KEN FOLLETT NOTTE SULL'ACQUA (Night Over Water, 1991) A mia sorella Hannah con amore
Il primo servizio aereo per il tr...
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KEN FOLLETT NOTTE SULL'ACQUA (Night Over Water, 1991) A mia sorella Hannah con amore
Il primo servizio aereo per il trasporto passeggeri fra gli Stati Uniti e l'Europa fu inaugurato dalla Pan American nell'estate del 1939. Restò in funzione poche settimane e fu sospeso quando Hitler invase la Polonia. Questo romanzo è la storia di un immaginario ultimo volo, avvenuto pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra. Il volo, i passeggeri e i membri dell'equipaggio sono tutti inventati. L'aereo, invece, è vero. Nel settembre 1939 la sterlina britannica valeva 4,20 dollari. Uno scellino era un ventesimo di sterlina, cioè 21 cent. Un penny era un dodicesimo di scellino, all'incirca 2 cent. Una ghinea valeva una sterlina più uno scellino, cioè 4,41 dollari.
PARTE PRIMA Inghilterra 1 Era l'aereo più romantico che fosse mai stato costruito.
Sul molo di Southampton, alle dodici e mezzo del giorno della dichiarazione di guerra, Tom Luther scrutava il cielo e attendeva l'aereo con il cuore colmo di ansia e di paura. Continuava a canticchiare sottovoce qualche nota di Beethoven: il primo movimento del concerto Imperatore, un motivo esaltante e battagliero, adatto al momento. Intorno a lui c'era una folla di visitatori: appassionati di aviazione armati di binocolo, ragazzini e curiosi. Luther calcolò che doveva essere la nona volta che il Clipper della Pan American ammarava sul Southampton Water, ma la novità non aveva ancora perso interesse. L'aereo era così affascinante che la gente accorreva per ammirarlo persino il giorno in cui il Paese era entrato in guerra. Attraccati allo stesso molo c'erano due magnifici transatlantici che sovrastavano le teste dei presenti, ma gli alberghi galleggianti avevano perduto la loro magia. Tutti guardavano il cielo. Nell'attesa parlavano della guerra, con quei loro accenti inglesi. I bambini erano emozionati dalla prospettiva, gli uomini discutevano a voce bassa e con aria esperta di carri armati e artiglieria; le donne erano tristi. Luther era americano e si augurava che il suo Paese restasse fuori dalla guerra: non lo riguardava. E poi i nazisti avevano almeno un merito. Erano intransigenti nei confronti del comunismo. Luther era un industriale che fabbricava tessuti di lana e a un certo momento aveva avuto parecchi guai con i rossi nei suoi stabilimenti. Era rimasto in loro balia e per poco non l'avevano rovinato. Il ricordo lo amareggiava ancora. Il negozio di abbigliamento maschile di suo padre era stato messo in difficoltà dalla concorrenza degli ebrei; quindi la Luther Woolens era stata minacciata dai comunisti... quasi tutti ebrei anche loro. Poi Luther aveva conosciuto Ray Patriarca, e la sua vita era cambiata. Gli uomini di Patriarca sapevano come comportarsi con i comunisti. C'erano stati diversi incidenti. Uno scalmanato era finito con una mano negli ingranaggi di un telaio. Un attivista sindacale era stato travolto e ucciso da un pirata della strada. Due operai che si lamentavano per le violazioni delle norme di sicurezza erano stati coinvolti in una rissa in un bar ed erano finiti all'ospedale. Una donna che aveva intentato causa all'azienda aveva dovuto desistere dopo che la sua casa era bruciata. Erano bastate poche settimane: e non c'erano più stati guai. Patriarca sapeva ciò che sapeva anche Hitler: l'unico modo di trattare i comunisti era schiacciarli come scarafaggi. Luther batté il piede a terra e continuò a canticchiare le note di Beethoven. Una lancia si staccò dal molo degli idrovolanti delle Imperial Airways a Hythe, dall'altra parte dell'estuario, e passò più volte lungo l'area dell'am-
maraggio per controllare che non ci fossero detriti galleggianti. Un mormorio ansioso si levò dalla folla: senza dubbio l'aereo si stava avvicinando. Il primo a vederlo fu un bambino con un paio di vistosi stivali nuovi. Non aveva il binocolo, ma la sua vista di undicenne era più acuta delle lenti. «Eccolo!» gridò. «Ecco il Clipper!» E tese il braccio verso sud-ovest. Tutti si voltarono a guardare in quella direzione. In un primo momento Luther riuscì a scorgere solo una sagoma indistinta che avrebbe potuto essere un uccello; poi l'immagine divenne più nitida e un brusio eccitato si propagò fra i presenti. Tutti si dicevano l'un l'altro che il ragazzino aveva ragione. Lo chiamavano Clipper, ma la denominazione tecnica era Boeing 314. La Pan American aveva commissionato alla Boeing un aereo capace di trasportare i passeggeri attraverso l'Atlantico nel lusso più totale, e il risultato era quello: enorme, maestoso, incredibilmente potente, un palazzo alato. La linea aerea ne aveva ricevuti sei e ne aveva ordinati altrettanti. In fatto di comfort e di eleganza erano paragonabili ai favolosi transatlantici attraccati a Southampton; ma le navi impiegavano quattro o cinque giorni per attraversare l'oceano mentre il Clipper era in grado di farlo in sole venticinque o trenta ore. Sembrava una balena con le ali, pensò Luther quando l'aereo fu più vicino. Aveva un tozzo muso da balena e corpo massiccio, mentre la parte posteriore affusolata culminava in due alte derive di coda gemelle. I motori colossali erano fissati alle ali; e sotto le ali c'era una coppia di galleggianti mozzi che servivano a stabilizzare l'apparecchio quando si trovava sull'acqua. Il ventre era affilato come lo scafo di una nave molto veloce. Luther riuscì ben presto a distinguere i grandi finestrini rettangolari disposti in due file irregolari che corrispondevano al ponte superiore e a quello inferiore. Era arrivato in Inghilterra a bordo del Clipper una settimana prima, e lo conosceva bene. Il ponte superiore includeva la cabina di pilotaggio e le stive per i bagagli, quello inferiore era riservato ai passeggeri. Non c'erano file di sedili, ma una serie di salottini con divani. All'ora dei pasti il salone principale si trasformava in sala da pranzo, e di notte i divani diventavano letti. Era stato fatto tutto il possibile per isolare i passeggeri dal mondo e dalle condizioni meteorologiche esterne. C'erano soffici moquette, luci soffuse, velluti, colori tenui, morbide imbottiture. L'insonorizzazione riduceva il rombo dei potenti motori a un ronzio lontano e rassicurante. Il comandante era pacato e autorevole, i membri dell'equipaggio inappuntabili ed eleganti
nelle uniformi della Pan American, gli steward attenti e premurosi. Si provvedeva a tutto; c'erano continuamente cibi e bevande a disposizione; ciò che si chiedeva appariva come per magia quando lo si voleva: le cuccette chiuse da tende all'ora di andare a letto, le fragole fresche a colazione. Il mondo esterno cominciava ad apparire irreale come un film proiettato sui finestrini; e l'interno dell'aereo sembrava costituire l'intero universo. Tutte queste comodità non erano a buon mercato. Il biglietto di andata e ritorno costava 675 dollari, la metà del prezzo di una casetta. I passeggeri erano membri di case regnanti, divi del cinema, massimi dirigenti di grandi aziende e presidenti di piccoli stati. Tom Luther non era nulla di tutto questo. Era ricco, ma aveva sgobbato per guadagnare ciò che aveva, e in condizioni normali non avrebbe sperperato il suo denaro per il lusso. Ma aveva dovuto familiarizzarsi con l'aereo. Gli era stato chiesto di compiere un lavoro pericoloso per un uomo potente... molto potente, anzi. Il lavoro non sarebbe stato pagato: ma essere in credito di un favore con un uomo simile valeva molto di più di una ricompensa in denaro. Poteva darsi che venisse tutto annullato. Luther era in attesa di un messaggio che doveva dargli il "via" definitivo. Per la metà del tempo non vedeva l'ora di concludere; per l'altra sperava di non doverlo fare. L'aereo stava scendendo in diagonale, con la coda più bassa del muso. Ormai era molto vicino, e ancora una volta Luther fu colpito dalle dimensioni enormi. Sapeva che era lungo trentadue metri e largo quarantasei da un'estremità all'altra delle ali: le misure, comunque, erano soltanto numeri fino a che non lo si vedeva volare. Per un momento sembrò che stesse per precipitare in mare come un macigno e scendere sul fondo. Poi parve restare sospeso, appena al di sopra della superficie, come se fosse sostenuto da un filo, per un lungo istante di tensione. E finalmente sfiorò l'acqua, ne toccò la superficie, sollevò spruzzi sulle creste delle onde come un sasso lanciato nel rimbalzello, tra piccole esplosioni di spuma. Ma nell'estuario riparato le onde non erano alte e dopo un momento, con un turbine di spruzzi che sembrava il fumo di una bomba, lo scafo piombò nell'acqua. Fendette la superficie e scavò un solco candido nel verde, lanciando ai lati due alte curve di spruzzi; a Luther ricordò un germano che scendeva su un lago con le ali distese e le zampe ripiegate. Lo scafo affondò un po' di più e le cortine di spruzzi simili a vele si allargarono; poi cominciò a inclinarsi in avanti. Gli spruzzi ingigantirono mentre l'aereo si portava in asset-
to orizzontale e il suo ventre di balena affondava sempre più. Finalmente abbassò il muso. La velocità si ridusse all'improvviso, gli spruzzi diminuirono fino a diventare uno sciabordio e l'aereo veleggiò sul mare da quella nave che era, con grande calma, come se non avesse mai avuto l'audacia di sfidare il cielo. Luther si accorse di aver trattenuto il fiato e lo lasciò andare in un sospiro di sollievo. Ricominciò a canticchiare. Il Clipper avanzò verso l'attracco. Luther era sbarcato proprio lì una settimana prima. Il molo era uno zatterone costruito apposta, con due pontili gemelli. In pochi minuti le gomene sarebbero state agganciate al muso e alla coda dell'aereo e gli argani lo avrebbero trainato a ritroso nello spazio fra i pontili. Allora quei passeggeri privilegiati sarebbero usciti: sarebbero passati dal portello all'ampia superficie del galleggiante, e quindi sul pontone, per poi salire una scaletta che li avrebbe portati sulla terraferma. Luther si voltò, e si fermò all'improvviso. Alle sue spalle c'era qualcuno che prima non aveva notato: un uomo alto all'incirca come lui, vestito di grigio scuro e con la bombetta, come un impiegato diretto all'ufficio. Luther stava per passare oltre, poi lo guardò meglio. La faccia sotto la bombetta non era quella di un impiegato. L'uomo aveva la fronte alta, occhi azzurri, il mento a punta, la bocca sottile e crudele. Era più vecchio di lui; doveva avere una quarantina d'anni. Ma aveva le spalle larghe e sembrava in gran forma. Era di bell'aspetto e pericoloso. Guardò Luther negli occhi. Luther smise di canticchiare. L'uomo disse: «Sono Henry Faber» «Tom Luther.» «Ho un messaggio per lei.» Il cuore di Luther si arrestò un attimo. Cercò di nascondere l'agitazione e parlò nello stesso tono secco dell'altro. «Bene. Sentiamo.» «L'uomo che le interessa tanto sarà su questo aereo mercoledì, quando partirà per New York.» «È sicuro?» Faber lo fissò e non rispose. Luther annuì. Dunque il lavoro andava fatto. Se non altro, l'incertezza era finita. «Grazie» disse «C'è dell'altro.» «Dica.» «La seconda parte del messaggio è: Non ci deluda.» Luther trasse un respiro profondo. «Riferisca che non si preoccupino»
ribatté, ostentando una falsa sicurezza. «Quell'uomo lascerà Southampton, ma non arriverà a New York.» Le Imperial Airways avevano un servizio per idrovolanti dall'altra parte dell'estuario, di fronte ai moli di Southampton. I meccanici provvedevano alla manutenzione del Clipper sotto la supervisione del motorista di volo della Pan American. Per quel viaggio, il motorista di volo era Eddie Deakin. Era un lavoro notevole, ma avevano a disposizione tre giorni. Dopo aver scaricato i passeggeri all'Attracco 108, il Clipper attraversò l'estuario e raggiunse Hythe. Lì, sempre in acqua, venne agganciato e issato su un carrello; quindi, come una balena in equilibrio su una carrozzina per bambini, fu rimorchiato in un enorme hangar verde. Il volo transatlantico metteva a dura prova i motori. Nella tappa più lunga, da Terranova all'Irlanda, l'aereo restava in aria per nove ore; e durante il viaggio di ritorno, con i venti contrari, lo stesso tratto richiedeva sedici ore e mezzo. Per tutto quel tempo, il carburante continuava a fluire, le candele sprizzavano scintille, i quattordici cilindri di ciascun enorme motore andavano instancabilmente su e giù, le eliche lunghe cinque metri fendevano le nubi, la pioggia e le bufere. Per Eddie, quello era l'aspetto romanzesco della tecnica. Era meraviglioso, era sorprendente che gli uomini sapessero fabbricare motori in grado di funzionare con perfetta precisione, un'ora dopo l'altra. C'erano tante cose che avrebbero potuto andar male, tante parti mobili che dovevano essere costruite con estrema cura e assemblate meticolosamente perché non si spezzassero, non sbiellassero, non si bloccassero o non si usurassero mentre portavano in volo un aereo da quarantun tonnellate per migliaia di chilometri. Il mercoledì mattina il Clipper sarebbe stato pronto per ricominciare. 2 Il giorno in cui scoppiò la guerra era una splendida domenica di fine estate, mite e soleggiata. Pochi minuti prima che la radio desse l'annuncio, Margaret Oxenford stava davanti alla grande casa della sua famiglia. Il cappello e la giacca la facevano un po' sudare, e soprattutto era irritata perché doveva andare in chiesa. In fondo al villaggio, l'unica campana della chiesa scandiva un rin-
tocco monotono. Margaret detestava la chiesa ma suo padre non le permetteva di mancare ai servizi religiosi, anche se aveva diciannove anni ed era abbastanza adulta per pensare con la sua testa. Un anno prima aveva chiamato a raccolta tutto il suo coraggio e gli aveva detto che non voleva più andarci, ma lui si era rifiutato di darle ascolto. Margaret aveva detto: «Non ti sembra un'ipocrisia che io vada in chiesa se non credo in Dio?». Suo padre aveva ribattuto: «Non dire sciocchezze». Sconfitta e irritata, Margaret aveva confidato alla madre che appena fosse diventata maggiorenne non sarebbe andata in chiesa, mai più. Sua madre aveva risposto: «Toccherà a tuo marito decidere, cara». Per quanto riguardava i suoi genitori, la discussione era chiusa: ma da allora, ogni domenica Margaret fremeva di risentimento. La sorella e il fratello uscirono dalla casa. Elizabeth aveva ventun anni. Era alta, goffa, non proprio carina. Un tempo le due sorelle avevano avuto la massima confidenza reciproca. Erano rimaste sempre assieme per anni, da ragazzine, perché non erano mai andate a scuola e avevano ricevuto un'istruzione alla meglio, in casa, da governanti e istitutori. Allora non avevano segreti l'una per l'altra. Ma in seguito si erano allontanate. Nell'adolescenza Elizabeth aveva abbracciato i rigidi valori tradizionali dei genitori, ed era ultraconservatrice, fervidamente monarchica, cieca di fronte alle idee nuove e ostile ai cambiamenti. Margaret aveva scelto la strada opposta. Era femminista e socialista, s'interessava di musica jazz, pittura cubista e versi sciolti. Elizabeth pensava che Margaret tradisse la famiglia abbracciando le idee radicali. Margaret era irritata dalla stupidità della sorella, ma anche molto rattristata perché non erano più amiche intime. Aveva pochissime amiche intime, per la verità. Percy aveva quattordici anni. Non era né favorevole né contrario alle idee radicali, ma era insofferente per natura e simpatizzava per lo spirito ribelle di Margaret. Vittime entrambi della tirannia paterna, si sostenevano a vicenda; e Margaret gli voleva molto bene. I genitori uscirono dopo un momento. Il papà portava un'orrenda cravatta arancio e verde. Era praticamente daltonico, ma con ogni probabilità era stata la mamma a comprargliela. Lei aveva i capelli rossi, gli occhi verde mare e la carnagione lattea, e colori come l'arancio e il verde la facevano apparire radiosa. Ma il papà aveva i capelli neri brizzolati e un colorito molto acceso, e addosso a lui la cravatta sembrava un segnale di pericolo. Elizabeth somigliava a suo padre, con i capelli scuri e i lineamenti irregolari. Margaret aveva occhi, capelli e carnagione uguali a quelli della ma-
dre, e le sarebbe piaciuto avere una sciarpa di seta come la cravatta del papà. Percy cambiava così in fretta che era impossibile prevedere a chi avrebbe finito per somigliare. S'incamminarono sul lungo viale che conduceva al piccolo villaggio. Il padre di Margaret era il proprietario di quasi tutte le case e di tutte le terre coltivate per un raggio di diversi chilometri. Non aveva fatto nulla per guadagnare tanta ricchezza: una serie di matrimoni, all'inizio dell'Ottocento, aveva unito le tre più importanti famiglie di proprietari terrieri della contea, e l'enorme patrimonio risultante era stato tramandato intatto di generazione in generazione. Percorsero la strada del villaggio, attraversarono il prato e raggiunsero la chiesa di pietra grigia. Entrarono in processione: prima i genitori, poi Margaret con Elizabeth, e Percy alla retroguardia. I fedeli accennarono un saluto quando gli Oxenford percorsero la navata laterale per prendere posto nel banco di famiglia. Gli agricoltori più ricchi, tutti fittavoli del padre, accennarono inchini di cortesia; gli esponenti del ceto medio, il dottor Rowan, il colonnello Smythe e sir Alfred, piegarono rispettosamente la testa. Era un ridicolo rito feudale che ogni volta imbarazzava profondamente Margaret. Tutti gli uomini erano eguali di fronte a Dio, no? Avrebbe voluto gridare: «Mio padre non è migliore di voi, anzi è peggio di tanti altri!». Forse un giorno avrebbe trovato il coraggio di farlo. Se avesse fatto una scena in chiesa non sarebbe più stata costretta a tornarci. Ma aveva troppa paura delle reazioni di suo padre. Mentre prendevano posto nel banco e tutti gli sguardi erano puntati su di loro, Percy disse in un bisbiglio teatrale: «Bella cravatta, papà». Margaret represse l'ilarità ma non seppe trattenere un risolino. Lei e Percy si sedettero in fretta e nascosero il viso fingendo di pregare fino a che ridiventarono seri. Margaret, adesso, si sentiva un po' meglio. Il vicario tenne un sermone sul figliol prodigo. Margaret pensava che quel vecchio sciocco avrebbe potuto scegliere un argomento più consono a ciò che stava a cuore a tutti: la probabilità che scoppiasse la guerra. Il primo ministro aveva inviato un ultimatum a Hitler il quale l'aveva ignorato, e da un momento all'altro ci si attendeva la dichiarazione di guerra. Margaret temeva la guerra. Un ragazzo che aveva amato era morto nella guerra civile spagnola. Era passato più di un anno, ma a volte, la notte, lo piangeva ancora. Per lei la guerra voleva dire che migliaia di ragazze avrebbero conosciuto la stessa sofferenza. Era un pensiero quasi insopportabile.
Eppure un'altra parte del suo essere voleva la guerra. Era risentita per la vigliaccheria dimostrata dalla Gran Bretagna durante la guerra di Spagna. Il suo Paese era rimasto a guardare mentre il governo socialista eletto era stato rovesciato da una banda di teppisti armati da Hitler e Mussolini. Centinaia di giovani idealisti di tutta Europa erano accorsi in Spagna a combattere per la democrazia. Ma non avevano armi e i governi democratici di tutto il mondo si erano rifiutati di fornirle; perciò i giovani avevano perso la vita e quelli come Margaret erano sdegnati, impotenti, pieni di vergogna. Se adesso la Gran Bretagna avesse preso posizione contro i fascisti, lei avrebbe potuto ricominciare a essere orgogliosa del suo Paese. C'era un'altra ragione per cui il suo cuore palpitava alla prospettiva di una guerra. Avrebbe segnato sicuramente la fine della vita gretta e soffocante che trascorreva con i genitori. Era annoiata, oppressa e frustrata dai loro rituali invariabili e dalla loro inutile vita di società. Aspirava a evadere e ad avere un'esistenza tutta sua, ma sembrava impossibile. Era minorenne, non aveva denaro e non c'erano lavori che lei fosse in grado di svolgere. Però, pensava, senza dubbio tutto sarebbe cambiato con la guerra. Aveva letto con estremo interesse che durante l'ultimo conflitto le donne avevano messo i pantaloni ed erano andate a lavorare nelle fabbriche. Adesso c'erano servizi femminili nell'esercito, nella marina e nell'aeronautica. Margaret sognava di arruolarsi volontaria nell'Auxiliary Territorial Service, l'esercito femminile. Una delle poche cose pratiche che sapeva fare era guidare. Digby, l'autista di papà, le aveva insegnato sulla Rolls Royce; e Ian, il ragazzo che era morto, le aveva fatto guidare la sua motocicletta. Sapeva persino pilotare un'imbarcazione a motore, perché suo padre aveva un piccolo yacht ormeggiato a Nizza. L'ATS aveva bisogno di guidatrici di ambulanze e di portaordini. Margaret si vedeva in uniforme, con l'elmetto in testa, in sella a una moto mentre correva a consegnare messaggi urgenti da un campo di battaglia all'altro, con una foto di Ian nel taschino della camicia cachi. Era sicura che avrebbe saputo dimostrarsi coraggiosa, se ne avesse avuto l'occasione. Più tardi scoprirono che la guerra era stata dichiarata proprio durante il servizio religioso. Alle undici e ventotto minuti ci fu addirittura un allarme aereo nel bel mezzo del sermone: ma non arrivò al villaggio, e comunque fu un falso allarme. Perciò gli Oxenford tornarono dalla chiesa, senza sapere di essere in guerra con la Germania. Percy avrebbe voluto prendere un fucile e andare a caccia di conigli. Sapevano sparare tutti quanti: era un passatempo di famiglia, quasi un'osses-
sione. Ma naturalmente suo padre respinse la richiesta perché non stava bene sparare di domenica. Percy rimase deluso: comunque non avrebbe disobbedito. Per quanto fosse vivace e ribelle, non era ancora abbastanza uomo da sfidare l'autorità paterna. Margaret apprezzava la vivacità del fratello, che era l'unico raggio di sole nella tetraggine della sua vita. Spesso avrebbe desiderato burlarsi del padre come faceva Percy, e ridere alle sue spalle, ma era troppo esasperata per scherzare. A casa rimasero sorpresi nel vedere una cameriera scalza che innaffiava i fiori nell'atrio. Lord Oxenford non la riconobbe. «E tu chi sei?» chiese brusco. La mamma, con quella sua dolce voce americana, disse: «Si chiama Jenkins, ha cominciato a lavorare questa settimana». La ragazza fece una riverenza. Il papà chiese: «E dove diavolo ha messo le scarpe?». Un'espressione di sospetto passò sul viso della ragazza, che lanciò un'occhiata accusatrice a Percy. «Ecco, signore, è stato il giovane lord Isley.» Percy aveva il titolo di conte di Isley. «Mi ha detto che la domenica le cameriere devono girare scalze in segno di rispetto.» La mamma sospirò, il papà borbottò esasperato. Margaret non riuscì a trattenere una risatina. Era uno degli scherzi preferiti di Percy: imponeva alla servitù norme di comportamento inventate e stravaganti. Era capace di dire le cose più assurde restando impassibile; e la famiglia aveva una tale reputazione di eccentricità che la gente era disposta a credere qualunque cosa. Spesso le trovate di Percy facevano ridere Margaret; ma adesso lei provava un po' di compassione per la povera cameriera che stava davanti a loro scalza e confusa. «Vatti a mettere le scarpe» ordinò la mamma. E Margaret soggiunse: «E non credere mai a lord Isley». Si tolsero i cappelli ed entrarono nel soggiorno. Margaret tirò i capelli a Percy e gli sibilò: «È stata una cattiveria». Percy si limitò a sogghignare: era incorreggibile. Una volta aveva raccontato al vicario che suo padre era morto durante la notte per un attacco cardiaco, e tutto il villaggio aveva preso il lutto prima che si scoprisse che non era vero. Il papà accese la radio, e fu allora che udirono la notizia: la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Margaret sentì un moto di gioia selvaggia gonfiarle il petto, simile al-
l'eccitazione che le dava guidare troppo forte una macchina o arrampicarsi su un albero altissimo. Non aveva più senso tormentarsi: sarebbe stata una tragedia, con lutti e angosce e sofferenze, ma queste ormai erano tutte cose inevitabili, il dado era tratto e non si poteva fare altro che combattere. A quel pensiero il battito del suo cuore accelerò. Tutto sarebbe stato diverso. Le convenzioni sociali sarebbero state abbandonate, le donne avrebbero preso parte alla lotta, le barriere di classe sarebbero crollate, e tutti avrebbero lavorato insieme. Respirava già l'aria della libertà. E avrebbero lottato contro i fascisti, coloro che avevano ucciso il povero Ian e migliaia di giovani splendidi come lui. Margaret non si considerava vendicativa; ma sentiva di esserlo quando pensava a combattere i nazisti. Era un sentimento sconosciuto, che la spaventava e la esaltava al tempo stesso. Il papà era furioso. Era già corpulento e rosso in viso, e quando si arrabbiava sembrava sul punto di esplodere. «Maledetto Chamberlain!» esclamò. «Accidenti a quell'individuo spregevole!» «Algernon, ti prego» replicò la mamma, scandalizzata da quel linguaggio violento. Oxenford era stato uno dei fondatori dell'Unione dei Fascisti Britannici. A quel tempo era molto diverso: non solo più giovane ma anche più snello, più bello e meno irritabile. Sapeva affascinare la gente e assicurarsene la lealtà. Aveva scritto un libro molto discusso, Bastardi: il pericolo della contaminazione razziale, in cui affermava che la civiltà era declinata da quando i bianchi avevano cominciato ad accoppiarsi con ebrei, asiatici, orientali e perfino negri. Aveva iniziato una corrispondenza con Adolf Hitler, che giudicava il miglior statista dopo Napoleone. C'erano stati grandi ricevimenti in casa, ogni fine settimana: e vi avevano partecipato politici, a volte statisti stranieri e, in un'occasione indimenticabile, perfino il re. Le discussioni si protraevano fino a notte alta, e il maggiordomo portava dalla cantina altre bottiglie di cognac mentre i valletti sbadigliavano nell'atrio. Durante il periodo della Depressione, Oxenford aveva atteso che la patria lo chiamasse per salvarla nell'ora del bisogno e gli chiedesse di diventare Primo ministro di un governo di ricostruzione nazionale. Ma quella chiamata non era mai venuta. I ricevimenti del fine settimana si erano fatti meno frequenti e più ristretti: gli invitati più illustri avevano trovato il modo di dissociarsi pubblicamente dall'Unione dei Fascisti Britannici; e lui era diventato sempre più amareggiato e deluso. Con la sicurezza era svanito anche il suo fascino. Il bell'aspetto era stato rovinato dal risentimento, dalla noia e dall'alcol. Non era mai stato molto intelligente: Margaret aveva
letto il suo libro ed era rimasta scandalizzata nello scoprire che non era soltanto errato ma anche stupido. Negli anni più recenti la piattaforma programmatica di suo padre si era ristretta a un'unica idea ossessiva: Gran Bretagna e Germania dovevano allearsi contro l'Unione Sovietica. Lo aveva sostenuto in articoli di riviste e lettere ai giornali, e nelle occasioni sempre più rare in cui veniva invitato a parlare nei comizi e nei dibattiti dei circoli culturali universitari. Era rimasto aggrappato alla sua idea in modo quasi provocatorio mentre gli avvenimenti europei rendevano sempre meno realistica quella linea politica. La dichiarazione di guerra fra Gran Bretagna e Germania rappresentava il colpo definitivo delle sue speranze; e Margaret provò in fondo al cuore, fra tutti gli altri tumultuosi sentimenti, anche un po' di pietà per lui. «La Gran Bretagna e la Germania si annienteranno a vicenda e lasceranno che l'Europa venga dominata dal comunismo ateo!» esclamò suo padre. L'allusione all'ateismo ricordò a Margaret che era costretta ad andare in chiesa. «A me non dispiace» replicò. «Io sono atea.» La mamma dichiarò: «Non è possibile, cara, tu appartieni alla Chiesa anglicana». Margaret non seppe frenare una risata. Elizabeth, che stava per scoppiare in pianto, disse: «Come puoi ridere? È una tragedia!». Elizabeth era una grande ammiratrice dei nazisti. Parlava tedesco, anzi lo parlavano entrambe, grazie a una governante tedesca che era durata più a lungo delle altre; era stata diverse volte a Berlino e in due occasioni aveva cenato con il Führer. Margaret sospettava che i nazisti fossero degli snob e che amassero crogiolarsi nell'approvazione degli aristocratici inglesi. Margaret si rivolse a Elizabeth e disse: «È ora che ci decidiamo a tenere testa a quei prepotenti». «Non sono prepotenti!» ribatté indignata Elizabeth. «Sono ariani purosangue, forti e fieri, ed è una tragedia che il nostro Paese sia in guerra con loro. Papà ha ragione: i bianchi si annienteranno a vicenda e il mondo resterà nelle mani dei bastardi e degli ebrei.» Margaret aveva perso la pazienza con quel genere di discorsi. «Gli ebrei non hanno niente che non va!» esclamò con impeto. Lord Oxenford alzò l'indice. «Gli ebrei non hanno niente che non va... se stanno al loro posto.» «Cioè schiacciati, nel tuo... nel tuo ordine fascista!» Margaret era stata sul punto di dire "nel tuo lurido ordine", ma poi si era spaventata e non a-
veva osato. Quando suo padre si arrabbiava davvero era pericoloso. Elizabeth disse: «Nel tuo ordine bolscevico, invece, sono gli ebrei a comandare!». «Io non sono bolscevica. Sono socialista.» Percy imitò l'accento della madre e dichiarò: «Non è possibile, cara, tu appartieni alla Chiesa anglicana». Nonostante tutto, Margaret rise, e ancora una volta la sua ilarità fece infuriare la sorella. Elizabeth disse rabbiosamente: «Tu vuoi distruggere tutto ciò che c'è di bello e di puro per poi riderne». Una simile affermazione non meritava risposta: tuttavia Margaret voleva esprimere il suo parere. Si rivolse al padre e disse: «Bene, sono d'accordo con te almeno per quanto riguarda Neville Chamberlain. Ha notevolmente peggiorato la nostra posizione militare lasciando che i fascisti s'impadronissero della Spagna. Adesso abbiamo nemici sia a ovest sia a est». «Chamberlain non ha affatto lasciato che i fascisti s'impadronissero della Spagna» replicò suo padre. «La Gran Bretagna aveva firmato un patto di non intervento con la Germania, la Francia e l'Italia. Non abbiamo fatto altro che mantenere l'impegno preso.» Era un'ipocrisia, e lui lo sapeva. Margaret avvampò per l'indignazione. «Noi abbiamo mantenuto la parola mentre italiani e tedeschi non l'hanno rispettata!» protestò. «E così i fascisti hanno avuto i fucili e i democratici non hanno avuto niente... nient'altro che eroi!» Vi fu un attimo di silenzio imbarazzato. La mamma intervenne. «Mi dispiace sinceramente che Ian sia morto, cara, però aveva una pessima influenza su di te.» Margaret avrebbe voluto piangere. Ian Rochdale era stato la cosa più bella della sua vita e la sofferenza causata da quella morte prematura non si era per nulla attutita. Per anni aveva ballato alle feste organizzate in occasione delle cacce con i giovani, sciocchi esponenti dell'aristocrazia terriera, ragazzi che pensavano soltanto a bere e a cacciare, e aveva disperato di conoscere un giovane della sua età che fosse degno d'interesse. Ian era entrato nella sua vita come la luce della ragione, e da quando era morto le sembrava di vivere nelle tenebre. Ian frequentava l'ultimo anno a Oxford. A Margaret sarebbe piaciuto molto andare all'università, ma non aveva nessuna possibilità di essere ammessa: non era mai andata a scuola. Tuttavia aveva letto molto, dato che non aveva nient'altro da fare, e si era emozionata nell'incontrare qual-
cuno che, come lei, amava parlare e discutere. Era l'unico uomo che sapesse spiegarle le cose senza adottare un'aria condiscendente. Era la persona più dotata di lucidità che lei avesse mai conosciuto; aveva una pazienza infinita nelle discussioni ed era privo di vanità intellettuale: non fingeva mai di aver capito quando non era vero. Margaret l'aveva adorato fin dal primo momento. Per molto tempo non aveva pensato che fosse amore. Ma un giorno Ian aveva confessato, goffamente e con grande imbarazzo, faticando, per una volta, a trovare le parole giuste, e dichiarando alla fine: «Credo di essermi innamorato di te... pensi che questo rovinerà tutto?». E Margaret si era accorta, con immensa gioia, di essere innamorata anche lei. Ian aveva cambiato la sua vita. Le sembrava di essere giunta in un altro mondo, dove tutto era diverso: paesaggio, clima, gente, cibo. Era entusiasta di tutto. Le costrizioni e le irritazioni della vita con i genitori avevano finito per sembrare trascurabili. Anche quando Ian si era arruolato nella Brigata Internazionale ed era andato in Spagna a combattere per il governo socialista eletto contro i ribelli fascisti, aveva continuato a illuminarle la vita. Era fiera di lui perché aveva il coraggio delle sue convinzioni, ed era pronto a sfidare la morte per la causa in cui credeva. Ogni tanto riceveva una sua lettera. Una volta le aveva mandato una poesia. Poi, all'improvviso, era arrivata la notizia che era morto, dilaniato dall'esplosione di una bomba; e Margaret aveva avuto la sensazione che la sua vita fosse finita. «Una pessima influenza» ripeté con amarezza. «Sì. Mi ha insegnato a discutere i dogmi, a non credere alle menzogne, a odiare l'ignoranza e disprezzare l'ipocrisia. Il risultato è che non sono degna della società civile.» Il papà, la mamma ed Elizabeth cominciarono a parlare tutti insieme, poi si interruppero perché così nessuno riusciva a farsi sentire. Nel silenzio improvviso intervenne Percy. «A proposito di ebrei» disse, «in cantina ho trovato una strana fotografia, in una delle vecchie valigie arrivate da Stamford.» Stamford, nel Connecticut, era la città in cui viveva la famiglia della mamma. Percy prese dal taschino della camicia una fotografia color seppia, scolorita e sciupata. «Io ho avuto una bisnonna che si chiamava Ruth Glencarry, no?» La mamma disse: «Sì... era la madre di mia madre. Perché, caro, che cos'hai scoperto?». Percy consegnò la fotografia a suo padre, e gli altri si avvicinarono per guardarla. Ritraeva la strada di una città americana, probabilmente New
York, una settantina d'anni addietro. In primo piano c'era un ebreo sulla trentina, con la barba nera, un rozzo vestito da operaio e un berretto in testa. Era in piedi accanto a un carretto con una mola, e sul carretto era scritto a chiare lettere "Reuben Fishbein - Arrotino". A fianco dell'uomo c'era una ragazzina sui dieci anni con un logoro abito di cotone e stivaletti pesanti. Il papà chiese: «Che cosa significa, Percy? Chi sono questi straccioni?». «Gira la foto» disse Percy. Il papà girò la fotografia. Sul retro era scritto "Ruthie Glencarry, nata Fishbein, all'età di 10 anni". Margaret fissò suo padre: sembrava inorridito. Percy disse: «È interessante che il nonno della mamma abbia sposato la figlia di un arrotino ambulante ebreo. Ma dicono che in America succedono di queste cose». «È impossibile!» esclamò il papà. Ma gli tremava la voce, e Margaret ebbe l'impressione che lo ritenesse possibile, anche troppo. Percy continuò con disinvoltura: «Comunque, l'appartenenza alla razza ebraica si tramanda attraverso le femmine; quindi, dato che la madre di mia madre era ebrea, anch'io sono ebreo». Il papà era pallidissimo. La mamma sembrava frastornata e aggrottava la fronte. Percy disse: «Spero che i tedeschi non vincano la guerra. Altrimenti io non potrò più andare al cinema e la mamma dovrà cucirsi la stella gialla su tutti gli abiti da sera». Era troppo bello per essere vero. Margaret scrutò con attenzione le parole scritte sul retro della foto, e la verità le si affacciò alla mente. «Percy!» esclamò, felice. «L'hai scritto tu!» «Non è vero!» protestò Percy. Ma tutti potevano vedere che era davvero così. Margaret rise allegramente. Percy aveva trovato chissà dove la vecchia foto della ragazzina ebrea e aveva scritto l'annotazione falsa per prendere in giro suo padre. E lui c'era cascato. Non c'era da meravigliarsi: scoprire di essere un sanguemisto doveva essere l'incubo peggiore di ogni razzista. Se l'era meritato. Il papà disse: «Bah!» e buttò la foto sul tavolo. La mamma disse: «Percy, davvero» in tono addolorato. Forse avrebbero aggiunto qualcosa, ma in quel momento la porta si aprì e Bates, lo scorbutico maggiordomo, annunciò che il pranzo era servito. Lasciarono il soggiorno, attraversarono l'atrio ed entrarono nella sala da
pranzo piccola. Come tutte le domeniche, ci sarebbe stato il roast beef troppo cotto. La mamma avrebbe preso un'insalata: non mangiava mai cibi cotti, perché era convinta che la cottura distruggesse tutta la parte migliore Il papà recitò la preghiera di ringraziamento, poi sedettero. Bates servì alla mamma il salmone affumicato: secondo la sua teoria, i cibi affumicati, in salamoia o comunque conservati andavano bene. «Naturalmente c'è una sola cosa da fare» disse la mamma mentre si serviva. Aveva il tono disinvolto di chi si limita a richiamare l'attenzione su qualcosa di ovvio. «Dobbiamo andare a vivere tutti in America finché questa stupida guerra non è finita.» Ci fu un attimo di silenzio scandalizzato. Inorridita, Margaret esclamò: «No!». La mamma disse: «Credo che abbiamo discusso fin troppo, per oggi. Per favore, lasciaci pranzare in pace e armonia». «No!» ripeté Margaret, che era quasi ammutolita per l'indignazione. «Non... non potete farlo... è... è...» Avrebbe voluto inveire e urlare e accusarli di tradimento e di vigliaccheria, gridare il suo disprezzo e la sua sfida. Ma le parole non le venivano alla mente, e la sola cosa che seppe dire fu: «Non è giusto!». Perfino questo fu troppo. Suo padre intimò «Se non sei capace di tenere a freno la lingua, è meglio che tu te ne vada». Margaret si portò il tovagliolo alla bocca per soffocare un singhiozzo. Scostò la sedia e si alzò, poi corse via. Era un piano che avevano preparato da mesi, naturalmente. Percy andò nella camera di Margaret dopo il pranzo e le fornì i particolari. La casa sarebbe stata chiusa, i mobili coperti con teli antipolvere, la servitù licenziata. La proprietà sarebbe stata gestita dall'amministratore della famiglia, che avrebbe incassato i canoni d'affitto. Il denaro sarebbe stato versato in banca: non si poteva trasferirlo in America a causa delle norme valutarie in vigore durante la guerra. I cavalli sarebbero stati venduti, le coperte riposte in naftalina, l'argenteria messa al sicuro. Elizabeth, Margaret e Percy dovevano preparare una valigia a testa; il resto della loro roba sarebbe stato spedito con una ditta di traslochi. Il papà aveva prenotato i biglietti per tutti a bordo del Clipper della Pan Am: sarebbero partiti mercoledì. Percy era fuori di sé per l'eccitazione. Aveva già volato un paio di volte, ma il Clipper era diverso. Era enorme e lussuoso; i giornali ne avevano
parlato a lungo poche settimane prima, quando il servizio era stato inaugurato. Il viaggio fino a New York durava ventinove ore, e la notte si dormiva durante il volo sull'oceano Atlantico. Era disgustosamente appropriato, pensò Margaret, partire circondati dal massimo lusso abbandonando i compatrioti alle privazioni, alle sofferenze e alla guerra. Percy se ne andò a fare la valigia, e Margaret rimase sdraiata sul letto. Guardava il soffitto. Era amaramente delusa. Fremeva di rabbia, piangeva di frustrazione, ma non poteva far nulla per cambiare il suo destino. Rimase in camera fino al momento di andare a dormire. Il lunedì mattina, mentre era ancora a letto, la mamma entrò nella sua stanza. Margaret si levò a sedere e le lanciò un'occhiata ostile. La mamma si sedette al tavolo da toilette e la guardò nello specchio. «Ti prego di non creare difficoltà a tuo padre per questa faccenda» disse. Margaret si accorse che sua madre era nervosa. In altre circostanze questo l'avrebbe indotta ad addolcire il tono: ma era troppo sconvolta per commuoversi. «È un'azione da vigliacchi!» esclamò. La mamma impallidì. «Non siamo vigliacchi!» «Ma scappate dal vostro Paese quando inizia la guerra!» «Non abbiamo scelta. Dobbiamo partire.» Margaret la guardò, perplessa. «Perché?» La mamma voltò le spalle allo specchio e la fissò: «Altrimenti metteranno in prigione tuo padre». Margaret fu colta alla sprovvista. «Com'è possibile? Essere fascista non è reato.» «Adesso il governo ha i poteri d'emergenza. Ci ha avvertiti un simpatizzante, un funzionario del ministero degli Interni. Tuo padre verrà arrestato se si troverà ancora in Gran Bretagna alla fine della settimana.» Margaret non riusciva a credere che volessero incarcerare suo padre come un ladro. Sì sentiva molto sciocca: non aveva pensato che la guerra avrebbe causato tanti cambiamenti nella loro esistenza. «Ma non ci permetteranno di portare denaro all'estero» disse amaramente la mamma. «E questa sarebbe la correttezza britannica!» Il denaro era l'ultima cosa che stava a cuore a Margaret in quel momento. Era in gioco tutta la sua vita. Si sentì pervasa da uno slancio di audacia e decise di dire la verità alla madre. Senza dare al coraggio il tempo di andarsene, trasse un profondo respiro e dichiarò: «Io non voglio partire con voi».
La mamma non si mostrò sorpresa. Forse si aspettava un comportamento del genere. Con il tono vago e blando che adottava quando cercava di evitare una discussione, replicò: «Devi venire, cara». «Non metteranno in prigione anche me! Posso andare a vivere con la zia Martha, o magari con la cugina Catherine. Perché non ne parli al papà?» La mamma assunse improvvisamente un'aria battagliera che non le era per nulla abituale. «Io ti ho messa al mondo con dolori e sofferenze, e non ti permetterò di rischiare la vita, se posso impedirlo.» Per un momento Margaret rimase sconcertata di fronte a quella rivelazione dei sentimenti di sua madre. Poi protestò: «Dovrei avere il diritto di decidere: si tratta della mia vita!». La mamma sospirò e assunse di nuovo il suo atteggiamento indifferente. «Quello che pensiamo tu e io non ha molta importanza. Tuo padre non ti permetterà di restare, qualunque cosa diremo.» Tanta passività irritò Margaret, che decise di passare all'azione. «Lo chiederò a lui direttamente.» «Preferirei che non lo facessi» disse la mamma, e c'era una sfumatura implorante nella sua voce. «Già così, per lui è molto doloroso. Ama l'Inghilterra, lo sai. Se la situazione fosse diversa, a quest'ora starebbe telefonando al ministero della Guerra per ottenere un incarico. Tutto questo gli spezza il cuore.» «E il mio cuore non conta niente?» «Non è la stessa cosa. Sei giovane, hai tutta la vita davanti a te. Per lui è la fine di ogni speranza.» «Non è colpa mia se è fascista» ribatté aspra Margaret. La mamma si alzò. «Speravo che fossi più comprensiva» commentò a voce bassa, e uscì. Margaret si sentiva colpevole e al tempo stesso indignata. Era così ingiusto! Suo padre aveva disprezzato le sue opinioni fin da quando aveva incominciato ad averne, e adesso che gli avvenimenti dimostravano che lui aveva torto, le veniva chiesto di essere comprensiva. Margaret sospirò. Sua madre era bella, eccentrica e un po' superficiale. Era nata ricca e testarda. Le sue eccentricità erano il risultato di una volontà forte ma non guidata dall'istruzione: si aggrappava alle idee più sciocche perché era incapace di distinguere tra ragione e irrazionalità. La superficialità era uno dei modi con cui una donna forte riusciva a tener testa al predominio maschile: non potendo affrontare apertamente il marito, aveva l'opportunità di sfuggire al suo controllo solo fingendo di non capirlo.
Margaret le voleva bene e accettava con affettuosa tolleranza le sue eccentricità, ma era decisa a non diventare come lei, nonostante la somiglianza fisica. Se gli altri rifiutavano di istruirla, avrebbe continuato a fare l'autodidatta; e avrebbe preferito diventare una vecchia zitella piuttosto che sposare un porco che si riteneva in diritto di darle ordini come se fosse una cameriera. A volte si rammaricava di non poter avere con la madre un rapporto diverso. Avrebbe voluto confidarsi con lei, conquistare la sua comprensione, chiederle consiglio. Avrebbero potuto allearsi e lottare insieme per la libertà contro un mondo che pretendeva di trattarle come gingilli. La mamma, però, aveva rinunciato a battersi molto tempo prima, e avrebbe voluto che anche lei facesse altrettanto. Ma non sarebbe accaduto. Margaret era decisa a essere se stessa: su questo era irremovibile. Ma... come? Per tutta la giornata di lunedì non riuscì a mangiare. Beveva una tazza di tè dopo l'altra mentre la servitù lavorava per chiudere la casa. Il martedì, quando la mamma si accorse che Margaret non faceva la valigia, ordinò alla Jenkins, la cameriera nuova, di farla per lei. Naturalmente la Jenkins non sapeva che cosa mettere nella valigia, e Margaret dovette aiutarla. E così la mamma finì per averla vinta, come succedeva molto spesso. Margaret disse alla cameriera: «È una vera sfortuna che abbiamo deciso di chiudere la casa proprio una settimana dopo che hai cominciato a lavorare qui». «Oh, il lavoro non mancherà certo, signorina» dichiarò Jenkins. «Suo padre dice che in tempo di guerra non c'è disoccupazione.» «E che cosa farai? Lavorerai in una fabbrica?» «Mi arruolerò. La radio ha detto che ieri diciassettemila donne si sono arruolate nell'ATS. Ci sono le file davanti a tutti i municipi del Paese... ho visto una foto sul giornale.» «Beata te» commentò Margaret in tono malinconico. «Io farò la fila per salire su un aereo diretto in America.» «Lei deve fare quello che vuole il marchese» disse la Jenkins. «Che cosa pensa tuo padre dell'intenzione di arruolarti?» «Non gli dirò niente. Mi arruolerò e basta.» «E se ti riporterà a casa?» «Non può. Ho diciotto anni. Dopo che uno si è arruolato, è fatta. Purché si abbia l'età giusta, i genitori non possono fare più niente.» Margaret era sorpresa. «Ne sei sicura?» «Sicurissima. Lo sanno tutti.»
«Io non lo sapevo» mormorò pensosa Margaret. La Jenkins portò la valigia nell'atrio. Sarebbero partiti molto presto il mercoledì mattina. Quando vide le valigie allineate, Margaret si rese conto che, se si limitava a fare il broncio, avrebbe passato la guerra nel Connecticut. Anche se la mamma l'aveva pregata di non creare difficoltà, doveva affrontare suo padre. Il solo pensiero la faceva tremare. Tornò in camera sua per farsi animo e riflettere su ciò che poteva dire. Doveva stare calma. Le lacrime non l'avrebbero commosso e la collera avrebbe solo provocato il suo disprezzo. Doveva mostrarsi ragionevole, responsabile, matura. Non doveva essere polemica, perché lo avrebbe esasperato e allora l'avrebbe spaventata al punto che non sarebbe più riuscita a proseguire. Come doveva cominciare? "Credo di avere il diritto di dire qualcosa a proposito del mio futuro." No, non andava bene. Papà avrebbe risposto: "Sono responsabile per te, quindi spetta a me decidere". Forse avrebbe dovuto dirgli: "Posso parlarti del trasferimento in America?". Con ogni probabilità lui avrebbe risposto: "Non c'è niente da discutere". L'approccio doveva essere talmente inoffensivo che neppure suo padre potesse respingerlo. Margaret decise di dire: "Posso chiederti una cosa?". Le avrebbe detto senz'altro "sì". E poi? Come poteva affrontare l'argomento senza scatenare una delle sue collere tremende? Avrebbe potuto iniziare così: "Tu eri nell'esercito durante l'ultima guerra, non è vero?". Sapeva che suo padre aveva combattuto in Francia. Poi avrebbe chiesto: "E la mamma?". Conosceva anche questa risposta: la mamma era stata infermiera volontaria a Londra e aveva assistito gli ufficiali americani feriti. Poi poteva continuare: "Tutti e due avete servito i vostri Paesi, quindi capirete perché desidero fare altrettanto". Ecco, sicuramente questa sarebbe stata un'argomentazione inconfutabile. Se suo padre avesse riconosciuto la validità del principio, Margaret era sicura di superare tutte le altre obiezioni. Avrebbe potuto vivere presso qualche parente fino a che non si fosse arruolata: sarebbe stata una questione di giorni. Aveva diciannove anni; molte ragazze della sua età lavoravano a tempo pieno da sei anni. Era abbastanza adulta per sposarsi, guidare un'automobile e finire in prigione. Non c'era motivo perché non le fosse permesso di restare in Inghilterra. Sì, era ragionevole. Adesso le occorreva solo il coraggio.
Suo padre doveva essere nello studio con l'amministratore. Margaret uscì dalla sua stanza. Quando fu sul pianerottolo si sentì improvvisamente mancare per la paura. Lui non sopportava di essere contrastato. Le sue collere erano terribili, le punizioni crudeli. Una volta, a undici anni, l'aveva costretta a stare in piedi in un angolo del suo studio, col viso verso il muro, per una giornata intera perché era stata scortese con un ospite; quando aveva sette anni le aveva portato via l'orsacchiotto come punizione perché aveva bagnato il letto; una volta, in un impeto di rabbia, aveva scaraventato un gatto dalla finestra del primo piano. Che cosa avrebbe fatto quando gli avesse annunciato che intendeva restare in Inghilterra e combattere contro i nazisti? Si costrinse a scendere la scala, ma via via che si avvicinava allo studio le sue paure ingigantivano. Immaginava il padre che si infuriava, la faccia che si arrossava e gli occhi che si congestionavano, e si sentiva atterrita. Cercò di placare i battiti del cuore chiedendosi se aveva davvero un motivo per spaventarsi. Lui non poteva più farla soffrire togliendole l'orsacchiotto. Ma in fondo sapeva che poteva ancora farle rimpiangere di non essere morta. Mentre indugiava tremando davanti dalla porta dello studio, la governante attraversò l'atrio accompagnata dal fruscio dell'abito di seta nera. La signora Allen regnava con rigore sulle cameriere della casa, ma era sempre stata indulgente con i ragazzi. Era affezionata agli Oxenford e vederli partire le dispiaceva profondamente. Per lei era la fine di un certo modo di vivere. Rivolse a Margaret un sorriso triste. Margaret la guardò, e fu colpita da un'idea che per un momento le bloccò i battiti del cuore. Un piano di fuga le affiorò nella mente. Si sarebbe fatta prestare una piccola somma dalla signora Allen, avrebbe abbandonato subito la casa, avrebbe preso il treno delle quattro e cinquantacinque per Londra, avrebbe passato la notte dalla cugina Catherine e l'indomani, per prima cosa, sarebbe andata ad arruolarsi. Quando suo padre fosse riuscito a rintracciarla, sarebbe stato troppo tardi. Era un piano così semplice e audace che stentava a crederlo possibile. Ma prima di ripensarci sentì la propria voce chiedere: «Oh, signora Allen, potrebbe prestarmi un po' di denaro? Devo andare a fare certe spese all'ultimo momento e non voglio disturbare mio padre, che è tanto occupato». La signora Allen non esitò. «Ma certo, signorina. Di quanto ha bisogno?»
Margaret non sapeva quanto costasse il biglietto per Londra: non ne aveva mai comperato uno. Provò a indovinare: «Oh, una sterlina dovrebbe bastare». E intanto pensava: "È proprio vero quello che sto facendo?". La signora Allen estrasse dal portafogli due biglietti da dieci scellini. Probabilmente le avrebbe dato i risparmi di tutta la vita, se glieli avesse chiesti. Margaret prese il denaro con mano tremante. Potrebbe essere il mio biglietto per il viaggio verso la libertà, pensò; e per quanto fosse impaurita, sentì nascere in sé una piccola fiamma gioiosa di speranza. La signora Allen pensò che fosse rattristata dalla prospettiva di emigrare e le strinse la mano. «È un giorno molto triste lady Margaret» disse. «Un giorno molto triste per tutti noi.» Scosse malinconicamente la testa grigia e sparì all'interno della casa. Margaret si guardò intorno con ansia. Non c'era nessuno. Il cuore le batteva come un uccellino in trappola e respirava affannosamente. Sapeva che se avesse esitato le sarebbe venuto meno il coraggio. Non volle perdere neppure il tempo necessario per indossare una giacca. Strinse nel pugno le banconote e uscì. La stazione era a più di tre chilometri, in un altro villaggio. A ogni passo Margaret si aspettava di udire la Rolls Royce del padre che la seguiva. Ma come poteva lui sapere quello che aveva fatto? Era improbabile che qualcuno notasse la sua assenza fino all'ora di cena; e se anche l'avessero notata, avrebbero creduto che fosse andata a fare acquisti come aveva detto alla signora Allen. Tuttavia era in uno stato di apprensione febbrile. Arrivò alla stazione con molto anticipo, fece il biglietto (il denaro era più che sufficiente) e andò a sedere nella sala d'aspetto per le signore. Fissava le lancette del grande orologio a muro. Il treno era in ritardo. Vennero le quattro e cinquantacinque, poi le cinque, poi le cinque e cinque. Margaret, ormai, era così spaventata che era quasi disposta a rinunciare e a tornare a casa, se non altro per sottrarsi alla tensione. Il treno arrivò alle cinque e quattordici. E suo padre non era ancora comparso. Margaret salì con il cuore in gola. Si mise al finestrino e guardò il cancelletto d'entrata. Si aspettava di vederlo arrivare all'ultimo momento per fermarla. Finalmente il treno si mosse. Non riusciva a crederlo, ma se ne stava andando, veramente.
Il treno accelerò. Un primo tenue fremito di euforia le affiorò nel cuore. Dopo pochi secondi il convoglio uscì dalla stazione. Margaret guardò il villaggio che si allontanava e il suo cuore si riempì di una sensazione di trionfo. C'era riuscita... era scappata! Improvvisamente si sentì mancare le ginocchia. Si guardò intorno per cercare un posto, e solo allora si accorse che il treno era strapieno. Tutti i posti erano occupati, perfino nella carrozza di prima classe, e c'erano parecchi militari seduti sul pavimento. Rimase in piedi. L'euforia non l'abbandonò anche se il viaggio fu una specie di incubo. A ogni stazione altra gente si stipava nelle carrozze. Prima di Reading, il treno rimase fermo per tre ore. Tutte le lampadine erano state tolte a causa dell'oscuramento, perciò dopo l'imbrunire il treno piombò nel buio più totale, rotto ogni tanto dal lampo della torcia elettrica della guardia che faceva la ronda e passava a stento fra i passeggeri seduti o sdraiati sul pavimento. Quando Margaret non ce la fece più a stare in piedi, si sedette anche lei sul pavimento. Ormai erano cose che non avevano più importanza, si disse. Si sarebbe sporcata il vestito, ma domani anche lei avrebbe indossato un'uniforme. Tutto era diverso. C'era la guerra. Margaret si chiedeva se suo padre avesse scoperto la sua sparizione e, saputo che aveva preso il treno, si fosse precipitato a Londra per bloccarla alla stazione di Paddington. Era improbabile ma possibile: aveva il cuore colmo di paura quando il convoglio entrò nella stazione. Ma non vide nessuno e provò un altro fremito di trionfo. Dopotutto, suo padre non era onnipotente! Riuscì a trovare un taxi nel buio cavernoso della stazione. Il taxista la portò a Bayswater tenendo accese solo le luci da città, e usò una lampada tascabile per guidarla fino al palazzo in cui Catherine aveva un appartamento. Tutte le finestre erano oscurate, ma l'atrio era uno sfolgorio di luci. Il portiere non c'era perché era quasi mezzanotte; comunque Margaret sapeva arrivare all'appartamento di Catherine. Salì la scala e suonò al campanello. Nessuno rispose. Margaret provò una stretta al cuore. Suonò di nuovo, ma sapeva che era inutile perché l'appartamento era piccolo e lo squillo intenso. Catherine non c'era. Non era affatto strano, pensò. Catherine viveva nel Kent con i genitori e usava l'appartamento come pied-à-terre. A Londra la vita di società si era fermata, naturalmente, quindi Catherine non aveva nessun motivo di restare. Margaret non ci aveva pensato.
Si sentì delusa. Aveva immaginato con piacere i momenti che avrebbe trascorso con Catherine, bevendo la cioccolata insieme e raccontandole i particolari della sua grande avventura. Ma avrebbe dovuto attendere. Si chiese che cosa poteva fare. Aveva diversi parenti a Londra, ma se fosse andata da loro avrebbero telefonato a suo padre. Catherine sarebbe stata disposta a partecipare alla congiura, ma degli altri non poteva fidarsi. Poi ricordò che la zia Martha non aveva il telefono. Per la verità era una prozia, una zitella stizzosa sulla settantina, e abitava a poco più di un chilometro. Sicuramente a quell'ora dormiva e si sarebbe arrabbiata, ma non c'era nulla da fare. L'importante era che non avrebbe avuto la possibilità di comunicare a suo padre dove si trovava Margaret. Ridiscese la scala e uscì sulla strada. Si trovò immersa nel buio più totale. L'oscuramento faceva paura. Si fermò accanto al portone d'ingresso e si guardò intorno aguzzando la vista, ma non vide nulla. Aveva una strana sensazione allo stomaco, come una vertigine. Chiuse gli occhi e immaginò la strada che ben conosceva come avrebbe dovuto essere. Dietro di lei c'era Ovington House, dove abitava Catherine. In condizioni normali ci sarebbero state parecchie finestre illuminate e l'alone splendente della lampada sopra l'ingresso. All'angolo, sulla sinistra, c'era una chiesetta di Wren il cui portico era sempre illuminato da riflettori. Il marciapiedi era fiancheggiato da lampioni, ognuno dei quali gettava un piccolo cerchio di luce; e la strada avrebbe dovuto essere rischiarata dai fari degli autobus, dei taxi e delle macchine. Riaprì gli occhi e non vide nulla. Era inquietante. Per un momento immaginò che intorno a lei non vi fosse più niente: la strada era scomparsa e lei era in una specie di limbo e precipitava nel vuoto. All'improvviso fu assalita dal mal di mare. Poi si scosse e visualizzò il percorso per arrivare alla casa di zia Martha. Da qui devo dirigermi verso est, pensò, e prendere la seconda svolta a sinistra: la casa di zia Martha è in fondo a quell'isolato. Dovrebbe essere abbastanza agevole, anche al buio. Desiderò un aiuto di qualsiasi genere: le luci di un taxi, la luna piena, un poliziotto premuroso. Un momento dopo il suo desiderio si realizzò: una macchina si avvicinò lentamente, con le luci da città fioche come gli occhi di un gatto nell'oscurità; e all'improvviso riuscì a scorgere la linea del marciapiedi, fino all'angolo della via. Si mise in cammino.
