. «Per questo è buono.» Si sporse in avanti e appoggiò le braccia conserte sul tavolo. «Immagino che lei stia lavorando a un caso.» «Ad alcuni,» replicò Frank, ma improvvisamente si rese conto che in quel momento gli altri non lo interessavano più. I mariti infedeli avrebbero potuto incontrare chi volevano nei motel del New Jersey, gli impiegati disonesti avrebbero potuto rubare sui conti e i falsari dipingere qualsiasi cosa. L'umanità intera avrebbe potuto combinare qualsiasi disastro senza che lui intervenisse. «Nella zona di Central Park West,» aggiunse. «Un caso di omicidio.» Farouk strizzò gli occhi, concentrandosi. «Si tratta di una donna, mi pare. È apparso un articolo sul Post. Circa due settimane fa, vero?» «Come fa a sapere di che omicidio si tratta?» domandò immediatamente Frank. «Lei è un investigatore privato, il che significa che la sua tariffa è di... circa trentacinque, quaranta dollari all'ora.» «Più o meno.» «In ogni caso, considerevole,» ribadì Farouk. «Il cittadino medio non può permettersi di assumerla. Deve essere una persona che dispone di notevoli mezzi economici. La donna di cui parlava il giornale è l'unica che potesse conoscere persone benestanti.» «Ha ragione,» ammise Frank. «Si tratta del caso di cui hanno parlato i giornali.» «Immagino che conosca già qualcuno al distretto di Midtown North?» «Certo.» «In caso contrario avrei potuto esserle di aiuto presentandola a qualcuno.» «Conosco già la persona che si occupa del caso.» «Se non sono indiscreto, di chi si tratta?» «Di Leo Tannenbaum.» Farouk fece un cenno di assenso. «Ah, sì.» «Lo conosce?» «Sì, lo conosco,» confermò Farouk. Con una sorsata terminò il suo caffè e prese un piccolo taccuino. «Chi era la donna?» Frank non rispose. Farouk lo guardò senza battere ciglio. «Non pagherà nulla se non le fornirò alcuna consulenza.» «Non credo di aver bisogno della sua consulenza,» puntualizzò Frank.
«Non è vero, glielo garantisco,» replicò Farouk con altrettanta fermezza. «Posso spiegarle il perché?» «Faccia pure.» «Per la sua natura,» cominciò Farouk, «lei è sempre in movimento. Le dita sul tavolo, i piedi, gli occhi: si muove in continuazione.» Sorrise con aria scaltra e aggiunse: «Questo mi fa pensare che ci siano delle cose che lei non fa volentieri. Cose che implicano stanze dall'aria viziata, cartacce, pratiche d'ufficio, molta lettura, molta attesa. A lei queste cose non piacciono, eppure potrebbero esserle di enorme aiuto.» «Che cosa le fa pensare che tale genere di lavoro sia necessario in un caso come questo?» domandò Frank. «Se la memoria non mi tradisce, quella donna lavorava nel settore della moda, vero?» «Esatto.» «Conosce bene quell'ambiente?» «No,» ammise Frank. «Io potrei rintracciare tutte le sue relazioni d'affari. Potrei scoprire che cosa possedeva, che cosa aveva acquistato di recente. È possibile che questo tipo di informazione possa esserle di aiuto. In caso contrario, le assicuro che non le farò pagare nulla.» Frank continuava a guardarlo, non del tutto convinto. «Per lei un omicidio è un evento normale. Vuole affrontarlo a faccia a faccia, come un confronto diretto. Le piace sentire le voci, vedere gli occhi.» Sorrise. «L'ammiro per questo, ma è infantile,» aggiunse scrollando il capo. «Perché?» «Perché tra le pagine dei documenti si nascondono molte cose. In casi come questo, per esempio, anche i morti parlano.» Frank lo guardò con attenzione. «Intende dire la vittima?» «Sì,» confermò Farouk. «E io potrei aiutarla a scoprire ciò che si nasconde.» Frank rifletté per un momento, ancora scettico. «Esiste un altro problema,» disse infine. «Quale sarebbe?» «Io non la conosco,» ribatté Frank. «Per quel che ne so, lei potrebbe anche essere un ladro di auto.» Farouk aggrottò le sopracciglia. «Un crimine così insignificante,» disse in tono di sprezzo. «Speravo che si fosse fatto un'opinione migliore di
me.» Frank lo guardò. «No, si sbaglia,» ribatté in tono pacato. «Dunque, come potrei farle cambiare il suo giudizio su di me?» «Una referenza potrebbe essere di aiuto.» «Andrebbe bene una della polizia?» «Forse,» disse Frank. «Se conoscessi il poliziotto.» «Magari l'ispettore Tannenbaum?» «Lui la sosterrebbe?» Farouk sorrise compiaciuto. «Le direbbe che non rubo auto.» «Nient'altro?» «Che non sono un delinquente,» aggiunse Farouk. «Le direbbe che sono una persona competente e onesta.» Il vago sorriso che si era trascinato sulle labbra scomparve improvvisamente. «Le direbbe che posso essere spietato, ma aggiungerebbe che in genere scopro ciò che cerco.» Si sporse ancora più in avanti e rivolse a Frank uno sguardo penetrante. «Lei è spietato?» «Alcuni lo credono.» «E hanno ragione?» «Qualche volta.» «Allora sa che non sto fingendo,» disse Farouk. «Quando dice a un uomo che gli farà del male, quello deve sapere che fa sul serio.» Tornò ad appoggiarsi allo schienale e incrociò le braccia. «Quelli che lavorano per la strada non sono molto intelligenti, ma se c'è una cosa che riconoscono subito è un vigliacco, un uomo che non ha il coraggio di fare ciò che minaccia.» Per un istante, Frank osservò il volto di Farouk senza fiatare. Sapeva che aveva ragione su alcuni punti, specialmente sul fatto che a lui non piaceva occuparsi delle scartoffie. Era un problema che anche in passato lo aveva afflitto, portandolo a trascurare prove e legami evidenti per seguire tracce più oscure e intricate. Non gli erano mai piaciuti i casi che riguardavano questioni di denaro, di polizze assicurative o di affari, e aveva sempre cercato di evitarli il più possibile. Seduti in quel locale buio, si rese conto che rintracciare un parente vicino o lontano era esattamente quel genere di lavoro che non gli piaceva svolgere: eppure qualcosa in quel caso lo attirava irresistibilmente, e sapeva di voler indagare a fondo, senza trascurare nemmeno un particolare, nemmeno una traccia per arrivare alla soluzione. Bevve un sorso di caffè e poi riappoggiò la tazza sul tavolo. «Ha altre domande su di me?» chiese.
Farouk scrollò il capo. «No.» «Perché no?» «Lei lavora in una zona povera della città, a Hell's Kitchen, ma non è certo l'affitto basso che l'ha condotto là.» «Come lo sa?» «Viene qui anche se le consumazioni costano come in qualsiasi altro locale,» gli rammentò Farouk. «E ha l'ufficio in quel posto anche se potrebbe farne a meno.» Sorrise con compiacimento. «Non ho bisogno di sapere altro di lei.» Per un attimo i due uomini si guardarono negli occhi in silenzio. Frank cercò di capire perché desiderava lavorare sempre da solo, anche se quel caso dimostrava chiaramente che avrebbe avuto bisogno di un assistente, una persona che conoscesse le vie tortuose della burocrazia. «Va bene,» disse infine. «Ogni tanto chiederò il suo aiuto.» Farouk fece un largo sorriso. «Non se ne pentirà.» «Che cosa vuole sapere per cominciare?» «Il nome della vittima,» replicò immediatamente Farouk. «L'ho letto sul giornale, ma non lo ricordo.» «Hannah Karlsberg,» disse Frank. «E il suo indirizzo?» «Central Park West, cinquantasette.» «Il numero dell'appartamento?» «Quattordici A.» «Sì, sì,» annuì Farouk, «è un appartamento che si affaccia sul parco.» «Sì, infatti.» Farouk lo scrutò attentamente. «Allora lei ha già visto l'appartamento?» «Sì,» rispose Frank. «Oggi pomeriggio.» «Se non ricordo male è stata accoltellata,» incalzò Farouk. «Sì, infatti. Ma io non sto cercando l'assassino.» Farouk parve sorpreso. «E allora che cosa cerca?» «La polizia non rilascia il corpo se non è un parente della vittima a fame esplicita richiesta.» Farouk fece cenno di sì con il capo. «E dunque lei cerca un fratello, una sorella o un figlio.» «Già.» Farouk sorrise di nuovo soddisfatto. «Allora posso esserle di grande aiuto. Comincerò con i certificati di nascita, poi passerò agli atti legali.» Strizzò gli occhi concentrandosi. «Le proprietà sono grandi rivelatrici.»
«Non ho molto da dirle ancora. Al momento l'unica cosa certa che so su Hannah Karlsberg è che è morta e che la polizia non rilascerà il suo corpo.» «Normalmente questo non avviene,» osservò Farouk. «Voglio dire, che si tengano il corpo. Sa il perché di questa procedura?» Torse perché le è stata amputata una mano. Gliel'hanno tagliata all'altezza del polso.» Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Sembra che l'assassino se la sia portata via.» Sul volto scuro e largo di Farouk apparve una strana smorfia. «Sperano di trovare la mano?» «Così almeno sembra,» soggiunse Frank. «So come la pensano: se una persona è così pazza da rubare una mano è altrettanto pazza da tenersela.» «E così loro tengono il resto del corpo come prova,» dedusse Farouk. «Con un pezzo mancante,» precisò Frank, e improvvisamente immaginò il braccio mutilato di Hannah nel buio dell'obitorio, lacero e impastato di sangue, con pezzetti di osso penzolanti attaccati a brandelli di carne straziata. Ci stava ancora pensando quando sentì Farouk avvicinarglisi e sfiorargli il braccio. Sussultò. «Diceva?» Farouk non gli rispose subito limitandosi a guardarlo. Poi si alzò in piedi. «Vado a casa,» e se ne andò. 8 Quando Frank tornò a casa, Karen era già andata alla galleria. Si fece una doccia veloce, si cambiò la camicia e uscì di nuovo. Il freddo sembrava essersi intensificato durante la notte, così prima di recarsi in ufficio entrò in uno scalcinato negozio di articoli per la casa sulla Nona Avenue e acquistò una stufetta elettrica. Pochi minuti dopo la ventola ronzava alle sue spalle mentre lui, dopo aver cercato il numero sulla guida telefonica, chiamava Imalia. «Imalia Covallo Designs.» «Potrei parlare con Miss Covallo?» «Chi la desidera?» «Frank Clemons.» «Attenda, prego.» Subito dopo partì una musica di clavicembalo, alta e squillante, e mentre
l'ascoltava cercò di immaginare l'ufficio di Imalia: moquette vellutata, ricche tende, morbidi tessuti, tutti i simboli irrinunciabili di quel mondo. «Buongiorno, Frank,» squillò la voce di Imalia. «Sono sorpresa di avere sue notizie così presto.» «Mi piace tenere informati i miei clienti.» «Vuol dire che ha già delle informazioni?» domandò in tono ansioso Imalia. «Non molte, purtroppo,» replicò Frank. «Pare che la polizia incontri lo stesso ostacolo. Spero che lei possa aiutarmi a superarlo.» «In che modo?» «Forse anche solo parlando,» propose Frank. «Ho bisogno di parlare con tutti coloro che la conoscevano, e lei è la prima persona della lista.» «Ma, come le ho già detto, non so molto della vita privata di Hannah.» «Potrebbe sorprenderla la quantità di informazioni che sa,» le disse Frank. «Mi creda, so come succede.» Per un attimo lei parve esitare. «Va bene, d'accordo,» acconsentì infine. «Ci vediamo a pranzo?» «Per me va bene. Dove?» «C'è un posto in Madison Avenue. Si chiama Bolero. Lo conosce?» «No.» «È all'angolo tra la Madison e la Cinquantunesima,» spiegò Imalia. «Verso le due del pomeriggio.» «Perfetto,» rispose Frank. «Non vada nella sala da pranzo,» lo avvisò Imalia. «Chieda di me. Ho una saletta privata.» La saletta era al secondo piano, e Imalia lo stava già aspettando quando il maître aprì una piccola porta di mogano e lo fece entrare. «Mr Clemons,» annunciò. «Grazie, Philippe,» disse Imalia. Sedeva a un piccolo tavolo smaltato coperto da una tovaglia di pizzo. Al centro c'era un vaso di cristallo a forma di bocciolo con un'orchidea bianca. «Grazie per essere stato puntuale,» cominciò lei. «La puntualità è una dote che apprezzo molto.» Diede un'occhiata veloce all'orologio. «Ho già ordinato anche per lei. Spero non le dispiaccia.» «Al contrario,» ammise Frank. Si sedette su una sedia di fronte a lei ed estrasse il suo piccolo taccuino verde. «E questo che cos'è?» domandò Imalia indicandolo con un cenno del ca-
po. «Io prendo nota di tutto,» le spiegò Frank. «Non mi fido della mia memoria.» «E poi che cosa ne fa dei suoi appunti?» Decise di dirle quello che lei voleva sentirsi dire. «Quando il caso è risolto e io sono stato pagato, li brucio.» Imalia accennò un sorriso. «Non intendevo dubitare di lei,» lo rassicurò. «Ma sono sempre stata molto attenta a salvaguardare la mia vita privata.» «Molta gente lo fa,» replicò freddamente Frank. Prese la penna e l'avvicinò al taccuino. «Mi ha detto che Hannah ha lavorato per lei per più di vent'anni.» «È esatto.» «È un periodo molto lungo.» «Sì, davvero,» confermò Imalia. «E non le ha mai parlato di qualche suo parente?» «Solo di una sorella. E senza approfondire.» Scrollò le spalle. «L'ho detto alla polizia quando si sono rifiutati di rilasciare il corpo di Hannah.» Frank osservò con attenzione il viso di Imalia. Era evidente che si prendeva cura del proprio aspetto. La pelle era liscia, bianca, senza rughe; gli occhi erano brillanti e pieni di vitalità. Eppure, di tanto in tanto, la sua espressione era velata da un alone di stanchezza, che dopo un istante si dissolveva. «È la sola parente di cui mi abbia parlato,» aggiunse Imalia. «Che cosa le ha detto di lei?» Imalia scosse il capo. «Non molto.» Ci pensò un attimo. «Ricordo che qualcuno parlava di cremazione, del fatto che in alcuni paesi fosse una pratica abituale. E Hannah aveva detto qualcosa a questo proposito.» «Che cosa?» «Qualcosa come 'mia sorella è stata cremata'.» «Solo questo?» «Sì.» «Così lei ha avuto l'impressione che la sorella fosse morta?» «Sì, certo.» «E questo è tutto quello che ha detto nei vent'anni in cui ha lavorato per lei?» domandò incredulo Frank. «Ricordo solo questo.» «Vent'anni,» riprese Frank. «Allora è stata con lei fin dall'inizio.» «Più o meno,» convenne Imalia. «Io ho cominciato con un piccolo ne-
gozio nel Queens, in un enorme edificio vuoto. Lo spazio c'era, quello sì!» Rise. «Io stessa ho montato i ripiani di metallo e ho scaricato le stoffe dai camion.» L'espressione del suo viso si animò. «Come vede, nessuno mi ha mai regalato nulla. È importante che lei lo sappia.» «Hannah a quel tempo non era con lei?» domandò Frank. «No, non all'inizio. Per i primi anni ho fatto tutto da sola. Ma a dire la verità, non avevo molto successo. Avevo bisogno di qualcuno che avesse esperienza, qualcuno che se ne intendesse a fondo. Io ero sarta, ma non conoscevo il mondo degli affari. Perciò assunsi Hannah.» «Come fece la sua conoscenza?» Imalia rifletté per un istante. «Me la presentò Tony.» «Tony?» «Sì, Tony Riviera. Lavora per me ancora oggi.» «Fu lui a presentarle Hannah?» «Sì.» Frank prese nota del nome. «Ho bisogno di conoscere il passato di Hannah. È il solo modo che ho per trovare la sorella.» «Ma che importanza ha se sua sorella è già morta?» «Be', per prima cosa, se avesse avuto dei figli, sarebbero nipoti di Hannah.» «Certo, è vero,» convenne Imalia. Bevve un lungo sorso d'acqua. «So solo che aveva lasciato il suo impiego precedente.» «Perché?» Imalia scrollò le spalle. «Non lo so. Credo che non andasse d'accordo con i dirigenti.» Si interruppe e fissò Frank attentamente. «Conosce bene il nostro mondo?» «No, per niente.» «Be', deve sapere che è molto capriccioso,» spiegò Imalia. «Estremamente competitivo, ma soprattutto molto capriccioso. Spesso le persone litigano, e quindi o lasciano il loro posto o vengono buttate fuori.» «Sa dove lavorava prima Hannah?» «Era un'industria di scarsa importanza,» disse Imalia, «a Brooklyn, penso. O almeno questo è quanto mi riferì Tony.» «Non si ricorda il nome?» Imalia ci pensò un attimo. «Aveva a che fare con le importazioni. Non ricordo esattamente. Ma credo che queste informazioni si trovino nella sua scheda personale.» «Dove potrei consultarla?»
«Nei miei uffici amministrativi, sulla Trentaseiesima Strada. L'ufficio di Tony si trova lì.» Frank prese nota velocemente, poi il suo sguardo tornò su Imalia. «Suppongo che lei e Hannah lavoraste bene insieme.» «Sì, lavoravamo molto bene insieme.» «Non avete mai litigato?» Imalia rise con dolcezza. «Mi sbaglio o sospetta di me?» «No,» disse Frank. «Non sto cercando l'assassino. Sto solo cercando di scoprire che tipo di donna fosse Hannah.» «Sì, certo, capisco. Per rispondere alla sua domanda di prima, in effetti qualche volta abbiamo litigato. Come le ho già detto, non eravamo amiche intime, ma in fin dei conti non sono poi molte le persone con cui si hanno amicizie di questo tipo.» «No, infatti, ha ragione.» «Dal punto di vista professionale però andavamo molto d'accordo,» aggiunse Imalia. «Hannah era una persona scrupolosa e competente.» Frank diede una scorsa ai suoi appunti. «Mi ha detto che ha cominciato come cucitrice.» «No, non esattamente,» precisò Imalia. «Ha cominciato dal basso, ma solo perché si ambientasse e capisse come si svolgeva il lavoro.» «E dopo quali mansioni ha avuto?» «Si occupava di moltissime cose. Organizzava la spedizione dei tessuti, calcolava la quantità di materiale necessario per ogni singolo capo e altre faccende di questo tipo. Era lei che individuava i problemi e li risolveva. Era una vera dirigente.» «Era anche la responsabile delle assunzioni?» «A volte.» «E dei licenziamenti?» «Sì, si occupava anche di questo.» «Si è mai rivolta a lei per un problema particolare?» «Di lavoro o personale?» «Di qualsiasi tipo.» «Se avesse avuto problemi personali, dubito che si sarebbe rivolta a me. Ma per le questioni di lavoro era diverso. Credo che se avesse incontrato difficoltà mi avrebbe interpellato.» Scrollò leggermente le spalle. «Con ciò non intendo dire che Hannah non fosse in grado di gestire autonomamente il proprio lavoro. Comunque, se fosse insorta una questione davvero importante, credo che sarebbe venuta da me.»
«Lo aveva fatto di recente?» domandò subito Frank. «Non proprio per una questione di lavoro,» puntualizzò Imalia. «Alcune settimane fa mi chiese di andare a vedere il suo appartamento, perché una rivista voleva utilizzarlo per un servizio.» Si interruppe. «Ha visto l'appartamento di Hannah?» chiese. «Sì, ci sono già stato.» «Non crede che sia arredato molto bene?» «Sì, con molto gusto.» «Be', questa rivista, Homelife, voleva preparare un breve servizio, qualcosa del tipo 'come vivere elegantemente in poco spazio', o giù di lì.» «Volevano fotografare l'appartamento di Hannah?» «Sì,» confermò Imalia. «E così mi chiese di fare un salto a casa sua per vedere se occorreva un tocco finale.» Scosse il capo. «Ma era tutto perfetto, non c'era nulla da modificare, a mio parere.» Sorseggiò un po' di vino. «Era molto bello.» Frank si concentrò sul taccuino verde. «Dovrò risalire molto indietro nella vita di Hannah. A quanto pare non aveva parenti stretti.» Sfogliò rapidamente gli appunti. «Mi ha parlato di una scheda personale.» «Sì.» «Posso consultarla?» «Sì, se prima faccio una telefonata. Quando vuole andare a prenderla?» «Oggi pomeriggio, se per lei va bene.» Imalia fece un cenno al cameriere che si diresse prontamente al loro tavolo. «Per favore, mi porti il telefono,» gli ordinò. Il cameriere sparì per ricomparire un attimo dopo con un telefono bianco. «Grazie,» lo congedò Imalia componendo il numero. «Prendo gli accordi necessari,» disse a Frank mentre aspettava la risposta dall'altro capo del filo. «Va bene.» «Pronto? Sono Imalia Covallo. Mi passi Mr Riviera, per favore. Pronto, Tony? Oggi pomeriggio verrà in ufficio da te una persona. Lavora per me, mi sta aiutando a chiarire il caso di Hannah. Fa' tutto ciò che ti chiede. Mostragli quello che vuole. Sì. Va bene. Arrivederci.» Riappese la cornetta e di nuovo fece un cenno al cameriere, che portò via l'apparecchio. «Tutto a posto. Deve chiedere di Tony Riviera. È lui che porta avanti le cose da quando Hannah è morta.» «La conosceva bene?» «Non più degli altri,» rispose Imalia. «Credo che Hannah fosse una per-
sona solitaria.» Spalancò gli occhi con delicatezza. «Certe persone sono fatte così.» Frank ripensò alla cassettina di legno e alle poche fotografie che conteneva. «È come se non avesse avuto un passato.» «Che cosa intende dire?» «Le fotografie che ho visto,» spiegò Frank. «Nessuna la ritrae da giovane. Non c'erano nemmeno ritratti di famiglia o fotografie di questo genere.» L'espressione sul viso di Imalia si fece d'un tratto più intensa. «Forse il suo passato non le piaceva e preferiva non ricordarlo,» disse in tono vivace. «A lei piace ricordare il suo?» Frank non rispose e Imalia continuò a scrutarlo con attenzione. «Sa nulla del mio passato?» gli domandò un attimo dopo. «No.» «Be', allora credo di doverle spiegare qualcosa,» disse quasi con fierezza. Quindi si alzò. «Andiamo a fare un giro in macchina, Frank. Voglio mostrarle qualcosa.» La limousine li stava già aspettando e Imalia salì rapidamente. «Io non sono nata in Park Avenue,» esordì lei mentre l'auto scivolava verso sud lungo l'ampio viale. «Il mio nome dice tutto. Covallo. Sudamericani. Italiani.» Imalia fece una risata acuta, a fior di labbra. «Little Italy. È da lì che vengo. Ero la principessina di Prince Street.» Guardò fuori del finestrino. «Se lei fosse cresciuto a New York, saprebbe che cosa significa.» Sembrava aspettasse una sua domanda, e quando si rese conto che lui non le avrebbe chiesto nulla tornò a guardarlo. «Non era poi così male. Sono cresciuta in un piccolo locale in cui gli anziani si ritrovavano a bere il caffè e a parlare, sa, come si fa in Sicilia.» Frank fece un cenno di assenso con il capo. «Ora potrei già essere un grassa mamma italiana,» aggiunse questa volta con freddezza. «Una di quelle donne che ingozzano di spaghetti un piccolo e grasso marito e i piccoli e grassi figli.» Socchiuse gli occhi fino a farne due fessure. «Ma per Imalia Covallo doveva essere diverso,» esclamò con determinazione. «Non ero fatta per vivere in quel modo, per finire a piagnucolare e a lamentarmi con il confessore come faceva mia madre.» Sospirò profondamente, poi si rivolse all'autista: «Joseph, Prince Street, centosette.» Si sistemò sul sedile e rimase in silenzio, quasi accigliata, fino a quando la limousine si fermò nel cuore di Little Italy. «Non è necessario che scendiamo,» disse. «Io non scendo mai.»
Si sporse dal finestrino e indicò a Frank un piccolo edificio di mattoni. «Questa è la casa dove sono cresciuta.» Frank la fissò in silenzio. «Al secondo piano,» continuò Imalia. «Mi piaceva sedere sulla scala esterna mentre in casa mio padre masticava tabacco, mia madre accendeva candele votive e i miei fratelli facevano un tale baccano da far impazzire tutti. In quei momenti mi piaceva sedere fuori, guardare lontano in direzione di Manhattan e sognare. Non sapevo come fosse, ma sapevo di desiderarla.» Sorrise voltandosi verso Frank. «Non tutti erano come me allora. Mio fratello, Angelo, voleva essere soltanto il tirapiedi di qualche boss locale. E c'è riuscito, come dimostrano le sue scarpe di coccodrillo. Mia sorella, invece, desiderava vedere Gesù. E credo che lo veda ogni giorno, lei e tutte le carmelitane.» Scosse il capo. «Ma io desideravo ben altro.» Con la mano indicò l'interno lussuoso della limousine. «E credo di averlo ottenuto.» Diede un'ultima occhiata alla casa, poi si rimise comoda sul sedile dell'auto e sospirò profondamente. «Vai pure, Joseph.» L'auto si rimise in moto all'istante e attraversò il fitto reticolato di vie diretta al centro della città. «Le ho detto che tra me e Hannah non c'era alcun legame personale,» disse Imalia. «Ricorda?» «Certo.» «Credo che non sia del tutto vero.» «Che cosa intende dire?» «Certamente non eravamo amiche intime,» precisò Imalia, «ma credo che a volte Hannah vedesse in me una certa somiglianza con se stessa. Non so dirle esattamente; forse dipendeva dal fatto che anch'io avevo perso i contatti con la mia famiglia. Evidentemente anche a lei era successo.» «Capisco.» «Forse era questo l'elemento che ci accomunava.» «Forse.» Parve sul punto di aggiungere qualcosa, ma si interruppe. «Comunque,» riprese infine, «non abbiamo ancora parlato della sua parcella.» «È la tariffa standard. Circa trecentocinquanta dollari al giorno.» «Quando vuole essere pagato?» «Quando avrò trovato un parente,» precisò Frank. «O quando non ci sarò riuscito.» «Pensa che potrà succedere?» «Non lo so.»
Lei scrollò le spalle. «Faccia del suo meglio,» aggiunse in tono pacato. «Come ognuno di noi deve fare.» Lasciò Imalia di fronte al suo ufficio e si incamminò verso sud, in mezzo alla folla pomeridiana che gremiva le vie. L'odore di salsicce e caldarroste riempiva la strada, e alcuni volontari dell'Esercito della Salvezza, con le divise blu ormai logore, suonavano piano le loro campanelle per richiamare la gente che sciamava dentro e fuori dei negozi di lusso e dai grandi magazzini del centro di Manhattan. Si diresse a ovest, verso la Quarantasettesima Strada, poi di nuovo a sud, verso la Quinta Avenue, facendosi largo tra la folla fino all'enorme edificio di marmo della biblioteca, all'angolo con la Quarantaduesima. Un illusionista cercava di liberarsi da un groviglio di catene, e ogni volta che riusciva a districare una parte del suo corpo magro e spigoloso la folla riunita sui gradini applaudiva calorosamente; più avanti, un uomo senza braccia disegnava sul marciapiede con le dita dei piedi, e poco più in là, all'angolo con la Quarantunesima, alcuni bambini neri agilissimi ballavano la break dance. Proseguì verso la Trentottesima Strada e si fermò al centro del Quartiere della Moda, dove il busto di Golda Meir con lo sguardo fisso nel vuoto dominava un piccolo spiazzo di cemento. Frank si sedette su una panchina da dove vedeva, sull'altro lato della Settima Avenue, il modesto monumento dedicato agli operai di sartoria, una figura di bronzo seduta alla macchina per cucire con aria soddisfatta e felice del proprio lavoro, che teneva tra le dita uno scampolo di stoffa e i piedi appoggiati al largo pedale d'acciaio. Osservandolo da vicino, non dava l'idea di quello spirito di rivalsa e di riscatto sociale di cui gli aveva parlato Imalia Covallo: con quell'aria da lavoratore appagato e infaticabile si poteva immaginare che la sera si alzasse dal lavoro sereno, per raggiungere la propria casa e cenare allegramente in famiglia. Frank si accese una sigaretta. Erano circa le quattro del pomeriggio e nel caotico andirivieni dei passanti i commessi spingevano i loro voluminosi carrelli di abiti, agitando le braccia per farsi largo. Frank tirò una profonda boccata, inclinò il capo leggermente all'indietro e chiuse gli occhi. Li riaprì pochi istanti dopo, fissando l'edificio dall'altra parte della via. Al di là delle spalle della statua la porta girevole ruotava ininterrottamente, facendo scorrere un flusso continuo di uomini e donne eleganti ma tutti simili tra loro, tutti puliti e freschi, talmente uguali l'uno all'altro che Frank non riconobbe subito Karen quando la vide uscire di fretta e poi fermarsi
un attimo per aspettare che Lancaster la raggiungesse sul marciapiede. Insieme attraversarono ridendo il viale pieno di traffico, dirigendosi proprio verso di lui. Karen lo notò quando gli era ormai a pochi metri e per un istante il suo volto parve rabbuiarsi. Si rasserenò in una frazione di secondo, e dopo un istante di esitazione gli corse incontro, seguita da Lancaster. «Ciao, Frank,» lo salutò con brio. Frank fece un cenno con il capo. «Che cosa fai da queste parti?» «Sto lavorando a un caso.» Lei toccò la spalla di Lancaster. «Conosci già Jeffrey, vero?» «Sì, ci conosciamo.» «Salve,» disse Jeffrey. «Jeffrey sta pensando di dedicarsi al design di moda,» gli spiegò Karen. «Volevo presentargli qualcuno. Penso che a qualche stilista possa interessare il suo lavoro. Se la caverebbe molto bene.» Frank lasciò cadere la sigaretta sul marciapiede e la spense con la scarpa. «Buona fortuna,» augurò a Lancaster con un sorriso appena accennato. «È un vero dilemma per me,» disse Jeffrey. «Il vecchio dilemma se prostituirsi o no.» «Ogni artista lo deve affrontare,» gli spiegò Karen scrollando le spalle. «Fa parte del gioco.» Frank non disse nulla. Il suo sguardo tornò sulla statua di bronzo, sul ritratto idealizzato di un uomo soddisfatto del proprio lavoro, della propria fatica, dell'abilità delle proprie mani. «Siamo appena stati a vedere che aria tirava qui di fronte,» spiegò Karen. Frank si voltò verso di lei. «E avete avuto fortuna?» Karen e Jeffrey si scambiarono uno sguardo di intesa, come se volessero decidere insieme la risposta. «Direi di sì,» disse infine Karen. «Credo che oggi abbiamo fatto progressi.» Guardò Jeffrey e aggiunse: «Non credi?» «Sì, certo,» confermò lui. Indossava un paio di pantaloni grigi con la piega, una giacca blu e una camicia bianca senza cravatta. Aveva un modo di fare calmo, rilassato e diplomatico e Frank notò che non aveva quell'aria da artista tormentato e afflitto che aveva riscontrato spesso in altre persone che lavoravano in quel settore, tanto che era arrivato alla conclusione che fosse un requisito del mestiere. «Sì, credo che stiamo cominciando a fare progressi,» confermò Karen
nervosamente. «Il fatto è,» precisò Lancaster con una risata leggera e imbarazzata, «che ho bisogno di denaro, e questo sarebbe un buon modo di guadagnarlo.» «Senza comunque escludere l'altra tua attività,» aggiunse subito Karen. Jeffrey parve leggermente imbarazzato dall'intervento in sua difesa di Karen. «Be', l'intenzione sarebbe questa,» precisò. Karen si rivolse a Frank. «Noi pensavamo di andare fuori a cena e poi a uno spettacolo.» Ci fu un attimo di imbarazzo, poi continuò: «Che cosa ne diresti di venire con noi?» «No, vi ringrazio,» replicò Frank. «Mi farebbe piacere,» intervenne Jeffrey, «potremmo approfittarne per conoscerci meglio.» «Devo lavorare a questo caso,» disse Frank. «Ho appuntamento con una persona.» Ancora una volta il suo sguardo tornò alla statua di bronzo, alla spalla tondeggiante e poi giù, dalla manica arrotolata fino alla mano appoggiata sullo scampolo di stoffa. «Ma non ceneremo prima delle sei o delle sette,» intervenne Karen. «No, grazie,» rifiutò nuovamente Frank. La guardò e per un attimo ripensò ancora a quel volto di bronzo, non come lo vedeva ora, ma come lo aveva visto la prima volta, così silenzioso, scuro, solenne. Sentiva che dentro di sé qualcosa stava sprofondando. «Ho questo caso a cui lavorare,» ribadì. «Ci farebbe davvero piacere,» insistette Karen. Lui scosse il capo. «Non posso proprio, Karen,» disse dolcemente. I suoi occhi lo guardarono con improvvisa e inespressiva chiarezza. «D'accordo,» si rassegnò. Lui le offrì un sorriso sfumato. «Divertitevi, mi raccomando.» «Sarò a casa prima di mezzanotte,» disse lei come per rassicurarlo. «Tu ci sarai già per quell'ora?» «Credo di sì.» «Bene,» disse Karen. «Arrivederci, allora.» Si voltò rapidamente, passando per un breve istante il braccio intorno alla vita di Lancaster, come per guidarlo verso le luci rutilanti di Times Square. 9 La targa esposta nell'atrio indicava a grandi lettere bianche che la «Imalia Covallo Enterprises» si trovava al ventiduesimo piano. L'ufficio era
molto elegante: tessuti bellissimi ornavano le pareti, alcuni incorniciati come se fossero dipinti, altri semplicemente drappeggiati alle pareti color lavanda. In fondo all'ingresso vi era un enorme scrittoio antico, dietro il quale sedeva una donna dai lunghi capelli neri che sorrise quando Frank le si presentò davanti. «Sono qui per vedere Mr Riviera,» disse. «Ha un appuntamento?» «Sì.» «Mi dice il suo nome?» «Frank Clemons.» «Un attimo, per favore,» rispose la donna. Alzò il ricevitore del telefono e disse qualche cosa, poi si rivolse nuovamente a Frank. «Viene subito. Se intanto desidera accomodarsi...» Frank aspettò in piedi solo per pochi secondi che Tony Riviera lo raggiungesse nell'ingresso. Era più vecchio di quanto Frank aveva immaginato: all'incirca sulla sessantina, con i capelli bianchi tagliati molto corti e occhiali di metallo con lenti molto spesse, al di là delle quali risaltavano gli occhi, di un azzurro stranamente chiaro. Era di carnagione olivastra, e benché il viso fosse solcato da piccole rughe aveva un fisico vigoroso e robusto e il portamento di una persona abituata a comandare. «Mr Clemons, sono Tony Riviera,» si presentò cortesemente l'uomo porgendogli la mano. «Imalia mi ha pregato di aiutarla in ogni modo, ma non mi ha detto a che proposito.» «A proposito di Hannah Karlsberg,» precisò Frank. «Del suo omicidio,» aggiunse prima che Riviera potesse replicare. Il suo viso parve irrigidirsi leggermente. «Non se ne sta già occupando la polizia?» «Sì,» confermò Frank. «Ma lei non è della polizia, vero?» «No,» gli disse Frank. «Sto conducendo un'indagine per conto mio.» «Per conto suo?» domandò incredulo Riviera. «Esattamente.» «Capisco,» rispose Riviera con aria calma, quasi svagata. Poi, improvvisamente, parve tornare a posare i piedi per terra e riacquistare vitalità. «Bene, Imalia vuole che io collabori con lei,» disse. «E qui Imalia Covallo detta legge.» Si capiva che non c'era risentimento nelle sue parole. «Andiamo nel mio ufficio,» aggiunse subito, «e vediamo come posso esserle di aiuto.» Frank seguì Riviera attraverso un labirinto di corridoi fino a un ufficio
assai spazioso, illuminato da un'ampia vetrata affacciata sul retro dell'edificio, alle spalle della scrivania di Riviera. Guardando giù, Frank vedeva l'enorme tetto nero del magazzino Macy's, che sembrava un immenso parcheggio costruito sopra la città. «Allora,» disse Riviera sedendosi dietro la scrivania, «mi dica che cosa posso fare per lei.» Frank si accomodò su una delle due poltroncine di fronte alla scrivania ed estrasse il taccuino verde. «Conosceva bene Hannah Karlsberg?» fu la prima domanda che gli pose. «Ho già dato queste informazioni alla polizia,» rispose Riviera. «All'inizio pensavano che potesse essere stata uccisa da qualcuno che lavorava con lei, magari da un impiegato scontento.» Guardò Frank con aria interrogativa. «Credo che sia la procedura.» Frank non disse nulla. «Ma Hannah andava d'accordo con tutti,» aggiunse Riviera. «Ho detto alla polizia che era una persona riservata, ma tutti la stimavano molto.» «Lei la conosceva bene, Mr Riviera?» chiese Frank. «Relativamente bene,» rispose Riviera. «Da quanto tempo?» «Non la conoscevo prima che venisse a lavorare per Imalia,» disse Riviera, «ma l'avevo incontrata una o due volte quando lavoravo giù nel Lower East Side.» «Allora la conosceva da prima che venisse a lavorare per Imalia Covallo?» precisò Frank. «In un certo senso sì. Quando ero ragazzino, vedevo Hannah dalle parti di Orchard Street,» spiegò Riviera. «Ma molti anni prima che venisse a lavorare qui. Allora non sapevo proprio chi fosse.» Sorrise. «Non so se dalle sue recenti fotografie si potrebbe ancora dire, ma era una shayna maidel.» Frank alzò lo sguardo dal suo taccuino. «Una che?» «Shayna maidel,» ripeté Riviera. «È yiddish. Significa una 'ragazza carina'.» Rise sommessamente. «Nonostante il mio cognome, sono ebreo.» Si sporse leggermente in avanti. «Sono un ebreo sefardita, Mr Clemons, un ebreo spagnolo.» Attese inutilmente che Frank reagisse a questa sua dichiarazione, poi continuò. «Desidero sempre chiarire questo equivoco.» «Quale equivoco?» «Per via del mio nome, Riviera, la gente crede che io sia portoricano o messicano o giù di lì. Il fatto è che la gente ha la tendenza a considerare gli spagnoli persone misere e ignoranti.» Socchiuse gli occhi, facendosi molto
serio. «Da molto tempo ho imparato che in questo paese non bisogna permettere alla gente di pensarla a questo modo.» Appoggiò il palmo delle mani sul piano di legno lucido della scrivania e le allungò verso Frank. «Vede le mie nocche? Le sembrano strane?» «Sì, abbastanza.» «Le ho rotte più di una volta quando abitavo nel Lower East Side,» spiegò Riviera. «Antonio Riviera. Ai negri non piacevo perché sono ebreo.» Scrollò le spalle. «E gli altri ebrei erano nella maggior parte ashkenazi, ebrei provenienti dal Nord Europa. A loro non piacevo perché sono sefardita, e si dice che i sefarditi si considerino superiori agli altri.» Sorrise con aria scaltra. «In genere si considerano superiori,» disse. «E potrei aggiungere che di solito hanno ragione.» Tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Ora che ho chiarito l'origine del mio nome, mi faccia pure tutte le domande che vuole.» «Come ha incontrato Hannah?» domandò Frank. «Perché risale tanto indietro nel passato, Mr Clemons?» «Mi piace conoscere la storia delle persone,» confessò Frank. «Perché?» «Mi aiuta a valutarle meglio.» «In che modo l'aiuta?» Frank scrollò le spalle. «Mi aiuta ad avvicinarmi alla loro personalità.» Riviera sorrise compiaciuto. «Nella moda non è poi così diverso, sa? Quando comincio a disegnare un abito, la prima cosa che faccio è pensare alla bella donna che lo indosserà. Non a una modella o un manichino, ma a una donna vera, molto elegante: un'avventuriera, chissà, forse anche una spia.» Rise ancora. «Magari addirittura un'assassina.» Tirò un profondo sospiro e lasciò uscire l'aria con uno sbuffo improvviso. «Ma sa com'è la vita. Cammini per la strada e vedi il tuo abito, il tuo abito bello ed elegante, indossato come se fosse una tenda da cucina da una vecchia qualunque, che in vita sua non ha fatto nulla di più avventuroso di prenotare una crociera alla Martinica.» Per un attimo precipitò in uno stato di tetraggine ma poi, scrollandosi, di colpo ne uscì. «Ma questo riguarda la moda,» disse per accantonare l'argomento. «Chi ha anche solo un minimo di cervello, impara a disprezzare anche i suoi migliori clienti.» Frank prese nota velocemente, poi tornò a guardare Riviera. «Come ha incontrato Hannah?» «A quel tempo svolgevo qualche lavoretto per un tizio di nome Bor-
nstein,» raccontò Riviera. «Allora ero fattorino, consegnavo i pacchi con gli abiti preparati dalle sartorie che sfruttavano la manodopera. Facevo diversi lavori per Bornstein. Lui era un grande macher, un pezzo grosso, nell'industria dell'abbigliamento. Una specie di intermediario, capisce che cosa intendo dire?» «No, non capisco.» «I proprietari delle sartorie si rivolgevano a lui quando avevano bisogno di operai,» spiegò Riviera. «Gli alti costi di produzione e i notevoli investimenti per l'acquisto dei macchinari richiedono un lavoro a pieno ritmo, come il lavoro a cottimo. È molto importante che la spoletta del filo continui a srotolarsi, e Bornstein faceva da intermediario garantendo ai proprietari un rifornimento continuo di operai.» «Intermediario?» «Sì, esattamente,» continuò Riviera. «Se qualcuno aveva problemi con una ragazza che improvvisamente si ammalava, si sposava o si cuciva le dita, era necessario sostituirla immediatamente. Chi possiede una sartoria sa che ogni minuto in cui una macchina resta inattiva è una perdita di denaro.» Rise di nuovo, ma questa volta quasi con freddezza. «Questa industria vive sulla continuità, sull'abilità di dita rapide e agili, sui cervelli brillanti.» «Ed era Bornstein che procurava i sostituti?» «Esatto, per fare in modo che la sartoria funzionasse sempre a pieno ritmo,» confermò Riviera. «E Hannah lavorava per lui?» Riviera scrollò il capo. «No, a quel tempo Hannah lavorava già in sartoria. Alla macchina per cucire, come ogni altra ragazza carina del Lower East Side.» Improvvisamente Frank immaginò per la prima volta Hannah da giovane, curva sulla macchina per cucire. Le dita veloci danzavano intorno all'ago che incessantemente, con insistenza, picchiettava la cucitura. «Ora, come le dicevo,» riprese Riviera, «a quel tempo facevo vari lavori per Bornstein. Un pomeriggio dovevo incontrarlo al Battery Park, e quando...» «In che anno?» lo interruppe Frank. «Era l'inverno del 1935,» spiegò Riviera. «Faceva molto freddo quell'inverno. Ricordo l'impressione che mi fece quel luogo quando vi arrivai. Era in rovina, trascurato. A quel tempo la città era piena di Hoovervilles, i piccoli quartieri di baracche vicino ai moli, e il Battery Park era abbastanza
squallido. Faceva freddo e pensavo che la baia sarebbe presto gelata. C'era un gruppo di ragazzi che tentavano di scaldarsi attorno a un grosso bidone in cui avevano acceso un fuoco.» «E questo al Battery Park,» precisò Frank, prendendo nota sul suo taccuino. «Esatto,» disse Riviera. «Quando arrivai là, ebbi la netta impressione che Bornstein stesse cercando di abbordare quella giovane.» Rise allegramente. «È vero che ero solo un ragazzo, ma avevo vissuto per la strada e sapevo come andavano le cose. E posso affermare con certezza che Bornstein le aveva messo gli occhi addosso.» La sua risata si smorzò lentamente. «Incontrava parecchie ragazze a quei tempi, me lo lasci dire. Talvolta faceva anche da agente per certe attricette del teatro ebraico che speravano di poter conquistare Hollywood. Credo che in taluni casi avesse fatto anche un po' il ruffiano.» Scrollò il capo. «Bornstein aveva le mani dappertutto.» «E Hannah?» «Sedeva accanto a lui su una panchina del parco,» disse Riviera. «Ma quando arrivai lei se ne andò via. Bornstein la seguì con lo sguardo mentre si allontanava. Era veramente incazzato. 'È la figlia del rabbino,' mi disse. 'Non la dà a nessuno.'» Riviera fece una smorfia. «Bornstein era un lurido bastardo, davvero un lurido bastardo. Non mi piaceva lavorare per lui, ma a quei tempi bisognava prendere ciò che veniva offerto.» Frank non disse nulla. «Era l'inizio degli anni Trenta, come le ho detto,» continuò Riviera. «Erano tempi duri, le assicuro. Oggi la gente non sa che cosa significa essere nei guai.» Rise, e Frank in quella risata percepì una nota di disprezzo. «Allora non si poteva vivere come si vive oggi. Perlomeno, non nel Lower East Side. Non ce lo si poteva permettere. Come si diceva, il lupo era sempre in agguato dietro l'angolo.» Frank scrisse tutto sul taccuino, poi tornò a guardare Riviera. «Ha detto che Bornstein disse che era la figlia del rabbino?» «Già.» «E lo era?» «Sì, certo.» «Aveva una sinagoga a New York?» «Proprio così.» «Quale?» «Non ricordo il nome della sinagoga,» disse Riviera. «Ma era nella zona
est. Credo dalle parti della Quinta Strada.» Rifletté per un attimo. «Vicino a Bowery. Lei era di quel quartiere.» «Come faceva a sapere chi era suo padre? Gliene aveva mai parlato?» «No, lei non parlava molto della sua infanzia,» rispose Riviera. «Solo i vecchi rimbambiti lo fanno. Ma mi disse di essere cresciuta nella Quinta Strada e da ciò che avevo sentito dire da Bornstein capii che doveva proprio essere la figlia di un rabbino.» «E dei suoi parenti le ha mai parlato?» chiese Frank. «Aveva due sorelle,» disse Riviera. «È tutto ciò che so.» Frank strinse le dita intorno alla penna. «Due sorelle?» domandò subito. «Già,» disse Riviera. «Non lo sapeva?» «No, non lo sapevo.» Riviera scrollò le spalle. «Be', ora che ci penso non ne sono sorpreso,» disse. «Perché?» «Perché Hannah si era lasciata tutto dietro le spalle.» «Anche le sue sorelle?» «Esattamente,» rispose Riviera con schiettezza. «Perché?» «Perché nella vita aveva fatto carriera, capisce che cosa intendo dire?» rincalzò Riviera. «Chi può sapere che cosa si sia lasciata dietro? Chi ha voglia di ricordare una piccola baracca a Bowery?» sorrise con aria furba. «Qualche volta non basta aver raggiunto una certa posizione sociale, essersi creato un futuro diverso. Talvolta si desidera un passato diverso. Ma, è ovvio, questa è l'unica cosa che non si può ottenere dalla vita.» «Hannah era così?» «Forse un po' lo era,» continuò Riviera. «Molte persone lo sono. Altre invece no. Imalia Covallo, per esempio, è diversa. Le ha già fatto fare un giro a Prince Street?» «Sì, mi ci ha portato.» «Le piace,» riprese Riviera. «Vuole sempre ricordare alle persone da dove viene. Hannah invece non lo faceva mai. Non so perché.» «Che cosa sa delle sue sorelle?» «Nulla di preciso,» ammise Riviera. «Non credo che fossero in contatto l'una con l'altra.» «Come ha saputo che aveva due sorelle?» «Da Bornstein.» «Che cosa le disse?»
«Quando Hannah si alzò e andò via, Bornstein sorrise con quel suo tipico sorriso viscido. Poi mi guardò e disse qualcosa come: 'hanno bisogno di lavorare tutte e tre. Quanto scommetti che le shtup tutte?'» Frank lo guardò con fare interrogativo. «Shtup?» «È yiddish,» spiegò Riviera. «Significa 'fottere'.» Frank si sentì travolgere da un'ondata di disprezzo per quell'uomo. Riviera lo guardò con curiosità. «Perché le interessano queste informazioni?» «Nessuno finora ha richiesto il corpo di Hannah,» gli spiegò Frank. «È ancora all'obitorio.» Abbassò lo sguardo sul suo taccuino. «Pensavo che forse qualche parente potesse...» «Richiederlo?» lo interruppe Riviera. «Darle un pezzo di terra ebraica in un piccolo cimitero ebraico?» «E perché no?» disse Frank. Guardò di nuovo il proprio taccuino. «Hannah le ha mai parlato delle sorelle?» «Non dopo essere venuta a lavorare qui,» rispose Riviera. «Forse si erano trasferite altrove, oppure aveva troncato i rapporti con loro. Forse erano morte.» Alzò le spalle e aggiunse: «Voglio dire che nessuno può sapere con certezza che cosa accade tra sorelle.» Frank prese nota velocemente di quanto aveva detto Riviera e poi tornò con lo sguardo su di lui. «E non ha mai sentito nient'altro?» domandò. «Che cosa le disse Bornstein?» «Quella è stata la prima e l'ultima volta che ho sentito parlare delle sorelle Karlsberg.» «Aveva fratelli?» chiese Frank. «Non ne ho mai sentito nominare uno.» «E nipoti?» «Nessuno.» Frank cambiò pagina del taccuino e cambiò argomento. «Hannah aveva un'agenda molto fitta?» domandò. «Certamente,» confermò Riviera. «Il nostro settore non conosce pause.» «Se ne occupava lei?» «Certo,» disse Riviera. «Personalmente. Era uno dei compiti che Hannah mi aveva assegnato.» «In che cosa consisteva esattamente il suo lavoro?» chiese subito Frank. «Era il braccio destro di Imalia,» precisò Riviera. «Si occupava un po' di tutto. Qualche volta disegnava anche abiti. Venivano prodotti come se fosse stata Imalia a inventarli, ma in realtà erano creazioni di Hannah.» Indicò uno scampolo di tessuto incorniciato appeso alla parete. «Questo, per e-
sempio, lo ha fatto lei.» Era un turbinio di misteriose tinte scure sulle tonalità del rosso e Frank osservandolo ebbe l'impressione di essere trascinato a forza nella sua buia profondità. «È molto bello,» osservò. «Lo abbiamo venduto molto bene la stagione scorsa,» disse Riviera con riconoscenza. «Uno dei tessuti che sono piaciuti di più.» Frank tornò al taccuino. «Hannah svolgeva la maggior parte del suo lavoro in questo ufficio?» «Esattamente.» «Allora conosceva tutti quelli che lavorano qui?» «Sicuro.» «Sa se era particolarmente amica di qualcuno?» «Vuole sapere se qui c'è qualcuno che possa conoscere meglio la sua vita privata?» «Già.» Riviera scosse il capo. «Non credo ci sia molto da sapere sulla sua vita privata,» commentò. «Credo che fosse una di quelle persone che si buttano a capofitto nel lavoro. Era sempre qui.» Aprì un cassetto, estrasse un registro con la copertina rigida e lo fece scivolare sul tavolo verso Frank. «Questa era la sua agenda. Guardi lei stesso.» Frank prese il registro e lo aprì, trovandosi immediatamente sperduto in un labirinto di note e di numeri. «Le ci vorrebbe un po' di tempo per districarsi, Mr Clemons,» lo avvisò Riviera. «Le dirò io qual è la conclusione da trarre.» Frank alzò lo sguardo dall'agenda. «Hannah lavorava tutto il giorno, ogni giorno,» disse Riviera con una strana stanchezza nella voce. I suoi occhi correvano velocemente sull'agenda. «Aveva una bella casa, credo.» «Sì, è vero,» confermò Frank. Riviera lo guardò sbalordito. «Lei l'ha vista?» «Sì, ci sono stato con la polizia.» «Dicono che fosse arredata con molto gusto.» «Sì, l'aveva sistemata bene.» Riviera fissò Frank con molta determinazione. «Mi permetta di dirle una cosa, Mr Clemons: se lo meritava.» Voltò leggermente il capo e guardò fuori dell'enorme finestra. «Nel mondo degli affari si sentono dire un sacco di stronzate sulle persone che si sono fatte da sole, e poi scopri che il papà
o lo zio ci hanno messo uno o due milioni di dollari. Così, uno sull'altro.» Scrollò la testa in segno di disapprovazione. «Non importa da chi li hanno avuti, però se la situazione diventasse difficile nessuno strozzino andrebbe da loro a spezzargli le gambe.» Si voltò nuovamente verso Frank. «E questi si sono fatti da soli?» Riviera sorrise, ma il suo sguardo rimase gelido. «Mi piacciono le mie mani, Mr Clemons. Ne sono fiero.» Portò in alto le mani, che si stagliarono nella luce della vetrata. «Quando le guardo penso: 'Bravo, Tony, queste non sono stronzate'.» Le riabbassò lentamente e le appoggiò sulla scrivania. «Anche Hannah era così,» aggiunse. «Si era tirata fuori della sinagoga solo con le sue nude mani. Doveva ringraziare solo se stessa per tutto ciò che possedeva.» Sul suo volto apparve una strana fierezza. «E chi ha il coraggio di dire che così non dà maggiore soddisfazione?» Frank non disse nulla. Riviera si massaggiò delicatamente le mani. «C'era solo una dannatissima cosa che Hannah non meritava,» disse, «ed è la fine che ha fatto.» Frank rivide il volto di Hannah, prima sulle fotografie contenute nella cassettina di legno, e poi inondato dalla luce fredda dell'obitorio. «Dove lavorava prima di venire qui?» domandò Frank. «Prima di venire qui?» chiese Riviera mostrando un attimo di esitazione. «Che differenza fa? Era con Imalia da più di vent'anni.» «Sto cercando di risalire nel tempo,» gli spiegò Frank. «Vuole scoprire il suo passato?» «In alcuni casi è necessario.» «Purtroppo non penso di poterla aiutare molto,» si rammaricò Riviera. «Tutto ciò che so è che Hannah un giorno si è presentata qui.» «Esiste una sua scheda personale?» insistette Frank. «Sì.» Per un attimo sembrò esitare, poi si voltò velocemente, andò verso uno schedario ed estrasse una cartelletta blu. «Questo è tutto ciò che abbiamo,» disse porgendola a Frank. «È il questionario che Hannah ha compilato quando è stata assunta. L'ho notato quando ho riordinato la sua scrivania, qualche giorno fa. A dirle la verità, sono rimasto piuttosto sorpreso.» «Perché?» «Perché non ha scritto molto,» disse Riviera. Frank aprì la cartelletta e notò che il questionario non era compilato interamente. «Non è indicata alcuna attività tra il 1936 e il 1955,» disse.
«No, infatti.» «E non vi sono nemmeno le referenze.» «Esatto,» convenne Riviera. «Lei mi ha parlato di Bornstein. È ancora vivo?» domandò Frank. Riviera fece cenno di no con la mano. «È morto alcuni anni fa. Ormai era diventato una leggenda nel nostro ambiente. Gli fu riservato un addio in grande stile, con tantissimi fiori e un carro funebre con baldacchino.» «Lei è andato al suo funerale?» «Certamente,» disse Riviera. «In fondo è stato lui a darmi il primo lavoro continuativo.» «C'era anche Hannah?» «Se c'era, non l'ho vista,» puntualizzò Riviera. «Ma c'era molta gente al funerale di Bornstein. Era spietato negli affari, perciò tutti lo rispettavano.» Frank prese nota. «Esiste qualcuno che avrebbe potuto conoscere Hannah negli anni Trenta?» «Potrebbe controllare alla sinagoga di cui le ho parlato.» «Lo farò senz'altro.» Riviera rifletté un attimo. «Ma forse ho un'idea migliore,» disse. «Specialmente se si sente un po' shmoozing.» Sorrise. «A Chelsea c'è una specie di ospizio. Le persone le faranno la testa come un pallone a furia di parlare.» «Quale ospizio?» «Si chiama La Fissa Dimora,» disse Riviera. «È sul West Side, all'incrocio tra la Nona e la Ventitreesima. Ci stanno molte persone che hanno vissuto sulle macchine per cucire. Stanno sedute nella sala comune e ricordano insieme i vecchi tempi.» Scrollò le spalle. «Forse alcuni di loro hanno conosciuto Hannah quando lavorava in sartoria da ragazza.» Frank prese nota dell'indirizzo. «Per quanto riguarda le persone che lavorano qui,» aggiunse Riviera, «non credo che potrà ottenere molte informazioni. Anche la polizia ha interrogato tutti, ma con scarsi risultati.» «Ha parlato loro di questo ospizio?» Riviera scrollò il capo. «No. Ma non credo che siano interessati a risalire così lontano nel tempo. Intendo dire che loro ritengono che la morte di Hannah sia da attribuire a uno psicopatico. Almeno così mi hanno riferito.» «O che sia stata uccisa per una questione d'affari,» precisò Frank.