La macchina passò oltre, e i rossi fanalini posteriori si allontanarono e svanirono. Margaret calcolava di essere ancora a tre o quattro passi dall'angolo quando inciampò e quasi cadde dal marciapiedi. Attraversò la strada e trovò il marciapiedi di fronte senza incespicare. Incoraggiata, procedette con passo più sicuro. All'improvviso qualcosa di duro le sbatté in faccia con violenza. Gettò un grido di dolore e di paura. Per un momento fu sopraffatta da un panico cieco. Avrebbe voluto voltarsi e fuggire. Si calmò con uno sforzo. Si portò la mano alla guancia dolorante e la massaggiò. Cos'era successo? Cosa l'aveva colpita in faccia a metà del marciapiedi? Tese le mani e sentì quasi subito qualcosa. Le ritrasse di scatto, strinse i denti e le allungò di nuovo. Stava toccando qualcosa di freddo, duro e rotondo, come un grande vassoio per torte che galleggiasse a mezz'aria. Continuò a tastare e riconobbe una colonna rotonda con un foro rettangolare e la parte superiore sporgente. Quando comprese cos'era, rise nonostante il dolore al viso. Era stata aggredita da una cassetta per le lettere. Le girò intorno a tentoni e riprese a camminare tenendo le mani in avanti. Dopo un po' scese inciampando da un altro marciapiedi. Recuperò l'equilibrio e si sentì sollevata: aveva raggiunto la via dove abitava zia Martha. Svoltò a sinistra. Pensò che forse zia Martha non avrebbe sentito il campanello. Viveva sola e non c'era nessun altro che potesse aprire. Se fosse andata così, Margaret avrebbe dovuto ritornare a casa di Catherine e dormire nel corridoio. L'idea di stendersi sul pavimento era anche accettabile, ma dover camminare ancora nel buio totale le faceva paura. Forse si sarebbe raggomitolata davanti alla porta di zia Martha e avrebbe atteso che facesse giorno. La casetta di zia Martha era in fondo a un lungo isolato. Margaret camminava adagio. La città era buia, ma non silenziosa. Ogni tanto si sentiva una macchina in lontananza. I cani abbaiavano quando passava davanti alle case, e due gatti miagolavano senza badare a lei. A un certo punto sentì una musica: qualcuno stava facendo festa fino a tardi. Un po' più avanti captò le grida soffocate d'una lite domestica dietro le tende nere. Margaret desiderò di essere in una casa con le lampade accese, il fuoco nel camino e una teiera fumante. L'isolato sembrava più lungo di quanto ricordava. Però non poteva aver sbagliato: aveva svoltato a sinistra al secondo incrocio. Ma il sospetto di essersi smarrita cresceva inesorabilmente. Il senso del tempo l'aveva ab-
bandonata: camminava lungo l'isolato da cinque minuti, venti minuti, due ore oppure da tutta la notte? Adesso non era più sicura nemmeno che ci fossero case intorno a lei. Poteva darsi che fosse nel centro di Hyde Park, dopo esserci entrata per puro caso. Incominciò ad avere la sensazione che tutt'intorno, nel buio, ci fossero esseri che la spiavano con occhi felini in attesa di vederla cadere per afferrarla. Un urlo le salì alla gola, ma lo represse. Si impose di riflettere. Dove poteva aver sbagliato strada? Si era accorta di essere arrivata a una via laterale quando era scesa barcollando da un marciapiedi. Però, adesso lo ricordava, oltre alle vie trasversali c'erano anche stradine secondarie. Poteva aver svoltato in una di quelle, e ormai poteva aver percorso molto più di un chilometro nella direzione sbagliata. Si sforzò di rievocare il senso inebriante di eccitazione e di trionfo che aveva provato sul treno, ma ormai era svanito, e si sentiva sola e spaventata. Decise di fermarsi e di restare immobile. Così non le sarebbe accaduto nulla di male. Restò ferma a lungo, non sarebbe stata in grado di dire per quanto tempo. Aveva paura di muoversi: la paura la paralizzava. Era convinta che sarebbe rimasta lì, in piedi, fino a quando non fosse svenuta per lo sfinimento o non fosse spuntato il mattino. Poi comparve una macchina. Le luci da città illuminavano pochissimo, ma in confronto alla tenebra di prima sembrava quasi giorno. Margaret si accorse di essere in mezzo alla strada e si precipitò verso il marciapiedi per non farsi travolgere. Era in una piazza che le sembrava vagamente di riconoscere. L'auto la superò e svoltò a un angolo. Si affrettò a inseguirla, nella speranza di scorgere qualche punto di riferimento che le rivelasse dov'era. Quando arrivò all'angolo, vide la macchina in fondo a una via corta e stretta fiancheggiata da piccoli negozi, e ne riconobbe uno, una modisteria dove si serviva sua madre. E si rese conto di essere a pochi metri da Marble Arch. Avrebbe voluto piangere di sollievo. Quando arrivò all'altro angolo attese che un'altra macchina le illuminasse la strada. Poi si addentrò in Mayfair. Dopo qualche minuto arrivò davanti al Claridge's Hotel. Era oscurato, naturalmente, ma riuscì a individuare la porta e si chiese se era il caso di entrare. Non pensava di aver denaro a sufficienza per pagare una stanza, però ri-
cordava che il conto andava saldato quando si lasciava l'albergo. Poteva prendere una stanza per due notti, uscire l'indomani come se intendesse rientrare più tardi, arruolarsi nell'ATS e poi telefonare all'albergo e chiedere che mandassero il conto all'avvocato di suo padre. Trasse un respiro profondo e spinse la porta. Come quasi tutti gli esercizi pubblici che erano aperti di notte, l'albergo era stato munito di una doppia porta simile a una camera stagna, in modo che la gente potesse entrare e uscire senza che la luce filtrasse sulla via. Margaret attese che la porta esterna si richiudesse alle sue spalle, varcò quella interna ed entrò nella luce accogliente del vestibolo. Provò un enorme senso di sollievo. Era tornata nella normalità: l'incubo era finito. Al banco sonnecchiava un giovane portiere di notte. Margaret tossì e quello si svegliò, sorpreso e confuso. «Vorrei una stanza» disse lei. «A quest'ora?» esclamò il portiere. «Sono rimasta bloccata dall'oscuramento» spiegò lei. «E adesso non posso tornare a casa.» L'altro cominciava a ritrovare la lucidità. «Non ha bagagli?» «No» rispose Margaret; poi fu colpita da un pensiero e aggiunse: «No, naturalmente... Non avevo intenzione di restare fuori casa». Il portiere la squadrò perplesso. Ma non poteva respingerla, pensò lei. Il giovane deglutì, si massaggiò la faccia e finse di consultare un registro. Che cosa gli aveva preso? Poi si decise, chiuse il registro e disse: «Siamo al completo». «Oh, andiamo, ci sarà pure una stanza libera...» «Ha litigato con il suo vecchio, eh?» disse il portiere, e strizzò l'occhio. Margaret non riusciva a credere a quello che le stava succedendo. «Non posso tornare a casa» ripeté, come se lui non l'avesse capita quando l'aveva detto la prima volta. «Non posso farci niente» rispose il portiere. Poi, per fare lo spiritoso, aggiunse: «La colpa è di Hitler». «Dov'è il direttore?» chiese Margaret. «Il responsabile sono io fino alle sei» ribatté il portiere con tono offeso. Margaret si guardò intorno. «Allora dovrò mettermi seduta qui fino a domattina» disse in tono stanco. «Non può!» Il portiere sembrava spaventato dalla prospettiva. «Una ragazza sola, senza bagaglio, che passa la notte qui nell'atrio? Ci rimetterei il posto.» «Non sono una ragazza» ribatté lei, irritata. «Sono lady Margaret Oxen-
ford.» Detestava usare il titolo, ma era ridotta alla disperazione. Non servì a nulla. Il portiere le lanciò un'occhiata insolente e disse: «Ah, sì?». Margaret stava per gridare quando vide la propria immagine riflessa nel vetro della porta e si accorse di avere un occhio nero. E inoltre aveva le mani sporche e l'abito strappato. Ricordò che era andata a sbattere contro la cassetta delle lettere e che in treno si era seduta sul pavimento. Non era per nulla strano che il portiere le negasse una stanza. «Ma non può buttarmi fuori con l'oscuramento!» esclamò disperata. «Non posso fare altro» replicò il portiere. Margaret si chiese come avrebbe reagito se si fosse seduta e avesse rifiutato di muoversi. Era ciò che avrebbe voluto fare: era esausta, sfinita dalla tensione. Ma ne aveva passate tante che non le restava l'energia per uno scontro. E poi era tardi ed erano soli: non si poteva prevedere cosa sarebbe successo se gli avesse dato un pretesto per metterle le mani addosso. Gli voltò le spalle e, amaramente delusa, uscì nella notte. Mentre si allontanava dall'albergo rimpianse di non essere stata più battagliera. Perché le sue intenzioni erano sempre più forti delle azioni? Adesso che aveva ceduto, era abbastanza furibonda per sfidare il portiere. Era quasi decisa a tornare indietro. Ma continuò a camminare: sembrava più facile. Non sapeva dove andare. Non sarebbe più riuscita a trovare la casa di Catherine, e non ce l'aveva fatta a trovare quella di zia Martha. Non poteva fidarsi degli altri parenti, ed era troppo sporca per ottenere una camera in un albergo. Avrebbe dovuto girovagare fino alle prime luci. Il clima era buono: non pioveva e l'aria notturna non era troppo fredda. Se avesse continuato a camminare non ne avrebbe risentito. Adesso vedeva dove stava andando: c'erano molti semafori nel West End, e ogni minuto o due passava qualche macchina. Udiva la musica e il chiasso che filtravano dai night-club, e ogni tanto vedeva qualcuno della sua classe sociale, donne in splendidi abiti da sera e uomini in cravatta bianca e frac, che arrivavano a casa con le macchine guidate dall'autista, dopo qualche festa. In una via, stranamente, vide altre tre donne sole come lei: una era in piedi davanti a una porta, una stava appoggiata a un lampione e un'altra era seduta in macchina. Tutte fumavano; tutte sembravano in attesa di qualcuno. Margaret si chiese se erano quelle che sua madre chiamava "donne perdute". Incominciava a essere stanca. Aveva ai piedi le scarpe leggere con le quali era scappata da casa. D'impulso si sedette su un gradino, se le sfilò e
si massaggiò i piedi indolenziti. Alzò la testa e si accorse che riusciva a distinguere vagamente i contorni delle costruzioni dall'altra parte della strada. Si faceva giorno, finalmente? Forse avrebbe potuto trovare un caffè frequentato dagli operai, uno di quelli che aprivano presto. Avrebbe ordinato la colazione in attesa che aprissero gli uffici di reclutamento. Da due giorni non mangiava quasi nulla, e il pensiero delle uova e della pancetta le faceva venire l'acquolina in bocca. All'improvviso una faccia bianca apparve davanti a lei e le strappò un gridolino di paura. La faccia si avvicinò e Margaret vide un uomo piuttosto giovane in abito da sera. L'uomo disse: «Ciao, bellezza». Margaret si alzò di scatto. Detestava gli ubriachi, erano privi di dignità. «Se ne vada, per favore» disse. Si sforzava di mostrarsi decisa, ma le tremava la voce. L'uomo si avvicinò barcollando. «Su, dammi un bacio.» «No!» esclamò Margaret, inorridita. Indietreggiò di un passo, vacillò e lasciò cadere le scarpe. Inspiegabilmente, la perdita delle scarpe la fece sentire irrimediabilmente vulnerabile. Si voltò e si chinò per cercarle a tentoni. L'uomo ridacchiò: poi, con orrore, Margaret sentì che le insinuava la mano fra le cosce e la palpava goffamente. Si raddrizzò di colpo senza aver trovato le scarpe, e si scostò. Si girò verso l'uomo e gridò: «Mi stia lontano!». L'uomo rise di nuovo. «Brava, continua. Mi piace un po' di resistenza.» Con un'agilità sorprendente l'afferrò per le spalle e l'attirò a sé. Le alitò in faccia una nauseante zaffata d'alcol e la baciò sulla bocca. Era indicibilmente disgustoso. A Margaret venne da vomitare, ma la stretta era così forte che a stento riusciva a respirare. Si dibatté invano mentre l'uomo le sbavava addosso. Poi lui tolse una mano dalla sua spalla per afferrarle il seno. Strinse brutalmente e lei restò senza fiato per il dolore; ma dato che le aveva lasciato la spalla, riuscì a compiere un mezzo giro e a scostarsi e cominciò a urlare. Urlò con tutte le sue forze. Margaret lo udì borbottare preoccupato: «Va bene, va bene, non prendertela così. Non facevo niente di male». Ma lei era troppo spaventata per ascoltare. Continuò a urlare. Alcune facce si materializzarono nell'oscurità: un passante in tuta da operaio, una "donna perduta" con sigaretta e borsa, e qualcuno alla finestra della casa dietro di loro. L'ubriaco sparì nella notte e Margaret smise di urlare e cominciò a piangere. Poi udì un suono frettolo-
so di passi e vide il sottile fascio di luce di una torcia elettrica oscurata e un casco da poliziotto. Il poliziotto le puntò la luce in faccia. La donna borbottò: «Non è una di noi, Steve». Il poliziotto chiamato Steve chiese: «Come ti chiami, ragazza?». «Margaret Oxenford.» L'operaio disse: «Un tizio l'ha scambiata per una puttana, ecco cos'è successo». E si allontanò soddisfatto. Il poliziotto chiese: «Vuol dire che è lady Margaret Oxenford?». Margaret tirò su con il naso, avvilita, e annuì. La donna commentò: «Te l'ho detto che non è una di noi». Tirò una boccata dalla sigaretta, lasciò cadere il mozzicone, lo calpestò e sparì. Il poliziotto disse: «Venga con me, signorina. Non c'è più pericolo». Margaret si asciugò il viso con la manica. Il poliziotto le offrì il braccio e lei accettò. Lui puntò il raggio della lampada sul marciapiede davanti a lei e si incamminarono. Dopo un momento Margaret rabbrividì: «Che uomo orribile». Il poliziotto non si mostrò troppo comprensivo. «Non posso dargli torto» commentò allegramente. «È la strada più malfamata di Londra. Si può presumere che una ragazza sola a quest'ora sia una bella di notte.» Margaret pensò che probabilmente aveva ragione, anche se le sembrava ingiusto. Nell'incerta luce mattutina apparve la lampada azzurra di una stazione di polizia. L'agente disse: «Venga a prendere una tazza di tè. Si sentirà meglio». Entrarono. C'era un banco con due poliziotti, uno corpulento e di mezza età, l'altro giovane e magro. Contro i muri c'erano semplici panche di legno, e su una di esse sedeva una donna pallida, con una sciarpa in testa e le pantofole ai piedi, che aspettava con stanca rassegnazione. Il salvatore di Margaret le indicò la panca di fronte: «Si sieda lì per un minuto». Margaret obbedì, e il poliziotto andò al banco e parlò con il collega più anziano. «Sergente, quella è lady Margaret Oxenford. Ha avuto uno scontro con un ubriaco in Bolting Lane.» «Lui avrà pensato che battesse il marciapiede.» Margaret era colpita dalla varietà degli eufemismi che venivano usati per parlare della prostituzione. Sembrava che la gente avesse orrore di chiamarla con il vero nome e preferisse le allusioni indirette. Lei stessa, del resto, la conosceva nel modo più vago; anzi, non aveva creduto che esistesse
realmente, fino a quella notte. Ma non c'era stato nulla di vago nelle intenzioni del giovanotto in abito da sera. Il sergente la squadrò incuriosito, poi disse a bassa voce qualcosa che lei non udì. Steve annuì e scomparve nel retro dell'edificio. Margaret si accorse di aver dimenticato le scarpe per la strada, e adesso aveva le calze bucate. Incominciò a preoccuparsi: non poteva comparire in quello stato al centro di reclutamento. Forse avrebbe potuto tornare a cercare le scarpe alla luce del giorno. Ma poteva darsi che non ci fossero più. Aveva un gran bisogno di lavarsi e di indossare un abito pulito. Sarebbe stato terribile se dopo quanto era accaduto all'ATS l'avessero scartata. Ma dove poteva andare per mettersi in ordine? Di giorno non sarebbe stata al sicuro nemmeno in casa della zia Martha: suo padre avrebbe potuto venire a cercarla. Possibile, pensò angosciata, che il suo piano fallisse per colpa di un paio di scarpe? Il poliziotto tornò con il tè in una tazza di coccio. Era leggero e troppo zuccherato, però Margaret lo bevve con riconoscenza. Il tè rafforzò la sua decisione. Poteva superare ogni problema, si disse. Se ne sarebbe andata appena finito di bere. Si sarebbe recata in un quartiere popolare e avrebbe trovato un negozio di abiti a poco prezzo: aveva ancora qualche scellino. Avrebbe acquistato un vestito, un paio di sandali e biancheria. Sarebbe entrata in un bagno pubblico, si sarebbe lavata e cambiata. E sarebbe stata pronta per arruolarsi. Mentre rifletteva su questo piano, si sentì un gran chiasso all'esterno. Entrò un gruppo di giovani. Erano benvestiti, alcuni in abito da sera. Dopo un momento Margaret si accorse che stavano trascinando un loro compagno recalcitrante. Uno cominciò a gridare qualcosa al sergente dietro il banco. Il sergente lo interruppe. «Va bene, va bene, silenzio!» disse in tono imperioso. «Non siete su un campo di rugby... questa è una stazione di polizia.» Il chiasso si attenuò un po', ma non abbastanza per il sergente. «Se non vi comportate bene, vi sbatto tutti in cella!» gridò. «E adesso, silenzio!» I giovani ammutolirono e lasciarono il loro prigioniero che si guardò intorno irritato. Il sergente puntò l'indice verso uno di loro: aveva i capelli scuri e all'incirca l'età di Margaret. «Bene... lei. Mi spieghi cos'è questa chiassata.» Il giovane indicò il prigioniero. «Questo disgraziato ha invitato mia sorella al ristorante e se l'è svignata senza pagare!» esclamò indignato. Parla-
va con l'accento aristocratico, e Margaret si accorse che la faccia le era vagamente familiare. Si augurò che non la riconoscesse: sarebbe stato troppo umiliante se qualcuno avesse saputo che un poliziotto aveva dovuto salvarla dopo che era scomparsa da casa. Un ragazzo più giovane, in abito gessato, soggiunse: «Si chiama Harry Marks, e bisognerebbe sbatterlo al fresco». Margaret guardò incuriosita Harry Marks. Era un bellissimo giovane di ventidue o ventitré anni, con i capelli biondi e lineamenti regolari. Anche se era piuttosto malconcio, portava lo smoking con disinvolta eleganza. Si guardò intorno sprezzante, e commentò: «Sono tutti sbronzi». Il giovane con l'abito gessato esplose: «Noi saremo sbronzi, ma lui è un mascalzone... e un ladro. Guardi cosa gli abbiamo trovato in tasca». Buttò qualcosa sul banco. «Questi gemelli sono stati rubati ieri sera a sir Simon Monkford.» «Ho capito» disse il sergente. «Dunque lo accusate di insolvenza fraudolenta perché non ha pagato il conto del ristorante... e di furto. C'è altro?» Il giovane con l'abito gessato rise ironico: «Perché, non le basta?». Il sergente puntò la matita verso di lui. «Non dimentichi dove si trova, figliolo. Sarà anche nato con la camicia, ma questa è una stazione di polizia e se non parla da persona educata le faccio passare in cella il resto della notte.» Confuso, il ragazzo non disse altro. Il sergente tornò a rivolgersi al primo che aveva parlato. «Dunque, può fornire i particolari delle due incriminazioni? Mi servono il nome e l'indirizzo del ristorante, il nome e l'indirizzo di sua sorella, più il nome e l'indirizzo del proprietario dei gemelli.» «Sì, posso fornirglieli tutti. Il ristorante...» «Bene. Lei resti qui.» Il sergente puntò l'indice verso l'accusato. «Lei si sieda.» Poi agitò la mano verso gli altri. «E voi potete andare a casa.» I ragazzi avevano un'aria delusa. La grande avventura era finita in modo banale. Per un momento nessuno si mosse. Il sergente disse: «Porca miseria, sparite tutti quanti!». Margaret non aveva mai sentito tante imprecazioni in un giorno solo. I ragazzi si decisero, brontolando. Quello con l'abito gessato disse: «Consegni un ladro alla giustizia e ti trattano come se il delinquente fossi tu!». Comunque, uscì prima di terminare la frase. Il sergente cominciò a interrogare il giovane bruno e a prendere appunti. Harry Marks rimase al suo fianco per un momento, poi si voltò, spazienti-
to. Notò Margaret, le rivolse un sorriso allegro e le si sedette accanto. «Tutto a posto, ragazza? Cosa ci fai qui a quest'ora?» Margaret era sconcertata. Il giovane si era trasformato. I modi altezzosi e l'accento raffinato erano scomparsi: adesso parlava come il sergente. Per un attimo rimase troppo sorpresa per rispondere. Harry lanciò un'occhiata alla porta, come se stesse pensando di fuggire; poi tornò a guardare il banco e vide l'agente più giovane, che finora non aveva pronunciato una parola, intento a fissarlo. Sembrò rinunciare all'idea della fuga e si rivolse di nuovo a Margaret. «Chi ti ha fatto quell'occhio nero? Il tuo vecchio?» Margaret ritrovò la voce. «Mi sono persa nell'oscuramento e sono andata a sbattere contro una cassetta per le lettere.» Adesso era lui ad avere un'aria sorpresa. L'aveva scambiata per un'operaia ma ora, nel sentire l'accento, si rendeva conto di aver sbagliato. Senza scomporsi tornò a parlare come all'inizio. «Direi che è stata una vera sfortuna!» Margaret era affascinata. Qual era la sua vera personalità? Era profumato di colonia e aveva i capelli ben tagliati, anche se un po' lunghi. Indossava un abito da sera blu notte, secondo la moda lanciata da Edoardo VIII, con calzini di seta e scarpe di vernice. Aveva gioielli di buon gusto: bottoni con diamanti sulla camicia e gemelli eguali; orologio d'oro con cinturino di coccodrillo nero; anello con sigillo al mignolo sinistro. Le mani erano grandi e forti, ma le unghie erano pulite. Margaret gli chiese a voce bassa: «Davvero è uscito dal ristorante senza pagare?». Il giovane la osservò attentamente e parve arrivare a una decisione: «Ecco, sì» confidò in tono da cospiratore. «Ma perché?» «Perché se fossi rimasto per un altro minuto ad ascoltare Rebecca Maugham-Flint che parlava dei suoi maledetti cavalli, non avrei resistito alla tentazione di strozzarla.» Margaret ridacchiò. Conosceva Rebecca Maugham-Flint, una ragazza grande, grossa e bruttina. Era figlia d'un generale, e dal padre aveva preso i modi energici e la voce stentorea. «Lo immagino» disse. Era difficile pensare a una commensale meno adatta per l'affascinante signor Marks. L'agente Steve ritornò a ritirare la tazza vuota. «Si sente meglio, lady Margaret?» Con la coda dell'occhio, lei vide che Harry Marks reagiva nel sentire
quel titolo. «Molto meglio, grazie» rispose. Per un po' aveva dimenticato i suoi guai parlando con Harry; ma adesso ricordava ciò che doveva fare. «È stato gentile» continuò. «Ora vado. Devo sbrigare diverse cose importanti.» «Non c'è nessuna fretta» disse l'agente. «Il marchese suo padre sta venendo qui a prenderla.» Il cuore di Margaret si fermò. Com'era possibile? Si era convinta di essere al sicuro... aveva sottovalutato suo padre! Adesso era di nuovo spaventata come quando si era incamminata sulla strada per la stazione. Suo padre stava per arrivare, era già in viaggio! Si sentì scossa da un tremito. «Come fa a sapere dove sono?» chiese con voce forzata. Il giovane poliziotto aveva un'aria molto orgogliosa. «Hanno diffuso i suoi connotati ieri sera, e ho letto la descrizione quando ho preso servizio. Nel buio non l'ho riconosciuta, ma ricordavo il nome. L'ordine era di informare immediatamente il marchese. Non appena l'ho accompagnata qui, gli ho telefonato.» Margaret si alzò. Il cuore le batteva all'impazzata. «Non intendo aspettarlo» disse. «Ormai è giorno.» L'agente si allarmò. «Un momento» disse in tono nervoso e si girò verso il banco. «Sergente, la signora non vuole aspettare suo padre.» Harry Marks le disse: «Non possono obbligarla a fermarsi... scappare di casa non è un reato, alla sua età. Se vuole, non deve far altro che andarsene». Margaret aveva il terrore che inventassero qualche pretesto per trattenerla. Il sergente si alzò e girò intorno al banco. «È vero» disse. «Può andarsene quando vuole.» «Oh, grazie» mormorò lei, riconoscente. Il sergente sorrise. «Ma è senza scarpe, e ha le calze bucate. Se deve andarsene prima che arrivi suo padre, lasci almeno che le chiamiamo un taxi.» Margaret rifletté. Avevano telefonato a suo padre non appena era giunta alla stazione di polizia, ma era passata meno di un'ora. Lui non poteva arrivare prima di un'altra ora, forse più. «D'accordo» disse al sergente. «Grazie.» Lui aprì una porta. «Qui starà più comoda mentre aspetta il taxi.» E accese la luce. Margaret avrebbe preferito restare a parlare con l'affascinante Harry
Marks, ma non poteva rifiutare la cortese proposta del sergente, soprattutto dopo che lui aveva ceduto. «Grazie» ripeté. Mentre si avviava alla porta, udì Harry esclamare: «Che sciocca!». Entrò nella stanzetta. C'erano alcune sedie dozzinali e una panca, una lampadina senza paralume appesa al soffitto, una finestra con le sbarre. Non capiva come mai il sergente pensasse che lì sarebbe stata più comoda. Si voltò a dirglielo. La porta si chiuse. Un presentimento di catastrofe le riempì il cuore di terrore. Si lanciò verso la porta e afferrò la maniglia. In quell'istante il suo timore fu confermato e udì la chiave girare nella serratura. Scosse furiosamente la maniglia, ma la porta non si aprì. Disperata, appoggiò la fronte contro l'uscio. Da fuori le giunse una risata sommessa, poi la voce di Harry, smorzata ma comprensibile, che diceva: «Carogna». Adesso il tono del sergente non era più gentile. «Lei chiuda il becco!» esclamò con durezza. «Non ha il diritto di farlo, lo sa.» «Il padre è un marchese, e questo mi basta.» Poi più niente. Margaret si rese amaramente conto di aver perduto. La sua grande fuga si era risolta in un fallimento. Era stata tradita proprio da coloro che pensava la stessero aiutando. Per un po' era stata libera, ma tutto era finito. Non si sarebbe arruolata nell'ATS, pensò con tristezza: si sarebbe imbarcata sul Clipper della Pan Am e sarebbe volata a New York, lontano dalla guerra. Dopo tutto ciò che aveva passato, la sua sorte non era per nulla cambiata. Le sembrava atrocemente ingiusto. Dopo un lungo istante si staccò dalla porta e andò alla finestra. Vide un cortile deserto e un muro di mattoni. Rimase immobile, sconfitta e impotente, a guardare fra le sbarre il giorno che spuntava e ad attendere suo padre. Eddie Deakin diede un'ultima controllata al Clipper della Pan American. I quattro motori Wright Cyclone da 1500 cavalli erano lucidi d'olio. Ognuno era alto come un uomo. Le cinquantasei candele erano state sostituite. D'impulso, Eddie prese dalla tasca della tuta una sonda e la infilò nel supporto di un motore fra la gomma e il metallo, per assicurarsi che fosse ben fissato. Le vibrazioni martellanti del lungo volo causavano tensioni fortissime, ma la sonda non penetrò neppure di mezzo centimetro. I
supporti reggevano. Chiuse la botola e scese la scaletta. Mentre l'aereo veniva rimesso in acqua avrebbe potuto togliersi la tuta, ripulirsi e indossare l'uniforme nera da volo. Il sole splendeva quando lasciò il molo e si avviò su per la collina, verso l'albergo dove alloggiava l'equipaggio durante le soste. Era orgoglioso dell'aereo e del proprio lavoro. Gli equipaggi dei Clipper erano l'élite, i migliori della linea aerea, perché il nuovo servizio transatlantico era la rotta più prestigiosa. Per tutta la vita avrebbe potuto vantarsi di aver sorvolato l'Atlantico già nei primi tempi. Comunque aveva intenzione di smettere presto. Aveva trent'anni, era sposato da un anno e Carol-Ann era incinta. Volare andava bene per uno scapolo; ma non voleva passare la vita lontano dalla moglie e dai figli. Aveva risparmiato, e aveva da parte una somma quasi sufficiente per mettersi in proprio. Aveva un'opzione su un terreno presso Bangor, nel Maine, che sarebbe diventato un piccolo campo d'aviazione ideale. Avrebbe venduto il carburante e provveduto alla manutenzione degli aerei, forse ne avrebbe anche tenuto uno per i voli charter. In segreto, sognava di poter avere un giorno una linea aerea tutta sua come il pioniere Juan Trippe, fondatore della Pan American. Entrò nel giardino del Langdown Lawn Hotel. Era una vera fortuna per l'equipaggio della Pan Am che ci fosse un albergo così bello a circa un chilometro e mezzo dal complesso delle Imperial Airways. Era una tipica casa di campagna inglese, gestita da una coppia simpatica che nei pomeriggi di sole serviva il tè sul prato. Entrò. Nell'atrio incontrò il suo assistente motorista, Desmond Finn, inevitabilmente chiamato Mickey. Mickey ricordava a Eddie il personaggio di Jimmy Olsen nei fumetti di Superman: era un tipo allegro con un gran sorriso e la tendenza a considerare un eroe Eddie, che trovava imbarazzante una simile adorazione. Stava parlando al telefono, e quando vide Eddie disse: «Oh, un attimo, è appena entrato». Gli porse il ricevitore e disse: «Una chiamata per te». Poi salì educatamente per lasciarlo solo. «Pronto?» disse Eddie. «Parlo con Edward Deakin?» Eddie aggrottò la fronte. La voce era sconosciuta, e nessuno lo chiamava Edward. «Sì, sono Eddie Deakin. Lei chi è?» «Aspetti, le passo sua moglie.» Il cuore di Eddie diede un tuffo. Perché Carol-Ann lo chiamava dagli
Stati Uniti? Era successo qualcosa? Un attimo dopo udì la sua voce. «Eddie?» «Ciao, tesoro, cosa c'è?» Carol-Ann scoppiò in lacrime. Nella mente di Eddie passò tutta una serie di spiegazioni spaventose: la casa era bruciata, era morto qualcuno, Carol-Ann aveva avuto un incidente oppure un aborto spontaneo... «Carol-Ann, calmati. Come stai?» Lei parlò fra i singhiozzi. «Non... non ho niente...» «E allora?» chiese lui, sempre più allarmato. «Cos'è successo? Spiegati, piccola.» «Quegli uomini... sono venuti a casa...» Eddie si sentì agghiacciare. «Quali uomini? Che cos'hanno fatto?» «Mi hanno costretta a salire in macchina.» «Gesù, chi sono?» La collera era una fitta nel petto. Eddie stentava a respirare. «Ti hanno fatto male?» «No... ma, Eddie... ho tanta paura.» Eddie non sapeva cosa dire. Troppe domande gli si affollavano sulle labbra. Certi uomini erano andati a casa sua e avevano costretto CarolAnn a salire su una macchina! Cosa stava succedendo? Finalmente chiese: «Ma perché?». «Non vogliono dirmelo.» «Cos'hanno detto?» «Eddie, devi fare quello che vogliono loro. Non so altro.» Nonostante la collera e la paura, ebbe l'impressione di sentire la voce di suo padre che diceva: Non firmare mai un assegno in bianco. Ma non esitò: «Lo farò. Ma che cosa...». «Prometti!» «Prometto!» «Dio sia ringraziato.» «Quando è successo?» «Un paio d'ore fa.» «Adesso dove sei?» «In una casa poco lontano da...» Carol-Ann gettò un grido di paura. «Carol-Ann! Cosa succede? Tutto bene?» Non ebbe risposta. Furibondo, spaventato e impotente, Eddie strinse convulsamente il ricevitore. Poi tornò la voce maschile che gli aveva parlato all'inizio. «Ascolta at-
tentamente, Edward.» «No, ascoltami tu, stronzo» gridò Eddie. «Se le farai del male, ti ammazzerò, te lo giuro su Dio. Ti ritroverò a costo di metterci tutta la vita, delinquente, e ti staccherò la testa dal collo con le mie mani. Mi hai sentito forte e chiaro?» Ci fu un attimo di esitazione, come se l'uomo all'altro capo della linea non si fosse aspettato quella sfuriata. Poi disse: «Non fare il duro. Sei troppo lontano». Sembrava un po' impressionato, ma aveva ragione: Eddie non poteva fare nulla. L'uomo continuò: «Ascolta con attenzione». Eddie dovette fare uno sforzo per tacere. «Riceverai le istruzioni a bordo dell'aereo da un tale che si chiama Tom Luther.» A bordo dell'aereo! Cosa significava? Tom Luther sarebbe stato uno dei passeggeri o che altro? Eddie chiese: «Ma cosa vuoi che faccia?». «Stai zitto. Te lo dirà Luther. E farai bene a eseguire i suoi ordini alla lettera, se ci tieni a rivedere tua moglie.» «Come posso sapere...» «Un'altra cosa. Non avvertire la polizia. Non ti servirà a niente. Ma se la avverti, mi divertirò a sbatterla solo per farti dispetto.» «Bastardo, io ti...» La comunicazione si interruppe. 3 Harry Marks era l'uomo più fortunato del mondo. Sua madre glielo aveva sempre detto. Sebbene suo padre fosse morto durante la prima guerra mondiale, aveva la fortuna di una madre energica ed efficiente che l'aveva allevato. Lei si guadagnava da vivere facendo le pulizie negli uffici, e durante la Depressione non era mai rimasta senza lavoro. Abitavano in una casa popolare a Battersea, con un rubinetto dell'acqua fredda su ogni ballatoio e i gabinetti esterni; ma erano tra buoni vicini, gente che si aiutava a vicenda nei momenti di difficoltà. Harry aveva il dono di sottrarsi ai guai. Quando a scuola i ragazzi venivano battuti, la canna del maestro si rompeva prima che toccasse a lui. Harry poteva cadere sotto un carro a cavalli e quello gli passava sopra senza neppure sfiorarlo. A fare di lui un ladro era stata la passione per i gioielli. Quando era adolescente gli piaceva passeggiare per le ricche vie del West End piene di bei negozi e guardare le vetrine dei gioiellieri. Era in-
cantato dai diamanti e dalle pietre preziose che scintillavano sui plateau di velluto scuro nelle luci sfolgoranti. Gli piacevano perché erano belli, ma anche perché erano il simbolo di un genere di vita che aveva letto nei libri, una vita che si svolgeva nelle spaziose case di campagna con grandi prati verdi, dove ragazze carine che si chiamavano lady Penelope o Jessica Chumley giocavano a tennis tutto il pomeriggio e rientravano un po' ansanti per il tè. Aveva lavorato come apprendista presso un gioielliere, ma si sentiva annoiato e inquieto e aveva piantato tutto dopo sei mesi. Non c'era niente di affascinante nell'aggiustare i cinturini degli orologi e allargare le fedi nuziali delle casalinghe ingrassate. Ma aveva imparato a distinguere un rubino da un granato, una perla naturale da una coltivata, e un diamante moderno tagliato a brillante da uno dell'Ottocento. E aveva scoperto la differenza tra una montatura armoniosa e una brutta, fra un modello elegante e un'ostentazione priva di gusto; e la capacità di cogliere le differenze aveva acceso ancora di più la sua passione per i bei gioielli e il desiderio di vivere secondo lo stile che questa comportava. Alla fine aveva trovato il modo di realizzare entrambi i desideri servendosi di ragazze come Rebecca Maugham-Flint. Aveva conosciuto Rebecca ad Ascot. Spesso agganciava le ragazze ricche alle corse di cavalli. L'aria aperta e la folla gli permettevano di intrufolarsi fra due gruppi di giovani appassionati di corse in modo tale che ognuno pensava che facesse parte dell'altro gruppo. Rebecca era alta, con il naso grosso, orrendamente vestita con un abito di jersey pieno di gale e cappello alla Robin Hood con tanto di piuma. Nessuno dei giovani che le stavano attorno si occupava di lei, ed era stata riconoscente a Harry in modo addirittura patetico perché le aveva rivolto la parola. Harry non aveva cercato di approfondire subito la conoscenza perché era meglio non mostrarsi impaziente. Ma quando l'aveva incontrata di nuovo un mese dopo in una galleria d'arte, Rebecca l'aveva salutato come un vecchio amico e l'aveva presentato alla madre. Le ragazze come Rebecca non dovevano andare sole al cinema o al ristorante in compagnia di un giovanotto, naturalmente: questo lo facevano soltanto le commesse e le operaie. Quindi raccontavano sempre ai genitori che uscivano con una compagnia numerosa; e per essere più convincenti, in genere iniziavano la serata a un cocktail. Poi, con discrezione, se ne andavano a coppie. Per Harry era l'ideale: dato che non corteggiava ufficialmente Rebecca, i genitori di lei non ritenevano necessario informarsi sul
suo conto, e non mettevano in discussione le sue vaghe bugie a proposito di una casa di campagna nello Yorkshire, di una piccola scuola privata in Scozia, di una madre invalida che viveva nel Midi francese e della prospettiva di diventare ufficiale della Royal Air Force. Harry aveva scoperto che le bugie vaghe erano comuni nella buona società. Le raccontavano i giovani che non volevano confessare di essere poverissimi, o di avere genitori alcolizzati, o di provenire da famiglie disonorate da uno scandalo. Nessuno si preoccupava di fare accertamenti su un giovanotto fino a che non dimostrava un serio attaccamento per una ragazza di buona famiglia. In questo modo indefinito, Harry era andato in giro con Rebecca per tre settimane. Lei l'aveva fatto invitare per un weekend in una casa nel Kent, dove aveva giocato a cricket e rubato denaro agli ospiti, che non avevano osato segnalare il furto per timore di offendere i padroni di casa. Lo aveva condotto anche a diversi balli, dove lui aveva vuotato tasche e borsette. E quando aveva fatto visita ai genitori di Rebecca si era appropriato di piccole somme, di alcune posate d'argento e di tre interessanti spille vittoriane di cui la legittima proprietaria non aveva ancora scoperto la mancanza. Dal suo punto di vista, non c'era niente di immorale in ciò che faceva. Quelli che derubava non meritavano di essere ricchi. La maggior parte di loro non aveva lavorato neppure un giorno in tutta la vita. Quei pochi che avevano una specie di lavoro approfittavano delle amicizie fatte a scuola per assicurarsi sinecure strapagate: erano diplomatici, presidenti di grandi aziende, giudici o parlamentari conservatori. Derubarli era come ammazzare dei nazisti: un servizio di pubblica utilità, non un reato. Lo faceva da due anni, e si rendeva conto di non poter continuare in eterno. Il mondo della buona società inglese era vasto ma non illimitato, e prima o poi qualcuno lo avrebbe scoperto. La guerra era arrivata nel momento in cui era in cerca di un modo di vivere diverso. Non aveva però intenzione di arruolarsi come soldato semplice. Il vitto era pessimo, gli indumenti erano ruvidi e la disciplina militare non faceva per lui. Per giunta, la divisa color oliva lo faceva sembrare malato. L'azzurro dell'aviazione, invece, si intonava ai suoi occhi, e non faticava a vedersi come pilota. Perciò sarebbe diventato ufficiale della RAF. Non aveva ancora trovato il sistema, ma ci sarebbe riuscito: era troppo fortunato. Nel frattempo aveva deciso di servirsi di Rebecca per entrare in casa di qualche altro riccone, prima di scaricarla. E così incominciarono la serata a un ricevimento nella casa di Belgravia
di un ricco editore, sir Simon Monkford. Harry trascorse un po' di tempo con l'onorevole Lydia Moss, la figlia grassa di un conte scozzese. Goffa e sola, era proprio il tipo di ragazza che soccombeva più facilmente al suo fascino; Harry la incantò per una ventina di minuti, più o meno come faceva sempre. Poi parlò per un po' con Rebecca, per tenerla buona. E finalmente calcolò che fosse venuto il momento di agire. Si scusò e lasciò la sala. La festa si svolgeva nel grande salone doppio al primo piano. Mentre attraversava il pianerottolo e saliva la scala, percepì l'eccitante scarica di adrenalina che sentiva sempre quando stava per compiere un lavoretto. La consapevolezza di essere sul punto di derubare i padroni di casa e di correre il rischio di venire sorpreso con le mani nel sacco e smascherato come impostore lo riempiva di paura e di eccitazione. Arrivò al secondo piano e seguì il corridoio che portava verso la facciata della casa. La porta più lontana era probabilmente quella delle stanze da letto padronali, pensò. L'aprì e vide una grande stanza da letto con le tende a fiori e il copriletto rosa. Stava per entrare quando si aprì un'altra porta e una voce allarmata esclamò: «Ehi, dico!». Harry si voltò, mentre la sua tensione cresceva. Vide un uomo della sua età che usciva nel corridoio e lo guardava incuriosito. Come sempre, gli salirono alle labbra le parole giuste. «Ah, è lì?» chiese. «Come?» «È quello il gabinetto?» La faccia del giovane si schiarì. «Oh, capisco. È la porta verde, dall'altra parte del corridoio.» «Mille grazie.» «Non c'è di che.» Harry si avviò lungo il corridoio. «Bella casa» commentò. «Davvero.» L'uomo scese la scala e sparì. Harry sorrise soddisfatto. La gente era così credulona. Tornò indietro ed entrò nella camera da letto rosa. Come al solito era una suite, e la scelta dei colori indicava che quella era la stanza di lady Monkford. Un rapido controllo rivelò un piccolo spogliatoio, anche quello tutto rosa; una camera da letto adiacente, più piccola, con poltrone di pelle verde e carta da parati a righe; e accanto uno spogliatoio da uomo. Spesso i coniugi dell'alta società, aveva scoperto Harry, dormivano separati. Non aveva ancora capito se lo facevano perché erano meno libidinosi della
classe operaia, o perché si sentivano in dovere di utilizzare tutte le numerose stanze delle loro enormi case. Lo spogliatoio di sir Simon era arredato con un massiccio guardaroba di mogano e un comò intonato. Harry aprì il primo cassetto del comò. In un piccolo portagioie di cuoio c'era un assortimento di bottoni e rinforzi per colletti e gemelli, non in bell'ordine ma alla rinfusa. Era quasi tutta roba piuttosto comune, ma l'occhio esperto di Harry si posò su un delizioso paio di gemelli d'oro ornati di piccoli rubini. Se li mise in tasca. Accanto al portagioie c'era un portafogli di pelle morbida che conteneva una cinquantina di sterline in biglietti da cinque. Harry prese venti sterline e si congratulò con se stesso. Facile, pensò. La maggioranza della gente doveva sgobbare due mesi in una sudicia fabbrica per guadagnare quella somma. Non rubava mai tutto ciò che trovava. Il fatto di prendere solo qualcosa creava dei dubbi. I derubati pensavano di aver smarrito i gioielli o di aver contato male il denaro nel portafogli, perciò esitavano a denunciare il furto. Chiuse il cassetto e passò nella camera di lady Monkford. Provò l'impulso di andarsene subito con quello che aveva già preso, ma decise di rischiare ancora per qualche minuto. Di solito le donne avevano gioielli migliori di quelli dei mariti. Poteva darsi che lady Monkford avesse qualche zaffiro. A Harry gli zaffiri piacevano molto. Era una bella serata, e c'era una finestra aperta. Harry vide che dava su un balconcino con la balaustra di ferro battuto. Andò veloce nello spogliatoio e si sedette al tavolo da toilette. Aprì tutti i cassetti e trovò diversi portagioie. Cominciò a esaminarli in fretta mentre tendeva l'orecchio nel timore di sentire una porta che si apriva. Lady Monkford non aveva buon gusto. Era una donna graziosa ma dall'aria inefficiente; e aveva scelto gioielli vistosi piuttosto scadenti... o forse li aveva scelti il marito. Le perle erano male assortite, le spille erano troppo grandi e sgraziate, gli orecchini ingombranti e i braccialetti troppo appariscenti. Harry era deluso. Stava esitando davanti a un pendente quasi accettabile quando sentì aprire la porta della camera da letto. Rimase immobile, con lo stomaco contratto, e rifletté fulmineamente. L'unica porta che permetteva di uscire dallo spogliatoio comunicava con la stanza da letto. C'era una finestrella, ma era chiusa, e con ogni probabilità non sarebbe riuscito ad aprirla in fretta e senza far rumore. Si chiese se gli restava il tempo per nascondersi nel guardaroba.
Dal punto in cui si trovava non poteva vedere la porta della camera da letto. Sentì che veniva chiusa, poi ci fu un colpo di tosse femminile, un suono di passi leggeri sulla moquette. Si tese verso lo specchio e si accorse che così poteva vedere la stanza. Era lady Monkford, e si dirigeva proprio verso lo spogliatoio. Non c'era neppure il tempo per chiudere i cassetti. Harry aveva il cuore in gola. Era teso per la paura, ma si era trovato altre volte in situazioni del genere. Indugiò solo un attimo, s'impose di respirare in modo normale e di calmarsi. Poi si mosse. Si alzò, varcò la porta della camera da letto ed esclamò: «Ehi, dico!». Lady Monkford si fermò di colpo in mezzo alla stanza. Si portò la mano alla bocca e proruppe in un grido soffocato. Una tenda a fiorami sventolava nella brezza che entrava dalla finestra aperta. Per Harry fu un'ispirazione. «Ehi!» ripeté, assumendo un tono stupefatto. «Ho appena visto qualcuno saltare dalla finestra.» Lady Monkford ritrovò la voce. «Ma cosa sta dicendo? chiese. «E cosa fa nella mia camera da letto?» Harry continuò a recitare; raggiunse a grandi passi la finestra e si affacciò: «È sparito!». «Esigo una spiegazione!» Harry trasse un respiro profondo, come se riordinasse i suoi pensieri. Lady Monkford era sulla quarantina, con l'aria un po' svampita, avvolta in un abito di seta verde. Con lei poteva cavarsela, se non perdeva la testa. Le rivolse un sorriso accattivante, si calò nei panni di uno studente un po' cresciuto cordiale e giocatore di rugby... un tipo che doveva esserle familiare... e cominciò a incantarla. «È la cosa più strana che abbia mai visto» disse. «Ero nel corridoio quando un tipo dall'aspetto singolare ha sbirciato da questa stanza. Appena mi ha visto, si è affrettato a rientrare. Sapevo che era la sua camera da letto perché avevo aperto la porta poco prima, quando cercavo il bagno. Mi sono chiesto cosa avesse in mente quel tale... non aveva l'aria del servitore e di certo non era un invitato. Sono entrato per interrogarlo, ma quando ho aperto la porta è saltato dalla finestra.» Poi, per spiegare i cassetti aperti della toilette, soggiunse: «Ho appena guardato nel suo spogliatoio, e purtroppo non c'è dubbio: era venuto per rubare i gioielli». Geniale, si disse ammirato; dovrei recitare nei radiodrammi. Lady Monkford si portò la mano alla fronte. «Oh, che cosa spaventosa» mormorò con un filo di voce.
«Sarà meglio che si sieda» suggerì premurosamente Harry, e l'aiutò ad accomodarsi su una seggiolina rosa. «Incredibile!» esclamò lei. «Se non l'avesse messo in fuga, l'avrei trovato qui dentro! Credo che perderò i sensi.» Strinse con forza la mano di Harry. «Le sono molto grata.» Harry represse un sogghigno. Ancora una volta gli era andata bene. Poi rifletté. Non voleva che lady Monkford sollevasse troppo trambusto. L'ideale sarebbe stato che non dicesse nulla. «Senta, non racconti a Rebecca cos'è successo, la prego» le raccomandò come prima misura. «È così impressionabile, e un fatto del genere la deprimerebbe per settimane.» «Deprimerà anche me» disse lady Monkford. «Per settimane!» Era troppo agitata per pensare che Rebecca, muscolosa ed energica, non era affatto un tipo impressionabile. «Forse dovrebbe chiamare la polizia e tutto il resto, ma rovinerebbe la festa» continuò Harry. «Oh, povera me... sarebbe davvero terribile. È proprio necessario che la chiamiamo?» «Ecco...» Harry mascherò la soddisfazione. «Molto dipende da quello che ha portato via il ladro. Perché non dà un'occhiata?» «Oh, santo cielo, sì, sarà meglio.» Harry le strinse la mano per farle coraggio e l'aiutò ad alzarsi. Entrarono nello spogliatoio. Lady Monkford soffocò un grido quando vide tutti i cassetti aperti. Harry l'aiutò a sedersi, e lei cominciò a controllare i gioielli. Dopo un po' disse: «Non credo che possa aver portato via molto». «Forse l'ho sorpreso prima che avesse il tempo di cominciare» disse Harry. Lady Monkford continuò a frugare tra collane, braccialetti e spille. «Penso proprio di sì» disse. «Lei è una persona meravigliosa.» «Se non le ha rubato nulla, non è necessario che lei racconti a nessuno quanto è accaduto.» «A parte sir Simon, naturalmente.» «Naturalmente» rispose Harry, anche se aveva sperato che le cose andassero in modo diverso. «Potrebbe dirglielo al termine della festa. Così almeno non gli rovinerà la serata.» «È un'ottima idea» dichiarò lei, riconoscente. Così andava bene. Harry si sentì sollevato. Decise di andarsene finché era in vantaggio. «Sarà meglio che scenda» disse. «La lascio qui a riprendere fiato.» Si chinò rapido e le baciò la guancia. Colta di sorpresa, lei ar-
rossì e Harry le bisbigliò all'orecchio: «È una donna straordinariamente coraggiosa». Poi uscì. Le donne di mezza età si lasciavano incantare ancora più facilmente delle figlie, pensò Harry. Quando fu nel corridoio vuoto si vide in uno specchio. Si fermò per aggiustarsi la cravatta a farfalla e sorrise trionfante alla propria immagine. «Sei un vero diavolo, Harold» mormorò. La festa stava per concludersi. Quando rientrò nel salone, Rebecca gli chiese in tono irritato: «Dov'eri finito?». «Parlavo con la padrona di casa» rispose lui. «Scusami. Vogliamo andare?» E lasciò la casa con i gemelli del proprietario e venti sterline in tasca. Presero un taxi in Belgrave Square e si fecero portare a un ristorante di Piccadilly. Harry amava i buoni ristoranti: i tovaglioli immacolati, i bicchieri scintillanti, i menu in francese e la deferenza dei camerieri gli davano una profonda sensazione di benessere. Suo padre non aveva mai messo piede in un luogo del genere; forse sua madre, c'era entrata per fare le pulizie. Ordinò una bottiglia di champagne dopo aver consultato con attenzione la lista dei vini. Scelse un'annata che sapeva essere buona ma non rara, perché il prezzo non fosse eccessivo. Quando aveva cominciato ad accompagnare le ragazze nei ristoranti aveva commesso qualche errore; ma imparava in fretta. Un trucco molto utile era stato quello di lasciare chiuso il menu e chiedere: «Vorrei una sogliola, ne avete?». Il cameriere apriva il menu e gli indicava dove era scritto Sole meunière, Les goujons de sole avec sauce tartare, Sole grillée; e quando lo vedeva esitare, finiva per suggerire: «I goujons sono ottimi, signore». Harry aveva imparato rapidamente i nomi francesi dei piatti principali. Aveva notato, inoltre, che i frequentatori abituali chiedevano al cameriere cos'era questo o quel piatto: per gli inglesi ricchi non era obbligatorio conoscere il francese. Così aveva preso l'abitudine di chiedere spiegazioni ogni volta che mangiava in un ristorante di lusso, e adesso sapeva consultare un menu meglio della maggior parte dei giovani ricchi della sua età. Nemmeno il vino era un problema. I sommelier erano sempre lusingati quando si sentivano chiedere un consiglio, e non si aspettavano che un giovane conoscesse tutti gli châteaux e le communes e le diverse annate. Nei ristoranti, come nella vita, tutto stava nel mostrarsi a proprio agio, soprattutto quando non lo si era. Lo champagne che aveva scelto era buono; ma quella sera non era dell'umore giusto e ben presto si rese conto che il problema era Rebecca. Con-
tinuava a pensare che sarebbe stato magnifico accompagnare una ragazza davvero carina in un locale come quello. Ma usciva sempre con ragazze poco attraenti: bruttine, grasse, foruncolose, sciocche. Era facile fare la loro conoscenza; poi, quando restavano incantate, erano disposte a valutarlo dall'apparenza ed esitavano a fargli domande per paura di perderlo. Era una strategia ineguagliabile per entrare nelle case dei ricchi. Il guaio era che passava tutto il suo tempo in compagnia di ragazze che non gli piacevano. Un giorno, forse... Quella sera Rebecca era imbronciata. Scontenta per qualche cosa. Forse, dopo aver frequentato regolarmente Harry per tre settimane, si domandava come mai lui non avesse ancora cercato di "spingersi troppo in là", vale a dire di toccarle il seno. Per la verità, non riusciva a fingere di desiderarla. Era capace di incantarla, di essere romantico, di farla ridere e farsi amare da lei. Ma non riusciva a desiderarla. In un'occasione molto spiacevole si era trovato in un fienile con una ragazza magrissima e depressa, decisa a perdere la verginità, e aveva cercato di impegnarsi. Ma il suo corpo aveva rifiutato di collaborare, e ancora adesso fremeva per l'imbarazzo ogni volta che gli veniva in mente. Le sue esperienze sessuali erano limitate soprattutto a ragazze della sua classe sociale; e non si era mai trattato di relazioni durature. Aveva avuto un solo amore davvero soddisfacente. A diciotto anni era stato adescato spudoratamente in Bond Street da una donna molto più matura, moglie annoiata di un avvocato troppo indaffarato, ed erano stati amanti per due anni. Da lei aveva imparato molto: sui modi di far l'amore, che lei gli aveva insegnato con entusiasmo, sul comportamento della buona società, che aveva assimilato senza dare nell'occhio, e sulla poesia, che leggevano e discutevano insieme mentre erano a letto. Harry le si era affezionato sinceramente. Lei aveva troncato di colpo la relazione quando il marito aveva scoperto che aveva un amante, anche se non aveva mai saputo chi fosse. Da quel giorno, Harry li aveva visti diverse volte: la donna lo guardava come se non esistesse. Gli sembrava una crudeltà. Per lui aveva significato parecchio, e gli era sembrato che gli volesse bene. Quella di lei era forza di volontà o indifferenza? Molto probabilmente non l'avrebbe mai scoperto. Lo champagne e l'ottima cena non riuscivano a sollevare il morale di Harry e di Rebecca. Lui cominciava a sentirsi irrequieto. Aveva già deciso di scaricarla elegantemente dopo quella sera: ma adesso non sopportava neppure l'idea di restare con lei poche ore. Rimpiangeva di dover sprecare denaro per quella cena. Guardò il viso risentito, senza ombra di trucco,
schiacciato sotto un ridicolo cappellino piumato, e sentì di odiarla. Quando finirono il dessert, ordinò il caffè e andò in bagno. Il guardaroba era a fianco del bagno degli uomini, accanto all'uscita, e non era visibile dal loro tavolo. Harry cedette a un impulso irresistibile. Ritirò il cappello, diede la mancia alla guardarobiera e uscì dal ristorante. La serata era mite. Era molto buio a causa dell'oscuramento, ma Harry conosceva bene il West End, e poteva orientarsi con i semafori e le luci da città delle macchine. Si sentiva come se fosse appena uscito dalla scuola. Si era sbarazzato di Rebecca, aveva risparmiato sette o otto sterline e si era preso una serata di libertà, tutto grazie a un'ispirazione. Il governo aveva ordinato la chiusura di teatri, cinema e sale da ballo «in attesa che fosse possibile giudicare l'entità dell'attacco tedesco contro la Gran Bretagna» dicevano. Ma i night-club prosperavano da sempre ai margini della legge; e ce n'erano ancora parecchi aperti, se si sapeva dove cercarli. Poco dopo Harry era comodamente seduto a un tavolo di una cantina di Soho, a bere whisky, ascoltare una jazz band americana di prim'ordine, e a gingillarsi con l'idea di fare un tentativo con la ragazza delle sigarette. Ci stava ancora pensando quando era entrato il fratello di Rebecca. L'indomani mattina era seduto in una cella nei sotterranei del tribunale. Era depresso e in preda ai rimorsi, e attendeva di essere condotto davanti ai magistrati. Si era cacciato in un guaio serio. Uscire in quel modo dal ristorante era stata una maledetta stupidaggine. Rebecca non era tipo da ingoiare l'offesa e pagare il conto con discrezione. Aveva fatto una scenata, il direttore aveva telefonato alla polizia, era intervenuta la famiglia. .. Proprio il tipo di chiassata che di regola Harry cercava scrupolosamente di evitare. Ma anche così sarebbe riuscito a cavarsela, se non avesse avuto la sfortuna incredibile di imbattersi nel fratello di Rebecca un paio d'ore più tardi. Era in una grande cella con altri quindici o venti arrestati che dovevano essere giudicati quella mattina. Non c'erano finestre e l'aria era satura di fumo di sigaretta. Harry non sarebbe stato processato quel giorno: avrebbe avuto un'udienza preliminare. Alla fine l'avrebbero riconosciuto colpevole, naturalmente. Le prove a suo carico erano incontestabili. Il capocameriere avrebbe confermato le dichiarazioni di Rebecca, e sir Simon Monkford avrebbe riconosciuto i suoi gemelli. Ma c'era di peggio. Harry era stato interrogato da un ispettore del
Criminal Intelligence Department che portava l'uniforme da detective: un pratico abito di saia, una semplice camicia bianca con cravatta nera, panciotto senza catena d'orologio e stivaletti consumati ma lucidissimi: il tipico poliziotto esperto, con la mente sveglia e i modi diffidenti. Aveva detto: «Negli ultimi due o tre anni abbiamo ricevuto strane segnalazioni da parte di famiglie ricche, a proposito di gioielli perduti. Non rubati, sia chiaro: perduti. Braccialetti, orecchini, pendenti, bottoni da camicia... Chi li ha persi è sicuro che non possono essere stati rubati perché le uniche persone che avrebbero avuto la possibilità di impadronirsene erano gli ospiti. La sola ragione per cui ne denunciavano la scomparsa era che volevano poterli reclamare se mai fossero saltati fuori». Harry aveva tenuto la bocca chiusa per tutto il colloquio, ma si era sentito assalire dal malessere. Aveva avuto la certezza che fino a quel giorno le sue imprese fossero passate del tutto inosservate. Era sconvolto dalla scoperta che era vero il contrario: da qualche tempo lo tenevano d'occhio. Il detective aveva aperto un dossier voluminoso. «Il conte di Dorset, una bomboniera d'argento georgiana e una tabacchiera laccata, anche quella del periodo georgiano. La signora Jaspers, un braccialetto di perle di Tiffany con fermaglio di rubini. La contessa di Malvoli, un pendente di diamanti art déco montato su catena d'argento. Il ladro ha buon gusto.» Il detective aveva fissato i bottoni di diamanti della camicia di Harry. Harry si rese conto che il fascicolo doveva contenere i dettagli di dozzine di furti commessi da lui. E sapeva che avrebbe finito per essere riconosciuto colpevole di almeno alcuni di quei reati. Il detective era furbo: aveva collegato tutti i fatti fondamentali e poteva trovare facilmente dei testimoni pronti ad affermare che Harry era stato ogni volta sul posto al momento del furto. Prima o poi avrebbero perquisito il suo alloggio e la casa di sua madre. Quasi tutti i gioielli erano stati venduti a ricettatori, ma ne aveva tenuti alcuni: i bottoni della camicia che il detective aveva notato erano stati sottratti a un ubriaco addormentato durante un ballo in Grosvenor Square, e sua madre aveva una spilla che lui aveva fatto abilmente sparire dalla scollatura di una contessa a un ricevimento di nozze in un giardino del Surrey. E poi, cosa avrebbe potuto rispondere quando gli avessero chiesto come si manteneva? Sarebbe finito in carcere per molto tempo. E quando ne fosse uscito l'avrebbero arruolato nell'esercito, il che era più o meno la stessa cosa. Il solo pensiero gli gelava il sangue. Aveva rifiutato con fermezza di parlare perfino quando il detective l'a-
veva preso per il bavero dello smoking e l'aveva sbattuto contro il muro. Ma il silenzio non l'avrebbe salvato. La legge aveva il tempo dalla sua parte. Harry aveva un'unica speranza di salvezza. Doveva convincere i magistrati a concedergli la libertà su cauzione, e poi sparire. D'un tratto agognava la libertà come se fosse in carcere da anni anziché da poche ore. Non sarebbe stato semplice scomparire: ma l'alternativa gli dava i brividi. Mentre derubava i ricchi si era abituato al loro tenore di vita. Si alzava tardi, beveva il caffè in una tazzina di porcellana, portava abiti di ottimo taglio e mangiava nei ristoranti di lusso. Si divertiva sempre a tornare alle radici, a bere al pub con i vecchi amici o ad accompagnare sua madre all'Odeon. Ma il pensiero del carcere era insopportabile: gli indumenti sporchi, il vitto schifoso, la mancanza totale di intimità e, soprattutto, la noia schiacciante di un'esistenza priva di scopo. Con un fremito di ribrezzo si concentrò sul problema della libertà su cauzione. La polizia si sarebbe opposta, ovviamente; tuttavia sarebbero stati i magistrati a decidere. Harry non era mai comparso in tribunale, ma nella strada da cui proveniva tutti sapevano queste cose, come sapevano chi poteva ottenere l'assegnazione di una casa popolare e come si spazzavano i camini. La libertà su cauzione veniva rifiutata automaticamente soltanto nei processi per omicidio; altrimenti stava alla discrezione dei giudici. Di norma accoglievano le richieste della polizia, ma non sempre. A volte si lasciavano convincere da un abile avvocato o da un imputato che raccontava una storia commovente su un figlioletto malato. A volte, se il rappresentante della polizia era un po' troppo arrogante, i giudici la concedevano giusto per affermare la loro indipendenza. Avrebbe dovuto depositare una somma, probabilmente venticinque o cinquanta sterline; ma questo non era un problema. Aveva molto denaro. Gli era stato permesso di fare una telefonata, e aveva parlato con il giornalaio all'angolo della strada dove abitava sua madre. Aveva chiesto a Bernie, il padrone, di mandare uno degli strilloni a chiamarla. Quando finalmente sua madre era venuta all'apparecchio le aveva spiegato dove avrebbe trovato il suo denaro. «Mi daranno la libertà su cauzione» le aveva detto baldanzoso. «Lo so, figliolo» aveva risposto lei. «Sei sempre stato fortunato.» Ma se non fosse stato così... Mi sono tirato fuori altre volte da situazioni difficili, si disse allegramen-
te. Ma non difficili fino a quel punto. Un agente chiamò: «Marks!». Harry si alzò. Non si era preparato su ciò che avrebbe detto. Era un improvvisatore nato. Ma per una volta si pentì di non averlo fatto. Togliamoci il pensiero, si disse innervosito. Si abbottonò la giacca, si assestò la cravatta a farfalla e sistemò il fazzoletto di lino bianco nel taschino. Si passò una mano sulle guance e si rammaricò che non gli avessero permesso di radersi. All'ultimo momento gli venne in mente un embrione di storia; si tolse i gemelli dai polsini e li mise in tasca. Il cancello si aprì e Harry uscì. Lo condussero su per una scala di cemento e si ritrovò sul banco degli imputati al centro dell'aula. Davanti a lui c'erano i banchi degli avvocati, tutti vuoti; il cancelliere, che era un avvocato, era al suo posto; e c'erano tre giudici non professionisti. Harry pensò: Cristo, spero che questi bastardi mi lascino andare. Nella tribuna della stampa, da una parte, c'era un giovane cronista armato di taccuino. Harry si voltò verso il fondo dell'aula. Nei posti riservati al pubblico c'era sua madre, con la giacca più bella e un cappellino nuovo. Si batté la mano sulla tasca con un gesto eloquente, e Harry lo interpretò come il segnale che aveva con sé il denaro per la cauzione. Con orrore vide che portava la spilla rubata alla contessa di Eyer. Tornò a voltarsi e si afferrò alla ringhiera per impedire alle mani di tremare. Il rappresentante dell'accusa, un ispettore di polizia calvo e col naso grosso, stava dicendo: «Numero tre nell'elenco, eccellenze: furto di venti sterline in contanti e un paio di gemelli d'oro del valore di quindici ghinee, appartenenti a sir Simon Monkford; inoltre, insolvenza fraudolenta ai danni del ristorante Saint Raphael in Piccadilly. La polizia chiede che l'imputato non sia rimesso in libertà perché stiamo indagando su altri reati relativi a somme cospicue». Harry studiava con attenzione i giudici. Da un lato c'era un vecchio un po' originale con le basette bianche e il colletto duro, dall'altro un tipo dall'aria militare, con la cravatta del reggimento; entrambi lo squadravano con disprezzo; probabilmente credevano che quanti comparivano davanti a loro fossero per forza colpevoli di qualche cosa. Per un momento si senti disperato; poi si disse che l'ottuso pregiudizio poteva trasformarsi facilmente in una credulità altrettanto ottusa. Era meglio che quelli non fossero troppo svegli, se doveva infinocchiarli. Il presidente, seduto al centro, era l'unico
che contasse davvero. Era un uomo di mezza età con i baffi grigi e l'abito grigio, e la sua aria un po' stanca faceva pensare che nella sua vita avesse sentito più frottole e scuse plausibili di quante fosse disposto a ricordare. Era l'unico da tenere d'occhio, pensò ansiosamente Harry. Il presidente gli rivolse la parola: «Chiede la libertà su cauzione?». Harry si finse confuso. «Oh! Santo cielo! Credo di sì. Sì... sì, certo.» I tre giudici trasalirono e divennero più attenti nel sentire l'accento aristocratico. Harry si rallegrò per quell'effetto. Era molto fiero della sua capacità di confondere le aspettative degli altri. La reazione dei giudici gli diede coraggio. Posso imbrogliarli, si disse. Ci scommetto. Il presidente chiese: «Be', cos'ha da dire a sua difesa?». Harry ne ascoltò con attenzione l'accento e cercò di identificare con precisione la classe sociale. Concluse che apparteneva al ceto medio e che aveva studiato: forse era un farmacista o un direttore di banca. Doveva essere intelligente, ma doveva anche avere l'abitudine alla deferenza verso le classi superiori alla sua. Harry assunse un'espressione d'imbarazzo e adottò il tono di uno studentello che si rivolge al preside. «Purtroppo c'è stata una confusione terribile, signore» esordì. L'interesse dei giudici crebbe ulteriormente. Si agitarono sulle sedie e si sporsero incuriositi verso di lui. Non erano davanti a un caso come gli altri, lo capivano benissimo, ed erano riconoscenti per quella variante alla solita noia. Harry continuò: «Per essere sincero, ieri qualcuno ha bevuto troppo porto al Carlton Club, e questa è stata la causa di tutto». Tacque come se non avesse altro da aggiungere e guardò i giudici con espressione di attesa. Quello con l'aria del militare disse: «Il Carlton Club!». Dalla sua espressione si capiva che non gli succedeva spesso di trovarsi di fronte in quell'aula un socio dell'augusta istituzione. Harry si domandò se non aveva ecceduto. Forse avrebbero rifiutato di credere che fosse iscritto al club. Si affrettò a continuare: «È spaventosamente imbarazzante, ma andrò subito a scusarmi con tutti gli interessati e a chiarire la situazione...». Poi finse di ricordare all'improvviso che era ancora in abito da sera. «Cioè, non appena mi sarò cambiato.» Il vecchio originale chiese: «Vuol dire che non aveva intenzione di prendere venti sterline e un paio di gemelli?». Il tono era incredulo; ma era un buon segno il fatto che gli rivolgessero qualche domanda. Significava che non respingevano a priori la sua versione. Se non avessero creduto una sola parola di ciò che diceva non si sareb-
bero degnati di contestargli i particolari. Si sentì sollevato: forse avrebbe ottenuto la libertà! «Ho preso a prestito i gemelli...» disse. «Ero uscito senza i miei.» Tese le braccia per mostrare i polsini sbottonati della camicia che spuntavano dalle maniche della giacca. I gemelli li aveva in tasca. Il vecchio chiese: «E le venti sterline?». Era una domanda più imbarazzante, e Harry se ne rendeva conto. Non gli venne in mente una scusa plausibile. Poteva capitare di dimenticare i gemelli e di prendere a prestito con molta disinvoltura quelli di un altro: ma prendere a prestito del denaro senza permesso equivaleva a rubare. Era sull'orlo del panico quando ebbe un'altra ispirazione. «Credo che sir Simon si sia sbagliato a proposito della somma che aveva nel portafogli.» Harry abbassò la voce, come per confidare ai giudici qualcosa che la gente comune presente in aula non doveva sentire: «È spaventosamente ricco, signore». Il presidente commentò: «Non è certo diventato ricco dimenticando quanti soldi ha». Fra il pubblico ci fu qualche risata. Poteva essere un segno incoraggiante, ma il presidente non sorrise. Non aveva voluto fare lo spiritoso. È un direttore di banca, pensò Harry: per lui il denaro non è una cosa su cui scherzare. Il magistrato continuò: «E perché non ha pagato il conto al ristorante?». «Ecco... vede... mi dispiace terribilmente. Avevo avuto un litigio terribile con la mia... la mia commensale.» Harry si astenne ostentatamente dal dire con chi stava cenando: era di cattivo gusto, fra la gente bene, sbandierare il nome di una signora, e i giudici dovevano saperlo. «Purtroppo mi sono precipitato fuori e ho dimenticato il conto.» Il presidente lo squadrò duramente da sopra gli occhiali. Harry si accorse di aver commesso un errore. Provò una stretta al cuore. Che cosa aveva detto? Poi capì: aveva dimostrato un atteggiamento noncurante nei confronti di un debito. Era del tutto normale nella buona società, ma era un peccato mortale per un direttore di banca. Fu assalito dal panico e comprese che stava per rovinare tutto per un piccolo errore di valutazione. Si affrettò a dichiarare: «È stato spaventosamente irresponsabile da parte mia, signore, e all'ora di pranzo andrò a sistemare tutto, è ovvio. Cioè, se mi lascerà libero». Non riusciva a capire se il presidente si era ammorbidito o no. «Pertanto lei afferma che quando avrà dato spiegazioni, le denunce a suo carico verranno probabilmente ritirate?»
Harry decise che doveva evitare di sfoggiare una risposta pronta per ogni domanda. Chinò la testa con aria impacciata. «Immagino che verrei trattato come merito, se rifiutassero di ritirare le denunce.» «Probabilmente sì» confermò il presidente in tono severo. Vecchio stronzo pomposo, pensò Harry; ma sapeva che quel rimbrotto, per quanto umiliante, gli era utile. Più lo rimproveravano e più era improbabile che lo rimandassero in carcere. «Ha altro da dire?» chiese il presidente. Harry rispose a voce bassa: «Soltanto che mi vergogno terribilmente, signore». «Uhm.» Il presidente borbottò con fare scettico, ma il militare annuì in segno di approvazione. Per un po' i tre giudici conferirono sottovoce. Dopo qualche istante Harry si accorse di trattenere il fiato e si costrinse a respirare. L'idea che il suo futuro fosse nelle mani di quei vecchi stupidi era insopportabile. Avrebbe voluto che si affrettassero a decidere; ma poi, quando li vide annuire all'unisono, si augurò che procrastinassero quel momento terribile. Il presidente alzò la testa. «Spero che una notte in guardina le sia servita di lezione» disse. Oh, Dio, allora ha intenzione di lasciarmi andare, pensò Harry. Deglutì e dichiarò: «Assolutamente, signore. Non voglio più tornarci, mai più». «Allora si comporti di conseguenza.» Ci fu un altro silenzio, poi il presidente distolse gli occhi da Harry e si guardò intorno. «Non dico che crediamo a tutto ciò che abbiamo ascoltato, ma pensiamo che non sia il caso di confermare l'arresto.» Harry, sopraffatto dal sollievo, si sentì mancare le ginocchia. Il presidente aggiunse: «Il processo avrà luogo fra sette giorni. La cauzione è fissata a cinquanta sterline». Harry era libero. Vedeva le strade con occhi nuovi, come se fosse stato in carcere per un anno anziché per poche ore. Londra si stava preparando per la guerra. Dozzine di enormi, argentei palloni frenati si libravano nel cielo per ostacolare gli aerei tedeschi. I negozi e gli edifici pubblici erano circondati da barriere di sacchetti di sabbia per proteggerli dai bombardamenti. C'erano nuovi rifugi antiaerei nei parchi, la gente andava in giro con la maschera antigas. Tutti erano convinti di poter essere annientati da un momento all'altro, e questo li spingeva ad abbandonare la riservatezza e a parlare cor-
tesemente con gli sconosciuti. Harry non ricordava la Grande Guerra: aveva appena due anni quando era finita. Da bambino aveva creduto che "la guerra" fosse un posto perché tutti gli dicevano: «Tuo padre è morto in guerra» come dicevano: «Va' a giocare nel parco, non cadere nel fiume, la mamma va al pub». Più tardi, quando era diventato abbastanza grande per capire che cosa aveva perduto, aveva sofferto nel sentir parlare della guerra. Con Marjorie, la moglie dell'avvocato che era stata la sua amante per due anni, aveva letto le poesie sulla Grande Guerra, e per un po' si era proclamato pacifista. Poi aveva visto le Camicie Nere che marciavano per le vie di Londra e le facce impaurite dei vecchi ebrei presenti e aveva concluso che certe guerre andavano combattute. Negli ultimi anni aveva provato disgusto per il modo in cui il governo britannico fingeva di non vedere ciò che succedeva in Germania, solo perché sperava che Hitler annientasse l'Unione Sovietica. Ma adesso che la guerra era scoppiata, pensava soltanto a tutti i bambini che, come lui, sarebbero cresciuti con un vuoto nella vita, un vuoto lasciato dalla perdita del padre. Ma i bombardieri non erano ancora venuti ed era un'altra bella giornata di sole. Decise di non andare a casa. I poliziotti dovevano essere irritati perché aveva ottenuto la libertà su cauzione e avrebbero cercato di arrestarlo di nuovo alla prima occasione. Era meglio restare nell'ombra per un po'. Non voleva tornare in carcere. Ma per quanto tempo avrebbe dovuto guardarsi continuamente alle spalle? Sarebbe riuscito a sfuggire per sempre alla polizia? Cosa doveva fare per evitare tutto ciò? Salì sull'autobus con sua madre. Per il momento sarebbe andato a casa di lei, a Battersea. Sua madre aveva l'aria triste. Conosceva il tipo di esistenza che lui conduceva, anche se non ne avevano mai parlato. Disse con aria pensierosa: «Non ho potuto darti niente». «Mi hai dato tutto» protestò lui. «No, non è vero. Altrimenti non avresti avuto bisogno di rubare.» Harry non rispose. Quando scesero dall'autobus, Harry andò dal giornalaio all'angolo, ringraziò Bernie perché aveva chiamato sua madre al telefono e comprò il "Daily Express". Il titolo diceva: I POLACCHI BOMBARDANO BERLINO. Quando uscì, vide un poliziotto che passava in bicicletta e per un attimo fu preso dal panico. Stava per scappare quando si dominò e ricordò
che per gli arresti mandavano sempre due agenti. Non posso vivere in questo modo, pensò. Raggiunse la casa di sua madre e salì la scala di pietra fino al quarto piano. Lei mise sul fuoco il bollitore per il tè e disse: «Ti ho stirato l'abito blu... puoi cambiarti». Continuava ad aver cura dei suoi vestiti: attaccava i bottoni e rammendava i calzini di seta. Harry andò in camera, tirò fuori la borsa da sotto il letto e contò il denaro. Dopo due anni di furti aveva duecentoquarantasette sterline. Devo averne rubate quattro volte tanto, pensò. Chissà come ho speso il resto? Aveva anche un passaporto americano. Lo sfogliò con aria pensierosa. Ricordava di averlo trovato in uno scrittoio nella casa di un diplomatico a Kensington. Aveva notato che il nome del titolare era Harold e che la foto gli somigliava un po', perciò l'aveva intascato. America, pensò. Sapeva imitare l'accento americano. Anzi, sapeva una cosa che quasi tutti i britannici ignoravano: c'erano diversi accenti americani, alcuni più raffinati degli altri. Bastava prendere la parola Boston. Quelli di Boston dicevano Boston, quelli di New York dicevano Bawston. Più avevi l'accento inglese, in America, e più eri aristocratico. E c'erano milioni di ricche ragazze americane che attendevano soltanto di essere conquistate. In Gran Bretagna, invece, non c'erano per lui che la galera e l'arruolamento. Aveva un passaporto e una discreta somma. Aveva un abito pulito nell'armadio della madre, e poteva comprare qualche camicia e una valigia. Era a centodieci chilometri da Southampton. Poteva andarsene quel giorno stesso. Sembrava un sogno. Sua madre lo riportò alla realtà chiamandolo dalla cucina: «Harry... vuoi un panino alla pancetta?». «Sì, grazie.» Andò in cucina e si sedette a tavola. Sua madre gli mise davanti un panino, ma lui non lo prese. «Andiamo in America!» disse. Lei scoppiò a ridere. «Io? In America? Figurati!» «Parlo sul serio. Io ci vado.» Sua madre assunse un'espressione molto seria. «Non fa per me, figliolo. Sono troppo vecchia per emigrare.» «Ma c'è la guerra.»
«Sono vissuta qui durante una guerra, uno sciopero generale e una Depressione.» Lei girò lo sguardo sulla cucinetta. «Non è molto, ma non conosco nient'altro.» Harry non si aspettava veramente che sua madre acconsentisse; ma ora che aveva rifiutato si sentiva depresso. Non aveva altro che lei al mondo. «Cosa farai in America?» gli domandò. «Hai paura che rubi?» «Finisce sempre allo stesso modo. Non ho mai saputo d'un ladro che prima o poi non venisse preso.» Harry disse: «Mi piacerebbe arruolarmi in aviazione e imparare a volare». «Te lo lascerebbero fare?» «In America nessuno fa storie se sei un operaio, purché tu abbia l'intelligenza.» Sua madre s'illuminò. Si sedette e bevve il tè mentre Harry mangiava il panino. Quando ebbe finito, tirò fuori il denaro e contò cinquanta sterline. «A cosa servono?» chiese lei. Per guadagnare una somma simile doveva lavorare due anni a pulire gli uffici. «Ti faranno comodo» rispose Harry. «Prendili. Ci tengo.» Lei prese il denaro. «Allora parti davvero?» «Mi farò prestare la moto di Sid Brennan, andrò a Southampton oggi stesso e mi imbarcherò.» Sua madre gli strinse la mano attraverso la tavola. «Buona fortuna, figliolo.» «Ti manderò altri soldi dall'America» promise Harry. «Non è necessario, a meno che tu non ne abbia da buttare. Preferirei che mi scrivessi ogni tanto, così saprò come te la cavi.» «Ti scriverò certamente.» Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. «Un giorno tornerai a trovare la tua vecchia mamma, vero?» Harry le strinse forte la mano. «Sì, mamma. Tornerò.» Harry si guardò nello specchio del barbiere. L'abito blu, che gli era costato tredici sterline in Savile Row, gli stava alla perfezione e si intonava ai suoi occhi azzurri. Il colletto floscio della camicia nuova aveva un'aria molto americana. Il barbiere gli spazzolò le spalle imbottite della giacca doppiopetto, Harry gli diede la mancia e uscì. Salì la scala di marmo del seminterrato e uscì nell'elegante atrio del
South-Western Hotel, affollato di gente. Era il punto di partenza per gran parte delle traversate transatlantiche, e migliaia di persone stavano cercando di abbandonare l'Inghilterra. Harry lo aveva scoperto quando aveva cercato un posto. Tutti i piroscafi erano prenotati per settimane. Alcune società di navigazione avevano chiuso gli uffici perché i dipendenti non perdessero tempo a mandar via la gente. Per un po' era sembrato impossibile. Harry stava per arrendersi e incominciare a prendere in considerazione qualche altro piano, quando un agente di viaggi aveva accennato al Clipper della Pan Am. Aveva letto gli articoli sui giornali. Il servizio era iniziato in estate. Si poteva volare a New York in meno di trenta ore, invece di impiegare quattro o cinque giorni con una nave. Ma il biglietto di sola andata costava novanta sterline. Novanta sterline! Con quella somma si poteva quasi comprare una macchina nuova. Harry aveva speso quel denaro. Era una pazzia: ma ormai aveva deciso di partire ed era pronto a pagare qualunque cifra pur di lasciare il Paese. E l'aereo era di un lusso allettante: avrebbe bevuto champagne fino all'arrivo a New York. Era appunto il genere di spesa folle che Harry adorava. Adesso non trasaliva più ogni volta che vedeva un poliziotto; a Southampton non potevano sapere nulla di lui. Ma non aveva mai volato e si sentiva piuttosto nervoso. Consultò l'orologio, un Patek Philippe rubato a uno scudiero reale. Aveva il tempo per bere una tazza di caffè che gli avrebbe messo a posto lo stomaco. Si diresse al bar. Stava bevendo il caffè quando entrò una donna straordinariamente bella. Era una bionda perfetta, e portava un abito attillatissimo in vita, di seta color panna a pois arancioni. Aveva passato da poco la trentina, quindi aveva circa dieci anni più di lui; ma questo non gli impedì di sorriderle quando i loro occhi si incontrarono. La donna si sedette al tavolo accanto, un po' di sbieco rispetto a Harry; e lui studiò con attenzione il modo in cui la seta a pois le fasciava il seno e le drappeggiava le ginocchia. Aveva scarpe color panna e un cappello di paglia. Posò sul tavolo una piccola borsetta. Dopo un po' fu raggiunta da un uomo in giacca sportiva. Quando li sentì parlare, Harry scoprì che la donna era inglese e l'uomo americano. Ascoltò con attenzione e rinfrescò mentalmente il proprio accento. La donna si chiamava Diana, l'uomo Mark. Vide l'uomo sfiorarle il braccio e lei gli si accostò. Erano innamorati e non vedevano nessun altro al mondo. Per loro,
era come se la sala fosse deserta. Harry provò una fitta d'invidia. Distolse lo sguardo. Era ancora preoccupato: stava per attraversare in volo l'Atlantico. Era un percorso molto lungo, senza la terra sotto i piedi. Non aveva mai capito il principio del volo, comunque: se le eliche giravano in tondo, come faceva l'aereo a salire? Mentre ascoltava Mark e Diana, Harry si allenava a mostrarsi disinvolto. Non voleva far capire agli altri passeggeri del Clipper che era nervoso. Sono Harry Vandenpost, pensò: un giovane, ricco americano che torna in patria perchè è scoppiata la guerra in Europa. Al momento non ho un lavoro, ma immagino che presto mi sistemerò. Mio padre è finanziere. Mia madre, pace all'anima sua, era inglese, e io ho studiato in Inghilterra. Non sono andato all'università... non mi piace fare il secchione. (Gli americani dicevano "secchione" o "sgobbone"? Non ne era sicuro.) Ho passato tanto tempo in Inghilterra che ho assimilato un po' il modo di parlare locale. Ho volato diverse volte, certo, ma questo è il mio primo volo transatlantico, naturalmente. E non vedo l'ora! Quando finì il caffè, Harry non aveva più paura. Eddie Deakin riattaccò. Si guardò intorno. La hall era deserta. Nessuno aveva ascoltato. Fissò il telefono che l'aveva sprofondato nell'orrore. Lo odiava, come se potesse metter fine all'incubo fracassandolo. Poi si voltò, lentamente. Chi erano? Dove avevano portato Carol-Ann? Perché l'avevano sequestrata? Cosa potevano volere da lui? Gli interrogativi gli ronzavano nella mente come mosche in un barattolo. Si sforzò di pensare. Si impose di concentrarsi su una domanda alla volta. Chi erano? Potevano essere solo dei pazzi? No. Erano troppo organizzati. I pazzi potevano compiere un sequestro di persona, ma c'era voluta una pianificazione meticolosa per scoprire dove si sarebbe trovato Eddie subito dopo il rapimento e farlo parlare al telefono con la moglie al momento giusto. Erano individui razionali, ma erano pronti a violare la legge. Forse erano anarchici, ma molto più probabilmente si trattava di una banda di gangster. Dove avevano portato Carol-Ann? Lei aveva detto che era in una casa. Poteva appartenere a uno dei sequestratori, ma era più logico che avessero occupato o preso in affitto una casa vuota in una località isolata. Carol-Ann aveva detto che era successo un paio d'ore prima, quindi non po-
teva trovarsi a più di cento, centodieci chilometri da Bangor. Perché l'avevano sequestrata? Volevano qualcosa da lui, qualcosa che non avrebbe dato volontariamente, qualcosa che non avrebbe fatto per denaro: qualcosa che avrebbe rifiutato. Ma che cosa? Non era ricco, non conosceva nessun segreto e non aveva potere su nessuno. Doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con il Clipper. Avrebbe ricevuto gli ordini a bordo dell'aereo, così avevano detto, da un certo Tom Luther. Era possibile che Luther lavorasse per conto di qualcuno che voleva conoscere i dettagli della costruzione e del funzionamento dell'aereo? Forse un'altra linea aerea, o magari un'altra nazione? Era possibile. Forse i tedeschi o i giapponesi speravano di costruire una copia del Clipper da usare come bombardiere. Ma c'erano sistemi più facili per procurarsi i progetti. C'erano centinaia di persone, forse migliaia, in grado di fornire quelle informazioni: dipendenti della Pan American o della Boeing, persino i meccanici delle Imperial Airways che provvedevano alla manutenzione dei motori, lì a Hythe. Non era necessario il sequestro di persona. Diavolo, la stampa aveva pubblicato una quantità di dettagli tecnici. Era possibile che qualcuno volesse rubare l'aereo? Era difficile immaginarlo. La spiegazione più probabile era un'altra: volevano che Eddie collaborasse per introdurre clandestinamente qualcuno o qualcosa negli Stati Uniti. E questo era tutto ciò che sapeva o che poteva immaginare. Cosa doveva fare? Era un cittadino ligio alle leggi e vittima di un crimine, e avrebbe voluto chiamare la polizia. Ma era terrorizzato. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Da bambino aveva temuto suo padre e il diavolo, ma in seguito niente aveva mai avuto il potere di spaventarlo davvero. Adesso era impotente, impietrito dal terrore. Si sentiva paralizzato. Per un momento non riuscì neppure a muoversi. Pensò alla polizia. Era in Inghilterra, maledizione, e non aveva senso parlare con i poliziotti locali che andavano in giro in bicicletta. Ma poteva cercare di telefonare allo sceriffo della sua contea, a casa, oppure alla polizia statale del Maine, o addirittura all'FBI, e chiedere che cominciassero a cercare una casa isolata, presa recentemente in affitto da un uomo...
Non avvertire la polizia. Non ti servirà a niente, aveva detto la voce al telefono. Ma se l'avverti, mi divertirò a sbatterla solo per farti dispetto. Eddie gli credeva. Aveva sentito una nota di desiderio nella voce sprezzante, come se quell'uomo si augurasse di trovare un pretesto per violentare Carol-Ann. Con la pancia e i seni gonfi, lei aveva un'aria così fiorente che... Strinse i pugni, ma non c'era nulla da colpire oltre al muro. Con un gemito di disperazione uscì dall'albergo. Attraversò il prato senza guardare dove andava. Arrivò a un filare d'alberi, si fermò e appoggiò la fronte alla corteccia rugosa di una quercia. Eddie era un uomo semplice. Era nato in una fattoria a pochi chilometri da Bangor. Suo padre era un contadino che aveva qualche ettaro coltivato a patate, qualche pollo, una vacca e un orto. Il New England era il posto meno adatto per i poveri: gli inverni erano lunghi e freddissimi. I suoi genitori credevano che tutto avvenisse per volontà di Dio. Anche quando la sorellina di Eddie si era ammalata di polmonite ed era morta, suo padre aveva detto che Dio aveva voluto così per uno scopo, «uno scopo troppo profondo che noi non possiamo capire». A quei tempi Eddie fantasticava di trovare tesori sepolti nel bosco, un grande scrigno dei pirati pieno d'oro e di gemme, come nei romanzi. Nella sua fantasia portava a Bangor una moneta d'oro e comprava grandi letti morbidi, una camionata di legna da ardere, bei servizi di porcellana per sua madre, giacconi di pelle di pecora per tutta la famiglia, bistecche enormi e un frigo pieno di gelati e di ananas. La vecchia, squallida fattoria si trasformava in un luogo colmo di calore, benessere e felicità. Non aveva trovato nessun tesoro nascosto, ma aveva studiato. Ogni giorno faceva dieci chilometri a piedi per andare a scuola. Gli piaceva perché l'aula era più riscaldata di casa sua, e la signora Maple lo aveva in simpatia perché le domandava sempre come funzionano le cose. Diversi anni più tardi era stata proprio la signora Maple a scrivere al deputato al Congresso che aveva ottenuto per Eddie la possibilità di sostenere gli esami d'ammissione all'Accademia di A nnapolis. Eddie aveva pensato che l'Accademia navale fosse il paradiso. C'erano coperte calde, indumenti di buona qualità, e cibo in abbondanza: mai avrebbe immaginato che esistevano simili lussi. Il duro regime fisico non lo spaventava; quanto alle assurdità che gli insegnavano, non erano peggiori di quelle che aveva ascoltato per tutta la vita nella cappella; e il trattamento riservato alle matricole era uno scherzo in confronto alle botte di
suo padre. Ad Annapolis si era reso conto per la prima volta di come lo vedevano gli altri. Aveva scoperto di essere serio, ostinato, inflessibile e lavoratore. Anche se era abbastanza mingherlino, raramente i prepotenti se la prendevano con lui; aveva negli occhi un'espressione che li spaventava. La gente lo trovava simpatico perché manteneva gli impegni presi, ma nessuno veniva mai a piangere sulla sua spalla. Lo sorprendeva un po' sentirsi elogiare perché lavorava sodo. Suo padre e la signora Maple gli avevano insegnato che si può ottenere ciò che si vuole se si lavora abbastanza, ed Eddie non aveva mai pensato che esistessero altri sistemi. Ma quei complimenti gli facevano piacere. L'elogio più grande che faceva suo padre era definire qualcuno "un gran lavoratore". Era stato promosso guardiamarina e assegnato a un corso di addestramento sugli idrovolanti. Ad Annapolis aveva trovato la vita comoda in confronto a casa sua: ma in Marina regnava addirittura il lusso. Riuscì a spedire un po' di denaro ai genitori perché riparassero il tetto e comprassero una cucina economica nuova. Era in Marina da quattro anni quando sua madre morì, e suo padre se ne andò appena cinque mesi dopo. Il loro podere era stato inglobato in una fattoria vicina, ma Eddie era riuscito ad acquistare la casa e il bosco a un prezzo stracciato. Aveva dato le dimissioni dalla Marina e aveva trovato un ottimo posto alla Pan American. Fra un volo e l'altro lavorava nella vecchia casa; aveva installato l'impianto idraulico, l'elettricità e lo scaldabagno, e aveva fatto personalmente tutto il lavoro pagando il materiale con lo stipendio da motorista. Aveva messo stufe elettriche nelle camere da letto, la radio e persino il telefono. Poi aveva conosciuto Carol-Ann. Ben presto, aveva pensato, la casa si sarebbe riempita delle risate dei bambini, e il suo sogno si sarebbe avverato. Invece si era trasformato in un incubo. 4 Le prime parole che Mark Alder disse a Diana Lovesey furono: «Mio Dio, lei è la cosa più bella che ho visto in tutto il giorno». La gente le diceva sempre cose del genere. Era molto graziosa e vivace, e le piaceva vestirsi bene. Quella sera portava un abito lungo color turchese, con un piccolo bavero, il corpino increspato e le maniche corte. E sape-
va di essere incantevole. Era al Midland Hotel di Manchester e partecipava a una cena danzante. Non sapeva bene se era la Camera di Commercio, o la serata dei massoni in onore delle signore, o una festa di beneficenza della Croce Rossa: tanto, c'era sempre la stessa gente. Aveva ballato con quasi tutti i soci d'affari di suo marito Mervyn, che la tenevano troppo stretta e le pestavano i piedi; e tutte le mogli le avevano lanciato occhiatacce. Era strano, pensava Diana, che quando un uomo faceva un po' lo stupido con una bella donna, la moglie se la prendeva sempre con la donna, non con lui. Diana non aveva nessuna mira sui loro mariti pomposi e sbronzi di whisky. Li aveva scandalizzati tutti e aveva messo in imbarazzo suo marito perché aveva insegnato al vicesindaco come si ballava il jitterbug. E adesso, siccome sentiva il bisogno di un momento di pausa, si era rifugiata nel bar dell'albergo con il pretesto di comprare le sigarette. Lui era solo e beveva un cognac. La guardò come se avesse portato il sole nel locale. Era un uomo piccolo e proporzionato, con il sorriso fanciullesco e l'accento americano. Il suo commento era sembrato spontaneo; e aveva modi così garbati che lei sorrise ma non disse nulla. Comprò le sigarette e bevve un bicchiere d'acqua con ghiaccio, poi tornò al ballo. Lui aveva certo chiesto al barman chi era, e scoperto chissà come il suo indirizzo perché l'indomani Diana ricevette una sua lettera sulla carta intestata del Midland Hotel. Per la precisione era una poesia. Cominciava così: È fisso nel mio cuore il tuo sorriso, impresso sempre all'occhio della mente: gli anni e il dolore non lo muteranno. Diana pianse. Pianse per tutto ciò che aveva sperato e non aveva mai ottenuto. Pianse perché viveva in una tetra città industriale con un marito che detestava andare in vacanza. Pianse perché quella poesia era l'unica cosa garbata e romantica che le fosse capitata in cinque anni. E pianse perché non era più innamorata di Mervyn. Poi accadde tutto molto in fretta. L'indomani era domenica. Il lunedì Diana andò in città. Normalmente sarebbe andata per prima cosa da Boot's per cambiare il libro della Biblio-
teca Circolante; poi avrebbe comprato un biglietto pranzo-e-matinée per due scellini e sei pence al cinema Paramount in Oxford Street. Dopo il cinema sarebbe andata a fare un giro nei grandi magazzini Lewi's e Finnigan's e avrebbe comprato nastri o tovaglioli o qualche regalino per le figlie della sorella. Forse sarebbe andata anche in uno dei negozietti in The Shambles per acquistare del formaggio esotico o prosciutto speciale per Mervyn. Poi avrebbe ripreso il treno per tornare ad Altrincham, il sobborgo dove abitava, in tempo per la cena. Ma quella volta andò a prendere un caffè nel bar del Midland Hotel, pranzò al ristorante tedesco nel seminterrato del Midland Hotel, e prese il tè del pomeriggio nella sala interna del Midland Hotel. Ma non vide l'uomo affascinante dall'accento americano. Tornò a casa con il cuore stretto. Era ridicolo, si disse. L'incontro con lui era durato meno di un minuto, e non gli aveva detto neppure una parola! Le era sembrato che rappresentasse tutto ciò che mancava nella sua vita. Eppure, se avesse avuto l'occasione di rivederlo avrebbe sicuramente scoperto che era volgare, pazzo, malato, puzzolente, o magari tutte queste cose insieme. Scese dal treno e si incamminò lungo la strada fiancheggiata dalle grandi ville suburbane in cui viveva. Mentre si avvicinava a casa, rimase sconvolta nel vederlo venire verso di lei. Guardava la casa fingendo un'oziosa curiosità. Diana avvampò. Il cuore le batté forte. Anche lui era sbalordito. Si fermò, ma lei continuò a camminare. Poi, mentre gli passava accanto, gli disse: «Vediamoci domattina alla Biblioteca Centrale!». Non si aspettava che rispondesse; ma, come avrebbe scoperto più tardi, aveva una mente pronta e spiritosa. E infatti ribatté immediatamente: «Che sezione?». La biblioteca era grande, tuttavia non al punto che due persone non riuscissero a trovarsi; ma Diana disse la prima cosa che le passò per la mente: «Biologia». Lui rise. Diana entrò in casa con l'eco di quella risata nelle orecchie: una risata calda, serena, divertita, la risata di un uomo che amava la vita ed era contento di sé. La casa era vuota. La signora Rollins, che sbrigava i lavori domestici, era già andata via e Mervyn non era ancora rientrato. Diana andò a sedersi nell'asettica cucina moderna e pensò molte cose antiquate e tutt'altro che asettiche sul conto del suo spiritoso poeta americano.
L'indomani mattina lo trovò seduto a un tavolo sotto la scritta SILENZIO. Quando lei disse «Salve», lui si portò l'indice alle labbra, additò una sedia e le scrisse un biglietto. Il biglietto diceva: "Il suo cappellino è adorabile". Diana portava un cappellino che sembrava un vaso da fiori capovolto con una piccola tesa, e lo teneva inclinato da una parte in modo che quasi le copriva l'occhio sinistro. Così voleva la moda, anche se a Manchester poche donne avevano il coraggio di seguirla. Diana prese una piccola penna dalla borsa e scrisse sotto: "A lei non starebbe bene". "Ma starebbe benissimo con i miei gerani dentro" scrisse lui. Diana rise sommessamente, e lui disse: «Sttt!». Lei pensò: È matto o solo divertente? Poi scrisse: "Mi è piaciuta la sua poesia". E lui scrisse: "Ti amo". È matto, pensò Diana, ma le vennero le lacrime agli occhi. Scrisse: "Non so neppure come si chiama!". Lui le porse un biglietto da visita. Si chiamava Mark Alder e abitava a Los Angeles. In California! Andarono a pranzo molto presto in un ristorante vegetariano perché Diana era sicura che non avrebbe corso il pericolo di incontrare il marito: neppure con la forza sarebbe stato possibile trascinarlo in un locale del genere. Poi, dato che era martedì, c'era un concerto di mezzogiorno all'Houldsworth Hall in Deansgate, con la famosa orchestra cittadina Hallé e il nuovo direttore, Malcolm Sargent. Diana era orgogliosa che la sua città potesse offrire a un visitatore una simile manifestazione culturale. Quel giorno aveva scoperto che Mark scriveva copioni di commedie per la radio. Non aveva mai sentito nominare i personaggi per cui lavorava, ma lui disse che erano famosi: Jack Benny, Fred Allen, Amos'n'Andy. Era anche proprietario di una stazione radio. Indossava una giacca sportiva di cashmere. Era venuto a fare una lunga vacanza alla ricerca delle sue radici; la sua famiglia era originaria di Liverpool, la città portuale pochi chilometri a ovest di Manchester. Era piuttosto piccolo di statura, non molto più alto di Diana, e aveva all'incirca la stessa età, gli occhi castani e qualche lentiggine. Ed era delizioso. Era intelligente, spiritoso, affascinante. Aveva modi garbati, le unghie
pulite, gli abiti impeccabili. Amava Mozart ma conosceva Louis Armstrong. E soprattutto aveva simpatia per Diana. Era strano che ben pochi uomini provassero simpatia per le donne, pensava lei. Quelli che conosceva le sbavavano dietro, cercavano di metterle le mani addosso, proponevano incontri clandestini appena Mervyn voltava le spalle, e a volte, quando avevano una sbornia sentimentale, dichiaravano di amarla; ma in realtà non provavano simpatia per lei. Parlavano solo per vantarsi, non l'ascoltavano mai, non cercavano di conoscerla. Mark era diverso, come Diana ebbe modo di scoprire durante i giorni e le settimane che seguirono. Il giorno dopo l'incontro in biblioteca, Mark prese a nolo una macchina e la condusse sulla costa. Mangiarono panini sulla spiaggia ventosa e si baciarono fra le dune. Lui aveva una suite al Midland, ma non potevano incontrarsi là perché Diana era troppo conosciuta; se l'avessero vista salire dopo pranzo, la notizia avrebbe fatto il giro della città prima dell'ora del tè. Ma l'inventiva di Mark trovò una soluzione. Andarono a Lytham St. Anne, sul mare, con una valigia, e presero alloggio in un albergo come i signori Alder. Pranzarono, poi andarono a letto. Far l'amore con Mark fu molto, molto piacevole. La prima volta lui eseguì una specie di pantomima, cercando di spogliarsi nel silenzio più assoluto, e Diana rise troppo per sentirsi intimidita quando si tolse a sua volta i vestiti. Non dovette chiedersi se gli sarebbe piaciuta: era evidente che l'adorava. Non era nervosa perché lui era così gentile. Passarono il pomeriggio a letto, poi se ne andarono dicendo che avevano deciso di non fermarsi. Mark pagò per la notte, e quindi non ci furono contestazioni. La lasciò alla stazione prima di Altrincham, e Diana arrivò a casa in treno come se avesse trascorso il pomeriggio a Manchester. E continuarono così per tutta l'estate, un'estate meravigliosa. Mark doveva ritornare negli Stati Uniti all'inizio di agosto per preparare una nuova trasmissione. Invece rimase e scrisse i testi per una serie di scenette su un americano in vacanza in Gran Bretagna. Ogni settimana li spediva con il nuovo servizio di posta aerea inaugurato dalla Pan American. Anche questo ricordava loro che il tempo volava, Diana riusciva a non pensare troppo al futuro. Naturalmente un giorno Mark sarebbe tornato a casa; ma domani sarebbe stato ancora lì, e lei non voleva guardare oltre. Era come la guerra: tutti sapevano che sarebbe stata terribile, ma nessuno
era in grado di dire quando sarebbe incominciata. E fino a che non fosse scoppiata non ci sarebbe stato altro da fare che tirare avanti e cercare di divertirsi. Il giorno dopo la dichiarazione di guerra, Mark le disse che sarebbe rientrato in patria. Diana era seduta sul letto con le coperte tirate fin sotto il busto, in modo da lasciare scoperto il seno. A Mark piaceva così: pensava che avesse due seni meravigliosi, anche se a lei pareva che fossero troppo grossi. Stavano discutendo seriamente. La Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania, e persino gli innamorati felici erano costretti a parlarne. Diana aveva seguito per tutto l'anno il sanguinoso conflitto in Cina, e il pensiero di una guerra in Europa la riempiva di paura. Come i fascisti in Spagna, i giapponesi non esitavano a sganciare le bombe sulle donne e sui bambini: e le carneficine di Ciungking e di Iciang erano state terribili. Rivolse a Mark la domanda che era sulla bocca di tutti: «Cosa credi che succederà?». Per una volta, lui non aveva una risposta spiritosa da darle. «Credo che sarà terribile» ammise serio. «Credo che l'Europa sarà devastata. Forse questo Paese sopravvivrà perché è un'isola. Me lo auguro.» «Oh» disse Diana. Aveva paura, adesso. Gli inglesi non dicevano quelle cose. I giornali erano pieni di affermazioni battagliere, e Mervyn era addirittura ansioso che la guerra incominciasse davvero. Mark, invece, era un estraneo; e il suo giudizio, espresso con quella calma voce americana, appariva fin troppo realistico. Avrebbero bombardato Manchester? Diana ricordò qualcosa che aveva detto Mervyn, e lo ripeté. «Prima o poi anche l'America dovrà entrare in guerra.» Mark la scandalizzò con la sua risposta: «Cristo, spero di no. È una bega europea e non ci riguarda. Posso capire perché la Gran Bretagna ha dichiarato guerra, ma che mi venga un accidente se voglio vedere gli americani morire in difesa della fottuta Polonia». Non l'aveva mai sentito imprecare a quel modo. A volte le mormorava parole oscene all'orecchio mentre facevano l'amore, ma era diverso. Adesso sembrava in collera. Pensò che forse era un po' spaventato. Sapeva che Mervyn lo era, ma in lui la paura si esprimeva in un avventato ottimismo. La paura di Mark si manifestava nell'isolazionismo e nelle imprecazioni. Diana era sbigottita per quel comportamento; tuttavia poteva capire il suo punto di vista: perché mai gli americani avrebbero dovuto combattere per la Polonia o per l'Europa? «E io?» chiese. Cercò di assumere un tono
scherzoso. «Non ti farebbe piacere se finissi violentata da nazisti biondi con gli stivali lucidi, vero?» Non era stata divertente, e se ne pentì subito. Fu allora che Mark prese una busta dalla borsa e gliela consegnò. Lei estrasse un biglietto e lo guardò. E fu assalita dal terrore. «Torni a casa!» esclamò. Per lei era la fine del mondo. Serio in volto, lui disse semplicemente: «I biglietti sono due». Diana ebbe la sensazione che il cuore le si fermasse. «Due biglietti» ripeté con voce atona. Era disorientata e stranamente impaurita. Lui le si sedette accanto e le prese la mano. Diana sapeva cosa stava per dirle, ed era emozionata e al tempo stesso terrorizzata. «Vieni in America con me, Diana» disse lui. «Vola con me a New York. Proseguirai per Reno e divorzierai. Poi andremo in California e ci sposeremo. Ti amo.» Vola. Diana non riusciva a immaginarsi di volare attraverso l'Atlantico. Erano cose che accadevano soltanto nelle favole. Con me a New York. New York era un sogno fatto di grattacieli e nightclub, gangster e miliardari, ereditiere eleganti e automobili enormi. E divorzierai. Si sarebbe liberata di Mervyn! Poi andremo in California. Dove facevano i film e le arance crescevano sugli alberi e ogni giorno splendeva il sole. E ci sposeremo. Avrò Mark per sempre, ogni giorno, ogni notte. Non riusciva a parlare. Mark disse: «Potremo avere tanti bambini». Lei avrebbe voluto piangere. «Chiedimelo ancora» mormorò. Lui disse: «Ti amo. Vuoi sposarmi ed essere la madre dei miei figli?». «Oh, sì» rispose Diana. Si sentiva come se fosse già in volo. «Sì, sì, sì!» Doveva dirlo a Mervyn quella sera. Era lunedì. Martedì avrebbe dovuto raggiungere Southampton con Mark. Il Clipper partiva mercoledì alle due del pomeriggio. Le sembrava di camminare tra le nuvole quando arrivò a casa il lunedì sera. Ma non appena entrò, l'euforia svanì. Come avrebbe fatto a dirglielo? La casa era bella: una grande villa nuova, tutta bianca con il tetto rosso. C'erano quattro camere da letto, e tre non venivano usate quasi mai. C'era un bel bagno moderno e una cucina con tutti i più recenti elettrodomestici. Ora che stava per lasciarla, la guardò con affetto e nostalgia. Era stata la
sua casa per cinque anni. Preparava personalmente i pasti per Mervyn. La signora Rollins faceva le pulizie e il bucato e se Diana non avesse cucinato non avrebbe avuto nulla da fare. E poi, in fondo Mervyn aveva la mentalità dell'operaio, e gli faceva piacere che sua moglie gli mettesse la cena in tavola quando rincasava. Che cosa gli avrebbe detto? Quel giorno Mervyn avrebbe mangiato l'arrosto freddo avanzato dalla domenica. Diana si mise un grembiule e cominciò ad affettare le patate da friggere. Pensando a quanto si sarebbe infuriato Mervyn le tremarono le mani e si tagliò un dito. Cercò di riprendersi mentre lavava la piccola ferita con l'acqua fredda, l'asciugava con una salvietta e la fasciava. Di che cosa ho paura? si chiese. Non mi ucciderà. Non può fermarmi. Ho più di ventun anni e questo è un Paese libero. Il pensiero non bastò a calmarle i nervi. Apparecchiò la tavola e lavò l'insalata. Anche se Mervyn lavorava con impegno, tornava a casa quasi sempre alla stessa ora. Diceva: «A cosa serve essere il principale se devo trattenermi a lavorare quando tutti gli altri vanno a casa?». Era ingegnere e aveva una fabbrica che produceva eliche di ogni tipo, da quelle per i piccoli ventilatori dei sistemi di raffreddamento a quelle enormi per i transatlantici. Aveva sempre avuto successo, era un abile uomo d'affari, ma il vero colpo di fortuna l'aveva avuto quando aveva cominciato a fabbricare eliche per aerei. Il volo era il suo hobby e possedeva un piccolo aereo, un Tiger Moth, che teneva in un aeroporto fuori città. Quando il governo aveva cominciato a potenziare l'aeronautica militare, due o tre anni prima, erano pochissimi quelli che sapevano produrre eliche ricurve con precisione matematica, e Mervyn era uno di loro. Da quel giorno gli affari erano andati di bene in meglio. Diana era la seconda moglie. La prima lo aveva abbandonato sette anni prima ed era scappata con un altro portandosi via i due figli. Mervyn aveva divorziato al più presto e aveva chiesto a Diana di sposarlo non appena la sentenza era diventata definitiva. Diana aveva ventotto anni, lui trentotto. Era un uomo piacente, maschio e ricco: e l'adorava. Come regalo di nozze le aveva dato una collana di diamanti. Qualche settimana prima, in occasione del quinto anniversario di matrimonio, le aveva regalato una macchina da cucire. Adesso, ripensandoci, Diana si rendeva conto che la macchina da cucire
era stata l'ultima goccia. Aveva sperato che le regalasse un'automobile: sapeva guidare e Mervyn poteva permetterselo. Quando aveva visto la macchina da cucire aveva avuto la sensazione di non poterne più. Vivevano insieme da cinque anni e Mervyn non si era accorto che non cuciva mai. Diana sapeva che suo marito l'amava, ma non la vedeva. Nella sua ottica esisteva soltanto una persona classificata come "moglie". Era bella, svolgeva in modo adeguato i suoi doveri sociali, gli metteva la cena in tavola e a letto era sempre disponibile. Cos'altro doveva essere una moglie? Non la consultava mai su niente. Diana non era un uomo d'affari e neppure un ingegnere, quindi lui non aveva mai pensato che fosse intelligente. Parlava con gli operai della sua fabbrica di argomenti più impegnativi di quelli che trattava con lei. Nel suo mondo, gli uomini volevano le automobili e le mogli volevano le macchine da cucire. Eppure era molto intelligente. Era figlio di un semplice tornitore, aveva studiato a Manchester e aveva frequentato la facoltà di Fisica. Aveva avuto l'occasione di andare a Cambridge per specializzarsi, ma non era il tipo dell'accademico, e aveva trovato un impiego nell'ufficio progetti di una grande azienda metalmeccanica. Seguiva ancora i progressi della fisica, e parlava per ore al padre - mai a Diana, ovviamente - di atomi e di radiazioni e di fissione nucleare. Purtroppo, Diana non capiva niente di fisica. Conosceva bene la musica e la letteratura e un po' anche la storia; ma a Mervyn quel genere di cultura non interessava molto, anche se gli piacevano i film e la musica da ballo. Perciò non avevano niente di cui parlare. Forse sarebbe stato diverso se avessero avuto figli. Ma Mervyn ne aveva già avuti due dalla prima moglie e non ne voleva altri. Diana sarebbe stata più che disposta ad affezionarsi a loro, ma non ne aveva avuto la possibilità; la madre li aveva aizzati contro di lei, fingendo che fosse responsabile della rottura del matrimonio. La sorella di Diana, che viveva a Liverpool, aveva due deliziose gemelle con le treccine, ed era su di loro che Diana riversava il suo senso materno. Avrebbe sentito molto la mancanza delle gemelline. Mervyn aveva un'intensa vita di società e frequentava gli uomini d'affari e i politici cittadini; per qualche tempo Diana aveva trovato piacevole organizzare per lui pranzi e ricevimenti. Le erano sempre piaciuti i bei vestiti e li portava bene. Ma nella vita doveva esserci qualcosa di più. Per un po' aveva recitato il ruolo dell'anticonformista nella società di Manchester: aveva fumato sigari, si era vestita in modo stravagante, aveva
parlato di libero amore e di comunismo. Si era divertita a scandalizzare le signore; tuttavia Manchester non era una città molto conservatrice e Mervyn e i suoi amici erano liberali, quindi il suo comportamento non aveva fatto molto scalpore. Era insoddisfatta, ma si domandava se aveva il diritto di esserlo. Molte donne la consideravano fortunata: aveva un marito serio, fidato, generoso, una bella casa e una quantità di amici. Diceva a se stessa che avrebbe dovuto essere felice. Ma non lo era... e poi era comparso Mark. Udì la macchina di Mervyn fermarsi davanti all'ingresso. Era un rumore familiare, ma quella sera le sembrava minaccioso, come il ringhio di una belva pericolosa. Mise la padella sul fuoco a gas con la mano che le tremava. Mervyn entrò in cucina. Era straordinariamente bello. I capelli scuri erano striati di grigio, ma questo contribuiva solo a dargli un aspetto più distinto. Era alto e non era ingrassato come tanti suoi amici. Non era vanitoso, ma Diana lo convinceva a indossare abiti scuri di buon taglio ed eleganti camicie bianche: ci teneva che avesse l'aria dell'uomo di successo quale era effettivamente. Era terrorizzata che le leggesse in faccia la sua colpa e le domandasse cosa stava succedendo. Mervyn la baciò sulla bocca, e Diana lo ricambiò piena di vergogna. A volte lui l'abbracciava e le infilava le mani nella fessura fra le natiche e allora si eccitavano e correvano in camera da letto lasciando la cena a bruciare sul fornello. Ma ormai non succedeva quasi più, e quel giorno non faceva eccezione, grazie al cielo. Mervyn le diede un bacio distratto e si staccò da lei. Si tolse la giacca, il panciotto, la cravatta e il colletto e si rimboccò le maniche; poi si lavò le mani e la faccia nel lavello. Aveva spalle ampie e braccia robuste. Non si era accorto che qualcosa non andava. Era logico che fosse così: non la vedeva, lei era lì, semplicemente, come il tavolo della cucina. Non aveva motivo di preoccuparsi: Mervyn non avrebbe saputo nulla fino a che non gliel'avesse detto. Per il momento non glielo avrebbe detto, pensò. Mentre le patate friggevano, imburrò il pane e preparò il tè. Era ancora sconvolta, ma riuscì a nasconderlo. Mervyn leggeva il "Manchester Evening News" e non la guardava. «Ho uno stramaledetto piantagrane in fabbrica» disse quando lei gli mise
davanti il piatto. Non me ne importa niente, pensò istericamente Diana. Non ho più nulla a che vedere con te. E allora perché ti ho preparato la cena? «È un londinese di Battersea, e credo che sia comunista. Comunque pretende una paga più alta per lavorare alla nuova alesatrice a coordinate. Per la verità non è una pretesa irragionevole, ma ho fissato i prezzi in base alle vecchie tariffe e quindi dovrà rassegnarsi.» Diana chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e annunciò: «Devo dirti una cosa». Poi desiderò fervidamente di poter ritirare quelle parole; ma ormai era troppo tardi. «Cos'hai fatto a quel dito?» chiese Mervyn, notando la fasciatura. Quella domanda così banale la smontò. «Niente» disse abbandonandosi sulla sedia. «Mi sono tagliata affettando le patate.» E prese coltello e forchetta. Mervyn mangiava di buon appetito. «Dovrei fare più attenzione a chi assumo, ma il guaio è che al giorno d'oggi è difficile trovare bravi attrezzisti.» Mervyn non si aspettava che lei rispondesse quando parlava del suo lavoro. Se si azzardava a esprimere un suggerimento, le lanciava un'occhiata irritata come se avesse parlato a sproposito. Il suo compito era ascoltare. Mentre le parlava della nuova alesatrice a coordinate e del comunista di Battersea, Diana ripensava al giorno delle sue nozze. A quel tempo sua madre era ancora viva. Si erano sposati a Manchester e il ricevimento si era svolto al Midland Hotel. Mervyn, in tight, le era sembrato l'uomo più bello d'Inghilterra. Lei aveva pensato che sarebbe stato per sempre. L'idea che il matrimonio potesse non durare non l'aveva neppure sfiorata. Non aveva mai conosciuto una persona divorziata prima di Mervyn. E adesso avrebbe voluto piangere, al ricordo dei suoi sentimenti di quel giorno. Sapeva che per Mervyn il suo abbandono sarebbe stato una sofferenza tremenda. Non sospettava minimamente la sua intenzione. Naturalmente, il fatto che anche la prima moglie l'avesse abbandonato nello stesso identico modo avrebbe peggiorato le cose. Si sarebbe disperato. Ma prima sarebbe andato su tutte le furie. Lui finì l'arrosto e si versò un'altra tazza di tè. «Non hai mangiato molto» commentò. Per la verità, Diana non aveva toccato cibo. «Ho mangiato molto a pranzo» rispose. «Dove sei andata?»
Quella domanda innocente bastò a gettarla nel panico. Aveva mangiato dei panini a letto con Mark in un albergo di Blackpool, e non riusciva a farsi venire in mente una bugia plausibile. Pensò ai principali ristoranti di Manchester, ma era possibile che Mervyn avesse pranzato proprio in uno di quelli. Dopo un penoso attimo di silenzio, rispose: «Al Waldorf Café». C'erano diversi Waldorf Café: era una catena di ristoranti a buon mercato dove si mangiava una bistecca con patatite fritte soltanto per uno scellino e nove pence. Mervyn non le chiese quale Waldorf fosse. Prese i piatti e si alzò. Aveva le ginocchia così deboli che temeva di crollare, ma riuscì ad arrivare al lavello. «Vuoi un dolce?» chiese. «Sì, grazie.» Lei andò alla dispensa e trovò un barattolo di pere sciroppate e un po' di latte condensato. Aprì le due confezioni e portò in tavola il dessert. Mentre guardava il marito mangiare le pere, fu sopraffatta dall'orrore di ciò che stava per fare. Le sembrava imperdonabile, spaventoso. Come la guerra incombente, avrebbe potuto distruggere ogni cosa. La vita che lei e Mervyn si erano creati insieme in quella casa, in quella città, sarebbe stata distrutta. All'improvviso si rese conto che non poteva farlo. Mervyn posò il cucchiaio e guardò l'orologio. «Le sette e mezzo... sentiamo il giornale radio.» «Non posso farlo» disse Diana a voce alta. «Cosa?» «Non posso farlo» ripeté lei. Avrebbe rinunciato. Sarebbe andata subito da Mark, gli avrebbe detto che aveva cambiato idea, che non sarebbe fuggita con lui. «Perché non puoi ascoltare la radio?» chiese spazientito Mervyn. Diana lo fissò. Provò la tentazione di dirgli tutta la verità, ma non aveva neppure il coraggio per fare quello. «Devo uscire» disse. Cercò disperatamente una scusa. «Doris Williams è all'ospedale, e devo andare a trovarla.» «Santo cielo, chi è Doris Williams?» Doris Williams non esisteva. «Non la conosci» rispose Diana improvvisando. «È stata appena operata.» «Non me la ricordo» disse lui; ma non era insospettito. Non ricordava mai i conoscenti occasionali. Diana ebbe un'ispirazione: «Vuoi venire con me?».
«Buon Dio, no!» rispose Mervyn, come lei aveva previsto. «Allora andrò sola.» «Non correre troppo. C'è l'oscuramento.» Mervyn si alzò e andò in salotto per accendere la radio. Lei lo seguì con lo sguardo. Non saprà mai che ero arrivata sul punto di lasciarlo, pensò con un senso di tristezza. Mise il cappello e uscì con la giacca sul braccio. Il motore si accese subito, grazie al cielo. Uscì dal viale e svoltò in direzione di Manchester. Il viaggio fu un incubo. Aveva una fretta disperata, ma doveva procedere lentamente perché i fari erano oscurati dalla mascherina e poteva vedere solo pochi metri più avanti. E poi aveva la vista appannata perché non riusciva a trattenere le lacrime. Se non avesse conosciuto così bene la strada, sarebbe andata probabilmente a sbattere contro qualcosa. Impiegò più di un'ora per percorrere circa quindici chilometri. Quando finalmente fermò la macchina davanti al Midland era esausta. Rimase immobile per un po', cercando di ricomporsi. Prese dalla borsetta il portacipria e s'incipriò il viso per nascondere i segni delle lacrime. Mark ne avrebbe avuto il cuore spezzato, lo sapeva. Ma poteva sopportarlo. Presto avrebbe considerato la loro relazione come un'avventura estiva. Era meno crudele troncare un breve amore appassionato che un matrimonio che durava da cinque anni. Lei e Mark avrebbero sempre pensato con tenerezza all'estate del 1939... Scoppiò di nuovo in lacrime. Era inutile restare lì a pensarci, decise dopo un po'. Doveva entrare e farla finita. Si ritoccò il trucco ancora una volta e scese dalla macchina. Attraversò l'atrio dell'hotel e salì senza fermarsi alla ricezione. Conosceva il numero della camera di Mark. Naturalmente era scandaloso che una donna sola salisse nella stanza d'albergo di un uomo solo: ma decise di comportarsi da sfrontata. Altrimenti sarebbe stata costretta a incontrare Mark nella sala interna o al bar, ed era impensabile dargli un simile annuncio in un luogo pubblico. Non si guardò intorno. Quindi non poteva sapere se l'aveva vista qualcuno che conosceva. Bussò alla porta, pregando che Mark ci fosse. E se lui aveva deciso di andare al ristorante o al cinema? Non ebbe risposta e bussò ancora, con più forza. Come poteva essere andato al cinema in un momento simile? Poi sentì la voce: «Sì?». Bussò ancora una volta. «Sono io!» Un rapido suono di passi. La porta si spalancò e Mark fu davanti a lei,
sbalordito. Sorrise, felice, l'attirò nella stanza, chiuse la porta e l'abbracciò. Diana, adesso, si sentiva sleale verso di lui quanto lo era stata prima nei confronti di Mervyn. Lo baciò con un senso di colpa, e il familiare calore del desiderio le scorse nelle vene. Ma si scostò e disse: «Non posso partire con te». Mark impallidì. «Non dirlo neppure.» Lei si guardò intorno. Mark stava preparando le valigie. L'armadio e i cassetti erano aperti, le valigie erano sul pavimento, e un po' dappertutto c'erano camicie piegate, mucchi ordinati di biancheria, scarpe nei sacchetti. Mark era molto meticoloso. «Non posso partire» ripeté. Lui le prese la mano e la condusse a sedere sul letto. Aveva un'espressione angosciata. «Non dirai sul serio» mormorò. «Mervyn mi ama e stiamo insieme da cinque anni. Non posso fargli questo.» «E io?» Lo guardò: indossava un pullover rosa polvere, cravatta a farfalla, pantaloni di flanella grigio-azzurra e scarpe di cuoio. Era affascinante. «Mi amate tutti e due» gli disse. «Ma lui è mio marito.» «Ti amiamo tutti e due, ma io provo anche simpatia per te» disse Mark. «Credi che lui non la provi?» «Credo che non ti conosca nemmeno. Ascoltami. Ho trentacinque anni, sono stato innamorato altre volte, ho avuto addirittura una relazione che è durata sei anni. Non mi sono mai sposato ma sono un uomo di mondo. So che quanto esiste tra noi è qualcosa di valido. Niente mi è mai sembrato più valido. Sei bella, sei spiritosa, anticonformista, intelligente, e ti piace far l'amore. Io sono simpatico, sono spiritoso, anticonformista, intelligente e ho voglia di far l'amore con te in questo preciso momento...» «No» disse Diana, senza convinzione. Mark l'attirò a sé dolcemente. Si baciarono. «Siamo fatti l'una per l'altro» mormorò lui. «Ricordi quando ci passavamo i biglietti sotto il cartello SILENZIO in biblioteca? Avevi capito subito il gioco senza bisogno di spiegazioni. Altre donne pensano che sono matto, ma a te piaccio così.» Era vero, pensò Diana; e quando lei faceva qualcosa di stravagante, come fumare la pipa oppure uscire senza mutandine o assistere a comizi fascisti e suonare l'allarme antincendio, Mervyn si irritava mentre Mark rideva divertito. Lui le accarezzò i capelli, poi la guancia. A poco a poco il panico di
Diana si placò. Cominciò a sentirsi serena. Gli appoggiò la testa sulla spalla e gli sfiorò il collo con le labbra. Sentì la sua mano sotto il vestito, le accarezzava l'interno della coscia, al di sopra delle calze. Non era così che doveva andare, pensò debolmente. Mark la rovesciò dolcemente sul letto, facendo cadere il cappellino. «Non è giusto» disse Diana con un filo di voce. Lui la baciò, le mordicchiò delicatamente le labbra. Diana sentì le dita attraverso la seta sottile delle mutandine e rabbrividì di piacere. Dopo un momento la mano avanzò. Mark sapeva sempre che cosa fare. Un giorno, quell'estate, mentre erano nudi in una stanza d'albergo e dalla finestra aperta entrava il rumore delle onde, le aveva detto: «Mostrami come fai quando ti tocchi». Diana era rimasta imbarazzata e aveva finto di non comprendere. «Cosa vorresti dire?» «Lo sai. Quando ti tocchi. Fammi vedere. Così saprò che cosa ti piace.» «Ma io non mi tocco» aveva mentito lei. «Be'... quando eri ragazzina, prima di sposarti. Devi averlo fatto... lo fanno tutti. Mostrami come facevi.» Lei stava per rifiutare, ma poi aveva capito quanto sarebbe stato eccitante. «Vuoi che mi stimoli... là sotto... mentre mi guardi?» aveva chiesto con voce carica di desiderio. Mark aveva annuito con un sorriso malizioso. «Vuoi dire... fino in fondo?» «Fino in fondo.» «Non posso» aveva detto Diana. Ma l'aveva fatto. Adesso le dita di Mark la toccavano con gesti esperti, nei punti giusti, con gli stessi movimenti e la pressione giusta. E Diana chiuse gli occhi e si abbandonò alla sensazione. Dopo un po' incominciò a gemere sommessamente e a sollevare e abbassare ritmicamente i fianchi. Sentì l'alito caldo di Mark sul viso quando le si fece più vicino. Poi, mentre stava per perdere il controllo, lui le disse in tono incalzante: «Guardami». Aprì gli occhi. Mark continuò ad accarezzarla nello stesso modo, ma un po' più in fretta. «Non chiudere gli occhi» le disse. Guardarlo mentre lui la accarezzava era scandalosamente intimo: una specie di ipernudità. Era come se Mark potesse vedere e sapere tutto di lei, e Diana provava un senso di libertà gioiosa perché non le restava nulla da nascondere. Venne l'orgasmo e lei si impose di continuare a guardarlo mentre sussultava e ansimava
negli spasimi del piacere che la squassavano. E Mark continuò a sorriderle per tutto il tempo e a dirle: «Ti amo, Diana, ti amo». Quando tutto finì, lo strinse a sé, tremando e ansando per l'emozione. Non voleva lasciarlo, mai. Avrebbe pianto, ma non aveva più lacrime. A Mervyn non lo disse mai. La mente fertile di Mark trovò la soluzione, e Diana ci pensò e ci ripensò mentre tornava a casa, calma, serena e decisa. Mervyn, in pigiama e vestaglia, fumava una sigaretta e ascoltava musica alla radio. «Sei stata via parecchio» commentò con voce gentile. Diana era innervosita, ma solo un po'. «Ho dovuto andare pianissimo». Deglutì, respirò profondamente e disse: «Domani parto». Mervyn la fissò un po' sorpreso. «Dove vai?» «Voglio andare a trovare Thea e a vedere le gemelle. Voglio assicurarmi che tutto sia a posto, e non so quando ne avrò ancora la possibilità: il servizio dei treni sta già diventando irregolare e la settimana prossima incomincia il razionamento della benzina.» Mervyn annuì. «Sì, hai ragione. È meglio che tu parta finché è possibile.» «Vado a preparare la valigia.» «Preparala anche per me, ti spiace?» Per un momento terribile Diana temette che volesse accompagnarla. «Perché?» chiese. «Non voglio dormire in una casa vuota» disse Mervyn. «Domani sera dormirò al Reform Club. Tu tornerai mercoledì?» «Sì, mercoledì» mentì Diana. «Va bene.» Lei salì. Mentre metteva la biancheria e i calzini del marito in una valigetta, pensò: È l'ultima volta che lo faccio per lui. Piegò una camicia bianca e scelse una cravatta grigio argento: erano colori sobri che si intonavano ai suoi capelli scuri e agli occhi castani. Era sollevata perché lui aveva creduto alla storia, ma si sentiva anche frustrata, come se avesse lasciato qualcosa in sospeso. Si rese allora conto che, anche se aveva paura di affrontarlo, voleva spiegargli perché lo lasciava. Doveva dirgli che l'aveva delusa, che era diventato indifferente, che non aveva più per lei le premure d'un tempo. Ma ormai non gliel'avrebbe detto, e si sentiva stranamente depressa. Chiuse la valigia di Mervyn e cominciò a mettere nel sacchetto da toilet-
te il necessario per il trucco. Era un modo strano di concludere cinque anni di matrimonio... mettere in valigia i calzini, il dentifricio e la crema per il viso. Dopo un po', Mervyn salì. Lei aveva finito di preparare le valigie e aveva indossato la camicia da notte meno civettuola. Si era seduta al tavolino da toilette per struccarsi. Mervyn le venne alle spalle e le strinse i seni. Oh, no! pensò Diana. Non stanotte! Per quanto fosse inorridita, il suo corpo reagì all'istante. Arrossì colpevolmente. Le dita di Mervyn le strinsero i capezzoli inturgiditi, e Diana si lasciò sfuggire un gemito soffocato di piacere e di disperazione. Lui le prese le mani e la fece alzare: lo seguì, rassegnata, mentre la conduceva al letto. Mervyn spense la luce e si sdraiarono nel buio. Si allungò su di lei immediatamente e fece l'amore con una sorta di disperazione furiosa, come se sapesse che stava per abbandonarlo e non potesse impedirglielo. Diana era eccitata dal piacere e dalla vergogna, tradita dal proprio corpo. Con un profondo senso di mortificazione pensò che avrebbe raggiunto l'orgasmo con due uomini diversi in meno di due ore e cercò di trattenersi, ma non ci riuscì. Quando venne, piangeva. Per fortuna Mervyn non se ne accorse. Il mercoledì mattina, mentre era seduta nell'elegante sala interna del South-Western Hotel in attesa che un taxi portasse lei e Mark all'Attracco 108 del porto di Southampton per imbarcarsi sul Clipper della Pan American, Diana si sentiva libera e trionfante. Nella sala tutti la guardavano o cercavano di non guardarla. In particolare, la fissava con insistenza un bell'uomo vestito di blu che doveva avere dieci anni meno di lei. Ma ci era abituata. Succedeva sempre quando era in forma, e quel giorno era splendida. L'abito di seta color panna a pois rossoarancio era fresco, estivo e faceva colpo. Le scarpe color panna erano perfettamente intonate, e il cappello di paglia era il tocco finale. Il rossetto e lo smalto erano della stessa sfumatura dei pois. Aveva pensato di mettere un paio di scarpe rosse, ma poi aveva concluso che le avrebbero dato un'aria da donna facile. Viaggiare le piaceva: fare e disfare le valigie, conoscere gente nuova, essere circondata di premure e di attenzioni e di champagne, vedere posti nuovi. La prospettiva di volare la innervosiva, ma la traversata dell'Atlantico era il più affascinante dei viaggi, perché la destinazione era l'America.
Non vedeva l'ora di arrivare. Immaginava la scena come poteva immaginarla un'appassionata di cinema. Si vedeva in un appartamento art déco tutto specchi e finestre; una cameriera in grembiulino e crestina l'aiutava a indossare una pelliccia bianca, e per strada una lunga macchina nera con il motore acceso e l'autista di colore l'attendeva per portarla al night-club dove avrebbe ordinato un martini, molto secco, e avrebbe ballato al ritmo di una jazz band il cui cantante era Bing Crosby. Era pura immaginazione, lo sapeva; ma non vedeva l'ora di scoprire la realtà. Provava sentimenti ambivalenti all'idea di abbandonare la Gran Bretagna proprio mentre incominciava la guerra. Le sembrava una vigliaccheria, ma partire la eccitava. Conosceva molti ebrei. A Manchester c'era una comunità israelita numerosa: gli ebrei di Manchester avevano piantato mille alberi a Nazareth. Gli amici ebrei di Diana seguivano con orrore e paura lo svolgersi degli eventi europei. E non si trattava solo degli ebrei: i fascisti odiavano anche la gente di colore, gli zingari e gli omosessuali, e tutti coloro che dissentivano dall'ideale fascista. Diana aveva uno zio omosessuale che era sempre stato affettuoso con lei e la trattava come una figlia. Era troppo vecchia per arruolarsi, ma forse avrebbe dovuto restare a Manchester e svolgere attività di volontariato, arrotolare le bende per la Croce Rossa... Ma era ancora pura immaginazione più inverosimile perfino dell'idea di ballare mentre cantava Bing Crosby. Lei non era il tipo che arrotolava le bende. L'austerità e le uniformi non erano il suo genere. Tutto questo, in fondo, non aveva importanza. La sola cosa che contava era il fatto di essere innamorata. Sarebbe andata dove andava Mark. L'avrebbe seguito anche sul campo di battaglia, se fosse stato necessario. Si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei bambini. Mark tornava a casa, e Diana andava con lui. Avrebbe sentito la mancanza delle nipotine. Si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima di poterle rivedere. Forse allora sarebbero state grandi, e avrebbero usato il profumo e il reggiseno, non avrebbero più avuto le treccine e i calzini corti. Ma avrebbe potuto avere una bimba tutta sua... Era emozionata all'idea di viaggiare sul Clipper della Pan American. Aveva letto tutti gli articoli del "Manchester Guardian" che ne parlavano senza immaginare che un giorno anche lei sarebbe stata a bordo. Arrivare a New York in poco più di ventiquattr'ore sembrava un miracolo.
Aveva lasciato una lettera a Mervyn. Non conteneva nessuna delle cose che avrebbe voluto dirgli; non spiegava che lui aveva perso lentamente e inesorabilmente il suo amore con l'indifferenza e la mancanza di premure; non diceva neppure che Mark era meraviglioso. Caro Mervyn, aveva scritto, ti lascio. Sento che sei diventato freddo con me e mi sono innamorata di un altro. Quando leggerai questa mia noi saremo in America. Mi dispiace farti soffrire ma in parte è colpa tua. Non le era venuto in mente un modo adatto per firmare. Non poteva scrivere "tua" o "con affetto": perciò aveva firmato semplicemente Diana. In un primo momento aveva pensato di lasciare la lettera in casa, sul tavolo di cucina. Poi aveva temuto che Mervyn cambiasse programma e anziché alloggiare al club la notte di martedi, tornasse a casa, trovasse la lettera e creasse dei problemi a lei e a Mark prima che fossero partiti. Alla fine l'aveva spedita allo stabilimento. Sarebbe arrivata proprio quel giorno. Diede un'occhiata all'orologio (era un regalo di Mervyn, che teneva molto alla puntualità). Conosceva le abitudini del marito. Passava gran parte della mattinata nei capannoni della fabbrica e verso mezzogiorno saliva in ufficio a vedere la posta prima di andare a pranzo. Lei aveva scritto "personale" sulla busta perché la segretaria non l'aprisse. Mervyn l'avrebbe trovata sulla scrivania con un mucchio di fatture, ordini, lettere e promemoria. Forse la stava leggendo proprio in quel momento. Il pensiero le dava un senso di rimorso e di tristezza ma anche di sollievo perché Mervyn era lontano trecentoventi chilometri. «È arrivato il taxi» disse Mark. Diana era un po' nervosa. Attraversare l'Atlantico in aereo! «È ora di andare» aggiunse Mark. Diana dominò l'ansia. Posò la tazzina di caffè, si alzò e gli rivolse un sorriso luminoso. «Sì» disse felice. «È ora di spiccare il volo.» Eddie era sempre stato timido con le ragazze. Quando si era diplomato ad Annapolis era ancora vergine. Poi, di stanza a Pearl Harbor, era andato con le prostitute, e quelle esperienze gli avevano lasciato un senso di disgusto verso se stesso. Dopo le dimissioni dalla Marina era vissuto in solitudine; quando sentiva bisogno di compagnia prendeva la macchina e andava a un bar lontano qualche chilometro. Carol-Ann era una hostess di terra che lavorava per la linea aerea a Port Washington, il terminal degli idrovolanti a New York. Era una bionda abbronzata con gli occhi del colore blu della Pan American, ed Eddie non
avrebbe mai trovato il coraggio di chiederle un appuntamento. Ma un giorno, alla mensa, un giovane marconista gli aveva regalato due biglietti per andare a vedere Vita col padre a Broadway; e quando Eddie aveva detto che non sapeva chi portare, il marconista si era girato verso il tavolo vicino e aveva chiesto a Carol-Ann se voleva andare. «Sì» aveva risposto lei, con un'inflessione dalla quale Eddie aveva capito che era delle sue parti. Più tardi avrebbe saputo che a quel tempo Carol-Ann era disperatamente sola. Era una ragazza di campagna, e le abitudini sofisticate di New York la innervosivano. Era sensuale ma non sapeva come comportarsi quando gli uomini si prendevano certe libertà, perciò si sentiva imbarazzata e respingeva gli approcci con indignazione. Quel nervosismo le aveva procurato la reputazione di donna frigida, e ormai nessuno la invitava più a uscire. Ma allora Eddie non lo sapeva. Si sentiva come un re, con Carol-Ann al fianco. La portò a cena, poi la riaccompagnò al suo appartamento in taxi. Sulla porta di casa la ringraziò per la bella serata, chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e le diede un bacio sulla guancia. Carol-Ann scoppiò in lacrime e disse che era il primo uomo per bene che avesse incontrato a New York. Quasi senza rendersi conto di quello che faceva Eddie le aveva chiesto un altro appuntamento. In quell'occasione si innamorò di lei. Andarono a Coney Island in un caldo venerdì di luglio. Lei indossava pantaloni bianchi e una camicetta celeste. Eddie si era accorto, con grande stupore, che lei era fiera di camminare al suo fianco. Mangiarono il gelato, salirono su un ottovolante chiamato "Il Ciclone", comprarono due buffi cappellini, si tennero per mano e si confidarono piccoli segreti. Quando l'accompagnò a casa, Eddie le disse francamente che non era mai stato tanto felice in vita sua, e restò di sasso quando Carol-Ann gli disse che anche per lei era la stessa cosa. Eddie incominciò a trascurare la fattoria e a passare tutto il tempo libero a New York. Dormiva sul divano in casa di un collega motorista che era meravigliato della situazione ma faceva di tutto per incoraggiarlo. Carol-Ann lo condusse a Bristol, nel New Hampshire, per fargli conoscere i genitori, due persone minute, di mezza età, povere e lavoratrici che gli ricordavano i suoi genitori ma senza la loro intransigenza religiosa. Quasi non riuscivano a credere di aver messo al mondo una figlia tanto bella, ed Eddie li capiva perché stentava a credere che una ragazza come quella
avesse potuto innamorarsi di lui. E adesso pensava a quanto l'amava, mentre era sul prato del Langdown Lawn Hotel, e fissava la corteccia della quercia. Era un incubo, uno di quei sogni infernali in cui incominci sentendoti felice e sicuro, ma poi pensi oziosamente alla cosa peggiore che potrebbe accadere, e all'improvviso scopri che sta succedendo davvero, la cosa più atroce del mondo sta succedendo inevitabilmente, e non puoi impedirlo. E la cosa più terribile era che avevano litigato poco prima che lui partisse, e si erano lasciati senza riconciliarsi. Carol-Ann era seduta sul divano. Aveva addosso una camicia di jeans che apparteneva a lui, e ben poco di più, le belle gambe abbronzate protese, gli splendidi capelli biondi sciolti sulle spalle. Leggeva una rivista. I seni piccoli si erano ingrossati, negli ultimi tempi. Eddie avrebbe voluto toccarli. Perché no? si chiese. Le infilò la mano nella camicia e le toccò il capezzolo. Carol-Ann alzò gli occhi, gli sorrise affettuosamente, poi continuò a leggere. Eddie le baciò i capelli e le si sedette accanto. Carol-Ann l'aveva sorpreso fin dall'inizio. Erano tutti e due timidi, nei primi tempi, ma dopo il ritorno dal viaggio di nozze, quando avevano cominciato a vivere insieme nella vecchia fattoria, lei era diventata incredibilmente disinibita. Prima volle fare l'amore con la luce accesa. Eddie si sentiva impacciato, ma acconsentì... anzi gli piacque, sebbene si vergognasse un po'. Poi notò che Carol-Ann non chiudeva la porta quando faceva il bagno: da allora cominciò a sentirsi ridicolo all'idea di non fare altrettanto; e un giorno Carol-Ann era entrata tutta nuda e si era infilata con lui nella vasca! Eddie non si era mai sentito tanto imbarazzato. Nessuna donna l'aveva visto nudo da quando aveva quattro anni. Aveva avuto un'enorme erezione solo perché aveva guardato Carol-Ann che si lavava le ascelle, e si era coperto con un asciugamano fino a che lei non gliel'aveva tolto con una risata. Carol-Ann aveva cominciato a girare per la fattoria più o meno svestita. Adesso era una cosa da niente, anzi era fin troppo coperta per le sue abitudini: si vedeva solo un triangolino di cotone bianco fra le gambe, dove la camicia non arrivava a nascondere le mutandine. Normalmente era molto peggio. Eddie preparava il caffè in cucina e lei arrivava in mutandine e reggiseno e cominciava a tostare i panini; oppure mentre lui si faceva la barba lei arrivava in mutandine e senza reggiseno, e incominciava a lavarsi i denti; oppure entrava completamente nuda in camera da letto per portargli la colazione. Si domandava se era "sessuomane"... aveva
sentito qualcuno usare quel termine. Ma gli piaceva che fosse così. Gli piaceva moltissimo. Mai avrebbe pensato di avere un giorno una bella moglie che girava nuda per casa. Si considerava fortunato. Vivere con lei per un anno lo aveva cambiato. Era diventato così disinibito che andava tutto nudo dalla camera da letto al bagno; a volte non indossava nemmeno il pigiama prima di andare a letto; e una sera aveva fatto l'amore con Carol-Ann in soggiorno, proprio su quel divano. Si domandava ancora se c'era qualcosa di psicologicamente anormale in quel tipo di comportamento, ma aveva deciso che non importava: loro due insieme potevano fare ciò che volevano. Quando aveva accettato l'idea, si era sentito come un uccellino liberato dalla gabbia. Era incredibile. Era meraviglioso. Era un paradiso. Le si sedette accanto in silenzio, godendo il piacere di stare con lei e respirare la brezza leggera che giungeva dal bosco attraverso le finestre aperte. A veva la borsa già pronta e fra pochi minuti sarebbe partito per Port Washington. Carol-Ann aveva lasciato la Pan American perché non poteva vivere nel Maine e lavorare a New York. Aveva trovato un posto in un grande magazzino di Bangor. Eddie voleva appunto parlarle di questo prima di partire. Carol-Ann alzò gli occhi da "Life" e chiese: «Cosa c'è?». «Non ho detto niente.» «Però stai per dire qualcosa, no?» Eddie sorrise. «Come fai a saperlo?» «Eddie, sai bene che sento il tuo cervello in funzione. Cosa c'è?» Eddie le posò la mano tozza sul ventre un po' gonfio. «Voglio che lasci il posto.» «È troppo presto...» «Non importa. Possiamo permettercelo. E voglio che tu abbia molta cura di te.» «L'avrò. Lascerò il posto quando sarà necessario.» Eddie si offese. «Credevo che saresti stata contenta. Perché vuoi continuare a lavorare?» «Perché abbiamo bisogno anche del mio stipendio e io ho qualcosa da fare.» «Ti ho detto che possiamo permettercelo.» «Mi annoierei.» «Ci sono tante mogli che non lavorano.» Carol-Ann alzò la voce. «Eddie, perché stai cercando di imprigionar-
mi?» Lui non voleva imprigionarla; e quell'insinuazione lo irritò. «Perché sei così decisa a metterti contro di me?» chiese. «Non mi metto contro di te! Ma non voglio stare qui senza far niente.» «Non hai proprio niente da fare?» «Che cosa, per esempio?» «Preparare il corredo per il bambino, fare le conserve, dormire. ..» Carol-Ann disse sprezzante: «Oh, in nome del cielo...». «Cosa c'è che non va, santo Dio?» ribatté Eddie, sempre più irritato. «Avrò tutto il tempo per queste cose quando il bambino sarà nato. Vorrei godermi le mie ultime settimane di libertà.» Eddie si sentiva umiliato, ma non sapeva come fosse accaduto. Desiderava andarsene. Diede un'occhiata all'orologio. «Devo prendere il treno.» Carol-Ann aveva un'aria rattristata. «Non arrabbiarti» disse in tono conciliante. Ma lui era arrabbiato. «Per essere sincero, proprio non ti capisco» ribatté. «Detesto sentirmi rinchiusa.» «Cercavo solo di essere premuroso.» Eddie si alzò e andò a prendere la giacca dell'uniforme. Si sentiva sciocco e preso in contropiede. A veva avuto intenzione di compiere un gesto generoso e sua moglie l'aveva interpretato come un'imposizione. Carol-Ann andò a prendergli la borsa in camera da letto e gliela porse quando lui ebbe indossato la giacca. Poi alzò il viso e lui le diede un bacio, di sfuggita. «Non voglio che te ne vada arrabbiato» disse lei. Invece lui uscì. E adesso era in un giardino in un Paese straniero, a migliaia di chilometri da lei, con il cuore pesante come il piombo e si chiedeva se avrebbe mai rivisto la sua Carol-Ann. 5 Per la prima volta in vita sua Nancy Lenehan stava ingrassando. Era nella sua suite all'Adelphi Hotel di Liverpool, accanto al mucchio dei bagagli in attesa di venire imbarcati sull'SS Orania, e si guardava inorridita allo specchio. Non era né bella né brutta, ma aveva lineamenti regolari, naso diritto,
capelli lisci e scuri, mento ben disegnato, ed era attraente quando si vestiva con cura, cioè quasi sempre. Quel giorno indossava un tailleur di flanella leggera di Paquin color ciliegia con una camicetta di seta grigia. La giacca era attillata in vita come voleva la moda: e proprio questo le aveva rivelato che era un po' ingrassata. Quando aveva abbottonato la giacca, era apparsa una piccola grinza inconfondibile e i bottoni più bassi tiravano negli occhielli. C'era una sola spiegazione. La vita della giacca era più stretta di quella della signora Lenehan. Probabilmente era la conseguenza dei pranzi e delle cene nei migliori ristoranti di Parigi per tutto il mese di agosto. Sospirò. Si sarebbe messa a dieta per tutta la durata della traversata transatlantica. All'arrivo a New York avrebbe riavuto la sua linea. Non aveva mai dovuto mettersi a dieta, ma la prospettiva non la preoccupava. Anche se le piaceva mangiare bene, non era golosa. A preoccuparla veramente era il sospetto che fosse un segno di vecchiaia. Quel giorno compiva quarant'anni. Era sempre stata snella, e faceva una splendida figura nei costosi abiti di sartoria. Aveva detestato la moda tutta drappeggi e vita bassa degli anni Venti, e aveva provato soddisfazione quando il punto vita era tornato al posto giusto. Dedicava tempo e denaro agli acquisti, e lo faceva con piacere. A volte si serviva del pretesto che doveva fare bella figura perché lavorava nel campo della moda: ma in realtà lo faceva perché le piaceva. Suo padre aveva creato un calzaturificio a Brockton, nel Massachusetts, vicino a Boston, l'anno in cui era nata Nancy, il 1899. Si faceva spedire da Londra le scarpe di classe e ne faceva copie a buon prezzo; poi aveva fatto di quel plagio una qualità del prodotto. I suoi annunci pubblicitari mostravano una scarpa londinese da 29 dollari accanto a una copia di Black da 10 dollari e chiedevano: "Sapete riconoscere la differenza?". Lavorava molto e se la passava bene; durante la Grande Guerra aveva vinto il primo dei contratti per le forniture militari che ancora adesso costituivano una colonna portante della sua attività. Negli anni Venti aveva aperto una catena di negozi, quasi tutti nel New England, che vendevano esclusivamente le sue scarpe. Quando era venuta la Depressione aveva ridotto i modelli da mille a cinquanta e aveva lanciato il prezzo standard di 6 dollari e 60 cent al paio, indipendentemente dal modello. Il suo coraggio era stato premiato: mentre tutti gli altri fallivano, i profitti di Black erano aumentati.
Diceva sempre che fabbricare scarpe scadenti costava quanto fabbricare scarpe buone, e che non c'era motivo perché gli operai dovessero andare in giro calzati male. In un'epoca in cui i poveri acquistavano scarpe con le suole di cartone che si consumavano in pochi giorni, quelle prodotte da Black costavano poco e duravano molto. Lui ne era molto orgoglioso, e lo era anche Nancy. Per lei, le ottime scarpe fabbricate dalla famiglia giustificavano la lussuosa casa di Black Bay in cui vivevano, la grande Packard con autista, le feste, i bei vestiti, la servitù. Non aveva la mentalità di tanti giovani ricchi, che davano per scontato il denaro avuto in eredità. Avrebbe tanto desiderato poter dire lo stesso di suo fratello. Peter aveva trentotto anni. Quando il padre era morto cinque anni prima aveva lasciato a Peter e Nancy una eguale quantità di azioni della società, il quaranta per cento a testa. La sorella di papà, la zia Tilly, aveva avuto il dieci per cento, e il dieci per cento rimanente era andato a Danny Riley, il suo vecchio e losco avvocato. Nancy aveva sempre pensato che avrebbe preso in mano lei l'azienda alla morte del padre, perché lui l'aveva sempre preferita a Peter. Una donna a capo di una società era poco comune, ma non così raro, soprattutto nell'industria dell'abbigliamento. Suo padre aveva un collaboratore, Nat Ridgeway, un aiutante molto capace, il quale non nascondeva di considerarsi il candidato più idoneo alla presidenza della Black's Boots. Ma anche Peter aspirava alla carica, ed era il figlio del fondatore. Nancy aveva sempre provato un po' di rimorso perché era la favorita del papà. Peter si sarebbe sentito umiliato e deluso se non avesse ereditato il trono paterno. Nancy non aveva avuto il coraggio di infliggergli un colpo simile. Perciò aveva accettato che la carica andasse a lui. Fra tutti e due disponevano dell'ottanta per cento delle azioni; perciò, quando erano d'accordo, potevano fare ciò che volevano. Nat Ridgeway si era dimesso ed era andato a lavorare per la General Textiles di New York. Era stata una grossa perdita per l'azienda, e in un certo senso anche per Nancy. Poco prima della morte di suo padre, Nat e Nancy avevano cominciato a uscire insieme. Nancy non era uscita con nessuno da quando Sean era mancato. Non l'aveva mai voluto. Ma Nat aveva scelto bene il momento, perché dopo cinque anni lei cominciava a pensare che la sua vita fosse troppo presa dal lavoro ed era pronta per una storia d'amore. Erano usciti a cena e a teatro, e lei gli aveva dato qualche caldo bacio della buonanotte, ma senza andare
oltre. Poi era venuta la crisi; e quando Nat aveva lasciato la Black's era finita anche quella storia, e Nancy si era sentita defraudata. Da quel giorno Nat aveva ottenuto splendidi risultati alla General Textiles, ed era diventato presidente dell'azienda. E si era sposato, con una bionda carina che aveva dieci anni meno di Nancy. Peter, invece, era finito male. Per la verità non era all'altezza del compito. Nei cinque anni trascorsi da quando aveva preso in mano l'azienda gli affari erano andati sempre peggio. I negozi non davano più utili e chiudevano faticosamente in pareggio. Peter aveva aperto a New York, nella Quinta Strada, un negozio di gran lusso che vendeva scarpe per signora a prezzi astronomici, e assorbiva tutta la sua attenzione e il suo tempo... ma lavorava in perdita. Solo la fabbrica, diretta da Nancy, continuava a guadagnare. A metà degli anni Trenta, mentre l'America usciva dalla Depressione, lei aveva cominciato a produrre sandali aperti per signora a prezzi assai modici, e la linea aveva avuto un grandissimo successo. Nancy era convinta che il futuro, nelle calzature da donna, stesse in prodotti leggeri e colorati, così poco costosi da poterli buttare via senza rimorso. Se fosse riuscita ad aumentare la produzione, avrebbe potuto vendere il doppio delle scarpe. Ma i suoi utili venivano inghiottiti dalle perdite di Peter, e non restava nulla da investire per l'espansione. Nancy sapeva cosa si doveva fare per salvare l'azienda. Era necessario vendere i negozi della catena, magari ai rispettivi gestori, per procurarsi contante. Il ricavato della vendita doveva essere utilizzato per ammodernare lo stabilimento e passare al sistema della catena di montaggio, introdotta in tutti i calzaturifici più all'avanguardia. Peter doveva cederle le redini e limitarsi a dirigere il suo lussuoso negozio di New York, con un rigoroso sistema di controllo delle spese. Nancy era disposta a lasciargli il titolo di presidente e il relativo prestigio; lei avrebbe continuato a sovvenzionargli il negozio con i profitti della fabbrica, entro un certo limite. Ma Peter avrebbe dovuto rinunciare al potere. Aveva elencato tutte le proposte in una relazione scritta, riservata a Peter. Lui aveva promesso di pensarci. Nancy gli aveva detto, con tutta la delicatezza di cui era capace, che non si poteva tollerare il declino dell'azienda e che se non fosse stato d'accordo, lei lo avrebbe scavalcato nel consiglio di amministrazione... e la conclusione sarebbe stata che lui avrebbe perso la carica e lei sarebbe diventata presidente. Nancy si augurava di
cuore che il fratello capisse. Se avesse provocato una crisi, si sarebbe conclusa di sicuro con una sconfitta umiliante per Peter e con un dissidio familiare forse irrimediabile. Finora Peter non si era mostrato offeso. Sembrava calmo e riflessivo e continuava a essere cordiale. Avevano deciso di andare insieme a Parigi. Peter aveva comprato scarpe all'ultima moda per il suo negozio, e Nancy aveva fatto acquisti per sé negli atelier e aveva tenuto d'occhio le spese del fratello. Nancy amava l'Europa, soprattutto Parigi, e aveva atteso con ansia la partenza per Londra. Poi era scoppiata la guerra. Avevano deciso di rientrare immediatamente negli Stati Uniti; ma l'avevano deciso anche tutti gli altri ed era stato molto difficile trovare posto. Alla fine, Nancy era riuscita a procurarsi i biglietti per una nave in partenza da Liverpool. Dopo un lungo viaggio da Parigi in treno e traghetto erano arrivati il giorno prima, e adesso stavano per imbarcarsi. Nancy era spaventata dai preparativi di guerra che aveva visto in Gran Bretagna. Il pomeriggio precedente un fattorino era entrato nella sua camera e aveva installato una complicata tenda nera perché tutte le finestre dovevano essere oscurate ogni sera, in modo che la città non fosse visibile dall'alto. I vetri erano attraversati da croci di nastro adesivo perché non volassero schegge in caso di un bombardamento. Davanti all'albergo c'erano barricate di sacchetti di sabbia, e sul retro un rifugio antiaereo. Il suo terrore era che gli Stati Uniti entrassero in guerra e che i suoi figli Liam e Hugh venissero chiamati alle armi. Ricordava ciò che aveva detto suo padre quando Hitler aveva preso il potere: i nazisti avrebbero impedito che la Germania diventasse comunista. E quella era stata l'ultima volta che Nancy aveva pensato a Hitler. Aveva troppo da fare per preoccuparsi dell'Europa. Non si interessava di politica internazionale, di equilibri fra le potenze o dell'ascesa del fascismo: erano astrazioni che le sembravano ridicole in confronto alla vita dei suoi figli. I polacchi, gli austriaci, gli ebrei e gli slavi avrebbero dovuto arrangiarsi. Il suo dovere consisteva nell'aver cura di Liam e di Hugh. Per la verità non ne avevano molto bisogno. Si era sposata giovane e aveva avuto subito i figli, che perciò adesso erano adulti. Liam era sposato e abitava a Houston, Hugh frequentava l'ultimo anno a Yale. Non studiava quanto avrebbe dovuto, e per Nancy era stata una preoccupazione scoprire che si era comprato una macchina sportiva veloce; ma ormai aveva largamente passato l'età in cui si ascoltano i consigli materni. Quindi, dato che non avrebbe potuto evitare che si arruolassero, non c'erano molte cose ad
attirarla a casa. Sapeva che la guerra sarebbe stata utile per gli affari. In America ci sarebbe stato un boom economico e la gente avrebbe avuto più soldi per comprare scarpe. Indipendentemente dal fatto che gli Stati Uniti entrassero o meno in guerra, ci sarebbe stato un potenziamento delle forze armate, e questo avrebbe portato altri contratti governativi. Nel complesso prevedeva che le vendite sarebbero raddoppiate o addirittura triplicate in due o tre anni... un'altra ragione per ammodernare lo stabilimento. Ma tutto ciò perdeva di importanza di fronte alla spaventosa, accecante possibilità che i suoi figli venissero arruolati, andassero a combattere e rimanessero feriti o uccisi su un campo di battaglia. Un facchino venne a ritirare i bagagli e interruppe i suoi angosciosi pensieri. Gli chiese se Peter aveva consegnato i suoi bagagli. Con un accento locale che rendeva quasi incomprensibile la risposta, il facchino disse che Peter aveva mandato a bordo le valigie già la sera prima. Nancy andò a vedere se suo fratello era pronto. Quando bussò, la porta fu aperta da una cameriera che, con lo stesso accento gutturale, le spiegò che era partito il giorno precedente. Nancy era sconcertata. Avevano preso alloggio all'albergo la sera prima; lei aveva deciso di cenare in camera e di andare a dormire presto. Peter aveva detto che avrebbe fatto altrettanto. Se aveva cambiato idea, dov'era andato? Dove aveva passato la notte? E adesso dov'era? Scese nell'atrio per telefonare, ma non sapeva chi chiamare. Lei e Peter non conoscevano nessuno in Inghilterra. Liverpool si trovava proprio di fronte a Dublino: possibile che Peter fosse andato in Irlanda, per visitare il Paese d'origine della famiglia Black? Avevano avuto intenzione di farlo, all'inizio. Ma Peter doveva sapere che non avrebbe fatto in tempo a rientrare per imbarcarsi. D'impulso, chiese alla centralinista il numero della zia Tilly. Chiamare l'America dall'Europa era un problema. Non c'erano linee sufficienti e a volte bisognava aspettare parecchio. Se si aveva fortuna, si otteneva la comunicazione in pochi minuti. Di solito la ricezione era pessima e bisognava urlare. A Boston mancava qualche minuto alle sette del mattino, ma la zia Tilly doveva essere alzata. Come molte persone anziane, dormiva poco e si svegliava presto. Era una donna molto lucida. Al momento le linee non erano troppo cariche, forse perché era presto per trovare gli uomini d'affari americani in ufficio, e dopo appena cinque
minuti l'apparecchio nella cabina squillò. Nancy staccò il ricevitore e udì il suono caratteristico dei telefoni americani. Immaginò la zia Tilly, in vestaglia di seta e pantofole di pelliccia, che attraversava il parquet della cucina per andare al telefono nero nel corridoio. «Pronto?» «Zia Tilly, sono Nancy.» «Santo cielo, figliola, ti senti poco bene?» «Sto benissimo. Hanno dichiarato guerra ma non hanno ancora cominciato a sparare, almeno in Inghilterra. Hai avuto notizie dei ragazzi?» «Tutti e due stanno magnificamente. Ho ricevuto una cartolina di Liam da Palm Beach: dice che Jacqueline è ancora più bella, adesso che è abbronzata. Hugh mi ha portata a fare una corsa con la macchina nuova. È davvero bella.» «Corre molto?» «No, a me è sembrato che la guidasse con prudenza, e ha rifiutato un cocktail perché ha detto che non bisogna bere alcolici quando si guidano macchine potenti.» «Ah, mi sento più tranquilla.» «Buon compleanno, cara! Cosa fai in Inghilterra?» «Sono a Liverpool e sto per imbarcarmi per New York, ma ho perso Peter. Non si è fatto vivo con te, vero?» «Oh, ma naturale che l'ha fatto. Ha convocato il consiglio d'amministrazione per dopodomani mattina.» Nancy tacque sbalordita. «Vuoi dire venerdì mattina?» «Sì, cara. Dopodomani è venerdì» rispose la zia Tilly in tono un po' stizzito, come se intendesse: Non sono tanto vecchia da non sapere che giorno è. Nancy era sconcertata. Che senso aveva convocare il consiglio d'amministrazione se lei e Peter non sarebbero stati presenti? Gli altri membri erano Tilly e Danny Riley, e non potevano prendere decisioni da soli. La faccenda sapeva di complotto. Cosa stava tramando Peter? «Cosa c'è all'ordine del giorno, zia?» «Lo stavo appunto guardando.» La zia Tilly lesse a voce alta. «Approvazione della cessione della Black's Boots Inc. alla General Textiles Inc. alle condizioni negoziate dal presidente.» «Mio Dio!» Nancy era così sconvolta che si sentiva mancare. Peter aveva intenzione di vendere la società a sua insaputa! Per un momento rimase troppo stordita per parlare. Poi si sforzò e chiese
con voce tremante: «Ti dispiace rileggere, zia?». La zia Tilly rilesse l'ordine del giorno. Nancy si sentì raggelare. Come aveva fatto Peter a combinare tutto sotto i suoi occhi? Quando aveva negoziato l'accordo? Doveva averci lavorato in segreto fin da quando lei gli aveva consegnato il suo rapporto. Aveva finto di esaminare le sue proposte, e intanto aveva complottato contro di lei. Aveva sempre saputo che Peter era un debole, ma non l'avrebbe mai creduto capace di un tradimento tanto vergognoso. «Sei ancora in linea, Nancy?» Lei deglutì. «Sì, certo. Sono ammutolita, ecco tutto. Peter me l'aveva tenuto nascosto.» «Davvero? Non è molto corretto, eh?» «Evidentemente vuole far approvare la proposta mentre io sono lontana... non ci sarà neppure lui alla riunione. Ci imbarchiamo oggi, e non saremo a casa se non fra cinque giorni.» Eppure, pensò, Peter era sparito... «Ma adesso non c'è un aereo?» «Il Clipper!» Nancy lo ricordava: ne avevano parlato tutti i giornali. Si poteva attraversare l'Atlantico in un giorno. Era questo ciò che intendeva fare Peter? «Sì, appunto, il Clipper» ripeté la zia Tilly. «Danny Riley ha detto che Peter tornerà con il Clipper e arriverà in tempo per la riunione del consiglio.» Per Nancy era difficile accettare la spudoratezza con cui il fratello le aveva mentito. Era venuto con lei fino a Liverpool per farle credere che si sarebbe imbarcato. Doveva essere ripartito non appena si erano separati nel corridoio dell'albergo, per andare in macchina a Southampton in tempo per prendere l'idrovolante. Come aveva potuto trascorrere tutto quel tempo con lei, a pranzare e parlare e discutere del viaggio imminente, mentre tramava per imbrogliarla? La zia Tilly chiese: «Perché non parti anche tu con il Clipper?». Era troppo tardi? Peter doveva aver fatto i piani con molta astuzia. Aveva previsto che si sarebbe informata quando avesse scoperto che non si sarebbe imbarcato con lei, e senza dubbio aveva organizzato le cose in modo che non potesse raggiungerlo. Ma suo fratello non era un maestro in fatto di tempismo e poteva aver commesso un errore. Nancy non osava sperare. «Tenterò» disse con improvvisa fermezza. «Arrivederci.» E riattaccò. Rifletté per un momento. Peter era partito la sera prima e doveva aver
viaggiato per tutta la notte. Il Clipper sarebbe decollato quel giorno da Southampton per arrivare a New York l'indomani, in tempo perché lui raggiungesse Boston per la riunione di venerdì. Ma a che ora decollava il Clipper? E lei sarebbe riuscita ad arrivare a Southampton prima della partenza? Andò al banco con il cuore in gola e chiese al capo portiere a che ora decollava da Southampton il Clipper della Pan American. «Ormai l'ha perso, signora» fu la risposta. «Controlli l'orario, per favore» insistette Nancy, sforzandosi di non tradire l'impazienza. Lui prese un orario e l'aprì. «Alle due.» Nancy controllò l'orologio. Era mezzogiorno in punto. Il capo portiere disse: «Non potrebbe arrivare a Southampton in tempo neppure se avesse a disposizione un aereo privato». «Perché, c'è qualche aereo?» chiese lei. L'uomo assunse l'espressione tollerante del dipendente dell'albergo che vuole assecondare uno straniero molto stupido. «C'è un campo d'aviazione a una quindicina di chilometri. Di solito, pagando, potrebbe trovare un pilota disposto a portarla dappertutto. Ma deve recarsi sul posto, cercare il pilota, fare il volo, atterrare nei pressi di Southampton e raggiungere il porto. In due ore è impossibile, mi creda.» Nancy gli voltò le spalle, sopraffatta dalla frustrazione. Negli affari non serviva a nulla arrabbiarsi: l'aveva imparato molto tempo prima. Quando le cose andavano male, bisognava trovare il modo di rimetterle in sesto. Non potrò arrivare a Boston in tempo, pensò: forse potrò impedire la cessione anche da lontano. Tornò alla cabina del telefono. A Boston erano le sette passate da poco. Il suo avvocato, Patrick MacBride, "Mac", doveva essere a casa. Diede il numero alla centralinista. Mac era l'uomo che avrebbe voluto per fratello. Quando era morto Sean, lui era intervenuto e si era incaricato di tutto: l'inchiesta, il funerale, il testamento, la situazione economica di Nancy. Era straordinario con i ragazzi, li accompagnava alle partite, andava a vederli recitare nelle rappresentazioni scolastiche, li consigliava sugli studi e sul lavoro. In tempi diversi aveva parlato a ognuno di loro dei fatti della vita. Quando suo padre era morto, Mac aveva sconsigliato a Nancy di permettere che Peter assumesse la presidenza: lei non gli aveva dato ascolto e adesso i fatti dimostravano che Mac aveva ragione. Sapeva che era più o meno innamorato di lei. Non
era una passione pericolosa: era un buon cattolico, fedele alla moglie bruttina e un po' sfatta. Nancy gli era molto affezionata, ma non era il tipo d'uomo di cui avrebbe potuto innamorarsi: era grassoccio, mite e calvo, e lei era sempre stata attratta da uomini con una grande forza di volontà e una massa di capelli... come Nat Ridgeway. Mentre attendeva la comunicazione, ebbe il tempo di riflettere sull'ironia del destino. Colui che cospirava assieme a Peter contro di lei era Nat Ridgeway, un tempo vice di suo padre e sua vecchia fiamma. Nat aveva abbandonato la società, e Nancy, perché non poteva arrivare alla presidenza; e adesso, come presidente della General Textiles, cercava ancora una volta di assumere il controllo della Black's Boots. Sapeva che Nat era a Parigi per le sfilate, ma non l'aveva incontrato. Peter però doveva averlo visto più volte, e aveva concluso l'accordo mentre fingeva di acquistare scarpe. Nancy non aveva sospettato nulla. Quando pensava alla facilità con cui si era lasciata imbrogliare, si infuriava con Peter e Nat... ma soprattutto con se stessa. Il telefono squillò nella cabina. Sollevò il ricevitore: quel giorno aveva fortuna con le chiamate intercontinentali. Mac rispose a bocca piena. Stava facendo colazione. «Mmm?» «Mac, sono Nancy.» Lui inghiottì svelto il boccone. «Grazie a Dio hai telefonato. Ti ho cercato per mezza Europa. Peter sta tentando di...» «Sì, l'ho appena saputo» lo interruppe lei. «Quali sono i termini dell'accordo?» «Un'azione della General Textiles più ventisette cent in contanti per cinque azioni della Black's.» «Gesù, ma è una svendita!» «Non è un prezzo troppo basso, se guardiamo gli utili...» «Ma il valore patrimoniale è molto superiore!» «Ehi, non sto litigando con te» disse Mac. «Scusami. Sono furibonda.» «Ti capisco.» Nancy udì le voci delle ragazze che strillavano: Mac aveva cinque figlie. Udiva anche una radio che trasmetteva e un bollitore che fischiava. Dopo un momento, Mac continuò: «Lo ammetto, l'offerta è troppo bassa. Rispecchia il livello attuale dei profitti, sì, ma non tiene conto del valore patrimoniale e del potenziale futuro». «Puoi dirlo forte.»
«Ma non è tutto.» «Sentiamo.» «Peter rimarrà a dirigere la Black's per cinque anni dopo la cessione. Non ci sarà posto per te.» Nancy chiuse gli occhi. Era il colpo più duro. Si sentiva nauseata. Il pigro, stupido Peter che aveva protetto e difeso per tanto tempo, sarebbe rimasto; e lei, che aveva tenuto a galla l'azienda, sarebbe stata estromessa. «Come ha potuto farmi una cosa simile?» esclamò. «È mio fratello!» «Mi dispiace sinceramente, Nan.» «Grazie.» «Non mi sono mai fidato di Peter.» «Mio padre ha passato la vita a costruire l'azienda» esclamò Nancy. «Non possiamo permettere che Peter la distrugga.» «Cosa vuoi che faccia?» «Possiamo impedirlo?» «Se tu ce la facessi ad arrivare in tempo per la riunione del consiglio, credo che potresti convincere tua zia e Danny Riley a rifiutare la proposta.» «Ma non ce la faccio: ecco il mio problema. Non puoi convincerli tu?» «Non servirebbe a niente. Contro Peter sarebbero in minoranza. Loro hanno solo il dieci per cento ciascuno, lui ha il quaranta.» «Non puoi votare a nome mio?» «Non ho la tua procura.» «Posso votare per telefono?» «È un'idea interessante... Credo che la proposta verrebbe messa ai voti e Peter si servirebbe della sua maggioranza per porre il veto.» Ci fu un silenzio mentre riflettevano entrambi. All'improvviso, Nancy ricordò le buone maniere e chiese: «Come va la famiglia?». «In questo momento devono ancora lavarsi e vestirsi e sono indisciplinate come al solito. E Betty è incinta.» Per un momento Nancy dimenticò i suoi guai. «Davvero?» Pensava che avessero rinunciato ad avere altri figli: la più piccola aveva cinque anni. «Dopo tutto questo tempo!» «Credevo di aver scoperto come succede.» Nancy rise. «Ehi, rallegramenti!» «Grazie, anche se Betty è un po'... incerta.» «Perché? È più giovane di me.»