«Esiste sempre anche questa possibilità.» «Hanno interrogato molte persone qui?» «Abbastanza,» disse Riviera. «È come ha detto lei, cercavano un movente che riguardasse il lavoro. Qualcuno che Hannah avesse licenziato, o cose simili.» Guardò il taccuino di Frank con approvazione. «Ma se lei indaga con un'altra prospettiva, dovrebbe prima di tutto andare a trovare quei vecchi sporcaccioni a Chelsea.» Rise. «Non sarà un problema farli parlare. Tutto ciò che hanno sono i ricordi e, mi creda, non sanno tenere la bocca chiusa.» Si alzò in piedi, come per congedare Frank, che però rimase seduto con il taccuino aperto. Riviera lo guardò sorpreso. «Vuole sapere altro? È soddisfatto?» Frank fece un breve cenno di assenso con il capo. «Sì, credo di sì,» rispose. Riviera allungò il braccio per indicargli la porta. «Andiamo allora,» disse, «l'accompagno all'ascensore.» In un attimo avevano già raggiunto l'atrio. «Lavoriamo bene qui,» disse Riviera indicando i drappeggi di tessuto che ornavano le pareti. «Sì, si vede,» convenne Frank. «Senza alcun dubbio è un lavoro duro,» aggiunse Riviera sorridendo. «Ma il prodotto è buono.» 10 Frank giunse davanti a un grande e tozzo edificio sulla Ventitreesima Strada circondato da una lunga staccionata corrosa dal tempo. Un vialetto di cemento dissestato conduceva all'ingresso. Di fronte alla porta, c'era un'anziana donna, avvolta in un cappotto di panno e con il capo coperto da una pesante sciarpa girata intorno al collo che tratteneva con la mano inguantata. Quando vide Frank avvicinarsi si ritrasse; lui le fece un rapido cenno con il capo e si fermò prima di esserle troppo vicino. «È questa La Fissa Dimora?» domandò Frank. «Sì,» gli rispose l'anziana donna. «Sto cercando la sala comune.» «Entrando, sulla destra,» gli disse la donna continuando a squadrarlo con sospetto. «Cerca qualcuno in particolare?» «No,» rispose Frank. «Solo qualcuno che viva in questa casa.»
La donna si voltò e gli indicò un ampio corridoio piastrellato al di là della porta a vetri. «In quella stanza c'è sempre qualcuno,» disse. «Prima porta a destra.» In fondo alla stanza c'era un piccolo gruppo di persone sedute intorno a un tavolo rettangolare che lo guardarono avvicinarsi con curiosità. «Mi dispiace disturbare,» disse Frank quando ebbe raggiunto il tavolo. Estrasse la sua tessera di identificazione e mostrandola loro disse: «Sono un investigatore privato e sto cercando di scoprire alcune cose su una donna che alcuni di voi potrebbero aver conosciuto.» Una donna grassa e pesantemente truccata si voltò verso di lui. «Ma che cosa crede? Questo non è un ufficio informazioni!» «Mi sarebbe di grande aiuto se voi poteste collaborare,» spiegò Frank. «Adesso quella donna è morta.» Un anziano sobbalzò e alzò il capo. «È morta?» «Già, proprio così.» «In tal caso forse la conosco.» Guardò gli altri e sorrise. «È con i vivi che non ho più contatto.» La donna gli diede una gomitata nelle costole. «Lo sai perché, Izzy? Perché il tuo contatto è troppo corto.» Tutti risero, compreso Frank. «Si sieda,» gli disse il vecchio. «Faremo una bella chiacchierata. A noi piace parlare.» Frank si sedette. «Io sono Izzy Berman,» si presentò il vecchio. Con il capo indicò le altre due persone sedute al tavolo. «Lei è Clara Zametkin, e questo tizio con il berretto irlandese è Benny Shein.» «Lieto di conoscervi,» disse Frank. Berman si chinò leggermente in avanti drizzando le orecchie. «Chi è questa donna di cui parla?» «Il suo nome era Hannah Karlsberg.» Le tre persone si scambiarono occhiate interrogative, poi scossero il capo lentamente. «Lavorava in una fabbrica di Orchard Street,» precisò Frank. «In che epoca?» domandò Benny. «All'inizio degli anni Trenta.» Benny lanciò un'occhiata a Clara. «Tu dovresti conoscerla,» disse. «Non abitavi da quelle parti?» Clara rifletté per un attimo. «Karlsberg,» ripeté a bassa voce, «Hannah
Karlsberg.» Guardò Frank e concluse: «Non credo di averla conosciuta.» «Era la figlia di un rabbino,» aggiunse Frank. «Mi è stato detto che il padre aveva una sinagoga dalle parti della Quinta Strada, a Bowery.» Improvvisamente il volto dell'anziana donna parve illuminarsi. «Hannah Karlsberg?» domandò di nuovo gentilmente. «Il rabbino morì,» disse Frank. «E allora lei arrivò in Orchard Street. Aveva due...» «Kovatnik,» sbottò la donna. «Si chiamava Kovatnik, Hannah Kovatnik.» I due uomini si scambiarono uno sguardo di intesa. «Hannah Kovatnik?» disse Benny. «Stai parlando di Hannah Kovatnik?» Clara lo guardò con aria risoluta. «Deve essere lei, Benny. Chi altri se no?» Si voltò verso Frank. «Oh sì, mi ricordo di Hannah. Tutti ci ricordiamo.» Guardò gli altri. «Ricordate quella volta nella sala delle riunioni? Quella sera Schreiber ci parlava dello sciopero, e tutte le ragazze erano là. Tutte insieme, pigiate l'una contro l'altra. Che chiasso c'era! Ve ne ricordate?» Benny fece cenno di sì con il capo. «Chi potrebbe dimenticarsene?» «Oh sì,» confermò Berman. «Me lo ricordo.» «E Schreiber ci parlava di sconfitte,» continuò Clara, «di debolezza.» Benny sentì un leggero fremito percorrergli la schiena. «Ci faceva dormire, quello là. Non faceva che piagnucolare. Dicevo sempre a Leon Jaffe: 'Leon, ma perché non mandano un vero uomo a parlare con noi? Perché viene sempre questo Schreiber?' Era un tale frignone! Non faceva altro che grattarsi. Era pieno di tic.» Torse le labbra in segno di disgusto. «Io dovevo stare ad ascoltare una .persona simile, e magari rischiare il collo per lui?» Mosse il dito in segno di diniego. «No di certo.» Clara sembrava non ascoltarlo nemmeno. «E poi, mentre Schreiber parlava, spuntò fuori quella ragazza. Quanti anni poteva avere? Diciannove? Venti?» I suoi occhi dardeggiavano come frecce. «Sale quella ragazza sul palco e comincia a parlare in yiddish, comincia a raccontare che cosa stava accadendo in sartoria.» Scrollò il capo. «Fece un discorso da non crederci. Un discorso così, senza esserselo preparato in anticipo! Era spontanea, le parole le uscivano da sole.» La donna guardò Berman cercando conferma. «Ho ragione, o no?» «Hai perfettamente ragione,» confermò Berman. Poi guardò negli occhi Frank. «Stia a sentire Clara. Lei ricorda tutto.»
«Parlò per circa dieci minuti,» continuò Clara, «ma non aveva alcuna importanza: anche se avesse parlato per un'ora, nessuno si sarebbe mosso. Ma durò forse dieci minuti e quando ebbe finito ci fu una commozione da non credere.» Benny rise. «E Schreiber non sapeva più che cosa fare. Era ridicolo. Quella ragazza lo aveva fatto sembrare un pagliaccio, un buffone.» «Ma non c'era nulla che lui potesse fare,» riprese Clara con veemenza. «Faceva tutto Hannah.» I suoi occhi scrutarono di nuovo Frank. «E poi, alla fine, disse, sempre in yiddish: 'Dovete scioperare, dovete scioperare. Ditemi, sciopererete?' E tutte le ragazze gridarono insieme di sì, che avrebbero scioperato. E Hannah, mettendosi la mano sul capo disse: 'Allora fate la promessa ebraica.' Vi era molta fierezza nel suo sguardo mentre ripeteva queste parole. 'Che la mia mano possa perdere forza e la mia lingua attaccarsi al palato se io dovessi tradirvi.'» L'anziana donna spalancò gli occhi. «E così fece. E così tutte fecero.» I tre anziani annuirono lentamente. «È vero,» disse Berman. «È così che andò quella sera.» Frank estrasse il suo taccuino. «Quando avvenne questo episodio?» «Era il dicembre 1935,» rispose Clara. «Lo ricordo perché mio fratello, che riposi in pace, era appena morto di tubercolosi.» «Quando avete visto di nuovo Hannah?» chiese Frank. «Dopo di allora? Molte altre volte,» rispose Clara. Guardò gli altri. «Alcuni fanno un gran chiasso e poi spariscono, ma non Hannah. Lei era alla testa delle ragazze, era lei che guidava lo sciopero.» «Guidava lo sciopero?» domandò Frank. «Lo ha organizzato lei,» disse Clara, «e poi lo ha portato avanti. Hannah Kovatnik era fatta così.» «E come lo guidava?» «Lavorava con il sindacato.» «Quale sindacato?» «L'AGW,» intervenne Benny, «quello della nostra categoria.» «Hannah ne era membro?» «Certamente,» disse Clara. «Era una riunione del sindacato quella in cui lei aveva preso la parola. Schreiber, lui era il pezzo grosso locale. Era nella commissione centrale.» Berman agitò nuovamente la mano. «Era un tale piagnucolone.» Clara fece un rapido cenno al taccuino di Frank. «Prendete nota di questo nome. Leon Schreiber, un pezzo grosso del sindacato.»
Berman scrollò il capo. «Era un putz, quello là.» «È ancora vivo?» domandò Frank. «Chi, Leon? No, è morto molti anni fa.» Clara guardò Berman con disprezzo. «Non era un putz, Leon. Lavorava sodo.» Poi tornò a rivolgersi a Frank. «Ma era un tipo di quelli che noi chiamiamo schlemazel.» «Lo vedi, un putz,» insistette Berman. «Proprio come dico io.» Frank non distolse la propria attenzione da Clara. «Una persona che... che... non sa agire,» spiegò Clara, «una persona maldestra, molto confusionaria.» «Questo per parlarne bene,» disse Berman ridendo. Benny toccò la spalla di Berman. «Izzy,» lo rimproverò, «lascia che sia Clara a parlare.» «Da allora,» riprese Clara, «abbiamo visto spesso Hannah. Era sempre in giro per il quartiere. La sera tardi la incontravi in Orchard Street, la mattina presto a Ludlow Street, o a Hester, o dovunque qualcuno avesse bisogno di qualcosa: cibo, pane di segala, magari un'aringa. O anche solo di sostegno morale. Lei era sempre pronta: di qualsiasi cosa si trattasse, era sempre disposta a fare tutto ciò che poteva. Ma non poteva fare tutto. E chi può? Non poteva cambiare il mondo da sola. Ma come è scritto nel Talmud, all'uomo non è richiesto di cambiare il mondo, ma di fare del proprio meglio per cercare di cambiarlo; e ciò è mitzvah, è cosa buona.» «E Hannah sicuramente ha cercato di farlo,» commentò Benny con enfasi. «Quella sera, nella sala delle riunioni, la sua fu come una voce amica nel deserto.» «Ricordate le sue sorelle?» chiese Frank. «Ricordo una di loro,» disse Clara. «Era più giovane di Hannah. Non ricordo il suo nome, ma erano sempre insieme. Hannah era sempre in ordine, si curava molto, e anche sua sorella, la ragazzina. Hannah portava i capelli sciolti sulle spalle e indossava sempre un grembiule bianco. Era pulita, sa, proprio molto carina.» «E l'altra sorella?» «Non ricordo molto di lei.» «Era maggiore o minore di Hannah?» «Aveva più o meno la sua età. Chi se lo ricorda?» disse Clara. Di nuovo si voltò e guardò gli altri due. «Voi vi ricordate qualcosa dell'altra sorella?» I due scossero il capo in segno di diniego.
«Ricordo la minore,» disse Benny. «Era molta graziosa, ma non ricordo il suo nome.» «Aveva delle amiche?» chiese Frank. «Amiche dei vecchi tempi.» «Chi? Hannah?» domandò Clara. «Sì.» Clara rifletté un attimo guardando gli altri. «Amiche?» ripeté, come se parlasse a se stessa. «C'era una ragazza che Hannah vedeva sempre.» Si interruppe, cercando di ricordare. «Veniva da un paese della Galizia.» I due uomini la fissarono con occhi inespressivi. «Venivano tutte dallo stesso posto,» continuò Clara, «le persone che vivevano in quella casa.» «Dove abitava?» chiese Benny. «A Rivington Street. All'incrocio con la Clinton.» Benny fece un cenno di assenso con il capo. «Sì, sì. Venivano da Lemberg, in Galizia. Abitavano tutti in Rivington Street. Era la loro landslayt.» Rifletté un attimo. «Era anche lei nel sindacato, quella ragazza. Ci restò per molti anni.» Poi si interruppe nuovamente, come per fermare qualcosa nella sua memoria. «Polansky,» disse infine. «Etta Polansky.» Clara congiunse le mani, con gesto gentile. «Ecco il suo nome. Etta Polansky. Adesso me lo ricordo.» «Ed era amica di Hannah?» «Molto amica, sì,» confermò Clara. «Erano sempre insieme, quelle due.» Frank scrisse il nome sul taccuino, poi tornò a fissare Clara. «Ha idea di dove potrei trovarla?» «Sono passati molti anni,» disse Clara. «Non saprei.» Rivolse lo sguardo agli altri due. «Forse voi ne avete idea?» I due uomini scrollarono le spalle sconsolati, poi Berman improvvisamente intervenne. «Provate a guardare sulla guida del telefono.» «Non servirà se si è sposata,» osservò Clara con tono di rimprovero. «Avrebbe un cognome diverso.» «Ma forse non lo è,» replicò Berman, come per volersi difendere. «Chi lo sa? Forse è una einzam maidel.» Clara scosse il capo. «Parla inglese, Izzy. Lui non sa l'yiddish.» Poi rivolgendosi a Frank disse: Einzam maidel, una donna sola.» 11
Frank controllò l'indirizzo che aveva copiato dalla guida di Brooklyn, quello dell'unica E. Polansky che aveva trovato. Ormai era pomeriggio tardi, e gli stretti marciapiedi di Williamsburg erano affollati di persone che tornavano a casa. Grandi autobus gialli con scritte nere in ebraico si svuotavano lentamente del loro carico: ne uscivano uomini ritti e silenziosi, con barbe arricciate in ciocche fluenti sul petto, avvolti in lunghi cappotti neri. Camminando tra loro Frank si sentiva un intruso: sembravano chiusi in un isolamento fortemente radicato, tutti uniti come se sapessero che la città che li circondava fosse pronta a spazzarli via. Anche a Manhattan, sulla Quarantasettesima - la zona dei diamanti - di ebrei ce n'erano molti, e Frank li aveva spesso visti andare frettolosi per le strade con le loro valigette nere assicurate al polso in cui, si diceva, vi fossero milioni di dollari in oro e pietre preziose. Ma la zona di Williamsburg a Brooklyn era completamente diversa. Era un labirinto di vie fiancheggiate di file di case che sembravano stringersi l'una all'altra per cercare calore contro il freddo dell'inverno. In questa atmosfera Frank provò un senso di disagio per questa gente che si comportava come se fosse assediata, e addentrandosi nel quartiere percepì chiaramente il peso della vita che quella gente sopportava: gente severa, chiusa, così diffidente nei confronti di tutti da alzare un muro tra sé e il mondo, difendendo il proprio isolamento come il bene più prezioso. Al numero 2410 di Van Kalten Street c'era una casa uguale a tutte le altre, fatta di legno e coperta da un rivestimento di finti mattoni. Un breve porticato sporgeva davanti alla porta d'ingresso, e proprio di fronte ai gradini c'era un cortiletto, niente più che due fazzoletti di verde su entrambi i lati di un sentierino dissestato di cemento. Frank bussò una prima volta ma nessuno rispose, così attese un attimo e poi bussò di nuovo con maggior insistenza. La porta si socchiuse, ancora assicurata allo stipite con una catena d'ottone. «Che cosa c'è?» chiese qualcuno. «Mi chiamo Frank Clemons,» si presentò. Estrasse un biglietto da visita e lo fece passare attraverso lo spiraglio della porta. Una piccola mano bianca lo strappò dalle sue dita, e lo restituì pochi secondi dopo. «Credo che abbia sbagliato indirizzo,» disse la voce. «È possibile,» replicò Frank, «ma forse può dirmi se Etta Polansky abita qui.» Un occhio marrone fece capolino, fissando Frank nella luce polverosa che filtrava dall'esterno. «È mia zia.»
«Abita qui?» «Che cosa vuole?» «Ho bisogno di parlare con lei di una sua amica,» disse Frank. «Una donna di nome Hannah Kovatnik.» Nessuna risposta. «Alcune persone mi hanno detto che sua zia potrebbe averla conosciuta,» continuò, con maggior enfasi nella voce. «Miss Kovatnik è morta, e noi dobbiamo farlo sapere ai parenti.» Udì la catena sbatacchiare dietro la porta, che un attimo dopo si aprì un po' di più. Nell'ingresso buio della casa stava una donna alta e magra. Doveva avere circa vent'anni, eppure il suo viso era teso e segnato profondamente, e nei suoi occhi vi era quell'offuscamento lattiginoso tipico di chi non esce all'aria aperta da molto tempo. «Mia zia non sta molto bene,» disse la donna. «Devo soltanto farle alcune domande,» disse Frank. La ragazza lo fissò in silenzio. Sembrava non riuscisse a metterlo a fuoco, come se un vetro smerigliato la dividesse dal resto del mondo. «Non saprei,» esitò. «Sa, forse sta dormendo.» «Nessuno finora è venuto a richiedere il corpo di Hannah Kovatnik,» le spiegò Frank. «Stiamo cercando un parente che possa occuparsi della sua sepoltura.» La donna non disse nulla. Le braccia esili ciondolavano dalle spalle come fossero rotte, e per un attimo Frank ebbe l'impressione che stesse per sgretolarsi e dissolversi nell'aria. «Sua zia potrebbe aiutarmi parecchio,» insistette. «Vorrei davvero parlarle per un minuto, se fosse possibile.» «Lei abita in fondo alla casa.» «È in casa ora?» «Sì,» disse la donna. Rimase immobile di fronte a Frank. «Ci sono problemi se vado a parlarle?» «Credo di no,» rispose la donna. Finalmente si voltò e guidò Frank attraverso la casa fino a una stanza sul fondo, stipata di libri e di riviste. Sul pavimento erano sparse fotografie e dischi senza copertina, bicchieri di carta e un vasto assortimento di vecchi opuscoli sbiaditi, ancor più scoloriti dalla luce debole dell'imbrunire. «Etta,» chiamò la donna quando furono nella stanza. Frank udì qualcosa muoversi appena alla sua sinistra e vide un piccolo letto in ferro, sormontato da lenzuola e coperte sudicie.
«Zia Etta,» ripeté la donna, questa volta con un tono di voce più alto. Si avvicinò al letto, afferrò la sponda di ferro e la scosse con forza. «Etta,» gridò ancora. Si sentì un gemito uscire da quell'ammasso di trapunte e di piumini avviluppati. «C'è qui un uomo, zia Etta,» disse la donna con tono sbrigativo. «Ti vuole parlare di una tua vecchia amica.» Il mucchio di coperte si mosse di nuovo, con fatica, poi ne emerse una mano nodosa scoprendo un viso che, per l'età che aveva, colpì Frank per la sua incredibile bellezza. Frank si avvicinò al letto e la guardò. «Mi dispiace disturbarla,» le disse. Aveva gli occhi neri, assolutamente neri, che lo fissavano con insistenza. Non parlò. «Una persona è morta, zia Etta,» disse subito la donna più giovane. «Una tua vecchia amica.» L'anziana donna fece cenno di sì con il capo ma non guardava la nipote, mentre non distoglieva lo sguardo da Frank. «Che cosa posso fare per lei?» gli domandò. «È morta, zia Etta,» ripeté la nipote. «È per questo che è venuto quest'uomo.» L'anziana donna strizzò gli occhi guardando con durezza la nipote. «Geh avec,» le disse irritata. Per un attimo la ragazza non si mosse. «Volevo solo aiutarti,» si lamentò. «Esci, Rachel,» le ordinò la donna. «Tornatene fuori.» La giovane donna si voltò con aria stanca e se ne andò, camminando a piedi scalzi sul nudo pavimento di legno. I due occhi neri tornarono a posarsi su Frank. «Si sieda,» gli disse. Frank si accomodò su una delle due piccole sedie accanto al letto. «Farò in fretta,» la rassicurò. «Crede forse che me ne importi?» domandò la donna. Frank sorrise. «Lei ha figli?» domandò l'anziana donna. Frank fece cenno di no con il capo. «Io ho solo una nipote,» disse Etta con amarezza. «Sapesse che bel regalo.» Si mise a sedere sul letto e piantò un dito nella pelle del braccio teso.
«Droga, capisce? Non c'è più nulla da fare per lei.» Torse le labbra, e sul viso apparve un'espressione di rabbia. «Che regalo! Un regalo divino. Usata da tutti.» Poi si toccò il petto e aggiunse: «Non provo più nulla per lei.» Frank estrasse il suo taccuino. «Oggi ero a Chelsea,» cominciò, «in una casa per persone sole. Ci vivono molti che una volta stavano nel Lower East Side.» L'anziana donna assentì con il capo. «Già, quelli delle sartorie,» disse. «Alcuni di loro sono dei vecchi radicali.» «Ho chiesto loro se si ricordavano di una donna, nel periodo degli anni Trenta,» spiegò Frank. La donna lo fissò meravigliata. «Una donna? Quale donna?» «Hannah Kovatnik.» Improvvisamente lo sguardo di Etta si abbassò su una pila di giornali ingialliti, e guardandoli apparve sul suo volto una velata malinconia. «Hannah,» mormorò. «È morta,» le annunciò Frank con gentilezza. Lo sguardo di Etta si soffermò sulla pila polverosa di giornali. «È stata assassinata,» aggiunse Frank. Per un attimo sul viso di lei passò un'ombra di emozione violenta. «Oh, Hannah. Cara Hannah,» disse sconsolata. «Chi potrebbe averla uccisa?» «La polizia sta indagando,» disse Frank. La donna scrollò il capo, incredula, ma non disse nulla. «Il suo corpo è ancora all'obitorio,» continuò Frank. «Io sto cercando di trovare il modo di farlo rilasciare, per poterla seppellire.» «All'obitorio,» ripeté la donna con voce malinconica. «Povera Hannah.» Frank si sistemò sulla sedia appoggiandosi allo schienale. «Le persone che ho incontrato a Chelsea mi hanno detto che a quei tempi lei la conosceva bene.» L'anziana donna lo guardò con aria interrogativa. «Sì, è vero. Ma era tanto tempo fa. Che cosa potrei fare adesso per lei? Se n'è già andata.» «Lavoravate insieme, mi hanno detto,» domandò Frank. «Sì,» rispose la donna. «Lavoravamo insieme, noi due. Negli anni Trenta. Le nostre macchine per cucire erano l'una vicina all'altra. Era proprio così.» La sua mente sembrava tornare a quel tempo senza alcuno sforzo. «In quei giorni, non ci si fermava mai. Magari avevi fame, ma se volevi mangiare qualcosa dovevi farlo continuando a cucire. Se poi dovevi andare in bagno, allora era una vera impresa.» Sonise. «Ma almeno, in questo modo, imparavi a conoscere la persona che avevi a fianco.» Emerse da sot-
to le coperte anche l'altra mano che teneva tra le dita un gomitolo aggrovigliato di filo rosso. «Si instaurava un rapporto, capisce? Tra te e la persona che avevi vicino.» Scosse il capo, quasi con disperazione. «Adesso è tutto diverso. Il mondo è diverso.» Frank annui. «Lei la ricorda bene,» disse con un po' di impazienza. Sulle labbra di Etta apparve un lieve sorriso. «Chi non ricorderebbe Hannah? Certi ricordi non svaniscono mai.» Con le dita tirò leggermente il filo del gomitolo che teneva tra le mani. «Aveva molte doti, Hannah. Doti eccezionali.» Il suo sguardo si posò sul mucchio di opuscoli ingialliti. «Era una vera guida. Una Pasionaria, capisce? Una voce nella strada. Era così, lei. Una Rosa Luxemburg, capisce?» Ora i suoi occhi si spostarono sulla piccola finestra. «A quei tempi tutto era possibile.» «Quando ha conosciuto Hannah?» domandò Frank. Lo sguardo della vecchia si soffermò sulla finestra, sulla piccola persiana verde che impediva alla luce di filtrare. Non rispose. «Mi ha parlato degli anni Trenta,» insistette Frank con gentilezza, cercando di riportare la sua attenzione su di sé. «Era il 1930,» disse Etta. Si voltò verso di lui e gli sorrise. «In autunno, mi ricordo.» «Dove?» «Suo padre era morto. Era un rabbino.» «Sì, lo so.» «Era stata dura,» continuò Etta. «Non avevano nulla, ora che il padre era morto. Che cosa potevano fare? Chi poteva aiutarli? La sua famiglia era venuta da sola da un piccolo shtetl in Polonia. La sinagoga aveva cercato di aiutarli, ma dove non c'è nulla non c'è nulla. Chi può dare quello che non ha? Vissero per un po' nello scantinato, ma non potevano stare lì per sempre.» Sorrise con aria beffarda. «Sapete com'è, Dio deve essere servito. Doveva venire un nuovo rabbino. Bisognava continuare a dire le preghiere. Doveva esserci un shul e così, alla fine, i bambini dovettero andarsene.» Si raddrizzò un po' di più sul letto appoggiando la schiena al muro. «E così Hannah dovette trovarsi un lavoro,» continuò. «Era la più grande delle tre sorelle, e prese sulle spalle la famiglia. Alla fine arrivò in Orchard Street. Al secondo piano c'era una sartoria, di quelle che sfruttavano la manodopera. Fu lì che la vidi per la prima volta.» Sorrise con soddisfazione. «Era vestita bene. Indossava un abito bianco, l'unico bello che possedeva. Era molto carina e il capo la notò subito quando venne. L'assunse immediatamente e la mise a lavorare alla macchina per cucire accanto alla mia.»
«Ed è così che l'ha conosciuta?» «Sì,» disse Etta, «alla macchina.» La sua mente parve tornare ancora indietro nel tempo, mentre le dita si muovevano con gesti lenti e delicati intorno al filo. «Si lavorava duro in quella sartoria di Orchard Street, ma in tutte si lavorava molto. Una mia amica diceva: 'Se la gente sapesse come fa ad arrivare un cappotto ai magazzini Bloomingdale le si spezzerebbe il cuore.'» Guardò Frank con uno sguardo penetrante. «Crede che sia vero?» «Non saprei.» Etta agitò la mano. «In ogni caso lavoravamo a cottimo, e i capi ci facevano lavorare sempre di più per la stessa paga. All'inizio, per una certa cifra dovevi cucire nove cappotti, poi ti dicevano dieci, poi dodici. E tu ne cucivi dodici, e prendevi i tuoi soldi. Prendevi gli stessi soldi che il giorno prima ti avevano dato per nove cappotti. Si lavorava così.» Scrollò il capo di nuovo. «Magari riuscivi a guadagnare venti dollari la settimana. Talvolta meno, talvolta un po' di più. E se creavi problemi, ti buttavano fuori.» «È per questo motivo che ci fu lo sciopero?» domandò Frank. «In parte sì,» disse Etta, «ma tutta la situazione non andava bene su al secondo piano, dove lavoravamo noi. Eravamo quindici, tutte ragazze, ognuna seduta davanti a una macchina per cucire.» Sorrise. «Eravamo tutte brave ragazze. Molto dolci, innocenti.» Sul suo viso apparve un'ombra improvvisa. «Il proprietario girava tra di noi e ci toccava. 'Meine vunderbare meydekh,' diceva, 'le mie meravigliose ragazze.'» «Ricorda il suo nome?» «Chi potrebbe dimenticarlo?» disse Etta senza esitare. «Era un uomo basso e molto magro, tanto che un soffio di vento lo avrebbe fatto cadere. Si chiamava Feig. Sol Feig.» Frank prese nota del nome. «Era una sartoria calda,» continuò Edda, «quella di Feig.» «Che cosa vuol dire?» «Che eravamo pronte all'azione,» gli spiegò Etta. «Sa, pronte ad accettare l'ingresso del sindacato.» Scosse il capo. «Era il modo in cui venivamo trattate che la rendeva calda.» Sorrise. «Non c'era aria, nessuna ventilazione, in estate il caldo era così tremendo che non riuscivamo nemmeno a respirare.» Improvvisamente la porta si aprì scricchiolando e la nipote di Etta fece capolino. «Io esco,» disse gelida. «Vado a comprare le sigarette.» Etta le fece cenno di andarsene pure e la nipote strisciò fuori della stanza chiudendo la porta dietro di sé.
«Sigarette,» disse Etta con amara ironia. «Droga, ecco cosa va a cercare. Non so neppure quale. Ce ne sono talmente tante che non le ricordo.» Di nuovo scosse la testa. «Se non hai nulla per cui vivere, vivi per nulla.» Si raddrizzò leggermente e si voltò verso Frank. «Ma dov'ero arrivata?» «A Orchard Street,» le rammentò Frank, «alla sartoria calda.» Etta annuì. «Hannah fu la prima a parlarne. Del sindacato, intendo. Lei è stata la prima. Tutti la ascoltavano, tutte le ragazze, perché lei era una brava lavoratrice. Era brava nel lavoro a cottimo, perché aveva le dita molto svelte.» Tirò un sospiro profondo e Frank sentì un piccolo rantolo uscire dal suo petto. «Era anche una combattente,» aggiunse. «Era fatta d'acciaio.» «Che cosa faceva esattamente?» domandò Frank. «Intendo dire, in sartoria.» «Cuciva, come me,» disse Etta. «Facevamo cappotti. Nella sartoria c'erano persone che facevano anche altre operazioni: c'erano un imbastitore, le stiratrici e una persona che attaccava i bottoni. Forse c'erano anche un tagliatore e un incaricato delle riparazioni.» «E avete lavorato insieme per cinque anni?» chiese Frank. «Restammo vicine per cinque anni,» disse Etta. «Affrontammo lo sciopero insieme. Dio mio, avreste dovuto vedere Hannah. Era lei il capo.» «Dello sciopero?» «Della nostra sartoria.» «Questo nel...» «1935. Inverno 1935,» precisò Etta. «Ci avevano dimezzato la paga e questo significava che magari lavoravi diciotto ore al giorno e guadagnavi appena abbastanza per vivere. Quando Feig ci fece questo noi ci ribellammo.» «Hannah guidò lo sciopero?» «Lei tenne molti discorsi,» disse Etta. «Ricordo che il giornale del sindacato ne pubblicò uno.» «Quale sindacato era?» «L'AGW,» gli disse Etta. «Quello che indisse lo sciopero.» Frank prese nota velocemente, poi posò di nuovo lo sguardo su Etta. «E Hannah lavorava con questo sindacato?» domandò lui. «Sì, esattamente,» convenne Etta. Sorrise allegramente. «Un giorno, in Union Square, vi fu una grande manifestazione. Non solo dei lavoratori dell'abbigliamento, ma di tutti i settori. Hannah parlò per tutte noi, per la nostra sartoria. Avreste dovuto vederla come stava su quel palco. Hannah
non era alta, ma su quel palco, avvolta nel suo cappotto nero... Che freddo faceva, sa... Pareva così alta. Un gigante. Quando parlava alzava sempre in alto la mano. La sua voce, poi, che voce meravigliosa. Arrivava dappertutto, come se stesse parlando con il megafono.» Guardò Frank attentamente. «Era bello essere là a vederla.» Tirò un lungo sospiro. «Adesso, per come stanno le cose al giorno d'oggi, vivi tutta una vita senza mai sentire una voce così. In mezzo alla folla, capisce? Tutti insieme. Non avevamo bisogno di fumare nulla, né di infilarci un ago nelle vene per sentirci bene.» Frank annuì lentamente. Gli parve di sentire le acclamazioni della folla in Union Square, di vedere migliaia di visi rivolti verso quella piccola e giovane donna imbacuccata nel suo cappotto nero mentre la sua voce si diffondeva con fervore fra loro. Sentiva il mormorio della folla disattenta trasformarsi in silenzio assoluto quando la sua voce saliva sempre più su, fino a raggiungere la massima altezza e poi smorzarsi lentamente, quasi con timidezza, sotto il fragore degli applausi. «Faceva sempre del suo meglio,» disse infine Etta, «non solo per se stessa, ma per tutti. Per quelli che voi chiamate 'i vicini e i lontani', per coloro che conosceva e per coloro che non conosceva.» Frank fece un rapido cenno di assenso con il capo. «Aveva due sorelle, se non sbaglio,» disse poi. «Le conosceva?» «Sì,» disse. «Si chiamavano Gilda e Naomi. Ogni tanto le portava in sartoria. Alla fine vennero a lavorare là entrambe. Gilda era molto carina: tutti gli uomini le correvano dietro, ma lei non dava corda a nessuno. Credo che non avesse mai avuto un uomo.» Alzò le spalle. «Naomi era molto semplice, ma era graziosa.» «Che cosa può dirmi di Naomi?» le chiese subito Frank. «Si sposò,» disse Etta. «Con un brav'uomo, mi dissero. Era un insegnante, credo.» Sorrise ancora. «Erano ragazze carine, le due sorelle. Come stanno ora?» «Una di loro è morta,» disse Frank. «E l'altra?» «Non lo so.» Sul volto di Etta apparve un'ombra di tristezza. «Ho paura che anche lei se ne sia andata. Come ogni cosa.» «Si ricorda il nome del marito di Naomi?» le domandò Frank. «No, non lo ricordo.» Frank tenne la penna sospesa a mezz'aria sopra il taccuino. «Sa se Naomi e suo marito avevano figli?»
«No, non lo so.» «Sa se suo marito è morto?» «No, non lo so.» «Che cosa sa dirmi di lui?» insistette Frank. «Qualche elemento che potrebbe aiutarmi a trovarlo?» «L'ho visto solo un paio di volte,» rispose Etta. «Non era un uomo attraente ma era robusto. Credo che fu il suo aspetto a far colpo su Naomi.» «E mi ha detto che era insegnante?» «Esatto.» «Ha idea di dove insegnasse?» «Forse in una scuola privata,» soggiunse Etta. «Magari una scuola ebraica.» Frank prese nota velocemente delle risposte. «E che cosa sa di Gilda?» «Era una bella ragazza,» disse Etta. «Ed era intelligente, come Hannah.» «A proposito di Hannah,» insistette Frank. «Quando l'ha vista per l'ultima volta?» «Restò alla sartoria per un po',» rispose Etta, «intendo dire dopo lo sciopero.» «Quando terminò lo sciopero?» «Nel marzo del 1936.» «Voi tornaste tutte al lavoro?» «Tornammo alla macchina per cucire.» «Anche Hannah?» «Sì,» convenne Etta. «Tornò in Orchard Street. Per un po' restò la vecchia Hannah di sempre. Continuò a collaborare con il sindacato e a scrivere articoli.» «Articoli?» «Sì, per il giornale del sindacato,» disse Etta. Si sporse verso una pila di giornali appoggiata accanto al letto, ne prese uno dei primi e lo passò a Frank. «Questo è l'ultimo numero, ma li ho tenuti tutti.» Frank lanciò un'occhiata al giornale. «E Hannah scriveva i suoi articoli su questo giornale?» «Sì, proprio così,» confermò Etta. «Ne ha scritti parecchi dopo lo sciopero. Vuole vederli?» «Sì, grazie.» L'anziana donna si alzò con fatica e girò per qualche minuto per la stanza cercando i fascicoli ingialliti del giornale del sindacato. Ne trovò una quindicina prima che quella ricerca la sfinisse e si gettasse nuovamente sul
letto, ansimante ed esausta ma con un strano fuoco negli occhi. «Spero che possano aiutarla,» disse porgendoli a Frank. Sorrise con dolcezza. «Può tenerli. Non credo che ne avrò mai più bisogno.» Frank la ringraziò, mise i giornali sotto il braccio e si avviò verso la porta. Sentì la voce di Etta alle sue spalle. «È così che ho visto Hannah per l'ultima volta, sa?» Si voltò verso di lei. «Come?» «Con un pacco di giornali sotto il braccio,» disse Etta. Tornò indietro con la mente, piano piano, senza sforzo, come se tornasse a casa dopo un lungo e faticoso viaggio. «Era in Herald Square. Era quasi Natale perché ricordo il suono delle campane. E nevicava. Lei se ne stava sotto la neve con una copia del giornale del sindacato in ogni mano cercando di attirare l'attenzione dei passanti. 'Leggete questo,' gridava. 'Leggete questo, e aprite il vostro cuore alla giustizia.'» Lo sguardo di Etta si spostò verso la piccola finestra, poi di nuovo si posò su Frank. «Non ho mai dimenticato quella volta,» disse. «Era piccola, ma molto coraggiosa.» Sorrise con dolcezza. «La piccola Hannah Kovatnik.» «Dopo aver lasciato la sartoria,» chiese Frank, «rimase in contatto con qualcuno?» «No, credo di no.» «Nemmeno con lei?» «No,» ripeté Etta. «Improvvisamente diventò triste. Fu subito prima che lasciasse la sartoria. Era molto triste. Sembrava malata. La gente diceva: 'Hannah ha la tubercolosi', o cose di questo genere. Poi poco dopo se ne andò.» Etta scosse il capo come se questo episodio ancora la stupisse. «E portò Gilda via con sé. A quell'epoca Naomi si era già sposata, e credo che si fosse trasferita altrove. Non abbiamo più saputo nulla di loro. Era come se tutte e tre, le sorelle Kovatnik, fossero sparite dalla faccia della terra.» 12 Era quasi buio quando Frank uscì dalla stazione della metropolitana nella Quarta Strada Ovest. Si incamminò verso est e attraversò il Greenwich Village fino a raggiungere Bowery. Notò la facciata rossa del Cooper Union e il piccolo spiazzo di cemento che si estendeva di fronte. La schiera serale degli ambulanti aveva già cominciato a disporre la mercanzia: gioielli, vecchi abiti, e un'enorme varietà di libri e di vecchie riviste. Ogni sera gli ambulanti invadevano i marciapiedi con il loro carico di merci, e
attraversando la grande piazza dove la Terza Avenue e Bowery si incrociano Frank ricordò che c'erano anche la sera in cui Karen lo aveva portato lì per la prima volta. Ricordò che le aveva comprato a una bancarella un piccolo cammeo di plastica: all'inizio lo portava ogni giorno, poi solo di tanto in tanto, e infine non glielo aveva più visto. Forse lo teneva riposto in qualche cofanetto di gioielli, confuso tra perle e smeraldi. La sinagoga era proprio dove gli aveva indicato Riviera. Era un edificio quadrato tinteggiato di bianco, a pochi passi da Bowery. I muri esterni cominciavano a mostrare grosse crepe e anche nella luce soffusa dell'imbrunire si potevano notare i vetri rotti delle finestre del primo piano e la grondaia arrugginita e ammaccata. Un cancelletto in ferro battuto impediva l'accesso alla scala che conduceva al primo piano e Frank si sporse leggermente per sbirciare giù verso le buie finestre dello scantinato. Hannah Kovatnik aveva vissuto laggiù con suo padre, il rabbino, e le due sorelle, una molto bella, l'altra, come se la figurava ora Frank, bruttina. Immaginò le loro voci, acute, giovani, che parlavano in quella lingua strana quando alla sera sbrigavano le faccende domestiche o quando andavano a letto, i loro tre volti illuminati dalla luce delle lampade a gas o delle candele. Tre sorelle, una bella, una bruttina e Hannah, una via di mezzo, carina quando portava un cappello ornato di fiori, bruttina quando era avvolta in una sciarpa scura. Questo probabilmente l'aveva indotta a concludere che era l'abito a determinare il suo aspetto, a renderla attraente o scialba, e l'aveva altresì convinta della necessità di avviarsi a una vita di devozione. «Sta cercando qualcosa?» gli domandò qualcuno improvvisamente. Frank si voltò e notò a pochi passi da lui un uomo alto e molto magro che lo guardava con sospetto. Indossava un lungo soprabito blu, portava sul capo un piccolo yarmulka nero e la barba bianca gli ricadeva sul petto. Continuò a fissare Frank attentamente: «Lei è ebreo?» gli domandò infine. «No.» «Ma questa è una sinagoga.» «Sì, lo so.» «Non è più in funzione,» aggiunse l'uomo, a voce bassa e con forte accento ebraico. «È chiusa da molti anni.» «C'è mai stato?» chiese Frank. «Sì, certo, molte volte,» rispose subito l'uomo. «Lei non è di New York?» «No, ma ora vivo qui.»
L'uomo aggrottò la fronte in segno di disapprovazione. «Mi chiedo come si possa trasferirsi in una città come questa.» Frank sorrise e disse: «Ho seguito una donna.» L'uomo fece un cenno di assenso con il capo. «E ha intenzione di restare?» «Credo di sì,» esitò Frank. Il vecchio fece nuovamente un gesto di disapprovazione. «Forse lei è un architetto,» ipotizzò. «Ho visto che stava osservando l'edificio.» «No,» precisò Frank. «Sto verificando alcune informazioni riguardo a una donna.» «Quella con la quale è venuto qui? Vive forse da queste parti?» Frank scosse il capo. «No. Si tratta di una donna ebrea che in passato ha vissuto qui.» L'anziano lo guardò sbalordito. «Ha vissuto qui?» «Sì, nello scantinato.» «Nello scantinato? Della sinagoga?» «Suo padre era il rabbino.» «Ah, sì,» ricordò l'uomo. «Ma sono passati molti anni da allora. Ora qui non vive più nessuno.» «A quei tempi lei era una ragazzina.» «E adesso?» «Circa settant'anni.» L'uomo si appoggiò al cancello. Sembrava stesse facendo una serie di calcoli. «Deve trattarsi del rabbino Kovatnik.» «Lo conosceva?» «Un po',» disse l'uomo. «Era gentile, ma non aveva niente nella testa. Rabbino significa 'maestro', ma lui aveva la testa vuota.» Fissò il cancelletto e scosse il capo. «Vuole entrare? Forse le farebbe piacere dare un'occhiata.» «È chiuso.» L'anziano estrasse da sotto il cappotto un enorme mazzo di chiavi. «Mi occupo di alcuni palazzi della zona. Con questo non ho problemi perché non vi abita nessuno.» Si fece strada velocemente tra Frank e il cancello. «Solo un attimo.» Armeggiò con le chiavi e poi spalancò improvvisamente il cancello. «Ecco, può entrare,» disse sogghignando. «Non può certo danneggiare questo edificio. Sono molti anni che è in rovina.» Frank seguì l'uomo su una breve rampa di scale di cemento fino alla porta della sinagoga. Il vecchio la apri ed entrò mentre Frank restò sulla so-
glia. «Tenga il cappello in testa,» bofonchiò. «Non si può certo dire che sia ancora una sinagoga, ma Dio, Lui, può pensare che lo sia ancora.» «Certo, non si preoccupi,» rispose Frank. «Abbiamo ancora l'elettricità, in caso venga qualche potenziale acquirente,» disse l'uomo premendo l'interruttore della luce. «Dato che in questo quartiere ora non vi sono più ebrei, la sinagoga non serve a nessuno. E così stiamo cercando di venderla.» Indicò il soffitto. Macchie scure di umidità si stagliavano sui quattro angoli e l'intonaco si stava scrostando dalle pareti. «Ma come può vedere,» precisò l'uomo, «non si tratta di un grande affare.» «Da quanto tempo è chiusa?» chiese Frank dirigendosi verso il centro della stanza. «Credo da circa quindici anni.» «Che cosa accadde al rabbino?» chiese Frank. «All'ultimo? Si trasferì in qualche altro posto, mi pare in California.» «No, intendevo il rabbino Kovatnik,» precisò Frank. L'uomo parve non averlo udito. «E la gente che veniva qui, coloro che venivano ad ascoltare le preghiere del sabbath?» disse quasi a se stesso. «Morti. Sono tutti morti.» Prese da una panca di legno scolorita un vecchio e consunto paramento da indossare durante le funzioni. «Mi chiedo dove sono finiti tutti.» Posò lo sguardo su Frank. «Ma chi avrà mai una risposta?» Ripiegò lo scialle con cura e lo rimise al suo posto sulla panca. «Vuole vedere il luogo dove vivevano il rabbino Kovatnik e le sue figlie?» «Sì, volentieri.» «Mi segua.» Una scala di legno stretta e malconcia conduceva al seminterrato, e i gradini scricchiolarono quando Frank e l'anziano uomo discesero. «Per quei tempi, non era tanto male,» osservò l'uomo e accese la luce. Dai muri rosa pallido gli strati di pittura pendevano come brandelli di carne. Da una piccola pozza d'acqua nell'angolo in fondo a sinistra un rivolo scorreva fin nella buia stanza accanto. Al centro del locale c'era un tavolo, su cui stavano un menorah e una pila disordinata di libri di preghiere. Uno scaffale tarlato, pesantemente inclinato su un fianco, si appoggiava a un seggiolone di legno. «C'è qualcosa che le interessa in questo posto?» domandò l'uomo rivolgendo a Frank uno sguardo interrogativo. Frank scosse il capo. «No, non molto.»
«Desidera vedere il resto?» «Sì,» rispose Frank. «Un giro completo, allora,» disse l'uomo agitando in aria la mano. «Tanto l'unica cosa che mi rimane è il tempo.» Fece cenno di seguirlo verso destra nella stanza accanto e vi entrò accendendo la luce. La stanza da letto non era molto diversa da come Frank se l'era immaginata mentre cercava di sbirciare l'interno sporgendosi dal cancelletto. C'erano tre letti di ferro, con le reti imbarcate sin quasi a sfiorare il pavimento. Sopra un letto, appeso alla parete, vi era un calendario di carta, con un segno rosso sul 15 ottobre 1929. Frank cercò di immaginare quale delle tre sorelle l'avesse tracciato e per quale avvenimento: un appuntamento, una festa religiosa, un evento importante che si sarebbe verificato. Percepì nell'atmosfera che lo circondava la pesantezza del tempo, la brevità della vita, il suo scorrere lento fino al suo esaurirsi in un improvviso e inarrestabile istante. «Morì improvvisamente, il rabbino Kovatnik,» disse il vecchio. «Dopo d'allora, il nuovo rabbino prese dimora dall'altra parte della via, e così chiusero il seminterrato.» «Quando esattamente?» L'uomo sbirciò il calendario. «Credo subito dopo la morte del rabbino Kovatnik. Da allora tutto qui dentro è stato abbandonato.» Scosse il capo, come se avesse perso ogni speranza. «Che peccato. Non è un brutto edificio. Sì, capisco che non si tratta di un vero affare, ma non è poi così male.» Frank guardò la squallida fila di letti di ferro. «Erano tre sorelle,» disse, rivolgendosi al vecchio. «Se le ricorda?» L'uomo annuì. «Mi ricordo di Gilda e della sorella più vecchia.» «Hannah.» «Ah, sì. Hannah,» convenne l'uomo. «Ciò che suo padre non aveva nella testa l'aveva lei.» Lo guardò attentamente. «È forse una sua amica?» «No.» «Ma è qualcosa per lei?» Frank annuì. «Sì, significa qualcosa per me.» Il vecchio scrollò le spalle. «Non la conoscevo molto bene,» disse, poi si voltò e indicò il fondo della via. «A quei tempi io vivevo nella Seconda Avenue. Ma frequentavo questa sinagoga e così le vedevo, le ragazze.» Sorrise. «Hannah era il capo. Quando il rabbino morì, lei portò via con sé le sorelle.»
«In Orchard Street,» gli ricordò Frank. «E rimasero insieme loro tre?» si informò l'uomo. «Per un po'.» Il vecchio rise. «Oh, sì. Mi ricordo ora.» «Che cosa si ricorda?» «Ci fu una specie di scandalo,» disse l'uomo. Poi, agitando la mano davanti a sé, aggiunse: «Non riesco a ricordare.» «Che tipo di scandalo?» «Andarono a lavorare, tutte e tre, anche la più giovane. La più carina.» «Gilda,» intervenne Frank. Sul volto dell'uomo apparve un sorriso commosso. «Sì, Gilda. Era così bella! Doveva avere circa tredici anni.» «E lo scandalo?» «Andarono a lavorare per uno scapolo,» riprese l'uomo. «Sì, era uno scapolo, o almeno credo che lo fosse. La gente diceva che non era corretto che lui tenesse con sé tre ragazze.» «Vivevano con lui?» «Al piano di sopra.» Frank estrasse il suo taccuino e prese nota. «In che zona?» «Intorno a Orchard Street,» replicò l'uomo, «ma adesso è stato tutto demolito, ci sono diversi progetti per quella zona.» «Come si chiamava quell'uomo?» «Feig,» disse subito l'uomo. «Sol Feig.» Fece un gesto di disapprovazione. «La gente diceva che non stava bene. Sa, erano le figlie del rabbino.» Alzò le spalle con aria dubbiosa. «Non so. Eravamo nel bel mezzo della grande depressione, e la gente doveva pur mangiare.» Fissò la fila di letti. «Era una ragazza così intelligente, Hannah. Si occupava sempre di tutto.» Sorrise. «Gli anziani parlano ancora di lei, del modo in cui Hannah sapeva mandare avanti tutto. Si occupava anche del rabbino. Legato al dito, ecco come lo teneva.» Alzò il dito ricurvo nella luce giallastra, disegnando intorno un cerchio con l'altra mano. «Legato al dito,» ripeté. «Accade, certe volte,» convenne Frank. L'anziano ebreo assentì. «Una ragazza così intelligente, Hannah, molto svelta. Tutti dicevano: 'Guarda Hannah, si farà strada.'» L'uomo drizzò leggermente il capo e guardò Frank con aria interrogativa. «Dov'è finita?» Frank guardò ancora la fila di letti. Le loro ombre scure parevano arrampicarsi lentamente sulle pareti ruvide e sporche. «Non lo so,» mentì. «Ma lei la sta cercando?» disse.
«In un certo senso.» Il vecchio annuì. «Andiamo, adesso,» disse spegnendo la luce. Quando furono nuovamente in strada Frank attese che l'uomo chiudesse con attenzione il cancello, e poi si incamminarono insieme verso ovest, in direzione di Bowery. «Non ha idea di che cosa possa essere accaduto alle sorelle?» chiese Frank quando arrivarono sull'angolo. «No, non ne ho la minima idea.» «Avevano altri parenti, che lei sappia?» insistette Frank. «Nipoti, cugini? Nessuno?» L'uomo scosse il capo con molta enfasi. «Quando lasciarono questa via, noi venimmo a sapere solo dello scandalo.» «Si riferisce al fatto che fossero andate a vivere con Feig?» «C'era qualcosa che non andava in Feig,» disse l'uomo, «non mi chieda altro. Sono vecchio. Che cosa vuole che ne sappia, io?» «Ma questo è tutto ciò che ha saputo dopo?» continuò Frank. «Solo che c'era stato uno scandalo?» «Se ci fu dell'altro, io non potevo saperlo,» disse l'uomo. «Ero un ragazzino. Quando i miei genitori discutevano di queste cose, parlavano in polacco. Usavano il polacco quando non volevano che io capissi.» «Ma lei,» chiese Frank, «lei non le ha più viste né sentite?» «Mai più,» dichiarò l'uomo. «Chi può dire che cosa accade alle persone quando lasciano il loro quartiere?» Frank guardò in fondo alla Quinta Strada, che da quell'angolo sembrava una lunga e buia galleria. Ci voleva un bel po' per arrivare a piedi dalla vecchia sinagoga fino all'obitorio, così quando Frank lo raggiunse era ormai sera. Quella notte era di turno all'obitorio Silvio Santucci, che Frank aveva ascoltato tante volte raccontare nel buio di un bar episodi di corruzione nell'alta società. «Se la sorella dell'arcivescovo si butta giù dal tetto, non si tratta di suicidio, sai? Magari soffriva di depressione, e forse ha lasciato addirittura un bigliettino in cui fornisce chiarimenti sul suo tragico gesto. Ma non si è suicidata, no: quel fornitissimo vento l'ha buttata giù, malgrado una palizzata alta due metri con sopra un rotolo di filo spinato di quaranta centimetri.» Concludeva con un sorriso scaltro: «Posso anche crederci, Frank, ma sarei veramente un pazzo.» Avevano passato tante ore insieme, la notte, e Frank gli aveva pagato da bere quando aveva ottenuto la licenza di investigatore.
«Ciao, Frank,» disse ora Santucci, vedendolo avvicinarsi alla sua scrivania. Frank fece un cenno di saluto con il capo. «Allora,» disse Santucci. «Vieni per invitarmi a fare una bevuta o per sfruttare quella che abbiamo già fatto?» «Per approfittare.» «Non hai tutti i torti,» ammise Santucci. «Perché offrire da bere in cambio di nulla?» Si dondolò sulla sedia. «Dunque, che cosa posso fare per te?» «Vorrei vedere un corpo.» «Uno in particolare?» «Quello di Hannah Karlsberg.» «Perché mai?» «Sto lavorando a quel caso.» «È del distretto di Midtown North. Hai il permesso?» «Non scritto.» «Hai parlato con Tannenbaum?» «Sì.» Santucci fece un cenno affermativo con il capo. «D'accordo. Non è poi gran cosa.» Sorrise di buon grado. «Diavolo, ti lascerei comunque passare, Frank. Lo sai.» Si alzò in piedi e si diresse verso il corridoio illuminato che conduceva alle celle frigorifere. «Sei mai stato qui prima d'ora?» disse mentre oltrepassavano le doppie porte in legno. «Non in questa sala,» rispose. «In altre sì.» «La Karlsberg è al numero 14,» annunciò Santucci dirigendosi di buon passo verso una parete di celle frigorifere d'acciaio. «Eccoti arrivato.» «Grazie,» disse Frank. «Non è una tua parente, vero?» si accertò Santucci. «Hai detto che si tratta di un caso.» «Sì, non ti preoccupare.» «Bene,» disse allegramente Santucci. «È la sola cosa che odio fare, dover mostrare i cadaveri ai parenti.» Scosse il capo. «Non sono pagato per questo, è compito dei piedipiatti.» Afferrò la maniglia di metallo e aprì lo sportello. «Eccola qua,» esclamò mentre estraeva il carrello con il corpo di Hannah Karlsberg, avvolto in un grande sacco nero. «Ti interessa vedere solo il volto,» domandò Santucci, «o anche il cor-
po?» «Basta il volto,» precisò con calma Frank. «La parte più semplice,» disse Santucci. Aprì la cerniera del sacco di alcuni centimetri. «Sembra una bella signora,» disse osservando il viso di Hannah. «Già, è vero,» convenne Frank. La pelle era molto pallida e le labbra viola, ma il viso in se stesso sembrava ancora morbido e delicato. Lo immaginò come doveva essere stato in gioventù, un viso che poteva sembrare sia bello sia brutto, con gli zigomi alti e arrotondati, grandi occhi e una bocca carnosa. «L'hanno ridotta male,» disse Santucci, «ma credo che tu lo sappia.» Frank alzò lo sguardo. «Sì,» confermò. «So anche della sua mano.» «Se vuoi la mia opinione, per me è stato uno psicopatico,» sentenziò Santucci. «È quel genere di cose che fa pensare che non sia stato il figlio prediletto con un occhio all'assicurazione.» «A meno che non sia una messinscena,» disse Frank. Santucci alzò le spalle. «C'è sempre questa possibilità. È questo che pensa Tannenbaum?» «Non lo so.» «Lo vuoi vedere, il lavoro d'accetta?» Per un attimo pensò che non lo voleva, poi improvvisamente si rese conto che doveva vedere, che faceva parte di ciò che doveva sapere. «Sì,» disse a Santucci. «Fammi vedere.» «Per me va bene,» acconsentì Santucci. «Nella mia vita ho mostrato anche cose peggiori di questa, sai?» Tirò giù un po' di più la cerniera e tirò fuori dal sacco l'avambraccio di Hannah. «Ecco qui,» disse appoggiandolo sulla plastica. «Quello che io chiamo il 'tocco dello psicopatico'.» Il braccio era candido e liscio, a parte alcune ferite che secondo il referto dell'autopsia Hannah si era procurata nel tentativo di difendersi. La mano era stata recisa all'altezza del polso, ma osservando bene si capiva che il lavoro era stato fatto in modo imperfetto, torcendo e strappando con forza, dato che restavano ancora appesi al polso brandelli di pelle e frantumi di ossa. «A me pare un gran pasticcio,» affermò Frank. Santucci sorrise. «Io direi che un chirurgo non avrebbe certo fatto un lavoro così.» Diede un'occhiata al moncherino. «E nemmeno un fottutissimo macellaio, capisci che cosa voglio dire. Questo è stato proprio un lavoro di tira e molla.» Guardò Frank. «Certamente quel tizio aveva fretta, vero?»