«Ma sei figli sono tanti.» «Te li puoi permettere.» «Sì.... Sei sicura di non farcela a prendere quell'aereo?» Nancy sospirò. «Sono a Liverpool. Southampton è lontana più di trecento chilometri e l'aereo parte fra meno di due ore. È impossibile.» «Ma tu sei a Liverpool, e Liverpool non è lontana dall'Irlanda.» «Risparmiami le informazioni turistiche...» «Il Clipper fa scalo in Irlanda.» Il cuore di Nancy batté più forte. «Sei sicuro?» «L'ho letto sul giornale.» Questo cambiava tutto, pensò lei con un guizzo di speranza. Ce l'avrebbe fatta a prendere l'aereo, forse! «E dove fa scalo? A Dublino?» «No, in una località sulla costa occidentale. Ho dimenticato il nome. Però potresti farcela.» «Mi informerò e ti richiamerò più tardi. Ciao.» «Ehi, Nancy?» «Sì?» «Buon compleanno.» Nancy sorrise. «Mac... sei grande.» «Buona fortuna.» «Ciao.» Nancy riattaccò e tornò al banco. Il capo portiere le rivolse un sorriso condiscendente. Lei resistette a stento alla tentazione di rimetterlo al suo posto: sarebbe diventato ancora meno disponibile a collaborare. «Mi sembra che il Clipper faccia scalo in Irlanda» disse, sforzandosi di usare un tono cordiale. «Infatti, signora. A Foynes, nell'estuario dello Shannon.» Nancy avrebbe voluto chiedere: Perché non me l'hai detto prima, imbecille? Invece sorrise e domandò: «A che ora?». L'uomo prese l'orario. «L'ammaraggio è previsto per le tre e mezzo, e il decollo per le quattro e mezzo.» «Quindi posso imbarcarmi là?» Il sorriso condiscendente sparì, sostituito da un'espressione più rispettosa. «Non ci avevo pensato. È un volo di due ore con un piccolo aereo. Se trova un pilota, può farcela.» La tensione di Nancy aumentò. Cominciava a intravedere una possibilità. «Mi chiami un taxi che mi porti subito a quel campo d'aviazione, per favore.» Il capo portiere schioccò le dita, e un fattorino si avvicinò. «Un taxi per
la signora!» Poi si rivolse a Nancy. «E i suoi bagagli?» Adesso erano accatastati nell'atrio. «Non potrà portarli tutti su un piccolo aereo.» «Li mandi alla nave, per favore.» «Sta bene.» «E mi faccia avere subito il conto.» «Immediatamente.» Nancy prese la ventiquattrore dal mucchio dei bagagli: conteneva il necessario per la toilette e il trucco, e la biancheria di ricambio. Aprì una valigia e prese una camicetta pulita di seta blu per l'indomani mattina, una camicia da notte e un accappatoio. Teneva già sul braccio un leggero soprabito di cashmere grigio che aveva pensato di indossare sul ponte della nave se fosse soffiato un vento freddo. Decise di tenerlo con sé: forse ne avrebbe avuto bisogno per stare calda sull'aereo. Richiuse le valigie. «Il conto, signora Lenehan.» Nancy compilò un assegno, lo consegnò e aggiunse la mancia. «Grazie, signora Lenehan. Il taxi l'aspetta.» Nancy uscì in fretta e salì a bordo della piccola auto britannica. Il fattorino caricò la valigetta sul sedile accanto a lei e diede le istruzioni al taxista. Nancy soggiunse: «E corra più che può!». La macchina attraversò il centro con lentezza esasperante, mentre Nancy batteva il piede per l'impazienza. Il ritardo era causato dagli operai che stavano dipingendo linee bianche al centro della strada, sul bordo dei marciapiedi e intorno agli alberi. Si chiese irritata a cosa potevano servire; poi pensò che probabilmente avevano la funzione di aiutare gli automobilisti durante l'oscuramento. Il taxi accelerò quando attraversò i sobborghi e si diresse verso la campagna. Lì non c'erano preparativi per la guerra. I tedeschi non avrebbero bombardato i campi se non per sbaglio. Nancy continuava a guardare l'orologio. Erano già le dodici e mezzo. Se avesse trovato un aereo e un pilota, e l'avesse convinto a portarla in Irlanda e avesse concordato il prezzo, senza perdere però nemmeno un minuto, avrebbe potuto decollare all'una. Due ore di volo, aveva detto il capo portiere. Sarebbe atterrata alle tre. Poi, naturalmente, avrebbe dovuto andare dall'aeroporto a Foynes. Ma la distanza non doveva essere eccessiva: forse sarebbe arrivata addirittura in anticipo. Avrebbe trovato una macchina che la conducesse al porto? Cercò di calmarsi. Era inutile preoccuparsi adesso. Poi pensò che il Clipper poteva essere al completo. Le navi lo erano.
Scacciò quel pensiero. Stava per chiedere al taxista se erano molto lontani dalla destinazione quando, con suo grande sollievo, la macchina lasciò la strada e varcò un cancello aperto. Mentre avanzavano sobbalzando sull'erba, Nancy vide più avanti un piccolo hangar. Tutto intorno c'erano piccoli aerei coloratissimi, come una collezione di farfalle su velluto verde. Gli aerei non mancavano certo, notò soddisfatta. Ma aveva bisogno di un pilota, e sembrava che non ce ne fossero. Il taxista la portò fino all'ingresso dell'hangar. «Mi aspetti, per favore» disse Nancy balzando a terra. Non voleva restare bloccata. Entrò nell'hangar. C'erano tre aerei ma neppure un uomo. Uscì di nuovo nel sole. Non era possibile che il campo fosse incustodito, pensò ansiosamente. Doveva esserci qualcuno, altrimenti il cancello sarebbe stato chiuso. Girò intorno all'hangar e finalmente sul retro vide tre uomini accanto a un piccolo velivolo. L'apparecchio era una meraviglia. Era tutto dipinto di color giallo canarino e aveva piccole ruote gialle che a Nancy ricordavano le automobiline giocattolo. Era un biplano, con l'ala inferiore e quella superiore unite da supporti e cavi metallici, e aveva un unico motore nel muso. Se ne stava lì, con l'elica all'aria e la coda a terra come un cagnolino che chiede al padrone di portarlo a spasso. Stavano facendo rifornimento. Un uomo in tuta blu bisunta e berretto di tela era in piedi su una scaletta e versava la benzina da una tanica a un rigonfiamento dell'ala, sopra il sedile anteriore. A terra c'era un bell'uomo alto che aveva all'incirca l'età di Nancy. Portava un casco di cuoio da pilota e un giubbotto di pelle e stava parlando con un terzo uomo, in giacca di tweed. Nancy tossì. «Scusate.» I due le lanciarono un'occhiata, ma quello alto continuò a parlare. Entrambi distolsero lo sguardo. Non era un inizio promettente. Nancy disse: «Scusate il disturbo. Voglio noleggiare un aereo». L'uomo alto interruppe il suo dialogo per rispondere: «Non posso aiutarla». «È un'emergenza» insistette Nancy. «Non sono un taxista» ribatté quello, e girò di nuovo la testa. Nancy era abbastanza irritata per scattare: «Che bisogno ha di essere tan-
to maleducato?». Questa volta attirò l'attenzione dell'uomo che le rivolse un'occhiata incuriosita e ironica; e lei notò che aveva le sopracciglia nere, arcuate. «Non volevo essere scortese» disse con gentilezza. «Ma io e il mio aereo non siamo da noleggiare.» Disperata, Nancy insistette: «La prego, non si offenda, ma se è una questione di prezzo sono disposta a pagare qualunque somma...». L'uomo si era offeso. Assunse un'espressione gelida e girò di nuovo la testa. Nancy notò che sotto il giubbotto di pelle portava un abito grigio scuro gessato, e che le scarpe Oxford erano originali, non imitazioni economiche come quelle che fabbricava lei. Evidentemente era un ricco uomo d'affari che pilotava il suo aereo per diporto. «C'è qualcun altro, allora?» chiese Nancy. Il meccanico alzò gli occhi dal serbatoio e scosse la testa. «Oggi non c'è in giro nessuno.» L'uomo alto diceva al suo compagno: «Io non mi sono messo in affari per perdere denaro. Dica a Seward che quello che pago è la tariffa standard». «Il guaio è che non ha tutti i torti» ribatté l'uomo dalla giacca di tweed. «Lo so. Diciamo che discuteremo una tariffa più alta per il prossimo lavoro.» «Forse non sarà soddisfatto.» «In questo caso può prendere il suo libretto e andare al diavolo.» Nancy avrebbe voluto urlare per la frustrazione. C'erano un aereo in condizioni perfette e un pilota, ma per quanto insistesse non l'avrebbero portata dove doveva arrivare. Trattenne a stento le lacrime e disse: «Ma io devo andare a Foynes!». L'uomo alto tornò a girarsi. «Ha detto Foynes?» «Sì...» «Perché?» Era riuscita a impegnarlo in una conversazione, finalmente! «Sto cercando di raggiungere il Clipper della Pan American.» «Che strano... anch'io!» rispose lui. Nancy sentì rinascere la speranza. «Oh, mio Dio» disse. «Lei va a Foynes?» «Sì.» L'uomo aveva un'aria cupa e decisa. «Sto inseguendo mia moglie.» Era un'ammissione strana, e Nancy se ne rese conto nonostante la sua
agitazione. Un uomo che faceva una confessione del genere doveva essere molto debole o molto sicuro di sé. Guardò l'aereo. C'erano due abitacoli, uno dietro l'altro. «È un biposto?» chiese con trepidazione. L'uomo la squadrò. «Sì» rispose. «È un biposto.» «Mi porti con lei, la prego.» Lui esitò, poi alzò le spalle. «Perché no?» Nancy si sentì mancare per il sollievo. «Oh, Dio sia lodato» disse. «Le sono infinitamente grata.» «Non c'è di che.» L'uomo tese la mano robusta. «Mervyn Lovesey. Lieto di conoscerla.» Nancy gliela strinse. «Nancy Lenehan» rispose. «Lietissima.» Eddie si rese conto che aveva bisogno di parlare con qualcuno. Doveva essere qualcuno di cui poteva fidarsi nel modo più assoluto: qualcuno che sapesse mantenere il segreto. L'unica persona con cui poteva discutere un problema del genere era Carol-Ann. Era lei la sua confidente. Non ne avrebbe parlato neppure con suo padre, finché era vivo. Non gli era mai piaciuto mostrarsi debole di fronte a lui. Di chi altri poteva fidarsi? Pensò al comandante Baker. Marvin Baker era il tipo di pilota che ispirava fiducia ai passeggeri: bell'aspetto, mascella squadrata, sicuro di sé, energico. Eddie lo rispettava e lo trovava simpatico. Ma Baker pensava soprattutto all'aereo e alla sicurezza dei passeggeri ed era ligio alla legge. Avrebbe insistito per rivolgersi subito alla polizia. Non andava bene. C'era qualcun altro? Sì. C'era Steve Appleby. Steve era figlio di un tagliaboschi dell'Oregon, un ragazzone con i muscoli duri come il legno, cattolico, di famiglia poverissima. Avevano studiato insieme ad Annapolis ed erano diventati amici fin dal primo momento, nell'enorme mensa tutta bianca. Mentre le altre matricole si lamentavano del vitto, Eddie aveva ripulito il piatto. Aveva alzato gli occhi e aveva visto che c'era solo un altro cadetto abbastanza povero da pensare che il vitto fosse ottimo: Steve. Si erano guardati negli occhi e si erano compresi al volo. Erano rimasti amiconi fino alla fine del corso, e più tardi erano stati mandati entrambi a Pearl Harbor. Quando Steve aveva sposato Nella, Eddie gli aveva fatto da testimone; e l'anno prima Steve aveva fatto da testimone a lui. Steve era ancora in Marina, alla base di Portsmouth nel New
Hampshire. Ormai si vedevano di rado ma non aveva importanza: la loro amicizia poteva sopravvivere anche se non c'erano contatti per lunghi periodi. Non si scrivevano se non avevano qualcosa di importante da comunicarsi. Quando si trovavano a New York contemporaneamente cenavano insieme o andavano a una partita e si sentivano vicini come se si fossero separati il giorno prima. Eddie avrebbe affidato a Steve anche la sua anima. Steve era anche un magnifico organizzatore. Un permesso per il fine settimana, una bottiglia di liquore, un paio di biglietti per una finalissima... lui riusciva a procurarli quando nessun altro ci riusciva. Eddie decise di mettersi in contatto con lui. Questo lo aiutò a sentirsi un po' meglio. Si affrettò a rientrare nell'albergo. Andò nell'ufficio e diede alla proprietaria il numero della base navale. Poi salì in camera sua. La signora sarebbe venuta a chiamarlo quando fosse arrivata la comunicazione. Si tolse la tuta. Non voleva farsi trovare nella vasca da bagno: si lavò le mani e la faccia in camera da letto, indossò una camicia bianca pulita e i pantaloni dell'uniforme. Quei gesti abituali lo calmarono un po': ma era dominato da un'impazienza febbrile. Non sapeva cosa avrebbe detto Steve, ma sarebbe stato un immenso sollievo condividere il problema. Si stava annodando la cravatta quando la signora venne a bussare. Si precipitò giù per la scala e prese il telefono. Era in comunicazione con la centralinista della base. «Può passarmi Steve Appleby, per favore?» chiese. «In questo momento non è possibile comunicare con il tenente Appleby.» Eddie provò una stretta al cuore. La centralinista chiese: «Posso riferirgli qualcosa?». Eddie era profondamente deluso. Sapeva che Steve non poteva liberare Carol-Ann con un tocco di bacchetta magica, ma almeno avrebbero parlato, e dalla discussione sarebbe nata forse qualche idea. «Senta, signorina, è un'emergenza. Dove diavolo è Appleby?» «Con chi parlo, prego?» «Sono Eddie Deakin.» La centralinista abbandonò il tono ufficiale. «Oh, salve, Eddie! Lei è stato testimone alle sue nozze, vero? Io sono Laura Gross, ci siamo già conosciuti.» Poi abbassò la voce come una cospiratrice. «In via confidenziale, Steve ha passato la notte fuori dalla base.»
Eddie soffocò un gemito. Steve stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto... e proprio nel momento peggiore. «Quando dovrebbe rientrare?» «Doveva ripresentarsi prima di giorno, ma non si è ancora visto». Di male in peggio. Steve non era soltanto assente: forse era nei guai anche lui. La centralinista disse: «Posso passarle Nella; è all'ufficio dattilografe». «D'accordo, grazie.» Eddie non poteva confidarsi con Nella, ovviamente, ma poteva scoprire dov'era Steve. Batté il piede sul pavimento mentre attendeva. Ricordava bene Nella: una ragazza cordiale, con il visetto tondo e una massa di riccioli. Finalmente sentì la voce. «Pronto?» «Nella, sono Eddie Deakin.» «Ciao, Eddie. Dove sei?» «Chiamo dall'Inghilterra, Nella. Dov'è Steve?» «Dall'Inghilterra? Santo Dio! Steve è... al momento è irraggiungibile.» Nella sembrava a disagio. «È successo qualcosa?» «Sì. Quando credi che tornerà?» «Stamattina, forse fra un'ora. Eddie, mi sembri così agitato. Di cosa si tratta? Sei in un pasticcio?» «Steve può telefonarmi, se torna in tempo.» Eddie diede il numero telefonico del Langdown Lawn. Nella lo ripeté. «Eddie, davvero non vuoi dirmi cosa succede?» «Non posso. Raccomandagli di chiamarmi. Io starò qui ancora per un'ora. Poi dovrò partire con l'aereo... oggi torniamo a New York.» «Come vuoi» disse Nella in tono dubbioso. «Come sta Carol-Ann?» «Devo scappare» disse Eddie. «Ciao, Nella.» Riattaccò senza attendere la risposta. Si rendeva conto di comportarsi da maleducato, ma era troppo sconvolto per preoccuparsene. Un nodo gli attanagliava le viscere. Non sapeva cosa fare e risalì in camera. Lasciò la porta socchiusa per sentire il telefono nella hall, e sedette sull'orlo del letto. Stava per piangere, per la prima volta da quando era bambino. Si strinse la testa fra le mani e mormorò: «Cosa devo fare?». Ricordava il rapimento di Baby Lindbergh. Ne avevano parlato tutti i giornali quando era ad Annapolis, sette anni prima. Il bambino era stato assassinato. «Oh, Dio, proteggi Carol-Ann» pregò. Non pregava spesso, ultimamente. Le preghiere non erano servite molto ai suoi genitori. Era molto meglio cavarsela da soli. Scosse la testa. Non era il momento di tornare alla religione. Doveva riflettere e fare qualcosa.
Coloro che avevano sequestrato Carol-Ann volevano che Eddie fosse a bordo dell'aereo, questo era evidente. Forse era una buona ragione per non partire. Ma se fosse rimasto a terra, non avrebbe incontrato Tom Luther e non avrebbe scoperto cosa volevano. Avrebbe sventato i loro piani, ma avrebbe perso la possibilità di prendere in mano le redini della situazione. Si alzò e aprì la valigetta. Non riusciva a pensare ad altro che a CarolAnn, ma ripose automaticamente il nécessaire per la barba, il pigiama e la biancheria. Si spazzolò distrattamente i capelli e mise via le spazzole. Nel momento in cui tornava a sedersi squillò il telefono. Uscì dalla camera. Scese di corsa la scala, ma qualcuno l'aveva preceduto all'apparecchio. Mentre attraversava la hall, udì la proprietaria chiedere: «Il quattro ottobre? Aspetti, vedo se abbiamo una stanza libera». Tornò indietro a testa bassa. Si disse che comunque Steve non poteva far nulla. Nessuno poteva far nulla. Qualcuno aveva rapito Carol-Ann, e lui doveva fare ciò che gli sarebbe stato ordinato, così avrebbe riavuto sua moglie. Nessuno poteva farlo uscire dal guaio in cui si trovava. Con una stretta al cuore ricordò che l'ultima volta avevano litigato. Non avrebbe mai potuto perdonarselo. Adesso si augurava con tutta l'anima di essersi morso la lingua. Perché diavolo avevano litigato, poi? Giurò che non avrebbe litigato con lei mai più, se avesse potuto riaverla sana e salva. Perché non suonava, quel maledetto telefono? Mickey bussò alla porta ed entrò. Era in tenuta di volo e aveva in mano la valigia. «Pronto?» chiese allegramente. Eddie si sentì assalire dal panico. «Non può essere già ora!» «Ma sicuro!» «Merda...» «Cos'è successo? Ti piace tanto stare qui? Vuoi rimanere a combattere contro i tedeschi?» Eddie doveva concedere a Steve qualche altro minuto. «Vai pure avanti» disse a Mickey. «Ti raggiungo subito.» Mickey sembrava un po' offeso perché Eddie rifiutava la sua compagnia. Alzò le spalle. «A più tardi» esclamò e uscì. Dove diavolo era Steve Appleby? Si sedette e per un quarto d'ora fissò la tappezzeria. Alla fine prese la valigia e scese lentamente la scala. Guardava il tele-
fono come se fosse un serpente a sonagli pronto ad attaccarlo. Si fermò nella hall e attese che squillasse. Il comandante Baker scese e lo guardò sorpreso. «Sei in ritardo. È meglio che tu venga in taxi con me.» Il comandante aveva il privilegio di farsi portare all'hangar in taxi. «Aspetto una telefonata» si giustificò Eddie. Il comandante aggrottò la fronte. «Be', non puoi più aspettare. Andiamo.» Per un momento Eddie rimase immobile. Poi si rese conto che era un comportamento stupido. Steve non avrebbe chiamato, e lui doveva imbarcarsi sull'aereo, se voleva fare qualcosa. Con uno sforzo, si decise; prese la valigetta e uscì. Il taxi li stava aspettando. Salirono. Eddie si rese conto di aver sfiorato l'insubordinazione. Non voleva offendere Baker: era un buon comandante e l'aveva sempre trattato bene. «Chiedo scusa» disse. «Aspettavo una telefonata dagli Stati Uniti.» Il comandante sorrise con aria comprensiva. «Diavolo, domani sarai a casa!» commentò allegramente. «Giusto» mormorò Eddie. Doveva cavarsela da solo. PARTE SECONDA Da Southampton a Foynes 6 Mentre il treno correva verso sud attraverso le pinete del Surrey diretto a Southampton, Elizabeth Oxenford fece a sua sorella Margaret una rivelazione sconvolgente. Gli Oxenford erano in una carrozza speciale riservata ai passeggeri del Clipper. Margaret stava in piedi in fondo alla vettura, sola, e guardava dal finestrino. Il suo stato d'animo oscillava incoerentemente fra la disperazione più nera e un'eccitazione crescente. Era incollerita e depressa all'idea di abbandonare la patria nel momento del bisogno, ma non poteva fare a meno di sentirsi emozionata alla prospettiva di andare in aereo in America. Elizabeth si staccò dal resto della famiglia e le si avvicinò con aria solenne. Dopo un attimo di esitazione disse: «Ti voglio bene, Margaret». Margaret si commosse. Negli ultimi anni, da quando erano cresciute ab-
bastanza per comprendere la battaglia ideologica che infuriava nel mondo, avevano assunto punti di vista diametralmente opposti, e in conseguenza di ciò erano diventate estranee. Margaret ne aveva sofferto, e l'allontanamento la rattristava. Sarebbe stato magnifico se avessero potuto essere di nuovo amiche. «Anch'io ti voglio bene» disse, e l'abbracciò forte. Dopo un momento Elizabeth annunciò: «Io non vengo in America». Margaret si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore. «Come farai?» «Dirò semplicemente alla mamma e al papà che non vengo. Ho ventun anni. Non possono costringermi.» Margaret non era sicura che fosse davvero così, ma non insistette, per il momento. Aveva troppe domande da farle. «E dove andrai?» «In Germania.» «Ma... Elizabeth!» esclamò Margaret, inorridita. «Ti farai ammazzare!» Elizabeth la fissò con aria di sfida. «Sai, non ci sono soltanto i socialisti, disposti a morire per una causa.» «Ma per il nazismo!» «Non è soltanto per il fascismo» disse Elizabeth, con una luce strana negli occhi. «Ma per tutti i bianchi purosangue che corrono il pericolo di venire travolti da negri e individui di sangue misto. È per la razza umana.» Margaret era disgustata. Era già abbastanza doloroso perdere la sorella... ma perderla per una causa tanto malvagia! Comunque, non voleva riattizzare le vecchie polemiche: la preoccupava soprattutto l'incolumità di Elizabeth. «Come vivrai?» chiese. «Ho del denaro mio.» Margaret ricordava: tutte e due avevano ereditato una somma dal nonno, e potevano disporne dall'età di ventun anni. Non era molto, però sufficiente per vivere. Poi rammentò un altro particolare. «Ma il tuo bagaglio partirà per New York.» «Le valigie sono piene di vecchie tovaglie. Ne ho preparate altre e le ho spedite lunedì.» Margaret era stupefatta. Elizabeth aveva organizzato tutto alla perfezione e messo in atto il suo piano nella massima segretezza. Amareggiata, si rese conto di quanto era stato avventato e scombinato, in confronto, il suo tentativo di fuga. Mentre io rimuginavo e rifiutavo di mangiare, pensò, Elizabeth prenotava i biglietti e spediva i bagagli. Naturalmente Elizabeth era maggiorenne e lei no: ma l'importante non era questo, bensì l'accurata pianificazione e la fredda esecuzione. Margaret si vergognava al pensiero
che sua sorella, così sciocca e fuorviata in politica, si fosse comportata in un modo tanto più intelligente di lei. All'improvviso capì che Elizabeth le sarebbe mancata. Anche se non erano più grandi amiche, Elizabeth era una presenza. Spesso litigavano e deridevano vicendevolmente le loro idee: però Margaret avrebbe sentito la mancanza anche di questo. Inoltre, nei momenti difficili si sostenevano a vicenda. Elizabeth soffriva molto durante le mestruazioni, e Margaret la faceva restare a letto e le portava una tazza di cioccolata calda e la rivista "Picture Post". Elizabeth era stata molto dispiaciuta quando Ian era morto, anche se lo disapprovava, e aveva confortato Margaret. Con gli occhi pieni di lacrime, disse: «Mi mancherai terribilmente». «Non fare così» le raccomandò Elizabeth. «Non voglio che loro lo sappiano, per il momento.» Margaret si ricompose. «Quando glielo dirai?» «All'ultimo minuto. Te la senti di comportarti in modo normale fino ad allora?» «D'accordo.» Sorrise con sforzo. «Sarò sgradevole con te come al solito.» «Oh, Margaret!» Elizabeth stava per scoppiare in lacrime. Deglutì e disse: «Va' a parlare con loro mentre mi calmo». Margaret le strinse con forza la mano e tornò al suo posto. La mamma sfogliava "Vogue" e ogni tanto leggeva qualche frase al papà, senza curarsi del suo evidente disinteresse. «I pizzi sono di gran moda» citò, e aggiunse: «Io non me ne sono accorta, e tu?». La mancanza di risposta non la scoraggiò affatto. «Il bianco è il colore del fascino. Be', a me non piace. Col bianco sembra che abbia mal di fegato.» Suo padre aveva un'espressione insopportabilmente soddisfatta. Era contento, Margaret lo sapeva, perché aveva riaffermato la propria autorità e schiacciato la sua ribellione. Però non sapeva che la figlia maggiore stava per far esplodere una bomba a orologeria. Elizabeth avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo? Una cosa era confidarsi con Margaret, un'altra era parlarne al padre. Forse Elizabeth si sarebbe persa d'animo all'ultimo momento. Lei pure aveva pensato a un confronto con lui, ma aveva finito per evitarlo. E anche se Elizabeth l'avesse detto al padre, non era affatto certo che potesse scappare. Aveva ventun anni e del denaro suo ma in compenso lui aveva una forza di volontà spaventosa ed era privo di scrupoli, quando era deciso a spuntarla. Se avesse potuto escogitare qualcosa per fermare Eliza-
beth, l'avrebbe fatto: Margaret ne era sicura. In linea di principio non gli sarebbe dispiaciuto che la figlia si schierasse con i fascisti, ma si sarebbe infuriato perché rifiutava di assecondare i suoi progetti per la famiglia. Margaret aveva avuto parecchi dissidi di quel genere con suo padre. Lui si era indignato quando aveva imparato a guidare senza chiedergli il permesso; e dopo aver scoperto che era andata ad ascoltare un discorso di Marie Stopes, la discussa pioniera della contraccezione, per poco non gli era venuto un colpo. Ma in quelle occasioni lei l'aveva spuntata solo perché aveva agito a sua insaputa. Non aveva mai avuto la meglio in uno scontro diretto. Lui le aveva rifiutato il permesso di andare a un campeggio estivo, a sedici anni, con la cugina Catherine e diversi suoi amici, anche se gli organizzatori erano un vicario e la moglie; si era opposto perché ci sarebbero stati anche i ragazzi. La battaglia più accanita era stata per la scuola. Margaret aveva pregato e supplicato, gridato e singhiozzato e protestato, e lui era stato inemovibile. «Le ragazze non hanno bisogno di andare a scuola» aveva detto. «Tanto poi si sposano.» Ma non poteva continuare a tiranneggiare i figli in eterno, no? Margaret non riusciva a star ferma. Si alzò e si avviò lungo la carrozza, tanto per fare qualcosa. Quasi tutti gli altri passeggeri del Clipper sembravano condividere il suo umore ambivalente, metà eccitato e metà depresso. Quando erano saliti tutti sul treno alla stazione di Waterloo c'erano state conversazioni vivaci e risate. Là avevano consegnato i bagagli, e c'era stato un problema con il baule della mamma, che superava di parecchio il limite di peso; ma lei aveva ignorato sovranamente le obiezioni dei dipendenti della Pan American, che alla fine avevano accettato il baule. Un giovane in uniforme aveva ritirato i biglietti e li aveva fatti salire sulla carrozza speciale. Poi, quando avevano lasciato Londra, i passeggeri erano diventati taciturni, come se dicessero addio a un Paese che forse non avrebbero più rivisto. Fra i passeggeri c'era una famosa diva americana, e questo spiegava in parte l'eccitazione contenuta. Si chiamava Lulu Bell. Adesso Percy era seduto accanto a lei e le parlava come se la conoscesse da sempre. Anche Margaret avrebbe voluto parlarle, ma non aveva il coraggio di avvicinarsi per attaccare discorso. Percy era più sfacciato. Lulu Bell sembrava più vecchia di persona che sullo schermo. Doveva essere prossima alla quarantina, anche se interpretava tuttora parti di debuttante e di giovane sposa. Comunque era molto bella; piccola e vivace, faceva pensare a un uccellino, un passerotto o uno scricciolo.
Margaret le sorrise e Lulu disse: «Il suo fratellino mi tiene compagnia». «Spero che si comporti da ragazzo educato» rispose Margaret. «Oh, sì. Mi sta raccontando della vostra bisnonna, Rachel Fishbein.» Lulu assunse un tono solenne, come se parlasse di un tragico eroismo. «Doveva essere davvero una donna meravigliosa.» Margaret era imbarazzata. Era una cattiveria, da parte di Percy, raccontare bugie agli sconosciuti. Cosa mai aveva fatto credere a quella poveretta? Per non tradire il suo nervosismo, sorrise con aria vaga, un trucco che aveva imparato da sua madre, e passò oltre. Percy era sempre stato terribile, ma da un po' di tempo era ancora più sfacciato. Stava crescendo di statura, la sua voce stava diventando più profonda, e i suoi scherzi a volte erano pericolosi. Aveva ancora paura del padre, e si azzardava a sfidare l'autorità dei genitori solo quando Margaret lo appoggiava; ma non era difficile prevedere che un giorno non lontano si sarebbe ribellato apertamente. Come si sarebbe comportato il papà? Sarebbe riuscito a intimidire il figlio con la stessa facilità con cui aveva intimidito lei ed Elizabeth? Margaret non ne era sicura. In fondo alla vettura c'era un personaggio misterioso che a Margaret sembrava vagamente familiare. Era un uomo alto, con l'aria sensibile e gli occhi ardenti, e spiccava tra quella gente ben vestita e ben nutrita perché era magro come uno scheletro e portava un abito sciupato di stoffa grossolana. I capelli erano tagliati troppo corti, come quelli di un detenuto. Sembrava teso, preoccupato. Margaret lo guardò, incontrò i suoi occhi, e improvvisamente ricordò. Non l'aveva mai conosciuto ma aveva visto le sue foto sui giornali. Era Carl Hartmann, tedesco, socialista e scienziato. Margaret decise di essere sfrontata come suo fratello: gli si sedette di fronte e si presentò. Hartmann, da molto tempo avversario di Hitler, per il suo coraggio era diventato un eroe per i giovani come lei. Era scomparso circa un anno prima, e si era temuto il peggio. Margaret immaginò che fosse fuggito dalla Germania. Aveva l'aria di un uomo evaso dall'inferno. «Tutto il mondo si chiedeva che ne era stato di lei» disse Margaret. Hartmann rispose in un inglese corretto, con un forte accento tedesco. «Ero agli arresti domiciliari. Ma ero autorizzato a proseguire il mio lavoro scientifico.» «E poi?» «Sono fuggito» rispose semplicemente. Presentò l'uomo che gli sedeva accanto. «Conosce il mio amico, il barone Gabon?»
Margaret ne aveva sentito parlare. Philippe Gabon era un banchiere francese che si serviva della sua immensa ricchezza per sostenere le cause degli ebrei, come il sionismo, il che lo rendeva sgradito al governo britannico. Passava gran parte del tempo in viaggio per il mondo, cercando di convincere i governi ad accogliere gli ebrei sfuggiti ai nazisti. Era un uomo piccolo, piuttosto grasso, con la barba ben curata. Indossava un elegante abito nero con panciotto tortora e cravatta color argento. Margaret immaginò che avesse pagato lui il viaggio ad Hartmann. Gli strinse la mano e si rivolse di nuovo allo scienziato. «I giornali non hanno parlato della sua fuga» disse. Il barone Gabon intervenne: «Cerchiamo di tenerla segreta finché Carl non sarà al sicuro, lontano dall'Europa». Era un'affermazione preoccupante, pensò Margaret: sembrava quasi che i nazisti gli stessero dando la caccia. «Che cosa si propone di fare in America?» chiese. «Andrò a Princeton, e lavorerò presso la facoltà di Fisica.» rispose Hartmann. Un'espressione amara gli passò sul viso. «Non volevo abbandonare il mio Paese. Ma se fossi rimasto, il mio lavoro avrebbe forse contribuito alla vittoria dei nazisti.» Margaret non sapeva niente del suo lavoro: sapeva solo che era uno scienziato. Le interessavano le sue idee politiche. «Il suo coraggio ha ispirato tanta gente» disse. Pensava a Ian, che aveva tradotto i discorsi di Hartmann all'epoca in cui gli veniva ancora permesso tenere discorsi. Quelle parole di ammirazione lo misero a disagio. «Avrei voluto continuare» disse. «Mi dispiace di aver rinunciato.» Il barone Gabon intervenne: «Non ha rinunciato, Carl. Non ha nulla da rimproverarsi. Ha fatto la sola cosa che poteva fare». Hartmann annuì, e Margaret capì che la ragione lo spingeva a concordare con Gabon, ma in cuor suo era convinto di aver piantato in asso il suo Paese. Lei avrebbe voluto confortarlo in qualche modo ma non sapeva che dire. Il suo dilemma fu risolto dall'addetto della Pan American che venne ad annunciare: «Il pranzo è servito nella carrozza vicina. Possono accomodarsi». Margaret si alzò. «È stato un onore conoscerla. Spero che potremo parlare ancora.» «Certo» rispose Hartmann. E sorrise per la prima volta. «Faremo insieme poco meno di cinquemila chilometri.» Margaret andò nella carrozza ristorante e si sedette con i suoi. La mam-
ma e il papà erano a un lato del tavolo, i tre figli accalcati insieme all'altro. Percy era fra Margaret ed Elizabeth. Margaret sbirciò la sorella. Quando avrebbe lanciato la bomba? Il cameriere versò l'acqua e il papà ordinò una bottiglia di vino del Reno. Elizabeth taceva e guardava dal finestrino. Margaret attendeva, ansiosa. La mamma percepì quella tensione e chiese: «Cosa c'è, ragazze?». Margaret non parlò. Elizabeth annunciò: «Ho qualcosa di importante da dirvi». Il cameriere venne a portare la crema di funghi ed Elizabeth tacque mentre li serviva. La mamma chiese un'insalata. Quando il cameriere si allontanò, la mamma chiese: «Cosa, cara?». Margaret trattenne il respiro. «Ho deciso di non venire in America» dichiarò Elizabeth. «Che diavolo dici?» esclamò irritato il papà. «Certo che vieni... siamo in viaggio!» «Non mi imbarcherò sull'aereo con voi» insistette Elizabeth con calma. Margaret la osservava attentamente. La voce era calma, ma il viso lungo e scialbo era pallido per la tensione. Margaret si commosse. «Non dire sciocchezze, Elizabeth» intervenne la mamma. «Tuo padre ti ha preso il biglietto.» Percy osservò: «Forse possiamo farcelo rimborsare». «Stai zitto, stupido» ordinò suo padre. Elizabeth proseguì: «Se cercherete di costringermi, rifiuterò di salire sull'aereo. E la compagnia aerea non vi permetterà di trascinarmi a bordo mentre scalcio e urlo». Elizabeth era stata davvero astuta, pensò Margaret. Aveva colto papà in un momento vulnerabile. Non poteva condurla a bordo con la forza, e non poteva fermarsi per risolvere il problema perché le autorità stavano per arrestarlo in quanto fascista. Ma lui non si diede per vinto. Si era reso conto che Elizabeth faceva sul serio. Posò il cucchiaio. «E cosa credi di poter fare se resti?» chiese in tono aspro. «Arruolarti come aveva intenzione di fare quella cretina di tua sorella?» Margaret avvampò di rabbia, ma si morse la lingua e non disse nulla, in attesa che Elizabeth sferrasse il colpo definitivo. Elizabeth disse: «Andrò in Germania». Per un momento suo padre rimase ammutolito. La mamma chiese: «Cara, non pensi di esagerare?».
Percy intervenne imitando alla perfezione la voce di papà. «Ecco cosa succede quando si permette alle donne di discutere di politica» disse in tono pomposo. «La colpa è di quella Marie Stopes...» «Zitto, Percy» lo esortò Margaret, e gli allungò una gomitata nelle costole. Rimasero in silenzio mentre il cameriere portava via i piatti con la crema di funghi che nessuno aveva toccato. Ce l'ha fatta, pensò Margaret: Elizabeth ha trovato il coraggio di parlare apertamente. E adesso... come finirà? Suo padre era sconcertato. Per lui era stato facile disprezzare Margaret perché voleva restare in Inghilterra a combattere contro i fascisti; ma era più difficile deridere Elizabeth, che stava dalla sua parte. Comunque, un piccolo dubbio morale non lo preoccupava mai per molto tempo. Quando il cameriere si allontanò, disse: «Te lo proibisco nel modo più assoluto». Il tono era definitivo, come se quelle parole ponessero fine alla discussione. Margaret guardò sua sorella. Come avrebbe reagito? Il papà non si era neppure degnato di discutere con lei. La risposta di Elizabeth fu sorprendentemente gentile: «Temo che tu non possa proibirmelo, papà caro. Ho ventun anni e posso fare ciò che voglio». «No, finché dipendi economicamente da me» ribatté lui. «Allora ne farò a meno» aggiunse Elizabeth. «Ho una piccola rendita.» Lui bevve in gran fretta un sorso di bianco del Reno e disse: «Non lo permetterò, e questo è quanto». Sembrava una frase a vuoto. Margaret cominciò a credere che sua sorella l'avrebbe spuntata. Non sapeva se doveva essere lieta all'idea di Elizabeth che sconfiggeva il papà, oppure disgustata perché sarebbe andata tra i nazisti. Il cameriere venne a servire le sogliole. Soltanto Percy mangiò. Elizabeth era pallida per la paura, ma la sua bocca aveva una piega risoluta. Margaret non poteva fare a meno di ammirarne la forza d'animo, anche se ne disprezzava gli obiettivi che si proponeva. Percy chiese: «Se non vieni in America, perché sei salita sul treno?» «Ho prenotato una cabina su una nave che parte da Southampton.» «Non puoi imbarcarti su una nave diretta in Germania, da questo Paese» osservò suo padre in tono trionfante. Margaret trasalì. Era vero. Elizabeth aveva forse commesso un errore? Il suo piano sarebbe fallito per quel dettaglio? Elizabeth non si scompose. «Prendo una nave diretta a Lisbona» rispose
con molta calma. «Ho spedito un vaglia telegrafico a una banca di laggiù e ho prenotato l'albergo.» «Mi hai imbrogliato!» esclamò suo padre, furioso. Aveva alzato la voce. Un uomo seduto al tavolo accanto si voltò. Elizabeth continuò impassibile: «E a Lisbona troverò una nave diretta in Germania». «E poi?» chiese la mamma. «Ho diversi amici a Berlino, mamma. Lo sai.» La mamma sospirò. «Sì, cara.» Aveva un'aria molto triste. Margaret capì che si era arresa. Il papà disse a voce alta: «Anch'io ho molti amici a Berlino». Ai tavoli vicini molti commensali alzarono la testa e la mamma lo esortò: «Non gridare, caro. Ti sentiamo benissimo». Lui abbassò la voce: «Ho diversi amici a Berlino che ti manderanno via appena arrivi». Margaret si coprì la bocca con la mano. Naturalmente, suo padre poteva ottenere che i tedeschi espellessero Elizabeth: in un Paese fascista, il governo poteva fare qualunque cosa. La fuga di Elizabeth si sarebbe dunque conclusa di fronte a uno spregevole burocrate che, al controllo dei passaporti, avrebbe scosso la testa e le avrebbe rifiutato il visto di entrata? «Non lo faranno» replicò Elizabeth. «Vedremo» ribatté il papà. Ma non sembrava molto sicuro di sé. «Mi accoglieranno a braccia aperte» dichiarò Elizabeth. Il tono stanco la rendeva ancora più convincente. «Dirameranno un comunicato stampa per annunciare al mondo che sono scappata dall'Inghilterra per schierarmi dalla loro parte, esattamente come gli sciagurati giornali britannici pubblicizzano la defezione di famosi ebrei tedeschi.» Percy commentò: «Mi auguro che non scoprano la verità sulla nonna Fishbein». Elizabeth era corazzata contro gli attacchi di suo padre, ma l'umorismo crudele di Percy la colpì sul vivo. «Stai zitto, mostro!» disse, e si mise a piangere. Ancora una volta il cameriere ritirò i piatti intatti. La terza portata era costituita da costolette d'agnello con verdure. Il cameriere versò il vino. La mamma ne bevve un sorso: succedeva molto di rado, e solo quando era agitata. Il papà incominciò a mangiare. Attaccava la carne con coltello e forchetta e masticava furiosamente. Margaret lo studiò, e si stupì nello scorgere
una sfumatura di sbalordimento sotto la maschera di rabbia. Era strano vederlo sconvolto: di solito la sua arroganza superava indenne ogni crisi. Mentre ne scrutava l'espressione, cominciò a rendersi conto che tutto il suo mondo stava andando in frantumi. La guerra segnava la fine delle sue speranze: aveva desiderato che il popolo britannico abbracciasse il fascismo sotto la sua guida, e invece aveva dichiarato guerra al fascismo e aveva costretto lui all'esilio. Per la verità i britannici lo avevano respinto già a metà degli anni Trenta, ma fino ad ora era riuscito a fingere di non rendersene conto e a illudersi che un giorno si sarebbero rivolti a lui nel momento del bisogno. Forse per questo era così tremendo, pensò: viveva in una menzogna. Lo zelo da crociato si era trasformato in una mania ossessiva, la sicurezza era degenerata in vana spavalderia. Non essendo riuscito a diventare il dittatore della Gran Bretagna, si era ridotto a tiranneggiare i figli. Ma ormai non poteva più ignorare la verità. Lasciava il suo Paese e, pensò all'improvviso Margaret, forse non gli sarebbe stato più permesso ritornarvi. E nel momento in cui le sue speranze politiche andavano irrimediabilmente in frantumi, i figli si ribellavano. Percy fingeva di essere ebreo, Margaret aveva tentato di fuggire e adesso persino Elizabeth, l'unica che gli era rimasta devota, lo sfidava. Margaret aveva pensato che ogni incrinatura nella corazza paterna le avrebbe dato soddisfazione; ma adesso si sentiva a disagio. Quel dispotismo immutabile era stato un fattore costante della sua vita, e la sconcertava il pensiero che potesse crollare. Come una nazione oppressa di fronte alla prospettiva della rivoluzione, all'improvviso si sentiva insicura. Si sforzò di mangiare qualcosa, ma faticava a deglutire. La mamma rigirò un pomodoro nel piatto, poi posò la forchetta e chiese: «A Berlino c'è un ragazzo che ti piace, Elizabeth?». «No» rispose sua sorella. Margaret le credette: ma la domanda della mamma era comunque acuta. Lei sapeva che il fascino esercitato dalla Germania su Elizabeth non era esclusivamente ideologico. In quei soldati alti e biondi dalle uniformi immacolate e dagli stivali lucidi c'era qualche cosa che la faceva fremere a un livello più profondo. E se nella buona società londinese era considerata una ragazza piuttosto bruttina e comune, appartenente a una famiglia stravagante, a Berlino sarebbe stata qualcosa di eccezionale: un'aristocratica inglese figlia di un pioniere del fascismo, una straniera che ammirava il nazismo tedesco. La sua defezione allo scoppio della guerra l'avrebbe resa famosa. Sarebbe stata corteggiatissima.
Molto probabilmente si sarebbe innamorata di un giovane ufficiale o di un funzionario del partito: si sarebbero sposati, e avrebbero avuto figli biondi che sarebbero cresciuti parlando il tedesco. La mamma continuò: «Quello che hai intenzione di fare è molto pericoloso, cara. Noi ci preoccupiamo soltanto della tua sicurezza». Margaret si chiese se suo padre era davvero preoccupato per la sicurezza di Elizabeth. La mamma lo era, certamente; ma lui era rabbioso soprattutto per la disobbedienza. Forse sotto la furia c'era anche una traccia di tenerezza. Non era stato sempre così duro. Margaret ricordava momenti di gentilezza e persino di allegria, in passato. Quel pensiero la colmò di tristezza. Elizabeth disse: «So che è pericoloso, mamma, ma in questa guerra è in gioco il mio futuro. Non voglio vivere in un mondo dominato da finanzieri ebrei e da luridi sindacalisti comunisti». «Che stupidaggine!» esclamò Margaret, ma nessuno l'ascoltò. «Allora vieni con noi» insistette la mamma. «L'America è un gran bel posto.» «Wall Street è in mano agli ebrei...» «Credo che questa sia un'esagerazione» la interruppe la mamma con fermezza, evitando lo sguardo del papà. «Ci sono troppi ebrei e altri personaggi sgradevoli nel mondo americano degli affari, questo è vero, ma le persone per bene sono molto più numerose. Ricorda che tuo nonno aveva una banca.» Percy disse: «È incredibile che in due sole generazioni siamo passati dalla mola d'arrotino a una banca». Nessuno gli diede ascolto. La mamma continuò: «Sono d'accordo con le tue idee, cara, lo sai. Ma se credi in qualcosa, non è detto che tu debba morire per questo. Nessuna causa lo merita». Margaret era sconvolta. La mamma intendeva dire che non valeva la pena di morire per il fascismo: e agli occhi del papà era quasi una bestemmia. Non aveva mai visto sua madre opporsi a lui in un modo simile. Anche Elizabeth era sorpresa. Tutte e due guardarono il padre che arrossì leggermente e borbottò in segno di disapprovazione. Ma non ci fu la sfuriata che si aspettavano, e questa era la cosa più incredibile. Fu servito il caffè e Margaret vide che erano arrivati alla periferia di Southampton. Fra pochi minuti sarebbero giunti alla stazione. Elizabeth li avrebbe veramente lasciati? Il treno rallentò. Elizabeth si rivolse al cameriere: «Io scendo alla stazione centrale. Le
dispiace portarmi la mia valigia dall'altra carrozza? È di cuoio rosso e il nome sull'etichetta è lady Elizabeth Oxenford». «Certamente, milady» disse il cameriere. Le case suburbane di mattoni rossi sfilavano davanti ai finestrini come schiere di soldati. Margaret fissava suo padre. Lui non diceva nulla, ma aveva la faccia gonfia per la rabbia repressa. La mamma gli posò una mano sul ginocchio e disse: «Ti prego, caro, non fare una scenata». Lui non rispose. Il treno entrò in stazione. Elizabeth era seduta accanto al finestrino. Colse lo sguardo di Margaret. Margaret e Percy si alzarono, la lasciarono passare e tornarono a sedere. Il papà si alzò. Gli altri passeggeri percepivano la tensione e osservavano la scena: padre e figlia che si fronteggiavano nel corridoio mentre il treno si fermava. Ancora una volta Margaret pensò che Elizabeth aveva scelto bene il momento. Per il papà sarebbe stato difficile ricorrere alla forza in quelle circostanze: se ci avesse provato, gli altri passeggeri glielo avrebbero impedito. Tuttavia si sentiva male per la paura. Suo padre era rosso in faccia e aveva gli occhi congestionati. Respirava pesantemente dal naso. Elizabeth tremava, ma la sua bocca era atteggiata in una smorfia decisa. Lui disse: «Se scendi ora dal treno, non vorrò rivederti mai più». «Non dire così!» esclamò Margaret. Ma era tardi: ormai lui l'aveva detto e non se lo sarebbe mai rimangiato. La mamma si mise a piangere. Elizabeth mormorò soltanto: «Addio». Margaret si alzò e le buttò le braccia al collo. «Buona fortuna!» bisbigliò. «Anche a te» sussurrò Elizabeth, e ricambiò l'abbraccio. Poi baciò la guancia di Percy, si sporse goffamente sopra il tavolo e baciò il viso della mamma che era inondato di lacrime. Finalmente guardò di nuovo suo padre e chiese con voce tremante: «Vogliamo stringerci la mano?». La faccia di lui era una maschera di odio. «Mia figlia è morta» disse. La mamma gettò un grido d'angoscia. Nella vettura era sceso un grande silenzio, come se tutti si rendessero conto che un dramma familiare era arrivato a una conclusione tragica. Elizabeth si voltò e si incamminò.
Margaret avrebbe voluto afferrare suo padre per le spalle e scuoterlo furiosamente. Quell'ostinazione inutile la faceva illividire dalla rabbia. Perché diavolo non si arrendeva, per una volta? Elizabeth era adulta, non era obbligata a obbedire ai genitori per il resto della vita! Lui non aveva il diritto di rinnegarla. In uno scatto di rabbia aveva diviso la famiglia, senza un motivo, per pura vendetta. In quel momento Margaret lo odiava. Mentre lo fissava, così bellicoso e indignato, avrebbe voluto dirgli che era meschino, stupido e ingiusto. Ma come le accadeva sempre con suo padre, si morse le labbra e non disse nulla. Elizabeth passò davanti al finestrino reggendo la valigia rossa. Li guardò, sorrise con gli occhi colmi di lacrime e fece un lieve cenno esitante di saluto con la mano libera. La mamma incominciò a singhiozzare piano. Percy e Margaret risposero al saluto. Il papà distolse gli occhi. Poi Elizabeth scomparve alla vista. Il papà si sedette e Margaret si affrettò a imitarlo. Risuonò un fischio e il treno si mosse. Videro di nuovo Elizabeth, in fila all'uscita. Alzò la testa al passaggio della loro carrozza. Questa volta non vi furono saluti o sorrisi: aveva un'aria cupa e seria. Il treno accelerò ed Elizabeth scomparve di nuovo. «La vita familiare è meravigliosa» disse Percy. E per quanto volesse mostrarsi sarcastico, non c'era ironia nella sua voce, ma soltanto amarezza. Margaret si chiese se avrebbe mai rivisto sua sorella. La mamma si asciugava gli occhi con un fazzolettino ma non riusciva a frenare le lacrime. Era raro che perdesse il controllo. Margaret non ricordava di averla mai vista piangere. Percy sembrava scosso. Margaret era depressa per il folle attaccamento di Elizabeth a una causa tanto malvagia; ma non riusciva a reprimere un senso di esultanza. Ce l'aveva fatta: aveva sfidato impunemente suo padre! Gli aveva tenuto testa, l'aveva sconfitto e gli era sfuggita. Se c'era riuscita Elizabeth, ci sarebbe riuscita anche lei! Sentì l'odore del mare. Il treno era arrivato al porto. Passava lungo i moli e procedeva lentamente fra capannoni, gru e transatlantici. Nonostante il dolore per il distacco dalla sorella, Margaret cominciava a pregustare ciò che sarebbe accaduto. Il treno si fermò dietro una costruzione con la scritta "Imperial House". Era un edificio ultramoderno che somigliava un po' a una nave; gli angoli erano smussati, e al piano superiore c'era una grande veranda simile a una
tolda, circondata da un parapetto bianco. Assieme agli altri passeggeri, gli Oxenford presero le ventiquattrore e scesero dal treno. Mentre gli altri bagagli venivano trasferiti sull'aereo, andarono tutti nell'Imperial House per completare le formalità della partenza. Margaret era stordita. Intorno a lei il mondo cambiava troppo rapidamente. Aveva lasciato la sua casa, il suo Paese era in guerra, aveva perduto la sorella e stava per volare in America. Avrebbe desiderato poter fermare per un po' l'orologio in modo da assimilare tutto. Lord Oxenford spiegò che la figlia Elizabeth non sarebbe partita con loro e un funzionario della Pan American disse: «Non importa... c'è qualcuno che aspetta nella speranza che si liberi un posto. Ci penso io». Margaret notò il professor Hartmann. Stava in un angolo e fumava una sigaretta mentre si guardava intorno nervosamente. Sembrava impaziente e agitato. Sono quelli come mia sorella che l'hanno fatto diventare così, pensò Margaret; i fascisti l'hanno perseguitato e adesso ha i nervi a pezzi. Non posso dargli torto se ha tanta fretta di abbandonare l'Europa. Dalla sala d'aspetto non potevano vedere l'idrovolante, e Percy uscì per trovare un miglior punto d'osservazione. Quando tornò, aveva molte cose da riferire. «Il decollo avverrà alle due, in orario» disse. Margaret fu scossa da un brivido di apprensione. Percy continuò: «Impiegheremo un'ora e mezzo per arrivare al primo scalo, Foynes. L'Irlanda ha l'ora legale come la Gran Bretagna, quindi dovremmo ammarare là alle tre e mezzo. Aspetteremo un'ora mentre fanno rifornimento di carburante e rendono definitivo il piano di volo. Perciò ripartiremo alle quattro e mezzo». Margaret notò che adesso c'erano facce nuove, persone che non avevano viaggiato sul treno. Certi passeggeri dovevano essere venuti direttamente a Southampton quella mattina, o forse avevano passato la notte in albergo. In quel momento arrivò in taxi una donna straordinariamente bella. Era una bionda sulla trentina che indossava un abito sensazionale, di seta color panna a pois rossi. Era accompagnata da un uomo sorridente e piuttosto comune in giacca sportiva di cashmere. Tutti li guardavano: sembravano molto felici e affascinanti. Pochi minuti dopo fu annunciato che l'aereo era pronto. Potevano salire a bordo. Uscirono dall'ingresso anteriore della Imperial House direttamente sul molo. Il Clipper era ormeggiato e si dondolava dolcemente sull'acqua. Il sole si specchiava sulle fiancate argentee. Era enorme.
Margaret non aveva mai visto un aereo, nemmeno grande la metà di quello. Era alto come una casa e lungo quanto due campi da tennis. Sul muso da balena era dipinta una grande bandiera americana. Le ali erano molto alte, al livello superiore della fusoliera, e ad esse erano fissati quattro motori giganteschi. Le eliche dovevano misurare circa cinque metri di diametro. Com'era possibile che una cosa simile volasse? «È molto leggero?» chiese a voce alta. Percy la udì: «Quarantun tonnellate» rispose pronto. Sarebbe stato come decollare dentro una casa. Arrivarono sul bordo del molo. Una passerella conduceva a un pontone. La mamma si avviò, impacciata, e si aggrappò al corrimano. Sembrava invecchiata di vent'anni. Il papà reggeva entrambe le valigie: la mamma non portava mai niente, era una delle sue manie. Dal pontone una passerella più corta li condusse su quella che sembrava una tozza ala secondaria, semisommersa nell'acqua. «È un idrostabilizzatore» disse Percy con l'aria di chi sa tutto. «In parole povere, un galleggiante. Impedisce all'aereo di rovesciarsi lateralmente.» La superficie del galleggiante era leggermente curva, e Margaret temeva di scivolare. Ma non scivolò. Ormai era all'ombra dell'immensa ala protesa sopra la sua testa. Le sarebbe piaciuto tendere la mano e toccare la pala di una delle gigantesche eliche; ma non ci sarebbe arrivata. C'era un portello nella fusoliera, sotto la parola AMERICAN della scritta PAN AMERICAN AIRWAYS SYSTEM. Margaret chinò la testa e oltrepassò la porta. C'erano tre gradini da scendere. Margaret si trovò in un ambiente di circa quattro metri per quattro con una lussuosa moquette color terracotta, pareti beige e poltrone blu con un vivace motivo di stelle. C'erano plafoniere nel soffitto e grandi finestrini quadrati con tende alla veneziana. Le pareti e il soffitto erano diritti, non curvi come la fusoliera: sembrava di entrare in una casa, più che in un aereo. C'erano due porte. Alcuni passeggeri venivano avviati verso la coda. Margaret guardò in quella direzione e vide che c'era una serie di salotti, tutti arredati lussuosamente con moquette e tappezzerie nocciola e verdi. Ma i posti riservati agli Oxenford erano davanti. Uno steward basso e grassoccio, in giacca bianca, si presentò come Nicky e li condusse nell'altro scompartimento.
Era un po' più piccolo del primo, e i colori erano diversi: moquette turchese, pareti verde chiaro, rivestimenti beige. Alla destra di Margaret c'erano due grandi divani a tre posti, uno di fronte all'altro, e in mezzo a loro, sotto il finestrino, un tavolino. A sinistra, dall'altra parte del corridoio, c'era un'altra coppia di divani più piccoli, a due posti. Nicky indicò i divani grandi sulla destra. Il papà e la mamma si sedettero accanto al finestrino, Margaret e Percy vicino al corridoio lasciando in mezzo due posti vuoti, e quattro egualmente liberi al di là del passaggio. Margaret si chiese chi avrebbe viaggiato con loro. La bella donna dall'abito a pois sarebbe stata una compagnia interessante... e anche Lulu Bell, soprattutto se avesse voluto parlare di nonna Fishbein. Ma l'ideale sarebbe stato Carl Hartmann. Sentiva l'aereo dondolarsi leggermente sull'acqua. Non si trattava di un movimento ampio, ma bastava a ricordarle che era in mare. L'aereo era come un tappeto magico, pensò. Era impossibile capire come dei banalissimi motori riuscissero a farlo volare; era più facile credere che sarebbe stato trasportato nell'aria da un antico incantesimo. Percy si alzò. «Vado a dare un'occhiata in giro» disse. «Resta qui» ordinò lord Oxenford. «Starai fra i piedi a tutti se cominci a correre di qua e di là.» Percy si affrettò a sedersi. Il padre non aveva perduto del tutto la sua autorità. La mamma si incipriò il naso. Aveva smesso di piangere. Doveva sentirsi meglio, pensò Margaret. Poi udì una voce americana che diceva: «Preferirei viaggiare rivolto in avanti». Alzò gli occhi. Nicky, lo steward, stava accompagnando un passeggero al posto al di là del corridoio. Margaret non lo vedeva bene: le voltava le spalle. Era biondo e indossava un abito blu. Lo steward disse: «Non è un problema, signor Vandenpost... si metta sul divano di fronte». L'uomo si voltò. Margaret lo guardò, incuriosita. I loro occhi si incontrarono. Lo riconobbe, e restò senza fiato. Non era americano e non si chiamava Vandenpost. Gli occhi azzurri le lanciarono un avvertimento, ma era troppo tardi. «Santo cielo!» esclamò Margaret. «Harry Marks!» 7
Erano i momenti come quello che facevano venire a galla le qualità migliori di Harry Marks. Era scappato mentre si trovava in libertà su cauzione, viaggiava con un passaporto rubato e un nome falso, si spacciava per americano e gli capitava l'incredibile sfortuna di imbattersi in una ragazza che sapeva che era un ladro, l'aveva sentito parlare con un accento diverso e adesso lo chiamava a gran voce con il suo vero nome. Per un istante fu sopraffatto da un panico cieco. Davanti ai suoi occhi apparve l'orrenda visione di tutto ciò da cui stava fuggendo: il processo, il carcere, e in seguito la vita miserabile del soldato semplice nell'esercito britannico. Poi ricordò che era fortunato, e sorrise. La ragazza sembrava completamente frastornata. Harry attese per un attimo che gli tornasse alla mente il nome. Margaret. Lady Margaret Oxenford. Lei continuava a fissarlo, troppo sbalordita per dire qualcosa, mentre Harry attendeva un'ispirazione. «Mi chiamo Harry Vandenpost» disse. «E scommetto che la mia memoria è migliore della sua. Lei è Margaret Oxenford, non è vero? Come sta?» «Benissimo» mormorò stupita la ragazza. Era più confusa di lui. Avrebbe lasciato che prendesse le redini della situazione. Le tese la mano, lei tese la sua. E in quel momento a lui venne l'ispirazione. Invece di stringerle la mano, all'ultimo momento fece un profondo inchino vecchio stile; e quando le due teste si accostarono le disse a bassa voce: «Finga di non avermi conosciuto in una stazione di polizia e io farò altrettanto». Si raddrizzò e la guardò negli occhi. Erano di un verde scuro poco comune, scoprì, e molto belli. Per un momento lei sembrò turbata. Poi si rasserenò e sorrise. Aveva capito, e sembrava divertita e affascinata dalla piccola cospirazione che le aveva proposto. «Ma certo, Harry Vandenpost» disse. «Che sciocca!» Harry si rilassò, soddisfatto. L'uomo più fortunato del mondo, pensò. Margaret aggrottò maliziosamente la fronte e soggiunse: «A proposito... dove ci siamo conosciuti?». Harry rispose con disinvoltura: «Al ballo di Pippa Matchingham?». «No... non ci sono andata.» Harry si rendeva conto di sapere ben poco di Margaret. Viveva a Londra
durante l'intera stagione mondana, oppure si nascondeva in campagna? Andava a caccia, praticava il tiro a segno, finanziava associazioni benefiche, si batteva per i diritti delle donne, dipingeva acquerelli oppure tentava esperimenti agricoli nella tenuta paterna? Decise di citare uno dei grandi avvenimenti mondani. «Allora sono sicuro che ci siamo conosciuti ad Ascot.» «Ma sì, naturalmente» convenne lei. Harry si concesse un sorrisetto soddisfatto. L'aveva già trasformata in un'alleata. Margaret continuò: «Però non credo che conosca i miei. Mamma, posso presentarti il signor Vandenpost, di...». «Pennsylvania» disse Harry avventatamente, e subito se ne pentì. Dove diavolo era la Pennsylvania? Non ne aveva la più pallida idea. «Mia madre, lady Oxenford; mio padre, il marchese. E questo è mio fratello, lord Isley.» Harry li aveva sentiti nominare tutti, ovviamente; erano una famiglia famosa. Strinse le mani a ognuno di loro con un fare eccessivamente cordiale, che gli Oxenford avrebbero giudicato tipico di un americano. Lord Oxenford aveva l'aria di essere ciò che era: un vecchio fascista grasso e irascibile. Portava un abito di tweed marrone con un panciotto a cui stavano per saltare i bottoni, e non si era tolto il cappello floscio marrone. Harry si rivolse a lady Oxenford. «Sono onorato di conoscerla, signora. Mi interesso di gioielli antichi e ho sentito dire che ha una delle più splendide collezioni del mondo.» «Oh, grazie» rispose lei. «Sì, è una mia passione.» Harry restò sorpreso nell'udire l'accento americano. Tutto ciò che sapeva di lei derivava dall'attenta lettura delle riviste mondane. Credeva che fosse inglese. Ma adesso ricordava vagamente certi pettegolezzi sugli Oxenford. Il marchese, come tanti aristocratici con grandi proprietà terriere, aveva rischiato di fallire dopo la guerra a causa del crollo mondiale dei prezzi dei prodotti agricoli. Alcuni avevano venduto le terre ed erano andati a vivere a Nizza o a Firenze, dove il loro capitale permetteva un tenore di vita più elevato. Ma Algernon Oxenford aveva sposato l'erede di una banca americana, e il denaro della moglie gli aveva permesso di continuare a vivere come i suoi antenati. Tutto questo significava che la commedia di Harry doveva imbrogliare un'americana autentica. Non gli restava che essere impeccabile, e conti-
nuare per le prossime trenta ore. Decise di affascinarla. Immaginava che non fosse contraria ai complimenti, soprattutto da parte di giovani di bell'aspetto. Guardò con particolare attenzione la spilla appuntata sul tailleur da viaggio color arancio. Era fatta con smeraldi, zaffiri, rubini e diamanti e raffigurava una farfalla posata su un ramoscello di rose selvatiche. Era straordinariamente realistica: doveva essere francese, del 1880 o giù di lì, e Harry credeva di sapere chi l'aveva realizzata. «La sua spilla è di Oscar Massin?» «Appunto.» «È splendida.» «Grazie ancora.» Lady Oxenford era piuttosto bella, e Harry capiva benissimo perché Oxenford l'aveva sposata; era più difficile spiegarsi perché lei l'aveva accettato. Forse vent'anni prima lui era più attraente. «Mi pare di conoscere i Vandenpost di Philadelphia» disse lei. Accidenti, pensò Harry, spero proprio di no. Comunque lady Oxenford sembrava piuttosto svagata. «I miei sono i Glencarry di Stamford, Connecticut» soggiunse. «Ma davvero!» esclamò Harry fingendosi molto colpito. Pensava ancora a Philadelphia. Aveva detto che era di Philadelphia o della Pennsylvania? Non riusciva a ricordarlo. Forse erano lo stesso posto. Gli sembrava che i due nomi stessero bene insieme. Philadelphia, Pennsylvania. Stamford, Connecticut. Ricordò che quando si chiedeva a un americano da dove veniva, dava sempre una risposta doppia. Houston, Texas; San Francisco, California. Già. Il ragazzo disse: «Io mi chiamo Percy». «Harry» disse Harry, sollevato all'idea di essere tornato su un terreno familiare. Il titolo di Percy era lord Isley. Era un titolo di cortesia che l'erede avrebbe usato fino alla morte del padre; allora sarebbe diventato il marchese di Oxenford. Quasi tutta quella gente era ridicolmente orgogliosa dei suoi stupidi titoli. Una volta avevano presentato a Harry un moccioso di tre anni come "il barone Portrail". Percy, però, sembrava un tipo a posto: gli stava facendo capire garbatamente che non voleva che gli si rivolgesse in modo formale. Harry si sedette. Era rivolto verso il muso dell'aereo, perciò Margaret era accanto a lui, dall'altra parte del corridoio. Poteva parlarle senza che gli altri sentissero. L'aereo era silenzioso come una chiesa. Tutti erano un tantino intimiditi.
Cercò di rilassarsi. Sarebbe stato un viaggio carico di tensioni. Margaret conosceva la sua vera identità, e questo creava un notevole rischio imprevisto. Anche se aveva accettato il suo sotterfugio, poteva sempre cambiare idea o lasciarsi sfuggire qualcosa. Harry non poteva permettersi di ispirare dubbi. Avrebbe superato i controlli dell'immigrazione americana se non ci fossero state troppe domande; ma se qualcosa li avesse insospettiti e spinti a effettuare controlli sul suo conto, avrebbero ben presto scoperto che usava un passaporto rubato, e sarebbe stata la fine. Un altro passeggero fu accompagnato al divano di fronte a Harry. Era molto alto, e portava una bombetta e un abito grigio scuro che un tempo doveva essere stato elegante ma ormai era sciupato. C'era in lui qualcosa che colpì Harry: lo guardò togliersi il soprabito e sedersi. Aveva robuste scarpe nere, calze di lana pesante, e sotto la giacca doppiopetto un panciotto color vino. La cravatta blu aveva l'aria di essere stata annodata nello stesso punto ogni giorno per dieci anni. Se non sapessi quanto costa un biglietto per questo palazzo volante, pensò Harry, sarei pronto a giurare che è un poliziotto. Non era troppo tardi per alzarsi e scendere dall'aereo. Nessuno l'avrebbe trattenuto. Poteva scendere e scomparire. Ma aveva pagato novanta sterline! E poi forse sarebbero trascorse settimane prima che riuscisse a trovare un altro posto per attraversare l'Atlantico. E nel frattempo potevano arrestarlo di nuovo. Ripensò alla possibilità di vivere clandestinamente in Inghilterra, e ancora una volta la scartò. Sarebbe stato molto difficile in tempo di guerra, quando tutti i ficcanaso avrebbero tenuto gli occhi aperti per cercare spie straniere; ma soprattutto la vita del ricercato sarebbe stata insopportabile: alloggiare in modeste pensioncine, evitare i poliziotti, spostarsi di continuo. L'uomo di fronte a lui, se era un poliziotto, di certo non dava la caccia a Harry Marks; altrimenti non si sarebbe messo comodo in previsione del volo. Harry non riusciva a immaginare che cosa ci facesse a bordo, ma per il momento accantonò il pensiero e considerò la propria situazione. Il fattore pericoloso era Margaret. Cosa poteva fare per salvaguardarsi? Aveva accettato il sotterfugio con l'aria di divertirsi. Così come stavano le cose, non poteva fidarsi che stesse al gioco fino in fondo. Ma poteva aumentare le probabilità standole vicino. Se fosse riuscito a conquistare la sua simpatia, forse lei avrebbe cominciato a provare per lui un senso di le-
altà; allora avrebbe preso più seriamente l'intrigo e sarebbe stata attenta a non tradirlo. Fare la conoscenza di Margaret Oxenford non era una necessità sgradevole. La studiò con la coda dell'occhio. Aveva gli stessi colori autunnali della madre: capelli rossi, carnagione nivea con qualche lentiggine e quegli affascinanti occhi verde scuro. Non era in grado di capire che figura avesse, ma i polpacci erano snelli e i piedi eleganti. Indossava un soprabito leggero color cammello, di taglio semplice, su un vestito rosso bruno. Anche se i suoi abiti sembravano costosi, non aveva lo stile della madre: forse sarebbe emerso col tempo, quando avesse acquisito maggiore sicurezza. Non portava gioielli interessanti, solo un filo di perle al collo. I lineamenti erano belli, regolari, il mento deciso. Non era il suo solito tipo: in genere sceglieva ragazze con qualche debolezza, perché era molto più facile incantarle. Margaret era troppo bella per cascarci con lui. Comunque sembrava trovarlo simpatico, e questo era un buon inizio. Harry decise di conquistare il suo cuore. Nicky, lo steward, entrò nello scompartimento. Era piccolo, grasso, effeminato, sui venticinque anni, probabilmente omosessuale. Molti camerieri lo erano, aveva notato Harry. Nicky consegnò un foglio dattiloscritto con i nomi dei passeggeri e dei membri dell'equipaggio. Harry lo studiò con interesse. Aveva sentito parlare del barone Philippe Gabon, il ricco sionista. Anche il secondo nome, professor Carl Hartmann, gli ricordava qualcosa. Non aveva mai sentito parlare della principessa Lavinia Bazarov, ma il nome faceva pensare a una russa scampata ai comunisti, e la sua presenza sull'aereo significava presumibilmente che era riuscita a portare all'estero almeno una parte delle sue ricchezze. Sapeva bene chi era Lulu Bell, la diva del cinema. Appena una settimana prima aveva accompagnato Rebecca Maugham-Flint a vederla in Una spia a Parigi al Gaumont di Shaftesbury Avenue. Come al solito, interpretava la parte di una ragazza coraggiosa. Harry era curioso di conoscerla. Percy, che era seduto con la faccia rivolta verso la coda e poteva vedere nello scompartimento accanto, disse: «Hanno chiuso il portello». Harry fu riassalito da nervosismo. Per la prima volta si accorse che l'aereo si sollevava e si abbassava dolcemente sull'acqua. Udì un rombo, come il cannoneggiamento di una battaglia lontana. Guardò ansioso dal finestrino. In quel momento il rumore crebbe e un'elica incominciò a girare. Stavano accendendo i motori. Udì rombare anche il
terzo e il quarto. Il fragore era smorzato dall'insonorizzazione, tuttavia si percepivano le vibrazioni dei possenti motori. L'apprensione di Harry crebbe. Sul pontone, un marinaio staccò gli ormeggi dell'idrovolante. Harry fu preso da un assurdo presentimento di tragedia quando le gomene che lo legavano alla terraferma furono lasciate cadere in mare. Lo imbarazzava avere paura, e non voleva che gli altri capissero ciò che provava. Perciò prese un giornale, lo aprì e si assestò sul divano con le gambe accavallate. Margaret gli toccò il ginocchio. Non ebbe bisogno di alzare la voce per farsi sentire: l'insonorizzazione era molto efficiente. «Anch'io ho paura» disse. Harry era mortificato. Credeva di essere riuscito a sembrare calmo. Quando l'aereo si mosse, si afferrò a un bracciolo del divano e si tenne stretto. Poi si impose di lasciare la presa. Era comprensibile che Margaret avesse capito il suo stato d'animo. Con ogni probabilità doveva essere di un pallore mortale. Lei stava seduta con le ginocchia accostate e le mani strette in grembo. Sembrava preoccupata ed eccitata al tempo stesso, come se fosse sul punto di partire per una corsa in ottovolante. Le guance arrossate, gli occhi sgranati e la bocca leggermente socchiusa le davano un'aria molto sexy. Ancora una volta Harry si chiese com'era la figura nascosta dal soprabito. Guardò gli altri. L'uomo di fronte a lui si stava allacciando con calma la cintura di sicurezza. I genitori di Margaret guardavano dai finestrini. Lady Oxenford era serena, ma il marito continuava a schiarirsi rumorosamente la gola, un sintomo evidente di tensione. Il giovane Percy era così emozionato che non riusciva a stare fermo, ma non sembrava per nulla spaventato. Harry guardò il giornale ma non fu in grado di leggerne una parola, perciò lo abbassò e guardò dal finestrino. L'idrovolante si avventurava maestoso sul Southampton Water. Si vedevano i transatlantici allineati lungo i moli. Erano già piuttosto lontani e fra lui e la terraferma c'erano numerose imbarcazioni più piccole. Ormai non posso più scendere, pensò. L'acqua diventò più mossa quando l'aereo avanzò verso il centro dell'estuario. Di solito Harry non soffriva il mal di mare, ma adesso provava un senso di disagio mentre il Clipper cominciava a sfrecciare sulle onde. Lo scompartimento sembrava il salotto di una casa, ma il movimento gli ricordava che era a bordo di una specie d'imbarcazione, un fragile apparecchio di alluminio.
L'aereo raggiunse il centro dell'estuario, rallentò e cominciò a virare. Ondeggiava nella brezza, e Harry comprese che puntava il muso verso il vento per decollare. Poi sembrò indugiare esitando, beccheggiò leggermente nel vento e rollò sulle onde come un animale mostruoso che fiuta l'aria con il muso enorme. La tensione era quasi insopportabile. Harry dovette compiere uno sforzo di volontà per non balzare in piedi e urlare che voleva scendere. All'improvviso vi fu un rombo tremendo, simile allo spaventoso scoppiare di un temporale, quando i quattro enormi motori vennero accelerati al massimo. Harry si lasciò sfuggire un grido di spavento che venne coperto dal fragore. L'aereo parve affondare un po' nell'acqua, come se si abbassasse per lo sforzo. Ma dopo un momento si slanciò in avanti. Accelerò rapidamente, come un motoscafo... ma nessun motoscafo poteva avere una simile accelerazione. Spruzzi di spuma candida sfiorarono i finestrini. Il Clipper continuava a rollare e beccheggiare assecondando il movimento del mare. Harry avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma non osava. Era in preda al panico. Sto per morire, pensò istericamente. Il Clipper sfrecciava sempre più veloce. Harry non aveva mai viaggiato sull'acqua a una simile andatura; nessun motoscafo poteva eguagliarla. Filavano a ottanta, novanta, centodieci chilometri orari. Gli spruzzi nascondevano la visuale. Stiamo per affondare o esplodere o schiantarci, pensò Harry. Ci fu una vibrazione nuova, come se fossero a bordo di un'automobile che correva su una strada dissestata. Che poteva essere? Harry era sicuro che qualcosa non funzionava e che l'aereo si stava spaccando. Poi pensò che l'idrovolante aveva incominciato a sollevarsi e che le vibrazioni erano causate dal fatto che sobbalzava sulle creste delle onde come un motoscafo da corsa. Ma era normale? All'improvviso sembrò che l'acqua esercitasse una resistenza meno forte. Harry sbirciò attraverso gli spruzzi e vide che la superficie dell'estuario sembrava inclinata. Il muso dell'aereo doveva essersi sollevato, anche se non si era accorto del cambiamento. Era atterrito e aveva voglia di vomitare. Deglutì con uno sforzo. La vibrazione cambiò. Anziché sobbalzare su una strada, sembrava che saltassero da un'onda all'altra, come un sasso nel gioco del rimbalzello. I motori urlavano, le eliche sferzavano l'aria. Forse era impossibile, pensò Harry; forse quella macchina enorme non era capace di levarsi in volo, e doveva accontentarsi di balzare sulle onde come un delfino troppo pesante.
Ma all'improvviso sentì che l'aereo si era liberato. Si slanciò in avanti e verso l'alto, e l'acqua che lo tratteneva parve abbassarsi di colpo. La veduta dal finestrino si schiarì via via che l'aereo si innalzava e gli spruzzi ricadevano; vide l'acqua indietreggiare mentre l'aereo saliva. Santo cielo, stiamo proprio volando, pensò: questo enorme palazzo vola davvero! Adesso che era in aria la paura lo abbandonò e lasciò il posto a un immane senso di euforia. Era come se fosse responsabile personalmente del fatto che l'aereo era riuscito a decollare. Avrebbe voluto gridare evviva. Si guardò intorno e si accorse che tutti sorridevano di sollievo. Prese di nuovo atto della presenza altrui, e nello stesso istante si accorse di essere madido di sudore. Prese un fazzoletto di lino candido, si asciugò il viso di nascosto e si affrettò a rimetterlo nella tasca. L'aereo continuò a salire. Harry vide la costa meridionale dell'Inghilterra scomparire sotto i tozzi galleggianti. Poi guardò avanti e scorse l'isola di Wight. Dopo un po' l'aereo si portò in assetto orizzontale e il rombo dei motori si ridusse di colpo a un brusio sommesso. Ricomparve Nicky lo steward, in giacca bianca e cravatta nera. Adesso che la potenza dei motori era ridotta, non ebbe bisogno di alzare la voce. «Gradisce un cocktail, signor Vandenpost?» È proprio quello che ci vuole, pensò Harry. «Un whisky doppio» rispose immediatamente. Poi ricordò che doveva fingersi americano. «Con molto ghiaccio» soggiunse; l'accento era perfetto. Nicky prese le ordinazioni degli Oxenford, poi sparì nel passaggio verso prua. Harry tamburellava con le dita sul bracciolo del divano. La moquette, l'insonorizzazione, i sedili soffici e i colori tenui gli davano la sensazione di trovarsi in una cella imbottita; stava comodo, ma era in trappola. Dopo un momento sganciò la cintura di sicurezza e si alzò. Si avviò verso prua, dov'era andato lo steward, e varcò la soglia. A sinistra c'era la cambusa, una cucinetta tutta lucida di acciaio inossidabile. Lo steward preparava i drink. A destra c'era una porta con la scritta SIGNORI: era il gabinetto, e accanto a questo una scala a chiocciola portava verso l'alto, presumibilmente alla cabina di comando. Più oltre c'era un altro scompartimento, arredato in colori diversi e occupato dai membri in divisa dell'equipaggio. Per un momento si chiese cosa ci facessero lì dentro; poi ricordò che in un volo di quasi trenta ore l'equipaggio aveva bisogno di riposare e si davano il turno. Tornò indietro. Passò davanti alla cambusa, attraversò il suo scomparti-
mento e quello più grande dov'erano entrati. Verso la coda dell'idrovolante c'erano altri tre scompartimenti passeggeri arredati a colori alternati: moquette turchese con pareti verde chiaro, moquette ruggine con pareti beige. Fra uno scompartimento e l'altro c'era qualche gradino da salire, perché lo scafo era curvo e il pavimento si alzava verso la parte posteriore. Mentre passava, rivolgeva cenni di saluto agli altri passeggeri, com'era logico che facesse un giovane americano ricco e sicuro di sé. Nel quarto scompartimento c'erano due piccoli divani da una parte, e dall'altra lo SPOGLIATOIO DELLE SIGNORE: un altro nome di lusso per il gabinetto, senza dubbio. Oltrepassato questo, una scaletta a pioli saliva fino a una botola nel soffitto. Il corridoio, che attraversava l'aereo in tutta la sua lunghezza, finiva davanti a una porta. Doveva essere la famosa suite nuziale che aveva suscitato tanti commenti sulla stampa. Harry provò ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Tornò indietro e ne approfittò per dare un'altra occhiata ai compagni di viaggio. L'uomo dall'elegante abito francese, pensò, era il barone Gabon. Con lui c'era un tizio dall'aria nervosa, senza calzini. Era molto strano. Forse era il professor Hartmann. Aveva un abito orrendo e sembrava denutrito. Harry riconobbe Lulu Bell ma rimase strabiliato nel vedere che doveva avere una quarantina d'anni. Credeva che avesse l'età dimostrata nei film, cioè diciannove anni o poco più. Indossava molti gioielli moderni di buona qualità: orecchini rettangolari, grossi bracciali e una spilla di cristallo di rocca, probabilmente di Boucheron. Rivide la bella bionda che aveva notato nella sala interna del SouthWestern Hotel. Si era tolta il cappello di paglia. Aveva gli occhi azzurri e la carnagione chiara, e rideva di qualcosa che stava dicendo il suo compagno. Si capiva che ne era innamorata, anche se lui non era niente di speciale. Ma alle donne piacciono gli uomini che sanno farle ridere, pensò Harry. La vecchietta con il pendente di Fabergé in diamanti tagliati a rosetta era presumibilmente la principessa Lavinia. Aveva un'espressione gelida e disgustata, come una regina in un porcile. Lo scompartimento più grande da cui erano entrati era rimasto vuoto durante il decollo; ma Harry vide che adesso veniva usato come sala comune. C'erano quattro o cinque persone, incluso il tizio alto che gli sedeva di fronte. Alcuni degli uomini giocavano a carte, e Harry pensò che un giocatore professionista poteva guadagnare parecchio in un viaggio come quello.