Fece un ampio sorriso. «Per non dire altro sul suo stato mentale.» «Ho letto il referto dell'autopsia,» disse Frank. «Si è saputo nient'altro?» «No, non credo.» «È venuto qualche visitatore?» «Solo poliziotti e tu.» «Nessuno della sua famiglia si è fatto vivo?» «Per quanto ne so io, questa anziana signora era come me, di quelli che preferiscono stare da soli in questo dannatissimo mondo.» Sola, pensò Frank guardando ancora una volta il viso di Hannah. La immaginò con le sue sorelle in quella stanza da letto, poi con le altre operaie in fabbrica, e infine tra la folla acclamante in Union Square. Sola, ripeté a se stesso, sentendo quella parola insinuarsi nella sua mente come un oscuro tarlo. Anche se la strada per tornare nel centro della città dall'East Village era lunga, decise di farla ugualmente a piedi. La sera era buia e fredda, ma il movimento della folla e il rumore del traffico frenetico gli davano la sensazione di essere legato alla città, come se il vagare tra gente senza nome gli garantisse la sicurezza di far parte, nonostante il suo isolamento, di un contesto molto più ampio. Si fermò davanti a La Femme Gâtée, una piccola rosticceria all'angolo tra la Nona Avenue e la Quarantanovesima, i cui clienti abituali erano un'anziana signora con due cagnolini, il guardiano notturno che sorvegliava il cantiere sul lato opposto della via e una comparsa portoricana che leggeva El Diario seduta in un angolo in fondo al locale. Ordinò un caffè, si sedette di fronte a una delle grandi vetrate che davano sulla via e cominciò a sfogliare i giornali che gli aveva dato Etta Polansky. Il primo era datato 12 dicembre 1931, e verso il fondo c'era una lettera scritta da uno dei membri più giovani del sindacato, una donna che lavorava come cucitrice presso una fabbrica di Orchard Street. Quando arrivai in questo paese nel 1927, desideravo farmi strada da sola, come fanno gli americani. Era il mio sogno, ma anche quello di molte altre persone. Però, lavorando in fabbrica, sono arrivata a pensare che questo non è il modo giusto di immaginare l'America, o me stessa, o le altre persone che lavorano con me. Ora credo che dobbiamo essere uniti, e permettere agli altri di essere con noi. Noi facciamo gli abiti che le persone in-
dossano, ma mangiamo il cibo che loro coltivano. Noi viviamo insieme, non separati l'uno dall'altro. Siamo come un corpo che ha bisogno di tutte le sue parti per funzionare, noi siamo come le dita di una mano. Di Hannah non fu pubblicato più nulla per quasi un anno; poi nella primavera del 1933 apparve un'altra breve lettera, simile alla prima. Dopo questa, più nulla fino a un breve articolo del febbraio del 1936, leggendo il quale, a pagina sedici del giornale, Frank ebbe l'impressione che ormai la voce di Hannah avesse perso la sua ingenuità di ragazza: ora era forte, sicura e piena di convinzione. Riusciva quasi a sentirla squillare in quel locale come doveva averla sentita la gente che l'acclamava nella sala delle riunioni o in Union Square. La giustizia non è una manifestazione, non importa quanto grande. La giustizia non è una paga, non importa quanto sia equa. La giustizia è un modo di vedere la vita: è un modo di vedere il prossimo, i suoi diritti, il lavoro che fa per te e il lavoro che tu fai per lui. La giustizia è il modo in cui tu vivi e il modo in cui tu permetti agli altri di vivere. Non esiste una giustizia isolata, una giustizia solitaria, come non esiste alcun tipo di giustizia che isoli un'altra persona. La giustizia è il principio unificatore di tutta la vita. Una singola vita può creare il proprio agio, una singola vita può cercare l'amore: ma la vita, quando è vissuta insieme, cerca la giustizia. Era stato scritto in occasione di una lotta dei lavoratori che stando al notiziario del sindacato aveva sconvolto il settore dell'industria dell'abbigliamento per parecchi mesi. Il giornale riportava fotografie in bianco e nero di scioperi, di manifestazioni di protesta, di occupazioni di locali, di donne e uomini riuniti in sale affollate o accalcati fuori dei posti di lavoro, sotto gli occhi della polizia pronta a intervenire. Frank, dopo aver sfogliato una buona metà dei giornali, finì il caffè e si incamminò verso il suo ufficio. Una volta dietro la sua scrivania, si versò un po' di whisky, lo buttò giù, accese la lampada sul tavolo e riprese la lettura. All'inizio di marzo le fotografie degli scioperi e dei cortei evidenziavano la violenza dell'inverno: i poliziotti con i loro pesanti cappotti grigi pressa-
vano la folla o la caricavano, spronando selvaggiamente i loro cavalli al primo accenno di spostamento. Sul numero del 14 marzo c'era un altro articolo di Hannah, che descriveva i problemi dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche del Lower East Side, le baracche affollate in cui vivevano, lo sfruttamento subito da parte di proprietari e mediatori. Accanto all'articolo c'era una fotografia dell'autrice, una giovane donna con un pesante maglione, i capelli raccolti sotto un cappello di lana, gli occhi dallo sguardo fiero che fissavano l'obiettivo dietro un paio di occhiali di metallo. Due settimane dopo sul giornale appariva un'altra fotografia di Hannah, accompagnata da una breve nota biografica curata da un certo Philip Stern. Raccontava del viaggio per venire in America, della morte del padre, del suo lavoro nella fabbrica di Orchard Street, e infine del suo impegno costante con il sindacato. La fotografia mostrava Hannah al raduno di Union Square, la sua figura eretta sul palco, il pugno alzato di fronte a una marea di volti fissi su di lei, catturati dal suo carisma. Frank fissò a lungo la fotografia in silenzio. Riusciva quasi a sentire il soffio del vento freddo dell'inverno che agitava la sua sciarpa, il rumore della folla che applaudiva, il suo pugno chiuso nell'aria gelida e tagliente: percepiva il potere magnetico della sua voce, che passava come un tuono sopra le teste gridando le parole citate da Stern: Nessun uomo vive senza altri uomini. Nessun peso è portato da un'unica spalla. Nessuna speranza è portata avanti da un'unica voce. Ogni uomo vive in debito con gli altri e il pagamento di questo debito e la giustizia. Frank voltò pagina, poi sfogliò il numero successivo e quello dopo ancora. Le settimane scorrevano veloci in un fluire di pagine ingiallite: gli operai erano tornati al loro lavoro, le macchine avevano ripreso a ronzare. Ma Hannah era scomparsa. Frank richiuse anche l'ultimo giornale, lo impilò ordinatamente in cima agli altri e si alzò in piedi nella penombra, stirando le braccia; poi andò verso il piccolo divano accanto alla finestra e vi si stese. Per un attimo pensò di tornare nell'appartamento di Karen, ma l'idea di dover camminare con passo felpato sulla moquette, o di dover strisciare in silenzio sotto il morbido piumino non lo allettava affatto: così decise di restare sdraiato sul divano, con le mani incrociate dietro la nuca, fino a quando le prime luci
del mattino filtrarono nella stanza attraverso la finestra. 13 Frank era appena tornato dal bar dell'angolo con il suo caffè mattutino quando vide Farouk varcare la soglia dell'ufficio. «Ti ricordi di me?» domandò Farouk, la cui imponente figura impediva quasi del tutto alla luce di filtrare dalla finestra nello scantinato. «Certo che mi ricordo di te,» rispose Frank. Farouk fece un cenno d'assenso con il capo. «Molto bene,» disse. «Pensavo che l'alcol potesse aver cancellato qualche dato importante.» «Su di me l'alcol non ha questo effetto.» «Meglio così,» replicò Farouk indicando con un leggero cenno del capo la sedia di fronte alla scrivania di Frank. Poi domandò: «Posso sedermi?» «Accomodati pure.» Farouk si sedette pesantemente sulla sedia e si mise a proprio agio. «Io sono sempre a tua disposizione.» «Sì, ricordo la tua offerta.» Lui sorrise soddisfatto. «Bene, perché in tal caso ho scoperto alcune cose.» «A proposito dei suoi affari?» «A proposito dei suoi beni,» precisò Farouk. «Possedeva l'appartamento in cui viveva e anche un piccolo cottage a Long Island. Non aveva contratto debiti con nessuno, e nessuno le doveva nulla. Non ha mai dichiarato al fisco parenti a carico, il che significa che era sola.» «Non aveva figli illegittimi?» osservò Frank. Farouk scosse il capo. «Non aveva assicurazioni sulla vita,» continuò, «né esiste qualcuno che avrebbe potuto beneficiarne. E siamo di nuovo davanti a un vicolo cieco.» Frank annuì, ma il suo sguardo era inespressivo. «Per quanto riguarda il suo testamento...» riprese Farouk. «Ha lasciato tutto all'associazione americana per la lotta contro il cancro,» lo interruppe Frank. «Così mi ha riferito Tannenbaum.» «Ha ragione,» dichiarò Farouk. «È tutto?» Farouk accennò un sorriso. «No, non esattamente.» Frank lo fissò con attenzione. «Che cos'altro hai scoperto?» Farouk estrasse da una busta un foglio a righe ripiegato e lo aprì. «Uno
dei miei servizi professionali, se così possiamo definirli, consiste nel ricostruire l'albero genealogico delle persone su cui indago.» Sorrise, quasi con timidezza. «Modestia a parte, sono abbastanza esperto.» Frank non disse nulla. «Capisci che cosa intendo dire quando parlo di albero genealogico?» domandò Farouk. «Sì, vuol dire che riesci a scoprire i legami di parentela,» affermò Frank. «Esatto,» confermò Farouk. Abbassò lo sguardo sul foglio di carta. «Ho fatto qualche indagine sulla defunta.» «Anch'io.» Farouk guardò Frank con aria sorpresa. «È il tuo modo normale di procedere?» «Sì, quando sto cercando un parente disperso,» gli spiegò Frank. Farouk sorrise, compiaciuto dell'abilità di Frank. «Sì, certo, capisco.» Prese dal taschino un paio di occhiali bordati di nero e li infilò. «Vuoi sapere che cosa ho scoperto?» «Che il suo vero nome era Kovatnik,» disse Frank. «Che era la figlia di un rabbino la cui sinagoga si trovava nella zona est.» Farouk levò lo sguardo dal foglio. «Sì, è esatto.» «E che aveva due sorelle.» «Anche questo è esatto,» convenne Farouk. «Una di loro era molto carina e si chiamava Gilda.» «Che fosse carina non risulta dai documenti.» «E l'altra si chiamava Naomi.» «Sì, giusto,» disse Farouk sorpreso. «Hai avuto tutte queste informazioni dalla gente?» «Sì,» disse Frank. «E tu dove le hai trovate?» «In vari registri,» rispose Farouk. Ripose gli occhiali nel taschino e guardò negli occhi Frank. «Un registro è come una reliquia sacra. Tenerlo è un'usanza primitiva, distruggerlo è un sacrilegio: è così che si considerano i registri. E non solo qui da noi, ma dappertutto. Quando escludiamo il nome di un uomo dagli schedari di un qualsiasi paese, è come se lo privassimo della sua anima. Capisci?» «Che cos'altro hai scoperto?» chiese Frank. «Venivano dalla Polonia, da un paese non lontano da Varsavia. Era il 1927. Gilda era la sorella più giovane e aveva sei anni, Naomi aveva solo due anni di più. E poi c'era la morta.» «Hannah.»
«Sì,» disse Farouk senza togliere lo sguardo dal foglio. «Era nata nell'ottobre del 1910.» Immediatamente Frank ricordò la data segnata sul calendario. «Che giorno di ottobre?» chiese subito. «Il quindici,» rispose Farouk. «Perché?» «Lo aveva segnato sul calendario.» «Che cosa aveva segnato?» «Il giorno del suo compleanno,» disse Frank. Nella sua mente vide l'immagine di lei, in piedi sul letto, che cerchiava con una matita rossa quella data. Farouk levò lo sguardo dal foglio. «Come fai a saperlo?» «Ho visitato il luogo in cui hanno vissuto,» gli spiegò Frank. «Non è cambiato molto da allora. La maggior parte dei mobili non c'era più, ma il calendario era ancora appeso alla parete.» «Capisco,» disse Farouk, riflettendo. «Dov'è questo posto?» «Alla sinagoga.» «Nella Quinta Strada,» riprese Farouk. «Sono rimasti lì fino alla morte del padre?» «Sì,» rispose Frank, sporgendosi un po' in avanti. «E sai dove sono andati dopo?» Farouk sorrise. «Sì, da Feig. Aveva una fabbrica in Orchard Street. Vivevano nelle stanze sopra il laboratorio.» «Sì, me lo hanno detto.» «Ma c'è dell'altro,» continuò Farouk. Guardò Frank con aria canzonatoria. «Forse c'è qualcosa di utile, che non hai scoperto da solo.» «Che cosa?» «Questo Feig è ancora vivo.» «La fabbrica si trovava qui,» disse Farouk indicando un piccolo campo giochi. «È qui che vivevano.» Attraverso le sbarre di ferro della recinzione Frank osservò il brullo fazzoletto di terra cosparso di giostre e altalene. In fondo, in un angolo, c'era uno scivolo di metallo su cui si arrampicavano due bambini sotto lo sguardo preoccupato e nervoso della madre. Poco più in là, altri bambini si divertivano a salire e scendere da una costruzione a forma di cupola. «Questo campo giochi fa parte del complesso residenziale,» disse Farouk abbracciando con lo sguardo gli alti edifici che li circondavano. «Se le sorelle avessero avuto dei bambini,» aggiunse freddamente, «li avrebbe-
ro portati a giocare qui.» Frank guardava fisso il campo giochi, ripensando a quanto sua figlia Sarah amasse andare a giocare al parco vicino a casa: si arrampicava più in alto di tutti e correva più veloce degli altri perché amava la velocità, il movimento, l'altezza. A quei tempi era sicuro di darle tutto il necessario, e che quelli fossero bisogni legittimi, che non avrebbero mai dovuto abbandonarla. Farouk soffiò attraverso le sbarre una nuvola di fumo gonfia e densa. «Allora non esistevano queste attrezzature,» osservò, «né luoghi dove fare pic-nic o passeggiate. A quei tempi non c'era nulla.» Si voltò e lanciò la sigaretta e il bocchino color avorio dall'altra parte della strada. «C'erano solo strade, edifici e fabbriche.» Scrollò le spalle. «Era così a quei tempi.» «Perché, adesso è diverso?» «Per alcuni sì,» disse Farouk con un lieve movimento delle spalle. Si girò e si incamminò verso Orchard Street. «Vieni, andiamo a parlare con Mr Feig.» Si diressero verso nord, lontano da quei complessi residenziali, e quando arrivarono in Orchard Street si sentirono inghiottire dalla folla. Su entrambi i marciapiedi, fitti gruppi di persone si spintonavano senza pietà per farsi largo su e giù per la via. I piccoli negozi esponevano la loro merce all'esterno, sulla strada, reclamizzandola con rozzi cartelli in inglese e in ebraico, e la gente si ammassava intorno per scegliere. C'erano macellerie, mercerie, negozi di scarpe e di elettronica, e quando finalmente Frank riuscì a farsi largo e a varcare la soglia della casa di riposo per anziani, si rese conto che avrebbe potuto comprare qualsiasi cosa in qualsiasi punto di quella via. Di fronte all'edificio vi era una piccola guardiola, e Frank seguì Farouk che si rivolse all'infermiera seduta alla scrivania al di là del vetro. «Sto cercando Mr Sol Feig,» le disse. «Lei è un suo parente?» domandò la donna. «No,» rispose Farouk. Infilò la mano nella tasca della giacca ed estrasse una tessera. «Sono un incaricato dell'istituto della previdenza sociale,» precisò, «e devo verificare la possibilità che Mr Feig possa ottenere ulteriori indennità. È una questione che devo discutere personalmente con lui al più presto.» La donna guardò Frank. «Anche lei deve vedere Mr Feig?» «Sì,» rispose prontamente Farouk. «Mr Clemons è il mio collega.» L'infermiera fece un cenno sbrigativo con il capo. «Camera 306,» disse.
Sol Feig sedeva su una sedia a rotelle, con il volto girato verso la piccola finestra in fondo alla stanza. Il suo corpo era leggermente reclinato in avanti, come se stesse cercando di afferrare qualcosa, e si poteva notare la sporgenza della gobba sotto la bianca giacca da camera. «Mr Feig?» chiese Farouk entrando nella stanza. Feig si voltò lentamente verso di loro con uno sforzo doloroso. Gli effetti di una paralisi gli facevano tremare leggermente il capo e le mani. «Mi chiamo Farouk, e lui è un mio collega, Mr Clemons.» I piccoli occhi color nocciola di Feig osservarono Frank, si strizzarono leggermente e tornarono a posarsi su Farouk. «Feig,» mormorò con voce rauca. Sbatté le palpebre, cercando di raccogliere le proprie forze. «Sì, sono Sol Feig. Che cosa volete da me?» «Vorremmo parlarle,» cominciò Farouk. Fece un rapido cenno a Frank. «Mr Clemons le spiegherà,» disse facendo un breve passo indietro. «Stiamo cercando di scoprire alcuni dati su una donna che lei ha conosciuto,» cominciò Frank. «Noi riteniamo che lei ci possa aiutare a rintracciare alcuni elementi.» Feig guardò Frank con sospetto. «Una donna?» «Si chiamava Hannah,» proseguì Frank, «Hannah Kovatnik.» Feig storse le labbra. «Hannah,» ripeté. «Sì.» «Hannah,» disse ancora il vecchio con voce improvvisamente più acuta e più dura. Frank si inginocchiò accanto alla sedia. «Ci hanno detto che ha lavorato per lei. Nella sua fabbrica di Orchard Street.» Gli occhi di Feig si socchiusero e diventarono due piccole fessure piene di odio. «Sie war eine Hure,» sibilò. Frank si chinò verso di lui. «Che cosa ha detto?» Farouk toccò il braccio di Frank. «Lascia perdere,» gli consigliò. Poi si voltò verso Feig. «Was wissen Sie von dieser Frau?» chiese tutt'a un tratto. Feig lo scrutò con aria quasi di sfida. «Tutto,» sibilò con rabbia, «so tutto di lei.» Sputò per terra. «Ihr Herz war schwarz.» Gli occhi scuri di Farouk fissarono il vecchio. «Warum sagen Sie das?» «Il mio amore,» disse Feig, mormorando; poi di nuovo improvvisamente alzò la voce e ripeté, «il mio caro amore.» «Che cosa significa?» domandò Farouk. Il vecchio non rispose. Sembrava essersi ritirato in una caverna buia scavata dentro di sé.
«Conosceva le sue sorelle?» domandò subito dopo Farouk. Lo sguardo del vecchio si spostò lentamente verso la finestra. Non rispose. «Was wissen Sie, Herr Feig?» domandò Farouk. Il vecchio continuava a fissare la finestra. «Ich weiss nichts.» «Was wissen Sie?» insistette Farouk. Feig scosse il capo con decisione e torse le labbra. «Basta,» biascicò. «Basta.» «No,» intimò Farouk con uno scatto improvviso. Il suo corpo si irrigidì, e Frank colse un lampo di crudeltà nei suoi occhi. «Ich will die Wahrheit wissen,» lo aggredì. Il vecchio non parlò. «La verità,» insistette Farouk. A un tratto il volto del vecchio si contorse in una smorfia. «Ich muss mit anderen Menschen leben,» gridò. Di scatto si voltò verso sinistra, puntando lo sguardo fisso su Frank, e con voce rotta disse: «Ich habe mit Scham gelebt.» Frank guardò Farouk, disorientato, e questi si rivolse al vecchio con intensità. «Die Wahrheit,» ripeté. Il volto dell'uomo apparve inespressivo e duro. «Fragen Sie Gott,» disse. Farouk fece un passo indietro, sconfitto. Poi si voltò e andò in corridoio. «Che cosa ha detto?» chiese subito Frank raggiungendolo davanti all'ascensore. Mentre premeva il pulsante di chiamata il viso di Farouk era percorso da un leggero tremito. «Niente di importante,» disse, con voce scossa. «Conosceva Hannah?» «Sì, la conosceva,» confermò Farouk. Tirò un profondo sospiro, poi lasciò uscire l'aria lentamente. «Bene, che cosa ha detto?» insistette Frank. «Ha detto che lui viveva nella vergogna,» riferì Farouk. «Ma di Hannah che cosa ha detto?» «L'ha chiamata il suo amore perduto,» rispose Farouk ancora scosso. «E l'ha chiamata puttana.» «Puttana?» «Sì, puttana,» ripeté Farouk. La porta dell'ascensore si iprì e i due entrarono. «Ha detto che lei era una puttana,» mormorò Farouk, con un filo di voce, «e che il suo cuore era nero.»
14 Frank comprò una rivista, la infilò piegata sotto il braccio e si incamminò verso il suo ufficio sulla Quarantanovesima. Farouk, accanto a lui, scrutava lo scheletro imponente dell'edificio in costruzione dalla parte opposta della via. «Il tuo affitto, Frank,» disse. «Aumenterà senz'altro quando il palazzo sarà finito.» «Già, lo so,» ammise Frank. Lo sguardo di Farouk continuava a esaminare il nudo labirinto di travi d'acciaio. «Il vecchio,» disse. «Feig. Sembrava un ragno.» Si voltò verso Frank. «Quando i vecchi sono magri sembrano sempre dei ragni.» «Il vecchio che mi ha mostrato il luogo in cui aveva vissuto Hannah,» disse Frank, «mi aveva parlato di uno scandalo.» Gli occhi di Farouk si fissarono su Frank con sorpresa. «Uno scandalo?» «Sì,» disse Frank. «Ma non ha approfondito la questione.» «Forse tu non hai insistito abbastanza,» azzardò Farouk. «Non credo sarebbe servito.» «Forse no,» convenne Farouk alzando le spalle. Frank aprì la rivista e sfogliò distrattamente le pagine. «Lei lavorava per Feig, almeno questo lo sappiamo. E viveva sopra la fabbrica, in un appartamento che le aveva dato lui.» «E lei lo ha tradito,» aggiunse subito Farouk. «Che cosa vuoi dire?» «Lei si è iscritta al sindacato,» spiegò Farouk. «E ha portato avanti uno sciopero contro di lui. Forse per Feig questo equivaleva a un tradimento.» «Sì.» Farouk mosse il capo con convinzione. Poi vagò ancora con lo sguardo sull'enorme edificio d'acciaio. «Questo avrebbe potuto causare molta amarezza,» considerò. «Ma non è di amarezza che Feig ha parlato.» Guardò Frank. «Ha parlato di vergogna.» Rifletté per alcuni istanti. «Ha detto: 'Ich habe mit Scham gelebt.' Ho vissuto nella vergogna.» Frank non disse nulla. «Poi ha detto: ''Ich muss mit anderen Menschen leben?» aggiunse Farouk. «E questo che cosa significa?» «Significa: 'Devo vivere con gli altri.'»
Frank guardò Farouk. «Sembra di sentir parlare Hannah.» «Che cosa intendi dire?» «Che sembra una frase tratta dai discorsi che teneva Hannah,» gli spiegò Frank. «Dai discorsi che teneva all'epoca dello sciopero.» «Contro Feig?» «Contro lui e contro gli altri.» Farouk aggrottò leggermente le sopracciglia. «Credi che stesse citando la vittima? Potrebbe essere così?» «Non saprei.» Per un po' camminarono in silenzio, poi Farouk notò la rivista che Frank teneva sotto il braccio. «Ti interessi di arredamento?» domandò. «La mia cliente mi ha detto che qualcuno aveva fatto un servizio fotografico nell'appartamento di Hannah,» gli spiegò Frank. «Su come lo aveva arredato, i quadri e così via. Pensavo di dargli un'occhiata.» «Sì, mi pare una buona idea,» convenne Farouk. «Lo leggerò anch'io.» Entrati nell'ufficio, Frank accese la lampada sulla scrivania e aprì la rivista alla pagina in cui cominciava l'articolo sull'appartamento di Hannah. Dietro di lui, Farouk guardava attentamente le fotografie. «Così è questa la vittima,» disse osservando la prima fotografia. Hannah era ritratta nel suo studio, seduta dietro lo scrittoio, intenta a osservare alcuni schizzi di moda. Portava i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, e indossava una camicetta rossa di velluto con un colletto di pizzo molto alto, un abbigliamento che a Frank parve un po' troppo ricercato per una fotografia di quel genere: dava l'idea che Hannah avesse deciso di vestirsi appositamente per essere ritratta dal fotografo e avesse esagerato un po'. «Era una donna attraente,» osservò Farouk. Frank ripensò al suo viso nelle fotografie del giornale del sindacato, e poi a quando l'aveva visto all'obitorio, cereo e con le labbra livide. Voltò pagina: la fotografia successiva mostrava lo studio e la parete sulla quale erano appesi i quadri e i diplomi, tutti perfettamente incorniciati e sistemati con cura. «Ho visto questa stanza. Pare che l'omicida non ci sia stato,» disse Frank. «O perlomeno sembra che non l'abbia ammazzata lì.» La pagina successiva mostrava una fotografia a colori di Hannah in salotto. Sulla rivista sembrava più ampio, ma la sobria eleganza del locale era la stessa, con il bel divano di broccato, i mobili d'epoca, la morbida moquette azzurra, i vasi di fiori freschi e il tavolino di cristallo. «Se la passava bene, questa donna,» concluse Farouk guardando la foto-
grafia. «Già,» disse Frank. Guardò ancora un attimo l'immagine stampata, poi girò la pagina. Questa volta Hannah era nella stanza da bagno, con finiture di marmo e pareti rivestite di ceramica. La didascalia indicava le dimensioni della stanza e commentava l'ottimo sfruttamento dello spazio limitato. Frank voltò ancora pagina, ma non vi erano più fotografie; con un rapido movimento tornò all'inizio, e si soffermò a considerare il volto sereno di Hannah. «È stata violentata?» domandò Farouk. «No.» «E non è stato rubato nulla?» Frank fece con il capo un segno di diniego. «Tutti i suoi gioielli erano al loro posto,» disse, «e ne aveva parecchi.» Guardò Farouk. «E non aveva una cassaforte.» «Che cosa ne dice la polizia?» «Ritengono che sia stato uno psicopatico,» spiegò Frank. «Per via della mano.» «Già.» Farouk si chinò per vedere meglio le fotografie sulla rivista. «Dov'era il corpo?» Frank estrasse la fotografia fatta dalla polizia al corpo di Hannah disteso in maniera scomposta sul pavimento del salotto e la lasciò cadere sopra la rivista aperta. Farouk non sussultò vedendo la fotografia. I suoi occhi sembravano quasi accarezzare i contorni del corpo di Hannah. «Mi dispiace,» disse. Gli occhi di Frank si spostarono dalla cruda realtà delle fotografie della polizia al salotto perfetto della rivista, con la moquette azzurra e i mobili antichi. Le due foto erano state scattate più o meno dallo stesso punto della stanza, e mostravano il tavolino di cristallo, il divano e la parete a cui questo era appoggiato. Lentamente lo sguardo di Frank si soffermò sul pavimento, poi andò di nuovo verso il divano e la parete, verso la raccolta di fotografie così sapientemente sistemate. «Sola,» disse dopo un attimo. «In tutte queste fotografie è sempre sola.» Guardò Farouk. «È come se nessuno la conoscesse.» Farouk si raddrizzò. «Forse il fotografo la conosceva,» disse. «Forse mentre lui scattava le foto hanno conversato.»
«È possibile.» «In quel momento,» aggiunse Farouk, «lei avrebbe potuto parlare del suo passato.» Frank fece un cenno d'assenso con il capo. «Forse lui la conosceva un po'. Dovremmo parlargli, questo è certo.» «E l'omicida,» disse Farouk. «Credi che la conoscesse?» Frank scosse il capo. «Non ne ho la minima idea.» Farouk lo fissò attentamente. «Allora, adesso stai cercando l'assassino?» Per un istante nella mente di Frank passò un turbinio di immagini. Vide il volto di Hannah nei vari momenti della sua vita, vide le stanze in cui aveva vissuto, le strade che aveva percorso, risentì le parole che aveva scritto e pronunciato; poi ripensò alla mano alzata nell'aria gelida dell'inverno, e a quella stessa mano mutilata nella luce fredda dell'obitorio. «Sì,» disse. «Lo sto cercando.» Il portiere riconobbe Frank immediatamente ma scrutò Farouk con sospetto quando i due varcarono l'ingresso del palazzo in cui abitava Hannah. «Sono venuto a controllare alcune cose,» gli disse sbrigativamente Frank. «Lei sta indagando sull'omicidio?» «Sì,» confermò Frank. Lo sguardo del portiere si spostò su Farouk. «Anche lei?» Frank fece un cenno d'assenso con il capo ma non disse nulla. Il portiere ebbe un attimo di esitazione, poi d'un tratto alzò le spalle. «Ma sì, salite pure,» disse. «A me non importa, e poi oggi è il mio ultimo giorno di lavoro qui.» Entrò in una piccola stanza e ritornò con la chiave dell'appartamento. «Non dimentichi di restituirmela.» Frank ringraziò e si diresse in fretta verso l'ascensore. Sulla porta dell'appartamento erano ancora posti i sigilli, ma Frank aprì ed entrò, seguito da Farouk che osservava attentamente le quattro pareti schizzate di sangue. «Questo è un omicidio, allora,» disse con indifferenza dopo aver fatto un giro su se stesso, «si ha proprio l'idea che qui sia stato commesso un omicidio.» Frank andò in fondo all'anticamera e si appoggiò al muro. «È stato tutto esaminato dalla scientifica. Ripulito, svuotato. Per non parlare delle fotografie.» «Già, le fotografie,» disse Farouk fissando la chiazza di sangue rappreso che si stendeva ai suoi piedi. «Quelle non ci parlano però dell'omicidio.»
«No, infatti,» convenne Frank. Gli occhi di Farouk scrutarono attentamente il corridoio, fino alla porta aperta della stanza da letto. «E li che cosa c'è? «Lo studio e la camera da letto. Niente sangue, nessun segno di lotta.» Di nuovo lo sguardo di Farouk si volse al salotto. «Tutto qui, allora?» «Sì,» confermò Frank. «Ma potremmo dare un'ultima occhiata in giro. In tutto l'appartamento.» «Sì, buona idea,» acconsentì immediatamente Farouk. «D'accordo. Dividiamoci il lavoro: tu guardi la cucina, e io controllerò la stanza in fondo.» La ricerca, stanza dopo stanza, durò quasi due ore, e quando Frank e Farouk ebbero terminato si abbandonarono sul divano del salotto. Farouk prese un fazzoletto da una tasca posteriore dei pantaloni e si asciugò la fronte. «È da molti anni che non facevo più un lavoro simile.» Guardò Frank e gli chiese: «E tu?» Frank ricordò quando aveva esaminato minuziosamente la stanza della sorella di Karen, arredata come una casa di bambola, frugando nei cassetti dello scrittoio di vimini bianco e nella toeletta alla ricerca di qualche indizio che forse avrebbe potuto metterlo sulle tracce dell'omicida. «Non da molto,» rispose. Farouk ripose il fazzoletto in tasca. «Non abbiamo trovato nulla,» disse respirando pesantemente. «Ma è normale, no?» «In certi casi lo è,» convenne Frank. «Forse avremo maggior fortuna con il fotografo,» ipotizzò Farouk. Si alzò di scatto, e l'ombra grigia proiettata dalla sua enorme figura si allungò con una grazia strana sulla moquette azzurra macchiata di sangue. Gli uffici della rivista Homelife si trovavano al sessantaduesimo piano di un imponente grattacielo sulla Quinta Strada. Frank appoggiò la sua copia dell'ultimo numero della rivista sul banco della centralinista. «C'è Peter Kagan?» domandò. «Credo di sì,» rispose l'impiegata. Frank le mostrò la sua tessera di riconoscimento. «Vuole informarlo che desidero parlargli a proposito di certe foto che ha scattato alcune settimane fa nell'appartamento di Hannah Karlsberg?» La donna sbarrò gli occhi. «Non si tratta forse della donna che è stata assassinata?» «Sì.»
«Solo un istante, la prego,» disse subito la centralinista. Sparì dietro un'alta parete divisoria e tornò quasi immediatamente, seguita da un uomo basso e tarchiato, vestito con un pesante maglione e un paio di blue jeans. «Sono Peter Kagan,» si presentò l'uomo. «Se non ho capito male si tratta del caso Karlsberg.» «È esatto.» Kagan guardò Farouk. «È con lei?» «Sì, certo.» «Vi prego, accomodatevi,» li invitò Kagan accompagnandoli al di là della parete divisoria in un piccolo studio a pochi passi dall'ingresso. «Come ho già riferito alla polizia,» cominciò Kagan, «io non conoscevo Miss Karlsberg. Prima di quel giorno non l'avevo mai vista.» «A noi interessa maggiormente ciò che lei può avere detto in quell'occasione,» precisò Frank. Frank lo guardò sorpreso. «Ciò che ha detto Miss Karlsberg? E perché?» Scoppiò in una fragorosa risata nervosa. «Dio mio! Ho scattato quelle foto molte settimane prima che Miss Karlsberg fosse uccisa. Prepariamo questi servizi con tre mesi di anticipo.» Frank estrasse il suo taccuino. «Miss Karlsberg era con lei mentre scattava le fotografie?» «Sì.» «In ogni stanza?» «Sì, in tutte,» disse Kagan. «Mi seguiva sempre dappertutto.» «La seguiva dappertutto?» «Già,» disse Kagan, «come un cane da guardia.» «Un cane da guardia?» «Come se temesse che io potessi rubarle qualcosa,» spiegò Kagan. «Come se questo la preoccupasse.» Frank prese nota. «Parlava molto?» Lo sguardo di Kagan si abbassò sulla rivista. «No. Non disse quasi nulla.» Scrollò le spalle. «Era molto rigida, molto calma. Mi guardava in uno strano modo.» «Che cosa intende dire?» «Come se io fossi stato trasparente,» disse Kagan. «Mi dava una strana impressione.» «Che tipo di impressione?» Kagan rifletté per alcuni secondi. «Era come se io non esistessi se non in quel preciso momento, cioè solo per il tempo in cui sono stato lì con lei.
Era come se io fossi lì per lei, e per il resto non esistessi.» «Come un domestico?» domandò Farouk. «Come se lei fosse lì solo per servirla?» Kagan scosse il capo. «No, era una cosa diversa.» Sorrise. «Secondo me, per lei io avrei cessato di esistere nel momento in cui avessi messo piede fuori da quell'appartamento. Come se io per scattare quelle foto mi fossi dovuto materializzare ma poi, finito il servizio, avrei dovuto...» «Sparire?» lo interruppe Frank. «Cessare di esistere,» precisò Kagan. «Cessare completamente di esistere.» Frank prese nota. «E riguardo alla sua vita, le ha detto qualcosa?» «No, nulla.» «Assolutamente nulla?» «Assolutamente.» «E del suo passato? Le ha detto qualcosa a questo proposito?» Kagan scosse il capo. «Non dava l'idea che ne avesse uno.» Diede un'occhiata alla rivista, e il suo sguardo si soffermò sulla parete con le fotografie. «Per esempio, guardate queste fotografie. Sono tutte a colori. Questa donna quanti anni poteva avere? Settanta forse?» «Aveva settantaquattro anni,» gli disse Frank. Kagan annuì. «Ciò significa che era nata molto prima della fotografia a colori. E perciò queste foto sono state scattate di recente.» Alzò le spalle. «Forse ha un baule pieno di vecchie foto in bianco e nero nascosto da qualche parte. La maggior parte delle persone, se tiene delle fotografie, tiene quelle più vecchie.» Il suo sguardo rimbalzò da Frank a Farouk, poi ancora su Frank. «Ma questa donna è come se fosse nata così com'era allora.» Frank prese nota e poi fissò in silenzio i suoi appunti, mentre Farouk interrogava Kagan a proposito di eventuali parenti di cui avrebbe potuto avergli parlato o di luoghi in cui avrebbe potuto essersi recata. Così com'era, ripeté Frank nella sua mente. Come se fosse nata così com'era allora. Ma lui l'aveva vista nella sua giovinezza, l'aveva vista con altre persone, l'aveva vista al lavoro in fabbrica e sotto la neve. Ritornati in ufficio, Frank versò da bere per sé e per Farouk e si sedette dietro la scrivania, con lo sguardo fisso sulla pila di vecchi giornali del sindacato. «Parecchi anni fa Hannah fu coinvolta in uno sciopero,» disse. Farouk si abbandonò pesantemente sulla sedia di fronte alla scrivania di
Frank. «Quanti anni fa?» «Tra il 1935 e l'inizio del 1936.» «Era giovane, allora.» «In un certo senso fu lei a portarlo avanti,» gli spiegò Frank. Fece un cenno con il capo indicando i giornali. «Scrisse degli articoli per il giornale del sindacato, e tenne anche dei discorsi.» Farouk sorrise beatamente. «E così emerse.» «Emerse?» «Quando fai queste cose, emergi.» «Intendi dire all'interno del sindacato?» Farouk annuì. «Che cosa accadde dopo lo sciopero?» «Non lo so,» ammise Frank. «Non sono nemmeno certo che gli scioperanti abbiano vinto.» «Il giornali non lo dicono?» «La gente tornò a lavorare,» spiegò Frank. «Ma non so come andò.» Farouk bevve un sorso, poi si chinò leggermente all'indietro appoggiandosi allo schienale. «È una vecchia lotta,» disse, «e non finirà mai.» Bevve un altro sorso di whisky, guardando verso la finestra. «C'è così poca luce,» osservò. «Non ti dà fastidio?» «Non ci ho mai fatto caso,» ammise Frank. Prese uno dei giornali dalla pila e lo aprì. «Hannah lasciò la fabbrica poco dopo la fine dello sciopero.» «E dove è andata?» «Non lo so,» disse Frank. «Sulla scheda d'assunzione, quella compilata al suo ultimo posto di lavoro, ha indicato solo un impiego dopo il 1936.» Trovò la foto di Hannah al raduno di Union Square e la mostrò a Farouk. «Ecco com'era allora.» Farouk si concentrò sulla fotografia. «Strano,» osservò, «come talvolta si riesca a percepire la forza di una persona.» Si chinò in avanti, con lo sguardo sempre fisso sulla fotografia. «Che fede,» aggiunse Farouk. «Secondo me, è la cosa di cui è più difficile fare a meno nella vita.» Scosse il capo e si mise nuovamente comodo sulla poltroncina. «L'amore viene e va, vero? Lo stesso dicasi per il denaro. C'è chi ne ha e chi non ne ha. Ma la fede, quando ti manca, lascia un vuoto.» Frank prese la scheda d'assunzione di Hannah dalla sua tasca e l'aprì sulla scrivania. «Dice di avere lavorato per Feig,» disse, «e indica un altro impiego. A Brooklyn, in un posto chiamato Maximum Imports. Ma è tutto.» Passò la scheda a Farouk. «Oltre a questo, il nulla.» Farouk prese il foglio fra le mani e gli diede una rapida scorsa. Poi levò
lo sguardo e sorrise. «Non temere, Frank,» disse fiducioso. «Con il tempo riempiremo gli spazi vuoti.» 15 Farouk era appena uscito per occuparsi di quelle che lui definiva «altre questioni» quando nell'ufficio di Frank squillò il telefono. «Frank Clemons.» «Salve, Frank. Sono Imalia Covallo.» «Buongiorno, Miss Covallo.» «Oggi ho tentato un paio di volte di mettermi in contatto con lei.» «C'è qualcosa che non va?» «No. Solo mi chiedevo se c'era qualche novità.» «Sì, ho scoperto qualcosa di nuovo,» le annunciò Frank. «Ho scoperto che Hannah aveva due sorelle.» «Due?» «Sì.» «Davvero? Una è ancora viva?» «Non lo so.» «Be', non dovrebbe essere difficile scoprirlo, no?» «No, non dovrebbe,» convenne Frank, «a meno che lei non desideri farsi trovare.» Ci fu una pausa di silenzio. «Perché mai non dovrebbe farsi trovare?» chiese infine Imalia. «Noi sappiamo bene che Hannah non era in contatto con alcun parente,» disse Frank. «Lei ne sa qualcosa?» «Io non sapevo neanche che avesse due sorelle,» replicò Imalia. «Come le ho già detto, la sola sorella di cui l'ho sentita parlare era già morta.» «Sapeva che Hannah aveva cambiato cognome?» le chiese. «Hannah aveva cambiato cognome?» «Già.» «Qual era il suo vero cognome?» «Kovatnik,» rispose Frank. Diede un'occhiata alla scheda che gli aveva consegnato Riviera. «Ho qui una specie di scheda che Hannah aveva compilato quando venne assunta da lei,» disse. «Era assieme ad alcuni documenti che mi ha dato Riviera.» «E allora?» «Non sono indicati i posti di lavoro occupati tra il 1936 e il 1955.»
«Davvero?» «Sì.» «Non ne ero al corrente.» «Lei aveva letto la sua scheda?» «Non credo,» ammise Imalia. «Ma non mi meraviglio, non l'assunsi io personalmente.» «Chi lo fece?» «Stanley, credo,» spiegò Imalia, «Stanley Burke. Era lui che all'inizio si occupava di queste questioni. Ricordo che fu Tony a presentarmi Hannah, ma in effetti fu Stanley che l'assunse. Forse a lui disse dove aveva lavorato precedentemente.» «Credevo che fosse lei a occuparsi di tutto.» «Di quasi tutto,» tagliò corto Imalia. «Stanley sbrigava un po' di lavoro. Fu una specie di direttore di scena, per un po' di tempo.» Frank estrasse il taccuino verde. «Dove lo posso rintracciare?» «Vive nel Queens,» disse Imalia. Poi gli diede l'indirizzo esatto. Frank prese nota. «Comunque qui c'è un vuoto,» disse Frank quando ebbe finito di scrivere l'indirizzo. «Un grosso vuoto.» «Forse si è semplicemente dimenticata di riempire tutto il questionario,» ipotizzò Imalia. «Io non ho mai conosciuto Hannah,» replicò Frank. «Ma da ciò che ho potuto capire del suo carattere, non era una persona negligente.» «Forse ha avuto un colloquio,» spiegò Imalia. «Con Stanley, intendo. Probabilmente ha detto tutto direttamente e ha pensato che fosse inutile scriverlo nella scheda.» «Forse,» riconobbe Frank senza convinzione. «Ciò che intendo dire è che se lei aveva già detto tutto a lui non c'era alcun bisogno di ripeterlo per iscritto.» «Questo Mr Burke non le ha mai riferito nulla di quel colloquio?» «No, mai.» «Non le ha mai parlato degli impieghi precedenti alla sua assunzione presso di lei?» «No, mai,» disse Imalia. «Ricordo solo che mi disse che lei aveva molta esperienza nel nostro settore, e che avremmo potuto assumerla a buon mercato.» «A buon mercato?» «Così disse.»
«Perché mai a buon mercato?» Imalia rifletté un attimo. «Non lo so,» ammise infine. «Ma forse Stanley glielo potrà dire.» All'indirizzo indicato da Imalia c'era una grande casa affacciata su un simpatico viale alberato. Venne ad aprire alla porta un'infermiera con un camice perfettamente inamidato e stirato. Frank le mostrò la propria tessera di identificazione. «Sto cercando un uomo di nome Stanley Burke,» le disse. «Mr Burke vive qui,» dichiarò l'infermiera. «La sta aspettando?» «Non credo,» ammise Frank, «ma può dirgli che mi manda Imalia Covallo.» «D'accordo,» disse la donna. «Si accomodi, la prego.» Frank seguì l'infermiera verso il retro della casa, dove un uomo anziano sedeva da solo in una grande serra. «Mr Burke,» disse l'infermiera aprendo la porta a vetri della stanza, «questo signore si chiama Frank Clemons. Dice che lo manda Miss Covallo.» Il vecchio alzò lentamente il capo, sbattendo le palpebre dei suoi occhi azzurri e acquosi per la luce violenta della serra. «Entri, Mr Clemons,» lo invitò. Frank scostò dal passaggio un pesante ramo ed entrò. La stanza era zeppa di piante di ogni genere: i rampicanti si avvinghiavano su guide di legno bianco o ricadevano mollemente ai lati dei loro sostegni, mentre enormi felci crescevano ai quattro angoli della stanza, e le loro ampie fronde ondeggiavano delicatamente nell'aria umida e calda della serra. Il vecchio fece segno a Frank di sedersi su una piccola sedia da regista. «La prego, si accomodi. Desidera bere qualcosa?» «No, la ringrazio.» «Il caldo che c'è qui dentro le farà venire sete,» disse Burke. «Ma a me piace. Mi ricorda i Tropici.» Frank si sedette ed estrasse il suo taccuino. «Grazie per avermi ricevuto.» Burke rise allegramente. «Be', sa com'è con i vecchi datori di lavoro. Continui a pensare che siano il tuo capo.» I suoi occhi brillarono. «Ogni anno mi manda gli auguri di Natale.» «Quanto tempo ha lavorato per Miss Covallo?» «Solo un paio d'anni,» riferì Burke. «Mi occupavo un po' dell'ammini-
strazione del personale, all'inizio. Preparavo le buste paga, assumevo, licenziavo, cose di questo tipo.» «In che anni ha svolto questo lavoro?» chiese subito Frank. «Quando lei aveva appena cominciato la sua attività,» rispose Burke. «Era l'autunno del 1968. A quei tempi io mi occupavo un po' di tutto. Per finanziare l'operazione c'erano solo quattro soldi.» Rise ancora. «Da quello che ho potuto capire, Miss Karlsberg l'ha assunta lei.» Il vecchio fece un cenno d'assenso con il capo. «Sì, l'ho assunta io.» «Sa che quello non era il suo vero cognome?» «Sì,» ammise Burke. «Sì, il suo vero cognome era Kovatnik.» Guardò Frank con aria inespressiva. «Ma io la conoscevo solo come Hannah Karlsberg.» Frank estrasse dalla tasca la scheda d'assunzione e gliela passò. «Si ricorda di questa?» Burke la guardò con indifferenza. «Sicuro che me ne ricordo.» «Non è certo stata compilata con tutti i crismi,» osservò Frank. Burke diede nuovamente la scheda a Frank. «Hannah non aveva bisogno di indicare tutto su quel pezzo di carta.» «E perché mai?» «Perché quando un pezzo grosso dell'industria tessile ti raccomanda qualcuno, tu lo devi assumere.» «Ha detto un pezzo grosso?» «Esattamente,» confermò Burke. «Uno dei più influenti. Come si usa dire, lui era là quando Dio ha creato il mondo.» «E una persona così le aveva raccomandato Hannah?» Burke assentì con un movimento del capo. «Non solo raccomandata,» precisò. «Me la presentò personalmente. Fu abbastanza insistente, anche se in realtà non sarebbe stato affatto necessario.» Sorrise fra sé. «Voglio dire che nel 1955 lui era ancora una persona importante.» Frank diede un'occhiata al suo taccuino, mentre sentiva le sue dita stringere la penna. «Quest'uomo così importante, chi era?» «Oh, era Mr Bornstein.» «Abe Bornstein?» Burke lo guardò sorpreso. «Ne ha già sentito parlare?» «Un po',» ammise Frank. «All'inizio faceva l'intermediario giù nel Lower East Side.» Burke rise. «Molti anni prima, però,» precisò. «Perché quando lo conobbi io, Abe Bornstein faceva molto di più che procurare operai.»
«Che cosa faceva esattamente?» «Era un faccendiere,» disse Burke. «Un uomo che combinava affari. Era proprietario di molti magazzini e depositi in tutta la città, e conosceva molta gente. Metteva in contatto le persone.» «E lui le raccomandò Hannah?» «Sì, proprio lui,» confermò Burke. «Venne un pomeriggio con Hannah e parlarono con il mio capo, Mr Constanza. Credo che nella stanza sul retro ebbero una specie di incontro segreto, e alla fine Hannah venne assunta.» Si mosse leggermente sulla sedia, sfiorando con le dita le foglie di una grande felce che cresceva accanto a lui. «All'inizio pensai che fosse una che faceva marchette, o giù di lì. Ma Hannah non era una volgare prostituta che un vecchio voleva mettere sul libro paga: era una persona molto seria, aveva un certo aspetto... Non saprei dire... Come se si occupasse degli affari suoi e fosse in grado di fare ciò che aveva in mente.» «Questo avvenne nel 1955?» «Sì, è così.» Frank diede una rapida occhiata ai suoi appunti. «Ma mi era parso di capire che lei andò a lavorare per Miss Covallo nel 1968.» «Ed è vero,» convenne Burke. «Ma io assunsi Hannah molti anni prima.» «Nel 1955,» ripeté Frank scrivendo la data sul taccuino. «Esatto,» esclamò Burke. «A quei tempi io lavoravo per Mr Constanza. Lui aveva messo in piedi un'attività, la Maximum Imports.» «E quella fu la prima volta che lei assunse Hannah?» «Sì.» «E con quale incarico?» «Non l'ho mai capito,» rivelò Burke. «Per un po' lavorò in ufficio, ma non credo che fosse il lavoro giusto per lei.» «Si spieghi meglio.» «Credo che aspettasse l'occasione buona,» disse Burke. «In realtà era stata assunta per darle la possibilità di riorganizzare la propria vita, per ricominciare. E in breve tempo ci riuscì. Hannah era fatta così, era una donna molto determinata. Non era ancora passato un anno che lei aveva già messo in piedi un'attività tutta sua.» «Un'attività tutta sua?» «Proprio così.» «A Manhattan?» «No, credo da qualche parte a Brooklyn.»
«Mi sa dire dove esattamente?» «Non l'ho mai scoperto,» rivelò Burke. «Ma questa attività era solo di Hannah?» «In realtà era di Mr Constanza,» precisò Burke. «Ma Hannah la gestiva completamente.» «Che tipo di attività era?» «Non saprei dirglielo con esattezza,» continuò Burke. «So solo che Mr Constanza ci investì molto denaro. Vedevo le fatture che arrivavano. Aveva acquistato tutto lui.» «Che cosa aveva acquistato?» «Le attrezzature, e una gran quantità di tessuto.» «Tessuto?» «Sì, normale tessuto bianco,» precisò Burke. «Nei pochi anni che ho lavorato per lui avrà acquistato migliaia e migliaia di pezze di tessuto. E tutto veniva inviato a Brooklyn.» «Ma non ha mai scoperto a che cosa serviva?» domandò Frank. Burke scosse il capo in segno di diniego. «No, non l'ho mai saputo.» «Non era curioso di scoprirlo?» chiese incredulo Frank. «Certo che ero curioso,» precisò Burke. «Ma tutto era avvolto nel mistero. Sa com'è, quando si lavora per un uomo come Constanza, meno sai meglio è.» «Perché?» «Perché non puoi mai sapere quale sarà la sua prossima mossa,» disse Burke, «o di che cosa sarebbe capace.» Frank lo fissò attentamente. «Secondo lei qual era l'attività che avevano a Brooklyn?» Burke tirò un lungo sospiro. «Avrebbe potuto trattarsi di qualsiasi cosa. Proprio qualsiasi. Forse facevano abiti, ma chi lo sa? Magari Hannah dirigeva un bordello.» Sorrise con aria scaltra. «Con tanta stoffa bianca se ne può coprire di merda!» «Lei era presente quando Bornstein e Constanza parlarono di Hannah?» «Fui presente solo per pochi minuti,» ricordò Burke. «Eravamo tutti nella stanza che dava sul retro, tutti e quattro. Hannah era in un angolo e si guardava intorno. Ricordo che era vestita molto bene, con eleganza, come se fosse molto orgogliosa di sé e del proprio aspetto.» «Disse qualcosa?» «Lasciò che fosse Bornstein a parlare per lei.» «E lui che cosa disse?»
«Disse a Constanza che lei era esperta di materiali per rifiniture. Di tinture, smalti e così via.» «Ed era vero?» «Non l'ho mai capito,» disse Burke. «Ma ebbi l'impressione che si trattasse di una specie di linguaggio in codice, sa, per capirsi tra loro. Io ero un intruso.» «Parlarono di ciò che Hannah aveva fatto negli ultimi anni?» «No,» disse Burke, «ma a un certo punto Bornstein si mise a ridere e disse 'E posso garantirle che Miss Karlsberg può assicurarsi i migliori.' Poi Constanza e Bornstein risero insieme.» Si interruppe, ripensando a quel momento. «Hannah però non rise,» disse come parlando a se stesso. «Ricordo di averla osservata nell'angolo in cui si trovava. Era rigida, fredda, in un certo senso.» «Disse qualcosa?» «No, non disse nulla,» affermò Burke. «Almeno non mentre mi trovavo là. Qualche minuto dopo Bornstein aggiunse qualcosa a proposito di certi problemi da appianare, e allora Mr Constanza mi fece un cenno.» «Che cenno?» «Di uscire. Mi fece capire che dovevo andarmene,» spiegò Burke. «Che dovevano parlare di questioni private.» «E fu allora che uscì dalla stanza?» «Sì, proprio così,» disse Burke con enfasi. «Per Constanza significava 'vattene, sono questioni private'. Sa, tra le parti interessate.» Frank prese nota velocemente, poi cambiò argomento. «Ha mai incontrato le sorelle di Hannah?» domandò. «No,» rispose Burke. «Ma sapeva che aveva due sorelle?» «Sapevo che ne aveva una.» «Come mai lo sapeva?» «Un giorno avemmo dei problemi nella fabbrica al Quartiere della Moda,» cominciò a spiegare Burke. «Una delle lavoranti si era cucita un dito e tutta la lavorazione era bloccata. Per sostituirla fu presa una ragazza che camminava con la gruccia, che praticamente attraversò il locale zoppicando. Hannah era accanto a me, e vidi che i suoi occhi erano bagnati di lacrime. Le dissi: 'C'è qualcosa che non va, Hannah?' Ma lei si strofinò in fretta gli occhi. 'Nulla,' rispose, 'pensavo a mia sorella.'» «Quando avvenne questo episodio?» Burke alzò un poco gli occhi al cielo. «Forse circa un anno dopo che era
venuta a lavorare con noi,» disse. «Credo che fosse autunno, perché c'erano le elezioni. Non so che elezioni, ma tutti portavano distintivi elettorali.» Frank prese nota. «Pronunciò il nome della sorella?» Burke scrollò il capo. «No, non lo disse.» «Gilda? O Naomi?» «Non disse mai il suo nome,» insisté Burke. «E lasciò cadere immediatamente la questione. Si asciugò gli occhi in fretta e se ne andò.» Si interruppe come per cercare le parole esatte con cui esprimersi. «Hannah Karlsberg era una donna difficile da capire,» disse infine. «Mostrava solo alcuni aspetti della sua persona. Quelle lacrime, il modo in cui vestiva erano piccoli tasselli di un mosaico che non sembravano combaciare tra loro.» Sorrise. «Come un taglio di stoffa. Se lo strappi devi buttarlo via, perché i lembi non combaceranno mai più. Puoi cucirlo, rammendarlo, ma a un occhio esperto apparirà sempre rabberciato.» «Ed era così che appariva Hannah?» Burke asserì. «Come se fosse stata strappata in mille pezzi e poi rimessa insieme.» Frank rifletté un attimo e abbassò lo sguardo sui suoi appunti. «Così Hannah venne a lavorare per Mr Constanza nel 1955?» domandò. «Esattamente.» «E per quanto tempo ha lavorato per lui?» «Non lo so con certezza,» riferì Burke. «Ma quando io me ne andai lei lavorava ancora lì.» «Quando lasciò quell'impiego?» «Due anni dopo aver assunto Hannah. Era l'autunno 1957. Mi trasferii in Texas, quando aprirono alcuni impianti vicino al confine. Rimasi là per circa dieci anni, ma ho sempre desiderato tornare qui. Dopo un po' me lo sono potuto permettere. Fu allora che mi assunse Miss Covallo.» «E assunse Hannah per la seconda volta?» «Sì.» «Ed era il 1968?» «Esatto, il 1968,» convenne Burke. «Il mondo era cambiato. Nelle strade la gente era in tumulto, ma il settore tessile non era cambiato, era sempre spietato. Ciò che intendo dire è che Miss Covallo si trovava in grandi difficoltà.» «Vuole spiegarsi meglio?» «Certo. Miss Covallo aveva cominciato con molto poco,» raccontò Burke. «E nel corso dei primi due anni di attività aveva perso quasi tutto.» Ri-
se. «Adesso, si vede dappertutto il suo marchio, quello con una bella donna e le parole: 'Lo stile Imalia Covallo'.» Alzò le spalle. «È così che vanno gli affari in questo settore, le sorprese non finiscono mai. Nel 1968, quando assunsi Hannah, mi aspettavo che Miss Covallo fallisse entro un anno. Perciò me ne andai.» «Se ne andò?» «Sì, trovai un altro impiego,» precisò Burke. «Volevo abbandonare la nave prima che affondasse. Poi le cose cambiarono improvvisamente, e Miss Covallo cominciò a riscuotere un grande successo. 'Lo stile Imalia Covallo' era nato, ma per me era troppo tardi, stavo già lavorando per un'altra società. Esiste ancora, ma non è nulla in confronto a quella della Covallo.» «Quando si è dimesso?» domandò Frank. «Nel dicembre del 1970,» disse Burke. «Ero sicuro che Miss Covallo fosse sul punto di andare in rovina, che entro pochi mesi si sarebbe ritrovata con un pugno di mosche in mano.» Fece un sorriso ironico. «Invece due anni dopo aveva raggiunto l'apice nel mondo della moda. Ironia della sorte!» «Così lei ha lavorato con Hannah solo per due anni?» «Esatto,» disse Burke. «Ma non l'ho mai conosciuta bene.» «Ha idea del perché lasciò la Maximum Imports?» chiese Frank. «Certo che ce l'ho,» esclamò Burke sorridendo. «Pochi anni dopo che me ne ero andato, dovettero chiudere.» «Chiudere?» «Constanza era finito in galera,» spiegò Burke. «Non so con esattezza che cosa accadde, perché allora ero in Texas. Ma credo che avesse a che fare con le tasse.» Sorrise. «È sempre così, no?» Frank non disse nulla. «Comunque, si presero tutto, tranne il sospensorio di Constanza. Mi capisce?» «Che anno era?» «Era il 1965,» precisò Burke. «Lo ricordo perché alcune persone mi telefonarono in Texas per sapere se lì c'era qualche opportunità di lavoro.» «Le telefonò anche Hannah?» «No, lei no.» Frank prese nota, poi cercò di mettere insieme i dati di cui era in possesso. «Così è stata alla Maximum Imports dal '55 fino alla chiusura, circa dieci anni dopo. Poi è andata a lavorare presso la Covallo.»
«Esatto, nel 1968.» «Ha idea di che cosa abbia fatto nel frattempo?» «No,» ammise Burke. «Ma è possibile che abbia lavorato per altre società. Sui registri delle tasse compare certamente. Forse è tornata a lavorare per il sindacato.» «Lei sa del sindacato?» «Certamente,» ammise Burke. «Gli operai parlavano spesso di lei. Non riuscivano a credere che fosse passata dall'altra parte della barricata, dalla parte dei padroni.» «Se la ricordavano?» «Certo,» disse Burke. «Puoi cambiare il nome, ma non la faccia. E se il tempo non ti ha cambiato abbastanza, la gente ti riconosce. E può star certo che riconobbero Hannah. Negli anni Trenta era considerata molto radicale, una vera militante. Teneva sempre discorsi, e diceva che avrebbe fatto in modo che gli operai della sua fabbrica scioperassero più a lungo degli altri.» Abbozzò un sorriso. «Le persone del sindacato che si ricordavano di lei mi dissero che il tizio per cui lavorava meritava più degli altri di essere rovinato, quel figlio di puttana.» Alzò le spalle. «Così almeno dicevano i miei operai, che il suo capo era veramente un verme.» «Si riferisce a Sol Feig?» Burke sorrise. «Già, si chiamava così, Feig.» «Perché lui lo meritava più degli altri?» «Per quello che era,» ribadì Burke con una smorfia di disgusto. Frank non disse nulla, ma avvicinò la punta della penna alla pagina. «Aveva cercato di violentare una ragazza,» raccontò Burke. «Durante lo sciopero?» «Verso la fine,» precisò Burke. «Allora io ero ancora un giovanotto e abitavo a Cleveland. Queste informazioni derivano dai discorsi degli operai in fabbrica.» «E che cosa dicevano gli operai?» «Che Feig aveva cercato di violentare una ragazza, e che Hannah lo aveva scoperto,» ribadì Burke. «Dicevano che con lo sciopero il sindacato avrebbe rotto le ossa a quel bastardo. La gente avrebbe scoperto quello che aveva fatto, capisce? E questo li aveva convinti a non piegarsi.» Frank ripensò alla figura distrutta di Sol Feig, curvo sulla sua sedia a rotelle, i fieri occhi nocciola fissi su Farouk. «Quando lavorava con lei,» chiese Frank, «le parlò mai dello sciopero?» «No,» disse Burke. «Ma non vi era nulla di strano.»
«Perché?» «Perché a quell'epoca aveva già cambiato squadra,» disse Burke. «Capita spesso, ma lascia sempre l'amaro in bocca.» «Aveva cambiato squadra?» «Sì, aveva saltato la barricata,» spiegò Burke. «Aveva lasciato il sindacato, ed era passata dalla parte del padrone.» «Ma aveva già lasciato il sindacato molti anni prima di venire a lavorare con lei,» ricordò Frank. «Gli anni non significano nulla quando si tratta di questioni di questo tipo,» gli spiegò Burke. «Di quale tipo?» «Quando si tratta di lealtà,» disse Burke. «O di tradimento.» Frank prese nota velocemente, poi fissò di nuovo Burke. «Ma allora vi era del risentimento da parte degli operai nei confronti di Hannah?» chiese Frank. «Era qualcosa di più che semplice risentimento,» precisò Burke. «La boicottarono. La eliminarono.» Sorrise tristemente. «Deve capire che Hannah era più di un semplice membro del sindacato. Lei era stata un capo, e secondo loro lei li aveva abbandonati. Così agirono di conseguenza.» Frank annuì. «Lei è cattolico, Mr Clemons?» chiese Burke a un tratto. «No.» «Non importa,» disse Burke. «Ma se lei lo fosse, saprebbe che cos'è la scomunica. Anche se fosse ebreo lo saprebbe.» «Che cosa intende dire?» «È come un rito,» continuò Burke. «E se ne stai fuori tu non farai più parte della comunità, mai più. Il tuo nome non può essere pronunciato, sei un morto vivente.» «Ed è così che gli operai trattarono Hannah?» «Sì, proprio così.» «Tutti loro?» Burke non rispose subito. Rifletté un attimo. «Forse non tutti. Forse tutti tranne una.» Frank sentì mancargli il fiato. «Chi?» «Molly Gold. Lei parlava con Hannah, se l'era presa molto a cuore. Ogni volta che Hannah veniva in fabbrica, quella di Manhattan, le due chiacchieravano un po'.» «Ha idea di dove posso trovarla?»
«No,» disse Burke, «ma non dovrebbe essere difficile.» Rise sotto i baffi. «Ha una fedina penale lunga come il suo braccio.» «La fedina penale?» «Proprio così,» confermò Burke. Sul suo viso apparve un'espressione sarcastica. «Molly è una di quelle persone che decidono di vivere la vita a modo loro.» Repentinamente scomparve il sorriso dal suo volto. «E ovviamente, in questi casi, la vita assume risvolti poco piacevoli.» Frank chiuse il taccuino, guardò per un attimo la serra e poi si voltò nuovamente verso Burke. «Perché disse a Imalia che avrebbe potuto avere Hannah a buon mercato?» domandò. Burke sorrise. «Glielo ha riferito lei?» «Sì.» «Ha una buona memoria.» Frank aveva sempre gli occhi fissi su Burke. «Hannah aveva molta esperienza sulle spalle, no?» domandò. «Sì, è vero.» «E non era nemmeno più molto giovane,» aggiunse Frank. Fece un rapido calcolo. «Era sulla cinquantina.» «Esatto.» «Allora perché pensava che poteva assumerla a buon mercato?» «Perché nessun altro l'avrebbe assunta,» disse infine Burke. «Almeno non a New York.» «Perché?» «Perché aveva lavorato per Constanza.» «E lui era in galera.» Burke rise. «In galera? Cristo, quello non aveva niente a che vedere. Non credo che avesse molta importanza nemmeno il fatto che lui fosse una specie di gangster.» Scosse il capo. «No, il problema di Constanza è che lui era una testa calda, uno che non rispettava le norme.» «Quali norme?» «Le norme che regolano il commercio,» disse Burke. «Sa, capita talvolta di accettare un certo stile, così che tutti devono accettarlo.» «Constanza non faceva questo tipo di cose?» «No, non le avrebbe mai fatte,» disse Burke. «E non perché non fosse corrotto come gli altri: solo che pensava unicamente a se stesso. Non pensava mai agli interessi di tutto il nostro settore. Non riusciva a cogliere l'importanza della collaborazione.»
Frank annuì. «E Hannah si adattò,» aggiunse Burke quasi con rassegnazione. «A che cosa?» «A questo... Come dire?... A questo modo di vedere il mondo,» spiegò Burke. «Al sistema di Constanza.» Fu percorso da un lieve fremito, come se avesse percepito un improvviso vento freddo. «Si vedeva in lui, nei suoi occhi, e anche nello sguardo di Hannah. Non so come spiegarle... Come una gelida solitudine.» Rifletté per un istante, poi sorrise. «La sola persona che riusciva a valicare la barriera era Molly Gold.» 16 Grazie a Tannenbaum non c'era voluto molto tempo per risalire all'ultimo indirizzo di Molly Gold, ma quando Frank raggiunse il Lower East Side era ormai calata la sera. Nell'oscurità il quartiere gli apparve completamente diverso: quelle strade che di giorno brulicavano di gente ora erano deserte, e i negozi che aveva visto così affollati erano chiusi da pesanti saracinesche. La luce grigia dei lampioni, illuminando scritte sui muri e rare aiuole spelacchiate, rendeva il quartiere ancora più squallido e desolante. Molly Gold abitava in un edificio basso poco più avanti, in Hester Street. Erano poche le finestre illuminate, e anche l'unica lampadina dell'atrio dava una luce così debole che Frank dovette accendere un fiammifero per trovare l'indicazione dell'appartamento: Gold M.-Apt. 1-C. La porta era graffiata e scrostata, e Frank in un certo senso non si aspettava che qualcuno venisse ad aprirgli. Bussò leggermente, poi un po' più forte, e finalmente udì una voce anziana e vagamente irritata. «Andatevene. Non ho bisogno di nulla.» «Non sono un venditore,» precisò Frank. «Che cosa vuole?» «Sto cercando Molly Gold.» «E perché mai?» «Mi è stato detto che era amica di Hannah Karlsberg,» disse Frank. Ci fu una lunga pausa di silenzio in cui Frank poté udire il respiro affannoso della donna. «È morta,» aggiunse Frank, «è stata uccisa.» Udì una chiave girare nella toppa e una catena sferragliare. Poi la porta si aprì cigolando, e attraverso uno spiraglio di luce Frank poté intravedere il volto di una donna anziana, pallido e solcato di rughe. Dalle sue labbra
smunte pendeva un mozzicone di sigaretta senza filtro, e il fumo annebbiava i contorni del suo volto. «È lei Molly Gold?» le domandò subito Frank. «Sì, sono Molly Gold,» disse la donna. Si tolse di bocca la sigaretta mezzo masticata e guardò Frank dritto negli occhi. «Chi è lei?» Lui le mise in mano il suo biglietto da visita. «Che cos'è?» «Un mio biglietto,» le spiegò Frank. «Io sono un investigatore privato.» La donna rise con voce stridula. «E lei pensa che io riesca a leggere un biglietto così piccolo?» disse restituendolo a Frank. «Vedo tutto offuscato.» Rise ancora, poi indietreggiò per aprire la porta e fece entrare Frank. «Si accomodi.» Il salotto era molto piccolo, ma sistemato con cura. Non vi erano lattine o bottiglie sparpagliate in giro, e la tovaglietta bianca stesa sul tavolino accanto alla finestra doveva essere stata appena lavata. Eppure, nonostante l'ordine e la pulizia, la stanza dava l'impressione di qualcosa che sta attraversando le ultime fasi della decadenza. «Si sieda,» gli disse la donna, «a meno che non preferisca stare in piedi. Per me, faccia pure come crede.» Frank si sedette e attese che la donna, raggiunto a fatica il tavolo, facesse altrettanto. «Sto cercando di scoprire alcune cose su Miss Karlsberg,» cominciò Frank. La donna rimosse una ciocca di capelli grigi che le cadeva sugli occhi e lo fissò con aria sospettosa. «Quel biglietto,» disse, «non ci credo. Qualunque cosa ci sia scritta, io non ci credo.» Rise con aria scaltra. «Chi è lei? Polizia locale? Federale? Statale? Mi dica, chi è lei?» «Non sono un poliziotto,» rispose Frank. La donna strizzò gli occhi per concentrarsi. «Io non faccio più la ricettatrice. E qualsiasi altra cosa non mi interessa, sono troppo vecchia ormai.» Frank estrasse il suo taccuino. «Ha letto sui giornali di Hannah Karlsberg?» le domandò. Molly non rispose. Voltò lo sguardo verso la finestra, aprì le tende e guardò fuori. «È venuto con i rinforzi?» «No, sono solo.» «I piedipiatti non vengono mai da soli,» insistette la donna. Si voltò di scatto e lo guardò diritto in faccia. «Vengono in branco,» sibilò. «Come i lupi, come le iene, ecco come vengono.» Frank tirò un sospiro lungo e lento e tornò a fissare il suo taccuino. «La
polizia trattiene il suo corpo fino a quando qualcuno non lo richiede. Ecco chi sto cercando, un parente di Hannah.» Molly lo fissò con aria interrogativa. «Come mi ha trovato?» «Un uomo di nome Burke ha fatto il suo nome. Stanley Burke.» «Lui non sa dove vivo.» «Ma la polizia sì,» disse Frank senza mezzi termini. «Le hanno dato loro il mio indirizzo?» «Esatto.» «E perché?» chiese la donna mostrando un certo nervosismo. «Che cosa darà loro in cambio? Forse me?» «Non credo che in questo momento siano interessati a lei,» rispose Frank. Improvvisamente Molly parve imbronciata. «Oh, loro sono ancora interessati a Molly Gold,» disse con amarezza. Poi rise. «E sa il perché? Perché vogliono sapere di Nico, Nico e la sua droga, come ha fatto a farla entrare nel paese.» «Nico?» «Constanza. Nico Constanza.» «Forse a loro questo interessa,» disse Frank. «Ma a me no.» Molly lo scrutò attentamente con aria dubbiosa. «A me interessa solo Hannah Karlsberg,» la rassicurò Frank. Ancora una volta abbassò lo sguardo sul taccuino. «Mr Burke mi ha detto che lei e Hannah eravate amiche.» Molly spense la sigaretta. «Ha detto questo?» «Sì.» «Parlavamo un po', Hannah e io,» ammise Molly. «Ma non posso dire che fossimo amiche.» Scrollò il capo. «Lei era molto timida. Si teneva tutto dentro. Era cambiata rispetto ai vecchi tempi.» «La conosceva da prima?» «Sì,» disse Molly. «Abitava nel quartiere. Allora si chiamava Kovatnik.» «Sì, lo so.» «Un giorno decise di cambiare cognome,» continuò la donna. «Voleva un cognome più alla moda. Karlsberg è alla moda.» «Sì, è vero.» «Ma non ingannò nessuno,» disse Molly. «Molti la ricordavano da quando abitava nel vecchio quartiere. Un cognome nuovo non cambiava nulla per loro.»
«Queste persone,» disse Frank, «la ricordavano da quando viveva nella Quinta Strada?» La donna parve perplessa, poi disse: «Quinta Strada? No, Orchard Street.» «Vuol dire da quando lavorava in fabbrica?» «Lavorava per Feig,» spiegò Molly. «Mentre io lavoravo qualche isolato più avanti. A quei tempi eravamo entrambe alla macchina per cucire.» Alzò le mani mostrando le dita contorte dall'artrite. «Vede che cosa succede? Le mie mani sono così da almeno vent'anni.» Sogghignò beffarda. «Ma ai piedipiatti non importa nulla di questo. A loro interessa solo Constanza, e ciò che io facevo per lui.» Rise con voce stridula. «Ma non c'era nulla, e lo dissi anche a Hannah. Le dissi: 'Io per quel porco non faccio nulla.'» Guardò negli occhi Frank. «Ciò che fai in questo mondo, lo fai solo per te stesso,» disse con convinzione. «Perché nessuno fa niente per il prossimo. Nessuno. Capisce cosa voglio dire? Nessuno. Nessuno fa un cazzo di niente.» Frank fece un rapido cenno d'assenso con il capo. «Quando ha incontrato Hannah per la prima volta?» «In quel piccolo parco,» ricordò Molly, poi tacque, come se cercasse di ricordare tutto nei minimi dettagli. «Dove le ragazze si ritrovavano alla fine del turno di lavoro,» aggiunse infine. «C'era un piccolo parco, e noi facevamo un giro, prendevamo una boccata d'aria, ci sgranchivamo un po' le gambe.» Sorrise. «A quei tempi Hannah aveva un bel modo di fare, molto amichevole. Credo che le piacesse la gente.» Alzò le spalle. «Io ero una delle persone che le erano simpatiche, ma ce n'erano molte. Le piaceva stare in compagnia, partecipare a tutto, stare assieme agli altri. Era fatta così, Hannah, sempre tra la gente, a parlare con tutti.» Frank ripensò alle fotografie sulla parete del suo appartamento, una donna di mezza età da sola a Parigi, a Londra, a Roma. Ricordò le parole di Riviera: Si teneva tutto dentro; e quelle di Burke: Era una che badava ai fatti suoi. E poi Imalia: Non la conoscevo a fondo. Nessuno la conosceva. «Ma chi era davvero?» mormorò tra sé Frank. La donna si chinò in avanti e si portò la mano a mo' di conchiglia all'orecchio. «Che cos'ha detto?» «Amava la gente,» disse Frank. «E la gente l'amava. Questo deve avere aiutato il sindacato.» Molly fece un cenno d'assenso con il capo per dimostrare la propria convinzione. «Oh, sì, fu di molto aiuto. Hannah teneva tutto sotto controllo.
Le piaceva, e la gente aveva fiducia in lei.» Sorrise con un certo orgoglio che cercò di non mostrare troppo apertamente. «Ci fu uno sciopero molto grosso, lo sa?» «Nel 1936.» «Durò parecchi mesi,» disse trionfalmente la donna. «Ma vincemmo.» «E Hannah era uno dei capi,» buttò là Frank per incoraggiarla a parlare. «L'ebbe vinta su Feig,» disse Molly. «Lo mandò a farsi fottere. Lui non si riprese mai più. Dovette vendere la fabbrica, quel bastardo. Nessuno avrebbe più lavorato per lui, non dopo quella storia con quella ragazza.» Voltò lo sguardo verso la piccola cucina sulla destra e chiese: «Desidera un whisky?» «No, grazie.» Si alzò in piedi. «Io sì,» dichiarò. Andò in cucina, si versò da bere e tornò a sedersi. «Mi piace liscio,» disse. Bevve un lungo sorso e si pulì la bocca con un fazzolettino di carta che aveva preso in cucina. «Non è da ebrei bere. Così diceva mia madre. 'Dai,' diceva, 'dai, bevi come una goyim.'» Rise come se deridesse se stessa. «Io ero una a cui piaceva fare festa, sa? Mia madre mi diceva: 'Molly, il tuo problema è che ti piace troppo divertirti.'» Scrollò il capo. «Io e mia madre litigavamo sempre, è per questo motivo che me ne sono andata da casa. Preferivo vivere da sola.» Bevve un altro sorso. «La mamma aveva ragione, lo sa? Aveva ragione nel giudicarmi così.» Per un istante fissò il bicchiere quasi vuoto, poi posò lo sguardo su Frank. «Ma che cosa c'è di più bello di una festa? Che cosa c'è di male a divertirsi?» Rise di cuore. «Mia mamma non aveva una risposta a queste domande. Lavorava tutto il giorno, e quando non lavorava aspettava mio padre. Che senso aveva la sua vita? Me lo dica lei.» «Miss Karlsberg aveva due sorelle,» disse con gentilezza Frank, cercando di persuaderla a ritornare agli anni Trenta. L'anziana donna fece un cenno con il capo, lentamente, ritornando con riluttanza all'argomento precedente. «Naomi e Gilda,» disse senza riflettere, con lo sguardo fisso sul bicchiere. «Sa che cosa accadde loro?» «Ho sentito dire che Naomi si era sposata,» disse Molly. «Non so molto.» «Sa chi sposò?» «No.» «Dopo lo sciopero pare che Hannah sia sparita,» le disse Frank. «Ha idea di dove andò?»
La donna fece cenno di no. «A meno che non sia andata a lavorare al sindacato. Potrebbe controllare lì.» «Lei quando ha cominciato a lavorare per Constanza?» «Il tempo vola,» sospirò Molly. «Non ci crederà, ma io sono andata a lavorare per Nico nel 1957.» «E fu allora che incontrò ancora Hannah?» «Esatto,» confermò Molly. «La vidi circa tre settimane dopo. Un giorno venne in ufficio da Constanza. C'era un uomo con lei, e si erano messi a parlare non lontano dalla mia macchina. Parlò quasi sempre Hannah, ma ogni tanto l'altro uomo le parlava, in spagnolo.» «In spagnolo?» «Già,» confermò Molly, e rise. «Questo faceva arrabbiare Nico. Lui era italiano e non capiva una parola di spagnolo.» «Ma Hannah sì?» domandò Frank. «Oh sì,» affermò Molly perentoriamente, «e mi sembrava che lo parlasse proprio bene.» «Che cosa diceva all'altro uomo?» chiese Frank. «Non lo so,» disse Molly alzando le spalle. Buttò giù un altro sorso veloce di whisky. «La sola cosa che ricordo è la parola denaro; questo lo ricordo. Parlarono molto di soldi.» Si strofinò le mani soddisfatta. «Dinero, dinero, dinero,» ripeté ridacchiando. «Questa è l'unica parola di spagnolo che conosco.» «Sentì nient'altro?» insistette Frank. «In inglese, ovviamente?» Senza esitare la donna scosse il capo. «Nulla che io ricordi,» disse. Si colpì leggermente le orecchie con il palmo delle mani. «La fabbrica è un posto rumoroso,» disse, «c'è sempre un gran trambusto. Ci si distrae facilmente.» Sfilò una sigaretta dal pacchetto sul tavolo e l'accese. «Quel Nico era un vero porco. Tutti pensavano che io fossi la sua ragazza, lo sa? Lui aveva un debole per me. Ma io no, anche se la gente diceva il contrario. Mai. Per nulla al mondo mi sarei messa con un porco simile.» «Parlò spesso con Hannah nel periodo in cui lavorò per Constanza?» «Lei era sempre a Brooklyn,» disse Molly. «Non a Manhattan.» «E quando veniva a Manhattan?» «Sì, allora parlavamo,» ammise Molly. «Ma lei era molto chiusa. Non come quando era una ragazza.» «Di che cosa parlavate?» chiese Frank. «Di cose qualsiasi,» disse Molly. «Non ricordo esattamente. Lei non era un persona che amava divertirsi. Forse una volta lo era stata, ma da quando
lavorava per Nico, i giorni spensierati erano finiti.» Sorrise. «Indossava sempre abiti molto seri, da dirigente. Sa cosa intendo dire? Una gonna semplice, una camicetta e un giacchino.» Scrollò il capo. «Chiaramente non era una festaiola.» «Che tipo era?» «Era una donna d'affari, direi,» gli spiegò Molly. «Aveva l'aria di una persona che non fa stronzate.» Sorrise. «Anche ai vecchi tempi lei era così. Sa, di quelle persone con cui non si scherza facilmente e che non vogliono essere scocciate.» Frank annuì. «Tranne...» aggiunse Molly quasi timidamente, «tranne qualche volta...» «Che cosa, qualche volta?» domandò Frank. Molly scrollò il capo, buttò giù un altro sorso, alzò gli occhi verso il soffitto facendoli roteare e finì il contenuto del bicchiere. «Qualche volta non era così. Era completamente diversa.» «Che cosa intende dire?» «Nico parlava, ma era come se lei non lo ascoltasse affatto,» spiegò Molly. «Magari un minuto prima lo stava a sentire attentamente ma poi, come se fosse scattato qualcosa, lei diventava assente.» Guardò Frank come se stesse cercando di risolvere un mistero tremendamente complicato. «Come dice la canzone,» disse infine, «era persa tra le stelle. La sua mente vagava. Tu le parlavi, ma il suo sguardo era assente, fisso sulle macchine o sulle ragazze. Era come se fosse persa tra le stelle, come se non sapesse chi o che cosa fosse.» Lungo lo stretto corridoio che portava al suo ufficio, Frank si sentì pervaso da una strana stanchezza. Ripensava a Hannah bambina, che segnava con una matita rossa la data del suo compleanno sul calendario appeso al muro, poi la vide quando si presentò per la prima volta alla sartoria di Sol Feig vestita di bianco e poi, infine, risentì le sue parole in quel gelido inverno in Union Square: Ogni uomo è in debito con gli altri e il pagamento di questo debito è la giustizia. Frugò nella tasca per cercare le chiavi, aprì la porta lentamente e avanzò nell'oscurità della stanza. Per un attimo ebbe l'impressione di esserne inghiottito, come se avesse varcato il confine del mondo. Restò immobile fino a quando un rumore, molto leggero, non lo fece sussultare. Si irrigidì, la sua mano scattò verso la pistola ma un'altra mano afferrò la sua, torcendola con forza.
«Niente paura,» disse una voce, così vicino a lui che poté sentire nell'orecchio il calore del respiro. «Sono Farouk.» Improvvisamente si accese la luce, e Farouk mollò la presa. «Come sei entrato?» domandò Frank girandosi per vederlo in faccia. «Non è stato difficile,» disse Farouk. «Ti aspettavo. Mi sono addormentato sul tuo divano, poi ho sentito dei rumori, e ho visto solo un uomo nel buio. Non ero sicuro che fossi tu.» Frank tirò un profondo sospiro rilassandosi. «Bene. Che cosa vuoi?» Farouk, con aria innocente, alzò le spalle. «Devo volere qualcosa per forza?» Sorrise e aggiunse: «Forse ho solo voglia di compagnia.» Frank girò dietro la scrivania e si sedette. Farouk prese la sedia dall'altra parte. «Allora, che cos'hai scoperto?» «Non molto, per la verità,» ammise Frank accendendosi una sigaretta. «A parte il fatto che parlava spagnolo.» D'improvviso, gli occhi di Farouk brillarono come se qualcuno gli avesse acceso una candela proprio davanti. «Spagnolo?» chiese a bassa voce. «Parlava spagnolo?» «Già.» «Capirei l'yiddish,» disse Farouk. «Il polacco. O anche il russo o il tedesco, ma lo spagnolo?» «Non so dove lo ha imparato,» gli spiegò Frank. «E non so nemmeno perché.» «Talvolta si studia una lingua solo per curiosità,» disse Farouk. «È un modo per passare il tempo.» Sorrise leggermente. «Ricordi quelle fotografie nella stanza? Lei era sempre sola. Forse sentiva il bisogno di occupare il tempo libero.» «Mettendosi a studiare una lingua straniera?» «E perché no?» ribatté Farouk fissando Frank. «È anche il mio caso.» Alzò le mani in un gesto di impotenza. «Forse certe persone preferiscono dedicarsi ad altro. Al modellismo, magari. O agli sport, al whisky.» Frank non disse nulla. «Lo parlava bene?» chiese Farouk dopo un istante. «Pare di sì.» «Come se lo avesse appreso da persone che lo parlavano bene?» «Che cosa intendi dire?» «Non dai libri.» Frank scrollò il capo. «Tutto quello che so è che lo parlava correntemente.»
Qualcosa parve affiorare lentamente alla mente di Farouk. «Forse ti posso dare una mano per lo spagnolo.» «E come?» Farouk si alzò in piedi. «È tardi,» disse. «Devo dare una mano a Consuelo.» «Consuelo?» «Quella che voi chiamate Toby,» spiegò in fretta Farouk avviandosi alla porta. Sulla soglia si fermò un attimo e si voltò a guardare Frank. «Avevo proprio bisogno di compagnia, sai?» disse. Si girò di scatto e uscì. Quando Frank entrò in camera da letto, Karen stava ammirando davanti allo specchio il suo nuovo abito. Fece una graziosa giravolta, e il bordo del vestito si alzò formando un'onda leggera che presto ridiscese. «Che cosa ne pensi?» domandò. «È molto bello.» «È un regalo.» «Bello,» ripeté Frank mentre si abbandonava pesantemente sul letto. «Chi te lo ha regalato?» «Imalia Covallo,» esclamò Karen con entusiasmo. «I colori sono splendidi.» Accennò un passo di danza, e la gonna lunga e fluttuante ondeggiò a destra e a sinistra. «Lo stavo solo provando. Non lo indosserò a teatro questa sera.» Frank volse lo sguardo alla finestra. L'aria spessa e opprimente di quella sera gli ricordava l'atmosfera tetra dell'obitorio, e pensò a come ci si deve sentire chiusi dentro una cella frigorifera. Karen fece un altro giro su se stessa con allegria, contemplando il proprio abito. «Anche se devo dire che sono tentata.» Frank si voltò verso di lei. «Da che cosa sei tentata?» «Mi tenta l'idea di indossarlo questa sera a teatro,» disse Karen. «Ma è troppo ricercato.» Sorrise felicemente. «E poi Imalia dà un ballo di beneficenza domenica, e pensavo di indossarlo in quell'occasione.» «Dove?» «Al museo di Arte Americana,» disse Karen. «Sai, quello nuovo sulla Quinta Avenue.» Frank fece solo un cenno con il capo. «Imalia è un membro sostenitore,» spiegò Karen. Frank si distese sul letto, lasciando penzolare goffamente le gambe fuori della sponda. Chiuse gli occhi per un istante, e subito rivide il volto di
Hannah, con le labbra livide leggermente socchiuse come se stesse per risvegliarsi, lottando per cercare di ritrovare il respiro. «Ma dimmi,» chiese d'un tratto Karen, «hai poi trovato ciò che stavi cercando?» Frank spalancò gli occhi. Per un attimo pensò di farle la stessa domanda, ma non disse nulla. «Hai detto che dovevi trovare qualcosa per un caso,» aggiunse Karen. «Ah, sì,» ricordò Frank. «Qualcosa ho scoperto.» Karen smise di guardarsi allo specchio e sorrise allegramente. «Ne vuoi parlare?» «No.» «Ci tieni davvero molto, vero?» «A che cosa?» «Alla riservatezza.» «Sì.» «Ma talvolta deve essere difficile,» commentò Karen. Si sedette accanto a lui e fece scorrere le dita sul suo petto. «Deve essere difficile tenersi tutto dentro.» Lui chiuse gli occhi di nuovo. «Fa parte del mio lavoro,» dichiarò Frank. «Suppongo di sì,» convenne Karen, continuando ad accarezzarlo. Sentiva le sue dita soffermarsi leggermente sul proprio petto. «Vuoi venire con Jeffrey e me?» domandò. «No, vi ringrazio.» «Dicono che sia una commedia molto bella.» «No, grazie lo stesso,» rifiutò Frank, tenendo gli occhi chiusi. «È da molto tempo che non andiamo a teatro insieme,» disse Karen. «Questa sera preferirei di no,» le rispose Frank. «Credo che andrò a dormire.» Karen rise divertita. «Dormire? A mezzanotte sarai già fuori.» Frank si rotolò sul letto allontanandosi da lei. «Forse.» Sentì le sue dita allontanarsi, ma solo la parte più debole di sé desiderava ardentemente che tornassero ad accarezzarlo. 17 Quando la mattina seguente, alle nove in punto, si aprirono le porte del sindacato AGW, Frank stava già aspettando fuori. L'uomo che gli aprì parve sorpreso di vederlo. «Ha l'aria di aver aspetta-
to fuori tutta notte,» commentò. «Solo dalle otto di questa mattina.» «Qual è il problema? Non poteva rivolgersi alla sezione locale?» «Non si tratta proprio di una questione sindacale,» gli spiegò Frank. «No? E di che cosa, allora?» Frank gli mostrò la sua tessera di identificazione. L'uomo la guardò e non parve impressionato. «Investigatore privato, eh? A che cosa si interessa?» «Hannah Karlsberg.» «Chi è?» «Una donna che un tempo è stata membro del sindacato.» «Un tempo?» chiese l'uomo con sospetto. «Si spieghi meglio.» «Molto tempo fa.» L'uomo lo fissò senza fiatare. «Lo sciopero del '35,» aggiunse Frank. L'uomo finse di essere percorso da un brivido. «Ah, fu uno sciopero duro. I veterani lo ricordano ancora. Ma che cosa ha a che fare quella donna con lo sciopero?» «Lei era uno dei capi,» gli spiegò Frank. «Dove lavorava?» «Nel Lower East Side, in Orchard Street.» «Zona calda quella, mi dicono.» «Così mi è stato riferito.» «Bene, mi faccia vedere,» disse l'uomo avanzando nell'atrio. «Si tratta di una questione pensionistica?» «La donna è morta.» «Aveva diritto a delle indennità di morte?» «Non credo,» disse Frank, «ma non è di questo che mi sto interessando.» L'uomo girò intorno alla scrivania e si sedette. «Qual è il problema, dunque?» «È stata assassinata,» disse Frank. «E la polizia non rilascerà il corpo a meno che non sia un parente a farne richiesta.» «E lei sta cercando eventuali parenti?» «Esattamente.» L'uomo annuì. «D'accordo,» disse. «Prima di tutto la manderò su alla sezione registri. Secondo piano. Chieda di Benny Pacheco. È il capo della sezione. Gli dica che la manda Chickie Potamkin.» «Grazie,» disse Frank. Si avviò all'ascensore e salì al secondo piano.
Benny Pacheco distolse lo sguardo dallo schermo del computer quando vide entrare Frank nel suo ufficio. «Mi manda Mr Potamkin,» disse mostrando la sua tessera di riconoscimento. «Frank Clemons.» Pacheco la guardò un attimo, poi alzò lo sguardo su Frank. «Che cosa posso fare per lei?» «Si tratta di una donna che un tempo era membro del sindacato,» disse Frank, «il suo nome era Hannah Kovatnik.» «In che anno si è associata?» «Non lo so con certezza. Partecipò allo sciopero del 1935.» Pacheco annuì. «È passato molto tempo da allora. È ancora viva?» «No, è morta.» «Sa per quanto tempo è rimasta nel sindacato?» «No, non lo so.» «Bene, tutti i registri sono qui,» disse Pacheco voltandosi verso lo schermo. «Qualcosa dovrebbe risultare.» Batté leggermente sulla tastiera, tenendo lo sguardo fisso sullo schermo. «Ecco qui,» disse dopo un attimo. «Hannah Kovatnik. Ha lavorato per la Sol Feig Clothing Manufacturers dal 1932 al 1936.» Guardò Frank. «È lei la donna che cerca?» «Sì, è lei.» «Che cosa vuole sapere di lei?» «Tutto ciò che mi può dire.» «Viveva in Orchard Street,» cominciò Pacheco. «Sembra che abitasse nello stesso edificio in cui si trovava la fabbrica.» Guardò Frank. «Lo sapeva?» «Sì.» Il suo sguardo tornò a posarsi sullo schermo. «Non ebbe incidenti sul lavoro, per quanto posso dire io. Non ci ha mai presentato alcun reclamo.» Premette un tasto del computer. «Non ha mai lavorato negli uffici del sindacato ma era sindacalista nella fabbrica in cui lavorava. E, ovviamente, per questo non veniva retribuita.» Frank annuì. «È rimasta nel sindacato per tre anni,» continuò Pacheco, «e nel settembre 1936 fu mandata via.» Si voltò verso Frank e concluse: «È tutto.» «È stata mandata via?» chiese subito Frank. «Vuol forse dire che se ne è andata?» «No, voglio dire che è stata cacciata. Fu eliminata dall'elenco degli i-
scritti.» Frank lo guardò con aria interrogativa. «Il sindacato è come un'altra qualsiasi associazione,» spiegò Pacheco. «Ha le sue regole. E a quanto pare, Miss Kovatnik non le ha rispettate.» «Di che regole sta parlando?» «La prima cosa è pagare la quota,» disse Pacheco. «Se non paghi, te ne vai.» «E questo è il caso di Hannah Kovatnik?» «No,» disse Pacheco muovendo gli occhi sullo schermo. «E che cosa accadde allora?» Lo sguardo di Pacheco si spostò velocemente sull'angolo a sinistra dello schermo. «È stata mandata via perché non si conformava all'etica del sindacato,» disse con tono risoluto. «A che cosa non si era conformata?» domandò Frank estraendo il suo taccuino. «Non si era conformata all'etica del sindacato,» ripeté Pacheco, alzando gli occhi verso Frank. «Non è una spiegazione molto esauriente,» disse. «È una specie di rifugio che permette al sindacato di sbarazzarsi delle persone con le quali per varie ragioni non vuole più avere a che fare. Potrebbero cacciarti, perché, per esempio, ti sei ubriacato, o perché sei troppo violento, o troppo radicale, o perché sei una persona non troppo gradita. Praticamente, per qualsiasi motivo.» «Ma quale fu esattamente il caso di Hannah?» domandò Frank. «Nel mio computer non è inserito questo tipo di informazioni,» precisò Pacheco. «Questo è un programma di base, chi è dentro e chi è fuori. Reclami, posizione sanitaria. Tutte cose di questo tipo.» Lanciò un'occhiata a Frank. «C'è un numero di codice, tuttavia, che ci fornisce dati generali. L'espulsione di Miss Kovatnik, per esempio, è classificata con il numero sette, che significa che aveva violato l'etica.» Frank prese dalla tasca della giacca il giornale del sindacato e lo aprì alla pagina in cui era pubblicata la fotografia di Hannah in Union Square. «Ho portato questa con me,» disse. «Può dargli un'occhiata?» Pacheco guardò la fotografia. «È lei?» «Sì,» disse Frank con convinzione. «Parlò al comizio. Scriveva sul vostro giornale. Qualcuno ha anche scritto un articolo su di lei.» «Di tutto ciò non risulta nulla dal computer,» gli spiegò Pacheco. «A meno che non avesse ricevuto un compenso.» «Capisco.»
«Ma con questo non voglio dire che non ci siano altri schedari,» aggiunse subito Pacheco. «Siamo pieni di scartoffie. Solo che la maggior parte sono conservate nell'archivio.» «Dove?» «Al dipartimento di ricerca,» disse Pacheco. «Vorrebbe provare a darci un'occhiata?» «Sì, volentieri.» Pacheco andò al telefono e formò un numero di sole due cifre. «Salve, Harry. Hai un minuto di tempo? Sì, sì. C'è qui un certo Mr Clemons, un investigatore privato che sta indagando su un nostro ex membro. Non lo so. Sì, Hannah Kovatnik.» Riappoggiò il ricevitore. «Viene subito,» disse. Un attimo dopo, Frank vide entrare nell'ufficio di Pacheco un uomo alto, piuttosto anziano, con un abito azzurro chiaro. Era robusto, con un torace ben sviluppato, e Frank pensò che in gioventù doveva aver avuto un aspetto prestante. Anche ora, con i capelli brizzolati e il portamento leggermente ricurvo, aveva l'aspetto di un uomo che non deve chiedere le cose due volte. «Sono Harry Silverman,» disse tendendo la mano a Frank. «Harry è lo storico del sindacato,» lo lodò Pacheco. «Vero, Harry?» Harry sorrise. «Dipende da quanta vodka ho nello stomaco.» Guardò Frank. «Qual è il suo nome?» «Frank Clemons.» «E che cosa sta cercando?» «Come le ha detto Mr Pacheco,» gli spiegò Frank, «sto cercando di risalire a una persona che era membro del vostro sindacato.» «Di solito non è un problema,» puntualizzò Silverman. «Ma oggi è un po' diverso. Mi hanno detto che una certa persona è momentaneamente assente e io devo approfittare subito della situazione.» Diede un'occhiata all'orologio. «Senta, se a lei non spiace fare un giro in macchina, le chiedo di accompagnarmi.» Frank annuì con il capo. «Per me va bene.» «Dobbiamo andare fuori Brooklyn, verso Coney Island. Saremo di ritorno tra un paio d'ore. È troppo tardi per lei?» «No, va bene.» «D'accordo,» esclamò Silverman. «Andiamo.» Frank scese dietro Silverman per la scala sul retro. I due uscirono e girarono l'angolo, fermandosi accanto a una Ford ultimo modello, color verde scuro.
«Salga,» tuonò Silverman aprendo la portiera del passeggero. «È un'auto americana. Una delle poche rimaste a New York.» Frank si accomodò sul sedile anteriore e poi attese che Silverman girasse intorno all'auto con passo svelto, salisse e mettesse in moto. «Un'auto americana,» ripeté Silverman sospirando. «Noi del sindacato compriamo americano.» Sorrise ma con aria pensierosa. «Abbiamo ancora qualche idea buona nella testa.» Non lontano da Union Square svoltò verso est per immettersi sulla statale. «È vero che le cose cambiano,» ammise. «Una volta, il settore dell'abbigliamento era unicamente nelle mani degli ebrei.» Scrollò il capo. «Adesso ci sono i messicani, gli haitiani, gli orientali, alcuni in regola, altri no. Le vecchie rocce come me finiscono per sentirsi isolate.» Fece un sorriso sbarazzino. «Ma al diavolo! È così che si fa la storia. Noi ci dobbiamo adattare, e non dimentichiamoci di una cosa, la solidarietà. Finché c'è comunanza di interessi, c'è spazio per tutti.» «Lei credeva in queste idee,» disse Frank. «Ha tenuto molti discorsi su questo argomento. Mi riferisco a Hannah.» «Hannah Kovatnik,» ripeté Silverman pensieroso. «Questo nome mi ricorda qualcosa.» Scrollò le spalle. «È chiaro che dire che sono lo storico del sindacato è come dirmi che non valgo una merda. Storico. È così che chiamano i vecchi organizzatori suonati che non sono più efficienti.» Scrollò il capo. «Ma io non sono ancora arrivato a questo punto.» «Hannah partecipò allo sciopero del 1935,» gli precisò Frank. Silverman si oscurò in viso. «Quello fu uno sciopero duro,» disse. «Freddo, neve e tutta quella gente a gelarsi il culo per ottenere una paga decente. Circa i tre quarti delle fabbriche d'abbigliamento avevano chiuso. Lei si immagini che casino.» Fece una smorfia. «E la polizia? Gesù. Sarebbe stato meglio avere a che fare con gli unni piuttosto che con quei fottuti irlandesi.» Frank non disse nulla. Silverman voltò lo sguardo verso Frank. «Se lei è irlandese, senza offesa naturalmente.» «Lei lavorava in una fabbrica di Orchard Street,» aggiunse Frank. «Come molte altre persone.» «Credo che lei fosse un po' il capo.» «Davvero?» disse Silverman. «Perché si interessa tanto a lei? Saperlo mi aiuterebbe a cercare negli archivi.» «Due settimane fa è stata assassinata,» disse Frank. «La polizia non rilascia il corpo. Deve essere un parente a richiederlo, e io ne sto cercando u-
no.» «Non sembra difficile.» «Di solito non lo è,» spiegò Frank. «Ma per Hannah è diverso.» «Perché?» «L'unico legame sono due sorelle,» disse Frank. «Ma non riesco a rintracciarle.» «Erano nel sindacato?» «Non lo so.» «Conosce i loro nomi?» «Naomi e Gilda.» «Cognome Kovatnik?» «Almeno fino a quando non si sono sposate,» considerò Frank. «È già un inizio,» disse Silverman. «Farò fare a Benny un controllo di routine sul computer e poi controllerò nei miei schedari.» «Lo apprezzo molto,» ringraziò Frank. Silverman rise. «Lei è forse del Sud?» «Sono di Atlanta.» Silverman scosse il capo stancamente. «Laggiù siete testardi, voi. Tu dici 'sindacato' e loro capiscono 'bastardo ateo comunista'.» «Già.» «Tuttavia stiamo facendo progressi,» aggiunse Silverman. «Ma è una battaglia difficile.» Alzò le spalle. «Ovviamente, non c'è nulla di nuovo in ciò che dico.» Frank assentì con il capo. Silverman ritornò sull'argomento. «E così,» disse, «a parte ritrovare le sorelle, che cosa ha in mente di fare?» «Cercare di ricostruire la vita privata di Hannah,» disse Frank. «Vedrò cosa riesco a fare.» «Fino a dove è arrivato?» «Fino alla primavera del 1936; poi ho un buco fino al 1954.» «Ci sono quasi vent'anni,» osservò Silverman. «Sono parecchi.» «Sì, è un vuoto piuttosto lungo,» ammise Frank. Silverman si inserì nel traffico veloce della statale. «Come posso aiutarla?» domandò. Frank estrasse il suo taccuino e cominciò a sfogliare le pagine. «Ho bisogno di sapere che cosa fece dopo lo sciopero,» disse. «Da chi andò a lavorare, e così via.» «In tal caso non credo che potremo aiutarla molto,» ammise Silverman
con franchezza. «Quando se ne vanno, non manteniamo più i contatti con loro.» «Non aveva amici con i quali può essere rimasta in contatto?» domandò Frank. «Qualcuno che possa riempire il vuoto di quegli anni, o che magari conosceva le sue sorelle?» Silverman annuì con il capo in silenzio mentre percorrevano la rampa che conduceva sull'imponente ponte di Brooklyn. «Il fatto,» disse Frank vagando con lo sguardo sul porto, verso la Statua della Libertà e più in là, verso le rovine di Ellis Island, «il fatto è che non so esattamente che cosa accadde, non so nemmeno che lavoro facesse, né perché lo abbandonò.» D'un tratto il volto di Silverman si oscurò guardando fuori le grigie file di depositi e magazzini che costeggiavano il porto. «Riguardo a quest'ultimo interrogativo forse posso aiutarla,» disse calmo. «Almeno, credo di poterle dare un'idea.» 18 Silverman arrestò l'auto in un piccolo parcheggio sul retro di un edificio, non lontano dalle strade tortuose di Coney Island. «Questa è una fabbrica calda,» disse scendendo dall'auto e chiudendo la portiera. «Sa che cosa significa?» «Che vi sono molte proteste,» disse Frank. Silverman sorrise. «Come fa a saperlo?» «È emerso più di una volta a proposito di Hannah.» «Immagino che nel 1935 la fabbrica dove lavorava fosse molto calda.» «Sì, infatti.» «A quei tempi la maggior parte lo era,» commentò Silverman. «Allora la cosa peggiore che potesse capitare era perdere il lavoro, o forse farsi staccare la testa da un fottuto delinquente.» Scrollò il capo con aria mesta. «Era brutto, ma oggi è anche peggio. Mi riferisco ai clandestini. Con loro è questione di vita o di morte. Creano problemi sindacali, e i proprietari hanno un bel da fare a consegnarli all'ufficio immigrazione: finisce che vengono rispediti in qualche repubblica delle banane dove devono dormire in strada ed elemosinare l'acqua da bere. Per alcuni significa prigionia, tortura, e un colpo in testa.» Frank annuì. «Così in situazioni come queste,» aggiunse Silverman, «non sono possi-
bili proteste legali, perché la gente che lavora qui ha troppa paura.» «Ma allora lei che cosa fa?» domandò Frank. «Faccio quello che fa lei: investigo,» spiegò Silverman. «Sappiamo poco di come vanno le cose qui, e vorremmo saperne di più.» Silverman annuì tra sé, poi si diresse verso l'unica porta dell'edificio. «Questo schifo è di proprietà di qualche pezzo grosso di Long Island. È pieno di clandestini, ma a noi non importa. Ci interessa invece il modo in cui vengono trattati.» Si fermò davanti alla porta e guardò Frank. «Se qualcuno fa domande, lei dica che è un rappresentante di macchine per cucire, d'accordo?» «D'accordo.» Silverman bussò con forza alla porta di ferro, poi si fece indietro quando la vide aprirsi. Un robusto uomo di colore apparve sul piccolo ballatoio. «Sì?» Silverman sorrise allegramente e consegnò all'uomo un suo biglietto da visita. «Mi chiamo Gianelli,» disse, «sono un rappresentante delle macchine per sartoria Dothan.» «Adesso siamo piuttosto occupati,» disse l'uomo con aria sospettosa. «Già, fa parte del commercio, giusto?» esclamò Silverman. «Per non parlare dello stile di vita americano, se capisce cosa voglio dire.» L'uomo non disse nulla. «Gestisce lei questo posto?» chiese Silverman. «No.» «Lo gestisce un tizio di nome Bowler, vero?» «Sì, Mr Bowler.» «C'è adesso?» «No.» Silverman parve sorpreso. «Merda! È strano perché Mr Cavanaugh... lui è il proprietario di questa fabbrica, vero? Mr Luther Cavanaugh? Se no, vuol dire che forse ho sbagliato posto.» «Mr Cavanaugh è il proprietario.» «Già, perché il capo mi ha detto,» continuò Silverman, «di essere interessato a migliorare tutta l'attrezzatura. Ha chiesto lui che venisse inviato qui un rappresentante.» «Io non ne so nulla.» «No? Ma Mr Bowler sì, però. Perché non lo chiama?» «È in Florida,» disse l'uomo. «Gli è venuto un infarto mentre si trovava laggiù.»
«Davvero? Un infarto. Mi dispiace.» «È in terapia intensiva.» «Davvero?» disse dispiaciuto Silverman. «È anziano?» «Credo che abbia circa sessant'anni.» «Bene, gli porga i miei migliori saluti,» disse Silverman. «Ma, come si dice, la vita continua, e Mr Cavanaugh mi ha chiesto di venire a dare un'occhiata al posto e fare un preventivo dei costi per un eventuale miglioramento dei macchinari.» Sorrise con aria rilassata. «Mi sorprende che Mr Bowler non gliene abbia parlato prima di partire.» «Aveva molte cose per la testa, credo,» lo difese l'uomo. «Come tutti noi,» convenne Silverman. «Allora cosa ne dice? Posso dare un'occhiata in giro?» L'uomo lo fissò perplesso. «Solo pochi minuti,» lo rassicurò Silverman. «Sono un vecchio esperto. Non dovrà fermare la lavorazione. Le assicuro che non perderà un secondo di produzione.» L'uomo diede un'altra occhiata al biglietto da visita. «Va bene,» concesse. «Entrate pure.» «Grazie mille,» disse Silverman avviandosi con passo veloce all'interno del capannone. Il retro dell'edificio era immerso in un'atmosfera spessa e grigia, e Frank entrando dietro Silverman ebbe l'impressione di essere avvolto in una sudicia cappa opprimente. «Che cosa vuole vedere?» chiese l'uomo a Silverman. «Come funziona la lavorazione,» rispose semplicemente Silverman. «Devo rendermi conto del ritmo di taglio, cucitura, smistamento. Fate spedizioni?» «Solo piccoli carichi,» rispose l'uomo. «Non abbiamo grossi camion.» Silverman gli sorrise come fossero due cospiratori. «Ho capito,» disse. L'uomo parve rilassarsi un poco. «Usiamo delle station wagon,» disse, offrendo per la prima volta un'informazione volontariamente. «Sì, è il modo migliore,» disse Silverman con comprensione. «I furgoni sono più pericolosi.» L'uomo annuì entusiasta. Silverman, con un leggero schiocco, riunì le mani e propose: «Diamo un'occhiata in giro, allora?» L'uomo indicò con la mano uno stretto passaggio illuminato. «Da questa parte,» disse facendo strada.
Al di là della porta improvvisamente l'oscurità scomparve e li investì lo sferragliare delle macchine. «Ah, sì. Ha un aspetto familiare,» disse Silverman entrando nel reparto principale della fabbrica. Sorrise. «Sembra proprio che qui abbiate roba un po' vecchia.» Guardò Frank e sogghignò. «Che cosa ne dici, Mitch?» Frank annuì. «Sì, piuttosto vecchia,» grugnì. «Lui è Mitch Donovan,» disse Silverman all'uomo. «Non ho capito il suo nome.» «Pete Crawford.» Silverman gli tese la mano. «Piacere di conoscerla.» Poi tornò a guardare il reparto. «Da quanto tempo lavora qui, Pete?» «Da quattro anni.» Silverman tirò un lungo sospiro. «Bene, io sono in pista da quasi quarant'anni.» Rise. «Da più tempo di alcune di queste maledette macchine.» Si fece avanti, socchiudendo gli occhi nella luce violenta. «Avete una bella forza lavoro qui.» «Se la cavano bene,» disse Crawford. «Hanno dita veloci, vero?» «Abbastanza veloci, direi.» Silverman rise. «Già, con questi relitti, devono essere veloci per forza.» Lanciò un'occhiata a Crawford e sorrise. «Perché, se non lo fossero, si cucirebbero le dita, giusto?» I due scoppiarono insieme in una fragorosa risata, poi Silverman andò verso il centro del locale e camminando guardò in giro a destra e a sinistra. Intorno a lui uomini e donne lavoravano alle macchine per cucire e le loro mani correvano rapidamente dall'ago alle pezze di tessuto che stavano impilate ai loro piedi. «Queste vecchie macchine lavorando a pieno ritmo emettono calore,» disse Silverman proseguendo lungo la sala. Si voltò verso Crawford e aggiunse: «In estate si lamenteranno ma in inverno terranno la bocca chiusa. Vero, Pete?» Crawford annuì. «Esatto.» «La gente vuole avere tutto,» aggiunse Silverman. «Ma è un problema loro.» «A noi non interessano le lamentele,» disse Crawford inflessibile. Sulle labbra di Silverman apparve un sottile sorriso. «Basta chiedere di mostrarti i documenti,» disse. «Questo li fa tacere abbastanza in fretta.» Mosse alcuni passi in avanti, poi alzò il capo leggermente verso l'alto e i-
spezionò con cura il reparto, disegnando lentamente un ampio giro. «Il problema di una fabbrica come questa, Pete,» pontificò Silverman, «è che se cambi un pezzo devi cambiare tutto.» Guardò Frank. «E noi guadagniamo. Vero Mitch?» «Vero.» Silverman si strofinò il mento. «Questo posto può essere migliorato,» disse a Crawford. «Non vi è alcun dubbio. Ma verrà a costare parecchio. Capisce cosa intendo?» «Tutto costa molto,» convenne Crawford. «Sì, è vero,» disse Silverman. «È proprio così. Ma spesso chi più spende meno spende.» Di nuovo lanciò un'occhiata in giro. «Prendiamo per esempio la forza lavoro. Quante persone lavorano qui?» «Ventidue,» disse Crawford. «Vuol dire in questo turno?» «Sì, certo.» «Quanti turni fate, tre?» «Due.» «Di dodici ore l'uno?» «Esatto.» Silverman finse di fare una serie di calcoli. «Bene,» disse infine, «io potrei fare in modo che i vostri costi scendano di un terzo. Significherebbe almeno di dieci unità.» Fissò Crawford. «Il che porterebbe a un risparmio di...» Si interruppe. «Quanto è la paga, Pete?» «In media settanta dollari,» rispose immediatamente Crawford. «Alla settimana?» «Circa ogni nove giorni.» Frank vide il volto di Silverman contrarsi di rabbia per un istante, ma immediatamente dopo rilassarsi e sorridere apertamente. «Sì, potrei farvi risparmiare,» prospettò. «Non vi è alcun dubbio.» Diede un'occhiata all'orologio e disse: «Bene, le ho detto che avrei verificato in due minuti. Ha visto che non dico bugie?» Pete sorrise con soddisfazione. «È vero.» Silverman si girò verso Frank. «Hai domande da fare, Mitch?» «No, nessuna.» Silverman appoggiò il braccio sulla spalla di Crawford e lo guidò verso la porta sul retro. «Bene, ci terremo in contatto con Mr Bowler, Pete,» disse. «Grazie per averci permesso di entrare. Sarebbe stato un vero peccato essere venuti fin qui per nulla.»
«Non si preoccupi,» lo rassicurò Crawford. Si strinsero la mano nel parcheggio, poi Silverman si diresse verso la sua auto. «Vuole mangiare un panino, Frank?» domandò allegramente sedendosi al volante. 19 Silverman diede un morso al suo panino, poi bevve un sorso dalla lattina di birra che stringeva tra le ginocchia. «Mi piace il lungomare,» disse mentre i suoi occhi guardavano ora le bancarelle di cibarie, ora le esibizioni degli artisti di strada. «La gente dice che è un luogo volgare.» Sorrise. «Ma che cosa ne sa la gente della vita vera, Frank?» Bevve un altro sorso dalla lattina. «Io sono nato da queste parti, e ogni volta che ci torno mi ricordo di quando assieme a mio padre salivamo sulle giostre. Lui moriva di paura, ma ci andavamo lo stesso.» Si pulì la bocca con il tovagliolo di carta. «Suo padre è ancora vivo?» «No.» «E sua madre?» «Non lo so, se ne andò via.» «Ha preso e se n'è andata, proprio così? Di solito sono i padri a comportarsi in questo modo.» «Quella volta no,» precisò Frank guardando lo spettacolo di fronte a lui. Un uomo con un gilet a colori sgargianti richiamava il pubblico; accanto a lui, una donna di colore con un lungo serpente e un uomo incappucciato con le braccia e il petto coperti di tatuaggi. «Se ne andò lei,» aggiunse. «Non so dove.» «Forse è meglio così,» disse Silverman scrollando le spalle. «Mia madre morì quando avevo dieci anni, e così il mio vecchio e io rimanemmo soli. Vendeva scarpe fino a quando decise di smettere. Odiava le scarpe. In casa girava a piedi nudi.» Frank rise. «È la pura verità,» insistette Silverman. «La prima cosa che faceva quando rientrava in casa, sia in estate sia in inverno, era togliersi quelle fottutissime scarpe. E lasci che le dica una cosa: non era il tipico gesto da ebreo, voglio dire come sedersi shiva, a piangere la morte di qualcuno.» Si interruppe per guardare un'anziana donna frugare nel cestino della spazzatura alla ricerca di lattine o di bottiglie da poter vendere a cinque centesimi l'una. «Questa donna che lei sta cercando,» disse, «questa Hannah Kovatnik, che cosa sa di lei?»