Tornò al suo posto e lo steward gli portò lo scotch. «L'aereo sembra semivuoto» commentò Harry. Nicky scosse la testa. «È pieno.» Harry si guardò intorno. «Ma in questo scompartimento ci sono quattro posti liberi, e anche negli altri è la stessa cosa.» «Certo. Durante un volo diurno in questo scompartimento ci stanno dieci persone. Ma per dormire ce ne stanno solo sei. Lo vedrà quando prepareremo le cuccette dopo cena. Intanto si goda questa abbondanza di spazio.» Harry sorseggiò il drink. Lo steward era educato ed efficiente, ma non certo ossequioso come, per esempio, un cameriere d'albergo di Londra. Harry si chiese se i camerieri americani avevano una mentalità diversa. Se lo augurava. Durante le sue incursioni nello strano mondo dell'alta società londinese, gli era sempre sembrato un po' umiliante essere trattato a inchini e sentirsi chiamare "signore" ogni volta che si girava. Era il momento di approfondire la conoscenza di Margaret Oxenford che beveva champagne e sfogliava una rivista. Aveva flirtato con dozzine di ragazze della sua età e della sua condizione sociale, e attaccò automaticamente il repertorio. «Vive a Londra?» «Abbiamo una casa in Eaton Square, ma trascorriamo molto tempo in campagna» rispose lei. «Nel Berkshire. Mio padre ha anche un casino di caccia in Scozia.» Il tono era un po' troppo sbrigativo, come se trovasse noiosa la domanda e volesse liberarsene al più presto. «Andate a caccia?» chiese Harry. Era una frase obbligata: quasi tutti i ricchi andavano a caccia e amavano parlarne. «Non molto. Facciamo soprattutto tiro a segno.» «Lei fa tiro a segno?» chiese Harry, meravigliato. Non era ritenuto un passatempo per signora. «Quando mi lasciano.» «Immagino che avrà moltissimi ammiratori.» Margaret si girò verso di lui e abbassò la voce: «Perché mi fa tutte queste domande stupide?». Harry rimase senza parole. Non sapeva cosa dire. Aveva fatto le stesse domande a dozzine di ragazze, e nessuna aveva reagito in quel modo. «Le sembrano stupide?» chiese. «A lei non interessa sapere dove abito e se vado a caccia.» «Però è di questo che si parla nell'alta società.» «Ma lei non fa parte dell'alta società» ribatté lei brusca. «Accidentaccio!» esclamò lui con il suo accento naturale. «Non va mol-
to per il sottile, vero?» Margaret rise. «Così va meglio» esclamò. «Non posso continuare a cambiare accento. Finirò per confondermi.» «D'accordo. Sopporterò il suo accento americano se mi promette di smetterla con le chiacchiere inutili.» «Grazie, cara» abbozzò lui, riassumendo il ruolo di Harry Vandenpost. Non era come le altre, pensò. Era una ragazza che ragionava con la sua testa. E questo la rendeva molto più interessante. «Lei è abilissimo» disse Margaret. «Non avrei mai immaginato che è un accento finto. Immagino che faccia parte del suo modus operandi.» Harry restava sempre male quando gli parlavano in latino. «Credo di sì» rispose, senza avere la più lontana idea di che cosa avesse voluto dire. Doveva cambiare argomento. Si chiese qual era la strada per arrivare al suo cuore. Era chiaro che non poteva flirtare con lei come faceva con le altre. Forse era un tipo sensitivo, appassionata di sedute spiritiche e di arti magiche. «Crede ai fantasmi?» domandò. Ebbe un'altra risposta pungente. «Per chi mi prende?» ribatté lei, piuttosto irritata. «E che bisogno ha di cambiare argomento?» Se fosse stato con un'altra, Harry avrebbe riso, ma Margaret l'aveva colpito nel vivo. «Perché non conosco il latino» replicò. «Di cosa sta parlando?» «Non capisco parole come modus andy.» Per un momento lei lo guardò perplessa. Poi si illuminò e ripeté la frase: «Modus operandi». «Non sono andato a scuola abbastanza per imparare quella roba» ammise lui. L'effetto fu sorprendente. Margaret arrossì e disse: «Mi scusi, la prego. Non volevo essere scortese». Harry rimase sorpreso di quel brusco cambiamento. Tante ragazze si sentivano in dovere di sbattere in faccia a un uomo la loro istruzione. Era contento che Margaret fosse più educata di molte altre della sua classe sociale. Le sorrise. «Tutto perdonato.» Ma ancora una volta lei lo sorprese. «So che cosa prova, perché anch'io non ho avuto un'istruzione vera e propria.» «Con tutto il suo denaro?» chiese Harry, incredulo. Lei annuì. «Noi non siamo mai andate a scuola.» Harry era sbalordito. Per i rispettabili operai londinesi era un disonore non mandare a scuola i figli: era grave quanto avere a che fare con la poli-
zia o venire sfrattati. Molti bambini dovevano rimanere assenti un giorno quando le loro scarpe erano dal calzolaio per la risuolatura, perché non ne avevano un paio di ricambio. E questo era motivo di imbarazzo per le madri. «Ma i bambini devono andare a scuola... per legge!» disse Harry. «Noi abbiamo avuto delle governanti molto sciocche. Per questo non posso andare all'università... non ho l'abilitazione.» Margaret aveva un'espressione triste. «Credo che l'università mi sarebbe piaciuta.» «È incredibile. Pensavo che i ricchi potessero fare tutto ciò che vogliono.» «Non con mio padre.» «E suo fratello?» chiese Harry, indicando Percy con un cenno. «Oh, lui studia a Eton, naturalmente» rispose Margaret in tono amaro. «Per i maschi è diverso.» Harry rifletté. «Questo significa» chiese cauto «che lei non è d'accordo con suo padre in alcune cose... la politica, per esempio?» «Certo» rispose lei con fierezza. «Io sono socialista.» Questa poteva essere la chiave giusta con lei, pensò Harry. «Io ero iscritto al partito comunista» disse. Era vero. Si era iscritto a sedici anni e dopo tre settimane l'aveva mollato. Attese la reazione di Margaret prima di decidere cosa doveva aggiungere. Lei si animò. «Perché l'ha lasciato?» La verità era che le riunioni politiche lo annoiavano a morte; ma dirlo poteva essere un errore. «È difficile spiegarlo a parole» affermò. Ma avrebbe dovuto prevedere che quella risposta non le sarebbe bastata. «Deve pur sapere perché l'ha fatto» insistette Margaret, spazientita. «Forse perché somigliava un po' troppo alla scuola di catechismo.» Margaret rise. «Oh, lo capisco benissimo.» «Comunque, credo di aver fatto molto di più dei comunisti per restituire agli operai la ricchezza che producono.» «Come sarebbe a dire?» «Be', io "libero" i contanti a Mayfair e li porto a Battersea.» «Quindi deruba solo i ricchi?» «Non ha senso derubare i poveri. Sono senza soldi.» Lei rise di nuovo. «Però non distribuisce il maltolto come Robin Hood?» Harry rifletté sulla risposta. Gli avrebbe creduto, se le avesse raccontato che derubava i ricchi per dare ai poveri? Era intelligente, ma anche ingenua... non fino a quel punto, comunque. «Non sono un'associazione benefica» disse con un'alzata di spalle. «A volte, però, aiuto la gente.»
«Questo è sensazionale.» Le brillavano gli occhi per l'interesse e l'animazione. Era incantevole. «Sapevo che c'è gente come lei, ma è straordinario averla conosciuta e poterle parlare.» Adesso non esagerare, ragazza mia, pensò Harry. Lo innervosivano le donne che mostravano troppo entusiasmo nei suoi confronti: di solito si sentivano tradite quando scoprivano che era un essere umano. «Non sono tanto eccezionale» disse con sincero imbarazzo. «Molto semplicemente, provengo da un mondo che lei non ha mai visto.» Lo sguardo di Margaret gli confermò che lo giudicava eccezionale. Adesso basta, decise Harry. Era meglio cambiare argomento. «Mi fa sentire a disagio» confessò con aria imbarazzata. «Mi scusi» dichiarò subito lei. Rifletté un attimo poi riprese: «Perché va in America?». «Per sfuggire a Rebecca Maugham-Flint.» Lei rise. «No, dico sul serio.» Quando si attaccava a qualcosa era tenace come un terrier, pensò Harry. Non mollava la presa. Era impossibile tenerla sotto controllo, e questo la rendeva pericolosa. «Ho dovuto andarmene per non finire in galera» disse Harry. «E cosa farà quando sarà arrivato?» «Credo che mi arruolerò nelle forze aeree canadesi. Mi piacerebbe imparare a volare.» «È emozionante!» «E lei? Perché va in America?» «Noi stiamo scappando» dichiarò Margaret con disgusto. «Sarebbe a dire?» «Lei sa che mio padre è fascista, no?» Harry annuì. «L'ho letto sui giornali.» «Be', è convinto che i nazisti sono meravigliosi e non vuole combatterli. E poi il governo lo manderebbe in carcere, se restasse.» «Quindi vi stabilirete in America?» «La famiglia di mia madre è del Connecticut.» «E vi fermerete molto?» «I miei genitori si fermeranno almeno fino alla fine della guerra. Forse non torneranno più.» «Ma lei non voleva partire, vero?» «No, certo» esclamò Margaret con impeto. «Io volevo restare a combattere. Il fascismo è una mostruosità e questa guerra è tremendamente impor-
tante, e io intendo fare la mia parte.» Cominciò a parlare della guerra civile spagnola, ma Harry l'ascoltava distratto. Era stato colpito da un pensiero così sconvolgente che il cuore gli batteva più forte. Doveva compiere uno sforzo per mantenere un'espressione normale. Quando qualcuno fugge da un Paese allo scoppio di una guerra non abbandona ciò che possiede di prezioso. Era molto semplice. I contadini si portavano via le bestie quando fuggivano davanti a un esercito invasore. Gli ebrei scappavano dai nazisti con le monete d'oro cucite dentro gli indumenti. Dopo il 1917 gli aristocratici russi come la principessa Lavinia erano arrivati nelle capitali europee stringendo al cuore le uova di Fabergé. Lord Oxenford doveva aver preso in considerazione la possibilità di non tornare più in Inghilterra. E il governo aveva introdotto controlli valutari per impedire che l'alta società trasferisse all'estero il proprio denaro. Gli Oxenford sapevano che forse non avrebbero più rivisto ciò che abbandonavano. Senza dubbio, stavano portando via tutto quello che potevano. Era piuttosto rischioso, certo, portare nei bagagli un patrimonio in gioielli. Ma che cosa lo sarebbe stato meno? Spedirli per posta? Oppure per corriere? Lasciarli in patria, dove potevano essere confiscati da un governo vendicativo, rubati da un esercito invasore o addirittura "liberati" in una rivoluzione postbellica? No. Gli Oxenford dovevano avere con sé i gioielli. E in particolare dovevano avere la parure di Delhi. Bastava quel pensiero per togliere il fiato a Harry. La parure di Delhi era il pezzo forte della famosa collezione di gioielli antichi di lady Oxenford. Era tutta di rubini e diamanti montati in oro, e consisteva di una collana, orecchini e un bracciale. I rubini erano birmani, la varietà più preziosa, enormi. Erano stati portati in Inghilterra nel Settecento dal generale Robert Clive, conosciuto come Clive d'India, e montati dai gioiellieri della Corona. A quanto si diceva, la parure di Delhi valeva un quarto di milione di sterline... più di quanto un uomo poteva spendere in tutta la vita. E quasi sicuramente era a bordo dell'aereo. Nessun ladro professionista era disposto a rubare durante un viaggio in nave o in aereo: l'elenco dei sospetti sarebbe stato troppo breve. E poi Harry si spacciava per americano, aveva un passaporto falso, si era sottratto alla libertà su cauzione e stava seduto di fronte a un poliziotto. Sarebbe stata una pazzia cercare di mettere le mani sulla parure. Tremava al solo
pensiero dei rischi che comportava. D'altra parte, non gli sarebbe mai più capitata un'occasione simile. E all'improvviso sentì il bisogno di quei gioielli come un uomo che affoga ha bisogno d'aria. Non avrebbe potuto vendere la parure per un quarto di milione di sterline, era ovvio. Ma avrebbe ricavato all'incirca un decimo del valore, cioè venticinquemila sterline, vale a dire più di centomila dollari. In una valuta o nell'altra, quanto bastava per tutto il resto della sua vita. Il pensiero di tanto denaro gli fece venire l'acquolina in bocca... ma erano i gioielli di per sé ad attirarlo irresistibilmente. Aveva visto le fotografie. Le pietre digradanti della collana erano assortite in modo perfetto; i diamanti spiccavano sui rubini come lacrime sulle guance di un bambino; e i pezzi più piccoli, gli orecchini e il bracciale, erano proporzionati in modo perfetto. Al collo, agli orecchi e al polso di una bella donna, quei gioielli dovevano essere incomparabilmente affascinanti. Harry sapeva che non sarebbe mai stato tanto vicino a un simile capolavoro. Mai più. Doveva rubarlo. I rischi erano tremendi... però era sempre stato fortunato. «Credo che non mi stia ascoltando» disse Margaret. Harry si accorse di non averle prestato attenzione. Sorrise. «Mi scusi. Ha detto qualcosa che mi ha fatto fantasticare.» «L'ho capito» disse lei. «A giudicare dalla sua espressione, stava sognando qualcuna che ama.» 8 Nancy Lenehan attendeva con impazienza febbrile che il bell'aereo giallo di Mervyn Lovesey venisse preparato per la partenza. Lui stava impartendo istruzioni all'uomo con la giacca di tweed che, a quanto pareva, era il capo-operaio della sua fabbrica. Nancy aveva capito che aveva problemi con il sindacato e che c'era la minaccia di uno sciopero. Quando ebbe finito si rivolse a Nancy. «Ho alle dipendenze diciassette attrezzisti, e ognuno di loro è un individualista arrabbiato.» «Che cosa fabbrica?» chiese Nancy. «Eliche» rispose Lovesey. Indicò l'aereo. «Eliche per aerei e per navi e simili. Qualsiasi cosa costituita da curve complesse. Ma la parte tecnica è la più semplice. Quello che mi crea problemi è l'elemento umano.» Sorrise
con aria condiscendente e soggiunse: «Comunque a lei non interessano i problemi delle relazioni industriali.» «Oh, mi interessano, invece» replicò Nancy. «Anch'io dirigo una fabbrica.» Lovesey la fissò sbalordito. «Di che genere?» «Produco cinquemilasettecento paia di scarpe al giorno.» Lovesey ne fu molto colpito, ma sembrava che avesse subito uno smacco perché disse: «Buon per lei» con un tono che univa l'ironia all'ammirazione. Nancy intuì che doveva avere una fabbrica molto più piccola della sua. «Forse dovrei dire che producevo» si corresse Nancy, e sentì in bocca un sapore di bile. «Mio fratello sta cercando di vendere l'azienda sotto il mio naso. È per questo che devo assolutamente prendere il Clipper» soggiunse con un'occhiata ansiosa all'aereo. «Ce la farà» rispose lui con fiducia. «Il mio Tiger Moth ci porterà a destinazione con un'ora di anticipo.» Nancy si augurò di tutto cuore che avesse ragione. Il meccanico saltò giù dall'aereo e annunciò: «Tutto a posto, signor Lovesey». Lovesey lanciò un'occhiata a Nancy. «Portale un casco» disse al meccanico. «Non può volare con quel ridicolo cappellino.» Nancy era sconcertata da quel ritorno improvviso ai modi scortesi di poco prima. Evidentemente gli andava bene parlarle quando non c'era altro da fare; ma non appena saltava fuori qualcosa di importante, si disinteressava di lei. Non era abituata a quel comportamento indifferente da parte degli uomini. Anche se non era una seduttrice, era abbastanza bella da attirare lo sguardo degli uomini, e aveva una certa autorità. La trattavano spesso con paternalismo, ma raramente con la noncuranza di questo inglese. Comunque non intendeva protestare. Avrebbe sopportato ben altro pur di riuscire a raggiungere il fratello traditore. La incuriosiva un po' il matrimonio di Lovesey. «Sto inseguendo mia moglie» aveva detto: un'ammissione sorprendentemente franca. Poteva capire perché una donna l'aveva piantato. Era un gran bell'uomo, ma troppo insensibile e pieno di sé. Perciò era molto strano che corresse dietro alla moglie. Sembrava troppo orgoglioso per farlo. Nancy avrebbe pensato che la sua reazione più logica fosse: Che vada pure all'inferno. Forse aveva sbagliato a giudicarlo. Si chiese com'era la moglie. Era carina? Sexy? Egoista e viziata? Un to-
polino spaventato? L'avrebbe scoperto presto... se fossero riusciti a raggiungere il Clipper. Il meccanico le portò un casco e Nancy se lo mise. Lovesey si arrampicò a bordo e gridò da sopra la spalla: «Aiutala a salire!». Il meccanico, ben più cortese del suo principale, l'aiutò a indossare il soprabito dicendo: «Lassù fa freddo anche quando c'è il sole». Poi la sollevò, e Nancy si infilò nel sedile posteriore. Quando le passò la ventiquattrore, se la sistemò sotto i piedi. Mentre il motore cominciava a rombare si rese conto, con un brivido nervoso, che stava per affrontare un volo in compagnia di uno sconosciuto. Per quanto ne sapeva, Mervyn Lovesey poteva essere un pilota incompetente e male addestrato, e il suo aereo poteva essere in pessime condizioni. Poteva darsi perfino che Lovesey fosse invischiato nella tratta delle bianche e contasse di venderla a un bordello turco. No, era troppo vecchia. Ma non aveva nessun motivo per fidarsi di lui. Sapeva soltanto che era inglese e aveva un aeroplano. Nancy aveva volato già tre volte, ma sempre a bordo di aerei più grandi e con le cabine chiuse. Non era mai salita su un biplano di modello antiquato. Era come decollare su un'automobile decappottabile. Corsero sulla pista con il rombo del motore negli orecchi e il vento che batteva sui caschi. Gli aerei passeggeri su cui Nancy aveva volato sembravano inserirsi dolcemente nell'aria; ma questo salì con un balzo, come un cavallo da corsa che salta una siepe. Poi Lovesey virò così bruscamente che lei dovette aggrapparsi, terrorizzata all'idea di precipitare nonostante la cintura di sicurezza. Chissà se quell'uomo aveva davvero il brevetto di pilota? Lovesey raddrizzò l'apparecchio e riprese a salire rapidamente. Il volo del biplano sembrava più comprensibile e meno miracoloso di quello di un grosso aereo passeggeri. Nancy vedeva le ali, respirava il vento, udiva l'urlo del piccolo motore, e sentiva come stava in aria, sentiva l'elica fendere l'aria e il vento sollevare le ampie ali di tela, allo stesso modo in cui si sente un aquilone che vola nel vento quando lo si tiene per lo spago. Una sensazione che non si può provare in un aereo chiuso. Tuttavia, essere coinvolta nella lotta sostenuta dal piccolo apparecchio per volare le dava anche un senso di malessere alla bocca dello stomaco. Le ali non erano che fragili strutture di legno e tela; l'elica poteva bloccarsi o rompersi o staccarsi; il vento propizio poteva cambiare e diventare sfavorevole; e potevano venire la nebbia, i fulmini, la grandine.
Ma tutto questo sembrava improbabile mentre l'aereo saliva nel sole e puntava coraggiosamente il muso verso l'Irlanda. Nancy aveva l'impressione di volare sul dorso di una grande libellula gialla. Era spaventoso ed esaltante, come un giro in giostra. Si lasciarono ben presto alle spalle la costa dell'Inghilterra. Nancy si permise un attimo di trionfo quando puntarono verso ovest, sopra il mare. Fra poco Peter si sarebbe imbarcato sul Clipper, complimentandosi con se stesso per aver battuto in astuzia la sua intelligente sorella maggiore. Ma si trattava di una gioia prematura, pensò Nancy con rabbiosa soddisfazione. Non aveva ancora vinto. Sarebbe stato davvero un brutto colpo per lui vederla arrivare a Foynes. Era ansiosa di guardarlo in faccia. Certo, l'attendeva una lotta, dopo che avesse raggiunto Peter. Non sarebbe riuscita a sconfiggerlo per il semplice fatto di presentarsi alla riunione del consiglio. Doveva convincere la zia Tilly e Danny Riley dell'opportunità di tenere ben strette le loro azioni e schierarsi con lei. Voleva smascherare Peter di fronte a tutti, far sapere come aveva mentito e complottato contro di lei; voleva schiacciarlo e mortificarlo rivelando che razza di serpente fosse; ma un momento di riflessione bastò a farle capire che non era la mossa più intelligente. Se lasciava trapelare la rabbia e il risentimento, potevano pensare che si opponesse alla fusione per ragioni esclusivamente emotive. Doveva invece parlare con calma freddezza delle prospettive future, e comportarsi come se il suo disaccordo con Peter fosse dovuto a una semplice questione d'affari. Tutti sapevano che in quel campo lei valeva molto più del fratello. Le sue argomentazioni, comunque, erano fondate sul buon senso. Il prezzo offerto era basato sui profitti della Black's, che erano bassi a causa della pessima gestione di Peter. Nancy calcolava che avrebbero incassato di più sciogliendo la società e vendendo i negozi. Ma la cosa migliore era ristrutturare la società secondo il suo piano e fare in modo che tornasse a rendere. C'era un altro motivo per aspettare: la guerra. La guerra era utile per gli affari in generale, e soprattutto per le aziende che, come la Black's, fornivano le forze armate. Forse gli Stati Uniti non sarebbero entrati in guerra, ma ci sarebbe stato sicuramente un potenziamento militare precauzionale. Quindi i profitti sarebbero saliti in ogni caso. Senza dubbio era per questo che Nat Ridgeway voleva acquistare la società. Nancy considerò la situazione mentre sorvolavano il mare d'Irlanda e preparò mentalmente il discorso che intendeva tenere. Imparò a memoria
le frasi fondamentali e le ripeté ad alta voce, sicura che il vento avrebbe portato via le parole prima che arrivassero agli orecchi di Mervyn Lovesey coperti dal casco, un metro più avanti. Era così assorta che non si accorse quando il motore mancò un colpo per la prima volta. «La guerra in Europa raddoppierà in dodici mesi il valore della società» stava dicendo. «E se gli Stati Uniti entreranno nel conflitto, il valore raddoppierà ancora...» La seconda volta, Nancy si scosse dai suoi pensieri. Il rombo continuo si modificò momentaneamente, come il rumore di un rubinetto quando la tubatura è piena d'aria. Tornò normale, cambiò di nuovo e si assestò su una nota diversa, irregolare e più debole, che la fece tremare. L'aereo incominciò a perdere quota. «Cosa succede?» gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Ma non ebbe risposta. Forse Lovesey non l'aveva sentita, o era troppo indaffarato per darle retta. Il rumore del motore cambiò di nuovo. Diventò acuto, come se Lovesey avesse dato più gas. L'aereo si riportò in assetto orizzontale. Nancy era agitata. Cosa succedeva? Era un problema grave o no? Avrebbe voluto vedere Lovesey in faccia, ma lui continuava a non girarsi. Il rumore del motore non era più costante. A volte sembrava ritrovare un rombo pieno; poi tremolava di nuovo e ridiventava irregolare. Nancy guardava avanti, spaventata, e cercava di scorgere qualche cambiamento nella rotazione dell'elica: ma non vedeva nulla. Tuttavia ogni volta che il motore perdeva colpi, l'aereo scendeva leggermente di quota. Non resistette più. Si slacciò la cintura di sicurezza, si sporse in avanti e batté la mano sulla spalla di Lovesey. Quando girò la testa da un lato, gli gridò all'orecchio: «Cos'è successo?». «Non lo so!» urlò lui in risposta. Nancy era troppo spaventata per accontentarsi. «Cos'è successo?» insistette. «Uno dei cilindri non funziona, credo.» «Quanti cilindri ci sono?» «Quattro.» L'aereo si abbassò ancora con un sobbalzo. Nancy tornò a sedersi e si riallacciò la cintura. Sapeva guidare l'automobile, ed era convinta che si potesse continuare a viaggiare anche se un cilindro non funzionava. Ma la sua Cadillac ne aveva dodici. Poteva un aereo continuare a volare con tre
cilindri su quattro? L'incertezza era una tortura. Ormai perdevano quota inesorabilmente. Nancy immaginava che l'aereo potesse volare con tre cilindri, ma non per molto. Fra quanto sarebbero precipitati in mare? Guardò in lontananza e, con grande sollievo, vide più avanti la terraferma. Incapace di trattenersi, sganciò la cintura e parlò di nuovo a Lovesey. «Ce la faremo ad arrivare a terra?» «Non lo so!» gridò lui. «Non sa mai niente, lei!» urlò Nancy. La paura dava un tono stridulo alla sua voce. Si impose di rimanere calma. «Qual è la sua previsione più favorevole?» «Tenga la bocca chiusa e mi lasci concentrare!» Nancy si sedette. Forse sto per morire, pensò; e ancora una volta lottò con il panico e si impose di riflettere. È una fortuna che abbia potuto far crescere i miei ragazzi prima che succedesse, si disse. Per loro sarà dura, soprattutto perché hanno già perso il padre in un incidente d'auto. Ma ormai sono uomini, grandi e forti, e il denaro non gli mancherà. Se la caveranno. Rimpiango di non aver avuto un altro amante. È passato... quanto tempo? Dieci anni! Non c'è da meravigliarsi che abbia cominciato ad abituarmi. Vivo come una suora. Avrei dovuto andare a letto con Nat Ridgeway. Sarebbe stato piacevole. Era uscita un paio di volte con un uomo, poco prima di partire per l'Europa, un commercialista scapolo che aveva all'incirca la sua età; tuttavia non era pentita di non essere andata a letto con lui. Era un tipo gentile ma debole, come tanti uomini che aveva conosciuto. La giudicavano forte, e speravano che avesse cura di loro. Ma io voglio qualcuno che abbia cura di me! pensò. Se sopravvivrò, giuro che mi farò un altro amante prima di morire. Adesso Peter vincerà, si disse. Che peccato! L'azienda era tutto ciò che restava di loro padre: ora sarebbe stata assorbita e sarebbe scomparsa nella massa amorfa della General Textiles. Suo padre aveva sgobbato tutta la vita per costruire la società, e Peter l'aveva distrutta in cinque anni. A volte sentiva ancora la mancanza di suo padre. Era un uomo molto intelligente. Quando c'era un problema, sia che fosse una grossa crisi negli affari come la Depressione oppure una piccola questione familiare come il fatto che uno dei ragazzi non andava bene a scuola, lui trovava sempre un modo positivo, fiducioso per risolverlo. Era un esperto di impianti meccanici, e i fabbricanti delle grandi macchine usate nei calzaturifici spesso lo
consultavano prima di rendere definitivo un progetto. Nancy capiva benissimo il sistema di produzione, ma la sua specialità stava nel prevedere quali modelli sarebbero stati richiesti dal mercato; e da quando aveva cominciato a dirigere lo stabilimento avevano guadagnato di più con le scarpe da donna che con quelle da uomo. Non si era mai sentita messa in ombra dal padre, diversamente da Peter: soffriva per la sua mancanza. All'improvviso il pensiero di morire le parve assurdo, irreale. Sarebbe stato come se il sipario fosse calato prima della fine della rappresentazione, mentre il protagonista era a metà di un discorso. Non era così che andavano le cose. Per un po' si sentì irrazionalmente ottimista, sicura di sopravvivere. L'aereo continuava a perdere quota, ma la costa dell'Irlanda si avvicinava rapidamente. Presto avrebbe visto i campi smeraldini e gli acquitrini bruni. Era il luogo d'origine della famiglia Black, pensò con un brivido. Davanti a lei, Mervyn Lovesey cominciò a muovere la testa e le spalle come se lottasse con i comandi. Nancy, con un altro sbalzo d'umore, si mise a pregare. Era stata allevata nel cattolicesimo ma non era più andata a messa dopo la morte di Sean: anzi, l'ultima volta che era entrata in una chiesa era stato per il funerale. Non sapeva se credere o no, ma adesso pregava con fervore, pensando che comunque non aveva nulla da perdere. Recitò il Padrenostro, poi chiese a Dio di salvarla per poter stare vicina a Hugh almeno fino a che non si fosse sposato e sistemato, e fino a che lei non avesse potuto vedere i nipotini; voleva rimettere in sesto l'azienda, continuare a dar lavoro ai dipendenti, e fabbricare scarpe solide per la gente comune... e voleva anche un po' di felicità per sé. In vita sua, pensò all'improvviso, per troppo tempo non aveva fatto altro che lavorare. Adesso poteva vedere le creste candide delle onde. La macchia confusa della costa si scompose in risacca, spiaggia, scogliere, campi verdi. Con un fremito di paura si chiese se sarebbe riuscita ad arrivare a terra nuotando, qualora l'aereo fosse caduto in acqua. Si riteneva un'abile nuotatrice, ma sguazzare allegramente in una piscina era ben diverso dal sopravvivere nel mare turbolento. L'acqua doveva essere gelida. Come si diceva quando qualcuno moriva di freddo? Assideramento. La signora Lenehan è precipitata con l'aereo nel mare d'Irlanda ed è morta per assideramento, avrebbe scritto il "Boston Globe". Nancy rabbrividì nel soprabito di cashmere. Se l'aereo fosse precipitato, probabilmente non sarebbe vissuta abbastanza per sentire la temperatura dell'acqua. Si chiese a che velocità volavano. Lovesey le aveva detto che il Tiger Moth aveva una velocità di cro-
ciera di circa centocinquanta chilometri orari; ma adesso stava rallentando. Forse andava a ottanta. Anche Sean andava a ottanta quando aveva avuto l'incidente ed era morto. No, era inutile cercare di calcolare fin dove sarebbe riuscita ad arrivare a nuoto. La costa si avvicinava. Forse le sue preghiere erano state ascoltate, pensò. Forse l'aereo ce l'avrebbe fatta ad atterrare. Il rumore del motore non era peggiorato; continuava con lo stesso rombo acuto e irregolare con una sfumatura rabbiosa, come il ronzio vendicativo di una vespa ferita. Cominciò a chiedersi dove sarebbero atterrati, se ce l'avessero fatta. Un aereo poteva scendere su una spiaggia sabbiosa? E su una spiaggia sassosa? Poteva certo atterrare in un campo, se non era troppo dissestato: ma in una torbiera? L'avrebbe scoperto anche troppo presto. Ormai la costa era a quattrocento metri. C'erano rocce e onde alte. La spiaggia sembrava molto irregolare, e Nancy provò una stretta al cuore: era costellata di massi. Una bassa scogliera saliva verso un tratto di brughiera dove pascolavano alcune pecore. Sembrava pianeggiante. Non c'erano arbusti e gli alberi erano pochi. Forse ce l'avrebbero fatta ad atterrare lì. Nancy non sapeva se sperare o prepararsi a morire. L'aereo giallo combatteva coraggiosamente la sua battaglia, continuando a perdere quota. L'odore salmastro saliva alle narici di Nancy. Era senz'altro meglio cadere in acqua, pensò spaventata, piuttosto che tentare di scendere su quella spiaggia. Le rocce acuminate avrebbero fatto a pezzi il piccolo, fragile aereo... e lei. Si augurò di morire in fretta. Quando la costa fu a cento metri, Nancy comprese che l'aereo non sarebbe finito sulla spiaggia: era ancora troppo in alto. Evidentemente Lovesey mirava al pascolo. Ma ci sarebbe arrivato? Ormai erano quasi all'altezza della sommità della scogliera e continuavano a perdere quota. Si sarebbero sfracellati contro il dirupo. Nancy avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma non osava. Fissava ipnotizzata la parete di roccia che le correva incontro. Il motore ululava come un animale sofferente. Il vento le gettava in viso spruzzi d'acqua. Le pecore si disperdevano in tutte le direzioni. Nancy si afferrò al bordo dell'abitacolo con tanta forza da farsi male alle mani. Aveva l'impressione di volare verso il ciglio del precipizio che si avventava contro di lei. Andremo a sbattere, pensò. È la fine. Poi una raffica di vento
sollevò un po' l'aereo, e Nancy pensò che ce l'avrebbero fatta. Ma il biplano si riabbassò. Il ciglio del precipizio avrebbe schiantato le piccole ruote gialle. Poi, quando il dirupo era ormai a meno d'una frazione di secondo, chiuse gli occhi e urlò. Per un momento non accadde nulla. Poi ci fu un sobbalzo e Nancy si sentì scagliare con forza in avanti, contro la cintura di sicurezza. Per un istante pensò che sarebbe morta. Poi sentì che l'aereo tornava a sollevarsi. Smise di urlare e aprì gli occhi. Erano ancora in aria, a non più di un metro dalla distesa d'erba. L'aereo toccò terra con un altro sobbalzo. Questa volta non si risollevò, e sbatacchiò implacabilmente Nancy mentre avanzava sussultando sul terreno irregolare. Vide che erano diretti verso una macchia di rovi, e pensò che sarebbero comunque andati a fracassarsi. Poi Lovesey manovrò e l'aereo deviò, evitando l'ostacolo. Gli scossoni si attenuarono. Stavano rallentando. Nancy non riusciva a credere di essere ancora viva. L'aereo si fermò barcollando. Il sollievo la squassò come un attacco di convulsioni. Non riusciva a dominare il tremito. Per un momento non ci provò neppure. Poi sentì salire un'ondata isterica, ma si dominò. È finita, disse a voce alta. È finita, è finita e io sto bene. Lovesey si alzò e scese dall'aereo con una cassetta di attrezzi in mano. Balzò a terra senza guardarla e raggiunse il muso dell'aereo, aprì il cofano e scrutò il motore. Avrebbe almeno potuto chiedermi come mi sento, pensò Nancy. Stranamente, la scortesia di Lovesey la tranquillizzò. Si guardò intorno. Le pecore avevano ripreso a pascolare come se non fosse successo niente. Adesso che il motore taceva udiva le onde esplodere sulla spiaggia. Il sole splendeva, ma Nancy sentiva sulle guance un vento freddo e umido. Per un momento restò immobile. Poi, quando fu sicura che le gambe l'avrebbero sostenuta, si alzò e scese. Posò i piedi sul suolo irlandese per la prima volta in vita sua, e si sentì commossa fino alle lacrime. È da qui che siamo venuti, pensò. Tanti anni fa. Oppressi dagli inglesi, perseguitati dai protestanti, affamati, ci siamo accalcati sulle navi di legno e abbiamo abbandonato la patria per un mondo nuovo. E questo è un modo molto irlandese di tornare, pensò con un sorriso. C'è mancato poco che morissi nell'atterraggio. Doveva smettere con i sentimentalismi. Era viva, quindi poteva ancora prendere il Clipper? Guardò l'orologio. Erano le due e un quarto. Il Clipper
era appena partito da Southampton. Sarebbe arrivata a Foynes in tempo se il piccolo biplano avesse ripreso a volare, e se lei avesse trovato il coraggio di salirvi di nuovo. Si avvicinò al muso del Tiger Moth. Lovesey stava allentando un dado con una grossa chiave inglese. Nancy chiese: «Ce la fa a ripararlo?». Lovesey non alzò la testa. «Non lo so.» «Cosa c'è che non va?» «Non lo so.» Era ridiventato taciturno. Esasperata, Nancy esclamò: «Credevo che fosse ingegnere!». Il commento lo punse sul vivo. La guardò e disse: «Ho studiato matematica e fisica. La mia specialità è la resistenza del vento nelle curve complesse. Non sono un motorista!». «Allora dovremmo cercare un motorista.» «Non ne troverà neppure uno, in questa dannata Irlanda. Qui sono rimasti all'età della pietra.» «Solo perché la popolazione è stata tiranneggiata dagli inglesi per tanti secoli!» Lovesey alzò la testa dal motore e si raddrizzò. «Come diavolo abbiamo cominciato a discutere di politica?» «Non mi ha neppure chiesto se sto bene.» «Questo posso vederlo.» «Per poco non mi ha ammazzata.» «Le ho salvato la vita.» Era un uomo impossibile. Nancy guardò l'orizzonte. A circa quattrocento metri c'era una siepe o un muretto che forse fiancheggiava una strada, e un po' più avanti si scorgeva un gruppo di bassi tetti di paglia. Forse sarebbe riuscita a procurarsi una macchina per raggiungere Foynes. «Dove siamo?» chiese. «E non mi risponda che non lo sa!» Lovesey sorrise. Per la seconda o la terza volta la sorprese mostrandosi meno irascibile di quanto sembrava. «Credo che siamo a pochi chilometri da Dublino.» Nancy decise che non sarebbe rimasta lì a guardarlo armeggiare con il motore. «Vado a cercare aiuto.» Lui le guardò i piedi. «Non andrà lontano con quelle scarpe.» Gli darò una lezione, pensò Nancy, risentita. Si alzò la gonna e sganciò le calze. Lovesey la fissò, sbalordito, e arrossì. Nancy arrotolò le calze e se
le tolse assieme alle scarpe. Era piacevole sconcertarlo. Infilò le scarpe nelle tasche del soprabito e disse: «Non starò via molto». E si incamminò scalza. Quando fu lontana qualche metro si permise un grande sorriso. Lo aveva lasciato di sasso. Se lo meritava, per quel suo atteggiamento di superiorità condiscendente. Ma ben presto la soddisfazione si smorzò. Dopo pochi passi si ritrovò con i piedi bagnati, gelidi e sporchi. Le case erano più lontane di quanto avesse pensato. Non sapeva neppure cosa avrebbe fatto, quando ci fosse arrivata. Avrebbe cercato il modo di andare a Dublino. Probabilmente Lovesey aveva ragione quando diceva che in Irlanda i motoristi non abbondavano. Le case erano davvero lontane. Impiegò venti minuti per raggiungerle. Dietro la prima abitazione trovò una donna minuta con gli zoccoli ai piedi che lavorava in un orto. «Salve!» disse Nancy. La donna alzò la testa e gettò un grido di paura. Nancy spiegò: «Il mio aeroplano ha avuto un guasto». La donna la fissava come se fosse arrivata dallo spazio. Si rese conto che doveva offrire uno spettacolo piuttosto insolito, con il soprabito di cashmere e a piedi nudi. Anzi, agli occhi di una contadina, un extraterrestre sarebbe parso meno sorprendente di una donna arrivata in aereo. La contadina allungò una mano con aria incerta e toccò il soprabito di Nancy. Lei si sentì imbarazzata. La donna si comportava come se lei fosse una dea. «Sono irlandese» proseguì Nancy, nel tentativo di apparire più umana. La contadina sorrise e scosse la testa, come per dire: Non mi imbrogli. «Ho bisogno di andare a Dublino.» Finalmente la sconosciuta parlò. «Oh, sì, certo!» rispose. Doveva essere convinta che il posto per un'apparizione come Nancy era la città. Per lei fu un sollievo sentirla parlare in inglese; aveva temuto che conoscesse solo il gaelico. «È molto lontana?» «Può arrivarci in un'ora e mezzo, se ha un buon cavallo» affermò la donna nella sua cadenza musicale. Le cose si mettevano male. Fra due ore il Clipper sarebbe ripartito da Foynes, dall'altra parte del Paese. «C'è qualcuno, qui intorno, che abbia un'automobile?» «No.» «Accidenti!»
«Però il fabbro ha una motocicletta.» «Andrà benissimo!» A Dublino avrebbe potuto trovare una macchina che la portasse a Foynes. Non sapeva quanto fosse lontana, e quanto ci voleva per arrivare. Ma doveva tentare. «Dov'è il fabbro?» «L'accompagno.» La contadina piantò la vanga nella terra. Nancy la seguì intorno alla casa. La strada era una pista fangosa, notò con una stretta al cuore. Su una superficie simile una moto non poteva procedere molto più velocemente d'un cavallo. Poi le venne in mente un altro inconveniente, mentre attraversavano il paesino. Una motocicletta poteva portare un solo passeggero. Aveva avuto intenzione di tornare all'aereo per prendere Lovesey, se avesse trovato una macchina. Ma su una moto poteva viaggiare uno solo di loro... a meno che il proprietario fosse disposto a venderla; in quel caso Lovesey avrebbe potuto guidare, e lei sarebbe salita sul sellino posteriore. E così, pensò eccitata, sarebbero arrivati tutti e due a Foynes. Giunsero all'ultima casa e si avvicinarono a una fucina. Le speranze di Nancy andarono in frantumi, perché la motocicletta era smontata. I pezzi erano sparsi sul pavimento di terra battuta, e il fabbro ci stava lavorando. Nancy ebbe un'esclamazione di rabbia. La contadina parlò in gaelico al fabbro, che fissò Nancy con aria divertita. Era molto giovane, con i capelli neri e gli occhi azzurri tipici degli irlandesi, e un paio di baffoni. Anni, poi chiese a Nancy: «Dov'è il suo aereo?». «A meno di un chilometro da qui.» «Potrei dare un'occhiata.» «Si intende di aerei?» si informò Nancy, poco convinta. Il fabbro alzò le spalle. «I motori sono motori.» Lei pensò che se era capace di rimontare una motocicletta forse era in grado di aggiustare il motore di un aereo. Il fabbro continuò: «Però credo che ormai sia inutile». Nancy aggrottò la fronte, poi udì anche lei: era il rombo di un aereo. Che fosse il Tiger Moth? Corse fuori e guardò il cielo. E infatti il piccolo biplano giallo stava sorvolando a bassa quota il villaggio. Lovesey aveva riparato il guasto... ed era ripartito senza aspettarla! Alzò gli occhi, incredula. Come poteva farle uno scherzo simile? E aveva a bordo la sua valigetta! L'aereo sorvolò adagio i tetti, come per prenderla in giro. Nancy agitò il pugno in aria. Lovesey le fece un cenno con la mano e si allontanò.
Nancy fissava l'aereo che rimpiccioliva nel cielo. I due irlandesi erano accanto a lei. «Se ne va da solo» commentò il fabbro. «È un mostro senza cuore.» «È suo marito?» «No di certo!» «Meglio così.» Nancy era sopraffatta dalla nausea. Quel giorno due uomini l'avevano pugnalata alle spalle. C'era forse in lei qualcosa che non andava? Tanto valeva arrendersi. Ormai non avrebbe preso il Clipper. Peter avrebbe venduto la società a Nat Ridgeway, e sarebbe stata la fine. L'aereo virò. Lovesey stava calcolando la rotta per Foynes, pensò Nancy. Avrebbe raggiunto la moglie fuggita. Si augurò che rifiutasse di tornare a vivere con lui. Inaspettatamente, l'aereo continuò a virare. Quando fu con il muso rivolto verso il paesino, proseguì in linea retta. Cosa aveva intenzione di fare? Si avvicinava lungo la strada fangosa scendendo di quota. Perché tornava indietro? Nancy incominciò a domandarsi se stava per atterrare. Il motore dava ancora problemi? Il piccolo aereo toccò la strada fangosa e avanzò a sobbalzi verso le tre persone ferme davanti alla fucina. Nancy si sentì mancare per il sollievo. Era tornato a prenderla! Il Tiger Moth si fermò davanti a lei. Mervyn le urlò qualcosa che non comprese. «Come?» gridò. Lui le fece un cenno spazientito. Nancy accorse, e lui si sporse e urlò in risposta: «Cosa aspetta? Salga!». Lei guardò l'orologio. Erano le tre meno un quarto. Potevano arrivare a Foynes in tempo. Ritrovò l'ottimismo. Non sono ancora spacciata! pensò. Il fabbro si avvicinò con un'espressione divertita negli occhi. «Lasci che l'aiuti» gridò, e intrecciò le mani in modo da fare uno scalino. Nancy vi appoggiò un piede scalzo e infangato, e il giovane la sollevò. Lei si infilò nell'abitacolo. L'aereo si mosse immediatamente. Qualche secondo più tardi erano in volo. 9 La moglie di Mervyn Lovesey era molto felice. Al momento del decollo si era spaventata, ma adesso provava solo un senso di euforia.
Era la prima volta che volava. Mervyn non l'aveva mai invitata a salire sul suo piccolo aereo, anche se lei aveva impiegato giorni e giorni a dipingerlo tutto di un bel giallo luminoso. Adesso scoprì che, una volta superato il nervosismo, era un'emozione straordinaria trovarsi in aria, a bordo di una specie di hotel alato di prima categoria e guardare l'Inghilterra dall'alto: i pascoli e i campi, le strade e le ferrovie, le case, le chiese e le fabbriche. Si sentiva libera. Era libera. Aveva piantato Mervyn ed era scappata con Mark. La sera prima, al South-Western Hotel di Southampton, si erano fatti registrare come i signori Alder e per la prima volta avevano trascorso insieme una notte intera. Avevano fatto l'amore, si erano addormentati, si erano svegliati al mattino e avevano fatto l'amore di nuovo. Sembrava un vero lusso, dopo tre mesi di brevi incontri pomeridiani e di baci rubati. Volare sul Clipper era come vivere in un film. L'arredamento era sfarzoso, i passeggeri eleganti, i due steward efficienti e discreti, tutto si svolgeva come seguendo un copione e dovunque si scorgevano facce famose. C'era il barone Gabon, il ricco sionista sempre impegnato in discussioni appassionate con il suo sparuto compagno. Il marchese di Oxenford, il noto fascista, era a bordo con la bella moglie. La principessa Lavinia Bazarov, uno dei pilastri della buona società parigina, era nello scompartimento di Diana, nel suo stesso divano ma accanto al finestrino. Di fronte alla principessa, e anche lei accanto al finestrino, c'era Lulu Bell. Diana l'aveva vista in tanti film: Mio cugino Jake, Tormento, Vita segreta, Elena di Troia e molti altri che avevano dato al cinema Paramount in Oxford Street, a Manchester. Ma la sorpresa più grande fu che Mark la conosceva. Mentre stavano prendendo posto, una stridula voce americana aveva esclamato: «Mark! Mark Alder! Sei proprio tu?». Diana si era voltata e aveva visto una donna bionda e minuta come un canarino che gli andava incontro. Avevano lavorato insieme in uno spettacolo radiofonico a Chicago, diversi anni prima, quando Lulu non era ancora una diva. Mark le aveva presentato Diana, e Lulu era stata molto gentile, aveva detto che lei era bellissima e Mark davvero fortunato. Ma naturalmente si era interessata soprattutto a Mark, ed era dal momento del decollo che chiacchieravano. Rievocavano i vecchi tempi, quando erano entrambi giovani e squattrinati, vivevano negli alberghetti e stavano alzati tutta la notte a bere alcolici di contrabbando. Diana non aveva immaginato che Lulu fosse così piccolina. Nei film
sembrava più alta. E più giovane. E nella realtà si vedeva che aveva i capelli tinti, non biondi naturali come i suoi. Ma aveva la vivacità e l'energia che sfoggiava in quasi tutte le sue interpretazioni. Anche adesso era al centro dell'attenzione. Sebbene parlasse con Mark, la guardavano tutti: la principessa Lavinia nell'angolo, Diana di fronte a Mark e i due uomini dall'altra parte del corridoio. Lulu stava raccontando un aneddoto su una trasmissione radio in cui uno degli attori se n'era andato, convinto che la sua parte fosse terminata mentre aveva una battuta da recitare proprio alla fine. «E così io recitai la mia battuta, che era: Chi ha mangiato la torta pasquale? E tutti si guardarono attorno, ma George era sparito! Allora ci fu un lunghissimo silenzio.» Fece una pausa per creare un effetto drammatico. Diana sorrise. Come ci si comportava quando qualcosa andava storto durante un radiodramma? Lei ascoltava spesso la radio, ma non ricordava che fosse mai accaduto niente di simile. Lulu proseguì: «Così ripetei: Chi ha mangiato la torta pasquale? E aggiunsi...» abbassò il mento e parlò con voce maschile, burbera e incredibilmente convincente: «Credo che sia stato il gatto». Tutti risero. «E così finì la commedia» concluse Lulu. Diana ricordava una trasmissione in cui un annunciatore era rimasto così sbalordito da chissà cosa che aveva esclamato: «Gesù Cristo!». «Una volta io ho sentito imprecare un annunciatore» disse. Stava per raccontare l'episodio, quando Mark intervenne: «Oh, sono cose che succedono continuamente» e si rivolse a Lulu: «Ricordi quando Max Gifford disse che Babe Ruth aveva le palle pulite, e poi non riuscì più a smettere di ridere?». Mark e Lulu ridacchiarono irrefrenabilmente; Diana sorrise, ma cominciava a sentirsi esclusa. Poi pensò che era un po' viziata: per tre mesi, finché Mark era solo in una città sconosciuta, aveva dedicato a lei tutta la sua attenzione. Ovviamente non poteva durare in eterno. Avrebbe dovuto abituarsi a dividerlo con altri, d'ora in poi. Ma non era obbligata a fare la parte del pubblico. Si rivolse alla principessa Lavinia, alla sua destra, e chiese: «Lei ascolta la radio, principessa?». La vecchia aristocratica russa la squadrò con disprezzo e disse: «La trovo un tantino volgare». Diana aveva conosciuto altre vecchie dame altezzose, e non si intimidì. «È sorprendente» disse. «Proprio ieri sera abbiamo ascoltato alcuni quintetti di Beethoven». «La musica tedesca è troppo meccanica» commentò la principessa.
Non esisteva nulla che le fosse gradito, concluse Diana. Aveva fatto parte della classe più privilegiata e oziosa che il mondo avesse mai visto, e ci teneva a farlo sapere a tutti: perciò fingeva che qualunque cosa le venisse offerta non valeva quanto ciò cui era abituata un tempo. Sarebbe stata una compagnia noiosissima. Lo steward assegnato alla metà posteriore dell'aereo si chiamava Davy. Venne a prendere le ordinazioni per i cocktail. Era un giovane non molto alto, ben proporzionato e attraente, con i capelli biondi e il passo elastico. Diana chiese un martini secco. Non sapeva cosa fosse, ma ricordava che nei film era un drink considerato molto chic in America. Studiò i due uomini seduti dall'altra parte dello scompartimento. Tutti e due guardavano dai finestrini. Il più vicino a lei era un bel giovane dall'abito piuttosto vistoso. Aveva le spalle larghe come un atleta, e sfoggiava diversi anelli. Il colorito scuro indusse Diana a chiedersi se era sudamericano. Di fronte a lui c'era un uomo che sembrava molto fuori posto. L'abito gli andava largo e il colletto della camicia era liso. Non aveva certo l'aria di potersi permettere un viaggio sul Clipper. Era calvo come una lampadina. I due non si parlavano e non si guardavano, ma Diana era convinta che fossero insieme. Si chiese cosa stava facendo Mervyn in quel momento. Era quasi sicura che avesse letto la sua lettera. Forse piangeva, pensò con rimorso. No, non era da lui. Era più probabile che fosse furioso. Ma con chi poteva prendersela? Forse con i dipendenti. Si rammaricò di non avergli scritto una lettera più gentile o almeno più chiarificatrice: ma sul momento era troppo angosciata per fare di più. Forse avrebbe telefonato a sua sorella Thea, convinto che lei sapesse dov'era andata. Ma Thea non lo sapeva. Si sarebbe scandalizzata. Che cosa avrebbe raccontato alle gemelle? Il pensiero la turbava. Avrebbe sentito molto la mancanza delle nipotine. Davy tornò con i drink. Mark alzò il bicchiere verso Lulu e poi verso Diana, ma sembrava un pensiero tardivo, si disse lei un po' stizzita. Diana assaggiò il martini e per poco non lo sputò. «Puah!» esclamò. «Sembra gin puro!» Tutti risero. «È quasi tutto gin, tesoro» disse Mark. «Non avevi mai bevuto un martini?» Diana era umiliata. Non sapeva cosa aveva ordinato, come una studentessa capitata per la prima volta in un bar. Tutta quella gente cosmopolita l'avrebbe giudicata una provinciale ignorante. Davy chiese: «Le porto qualcos'altro, signora?».
«Champagne» rispose lei, imbronciandosi. «Subito.» Diana si rivolse a Mark un po' irritata. «Non avevo mai bevuto un martini, e pensavo di assaggiarlo. Non c'è niente di male, no?» «Certo che no, tesoro» rispose lui, e le accarezzò un ginocchio. La principessa Lavinia esclamò: «Questo cognac è disgustoso, giovanotto. Mi porti un tè». «Subito, signora.» Diana decise di andare alla toilette. Si alzò, si scusò, e oltrepassò la porta arcuata che conduceva alla coda dell'aereo. Attraversò un altro scompartimento passeggeri simile a quello che aveva lasciato, e si trovò in fondo all'aereo. Da un lato c'era un piccolo scompartimento con due persone soltanto, e dall'altro una porta con la scritta SPOGLIATOIO DELLE SIGNORE. Entrò. La toilette la rasserenò. Era assai bella, con un tavolo elegante, due sgabelli di cuoio turchese, e le pareti tappezzate di stoffa beige. Diana si sedette davanti allo specchio per ritoccarsi il trucco; "per rimaneggiare la faccia", diceva Mark. Davanti a lei erano allineati fazzolettini di carta e barattoli di crema idratante. Ma quando si guardò, vide una donna infelice. Lulu Bell era apparsa come una nube che oscura il sole. Le aveva sottratto l'attenzione di Mark e l'aveva indotto a trattarla come una vaga seccatura. Certo, Lulu era più vicina all'età di Mark, che aveva trentanove anni: doveva aver passato la quarantina, mentre Diana ne aveva appena trentaquattro. Mark si rendeva conto di quanto era vecchia Lulu? A volte gli uomini erano così sciocchi in certe cose. Il vero guaio era che Lulu e Mark avevano molto in comune; appartenevano entrambi al mondo dello spettacolo, erano americani e veterani dei tempi eroici della radio. Diana non aveva vissuto nulla del genere. A voler essere scortesi, si poteva dire che finora era stata solo una signora della buona società in una città di provincia: non aveva fatto altro nella vita. Con Mark sarebbe stato sempre così? Stava per andare nel suo Paese. D'ora in poi lui avrebbe conosciuto tutto, e per lei tutto sarebbe stato nuovo. Avrebbero frequentato i suoi amici perché Diana non ne aveva neppure uno in America. Quante volte l'avrebbero derisa perché non sapeva quello che tutti gli altri sapevano, per esempio che un martini secco ha soltanto sapore di gin? Si chiese fino a che punto le sarebbe mancato il mondo tranquillo e pre-
vedibile che aveva abbandonato, il mondo dei balli di beneficenza e delle cene organizzate dai massoni negli alberghi di Manchester, dove conosceva tutti i presenti, tutti i drink e perfino tutti i menu. Era un mondo noioso, ma privo di pericoli. Scosse la testa, e i capelli le si scompigliarono con grazia attorno al viso. Non doveva cedere a quei pensieri. Era un mondo che mi annoiava a morte, si disse: sognavo l'avventura e le emozioni. E adesso che le ho trovate intendo godermele. Decise di impegnarsi per riconquistare l'attenzione di Mark. Cosa poteva fare? Non voleva affrontarlo apertamente e dirgli che era risentita per il suo comportamento. Le sembrava una soluzione da persona debole. Forse doveva ripagarlo con la stessa moneta: mettersi a chiacchierare con qualcun altro come lui parlava con Lulu. Forse così avrebbe aperto gli occhi. Chi poteva scegliere? Il bel ragazzo al di là del corridoio andava bene. Era più giovane di Mark, e più alto. Mark si sarebbe ingelosito. Si diede qualche goccia di profumo dietro le orecchie e in mezzo ai seni, e uscì dalla toilette ancheggiando un po' più del necessario; si avviò nel corridoio e notò con piacere gli sguardi concupiscenti degli uomini e quelli ammirati e invidiosi delle donne. Sono la più bella a bordo dell'aereo, pensò, e Lulu Bell lo sa. Quando arrivò al suo scompartimento, non si sedette. Si girò verso sinistra e guardò dal finestrino al di sopra della spalla del giovanotto giovane in abito gessato. Questi le rivolse un sorriso invitante. Diana lo ricambiò e disse: «Non è meraviglioso?». «Già, davvero» rispose lui. Ma Diana notò che aveva lanciato un'occhiata all'uomo seduto di fronte a lui, come se si aspettasse un rimprovero. Sembrava quasi che l'altro gli facesse da balia. Diana chiese: «Voi due viaggiate insieme?». L'uomo calvo rispose laconicamente: «Si può dire che siamo soci». Poi si ricordò delle buone maniere e tese la mano. «Ollis Field.» «Diana Lovesey.» Lei gli strinse la mano con una certa riluttanza. L'uomo aveva le unghie sporche. Si rivolse all'altro. «Frank Gordon» si presentò. Erano americani tutti e due, ma la somiglianza finiva lì. Frank Gordon era elegante e portava una spilla fermacolletto e un fazzoletto di seta nel taschino. Profumava di colonia e i capelli ricciuti erano leggermente unti di brillantina. «Cosa stiamo sorvolando?» chiese. «Siamo ancora sopra l'Inghilterra?»
Diana si sporse sopra di lui e guardò dal finestrino, in modo da fargli aspirare il suo profumo. «Mi pare che sia il Devon» rispose anche se non ne era sicura. «Lei di dov'è?» continuò il giovane. Diana gli si sedette accanto. «Manchester» rispose. Lanciò un'occhiata a Mark che la fissò stupito, poi tornò a rivolgersi a Frank. «È nel nordovest.» Ollis Field si accese una sigaretta con aria di disapprovazione. Diana accavallò le gambe. Frank disse: «La mia famiglia è di origine italiana». Diana ricordava che in Italia c'era un governo fascista. Chiese candidamente: «Pensa che l'Italia entrerà in guerra?». Frank scosse la testa. «Gli italiani non vogliono la guerra.» «Immagino che nessuno la voglia.» «E allora perché è scoppiata?» Le riusciva difficile capire qualcosa di lui. Evidentemente era ricco, ma sembrava ignorante. Di solito gli uomini ci tenevano a spiegarle mille cose, a fare sfoggio di ciò che sapevano, le piacesse o no. Ma questo non ne sentiva la necessità. Diana girò lo sguardo verso l'altro e domandò: «Cosa ne pensa, signor Field?». «Non ho un'opinione» borbottò quello. Diana si rivolse di nuovo al giovane. «Forse per i governi fascisti la guerra è il solo mezzo per tenere sotto controllo i loro popoli.» Guardò Mark e rimase delusa vedendolo tutto preso dalla conversazione con Lulu. Ridacchiavano come due ragazzini. Si sentì abbandonata. Perché Mark si comportava in quel modo? Al suo posto, Mervyn sarebbe stato già sul punto di prendere a pugni Frank. Tornò a guardarlo. Stava per dirgli: Mi parli di lei. Ma ad un tratto si rese conto che non avrebbe sopportato la noia di una risposta, perciò tacque. In quel momento Davy, lo Stewart, le portò lo champagne e un piatto di pane tostato al caviale. Lei ne approfittò per tornare al suo posto. Era avvilita. Per un po' ascoltò irritata Mark e Lulu. Poi i suoi pensieri divagarono. Era una sciocca a scaldarsi tanto per Lulu. Mark era legato a lei, Diana. Adesso si divertiva semplicemente a rievocare i vecchi tempi. E poi non c'era motivo di preoccuparsi per l'America: la decisione era stata presa, il dado era tratto, e a quest'ora Mervyn aveva letto il suo messaggio. Era molto sciocco cominciare a farsi venire dei dubbi a causa di una bionda
ossigenata di quarantacinque anni come Lulu. Avrebbe presto imparato le abitudini degli americani, i loro drink, i loro spettacoli radiofonici e le loro abitudini. In poco tempo avrebbe avuto più amici di Mark: era inevitabile, attirava la gente. Incominciò a pensare al lungo volo sull'Atlantico. Quando aveva letto del Clipper sul "Manchester Guardian", aveva pensato che fosse il viaggio più romantico del mondo. Dall'Irlanda a Terranova erano tremiladuecento chilometri, e per farli occorreva un'eternità, qualcosa come diciassette ore. C'era il tempo di cenare, andare a letto, dormire tutta la notte e alzarsi prima che l'idrovolante ammarasse. Le era sembrato ingiusto portare una camicia da notte che aveva già indossato con Mervyn; ma non aveva avuto il tempo di fare acquisti per il volo. Per fortuna aveva una bella vestaglia di seta color caffelatte e un pigiama rosa salmone che non aveva mai messo. Non c'erano letti a due piazze, neppure nella suite matrimoniale, Mark si era informato, ma lui avrebbe dormito nella cuccetta sopra la sua. L'idea di dormire sopra l'oceano continuando a volare per ore e ore, a centinaia di chilometri dalla terraferma, era emozionante e al tempo stesso preoccupante. Si chiese se sarebbe riuscita a dormire. I motori avrebbero continuato a funzionare indipendentemente dal fatto che fosse sveglia o no: ma in ogni caso avrebbe temuto che si arrestassero mentre dormiva. Guardò dal finestrino e vide che stavano sorvolando l'acqua. Doveva essere il mare d'Irlanda. Si diceva che un idrovolante non poteva scendere in mare aperto a causa delle onde; ma secondo lei aveva sicuramente maggiori probabilità di cavarsela di un aereo normale. Stavano avanzando nelle nubi, e non vedeva nulla. Dopo un po', l'aereo cominciò a vibrare. I passeggeri si scambiarono occhiate e sorrisi nervosi, mentre lo steward raccomandava a tutti di allacciare le cinture di sicurezza. Diana era in ansia, perché non c'era terra in vista. La principessa Lavinia stringeva convulsamente il bracciolo del divano; invece Mark e Lulu continuavano a parlare come se nulla fosse. Frank Gordon e Ollis Field ostentavano la massima calma, però entrambi accesero una sigaretta e aspirarono profondamente. Proprio mentre Mark chiedeva: «Cosa diavolo è successo a Muriel Fairfield?» si sentì un tonfo, e l'aereo parve sul punto di precipitare. Diana ebbe la sensazione che lo stomaco le balzasse in gola. In un altro scompartimento, qualcuno gridò. Poi l'aereo si riassestò, come se fosse ammarato. Lulu disse: «Muriel ha sposato un milardario». «No!» esclamò Mark. «Ma se era così brutta!»
Diana disse: «Mark, ho paura!». Lui si voltò: «È stato solo un vuoto d'aria, tesoro. È una cosa normale». «Ma sembrava che stessimo per precipitare!» «Non aver paura. Succede sempre così.» Mark si rivolse di nuovo a Lulu, e per un momento Lulu guardò Diana, come aspettandosi che aggiungesse qualcosa. Lei distolse lo sguardo. Era furiosa con Mark. Mark chiese: «E come ha fatto Muriel a incastrare un miliardario?». Dopo un momento Lulu rispose: «Non lo so, ma adesso abitano a Hollywood e lui finanzia film». «Incredibile!» Sì, era davvero incredibile, pensò Diana. Non appena fosse riuscita a prendere in disparte Mark, gli avrebbe detto cosa pensava. La mancanza di premure nei suoi confronti la spaventava ancora di più. Prima di notte sarebbero stati sopra l'oceano Atlantico anziché sul mare d'Irlanda: e allora come si sarebbe sentita? Immaginava l'Atlantico come un vuoto immenso, freddo e minaccioso che si estendeva per migliaia di chilometri. Secondo il "Manchester Guardian", si vedevano solo gli iceberg. Se ci fosse stata qualche isola, Diana si sarebbe sentita meno nervosa. Era il vuoto assoluto a incuterle tanta paura: nient'altro che l'aereo, la luna e il mare mosso. In un certo senso, era simile all'ansia per la prospettiva di andare in America. Si rendeva conto che non era pericoloso, ma era uno scenario sconosciuto e non c'era nessun punto di riferimento noto. Sempre più agitata, cercò di pensare ad altro. Alla cena di sette portate, per esempio, perché le piacevano i pasti prolungati ed eleganti. Sarebbe stato puerilmente emozionante arrampicarsi nelle cuccette, un po' come dormire in una tenda in giardino. E all'arrivo l'attendevano i grattacieli vertiginosi di New York. Ma l'euforia del viaggio verso l'ignoto si era ormai trasformata in paura. Finì di bere e ordinò altro champagne, ma non riuscì a calmarsi. Desiderava sentire di nuovo la terra sotto i piedi. Rabbrividì al pensiero di quanto doveva essere freddo il mare. Nulla riusciva a distogliere la sua mente dalla paura. Se fosse stata sola, avrebbe nascosto il viso fra le mani e chiuso gli occhi. Fissò con risentimento Mark e Lulu che chiacchieravano allegri, ignari del suo tormento. Avrebbe voluto fare una scenata, scoppiare in lacrime isteriche; ma deglutì con uno sforzo e mantenne la calma. Presto l'aereo sarebbe ammarato a Foynes e allora sarebbe scesa e avrebbe camminato sulla terraferma. Ma poi avrebbe dovuto imbarcarsi di nuovo per il lungo volo transatlan-
tico. Era una prospettiva insopportabile. È una fatica resistere così per un'ora, pensò. Come farò tutta la notte? Ne morirò. Ma cos'altro posso fare? Certo, nessuno l'avrebbe costretta a risalire sull'aereo a Foynes. Ma se nessuno l'avesse costretta, non credeva di riuscire a farlo spontaneamente. Che cosa farei? Lo so, che cosa farei. Telefonerei a Mervyn. Non poteva credere che il suo fulgido sogno si frantumasse in quel modo. Ma sapeva che sarebbe accaduto. Mark si lasciava circuire sotto i suoi occhi da una donna più vecchia, con i capelli tinti e il trucco eccessivo, e Diana avrebbe telefonato a Mervyn e gli avrebbe detto: Perdonami, ho commesso uno sbaglio, voglio tornare a casa. Sapeva che l'avrebbe perdonata. E si vergognò un po' nel sentirsi tanto sicura della sua reazione. Lo aveva ferito, ma lui l'avrebbe presa comunque fra le braccia e sarebbe stato felice di riaverla. Ma non è questo che voglio, pensò avvilita. Voglio andare in America, sposare Mark e vivere in California. Lo amo. No, era un sogno ridicolo. Era la signora Lovesey, era la sorella di Thea, la zia Diana delle due gemelle, la ribelle non molto pericolosa della buona società di Manchester. Non sarebbe mai vissuta in una casa con le palme e la piscina. Era sposata a un uomo burbero e fedele, più interessato al lavoro che a lei; e quasi tutte le donne che conosceva si trovavano esattamente nella stessa situazione. Quindi doveva essere normale. Erano tutte deluse, ma stavano meglio di quelle poche che avevano sposato spendaccioni e ubriaconi; quindi si commiseravano a vicenda e riconoscevano che avrebbe potuto andare peggio, e spendevano nei negozi eleganti e nei saloni di bellezza il denaro duramente guadagnato dai mariti. Ma non scappavano in California. L'aereo precipitò di nuovo nel vuoto, poi si riportò in assetto orizzontale. Diana dovette sforzarsi per non vomitare. Tuttavia, chissà perché, non aveva più paura. Sapeva cosa le riservava il futuro. Si sentiva al sicuro. Ma avrebbe voluto piangere.
10 Per il motorista Eddie Deakin il Clipper era una gigantesca bolla di sapone bella e fragile che era suo compito portare al di là del mare, mentre i passeggeri rimanevano allegri e non pensavano quanto fosse sottile l'involucro che li separava dalla notte spaventosa. Era un viaggio più rischioso di quanto non immaginassero, perché la tecnologia aeronautica era recente e il cielo notturno sopra l'Atlantico era un territorio inesplorato, pieno di pericoli imprevedibili. Tuttavia Eddie aveva sempre pensato con orgoglio che l'abilità del comandante, la preparazione dell'equipaggio e l'affidabilità dell'ingegneria americana li avrebbero portati a casa sani e salvi. Ma in quel viaggio era fuori di sé per la paura. Nell'elenco dei passeggeri c'era un Tom Luther. Eddie aveva continuato a guardare dalle finestre della cabina di pilotaggio mentre i passeggeri salivano a bordo, e si era chiesto chi di loro era responsabile del sequestro di Carol-Ann. Ma naturalmente non riuscì a capirlo: era il solito gruppo di magnati, divi del cinema e aristocratici ben vestiti e ben nutriti. Per un po', mentre si preparava al decollo, era riuscito ad allontanare dalla mente il pensiero tormentoso di Carol-Ann e a concentrarsi sui suoi compiti: controllare gli strumenti, avviare i quattro enormi motori radiali, scaldarli, regolare il carburante e i flap della cappottatura e governare la velocità durante l'avvio. Ma quando l'idrovolante aveva raggiunto l'altitudine di crociera aveva avuto assai meno da fare. Doveva sincronizzare le velocità dei motori, regolarne la temperatura e la miscela del carburante; il suo lavoro consisteva soprattutto nel sorvegliarli per assicurarsi che funzionassero con regolarità. E la sua mente aveva ricominciato a vagare. Provava il bisogno disperato e irrazionale di sapere come era vestita Carol-Ann. Si sentiva un po' meno angosciato se riusciva a immaginarla con il giaccone di montone, abbottonato e con la cintura annodata, e gli stivali; non perché lei potesse avere freddo, dato che era settembre, ma perché il suo corpo sarebbe stato nascosto. Comunque era più probabile che indossasse l'abito senza maniche color lavanda che gli piaceva tanto e che faceva risaltare la figura piena. Nelle prossime ventiquattr'ore sarebbe rimasta rinchiusa in compagnia di un branco di delinquenti, e il pensiero di ciò che poteva accadere se avessero cominciato a bere era un tormento. Cosa diavolo volevano da lui? Sperava che il resto dell'equipaggio non si accorgesse del suo stato d'a-
nimo. Per fortuna erano tutti occupati, e non erano a contatto di gomito come sulla maggior parte degli aerei. Il ponte di comando del Boeing 314 era molto grande. La spaziosa cabina era solo una parte. Il comandante Baker e il secondo pilota Johnny Dott sedevano su due poltroncine rialzate, fianco a fianco, e fra loro c'era uno spazio che portava alla botola comunicante con il compartimento di prua, nel muso dell'apparecchio. Di notte, alle spalle dei piloti si potevano tirare le pesanti tende, in modo che la luce proveniente dal resto della cabina non riducesse la loro visuale. Quella sezione era più ampia della maggior parte delle cabine di pilotaggio, ma il resto del ponte di comando del Clipper era ancora più spazioso. Gran parte del lato di sinistra, guardando in avanti, era occupata dai due metri del tavolo delle carte; adesso vi si trovava l'ufficiale di rotta, Jack Ashford, chino sulle mappe. Verso poppa c'era un piccolo tavolo per le riunioni, dove andava a sedersi il comandante quando non pilotava. Accanto al tavolo, un portello ovale conduceva al passaggio interno dell'ala: una caratteristica del Clipper consisteva nel fatto che si poteva arrivare ai motori durante il volo proprio grazie a questo passaggio; Eddie poteva così provvedere alla manutenzione e alle riparazioni più semplici, come una perdita d'olio, senza che l'idrovolante fosse costretto ad ammarare. A destra, subito dietro il sedile del secondo pilota, una scala scendeva sul ponte riservato ai passeggeri. Poi c'era la postazione del marconista, dove stava Ben Thompson. Dietro Ben, che era rivolto in avanti, c'era Eddie, che era rivolto di lato, davanti a un pannello di quadranti e a una fila di leve. Un po' sulla sua destra c'era il portello ovale che immetteva nel passaggio interno dell'altra ala. In fondo al ponte di comando, una porta dava accesso alle stive. L'ambiente era lungo sette metri e largo tre, e abbastanza alto perché nessuno fosse costretto a chinarsi. Con la moquette, l'isolamento acustico, la tappezzeria di stoffa verde chiaro e i sedili di pelle marrone, era il ponte di comando più lussuoso che fosse mai stato realizzato: la prima volta che Eddie l'aveva visto, aveva creduto a uno scherzo. Ma adesso vedeva solo le spalle curve e le espressioni attente dei compagni. E pensò con sollievo che non si erano accorti del suo stato d'animo. Smaniava di capire perché l'incubo fosse toccato a lui, e volle dare allo sconosciuto signor Luther l'occasione di rivelarsi. Dopo il decollo aveva cercato una scusa per attraversare il settore passeggeri. Non riuscendo a trovare una ragione valida, ne inventò una un po' sballata. Si alzò, mormorò all'ufficiale di rotta: «Vado a ispezionare i cavi di controllo dell'assetto
del timone» e scese in fretta la scala. Se qualcuno gli avesse chiesto perché gli era venuto in mente di fare una verifica proprio in quel momento, avrebbe risposto che si trattava di un'intuizione improvvisa. Attraversò lentamente il settore passeggeri. Nicky e Davy servivano cocktail e spuntini. I passeggeri conversavano rilassati fra loro in varie lingue. Nella sala comune era già in corso una partita a carte. Eddie vide diverse facce note, ma era troppo angosciato per riconoscere quei personaggi famosi. Guardò negli occhi alcuni passeggeri, nella speranza che uno si rivelasse per Tom Luther, ma nessuno gli rivolse la parola. Arrivò in fondo all'aereo e salì la scaletta a pioli accanto allo SPOGLIATOIO DELLE SIONORE: conduceva a una botola nel soffitto che dava accesso allo spazio vuoto nella coda. Avrebbe potuto arrivarci anche restando sul ponte di comando e passando sul fondo attraverso il bagagliaio. Controllò distrattamente i cavi del timone, richiuse la botola e ridiscese. Un ragazzo sui quattordici o quindici anni lo stava osservando con aria incuriosita. Eddie si sforzò di sorridere. Incoraggiato, il ragazzo chiese: «Posso vedere il ponte di comando?». «Ma certo» rispose automaticamente Eddie. Non gli andava di essere disturbato proprio adesso, ma a bordo di quell'aereo l'equipaggio aveva il dovere di mostrare la massima cortesia con i passeggeri, e forse la cosa avrebbe distolto per qualche istante la sua mente dal pensiero di Carol-Ann. «Magnifico, grazie!» «Schizza al tuo posto un attimo, poi passerò a prenderti.» Un'espressione perplessa passò sul viso del ragazzo. Poi annuì e se ne andò. "Schizza" era un'espressione dialettale che si usava dalle sue parti, pensò Eddie, sconosciuta a New York, figurarsi in Europa. Tornò indietro ancora più lentamente, in attesa che qualcuno lo abbordasse; ma nessuno lo fece. Poteva solo pensare che l'uomo attendesse un'occasione migliore. Se avesse chiesto agli steward dov'era seduto il signor Luther avrebbe anche dovuto dire il perché, se non voleva suscitare la loro curiosità. Rinunciò. Il ragazzo era nel secondo scompartimento, vicino alla prua, assieme ai familiari. Eddie disse: «Okay, figliolo, vieni». Sorrise ai genitori, che gli rivolsero cenni gelidi. Una ragazza dai lunghi capelli rossi, forse la sorella, gli lanciò un sorriso riconoscente. Era molto bella, quando sorrideva. «Come ti chiami?» chiese Eddie al ragazzo mentre salivano la scala a chiocciola.