«Non molto,» gli spiegò Frank. «Fu una dei capi dello sciopero del '35. Veniva dalla Polonia, da un piccolo paese vicino a Bialystok. Suo padre era il rabbino della sinagoga della Quinta Strada. Aveva due sorelle, Naomi e Gilda. Quando il padre morì lei andò a lavorare in Orchard Street. Fu lei a portare avanti lo sciopero nella fabbrica dove lavorava. Poi scomparve. Pacheco dice che fu buttata fuori dal sindacato per violazione dell'etica.» Silverman fece un gesto con la mano. «Questo può voler dire qualunque cosa.» «Così mi ha detto anche Pacheco.» «E le sorelle?» disse Silverman. «Lavoravano anche loro in fabbrica?» «Sì, entrambe.» «Sa per quanto tempo?» Frank scosse il capo in segno di impotenza. «Quando torniamo in ufficio posso controllare,» promise Silverman. «Nient'altro?» «Vorrei trovare qualcuno che l'abbia conosciuta,» aggiunse Frank. «Qualcuno che possa dirmi dove trovare le sue sorelle.» «Mi ha detto che è sparita, ma deve pur essere saltata fuori di nuovo.» «Sì, nel 1955.» «E che cosa faceva?» «Lavorava per la Maximum Imports.» «La società di Nico Constanza,» esclamò subito Silverman. «Ne ha sentito parlare?» «Certo.» Frank estrasse il suo taccuino. «Chi è esattamente questo Constanza?» «Era un poco di buono,» dichiarò Silverman senza esitare. «Aveva molti legami, e si è sentito dire che ogni tanto per risolvere le questioni di lavoro più difficili faceva lavorare i muscoli. Molti anni fa era soltanto uno dei tanti picciotti che frequentavano Broome Street a Little Italy. Sa, uno di quelli che passano le ore a guardare i vecchi giocare a bocce, forse facendo qualche commissione all'ippodromo. Poi entrò nel commercio vendendo appendiabiti, dopo di che riuscì a inserirsi nel settore manifatturiero.» Sorrise. «Ma come molti delinquenti di strada, non aveva autocontrollo. Una volta regolò personalmente una questione con uno dei nostri, e dato che un procuratore distrettuale ci doveva un favore riuscimmo a mandare Constanza in galera per un paio d'anni. Spaccò pietre per diciotto mesi, poi tornò fuori.»
«Ma non per molto,» osservò Frank. Silverman fece un largo sorriso. «Così l'ha saputo.» «Una questione di tasse.» «Già,» disse allegramente Silverman. «Quel miserabile porco andò ad Atlanta con una condanna a otto anni. Ne fece dentro quattro, poi fu freddato da uno psicopatico nelle docce comuni.» I suoi occhi brillarono. «Può immaginare quanti abbiano pianto la sua morte.» Finì il panino e chiese: «Per quanto tempo ha lavorato per lui quella donna?» «Fino al 1968.» «Quando lui fu spedito al penitenziario federale di Atlanta.» «Esatto.» «Poi che cosa ha fatto?» «È andata a lavorare per Imalia Covallo.» Silverman voltò lo sguardo verso il mare. «È per lei che sta lavorando?» «Sì.» «Perché a Miss Covallo interessa tanto quella donna?» «Hannah aveva lavorato per lei per molti anni,» disse Frank. «Miss Covallo desidera che abbia una sepoltura dignitosa.» «Ha un cuore d'oro,» ironizzò Silverman. «Perché, lei sa qualcosa?» Silverman scrollò il capo. «Veramente no. Per quanto ne sappiamo gestisce affari puliti. Per essere nel campo dell'abbigliamento...» «Che cosa significa?» «Che è un mondo spietato, Frank,» spiegò Silverman. «E quando il margine di guadagno è incerto e la produzione costa cara, allora si cerca in qualche modo di mandare avanti la baracca con qualche spintarella e qualche licenziamento.» «Miss Covallo ha avuto bisogno di spintarelle?» «Né più né meno degli altri,» spiegò Silverman. «Anzi, il suo caso è meno rilevante di altri. Come le ho detto, è abbastanza pulita, credo.» Bevve l'ultimo sorso di birra e appoggiò la lattina accanto a sé sulla panchina. «Abbastanza?» chiese Frank. Silverman lo guardò. «Perché, si aspetta di più? È così che va il mondo, amico mio. Se vai con lo zoppo impari a zoppicare.» Guardò verso il mare aperto e ridendo con amarezza disse: «Prenda a esempio quello stronzo che ci ha mostrato la fabbrica oggi. Non ha nient'altro se non quel lurido lavoro. Non vive certo molto meglio dei disgraziati che comanda, e magari vi-
ve pure nel loro stesso quartiere. Tornando a casa dalla fabbrica potrebbe essere assalito dallo stesso psicopatico. Ma non importa, è un uomo di Cavanaugh. Se Cavanaugh dovesse finire nel bagagliaio di una macchina con un buco nella schiena, lei sa che cosa intendo dire, lui sarebbe disperato, ma se dieci clandestini cadono a terra stecchiti lui se ne lava le mani.» Si voltò improvvisamente, disgustato delle sue stesse parole, tirò un profondo sospiro e distolse lo sguardo dal mare riportandolo sulle giostre. «È solo questo che la gente desidera,» esclamò con veemenza, indicando le giostre con il dito. «Non vogliono altro che poter andare al parco con i bambini e spendere quei pochi dollari senza badar troppo al centesimo.» Guardò Frank. «Non mi sembra che chiedano molto, buon Dio.» «No, ha ragione.» Silverman si alzò e si incamminò sul lungomare. «Ai miei tempi, questo posto era in mano agli ebrei,» ricordò mentre Frank lo raggiungeva. «Come anche il settore dell'abbigliamento. Solo ebrei.» Si avvicinò a un cestino dei rifiuti e vi lasciò cadere dentro la lattina, poi proseguì verso il grande groviglio d'acciaio dell'ottovolante. «E quando le cose cambiarono, nel settore e nel quartiere,» aggiunse, «devo ammetterlo, mi dispiacque un po'. Ma sa, quand'ero un ragazzino mio padre mi leggeva un passo di Shakespeare, dal Mercante di Venezia, in cui si dice: 'Forse un ebreo non ha questo, forse un ebreo non ha quello?' Sa, si parla di sentimenti, di desideri. Io non ho fatto altro che sostituire la parola ebreo: forse un arabo non ha questo, forse un cinese non ha quello? Questo mi serviva a ritrovare il mio buonumore.» Frank annuì con il capo, poi alzò lo sguardo e vide i vagoncini dell'ottovolante fare il loro primo fragoroso tuffo, e gli parve che le urla delle persone che vi erano sopra si fondessero in un unico lungo e interminabile grido. Nella biblioteca del sindacato regnava il più assoluto disordine, ma Silverman sapeva dove mettere le mani. «Qui sono raccolti tutti i numeri del giornale del sindacato,» disse indicando una lunga fila di scaffali metallici. «E c'è molta corrispondenza.» Indicò la parete opposta, dov'erano allineati un gran numero di schedari. «Laggiù conserviamo i ritagli dei giornali, schedandoli per anno e argomento.» Si appoggiò a una porta di metallo verde. «Invece qui teniamo i vecchi contratti e altre scartoffie.» Fece un gesto con la mano e aggiunse: «Ma, per cominciare, possiamo
controllare le sorelle nello stesso modo in cui Benny ha controllato Hannah.» Andò verso una piccola scrivania in un angolo in fondo alla stanza e si sedette alla tastiera del computer. «Mi ripeta i loro nomi.» «Naomi Kovatnik,» disse Frank. «Solo un attimo.» Silverman cominciò a battere, e Frank si mise alle sue spalle per guardare lo schermo. Per un momento sparì il quadro, poi apparve un messaggio. ARGOMENTO NON VALIDO. CONTROLLARE LA GRAFIA. Silverman guardò Frank. «Aveva altri nomi?» domandò. «No.» «Si è mai sposata?» «Credo di sì,» disse Frank. «Ma non sono riuscito a saperlo con certezza.» «Okay,» disse Silverman con una scrollatala di spalle. «E l'altra sorella?» «Gilda Kovatnik,» disse Frank. «G-I-L-D-A,» ripeté Silverman scandendo le lettere mentre le scriveva. Di nuovo lo schermo si oscurò per pochi istanti, poi il nome apparve in piccole lettere di color ambrato. «Eccola qui,» disse Silverman, sporgendosi in avanti. «Dice che è stata un membro con posizione regolare all'interno del sindacato fino al 1936.» Guardò Frank. «E poi se ne andò.» «Se ne andò da dove?» «Dal sindacato.» «Lo stesso anno in cui Hannah fu mandata via,» osservò Frank. «Se ne andò spontaneamente?» «Sì,» disse Silverman. «Avrà deciso di seguire un'altra linea.» Batté un tasto, e poi di nuovo lo schermo si oscurò. «Non è più tornata nel sindacato.» Con il dito indicò l'angolo in basso a destra dello schermo. «C'è un'altra cosa,» disse. Frank si avvicinò allo schermo e chiese: «Che cosa?» «È morta.» Frank fissò la piccola M in fondo allo schermo e la data che vi era scritta accanto: 12 SETTEMBRE 1954. Immediatamente sotto, vi era un ultimo dato: LD: SAN JORGE, COLOMBIA. «Che cosa significa LD?» chiese subito Frank. «Luogo del decesso,» gli spiegò Silverman. Frank estrasse il suo taccuino e prese nota. «Come fate a sapere che è morta?»
Silverman batté un altro tasto. «Già, proprio come immaginavo,» disse come se parlasse con se stesso. «Che cosa?» Silverman annuì guardando lo schermo. «Qualcuno ha presentato un'istanza di indennità di morte.» «Si tratta di un'assicurazione?» «Forse, ma è più probabile che si tratti di una richiesta d'assistenza per le spese di sepoltura. In questo caso lei non ne aveva diritto, e la domanda non è stata accettata.» «Perché?» «Non è stata membro del sindacato abbastanza a lungo,» spiegò Silverman. «Solo pochi anni non bastano per ottenere un'indennità per i funerali.» Frank lanciò un'occhiata veloce allo schermo. «Chi ha presentato la richiesta di indennità?» Silverman batté alcuni tasti e sullo schermo apparve un nome: JOSEPH FISCHELSON. Silverman inserì il nome nel computer, ma non apparve nulla. «Una cosa è certa: chiunque lui sia, non è mai stato membro del nostro sindacato.» Tirò un lungo sospiro di noia. «Bene, Frank, questo è tutto ciò che posso sapere con il computer.» Frank annuì. «Già.» «Ma possiamo cercare in altri modi,» disse Silverman strizzando l'occhio. Si alzò in piedi di scatto ed entrò nella piccola stanza alle sue spalle. «Questi problemi di etica,» disse passeggiando davanti agli schedari di metallo. «Quando si sono verificati esattamente?» «È stata buttata fuori del sindacato nel marzo del 1936,» precisò Frank. Silverman estrasse un cassetto dello schedario, scorse rapidamente una fila di buste impolverate, ne estrasse una e l'appoggiò sul piccolo tavolo di legno situato al centro della stanza. «Questo dovrebbe dirci qualcosa,» asserì mentre si sedeva e l'apriva. Frank prese l'altra sedia e si sedette accanto a lui, mentre le tozze dita di Silverman sfogliavano le carte. «C'è stata un'udienza disciplinare,» disse infine Silverman mettendo da parte una busta bianca che passò a Frank. Qualcuno vi aveva scritto sopra il nome di Hannah a chiare lettere, con inchiostro nero; sotto, con un inchiostro blu e una calligrafia più minuta, qualcun altro aveva posto la paro-
la «confidenziale». «Che cos'è un'udienza disciplinare?» s'informò subito Frank. «Qualcuno ha presentato un'accusa contro di lei,» disse con noncuranza Silverman. «Che tipo di accusa?» «Poteva essere di qualsiasi tipo,» disse Silverman. Voltò la busta, sulla quale era stata posta una X in rosso. «Significa strettamente riservato,» spiegò. «Gli estranei non possono leggerne il contenuto.» «Ma lei può?» «Non c'è problema,» esclamò Silverman allegramente. Aprì la busta ed estrasse l'unico foglio di carta che vi era contenuto. «Non credo che potrà aiutarla molto, Frank,» gli annunciò quando incominciò ad analizzarne il contenuto. «Dice solo che ci fu un'udienza disciplinare per Hannah Kovatnik il 25 marzo 1936. Fu accusata di sette violazioni della morale del sindacato, come già sapeva.» Gli occhi continuarono a scorrere la pagina. «Dice che Hannah si difese da sola, il che significa che non aveva un avvocato difensore, e che alla fine perse la causa. E fu espulsa dal sindacato.» Alzò le spalle. «Tutto qui.» «Non dice quali furono le violazioni?» chiese subito Frank. «No, non lo dice.» «Perché no?» Silverman sorrise. «Questa è la parte interessante,» disse. «Di solito viene indicato.» «E perché non è stato fatto nel caso di Hannah?» «Probabilmente perché sarebbe risultato imbarazzante per il sindacato.» «In che senso?» Silverman alzò le spalle. «Chi lo sa? Ma una cosa è certa. Nel 1936 avevano interesse a mantenere la cosa assolutamente riservata. Questo spiega la X rossa, ma spiega anche il motivo per cui nel rapporto non si specifica nulla.» Passò il foglio a Frank. «Vede? Nulla di interessante.» Frank diede un'occhiata al foglio. «Fu accusata di qualcosa,» disse Silverman. «E fu ritenuta colpevole.» Gli occhi di Frank indugiarono sulla pagina. «L'unico ulteriore dettaglio è il nome della persona che ha presentato l'accusa,» aggiunse Silverman. Frank lo guardò. «Chi era?» Silverman gli prese il foglio dalle mani. «Il nome in fondo alla pagina a sinistra,» disse. «È sempre lì che si scrive.» Picchiettò con le dita sul foglio
di carta. «Eccolo. Philip Stern.» Frank fissò quel nome sulla carta. «Lo conosce?» domandò Silverman. «Sì.» «Come mai?» «Sul giornale del sindacato fu pubblicato un articolo su Hannah,» disse Frank. «Una specie di profilo biografico. Un vero encomio.» «Nell'articolo si parla di lui?» «No,» rispose Frank. «L'ha scritto lui.» «Lui ha scritto un articolo nel quale elogiava Hannah?» chiese incredulo Silverman. «Già,» gli disse Frank ripensando al ritratto emerso dalle parole di Stern. Rivide Hannah nel fulgore della sua giovinezza, ripensò al suo impegno, alla forza assoluta e inflessibile della sua energia. «Be', deve avere cambiato idea,» commentò Silverman con disinvoltura. «Ha il suo indirizzo?» «Ora controllo,» disse Silverman. Batté alcuni tasti e il nome di Stern apparve quasi subito sul monitor. «Bene, guardi qui,» disse Silverman leggendo le informazioni che apparivano sotto il nome di Stern. Frank copiò l'indirizzo sul suo taccuino. «Quando ha lasciato il sindacato, Stern?» domandò quando ebbe finito di scrivere. Silverman non distolse lo sguardo dallo schermo. «Non lo ha mai fatto,» esclamò con ammirazione. Guardò Frank. «Adesso è uno di quelli che chiamiamo vecchi combattenti, Frank, un uomo che non ha mai perso la propria fede.» 20 Imalia Covallo aveva lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica e Frank, ascoltandolo in piedi nell'oscurità del suo ufficio, fu colpito dalla strana vulnerabilità della sua voce, come se solo una sottile linea la dividesse dalla disperazione del mondo circostante. Era lo stesso tono di voce che una volta aveva anche Karen, ma che poi lentamente aveva perduto, e per un attimo Frank cercò di stabilire che cos'altro se ne era andato in lei assieme a quella voce. «Desidererei incontrarla alle tre del pomeriggio,» diceva Imalia sopra il leggero ronzio della segreteria. «Al piano superiore del mio negozio in
Madison Avenue. Chieda dell'ascensore privato.» Aveva appena cominciato a cancellare le registrazioni quando Farouk varcò la soglia del suo ufficio. «Che piacere trovarti qui,» disse Farouk. «Sto uscendo per un appuntamento con Miss Covallo,» lo informò Frank. «Ho fatto bene a venire, allora,» disse Farouk. Si mosse goffamente verso la sedia di fronte alla scrivania di Frank e si sedette. «Ho scoperto alcune cose che potresti volerle riferire.» «Quali cose?» «Il fatto che la morta parlasse spagnolo,» disse Farouk prendendo il discorso alla larga, «mi ha molto incuriosito.» «Hai scoperto qualcosa al proposito?» «Sì,» gli disse Farouk. Frank si spostò verso l'angolo della scrivania. «Che cosa?» Farouk estrasse un foglio di carta a righe. «Ho degli agganci al governo,» lo informò. Frank tacque. «Sto parlando del governo nazionale,» aggiunse Farouk con teatralità, dopo una lunga pausa. «Continua,» gli disse Frank con impazienza. «Il fatto che più mi tormentava è che nella vita di questa donna ci fosse un vuoto.» «Sì, è vero.» «E di molti anni,» aggiunse Farouk pensieroso. «Molto tempo, che avrebbe potuto essere utilizzato in qualche modo. Per esempio, imparando a parlare una lingua straniera.» Frank fece un rapido cenno d'assenso con il capo. «Mi sono reso conto che se la morta fosse rimasta nel nostro paese, un vuoto simile non sarebbe stato possibile,» continuò Farouk. Frank annuì di nuovo con impazienza. «La pista da battere è lunga,» aggiunse Farouk con autorità. «Ma ci può essere di aiuto la questione delle tasse, che devono essere pagate. E per farlo bisogna riempire numerosi moduli. Poi esiste la questione del lavoro. Sono cose, queste, che non si possono tenere segrete.» «No, infatti.» «Ma se la morta se ne fosse andata,» disse Farouk, «la faccenda sarebbe stata diversa.»
«È ciò che ha fatto?» «Sì,» annunciò Farouk. «Lo si può verificare sul suo passaporto.» Frank estrasse una sigaretta e l'accese. «Continua.» «È importante?» domandò Farouk. «Potrebbe esserlo.» Farouk posò nuovamente lo sguardo sul foglio di carta. «Questo passaporto è stato rilasciato alla morta...» «Hannah.» «Sì, Hannah,» disse Farouk senza distogliere lo sguardo dalla pagina. «Questo passaporto è stato rilasciato a Hannah nel maggio del 1936. E non è stato rinnovato per parecchi anni.» «Dove l'ha usato?» «In Sud America.» «In Colombia,» disse subito Frank. Farouk lo guardò sorpreso. «Lo sapevi già?» «Sua sorella Gilda è morta là nel 1954,» disse Frank. «Poi il suo corpo è stato trasportato qui.» «Dov'è stata sepolta?» «Non lo so.» «Lo posso scoprire,» lo rassicurò Farouk. «E anche...» Frank scalpitò, mostrando la propria impazienza. «Ho un appuntamento con Miss Covallo,» disse. Farouk non si mosse. «C'è qualcos'altro,» disse. «Un documento.» «Quale?» «Un certificato di matrimonio,» disse Farouk. «Di Hannah.» Frank spense la sigaretta schiacciandola nel posacenere sulla scrivania. «Hannah era sposata?» «Sì,» confermò Farouk. «Da quando?» «Si sposò nel settembre del 1954.» «In che giorno?» «Il quindici di settembre.» Frank prese il suo taccuino e sfogliò velocemente le pagine alla ricerca degli appunti presi nel corso del colloquio con Silverman. Poi alzò lo sguardo. «Dove si è sposata?» «A Bogotá,» disse Farouk. «Non è dov'è morta Gilda?» «No.» Farouk strizzò gli occhi per la curiosità. «Dov'è morta, allora?»
«In un villaggio,» disse Frank. «Un posto di nome San Jorge.» «Come fai a saperlo?» «Dagli schedari del sindacato.» Farouk annuì con aria pensosa. «Capisco,» mormorò. «Che cosa capisci?» «Che era una donna piena di contraddizioni,» disse Farouk scrollando leggermente le spalle. Poi sorrise. «Come tutti noi, d'altra parte,» commentò. Frank tornò a quanto Farouk gli aveva appena riferito. «Così si sposò poco prima di tornare negli Stati Uniti.» Farouk annuì. «Solo pochi giorni prima.» «Suo marito venne con lei?» «Sì,» disse Farouk. «Ma non era un vero e proprio matrimonio.» «Che cosa intendi dire?» «Non vivevano insieme.» «Non hanno mai vissuto nella stessa casa?» «No, mai.» «Come fai a saperlo?» «Grazie ai registri dell'ufficio immigrazioni,» disse Farouk. «Sembra che suo marito vivesse a Brooklyn e che lei vivesse a Manhattan.» «Hanno divorziato?» «No, non mi pare.» Frank estrasse il suo taccuino. «Qual era il nome del marito?» «Pérez, Emilio Pérez.» «Era spagnolo?» «Sudamericano,» precisò Farouk. «Colombiano.» «È lui l'uomo che era con lei,» disse Frank. «Con Hannah.» «Con lei? Dove?» «Quando parlò con Constanza,» gli spiegò Frank. «Quella tizia con cui ho parlato, Molly Gold, mi ha riferito che Hannah quando incontrò Constanza era con un uomo, e con lui parlava spagnolo.» Farouk annuì lentamente. «Sì, forse hai ragione.» Frank batté la penna sulla pagina del taccuino. «Dov'è adesso suo marito?» «È tornato in Colombia,» disse Farouk. «Non so perché.» Scrollò il capo. «E non è mai più tornato in questo paese.» «La polizia ha tutte queste informazioni?» Farouk alzò il capo. «Adesso sì.»
«Gliele hai riferite tu?» «Nella mia professione non è corretto nascondere informazioni alle autorità,» disse Farouk. «Ma a loro non sembra il caso di indagare a fondo.» «Ma allora il marito di Hannah non è sospettato?» «No, non è sospettato,» confermò Farouk. «Secondo la mia fonte, 'questa traccia è troppo lontana per un delitto così scottante'.» «Forse non ha tutti i torti,» convenne Frank, «ma se fosse vivo, potrebbe richiedere il corpo.» Farouk annuì. «Sarebbe un viaggio molto lungo per lui.» «Sono certo che Miss Covallo farebbe in modo che per lui ne valga la pena.» Farouk sorrise sommessamente. «Cercherò di rintracciarlo.» «Bene,» disse Frank facendogli nuovamente capire che per lui era ora di uscire e si avviò verso la porta. Farouk lo raggiunse. «Hai scoperto qualcosa anche tu?» «Sì.» «Posso sapere cosa?» Frank chiuse a chiave la porta dell'ufficio e si diresse verso la scala che portava in strada. «Ha avuto problemi con il sindacato,» disse. «Una specie di litigio. È stata accusata di qualcosa, ma non si capisce bene di che cosa.» «Stai seguendo questa pista?» «Sì,» confermò Frank. «Ma la tua pista è senz'altro migliore della mia.» Sorrise. «Dovrò saldare i conti con te, quando avremo risolto il caso.» «Lo faremo quando sarà il momento,» precisò Farouk. «Volevo che sapessi che mi sento in debito con te,» disse Frank. «In debito con me, sì,» disse Farouk. «È vero.» Poi sorrise sommessamente. I suoi occhi apparvero a Frank ancora più neri nella luce di quel tardo pomeriggio. «È una strana donna, non trovi?» «Hannah?» «Proprio così,» disse piano Farouk. Poi si voltò lentamente e si avviò dalla parte opposta a quella di Frank. L'ascensore privato si trovava sul retro dell'edificio, sorvegliato da un'unica guardia in divisa che portava alla cintura una calibro 45. «Mi chiamo Clemons,» disse Frank dirigendosi verso le porte color bronzo dell'ascensore. La guardia diede un'occhiata alla sua agenda, alla ricerca del nome. «Ha
un biglietto da visita?» gli chiese dopo aver controllato che fosse sulla lista. Frank gli mostrò la tessera di identificazione. «Grazie,» disse gentilmente la guardia. «Salga pure, prego.» L'ascensore si aprì su una stanza arredata in modo lussuoso, piena di grandi fotografie di modelle avvolte in una gamma di tessuti incredibilmente sfolgoranti. Sotto le fotografie appariva la scritta: «Lo stile Imalia Covallo». Al centro della stanza troneggiava un tavolo in mogano, sul quale era stata preparata una bottiglia di champagne in un secchiello per il ghiaccio, in mezzo a vassoi di antipasti e a numerose bottiglie di vino pregiato. «Buongiorno, Frank,» disse Imalia andandogli incontro. Si voltò a guardare la stanza e gli chiese: «Le piace?» «È tutto molto bello.» «Questa è la sala per l'alta moda,» gli spiegò Imalia. «Questo ambiente è diverso dal negozio al piano inferiore.» «Capisco.» «Alcune persone preferiscono acquistare i loro abiti in privato.» «È corretto?» chiese Frank con aria ottusa. «Talvolta vado io a casa loro,» aggiunse Imalia, «e talvolta vengono loro.» Si avvicinò al tavolo. «Gradisce qualcosa?» «No, grazie.» La sua mano strinse con grazia il collo della bottiglia di champagne. «È ottimo,» disse con fare suadente. «Lo offro sempre. Fa parte degli affari. Le persone che vengono qui si aspettano di trovare il meglio.» «No, la ringrazio,» ripeté Frank. «Bene,» disse Imalia. Andò verso una poltroncina di velluto e si sedette. «Ha fatto progressi?» «Sì,» le disse Frank. Imalia sorrise soddisfatta. «Bene, sono contenta di sentirglielo dire.» Frank estrasse il suo taccuino e cominciò a sfogliare le pagine. «Può sedersi, se preferisce,» lo invitò Imalia. Frank rimase in piedi. «Ho scoperto alcune cose,» disse, «e anche il mio socio.» Imalia sbarrò gli occhi. «Socio?» «Un tizio che lavora con me al caso.» «Non sapevo che lei avesse un socio.» «Mi è molto utile,» la rassicurò Frank. «Sa come cercare, e mi ha procu-
rato alcuni dati importanti.» Imalia non pareva convinta delle parole di Frank. «Per esempio?» domandò. «Per esempio il fatto che Hannah avesse vissuto in Colombia per parecchio tempo,» disse Frank. «E che laggiù si sposò.» Imalia sobbalzò sulla poltrona. «Sposata? Chi, Hannah?» «Non gliene aveva mai parlato?» «No, mai.» «Il matrimonio era finito prima che venisse a lavorare per lei,» precisò Frank. «Suo marito era tornato in Colombia. Ma legalmente sono ancora sposati. E se lo sono, lui ha l'autorità di richiedere che la salma venga rilasciata.» «Allora lei ora sta cercando di rintracciarlo, presumo,» disse Imalia. «Il mio socio se ne sta occupando.» «Bene,» approvò Imalia, e parve rilassarsi un poco. «Ovviamente, mi terrà informata.» «Sicuro, non si preoccupi,» la rassicurò Frank. «Naturalmente, se il marito dovrà venire a New York per farsi rilasciare il corpo io sarò ben felice di pagare le spese.» Frank annuì. «Potrebbe essere necessario. Ma non so nulla con certezza.» Il suo sguardo tornò al taccuino. «Ho fatto alcuni progressi anche con le sorelle di Hannah,» disse. «Davvero?» «Una di loro, Gilda, è morta.» «Mi dispiace.» «È morta in Colombia nel 1954,» aggiunse Frank. «Il corpo è stato riportato qui, e credo che se ne sia occupata Hannah.» Alzò lo sguardo dal taccuino. «Qualcuno ha presentato richiesta al sindacato al fine di ottenere un indennizzo per le spese del funerale. Un uomo di nome Fischelson, Joseph Fischelson.» Imalia lo fissò inespressiva. «Non ha mai sentito questo nome?» le domandò Frank. «No, mai.» «Hannah non le aveva mai detto di aver vissuto in Sud America?» «Non che io ricordi.» «Le dice qualcosa il nome Emilio Pérez?» «No,» disse Imalia. «Chi è?» «Il marito.»
Imalia parve sorpresa. «Ha sposato un sudamericano?» «Pare di sì.» «È possibile che abbiano avuto figli?» «Non credo,» disse Frank. «Non sembra che abbiano mai vissuto insieme.» Imalia si chinò leggermente in avanti. «Ma erano sposati.» «Non so di che genere di matrimonio si sia trattato,» disse Frank. Imalia assunse un atteggiamento mondano. «Certo, esiste un'infinità di modi per vivere insieme, ovviamente, ma in genere queste cose succedono più avanti. O no?» Sorrise. «Come si dice, 'quando l'amore è svanito'.» «Già.» «Ma nel caso di Hannah e di questo Emilio,» aggiunse, «è strano che sia stato così fin dall'inizio.» «Lui viveva a Brooklyn,» disse Frank, «e Hannah a Manhattan.» Imalia scosse il capo con meraviglia. «Non ha mai detto di essere sposata.» «Lui tornò in Colombia,» continuò Frank. «Poi non sappiamo che cosa accadde.» Imalia si alzò dalla poltroncina, andò verso il tavolo e si versò una coppa di champagne. «E tutto questo dove ci porta?» domandò. «Ci stiamo muovendo in due direzioni,» disse Frank. «Sto cercando di rintracciare la sorella vivente attraverso un sindacato, e...» «Quale sindacato?» lo interruppe Imalia. «L'AGW,» le disse Frank. «Hannah ne fu membro fino al 1936. Spero di trovare qualcuno che si ricordi dell'altra sua sorella.» «Naomi?» «Sì.» «E l'altra direzione?» «Pérez, il marito. Sempre che sia ancora suo marito.» «Due direzioni,» disse pensosa Imalia. «Sembra molto complicato.» «Si tratta di una vita,» disse Frank, «perciò è complicato.» Chiuse il suo taccuino e lo ripose nella tasca della giacca. Imalia alzò le braccia con estrema grazia. «Per cambiare discorso, ho regalato a Karen uno dei miei abiti. Glielo ha mostrato?» «Sì.» «Le è piaciuto?» «È molto bello.» «Sono meravigliosi, non trova?» domandò Imalia. «Sono bellissimi og-
getti.» «Sì,» convenne Frank. Poi si voltò e cominciò a dirigersi verso l'ascensore. «Ma costosi,» osservò lei quasi tristemente. «Molto, molto costosi.» «La maggior parte delle cose belle lo sono,» puntualizzò Frank con disinvoltura. Imalia lo fissò con aria interrogativa. «Crede davvero che le cose belle siano sempre costose?» «Sì,» le disse Frank. «Ma non sempre è una questione di denaro.» Imalia si abbandonò leggermente sulla poltrona, con uno sguardo che pareva volesse perforarlo. «Non importa ciò che scoprirà,» disse. «Mi riferisco a Hannah. Voglio sapere la verità.» «Certamente, non si preoccupi.» «Voglio sapere tutto,» aggiunse con tono autoritario Imalia. «E voglio essere la prima a sapere.» Lo fissò negli occhi. «Prima di qualsiasi altra persona. Anche prima del suo socio, chiunque lui sia.» Frank annuì. «Lei sarà la prima,» la rassicurò. Imalia accennò un sorriso, mentre le sue braccia lunghe e candide avvolgevano languidamente intorno al collo una sciarpa blu. «Bene,» disse calma. «Perché il cliente ha sempre ragione.» 21 Era pomeriggio tardi quando Frank scese dalla metropolitana alla stazione del Bronx e percorse la lunga fila di scalini metallici che portavano dalle rotaie sopraelevate alle vie affollate che si dipartivano da Sedgwick Avenue. Secondo le informazioni di Silverman, Philip Stern viveva ancora in uno dei due enormi edifici che il sindacato aveva fatto costruire negli anni Cinquanta perché vi andassero ad abitare i suoi membri, e che come gli aveva detto Silverman erano la culla «della vera storia dell'industria manifatturiera». L'appartamento di Stein era al quindicesimo piano, e la porta si aprì quasi subito. «Mi chiamo Frank Clemons,» disse alla piccola donna di mezza età che stava sulla soglia. «Mr Silverman mi ha detto che vi avrebbe telefonato.» «Lo ha fatto,» disse la donna. «Lei desidera vedere mio padre, vero?» «Sì.»
La donna si asciugò le mani nel grande grembiule a fiori. «Gli stavo preparando la cena. Se le piace l'arrosto, può cenare con lui.» «No, grazie,» rispose Frank «Gli farebbe bene un po' di compagnia,» disse la donna. «Sa com'è con le persone anziane, sono sempre depresse. Papà è davvero giù di morale.» «È qui ora?» «Prima di cenare gli piace sedere nel parco,» disse la donna. «Entri, le faccio vedere dove.» Frank seguì la donna all'interno dell'appartamento e poi su un piccolo balcone di cemento. «Eccolo là, su quella panchina accanto alla strada,» disse indicando un uomo infagottato in indumenti di lana. «È lui mio padre,» disse la donna. «Ha sempre freddo. Porta sempre il cappello e il cappotto.» «Grazie,» disse Frank riattraversando l'appartamento. «Se cambia idea, può sempre cenare con lui,» gridò la donna mentre lui chiudeva la porta dietro di sé. Philip Stern sedeva in silenzio su una piccola panchina di legno, con la schiena dritta e le mani infilate nelle maniche del cappotto nero. Portava un cappello grigio a falda larga e una sciarpa rossa avvolta accuratamente intorno alla gola. «Mr Stern?» disse piano Frank avvicinandosi a lui. Due occhi scuri lo fissarono. «Sì, sono io.» «Mi chiamo Frank Clemons. Ho avuto il suo indirizzo da Harry Silverman.» «Il mio indirizzo?» chiese Stern con una voce profonda che a Frank parve compatta e viva come il suo corpo. «Perché?» «Le spiace se mi siedo?» chiese Frank gentilmente. Stern gli fece cenno con il capo di accomodarsi pure. Frank si sedette accanto a lui ed estrasse la sua tessera di riconoscimento. «Sono un investigatore privato,» disse. Stern sorrise maliziosamente. «Ai miei tempi ne ho viste parecchie di queste. Anche di informatori. Per chi lavora lei?» «Questo non sono autorizzato a dirlo,» precisò Frank. «Ma dato che Mr Silverman mi ha mandato...» «Posso fidarmi,» lo interruppe Stern. Frank annuì. «Sì, non si preoccupi.» «D'accordo,» disse Stern. «Che cosa vuole?» Frank ripose la tessera nella tasca. «Si tratta di una donna di nome Han-
nah Kovatnik.» Il vecchio voltò leggermente il capo, e il suo sguardo andò a posarsi sulle foglie rossastre che pendevano dai rami sopra di lui. Non rispose. «Mr Silverman ritiene che lei possa aiutarmi.» Lo sguardo di Stern indugiò sulle foglie tremolanti. «Aiutarla in che modo?» «Miss Kovatnik è stata assassinata,» disse Frank. «La polizia non rilascia la salma fino a quando non sarà un parente a richiederla.» «Io non sono un suo parente.» «No,» convenne Frank. «Ma lei nel 1935 ha scritto un articolo su Hannah.» Stern lo fissò. «Glielo ha detto Harry?» «No,» rispose Frank. «Ho visto il suo articolo su un vecchio numero del giornale del sindacato.» Stern sorrise pieno di malinconia. «Allora volevo diventare uno scrittore,» disse. «Un vero scrittore. Di quelli che riescono a sentire le cose, che si appassionano a qualcosa, al di là dei propri banali interessi.» Annuì leggermente con il capo, e d'un tratto l'amarezza che si era insinuata nella sua voce scomparve. «A quei tempi si aveva l'impressione che ci fossero sempre tanti argomenti su cui scrivere: la lotta, il sacrificio. Grandi temi.» Frank estrasse il suo taccuino e lo aprì. «Quel pezzo che ha scritto su Hannah,» disse, «era molto bello.» Il vecchio sorrise. «Non ero certo un grande artista, ma non ero neanche male. E Hannah? Un giovane scrittore non avrebbe potuto sperare di avere materiale migliore.» Frank prese nota velocemente. «Cercai di catturarla,» continuò Stern. «Di catturare la sua bellezza, non il suo corpo o il suo viso. Non quel tipo di bellezza: quella va bene per le stelle del cinema o delle riviste di moda. Io non inseguivo queste cose: io inseguivo Hannah, il suo essere. Non il modo in cui appariva, ma il modo in cui si comportava, il modo in cui si faceva sentire dalla gente.» «Il pugno alzato,» disse Frank. «Sì, è questo che intendo.» «Credo che lei ci sia riuscito perfettamente,» si complimentò Frank. Stern annuì. «Anch'io lo credo,» disse con malcelato orgoglio. «Un uomo scrive bene quando è ispirato.» Sorrise. «Quello è il solo momento in cui può scrivere bene. Il resto è solo malafede. Assurde falsità.» «E lei era ispirato da Hannah?» domandò Frank, cercando con delicatez-
za di tornare all'argomento. «Sì,» affermò Stern. «Molto. E non ero l'unico. Dovrebbe vedere la fotografia che la ritrae quando tenne il suo discorso in Union Square.» «Sì, l'ho vista.» «Quelle facce rivolte verso di lei non le sono sembrate ispirate?» «Sì.» «Allora mi ha capito.» «Lei andò a quel comizio?» «Sì!» esclamò Stern. «Non fai della cronaca stando seduto in un ufficio.» Qualcosa parve improvvisamente venirgli in mente. «Ha detto che sta cercando un parente?» «Esatto.» «Hannah aveva due sorelle,» disse Stern. «Lei per loro era una specie di tutrice. Il padre era morto.» «Sì, lo so.» «Gilda era molto bella,» aggiunse Stern. «Ma Hannah era bella dentro, nel cuore. Era bello ciò che pensava e desiderava. In lei era tutto bello.» Scrollò il capo. «È difficile descriverlo.» «Quando l'ha incontrata la prima volta?» «Quando lo sciopero era già in corso,» raccontò Stern. Rabbrividì leggermente. «Fu un inverno molto freddo, con tanta neve.» Voltò lo sguardo verso la grande cisterna dal lato opposto della via, la cui superficie si increspava per la fredda brezza invernale. «Il vento sull'East River era come una sferzata di ghiaccio, e io ricordo come Hannah lo sopportò per un'ora con quel piccolo cartello che aveva preparato. Giustizia, diceva. Null'altro. Solo una parola, scritta in rosso. Giustizia.» Frank prese nota. «Questo avvenne in Union Square.» «No, in Orchard Street,» gli precisò Stern. «Di fronte alla fabbrica.» «Quella di Sol Feig.» Stern annuì lentamente con il capo, in silenzio. «Sì, di Sol Feig,» disse infine. «Hannah era il capo?» «Sì, lei era il capo,» convenne Stern. «In assoluto. Ed era un capo eccezionale, lasci che glielo dica. Aveva un dono, un meraviglioso dono: riusciva a farti credere in una cosa con la medesima convinzione che lei stessa aveva.» I suoi occhi improvvisamente guizzarono come fiammelle. «Ha idea di quale meraviglioso dono sia questo?» Frank non disse nulla.
«In un capo,» continuò Stern, «è il potere più grande che si possa desiderare di avere.» Alzò una mano in aria e chiuse il pugno. «È il dono dell'ispirazione,» disse con fierezza. «È il potere di ispirare le persone a fare e a soffrire più di quanto non sembri loro possibile.» Frank ripensò a Hannah Kovatnik nel suo breve e fuggente splendore, gli occhi ardenti, il corpo teso nell'aria gelida, la voce sferzante che echeggiava attraverso gli alberi nudi e spogli. «Non ho mai conosciuto nessuno come lei,» disse Stern con un tremito nella voce. «Faceva sembrare possibile ogni cosa. O, meglio, fece sembrare possibile una grande cosa.» «La giustizia?» chiese Frank. «Già.» Frank sentì dentro di sé un dolore antico, un profondo e silenzioso rimpianto per tutto ciò che non è possibile realizzare. «Che cosa accadde?» chiese con tono pacato. Stern mosse leggermente le spalle. «Che cosa intende dire?» «Che cosa accadde a Hannah?» Per un istante Frank ebbe l'impressione che il suo interlocutore si fosse allontanato da lui, cadendo in uno stato di impenetrabile solitudine. Poi d'un tratto Stern si scosse. «Vinse,» disse con tono cupo. «Che cosa vinse?» «Lo sciopero,» disse Stern. «La sua fabbrica vinse lo sciopero.» Frank lasciò trascorrere qualche istante di pensoso silenzio, poi riprese il discorso. «Ma non finì così, vero?» chiese. «Per molte persone sì.» «Ma non per Hannah.» Stern scosse il capo. «No, non per Hannah.» «Fu espulsa dal sindacato non molto tempo dopo la fine dello sciopero,» disse Frank. Stern teneva lo sguardo fisso sull'acqua increspata della cisterna e non parlò. «Vi fu una specie di processo,» aggiunse Frank continuando a fissare con attenzione il vecchio. Stern socchiuse gli occhi lentamente e la sua mano tornò a infilarsi sotto la manica. «Le fu rivolta un'accusa,» continuò Frank. Stern serrò le palpebre.
«Lei l'accusò.» Lentamente il vecchio riaprì gli occhi, tenendo lo sguardo sempre fisso davanti a sé. «Come fa a saperlo?» «Negli archivi del sindacato c'è un documento che lo attesta,» continuò Frank. «Ma non vi si dice molto.» Sul volto di Stern apparve un flebile sorriso. «Certo,» disse con un'ombra di amarezza nella voce. «Che cosa significa?» Stern guardò Frank apertamente. «Crede che fosse facile a quei tempi tenere in piedi un sindacato?» gli chiese con violenza. «Crede che fosse un'attività per gente in guanti bianchi?» «No, certo,» rispose Frank immediatamente. Stern rise con freddezza. «Avrebbe dovuto esserci quell'inverno del 1935. Avrebbe dovuto leggere ciò che i giornali scrivevano di noi. Avrebbe dovuto vedere la polizia caricarci con la cavalleria. Come i cosacchi, come in Polonia.» Scrollò il capo sconsolato. «Allora capirebbe i sentimenti di Hannah.» «A che riguardo?» «Riguardo a ciò che fece,» disse Stern, con voce ancora dura sebbene stranamente affaticata. «E al perché lo fece.» Si voltò come per cercare di riacquistare il controllo su di sé. «Eppure,» aggiunse dopo un attimo. «Eppure ci sono dei limiti. Ci devono essere dei limiti.» «A che cosa?» «Alle nostre azioni,» gli disse Stern. «A ciò che siamo disposti a fare.» Frank premette la punta della penna sul foglio del taccuino. «E Hannah li oltrepassò, questi limiti?» «Sì.» «Come?» L'anziano uomo fissò Frank con esitazione. «Che cosa importa? Che cosa sta cercando?» «La verità.» «Su chi?» «Su Hannah.» Stern di nuovo voltò lo sguardo, mentre con la mano si aggiustava nervosamente la sciarpa. Frank si fece più vicino. «Che cosa fece?» «Non ha osservato un comandamento,» disse semplicemente Stern, con tono secco, come se avesse voluto far capire a Frank che non avrebbe detto
più nulla. «Quale?» Stern lentamente si voltò verso Frank e lo guardò fisso negli occhi. «L'ottavo comandamento,» disse. Frank ripensò alle lezioni di suo padre sulla Bibbia. Lo rivide sul pulpito citare uno per uno tutti i comandamenti, fino a quando la congregazione non fu impaurita a morte dal loro peso travolgente. Fu allora che lui li imparò, uno per uno, come fossero pesanti massi neri che cadevano dalla cima rocciosa del monte Sinai. «Non dire falsa testimonianza,» disse. Sul volto di Stern apparve un'improvvisa quanto tacita sofferenza. «Sì.» «Mentì a proposito di qualcuno?» chiese subito Frank. «Sì.» «Su chi?» «Su Sol Feig,» rispose immediatamente Stern, come se anche l'ultimo baluardo della sua resistenza fosse caduto e il passato potesse ormai venire alla luce con la forza di un'onda. «L'uomo per il quale lavorava,» disse Frank. «Sì.» Frank rivide Feig nel luogo dove ora viveva, chiuso nella sua stanza di Orchard Street, accasciato sulla sedia, con gli occhi acquosi rivolti verso gli edifici rossi ammassati l'uno sull'altro nella cornice della sua finestra. «Sol Feig era avido,» cominciò Stern. «E la sua fabbrica rispecchiava la sua personalità. Era anche molto redditizia, e alcune persone desideravano che lo sciopero gli spezzasse le gambe, che lo portasse al fallimento.» Si interruppe, e nuovamente il suo sguardo andò a posarsi sulla superficie dell'acqua. «Tra di loro c'era anche Abe Bornstein.» Frank ripensò al racconto di Riviera: Bornstein seduto sulla panchina del parco che guardava Hannah con occhi cupidi e poi le sue parole: È la figlia del rabbino. Non la dà a nessuno. «Bornstein voleva impadronirsi dell'attività di Feig,» continuò Stern, tenendo sotto controllo la sua voce. «Voleva distruggerlo, e pensò di sfruttare lo sciopero per realizzare i suoi piani. È per questo motivo che arrivò a Hannah.» «Perché Hannah?» «Lo sciopero continuava ormai da molto tempo,» spiegò Stern. «La gente stava cominciando a cedere. Non potevano comprare cibo e carbone. Deve capire qual era la situazione nell'inverno del 1935.» Scrollò il capo.
«Hannah si dava moltissimo da fare perché tutti tenessero duro, ma anche una donna come lei, anche una persona con quella forza, non può tutto. Non poteva fare star calda la gente di notte né riempir loro lo stomaco. E così, il fuoco si spegne.» Stern ebbe un tremito quando un debole soffio di vento lo sfiorò, spazzando via una fila di foglie secche. «Il fuoco si stava spegnendo,» ripeté. «Hannah se ne rendeva conto, e anche Abe Bornstein. Fu allora che si rivolse a lei.» Frank immaginò Hannah e Bornstein proprio come glieli aveva descritti Riviera, insieme nel parco per un incontro segreto vicino a una panchina di legno, mentre in lontananza un gruppo di disoccupati si scaldava intorno a un bidone pieno di braci. «Bornstein aveva un piano,» continuò risoluto Stern. «Conosceva un'attricetta che era disposta ad affermare che Sol Feig aveva cercato di violentarla. Sapeva che una notizia come questa avrebbe riacceso i fervori dello sciopero. Il compito di Hannah era quello di propagare questa falsa notizia all'interno del sindacato e in tutto il quartiere. A quei tempi il Lower East Side era come un paese, Feig sarebbe stato rovinato e lo sciopero avrebbe vinto. Bornstein avrebbe comprato la fabbrica dopo il fallimento di Feig, e una volta ottenutone il controllo avrebbe trattato con il sindacato molto meglio.» «Fu questo che accadde?» chiese subito Frank. «Più o meno,» disse Stern. «Ma la situazione sfuggì di mano. Le voci arrivarono alla figlia di Feig.» Si interruppe. «Feig non aveva nessuno oltre a questa figlia. A parte la fabbrica, lei era la sua vita.» Frank sentì l'attenzione crescere dentro di sé, e premere come se il suo corpo stesse per esplodere. «Si chiamava Marta,» disse Stern. «Aveva solo quindici anni.» Guardò Frank. «Adorava Feig, e dopo che si seppe questa storia, proprio il giorno di Natale del 1935, si impiccò nell'armadio della sua camera.» Gli occhi di Frank vagavano sopra i grattacieli che si stagliavano incombenti al di là della cisterna. Stern lo guardò da vicino. «Si immagini come reagì Feig. La sua unica figlia si era suicidata.» Frank non spostò lo sguardo da una coppia di torri grigie. «Sì, capisco perfettamente.» Per un momento restarono in silenzio, poi Stern si mosse e prese a massaggiarsi le ginocchia ritmicamente. «Problemi di circolazione,» spiegò. Frank si voltò verso di lui. «Come ha scoperto di Bornstein e Hannah?»
gli domandò. «Nel modo più vecchio del mondo.» «E cioè?» «Me lo ha riferito qualcuno.» «Perché?» «Perché questa persona pensava che Hannah si fosse spinta troppo in là, che avesse compromesso la lotta, e temeva che se si fosse venuto a sapere che la bugia di un membro del sindacato, una terribile calunnia, aveva finito per causare il suicidio di una ragazza, be', se si fosse venuto a sapere, questo avrebbe provocato la fine del sindacato.» «Così le raccontò la vicenda?» «Sì.» «E lei l'accusò?» «Esatto.» «Perché non fu quella stessa persona a denunciarla?» «Non poteva.» «Perché?» «Perché il sangue non è acqua, Mr Clemons,» disse Stern senza mezzi termini. «Il sangue è il legame più forte che ci sia.» «Che cosa intende dire?» «Hannah aveva una sola vera amica al mondo,» disse Stern. «Una persona alla quale poteva raccontare tutto.» Frank attese, con la penna pronta a lasciare la traccia d'inchiostro sulla pagina. «Sua sorella,» disse infine Stern. «Naomi.» «E glielo ha detto Naomi, allora?» chiese subito Frank. «No,» rispose prontamente Stern. «Il marito di Naomi. Per caso aveva saputo tutto.» «Il marito, come si chiamava?» «Fischelson. Joseph Fischelson.» Frank rivide nella mente il nome com'era apparso sullo schermo del computer, scritto a piccole lettere bianche, e lo collegò alla persona che aveva fatto richiesta di indennizzo per Gilda. «Così fu Fischelson a rivolgersi a lei?» «Sì,» disse Stern. «Dato che non poteva presentare l'accusa lui stesso, mi passò tutte le informazioni di cui avevo bisogno per portare avanti la pratica. Cominciai con l'attrice: era un'ubriacona, e cedette subito. Poi Bornstein crollò e io seppi tutti i fatti, e così presentai l'accusa.» «Fu allora che ci fu il processo?»
«Sì.» «Hannah si è difesa da sola?» «Non proprio,» precisò Stern. «Sedeva in fondo al tavolo e guardava fisso davanti a sé. Era diversa, come se qualcosa le fosse stata tolta, come se l'avessero privata della linfa vitale. Era rigida, e sembrava che non le importasse più di niente.» «Dove si tenne il processo?» «In una piccola aula sul retro della sala riunioni del sindacato,» disse Stern. «Dalle parti di Delancey Street. Adesso è stato tutto demolito per costruire palazzi più grandi.» «Chi c'era?» Stern rifletté un momento. «Beidelbaum. Sidney Beidelbaum, il capo della sezione locale. Poi c'ero io, con tutte le mie informazioni. Poi Karl Fisk e Norman Vladeck.» Scrollò il capo. «Ora sono tutti morti.» «Quando il processo finì, che cosa accadde?» «Le fecero giurare di mantenere il segreto,» disse Stern. «Poi le chiesero di ritirarsi dal sindacato.» «E lei acconsentì?» «Con un breve cenno del capo,» disse Stern. «Disse qualche cosa?» «Non finché tutto non fu terminato,» rispose Stern. «Poi si alzò in piedi. Era stata seduta fino a quel momento in fondo al tavolo. Era stata una vera inquisizione: Hannah da sola in fondo al tavolo, e tutti gli altri uomini con la lunga barba seduti dalla parte opposta.» Aggrottò le sopracciglia con disapprovazione. «Fu una cosa terribile. Anche il modo fu terribile.» «Ma quando finì lei disse qualcosa.» «Già,» confermò Stern. «Si alzò in piedi, dritta e piena di orgoglio. Si alzò e pronunciò le antiche parole che gli ebrei usavano per la sentenza finale di divorzio. Si alzò e disse in ebraico: 'Io ti ripudio. Io ti ripudio. Io ti ripudio.' Tre volte, proprio così, secondo la legge ebraica.» Frank prese nota. «Poi uscì?» «Esatto,» concluse Stern. «Voltò i tacchi e se ne andò. Nessuno di noi la rivide mai più.» 22 Ritornato in ufficio, Frank rimase a lungo seduto alla scrivania fumando una sigaretta dopo l'altra, fino a quando il posacenere fu stracolmo e l'aria
così spessa e rancida che lui stesso non poté più sopportarla. Pensò a Karen, e si rese conto che quella notte non sarebbe stato in grado di andare a casa perché troppi pensieri lo perseguitavano. Sentiva ancora la voce di Sheila ricordargli il ventunesimo compleanno che la loro figlia non avrebbe mai festeggiato e ripensò alla figlia di Feig, al suo corpo appeso nell'armadio e poi a quel vecchio ricurvo su se stesso con il respiro affannoso, alla sua vita di totale isolamento causata da un'unica menzogna. Era mezzanotte passata quando alla fine decise di uscire. Il freddo di quel tardo pomeriggio si era fatto ancora più intenso con il calare della notte, e camminando lungo la Quarantanovesima Frank pensò alla nevicata dell'inverno del 1935, al cartello di Hannah agitato dal vento, ai picchetti degli operai stretti l'uno accanto all'altro lungo Orchard Street, mentre Feig dalla finestra del suo ufficio li osservava. Poi il comizio, la carica della polizia a cavallo lungo le strade acciottolate: le speranze, il sacrificio, l'ardore di quei terribili giorni d'inverno. Farouk era già seduto al suo solito tavolo quando Frank entrò nel locale di Toby. Fece un rapido cenno quando lo vide e lo invitò a sedersi al suo tavolo. La sua figura gigantesca aveva l'aria più stanca, con le mani enormi strette attorno a un piccolo bicchiere e i grandi occhi rotondi fissi su un punto lontano, come se stesse scrutando l'orizzonte o pensando alla propria giovinezza perduta. «Buonasera, Frank,» gli disse con tono calmo. Frank fece un cenno di saluto con il capo. «Che cosa desideri?» «Un whisky irlandese.» «Bene,» disse Farouk. Con la mano fece un segno alla moglie, e lei immediatamente depositò sul loro tavolo una bottiglia di Bushmills. «Va bene?» chiese Farouk aprendola. «Benissimo.» Farouk versò un goccio nel bicchiere di entrambi, poi alzò il proprio per brindare. «A qualsiasi cosa,» disse allegramente. Frank sfiorò con il bicchiere quello di Farouk. «Giusto.» Gli occhi scuri di Farouk sembravano brillare nella luce soffusa che lo circondava. Per un attimo guardò le altre persone sedute nel locale, come se avesse dovuto sorvegliarle da lontano. «Bene,» disse infine, riportando il bicchiere sul tavolo, «hai trovato qualche parente?»
«Non esattamente.» «Chi, allora?» «Esiste un cognato,» spiegò Frank. «Un uomo di nome Joseph Fischelson.» «Un cognato di Hannah?» «Sì.» «E la sorella è ancora viva?» «Non lo so.» Farouk annuì. «E questo cognato dove vive?» «Non lo so con certezza,» disse Frank. «Ma dovrebbe essere abbastanza semplice rintracciarlo.» «Sempre che desideri essere rintracciato.» «Non c'è ragione per cui dovrebbe nascondersi,» obiettò Frank. «Almeno per quanto ne so io.» «Alcune persone preferiscono restare nell'ombra,» dichiarò Farouk. «Persone come te?» Farouk sorrise. «Si può correre il rischio di sapere troppo e divulgare troppo,» disse. «Forse è per questa ragione che vivo solo.» «Ma non ti stanchi mai?» «Prima era peggio,» proferì senza esitare Farouk. Poi scrollò le spalle. «Si comincia tutto con grande passione, poi la passione svanisce. È questo che spezza il cuore, Frank, il modo in cui il tempo logora tutto.» Si versò da bere. «Pensi di poter correre più veloce del tempo. Prendi la carovana per arrivare fino a un porto, poi il vapore per attraversare il mare. E in una terra strana, prendi il treno finché impari a capire dove sei dal modo in cui i carri merci affrontano le curve. Anche le rotaie ti diventano familiari.» «È questo che facevi?» «Per molti anni l'ho fatto.» «Perché non per sempre?» «Perché i marinai non sanno tenere i segreti,» disse Farouk sorridendo. «Chi li tiene?» «Coloro che maggiormente credono in ciò che hanno fatto,» disse risoluto Farouk. Guardò fisso Frank. «Hannah era una di queste persone?» «Per un po' di tempo lo è stata.» Farouk annuì con un movimento veloce del capo, poi bevve un altro sorso dal bicchiere. «Hai scoperto qualcosa di nuovo su di lei?» «Forse sì.»
Farouk spalancò gli occhi ma non disse nulla. «Ricordi che nel gennaio 1936 è stata buttata fuori del sindacato?» disse Frank. «Sì, mi ricordo.» «Ho scoperto il perché.» Farouk continuava a fissare Frank in silenzio. «Potremmo dire che faceva parte di un complotto. Con un tizio di nome Bornstein,» spiegò Frank. «Bornstein?» «Tra le altre cose era un mediatore,» spiegò Frank. «Voleva prendersi la fabbrica di Feig.» «Il Feig di Orchard Street?» «Sì, proprio lui,» confermò Frank. «Inventarono che lui aveva tentato di violentare una ragazza. Bornstein conosceva un'attrice disposta a reggere la parte.» «Ma lo stupro era stato solo inventato?» «Sì, era tutto una menzogna. Ma la figlia di Feig ci credette e anche tutti gli altri.» Farouk bevve un sorso dal suo bicchiere. «Si suicidò,» aggiunse Frank. «Aveva solo quindici anni.» «Ihr Herz war schwarz,» disse Farouk, quasi a se stesso. «Che cosa significa?» «Lo disse Feig,» spiegò Farouk. «Significa: 'Il suo cuore era nero'.» Guardò il bicchiere. «Si riferiva al cuore di Hannah.» «Fu un brutto periodo,» commentò Frank. «Accaddero molte cose brutte.» Farouk annuì con un movimento del capo. «E questa menzogna venne a galla?» «Fu scoperta e poi soffocata. Dal sindacato, naturalmente.» «Naturalmente.» «Tuttavia, Hannah dovette presentarsi davanti a una specie di commissione. Non fu un vero processo, ma si concluse con la sua espulsione dal sindacato.» «E Bornstein?» «Lui aveva già rovinato Feig,» disse Frank. «Fu praticamente una svendita.» Farouk fissò pensieroso il bicchiere. «E questo nel gennaio 1936.» «Sì.»
Farouk bevve un sorso veloce e poi risoluto riappoggiò il bicchiere sul tavolo. «Il passaporto di Hannah,» disse, «è stato timbrato a Bogotá il 7 febbraio 1936.» «Solo poche settimane dopo.» Farouk annuì. «Sto pensando al denaro.» «Vuoi dire per andare in Colombia?» «Mi chiedo come se lo fosse procurato.» «Già.» «E per quale ragione avesse deciso di andare là.» «È vero,» convenne Frank. Lo sguardo di Farouk scivolò su Frank. «La necessità di nascondersi non mi pare una ragione sufficiente.» «No, infatti,» disse Frank. Farouk sorrise. «Allora tanto per fare?» «Suppongo di sì.» Farouk versò a Frank un altro goccio. «Questo Bornstein è ancora vivo?» «No,» disse Frank. «È morto nel 1959. Ma prima presentò Hannah per un lavoro a un tizio di nome Constanza.» Farouk finse di essere percorso da un brivido. «El ojo malo,» disse riferendosi a Constanza. «L'occhio del male.» «Così lo chiamavano.» «Ora è morto.» «Assassinato.» «L'aria è più pulita,» asserì Farouk, «molto più pulita da quel giorno.» Finì il suo whisky e se ne versò un altro. «Dobbiamo trovare il cognato.» «Ha cercato di ottenere un indennizzo per le spese del funerale di Gilda,» disse Frank. «Nel 1954.» «Aveva solo una trentina d'anni, Gilda,» calcolò Farouk. «Era troppo giovane per morire.» «È vero.» «Di che cosa è morta?» «Non lo so.» «Posso tentare di scoprirlo,» lo rassicurò Farouk. «Ma credo che dovremmo cercare il cognato. Che sai di lui?» «Niente di più di ciò che ti ho già riferito,» ammise Frank. «E il fatto che fu Fischelson a denunciare Hannah.» «A denunciarla?» chiese Farouk.
«Sì, per il complotto contro Feig.» «Non ti pare strano?» disse Farouk. «Che lui abbia fatto una cosa simile, intendo dire.» «Forse sì.» «Ma tu sai soltanto che l'ha fatto?» «Nient'altro.» Farouk rifletté per un attimo. «Hannah non tornò con il corpo della sorella?» chiese infine. «No.» «E per quale ragione?» «Suppongo che rimase là per sposarsi.» «Con Pérez.» «Sì.» Farouk socchiuse gli occhi. «Un matrimonio un po' affrettato, non ti pare?» «Apparentemente sì.» «E poi, un veloce ritorno a New York,» aggiunse immediatamente Farouk. Frank annuì. Farouk si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia. «Forse non era disperata per la perdita della sorella.» «È possibile,» convenne Frank. «Sì, è possibile,» ripeté Farouk con voce pacata e misurata, «se, come ha detto Feig, 'Ihr Herz war schwarz'.» Per un attimo stettero entrambi in silenzio. Dall'altra parte della stanza, Toby andava su e giù dietro il bancone del bar, passando uno straccio umido sulla superficie per eliminare ogni traccia lasciata dai bicchieri. Aveva l'aspetto di una persona molto forte e sicura di sé, e mentre l'osservava Frank sentì una strana ammirazione per lei, per Farouk, per tutti quegli strani e impenetrabili individui che affluivano in locali come quello durante le ore più impensate. «Forse è cambiata,» disse infine. «Mi riferisco a Hannah.» Farouk estrasse uno stuzzicadenti dalla tasca della giacca e lo fece scivolare nell'angolo della bocca. «Ciò che possedeva non era poi male.» «Che cosa intendi, la sua vita?» «La sua fede,» spiegò Farouk, cincischiando nella fessura fra i denti davanti. «Amore? Si può farne a meno. Denaro? La maggior parte delle persone ne ha poco.» Si tolse lo stuzzicadenti di bocca e fissò con aria depres-
sa la punta consumata. «Ma la fede? Non si può farne a meno.» Alzò leggermente le spalle guardando Toby che metteva da parte gli incassi della nottata e con passo pesante gli andava incontro con il grembiule allentato. «Puoi andare avanti, è vero, come un vegetale. Ma è vita quella?» Scrollò il capo. «No, non è vera vita.» Toby passando fece un rapido cenno con il capo, e Farouk si alzò immediatamente. «Si chiude,» disse appoggiando leggermente la mano sotto la spalla di Frank. «Vieni, facciamo due passi. Ti accompagno a casa.» Frank si alzò, e Toby chiuse la porta dietro di loro. Scesero la scala, uscirono in strada e camminarono a lungo l'uno accanto all'altro in silenzio. «Dovresti dormire, Frank,» disse Farouk quando arrivarono all'angolo con la Quarantanovesima. Frank diede un'occhiata al piccolo cancello di ferro di fronte al suo ufficio. «Già, forse hai ragione.» Farouk lo guardò diritto negli occhi. «Dormi qui, stanotte?» «Credo di sì. «Da ora in poi?» Frank pensò a Karen accoccolata tra le lenzuola di seta azzurra, pensò a quella stanza, a quella casa e si rese improvvisamente conto con angoscia che non sarebbe mai più stato con lei. «Da ora in poi,» convenne mentre l'alba cominciava a illuminare la strada. 23 Farouk lo stava già aspettando, e quando Frank uscì dagli uffici del sindacato insieme attraversarono la Sedicesima e si diressero in fretta verso il parco di Union Square. «Qui una volta c'era il poligono di tiro,» disse Farouk mentre Frank si sedeva su una panchina accanto a lui. «Passeggiare da queste parti era un'impresa rischiosa.» Frank ripensò al parco ai tempi della fotografia sul giornale del sindacato, con la folla infreddolita ammucchiata sotto i rami spogli degli alberi. «È qui che Hannah tenne il suo discorso,» disse. Il suo sguardo scrutava attentamente quel paesaggio stranamente civilizzato, la collinetta dal profilo arrotondato, il piccolo parco giochi con altalene, giostre e recinti di sabbia. «Credo che sia stato l'ultimo che tenne.» Farouk annuì. «Sì.» Guardò Frank. «Che cosa hai scoperto?»
«Ho parlato con Silverman,» disse Frank. «Abbiamo cercato Naomi Fischelson negli schedari e l'abbiamo trovata. È stata un membro regolare del sindacato fino al 1935.» Farouk sorrise soddisfatto. «La sorella di Hannah è ancora viva?» «No,» disse Frank. «È morta lo scorso anno.» «E suo marito?» «A quanto pare lui è ancora vivo,» rispose Frank. «Almeno ritira ancora la pensione della moglie.» «Questo significa che hanno il suo indirizzo?» «Sì,» disse Frank. «Abita a Brooklyn. The Heights. Sai dove si trova?» Farouk fece un vigoroso cenno d'assenso con il capo. «Sì, conosco quel posto,» disse alzandosi di scatto e dirigendosi verso la stazione della metropolitana. «Andiamo, ti accompagno.» Il palazzo in cui viveva Joseph Fischelson era uno dei pochi nella via che appariva ancora alquanto trascurato. Molte delle facciate di pietra arenaria scura erano già state restaurate, mentre altre erano coperte da ponteggi di metallo, e il rumore dei martelli pneumatici rimbombava nell'aria del primo mattino. «Quattro-C,» disse Frank premendo il tasto del citofono nell'atrio dell'edificio. Udirono in risposta un rumore gracchiante, ma riuscirono comunque a percepire la voce. «Chi è?» «Sono Frank Clemons,» gridò Frank. «Credo che Mr Silverman le abbia telefonato per avvisarla del mio arrivo.» «Sì, salga pure,» replicò la voce facendo scattare l'apertura della porta, e Frank entrò con Farouk nel caseggiato. L'appartamento di Fischelson era all'ultimo piano, e dato che non c'era ascensore, quando raggiunsero la meta erano entrambi senza fiato. Un uomo basso con i capelli bianchi li fissò da sopra una catena lenta di ottone, attraverso l'uscio socchiuso. «Mr Clemons?» domandò l'uomo. «Sì,» rispose Frank. Fece un cenno verso Farouk e lo presentò. «Lui è Farouk, il mio socio. Lei è Mr Fischelson?» L'uomo non rispose, ma aprì la porta. «Ero seduto in terrazza,» disse dopo che furono entrati. «Mi piace la vista. Vi dispiace se restiamo fuori?»
«Assolutamente no,» lo rassicurò Frank. Fischelson fece loro strada attraverso il salotto le cui pareti erano rivestite di fotografie incorniciate che lo ritraevano in compagnia di una donna che Frank pensò essere sua moglie Naomi. Si fermò per un attimo e ne fissò una. Fischelson lo guardò meravigliato. «C'è qualcosa che non va?» chiese con un attimo di esitazione. «No, nulla,» disse Frank. Indicò la fotografia con un dito e chiese: «È sua moglie?» «Sì, è lei.» Frank continuò a fissare la fotografia. «Ho sentito tanto spesso il suo nome, e finalmente ora vedo il suo viso.» Fischelson annuì. «Era una brava donna.» «Ha una fotografia anche di Gilda?» chiese prontamente Frank. Fischelson indicò una seconda fotografia, appesa solo pochi centimetri sopra la prima. «Eccola,» disse mostrando il ritratto di una ragazza con occhi e capelli scuri. «È lei Gilda.» Frank guardò la fotografia in silenzio. «Gilda era molto bella,» proseguì Fischelson, «ma non lo sapeva. Questo era meraviglioso in lei: non si rese mai conto di quanto fosse attraente.» Frank annuì. «Già, capisco.» «Bene,» disse dopo un attimo Fischelson. «Vogliamo cominciare?» Si girò e condusse Frank e Farouk su una piccola veranda. In un angolo vi erano un tavolino per la colazione in ferro battuto e alcune sedie da giardino accatastate l'una sull'altra. «La vista,» esclamò Fischelson tendendo il braccio verso le vetrate, «è sempre molto bella.» «Sì, è vero,» convenne Frank. Dalle finestre si poteva ammirare la grande distesa d'acqua grigia del porto di New York, che si estendeva per miglia e miglia. A nord, le torri di Manhattan si innalzavano con tale maestosità da far apparire piccola la Statua della Libertà e addirittura da far sembrare un giocattolo l'enorme struttura del ponte di Brooklyn. «È per questo che mi piace stare qui,» disse Fischelson. «Per la vista. Questo posto adesso è pieno di gente intraprendente, sempre indaffarata a ristrutturare, a rifare facciate, a installare saune.» Sorrise con ironia. «Gente di Wall Street. Nessuno di loro ha mai visto il Lower East Side.» Scosse il capo guardando la riva lontana di Manhattan. «Non come Naomi e me,
quando non vi era alcuna protezione tra te e un manganello.» Sorrise. «Ma suppongo che Harry le abbia già raccontato tutto di quei tempi.» «Si riferisce allo sciopero del 1935?» chiese Frank. «Lei fu coinvolto?» «Fino al collo,» dichiarò Fischelson. «E anche Naomi.» Diede un'occhiata al piccolo tavolo con il piano in vetro. «Cenavamo qui tutte le sere,» aggiunse sedendosi al tavolo. «Non eravamo una coppia perfetta, ma chi lo è? Lo siamo stati abbastanza da far durare a lungo la nostra vita insieme.» «Mi dispiace che sia morta,» sussurrò Frank. «Fa parte della vita,» disse con rassegnazione Fischelson. «La sua è stata una vita serena. Nessuno si aspettava che durasse in eterno.» Guardò Farouk. «Lei è ebreo?» «No,» disse Farouk. «Sono arabo.» Fischelson sorrise. «Allora siamo entrambi semiti.» Farouk annuì, ma il suo sguardo era inespressivo. «Non è forse questo il modo in cui bisognerebbe porsi di fronte a queste questioni?» si domandò Fischelson. «La nostra provenienza,» disse con indifferenza Farouk, «che importanza ha?» Spostò lo sguardo sulla baia grigia e piatta e mosse una mano in aria. «Veniamo tutti da là,» disse. I suoi occhi parvero attraversare Fischelson. «Lei è polacco?» «Forse sono russo, o forse polacco,» disse Fischelson. «A quei tempi la nazionalità dipendeva dal giorno della settimana in cui te ne andavi.» Farouk rise. «I confini continuavano a cambiare,» disse Fischelson, «io avevo solo nove anni. Che cosa vuole che ne sapessi?» «Sua moglie,» cominciò lentamente Frank, «era originaria di un paese vicino a Bialystok.» «Sì.» «E anche le sue due sorelle.» «Gilda e Hannah.» Frank estrasse il suo taccuino degli appunti. «Penso che lei sappia già di Hannah.» «Me lo ha riferito Mr Silverman quando mi ha telefonato poco fa.» «Non lo sapeva già?» «Avevo letto che una donna era stata assassinata,» disse Fischelson. «Ma aveva un altro nome. Quando io conoscevo Hannah, il suo nome era Kovatnik.» Scrollò le spalle. «Non c'era la fotografia sul giornale, e il cognome Karlsberg non mi diceva nulla.»
«Non l'aveva più vista da quando aveva cambiato nome?» gli domandò Frank. «No.» «Qual è stata l'ultima volta che ha parlato con Hannah?» Fischelson si sporse leggermente in avanti. «Sa del processo, o come accidenti vuole chiamarlo?» «Sì.» «Sa tutto?» «So che lei ha parlato con un uomo di nome Stern e che fu lui a presentare le accuse contro Hannah.» Fischelson tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Allora è al corrente di tutto,» disse. «Hannah, lei non ha mai saputo.» «Che era stato lei a riferire tutto a Stern?» chiese Frank. «Non lo venne mai a sapere,» ammise Fischelson. «Non le passava nemmeno per la testa che io potessi essere al corrente di tutto. E non sospettò mai di Naomi. In fin dei conti, erano sorelle.» «Così voi restaste in buoni rapporti anche dopo il processo?» chiese Frank. «Per un breve periodo,» disse Fischelson. «Fino a quando fu possibile.» «Si spieghi meglio.» «Fino a quando non andò a lavorare per Bornstein,» lo informò Fischelson. Rifletté un attimo, poi aggiunse: «Ma anche prima era diverso.» «In che senso era diverso?» «Lei era diversa da prima,» disse Fischelson. «Come se si fosse spenta. Era diventata fredda.» Scrollò il capo. «Era come se la vecchia Hannah fosse morta e una nuova donna si fosse impossessata del suo corpo.» Sorrise tristemente. «Sa, aveva grandi speranze,» aggiunse. «Durante lo sciopero, intendo. E quando accadde questo episodio con Feig, e poi seguì l'udienza, Hannah si staccò da noi.» Alzò le mani in aria, con le dita distese, e poi le lasciò ricadere in avanti come se fossero esauste. «E così lei perse qualcosa. Non so come spiegarmi, ma qualcosa perse. Lo spirito, forse. Lei aveva un grande spirito.» Sorrise improvvisamente, e i suoi occhi brillarono come se delle piccole luci si fossero accese nella sua memoria. «Ha letto il suo discorso? Quello che tenne in Union Square?» «Sì, l'ho letto.» «Allora mi capisce quando parlo di spirito,» concluse Fischelson. «Quello che possedeva quando lottava. E quando terminò la lotta, lo perse.» «E fu allora che andò da Bornstein?»
«Fu tagliata fuori da qualcosa,» disse Fischelson, «e così cercò qualcos'altro. Talvolta capita alle persone.» «E cercò Bornstein?» domandò Frank. Fischelson annuì. «Lui era solo una parte di ciò che cercava.» Rifletté per un attimo. «Era distante da ciò che era stato importante per lei.» Guardò Farouk, poi di nuovo ritornò con lo sguardo su Frank. «Bornstein aveva una predilezione per Hannah, e le offrì un lavoro. Lei ne aveva bisogno, e accettò. Così andarono le cose.» Voltò lo sguardo verso la baia. «Per un po' fece scalpore il fatto che andasse a lavorare per lui. Nessuno sapeva dell'udienza: doveva restare segreta, così lei non poteva dire a nessuno che era stata sbattuta fuori. Doveva sembrare che lei avesse semplicemente deciso di andarsene e di saltare la barricata, di lasciare i discorsi in Union Square e diventare la ragazza di Bornstein.» Frank sbirciò i suoi appunti. «Lasciò New York nel marzo del 1936.» «Un giorno più freddo non si può immaginare,» ricordò Fischelson. «L'accompagnammo alla nave. Ovviamente c'era anche Gilda. Se ne stavano tutte e due di fronte alla nave tremanti per il freddo. Non avevo mai visto Hannah così abbandonata a se stessa, così sola. Gilda cercò di andarle vicino, di abbracciarla, ma lei si divincolò con quello sguardo negli occhi, uno sguardo gelido.» Frank prendeva appunti. «Ma non le restava altra scelta che andarsene,» disse Fischelson. «A Hannah, ovviamente. Non poteva restare a New York. Come sarebbe potuta rimanere? Voglio dire, con quello che la gente pensava di lei, come se fosse una traditrice.» «Così decise di andare in Sud America,» disse Frank. «In Colombia.» «Esatto,» disse Fischelson. «Conservo alcune lettere che ci inviò.» «Da dove le spediva?» «Un posto chiamato San Jorge,» rispose Fischelson. «Non ne avevo mai sentito parlare prima, ma credo che fosse un piccolo villaggio in mezzo alla giungla. È là che andò.» «Che cosa faceva laggiù?» «Qualcosa per Bornstein.» «Non ve lo ha mai detto con precisione?» «Qualcosa nel settore dell'abbigliamento, come qui,» disse Fischelson. «Ma non so dirglielo con esattezza.» Di nuovo si strinse nelle spalle. «Per alcuni anni, forse cinque, ci scrisse. Ma dopo di allora non ricevemmo più sue notizie.»
«E Gilda?» chiese immediatamente Frank. «Anche lei andò in Colombia con Hannah?» «Sì.» «Perché?» «Perché lei adorava Hannah,» disse Fischelson. «Hannah è stata per lei quasi come una madre.» «Così lei non pensò mai di restare a New York?» «No,» disse Fischelson. «Non credo le sia mai passato per la mente di vivere lontano da Hannah.» «Ebbe notizie da Gilda?» «Spesso,» disse Fischelson con tenerezza. «Ci parlò delle persone che vivevano laggiù, a San Jorge, e di come vivevano.» Sorrise serenamente. «Avevamo l'impressione che lei se ne fosse quasi innamorata.» «Innamorata?» ripeté Frank. «Che cominciasse a vivere come loro,» spiegò Fischelson. «Come se fosse una di loro, e non una straniera.» Frank annotava tutto sul taccuino. «Di che cosa vi scriveva?» Fischelson ci pensò per un attimo. «Ci parlava del modo in cui pescavano e facevano il bagno nel fiume. Avevamo l'impressione che fosse un popolo primitivo, ma che Gilda avesse imparato ad amare le persone, il luogo, tutto.» «Vi parlò di ciò che faceva con Hannah?» chiese Frank. Fischelson scosse il capo. «Sapevamo che lavorava per Bornstein,» disse. «Ma non ci disse mai con precisione ciò che faceva.» Sorrise rilassato. «Le sue lettere erano strane,» aggiunse con fare pensieroso. «Molto serene. Piene d'amore, si potrebbe dire. Fu una vita breve la sua, ma dalle lettere intuimmo che fosse felice.» Frank finì di scrivere e poi levò lo sguardo. «Di che cosa è morta Gilda?» chiese. «Di una malattia tropicale,» spiegò Fischelson. «Non so di preciso quale.» «Come veniste a sapere della sua morte?» «Ce lo comunicò Hannah,» disse Fischelson. «Solo un breve telegramma. Diceva qualcosa come: 'Morta Gilda. Spedisco salma'. Solo poche parole. Molto... formale. Sa, come se mandasse una cassa di banane.» Si mosse leggermente sulla sedia. «Il modo in cui Hannah si comportò fece andare Naomi su tutte le furie.» «Che cosa intende dire?»
«Be', per prima cosa non arrivò alcuna salma,» disse Fischelson. «Hannah l'aveva fatta cremare. Tutto ciò che arrivò fu una piccola cassetta contenente le sue ceneri.» «Ed è ciò che seppelliste?» «Non sapevamo che cos'altro farne,» protestò Fischelson. «So che certe persone le conservano, magari in un barattolo, sul camino. Ma noi non potevamo farlo, e così finimmo per seppellirle come fossero il corpo.» «Le faceste un funerale?» «Se lo si può chiamare così,» disse Fischelson. «Partecipammo solo Naomi e io.» Il suo volto parve improvvisamente teso e affaticato. «Naomi era furente con Hannah. Non solo per la cremazione, ma soprattutto per il fatto che non portò lei le ceneri. Da allora non ricevemmo più sue notizie. Quel telegramma fu l'ultima notizia che ricevemmo da lei.» «Così non veniste a sapere che si era sposata?» chiese Frank. «Sposata?» ripeté meravigliato Fischelson. «Hannah si era sposata?» «Sì,» rispose Frank. «Pochi giorni dopo la morte di Gilda.» Sul volto di Fischelson apparve un'espressione di meraviglia. «No, non lo sapevo,» disse. «Non sapevo che Hannah si fosse sposata.» «Sapeva che era tornata negli Stati Uniti?» chiese subito dopo Frank. «Lo immaginai,» rispose Fischelson. «Ma solo recentemente.» «Quando?» «Circa due mesi fa.» «Si era messa in contatto con lei?» Fischelson rise. «Be', non direttamente,» disse. «Ma forse, a modo suo, ci stava provando.» «Che cosa intende dire?» «Naomi e Gilda sono seppellite l'una accanto all'altra,» spiegò Fischelson. «Ogni settimana io vado al cimitero a trovarle. Circa due mesi fa cominciai a vedere sulla tomba di Gilda dei fiori, fiori freschi. Nulla di particolare, solo una rosa. Ma non l'avevo portata io.» «Così pensò che fosse Hannah?» chiese Frank. «Non riuscivo a pensare a nessun altro,» mormorò Fischelson. «Naomi era morta. Chi altri avrebbe potuto essere? Voglio dire, non era più nel nostro paese dal 1936. Nessuno la conosceva, tranne forse le persone di quel villaggio colombiano. Quando Gilda lasciò New York, aveva solo Hannah. Quando morì in quel villaggio, lasciò tutto ciò che possedeva.» Scosse il capo con decisione. «Doveva essere Hannah. Forse aveva qualche rimorso di coscienza.»
«Allora lei non cercò di risalire alla persona che portava quei fiori?» domandò Frank. «Non la cercò, non tentò di mettersi in contatto con lei?» «No,» rispose risolutamente Fischelson. «Perché mai avrei dovuto farlo? Naomi era morta e non avevo notizie di Hannah da più di trent'anni.» Guardò Farouk come se cercasse comprensione. «E inoltre, che cosa avrei potuto dirle? 'Sai, Hannah, sono stato io a tradirti. Sono stato io che ti ho mandato in Colombia, che ho mandato Gilda a morire laggiù.' Non lo sapeva nemmeno Naomi.» Rise con amarezza. «Talvolta, non resta che il silenzio.» «È vero,» convenne Frank, chiudendo il taccuino e riponendolo nella tasca della giacca. «Mr Silverman le ha detto il motivo per cui volevo parlarle?» «Mi ha soltanto detto che Hannah è stata uccisa, e che lei sta indagando sul suo passato.» «Non è tutto,» precisò Frank. «Ci sono alcuni problemi per la restituzione della salma per la sepoltura.» «Perché?» «La polizia non la rilascia se non ne fa richiesta un parente.» «Davvero?» «Da un punto di vista legale, lei è suo parente.» «E lei vuole che io mi presenti per richiedere il corpo?» domandò Fischelson. «Che lo faccia seppellire?» «Sì.» «Ma io sono solo suo cognato. Tra noi non ci sono legami di sangue.» «Non importa,» assicurò Frank. Fischelson rimase perplesso per un istante, poi il suo volto tornò a distendersi. «Va bene,» acconsentì. «Lo farò.» Spostò lo sguardo da Frank a Farouk, e poi ancora su Frank. «Forse posso cercare di farmi perdonare.» Guardò fuori della finestra l'immenso muro grigio di Manhattan. «Lo sa,» disse, «non sono mai stato sicuro di aver fatto la cosa più giusta.» «Che cosa intende dire?» «Nel riferire tutto a Stern,» precisò Fischelson. Il suo sguardo si addolcì e lui parve afferrare qualcosa dentro di sé e portarlo alla luce. «Ho convissuto con questo fin troppo a lungo,» disse infine. «Con che cosa?» «Con questo segreto,» disse Fischelson. «Con questo orribile segreto.» «Quale segreto?» Fischelson ebbe ancora qualche istante di esitazione, poi cominciò.
«Fu l'amore,» disse. «Io ero innamorato di Hannah. Pazzamente innamorato, ma lei non voleva saperne di me. Così io decisi di lasciar perdere.» Alzò le spalle. «Poi scoprii di Feig, ciò che lei aveva fatto. Dissi a Stern che avevo ascoltato di nascosto, ma in realtà era stata Naomi a raccontarmi tutto. Non so che cosa ne pensasse lei, ma io giudicai che Hannah avesse fatto una cosa terribile e così andai da Stern.» Guardò verso la baia, seguendo una nave da crociera che si allontanava dal porto lasciando dietro di sé una scia che si infrangeva sulla punta di Manhattan. «Forse l'ho fatto perché cercavo veramente di aiutare il sindacato, oppure perché desideravo soltanto distruggere Hannah.» Il suo sguardo ritornò su Frank. «Ancora oggi, non so perché l'ho fatto.» Guardò Farouk. «Non credo che riuscirò mai a darmi una spiegazione.» Frank si alzò in piedi. «Voglio ringraziarla per aver acconsentito a richiedere la salma di Hannah,» gli disse. Fischelson sorrise, ma era triste. «Date le circostanze, non mi resta altro da fare per lei.» Impiegarono solo pochi minuti per raggiungere il distretto di Midtown North, sulla Cinquantaquattresima. Tannenbaum li stava aspettando, e restò pazientemente seduto alla sua scrivania mentre Fischelson riempiva i moduli necessari, firmando poi la richiesta del corpo di Hannah. «Bene, siamo a posto,» disse Tannenbaum raccogliendo i fogli e infilandoli in una cartelletta. Si alzò in piedi e tese la mano a Fischelson. «Grazie per essere venuto.» Fischelson strinse la mano a Tannenbaum e poi scomparve giù dalle scale. «È un uomo simpatico,» disse Tannenbaum a Frank sedendosi di nuovo dietro la scrivania. Lanciò una rapida occhiata a Farouk, poi tornò a guardare Frank. «Bene, suppongo tu abbia concluso il tuo lavoro.» «Già,» confermò Frank. «Miss Covallo saprà ricompensarti generosamente,» aggiunse Tannenbaum. Di nuovo lanciò un'occhiata a Farouk, poi tornò a guardare Frank. «Hai bisogno di altro?» «Quando sarà disponibile la salma?» chiese Frank. «Entro questo pomeriggio,» rispose Tannenbaum. «Va bene per la tua cliente?» «Immagino di sì.» «Bene,» concluse Tannenbaum. Si appoggiò mollemente allo schienale
della sedia e incrociò le mani sul petto. «Nient'altro?» «No,» rispose Frank. «D'accordo,» disse Tannenbaum. «In tal caso, se mi vuoi scusare, torno al lavoro.» Li guardò con aria ottusa. «Perché io sono solo un piedipiatti in borghese, e ho ancora un caso di omicidio da risolvere.» 24 Alcune ore più tardi, Frank stava aspettando appoggiato al cancello in ferro davanti al suo ufficio, quando l'auto di Imalia si fermò accanto a lui. La portiera posteriore si spalancò immediatamente. «Salve, Frank,» lo salutò Imalia facendogli posto sul sedile. «Sto andando all'aeroporto. Possiamo parlare lungo la strada?» Frank salì in auto e chiuse la portiera dietro di sé. «Mi dispiace per il disturbo,» disse Imalia mentre l'auto svoltava a sinistra, «ma devo essere a Washington per questa sera. È una corsa. Domani mattina devo essere di nuovo a New York. Sto organizzando una festa grandiosa al Museo d'Arte Americana per domenica sera.» Frank annuì. «Vuole qualcosa da bere?» «No, grazie.» «Spero che non le dispiaccia se mi servo,» disse Imalia. Tirò leggermente una maniglia d'argento davanti a sé e aprì il mobile bar. «Mi pare di aver capito che ha notizie importanti da darmi,» riprese lasciando cadere un solo cubetto di ghiaccio nel bicchiere. «Nulla che non avrei potuto comunicarle per telefono,» disse Frank. «Non amo parlare per telefono,» replicò subito Imalia, leggermente irritata. «È troppo impersonale. Forse sono così perché lavoro con i tessuti, ma mi piace toccare con mano.» Si versò un whisky, poi si mise comoda. «Mi dica.» «Come già sapeva, Hannah aveva due sorelle,» cominciò Frank. «Sono morte entrambe, ma una delle due, Naomi, era sposata. E il marito è ancora vivo.» «Davvero? Dove vive?» «Qui a New York.» Imalia lo guardò eccitata. «L'ha rintracciato?» «Sì.» «Ma è fantastico, Frank.»
«Vive a Brooklyn,» le spiegò Frank. «Gli ho parlato questa mattina.» «Può farsi rilasciare il corpo?» incalzò Imalia ansiosa di sapere. «L'ha già richiesto,» annunciò Frank. «Oggi si è recato al distretto di Midtown North e ha firmato tutti i moduli. La salma di Hannah è pronta per la sepoltura in qualsiasi momento.» «Eccellente, Frank,» disse Imalia. «Davvero eccellente.» «Mr Fischelson, il cognato vorrebbe che fosse sepolta accanto alle sorelle.» «E dove sono sepolte loro?» «Nel cimitero ebraico di Brooklyn.» «Certo,» esclamò Imalia senza esitare, «come lui desidera.» «Bene.» «Per quanto riguarda le spese, sarei felice di potermene occupare.» «Lui lo apprezzerebbe,» ipotizzò Frank. «Non credo che abbia molto denaro.» «Lo consideri già fatto,» dichiarò con vivacità Imalia. «Non c'è problema. Sarebbe un onore per me, davvero.» «Glielo riferirò.» «Lo faccia.» «Vuole sapere dove sarà?» Imalia lo guardò interrogativa. «Che cosa?» «Il funerale,» replicò Frank. «L'ora e il luogo.» «Oh, sì, certo,» disse Imalia. «Se non ci sono, lo lasci detto sulla segreteria telefonica.» «D'accordo.» «Bene,» dichiarò Imalia soddisfatta. Alzò il bicchiere e aggiunse: «È sicuro di non voler brindare al suo successo?» Frank fece cenno di no con il capo. «Mi permetta almeno di dirle che ha fatto un magnifico lavoro, Frank,» si complimentò Imalia. «Karen deve essere fiera di lei.» Frank non disse nulla. Imalia bevve un lungo sorso e poi depose il bicchiere sul vassoio. «Ovviamente la gratitudine non basta, vero?» domandò sorridendo. Frank guardò fuori del finestrino della limousine. Stavano attraversando un mondo di splendide boutique e di ristoranti esclusivi, e ora si dirigevano verso le nude travi d'acciaio del ponte della Cinquantanovesima. «La sua parcella,» disse Imalia. «Come desidera essere pagato?» Frank continuò a fissare fuori del finestrino. Sotto i suoi occhi scorreva-
no interi isolati di gallerie d'arte e un'infinità di vetrine che mostravano il meglio che si potesse acquistare, le cose più ricercate del mondo. «La sua parcella, Frank,» ripeté Imalia. «Come vuole essere pagato?» Frank non la guardò negli occhi. «Non ha importanza,» disse. «Le faccio un assegno? O preferisce i contanti?» «Non ha importanza,» ripeté Frank. «E la cifra?» Frank la fissò. «Duemila dollari.» Imalia estrasse il libretto degli assegni. «Più un premio,» disse cominciando a scrivere. Di nuovo Frank voltò lo sguardo verso il finestrino. L'auto si muoveva silenziosamente lungo Madison Avenue, poi svoltò nella Cinquantasettesima. «Ecco qui,» disse Imalia porgendogli l'assegno. «Come può vedere, ho aggiunto altri duemila dollari.» «Non era necessario,» le disse Frank. «Lo è, se vuoi essere servito bene,» dichiarò Imalia. «E in fin dei conti, è questo ciò che importa, non crede?» Frank ripose l'assegno in tasca. «Dove posso lasciarla?» domandò Imalia. «Lasciarmi?» «Non credo che voglia fare una gita fino all'aeroporto La Guardia,» ribatté lei. «No, infatti.» «Qui all'angolo va bene?» «Sì,» convenne Frank. Imalia diede l'ordine all'autista. L'auto accostò all'angolo tra la Cinquantasettesima e la Terza, e Frank scese immediatamente. «Ancora una volta, grazie,» ripeté Imalia mentre Frank se ne stava sull'angolo in mezzo a un via vai continuo di gente. «La raccomanderò a tutti i miei amici.» Sorrise con dolcezza, e per un istante a Frank parve di rivedere la ragazzina che doveva essere stata, minuta, pallida, con le gambe snelle a penzoloni da una scala antincendio sopra le strade brulicanti di Little Italy, ed ebbe il desiderio di fissare nella mente il suo volto come lo vedeva ora e studiarlo per ore e ore, per cercare di ripercorrere la strada che l'aveva condotta da Prince Street ai negozi eleganti dell'Upper East Side. Forse Imalia intuì questi pensieri, e con un movimento rapido e deciso chiuse la portiera fra loro, come per ricondurlo alla realtà.
L'appartamento di Karen non distava molto dal luogo dove Frank si trovava ora, ma lui si incamminò lentamente, cercando di abituarsi a quella strana sensazione di disagio che da sempre lo assaliva alla conclusione di un caso. Gli sembrava che tutto si svolgesse sulla superficie di qualcosa di molto più profondo e misterioso, una corrente sotterranea oscura e mutevole in cui certe volte desiderava immergersi per poi tornare in superficie con una consapevolezza più profonda ed estesa di ciò che sotto si muoveva furtivamente nell'oscurità. Stava ancora pensando vagamente a Hannah, perso nella vuota confusione di un incarico ormai svolto, quando aprì la porta dell'appartamento e trovò Karen in salotto, a braccia conserte, che lo fissava con i suoi occhi azzurri. «Mi sei mancato, la scorsa notte,» gli disse. «Mi dispiace.» «Oggi ho deciso di non andare a lavorare,» affermò Karen. «Ho deciso di aspettarti. Di aspettarti finché non fossi tornato a casa.» Frank non disse nulla. «Non sono una donna insicura, Frank,» aggiunse Karen. «No, non lo sei.» «E non mi aggrappo alle persone, lo sai.» «Sì.» «E non mi aggrapperò a te,» aggiunse con schiettezza. «Lo so.» «Ma del rispetto mi importa,» disse Karen. «Il rispetto di me stessa mi interessa.» Scosse il capo. «Forse è stato quando ci siamo incontrati, il modo in cui ci siamo incontrati. Forse ero troppo vulnerabile, per via di mia sorella e tutto il resto. Forse anche tu lo eri. Per Sarah, per Sheila. Entrambi eravamo troppo vulnerabili.» Lei attese una risposta che non venne, e allora aggiunse: «Forse ho fatto un grosso errore, Frank.» «Forse lo abbiamo fatto entrambi,» disse Frank. «È così che accade di solito.» «Allora è vero che qualcosa non va,» continuò Karen. «Non si tratta solo della mia immaginazione.» «No.» «E non si tratta nemmeno del caso a cui lavori.» «No, infatti.»
Si alzò in piedi lentamente. «Che cosa c'è, allora?» «Non lo so,» ammise Frank. «Forse il tempo ha cambiato qualcosa.» «Stiamo insieme solo da un anno.» «Allora sarà qualcos'altro. Non lo so.» «Amore,» disse decisamente Karen, «che cos'altro potrebbe essere?» «Credo di sì,» ammise Frank. Sul viso di lei apparve un'ombra di tristezza, ma Frank capì che non era per lui, ma per il modo in cui vanno le cose, le complicazioni, le delusioni, per il modo in cui la vita ci si presenta, ci si offre, e se ne va prima che si possa sperare di imparare a viverla. «Sei tornato per prendere le tue cose, vero?» domandò Karen. «Sì.» «I tuoi due abiti. Che cosa ancora?» «Calze, rasoio. Vuoi che ti faccia l'elenco?» «Dove andrai a stare?» «In ufficio.» «Vivrai lì?» «Per un po' di tempo.» «Sei certo di volerlo fare?» «Sì, sono sicuro, Karen,» disse Frank. Lei lo guardò con affetto. «Lo sono anch'io, Frank. Non posso farci nulla.» «Perché dovresti?» le domandò Frank. Sorrise. «Non sei una bugiarda, Karen. Non lo sei mai stata.» Alzò le spalle. «Abbiamo fatto un tentativo, ma non ha funzionato. In questi casi, non c'è null'altro da fare.» Lei cominciò a dire qualcosa, poi si fermò un attimo. Finalmente, decise di continuare. «C'è... un'altra donna?» «No.» «Lo avrei preferito, Frank. Lo avrei preferito davvero.» Lui non le rispose, e per alcuni secondi si fissarono come se fossero nuovamente due estranei, come lo erano stati il primo giorno, lei con i suoi blue jeans macchiati di colore, e lui con il suo polveroso abito marrone. «Io sì,» confessò infine Karen. «Io ho un'altra persona.» «Lancaster,» disse Frank. «Lo so.» Karen annuì. «Non abbiamo mai... eppure...» «Non importa, Karen.» «No, credo di no,» disse Karen. Si voltò per un attimo, con lo sguardo fisso sulla terrazza. Poco dopo, lo guardò di nuovo. «Ascolta, Frank, se il
denaro...» «No,» la interruppe Frank. «Sono appena stato pagato dalla tua amica Imalia.» «Hai concluso quel caso?» Frank annuì con il capo. «Com'è andata a finire?» Frank sorrise con tenerezza. «Che differenza fa, Karen?» I tratti del suo volto parvero addolcirsi in maniera inesprimibile, poi lei gli si avvicinò e lo abbracciò. «Mi dispiace,» sussurrò. «Mi dispiace molto.» Lui si lasciò abbracciare, per sentire ancora una volta il calore del suo corpo e la freschezza dei suoi capelli. Ma qualcosa che dentro di lui era già perso a metà si smarrì del tutto nel profondo del suo animo. Il telefono stava squillando quando Frank entrò in ufficio. Appoggiò in fretta i suoi pochi bagagli sulla scrivania e rispose. «Frank, sono Leo,» disse Tannenbaum con un tono di voce dal quale era scomparsa quell'intenzione di congedarlo che aveva manifestato nel corso del loro ultimo incontro. «Volevo informarti che abbiamo rilasciato il corpo. Ufficialmente, intendo. Tutte le carte sono a posto.» «Grazie.» «Non c'è di che,» disse Tannenbaum. «Hai già chiamato Mr Fischelson?» «Sì,» rispose Tannenbaum. «Mi ha detto che avrebbe fatto in modo che la salma fosse ritirata oggi stesso.» «D'accordo,» disse Frank. «Grazie.» Riappese il ricevitore, ma lo riprese subito e chiamò Fischelson. «Mi hanno detto che il corpo è già stato rilasciato,» disse. «La ringrazio. Da parte della mia cliente.» «Sono stato felice di farlo,» dichiarò Fischelson. «Come le ho già detto, mi sentivo quasi obbligato.» «Quando ha intenzione di fare il funerale?» «Domani pomeriggio.» «Dove?» «Al Beth Israel,» disse Fischelson. «È il cimitero ebraico di Brooklyn. La sepoltura avverrà alle tre.» Si interruppe, come se non riuscisse a trovare le parole giuste per esprimersi. «Come lei sa,» disse infine, «io non ero più in contatto con Hannah.»
«Sì.» «Probabilmente, lei la conosceva meglio di me.» «Forse.» «Così, mi chiedevo...» continuò con esitazione Fischelson. «Sa se era praticante?» «No, non lo so.» «Lei era ebrea. Nata ebrea. Sa di suo padre?» «Sì.» «Bene... che cosa ne dice?... Dovrei chiamare un rabbino?» «L'aveva fatto per le sue sorelle?» chiese Frank. «Sì, allora l'avevo chiamato,» rispose Fischelson. «Soprattutto in memoria del padre.» «Be', era anche il padre di Hannah,» replicò Frank con un improvviso senso di devozione. «Sì, lo era,» disse Fischelson concludendo la telefonata. Frank raccolse il suo abito dalla scrivania e lo appese nel piccolo armadio accanto alla porta d'ingresso, poi ripose il dentifricio, lo spazzolino e il necessario per la barba nel piccolissimo bagno. Era tutto ciò che possedeva, ma la cosa non lo preoccupava eccessivamente. Restò in piedi alcuni minuti davanti alla finestra a guardare la gente che passava sul marciapiede, poi tornò a sedersi alla scrivania. Restò a lungo seduto in silenzio, con gli occhi fissi sulla lampada che Karen gli aveva regalato. La luce di quel tardo pomeriggio si rifletteva sulla superficie di ottone creando deboli bagliori rossastri, e per un istante Frank riconobbe la bellezza di quell'oggetto, la stessa che probabilmente Karen aveva visto nello stelo snello e incurvato o nei riflessi variegati prodotti dalla fitta rete di vetri colorati. Era bella per la cura che era stata messa nel crearlo, per la mente che l'aveva concepito e per le mani che l'avevano forgiato, perché testimoniava quell'impegno costante che, secondo lui, conferiva l'unico vero valore a tutte le opere umane. 25 Il cimitero di Beth Israel era un'enorme distesa di pietre grigie grandi e piccole, alcune accuratamente scolpite, altre semplici e prive di ornamenti. Le due nell'angolo in fondo a destra erano modeste ma dignitose, e parevano imporre un rispettoso silenzio alle poche persone che si erano raccolte intorno alla fossa per la sepoltura di Hannah Karlsberg.
Imalia, avvolta in un lungo abito nero con cappello e veletta, stava con le mani lungo i fianchi in atteggiamento compunto accanto a Riviera, i cui capelli bianchi brillavano nella luce smagliante del pomeriggio. Fischelson stava fermo al suo posto ai piedi della tomba. Fece un cenno di saluto a Frank quando gli si avvicinò, ma i suoi occhi rimasero fissi sull'uomo con il cappotto nero che stava dalla parte opposta della fossa e pregava lentamente in ebraico ondeggiando avanti e indietro insieme con alcuni altri uomini, anche loro vestiti con cappotto e cappello nero. Quando il rabbino ebbe terminato le preghiere, Fischelson gettò una manciata di terra sulla bara, poi pagò prima il rabbino e quindi gli altri. «Sa, non mi è mai piaciuto,» disse a Frank quando anche l'ultimo degli uomini ebbe preso il suo denaro e se ne fu andato con passo svelto verso il cancello del cimitero. «Non mi è mai piaciuto il modo in cui questi uomini girano intorno ai cimiteri.» «Chi sono?» «Religiosi,» rispose Fischelson con fare sdegnoso. «Quelli usciti dalla yeshiva.» Indicò con un movimento del capo gli uomini che si allontanavano camminando tra le scure pietre tombali dietro il rabbino. «Se ne stanno lì con i loro libri di preghiera, al cancello, come avvoltoi.» Guardò Frank arrabbiato. «E questa la chiamano religione?» Frank non disse nulla. «Forse è perché sono diventato vecchio e acido,» rifletté Fischelson voltandosi a guardare le tre tombe. «È la vita, lo so. Ma non va, non va proprio. Non so perché.» Imalia si avvicinò facendo con il capo un cenno cortese verso i due uomini. Porse la mano a Fischelson. «Sono molto dispiaciuta,» disse scoprendosi il viso e arrotolando la veletta sopra il cappello. «Hannah era una persona meravigliosa.» Fischelson annuì in silenzio. «Avrei voluto conoscerla meglio,» proseguì Imalia, «ma le posso dire che certamente la rispettavo, e che sentiamo tutti la sua mancanza.» «Questo è certo,» asserì Riviera che sopraggiunse dietro di lei. Imalia accennò un sorriso, poi si allontanò verso la limousine che l'aspettava davanti al cancello. «È una cosa terribile, quella che è accaduta a Hannah,» disse Riviera avvicinandosi a Fischelson. «Una cosa terribile.» Il suo sguardo si posò su Frank. «Ma almeno ora è in pace,» commentò. Guardò di nuovo Fischel-
son, gli strinse la mano con un rapido gesto e poi s'incamminò di buon passo e scomparve nella limousine. Fischelson lanciò un'ultima occhiata alle tre tombe e si incamminò lentamente verso il cancello, con le spalle leggermente incurvate come per ripararsi dal freddo. Frank camminava accanto a lui. «Che cosa avrei dovuto fare?» disse Fischelson quando ebbero quasi raggiunto l'uscita del cimitero. «Me lo dica. Che cosa avrei dovuto fare con Hannah? Se si fosse scoperta - la questione con Feig e Bornstein -, se si fosse scoperta, tutto il sindacato ne sarebbe uscito danneggiato.» Frank annuì. «Hannah si era comportata in modo sconsiderato,» aggiunse Fischelson con veemenza. «È stato stupido ciò che ha fatto.» Frank non disse nulla. «Ma ciò che ho fatto io l'ha distrutta,» riprese Fischelson. «È stato come se io le avessi strappato il cuore con un coltello. È stata la stessa cosa.» All'orizzonte, verso est, un muro impenetrabile di nuvole grigie incombeva sulla città, le stesse nuvole che Frank ricordava di aver visto in gioventù, gravide di neve e spinte dai freddi venti invernali. «È finita,» disse. «Ora è sotto terra.» Fischelson lanciò uno sguardo profondo a Frank. «Avrei preferito che cadesse sotto i colpi di manganello in Union Square, colpita a morte mentre lanciava slogan con il pugno teso verso l'alto.» Improvvisamente la sua voce si ruppe. «La amavo,» disse. «Ciò che le ho detto è vero.» Guardò Frank apertamente. «Capisce che cosa intendo dire, vero?» «Sì.» «Innamorato,» disse Fischelson con passione. «Innamorato della sorella di mia moglie.» Rise, ma non c'era allegria nella sua voce. «Lo dissi una volta a un ragazzo con il quale lavoravo, Eddie Panuchi. Gli raccontai tutto e lui mi cinse le spalle con il braccio e mi disse: 'Sai, Joe, quando sento queste cose ripenso a ciò che mi diceva mia madre a proposito di situazioni analoghe. Ehi, sarebbe potuto accadere anche a un vescovo.'» «Lo disse anche ad altri?» domandò Frank. «Oltre a Eddie? Certamente no,» esclamò Fischelson. «Era una cosa tra Hannah e me.» Tacque un istante, pensoso. «Fu durante lo sciopero,» continuò. «Non ce la facevo più.» Chinò la testa, come per ricevere il colpo che riteneva di meritare. «Andai da lei, da Hannah, e le dissi ciò che provavo.» Si fermò e si appoggiò a una tomba. «Io amavo Naomi, la amavo veramente. Ma per Han-
nah sentivo un fuoco ardere dentro di me. Una passione incontrollabile.» Guardò Frank con espressione supplichevole. «Mi capisce?» «Sì, certo.» Fischelson sorrise. «Sa che cosa mi disse Hannah?» chiese. «Questo le spiegherà tutto quello che ha bisogno di sapere di lei.» Si allontanò dalla tomba e riprese a camminare, come se si fosse rinfrancato. «Mi accarezzò il viso e mi disse: 'Joseph, un amore alla volta.'» Si fermò guardando negli occhi Frank. «Voleva dire che una persona può dedicarsi a una sola passione, non a due, e che se non riesci a dedicare tutto il tuo cuore a qualcosa, completamente, tu non vali nulla.» Alzò le spalle stancamente. «Forse fu questo che mi spinse a dire tutto a Stern. Forse cercavo di portarle via quella sua passione per averla poi tutta per me.» Il suo sguardo tornò lentamente verso l'angolo del cimitero dove giacevano le sorelle Kovatnik, tutt'e tre insieme come una volta nella loro stanzetta nella sinagoga. «Non so se il fatto che lei non potesse ricambiare il mio amore c'entrasse qualcosa,» aggiunse sommessamente, con un lungo e tormentato sospiro. «Ma le posso confessare, Mr Clemons, è la sola cosa alla quale abbia veramente pensato negli ultimi quarant'anni.» Camminarono insieme fino all'uscita del cimitero, poi aspettarono in silenzio fino a quando, alcuni minuti dopo, l'autobus arrivò alla fermata. Quando le porte si aprirono, Fischelson sali in fretta e pagò il biglietto. «Grazie per il suo aiuto,» gli disse Frank. Un sorriso triste apparve sul viso di Fischelson quando si voltò verso Frank per un'ultima parola. «Crede che ora riposi in pace?» domandò. Frank non rispose, mentre le porte dell'autobus si richiudevano con uno stridente sibilo idraulico. Frank restò alcuni minuti sull'angolo, con le mani affondate nelle tasche e il collo del cappotto rialzato per ripararsi dal vento invernale sempre più gelido. Non aveva voglia di tornare nella sua casa, o ufficio, o qualunque cosa fosse. In quel momento non aveva voglia neppure di tornare nel suo quartiere, con tutti i suoi bar, gli alberghi, i portici scintillanti. Tornò indietro, varcò il cancello di ferro del cimitero e vagabondò tra le lapidi grigie, fino al punto in cui la fossa di Hannah, in attesa di essere coperta, si apriva fra le tombe delle sue sorelle. Si appoggiò a una pietra vicina e sbirciò nella terra sventrata il cofano elegante e lucido. Fumò una sigaretta senza trarne piacere, cercò un posto dove gettare la cicca, ma alla fine se la mise in tasca e accese un'altra sigaretta. Guardò le grigie nubi
che incombevano, poi la distesa di tombe, il lontano cancello di ferro battuto e infine quell'unica rosa rossa che ondeggiava al vento sulla tomba di Gilda Kovatnik. Frank stava seduto con lo sguardo assente alla sua scrivania quando udì qualcuno entrare. Alzò gli occhi e vide Farouk. «Mi dispiace,» si scusò Farouk richiudendo la porta dietro di sé. «Di che cosa?» «Per il funerale,» disse Farouk. «Avrei voluto esserci.» «Non importa,» bofonchiò Frank. «Non pensavo che sarebbe venuto nessuno tranne Fischelson.» «Volevo venire,» ripeté Farouk. «Ne avevo intenzione, ma ho ricevuto una telefonata.» «Non importa, Farouk,» lo rassicurò Frank. Si accese una sigaretta, poi aprì il primo cassetto della scrivania. «Ho del denaro per te.» «Denaro?» «Per il tuo aiuto,» spiegò Frank. «Ah, sì,» disse Farouk, come se la questione del pagamento gli fosse passata di mente. «Il totale della parcella era duemila dollari,» precisò Frank. «Più un premio.» «Un premio?» «Sì, Miss Covallo ha aggiunto altri duemila dollari.» Farouk sorrise. «Miss Covallo è davvero molto generosa.» «Sì, lo è,» ammise Frank. Aprì la busta ed estrasse una mazzetta di banconote. «Mi ha fatto un assegno. L'ho incassato tornando dal funerale.» Fece scivolare le banconote sulla scrivania. «Prendi la parte che ti spetta.» Farouk guardò le banconote incredulo. «Quanto mi spetta?» «Non lo so.» Farouk si strofinò il mento con aria pensosa. «Forse il dieci per cento. Sarebbero quattrocento dollari.» «Qualsiasi cifra,» gli disse Frank. «Prendi quello che vuoi.» Farouk scelse quattro biglietti da cento dollari dal mucchio e restituì il denaro a Frank. «Grazie,» disse. Frank mise il resto dei soldi nella tasca della giacca, poi afferrò la bottiglia mezzo vuota sulla scrivania. «Vuoi da bere?» «Sì, è una buona idea,» disse Farouk. «Per spezzare il gelo.»
Le ombre del seminterrato avevano assunto una sfumatura più intensa quando la porta dell'ufficio si aprì un'altra volta. Tony Riviera si fermò sulla soglia, e il suo corpo si stagliava in controluce sul muro di mattoni del corridoio. «Suppongo che il suo ufficio sia aperto,» disse. Frank annuì. «Bene,» disse Riviera. Chiuse la porta dietro di sé, poi prese una sedia e si sedette accanto alla scrivania. «Sono contento di averla trovata,» aggiunse. Guardò un istante verso Farouk, poi tornò a fissare Frank. «Torno da una lunga chiacchierata con Miss Covallo. Abbiamo parlato del suo lavoro per rintracciare Mr Fischelson. È inutile che le ripeta quanto è soddisfatta.» Frank non disse nulla. «Pensavamo,» continuò Riviera, «che forse potrebbe interessarle continuare a occuparsi del caso.» «Occuparmi ancora del caso?» «Esatto,» confermò Riviera. Esitò un attimo, poi disse: «Suppongo che immagini di che cosa stia parlando.» «L'assassino,» disse Frank. «Già,» rispose Riviera. «Proprio così. Il fatto è che quello è ancora libero. Hannah forse ora riposa in pace, ma... non basta.» Frank e Farouk si scambiarono uno sguardo d'intesa, ma nessuno dei due aprì bocca. «Lei sa, in Spagna...» cominciò Riviera. Poi si interruppe e guardò Farouk in modo fiero. «Io sono spagnolo.» Farouk annuì. «Sì, l'ho notato.» Riviera parve compiaciuto. «Davvero? Come mai?» «Il suo accento,» spiegò Farouk. «È decisamente spagnolo.» «Sì, lo è,» disse Riviera. «Lei ha molto spirito d'osservazione.» «Ho le orecchie buone,» disse Farouk. «E poi ho viaggiato molto. Ho sentito spesso castigliani parlare inglese.» «Sì, castigliano,» confermò compiaciuto Riviera. «Sono un castigliano puro.» Sorrise per un attimo a Farouk con gratitudine, poi guardò di nuovo Frank. «Comunque,» riprese, «Miss Covallo desidererebbe sapere se lei...» Si voltò a guardare Farouk, «se voi siete disposti a occuparvi ancora del caso.» «Esclusivamente come un caso di omicidio,» osservò Frank. «Esattamente,» convenne Riviera. «Un lavoro che si adatta maggior-
mente a voi, mi è stato detto.» «Non ho molto in mano,» precisò Frank. «Dovrò ricominciare dal principio.» «Non è un problema,» lo rassicurò Riviera. «In effetti Miss Covallo se l'aspettava. In fin dei conti, nessuno le aveva chiesto di trovare l'assassino di Hannah.» Si interruppe e passò con lo sguardo da Frank a Farouk. «Fino a ora, almeno.» «La polizia ha fatto progressi?» domandò Farouk. «Non che io sappia,» rispose Riviera. «È per questo motivo che Miss Covallo desidera che voi continuiate il lavoro. Non crede che la polizia stia facendo molto.» «E lei che cosa ne pensa?» «Credo che al momento siano in alto mare,» disse Riviera, «e quando è così, loro tendono a occuparsi di altre faccende.» Attese una replica, poi aggiunse: «Miss Covallo desidera che qualcuno si dedichi completamente alle ricerche su Hannah. Tutto qui: stesse tariffe, nessun limite di tempo.» Frank guardò Farouk. «Tu che cosa ne pensi?» Farouk annuì lentamente. «Io, è chiaro, sono disponibile. Ma sei tu che devi prendere la decisione.» «D'accordo,» acconsentì Frank rivolgendosi nuovamente a Riviera. «Mi occuperò di questo caso.» «Molto bene,» disse Riviera alzandosi. «Sono lieto che abbia accettato.» Si voltò e tese la mano a Farouk. «Credo che, prima troveremo quel bicho che ha ucciso Hannah Karlsberg, meglio staremo tutti.» Farouk guardò Riviera in modo strano, poi gli strinse la mano due volte e infine la lasciò andare. «Certamente,» disse. Riviera strinse la mano anche a Frank e poi si avviò alla porta. «Bene, buona fortuna,» disse uscendo nel corridoio. «Potrete riferire ogni progresso a Miss Covallo.» Dopo che Riviera se ne fu andato, Frank e Farouk restarono seduti per qualche minuto in silenzio nella luce sempre più cupa dell'ufficio, sorseggiando lentamente ciò che era rimasto nei loro bicchieri. «Non abbiamo in mano nulla di concreto,» disse infine Frank. «Nulla?» «Nulla,» confermò Frank. «Non una sola traccia.» «Nulla,» convenne Farouk. «Dobbiamo cominciare dal principio.»