«Percy Oxenford.» «Io mi chiamo Eddie Deakin e sono il motorista.» Arrivarono in cima alla scala. «Molti ponti di comando non sono belli come questo» spiegò Eddie, riuscendo con uno sforzo a essere disinvolto. «Di solito come sono?» «Spogli, freddi e rumorosi. E ci sono sporgenze metalliche dove si va a sbattere ogni volta che ci si muove.» «Cosa fa il motorista?» «Io ho cura dei motori. Li faccio funzionare per tutto il viaggio fino in America.» «A cosa servono tutte quelle leve e i quadranti?» «Vediamo... Queste leve controllano la velocità dell'elica, la temperatura del motore e la miscela del carburante. Ce n'è una serie completa per ognuno dei quattro motori.» Erano spiegazioni un po' generiche, se ne rendeva conto, e il ragazzo era molto sveglio. Si sforzò di essere più esauriente. «Ecco, siediti al mio posto» disse, e Percy si affrettò a obbedire. «Vedi questo quadrante? Indica che la temperatura della testata del motore numero 2 è di 205 gradi centigradi. È un po' troppo vicina al massimo consentito durante il volo, che è di 232 gradi. Adesso lo raffredderemo.» «Come si fa?» «Prendi quella leva e abbassala leggermente... sì, così basta. Adesso hai aperto il flap della cappottatura di altri due centimetri e mezzo per lasciar entrare più aria fredda, e fra pochi minuti vedrai la temperatura abbassarsi. Hai studiato fisica?» «Frequento una scuola all'antica» rispose Percy. «Ci fanno studiare molto latino e greco, ma non ci tengono alle scienze.» Eddie pensò che il latino e il greco non avrebbero aiutato l'Inghilterra a vincere la guerra, ma preferì non dire nulla. «E gli altri membri dell'equipaggio cosa fanno?» chiese Percy. «Ecco, il più importante è l'ufficiale di rotta, Jack Ashford. È là, al tavolo delle carte.» Jack, un uomo bruno con i lineamenti regolari e un'ombra di barba bluastra sul mento, alzò la testa e sorrise cordialmente. Eddie proseguì: «Deve calcolare dove siamo, e questo è difficile in mezzo all'Atlantico. Ha una cupola-osservatorio, là dietro, fra le stive, ed effettua le misurazioni con le stelle servendosi del sestante». Jack intervenne: «Per la precisione è un ottante a bolla». «Che cos'è?» Jack mostrò lo strumento. «La bolla d'aria indica se l'ottante è in assetto
orizzontale. Tu identifichi una stella, la guardi attraverso lo specchio e regoli l'angolazione dello specchio fino a che la stella sembra all'orizzonte. Allora leggi l'angolo dello specchio, qui, e controlli sulle tavole, e così ricavi la tua posizione sulla superficie terrestre.» «Sembra molto semplice» commentò Percy. «In teoria, sì» Jack rise. «Uno dei problemi, su questa rotta, è che può capitare di volare sempre in mezzo alle nubi senza mai vedere una stella.» «Però se sa dov'è partito e continua a procedere nella stessa direzione, non può sbagliare.» «Questo si chiama stima della posizione. Però si può sbagliare perché il vento sposta lateralmente l'apparecchio.» «E non si può indovinare di quanto?» «Si può fare di meglio. Nell'ala c'è una piccola botola. Io lancio un bengala nell'acqua e lo osservo attentamente mentre ci allontaniamo. Se rimane allineato alla coda dell'aereo, non c'è deriva: ma se sembra che si sposti a destra o a sinistra, allora lo spostamento c'è.» «Mi sembra un metodo un po' empirico.» Jack rise di nuovo. «È vero. Se non ho fortuna e non riesco a vedere mai le stelle durante il volo sull'oceano, e se effettuo una stima errata della deriva, possiamo finire fuori rotta di cento, centocinquanta chilometri.» «E allora cosa succede?» «Ce ne accorgiamo appena arriviamo alla portata di un faro o di una stazione radio, e correggiamo la rotta.» Eddie osservava la faccia intelligente del ragazzo. Un giorno, pensò, spiegherò le stesse cose a mio figlio. Questo gli ricordò Carol-Ann e provò una fitta al cuore. Se almeno il misterioso Luther si fosse fatto riconoscere, Eddie si sarebbe sentito un po' meglio. Quando avesse scoperto cosa volevano, avrebbe almeno compreso perché toccava proprio a lui trovarsi in quella orribile situazione. Percy chiese: «Posso vedere l'interno dell'ala?». «Certo» rispose Eddie. Aprì la botola dell'ala di destra. Immediatamente il rombo dei potenti motori echeggiò con forza, assieme all'odore dell'olio surriscaldato. All'interno dell'ala c'era un passaggio molto basso, una specie di stretta passerella dove si poteva strisciare. Dietro ognuno dei due motori c'era una postazione dove un uomo poteva stare in piedi a stento. Gli arredatori della Pan American non si erano occupati di quello spazio, che pertanto era un mondo funzionale di travature e rivetti, cavi e tubi. «Quasi tutti i ponti di comando sono così» gridò Eddie.
«Posso entrare?» Eddie scosse la testa e chiuse la botola. «Mi dispiace, ma i passeggeri non possono andare oltre questo punto.» Jack disse: «Ti mostrerò la mia cupola-osservatorio». Condusse Percy oltre la porta di fondo, mentre Eddie controllava i quadranti che aveva trascurato per qualche minuto. Era tutto a posto. Ben Thompson, il marconista, annunciò le condizioni a Foynes. «Vento da ovest, ventidue nodi, mare mosso.» Dopo un momento sul pannello di Eddie la spia sopra la scritta "Crociera" si spense e si accese quella sopra "Ammaraggio". Esaminò gli indicatori della temperatura e comunicò: «Motori pronti per l'ammaraggio». Il controllo era necessario perché i motori ad alta compressione potevano essere danneggiati da una riduzione di giri troppo brusca. Eddie aprì la porta in fondo all'aereo. C'era uno stretto corridoio fiancheggiato dalle stive, e sovrastato da una cupoletta, raggiungibile con una scala a pioli. Percy era sulla scala e guardava attraverso l'ottante. Oltre le stive c'era uno spazio che avrebbe dovuto ospitare le cuccette per l'equipaggio, ma non era mai stato arredato. Il personale fuori servizio usava il primo scompartimento. In fondo, una botola conduceva allo spazio di coda dove c'erano i cavi di controllo. Eddie gridò: «Jack, ammariamo». Jack si rivolse a Percy: «Devi tornare al tuo posto, giovanotto». Eddie ebbe la sensazione che il ragazzo non fosse poi così buono e bravo come sembrava. Anche se ubbidì, ci fu un lampo di malizia nei suoi occhi. Comunque per il momento si comportava benissimo. Si avviò verso la scala e scese sul ponte passeggeri. Il suono dei motori cambiò e l'aereo cominciò a scendere. L'equipaggio si inserì automaticamente nella routine collaudata dell'ammaraggio. Eddie avrebbe voluto confidare agli altri quello che gli succedeva. Si sentiva disperatamente solo. Intorno aveva i suoi amici e colleghi; si fidavano l'uno dell'altro, avevano attraversato insieme l'Atlantico, e avrebbe voluto spiegare la situazione e chiedere consiglio. Ma era troppo pericoloso. Si alzò per guardare dal finestrino. Vide una cittadina che doveva essere Limerick. Fuori dall'abitato, sulla riva settentrionale dell'estuario dello Shannon, stavano costruendo un grande aeroporto per aerei e idrovolanti. In attesa che venisse ultimato, gli idrovolanti scendevano sul lato meridionale dell'estuario, sottovento a una piccola isola e presso un paese che si chiamava Foynes. La loro rotta era a nord-ovest; perciò il comandante Baker doveva far vi-
rare l'aereo di quarantacinque gradi, per scendere con vento di ponente. Una lancia pattugliava la zona dell'ammaraggio, in cerca di detriti galleggianti che potevano danneggiare l'idrovolante. Il battello del rifornimento sarebbe stato pronto, carico di bidoni da duecento litri, e sulla riva ci sarebbe stata la solita folla di curiosi accorsi a vedere il miracolo di una nave volante. Ben Thompson parlava alla radio. Se la distanza era superiore a qualche chilometro doveva comunicare in Morse; ma adesso era abbastanza vicino da farlo a voce. Eddie non distingueva le parole, ma il tono sereno e tranquillo indicava che tutto andava per il meglio. Continuarono a scendere. Eddie sorvegliava i quadranti, e ogni tanto faceva qualche piccola regolazione. Uno dei suoi compiti più importanti consisteva nel sincronizzare la velocità dei motori, una mansione che diventava più impegnativa quando il pilota effettuava frequenti cambiamenti nell'afflusso del carburante. Un ammaraggio su acque calme poteva passare quasi inavvertito. Nelle condizioni ideali, lo scafo del Clipper si immergeva nell'acqua come un cucchiaio nella panna. Eddie, concentrato sul quadro dei comandi, spesso si accorgeva che l'aereo aveva toccato la superficie solo quando era già in acqua da diversi secondi. Ma quel giorno il mare era mosso, il peggio che potesse capitare dove il Clipper faceva scalo. Il punto più basso dello scafo, chiamato "gradino", toccò per primo l'acqua, poi ci fu una successione di tonfi leggeri mentre batteva sulla cresta delle onde. Durò solo un paio di secondi: poi l'imponente scafo si abbassò ancora di più e fendette la superficie. Eddie lo giudicava più morbido dell'atterraggio su pista, che comportava sempre qualche sobbalzo. Pochissimi spruzzi arrivarono ai finestrini del ponte di comando, situato sopra quello passeggeri. Il pilota ridusse al minimo l'afflusso del carburante, e l'aereo rallentò immediatamente. Era ridiventato una nave. Eddie guardò di nuovo dai finestrini mentre si avvicinavano all'ormeggio. Da un lato c'era l'isola, bassa e brulla: si vedevano una casetta bianca e poche pecore; dall'altro la terraferma. Eddie scorse un molo di cemento a cui era attraccato un grosso peschereccio, alcuni grandi serbatoi di carburante e un gruppetto di case grigie. Quella era Foynes. A differenza di Southampton, a Foynes non c'era un molo costruito per gli idrovolanti; perciò il Clipper doveva ormeggiare nell'estuario e la gente raggiungeva terra con la lancia. L'ormeggio era una responsabilità del motorista.
Eddie andò a prua, si inginocchiò fra i sedili dei piloti e aprì la botola che comunicava con il compartimento di prua. Scese la scaletta, attraversò il muso vuoto dell'aereo, aprì un'altra botola e si affacciò. L'aria era fresca e salmastra. La respirò a pieni polmoni. Una lancia si affiancò e uno degli uomini salutò Eddie agitando una mano. Reggeva una cima fissata a una boa. Lanciò la cima in acqua. Sul muso dell'idrovolante c'era un argano ripiegato. Eddie lo alzò e lo bloccò. Quindi prese un grappino e con esso agganciò la cima che galleggiava sull'acqua. La fissò all'argano e ormeggiò l'aereo. Si voltò verso il parabrezza e alzò i pollici per dare il segnale al comandante Baker. Un'altra lancia stava già avanzando per caricare i passeggeri e l'equipaggio. Eddie richiuse la botola e tornò sul ponte di comando. Il comandante Baker e Ben, il marconista, erano ancora ai loro posti, ma Johnny, il secondo pilota, era appoggiato al tavolo delle carte e chiacchierava con Jack. Eddie tornò alla sua postazione e spense i motori. Quando tutto fu in ordine indossò la giacca nera e il berretto bianco. I membri dell'equipaggio scesero la scala, attraversarono il secondo scompartimento passeggeri, passarono nella sala comune e scesero sul galleggiante. Da lì si imbarcarono sulla lancia. Il vice di Eddie, Mickey Finn, restò a bordo per dirigere il rifornimento. C'era il sole ma spirava una fresca brezza salmastra. Eddie scrutava i passeggeri della lancia, chiedendosi quale di loro fosse Tom Luther. Riconobbe una donna e ricordò, con un po' di stupore, che l'aveva vista amoreggiare con un conte francese in un film intitolato Una spia a Parigi. Era la diva del cinema Lulu Bell. Parlava animatamente con un uomo in giacca sportiva. Era lui Luther? Con loro c'era una bella donna, con l'abito a pois e l'aria avvilita. C'erano molte altre facce note, ma in maggioranza i passeggeri erano sconosciuti in abiti eleganti e cappello e ricche signore impellicciate. Se Luther non si fosse mosso in fretta, Eddie l'avrebbe cercato. E al diavolo la discrezione, decise. Non sopportava più l'attesa. La lancia si allontanò dal Clipper e puntò verso la terraferma. Eddie fissava l'acqua e pensava a sua moglie. Continuava a immaginare gli uomini che irrompevano in casa. Forse Carol-Ann stava facendo colazione, o preparava il caffè, o si vestiva per andare al lavoro. E se fosse stata nella vasca da bagno? A Eddie piaceva guardarla mentre faceva il bagno. Si raccoglieva i capelli, scoprendo il lungo collo, si abbandonava nell'acqua e si
passava languidamente la spugna sulle membra abbronzate. Gli piaceva sedersi sul bordo della vasca e parlare con lei. Prima di incontrarla aveva creduto che tali scene accadessero solo nelle fantasie erotiche. Ma adesso il quadro era rovinato da quegli uomini volgari che irrompevano e la catturavano... Il pensiero della paura e dell'orrore di Carol-Ann mentre quelli la afferravano era insopportabile. Eddie si sentiva girare la testa, e doveva compiere uno sforzo per restare ritto a bordo della lancia. La sua totale impotenza rendeva più atroce la situazione. Carol-Ann era in un guaio spaventoso e lui non poteva fare nulla, nulla. Si accorse di stringere spasmodicamente i pugni, e si impose di dominarsi. La lancia arrivò alla spiaggia e ormeggiò a un pontone galleggiante, collegato al molo da una passerella. I membri dell'equipaggio aiutarono i passeggeri a sbarcare, quindi li seguirono. Si diressero al capannone della dogana. Le formalità furono sbrigate in fretta. I passeggeri si sparsero nel villaggio. Di fronte al porto c'era una vecchia locanda, ormai occupata quasi tutta dal personale della linea aerea. L'equipaggio si avviò da quella parte. Eddie fu l'ultimo a uscire. Quando lasciò il capannone, un passeggero gli si avvicinò e chiese: «È lei il motorista?». Eddie si irrigidì. Il passeggero era un uomo sui trentacinque anni, più basso di lui, ma tozzo e muscoloso. Portava un abito grigio chiaro, una cravatta con una spilla e un cappello di feltro grigio. Rispose: «Sì, sono Eddie Deakin». «Io mi chiamo Tom Luther.» Una nebbia rossa offuscò gli occhi di Eddie e la sua collera esplose. Afferrò Luther per il bavero, lo fece girare su se stesso e lo sbatté contro il capannone. «Cos'hai fatto a Carol-Ann?» sibilò. Luther fu colto di sorpresa: si aspettava una vittima docile e terrorizzata. Eddie lo scrollò con violenza. «Sentiamo, figlio di puttana, dov'è mia moglie?» Luther si riprese prontamente. L'espressione sbalordita svanì. Si liberò con un movimento rapido dalla stretta di Eddie e gli sferrò un pugno che lui schivò, colpendolo a sua volta allo stomaco. Luther soffiò l'aria che aveva nei polmoni e si piegò in due. Era forte, ma fuori allenamento. Eddie lo afferrò per la gola e cominciò a stringere. Luther spalancò gli occhi, terrorizzato. Dopo un momento Eddie si rese conto che lo stava uccidendo. Allentò la stretta, poi lo lasciò andare. Luther si appoggiò al muro, boc-
cheggiando, e si portò la mano alla gola dolente. Il doganiere irlandese si affacciò. Doveva aver sentito il tonfo quando Eddie aveva sbattuto Luther contro il capannone. «Cos'è successo?» Luther si raddrizzò con uno sforzo. «Sono inciampato, ma va tutto bene» disse. Il doganiere si chinò, raccolse il cappello e glielo restituì con un'occhiata incuriosita, ma non fece commenti e rientrò. Eddie si guardò intorno. Nessun altro aveva notato lo scontro. Passeggeri ed equipaggio erano spariti al di là della stazioncina. Luther si rimise il cappello e con voce rauca disse: «Se rovina tutto, ci rimetteremo la pelle noi due e la sua dannata moglie, idiota!». L'allusione a Carol-Ann fece perdere di nuovo a Eddie il lume della ragione. Alzò il pugno per sferrare un altro colpo, ma Luther sollevò il braccio ed esclamò: «Si calmi! non è così che potrà riaverla. Non capisce che ha bisogno di me?». Eddie capiva perfettamente: ma aveva perduto la ragione per qualche istante. Indietreggiò di un passo e lo studiò. Luther parlava da persona istruita ed era vestito con eleganza. Aveva baffi biondi e occhi chiari, pieni di odio. Eddie non provava nessun rimorso per i pugni che gli aveva tirato. Aveva avuto bisogno di picchiare, e Luther era il bersaglio più adatto. «Cosa vuoi da me, mucchio di merda?» Luther infilò la mano dentro la giacca. Eddie pensò che poteva essere armato, ma invece tirò fuori una cartolina e gliela porse. Eddie la guardò. Era una veduta di Bangor, Maine. «Cosa diavolo significa?» «Girala» disse Luther. Sul retro c'era scritto: 44.70 Nord - 67.00 Ovest «Cosa sono questi numeri? Coordinate geografiche?» chiese Eddie. «Sì. È il punto dove farai scendere l'aereo.» Eddie lo fissò. «Far scendere l'aereo?» ripeté senza capire. «Sì.» «È questo che vuoi da me? Si tratta di questo?» «Devi far ammarare l'aereo in quel punto.» «Ma perché?» «Perché vuoi rivedere la tua bella mogliettina.»
«Dov'è questa posizione?» «Al largo della costa del Maine.» La gente credeva che un idrovolante potesse ammarare dovunque; ma in realtà aveva bisogno di acque molto calme. Per motivi di sicurezza, la Pan American non avrebbe permesso un ammaraggio dove le onde erano alte più d'un metro. Se l'idrovolante si fosse posato su mare mosso, si sarebbe schiantato. Eddie obiettò: «Non si può ammarare in pieno oceano...». «Lo sappiamo. Questo è un posto riparato.» «Ma non significa...» «Controlla. Lì puoi scendere. Mi sono informato.» Luther sembrava così sicuro che Eddie sentiva di dovergli credere. Ma c'erano altri problemi. «Come posso far ammarare l'aereo? Non sono il comandante.» «Ho controllato con molta cura. Il comandante potrebbe in teoria far ammarare l'aereo, ma che scusa avrebbe? Il motorista sei tu, e puoi fare in modo che qualcosa non funzioni.» «Vuoi che faccia precipitare l'aereo?» «È meglio di no... io sarò a bordo. Devi fare in modo che qualcosa non funzioni, così il comandante sarà costretto a un ammaraggio non previsto.» Luther indicò la cartolina con un dito ben curato. «Proprio lì.» Senza dubbio il motorista poteva creare un problema che costringesse all'ammaraggio; ma era difficile controllare una situazione di emergenza, e sul momento Eddie non sapeva come avrebbe potuto combinare un ammaraggio non previsto in un punto così preciso. «Non è facile...» «So che non è facile, Eddie. Ma so che è possibile. Mi sono informato.» Da chi si era informato? E chi era? «Ma tu chi diavolo sei?» «Non chiederlo.» Eddie aveva incominciato minacciando quell'uomo, ma adesso la situazione si era capovolta. Si sentiva intimidito. Luther faceva parte di una banda spietata che aveva pianificato ogni cosa con estrema precisione. Avevano scelto Eddie e sequestrato Carol-Ann: lo tenevano in pugno. Mise la cartolina nella tasca della giacca e si voltò. «Allora lo farai?» chiese Luther con ansia. Eddie si voltò e gli lanciò un'occhiata gelida. Lo fissò per un lungo istante, poi si allontanò senza parlare. Si comportava come un duro ma era distrutto. Perché agivano così? A un certo momento aveva almanaccato che i tedeschi volessero rubare un Boeing 314 per copiarlo; ma era un'ipotesi assurda, non stava in piedi, per-
ché in tal caso l'avrebbero rubato in Europa, non nel Maine. L'indicazione tanto precisa del punto dove volevano che il Clipper ammarasse costituiva un indizio. Faceva supporre che ci fosse un'imbarcazione ad attenderli. Ma a quale scopo? Forse Luther voleva introdurre di nascosto qualcosa o qualcuno negli Stati Uniti: una valigia piena di oppio, un bazooka, un agitatore comunista, una spia nazista? L'individuo o la cosa doveva essere maledettamente importante visto che si davano tanto da fare. Se non altro, adesso Eddie sapeva perché avevano scelto lui. Se si voleva far ammarare il Clipper, il motorista era la persona giusta. L'ufficiale di rotta non poteva farlo e neppure il marconista, e il pilota avrebbe avuto bisogno della collaborazione del secondo pilota. Ma il motorista, da solo, poteva fermare i motori. Luther doveva essersi procurato l'elenco dei motoristi del Clipper dalla Pan American. Non era un'impresa difficile: bastava che qualcuno si introducesse di notte negli uffici o corrompesse una segretaria. Perché proprio lui? Per qualche ragione, Luther aveva scelto quel volo e si era procurato l'elenco dell'equipaggio. Poi si era chiesto come poteva costringere Eddie Deakin a collaborare, e aveva trovato la risposta: rapire sua moglie. Per Eddie sarebbe stata una tortura aiutare quel gangster. Odiava i delinquenti. Troppo avidi per vivere come la gente normale e troppo pigri per lavorare, truffavano e rubavano ai cittadini che lavoravano sodo, e campavano da signori. Mentre gli altri si rompevano la schiena ad arare e mietere, a sgobbare diciotto ore al giorno per creare un'azienda, a cavare il carbone nelle miniere e a sudare tutto il giorno nelle acciaierie, i gangster andavano in giro ben vestiti a bordo di macchine di lusso a tiranneggiare, picchiare e spaventare a morte la gente per bene. La sedia elettrica era perfino troppo poco per loro. Anche suo padre l'aveva sempre pensata così. Ricordava quello che diceva a proposito dei prepotenti della scuola: «Sono carogne, sicuro, ma non sono furbi». Tom Luther era carogna: ma era furbo? «È difficile combattere quella gente, però non è tanto difficile metterla nel sacco» diceva suo padre. Ma non sarebbe stato semplice mettere nel sacco Tom Luther. Aveva escogitato un piano complicato, e finora sembrava che funzionasse alla perfezione. Eddie era disposto a fare più o meno qualunque cosa, pur di non sottostare alla volontà di Luther. Ma Luther aveva Carol-Ann. E se Eddie tentava di far fallire il piano, rischiava di indurre quegli individui a farle del male. Non poteva combatterli né ingannarli. Doveva sforzarsi di fare ciò
che volevano. Lasciò il porto fremendo per la frustrazione, e attraversò l'unica strada che attraversava il villaggio di Foynes. Il terminal era un'ex locanda con un cortile centrale. Da quando il villaggio era diventato un importante scalo per gli idrovolanti la costruzione era stata occupata quasi completamente dalla Pan American, anche se c'era ancora un bar, chiamato "Il pub della signora Walsh", con l'entrata indipendente. Eddie salì nella Sala operativa, dove il comandante Marvin Baker e il primo ufficiale Johnny Dott stavano parlando con il capo della stazione della Pan American. Qui, in mezzo a tazze di caffè, portacenere pieni e mucchi di messaggi radio e di bollettini meteorologici, avrebbero deciso se intraprendere o meno la lunga traversata atlantica. Il fattore cruciale era la forza del vento. Il volo verso ovest era sempre una battaglia contro il vento prevalente. I piloti cambiavano quota di continuo per cercare le condizioni più favorevoli, un gioco chiamato "caccia al vento": alle altitudini inferiori spiravano di solito i venti più deboli, ma al di sotto di una certa altitudine l'aereo correva il pericolo di entrare in collisione con qualche nave o, più probabilmente, con un iceberg. I venti forti comportavano un maggiore consumo di carburante, e a volte si prevedevano venti di forza tale che il Clipper non poteva imbarcarne a sufficienza per superare i tremiladuecento chilometri tra Foynes e Terranova. Allora era necessario rinviare il volo e i passeggeri venivano accompagnati in un albergo dove attendevano che il tempo migliorasse. Ma se fosse accaduto quel giorno, quale sarebbe stata la sorte di CarolAnn? Eddie diede un'occhiata ai bollettini meteorologici. I venti erano forti e c'era una tempesta nel centro dell'Atlantico. L'aereo era al completo, quindi bisognava effettuare calcoli molto precisi prima che il volo avesse via libera. Quel pensiero rinfocolò la sua ansia. Non sopportava l'idea di restare bloccato in Irlanda mentre Carol-Ann era nelle mani di quei delinquenti, al di là dell'oceano. Le davano da mangiare? Aveva un posto per sdraiarsi? Stava abbastanza al caldo dove la tenevano prigioniera? Andò a esaminare la carta dell'Atlantico appesa al muro e controllò i dati che gli aveva passato Luther. Il punto era stato scelto bene. Era vicino al confine canadese, a due o tre chilometri dalla riva, in un canale fra la costa e una grande isola nella baia di Fundy. Chiunque capisse qualcosa di idrovolanti l'avrebbe giudicato il posto ideale per un ammaraggio. In realtà non era esattamente l'ideale, dato che i porti usati dai Clipper erano ancora più
riparati, ma sarebbe stato più calmo del mare aperto, e forse l'aereo avrebbe potuto ammarare senza gravi rischi. Eddie si sentì un po' sollevato: almeno quella parte del piano poteva funzionare. Si rendeva conto che per lui la riuscita del piano di Luther era importante, e quel pensiero gli lasciava l'amaro in bocca. Continuava a domandarsi come far scendere l'aereo. Poteva simulare un guasto a un motore; ma il Clipper poteva volare anche con tre motori; e non sarebbe riuscito a imbrogliare a lungo l'aiuto-motorista, Mickey Finn. Si lambiccò il cervello, ma non riuscì a trovare una soluzione. La prospettiva di giocare un tiro del genere al comandante Baker e agli altri lo faceva sentire il peggior mascalzone del mondo. Stava per tradire tanta gente che si fidava di lui. Ma non aveva scelta. Poi gli venne in mente un rischio ancora più grave. Poteva darsi che Tom Luther non mantenesse la promessa. Perché avrebbe dovuto? Era un delinquente! Anche se lui faceva ammarare l'idrovolante, non era detto che gli restituissero Carol-Ann. Entrò Jack, l'ufficiale di rotta, con altri bollettini meteorologici, e lo guardò incuriosito. Eddie si rese conto che nessuno gli aveva rivolto la parola da quando era entrato. Era come se gli girassero intorno in punta di piedi: si erano accorti di quanto era preoccupato? Doveva tentare di comportarsi in modo normale. «Cerca di non perderti, Jack» disse, ripetendo una vecchia battuta. Non era un bravo attore, e lo scherzo gli sembrò forzato. Ma gli altri risero e l'atmosfera si rasserenò. Il comandante Baker diede un'occhiata ai bollettini appena arrivati e disse: «La tempesta sta peggiorando». Jack annuì. «Sarà quello che Eddie chiama un balletto.» Prendevano sempre in giro Eddie per le sue divertenti espressioni dialettali. Lui riuscì a sorridere e aggiunse: «O una bella sbatacchiata». Baker annunciò: «Ho deciso di aggirarla». Baker e Johnny Dott prepararono un piano di volo per Botwood, Terranova, che aggirasse la tempesta ed evitasse i venti contrari più forti. Quando ebbero terminato, Eddie prese i bollettini meteorologici e cominciò a fare i suoi calcoli. Per ogni tratta del volo disponeva delle previsioni sulla direzione e la forza del vento a mille piedi di quota, quattromila, ottomila e dodicimila. Conoscendo la velocità di crociera dell'aereo e la forza del vento, poteva calcolare la velocità al suolo: e questo gli dava come risultato il tempo di volo per ogni tratta, alla quota più favorevole. Poi, usando tabelle apposite,
calcolava il consumo di carburante del Clipper con l'attuale carico. Infine riportava il fabbisogno di carburante, tratta per tratta, su un grafico chiamato familiarmente "Curva Comevà". Trovato il totale, aggiungeva un margine di sicurezza. Quando ebbe completato i calcoli, si accorse con profonda costernazione che la quantità di carburante necessaria per arrivare a Terranova superava quella che il Clipper era in grado di portare. Per un momento rimase immobile. La differenza era minima: pochi chili di carico di troppo, pochi litri di carburante in meno. E Carol-Ann attendeva chissà dove, spaventata a morte. Doveva dire al comandante Baker che era necessario rimandare il decollo e aspettare che le condizioni meteorologiche migliorassero, se non se la sentiva di attraversare il cuore della tempesta. In questo secondo caso, il margine di sicurezza era minimo. Poteva mentire? Un margine di sicurezza però c'era. Se le cose si fossero messe male, l'aereo poteva attraversare la tempesta anziché aggirarla. Gli ripugnava la prospettiva di ingannare il comandante. Era sempre stato consapevole del fatto che le vite dei passeggeri erano nelle sue mani ed era fiero della propria meticolosa precisione. D'altra parte, la sua decisione non era irrevocabile. A ogni ora del viaggio doveva confrontare il consumo effettivo di carburante con la proiezione della Curva Comevà. Se avevano consumato più del previsto, dovevano tornare indietro. Era possibile che lo scoprissero, e sarebbe stata la fine della sua carriera: ma cosa contava, quando erano in gioco la vita di sua moglie e del suo bambino non ancora nato? Rifece i calcoli. Ma questa volta, quando controllò le tabelle, commise volutamente due errori prendendo il consumo di carburante previsto per un carico inferiore, nella colonna accanto. Il risultato, adesso, rientrava nei margini di sicurezza. Ma esitava ancora. Non gli era facile mentire, neppure in quella terribile situazione. Alla fine il comandante Baker si spazientì e sbirciò al di sopra della sua spalla. «Svegliati, Ed. Possiamo partire o no?» Eddie gli mostrò il risultato alterato ma tenne gli occhi bassi. Non voleva guardarlo in faccia. Si schiarì la gola, nervosamente, e fece del suo me-
glio per dire in tono deciso e sicuro: «Non abbiamo un gran margine, comandante, ma possiamo andare». PARTE TERZA Da Foynes al centro dell'Atlantico 11 Diana Lovesey mise piede sul molo di Foynes e provò un senso di commossa gratitudine nel risentire la terra sotto i piedi. Era triste ma calma. Aveva preso una decisione: non sarebbe risalita sul Clipper, non sarebbe andata in America e non avrebbe sposato Mark Alder. Le tremavano le ginocchia e per un momento temette di cadere: ma l'impressione passò. Si incamminò verso il capannone della dogana. Prese sottobraccio Mark. Aveva intenzione di dirglielo non appena fossero rimasti soli. Gli avrebbe spezzato il cuore, rifletté con una fitta di dolore. Luì l'amava moltissimo, ma ormai era troppo tardi per pensarci. Erano sbarcati quasi tutti i passeggeri, a eccezione della strana coppia che a bordo sedeva vicino a lei: il bel Frank Gordon e Ollis Field il calvo. Lulu Bell non aveva mai smesso di chiacchierare con Mark. Diana la ignorava. Non era più in collera con lei. Quella donna era egocentrica e invadente, ma le aveva permesso di veder chiaro nella sua situazione. Passarono dalla dogana e lasciarono il molo. Adesso si trovavano all'estremità occidentale di un villaggio. C'era una sola strada e una piccola mandria di vacche la stava attraversando. Dovettero attendere mentre le bestie passavano. Diana udì la principessa Lavinia commentare a voce alta: «Perché mi hanno portato in una fattoria?». Davy, lo steward, rispose in tono premuroso: «La condurrò al terminal, principessa». Indicò, dall'altra parte della strada, una costruzione che sembrava una vecchia locanda con i muri ricoperti di edera. «C'è un bar molto confortevole, lo chiamano Il pub della signora Walsh, e servono ottimo whisky irlandese.» Quando le vacche furono passate, diversi passeggeri seguirono Davy al pub. Diana disse a Mark: «Facciamo il giro del villaggio». Voleva prenderlo in disparte al più presto possibile. Mark sorrise e annuì. Ma anche altri passeggeri avevano avuto la stessa idea, compresa Lulu; perciò una pic-
cola folla si incamminò lungo la via principale di Foynes. C'erano la stazione ferroviaria, l'ufficio postale e la chiesa; poi due file di case di pietra grigia con i tetti di ardesia. Sulla facciata di alcune case c'erano dei negozi. Lungo la via erano parcheggiati alcuni carri a cavalli, ma un solo camion. Gli abitanti, vestiti di tweed o di stoffe tessute in casa, guardavano incuriositi i visitatori con abiti di seta e pellicce, e Diana ebbe la sensazione di partecipare a una processione. Foynes non si era ancora abituata al ruolo di scalo per l'élite più ricca e privilegiata del mondo. Diana sperava che il gruppo si dividesse; invece restavano tutti insieme, come se temessero di perdersi. Cominciò a sentirsi in trappola. Il tempo passava. Arrivarono di fronte a un altro bar e lei disse a Mark: «Entriamo qui». «Che idea magnifica» esclamò subito Lulu. «Tanto, a Foynes non c'è niente da vedere.» Diana però ne aveva abbastanza di lei. «Per la verità, vorrei dire due parole a Mark da sola» dichiarò in tono aspro. «Tesoro!» protestò Mark, imbarazzato. «Non preoccuparti» affermò pronta Lulu. «Noi proseguiamo, e lasciamo soli i due colombi. Ci sarà un altro bar, se non conosco male l'Irlanda!» Il tono era allegro, gli occhi gelidi. Mark mormorò: «Lulu, mi dispiace...». «E di che?» esclamò lei in tono vivace. A Diana non piacque l'idea che Mark si scusasse per lei. Girò sui tacchi ed entrò nel pub, lasciando che la seguisse con comodo. Era un locale fresco e semibuio. Dietro al banco erano allineate bottiglie e botticelle; davanti c'erano tavoli e sedie e il pavimento era di legno. Due vecchi seduti nell'angolo guardarono fisso Diana. Lei aveva un soprabito di seta rosso-arancio sopra l'abito a pois, e si sentiva come una principessa in un banco di pegni. Una donna minuta con il grembiule comparve dietro il banco. Diana chiese: «Posso avere un cognac, per favore?». Sentiva il bisogno di cercare un po' di coraggio nell'alcol. Si sedette a un tavolino. Entrò Mark. Probabilmente si era scusato ancora con Lulu, pensò irritata Diana. Le si sedette accanto e chiese: «Cos'è successo?». «Ne ho abbastanza di Lulu» rispose lei. «C'era bisogno di essere così sgarbata?» «Non sono stata sgarbata. Ho detto solo che volevo dirti due parole da sola.»
«E non potevi trovare un modo più gentile?» «Ho l'impressione che Lulu non afferri le allusioni.» Mark sembrava irritato, sulla difensiva. «Be', ti sbagli. È una persona sensibile, anche se sembra sfacciata.» «Comunque non ha importanza.» «Come, non ha importanza? Hai appena offeso una delle mie più vecchie amiche!» La donna portò il cognac a Diana, che bevve in fretta qualche sorso per rinfrancarsi. Mark ordinò una Guinness. Diana continuò: «Non ha importanza perché ho cambiato idea su tutta la faccenda. Non vengo in America con te». Mark impallidì. «Non dirai sul serio!» «Ho riflettuto. Non voglio venire. Tornerò con Mervyn... se mi vorrà.» Ma era sicura che l'avrebbe ripresa. «Non lo ami. L'hai detto tu. E so che è così.» «Cosa vuoi saperne tu? Non sei mai stato sposato.» Mark sembrò ferito, e Diana si raddolcì. Gli posò la mano sul ginocchio. «Hai ragione: non amo Mervyn come amo te.» Poi si vergognò e ritirò la mano. «Ma non va bene.» «Ho dedicato troppo tempo a Lulu» disse Mark con aria pentita. «Scusami, tesoro. Ti prego di perdonarmi. Mi sono lasciato trascinare perché non la vedevo da tanto tempo. Ti ho trascurata. È la nostra grande avventura, e per un'ora l'ho dimenticato. Perdonami, ti prego.» Era gentile e affettuoso quando capiva di aver sbagliato: aveva un'espressione rattristata, quasi infantile. Diana si impose di ricordare ciò che aveva provato un'ora prima. «Non si tratta solo di Lulu» disse. «Credo di essere stata troppo avventata.» La donna portò la birra a Mark, ma lui non la toccò. Diana continuò: «Ho lasciato tutto, la casa, il marito, gli amici, la patria. Mi sono imbarcata per un volo attraverso l'Atlantico che è di per sé pericoloso. E sto andando in un Paese sconosciuto dove non ho niente, né amici né denaro». Mark sembrava colpito. «Oh, Dio, capisco. Ti ho abbandonata proprio nel momento in cui ti sentivi più vulnerabile. Piccola, mi vergogno come un ladro. Ti prometto che non lo farò più.» Forse avrebbe mantenuto la promessa, forse no. Era affettuoso, ma anche spensierato e disinvolto. Non era il tipo che si atteneva a una decisione. Adesso era sincero, ma avrebbe ricordato la promessa la prossima volta
che avesse incontrato un vecchio amico? Era stato il suo atteggiamento scanzonato ad attrarre Diana, all'inizio; e adesso, ironia del destino, capiva che era proprio quella caratteristica a renderlo inaffidabile. Di Mervyn almeno si poteva dire che era affidabile. Non cambiava mai abitudini, buone o cattive che fossero. «Non credo di poter contare su di te» disse Diana. Mark si rabbuiò. «Quando mai ti ho delusa?» Diana non riuscì a farsi venire in mente un solo esempio. «Lo farai» rispose. «Però tu volevi abbandonare tutte le cose che hai appena ricordato. Sei infelice con tuo marito, il tuo Paese è in guerra, la casa e gli amici ti annoiano. Me l'hai detto tu.» «Mi annoiano, ma non mi fanno paura.» «Non c'è niente di cui aver paura. L'America è come l'Inghilterra. La gente parla la stessa lingua, va a vedere gli stessi film, ascolta le stesse jazz band. Ti piacerà. E io avrò cura di te, lo prometto.» Diana avrebbe voluto credergli. «E c'è un'altra cosa» continuò Mark. «I figli.» Il colpo andò a segno. Diana desiderava tantissimo avere un bambino, però Mervyn non ne voleva. Mark sarebbe stato un ottimo padre, affettuoso, allegro, tenero. Si sentì confusa, meno decisa. Forse doveva veramente rinunciare a tutto. Cosa contavano per lei casa e sicurezza se non poteva avere una famiglia? Ma cosa sarebbe successo se Mark l'avesse lasciata prima di arrivare in California? Se a Reno fosse comparsa un'altra Lulu, subito dopo il divorzio, e Mark se ne fosse andato con lei? Diana si sarebbe trovata senza marito, senza figli, senza denaro, senza casa. Adesso si pentiva di non aver riflettuto più a lungo prima di dirgli di sì. Invece di buttargli le braccia al collo e di accettare subito, avrebbe dovuto discutere meticolosamente il futuro e pensare a tutte le eventualità; chiedere una specie di garanzia, magari solo il prezzo del biglietto di ritorno se le cose fossero andate male. Ma lui si sarebbe offeso, e comunque sarebbe stato necessario ben più di un biglietto per attraversare l'Atlantico una volta che la guerra fosse cominciata davvero. Non so cosa avrei dovuto fare, pensò avvilita. Ma è troppo tardi per i pentimenti. Ho preso una decisione e non mi lascerò dissuadere. Mark le prese le mani. Diana si sentiva troppo triste per ritrarle. «Hai cambiato idea una volta, cambiala ancora» disse lui in tono persuasivo.
«Vieni con me, diventa mia moglie. Pensa ai figli che avremo. Vivremo in una casa sulla spiaggia e porteremo i nostri piccoli a sguazzare nelle onde. Saranno biondi e abbronzati, e crescendo giocheranno a tennis e faranno il surf e andranno in bicicletta. Quanti figli ti piacerebbe avere? Due? Tre? Sei?» Ma il momento di debolezza era passato. «È inutile, Mark» disse malinconicamente Diana. «Torno a casa.» Gli lesse negli occhi che adesso le credeva. Si guardarono, erano tutti e due tristi. Per qualche istante non parlarono. Poi entrò Mervyn. Diana non credeva ai propri occhi. Lo fissò come se fosse un fantasma. Non poteva essere lì. Era impossibile! «Ah, eccoti» disse lui, con la consueta voce baritonale. Diana fu assalita da sentimenti contrastanti. Era sgomenta, eccitata, impaurita, sollevata, imbarazzata, piena di vergogna. Si rese conto che suo marito la fissava mentre lei teneva per mano un altro uomo. Sottrasse di scatto le mani dalla stretta di Mark. Mark chiese: «Cosa c'è? Cosa succede?». Mervyn si avvicinò al tavolo e si fermò a fissarli, con le mani sui fianchi. Mark era stupito: «Chi diavolo è questo cafone?». «Mervyn» sussurrò Diana con un filo di voce. «Cristo!» «Mervyn... come sei arrivato fin qui?» chiese Diana. «In volo» rispose lui, con la solita laconicità. Lei si accorse che indossava un giubbotto di pelle e teneva in mano un casco. «Ma... ma come sapevi dove trovarci?» «La lettera diceva che quando l'avrei letta sareste stati in volo per l'America, e c'è un solo modo per farlo.» Diana vedeva che era fiero di sé perché aveva scoperto dov'era e l'aveva trovata, nonostante le probabilità contrarie. Non aveva previsto che potesse raggiungerli con il suo aereo; non ci aveva nemmeno pensato. Adesso si sentiva mancare per la gratitudine: teneva tanto a lei da rincorrerla in quel modo. Mervyn si sedette di fronte a loro. «Mi porti un whisky irlandese. Abbondante» ordinò alla donna che stava al banco. Mark prese la birra e bevve un paio di sorsi, nervosamente. Diana lo guardò. In un primo momento era sembrato che Mervyn lo intimidisse, ma
ormai si era reso conto che non intendeva fare a pugni e sembrava semplicemente a disagio. Scostò la sedia dal tavolo di qualche centimetro, come per distanziarsi da lei. Forse anche lui si vergognava perché erano stati sorpresi a tenersi per mano. Diana bevve un po' di cognac per farsi forza. Mervyn la fissava ansioso. Aveva un'espressione così stupita e addolorata che avrebbe voluto gettarglisi fra le braccia. Aveva fatto un volo tanto lungo senza sapere quale accoglienza avrebbe ricevuto. Tese la mano per toccargli il braccio in un gesto rassicurante. Con sua grande sorpresa, Mervyn sembrò a disagio e lanciò a Mark uno sguardo preoccupato, come se lo sconcertasse farsi toccare dalla moglie di fronte all'amante. La donna gli portò il whisky: lo bevve in fretta. Mark sembrava offeso e accostò di nuovo la sedia al tavolo. Diana era agitata. Non si era mai trovata in una situazione simile. Tutti e due l'amavano. Era andata a letto con tutti e due... e loro lo sapevano. Era incredibilmente imbarazzante. Avrebbe voluto confortarli entrambi, ma non osava. Si inclinò un po' all'indietro, per difendersi dai due uomini aumentando la distanza fra sé e loro. «Mervyn» disse, «non volevo farti soffrire.» Mervyn la fissò. «Ti credo» rispose calmo. «Davvero... Riesci a capire cos'è successo?» «Riesco ad afferrare il quadro generale, anche se sono un'anima semplice» affermò lui in tono sarcastico. «Sei scappata con il tuo grande amore.» Fissò Mark e si sporse verso di lui con aria aggressiva. «Un americano, mi pare. L'uomo che ti lascerà fare a modo tuo.» Mark si appoggiò alla spalliera della sedia e non disse nulla, ma lo fissò a sua volta. Non era il tipo che amava gli scontri. Non sembrava offeso, ma piuttosto incuriosito. Mervyn era stato un personaggio di rilievo nella sua vita, anche se non l'aveva mai conosciuto. In tutti quei mesi era stato divorato dalla curiosità nei confronti dell'uomo con cui Diana dormiva ogni notte. Adesso l'aveva conosciuto e ne era affascinato. Mervyn, al contrario, non mostrava per lui il minimo interesse. Diana li osservava. Non avrebbero potuto essere più diversi. Mervyn era alto, aggressivo, amareggiato, teso; Mark era piccolo, elegante, sveglio, con una mentalità aperta. Pensò fuggevolmente che con ogni probabilità un giorno Mark avrebbe sfruttato la scena in uno dei suoi copioni. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso. «Lo so, sono stata imprudente» disse.
«Imprudente!» la derise Mervyn, colpito dall'inadeguatezza della parola. «Sei stata pazza!» Diana rabbrividì. L'ironia di Mervyn la colpiva sempre nel vivo. Ma questa volta se l'era meritato. La donna al banco e i due vecchi nell'angolo seguivano la scena con aperto interesse. Mervyn fece cenno alla donna e chiese: «Posso avere un piatto di panini al prosciutto, dolcezza?». «Con piacere» rispose lei educatamente. Le bariste trovavano sempre simpatico Mervyn. Diana continuò: «È che... ero così infelice, negli ultimi tempi. Cercavo solo un po' di felicità». «E vuoi cercare la felicità in America, dove non hai amici, né parenti, né una casa... Che fine ha fatto il tuo buon senso?» Gli era riconoscente perché l'aveva inseguita, ma avrebbe preferito che fosse più gentile. Poi sentì sulla spalla la mano di Mark. «Non ascoltarlo» disse lui con voce calma. «Perché non dovresti essere felice? Non è sbagliato desiderarlo.» Diana guardò Mervyn spaventata; temeva di offenderlo ancora di più. Poteva darsi che la respingesse. Sarebbe stato così umiliante se l'avesse fatto di fronte a Mark... e mentre c'era quella orribile Lulu Bell tra i piedi. Mervyn ne era capace: era il tipo che faceva cose del genere. Adesso avrebbe preferito che non l'avesse seguita: così, invece, Mervyn doveva prendere una decisione immediata. Con più tempo a disposizione, Diana avrebbe placato il suo orgoglio ferito. Ma così era troppo precipitoso. Prese il bicchiere, se lo portò alle labbra, poi lo posò senza bere. «Non mi piace» borbottò. Mark disse: «Immagino che preferiresti un tè». Era proprio quello che desiderava. «Sì, certo.» Mark andò al banco e lo ordinò. Mervyn non l'avrebbe mai fatto; secondo lui, toccava alle donne. Lanciò a Mark un'occhiata di disprezzo. «È questo che non va in me?» chiese rabbioso. «Non ti porto il tè? È così? Vuoi che ti faccia da cameriere, oltre a mantenerti?» Arrivarono i panini ma non li toccò. Diana non sapeva cosa rispondere. «Non c'è bisogno di litigare» disse a bassa voce. «Non c'è bisogno di litigare? E quando ce ne sarebbe bisogno, se non adesso? Sei scappata con quello stronzetto senza neppure dirmi ciao, mi hai lasciato una stupida lettera...» la tirò fuori dalla tasca del giubbotto e
Diana, riconoscendola, avvampò per l'umiliazione. Aveva pianto mentre la scriveva: com'era possibile che lui la sventolasse lì, in un bar? Si scostò da lui in uno scatto di risentimento. Quando il tè fu pronto, Mark lo portò al tavolo. Guardò Mervyn e chiese: «Vuoi una tazza di tè versata da uno stronzetto?». I due vecchi irlandesi nell'angolo scoppiarono a ridere, ma Mervyn lanciò a Mark un'occhiata gelida e non rispose. Diana cominciava a irritarsi con lui. «Sarò pazza, Mervyn, ma ho il diritto di essere felice.» Lui le puntò contro l'indice in un gesto d'accusa. «Quando mi hai sposato, hai preso un impegno, e non hai nessun diritto di andartene.» Lei era fuori di sé per la frustrazione. Mervyn si mostrava inflessibile: era come cercare di spiegare qualcosa a un pezzo di legno. Perché non voleva ragionare? Perché doveva essere sempre così maledettamente sicuro di essere l'unico ad avere ragione? All'improvviso si rese conto che era una sensazione piuttosto consueta. L'aveva provata più o meno una volta la settimana, negli ultimi cinque anni. Durante le ore appena passate, sopraffatta dal panico a bordo dell'aereo, aveva dimenticato quanto sapeva essere detestabile Mervyn, e quanto riusciva a renderla infelice. Adesso tutto riaffiorava, come il ricordo di un incubo. Mark intervenne: «Diana può fare ciò che vuole, Mervyn. Non puoi costringerla a fare o non fare qualcosa. Non è una bambina. Se vuole tornare a casa con te, tornerà. Se vuole venire in America e sposarmi, lo farà». Mervyn batté il pugno sul tavolo. «Non può sposarti! È sposata con me.» «Può divorziare.» «Con quale giustificazione?» «Nel Nevada non occorrono giustificazioni.» Mervyn girò su Diana uno sguardo furioso. «Tu non andrai nel Nevada. Tornerai a Manchester con me.» Diana guardò Mark, e lui sorrise dolcemente. «Non sei tenuta a ubbidire a nessuno» affermò. «Devi fare ciò che vuoi.» Mervyn ordinò: «Mettiti il soprabito». Con il suo atteggiamento brusco, Mervyn le aveva restituito il senso delle proporzioni. Adesso considerava la paura di volare e il timore per la vita in America come preoccupazioni trascurabili in confronto all'interrogativo fondamentale: Con chi voleva vivere? Amava Mark e Mark amava lei, e tutto il resto era marginale. Con un sollievo immenso, prese una decisione
e la annunciò ai due uomini. Respirò a fondo: «Mi dispiace, Mervyn» disse. «Vado con Mark.» 12 Per Nancy Lenehan fu un momento esaltante quello in cui, dall'alto del Tiger Moth di Mervyn Lovesey, vide il Clipper della Pan American galleggiare maestoso sulle acque tranquille dell'estuario dello Shannon. All'inizio tutte le probabilità erano contro di lei: invece aveva raggiunto il fratello e rovinato almeno in parte il suo piano. Bisogna essere molto abili per battere in astuzia Nancy Lenehan, pensò, in un raro istante di autocompiacimento. Peter avrebbe incassato il colpo più duro della sua vita, vedendola. Mentre il piccolo aereo giallo volava in cerchio e Mervyn cercava un posto per atterrare, Nancy cominciava a sentirsi sempre più tesa al pensiero dell'imminente scontro con il fratello. Le era ancora difficile credere che l'avesse ingannata e tradita con tanta spietatezza. Com'era possibile? Da piccoli avevano fatto il bagno insieme. Lei gli aveva messo i cerotti sulle ginocchia, gli aveva spiegato come nascevano i bambini, gli aveva sempre dato un pezzo della sua chewing-gum. Aveva ascoltato le sue confidenze e gli aveva fatto le proprie. E quando erano diventati grandi aveva sempre assecondato il suo egocentrismo, evitando che provasse sensi di inferiorità perché lei era molto più intelligente, anche se era una femmina. Per tutta la vita si era presa cura di lui. E quando il loro padre era morto, aveva lasciato che Peter diventasse presidente della società. Le era costato caro. Non solo aveva dovuto soffocare l'ambizione per cedergli il passo: aveva anche troncato sul nascere un legame sentimentale perché Nat Ridgeway si era dimesso dopo la nomina di Peter. E non avrebbe mai saputo come sarebbero andate a finire le cose, perché Ridgeway si era sposato. MacBride, il suo amico avvocato, le aveva consigliato di non lasciare la presidenza a Peter; ma Nancy era andata contro il suo parere, e il proprio interesse, perché sapeva che Peter avrebbe sofferto molto se la gente avesse pensato che non era degno di succedere al padre. Quando ricordava tutto ciò che aveva fatto per lui e il modo in cui Peter l'aveva raggirata e le aveva mentito, avrebbe voluto piangere per l'amarezza e la rabbia. Non vedeva l'ora di trovarlo, affrontarlo e guardarlo negli occhi. Era curiosa di scoprire come avrebbe reagito e cosa le avrebbe detto. Era anche impaziente di battersi. Raggiungere Peter era solo il primo
passo. Doveva assolutamente imbarcarsi. Magari era una cosa semplice: ma se il Clipper era al completo, avrebbe dovuto farsi cedere il posto da qualcun altro, o ricorrere al suo fascino con il comandante, oppure corrompere qualcuno a bordo. E poi, arrivata a Boston, doveva convincere gli azionisti di minoranza, la zia Tilly e il vecchio avvocato di suo padre, Danny Riley, a rifiutare di vendere i loro pacchetti a Nat Ridgeway. Sapeva di poterci riuscire; ma Peter non si sarebbe arreso senza lottare, e Nat Ridgeway era un avversario formidabile. Mervyn atterrò su una strada di campagna alla periferia di un villaggio. Con un insolito sfoggio di cortesia, aiutò Nancy a uscire dall'abitacolo e a scendere. Quando lei mise piede sul suolo irlandese per la seconda volta, pensò a suo padre che, sebbene parlasse tanto della vecchia patria, non c'era mai andato. Era un vero peccato. Sarebbe stato contento di sapere che i suoi figli erano tornati in Irlanda; ma gli avrebbe spezzato il cuore scoprire in che modo suo figlio aveva rovinato l'azienda che era stata tutta la sua vita. Era meglio che non ci fosse più: almeno questo gli era stato risparmiato. Mervyn legò l'aereo, e per Nancy fu un sollievo lasciarselo alle spalle. Era molto bello, ma per poco non le era costato la pelle. Rabbrividiva ancora al ricordo del volo verso la scogliera. Era decisa a non salire su un aereo piccolo per il resto dei suoi giorni. Si incamminarono a passo deciso verso il villaggio seguendo un carro di patate trainato da un cavallo. Nancy intuiva che anche Mervyn era in preda a un miscuglio di trionfo e di apprensione. Come lei, era stato ingannato e tradito e aveva rifiutato di subire passivamente; e, come lei, provava grande soddisfazione nel rovinare i piani di chi aveva complottato ai suoi danni. Ma per entrambi la vera battaglia doveva ancora venire. C'era una sola via che attraversava Foynes. Più o meno a metà incontrarono un gruppo di persone ben vestite che potevano essere i passeggeri del Clipper, sembrava che fossero capitati sul set sbagliato in uno studio cinematografico. Mervyn si avvicinò e chiese: «Sto cercando la signora Diana Lovesey... credo che sia imbarcata sul Clipper». «Certo!» esclamò una donna, e Nancy riconobbe Lulu Bell, la diva del cinema. Dal suo tono si capiva che non aveva molta simpatia per la signora Lovesey. Ancora una volta, Nancy si chiese com'era la moglie di Mervyn. Lulu Bell continuò: «La signora Lovesey e il suo... accompagnatore?... sono entrati in un bar, là, più avanti». Nancy chiese a sua volta: «Sa dirmi dov'è la biglietteria?».
«Se mai mi capiterà una parte di guida turistica, non avrò bisogno di provarla!» rispose Lulu, e i passeggeri che erano con lei risero. «La sede della linea aerea è in fondo alla strada, dopo la stazione ferroviaria, di fronte al porto.» Nancy la ringraziò e proseguì. Mervyn si era già avviato, e dovette correre per raggiungerlo. Ma lui si bloccò di colpo quando vide due uomini che camminavano parlando assorti. Nancy li guardò, incuriosita, chiedendosi come mai Mervyn si fosse fermato nel vederli. Uno dei due era un signore dai capelli argentei, in abito nero e panciotto color tortora, senza dubbio un passeggero del Clipper. L'altro era una specie di spaventapasseri alto e ossuto, con i capelli così corti da sembrare calvo e l'espressione di chi si è appena svegliato da un incubo. Mervyn si avvicinò a quest'ultimo e chiese: «Lei è il professor Hartmann, vero?». La reazione dell'uomo fu sconvolgente. Indietreggiò di un passo e alzò le mani in un gesto di difesa, come se temesse un'aggressione. Il suo compagno disse: «È tutto a posto, Carl». Mervyn proseguì: «Sarei onorato di stringerle la mano, signore». Hartmann lasciò ricadere le braccia, ma conservò un atteggiamento diffidente. Si strinsero la mano. Nancy era sorpresa dal comportamento di Mervyn. Avrebbe giurato che per lui nessuno al mondo gli fosse superiore: invece sembrava uno scolaretto che chiede un autografo a un campione del baseball. Mervyn continuò: «Mi fa molto piacere vedere che è espatriato. Temevamo il peggio quando è sparito. A proposito, mi chiamo Mervyn Lovesey». Hartmann disse: «Questo è il mio amico, il barone Gabon. Mi ha aiutato a fuggire». Mervyn strinse la mano anche a Gabon, poi aggiunse: «Non voglio disturbare. Bon voyage, signori». Hartmann doveva essere un personaggio eccezionale, pensò Nancy, se aveva distratto Mervyn, sia pure per pochi istanti, dall'ossessivo inseguimento della moglie. Mentre attraversavano il villaggio, gli chiese: «Chi è quell'uomo?». «Il professor Carl Hartmann, il più grande fisico del mondo» rispose Mervyn. «Lavora per ottenere la scissione dell'atomo. Era finito nei guai con i nazisti per le sue idee politiche, e tutti lo credevano morto.» «Come mai sa chi è?»
«Ho studiato fisica all'università. Avevo intenzione di diventare ricercatore, ma non ho la pazienza necessaria. Comunque, mi tengo al corrente dei progressi in questo campo. Negli ultimi dieci anni sono state fatte alcune scoperte sensazionali.» «Per esempio?» «C'è un'austriaca, anche lei sfuggita ai nazisti, fra parentesi. Si chiama Lise Meitner e lavora a Copenaghen. È riuscita a scindere l'atomo di uranio in due atomi più piccoli, il bario e il cripto.» «Credevo che gli atomi fossero indivisibili.» «Lo credevamo tutti, fino a poco tempo fa. È straordinario: quando succede, si produce un'esplosione, ed è per questo che interessa tanto ai militari. Se riusciranno a controllare il processo, potranno produrre la bomba più distruttiva che il mondo abbia conosciuto.» Nancy si girò e lanciò un'occhiata all'uomo malvestito e spaventato dallo sguardo intenso. La bomba più distruttiva che il mondo abbia mai conosciuto, pensò con un brivido. «Mi sorprende che lo lascino andare in giro senza sorvegliarlo» disse. «Non ne sarei proprio tanto sicuro» disse Mervyn. «Guardi quello.» Nancy guardò nella direzione che le indicava, dall'altra parte della strada. Un passeggero del Clipper camminava tutto solo: era alto, robusto, con la bombetta e un abito grigio con panciotto color vino. «Crede che sia la guardia del corpo?» chiese. Mervyn alzò le spalle. «A me sembra un poliziotto. Forse Hartmann non lo sa, ma direi che ha un angelo custode con le scarpe numero quarantaquattro.» Nancy non aveva supposto che Mervyn fosse un osservatore così acuto. «Mi pare che il bar sia questo» disse lui, passando ad argomenti più terreni senza neppure riprendere fiato. Si fermò davanti alla porta. «Buona fortuna» augurò Nancy. Era sincera. Nonostante il suo modo di fare brusco e irascibile, aveva finito per trovarlo simpatico. Mervyn sorrise. «Grazie. Buona fortuna anche a lei.» Poi entrò e Nancy proseguì. In fondo, di fronte al porto, c'era una costruzione ricoperta di edera, la più grande del paese. All'interno, Nancy trovò un ufficio provvisorio e un bel giovane con l'uniforme della Pan American. La guardò con interesse anche se poteva avere quindici anni meno di lei. «Voglio un biglietto per New York» disse Nancy. Il giovane la fissò, disorientato. «Davvero? Di solito qui non vendiamo
biglietti... anzi, non ne abbiamo.» Non sembrava un problema grave. Nancy gli sorrise: un sorriso contribuiva sempre a superare gli stupidi ostacoli burocratici. «Be', un biglietto è solo un pezzo di carta. Se pago quello che c'è da pagare, immagino che mi lascerà salire a bordo, no?» Il giovane sorrise. Nancy pensò che l'avrebbe accontentata, se avesse potuto. «Credo di sì. Però l'aereo è pieno.» «Accidenti!» mormorò lei, depressa. Aveva corso tanti rischi per nulla? Ma non era affatto disposta a cedere, comunque non subito. «Deve pure esserci qualcosa» insistette. «Non ho bisogno di un letto. Posso dormire su un sedile. Andrebbe bene anche uno dei posti dell'equipaggio.» «Non può avere uno dei posti dell'equipaggio. Abbiamo libera solo la suite nuziale.» «Posso averla?» chiese Nancy, riprendendo a sperare. «Ma non so neppure quanto costa...» «Però può informarsi, vero?» «Credo che costi almeno quanto due biglietti normali, e cioè settecentocinquanta dollari per la sola andata. Però potrebbe essere anche di più.» Per Nancy poteva costare anche settemila dollari. «Le firmo un assegno in bianco» disse. «Accidenti! Ci tiene davvero a partire con questo aereo, eh?» «Devo assolutamente essere a New York domani. È... molto importante.» Nancy non trovava le parole per spiegare fino a che punto lo fosse. «Andiamo a sentire il comandante» disse il giovane. «Da questa parte, signora, prego.» Nancy lo seguì chiedendosi se aveva sprecato i suoi sforzi con qualcuno che non aveva l'autorità per prendere una decisione. Il giovane la condusse in un ufficio al piano di sopra. C'erano sei o sette membri dell'equipaggio del Clipper, erano in maniche di camicia e fumavano e bevevano caffè mentre studiavano le carte e i bollettini meteorologici. Il giovane la presentò al comandante Marvin Baker. Quando il bel comandante le strinse la mano, Nancy provò la bizzarra sensazione che stesse per misurarle le pulsazioni; poi si rese conto che lo strano effetto era dovuto al fatto che aveva i tipici modi del medico che si rivolge a un paziente. Il giovane spiegò: «La signora Lenehan deve assolutamente andare a New York, ed è disposta a pagare la suite nuziale. Possiamo prenderla a bordo?».
Nancy attese con ansia la risposta, ma il comandante le chiese: «Suo marito viaggia con lei, signora Lenehan?». Lei sbatté le ciglia: era sempre una mossa utile, quando si voleva indurre un uomo a fare qualcosa. «Sono vedova, comandante.» «Mi scusi. Ha bagagli?» «Solo questa ventiquattrore.» «Saremo lieti di portarla a New York, signora Lenehan» disse il comandante. «Dio sia lodato» esclamò con fervore Nancy. «Non so dirle quanto sia importante.» Per un momento si sentì mancare le ginocchia, e sedette sulla sedia più vicina. Si sentì imbarazzata per la propria emotività. Per nasconderla, frugò nella borsetta e prese il libretto degli assegni. Con mano tremante firmò un assegno in bianco e lo consegnò al giovane. Era venuto il momento di affrontare Peter. «Ho visto alcuni passeggeri nel paese» disse. «Dove sono gli altri?» «Quasi tutti nel pub della signora Walsh» rispose il giovane. «È il bar qui sotto. L'entrata è appena dietro l'angolo.» Nancy si alzò. Non tremava più. «Le sono molto riconoscente.» «È stato un piacere.» Uscì. Mentre chiudeva la porta, udì un brusio di voci. Senza dubbio stavano facendo commenti maliziosi su una bella vedova che poteva permettersi di firmare assegni in bianco. Arrivò sulla via. Era un pomeriggio mite con un sole pallido, e nell'aria c'era una piacevole umidità che sapeva di salmastro. E lei doveva andare a caccia del fratello traditore. Girò intorno all'edificio ed entrò nel bar. Era quel genere di locale in cui normalmente non avrebbe mai messo piede: piccolo, buio, arredato in modo rustico, molto mascolino. Doveva essere stato creato per servire birra a pescatori e contadini, ma adesso era pieno di miliardari che bevevano cocktail. L'aria era soffocante e c'era un gran vociare in diverse lingue. Sembrava che i passeggeri partecipassero a una festa. Era uno scherzo dell'immaginazione, oppure nelle loro risate c'era una nota isterica? L'allegria mascherava forse l'ansia per il lungo volo che li attendeva? Nancy scrutò le facce e scorse Peter. Lui non la vide. Lo fissò per un momento. Fremeva di rabbia e si sentiva avvampare le
guance. Provò l'impulso quasi irresistibile di prenderlo a schiaffi. Ma si dominò. Non poteva lasciar capire quanto era sconvolta. Era meglio fingersi calma. Peter era seduto in un angolo, e con lui c'era Nat Ridgeway. Fu un altro colpo. Nancy sapeva che Nat era a Parigi per le sfilate di moda; ma non immaginava che sarebbe tornato in America con Peter. Avrebbe preferito che non fosse lì. La presenza di una vecchia fiamma complicava la situazione. Doveva dimenticare che un tempo l'aveva baciato. Scacciò dalla mente quel pensiero. Si fece largo tra la folla e si avvicinò al tavolo. Nat fu il primo ad alzare la testa e la guardò con aria stupita e colpevole. Una bella soddisfazione per lei. Peter si accorse dell'espressione di Nat, e alzò gli occhi a sua volta. Nancy lo fissò. Lui impallidì e balzò in piedi. «Cristo!» esclamò. Sembrava spaventato a morte. «Perché hai tanta paura, Peter?» gli chiese lei con disprezzo. Lui deglutì a fatica e si lasciò cadere sulla sedia. Nancy continuò: «Avevi preso un biglietto per l'Oriana anche se sapevi che non l'avresti utilizzato; sei venuto a Liverpool con me e hai preso alloggio all'Adelphi Hotel, anche se non intendevi fermarti. E tutto perché avevi paura di dirmi che saresti partito col Clipper!». Lui continuava a guardarla, pallido e ammutolito. Nancy non aveva avuto intenzione di tenere un discorso, ma le parole le salivano alle labbra. «Ieri te la sei svignata dall'albergo e sei corso a Southampton sperando che io non lo scoprissi!» Si sporse al di sopra del tavolo, e Peter si ritrasse. «Di cosa hai tanta paura? Non ho intenzione di morderti!» Nell'attimo in cui pronunciò la frase, lui trasalì, come se la credesse capace di morderlo davvero. Lei non si era preoccupata di abbassare la voce. Gli altri avevano smesso di parlare. Peter si guardò intorno imbarazzato. Nancy proseguì: «Non mi sorprende che ti vergogni. Dopo tutto quello che ho fatto per te! Ti ho protetto per anni, ho rimediato i tuoi stupidi errori, ho permesso che continuassi a essere il presidente della società anche se non sapresti organizzare neppure una pesca di beneficenza! E tu hai cercato di rubarmi l'azienda! Come hai potuto? Non ti senti un verme?». Peter divenne paonazzo. «Non mi hai mai protetto. Hai sempre pensato a te stessa!» protestò. «Hai sempre voluto essere la padrona. Ma non ci sei riuscita! L'ho spuntata io, e da allora ti sei sempre data da fare per portarmi
via la presidenza.» Era un'affermazione così ingiusta che Nancy non sapeva se ridere, piangere o sputargli in faccia. «Idiota! Da allora mi sono sempre data da fare per aiutarti a conservarla, invece!» Peter prese dalla tasca alcune carte e le sventolò. «In questo modo?» Nancy riconobbe il suo rapporto. «Proprio così» esclamò. «Quel piano è il solo modo per farti restare al tuo posto.» «Mentre tu assumi il controllo! L'ho capito subito.» La guardò con aria di sfida. «Ecco perché ho fatto un piano anch'io.» «Che però non ha funzionato» ribatté trionfante Nancy. «Ho trovato un posto sull'aereo, e arriverò in tempo per il consiglio d'amministrazione.» Per la prima volta si rivolse a Nat Ridgeway. «Non ti sei ancora impadronito della Black's Boots, Nat.» «Non esserne tanto sicura» replicò Peter. Nancy lo guardò. Era aggressivo in modo fastidioso. Ma non poteva avere un asso nella manica. Non era abbastanza furbo. «Io e te possediamo il quaranta per cento a testa, Peter. Il resto è nelle mani della zia Tilly e di Danny Riley. Hanno sempre seguito le mie indicazioni. Mi conoscono e conoscono te. Io faccio denaro e tu lo perdi, e loro lo capiscono molto bene, anche se sono gentili con te per rispetto alla memoria di nostro padre. Voteranno come gli chiederò di votare.» «Riley voterà con me» replicò ostinato Peter. Qualcosa nella sua cocciutaggine allarmò Nancy. «Perché dovrebbe votare con te, quando in pratica hai portato alla rovina la società?» chiese in tono sprezzante, ma non era tanto sicura quanto cercava di apparire. Peter si accorse della sua ansia. «Sono riuscito a spaventarti, vero?» chiese. Purtroppo aveva ragione. Nancy cominciava ad allarmarsi. Suo fratello non aveva affatto l'aria di essere sconfitto. Doveva scoprire cosa si nascondeva dietro quella spavalderia. «Stai parlando tanto per parlare» ribatté. «No.» Se continuava a provocarlo, lo sapeva bene, Peter le avrebbe dato le prove che si sbagliava. «Fai sempre finta di avere un asso nella manica, ma di solito non hai niente.» «Riley me l'ha promesso.» «E Riley è affidabile quanto un serpente a sonagli» ribatté Nancy in tono sbrigativo.
Peter reagì. «No, se può avere un... incentivo.» Dunque era così: Danny Riley si era venduto. Questo era preoccupante. Danny era molto corruttibile. Cosa gli aveva offerto Peter? Doveva assolutamente scoprirlo, per sventare il complotto o per offrire di più. «Be', se il tuo piano è imperniato sull'affidabilità di Danny Riley, non ho alcun motivo di preoccuparmi» e rise con disprezzo. «È imperniato sull'avidità di Riley» proseguì Peter. Nancy si rivolse a Nat: «Al tuo posto, sarei molto scettico su questa faccenda». «Nat sa che è vero» disse Peter con aria soddisfatta. Si capiva che Nat avrebbe preferito tacere; ma quando entrambi lo fissarono, annuì con riluttanza. Peter disse: «Lui passerà a Riley una grossa fetta del lavoro legale della General Textiles». Era un colpo duro, e Nancy rimase senza fiato. Niente sarebbe piaciuto a Riley quanto mettere un piede dentro una società delle dimensioni della General Textiles. Per un piccolo studio legale di New York, era un'occasione da non perdere. Con un incentivo come quello, Riley avrebbe venduto anche sua madre. Le azioni di Peter più quelle di Riley arrivavano al cinquanta per cento; quelle di Nancy e della zia Tilly all'altro cinquanta. Con i voti divisi a metà, la questione sarebbe stata decisa con il voto del presidente, cioè Peter. Peter si rese conto di aver sconfitto la sorella, e si concesse un sorriso vittorioso. Ma Nancy non era disposta ad accettare la sconfitta. Prese una sedia e si sedette. Si rivolse a Nat Ridgeway. Aveva percepito la sua disapprovazione per tutto quel colloquio, e si chiese se era informato che Peter aveva tramato alle sue spalle. Decise di chiederlo: «Tu sapevi, immagino, che Peter mi ha ingannata». Nat la fissava a labbra strette; ma Nancy rimaneva in attesa e finalmente lui si decise a rispondere. «Non l'avevo chiesto. Le vostre beghe di famiglia non mi riguardano. Non faccio l'assistente sociale, ma l'uomo d'affari.» Però una volta, pensò Nancy, mi prendevi la mano al ristorante e mi davi il bacio della buonanotte, e una sera mi hai accarezzato il seno. «Sei un uomo d'affari onesto?» chiese. «Lo sai» ribatté lui. «Allora non approvi i metodi disonesti che vengono adottati nel tuo inte-
resse.» Lui rifletté un istante, poi disse: «Si tratta di un'acquisizione, non di un tè per signore». Stava per aggiungere qualcos'altro, ma Nancy intervenne. «Se sei disposto a ottenere un guadagno dalla disonestà di mio fratello, sei disonesto quanto lui. Sei molto cambiato dal tempo in cui lavoravi per mio padre.» Si rivolse di nuovo a Peter prima che Nat potesse rispondere. «Non capisci che potresti incassare il doppio per le tue azioni se mi lasciassi realizzare il mio piano per un paio d'anni?» «Il tuo piano non mi piace.» «Anche se non la ristrutturiamo, la società varrà molto di più a causa della guerra. Abbiamo sempre fornito scarpe ai militari... pensa agli affari che faremo se gli Stati Uniti entreranno in guerra!» «Gli Stati Uniti non ci entreranno.» «La guerra in Europa sarà utile agli affari in qualsiasi caso.» Si voltò a guardare Nat. «Lo sai, vero? È per questo che vuoi rilevare l'azienda.» Nat tacque. Si girò di nuovo verso il fratello. «Sarebbe meglio aspettare. Ascoltami. Ho mai sbagliato in questo genere di cose? Hai mai perso denaro per aver seguito i miei consigli? Hai mai guadagnato qualcosa ignorandoli?» «Non vuoi capire, vero?» esclamò Peter. Nancy non riusciva a immaginare cosa stava per aggiungere. «Cos'è che non capisco?» «Perché accetto la fusione. Perché lo faccio.» «E va bene. Perché?» Peter la fissò in silenzio e Nancy gli lesse negli occhi la risposta. La odiava. Si irrigidì, sconvolta. Aveva la sensazione d'essere andata a sbattere a tutta velocità contro un muro. Non voleva crederlo; ma non poteva ignorare l'espressione di malanimo che gli alterava i lineamenti. C'era sempre stata tensione fra loro, la normale rivalità tra fratelli. Ma questo... questo era terribile, assurdo, patologico. Non l'aveva mai sospettato. Peter, il suo fratellino, la odiava. Dev'essere questo che si prova, pensò, quando l'uomo che è sposato con te da vent'anni ti dice che ha una relazione con la segretaria e non ti ama più. Si sentiva stordita come se avesse ricevuto un colpo in testa. Le ci voleva un po' di tempo per abituarsi.
Peter non era soltanto stupido, meschino e dispettoso. Danneggiava se stesso pur di rovinare sua sorella. Il suo era odio puro e semplice. Doveva essere un po' pazzo. Nancy aveva bisogno di riflettere. Decise di lasciare il bar, l'aria surriscaldata e satura di fumo, per uscire a respirare. Si alzò e uscì senza salutare. Non appena fu all'aperto, si sentì un po' meglio. Dall'estuario soffiava una brezza fresca. Attraversò la strada e si avviò lungo il molo. Ascoltava le grida dei gabbiani. Il Clipper era in mezzo all'estuario. Era più grande di quanto aveva immaginato; gli uomini che lo stavano rifornendo di carburante sembravano piccolissimi. I motori giganteschi e le enormi eliche erano rassicuranti. A bordo di quell'aereo non si sarebbe sentita nervosa, dopo essere sopravvissuta alla traversata del mare d'Irlanda con un Tiger Moth monomotore. Ma cosa avrebbe fatto una volta a casa? Peter non si sarebbe lasciato convincere a rinunciare al suo piano. Dietro il suo comportamento c'erano troppi anni di rabbia repressa. In un certo senso le faceva pena; Peter era stato infelice per tutto quel tempo. Ma lei non aveva intenzione di cedere. Poteva esserci ancora un modo per salvare ciò che le spettava di diritto. L'anello debole era Danny Riley. Un uomo che si faceva comprare da una parte in causa poteva farsi comprare anche dall'altra. Forse le sarebbe venuto in mente qualcosa d'altro da offrirgli, qualcosa che lo inducesse a cambiare schieramento. Ma era un'impresa. L'offerta di Peter, una fetta dell'attività legale della General Textiles, era difficile da superare. Forse poteva minacciarlo. Sarebbe stato più economico. Ma come? Poteva togliere al suo studio una parte delle attività legali sue personali e della famiglia; ma non era molto, soprattutto in confronto al lavoro che avrebbe ottenuto dalla General Textiles. La cosa che Danny avrebbe gradito sopra ogni altra sarebbe stata ovviamente una somma in contanti; ma il patrimonio di Nancy era quasi tutto investito nella Black's Boots. Disponeva senza difficoltà di qualche migliaio di dollari; ma Danny avrebbe preteso molto di più, forse cento biglietti da mille. E Nancy non era in grado di procurarsi in tempo una cifra simile. Era immersa nei suoi pensieri quando la chiamarono. Si voltò e vide il giovane impiegato della Pan American che si sbracciava. «Una telefonata per lei» gridò. «Un certo signor MacBride da Boston.» Nancy ricominciò a sperare. Forse Mac poteva escogitare una via d'uscita. Conosceva Danny Riley. Erano tutti e due come suo padre, irlandesi
della seconda generazione che passavano il tempo in compagnia di altri irlandesi e diffidavano dei protestanti, anche se erano irlandesi come loro. Mac era onesto e Danny no; ma a parte questo erano molto simili. Suo padre era stato onesto, ma aveva chiuso un occhio di buon grado per certi piccoli imbrogli, soprattutto se si trattava di aiutare un amico e compatriota. Una volta aveva salvato Danny dalla rovina, ricordò Nancy mentre tornava indietro a passo svelto. Era successo pochi anni addietro, non molto prima della sua morte. Danny stava per perdere una causa molto importante e, per disperazione, aveva abbordato il giudice al circolo del golf e aveva cercato di corromperlo. Ma il giudice non era disposto a cedere alle pressioni e aveva detto a Danny che doveva scegliere: ritirarsi o essere radiato dall'ordine degli avvocati. Suo padre era intervenuto presso il giudice e lo aveva convinto che era stato un errore, un cedimento passeggero. Nancy sapeva tutta la storia; negli ultimi tempi, poco prima di morire, lui le aveva confidato molte cose. Danny era fatto così: viscido, infido, piuttosto sciocco, voltabandiera. Senza dubbio sarebbe riuscita a riportarlo dalla sua parte. Ma aveva a disposizione soltanto due giorni. Entrò nell'edificio e il giovane le indicò il telefono. Si accostò la cornetta all'orecchio. Era un piacere sentire la voce affettuosa di Mac. «E così hai raggiunto il Clipper!» esclamò lui, trionfante. «Brava!» «Sarò presente al consiglio... purtroppo Peter ha detto di avere in tasca il voto di Danny.» «E tu gli credi?» «Sì. La General Textiles affiderà a Danny una fetta delle sue attività legali.» La voce di Mac si affievolì. «Sei sicura che sia vero?» «Nat Ridgeway è qui con lui.» «Che serpente!» Mac non aveva mai avuto simpatia per Nat, e aveva cominciato addirittura a detestarlo da quando aveva saputo che usciva con lei. Anche se Mac era felicemente sposato, era geloso di chiunque mostrasse un interesse sentimentale per Nancy. «Compiango la General Textiles, se si affida a Danny» aggiunse Mac. «Credo che gli passeranno le faccende di poco conto. Mac, è lecito da parte loro offrirgli questo incentivo?» «Probabilmente no, ma è molto difficile provare la violazione.»
«Allora sono nei guai.» «Temo di sì. Mi dispiace, Nancy.» «Grazie. Mi avevi avvertita che non dovevo lasciare la presidenza a Peter.» «Già.» Era inutile piangere sul latte versato, decise Nancy, e adottò un tono più energico. «Senti, se noi contassimo su Danny, saremmo preoccupati... giusto?» «Eccome!» «Avremmo paura che cambiasse schieramento, che gli avversari gli facessero un'offerta migliore. Quindi, secondo noi, qual è il suo prezzo?» «Uhm.» Per qualche istante ci fu silenzio. Poi Mac disse: «Non mi viene in mente nulla». Nancy pensava a quando Danny aveva cercato di corrompere il giudice. «Ricordi quella volta che mio padre tirò fuori dai guai Danny? Il caso della Jersey Rubber?» «Certo. Non parliamo di dettagli al telefono, d'accordo?» «Sì. Potremmo sfruttare quel caso?» «Non vedo come.» «Per minacciarlo.» «Di rendere nota la cosa, vuoi dire?» «Sì.» «Hai delle prove?» «No, a meno che non ci sia qualcosa nei vecchi documenti di mio padre.» «Quei documenti li hai tutti tu, Nancy.» Nella cantina della casa di Nancy, a Boston, c'erano diversi scatoloni pieni di documenti personali di suo padre. «Non li ho mai guardati.» «E ormai non c'è il tempo di farlo.» «Però potremmo fingere» disse lei, riflettendo. «Non ti seguo.» «Sto pensando a voce alta. Abbi pazienza un momento. Potremmo fingere con Danny che esiste qualcosa tra le vecchie carte di papà; qualcosa che potrebbe riportare a galla quella storia.» «Non vedo come...» «No, Mac, ascoltami. È un'idea» disse Nancy, alzando un po' la voce per l'eccitazione: incominciava a intravedere una possibilità. «Supponiamo che l'Ordine degli avvocati, o quello che è, decida di aprire un'inchiesta sul ca-
so della Jersey Rubber.» «E perché dovrebbe farlo?» «Qualcuno potrebbe segnalare che c'è stato qualcosa di losco.» «D'accordo. E poi?» Nancy cominciava a credere di avere tra le mani un piano realizzabile. «Supponiamo che l'Ordine senta dire che c'erano prove decisive nella documentazione di mio padre.» «Allora ti chiederebbero il permesso di esaminare le carte.» «Spetterebbe a me decidere se lasciarli fare o no?» «In una semplice inchiesta dell'Ordine, sì. Se si trattasse di un'indagine penale, potresti ricevere l'ordine di consegnare il materiale, e allora non avresti scelta.» Il piano stava prendendo forma nella mente di Nancy più in fretta di quanto riuscisse a spiegarlo. Quasi non osava sperare che funzionasse. «Senti, voglio che tu chiami Danny» disse. «Devi chiedergli...» «Aspetta, prendo una matita. Bene, dimmi pure.» «Chiedigli questo. Se ci fosse un'inchiesta dell'Ordine sul caso della Jersey Rubber, accetterebbe che consegnassi la documentazione di mio padre?» Mac era sconcertato. «Tu pensi che risponderà di no!» «Penso che si spaventerà, Mac! Si spaventerà a morte. Lui non sa di cosa si tratta... appunti, diari, lettere, potrebbe essere qualunque cosa!» «Comincio a capire come potrebbe funzionare» disse Mac, e Nancy sentì una sfumatura di speranza insinuarsi nella sua voce. «Danny penserebbe che hai in mano qualcosa che lui vuole...» «E mi chiederà di proteggerlo, come fece mio padre. Mi chiederà di rifiutare all'Ordine il permesso di esaminare i documenti. E io accetterò, ma a condizione che voti con me contro la fusione con la General Textiles.» «Aspetta un momento e non stappare subito lo champagne. Danny è venale, ma non stupido. Non sospetterà che abbiamo escogitato l'intera faccenda per metterlo sotto pressione?» «Ma certo» esclamò Nancy. «Però non ne sarà sicuro. E non avrà molto tempo per pensarci.» «Già. E al momento è la nostra sola possibilità.» «Sei disposto a tentare?» «D'accordo.» Nancy si sentiva molto meglio; era piena di speranza e di voglia di vincere. «Chiamami al prossimo scalo.»
«Dove?» «A Botwood, Terranova. Dovremmo arrivarci fra dicias sette ore.» «Ma là hanno il telefono?» «Devono averlo per forza, se c'è un aeroporto. È meglio che prenoti la chiamata per tempo.» «D'accordo. Goditi il volo.» «A risentirci, Mac.» Nancy riagganciò. Adesso era euforica. Era impossibile sapere se Danny sarebbe caduto nella trappola; ma era incoraggiante già il semplice fatto di avere un piano. Erano le quattro e venti, doveva salire sull'aereo. Attraversò un ufficio in cui Mervyn Lovesey stava parlando a un altro telefono. Lui tese la mano per trattenerla mentre passava. Attraverso la finestra, Nancy vide i passeggeri salire sulla lancia, ma indugiò per un momento. Mervyn Lovesey disse al telefono: «Per il momento non me ne importa niente. Gli paghi la tariffa che chiedono, e proseguite con il lavoro». Nancy era sorpresa. Ricordava che c'era stato un problema sindacale in fabbrica. Sembrava che lui avesse ceduto, non era da lui. Anche l'interlocutore doveva essere rimasto stupito, perché dopo un momento Mervyn riprese: «Sì, parlo sul serio. Ho troppo da fare per discutere con gli operai. Arrivederci!». E riattaccò. «La stavo cercando» disse a Nancy. «Ce l'ha fatta?» chiese lei. «Ha convinto sua moglie a tornare?» «No. Ma non le ho esposto la situazione come avrei dovuto.» «Mi dispiace. Adesso è là fuori?» Mervyn guardò dalla finestra. «È quella col soprabito rosso.» Nancy vide una bionda poco più che trentenne. «Ma è bellissima!» esclamò. Era sorpresa. Aveva immaginato che la moglie di Mervyn fosse un tipo più duro, meno attraente, più tipo Bette Davis che Lana Turner. «Capisco perché non vuole perderla.» La donna stringeva il braccio di un uomo in giacca sportiva blu, presumibilmente l'amante. Non era bello come Mervyn: era un po' più basso della media e cominciava a stempiarsi. Però aveva un'aria simpatica, disinvolta. Nancy si rese subito conto che quella donna si era cercata l'esatto contrario di suo marito. Provò uno slancio di simpatia per lui. «Mi dispiace, Mervyn» disse. «Non mi sono ancora arreso» rispose lui. «Vengo a New York.» Nancy sorrise. Questo era più in carattere. «Perché no?» esclamò. «Mi pare proprio il tipo di donna che un uomo può rincorrere attraverso l'Atlan-
tico.» «Ma tutto dipende da lei» continuò Mervyn. «L'aereo è al completo.» «Lo so. Come farà, allora? E perché dipende da me?» «Lei dispone dell'unico posto rimasto. Ha preso la suite nuziale, che è a due posti. Le chiedo di vendermene uno.» Nancy rise. «Mervyn, non posso dividere la suite nuziale con un uomo. Sono una vedova rispettabile, non una ballerina!» «Mi deve un favore» insistette lui. «Le devo un favore, non la reputazione!» Il bel volto di Mervyn assunse un'espressione ostinata. «Non pensava alla reputazione quando ha voluto attraversare in volo con me il mare d'Irlanda.» «Non si trattava di passare la notte insieme!» Nancy avrebbe voluto aiutarlo. C'era qualcosa di commovente nella sua determinazione di riconquistare la bella moglie. «Mi dispiace, davvero» disse. «Ma alla mia età non posso essere al centro di uno scandalo.» «Mi ascolti. Mi sono informato: la suite nuziale non è molto diversa dagli altri scompartimenti. Ci sono due cuccette separate. Se stanotte lasceremo aperta la porta, saremo nella stessa situazione di due estranei cui sono toccate cuccette adiacenti.» «Ma pensi a quello che dirà la gente!» «Di chi si preoccupa? Non ha un marito che possa offendersi, i suoi genitori sono morti. Chi può prendersela per quello che fa?» Mervyn Lovesey sapeva essere molto brusco quando voleva qualcosa, pensò Nancy. «Ho due figli più che ventenni» protestò. «Scommetto che la prenderanno come un'avventura.» È probabile, pensò malinconicamente lei. «E mi preoccupa la buona società di Boston. Una storia come questa farebbe il giro di tutta la città.» «Mi ascolti. Quando è arrivata su quel campo d'aviazione era disperata. Era in difficoltà, e io l'ho aiutata. Adesso il disperato sono io. Lo capisce, vero?» «Sì, lo capisco.» «Sono in difficoltà e le chiedo aiuto. È l'ultima possibilità di salvare il mio matrimonio. Io l'ho aiutata e lei può aiutare me. Le costerà soltanto un pizzico di scandalo, e questo non ha mai ucciso nessuno. La prego, Nancy.» Nancy pensò a quel "pizzico" di scandalo. Era davvero importante se una vedova aveva qualcosa di simile a un'avventura il giorno del suo qua-
rantesimo compleanno? Non l'avrebbe uccisa, come diceva Mervyn; probabilmente non le avrebbe neppure rovinato la reputazione. Le matrone di Beacon Hill avrebbero pensato che era una donna facile, ma probabilmente quelli della sua età l'avrebbero ammirata per il suo coraggio. Non sono obbigata a comportarmi come una verginella, pensò. Nancy guardò il viso tormentato e ostinato di Mervyn e si commosse. Al diavolo la buona società di Boston, pensò: quest'uomo soffre. Mi ha aiutata quando ne avevo bisogno. Senza di lui non sarei qui. Ha ragione: ho un debito con lui. «Mi aiuterà, Nancy?» supplicò Mervyn. «La prego.» Nancy respirò profondamente. «Ma sì, che diavolo.» 13 L'ultima cosa che Harry Marks vide dell'Europa fu un faro candido che si ergeva altero sulla riva nord della foce dello Shannon, mentre l'oceano Atlantico sferzava rabbiosamente le rocce. Qualche minuto più tardi non ci fu più terra in vista: da qualunque parte guardasse, non scorgeva altro che il mare, a perdita d'occhio. Quando arriverò in America sarò ricco, pensò. La vicinanza della famosa parure di Delhi era eccitante quasi come un piacere erotico. A bordo dell'aereo, a pochi metri da dov'era seduto, c'era una fortuna in gioielli. Gli fremevano le dita al pensiero di toccarli. Un milione di dollari in gemme valeva almeno centomila dollari per un ricettatore. Potrei comprare un bell'appartamento e una macchina, pensò, o magari una casa in campagna con il campo da tennis. O forse dovrei investire il denaro e vivere di rendita. Sarei un benestante con una rendita personale! Ma prima doveva mettere le mani sulla parure. Lady Oxenford non l'aveva addosso, quindi doveva essere in uno dei due unici posti possibili: il bagaglio a mano che si trovava lì nello scompartimento, oppure quello custodito nella stiva. Se fosse roba mia la terrei molto vicina, pensò Harry: nel bagaglio a mano. Non vorrei perderla di vista un istante. Ma era impossibile capire come ragionava lady Oxenford. Per prima cosa avrebbe ispezionato il bagaglio a mano. Era sotto il divano e si vedeva benissimo: una lussuosa valigia di cuoio bordeaux con gli spigoli di bronzo. Si chiese come avrebbe potuto metterci le mani dentro. Forse gli sarebbe capitata l'occasione durante la notte, quando tutti dormi-
vano. Avrebbe trovato un sistema. Sarebbe stato un rischio: il furto era un gioco pericoloso. In fondo se l'era sempre cavata, anche quando le cose erano andate male. Guardatemi, pensò: ieri mi hanno pescato in flagrante con un paio di gemelli rubati in tasca; ho passato la notte in prigione; e adesso sto andando a New York sul Clipper della Pan American. Fortunato? Non era il termine adatto! Una volta aveva sentito una barzelletta su un uomo che era caduto da una finestra al decimo piano. Mentre precipitava davanti al quinto piano l'avevano sentito dire: «Fin qui, tutto bene». Ma non era da lui. Nicky, lo steward, portò il menu della cena e gli offrì un cocktail. Harry non aveva sete, ma ordinò champagne perché gli sembrava la cosa più giusta da fare. Questa sì che è vita, mio caro, si disse. L'euforia di trovarsi a bordo dell'aereo più lussuoso del mondo contrastava con l'ansia di sorvolare l'oceano: ma quando lo champagne fece effetto, l'euforia vinse. Lo sorprese un po' vedere che il menu era in inglese. Gli americani non sapevano che i menu raffinati andavano scritti in francese? Forse avevano troppo buon senso per ricorrere a una lingua straniera. Harry aveva l'impressione che l'America gli sarebbe piaciuta. In sala da pranzo c'era posto appena per quattordici persone, quindi la cena sarebbe stata servita in tre turni, spiegò lo steward. «Preferisce cenare alle sei, alle sette e mezzo o alle nove, signor Vandenpost?» Poteva essere l'occasione buona, pensò Harry. Se gli Oxenford fossero andati a mangiare prima o dopo di lui, sarebbe rimasto solo nello scompartimento. Ma quale turno avrebbero scelto? Harry maledisse mentalmente lo steward perché aveva cominciato da lui. Uno steward inglese si sarebbe rivolto prima ai titolati, ma questo democratico americano con ogni probabilità si regolava secondo il numero di ogni posto. Harry doveva cercare d'indovinare la scelta degli Oxenford. «Mi faccia pensare» disse per guadagnare tempo. Secondo la sua esperienza, i ricchi mangiavano sempre tardi. Un operaio faceva colazione alle sette, pranzava a mezzogiorno e cenava alle cinque, ma un lord faceva colazione alle nove, pranzava alle due e cenava alle otto e mezzo. Gli Oxenford avrebbero cenato tardi, perciò Harry scelse il primo turno. «Ho un po' di appetito» disse. «Cenerò alle sei.» Lo steward si rivolse agli Oxenford, e Harry trattenne il respiro. Lord Oxenford disse: «Alle nove, penso». Harry represse un sorriso di soddisfazione.
Ma lady Oxenford intervenne: «Percy dovrebbe aspettare troppo. Facciamo prima». D'accordo, pensò irrequieto Harry, ma non troppo presto, per amor del cielo. «Allora alle sette e mezzo» concluse lord Oxenford. Harry provò un fremito di piacere. Si era avvicinato di un passo alla parure di Delhi. Lo steward si rivolse al passeggero seduto di fronte a Harry, l'uomo col panciotto color vino e l'aria del poliziotto. Aveva detto di chiamarsi Clive Membury. Scegli le sette e mezzo, pensò Harry, e lasciami solo nello scompartimento. Ma restò deluso: Membury non aveva fame e scelse il turno delle nove. Che seccatura, pensò Harry. Membury sarebbe rimasto lì mentre gli Oxenford andavano a mangiare. Ma forse sarebbe uscito per qualche minuto. Era un individuo irrequieto, andava e veniva di continuo. Se non fosse uscito di sua iniziativa, Harry avrebbe dovuto trovare un modo per sbarazzarsi di lui. Sarebbe stato semplice se non si fossero trovati a bordo di un aereo: gli avrebbe detto che lo cercavano altrove o che c'era una telefonata, o che per la strada stava passando una donna nuda. Lì sarebbe stato più complicato. Lo steward disse: «Signor Vandenpost, se non ha nulla in contrario, il motorista e l'ufficiale di rotta siederanno al suo tavolo». «Mi va benissimo» rispose Harry. Gli avrebbe fatto piacere parlare con qualcuno dell'equipaggio. Lord Oxenford ordinò un altro whisky. Ecco un uomo che ha sete, avrebbero detto gli irlandesi. Sua moglie era pallida e taciturna. Teneva un libro sulle ginocchia ma non girava mai le pagine. Sembrava abbattuta. Il giovane Percy andò a prua per parlare con i membri fuori servizio dell'equipaggio e Margaret andò a sedersi accanto a Harry. Lui ne sentì il profumo e lo identificò: era "Tosca". Si era tolta la giacca e Harry poté vedere che aveva la figura della madre: era alta, con le spalle squadrate, il busto fiorente, le gambe lunghe. I vestiti, di buona qualità ma molto semplici, non le rendevano giustizia. Harry la immaginava in abito da sera lungo con scollatura vertiginosa, i capelli rossi raccolti, il lungo collo candido abbellito da orecchini a goccia di smeraldi intagliati e firmati da Louis Cartier, periodo indiano... Sarebbe stata sensazionale. Ma lei non si vedeva in quel modo. La metteva a disagio essere ricca e aristocratica, perciò si vestiva come la moglie di un vicario.
Era una ragazza formidabile e Harry si sentiva un po' intimidito; tuttavia riusciva a scorgere anche il suo lato vulnerabile, e lo trovava tenero. Lascia perdere la tenerezza, caro Harry, pensò: ricorda che per te è pericolosa e che devi tenertela buona. Le chiese se aveva volato altre volte. «Solo per andare a Parigi con la mamma» rispose lei. Solo per andare a Parigi con la mamma, pensò Harry stupito. Sua madre non avrebbe mai visto Parigi e non avrebbe mai volato su un aereo. «Che impressione le ha fatto?» chiese. «Essere tanto privilegiata?» «Detestavo i viaggi a Parigi» affermò lei. «Dovevo prendere il tè in compagnia di inglesi noiosissimi quando avrei voluto andare in qualche ristorante dall'atmosfera fumosa e con un'orchestrina negra.» «Mia madre mi accompagnava a Margate» raccontò Harry. «Io sguazzavo in mare, e poi mangiavamo il gelato, pesce fritto e patatine.» Nel momento stesso in cui finiva la frase, si ricordò che avrebbe dovuto mentire e nasconderlo, e si sentì prendere dal panico. Avrebbe dovuto mormorare qualcosa di vago a proposito di un convitto-scuola e di una lontana casa di campagna, come faceva normalmente quando era costretto a parlare della sua infanzia alle ragazze della buona società. Margaret, però, conosceva il suo segreto; e nessun altro poteva udire ciò che diceva, nel rombo smorzato dei motori. Tuttavia, mentre si sorprendeva a confidare la verità, aveva l'impressione di essersi lanciato dall'aereo e di essere in attesa che il paracadute si aprisse. «Noi non siamo mai andati al mare» dichiarò malinconicamente Margaret. «A sguazzare andava solo la gente comune. Io e mia sorella invidiavamo i bambini poveri, perché potevano fare tutto ciò che volevano.» Harry si stava divertendo. Era una prova in più del fatto che era nato fortunato. I bambini ricchi che viaggiavano sulle grandi macchine nere, portavano cappotti con colletto di velluto e mangiavano carne tutti i giorni lo avevano invidiato perché era libero di andare in giro scalzo e di mangiare pesce fritto e patatine. «Ricordo gli odori» continuò Margaret. «L'odore davanti a una rosticceria all'ora di pranzo, e quello dei macchinari oliati quando passavo accanto alle giostre; l'odore intimo della birra e del tabacco quando la porta di un pub si apre in una sera invernale. Mi sembrava che in quei posti la gente si divertisse tanto. Io non ho mai messo piede in un pub.» «Non ha perso molto» disse Harry, che detestava i pub. «Al Ritz si mangia meglio.»
«Ciascuno di noi preferisce il modo di vivere dell'altro» osservò lei. «Io li ho provati tutti e due» spiegò Harry. «E so qual è il migliore.» Per un momento Margaret rimase assorta, poi riprese a parlare. «Cosa intende fare nella vita?» Era una domanda molto strana. «Divertirmi» rispose Harry. «No, io parlavo sul serio.» «Come sarebbe a dire, "sul serio"?» «Tutti vogliono divertirsi. Ma cosa farà?» «Quello che faccio adesso.» D'impulso, Harry decise di dirle qualcosa che non aveva mai rivelato. «Ha mai letto Il ladro gentiluomo di Hornung?» Margaret scrollò la testa. «Parla di un gentiluomo, Raffles, che fuma sigarette turche, porta abiti di taglio perfetto, si fa invitare nelle case dei ricchi e ruba loro i gioielli. Io voglio essere come lui.» «Oh, su, non dica sciocchezze!» esclamò lei brusca. Harry ci rimase male. Margaret sapeva essere molto dura quando pensava che qualcuno dicesse delle assurdità. Ma non era un'assurdità: era il suo sogno. Ora che le aveva aperto il cuore, si sentì in dovere di convincerla che diceva la verità. «Non è una sciocchezza» replicò. «Ma non può fare il ladro per tutta la vita» obiettò lei. «Finirà per invecchiare in prigione. Perfino Robin Hood si sposò e mise la testa a posto. Cosa le piacerebbe, veramente?» Di solito Harry rispondeva alla domanda con un elenco: un appartamento, una macchina, molte ragazze, molte feste, abiti di Savile Row e bei gioielli. Ma sapeva che lei avrebbe reagito con disprezzo. Era offeso per quell'atteggiamento: comunque era vero che le sue ambizioni non erano del tutto materialistiche. Avrebbe voluto che Margaret credesse ai suoi sogni; e si sorprese a confidarle cose che non aveva mai ammesso. «Mi piacerebbe vivere in una grande casa di campagna con i muri ricoperti di edera» dichiarò. Si interruppe, un po' emozionato. Era a disagio, ma desiderava dirlo. «Una casa in campagna con un campo da tennis e una scuderia, e rododendri lungo il viale.» La vedeva con gli occhi della mente, e gli sembrava il posto più sicuro e confortevole del mondo. «Andrei in giro per la tenuta con gli stivali e un abito di tweed, e parlerei con i giardinieri e gli stallieri, e tutti penserebbero che sono un vero gentiluomo. Avrei investimenti solidissimi e spenderei meno della metà della rendita. D'estate organizzerei feste in giardino e offrirei fragole con la panna. E avrei cinque figlie, tutte belle come la madre.»
«Cinque!» esclamò lei con una risata. «Dovrà sposare una donna molto forte!» Poi ridivenne seria. «È un sogno bellissimo» disse «Le auguro che si avveri.» Harry si sentiva molto vicino a lei, come se avesse il diritto di chiederle qualunque cosa. «E lei? Ha un sogno?» «Io voglio andare a combattere» rispose Margaret. «Mi arruolerò nell'ATS.» Faceva un certo effetto parlare di donne che volevano arruolarsi, ma ormai era una cosa frequente. «E cosa farebbe?» «Hanno bisogno di donne per portare i dispacci e guidare le ambulanze.» «Sarà pericoloso.» «Lo so. Ma non importa. Voglio partecipare alla lotta. È l'ultima possibilità di fermare il fascismo.» Margaret sporgeva il mento con fare energico e aveva un'espressione intrepida negli occhi. Harry pensò che era incredibilmente coraggiosa. «Mi sembra molto decisa» disse. «Avevo un... un amico che è stato ucciso dai fascisti in Spagna, e intendo portare a termine l'opera che lui aveva cominciato.» Si era rattristata. D'impulso, Harry chiese: «Lo amava?». Lei annuì. Harry vide che aveva le lacrime agli occhi. Le toccò il braccio in un gesto di solidarietà. «Lo ama ancora?» «Un po' lo amerò sempre.» Lei abbassò la voce. «Si chiamava Ian.» Harry sentì un nodo alla gola. Avrebbe voluto prenderla fra le braccia e confortarla, e l'avrebbe fatto, ma c'era lì suo padre che, rosso in faccia, beveva whisky e leggeva il "Times". Dovette accontentarsi di stringerle rapidamente la mano, con discrezione. Lei sorrise riconoscente, come se capisse. Lo steward venne ad annunciare: «La cena è servita, signor Vandenpost». Un po' sorpreso perché erano già le sei, Harry pensò che gli dispiaceva interrompere la conversazione. Margaret gli lesse nel pensiero. «Avremo tempo per parlare» disse. «Dovremo restare insieme per le prossime ventiquattr'ore.» «Giusto». Sorrise e le toccò di nuovo la mano. «A più tardi» mormorò. Aveva incominciato a farsela amica per poterla manovrare, pensò, e aveva finito per confidarle tutti i suoi segreti. Margaret riusciva a sconvolgere i suoi piani in modo piuttosto preoccupante.
E il peggio era che gli piaceva. Passò nello scompartimento accanto e rimase un po' sorpreso nel vedere che la sala comune era stata trasformata in una sala da pranzo. C'erano tre tavoli per quattro persone, più due più piccoli di servizio, apparecchiati come in un buon ristorante con tovaglie e tovaglioli di lino e stoviglie di porcellana finissima bianca con il simbolo della Pan American in blu. Notò che le pareti erano rivestite con una tappezzeria che mostrava un mappamondo e lo stesso simbolo alato della Pan American. Lo steward lo fece sedere di fronte a un uomo basso e tozzo con un abito grigio chiaro che Harry giudicò invidiabile. La cravatta era fermata da una spilla con una grossa perla naturale. Harry si presentò. L'uomo tese la mano: «Tom Luther». Harry vide che i gemelli erano assortiti al fermacravatta. Quello era un uomo che non badava a spese in fatto di gioielli. Harry si sedette e spiegò il tovagliolo. Luther aveva l'accento americano con una sfumatura europea. «Lei di dov'è, Tom?» chiese Harry, per sondarlo. «Providence, Rhode Island. E lei?» «Philadelphia.» Harry avrebbe tanto desiderato sapere dove si trovava Philadelphia. «Ma ho vissuto un po' dappertutto. Mio padre era nelle assicurazioni.» Luther annuì educatamente ma senza interesse. A Harry andava bene così. Non voleva che gli facessero troppe domande: poteva facilmente sbagliare. Arrivarono i due membri dell'equipaggio e si presentarono. Eddie Deakin, il motorista, aveva spalle larghe, capelli biondo rossiccio e faccia simpatica: Harry ebbe l'impressione che sarebbe stato contento di slacciarsi la cravatta e togliersi la giacca dell'uniforme. Jack Ashford, l'ufficiale di rotta, aveva i capelli scuri e un'ombra bluastra di barba sul mento: era un uomo abbastanza comune e accurato che sembrava nato con l'uniforme addosso. Non appena si sedettero, Harry percepì l'ostilità fra Eddie e Luther. Interessante. La prima portata fu un cocktail di gamberetti. I due membri dell'equipaggio bevevano Coca Cola. Harry ordinò vino del Reno, Tom Luther un martini. Harry continuava a pensare a Margaret Oxenford e al suo ragazzo caduto in Spagna. Guardò dal finestrino e si chiese cosa provasse ancora per il giovane. Un anno era molto lungo, soprattutto alla sua età.
Jack Ashford seguì il suo sguardo e disse: «Finora abbiamo trovato bel tempo». Harry notò il cielo sereno e il luccichio del sole sulle ali. «Di solito com'è?» chiese. «A volte piove per tutto il tragitto dall'Irlanda a Terranova» rispose Jack. «Possono capitare grandine, neve, ghiaccio, tuoni e fulmini.» Harry ricordò qualcosa che aveva letto su un giornale. «Il ghiaccio non è pericoloso?» «Noi calcoliamo la rotta per evitarlo. Comunque l'aereo ha stivali di gomma anti-incrostazione.» «Stivali?» «Sono rivestimenti di gomma che vengono messi sulle ali e sulla coda, dove tende a formarsi il ghiaccio.» «Quali sono le previsioni per il resto del volo?» Jack esitò un momento, e Harry pensò che era pentito di aver iniziato a parlare delle condizioni meteorologiche. «C'è una tempesta sull'Atlantico.» «Molto brutta?» «Al centro sì, ma noi ne sfioreremo appena i margini.» Non sembrava però molto convinto. Tom Luther intervenne: «E com'è durante una tempesta?». Sorrideva mettendo in mostra i denti, ma Harry gli leggeva la paura negli occhi azzurri. «Si balla un po'» rispose Jack. Non aggiunse altro. Ma intervenne Eddie, il motorista. Guardò in faccia Tom Luther e affermò: «È come cercare di montare un cavallo selvaggio». Luther impallidì. Jack aggrottò la fronte, biasimando chiaramente la mancanza di tatto del collega. La seconda portata era zuppa di tartaruga. Adesso tutti e due gli steward erano all'opera. Nicky era grasso, Davy piccolo; tutti e due omosessuali, secondo Harry, o "musicali" come avrebbero detto nel giro del commediografo Noël Coward. A Harry piaceva la loro efficienza priva di formalismo. Il motorista sembrava preoccupato. Harry lo studiò senza farsi notare. Non sembrava un tipo cupo: aveva una faccia aperta e cordiale. Cercò di farlo parlare. «Chi fa volare l'aereo mentre lei cena, Eddie?» «Il mio assistente, Mickey Finn» rispose Eddie in tono piuttosto cortese, ma senza sorridere. «L'equipaggio è di nove membri, senza contare i due steward. Tutti, tranne il comandante, facciamo turni di quattro ore. Io e
Jack siamo stati in servizio da quando l'aereo è decollato da Southampton, alle due, e siamo smontati alle sei, pochi minuti fa.» «E il comandante?» chiese preoccupato Tom Luther. «Prende la simpamina per stare sveglio?» «Dormicchia quando può» rispose Eddie. «Probabilmente si farà una lunga pausa quando passeremo il punto di non-ritorno.» «Quindi voleremo mentre il comandante dorme?» chiese Luther, con voce un po' troppo alta. «Certo» rispose Eddie con una smorfia. Luther sembrava terrorizzato. Harry cercò di indirizzare la conversazione verso acque più calme. «Che cos'è il punto di non-ritorno?» «Ecco, noi controlliamo di continuo le riserve di carburante. Quando non abbiamo carburante a sufficienza per tornare a Foynes, abbiamo passato il punto di non-ritorno.» Eddie aveva parlato in tono brusco, e ormai Harry non aveva dubbi: stava cercando di spaventare Tom Luther. L'ufficiale di rotta intervenne per rassicurare tutti: «In questo momento abbiamo abbastanza carburante sia per arrivare a destinazione sia per tornare al punto di partenza». Luther proseguì: «Ma se non ne aveste abbastanza né per arrivare né per tornare indietro?». Eddie si sporse al di sopra del tavolo e gli rivolse un sorriso privo d'allegria. «Si fidi di me, signor Luther» rispose. «Non può assolutamente accadere» si affrettò a dichiarare l'ufficiale di rotta. «Torneremmo indietro prima di raggiungere quel punto. Per maggior sicurezza, basiamo i calcoli su tre motori anziché su quattro, nel caso che uno avesse un'avaria.» Jack tentava di ridare fiducia a Luther; ma nel sentir parlare di motori in avaria quello si spaventò ancora di più. Si sforzò di mandar giù un po' di zuppa di tartaruga; ma la mano gli tremava tanto che se la rovesciò sulla cravatta. Eddie tornò a chiudersi nel silenzio. Sembrava soddisfatto. Jack cercò di parlare del più e del meno e Harry si sforzò di collaborare: ma il disagio era quasi palpabile. Harry si chiedeva cosa diavolo ci fosse fra Eddie e Luther. La sala da pranzo si riempì rapidamente. La bella donna dall'abito a pois venne a sedersi al tavolo accanto assieme al suo compagno in giacca sportiva blu. Aveva scoperto che si chiamavano Diana Lovesey e Mark Alder. Margaret dovrebbe vestirsi come la signora Lovesey, pensò Harry: sarebbe
perfino più bella di lei. Ma la signora Lovesey non aveva l'aria felice; anzi, sembrava profondamente abbattuta. Il servizio era efficiente, la cucina ottima. La portata principale era filet mignon con asparagi in salsa olandese e puré di patate. Il filetto era grosso il doppio di quello che servivano nei ristoranti inglesi. Harry non lo mangiò tutto, e rifiutò un secondo bicchiere di vino. Voleva restare lucido: doveva rubare la parure di Delhi. Era un pensiero eccitante, ma anche preoccupante. Sarebbe stato il colpo più grosso della sua carriera; e poteva essere l'ultimo, se avesse voluto. Gli avrebbe fruttato la casa di campagna ricoperta di edera, con il campo da tennis. Dopo la carne fu servita un'insalata, e Harry si stupì. Nei ristoranti di lusso londinesi le insalate venivano servite raramente, e mai come portate a parte. Poi arrivarono in rapida successione la pesca Melba, il caffè e dei dolcetti. Eddie sembrò rendersi conto di essere poco socievole e cercò di rimediare. «Posso chiedere lo scopo del suo viaggio, signor Vandenpost?» «Voglio stare alla larga da Hitler» rispose Harry. «Almeno finché l'America non entrerà in guerra.» «Pensa che succederà?» chiese Eddie con aria scettica. «È andata così anche l'ultima volta.» Tom Luther intervenne: «Noi non abbiamo niente contro i nazisti. Sono nemici dei comunisti, come noi». Jack annuì. Era d'accordo. Harry rimase sbalordito. In Inghilterra tutti erano convinti che l'America sarebbe entrata in guerra. Ma attorno a quel tavolo non la pensavano allo stesso modo. Forse gli inglesi si illudevano, pensò amaramente. Forse l'America non li avrebbe aiutati. Sarebbe stata una brutta notizia per la mamma, a Londra. Eddie proseguì: «Credo che finiremo per dover combattere contro i nazisti». C'era una sfumatura rabbiosa nella sua voce. «Sono come i gangster» affermò, e guardò in faccia Luther. «E gli individui di quel genere devono essere sterminati come ratti!» Jack si alzò di scatto preoccupato. «Se abbiamo finito, Eddie, è meglio che riposiamo un po'» disse con fermezza. Eddie sembrò sbalordito, ma dopo un attimo annuì. E se ne andarono. Harry commentò: «Il motorista è piuttosto scortese». «Davvero?» ribatté Luther. «Non me ne sono accorto.» Sporco bugiardo, pensò Harry. In pratica ti ha dato del gangster!
Luther ordinò un cognac. Harry si chiese se lo fosse davvero. Quelli che lui aveva conosciuto a Londra davano molto più nell'occhio, portavano anelli, pellicce e scarpe bicolori. Luther sembrava un uomo d'affari miliardario che si era fatto da solo: un produttore di carne in scatola o un costruttore di navi, un industriale, comunque. Gli chiese, impulsivamente: «Lei che lavoro fa, Tom?». «Sono negli affari, nel Rhode Island.» Non era una risposta incoraggiante. Dopo qualche istante Harry si alzò, lo salutò con un cenno educato e uscì. Quando rientrò nel suo scompartimento, lord Oxenford gli chiese brusco: «Com'è la cena?». Harry l'aveva apprezzata tutta; ma la gente d'alto bordo non era mai entusiasta di quello che mangiava. «Non male» rispose vago. «Il vino del Reno è bevibile.» Oxenford grugnì e riabbassò gli occhi sul giornale. Nessuno è maleducato quanto un lord maleducato, pensò Harry. Margaret sorrise come se fosse contenta di rivederlo. «Com'era, in realtà?» chiese, in un bisbiglio da cospiratrice. «Deliziosa» rispose lui. Risero. Quando rideva, Margaret cambiava. Seria, era pallida e tutt'altro che straordinaria; ma ora le guance erano diventate rosee, la bocca socchiusa rivelava due file di denti regolari, scrollava i capelli e la sua risata aveva una nota roca. Harry la trovava molto sexy. Avrebbe voluto tendersi al di là del corridoio per toccarla. Stava per farlo quando incontrò lo sguardo di Clive Membury che gli sedeva di fronte. Senza sapere bene perché, si trattenne. «C'è una tempesta sull'Atlantico» disse invece. «Allora sarà un volo burrascoso?» «Sì. Cercheranno di aggirarla, ma balleremo comunque.» Era difficile parlare con lei perché gli steward continuavano a passare tra loro per portare i piatti in sala da pranzo e riportare indietro quelli sporchi. Harry era molto colpito dal fatto che due uomini, da soli, riuscivano sia a cucinare sia a servire tante persone. Prese la copia di "Life" che Margaret aveva messo da parte e cominciò a sfogliarla mentre attendeva con impazienza che gli Oxenford andassero a cena. Non aveva portato libri o riviste; non era un lettore. Gli piaceva dare un'occhiata ai giornali, ma per passare il tempo preferiva la radio e il cinema.
Finalmente gli Oxenford furono chiamati e Harry rimase solo con Clive Membury. Durante la prima parte del volo Membury era rimasto nella sala comune a giocare a carte, ma adesso che veniva usata come sala da pranzo era tornato al suo posto. Forse andrà al gabinetto, pensò. Ancora una volta si chiese se Membury fosse un poliziotto e, in caso affermativo, cosa facesse a bordo del Clipper. Se stava seguendo qualcuno di sospetto, doveva trattarsi di un reato molto grave perché la polizia inglese si fosse sbilanciata al punto da pagare il biglietto. Ma forse era di quelli che risparmiano per anni allo scopo di fare un viaggio di sogno, una crociera sul Nilo o una corsa sull'Orient Express. Forse era un maniaco dell'aviazione che voleva fare il grande volo transatlantico. Se è così, spero che se lo goda, pensò Harry. Novanta sterline sono un capitale, per un poliziotto. La pazienza non era una delle virtù di Harry; e quando vide che dopo mezz'ora Membury non si era ancora mosso, decise di prendere in pugno la situazione. «Signor Membury, ha visitato il ponte di comando?» chiese. «No...» «Sembra che sia qualcosa di sensazionale. Dicono che è grande quanto l'interno di un Douglas DC-3, che è un aereo di dimensioni più che rispettabili.» «Davvero?» Membury mostrò solo un interesse educato. Dunque non era un patito dell'aeronautica. «Dovremmo andare a vederlo.» Harry fermò Nicky, che stava passando con la zuppa di tartaruga. «I passeggeri possono visitare il ponte di comando?» «Sì, signore, certamente.» «È un momento adatto?» «Adattissimo, singor Vandenpost. Non stiamo decollando o ammarando, l'equipaggio non cambia turno e il tempo è bello. Non potrebbe scegliere un momento migliore.» Era appunto ciò che Harry aveva sperato. Si alzò e guardò Membury con aria interrogativa. «Vogliamo andare?» Membury sembrò sul punto di rifiutare, e non era il tipo che si lasciava imporre facilmente la volontà altrui. D'altra parte avrebbe fatto la figura del maleducato se avesse rifiutato di andare a vedere il ponte di comando, e forse non voleva apparire scortese. Si alzò dopo un attimo di esitazione. «Naturalmente.» Harry lo precedette, passò davanti alla cucina e alla toilette degli uomini,
svoltò a destra e salì la scala a chiocciola. Uscì sul ponte di comando seguito da Membury. Harry si guardò intorno. Non somigliava per nulla all'idea che se ne era fatto. Era pulito, tranquillo, confortevole, e sembrava quasi un ufficio di un palazzo moderno. I commensali di Harry, l'ufficiale di rotta e il motorista, non c'erano, dato che erano fuori servizio: i presenti appartenevano all'altro turno. C'era però il comandante, seduto a un tavolino sul fondo della cabina. Alzò la testa, sorrise gentilmente e disse: «Buonasera, signori. Vogliono dare un'occhiata?». «Sicuro» rispose Harry. «Ma devo andare a prendere la macchina fotografica. È permesso fare qualche foto?» «Certamente.» «Allora torno subito.» Harry ridiscese in fretta la scala, soddisfatto di sé ma un po' nervoso. Aveva tolto di mezzo Membury per un po', ma doveva effettuare la sua ricerca molto in fretta. Tornò nello scompartimento. Uno steward era nella cambusa, l'altro in sala da pranzo. Avrebbe preferito che tutti e due fossero occupati a servire ai tavoli, per essere sicuro che non avrebbero attraversato lo scompartimento per qualche minuto. Ma non aveva tempo. Doveva correre il rischio di venire interrotto. Prese la valigia di lady Oxenford da sotto il divano. Era troppo grande e pesante, come bagaglio a mano, ma probabilmente non l'aveva trasportata lei. La posò sul sedile e la aprì. Non era chiusa a chiave: brutto segno. Lady Oxenford non poteva essere tanto ingenua da lasciare gioielli di valore inestimabile in una valigia aperta. Comunque rovistò in fretta, continuando a sbirciare con la coda dell'occhio nell'eventualità che entrasse qualcuno. C'erano profumi e cosmetici, spazzola e pettine d'argento, una vestaglia nocciola, una camicia da notte, un grazioso paio di pantofole, biancheria di seta color pesca, calze, un sacchetto da toilette con lo spazzolino da denti e i soliti oggetti, e un libro di poesie di Blake... ma niente gioielli. Harry imprecò in silenzio. Aveva pensato che quello fosse il posto più probabile, ma adesso cominciava a dubitare della propria ipotesi. La ricerca aveva portato via una ventina di secondi. Si affrettò a chiudere la valigia e a rimetterla sotto il divano. Poi si chiese se lady Oxenford aveva incaricato il marito di portare i preziosi.
Guardò la valigia sotto il posto di lord Oxenford. Gli steward erano ancora occupati. Decise di tentare la sorte. Prese la valigia. Era a soffietto, di pelle, e si chiudeva con una lampo fermata da un lucchetto. Harry portava sempre con sé un temperino per occasioni del genere. Se ne servì per forzare il lucchetto. Aprì la valigia. Mentre frugava entrò lo steward Davy con un vassoio di drink. Harry alzò la testa e sorrise. Davy guardò la valigia, Harry trattenne il respiro e continuò a sorridere. Lo steward andò in sala da pranzo. Naturalmente aveva pensato che la valigia fosse sua. Harry riprese a respirare. Era un maestro nello sventare i sospetti; ma ogni volta che lo faceva si spaventava a morte. La valigia di Oxenford conteneva più o meno le stesse cose di quella della moglie, in versione maschile: nécessaire per la barba, brillantina, pigiama a righe, biancheria di flanella e una biografia di Napoleone. Harry la richiuse e rimise a posto il lucchetto. Oxenford l'avrebbe trovato rotto e si sarebbe domandato com'era successo. Se era un tipo sospettoso, avrebbe controllato per vedere che non mancasse nulla. Trovando tutto in ordine, si sarebbe convinto che il lucchetto era difettoso. Harry rimise a posto anche quella valigia. Gli era andata bene, ma non si era avvicinato d'un passo alla parure di Delhi. Era molto improbabile che fossero i figli ad avere i gioielli; comunque decise di frugare anche i loro bagagli. Se lord Oxenford aveva voluto fare il furbo e aveva messo i gioielli nelle valigie dei figli, era probabile che avesse scelto quella di Percy, senz'altro disponibile a una congiura, piuttosto che quella di Margaret, sempre pronta a sfidarlo. Harry prese la borsa di tela di Percy e la mise sul sedile, dove poco prima aveva posato la valigia di lord Oxenford. Se Davy fosse passato di nuovo, poteva sperare che la credesse la stessa valigia. La roba di Percy era disposta tanto ordinatamente che senza dubbio era stato un domestico a prepararla. Un quindicenne normale non avrebbe mai pensato a ripiegare il pigiama e ad avvolgerlo nella carta velina. Il sacchetto da toilette conteneva uno spazzolino e un tubetto di dentifricio nuovi. C'erano una scacchiera tascabile con i relativi pezzi, un mucchio di fumetti e un pacchetto di biscotti al cioccolato, messo dentro probabilmente da una cuoca affezionata. Harry guardò nella scacchiera, frugò fra i fumetti e aprì il pacco dei biscotti, ma non trovò i gioielli.
Mentre rimetteva a posto la borsa, arrivò un passeggero che andava al gabinetto. Harry non lo degnò di un'occhiata. Non poteva credere che lady Oxenford avesse lasciato la parure di Delhi in una nazione che poteva venire invasa entro poche settimane. Ma non l'aveva addosso e non la portava nella valigia, a quanto gli risultava. Se non era nella valigia di Margaret, doveva essere nel bagagliaio. Sarebbe stato difficile arrivarci. Si poteva entrarci mentre l'aereo era in volo? L'alternativa consisteva nel seguire gli Oxenford fino al loro albergo a New York. Il comandante e Clive Membury si stavano probabilmente chiedendo come mai ci volesse tanto a prendere la macchina fotografica. Sollevò la valigia di Margaret. Aveva l'aria di un regalo di compleanno: era piccola, di morbida pelle color crema, con gli angoli arrotondati e bellissimi fermagli di bronzo. Quando l'aprì, sentì il suo profumo. Trovò una camicia da notte di cotone a fiorellini e cercò di immaginarla quando la indossava. Era troppo infantile per lei. La biancheria era molto semplice, di cotone bianco. Si chiese se era vergine. C'era una piccola foto incorniciata di un bel ragazzo sui ventun anni, con i capelli scuri un po' lunghi e le sopracciglia nere, vestito in toga e tocco per la cerimonia di consegna delle lauree. Doveva essere il ragazzo caduto in Spagna. Era andata a letto con lui? Harry pensava di sì, nonostante le mutandine da scolaretta. Leggeva un romanzo di D.H. Lawrence. Scommetto che sua madre non lo sa, pensò Harry. C'era un mucchietto di fazzoletti di lino con il monogramma "M O". Erano profumati di "Tosca". I gioielli non c'erano. Maledizione. Harry decise di prendere un fazzoletto profumato come ricordo. E mentre lo estraeva, lo steward Davy passò con un vassoio carico di tazze di zuppa. Lanciò un'occhiata a Harry e si fermò aggrottando la fronte. Naturalmente la valigia di Margaret era molto diversa da quella di lord Oxenford. Era chiaro che Harry non poteva essere il proprietario di entrambe, e quindi frugava nelle valigie altrui. Davy lo fissò per un momento: era insospettito ma non osava accusare un passeggero. Alla fine balbettò: «Signore, è la sua valigia?». Harry gli mostrò il fazzolettino. «Crede che potrei soffiarmi il naso con questo?» Chiuse la valigia e la rimise a posto. Davy sembrava preoccupato. Harry lo tranquillizzò: «Mi ha chiesto di portarglielo. Cosa non si deve fare...».
Davy cambiò espressione. Adesso sembrava imbarazzato. «Mi scusi, signore, ma spero che capirà...» «Mi fa piacere che tenga gli occhi aperti» affermò Harry. «Continui così.» E gli batté la mano sulla spalla. Adesso doveva portare quel dannato fazzoletto a Margaret, per rendere credibile la storia. Entrò in sala da pranzo. Lei era a tavola con i genitori e il fratello. Harry le porse il fazzoletto dicendo: «L'ha lasciato cadere». Margaret lo guardò, sorpresa. «Davvero? Grazie.» «Di niente.» Harry si affrettò a uscire. Davy le avrebbe chiesto se aveva pregato Harry di portarle un fazzoletto pulito? Ne dubitava. Riattraversò il suo scompartimento, passò davanti alla cambusa dove Davy ammonticchiava piatti sporchi, e salì la scala a chiocciola. Come diavolo avrebbe fatto a entrare nel bagagliaio? Non sapeva neppure dove fosse: non aveva assistito alle operazioni di carico. Ma doveva esserci un sistema. Il comandante Baker stava spiegando a Clive Membury come si orientavano sull'oceano, senza punti di riferimento. «Per gran parte del tempo siamo fuori dalla portata dei radiofari, quindi la nostra guida migliore sono le stelle... quando riusciamo a vederle.» Membury alzò gli occhi verso Harry. «E la macchina fotografica?» chiese bruscamente. Era un poliziotto, senza il minimo dubbio, pensò Harry. «Avevo dimenticato di mettere il rullino» rispose. «Che stupido, eh?» Si guardò intorno. «Come si fa a vedere le stelle, da qui?» «Oh, l'ufficiale di rotta va all'esterno per un momento» rispose il comandante, impassibile, Poi ammiccò: «No, scherzavo. C'è un osservatorio. Venite». Aprì una porta in fondo al ponte di comando e la varcò. Harry lo seguì e si trovò in uno stretto passaggio. Il comandante alzò la mano per indicare. «Questa è la cupola-osservatorio.» Harry guardò senza molto interesse: pensava ai gioielli di lady Oxenford. Nel soffitto c'era una cupola di vetro, con una scaletta pieghevole che pendeva da un gancio. «Ci si arrampica lassù con l'ottante ogni volta che c'è uno squarcio nelle nubi. E questo è anche il portello di carico dei bagagli.» Harry divenne di colpo attentissimo. «I bagagli passano dal tetto?» chiese. «Certo. Proprio qui.» «E poi dove li mettono?»
Il comandante indicò le due porte ai lati dello stretto corridoio. «Nei bagagliai.» Harry non riusciva a credere a tanta fortuna. «Quindi tutte le valigie sono lì, dietro quelle porte?» «Sì, signore.» Harry provò a smuovere una maniglia. La porta non era chiusa a chiave. Guardò all'interno. C'erano le valigie e i bauli dei passeggeri, ammonticchiati con cura e legati a supporti in modo che non si spostassero durante il volo. Là dentro c'era la parure di Delhi, e una vita piena di lussi per Harry Marks. Clive Membury sbirciava da sopra la sua spalla. «Affascinante» mormorò. «Può ben dirlo» commentò Harry. 14 Margaret era euforica. Continuava a dimenticare che non voleva andare in America. Non riusciva a credere di aver fatto amicizia con un ladro autentico! Normalmente, se qualcuno le avesse detto: «Sono un ladro» non gli avrebbe creduto; ma nel caso di Harry sapeva che era vero perché lo aveva conosciuto in una stazione di polizia dove era stato accusato di furto. Era sempre stata affascinata da coloro che vivevano ai margini o al di fuori del mondo della legge e dell'ordine: criminali, artisti, anarchici, prostitute, barboni. Sembravano così liberi. Naturalmente non erano liberi di ordinare champagne o di andare in aereo a New York o di mandare i figli all'università: non era tanto ingenua da dimenticare gli svantaggi dell'emarginazione. Però le persone come Harry non erano mai costrette a fare una cosa perché gli veniva ordinata, e questo le sembrava meraviglioso. Lei sognava di essere una guerrigliera e vivere fra i monti, di portare i pantaloni e andare in giro armata di fucile, di rubare il cibo e dormire sotto le stelle e non farsi mai stirare gli abiti. Non aveva mai conosciuto persone di quel genere; e se le aveva incontrate non le aveva mai individuate per ciò che erano. Le era davvero capitato di sedersi su un gradino nella "strada più malfamata di Londra" senza capire che rischiava di essere scambiata per una prostituta? Le sembrava che fosse accaduto moltissimo tempo prima, e invece era solo la notte pre-
cedente. Fare la conoscenza di Harry era la cosa più interessante che le fosse capitata da un secolo. Lui rappresentava tutto ciò che lei desiderava; poteva fare tutto ciò che gli piaceva! Alla mattina aveva deciso di andare in America, e nel pomeriggio era in viaggio. Se voleva ballare tutta la notte e dormire tutto il giorno, poteva farlo. Mangiava e beveva ciò che desiderava, quando ne aveva voglia, al Ritz o in un pub o a bordo del Clipper della Pan American. Poteva iscriversi al partito comunista e abbandonarlo senza dare spiegazioni a nessuno. Quando aveva bisogno di soldi ne rubava un po' a chi ne possedeva più di quanti meritasse. Era uno spirito libero! Desiderava sapere molte più cose sul suo conto, e le dispiaceva di dover sprecare il tempo a cena, lontano da lui. In sala da pranzo c'erano tre tavoli da quattro persone. Il barone Gabon e Carl Hartmann erano seduti a quello accanto agli Oxenford. Suo padre li aveva guardati male quando erano entrati, probabilmente perché erano ebrei. Si erano seduti in compagnia di Ollis Field e di Frank Gordon. Gordon aveva qualche anno più di Harry; era un bel ragazzo sfrontato, ma la sua bocca aveva una piega brutale. Ollis Field era più avanti negli anni, slavato e completamente calvo. Avevano suscitato qualche commento perché erano rimasti a bordo dell'aereo mentre tutti gli altri erano sbarcati a Foynes. Al terzo tavolo c'erano Lulu Bell e la principessa Lavinia, che si lamentava a voce alta perché la salsa del cocktail di gamberetti era troppo salata. Con loro c'erano i due che si erano imbarcati a Foynes, il signor Lovesey e la signora Lenehan. Percy riferì che avevano preso la suite nuziale anche se non erano marito e moglie. Margaret era stupita che la Pan American permettesse una cosa simile. Forse avevano fatto uno strappo alla regola perché tanta gente cercava disperatamente di andare in America. Percy si presentò a tavola con una kippà nera, secondo la consuetudine ebraica. Margaret ridacchiò. Dove diavolo l'aveva presa? Il papà gliela strappò dalla testa e borbottò furioso: «Stupido!». Il viso della mamma aveva l'espressione vitrea che aveva assunto da quando aveva smesso di piangere per Elisabeth. Disse in tono vago: «Mi sembra molto presto per cenare». «Sono le sette e mezzo» le rispose suo marito. «E allora perché non si fa buio?» Percy spiegò: «In Inghilterra è già buio, ma noi siamo a circa cinquecento chilometri dalla costa irlandese. Stiamo rincorrendo il sole».
«Però prima o poi verrà notte.» «Verso le nove, credo» disse Percy. «Bene» concluse la mamma. «Vi rendete conto che se volassimo abbastanza veloci potremmo tenere il passo col sole e il buio non verrebbe mai?» Suo padre affermò in tono di superiorità: «Non credo sarà mai possibile che gli uomini riescano a costruire aerei tanto veloci». Nicky, lo steward, venne a servire la prima portata. «Per me no, grazie» disse Percy. «I gamberetti non sono kosher.» Lo steward gli lanciò un'occhiata sbalordita ma non disse nulla. Lord Oxenford diventò paonazzo. Margaret si affrettò a cambiare argomento. «Quando faremo il prossimo scalo, Percy?» Lui conosceva sempre quei dettagli. «Il viaggio fino a Botwood dura sedici ore e mezzo» rispose lui. «Dovremmo arrivare alle nove del mattino, ora legale britannica.» «Ma sul posto che ore saranno?» «L'ora standard di Terranova è tre ore e mezzo più indietro dell'ora media di Greenwich.» «Tre ore e mezzo?» Margaret era sorpresa. «Non sapevo che in certi posti ci fossero scarti di mezz'ora.» Percy continuò: «E a Botwood c'è l'ora legale, come in Inghilterra: perciò quando ammareremo saranno ufficialmente le cinque e mezzo del mattino». «Io non ce la farò a svegliarmi» dichiarò la mamma con aria stanca. «Oh, ce la farai» ribatté Percy. «Avrai l'impressione che siano le nove.» La mamma mormorò: «I ragazzi sono così bravi con le cose tecniche». Margaret si irritava quando fingeva di essere stupida. Era convinta che fosse molto femminile non capire gli argomenti tecnici. «Agli uomini non piacciono le ragazze troppo intelligenti, cara» le aveva ripetuto più volte. Margaret non stava più a discutere, ma non le credeva. Secondo lei, la pensavano così solo gli uomini stupidi. Quelli intelligenti apprezzavano le donne intelligenti. Si accorse che al tavolo accanto stavano alzando un po' la voce. Il barone Gabon e Carl Hartmann discutevano e i loro commensali ascoltavano in silenzio. Margaret ricordò che tutte le volte che li aveva notati Gabon e Hartmann stavano discutendo. Forse non era sorprendente: quando si parla con uno degli uomini più intelligenti del mondo, non si perde tempo in chiacchiere. Udì la parola «Palestina»: dovevano parlare di sionismo. Lan-
ciò uno sguardo nervoso a suo padre. Aveva udito anche lui e aveva assunto un'espressione furiosa. Senza lasciargli il tempo di parlare, Margaret disse: «Voleremo nella tempesta. Può darsi che ci tocchi ballare». «Come lo sai?» chiese Percy con una sfumatura di gelosia nella voce. L'esperto di dettagli di volo era lui, non Margaret. «Me l'ha detto Harry.» «E lui come lo sa?» «Ha cenato col motorista e l'ufficiale di rotta.» «Io non ho paura» dichiarò Percy, ma il tono lasciava capire il contrario. Margaret non era preoccupata per la tempesta. Sarebbe stata spiacevole, ma non ci sarebbe stato pericolo, senza dubbio. Suo padre vuotò il bicchiere e chiese con tono irascibile altro vino allo steward. Aveva paura della tempesta? Beveva più del solito, era rosso in faccia e gli occhi chiari avevano lo sguardo fisso. Era nervoso? Forse era ancora sconvolto a causa di Elizabeth. La mamma disse: «Margaret, dovresti parlare un po' di più con quel signor Membury, che è così taciturno». Margaret si stupì. «Perché? Mi sembra che voglia essere lasciato in pace.» «Penso che sia timido.» Non era da lei commuoversi per i timidi, soprattutto quando appartenevano senza ombra di dubbio al ceto medio come il signor Membury. «Su, mamma» incitò lei. «Cosa vuoi dire, in realtà?» «Non mi piace che tu passi tutto il volo a parlare con il signor Vandenpost.» Era proprio ciò che Margaret si proponeva di fare. «E perché non dovrei?» chiese. «Be', ha la tua età, e non vorrai fargli venire in mente certe idee.» «A me non dispiacerebbe affatto fargli venire delle idee. È bellissimo.» «No, cara» ribatté la mamma in tono fermo. «Ha qualcosa che non è esattamente come si deve.» Intendeva dire che non apparteneva alla buona società. Come tante straniere sposate a un aristocratico, la mamma era ancora più snob degli inglesi. Dunque non aveva bevuto del tutto l'interpretazione del giovane americano ricco. Quando si trattava di condizioni sociali aveva antenne infallibili. «Ma hai detto che conosci i Vandenpost di Philadelphia» osservò Margaret. «Li conosco, ma ora che ci penso sono sicura che non appartiene a quel-
la famiglia.» «Forse gli parlerò per punire il tuo snobismo, mamma.» «Non è snobismo, cara. È un fatto di educazione. Lo snobismo è volgare.» Margaret si arrese. La corazza di superiorità di sua madre era impenetrabile. Inutile tentare di ragionare con lei. Tuttavia non intendeva ubbidire. Harry era troppo interessante. Percy intervenne: «Chissà chi è il signor Membury. Mi piace il suo panciotto rosso. Non mi sembra un frequentatore delle rotte transatlantiche». La mamma disse: «Immagino che sia una specie di funzionario». E ne aveva appunto l'aspetto, pensò Margaret. Sua madre aveva un occhio acutissimo per quel genere di cose. Il papà osservò: «Probabilmente lavora per la linea aerea». «Secondo me è un dipendente statale» obiettò la mamma. Gli steward servirono la portata principale. La mamma rifiutò il filet mignon. «Non mangio mai cibi cotti» disse a Nicky. «Mi porti un po' di sedano e caviale.» Al tavolo accanto, Margaret udì che il barone Gabon diceva: «Dobbiamo avere una terra nostra... non c'è altra soluzione!». Carl Hartmann rispose: «Però ha ammesso che dovrebbe essere uno stato militarizzato...». «Per difendersi dai vicini ostili!» «E ammette che dovrà discriminare gli arabi in favore degli ebrei... ma militarismo e razzismo sommati insieme danno il fascismo, proprio l'ideologia che dovreste combattere.» «Per favore, abbassi la voce» lo pregò Gabon. E abbassarono la voce. In una circostanza normale, Margaret avrebbe seguito con interesse la discussione; era un argomento di cui aveva parlato molte volte con Ian. Per quanto riguardava la Palestina, i socialisti erano divisi. Secondo alcuni offriva un'occasione per creare uno stato ideale; secondo altri, apparteneva al popolo che l'abitava e non poteva venire "regalata" agli ebrei più di quanto non potessero venire regalati l'Irlanda, Hong Kong o il Texas. Il fatto che tanti socialisti fossero ebrei contribuiva a complicare il problema. Adesso, comunque, Margaret sperava soltanto che Gabon e Hartmann si calmassero affinché suo padre non li sentisse. Purtroppo non fu così. Stavano discutendo di un argomento che stava a cuore a entrambi. Hartmann alzò di nuovo la voce e affermò: «Io non voglio vivere in uno stato razzista!».
Lord Oxenford commentò a voce alta: «Non sapevo di viaggiare assieme a un branco di giudei!». «Santo cielo» esclamò Percy. Margaret fissò suo padre, sgomenta. Un tempo la sua ideologia politica aveva avuto un senso. Quando milioni di uomini validi erano disoccupati e alla fame, era sembrato un atto di coraggio affermare che il capitalismo e il socialismo avevano fallito entrambi e che la democrazia non andava bene per l'uomo comune. E aveva avuto un certo fascino l'idea di uno stato onnipotente che gestisse la produzione sotto la guida di un dittatore illuminato. Ma i grandi ideali e gli audaci principi politici erano degenerati in quel fanatismo cieco. Margaret aveva pensato a suo padre quando nella biblioteca di casa aveva trovato Amleto e aveva letto il verso "Oh, quale nobile mente è qui sconfitta!". Credeva che i due non avessero udito il suo commento maleducato, perché lui voltava loro le spalle ed erano troppo presi dalla discussione. Per distogliere l'attenzione del padre chiese allegramente: «A che ora andiamo a letto?». Percy rispose: «Io vorrei andarci presto». Non era normale: ma naturalmente lo attirava la novità di dormire su un aereo. La mamma aggiunse: «Andremo a letto alla solita ora». «Sì, secondo quale fuso orario?» chiese Percy. «Devo andare a letto alle dieci e mezzo dell'ora estiva britannica o alle dieci e mezzo dell'ora legale di Terranova?» «L'America è razzista!» esclamò il barone Gabon in quel momento. «E lo sono anche la Francia, l'Inghilterra, l'Unione Sovietica... tutti stati razzisti!» Lord Oxenford esclamò: «Per amor di Dio!». Margaret proseguì: «Le nove e trenta mi faranno contenta». Percy notò la rima. «Alle dieci e un minuto io sarò già svenuto» ribatté. Era un gioco che facevano spesso da bambini. Anche la mamma si associò. «Alle dieci meno un quarto, vedrete come parto.» «Dormi all'ora precisa, e sentirai che risa.» «Dopo le dieci e venti, vedrai che non mi senti.» «Papà, tocca a te» disse Percy. Ci fu un momento di silenzio. Un tempo lui faceva quel gioco insieme ai figli, prima di diventare così amareggiato e deluso. Per un attimo la sua espressione si addolcì, e Margaret pensò che avrebbe partecipato. Poi Carl Hartmann esclamò: «E allora perché creare un altro stato razzi-
sta?». Fu la goccia che fa traboccare il vaso. Lord Oxenford si voltò di scatto, paonazzo e indignato. Prima che qualcuno potesse tentare di trattenerlo, esplose: «Voi giudei fareste meglio ad abbassare la voce». Harmann e Gabon lo fissarono sbigottiti. Margaret si sentì arrossire. Suo padre aveva parlato abbastanza forte perché lo sentissero tutti, e nella sala da pranzo era sceso il silenzio. Avrebbe voluto che il pavimento si spalancasse per inghiottirla. La mortificava che la gente la guardasse e sapesse che era la figlia di quell'ubriacone imbecille e volgare seduto di fronte a lei. Incontrò lo sguardo di Nicky e dalla sua espressione comprese che la compiangeva: questo la fece sentire anche peggio. Il barone Gabon impallidì. Per un momento sembrò che stesse per ribattere; ma cambiò idea e distolse gli occhi. Hartmann sorrise a denti stretti e Margaret pensò che, siccome veniva dalla Germania nazista, probabilmente gli sembrava una cosa di poco conto. Ma suo padre non aveva finito. «Questo è uno scompartimento di prima classe» aggiunse. Margaret osservava il barone Gabon: lo vide prendere il cucchiaio come se volesse ignorare quei commenti. Ma la mano gli tremava e si rovesciò la zuppa sul panciotto color tortora. Decise di rinunciare e posò il cucchiaio. Quel segno evidente di angoscia le toccò il cuore. Era furiosa con suo padre. Si girò verso di lui e per una volta trovò il coraggio di dirgli ciò che pensava. «Hai insultato in modo vergognoso due degli uomini più illustri d'Europa!» Suo padre la corresse: «Due dei più illustri giudei d'Europa!». Percy si intromise: «Non dimenticare la nonna Fishbein». Suo padre si voltò di scatto, agitò minaccioso l'indice e ordinò: «Piantala con quella stupidaggine, capito?». «Devo andare alla toilette» disse Percy, e si alzò. «Ho la nausea.» E lasciò la sala da pranzo. Margaret si rese conto che lei e Percy avevano tenuto testa al padre senza che lui potesse fare nulla. Era una specie di pietra miliare nella loro esistenza. Lord Oxenford abbassò la voce e si rivolse a Margaret. «Ricorda che questa gente ci ha costretti a fuggire da casa nostra!» sibilò. Poi alzò di nuovo la voce. «Se vogliono viaggiare con noi, devono imparare le buone maniere.»
«Basta così!» disse qualcuno. Margaret alzò gli occhi. Era Mervyn Lovesey, l'uomo che si era imbarcato a Foynes. Si era alzato in piedi. Gli steward Nicky e Davy erano immobili, sembravano spaventati. Lovesey attraversò la sala da pranzo e si fermò con aria temibile al loro tavolo. Era un uomo alto e imperioso oltre la quarantina, con folti capelli brizzolati, sopracciglia nere e lineamenti marcati. Indossava un abito elegante ma parlava con l'accento del Lancashire. «Le sarò grato se terrà per sé le sue opinioni» disse con calma minacciosa. Lord Oxenford ribatté con voce perentoria: «Non è una faccenda che la riguarda...». «E invece sì» replicò Lovesey. Margaret vide Nicky uscire in gran fretta e immaginò che andasse in cerca di aiuto sul ponte di comando. Lovesey continuò: «È logico che lei non lo sappia, ma il professor Hartmann è il più grande fisico del mondo». «Non mi importa affatto chi è...» «Certo, a lei no. Ma interessa a me. E le sue opinioni sono offensive e disgustose.» «Io dico quello che mi pare e piace» ribatté lui, e fece per alzarsi. Lovesey lo bloccò appoggiandogli la robusta mano sulla spalla. «Siamo in guerra con quelli come lei.» Lord Oxenford reagì debolmente: «Se ne vada». «Me ne andrò se lei starà zitto.» «Chiamerò il comandante...» «Non è necessario» disse una voce. Era arrivato Baker, calmo e autorevole, con il berretto della divisa. «Sono qui. Signor Lovesey, posso pregarla di tornare al suo posto? Gliene sarei molto grato.» «Sì, andrò a sedermi» rispose Lovesey. «Ma non rimarrò ad ascoltare in silenzio mentre un villano ubriaco dice al più eminente scienziato europeo di abbassare la voce e lo chiama "giudeo".» «La prego, signor Lovesey.» Lovesey tornò al suo tavolo. Il comandante si rivolse al papà. «Lord Oxenford, forse è stato frainteso. Sono sicuro che non avrebbe mai chiamato un altro passeggero nel modo riferito dal signor Lovesey.» Margaret si augurò che il padre approfittasse di quella scappatoia: invece, con grande sgomento, lo vide diventare ancora più aggressivo. «Gli ho
dato del giudeo perché lo è!» esclamò. «Papà, smettila!» gridò Margaret. Il comandante gli disse: «Devo pregarla di non usare termini del genere finché è a bordo del mio aereo». Lui assunse un'aria sprezzante. «Si vergogna tanto di essere un giudeo, quello lì?» Margaret si accorse che il comandante Baker era molto irritato. «Signore, questo è un aereo americano, e abbiamo codici di comportamento americani. Le chiedo ancora una volta di smettere di insultare altri passeggeri, e l'avverto che ho il potere di farla arrestare dalla polizia locale al prossimo scalo. Dovrebbe sapere che in questi casi, anche se sono rari, la compagnia aerea sporge sempre denuncia.» Lord Oxenford, scosso dalla minaccia di finire in prigione, per un momento rimase in silenzio. Margaret era profondamente umiliata. Si vergognava, anche se aveva cercato di trattenerlo e aveva protestato per il suo comportamento. Tanta stupidità ricadeva anche su di lei, perché era sua figlia. Nascose la faccia tra le mani. Non resisteva più. Udì suo padre dire: «Torno nel mio scompartimento». Risollevò la testa e vide che si stava alzando e si rivolgeva alla mamma. «Mia cara?» La mamma si alzò e lui le scostò la sedia. Margaret si sentiva addosso gli occhi di tutti. All'improvviso accanto a lei comparve Harry e posò le mani sulla sua spalliera. «Lady Margaret» disse accennando un inchino. Lei si alzò e Harry le scostò la sedia. Margaret provò un profondo senso di gratitudine per quel gesto di solidarietà. La mamma lasciò la tavola, a testa alta, il viso inespressivo, seguita dal marito. Harry offrì il braccio a Margaret. Era una cosa da poco, ma per lei ebbe un grande valore. Per quanto fosse rossa in viso, si sentiva in grado di uscire dignitosamente. Un brusio di voci esplose alle sue spalle mentre entrava nel suo scompartimento. Harry l'accompagnò a sedersi. «È stato molto gentile» disse lei di slancio. «Non so come ringraziarla.» «Ho sentito la lite fin da qui» sussurrò lui. «E ho capito che doveva dispiacerle.» «Non mi sono mai sentita così umiliata» confessò Margaret, distrutta. Ma suo padre non aveva ancora finito. «Un giorno se ne pentiranno, ma-
ledetti idioti!» proruppe. La mamma era seduta nel suo angolo e lo fissava come se non lo vedesse. «Perderanno la guerra, ricordate le mie parole!» Margaret lo pregò: «Basta, papà, per favore». Per fortuna c'era soltanto Harry a sentire il seguito della filippica. Il signor Membury era sparito. Suo padre la ignorò. «L'esercito tedesco travolgerà l'Inghilterra come un maremoto!» proseguì. «E allora cosa pensate che succederà? Hitler insedierà un governo fascista, naturalmente.» Nei suoi occhi era apparsa una strana luce. Mio Dio, sembra un pazzo, pensò Margaret. Sta perdendo la ragione. Poi lui abbassò la voce e il suo volto assunse un'espressione astuta. «Un governo fascista inglese, naturalmente. E avrà bisogno di un leader fascista inglese!» «Oh, mio Dio» gemette Margaret. Adesso sapeva qual era l'idea di suo padre, e la disperazione la travolse. Pensava che Hitler lo avrebbe nominato dittatore dell'Inghilterra. Era convinto che l'Inghilterra sarebbe stata sconfitta e che Hitler lo avrebbe richiamato dall'esilio per metterlo a capo di un governo fantoccio. «E quando a Londra ci sarà un Primo ministro fascista... allora la musica cambierà!» esclamò trionfante, come se l'avesse spuntata in una discussione. Harry lo guardava sbalordito. «Immagina... prevede che Hitler chiederà a lei...?» «Chissà?» fu la risposta. «Dovrà essere qualcuno che non sia compromesso con il governo sconfitto. Se venissi chiamato... il dovere verso il mio Paese... un nuovo inizio, senza recriminazioni...» Harry sembrava troppo sgomento per parlare. Margaret era alla disperazione. Doveva sfuggire a suo padre. Rabbrividì al ricordo dell'esito ignominioso del suo tentativo di fuga; ma non doveva lasciarsi scoraggiare da un insuccesso. Doveva riprovare. Stavolta sarebbe stato diverso. Avrebbe imparato dall'esempio di Elizabeth. Avrebbe riflettuto e preparato con cura il piano. Si sarebbe procurata un po' di denaro, amicizie, un posto in cui abitare. Questa volta avrebbe fatto in modo che tutto andasse bene. Percy uscì dalla toilette. Si era perso quasi tutta la scena. Tuttavia sembrava che avesse partecipato a un dramma non meno emozionante. Era rosso in viso, agitato. «Non lo indovinereste mai!» annunciò. «Ho appena visto il signor Membury nel bagno. Aveva la giacca sbottonata e si stava infilando la camicia nei pantaloni. Ha una fondina sotto l'ascella... con una pistola!»
15 Il Clipper si avvicinava al punto di non-ritorno. Angosciato, innervosito ed esausto, Eddie Deakin tornò in servizio alle dieci di sera, ora britannica. Il sole, ormai, li aveva preceduti e aveva lasciato l'aereo nell'oscurità. Anche le condizioni meteorologiche erano cambiate. La pioggia batteva contro i finestrini, le nubi nascondevano le stelle, e folate di vento battevano senza sosta il poderoso aereo e tormentavano i passeggeri. In generale il tempo era peggiore alle basse quote, ciononostante il comandante Baker volava poco al di sopra del livello del mare. "Dava la caccia al vento": cercava una quota alla quale il vento di ponente fosse meno forte. Eddie era preoccupato perché sapeva che l'aereo era a corto di carburante. Andò al suo posto e cominciò a calcolare la distanza che l'idrovolante poteva coprire con ciò che restava nei serbatoi. Le condizioni erano peggiori rispetto alle previsioni, quindi i motori dovevano aver consumato più del previsto. Se non c'era carburante sufficiente per portare il Clipper fino a Terranova, dovevano tornare indietro prima di raggiungere il punto di non-ritorno. E allora cosa ne sarebbe stato di Carol-Ann? Tom Luther aveva fatto un piano molto preciso, e doveva aver tenuto conto dell'eventualità che il Clipper subisse un ritardo. Doveva avere concordato un sistema per contattare i suoi complici e confermare o modificare l'ora dell'incontro. Ma se l'aereo tornava indietro, Carol-Ann doveva rimanere nelle mani dei sequestratori per altre ventiquattr'ore, come minimo. Eddie era rimasto nello scompartimento di prua a tormentarsi e a guardare nel vuoto per quasi tutto il suo turno di riposo. Non aveva neppure tentato di dormire: sapeva che sarebbe stato inutile. Le immagini di CarolAnn lo assillavano: Carol-Ann in lacrime, legata, coperta di lividi; CarolAnn spaventata, implorante, isterica, disperata. Avrebbe voluto prendere a pugni la fusoliera, e aveva dovuto lottare di continuo contro l'impulso di correre di sopra per chiedere al suo vice, Mickey Finn, quanto carburante stavano consumando. E appunto perché era così angosciato aveva finito per provocare Tom Luther in sala da pranzo. Si era comportato da stupido. La sfortuna li ave-
va fatti sedere allo stesso tavolo. Più tardi l'ufficiale di rotta, Jack Ashford, gli aveva fatto la predica e lui si era reso conto del proprio errore. Adesso Jack aveva capito che c'era qualcosa fra lui e Luther. Eddie aveva rifiutato di dare spiegazioni e Jack aveva lasciato stare, per il momento. Lui si era ripromesso di stare attento. Se il comandante Baker avesse sospettato che il suo motorista era vittima di un ricatto avrebbe annullato il volo, ed Eddie sarebbe stato nell'impossibilità di aiutare Carol-Ann. E adesso aveva quest'altra preoccupazione. Il suo comportamento nei confronti di Tom Luther era stato comunque dimenticato durante il secondo turno della cena, a causa dello scontro fra Mervyn Lovesey e lord Oxenford. Eddie non vi aveva assistito perché si trovava nel compartimento di prua; ma gli steward gli avevano raccontato tutto. Oxenford gli sembrava un maleducato che aveva bisogno di una lezione, e il comandante Baker gliel'aveva data. Eddie provò dispiacere per il ragazzo, Percy, perché aveva un padre del genere. Il terzo turno per la cena sarebbe terminato entro pochi minuti, e poi sul ponte passeggeri l'atmosfera si sarebbe calmata. I più anziani sarebbero andati a letto. Gli altri sarebbero rimasti alzati ancora un paio d'ore a sopportare i vuoti d'aria, troppo emozionati o nervosi per dormire; ma poi, uno a uno, si sarebbero arresi ai ritmi della natura e sarebbero andati a letto. Alcuni irriducibili avrebbero cominciato a giocare a carte nella sala comune, continuando a bere, ma con calma e moderazione, come succedeva in quei casi, e non ci sarebbero stati guai. In preda all'ansia, Eddie riportò il consumo del carburante sul grafico che veniva chiamato "Curva Comevà". La linea rossa che indicava il consumo effettivo era sempre parecchio al di sopra di quella a matita che indicava il consumo previsto. Era quasi inevitabile, dato che la previsione era falsa. Tuttavia la differenza era maggiore di quel che si aspettava a causa del maltempo. La sua preoccupazione crebbe mentre calcolava la vera autonomia dell'aereo in base al carburante rimasto. Quando fece i conti sulla base di tre motori, come lo obbligavano i regolamenti di sicurezza, si accorse che non ce n'era a sufficienza per arrivare fino a Terranova. Avrebbe dovuto riferirlo immediatamente al comandante, ma non lo fece. Lo scarto era minimo, e con quattro motori il carburante sarebbe bastato. E poi poteva darsi che la situazione cambiasse nel prossimo paio d'ore. I venti potevano risultare meno violenti del previsto, e allora l'aereo avrebbe
consumato meno carburante e ne avrebbe avuto a disposizione una quantità maggiore per il resto del tragitto. E infine, nel peggiore dei casi, potevano cambiare rotta e attraversare la tempesta per accorciare la distanza. I passeggeri avebbero dovuto rassegnarsi a ballare. Alla sua sinistra il marconista, Ben Thompson, trascriveva un messaggio in Morse e teneva la testa calva china sul banco. Nella speranza che fosse l'annuncio di un miglioramento del tempo, Eddie gli andò alle spalle e lesse. Il messaggio lo sorprese e lo sconcertò. Era dell'FBI, indirizzato a un certo Ollis Field: AL BUREAU RISULTA CHE POTREBBERO ESSERE A BORDO COMPLICI DI NOTI CRIMINALI. PRENDA PRECAUZIONI STRAORDINARIE CON IL PRIGIONIERO. Cosa significava? Poteva avere qualcosa a che fare con il sequestro di Carol-Ann? Eddie si sentì girare la testa. Ben strappò il foglio dal blocco e chiamò: «Comandante! Dia un'occhiata qui!». Jack Ashford alzò la testa dalle carte, allarmato dal tono del marconista. Eddie prese il messaggio dalle mani di Ben, lo mostrò per un momento a Jack, quindi lo passò al comandante Baker che stava mangiando bistecca e puré di patate su un vassoio posato sul tavolo delle riunioni. Il volto del comandante si oscurò. «Questa storia non mi piace» disse. «Ollis Field dev'essere un agente dell'FBI.» «È uno dei passeggeri?» chiese Eddie. «Sì. Mi sembrava un tipo strano. Molto scialbo, non certo il tipico passeggero del Clipper. Durante lo scalo a Foynes è rimasto a bordo.» Eddie non lo aveva notato, ma l'ufficiale di rotta sì. «Credo di ricordare chi è» disse grattandosi il mento. «È calvo, e con lui c'è un uomo più giovane, vestito in modo vistoso. È una coppia un po' strana.» Il comandante rifletteva: «Il giovane dev'essere il prigioniero. Mi pare che si chiami Frank Gordon». La mente di Eddie era in subbuglio. «Ecco perché a Foynes sono rimasti a bordo: l'agente dell'FBI non voleva dare al prigioniero la possibilità di fuggire.» Baker annuì, cupo. «Gordon deve essere stato estradato dalla Gran Bretagna, e non si ottiene un mandato di estradizione per un ladruncolo. Certamente è un criminale molto pericoloso. E l'hanno imbarcato sul mio aereo senza avvertirmi.»