Farouk annuì deciso con il capo. «Sì, dall'inizio.» «O da metà,» aggiunse Frank. «O dalla fine.» Vide le immagini della vita di Hannah scorrere veloci davanti ai suoi occhi in un film: il viaggio terribile per mare, l'arrivo in una terra straniera, lo scantinato della sinagoga, la fabbrica nel Lower East Side, il suo abito bianco, poi il cappotto di lana e il pugno chiuso levato in alto. E ora se n'era andata per sempre, persa in un moncone sanguinante, e di lei rimaneva solo una fossa aperta tra le sue sorelle, con una rosa rossa. 26 Frank estrasse dalla tasca del cappotto il piccolo vaso bianco e ne mostrò la base all'uomo dietro il bancone, che lo guardò con noncuranza e disse: «Sì, è nostro.» Frank estrasse la sua tessera di riconoscimento e la esibì, poi indicò Farouk e disse: «È il mio socio.» «Salve.» «Se non le dispiace, vorremmo porle alcune domande.» «Fate pure.» Frank appoggiò il vaso sul bancone. «Ne usate molti, di questi?» domandò. «Certamente,» rispose l'uomo. «Di solito lo si usa per un solo fiore. Un'orchidea, per esempio, oppure un tulipano, o una rosa. Dove l'ha trovato?» «Su una tomba.» L'uomo sorrise. «Be', questo è un po' strano. Ma può essere.» «Consegnate fiori?» «Certamente.» «Anche nei cimiteri?» «Ovunque.» «Potrebbe verificare se questo è stato venduto da voi?» «Certamente,» asserì l'uomo. «Dove ha trovato il vaso?» «Al Beth Israel.» «Su quale tomba in particolare?» «Sulla tomba di una donna di nome Kovatnik,» rispose Frank. «Gilda Kovatnik.» L'uomo annuì sbrigativamente, poi sparì nel retrobottega. «Un posto carino,» commentò Farouk guardandosi intorno, passando
con lo sguardo da un fiore a una felce. «Non sarebbe male lavorare con i fiori.» «Credo di no,» convenne Frank. Farouk annusò l'aria con gusto. «E il profumo. Anche quello non è male.» Sorrise. «Come in panetteria.» L'uomo tornò con un grosso registro dalla copertina grigia. «Si tratta di una consegna regolare,» disse appoggiando il libro sul bancone. «Che cosa significa?» «È un ordine permanente,» spiegò l'uomo. «Consegniamo la rosa una volta alla settimana.» Lesse i dettagli sul libro. «Al cimitero Beth Israel, sulla tomba di Gilda Kovatnik, fila 11.» «Pagamento anticipato?» domandò Frank. «Sì.» «Come avviene il pagamento?» Di nuovo l'uomo abbassò lo sguardo sul libro. «In contanti.» «Uomo o donna?» «È un uomo.» «Me lo può descrivere?» «È un uomo anziano. Molto alto. Viene una volta al mese.» «E ordina un fiore?» «Sì.» «Mi sa dire il suo nome?» L'uomo alzò le spalle. «È una rosa americana a stelo lungo.» «Non quello del fiore, quello della persona che lo ordina,» specificò Frank. «Ah,» esclamò l'uomo ridendo con spontaneità. «Scusi.» Guardò il registro per un attimo, poi sollevò di nuovo lo sguardo verso Frank. «Kincaid,» disse. «Benjamin Kincaid.» Frank e Farouk si scambiarono un'occhiata, poi Frank si rivolse nuovamente all'uomo. «Per caso non ha anche il suo indirizzo?» chiese. «Certamente,» disse quello tutto allegro. «Abita in Parkman Street, al numero 2557.» Frank stava per tirare fuori il suo taccuino quando Farouk gli afferrò il braccio. «Non ce n'è bisogno,» disse. «So dov'è.» «È a Boerum Hill,» disse Farouk mentre usciva con Frank dalla stazione della metropolitana di Clinton Street. «Vicino a casa mia.» Sorrise compiaciuto. «Vieni, ti ci porto io.»
S'incamminarono lungo la Clinton Street fino a raggiungere l'Atlantic Avenue. «Eccoci arrivati,» esclamò Farouk guardandosi in giro. «Questi sono i luoghi della mia infanzia.» Era il piccolo e raccolto quartiere arabo, un mondo di negozi affollati dove datteri freschi e noccioline venivano esposti in enormi barili e in sacchi di tela ruvida. L'odore forte di carne si confondeva con il profumo dei dolci, e mentre attraversavano quelle vie, sembrava che Farouk tornasse con la memoria a un tempo ancora più remoto della sua giovinezza, quando le tribù del deserto erravano ancora senza meta fra le dune di sabbia. «Quando sei lontano dalla tua patria,» disse fermandosi al semaforo all'angolo con Court Street, «provi una certa estraneità per tutto questo... come sentirsi assenti. Mi capisci?» «Sì.» «Allora, anche tu hai nostalgia di casa?» «No,» disse Frank. «È qualcosa di diverso, ma non so che cosa sia.» Si accese una sigaretta. «Vivevi da queste parti?» Farouk indicò con il capo un ristorante orientale riccamente ornato sull'angolo opposto della via. «Al secondo piano,» disse. «Allora non c'era il ristorante sulla strada. C'era un negozio di spezie. Aglio, chiodi di garofano. Erano questi gli odori che aleggiavano in casa nostra.» «Io ricordo l'odore del disinfettante per le piantagioni di cotone,» disse Frank. «Gli aerei volavano bassi sopra i campi, spargendo una polvere bianca che aveva un odore insieme secco e dolciastro.» Alzò le spalle. «È difficile descriverlo.» Al verde del semaforo i due ripresero a camminare lungo Atlantic Avenue fino a quando raggiunsero Parkman Street. «Da questa parte,» disse Farouk guidando Frank verso destra. Era una via di case di pietra piuttosto vecchie, con muri pieni di scritte affacciati su un marciapiede ingombro di spazzatura e di auto sfasciate, ma l'insieme non dava un'idea di desolazione. Nonostante il freddo, un gruppo di adolescenti ascoltava musica a tutto volume sotto un portico pericolante, mentre sulla strada due anziani arrancavano contro il vento tagliente che soffiava dalla baia. Una coppia litigava a voce alta, mentre a pochi passi da loro un bambino girava come una trottola sul suo triciclo arrugginito, e tutto questo dava a Frank un senso di tangibile realtà e concretezza, l'impressione di sentirsi avviluppato nella vita semplice e piena di quel quartiere. Frank pensava ancora a Hannah seduta in fondo al tavolo con lo sguardo
fisso rivolto ai tre uomini dal volto severo, al secondo esilio che le avevano imposto. Come Ruth, la donna del Vecchio Testamento che suo padre aveva citato tante volte nei suoi sermoni: Ruth, strappata dalla sua terra e dalla sua gente. «Non avrebbe mai dovuto abbandonarla,» disse Frank a un tratto, quasi a se stesso, fermandosi di fronte al numero 2557 di Parkman Street. Farouk lo guardò. «Chi?» «Hannah.» «Che cosa?» Esitò un attimo prima di rispondere. «New York. Non avrebbe mai dovuto abbandonare New York.» Ma poi pensò al lavoro in fabbrica, a quell'inverno in Orchard Street e alla folla di Union Square, e improvvisamente si rese conto che Hannah non si era limitata a sfuggire New York. «Che cosa?» ripeté Farouk. «La sua unica fede,» rispose Frank con certezza. «Il suo solo e unico amore.» Poi si avviò sulla scala. Davanti al citofono, Farouk si fermò un attimo prima di premere il pulsante dell'appartamento 3-B, rimanendo con il dito sospeso immobile nell'aria. «Hai un'arma con te?» chiese a Frank. Frank annuì. «E tu?» Farouk tastò sotto la spalla sinistra. «Sempre,» disse con serietà, premendo il tasto del citofono. Nessuno rispose, nemmeno al secondo tentativo. «Proviamo a suonare al custode?» domandò. «D'accordo.» Farouk premette il pulsante dell'appartamento 1-A. Quasi immediatamente il portone d'ingresso si aprì e un uomo magro e azzimato si presentò alla porta. «Sì?» domandò aprendo la porta. Frank esibì la propria tessera di riconoscimento, che l'uomo guardò senza troppa attenzione. «Mi pare di capire che lei non ha alcuna autorità legale,» disse. «Che cosa?» «Non ha autorità legale,» ripeté l'uomo. «Capisco queste cose perché spesso qualcuno viene a cercare la gente che abita qui. Alcuni hanno l'autorità legale di farlo, altri no. Lei, per esempio, non ce l'ha. Quelli dell'ufficio immigrazione sono un'altra cosa, o quelli dell'ufficio delle imposte. Ma
un investigatore privato non ha autorità legale nello stato di New York.» Si interruppe. «Adesso mi dica. Che cosa cerca? Deve farsi pagare dei conti o c'è dell'altro?» Frank non fece in tempo a rispondere. «Questo non mi sorprenderebbe,» continuò l'uomo, «perché in questo edificio c'è senz'altro della gente che non paga i conti.» «Non sono qui per riscuotere del denaro,» disse Frank. «Un certo Mr Kincaid,» intervenne Farouk. «Appartamento 3-B.» «E allora?» «Una persona che gli è vicina è morta,» disse Farouk. «Siamo qui per informarlo.» «Avete suonato al suo campanello?» chiese l'uomo. «Sì,» replicò Frank. «Non ha risposto,» aggiunse Farouk. «A che ora rincasa di solito?» chiese Frank. L'uomo scosse il capo. «Quando vuole. Io non controllo i movimenti di un uomo di quell'età.» «È un uomo anziano?» chiese Farouk. «Sì,» rispose il custode. «Ma ha un aspetto giovanile.» «Lavora?» «Non credo,» replicò l'uomo. «Ma penso che si tenga occupato.» «Facendo che cosa?» chiese Frank. «Lavorando al centro sociale. Credo che insegni agli immigrati.» «Il centro sociale di Brandon Street?» chiese subito Farouk. «Sì,» confermò il custode. «Lo conosce?» «Una volta,» gli disse Farouk. Sorrise cercando di essere affabile. «Quanto tempo è passato da quando era a Port-au-Prince?» L'uomo ricambiò il sorriso. «Molto tempo,» disse, «ma non ne sento la mancanza.» «L'oppressione era troppa,» disse Farouk. «Muoiono nelle strade,» aggiunse il custode. Farouk asserì con il capo. «Una cosa terribile per la gente di Toussaint.» «Alla fine avremo una buona terra,» disse il custode con convinzione, «anche se forse io non ci sarò più.» Farouk sorrise di nuovo con dolcezza. «Bene, come si dice, 'se non per me, per i miei figli', vero?» «È così che bisogna prenderla,» confermò il custode. Farouk fece un piccolo passo indietro. «Ha detto che Mr Kincaid lavora
al centro sociale di Brandon Street?» «L'ho visto recarsi lì,» specificò il custode. «E mi hanno detto che insegna lì.» «Che cosa insegna?» domandò Frank. L'uomo alzò le spalle. «Non lo so esattamente. Ma va bene qualunque cosa: quella gente sbarca dalla nave e non sa nulla del paese in cui va a stare. Ogni sei mesi c'è un nuovo arrivo nel centro di raccolta, ma non sanno nulla dell'America.» Sorrise. «Forse è proprio questo che Kincaid insegna loro, come diventare buoni americani.» Frank estrasse il suo taccuino. «Da quanto tempo vive qui Mr Kincaid?» «Da circa un anno,» rispose il custode. «Ha mai lavorato?» «No,» disse l'uomo. «Solo al centro sociale. Ma non si può certo definire un lavoro. È più che altro un atto di carità. O forse desidera solo tenersi occupato.» «Sa dove abitava prima di venire a vivere qui?» «No, non me l'ha mai detto. Ma parla lo spagnolo molto bene. Al centro sociale ci sono solo spagnoli.» «Vengono dalla Spagna?» chiese Farouk. Il custode rise. «Spagna? No, questi vengono dall'altra parte del confine. Vengono dentro i furgoni, non via mare. Vivono per un po' al centro sociale, poi tornano a casa.» «Mr Kincaid lavora con loro?» domandò Farouk. «Sì.» «Kincaid ha un orario regolare?» domandò Frank. «Regolare?» «Un'ora in cui esce e un'ora in cui rientra,» spiegò Frank. «Orario regolare.» Il custode fece un largo sorriso. «Lui è come la luna. La mattina se ne va, la sera ritorna. Questo è il suo orario.» «Quando rientra a casa?» «Prima di sera,» rispose il custode. «D'accordo, grazie,» disse Frank chiudendo il taccuino. «Torneremo più tardi.» Si volse verso la scala, facendo cenno a Farouk di seguirlo. Farouk non si mosse. Sorrise appena, con lo sguardo ancora rivolto al custode dell'edificio. «Est-ce possible de visiter l'appartement de Monsieur Kincaid?» domandò gentilmente, da esiliato a esiliato. Il custode gli sorrise. «Pourquoi?»
Farouk disse: «C'est quelque chose de très grave.» «C'est quoi, cette affaire si grave?» «Une maladie des Tropiques» gli disse Farouk con aria severa. «Je vous assure. C'est grave.» Infilò la mano nella tasca della giacca ed estrasse una tessera di metallo che lo identificava come agente di qualcosa chiamato Centro Internazionale per il Controllo delle Malattie Contagiose. Il custode diede una rapida occhiata alla tessera, poi fissò Farouk preoccupato. «Cette maladie, est-elle vraiment contagieuse?» «Oui» replicò Farouk, annuendo con il capo per convincere l'uomo della gravità della situazione. «Tris contagieuse.» Il custode uscì in fretta e i suoi occhi passarono come un lampo su Frank. «Da questa parte, prego.» 27 La stanza buia odorava di muffa e mostrava i segni di una vita vissuta in terre lontane. Vi era un odore diffuso e curioso di strane erbe, di piante, di spezie, di cuoio essiccato e tinto con processi sconosciuti. La luce che filtrava dal pianerottolo lasciava intravedere strane cose dalle quali il custode haitiano fuggì spaventato. «Lieu des diables,» mormorò sgattaiolando fuori della porta e scivolando veloce giù dalla scala. Gli occhi di Farouk guizzarono veloci su Frank. «Luogo del demonio,» tradusse. Frank si girò e guardò la stanza, sentendosi investire da un'atmosfera di gelo ossessionante e inspiegabile, come se il mondo avesse improvvisamente cambiato direzione, risucchiato e inghiottito da un vortice oscuro. Mosse un piccolo e titubante passo verso destra, con le dita aggrappate al tavolo sistemato al centro della stanza. La sensazione trasmessagli dalla superficie di metallo lo rassicurò e lui fece un altro passo, avanzando lentamente sullo strato di peduncoli scuri e di foglie secche che ricopriva il pavimento. «Stai attento,» gli suggerì Farouk da dietro le spalle. Frank mosse un altro passo avanti, con gli occhi fissi al muro più vicino, rivestito di enormi foglie piatte infilzate su filo spinato. Sotto la tenda di foglie c'era una stuoia, con alcune ciotole e vasi di terracotta intorno. Frank immaginò Kincaid raggomitolato sulla stuoia, addormentato nelle umide notti estive o tremante in quelle fredde invernali con i piedi sotto lo strato
di foglie che copriva il pavimento. Vide la brocca di creta per l'acqua accanto alla stuoia e una piccola tazza, e immaginò Kincaid assetato e disperato stringere la ciotola e sfiorarne l'orlo con la lingua. Si voltò lentamente, esaminando la stanza con sguardo attento mentre Farouk rimaneva sulla porta, con la mano pronta sull'impugnatura della pistola. «Che cosa vedi?» gli domandò Farouk dopo un attimo. Frank non rispose. Lasciava che i suoi occhi lavorassero per lui come avevano sempre fatto, in silenzio, in solitudine. Vide la fotografia di una bella donna, che Kincaid aveva appeso tra canne e fronde, e riconobbe Gilda. Abbronzata dal sole tropicale, più magra, meno robusta, ma tuttavia sempre Gilda, davanti alla sua capanna nella giungla, con lo sguardo assente fisso all'obiettivo della macchina fotografica. Sotto il ritratto c'era un piccolo tavolo, una specie di altarino, sul quale Kincaid aveva messo delle candele, una collana di perline e un cucchiaio di legno. Accanto era appoggiata una stampella di legno fatta a mano, ornata con nastri intrecciati come un'allegra spirale rossa. Un pezzo di tessuto lacero e macchiato di rosso era appeso all'impugnatura, e i suoi bordi stracciati ricadevano sul pavimento. «Questo non è amore,» sentenziò Farouk che nel frattempo era entrato nella stanza, e osservava con attenzione la stampella e lo straccio macchiato di sangue. «Questa è vera e propria venerazione.» Frank continuava a guardarsi intorno nella stanza. C'erano molte fotografie, alcune appese con nastri, altre ornate di ghirlande di foglie secche, ritratti di donne nere in abiti polverosi e sbrindellati, di uomini neri con camicie senza bottoni e cappelli di paglia, di bambini neri con gli occhi spalancati e fissi, nudi o seminudi, incorniciati dallo spesso muro della giungla che si ergeva come un'immensa ondata verde dietro di loro. «Questo è un uomo con molti ricordi,» osservò Farouk muovendo un altro passo verso l'interno. Raccolse pigramente una piccola scatola di cartone dal tavolo vicino alla porta e la rigirò tra le dita. «È piena di denti,» comunicò a Frank rimettendola sul tavolo. Frank entrò nell'altra stanza e la trovò completamente vuota. Non vi erano né mobili, né abiti appesi, nessuna fonte di luce o di calore: solo lo spoglio pavimento non spazzato e le pareti bianche macchiate dall'umidità. Frank e Farouk, insieme, si avviarono verso la cucina. Sul pavimento vi era un'altra stuoia, circondata da foglie e da una serie di ciotole e tazze. C'era anche una brocca per l'acqua, ancora vagamente umida dal mattino.
Farouk si avvicinò alla cucina economica e distrattamente aprì un rubinetto del gas, accorgendosi che non era collegato. Contemporaneamente Frank aprì il piccolo frigorifero, ma la luce interna non si accese. «Quest'uomo,» osservò Farouk, «vive in un mondo tutto suo.» «Sì.» «Non si cucina il cibo,» aggiunse Farouk, «e non tiene nulla in fresco.» «Credo di no,» disse Frank chiudendo il frigorifero. «Forse è povero,» ipotizzò Farouk. «Forse non può pagare le bollette.» «Forse,» disse Frank tornando a ispezionare la prima stanza, «ma tutte queste piante, che cosa sono tutte queste piante?» Farouk lo seguì nella stanza. «Non lo so,» disse accostandosi al tavolo. Il suo sguardo scivolò dalla cima della stampella fino al cencio di stoffa insanguinato, poi sulla fotografia incorniciata appesa alla parete. Si sporse in avanti, la guardò attentamente, osservò Gilda e l'abito che indossava. «È lo stesso,» constatò. Frank lo guardò. «Lo stesso?» «Il vestito che indossa nella fotografia,» precisò Farouk. Toccò il pezzetto di abito a brandelli appeso alla stampella. «Questo è un pezzo di quell'abito.» Frank lanciò un'occhiata al tessuto, si avvicinò e guardò attentamente la fotografia. «Sì, hai ragione.» Farouk sfiorò con delicatezza il frammento consunto del vestito che era stato di Gilda. «Questo è un uomo che conserva tutto,» disse solennemente. Guardò Frank. «Dobbiamo aspettarlo.» Quando udirono un rumore di passi arrancare sulla scala verso l'appartamento, era già notte fonda, e i laceri tendaggi che Kincaid aveva appeso alle piccole finestre quadrate impedivano anche alla poca luce dei lampioni di attenuare l'impenetrabile oscurità interna. Dal punto del pavimento in cui si trovava, Frank sentiva il respiro trattenuto da Farouk mentre i passi scricchiolavano sul pianerottolo. Poi udì il suo corpo grande e robusto muoversi pesantemente ed emettere un gemito sommesso. «Tutto bene?» chiese Frank. «Sto bene, sì,» rispose Farouk. Frank si sgranchì i piedi e alzò ritmicamente le spalle per allentare la tensione. Sentì fuori l'uomo raggiungere l'ultimo gradino e dirigersi verso la porta. Si irrigidì, sfiorò l'impugnatura della pistola come per assicurarsi
che fosse ancora lì e poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Stai attento,» gli sussurrò Farouk piazzato da qualche parte nella stanza. La porta si aprì pian piano e un triangolo di luce sfrecciò nella stanza per scomparire bruscamente non appena l'uomo richiuse la porta dietro di sé. Nell'oscurità, Frank percepiva i suoi movimenti: una mano in tasca, un fruscio di carte, il rumore di un fiammifero. Poi una fiamma bianca di luce improvvisa vicino alla porta e, subito dopo, intorno a lui un alone giallastro. Kincaid aveva acceso una candela, e quando si voltò verso la stanza il suo pallido chiarore illuminò la sorpresa nei suoi occhi. Per un istante restò immobile, con una pila di libri sul braccio, fissando in modo insistente prima Frank e poi Farouk, con la stessa calma sospensione. «Sì,» disse, ma Frank non riuscì a capire se si trattava di una domanda o di un'affermazione. I tre uomini continuarono a fissarsi l'un l'altro senza muoversi, stupiti, come i vertici di un triangolo. L'uomo si girò e depositò i libri sul piccolo tavolo accanto alla porta, e parve restare in quella posizione, volgendo loro le spalle, come se aspettasse che facessero ciò che erano venuti a compiere. «Mi chiamo Clemons,» disse piano Frank. «Frank Clemons. Sono un investigatore privato.» L'uomo si voltò lentamente verso di loro, ma non disse nulla. «Lui è il mio socio,» aggiunse Frank, indicando Farouk. Kincaid lo guardò inespressivo. «Il momento è venuto,» mormorò. «Che cosa?» Kincaid fece cenno con il capo verso la stuoia. «Posso sedermi?» domandò. Traspariva da quella domanda una specie di strana tenerezza che colse Frank alla sprovvista. «Sedersi?» domandò. «Sul pavimento,» precisò Kincaid. «Certamente,» gli rispose Frank. Kincaid si avviò verso la stuoia e si sedette incrociando le gambe come fanno gli indiani. Poi prese una piccola ciotola di terracotta e la fece ruotare delicatamente fra le mani aperte. Aveva la pelle molto scura e coriacea, come se non fosse la sua, ma quella di qualche animale, fatta essiccare e stesa infine sulle sue ossa. «È lei Benjamin Kincaid?» chiese Frank.
L'uomo non distolse lo sguardo dalla ciotola. Frank sentì le proprie dita scivolare lentamente verso la pistola infilata nella cintura. «È lei Benjamin Kincaid?» Le lunghe dita scure di Kincaid sembravano stringere con tenerezza la ciotola. «Sì, sono io,» disse. «E questo è il suo appartamento, Mr Kincaid?» domandò Frank subito dopo. Kincaid si portò la ciotola alle labbra e la baciò con delicatezza. Frank lanciò un'occhiata interrogativa a Farouk che alzò lievemente le spalle senza dir nulla. «Questo è il suo appartamento?» ripeté Frank, questa volta con tono più severo. «Sì,» rispose Kincaid senza esitare. «Abbiamo dato un'occhiata in giro,» disse Frank con prudenza. Aspettò una risposta, ma rendendosi conto che non sarebbe arrivata aggiunse: «È un posto interessante.» Kincaid non disse nulla. Lanciò uno sguardo alla tenda appesa a una delle finestre, fissando la linea rossa frastagliata che la attraversava. «Ho detto che è un posto interessante,» ripeté Frank nel tentativo di scuoterlo e di farlo parlare. «Tutte queste ciotole, le candele, tutte queste piante.» Kincaid depose la ciotola sul bordo della stuoia, prese un piccolo vaso e vi versò un liquido ambrato, senza alzare lo sguardo. «Stiamo indagando su un omicidio,» aggiunse Frank, questa volta con un tono di voce più marcato, duro, insistente. «L'omicidio di Hannah Karlsberg.» Kincaid annuì. «Hannah Kovatnik,» precisò. Frank estrasse immediatamente il taccuino. «La conosceva?» domandò. Kincaid non rispose, posò il piccolo vaso tra i peduncoli e le foglie secche che circondavano la stuoia. «Che cosa mi può dire di lei, Mr Kincaid?» chiese Frank con freddezza. Kincaid voltò lo sguardo verso le fotografie appese alla parete opposta. «C'era una volta un bellissimo villaggio,» disse. «Un villaggio perfetto in un mondo perfetto.» Sorrise dolcemente. «Riuscite a immaginarlo?» domandò, guardando prima Frank e poi Farouk. «Vivendo come vivete voi, in questo posto, riuscite a immaginare un posto simile?» Nessuno dei due rispose.
Kincaid accarezzò di nuovo la ciotola, teneramente come prima. «Sapete che cos'è la miseria?» Non aspettò risposta. «La perdita del paradiso,» sentenziò sorridendo, ma con aria dolente. «Voi pensate che questo sia il paradiso, questa città, questo paese, il mondo in cui viviamo? Per molto tempo l'ho pensato anch'io. Poi la chiesa mi inviò in Colombia.» Scosse il capo con fare ironico. «Mi mandarono là per aiutare quella gente a diventare come noi.» Allungò un braccio e descrisse lentamente un ampio cerchio nell'aria. «Ma come potete vedere sono io che sono diventato come loro. Mi piacevano le cose che facevano, le cose che mangiavano e che indossavano. Amavo la vita che vivevano più di quanto non avessi mai amato la vita che cercavo di insegnare loro.» Frank guardò le fotografie e la vita che rappresentavano, una vita né perduta, né disperata. Capì quella realtà fondata sui ritmi immutabili degli alberi e del fiume, e immaginò il calore dell'aria, l'azzurro intenso del cielo, la pace immensa ed eterna del muro verde della giungla. «Sapete che cosa significa far parte dell'umanità?» chiese ancora Kincaid prendendo in mano un altro vaso e cominciando a versare nella ciotola un altro liquido, questa volta azzurro pallido. «Sentire che ne fai parte, che non puoi separarti nemmeno dalla parte più piccola e insignificante del suo destino?» Mescolò i liquidi con il dito, che poi succhiò delicatamente. «Certo che non potete saperlo,» disse togliendosi il dito di bocca. Strinse gli occhi. «Come potreste con la vita che fate? Piccoli atomi in un mondo di piccoli atomi. Ogni uomo ha il proprio dio, separato dal mondo, dal prossimo. Che cosa potete conoscere se non la vostra mente? Che cosa potete sentire se non solo le vostre sofferenze?» Senza capire perché, Frank a un tratto ripensò a Hannah in Union Square, ardente nella sua determinazione, e poi alle fotografie appese nel suo appartamento, quelle di una donna triste, sola, una donna ormai completamente priva di speranza, isolata, tagliata fuori dal resto del mondo. Che cosa stava ancora cercando di raggiungere quella sua mano inerme? Si mosse nervosamente, poi fece una domanda di cui lui stesso si meravigliò, sentendola come assurda, irreale: «Ha amato Hannah?» «No,» disse Kincaid ruotando la ciotola fra le mani. «Ho amato sua sorella.» «Gilda,» disse Frank. Kincaid depose la ciotola accanto a sé sulla stuoia. «Sì.» Prese un peduncolo marrone da terra e staccò alcune delle sue foglie secche dal gambo. «È una vecchia storia: il serpente strisciò nel giardino.» Sbriciolò le
foglie tra le dita e le sparse nel liquido. «Hannah.» «Il serpente?» chiese subito Frank. «Venne con del denaro,» continuò Kincaid. «Entrò nel paradiso. In un piccolo villaggio della giungla.» «San Jorge?» chiese Frank. «San Jorge,» confermò Kincaid. «Venne con del denaro, con molto denaro.» «Perché?» chiese Frank, tenendo la penna sul taccuino, pronto a scrivere la risposta di Kincaid. «Per trovare qualcosa di meraviglioso,» disse Kincaid. Mescolò le foglie sminuzzate nel liquido. «La pozione miracolosa, la magia della giungla che avrebbe reso bello il mondo.» «Una droga?» chiese Frank. Kincaid rise sommessamente. «Trovò un posto dove prepararla,» continuò. «Poi pagò un uomo per farci venire la gente.» «Pérez?» chiese Frank. Kincaid lo guardò con aria interrogativa. «Sto parlando del marito di Hannah,» precisò Frank. «Emilio Pérez.» «Trovarono la magia della giungla,» continuò Kincaid, «ma veniva dal diavolo.» Il suo sguardo cadde sulla ciotola. «Dalla bocca dell'inferno.» Frank gli si avvicinò. «Che cos'era la 'magia della giungla'?» Kincaid non parve averlo udito. «E così cominciarono a stare male. Si indebolirono, e le loro ossa si stortarono. La loro pelle si rompeva e si riempiva di pustole.» Tirò un lungo e doloroso sospiro. «Poi cominciarono a morire, e così accatastavamo i corpi presso il fiume.» Nei suoi occhi qualcosa parve rabbuiarsi. «Hannah usciva dalla sua veranda con quel suo lungo abito bianco e li guardava da lontano. Guardava Pérez condurne altri alla fabbrica che produceva la magia della giungla. Avrebbero lavorato, poi sarebbero morti e noi avremmo ammucchiato i loro corpi lungo la riva del fiume.» «Quali corpi?» chiese Frank immediatamente. Kincaid non rispose. Il suo sguardo si posò sulla stampella e sul lembo di vestito macchiato di sangue che vi stava appeso. «Hannah aveva perso l'anima. I suoi occhi erano morti.» Guardò Frank, e uno strano orgoglio invase il suo volto. «Ma non gli occhi di sua sorella. Non quelli di Gilda.» «E Gilda?» domandò Frank. «Andava alla fabbrica ogni giorno,» disse Kincaid e il suo viso parve d'un tratto illuminarsi. «Dovreste essere un esule per capire quanto l'ho
amata.» La sua voce stava per spezzarsi mentre pronunciava quelle ultime parole, ma si interruppe per riprendere il controllo di sé. Poi continuò. «Lei lo sapeva, lo sapeva.» «Che cosa sapeva?» «Che la magia della giungla veniva dall'inferno,» disse Kincaid. Prese un piccolo sacchetto che stava in fondo alla stuoia e ne sparpagliò nella ciotola il contenuto, una polvere color verde spento. «'Ti farò vedere,' disse, e da allora lavorò con la gente ogni giorno, fino a quando diventò come loro.» «Che cosa significa?» Kincaid scosse il capo. «Dovetti costruire una stampella per Gilda.» Frank lanciò un'occhiata alla stampella che era ancora appoggiata al muro accanto al tavolino e immaginò Gilda zoppicante lungo il fiume oppure ferma in piedi sotto i rami dalle fronde basse a fissare le profondità della giungla. «Seguiva sempre Hannah,» continuò Kincaid, con voce improvvisamente cupa e dura. «Non si riposava mai. Minacciava di lasciare il villaggio.» Guardò Frank con durezza. «Poi morì,» disse. «Ma la sua stampella era ancora vicino al letto.» «La droga, la magia,» disse Frank. «Fu quella a ucciderla?» «Sì,» disse Kincaid risoluto. «Presero il suo corpo e lo bruciarono sulla riva del fiume.» Frank immaginò il fuoco lambire l'abito di Gilda, poi consumarlo, e vide il fumo nero salire in alto come una spirale verso il cielo. «Fu assassinata?» chiese Frank. «Dal suo cuore,» replicò Kincaid. Affondò il dito nella ciotola, poi lo portò al viso e lo fece scorrere lungo la fronte, lasciando una lunga linea rosata. «Ci sono due momenti buoni per morire.» Intinse di nuovo il dito nella ciotola, poi lo passò lentamente lungo la guancia destra. «Bisognerebbe morire quando il cuore è morto.» Il dito scorreva sul viso, lasciando dietro di sé una traccia sulla mascella scarna e sul mento. «O quando ha finito di lavorare.» Chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì. «Fu un tale anno,» disse addolorato. «Un tale anno di morte.» Scosse il capo. «Avrei dovuto immaginare che a una morte deve sempre seguirne un'altra.» Per qualche minuto nella stanza regnò il silenzio, con le tre figure immobili nella luce fievole della candela. «Pérez,» disse Frank, questa volta con maggiore insistenza e determina-
zione. «È stato lui il primo?» Kincaid parve tornare nella stanza dopo una lunga assenza. «Che cosa?» «Emilio Pérez,» disse Frank. «L'ha ucciso lei?» «Sì,» disse Kincaid. «Se ne andò. Poi ritornò, per il funerale della madre.» Ancora una volta intinse il dito nella ciotola. «La vendetta può essere una soluzione.» «Per la morte di Gilda?» domandò Frank. Kincaid sembrava lontano dalla domanda di Frank. Prese un piccolo seme giallo da una ciotola di argilla accanto alla stuoia e lo masticò lentamente. «Era una bella storia, quella della gente del villaggio,» disse. «Vendetta per la morte di Gilda?» ripeté con insistenza Frank. Kincaid continuò a masticare il piccolo seme giallo e non rispose. «È per questo motivo che uccise Pérez?» domandò Frank. «E Hannah?» Kincaid si guardò intorno, fissò lo sguardo su un oggetto e poi su un altro ancora, come se ogni cosa nella stanza portasse un suo messaggio segreto e lui cercasse di raccoglierli con metodicità per portarli con sé. «Quando tornò negli Stati Uniti?» domandò Frank con tono serio. «Una bella storia,» cominciò di nuovo Kincaid, ormai in uno stato di oblio. Chiuse gli occhi e si dipinse le palpebre con il dito. «Una storia con una morale,» aggiunse. Improvvisamente spalancò gli occhi, che brillavano selvaggiamente nella luce incerta. «La vendetta è la sola giustizia per i morti.» Si sporse in avanti, come in un atto di preghiera, e con uno scatto prese un machete da sotto la stuoia. «Quando il tuo lavoro è compiuto, è tempo di morire.» Frank impugnò la pistola. «Lo metta giù!» gli intimò con durezza. Farouk prese la pistola impugnandola con entrambe le mani e prese la mira. «Non si muova,» disse, ma Kincaid si stava già muovendo verso di loro, facendo roteare il machete sopra la sua testa. Farouk si mise in ginocchio, puntando la pistola al capo di Kincaid. «Non si muova!» urlò di nuovo. Kincaid fece un altro piccolo passo in avanti, con il volto rivolto verso il soffitto e gli occhi puntati sulla lama volteggiante. «Arrivo!» gridò. Frank indietreggiò e alzò il cane della pistola. «Lo metta giù!» La lama continuava a volteggiare sul capo eretto di Kincaid, riflettendo la luce tremula della candela. Per un attimo l'uomo parve arrestarsi, ma poi, con improvvisa determinazione, si lanciò il machete sulla gola, e subito un'ondata rosso scuro si riversò sulla lama mentre lui cominciava a barcollare.
Frank lasciò cadere la pistola e corse verso di lui, il sangue gli sgorgava ritmicamente dalla gola, riversandosi sul petto. «Chiama un'ambulanza!» gridò Frank appena il corpo di Kincaid cadde sul pavimento. Farouk rimise la pistola nella fondina e uscì di corsa dalla stanza, e Frank sentì il suo corpo pesante precipitarsi giù dalla scala. Frank prese il suo fazzoletto dalla tasca e lo premette forte sullo squarcio aperto che correva profondo lungo la gola di Kincaid. Sentiva il flusso caldo che filtrava nel fazzoletto, poi colava giù formando un rivolo sempre più sottile ogni secondo che passava, fino a quando gli occhi di Kincaid ruotarono verso l'alto e il suo petto divenne immobile. Il sangue lentamente si coagulò e divenne scuro, mentre Frank faceva dondolare il corpo di Kincaid avanti e indietro, cullandolo fra le braccia come un bambino. 28 Frank sobbalzò quando udì bussare alla porta, e per prima cosa si rese conto del disordine che lo circondava: la polvere, il pavimento sporco, la scrivania ingombra e gli abiti macchiati di sangue ancora appesi alla sedia in fondo alla stanza. Scattò in piedi, si infilò un paio di calzoni e andò ad aprire la porta. Tannenbaum fece un cenno con il capo in segno di saluto. «Spero che non sia troppo presto per te, Frank.» Frank si strofinò gli occhi con forza. «Ultimamente hai problemi di insonnia?» ironizzò Tannenbaum. «Che cosa vuoi, Leo?» «Be', sai com'è, Frank,» disse Tannenbaum. «Bisogna sistemare le cose, quindi dovrò farti alcune domande.» Frank annuì. Tannenbaum sorrise gentilmente. «Posso entrare?» «Certo, vieni,» disse Frank ancora un po' addormentato. Si scostò dalla soglia e lo fece accomodare. «Vuoi una tazza di caffè?» chiese. «No, non ti disturbare,» rifiutò Tannenbaum con un gesto della mano. «Sono qui solo per chiarire alcuni dettagli.» Si strinse nelle spalle. «È chiaro che non vi è alcun dubbio su ciò che è accaduto ieri. Il suicidio, intendo. Questo lo sai.» «Allora che cosa vuoi?» chiese Frank mentre si sedeva comodamente dietro la scrivania.
«Riguarda l'omicidio della Karlsberg,» disse Tannenbaum. «Vorremmo poter chiudere anche questo caso.» «Già, capisco.» «Ma dobbiamo essere assolutamente certi che Kincaid sia il nostro uomo,» aggiunse Tannenbaum. Estrasse il suo taccuino e lo aprì alla prima pagina bianca. «Tu sai qual è la procedura, vero?» «Sì, la conosco.» «Mi servono solo alcuni dettagli ancora,» cominciò Tannenbaum sedendosi sulla sedia di fronte alla scrivania. «Secondo quanto hai riferito al funzionario che è venuto sul posto, Kincaid ha parlato di vendetta. Potresti dirmi qualcosa di più?» «Che cosa vuoi sapere esattamente?» «Bene, per prima cosa se sei stato tu a cominciare a parlarne.» «Di vendetta?» «Sì.» Frank scosse il capo. «No, non credo.» «Com'è venuta fuori la questione?» «Lui stava parlando di Gilda, della sua morte,» disse Frank, sforzandosi di ricordare ogni dettaglio. «È stato allora che ha parlato di vendetta?» «Sì.» «Che cosa disse esattamente?» «Che era una soluzione,» ricordò Frank. Prese una sigaretta dal pacchetto sulla scrivania e l'accese, poi ne offrì una a Tannenbaum. «No, grazie,» rifiutò Tannenbaum, «è ancora troppo presto.» Abbassò lo sguardo sul taccuino. «Ha detto qualcos'altro sulla vendetta?» «Sì,» convenne Frank. «Qualcosa... io...» Aprì il cassetto della scrivania e prese il suo taccuino. Alcune pagine si erano appiccicate l'una all'altra con il sangue di Kincaid, e dovette separarle con molta attenzione. «Ecco qui,» disse infine, poi lesse quanto aveva scritto. «'La vendetta è la sola giustizia per i morti.'» Tannenbaum prese nota rapidamente. «Non gettare via quegli appunti fino a quando il caso Karlsberg non sarà concluso,» disse quando ebbe finito. «Non preoccuparti,» lo rassicurò Frank. «Kincaid ha affermato di aver ucciso Pérez o Miss Karlsberg per vendetta?» «No, non l'ha fatto.»
«Ha detto di aver ucciso lui Emilio Pérez?» «Sì, l'ha detto,» disse Frank con noncuranza spostando lo sguardo verso la tenda che chiudeva la finestra. Tannenbaum guardò Frank dritto in faccia. «Kincaid ti ha detto di aver tagliato la mano di Pérez dopo averlo ucciso?» Frank sbarrò gli occhi. «No, non l'ha detto.» Tannenbaum prese nota. «Ha tagliato la mano di Pérez?» chiese subito Frank. «Sì, infatti,» replicò Tannenbaum con un leggero sorriso sulle labbra. «O almeno questo è quanto la polizia colombiana ci ha riferito.» Scrisse qualcosa sul taccuino, poi levò lo sguardo verso Frank. «L'abbiamo anche recuperata.» «Recuperata?» «Abbiamo trovato dei frammenti di ossa umane in un armadio di Kincaid,» disse Tannenbaum. «Appartenevano a un uomo, così abbiamo pensato che fosse di Pérez.» Passò a Frank una busta. «Abbiamo trovato un sacco di roba nell'appartamento. Questa è una copia dell'inventario.» «Grazie.» Tannenbaum fece un cenno con il capo, poi passò a un altro argomento. «Quel villaggio, San Jorge, è sparito.» «Sparito?» «Una città fantasma. Dal 1954.» «Così quella storia del veleno,» disse Frank, «era vera?» «Già.» «Che veleno era?» «Ancora non lo sanno,» disse Tannenbaum. «Abbiamo detto loro che Kincaid ha parlato di una droga magica. Crescono erbe strane da quelle parti, e forse Hannah stava cercando di raffinarle, di ottenere qualcosa di più forte. La gente cerca sempre maggiore piacere. Come questa nuova droga che si chiama 'ecstasy'.» Rise. «Incredibile!» Di nuovo posò lo sguardo sul taccuino. «Quando Kincaid si è messo a parlare di vendetta, tu che cosa hai pensato?» «Ho creduto che fosse il movente,» disse senza esitazione Frank spegnendo la sigaretta. «È una buona ragione.» Tannenbaum rise allegramente mentre prendeva nota. «Un vecchio movente, vero?» «Hannah aveva causato la morte di Gilda,» disse Frank. «Insieme con Pérez. È così che la vedeva Kincaid.»
Tannenbaum era d'accordo con Frank. «Dimmi una cosa, Frank. Credi che Kincaid fosse tornato apposta negli Stati Uniti per uccidere Miss Karlsberg?» «Non lo so.» «Credi che avesse anche altri bersagli? Intendo nel nostro paese.» «Lui non ne ha parlato.» «Ti ha detto come ha fatto a scoprire dove viveva?» «No, non l'ha detto.» «Già. Come dicono, il nostro è un grande paese.» Frank non disse nulla. «E lei aveva cambiato nome,» aggiunse Tannenbaum. «Non ha detto come ha fatto a trovarla,» gli ripeté Frank. Tannenbaum voltò la pagina del taccuino con un rapido movimento delle dita. «Lavorava al centro sociale, vero?» «Così ci ha riferito il custode.» «Ci ha riferito?» «A me e a Farouk.» Tannenbaum sorrise. «Ah, sì. Farouk. Come l'hai conosciuto?» «Ci siamo incontrati in un bar.» «Davvero?» disse incredulo Tannenbaum. «Quale?» Frank non disse nulla. Tannenbaum sorrise appena. «Forse in quel piccolo e sudicio locale clandestino sulla Decima Avenue?» Frank non rispose. Tannenbaum rise. «Non è il caso di innervosirsi, Frank. Sappiamo dell'esistenza di quel posto da molti anni.» Poi si concentrò nuovamente sui suoi appunti. «Questa faccenda del centro sociale l'abbiamo controllata, e Kincaid in effetti lavorava là. Era un volontario. Sempre con i sudamericani.» Scosse il capo meravigliato. «Suppongo che amasse i popoli latini.» I suoi occhi fissarono Frank. «Un amante dell'umanità, vero?» «In un certo senso,» confermò Frank. «Lo pensi anche tu?» «Sì.» «L'ha squarciata per bene, però,» aggiunse Tannenbaum con tono cupo. Frank tacque. Tannenbaum chiuse il taccuino e si alzò in piedi. «Bene, credo che sia tutto,» disse. «Ogni cosa coincide.» Frank lo accompagnò alla porta.
«Abbiamo controllato anche il machete di Kincaid,» disse Tannenbaum avviandosi nel corridoio. «Potrebbe essere la stessa arma che ha ucciso Hannah.» «Potrebbe essere?» domandò Frank. «Sopra c'era solo il sangue di Kincaid,» disse Tannenbaum. «Aveva avuto molto tempo per lavarla bene. Ma per quanto riguarda le ferite sul corpo di Hannah, potrebbe benissimo essere stata usata quell'arma.» «Ma questa non è una prova sufficiente,» precisò Frank. «No, ma il machete di Kincaid era un'arma locale. Li fanno in Colombia, servono per i campi di canna da zucchero. Noi non li importiamo,» aggiunse Tannenbaum sorridendo. «Grazie per la collaborazione. Sono sincero. Nessuno è più felice di me di concludere questo caso.» Poi fece un rapido cenno di saluto con il capo e si avviò su per la scala. Frank tornò lentamente alla sua scrivania, tirò fuori la bottiglia di whisky e se ne versò un goccio. Per un attimo si sedette in silenzio, ripercorrendo con la mente ancora sgomenta gli avvenimenti di quelle ultime ore. Ripensò a Kincaid ritto sulla stuoia che roteava sopra il capo il machete per conficcarselo infine profondamente nella gola, barcollando in avanti mentre le ginocchia si piegavano adagio e lui cadeva tra le sue braccia. Nelle ore successive aveva dovuto parlare molto. Era arrivata l'ambulanza, poi la polizia, e infine gli agenti della sezione Omicidi di Brooklyn, che l'avevano condotto nella piccola stanza riservata agli interrogatori. L'avevano spremuto con metodo, come lui stesso aveva spremuto altre persone ai tempi in cui era un agente investigativo, sparando domande e ripetendole, fino a quando si convinsero che né Frank né il «grande arabo», come continuavano a chiamare Farouk, avevano ucciso Benjamin Kincaid. Quando era tornato in ufficio era già quasi mattino, così non aveva fatto altro che distendersi sul divano continuando a rigirarsi in un dormiveglia tormentato fino a quando Tannenbaum era venuto a liberarlo da quel sonno nient'affatto ristoratore. Si accese una seconda sigaretta, e capì che non sarebbe mai riuscito ad addormentarsi di nuovo. Così aprì la busta che gli aveva portato Tannenbaum, estrasse i fogli che vi erano contenuti e li sistemò sulla scrivania. Senza entusiasmo, Frank si mise a leggere tutto ciò che il dipartimento di polizia era riuscito a sapere su Kincaid nelle ultime quindici ore. Avevano tracciato la storia della sua vita a grandi linee: la nascita in California, l'ordinazione come prete cattolico, la missione in Sud America e la re-
sidenza finale nella lontana e sperduta base nella giungla, San Jorge. Lì aveva vissuto fino al 1954, l'anno in cui Pérez venne assassinato. Poi per alcuni anni girò nel Sud America senza una meta precisa, lavorando come insegnante nei sobborghi di Lima, Bogotá e Santiago. Ritornò poi a ciò che restava di San Jorge nel 1968 e vi rimase per alcuni mesi, poi cominciò una specie di marcia di avvicinamento verso gli Stati Uniti, spostandosi lentamente sulle coste frastagliate dell'America Centrale, fermandosi per un certo periodo a Città del Messico e Monterrey per passare finalmente il confine a Nuevo Laredo nel 1981. Negli anni che seguirono continuò a muoversi lungo la costa del Golfo del Messico e finalmente, dopo brevi soste a Savannah, Charleston, Baltimora, Filadelfia, era giunto a New York. Aveva lavorato in tutti questi luoghi, sempre come insegnante, sempre nei sobborghi. A New York, ora che era anziano, si era finalmente ritirato. Frank ripiegò il foglio e passò a leggere gli altri. C'erano il referto dell'autopsia, un inventario degli oggetti posseduti da Kincaid, una dichiarazione del custode haitiano e di alcuni vicini di casa che conoscevano le sue abitudini, i suoi spostamenti e i suoi tratti caratteriali. Frank aveva visto documenti di questo tipo centinaia di volte in passato. Erano documenti di banale routine, ma non li chiuse subito in un cassetto dello schedario come tante volte aveva fatto in passato: li tenne davanti a sé sulla scrivania, mentre ripensava alla morte di Hannah, a quella di Gilda, ai corpi scuri sulla riva del fiume, a Kincaid con la testa riversa aìl'indietro e la gola offerta alla lama affilata. Rivide l'immagine di Farouk che si precipitava giù per le scale, mentre il sangue di Kincaid si rapprendeva sulla camicia che ancora stava appesa alla sedia in fondo alla stanza. Si alzò in piedi, andò verso la camicia e la prese in mano, cercando un posto dove metterla. Mentre si guardava in giro per trovare un sacchetto di carta o qualcosa di simile, improvvisamente gli tornarono in mente le parole di Farouk: «Questo è un uomo che conserva tutto.» Appese di nuovo la camicia insanguinata allo schienale della sedia e tornò a sedersi, restando a lungo a fissare quelle macchie rosso scuro. Era quasi mezzogiorno quando Farouk arrivò nel suo ufficio. «Stai bene?» domandò sedendosi sul divano accanto alla finestra e prendendo una sigaretta. «Sto bene,» rispose Frank ancora con lo sguardo fisso sui documenti e sui rapporti sparsi sulla scrivania.
«È difficile,» disse Farouk con voce bassa e misurata, quasi triste, come se la morte di Kincaid fosse servita non alla giustizia, ma a un disegno crudele e beffardo del destino. «C'era qualcosa di buono nel cuore di quell'uomo.» «Sì, è vero.» «Fino a quando non è tornato qui.» «A New York, intendi dire?» «Sì.» «Pensi che sia tornato per uccidere Hannah?» «È possibile.» «È possibile,» ammise Frank. «Ma, se lo ha fatto, come sapeva di dover venire proprio a New York?» Farouk scosse il capo. «E una volta arrivato a New York,» continuò Frank, «come ha fatto a rintracciarla?» Farouk scrutò Frank con molta calma. «Non lo so.» «Secondo gli interrogatori della polizia, Kincaid andava tutti i giorni da casa sua al centro sociale. Restava là per parecchie ore, poi tornava a casa. La sua giornata si svolgeva sempre così, non faceva altro.» Farouk non disse nulla. «E un'altra cosa,» aggiunse Frank. «Kincaid era a New York da parecchi mesi. Ha vissuto per un po' in un appartamento nel Queens, poi si è trasferito a Brooklyn. Da allora ha cominciato a frequentare il centro sociale.» Farouk annuì. «Perché ci ha messo tanto a ucciderla?» disse Frank con vigore. «Non lo so,» ammise Farouk. Gli occhi di Frank si puntarono su di lui. «Ricordi che cosa ti disse quel tuo amico del dipartimento a proposito del marito di Hannah?» Farouk annuì lentamente. «Che era una traccia troppo lontana per un crimine così scottante.» «E se avesse avuto ragione?» Farouk restò in silenzio, ma Frank si accorse che il suo sguardo diventava sempre più intenso. «E un'altra cosa,» aggiunse Frank. «Quando siamo stati nel suo appartamento tu ti sei guardato intorno e hai detto che chiunque vi abitasse era una persona che conservava tutto.» «Anche questo è vero,» ammise Farouk. «Allora dov'è la mano di Hannah?» chiese Frank. Con un cenno del capo
indicò l'inventario degli oggetti trovati dalla polizia nell'appartamento di Kincaid. «C'erano ossa, denti, piante e semi. Aveva uno straccio macchiato di sangue e vecchie ciotole. Foglie di qualche cosa, terra raccolta chissà dove.» «Ma non una mano,» disse Farouk. «No, c'era una mano,» disse Frank. «Guarda qui.» Gli mostrò l'inventario della polizia. «Me lo ha portato Tannenbaum. È una lista di ciò che hanno trovato nel suo appartamento.» Gli occhi di Farouk scorsero l'elenco fino a una voce che Frank aveva già sottolineato in rosso. «La mano,» bisbigliò Farouk. «Una mano umana,» precisò Frank. «È esatto. Ma non è di Hannah. È troppo vecchia. Probabilmente una volta era appartenuta a Emilio Pérez.» «Pérez,» ripeté Farouk, lo sguardo fisso sul foglio che ancora teneva fra le mani. «Kincaid tagliò la mano di Pérez quando anni fa lo uccise.» «E l'ha conservata per tutti questi anni?» aggiunse Farouk. «Già,» disse Frank. «Ma c'era solo una mano, non due.» Attese ancora un attimo, poi prese con calma il foglio dalla mano di Farouk. «Non c'è da spillare più un soldo da questo caso, Farouk,» gli disse con voce pacata. «Non un centesimo, te lo dico io.» Sul volto scuro di Farouk apparve uno strano sorriso. «È questa la cosa curiosa del denaro.» «Che cosa?» Il sorriso sul suo viso svanì. «Che lo si prende sempre al posto di ciò di cui si ha bisogno.» 29 Il centro sociale di Brandon Street era un grande edificio in legno in una via secondaria nel quartiere di Boerum Hill, a Brooklyn. Era stato recentemente ridipinto e per questo motivo appariva molto meno cadente delle piccole case a schiera che lo circondavano. «È stato qui, quando ero bambino,» disse Farouk mentre saliva la scala accanto a Frank, «che ho imparato a parlare inglese.» «È il solo posto da cui possiamo cominciare,» disse con tono risoluto Frank quando arrivarono in cima alla scala ed entrarono. I locali sembravano quasi completamente abbandonati e i due restarono
per un po' nell'atrio a osservare i ritratti appesi alle pareti dei benefattori del centro sociale, che le targhette di bronzo indicavano come appartenenti alle famiglie più in vista di New York. «La loro carità era sempre gradita,» disse Farouk, dando un'occhiata in giro. «Le persone che facevano delle donazioni venivano sempre a visitare il centro. Venivano con grosse auto nere, e la gente, gli immigrati, pensavano che un giorno anche loro avrebbero avuto auto come quelle.» «Che cosa si faceva qui?» chiese Frank. «Si forniva assistenza agli stranieri,» rispose Farouk. «Li si aiutava ad adattarsi, per così dire, nel nuovo paese.» «Adattarsi in che senso?» «Adattarsi al posto, a fare ciò che veniva richiesto loro,» spiegò Farouk. «A imparare l'inglese per poter trovare un lavoro.» Frank assentì con il capo in silenzio mentre con lo sguardo ispezionava l'atrio deserto. «Anche allora era così vuoto?» Farouk rise. «No, allora era pieno di vita. Facevamo sempre feste, la sera. La gente indossava i propri vestiti di un tempo, ciascuno gli abiti del suo paese. C'era la musica, e ballavamo.» I suoi occhi si riempirono di una luce gioiosa. «Era un bel posto, e la gente ci aiutava.» Fece una breve pausa, contemplando con lo sguardo l'atrio silenzioso. Stava per ricominciare a parlare quando improvvisamente il silenzio fu interrotto da un rumore di passi. Entrambi si girarono verso sinistra e videro un gruppo di uomini e donne venire verso di loro dal fondo del corridoio. «Arriba,» disse qualcuno con voce stridula dal fondo. «Vamos.» Il gruppo percorreva il corridoio, e tutti camminavano a testa bassa con un'espressione assente e muta sui loro volti scuri. Avevano con sé valigie malridotte o semplici fagotti di abiti, e acceleravano notevolmente il passo ogni volta che la voce dietro di loro gridava. Frank e Farouk si fecero da parte, così che la fila di persone poté passare tra loro, raggiungere il fondo dell'edificio e scomparire dietro pesanti porte di metallo. «Che cosa posso fare per voi?» chiese improvvisamente qualcuno. Frank si voltò verso il corridoio e vide un uomo muscoloso, con un paio di jeans e una felpa azzurra. «Stiamo chiudendo,» disse lo sconosciuto. «Chiudendo?» «Il centro sociale,» spiegò loro. «È stato chiuso.» Lanciò a Frank un'occhiata veloce, poi si soffermò su Farouk. «Lei è il nuovo proprietario?»
«No,» rispose Farouk. «L'ho pensato perché con tutti gli arabi che ci sono nel quartiere...» «Noi non abbiamo nulla a che fare con il centro sociale,» precisò Frank mostrandogli la propria tessera di identificazione. Lo sconosciuto le diede un'occhiata superficiale, poi alzò lo sguardo. «Che cosa volete?» «Conosce un uomo di nome Kincaid?» chiese Frank. «Benjamin Kincaid?» «Sì. Non è il tizio che si è ammazzato?» «Già, è lui,» disse Frank. «Sì, lo conoscevo un po'. Ma ho già detto tutto quello che sapevo alla polizia.» Alzò le spalle. «Il che non è molto, in effetti. Quel tipo era una persona inquietante. Non parlava molto, se non con i campesinos.» Frank estrasse il suo taccuino. «Che cos'ha raccontato alla polizia?» gli domandò subito. «Ho raccontato che qui lui svolgeva un po' l'attività di insegnante. Veniva qui e si intratteneva con la gente del quartiere, insegnava loro qualcosa.» «Di che tipo?» chiese Frank. «Non lo so. Al piano inferiore c'è una scuola, con i banchi e tutto il resto. È per i ragazzi del quartiere.» «Solo ragazzi?» chiese Farouk avvicinandosi a Frank. «E la gente che veniva qui? Insegnava anche a loro?» «No,» rispose. «Non era permesso. Quelle persone erano un po' come dei pensionanti. La scuola non era per loro.» «Vuole dire che quelle persone vivevano qui?» chiese Frank. «Esatto, fino a quando non venivano rispedite via.» «Rispedite via?» «Sì, nel loro paese.» «Sono clandestini?» esclamò Frank. Lo sconosciuto rise. «No, certo che no. Noi non abbiamo nulla a che fare con i clandestini. Loro hanno bisogno di un posto dove stare solo per un certo periodo, poi tornano da dove sono venuti.» Fece un cenno con il capo e indicò la porta sul retro. «Quel gruppo se ne sta andando ora.» Farouk accennò un sorriso. «Se ne stanno andando. Come se ne stanno andando?» L'uomo strizzò gli occhi. «Chi è lei?» Farouk non rispose nulla, e dopo un istante l'altro tornò a fissare Frank.
«Volete sapere qualcosa in particolare riguardo a Kincaid?» «Cerchiamo soltanto di capire che attività svolgeva all'interno del centro sociale,» spiegò Frank. «Nulla di illegale, credetemi,» dichiarò onestamente. Fece qualche passo. «Voglio dire che questo centro sociale esiste dall'inizio del secolo.» «Ma prima non era un pensionato,» gli precisò Farouk. «No, ma questo significa che è cambiato con il passare del tempo.» «In che modo è cambiato?» insistette Farouk. «Be', in un certo senso è uguale a com'era ai vecchi tempi,» disse l'uomo. «Almeno per quanto riguarda le regole fondamentali.» «In realtà però è come un albergo?» domandò Frank. «Già. A parte il fatto che qui non si paga nulla,» precisò e rise sommessamente. «Voglio dire che questa gente, le persone che avete appena visto, non possono permettersi di pagare un albergo.» Frank prese nota di tutto. «Volete dare un'occhiata in giro?» chiese loro allegramente. «Fate pure. Qui non siamo al Waldorf, ma per questa gente è tutto gratis.» Sorrise con gentilezza. «Andate pure, controllate. Solo, mi raccomando, non rubate nulla.» Scosse il capo leggermente, si girò e sparì lungo il corridoio. Un attimo dopo due furgoni, carichi di quelle stesse persone che avevano marciato lungo il corridoio, si avviarono rombando lungo il vialetto, girarono a destra e si diressero di gran carriera lungo Brandon Street. Frank guardò Farouk. «Che cosa ne pensi?» Farouk scosse il capo. «Non lo so.» Frank indicò la rampa di scale che saliva al primo piano. «Diamo un'occhiata, non si sa mai.» «Sì, non si sa mai.» Il primo piano appariva completamente deserto come il resto dell'edificio. Lungo il corridoio si allineavano numerose stanze, in ognuna delle quali vi erano un letto, un tavolo e un lavabo. Una piccola immagine di gesso della Vergine Maria era appoggiata al davanzale della finestra di ogni stanza, assieme a due candele votive e a un semplice centrino di pizzo bianco. «Sembra tutto a posto,» constatò Frank. Farouk fece un rapido cenno d'assenso. «Sarà meglio controllare anche il sotterraneo.» I due scesero l'ampia scala che conduceva nell'atrio e poi l'altra scala molto più stretta, che portava nel sotterraneo.
In una stanza molto spaziosa erano stati sistemati dei banchi e una lavagna. «È qui che insegnava Kincaid,» disse Farouk guardando le poche parole scritte con del gesso giallo sulla lavagna, che qualcuno aveva parzialmente cancellato. Due colonne, una in spagnolo e l'altra in inglese, di tre parole ciascuna, entrambe sotto un'unica scritta: Palabras importantes. «Parole importanti,» tradusse Farouk. Poi le lesse. «Verdad. Verità. Liberdad. Libertà. Justicia. Giustizia.» Continuò a guardare la lavagna, rileggendo le parole ancora una volta come per cercare di scoprire un significato nascosto. «Che cosa pensi di una persona che scrive queste parole?» chiese. Frank scosse il capo lentamente. «Non lo so.» Si guardò intorno senza dire nulla. «È bello qui. È pulito, in ordine.» Farouk non pareva convinto. «Di giorno, forse,» disse. Poi sorrise con aria astuta. «Ma i veri investigatori indagano di notte.» Quando furono in vista dell'ufficio sulla Quarantanovesima, era ormai sera, l'ora in cui le strade erano attraversate da gruppi di adolescenti, da pedoni diretti a casa e dalla gente di periferia che si affrettava nervosamente con il vestito buono verso le luci sfavillanti del quartiere dei teatri. «Be', non abbiamo trovato molto,» disse Frank aprendo la porta del suo ufficio e facendosi da parte per far entrare Farouk per primo. «No, infatti.» Frank accese la luce, andò alla scrivania e tirò fuori la bottiglia di whisky. «Ne vuoi un goccio?» «Sì,» rispose Farouk accomodandosi sulla poltroncina di fronte alla scrivania di Frank. «Che strano meccanismo è la memoria. Ricordo il centro sociale come un posto grandissimo, con stanze molto ampie e finestre enormi. Ma lo vedevo con gli occhi di un bambino.» Frank versò da bere in due bicchieri e ne passò uno a Farouk. I due bevvero in fretta, senza brindare, poi Frank riempì il bicchiere di nuovo per entrambi. «Siamo in un vicolo cieco, Farouk,» disse porgendogli il bicchiere. Farouk annuì con il capo lentamente. «Sì, è vero.» «Forse è già tutto risolto,» aggiunse Frank. «L'intera questione.» «Forse,» convenne Farouk. «Ma resta il fatto della mano.» «Forse Kincaid aveva smesso di conservare tutto,» osservò Frank. «Ma tutta una vita, con un unico scopo nella testa,» disse Farouk beven-
do un sorso veloce dal bicchiere. «Credi che una persona come lui potesse cambiare?» «È possibile.» Estrasse il taccuino, lo aprì alle pagine sulle quali aveva annotato le parole di Kincaid e cominciò a leggere, senza troppa attenzione. Ripensò alla stanza dove le aveva scritte, alle finestre con le tende sbrindellate, all'odore polveroso e pungente di erbe esotiche, alla luce di quell'unica candela sul tavolo vicino alla porta. «Ho cercato di scrivere tutto,» disse Frank. Farouk alzò gli occhi dall'orlo del bicchiere verso Frank, ma non disse nulla. Frank continuò a rileggere gli appunti, mentre Farouk osservava il movimento ritmico degli occhi da una riga all'altra. «Disse che Hannah era il serpente nel giardino. Che aveva portato un mucchio di denaro e creato un luogo dove trovare...» «Dove trovare la magia della giungla,» continuò Farouk. «Sì, mi ricordo di questo particolare.» Scosse il capo. «Questa droga che aveva trovato avrebbe reso bello il mondo.» «E poi, più avanti, aveva chiamato una persona per produrla.» Farouk annuì con convinzione. «Pérez.» «E per procurare la gente,» continuò Frank. «Un uomo per trovare la gente da portare in fabbrica o chissà dove,» concluse Farouk. «Poi abbiamo parlato di Pérez e Kincaid ha ammesso di averlo ucciso,» continuò Frank senza distogliere lo sguardo dalla sua minuscola scrittura. «E infine la sua morte, di Kincaid.» Frank annuì. «Già.» Finì il contenuto del bicchiere e si accese una sigaretta. Farouk fece lo stesso, e per qualche minuto i due restarono in quel silenzio fumoso, ognuno rimuginando i propri ricordi. «Io credo che Hannah fosse implicata in qualche cosa,» dichiarò infine Frank. «Credo che quell'affare dei vestiti fosse tutta una copertura di qualcosa d'altro.» «La magia della giungla,» puntualizzò Farouk. «Una specie di droga,» disse Frank. «Forse era quello il suo legame con Constanza.» «E quando lui finì in galera, lei si mise in proprio?» chiese Farouk. «Più o meno.» «È possibile,» disse Farouk con aria pensosa.
Frank spense la sigaretta e fece ripassare i suoi appunti, rileggendo attentamente ogni pagina, mentre Farouk lo guardava in silenzio. «Ma forse l'operazione si è svolta in varie fasi,» disse dopo un momento, alzando lo sguardo dal taccuino. Farouk si chinò leggermente in avanti, con gli occhi socchiusi per la cappa di fumo. «Fasi?» «Tre fasi,» spiegò Frank sfogliando ancora le pagine del taccuino. «Ascolta: per prima cosa Hannah organizzò un posto per cercare la droga, e questo è l'inizio. Kincaid ci ha detto che poi trovò un posto dove produrla, e che in seguito assunse un uomo che ci portasse la gente.» Farouk guardò Frank in modo inespressivo. «Queste sono le tre fasi,» concluse Frank. Farouk annuì lentamente. «Capisco.» Frank rifletté un momento, poi d'un tratto afferrò il suo taccuino, rilesse alcune pagine e lanciò un'occhiata a Farouk. «Kincaid ha detto: 'Non pensavo potesse cominciare di nuovo.'» «Che cosa?» «E poi ha detto che fu 'un tale anno di morte',» aggiunse subito Frank. «Era l'anno che cominciava, un anno di morte.» «E quale anno sarebbe?» «Be', potrebbe essere stato il 1968, o no?» Frank ci pensò un attimo. «È lo stesso anno in cui Constanza andò in prigione.» «Il 1968,» ripeté lentamente Farouk. «Quello sarebbe 'l'anno di morte' di cui Kincaid parlava.» Farouk annuì. «Potrebbe essere. Ma supponiamo che parlasse del Sud America. È là che si trovava in quel periodo.» Frank non disse nulla. «Certamente, dovremo controllare,» aggiunse Farouk. Sembrò esitare a lungo prima di porre un'altra domanda. «Quell'uomo, Riviera,» disse infine, «lo conosci bene?» «No. Perché?» «Forse lui potrebbe dirci se questo 'anno di morte' fa riferimento al Sud America,» replicò Farouk. «Riviera? Perché mai lui dovrebbe saperlo?» «Perché conosce la Colombia.» «Tu come lo sai?» indagò Frank. «Riviera non è colombiano. Non è nemmeno sudamericano.» Farouk guardò Frank con aria dubbiosa.
«Riviera è spagnolo,» insisté Frank. «È un ebreo spagnolo. Ricordi? Lo mise subito in chiaro.» «Forse è ciò che dice di essere, un ebreo sefardita,» disse Farouk ammiccando. «Ma conosce il Sud America, questo posso dirtelo con certezza.» «Perché ne sei così certo?» «Perché, quando era nel suo ufficio, ha definito un bicho l'assassino di Hannah. In Spagna questo significa solamente 'cimice'.» I suoi occhi parvero diventare lentamente più scuri e aggiunse: «Ma in Colombia è una parola molto offensiva. È l'appellativo volgare del pene. Tu avresti detto 'testa di cazzo'. È così che ha definito Kincaid.» «Ma avrebbe potuto sentirla usare a New York.» «Sì, è possibile.» Frank fissò Farouk attentamente. «Ma potrebbe anche essere una menzogna.» «Già, una menzogna,» bisbigliò Farouk. Il suo volto assunse improvvisamente un'espressione riflessiva, e per qualche minuto l'arabo non parlò. Poi, d'un tratto, gli occhi gli si illuminarono. «Una menzogna,» ripeté. «Talvolta è da lì che la verità comincia.» 30 «C'era più di una menzogna,» annunciò Farouk avvicinandosi alla panchina del parco dove Frank lo stava aspettando. Sorrise. «Ma la verità è negli archivi.» «Quale verità?» «Bene, per prima cosa, che Riviera è un proprietario immobiliare,» disse Farouk. «In questo paese, questa è una verità difficile da nascondere.» «Di che cosa è proprietario?» «Del centro sociale di Brandon Street. I registri mostrano che lui è il proprietario dell'edificio.» Farouk rise con aria scaltra. «E dato che non lo affitta, ma lo offre per opere di carità, non paga le tasse su quell'immobile.» «In che anno l'ha acquistato?» «Nell'anno di morte,» disse Farouk. «Nella primavera del 1968.» Frank prese il suo taccuino. «Continua.» Farouk si sedette sulla panchina, rialzando il bavero del cappotto. «Fa freddo, ho paura che stanotte nevicherà.»
«Hai detto che le menzogne erano più di una,» disse Frank. Farouk si soffiò sulle mani, poi le strofinò energicamente l'una contro l'altra. «È vero che è spagnolo, ma altre cose che ti ha detto sono false. Per esempio, è stato in Colombia quaranta volte dal 1968 a oggi.» Frank prese nota velocemente. «Quaranta?» ripeté sbalordito. «Quando è stata la prima volta?» «Ci andò nell'ottobre del 1968,» citò Farouk a memoria. «A Bogotá?» chiese Frank. «Questo è il fatto interessante,» disse Farouk. «Non atterrò a Bogotà. Si recò nella parte più a nord del paese, lungo le pendici delle Ande.» «A San Jorge?» «Atterrò all'aeroporto più vicino, proprio così,» confermò Farouk. «E vi tornò poi nella primavera dell'anno successivo, poi di nuovo in autunno. Per vent'anni ha fatto due viaggi l'anno, uno in aprile, l'altro in ottobre.» Frank prese nota. «Perché due volte l'anno?» chiese quasi a se stesso. «Perché proprio in autunno e in primavera?» Rifletté per un istante, ripensando a tutto quello che sapeva, ai casi già risolti, al suo passato, ripercorrendo tutto come in una cavalcata nella memoria. D'un tratto si ricordò, il rombo di un vecchio aereo a elica, le gonfie nubi di polvere bianca che uscivano dalla sua coda, l'odore dolciastro del veleno sparso sui campi di cotone leggermente mossi dal vento. «Raccolti. La semina e il raccolto.» Farouk sorrise. «Sì. Potrebbe essere. La magia della giungla.» Frank lo guardò. «Marijuana?» «Forse. In Colombia cresce.» «Nient'altro?» «Anche le piante della coca vengono trattate là.» «Cocaina?» Farouk annuì. Frank rifletté un istante, poi sfogliò le pagine del taccuino. «Ecco qui,» disse dopo aver trovato ciò che stava cercando. «Kincaid ha detto che lei, Hannah, aveva trovato un uomo che la producesse.» «Qualcuno che coltivasse la marijuana,» disse Farouk. «O che raffinasse la cocaina.» Frank continuava a fissare il suo taccuino. «Forse Pérez fu ucciso, forse quell'uomo era...» «Riviera,» disse Farouk. «È possibile.» Diede un'occhiata agli appunti. «Che cos'altro ha detto Kincaid?» Frank lesse le sue note. «Qualcuno che le facesse arrivare.»
«Le spedizioni,» precisò Farouk. «Le partite di droga.» Il suo sguardo vagava fra gli alberi spogli del parco. «Ma quale droga?» «Il periodo di crescita dovrebbe dircelo. Qualsiasi cosa fosse, doveva essere seminata o raccolta in primavera e in autunno.» Farouk si alzò a fatica dalla panchina. «Bene,» disse sbuffando leggermente nell'aria fredda, «questo non dovrebbe essere troppo difficile da scoprire. Dalla Colombia, non può essere che marijuana o cocaina.» Frank si alzò in piedi accanto a lui. «Come fai a dirlo?» «Perché mia moglie viene dalla Colombia,» gli spiegò Farouk incamminandosi verso la stazione della metropolitana sul lato destro del piccolo parco. «Cocaina o marijuana,» ripeté Farouk mentre lui e Frank salivano i larghi scalini della biblioteca di New York. Alzò lo sguardo verso l'imponente facciata di marmo. «Tutti i segreti sono raccolti qui,» disse quasi con soggezione, «se uno sapesse come scoprirli.» Procedeva lentamente, uno scalino alla volta, seguito da Frank. «In questo edificio vi è una stanza molto particolare,» aggiunse Farouk una volta che furono entrati nell'immenso atrio. Guardò Frank. «Stanza 228. È un luogo di grande interesse.» «Che cosa c'è?» «Documenti e rapporti governativi,» disse Farouk. «Ho passato molte ore a consultarli. È tutto lì. Se li leggi attentamente, ti spiegano molte cose.» «Ci spiegheranno anche della Colombia?» chiese Frank. «Quello è il meno,» disse Farouk voltandosi di scatto a destra e avanzando con passo regolare per le scale. La stanza 228 era la meno imponente fra le molte stanze che avevano visto passando per recarsi nell'ala nord della biblioteca. Vi era un accesso molto stretto, con due piccole stanze ai lati e alcuni scaffali lungo le pareti del corridoio, ma Farouk non andò in quella direzione, procedette invece con sicurezza verso uno dei terminali in fondo alla stanza. Si sedette e cominciò a battere mentre Frank, in piedi dietro di lui, guardava le parole che comparivano rapidamente sullo schermo: NATIONAL NARCOTICS INTELLIGENCE COMMITTEE REPORT. Dopo qualche istante sul monitor apparve il numero di codice del libro richiesto e Farouk lo annotò su un tagliando che consegnò nella piccola stanza di sinistra a uno degli incaricati. «Dobbiamo attendere qualche i-
stante,» disse voltandosi verso Frank. «Aspettiamo nell'altra stanza. Ci porteranno il libro al tavolo numero 64.» Alcuni minuti dopo portarono loro un piccolo volume, con la copertina grigia, di poco più di cento pagine. «Adesso siamo pronti,» disse con soddisfazione Farouk consultando l'indice del volume. «Cocaina,» bisbigliò scorrendo le pagine dell'indice. Quando ebbe trovato la pagina, Frank si chinò in avanti e ne lesse il contenuto. Cocaina, alcaloide cristallino amaro C17H21NO4. Ottenuta dalle foglie della pianta di coca (spagnolo: Quechua, kúka), un arbusto che cresce nel Sud America, specie Erythroxylon, famiglia Erythroxylaceae. La pianta della coca cresce a quote elevate nel Sud America. Necessita di temperatura mite e costante di circa 65 gradi Fahrenheit e la produzione migliore si ottiene in terreni collinosi alle pendici delle Ande. Farouk voltò pagina, scorrendo le righe sempre più velocemente. «Ecco,» disse dopo un momento, poi lesse con un tono di voce basso. «La cocaina viene raccolta tre volte l'anno: nella mediados de marzo (marzo), poi nella mediados de San Juan (giugno) e infine nella mediados de todos los santos (novembre).» «Questi periodi non corrispondono alle date dei viaggi di Riviera in Colombia,» disse Frank quando Farouk ebbe terminato la lettura. Farouk non disse nulla. Tornò all'indice e cercò la voce «marijuana», individuò la pagina e lesse la premessa lentamente, mentre Frank lo guardava. «La canapa (hashish) di cui si utilizzano le foglie essiccate e le cime delle infiorescenze viene coltivata tutto l'anno, in modo particolare in Colombia, dove le foglie vengono tagliate con pasta di coca (cocaina) per produrre un'altra droga, fortemente tossica, nota come bazuco.» Farouk levò gli occhi dal libro. «Bazuco,» mugugnò. «Forse è questa la magia della giungla.» «Forse,» convenne Frank sedendosi accanto a lui. «Ma il periodo di raccolta, anche in questo caso, non coincide con i viaggi di Riviera.» «No, infatti,» stabilì Farouk chiudendo il libro. «Sembra che non quadri.» Frank si chinò leggermente in avanti, con lo sguardo affascinato dalle file di libri che correvano lungo le quattro pareti della stanza di lettura. «Lui
ci va ogni sei mesi.» «Senza possibilità di errore. Da vent'anni ogni sei mesi.» Farouk abbassò lo sguardo sul volume che aveva di fronte. «Ma nulla cresce in questo lasso di tempo.» Scosse il capo sconsolato. «Nulla si raccoglie in aprile o in ottobre.» Allontanò il volume facendolo scivolare sulla superficie del tavolo. «La cocaina viene raccolta tre volte l'anno, ma Riviera va solo due volte l'anno in Colombia. E la marijuana si raccoglie durante tutto l'anno.» Rifletté ancora un istante, poi si rivolse a Frank e disse: «Non può trattarsi di queste droghe.» Frank lo guardò. «Forse è qualche nuova droga.» Ripensò ai piccoli semi gialli che costellavano il pavimento dell'appartamento di Kincaid, e sentì ancora la sua voce, secca come il letto di peduncoli che ricopriva il pavimento, pronunciare queste parole: E poi venne un altro uomo per farla entrare. «Oppure la spedizione avviene in maniera diversa,» ipotizzò. «Kincaid ha detto che un altro uomo andò in Colombia per farla entrare,» disse Frank. «Sì, probabilmente intendeva la merce,» disse Farouk. «O la gente?» «La gente?» «Di qualsiasi sostanza si tratti, forse Riviera è solo un intermediario.» Farouk guardò Frank in modo penetrante. «Cioè?» «Forse Riviera è la persona che fa arrivare qui la merce e per farlo usa della gente che la porti dentro.» «Della gente?» chiese ancora Farouk. Frank annuì. «Esatto. E la fa alloggiare al centro sociale di Brandon Street.» Farouk socchiuse gli occhi ma non disse nulla. «Con visti validi per sei mesi,» aggiunse Frank. «E questa sarebbe la copertura per l'importazione della merce?» chiese Farouk immediatamente. «La gente di Brandon Street?» «Non so,» disse infine Frank, ma ripensava a quelle persone silenziose che attraversavano il corridoio, a capo chino, mentre l'uomo alle loro spalle le sollecitava gridando loro degli ordini. Sembravano serpeggiare tutte insieme nell'atrio immacolato, appena tinteggiato, e i loro volti erano scuri come quei peduncoli che coprivano il pavimento di Kincaid, un raccolto umano avvizzito, inaridito, che era sparito dietro una larga porta metallica. 31
Il mattino seguente, quando Farouk raggiunse Frank nel suo ufficio, era ancora molto presto. Si sedette ad aspettare che lui finisse di radersi, guardandosi in giro mentre il fumo della sua sigaretta saliva in volute verso il soffitto macchiato dall'umidità. «Sì, è vero. È presto,» disse a Frank quando lo vide spuntare dal bagno ancora intontito. «Ma dobbiamo essere là prima che lui arrivi.» «E non sappiamo quando?» bofonchiò Frank. Si infilò la giacca, quindi il lungo cappotto scuro. «Pensi che nevicherà?» «Dicono stasera,» spiegò Farouk. «Pare che stia per arrivare una terribile bufera dal nord.» «Questo potrebbe complicare le cose,» osservò Frank. «Staremo vicini,» lo rassicurò Farouk. «Neve o non neve, non ci perderemo di vista.» «D'accordo,» disse Frank allacciandosi l'ultimo bottone del cappotto. Andò alla porta, lasciò che Farouk lo precedesse, poi imboccò la scala che portava sulla Quarantanovesima. «Sono con la mia auto,» disse Farouk indicando a Frank di svoltare a destra. «Non possiamo andarci con la metropolitana.» Gli indicò una vecchia e malconcia Chevrolet. «Il riscaldamento non funziona, ma è il suo unico problema.» «Riviera ha un'auto?» «Non lo so,» ammise Farouk. «Ma se ce l'ha è indispensabile che l'abbiamo anche noi.» Salirono rapidamente, poi si diressero senza parlare sulla Nona Avenue, girarono a sinistra sulla Trentaquattresima e raggiunsero il cuore del Quartiere della Moda. «Sosteremo qui di fronte,» disse Farouk parcheggiando l'auto proprio in vista dell'autorimessa sotterranea dell'ufficio di Riviera. «Se ha un'auto, lo vedremo entrare.» Prese dal sedile posteriore un piccolo cartello con una scritta in lettere rosse. «Questo servirà a tenere lontana la polizia,» disse mostrandolo a Frank. C'era scritto: DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI NEW YORK CITY. SERVIZIO SPECIALE. «Come te lo sei procurato?» domandò Frank. Farouk agganciò il cartello alla visiera parasole. «Mio cugino Hassan mi doveva un favore, e con questo me lo ha restituito.» Frank fece un rapido cenno d'assenso con il capo, poi si mise comodo
sul sedile. «Questo è l'aspetto del mio lavoro che ho sempre odiato di più,» disse. «Non devi pensare che sia noioso,» lo incoraggiò Farouk. Scosse il capo. «Lo devi pensare come un momento di grande attesa. Devi dire: 'Ciò che ancora non ho, lo sto aspettando.'» Sorrise. «È così che devi pensare questo istante, come il momento che precede il salto della pantera.» Frank estrasse una sigaretta e l'accese, lo sguardo fisso sul tunnel buio che scendeva nell'autorimessa. «Se non lo vediamo uscire per le nove, gli telefonerò in ufficio. Se è già arrivato, significa che non usa l'auto.» «D'accordo. E noi lasceremo la nostra.» «Possiamo parcheggiarla in questa rimessa.» «D'accordo,» ripeté Farouk. «Vedi che libertà, amico mio? Possiamo usare l'auto, o lasciarla qui.» Sorrise con l'aria di volerlo prendere in giro. «Il mondo è senza confini, bello e senza confini.» Frank tirò una lunga boccata dalla sigaretta guardando la folla farsi sempre più fitta lungo i marciapiedi. Sentì che il suo cuore pulsava all'unisono con il ritmo frenetico e guizzante delle persone che lo circondavano, e cominciò a battere il piede ritmicamente sul tappetino dell'auto. Farouk lo scrutò incuriosito. «Come ti ho già detto una volta, tu sei una persona irrequieta.» «Fa parte della mia natura.» Frank tirò una boccata dalla sigaretta, poi la schiacciò nel posacenere del cruscotto. «Magari tu sai come prenderti,» aggiunse Farouk. Frank scosse il capo in segno di diniego. «Peggio per te,» minimizzò Farouk. «Talvolta è utile sapere qual è il modo migliore di vivere la nostra vita.» Frank lo guardò. «E qual è il tuo modo di vivere?» Farouk tirò un profondo sospiro. «Fare del bene a chi mi vuole bene, fare del male a chi mi vuole male.» Frank sorrise. «Tu lo vuoi, vero? Lo vuoi proprio incastrare Riviera.» «Se davvero usa quella gente per portare qui la droga,» disse Farouk, «se è questo che fa, allora sì, lo voglio.» Scosse il capo. «Ognuno di noi dovrebbe ottenere ciò che desidera con le sole proprie forze. Non dovrebbe usare gli altri.» «Ognuno raccolga ciò che ha seminato,» disse Frank. «Non diceva così tuo padre?» Farouk fece un ampio sorriso. «Sì, è vero.» Frank tornò a tenere sotto controllo l'entrata della rimessa. «Si sta facen-
do tardi. Forse dovrei provare a telefonare. Riviera potrebbe essere già in ufficio.» Farouk annuì. «Sì, potrebbe essere.» Frank aprì la portiera, ma quando stava per uscire vide luccicare i capelli argentei di Riviera. Guidava una giardinetta blu, e in prossimità della rimessa lentamente vi entrò. «L'hai visto?» chiese Frank immediatamente rimettendosi a sedere all'interno dell'auto. «Il numero della targa è BR7-5570,» disse con naturalezza Farouk. Frank prese subito il taccuino. «Non è necessario,» lo fermò Farouk. Diede qualche leggero colpetto con il dito sulla tempia e aggiunse: «È già tutto qui.» Era quasi mezzanotte quando Frank lo vide uscire. Si chinò in avanti di scatto e diede un colpetto con il gomito a Farouk per svegliarlo. «Se ne sta andando,» disse Frank sottovoce. Farouk si raddrizzò immediatamente, scrutando l'interno oscuro della rimessa alla ricerca dei capelli argentei di Riviera. «Eccolo.» Da dietro il parabrezza Farouk vide Riviera avvicinarsi con passo svelto alla sua giardinetta, salirvi e uscire rapidamente dalla rimessa. Lo seguirono prima verso est, poi lungo Park Avenue, fra gli uffici che costeggiavano il viale su entrambi i lati. «Forse sta andando a casa,» disse Farouk accelerando leggermente per restare abbastanza vicino all'auto di Riviera per non perderla di vista. Frank non disse nulla. I suoi occhi non si spostavano un attimo dalla giardinetta blu, seguendola attentamente mentre attraversava l'East Village. Poi l'auto scivolò davanti ai ristoranti illuminati di Little Italy e poi tra gli isolati brulicanti di gente di Chinatomi. «Sta andando verso il ponte,» disse Frank mentre l'auto svoltava intorno alla facciata grigia del municipio e avanzava lentamente sulla rampa d'accesso del ponte di Brooklyn. Farouk schiacciò leggermente il pedale dell'acceleratore. La vecchia auto ebbe un sobbalzo, ma prese velocità, mentre la luce dei fari illuminava uno dopo l'altro i piloni del ponte. Al di là del fiume, la giardinetta svoltò a destra verso una zona buia e isolata di depositi abbandonati. Farouk guardò Frank e sorrise. «Non credo stia andando a casa,» com-
mentò. La liscia pavimentazione stradale cedette il passo all'acciottolato quando l'auto di Riviera, con una rapida svolta a sinistra, si diresse nuovamente verso il fiume. Farouk decelerò immediatamente. «Non dobbiamo stargli troppo attaccati. Nel traffico è diverso, ma qui se ne accorgerebbe subito.» Frank annuì. «Non dobbiamo perdere le sue tracce.» L'auto di Riviera continuava a seguire il corso del fiume, poi d'un tratto svoltò a destra in una strada priva di illuminazione. «Non possiamo seguirlo con l'auto, Farouk. È troppo isolato, questo posto. Si accorgerebbe subito che lo stiamo seguendo.» «Sì,» convenne Farouk con riluttanza. Accostò l'auto vicino a un edificio e spense il motore. «Dovremo cercare di stargli dietro, senza perderlo di vista.» Uscirono immediatamente e si nascosero dietro l'angolo. Faceva freddo, e i due correndo emanavano sbuffi di vapore. L'odore di marcio che saliva dal fiume era molto intenso e Frank pensò ai ruscelli del Sud nei quali da bambino amava fare il bagno; poi gli venne in mente anche quell'altro fiume, immerso nella giungla colombiana, sulla cui riva venivano ammucchiati i corpi come cataste di legname lungo le sponde fangose. Girando l'angolo, Frank vide i fanali posteriori dell'auto di Riviera, come due occhietti rossi, muoversi verso destra e poi fermarsi. Anche Farouk si fermò, boccheggiando e cercando di riprendere fiato. «Non posso correre in questo modo,» disse ansimando affannosamente e sbottonando il cappotto. «Io non sono una gazzella.» «Si è fermato,» annunciò Frank, con lo sguardo fisso sui fanali posteriori. Farouk lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e scrutò nell'oscurità. I fanali si spensero e fu come se improvvisamente un impenetrabile muro nero fosse calato davanti a loro. Per un attimo i due restarono immobili nell'oscurità, cercando ancora di riprendere fiato. «Sei pronto?» chiese infine Frank. «Sì, sono pronto.» Si mossero verso l'edificio, rasentandolo cautamente. Frank sentiva la superficie ruvida dei mattoni intonacati con la malta sotto la punta delle dita, e mentre avanzava ebbe la strana impressione che quella sensazione gli procurasse quasi piacere. Improvvisamente un getto di luce li investì, e Frank vide che Riviera a-
veva aperto il portellone dell'auto, illuminando l'interno. Vedeva luccicare i suoi capelli in quella strana luce, mentre le sue grandi mani scure stringevano un piccolo bidone di metallo che lentamente fece scivolare nel bagagliaio dell'auto. Poi si voltò rapidamente e scomparve nell'edificio, lasciando aperto il portellone, dal quale ancora si diffondeva la luce nell'aria gelida dell'inverno. «La droga,» bisbigliò Farouk. «Pensi che sia la droga?» Frank non rispose. Spinse le spalle contro la facciata dell'edificio e avanzando si accorse di raschiarla. Un passo dopo l'altro, lentamente si spostò in direzione della luce, quasi fino a raggiungere la porta dell'edificio. Fu allora che voltandosi si accorse che Farouk era sparito nella spessa oscurità del porto. Per un istante pensò di chiamarlo, ma si trattenne rendendosi conto che desiderava Farouk al suo fianco non perché lo aiutasse, ma perché non voleva per sé la vecchia morte biblica del dannato, solo davanti ai suoi nemici. Riprese ad avanzare, poi sentì dietro di sé un lungo e lento respiro. «Ora sto bene,» bisbigliò Farouk. «Ma avevo proprio bisogno di riprendere fiato.» Frank si voltò nuovamente verso l'auto, fece due passi e poi d'un tratto si tirò indietro. Riviera uscì in fretta dall'edificio un'altra volta, andò verso l'auto e fece scivolare dentro un altro piccolo bidone verde. Frank emerse dall'oscurità, e appena Riviera si voltò poté notare che il volto di quell'uomo anziano era stranamente bello nei lineamenti profondi e nelle labbra carnose: notò qualcosa in lui che sembrava sovrastare l'ambiente intorno e dominare tutto finché fosse restato nella sua spaventosa solitudine, freddezza e insensibilità al di là dell'urgenza delle necessità umane. «Mi ha seguito?» chiese immediatamente Riviera. «Sì.» «Perché?» «Per controllare alcune cose.» Farouk si fece avanti nella luce, e le sue spalle sfiorarono quelle di Frank. «Vedo che ha portato il suo socio,» disse Riviera a Frank, che non rispose. Riviera alzò leggermente il capo e tirò un profondo sospiro. Il fischio di un rimorchiatore ruppe improvvisamente il silenzio, ma lui non sembrò u-
dirlo. «Non credevo che si stesse occupando ancora del caso. Pensavo che, dopo la morte di quell'uomo, il caso fosse ormai chiuso. Miss Covallo vuol sapere qualcos'altro?» «Lei no, ma noi sì,» rispose Frank. «Che cosa?» chiese subito Riviera. «Ha a che vedere con Hannah.» Riviera sorrise. «In un certo senso, molte cose sono collegate a Hannah.» Frank lo guardò con aria inespressiva. «Che cosa significa esattamente?» «Che la sua morte mette in dubbio molte cose.» «Quali cose?» «Il valore della vita di Hannah,» gli rispose Riviera. Guardò Farouk. «Il valore di tutte le cose.» Sorrise appena, poi si voltò di nuovo verso Frank e lo scrutò lentamente dall'alto verso il basso. «Dovrebbe cambiare cappotto, Mr Clemons. Le piacerebbe averne uno nuovo?» «Alcuni fatti che ho scoperto riguardo a Hannah portano a lei,» gli disse Frank. «Questo non mi sorprende affatto,» ribatté Riviera. «Il mondo è pieno di legami. Mi capisce?» «No, non la capisco.» Riviera si irrigidì. «Che cosa sta cercando, Mr Clemons?» domandò con impazienza. «Come vede, ho molto da fare.» Frank lanciò un'occhiata ai piccoli contenitori verdi. «Che cosa c'è in quei bidoni?» «Solvente,» rispose Riviera indicando l'edificio alla sua sinistra. «Qui c'è un impianto di raffinazione. Lo stiamo chiudendo e dobbiamo spostare il materiale.» «Nel bel mezzo della notte?» «Questo è un commercio difficile,» disse Riviera, «non sempre possiamo permetterci di rispettare le regole.» Lanciò un'occhiata a Farouk, poi di nuovo si voltò verso Frank. «Il governo ha leggi molto rigide riguardo allo smaltimento di certe sostanze chimiche. Le procedure sono molto costose, così talvolta cerchiamo di ridurre i costi.» «Liberandovi del materiale durante la notte?» «Già.» «Cercate di liberarvene in maniera illegale. È questo che fate?» «Ci limitiamo a spostarlo,» precisò Riviera. «Sa, in un luogo più sicuro.» Sul suo viso apparve un sorriso stirato. «Almeno per un po' di tempo.»
«Credevo che lei fosse troppo in alto nella gerarchia per fare questo tipo di lavori,» commentò Frank. Riviera rise e puntualizzò: «Proprio il contrario. Solo una persona di fiducia può fare un lavoro di responsabilità.» Dalla sua voce traspariva uno strano distacco, un senso di mancamento, come se si trovasse sul ciglio di un baratro. «Lei va in Colombia abbastanza spesso,» continuò Frank. «In aprile e in ottobre.» Riviera non disse nulla. «Due volte l'anno negli ultimi vent'anni,» aggiunse Frank. Riviera lo fissò negli occhi. «Hannah visse per un certo periodo in Colombia, in un villaggio di nome San Jorge.» Riviera rimase silenzioso, ma Frank vide qualcosa accendersi nei suoi occhi, come un fuoco. «Si trova alle pendici delle Ande,» aggiunse Frank. «Una zona in cui si coltiva molta droga.» Il volto di Riviera parve distendersi leggermente. «Droga?» «Esatto,» confermò Frank. «Marijuana, cocaina. E una mistura che chiamano bazuco.» Lo guardò con causticità. «Forse anche qualcos'altro. Qualcosa di nuovo.» Riviera sorrise divertito. «Lei pensa che io sia un trafficante di droga?» Frank non rispose. «Bene. Se io sono un trafficante di droga, come farei a importarla?» «Si serve di un edificio di sua proprietà,» gli disse Frank. «Il centro sociale di Brandon Street.» Riviera rise ancora, ma in modo duro, secco, ironico, che parve squarciare la spessa oscurità che li circondava. «Bene, vedo che lei sa troppo. Si è spinto in là abbastanza.» Frank lo fissò. «Abbastanza per che cosa?» «Per morire come un idiota,» disse Riviera estraendo la pistola dalla giacca. «Crede che non abbia mai ucciso, finora?» Frank sentì il cuore nel petto diventare una pietra fredda. Lanciò un'occhiata a Farouk, immobile accanto a lui, impallidito alla vista dell'arma. «Hannah,» disse Frank. «Anche prima,» puntualizzò Riviera. Sollevò in alto la mano nodosa. «Con questa.» Rise ancora. «Sa come si deve agire per farsi strada in questo mondo?» domandò. «Non certo lavorando sodo. Quelle sono solo
stronzate. Tutti lavorano sodo. Ti fai strada se sei disposto a tutto.» Il suo viso divenne infuocato. «Se vivi in una fogna, mangi i topi di fogna.» Lanciò un'occhiata ai bidoni verdi. «Droga? Ma è ridicolo.» «Che cos'è allora?» chiese Frank. Riviera lo guardò quasi con ammirazione. «Lo vuol sapere veramente? Adesso posso anche dirglielo.» Il suo sguardo parve addolcirsi. «Qualcosa di incredibile,» disse con voce colma di meraviglia. «Non una droga, ma qualcosa di veramente incredibile.» Estrasse dalla tasca posteriore un fazzoletto bianco. «Qualcosa che si ricava da un piccolo seme giallo e che una volta raffinato e messo su questo fazzoletto lo farà luccicare.» Frank socchiuse le labbra. «Lo stile Imalia Covallo,» sussurrò. Riviera sorrise. «Lo ha scoperto molti anni fa un chimico in Colombia. Un vero genio. Il suo nome dovrebbe essere famoso.» «Emilio Pérez,» lo precedette Frank. «Esatto. Scoprì che il piccolo seme di un'erba comune rendeva abiti del tutto banali più belli di quanto non si potesse immaginare. Tutto sta nella lucentezza che dona al tessuto. Ti avvolge di luce, quando indossi un vestito fatto con questo tessuto, ti illumina. Ti fa sembrare una dea.» Riviera guardò con tristezza i due piccoli contenitori. «Questi sono gli ultimi. Probabilmente non ce ne saranno più. Kincaid l'aveva previsto.» Il suo sguardo tornò a posarsi su Frank. «Era laggiù quando Bornstein mandò Hannah a occuparsi della raffinazione e della produzione.» Sorrise con aria malinconica. «Lo chiamavano 'magia de la selva'.» «La magia della giungla,» bisbigliò Farouk. Riviera lo guardò, poi si voltò verso Frank. «È vero che era magico, ma era anche velenoso. Almeno al momento della lavorazione. Era incolore, inodore e insapore, ma veniva assorbito in ogni modo, respirando o dalla pelle. Non vi era modo di evitarlo.» «E Kincaid lo sapeva,» disse Frank. «Sì,» convenne Riviera. «Per questa ragione uccise Emilio. Gli tagliò la mano e sparì nella giungla.» Scosse il capo. «Hannah pensava che Kincaid fosse morto lì. Si immagina come deve essersi sentita quando se lo vide davanti alla porta?» disse sorridendo. «Lui l'aveva trovata?» «Era finito al centro sociale di Brandon Street. È lì che vide il seme. Forse solo uno, appeso alla camicia di qualche campesino, ma quell'unico segno gli bastò per recarsi da Hannah, pensando che lei fosse al corrente di tutto.»
«Ma lei non lo era?» chiese Frank. «Certamente no. Lei pensava che avessimo trovato un processo di lavorazione innocuo. Non avrebbe mai più usato quell'estratto, non dopo quanto era accaduto a San Jorge. Le raccontai che avevamo studiato un nuovo metodo di lavorazione, e che cambiavamo spesso gli operai per essere sicuri che non subissero danni.» Alzò il cane della pistola. «Voleva crederlo, e così ci credette.» «Fino a quando Kincaid non è andato da lei,» aggiunse Frank. «Esatto.» «Ma non l'ha uccisa lui.» «No,» disse Riviera con freddezza. La canna della pistola si spostò lentamente. «Sono stato io.» «Kincaid le aveva spiegato tutto il funzionamento dell'operazione,» disse subito Frank. «La sta tirando per le lunghe, Clemons,» disse Riviera. «Voglio sapere come sono andate le cose.» «Certo, ha ragione. Kincaid spiegò a Hannah come gruppi di operai arrivassero a Brandon Street ogni sei mesi. Le spiegò che arrivavano da luoghi diversi, così che, una volta tornati nel loro paese, si ammalavano e morivano senza che nessuno fosse in grado di stabilire che questi morti avevano tutti in comune una permanenza al centro sociale di Brandon Street.» Sorrise con soddisfazione. «Avevamo previsto tutto alla perfezione.» «Avevate?» chiese Frank. «Non sia sciocco,» disse Riviera. «Imalia Covallo è quel tipo di persona che desidera arrivare in alto. Pensava che Kincaid avesse ucciso Hannah, e che se non l'avessero scoperto in tempo avrebbe ucciso anche lei. Perciò decise di assumere lei, per trovare Kincaid, in modo che io poi potessi ucciderlo. Era una sciocchezza, ma lei aveva molta paura.» Il suo sguardo si rabbuiò. «Ma fu Hannah che mi tradì veramente. Io e Imalia l'abbiamo accolta, le abbiamo dato un lavoro quando nessun altro l'avrebbe toccata; ma poi lei mi ha tradito, minacciando di mandare all'aria tutto.» Sorrise per l'ironia della morte di Hannah. «È come se improvvisamente fosse tornata a essere come ai vecchi tempi.» Frank ripensò ancora una volta a Hannah nella sala delle riunioni, con il braccio teso verso l'alto mentre gridava forte l'antica maledizione ebraica: Se io dovessi tradirti, oh Gerusalemme, possa la mia mano destra inaridirsi; e la mia lingua aderire al palato. «Così la uccisi,» dichiarò Riviera, «e cercai di fare in modo che la colpa
ricadesse su Kincaid, nel caso in cui lui si fosse rivolto alla polizia dicendo ciò che sapeva, o nel caso in cui lei, Clemons, più tardi avesse scoperto tutto. Ma da come sono andate le cose, non è stato necessario uccidere Kincaid.» Alzò la canna della pistola e strinse gli occhi lentamente. «Basta con le chiacchiere. Per lei è giunto il momento di morire.» «Può sparare soltanto a uno di noi due,» gli fece osservare Frank. «È solo a uno dei due che intendo sparare,» disse Riviera lanciando un'occhiata di intesa a Farouk. «Presumo che non sia necessario altro, vero, Farouk?» Farouk annuì. «Certo,» disse con calma. Riviera sorrise. «Mi avevano detto che eri un tipo concreto, perciò ti ho assunto. Sono felice di constatare che era vero.» Frank fissò Farouk. «Tu lavoravi per lui?» «Sì,» ammise Farouk, con sguardo improvvisamente freddo e distante, come se stesse scrutando Frank dal fondo di un lungo tunnel. Frank sentì qualcosa dentro di sé frantumarsi dolorosamente. Farouk chinò leggermente il capo, poi si allontanò da lui fino a che Frank poté vedere il suo sguardo che lo scrutava senza pietà da dietro la spalla di Riviera. «Arrivederci, Mr Clemons,» disse Riviera. Frank si appiattì contro il muro, sentendo ogni minimo granellino della ruvida superficie contro la schiena. Sentì il vento fischiare lungo le strade deserte e lo scorrere lento ed eterno del fiume. Guardò in alto verso la luna oscurata dalle nubi, guardò le stelle nella notte scura e infinita, e si rese conto con improvvisa chiarezza che non desiderava abbandonare tutte queste cose, per quanto sembrassero insignificanti e vane, perché erano comunque inspiegabilmente legate alla trama della sua vita. Udì Riviera dire ancora una volta, come in una cantilena: «Per lei è giunto il momento di morire.» Chiuse gli occhi e attese. «I campesinos,» udì Farouk dire d'un tratto, «stanno ancora morendo per il veleno?» Frank non osava aprire gli occhi e aspettava. «Sì,» rispose Riviera. Poi udì uno sparo. Sentì la testa sbattere contro il muro, ma non cadde. «Bicho,» mormorò Farouk con durezza. Riaprì gli occhi e vide Riviera barcollare in avanti con un'enorme macchia rossa sul petto, e un'espressione di disumano stupore sul volto. «Bicho,» ripeté Farouk, guardando il corpo di Riviera crollare a faccia in
giù sul selciato. Frank non riusciva a muoversi, e restava con la schiena ancora schiacciata contro il muro. Farouk lo guardò. «Non sapevo dei morti.» Ripose la pistola nel fodero e si avvicinò a Frank scostandolo delicatamente dal muro. «Vieni, amico mio,» gli disse con gentilezza. «Non è ancora giunto il momento di morire.» 32 Farouk si fermò accanto al piccolo cancello in ferro battuto davanti all'ufficio di Frank. «Ci vediamo domani?» chiese. Frank annuì con calma. «Certamente.» Erano appena tornati dal distretto di Midtown North dove avevano portato i due piccoli contenitori verdi e raccontato l'intera storia a Tannenbaum, che li aveva rilasciati dopo quasi due ore di interrogatorio. Poi erano ritornati a piedi, perseguitati dal gelido vento che saliva dal fiume. Frank si rialzò il bavero del cappotto e scese uno scalino verso l'ufficio. «Non prendertela troppo,» disse a Farouk. Lui lo guardò con aria triste. «Non volevo che andasse a finire così,» ripeté per la terza volta da quando Riviera era morto. «Ma non conoscevo l'intera storia.» Frank lo fissò apertamente. «Quando ti ha assunto?» «Il giorno prima di quando ci siamo conosciuti nel locale di Toby,» raccontò Farouk. «Mi disse che Miss Covallo aveva assunto un investigatore, e che lui voleva assicurarsi che fosse una persona di cui potersi fidare.» «E tu gli hai creduto?» «Non avevo alcuna ragione per non farlo,» disse Farouk. «Come sai, non sempre gli investigatori sono persone di cui fidarsi. Gonfiano le parcelle, addebitano del tempo che non è stato dedicato alle indagini e così via. Tu avresti potuto essere uno di loro.» «Capisco,» disse Frank. «Riviera mi chiese soltanto di starti alle costole,» aggiunse Farouk. «Ma mi aveva raccontato molte bugie, e io cominciai ad accorgermene. Da allora, sono sempre stato dalla tua parte.» «Mi proteggevi.» Farouk annuì con aria grave. «Fare del bene a chi ti vuole bene,» disse.
Poi guardò l'ufficio di Frank. «Questo non è un luogo dove un uomo può vivere a lungo.» «No, non a lungo,» lo rassicurò Frank. «Forse stanotte preferiresti dormire a casa mia,» aggiunse Farouk. Frank scosse il capo. «Non credo.» Farouk mosse qualche passo, poi si voltò nuovamente verso Frank. «Domani interrogheranno Miss Covallo.» «Già.» Farouk lo guardò per un attimo, poi gli tese la mano. «Domani è un altro giorno.» Frank non disse nulla, limitandosi a fare un cenno con la mano senza molto entusiasmo, poi scese le scale ed entrò nel suo ufficio. Per un po' cercò di dormire, agitandosi continuamente sul divano fino a quando l'ansia ebbe la meglio. Allora si alzò, andò alla scrivania e si accese una sigaretta. Ripensò alla gente di San Jorge, a Hannah che vedeva quei corpi indebolirsi sempre più e la loro morbida pelle scura riempirsi di pustole, e poi a Gilda e a Kincaid, il sacrificio e la vendetta. Gli parve allora di risentire la voce di Hannah nell'inverno del '36 e fu colpito dalla consapevolezza di aver potuto conoscere la Hannah di quel periodo, come le altre persone che tanto tempo prima si erano raccolte al freddo, l'una accanto all'altra ad ascoltarla, a guardarla, con il braccio teso in alto come una torcia accesa nel vento. Finì la sigaretta, ne raccolse un'altra, prese il suo vecchio cappotto scuro e uscì in strada. La prima neve cominciava a cadere, e le nude travi in acciaio dell'edificio in costruzione dalla parte opposta della via sembravano ornate da un nastro argenteo. Fiocchi pungenti e gelidi turbinavano leggeri nell'aria, ma Frank pareva non accorgersene. Camminava per i viali con lo sguardo dritto avanti a sé, mentre la neve gli danzava intorno e cadeva a terra formando dolci pendii ai bordi dei marciapiedi e dei muri. Quando raggiunse Central Park il grande e fitto bosco era già bianco e luccicante sotto la luce dei lampioni, ma Frank aveva negli occhi solo i corpi scuri, ammucchiati lungo le rive del fiume fangoso, e camminando con passo regolare nella fitta neve sentiva quasi il rumore dei corpi fatti scivolare nell'acqua con tristezza dagli indigeni sopravvissuti. Una spessa coltre di neve ricopriva già tutto quando Frank raggiunse le porte del Museo d'Arte Americana. «Mi scusi, signore,» gli disse il portiere quando lo vide avvicinarsi al-
l'ingresso. «Ma il museo è chiuso per un ricevimento privato. Riaprirà al pubblico domani mattina.» «Sono qui per vedere Miss Imalia Covallo,» gli spiegò Frank. «La sta aspettando?» «No,» rispose Frank ed estrasse la sua tessera di identificazione. «Le dica che sono qui.» Il portiere diede una rapida occhiata alla tessera, poi guardò perplesso la folla dietro di sé. «Guardi, credo che le convenga entrare,» disse dopo un attimo. «Io non posso lasciare il mio posto.» Fece un passo indietro e aprì la porta. La grande rotonda all'interno dell'edificio era affollata di gente elegante e Frank, facendosi largo, si chiese quante volte Hannah avesse partecipato a tali feste mischiandosi a questa gente, e se, osservando la luminosità di un abito, avesse mai ripensato a San Jorge, a Gilda, e alla lunga catena di persone che erano già inconsapevolmente sparite nel triangolo letale che Riviera aveva creato per Imalia Covallo. Ancora una volta, ripensò a Hannah da giovane, china sulla macchina per cucire, con le dita che danzavano veloci intorno all'ago e i piedi che schiacciavano incessantemente il pedale, e a lui parve che tutta la speranza di ottenere pietà la potesse trarre solo da quei lontani giorni, chiusi nella presa della sua mano recisa. «Frank?» Si voltò e vide Imalia venirgli incontro guardandolo con sorpresa. Indossava un lungo abito da sera nero e il suo corpo, avvolto da quei drappeggi, sembrava stranamente pallido e scarno, quasi impalpabile. «Che cosa fa qui?» gli domandò. «Sono venuto a farle l'ultimo rapporto,» le disse Frank con un tono di voce appena più alto del brusio della folla. Lei sgranò gli occhi. «Un ultimo rapporto? Credevo che fosse tutto risolto.» «Non proprio tutto,» insisté Frank. Lei gli sorrise dolcemente. «Mi dispiace di non avervi invitati entrambi, lei e Karen. Sono davvero mortificata, ma avevo sentito dire che...» Si guardò intorno passando in rassegna con lo sguardo il salone, dal bar alla sua sinistra al tavolo degli antipasti in fondo alla sala. «Karen è laggiù.» Indossava l'abito da sera sfavillante che Imalia le aveva regalato, e mentre la guardava, Frank ricordò le parole di Etta Polansky: Se la gente sapesse come fa un cappotto ad arrivare ai magazzini Bloomingdale le si spezzerebbe il cuore.
«Mi hanno detto che lei e Karen... insomma che...» balbettò. Frank la fissava senza dire nulla. «Ovviamente,» aggiunse Imalia nervosa, «sono felice che lei sia venuto.» Frank guardò attentamente da vicino il suo abito e colse la brillantezza del tessuto. «Indossa un abito molto bello.» «Grazie, non mi aspettavo che lo notasse.» «Un bel colore,» aggiunse Frank. «Sembra brillare.» Imalia lo guardò in modo penetrante, socchiudendo appena appena gli occhi. «Sono lieta che le piaccia,» disse ancora con voce stranamente spenta. «Un colore come questo...» cominciò Frank. Lei gli afferrò il braccio. «Frank,» gli disse, «dovremmo parlarne, non crede?» Gli fece cenno di spostarsi verso sinistra. «Parliamone, Frank, davvero.» Gli andò vicino e lo tirò a sé. «Per favore, Frank,» lo supplicò spaventata. «No.» Lei fece un passo indietro per poterlo guardare in faccia. «Non è questo il luogo dove continuare la discussione.» Frank alzò le spalle. «Un posto vale l'altro.» Si guardò intorno indicando le altre persone, poi guardò lei. «Loro lo sanno?» Imalia impallidì. «Per favore, Frank. Troveremo un accordo.» «Sanno che cosa indossano?» ripeté Frank con voce dura e insistente. Imalia non disse nulla, ma il labbro inferiore cominciò a tremarle. «Lo sanno?» domandò ancora Frank, a voce abbastanza alta da attirare su di sé gli sguardi furtivi delle persone più vicine. Il corpo di Imalia fu percorso da un brivido. «Frank, per l'amor di Dio!» Gli afferrò il braccio. «La prego.» Lui la scostò di nuovo. La gente intorno a loro si fece da parte e li fissò senza ritegno quando Frank la spinse fuori della porta a vetri nell'aria gravida di neve. «No, Frank,» gridò Imalia. Se ne stava nella neve, con il vestito mosso dal vento e le braccia magre incrociate intorno ai fianchi per proteggersi dal freddo. «Per favore, Frank,» lo supplicò affondando nella fanghiglia grigia del marciapiede. «Per favore.» Si chinò in avanti, e i capelli sciolti le ricaddero sulle spalle. Frank la guardava dall'alto senza pietà. Vedeva la gente accalcarsi intorno, sentiva le loro voci chiamare la polizia ma non si mosse. Poco dopo
udì il primo urlo di sirena avvicinarsi, sentì il braccio di un agente trascinarlo via, e intravide di sfuggita la luce argentea di un distintivo. Era quasi l'alba. Udì dei passi lungo il corridoio, alzò lo sguardo e vide Farouk che lo fissava dall'altra parte delle sbarre della cella. «I nostri nomi sono legati,» disse in tono sommesso. «Qualcuno ti ha chiamato?» gli domandò Frank. «Tannenbaum. Mi ha detto che sei stato arrestato per disturbo alla quiete pubblica e che io potevo esserti utile.» Gli sorrise. «Vieni. Ci sono alcune carte da firmare, ma ho già pagato la tua cauzione.» Dopo pochi minuti erano fuori insieme e passeggiavano lentamente lungo la Nona Avenue. La neve era caduta spessa e morbida lungo il viale deserto, silenziosa nella sua impassibile innocenza. «Non ha negato,» disse Farouk dopo un attimo. «Chi? Imalia?» Farouk annuì. «Non pensavo che lo avrebbe fatto,» disse Frank. «È stato scoperto tutto,» aggiunse Farouk. Frank a un tratto si fermò e tirò un lungo e lento sospiro. «Un solo errore,» disse tranquillamente. «Ha commesso un solo errore.» «Imalia?» «No, Hannah,» disse Frank. Per un istante rimase immobile, mentre la sua lunga ombra scura si stagliava sul manto bianco di neve. Poi, senza una parola, un gesto o una ragione apparente, si incamminò di nuovo. FINE