Ben, il marconista, disse: «Chissà cos'ha fatto?». «Frank Gordon» mormorò Jack. «Mi ricorda qualcosa... Un momento! scommetto che è Frankie Gordino!» Eddie ricordava di aver letto qualcosa sui giornali a proposito di Gordino. Era un picchiatore di una banda del New England, ricercato per l'omicidio del proprietario di un night-club di Boston che aveva rifiutato di pagare la "protezione". Gordino aveva fatto irruzione nel locale, aveva sparato al proprietario colpendolo all'addome, poi aveva violentato la sua amica e dato fuoco al locale. L'uomo era morto, ma la ragazza si era salvata dall'incendio e aveva identificato Gordino nelle foto segnaletiche. «Scopriremo subito se è lui» concluse Baker. «Eddie, fammi un favore: vai a chiedere a Ollis Field di salire.» «Subito.» Eddie si mise il berretto e la giacca dell'uniforme e scese la scala, riflettendo su quel nuovo sviluppo. Era sicuro che doveva esistere un nesso tra Frankie Gordino e i sequestratori di Carol-Ann, e cercava affannosamente di capire quale fosse, ma senza riuscirci. Si affacciò nella cambusa dove uno steward riempiva un bricco di caffè attingendo all'enorme caffettiera da duecento litri. «Davy, dov'è il signor Ollis Field?» chiese. «Quarto scompartimento, lato sinistro, rivolto verso la coda» rispose lo steward. Eddie proseguì lungo il corridoio tenendosi in equilibrio con l'abilità dell'esperienza sul pavimento malfermo. Notò gli Oxenford cupi e silenziosi nel secondo scompartimento. In sala da pranzo stava terminando l'ultimo turno, e il caffè traboccava nei piattini mentre la tempesta investiva l'aereo. Attraversò il terzo scompartimento, salì un gradino ed entrò nel quarto. Sul sedile di sinistra rivolto verso la coda c'era un uomo calvo sui quarant'anni. Aveva l'aria assonnata, fumava una sigaretta e guardava fuori, nell'oscurità. Non era così che Eddie immaginava un agente dell'FBI: non riusciva a raffigurarselo mentre, pistola in pugno, piombava in una stanza piena di contrabbandieri d'alcolici. Di fronte a Field era seduto un uomo più giovane e molto più elegante, con la taglia dell'ex atleta che comincia a ingrassare. Doveva essere Gordino. Aveva la faccia paffuta e imbronciata del ragazzino viziato. È il tipo capace di sparare a un uomo nella pancia? si chiese Eddie. Sì, credo di sì. Si rivolse al più anziano dei due uomini. «Signor Field?» «Sì.» «Il comandante desidera parlarle, se ha un momento.»
Un'espressione di fastidio apparve sulla faccia di Field, seguita da una di rassegnazione. Aveva intuito che il suo segreto era stato scoperto ed era irritato; ma tutto sommato, sembrava che per lui fosse la stessa cosa. «Certo» rispose. Spense la sigaretta nel portacenere a parete, si slacciò la cintura di sicurezza e si alzò. «Mi segua, prego» disse Eddie. Mentre tornavano indietro, nel terzo scompartimento Eddie vide Tom Luther. I loro occhi si incontrarono. In quel momento Eddie capì. La missione di Luther consisteva nel far fuggire Frankie Gordino. La rivelazione lo sbalordì a tal punto che si fermò di colpo, e Ollis Field gli urtò contro la schiena. Luther lo fissò con un'espressione di panico. Evidentemente temeva che Eddie stesse per fare qualcosa che avrebbe buttato all'aria tutto. «Mi scusi» mormorò Eddie a Field, e proseguì. Adesso era tutto chiaro. Frankie Gordino era stato costretto a fuggire dagli Stati Uniti, ma l'FBI lo aveva rintracciato in Inghilterra e aveva ottenuto l'estradizione. Avevano deciso di riportarlo in patria con l'aereo, e chissà come i suoi compagni lo avevano scoperto. E adesso intendevano far scendere Gordino dall'aereo prima che raggiungesse gli Stati Uniti. A questo punto toccava a Eddie. Doveva far ammarare il Clipper al largo della costa del Maine. Ad attenderli ci sarebbe stato un motoscafo velocissimo. Gordino sarebbe stato fatto scendere dal Clipper e sarebbe partito in motoscafo: qualche minuto più tardi avrebbe toccato terra in una caletta riparata, forse oltre il confine canadese. Una macchina l'avrebbe portato in un nascondiglio. Sarebbe sfuggito alla giustizia... grazie a Eddie Deakin. Mentre precedeva Field sulla scaletta a chiocciola che portava al ponte di comando, Eddie provava un certo sollievo; adesso, almeno, aveva capito cosa succedeva. Ma inorridiva al pensiero che per salvare sua moglie doveva contribuire a liberare un assassino. «Comandante, ecco il signor Field» disse. Il comandante Baker aveva indossato la giacca dell'uniforme ed era seduto al tavolo delle riunioni con il messaggio radio in mano. Il vassoio della cena era stato portato via. Il berretto gli copriva i capelli biondi e gli dava un'aria d'autorità. Alzò gli occhi verso Field, ma non lo invitò a sedersi. «Ho ricevuto una comunicazione per lei, da parte dell'FBI» disse. Field tese la mano per farsi consegnare il foglio, ma Baker non glielo diede. «È un agente dell'FBI?» chiese invece.
«Sì.» «E in questo momento è in missione ufficiale?» «Sì.» «Di che missione si tratta, signor Field?» «Non credo che abbia bisogno di saperlo, comandante. La prego di consegnarmi il messaggio. Ha detto che è indirizzato a me, non a lei.» «Io sono il comandante di questo aereo, e ritengo di dover sapere qual è la sua missione. Non stia a discutere con me, signor Field. Faccia quello che le dico.» Eddie studiò Field. Era un uomo pallido e stanco, con la testa calva e gli occhi celesti, slavati. Era alto e un tempo doveva essere stato piuttosto aitante, ma adesso aveva le spalle un po' curve e l'aria infiacchita. Pensò che doveva essere più arrogante che coraggioso; e il suo giudizio trovò una conferma immediata perché Field si arrese subito alle pressioni del comandante. «Sto scortando un prigioniero, estradato negli Stati Uniti per il processo» disse. «Si chiama Frank Gordon.» «Allias Frankie Gordino?» «Appunto.» «Desidero farle sapere, signore, che protesto per il fatto che è stato imbarcato sul mio aereo un criminale pericoloso senza avvertirmi.» «Se conosce il vero nome di quell'uomo, probabilmente saprà anche qual è il suo mestiere. Lavora per Raymond Patriarca, responsabile di rapine a mano armata, estorsioni, strozzinaggio, gioco d'azzardo illegale e prostituzione in tutta la zona che va dal Rhode Island al Maine. Ray Patriarca è stato dichiarato "Pericolo pubblico numero uno" dalla Commissione di pubblica sicurezza di Providence. Gordino è quello che noi chiamiamo un gorilla; terrorizza, tortura e uccide su ordine di Patriarca. Non potevamo avvertirla, per motivi di sicurezza.» «La vostra sicurezza è una stronzata, Field.» Baker era veramente fuori di sé: Eddie non l'aveva mai sentito inveire contro un passeggero. «La banda Patriarca sa tutto.» E porse il messaggio. Field lo lesse e impallidì. «Come diavolo hanno fatto a scoprirlo?» borbottò. «Devo chiederle quali passeggeri sono i "complici di noti criminali"» esclamò il comandante. «Ha riconosciuto qualcuno a bordo?» «No, naturalmente» replicò Field risentito. «Altrimenti avrei già informato l'FBI.»
«Se riusciremo a identificarli, li sbarcheremo al prossimo scalo.» Eddie pensò: "Io so chi sono... Tom Luther e io". Field proseguì: «Comunichi via radio all'FBI un elenco completo dei passeggeri e dei membri dell'equipaggio. Faranno un controllo nome per nome». Eddie rabbrividì per l'ansia. C'era forse il rischio che il controllo smascherasse Luther? Questo poteva rovinare tutto. Era un noto criminale? Tom Luther era il vero nome? Se si serviva di un nome falso, doveva avere anche un passaporto falso. Ma no, certo che no: se era d'accordo con la malavita organizzata, sicuramente aveva preso quella precauzione. Tutto il resto era stato congegnato in modo perfetto. Il comandante Baker scattò. «Non credo che dobbiamo preoccuparci dell'equipaggio.» Field alzò le spalle. «Faccia come crede. Il Bureau si farà dare i nomi dalla Pan American.» Field era privo di tatto, pensò Eddie. Forse gli agenti dell'FBI venivano istruiti da J. Edgar Hoover in persona sul modo di rendersi antipatici. Il comandante prese dal tavolo l'elenco dei passeggeri e la lista dell'equipaggio e li passò al marconista. «Trasmettili subito, Ben» disse. Tacque un momento, poi aggiunse: «Equipaggio incluso». Ben Thompson si sedette e cominciò a battere il messaggio in Morse. «Un'altra cosa» proseguì il comandante rivolto a Field. «Devo chiederle di consegnarmi la sua arma.» Questa era una mossa abile, pensò Eddie. Non aveva pensato che Field poteva essere armato: ma era logico che lo fosse, se scortava un criminale pericoloso. Field esclamò: «Protesto...». «I passeggeri non sono autorizzati a portare armi da fuoco. È una regola che non ammette eccezioni. Mi dia la pistola.» «E se rifiutassi?» «Il signor Deakin e il signor Ashford gliela toglierebbero comunque.» Eddie fu colto di sorpresa dall'annuncio, ma stette al gioco e si accostò a Field con aria minacciosa. Jack fece altrettanto. Baker continuò: «E se mi costringerà a ricorrere alla forza, la farò scendere dall'aereo al prossimo scalo e non le permetterò di risalire a bordo». Eddie era impressionato dalla fermezza con cui il comandante teneva in pugno la situazione sebbene il suo antagonista fosse armato. Nei film non andava così: nei film l'uomo con la pistola poteva dare ordini a tutti i pre-
senti. Cosa avrebbe fatto Field? L'FBI non avrebbe approvato che consegnasse l'arma: d'altra parte sarebbe stato anche peggio se si fosse fatto buttare fuori dall'aereo. Field obiettò: «Sto scortando un prigioniero pericoloso. Devo essere armato». Eddie scorse qualcosa con la coda dell'occhio. La porta in fondo alla cabina, che portava alla cupola-osservatorio e al bagagliaio, era socchiusa; e là dietro si muoveva qualcosa. Il comandante Baker disse: «Prendigli la pistola, Eddie». Eddie infilò la mano nella giacca di Field, che non si mosse. Trovò la fondina, la sbottonò ed estrasse la pistola. Field guardava fisso davanti a sé. Poi Eddie andò in fondo alla cabina e spalancò la porta. C'era il giovane Percy Oxenford. Eddie respirò di sollievo. Aveva sospettato che ci fosse in agguato un complice di Gordino armato di mitra. Il comandante Baker fissò Percy. «E tu da dove arrivi?» «C'è una scaletta a pioli vicino allo spogliatoio delle signore» rispose il ragazzo. «Conduce nella coda dell'aereo.» Era il posto dove Eddie aveva ispezionato i cavi di controllo del timone. «C'è una specie di passaggio in cui si può strisciare. Esce vicino al bagagliaio.» Eddie aveva ancora in mano la pistola di Ollis Field. La mise nel cassetto dell'ufficiale di rotta. Il comandante Baker disse a Percy: «Per favore, giovanotto, torna al tuo posto, e non lasciare più il settore passeggeri per il resto del volo». Percy si voltò per tornare indietro. «Non di là» ordinò Baker. «Giù per la scala.» Un po' spaventato, Percy attraversò in fretta la cabina e scese la scala a chiocciola. «Da quanto era lì, Eddie?» chiese il comandante. «Non lo so. Secondo me, è probabile che abbia sentito tutto.» «E allora possiamo dire addio alla speranza di tenerlo nascosto ai passeggeri.» Per un momento Baker assunse un'espressione stanca e depressa; Eddie ricordò che su di lui gravava una pesante responsabilità. Poi si riprese. «Può tornare al suo posto, signor Field. Grazie per la collaborazione.» Ollis Field girò sui tacchi e se ne andò senza fiatare. «Rimettiamoci al lavoro» concluse il comandante. Tutti tornarono alle loro postazioni. Eddie controllò automaticamente i
quadranti, ma i suoi pensieri erano in tumulto. Notò che i serbatoi nelle ali, quelli che alimentavano i motori, si andavano vuotando, e provvide a trasferirvi carburante da quelli principali, situati negli idrostabilizzatori o galleggianti. Ma pensava a Frankie Gordino. Gordino aveva sparato a un uomo, violentato una donna e incendiato un night-club; ma l'avevano preso e sarebbe stato punito per i suoi delitti. Però Eddie Deakin stava per salvarlo. Grazie a lui, quella ragazza avrebbe visto restare impunito il suo stupratore. Ma c'era di peggio. Quasi sicuramente Gordino avrebbe ucciso ancora. Con ogni probabilità non sapeva fare altro. Perciò sarebbe venuto un giorno in cui Eddie avrebbe letto sui giornali la notizia di qualche atroce delitto, magari un omicidio per vendetta, con la vittima torturata e mutilata, o l'incendio di un palazzo che avrebbe causato la morte di donne e bambini, o lo stupro di una ragazza commesso da tre uomini. La polizia l'avrebbe attribuito alla banda Patriarca e lui si sarebbe chiesto: "È stato Gordino? Sono io il responsabile? Quella gente ha sofferto ed è morta perché io ho aiutato Gordino a fuggire?". Quanti omicidi avrebbe avuto sulla coscienza se avesse continuato a stare al gioco? Ma non aveva scelta. Carol-Ann era nelle mani di Ray Patriarca. Ogni volta che ci pensava, sentiva il sudore inumidirgli le tempie. Doveva proteggerla, e il solo modo per farlo stava nel collaborare con Tom Luther. Guardò l'orologio. Era mezzanotte. Jack Ashford gli diede la posizione dell'aereo secondo una stima abbastanza approssimativa perché non era ancora riuscito a determinare l'altezza di una stella. Ben Thompson mostrò le ultime previsioni del tempo: la tempesta era temibile. Eddie rilevò di nuovo i dati dei serbatoi e cominciò ad aggiornare i calcoli. Forse questo avrebbe risolto il suo dilemma: se non c'era carburante sufficiente per raggiungere l'isola di Terranova, dovevano tornare indietro e tutto sarebbe finito. Ma quel pensiero non lo consolava. Lui non era un fatalista: doveva fare qualcosa. Il comandante Baker chiese: «Come va, Eddie?». «Non ho ancora finito» rispose. «Stai molto attento... dobbiamo essere vicini al punto di non-ritorno.» Eddie sentì una goccia di sudore colargli lungo la guancia. Se l'asciugò con un movimento rapido e furtivo. Terminò i calcoli. Il carburante rimasto non bastava.
Per un momento non disse nulla. Si chinò sul suo bloc-notes e sulle tavole fingendo di non aver ancora terminato. La situazione era peggiorata dall'inizio del suo turno. Ormai non c'era carburante sufficiente per portare a conclusione il volo, lungo la rotta scelta dal comandante, nemmeno con quattro motori. Il margine di sicurezza era venuto meno. L'unico modo per farcela consisteva nell'abbreviare il viaggio attraverso la tempesta invece di aggirarla: e perfino così, se avessero perduto un motore sarebbe stata la fine. Tutti i passeggeri moriranno, e anch'io. E allora, cosa ne sarà di CarolAnn? «Avanti, Eddie» incalzò il comandante. «Dove si va? Proseguiamo per Botwood o torniamo a Foynes?» Eddie strinse i denti. Non sopportava l'idea di lasciare Carol-Ann nelle mani dei rapitori per un altro giorno. Preferiva rischiare. «Se la sente di cambiare rotta e di volare attraverso la tempesta?» domandò. «Dobbiamo proprio farlo?» «Sì, altrimenti dobbiamo tornare indietro.» Eddie trattenne il respiro. «Accidenti» mormorò il comandante. A nessuno faceva piacere tornare indietro quando erano arrivati a metà dell'Atlantico. Era un pesante smacco. Eddie attese la decisione del comandante. «Al diavolo» disse Baker. «Passeremo attraverso la tempesta.» PARTE QUARTA Dal centro dell'Atlantico a Botwood 16 Diana Lovesey era furibonda con suo marito perché si era imbarcato sul Clipper a Foynes. Innanzi tutto era imbarazzata perché l'aveva inseguita, e temeva che la gente giudicasse molto ridicola la situazione. E soprattutto non voleva saperne della possibilità di cambiare idea che lui le offriva. Aveva preso una decisione, ma Mervyn rifiutava di considerarla definitiva; e questo gettava, in un certo qual modo, qualche dubbio sulla sua fermezza. Adesso sarebbe stata costretta a riprendere di continuo la decisione, cioè ogni volta che lui le avesse chiesto di ripensarci. E infine, le aveva rovinato completamente il piacere del viaggio. Doveva essere la grande av-
ventura della sua vita, un volo romantico in compagnia dell'amante. Ma l'esaltante senso di libertà che aveva provato alla partenza da Southampton era svanito. Non traeva alcun piacere dal volo, dall'aereo lussuoso, dalla compagnia raffinata, dal vitto squisito. Non osava toccare Mark, baciargli la guancia, accarezzargli il braccio o tenergli la mano nel timore che Mervyn attraversasse lo scompartimento proprio in quel momento e la vedesse. Non sapeva quale fosse il suo posto, e si aspettava continuamente di vederlo apparire. Mark era distrutto da quello sviluppo imprevisto della situazione. Dopo che Diana aveva respinto Mervyn a Foynes, lui si era comportato con affetto e ottimismo, aveva parlato della California, aveva riso e scherzato e l'aveva baciata ogni volta che poteva, come al solito. Poi era rimasto inorridito nel vedere il rivale che saliva sull'aereo. Adesso sembrava un pallone sgonfio. Le stava seduto accanto in silenzio e sfogliava con aria sconsolata le riviste senza leggerne una parola. Diana capiva perché era depresso. Già una volta lei aveva cambiato idea a proposito della fuga; ora che Mervyn era a bordo, come poteva essere sicuro che non la cambiasse ancora? A peggiorare la situazione, il tempo si era messo al brutto e l'aereo sobbalzava come un'automobile in corsa su un campo. Ogni tanto un passeggero pallido come un cadavere attraversava lo scompartimento e si precipitava alla toilette. Tutti dicevano che secondo le previsioni il tempo sarebbe peggiorato ulteriormente. Era una fortuna, pensava Diana, che a cena fosse stata così agitata da mangiare pochissimo. Voleva sapere qual era il posto di Mervyn. Forse, sapendo dove stava, avrebbe finito di tremare all'idea di vederlo comparire da un momento all'altro. Decise di andare nella toilette delle signore per cercarlo lungo il percorso. Lei era nel quarto scompartimento. Diede un'occhiata nel terzo, il più vicino, però Mervyn non c'era. Tornò indietro e si avviò verso poppa, aggrappandosi a ogni appiglio perché l'aereo sussultava e ondeggiava. Attraversò il quinto scompartimento e vide che Mervyn non era neppure lì. Era l'ultimo scompartimento grande. Quasi tutto il sesto era occupato dallo spogliatoio delle signore, sul lato destro; su quello sinistro c'era posto solo per due persone, ed erano due uomini d'affari. Non erano posti molto gradevoli, pensò Diana. Era assurdo spendere tutti quei soldi e restarsene seduti per l'intero volo davanti a un gabinetto! Dopo il sesto scompartimento non rimaneva che la suite nuziale. Allora Mervyn doveva essere più avanti, nei primi due scompartimenti, a meno che non fosse nella sala comune a
giocare a carte. Entrò nella toilette. Davanti allo specchio c'erano due sgabelli e uno era occupato da una donna con cui Diana non aveva ancora parlato. Quando lei chiuse la porta, l'aereo sobbalzò di nuovo e minacciò di farle perdere l'equilibrio. Barcollò e cadde sullo sgabello libero. «Tutto bene?» chiese l'altra. «Sì, grazie. Non sopporto l'aereo quando fa questo genere di scherzi.» «Nemmeno io. Ma dicono che peggiorerà. Stiamo andando incontro a una tempesta.» La turbolenza si attenuò. Diana aprì la borsetta e cominciò a spazzolarsi i capelli. «Lei è la signora Lovesey, vero?» domandò la donna. «Sì. Mi chiami pure Diana.» «Io sono Nancy Lenehan.» La donna esitò. Sembrava un po' a disagio. Poi disse: «Mi sono imbarcata a Foynes. Sono arrivata da Liverpool con suo... con il signor Lovesey». «Oh!» Diana si sentì avvampare. «Non mi ero accorta che Mervyn aveva compagnia!» «Mi ha aiutata a uscire da un brutto pasticcio. Dovevo assolutamente prendere l'aereo ma ero rimasta bloccata a Liverpool senza alcuna possibilità di raggiungere in tempo Southampton. Così sono andata al campo di aviazione e ho chiesto un passaggio.» «Ne sono lieta per lei» disse Diana. «Ma per me è estremamente imbarazzante.» «Non capisco perché. Dev'essere bello avere due uomini disperatamente innamorati. Io non ne ho neppure uno.» Diana la osservò nello specchio: era più attraente che bella, con i lineamenti regolari e i capelli scuri, e indossava un elegantissimo tailleur rosso con camicetta di seta grigia. Aveva un'aria sicura, efficiente. È logico che Mervyn ti abbia dato un passaggio, pensò Diana: sei il suo tipo. «È stato gentile con lei?» domandò. «Non molto» rispose Nancy con un sorriso malinconico. «Mi dispiace. Non è un modello di cortesia.» Diana prese il rossetto. «Comunque gli sono grata per il passaggio.» Nancy si soffiò delicatamente il naso con un fazzolettino di carta. Diana notò che portava la fede nuziale. «È un po' brusco» continuò Nancy. «Ma mi sembra un brav'uomo. Ho cenato con lui. Riesce a farmi ridere. Ed è molto bello.» «Sì, è un brav'uomo» convenne Diana. «Ma è arrogante come una du-
chessa, e non ha pazienza. Io lo faccio ammattire perché sono insicura, cambio idea e non sempre dico quello che penso.» Nancy si passò il pettine fra i capelli. Erano scuri e folti, e Diana si chiese se li tingeva per nascondere qualche filo grigio. Nancy aggiunse: «Mi sembra pronto a fare di tutto pur di riaverla». «È solo una questione d'orgoglio» replicò Diana. «Perché un altro mi ha portato via. Mervyn è molto competitivo. Se lo avessi lasciato per andare a stare con mia sorella, non se la sarebbe presa.» Nancy rise: «A quanto pare non ha molte possibilità di convincerla». «Proprio nessuna.» All'improvviso, Diana decise che non voleva più parlare con Nancy Lenehan. Si sentiva inspiegabilmente ostile. Mise nella borsa i cosmetici e il pettine e si alzò. Sorrise per mascherare l'antipatia. «Vediamo se ce la faccio a tornare al mio posto.» «Buona fortuna!» Mentre Diana usciva dalla toilette, entrarono Lulu Bell e la principessa Lavinia, entrambe con le loro valigette. Quando tornò nello scompartimento, lo steward Davy stava trasformando il divano in una cuccetta doppia. Diana era curiosa di vedere in che modo un divano in apparenza normale veniva trasformato in due letti. Sedette e rimase a guardare. Per prima cosa Davy tolse tutti i cuscini e sfilò i braccioli. Si sporse, abbassò due sportellini nella parete scoprendo i ganci. Si chinò sopra il divano, aprì una cinghia e sollevò una intelaiatura piatta: la fissò ai ganci sulla parete in modo da formare la base della cuccetta superiore. Il lato esterno si inseriva in un'apertura nella parete laterale. Diana stava pensando che non aveva un'aria molto solida, quando Davy prese due robusti supporti e li fissò alle intelaiature. Adesso la struttura appariva più affidabile. Davy rimise i cuscini dei sedili sul letto inferiore, e usò quelli della spalliera come materasso per il letto superiore. Prese da sotto il sedile lenzuola e coperte celesti e preparò entrambi i letti con movimenti svelti ed esperti. Le cuccette avevano un aspetto confortevole, ma neppure l'ombra dell'intimità. Tuttavia Davy tirò fuori una tenda blu munita di ganci e l'appese a una riioga nel soffitto che Diana aveva creduto puramente decorativa; poi la fissò alle cuccette con bottoni automatici in modo che rimanesse ben tesa. Quindi lasciò un'apertura triangolare, come l'ingresso di una tenda, in modo che il passeggero potesse entrare nella cuccetta. Come ultima cosa, aprì una scaletta a pioli e la agganciò alla cuccetta superiore. Davy si rivolse a Diana e Mark con aria soddisfatta, come se avesse appena eseguito un trucco da prestigiatore. «Basta che mi facciano sapere
quando sono pronti, e sistemerò anche le loro cuccette» disse. «Ma non manca l'aria, qui dentro?» chiese Diana. «Ogni cuccetta ha il suo ventilatore» le rispose. «Se alza la testa, può vedere il suo.» Diana alzò gli occhi e vide una grata con una levetta aperto/chiuso. «Inoltre ha un finestrino, una lampada elettrica, l'attaccapanni e una mensola. E se ha bisogno di qualcosa d'altro, prema questo bottone e mi chiami.» Mentre Davy era al lavoro, i due passeggeri del lato sinistro, Frank Gordon e Ollis Field, avevano preso le loro valigette ed erano andati nella toilette degli uomini; Davy cominciò a preparare le cuccette da quella parte. La sistemazione era un po' diversa. Il corridoio non si trovava esattamente al centro, ma era più vicino al lato sinistro: quindi da quella parte c'era solo una coppia di cuccette, disposte nel senso della lunghezza dell'aereo, non nel senso della larghezza. La principessa Lavinia tornò avvolta in una vestaglia blu orlata di pizzi azzurri e con un turbante in tinta. Il suo viso era una maschera di gelida dignità: evidentemente per lei doveva essere un'esperienza sgradevolissima comparire in pubblico in abbigliamento notturno. Guardò inorridita la cuccetta. «Morirò di claustrofobia» gemette. Nessuno le badò. Si sfilò le pantofole di seta e si infilò nella cuccetta inferiore. Senza dare la buonanotte a nessuno, chiuse la tenda e la abbottonò. Dopo un momento arrivò Lulu Bell in un completo di chiffon rosa piuttosto trasparente che non nascondeva molto delle sue grazie. Dopo la partenza da Foynes si era comportata con fredda educazione nei confronti di Diana e Mark; ma adesso il risentimento sembrò dimenticato. Si sedette sul divano accanto a loro ed esclamò: «Non indovinereste mai cos'ho appena saputo sui nostri compagni di viaggio!». E indicò col pollice i posti vuoti di Field e Gordon. Mark guardò nervosamente Diana, poi chiese: «Cos'hai saputo, Lulu?». «Il signor Field è un agente dell'FBI!» Non era molto sorprendente, pensò Diana. Un agente dell'FBI era un poliziotto. Lulu continuò: «Ma c'è di più: Frank Gordon è un detenuto!». «Chi te l'ha raccontato?» domandò Mark con aria scettica. «Nello spogliatoio delle signore non si parla d'altro.» «Ciò non significa che sia vero, Lulu.» «Sapevo che non mi avresti creduto!» esclamò lei. «Il ragazzo ha assistito a una lite tra Field e il comandante dell'aereo. Il comandante era furi-
bondo perché l'FBI non aveva avvertito la Pan American che a bordo ci sarebbe stato un prigioniero pericoloso. C'è stata una vera lite, e alla fine l'equipaggio ha tolto la pistola al signor Field!» Diana ricordava di aver avuto l'impressione che Field facesse da balia a Gordon. «E Frank cosa avrebbe fatto?» «È un mafioso. Ha sparato a un uomo, violentato una ragazza e incendiato un night-club.» Diana stentava a crederlo. Aveva parlato con quell'uomo! Non era molto raffinato, certo, ma era bello e ben vestito e aveva flirtato educatamente con lei. Poteva immaginarlo come truffatore o evasore fiscale, o al massimo poteva credere che fosse coinvolto nel gioco d'azzardo clandestino; ma non le sembrava possibile che avesse ammazzato qualcuno. Lulu era una donna emotiva, disposta a credere qualunque cosa. Mark obiettò: «Mi sembra impossibile». «Ci rinuncio» dichiarò Lulu, e agitò una mano con fare rassegnato. «Voi non avete il senso dell'avventura.» Si alzò. «Vado a letto. Se comincia a violentare qualcuno, svegliatemi.» Salì la scaletta e si infilò nella cuccetta superiore. Tirò la tenda, quindi si affacciò di nuovo e si rivolse a Diana: «Tesoro, capisco perché ti sei irritata con me, in Irlanda. Ci ho pensato e credo di essermelo meritato. Stavo troppo addosso a Mark. Come una scema, lo so. Sono pronta a dimenticare tutto, se lo farai anche tu. Buonanotte». Era quasi una frase di scuse, e Diana non ebbe il coraggio di respingerla. «Buonanotte, Lulu» rispose. Lulu chiuse la tenda. Mark sussurrò a Diana: «La colpa è stata più mia che sua. Perdonami, piccola». Per tutta risposta, lei lo baciò. Adesso si sentiva di nuovo a suo agio con lui. Si rilassò e si abbandonò sul sedile continuando a baciarlo. Sentiva che gli stava premendo un seno contro il petto, ed era bello ritrovare un contatto fisico con lui. Mark le sfiorò le labbra con la punta della lingua, e Diana le socchiuse appena. Il respiro di Mark cominciò a diventare affannoso. Stiamo esagerando, pensò lei. Aprì gli occhi... e vide Mervyn. Attraversava lo scompartimento diretto alla parte anteriore dell'aereo e forse non l'avrebbe notata; ma all'improvviso girò la testa di lato, vide e si immobilizzò. Impallidì per lo shock. Diana lo conosceva così bene che poteva leggergli nella mente. Gli ave-
va detto chiaro che era innamorata di Mark, ma lui era troppo ostinato per rassegnarsi; quindi era un colpo tremendo vederla baciare un altro... tremendo più o meno come se non avesse saputo nulla. Mervyn si rabbuiò e contrasse le sopracciglia in un'espressione di collera. Per una frazione di secondo Diana pensò che stesse per attaccar briga, invece si voltò e passò oltre. Mark chiese: «Cos'è successo?». Non aveva visto Mervyn perché era troppo occupato a baciare Diana. Lei decise di non dirglielo. «Potrebbe vederci qualcuno» mormorò. Mark si staccò, controvoglia. Per un momento Diana si sentì sollevata, poi cominciò a innervosirsi. Mervyn non aveva il diritto di seguirla in capo al mondo e di irritarsi ogni volta che lei baciava Mark. Era sua moglie, non la sua schiava; lo aveva lasciato e lui doveva rassegnarsi. Mark accese una sigaretta. Diana sentì il bisogno di affrontare Mervyn. Voleva chiedergli di uscire dalla sua vita. Si alzò. «Vado a vedere cosa succede nella sala comune» disse. «Tu resta pure qui a fumare.» E se ne andò senza attendere la risposta. Aveva appurato che Mervyn non era nei posti di coda, quindi si avviò verso il muso dell'aereo. La turbolenza si era attenuata abbastanza per consentirle di camminare senza aggrapparsi. Mervyn non era nel terzo scompartimento. Nella sala comune, i giocatori avevano incominciato una lunga serie di partite. Si erano allacciati le cinture di sicurezza, avevano bottiglie di whisky sui tavoli e nuvole di fumo attorno alla testa. Diana entrò nel secondo scompartimento. La famiglia Oxenford ne occupava un intero lato. Tutti sapevano che lord Oxenford aveva insultato lo scienziato Carl Hartmann e che Mervyn Lovesey era intervenuto per difenderlo. Certo, Mervyn aveva i suoi meriti: Diana non l'aveva mai negato. Poi arrivò alla cucina. Nicky, lo steward grasso, lavava i piatti a velocità incredibile mentre il collega preparava i letti. La toilette degli uomini stava di fronte alla cucina, poi c'era la scala che conduceva al ponte di comando e, ancora più oltre, nel muso dell'apparecchio, il primo scompartimento. Diana dedusse che Mervyn doveva essere là: invece era occupato dal personale che non era di turno. Salì la scala e arrivò al ponte di comando. Era lussuoso quanto il ponte passeggeri, notò. Ma tutti i membri dell'equipaggio sembravano molto occupati. Uno le disse: «Saremo felici di farle da guida in un altro momento signora, ma finché siamo in una zona di maltempo, dobbiamo pregarla di andare a sedersi e di allacciare la cintura di sicurezza».
Quindi Mervyn doveva essere nella toilette, pensò mentre ridiscendeva le scale. Non aveva ancora scoperto il suo posto. Arrivò in fondo alla scala e andò a sbattere contro Mark. «Cosa fai?» gli chiese con un sussulto. «Stavo per chiederti la stessa cosa» replicò lui. C'era dell'irritazione nella sua voce. «Stavo dando un'occhiata in giro.» «Per trovare Mervyn?» chiese lui in tono di accusa. «Mark, perché sei arrabbiato con me?» «Perché te la sei svignata per incontrarti con lui.» Nicky li interruppe. «Vogliono tornare ai loro posti, per favore? Per il momento voliamo abbastanza tranquilli, ma non durerà.» Tornarono nel loro scompartimento. Diana si sentiva ridicola. Aveva seguito Mervyn, e Mark aveva seguito lei. Era una farsa. Si sedettero. Prima che potessero riprendere a parlare, arrivarono Ollis Field e Frank Gordon. Frank indossava una vestaglia di seta gialla con un drago sulla shiena, Field una vecchia vestaglia di lana molto sciupata. Frank si tolse quella specie di kimono e rimase in pigiama rosso con profili bianchi. Si sfilò le pantofole e si arrampicò sulla cuccetta superiore. A quel punto, con grande orrore di Diana, Field tirò fuori dalla tasca della vestaglia un paio di luccicanti manette e mormorò qualcosa a Frank. Diana non udì la risposta, ma capì che Frank protestava. Field, comunque, insistette e alla fine Frank tese un polso. Field gli mise una manetta e fece scattare l'altra intorno all'intelaiatura del letto. Poi tirò la tenda di Frank e la abbottonò. Dunque era vero: Frank era un detenuto. «Oh, merda» sbottò Mark. Diana bisbigliò: «Non riesco ancora a credere che sia un assassino». «Mi auguro che non lo sia!» disse Mark. «Saremmo stati più sicuri pagando cinquanta dollari per un posto di terza classe su una carretta!» «Vorrei che non lo avesse ammanettato. Non so come farà a dormire, quel ragazzo, incatenato al letto. Non potrà neppure girarsi!» «Sei troppo tenera» obiettò Mark, e l'abbracciò. «Quell'uomo è probabilmente uno stupratore, ma tu ti commuovi perché forse non potrà dormire.» Diana gli appoggiò la testa sulla spalla. Mark le accarezzò i capelli. Due minuti prima era arrabbiato con lei, ma sembrava che gli fosse passata. «Mark» gli chiese, «credi che in una di queste cuccette possano stare due
persone?» «Hai paura, tesoro?» «No.» Mark le lanciò un'occhiata sorpresa, poi capì e sorrise. «Credo che si possa stare in due, ma non fianco a fianco...» «No?» «Mi sembrano troppo strette.» «Be'...» Diana abbassò la voce. «Allora uno dei due dovrà stare sopra.» Lui le sussurrò all'orecchio: «Ti piacerebbe stare sopra tu?». Diana rise. «Credo di sì.» «Dovrò pensarci... Quanto pesi?» «Cinquanta chili e due tette.» «Andiamo a cambiarci?» Diana si tolse il cappello e lo posò sul sedile. Mark tirò fuori le valigie. La sua era di cuoio a soffietto, e con l'aria un po' usata; quella di Diana era piccola, rigida, di pelle nocciola con le iniziali dorate. Diana si alzò. «Fai in fretta» esortò Mark, e la baciò. Diana lo abbracciò e, quando si strinse a lui, sentì l'erezione. «Santo cielo» esclamò. Poi aggiunse sottovoce: «Puoi restare così finché torni?» «Non credo. A meno di fare pipì dalla finestra.» Diana rise, e Mark la rassicurò: «Comunque ti insegnerò un sistema rapido per farlo ridiventare duro». «Non vedo l'ora» bisbigliò lei. Mark prese la valigetta e uscì. Si avviò verso prua. Nel momento in cui usciva, incontrò Mervyn che veniva dalla direzione opposta. Si guardarono come due gatti attraverso uno steccato, ma non si scambiarono una parola. Diana rimase sbalordita nel vedere che Mervyn indossava una ruvida camicia da notte di flanella a grosse righe marrone. «Cosa diavolo ti sei messo?» domandò, incredula. «Ridi, ridi» rispose lui. «A Foynes non ho trovato altro. Nella merceria non avevano mai sentito parlare di pigiami di seta... non capivano se ero una checca o un matto.» «Be', alla tua amica, la signora Lenehan, non piacerai molto così conciato.» Perché l'ho detto? si chiese Diana. «Non credo di piacerle in nessun caso» ribatté Mervyn in tono irritato, e uscì dallo scompartimento. Entrò lo steward. Diana gli chiese: «Oh, Davy, potrebbe fare i nostri let-
ti, per favore?». «Subito, signora.» «Grazie.» Diana prese la valigia e uscì. Mentre attraversava il quinto scompartimento si domandò dove poteva dormire Mervyn. Nessuna delle cuccette era stata preparata, lì o al sesto. Eppure lui era sparito. Forse, pensò, era nell'appartamento nuziale. E un attimo dopo ricordò di non aver visto la signora Lenehan seduta da nessuna parte quando aveva percorso tutto l'aereo, qualche minuto prima. Si fermò davanti alla toilette delle signore con la valigia in mano, raggelata dalla sorpresa. Che vergogna! Mervyn e la signora Lenehan insieme nella suite nuziale! Senza dubbio la linea aerea non l'avrebbe permesso. Forse la signora Lenehan era già andata a letto ed era invisibile dietro la tenda di una cuccetta in uno scompartimento di prua. Doveva assolutamente scoprirlo. Si accostò alla porta della suite nuziale ed esitò. Poi girò la maniglia e aprì. La suite aveva più o meno le dimensioni di uno scompartimento normale. La moquette era color terracotta, le pareti beige e la tappezzeria blu a stelle, come nella sala comune. Sul retro della stanza c'erano le due cuccette. Su un lato un divano e un tavolino, sull'altro uno sgabello, un tavolo da toilette e uno specchio. C'erano finestrini su entrambi i lati. Mervyn era in piedi al centro della stanza, sbalordito dalla sua apparizione. La signora Lenehan non c'era, ma il suo soprabito di cashmere grigio era drappeggiato sul divano. Diana sbatté la porta ed esplose: «Come puoi farmi uno scherzo simile?». «Quale scherzo?» Era una buona domanda, pensò Diana. Perché se la prendeva tanto? «Tutti sapranno che passi la notte con lei!» «Non avevo scelta» protestò Mervyn. «Non c'erano altri posti disponibili.» «Non ti rendi conto che la gente riderà di noi? È già abbastanza grave che tu mi sia corso dietro in questo modo!» «E che m'importa? Tutti ridono di un marito quando la moglie scappa con un altro.» «Ma così è peggio! Avresti dovuto rassegnarti e lasciar perdere.» «Pensavo che mi conoscessi meglio.»
«Infatti, ti conosco... per questo ho cercato di evitare che mi seguissi.» Mervyn alzò le spalle. «Be', non ci sei riuscita. Non sei abbastanza furba.» «E tu non sei abbastanza furbo da capire quando è il momento di fare buon viso a cattivo gioco!» «Non sono mai stato capace di fare buon viso!» «E lei, che razza di svergognata è? È sposata... ho visto che porta la fede!» «È vedova. Comunque, che diritto hai di criticare tanto? Anche tu sei sposata, e passi la notte con il tuo amante.» «Noi, almeno, dormiremo in due cuccette separate in uno scompartimento aperto al pubblico, non chiusi dentro un'intima suite nuziale» ribatté Diana, e represse una fitta di rimorso al pensiero che aveva deciso di dividere la cuccetta con Mark. «Ma io non ho una relazione con la signora Lenehan» replicò Mervyn in tono esasperato. «Tu, invece, hai calato le mutandine davanti quel playboy tutta l'estate, no?» «Non essere così volgare» sibilò Diana. Però Mervyn non aveva torto. Era proprio ciò che aveva fatto, togliersi le mutandine in fretta tutte le volte che era stata vicina a Mark. Era verissimo. «Se è volgare dirlo, farlo è anche peggio» continuò lui. «Almeno io l'ho fatto con discrezione, non l'ho ostentato per il gusto di umiliarti.» «Io non ci giurerei. Con ogni probabilità scoprirò che ero l'unico, in tutta Manchester, a non sapere cosa facevi. Gli adulteri non sono mai discreti come credono di essere.» «Non chiamarmi così!» protestò Diana con uno scatto di vergogna. «E perché? Lo sei.» «È abominevole» disse lei, e distolse lo sguardo. «Ringrazia il cielo che non lapidano più le adultere come ai tempi della Bibbia.» «È una parola orribile.» «Dovresti vergognarti dell'atto, non della parola.» «Come sei virtuoso, tu» disse stancamente Diana. «Tu non hai mai sbagliato, vero?» «Con te mi sono sempre comportato bene!» rispose irritato Mervyn. Diana era completamente esasperata. «Sei stato piantato da due mogli, però la colpa non è stata tua. Non ti verrà mai in mente di chiederti in che
cosa puoi avere sbagliato tu?» Questa volta l'aveva colpito nel vivo. Mervyn la afferrò per le braccia e la scrollò. «Ti ho dato tutto quello che volevi!» esclamò infuriato. «Ma non ti importava nulla dei miei sentimenti» gridò lei. «Non te ne è mai importato niente. Per questo ti ho lasciato.» Gli premette le mani sul petto per respingerlo... e in quel momento la porta si aprì ed entrò Mark. Rimase immobile, in pigiama. E li fissò. Poi disse: «Cosa diavolo è questa storia, Diana? Hai intenzione di passare la notte nella suite nuziale?». Diana si scostò da Mervyn. «No. È la cabina della signora Lenehan. Mervyn la divide con lei.» Mark proruppe in una risata sprezzante. «Questa è bella! La metterò in un copione, prima o poi!» «Non c'è niente da ridere!» protestò Diana. «Sì, invece! Costui è partito come un pazzo per dare la caccia alla moglie, e intanto va a letto con una donna incontrata per caso!» Risentita per quell'atteggiamento, Diana si sorprese a difendere Mervyn. «Non vanno a letto insieme» ribatté spazientita. «Erano i soli posti liberi.» «Dovresti essere contenta» ribatté Mark. «Se prende una cotta per lei, forse la smetterà di correrti dietro.» «Non ti accorgi che sono sconvolta?» «Lo vedo, ma non capisco perché» rispose Mark. «Non ami più Mervyn. A volte parli di lui come se lo odiassi. L'hai piantato. Quindi, perché ti interessa con chi va a letto?» «Non lo so, ma mi interessa. Mi sento umiliata!» Mark era troppo irritato per mostrarsi comprensivo. «Qualche ora fa avevi deciso di tornare con Mervyn. Poi ti ha fatto arrabbiare, e hai cambiato idea. Adesso sei infuriata con lui perché va a letto con un'altra.» «Non vado a letto con la signora Lenehan» dichiarò Mervyn. Mark non gli badò. «Sei sicura di non essere ancora innamorata di tuo marito?» chiese brusco a Diana. «Quello che stai dicendo è orribile!» «Lo so. Ma è vero?» «No, non è vero. E ti odio perché pensi che possa esserlo!» Diana piangeva. «Allora dimostramelo. Dimenticati di lui e non pensare con chi va a letto.» «Gli esami non sono mai stati la mia specialità!» gridò lei. «Smettila con la tua maledetta logica! Non siamo in un circolo culturale!»
«Appunto!» si intromise un'altra voce. Tutti e tre si girarono e videro sulla soglia Nancy Lenehan, molto affascinante nella vestaglia di seta azzurra. «Anzi, credo che questa sia la mia suite. Cosa diavolo sta succedendo?». 17 Margaret Oxenford fremeva di rabbia e di vergogna. Era sicura che gli altri passeggeri la fissavano pensando alla terribile scena in sala da pranzo, convinti che condividesse le idee abominevoli di suo padre. Non osava guardare nessuno negli occhi. Harry Marks aveva salvato ciò che restava della sua dignità. Era stato un gesto intelligente e gentile, intervenire e scostarle la sedia e poi offrirle il braccio mentre usciva: un piccolo gesto, quasi sciocco. Ma per lei era stato molto importante. Adesso, comunque, le rimaneva soltanto un'ombra di rispetto per se stessa, ed era piena di rancore nei confronti di suo padre che l'aveva messa in una posizione tanto ignobile. Per due ore, dopo la cena, nello scompartimento regnò un freddo silenzio. Quando il tempo cominciò a peggiorare, i suoi genitori andarono a cambiarsi per la notte. Poi Percy sconcertò Margaret proponendo all'improvviso: «Andiamo a scusarci». Il suo primo pensiero fu che questo avrebbe comportato altri momenti di imbarazzo e umiliazione. «Non credo di averne il coraggio» rispose. «Andremo dal barone Gabon e dal professor Hartmann, e diremo che ci dispiace molto che nostro padre sia stato tanto scortese.» La prospettiva di riuscire a mitigare in qualche modo l'offesa inferta dal padre era una tentazione. L'avrebbe aiutata a sentirsi meglio. «Naturalmente il papà andrà su tutte le furie» obiettò. «Non è necessario che lo sappia. Però non m'interessa se si arrabbia. Credo che stia diventando matto. Non ho più paura di lui.» Margaret si chiese se era vero. Da piccolo, Percy aveva detto spesso di non aver paura quando in realtà era terrorizzato. Ma adesso non era più un bambino. La preoccupava un po' l'idea che Percy sfuggisse al controllo paterno. Solo il papà riusciva a tenerlo a freno. Senza quel freno, cosa sarebbe stato capace di fare? «Andiamo» la incitò Percy. «Andiamo subito. Sono nel terzo scompar-
timento. Mi sono informato.» Margaret continuava a esitare. Rabbrividiva all'idea di avvicinarsi agli uomini insultati da suo padre. Poteva farli soffrire ulteriormente, perché forse preferivano dimenticare l'episodio al più presto. Forse, però, si chiedevano quanti passeggeri, in cuor loro, erano d'accordo con lord Oxenford. Senza dubbio era più importante prendere posizione contro i pregiudizi razziali. Margart decise di andare. Si era spesso comportata da pavida e di solito se ne era pentita. Si alzò. Dovette afferrarsi al bracciolo del divano perché l'aereo continuava a sobbalzare. «D'accordo» decise. «Andiamo a scusarci.» Tremava un po' per l'apprensione; ma i sussulti dell'aereo lo nascondevano. Si avviò per prima, attraversò la sala comune ed entrò nel terzo scompartimento. Gabon e Hartmann erano seduti sul lato più stretto, uno di fronte all'altro. Hartmann era assorto nella lettura. La figura alta e magra era curva, la testa china, e il naso adunco puntava su una pagina di calcoli matematici. Gabon non faceva nulla e aveva l'aria di annoiarsi. Fu il primo a vederli. Quando Margaret si fermò al suo fianco e si aggrappò alla sua spalliera per sostenersi, il barone si irrigidì e assunse un'espressione ostile. Margaret disse precipitosamente: «Siamo venuti a scusarci». «Mi sorprende che abbiate tanta faccia tosta» esclamò Gabon. Parlava inglese alla perfezione, con un lievissimo accento francese. Non era la reazione che Margaret aveva sperato: ma continuò. «Mi rincresce immensamente per quello che è successo, e anche mio fratello la pensa come me. Io ammiro molto il professor Hartmann, e ho avuto modo di dirglielo.» Hartmann aveva alzato gli occhi dal libro. Annuì. Ma Gabon era ancora sdegnato. «È troppo facile, per quelli come voi, esprimere rammarico» affermò. Margaret fissava il pavimento e si pentiva di essere lì. «La Germania è piena di gente ricca e beneducata cui "rincresce immensamente" per quello che sta succedendo» continuò Gabon. «Ma cosa fanno, tutti quanti? Voi, cosa fate?» Margaret si sentì avvampare. Non sapeva cosa dire o fare. «La prego, Philippe» intervenne Hartmann a voce bassa. «Non vede come sono giovani?» Guardò Margaret. «Accetto le vostre scuse e vi ringrazio.» «Oh, mio Dio» gemette lei. «Ho forse peggiorato la situazione?»
«No, no» la tranquillizzò Hartmann. «L'ha migliorata un po', e gliene sono grato. Il barone è molto sconvolto, ma credo che finirà per pensarla come me.» «Ora dobbiamo andare» disse Margaret, avvilita. Hartmann annuì. Lei si voltò. Percy aggiunse: «Mi dispiace moltissimo». E la seguì. Tornarono traballando nel loro scompartimento. Davy stava preparando le cuccette. Harry era sparito; probabilmente era alla toilette. Margaret decise di prepararsi per la notte. Prese la valigetta e si avviò verso lo spogliatoio delle signore. Sua madre ne stava uscendo in quel momento; era splendida, nella vestaglia nocciola. «Buonanotte, cara» disse. Lei le passò accanto senza una parola. Lo spogliatoio era affollato. Margaret indossò in fretta la camicia da notte di cotone e l'accappatoio. I suoi indumenti per la notte erano molto modesti in confronto alle sete e ai cashmere delle altre donne, ma non gliene importava nulla. Chiedere scusa non le aveva dato sollievo, in fondo, perché la risposta del barone Gabon era fin troppo vera. Era molto facile esprimere rammarico e non fare nulla per risolvere il problema. Quando tornò nel suo scompartimento, i genitori erano già a letto e avevano chiuso le tende. Dalla cuccetta di suo padre giungeva un russare sommesso. Il suo letto non era ancora pronto e dovette andare a sedersi nella sala comune. Sapeva che c'era un solo modo per uscire da quella situazione. Doveva lasciare i genitori e vivere sola. Adesso era più decisa che mai a riuscirci, ma non si era avvicinata di un passo alla soluzione dei problemi pratici: il denaro, un lavoro, un alloggio. La signora Lenehan, la bella donna che si era imbarcata a Foynes, entrò e si sedette accanto a lei. Indossava una vestaglia azzurra sopra una camicia da notte nera. «Ero andata a chiedere un cognac, ma gli steward sono troppo indaffarati» disse. Non sembrava molto seccata. Agitò una mano per indicare tutti i passeggeri. «Sembra un pigiama party o una festicciola di mezzanotte in una casa dello studente... tutti girano in deshabillé. Non le sembra?» Margaret non aveva mai partecipato a un pigiama party e non era mai vissuta in una casa dello studente, perciò si limitò a rispondere: «È molto strano. Dà l'impressione che siamo tutti una famiglia». La signora Lenehan agganciò la cintura di sicurezza; aveva voglia di fare
due chiacchiere. «Non è possibile comportarsi in modo formale quando si è in camicia da notte, credo. Persino Frankie Gordino sembrava gradevole con quel pigiama rosso, no?» In un primo momento, Margaret non comprese a chi alludesse; poi ricordò che Percy aveva assistito a uno scontro fra il comandante e l'agente dell'FBI. «Il prigioniero?» «Sì.» «Non ha paura di lui?» «Direi di no. Non mi farà niente.» «Ma tutti dicono che è un assassino, e anche peggio.» «Nei bassifondi la criminalità ci sarà sempre. Se si toglie di mezzo Gordino, a uccidere sarà qualcun altro. Io lo lascerei al suo posto. Il gioco d'azzardo e la prostituzione esistono fin dal tempo dei tempi, e se deve esserci la criminalità, tanto vale che sia organizzata.» Era un discorso a dir poco sconcertante. Forse nell'atmosfera dell'aereo c'era qualcosa che spingeva la gente alla sincerità. Margaret pensò che la signora Lenehan non avrebbe parlato in quel modo se fosse stata in una compagnia mista: le donne erano sempre più concrete e pratiche quando non erano presenti gli uomini. Margaret, comunque, era affascinata. «Non sarebbe invece meglio se la criminalità fosse disorganizzata?» chiese. «No, certo. Se è organizzata è anche contenuta. Ogni banda ha il suo territorio, e ci resta. Non ammazza la gente nella Quinta Strada e non pretende il pagamento delle protezioni dall'Harvard Club. Quindi, perché darle fastidio?» Margaret non poteva lasciar passare un'affermazione come quella. «E i poveretti che sperperano denaro nel gioco d'azzardo? E le sventurate ragazze che ci rimettono la salute?» «Non voglio dire che non mi fanno pena» rispose la signora Lenehan. Margaret la scrutò con attenzione chiedendosi se era sincera. «Senta» continuò. «Io fabbrico scarpe.» Margaret dovette mostrarsi sorpresa, perché la signora Lenehan spiegò: «È il mio mestiere. Sono proprietaria di una fabbrica di calzature. Le mie scarpe da uomo costano poco e durano cinque, dieci anni. Se vuole, può trovarne anche a minor prezzo, ma non valgono niente, hanno suole di cartone che durano circa dieci giorni. Forse non ci crederà, ma c'è gente che compra le scarpe con le suole di cartone! Ecco, io ritengo di fare il mio dovere perché produco scarpe robuste e di buona qualità. E se qualcuno è così stupido da comprare quelle con le suole di cartone, non posso farci niente. Così, se c'è gente tanto scema da buttare i
suoi soldi nel gioco d'azzardo quando non può permettersi di comprare una bistecca per cena, be', anche questo non mi riguarda.» «Lei è mai stata povera?» chiese Margaret. La signora Lenehan rise. «Ecco una domanda intelligente. No, non lo sono mai stata, quindi forse non dovrei parlare così. Mio nonno confezionava scarpe a mano, e mio padre fondò la fabbrica che adesso io dirigo. Non conosco la vita dei bassifondi. E lei?» «Non molto bene, ma credo che ci sia una ragione se la gente gioca d'azzardo, ruba e si vende. Non sono stupidi: sono vittime di un sistema crudele.» «Immagino che lei sia una specie di comunista» osservò la signora Lenehan senza ostilità. «Socialista» affermò Margaret. «È un'ottima cosa» fu il sorprendente commento. «Forse un giorno cambierà idea, tutti cambiamo idee con il passare degli anni. Ma se non si hanno ideali in gioventù, cosa c'è da migliorare? Non sono cinica. Penso che dovremmo imparare dall'esperienza ma senza abbandonare gli ideali. Perché le sto facendo una predica? Forse perché oggi compio quarant'anni.» «Cento di questi giorni.» Di solito, Margaret si irritava quando le dicevano che con gli anni le sue idee sarebbero cambiate; era un atteggiamento paternalistico, e spesso era tipico di chi aveva avuto la peggio in una discussione ma non voleva ammetterlo. La signora Lenehan, però, era diversa. «Quali sono i suoi ideali?» le chiese Margaret. «Io voglio solo fabbricare buone scarpe.» La signora Lenehan accennò un sorriso come di scusa. «Non è un ideale grandioso, lo riconosco, ma per me è importante. Conduco una vita piacevole. Abito in una bella casa, i miei figli hanno tutto quello che desiderano e spendo un patrimonio in vestiti. Perché ho tutto questo? Perché fabbrico buone scarpe. Se le facessi di cartone mi sentirei una ladra. Non sarei meglio di Frankie.» «È un punto di vista quasi socialista» esclamò Margaret con un sorriso. «Per la verità, mi sono limitata ad adottare gli ideali di mio padre» replicò pensierosa la signora Lenehan. «E lei da chi li ha presi i suoi ideali? Non certo da suo padre: questo lo so.» Margaret arrossì. «Ha saputo della scenata a cena.» «Ero presente.» «Devo assolutamente allontanarmi dai miei genitori.» «Cosa glielo impedisce?» «Ho solo diciannove anni.»
La signora Lenehan assunse un'aria vagamente sprezzante. «E con questo? C'è chi scappa da casa quando ne ha dieci!» «Io ho tentato. Mi sono messa nei guai e la polizia mi ha bloccata.» «Si arrende molto facilmente.» Margaret ci teneva a far capire alla signora Lenehan che il suo fallimento non era stato causato da mancanza di coraggio. «Non ho denaro e non so far niente. Non ho avuto un'istruzione come si deve. Non saprei come guadagnarmi da vivere.» «Mia cara, lei è in viaggio per l'America. Un sacco di gente c'è arrivata con molto meno di quello che ha lei, e alcuni adesso sono miliardari. Sa leggere e scrivere in inglese, è simpatica, intelligente, carina... Può trovar lavoro senza difficoltà. Io sarei pronta ad assumerla.» Margaret ebbe un tuffo al cuore. Stava cominciando a risentirsi per la scarsa comprensione dimostrata dalla signora Lenehan, e adesso le stava offrendo una possibilità. «Davvero?» chiese. «Lei mi assumerebbe?» «Sicuro.» «Per fare cosa?» La signora Lenehan rifletté per un attimo. «La metterei all'ufficio vendita, ad attaccare francobolli, andare a prendere il caffè, rispondere al telefono e ricevere i clienti. Se si rendesse utile, verrebbe presto promossa assistente del direttore alle vendite.» «Cosa significa?» «Significa fare le stesse cose per uno stipendio più alto.» A Margaret sembrava un sogno impossibile. «Oh, santo cielo, un lavoro vero in un vero ufficio!» esclamò con desiderio. La signora Lenehan rise. «Tanta gente lo considera una noia!» «Per me sarebbe un'avventura.» «Forse all'inizio.» «Dice sul serio?» chiese Margaret in tono solenne. «Se venissi nel suo ufficio fra una settimana, mi darebbe un posto?» La signora Lenehan sembrò sorpresa. «Mio Dio, ma allora fa sul serio! Credevo che parlasse in astratto.» Margaret si sentì di colpo scoraggiata. «Allora non mi darà un posto?» chiese mestamente. «Erano soltanto parole?» «L'assumerei volentieri, ma c'è una difficoltà. Forse fra una settimana anch'io resterò senza lavoro.» Margaret avrebbe voluto piangere. «Come sarebbe a dire?» «Mio fratello sta cercando di portarmi via l'azienda.»
«E come può riuscirci?» «È complicato, e può darsi che non ci riesca. Mi sto battendo, ma non so come andrà a finire.» Margaret non voleva credere che quella grande occasione le sfuggisse in così poco tempo. «Deve vincere!» esclamò con forza. Prima che la signora Lenehan potesse rispondere sopraggiunse Harry. Sembrava un'aurora, in pigiama rosso e vestaglia celeste. Quando lo vide, Margaret si sentì più calma. Harry si sedette, e lei lo presentò. «La signora Lenehan era venuta a prendere un cognac, ma gli steward sono occupati.» Harry si finse sorpreso. «Saranno occupati, ma i drink potrebbero servirli comunque.» Si alzò e si affacciò nello scompartimento accanto. «Davy, porti subito un cognac per la signora Lenehan, per favore.» Margaret udì la risposta dello steward: «Subito, signor Vandenpost!». Harry riusciva sempre a ottenere dalla gente ciò che voleva. Lui tornò a sedersi. «Non ho potuto fare a meno di notare i suoi orecchini, signora Lenehan» disse. «Sono straordinariamente belli.» «Grazie» rispose lei con un sorriso, compiaciuta del complimento. Margaret guardò più attentamente. Ogni orecchino era formato da una grossa perla all'interno di un reticolo di fili d'oro e di piccoli diamanti. Erano di un'eleganza sobria. Avrebbe voluto avere anche lei qualche gioiello raffinato che destasse l'interesse di Harry. «Li ha comprati negli Stati Uniti?» chiese Harry. «Sì, sono di Paul Flato.» Harry annuì. «Ma credo che siano stati disegnati da Fulco di Verdura.» «Non saprei» rispose la signora Lenehan. «È insolito che un giovane si interessi di gioielli» aggiunse. Margaret avrebbe voluto avvertirla: "Gli interessa soprattutto rubarli, stia in guardia!". Ma era molto colpita dalla competenza di Harry: notava subito i pezzi più belli e spesso sapeva riconoscere chi li aveva disegnati. Davy portò il cognac alla signora Lenehan. Riusciva a camminare senza barcollare, nonostante i sobbalzi dell'aereo. Nancy prese il bicchiere e si alzò. «Credo che andrò a dormire un po'!» «Buona fortuna» le augurò Margaret, pensando alla battaglia tra la signora Lenehan e il fratello. Se avesse vinto l'avrebbe assunta, lo aveva promesso. «Grazie. Buonanotte.» Mentre la guardava avviarsi a passo malfermo verso la coda dell'aereo, Harry chiese in tono vagamente geloso: «Di cosa stavate parlando?».
Margaret esitava a dirgli dell'offerta di lavoro. Sarebbe stato magnifico, ma c'era un ostacolo e quindi non poteva chiedere a Harry di farle i rallegramenti. Decise di tenere il segreto ancora per un po'. «Abbiamo cominciato a parlare di Frankie Gordino» rispose. «Nancy pensa che quelli come lui andrebbero lasciati in pace. Si limitano a organizzare cose come il gioco d'azzardo e... e la prostituzione... e danneggiano soltanto quelli che vogliono farsi coinvolgere.» Arrossì leggermente: non aveva mai pronunciato a voce alta la parola "prostituzione". Harry aveva un'aria pensierosa. «Non tutte le prostitute lo sono per loro volontà» disse dopo un momento. «Alcune vi sono costrette. Avrà certamente sentito parlare della tratta delle bianche.» «Sarebbe questo?» Margaret aveva letto quell'espressione sui giornali, ma aveva immaginato che si riferisse a ragazze che venivano rapite e spedite a Istanbul a fare le cameriere. Era davvero molto sciocca. Harry proseguì: «È meno frequente di quanto insinuano i giornali. A Londra c'è solo un individuo che si occupa della tratta delle bianche. Si chiama Benny il Maltese, perché è di Malta.» Margaret era affascinata. E pensare che tutto questo succedeva sotto i suoi occhi! «Poteva capitare anche a me!» «Sì, la notte che è scappata da casa» confermò Harry. «È appunto la situazione ideale per Benny. Una ragazza sola, senza denaro e senza un posto per dormire. Le avrebbe offerto una cenetta e una scrittura in una troupe di ballerine in partenza per Parigi l'indomani mattina, e lei l'avrebbe visto come la salvezza. Poi avrebbe scoperto che le ballerine erano spogliarelliste, ma solo quando si fosse bloccata a Parigi, senza denaro e senza la possibilità di tornare in patria: perciò si sarebbe messa nell'ultima fila e avrebbe ancheggiato con il massimo impegno.» Margaret immaginò di trovarsi in una situazione del genere, e si rese conto che con ogni probabilità si sarebbe comportata proprio così. «Poi una sera le chiederebbero di essere "carina" con un agente di cambio sbronzo e se rifiutasse la costringerebbero tenendola ferma con la forza.» Margaret chiuse gli occhi, disgustata e spaventata al pensiero di ciò che avrebbe potuto capitarle. «Magari l'indomani scapperebbe, ma dove? Forse avrebbe in tasca qualche franco, ma non abbastanza per tornare a casa. E comincerebbe a domandarsi cosa dire alla sua famigia. La verità? Neppure per sogno. E così tornerebbe alla pensione con le altre ragazze, che almeno sono amichevoli e comprensive. Poi comincerebbe a pensare che se l'ha fatto una volta, può farlo ancora; e con il prossimo agente di cambio sarebbe più facile. E prima di rendersene
conto, comincerebbe a essere impaziente di vedere le mance che i clienti lasciano accanto al letto al mattino.» Margaret rabbrividì. «È la cosa più orribile che io abbia mai sentito.» «Ecco perché io non credo che si dovrebbe lasciare in pace Frankie Gordino.» Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante, poi Harry disse in tono pensieroso: «Chissà che legame c'è tra Frankie Gordino e Clive Membury?». «C'è un legame?» «Be', Percy dice che Membury ha una pistola. Io già pensavo che fosse un poliziotto.» «Davvero? E come mai?» «Il panciotto rosso. Un poliziotto penserebbe che è l'ideale per avere l'aria dell'uomo di mondo.» «Forse ha il compito di aiutare Field a fare la guardia a Gordino.» Harry non pareva convinto. «E perché? Gordino è un delinquente americano, diretto verso una prigione americana. È uscito dal territorio britannico ed è affidato all'FBI. Non riesco a immaginare perché Scotland Yard avrebbe dovuto mandare qualcuno a fargli la guardia, soprattutto se teniamo conto di quanto costa un biglietto del Clipper.» Margaret abbassò la voce. «Può essere che stia seguendo lei?» «Fino in America?» chiese Harry scettico. «Sul Clipper? Con una pistola? Per un paio di gemelli?» «Ha trovato qualche altra spiegazione?» «No.» «Comunque, forse il chiasso per Gordino contribuirà a far dimenticare l'orribile comportamento di mio padre a cena.» «Perché ha fatto quella scenata, secondo lei?» chiese incuriosito Harry. «Non lo so. Un tempo non era così. Ricordo che quando ero più giovane era molto ragionevole.» «Io ho conosciuto diversi fascisti» disse Harry. «Di solito sono persone spaventate.» «Davvero?» Margaret la giudicava un'idea sorprendente e poco plausibile. «Eppure sembrano tanto aggressivi!» «Lo so. Ma in fondo sono terrorizzati. Per questo amano marciare e sfoggiare le uniformi. Si sentono più sicuri quando fanno parte di una banda. E per questo non amano la democrazia: ci sono troppe incertezze. Sono più felici in una dittatura, dove si sa come andranno le cose e dove il go-
verno non può essere rovesciato da un giorno all'altro.» Margaret si rese conto che era un ragionamento sensato. Annuì. «Ricordo che, prima di diventare così accanito, inveiva in modo assurdo contro i comunisti, i sionisti, i sindacalisti, i feniani, la "quinta colonna"... c'era sempre qualcuno che stava per mettere in ginocchio il Paese. Ora che ci penso, non è mai stato molto probabile che i sionisti mettessero in ginocchio l'Inghilterra, vero?» Harry sorrise. «E poi i fascisti sono sempre arrabbiati. Spesso sono delusi della vita per qualche motivo.» «Questo vale anche per mio padre. Quando morì mio nonno e lui ereditò la tenuta, scoprì che era sull'orlo del fallimento. Rimase al verde finché non sposò la mamma. Poi si presentò candidato al Parlamento, ma non fu mai eletto. E adesso è stato costretto a lasciare il suo Paese.» Margaret ebbe d'un tratto la sensazione di comprendere meglio suo padre. Harry era straordinariamente acuto. «Dove ha imparato tante cose?» gli domandò. «Non è molto più vecchio di me.» Lui si strinse nelle spalle. «Battersea è un posto molto politicizzato. Credo che ci sia la più grossa sezione del partito comunista di tutta Londra.» Ora che capiva meglio i sentimenti di suo padre, Margaret si vergognava un po' meno di quanto era accaduto. Non lo giustificava, naturalmente; però era un conforto pensare che era un uomo deluso e spaventato, non un pazzo vendicativo. Harry Marks era davvero molto intelligente. Sarebbe stato utile avere il suo aiuto per fuggire. Si chiese se avrebbe desiderato rivederla dopo l'arrivo in America. «Sa già dove andrà a vivere?» gli chiese. «Credo che prenderò alloggio a New York» disse lui. «Ho un po' di denaro, e forse ne troverò ancora, molto presto.» Lo disse con molta disinvoltura. Probabilmente per gli uomini era più facile. Una donna aveva bisogno di protezione. «Nancy Lenehan mi ha offerto un lavoro» disse lei, d'impulso. «Ma forse non potrà mantenere la promessa perché il fratello sta cercando di portarle via l'azienda.» Harry la fissò, poi distolse lo sguardo con una strana espressione diffidente, come se per una volta non fosse del tutto sicuro di sé. «Sa, se vuole non mi dispiacerebbe... ecco... darle una mano.» Erano proprio le parole che lei aveva sperato di sentire. «Davvero?» Harry sembrava convinto di non poter fare molto. «Potrei aiutarla a cercare una camera.» Era un sollievo immenso. «Sarebbe meraviglioso» esclamò Margaret.
«Non ho mai cercato un alloggio, non saprei neppure come incominciare.» «Deve guardare sul giornale» disse Harry. «Il giornale? E quale?» «Uno qualunque.» «I giornali parlano di queste cose?» «Pubblicano gli annunci economici.» «Sul "Times" non ci sono annunci che offrono alloggi.» Il "Times" era l'unico giornale che suo padre acquistava. «I migliori sono quelli della sera.» Margaret si sentiva ridicola perché non sapeva neppure una cosa tanto semplice. «Ho davvero bisogno dell'aiuto di un amico.» «Penso che potrei proteggerla dall'equivalente americano di Benny il Maltese, se non altro.» «Sono così contenta» proruppe Margaret. «Prima la signora Lenehan, poi lei. So che potrò vivere da sola se avrò qualche amico. Le sono così grata che non so cosa dire.» Davy entrò nella sala comune. Margaret si rese conto che l'aereo volava senza scossoni da cinque o dieci minuti. Davy disse: «Guardate tutti dal finestrino di sinistra. Fra qualche secondo vedrete qualcosa». Margaret guardò. Harry si slacciò la cintura e si avvicinò per guardare al di sopra della sua spalla. L'aereo si inclinò verso sinistra. Dopo un momento Margaret vide che stavano sorvolando a bassa quota un grande transatlantico, illuminato come Piccadilly Circus. Qualcuno disse: «Devono aver acceso le luci apposta per noi. Da quando è stata dichiarata la guerra, viaggiano a luci spente per paura dei sommergibili». Margaret era intensamente consapevole della vicinanza di Harry, ma non le dispiaceva. L'equipaggio del Clipper doveva aver comunicato via radio con quello della nave perché i passeggeri del transatlantico erano tutti sul ponte e guardavano in alto e salutavano. Erano così vicini che Margaret vedeva com'erano vestiti: gli uomini in smoking bianco, le donne in abito lungo. La nave procedeva veloce, la prua affilata fendeva senza sforzo le onde enormi. L'aereo la superò lentamente. Erano momenti irripetibili e Margaret si sentiva incantata. Lanciò un'occhiata a Harry. Si sorrisero, accomunati dalla magia. Harry le posò la mano destra intorno alla vita nascondendola col proprio corpo in modo che gli altri non vedessero. Era un tocco leggero come una piuma, ma a lei sembrava che scottasse. La faceva sentire accaldata e confusa; tuttavia desiderava che Harry non ritirasse la mano. Dopo un po' la nave si allontanò, le luci si affievolirono e infine scomparvero. I passeggeri del
Clipper tornarono ai loro posti e Harry si scostò. Altri viaggiatori andarono a letto. Nella sala comune rimasero soltanto i giocatori, oltre a Margaret e Harry. Lei era intimidita e non sapeva cosa fare. Era così impacciata che finì per dire: «Si è fatto tardi. È meglio che andiamo a letto». Ma perché l'ho detto! pensò. Non voglio andare a dormire! Harry sembrò deluso. «Penso che andrò anch'io, fra un minuto.» La ragazza si alzò. «Grazie infinite per l'offerta di aiuto» disse. «Non c'è di che.» Perché siamo così formali? si chiese Margaret. Non voglio augurare la buonanotte in questo modo! «Dorma bene» aggiunse. «Anche lei.» Margaret si allontanò, poi si voltò. «Parlava sul serio quando ha promesso di aiutarmi, vero? Non mi abbandonerà?» Il viso di Harry si raddolcì. Le lanciò un'occhiata quasi affettuosa. «Non l'abbandonerò, Margaret. Lo prometto.» Margaret provò uno slancio di tenerezza. D'impulso, senza riflettere, si chinò e lo baciò. Fu un contatto fuggevole, ma quando le loro labbra si toccarono, un fremito elettrico di desiderio la percorse. Si raddrizzò immediatamente, stupita da ciò che aveva fatto e da ciò che provava. Per un istante si guardarono negli occhi. Poi lei lasciò la sala. Si sentiva mancare le ginocchia. Si guardò intorno e vide che il signor Membury aveva occupato la cuccetta superiore sul lato sinistro, lasciando quella inferiore per Harry. Anche Percy aveva scelto la cuccetta superiore. Margaret si infilò nell'altra e fissò la tenda. L'ho baciato, pensò. Ed è stato piacevole. Si mise sotto le coperte e spense la luce. Sembrava di essere in una tenda. Stava comoda. Poteva guardare dal finestrino, ma non c'era niente da vedere, soltanto nubi e pioggia. Comunque era emozionante. Le ricordava quando lei ed Elizabeth, da bambine, avevano avuto il permesso di montare una tenda nel giardino per dormire all'aperto nelle calde notti d'estate. Provava la sensazione di non riuscire ad addormentarsi perché era troppo eccitante: ma poi si accorgeva che era di nuovo giorno e che la cuoca veniva a bussare e portava un vassoio con il tè e il pane tostato. Si chiese dov'era Elizabeth in quel momento. E mentre se lo domandava, sentì bussare leggermente alla tenda. In un primo momento pensò di esserselo immaginato perché pensava alla cuoca. Poi il rumore si ripeté: un'unghia battuta sulla stoffa: tap, tap, tap. Esitò. Poi si sollevò, si appoggiò su un gomito e si tirò il lenzuolo fino al
mento. Tap, tap, tap. Socchiuse appena la tenda e vide Harry. «Cosa c'è?» sussurrò, anche se credeva di saperlo. «Voglio baciarti ancora» mormorò lui. Margaret era compiaciuta e inorridita al tempo stesso. «Non dire sciocchezze!» «Ti prego.» «Vai via!» «Non ci vedrà nessuno.» Era una richiesta scandalosa, ma la tentazione era forte. Ricordava il fremito elettrizzante del primo bacio e ne desiderava un altro. Quasi involontariamente, aprì un po' di più la tenda. Harry infilò dentro la testa e la guardò implorante. Era irresistibile. Margaret lo baciò: profumava di dentifricio. Intendeva dargli un bacio veloce come l'altro, ma Harry non la pensava così. Le mordicchiò il labbro inferiore. Era così eccitante che Margaret d'istinto socchiuse un po' la bocca, e sentì la sua lingua sfiorarle le labbra. Ian non l'aveva mai fatto. Era una sensazione strana, ma piacevole. Pensando di essere molto depravata, Margaret a sua volta sporse la lingua. Il respiro di Harry divenne ansimante. All'improvviso, Percy si mosse nella cuccetta sopra di lei, ricordandole dov'era. Margaret si spaventò: come poteva fare una cosa simile? Stava baciando in pubblico un uomo che conosceva appena! Se suo padre l'avesse scoperto, sarebbe successo un finimondo. Si scostò, ansando. Harry si allungò ancora di più con la testa per baciarla di nuovo, ma lei lo respinse. «Lasciami entrare» le sussurrò lui. «Non dire stupidaggini!» protestò Margaret. «Ti prego.» Era impossibile. L'idea non la tentava neppure: era troppo spaventata. «No, no, no» rispose. Harry la guardò deluso. Lei si raddolcì. «Sei l'uomo più simpatico che abbia incontrato da molto tempo, forse il più simpatico in assoluto. Ma non fino a questo punto. Vai a letto.» Harry capì che diceva sul serio e le rivolse un sorriso malinconico. Sembrava sul punto di dire qualcosa, però Margaret chiuse la tenda senza dargliene il tempo. Rimase in ascolto ed ebbe l'impressione di udire i passi che si allontana-
vano. Spense la luce e si riadagiò, ma il suo respiro non tornava normale. Oh, mio Dio, pensò. È stato un sogno. Sorrise nell'oscurità rivivendo il bacio. Avrebbe desiderato continuare e mentre ci pensava cominciò ad accarezzarsi dolcemente. Ricordava la sua prima amante, Monica, una cugina venuta a passare l'estate con loro quando lei aveva tredici anni. Monica ne aveva sedici, era bionda e carina e sembrava sapesse tutto. Margaret l'aveva adorata fin dal primo momento. Abitava in Francia, e forse per questo o forse solo perché i suoi genitori erano più permissivi, Monica andava in giro nuda con disinvoltura nelle stanze da letto e nel bagno dell'ala dei bambini. Margaret non aveva mai visto un adulto nudo, ed era rimasta affascinata dal seno di Monica e dal ciuffo di peli color miele che aveva fra le gambe. A quell'età lei aveva soltanto un accenno di seno e una leggera peluria. Ma Monica aveva sedotto prima Elizabeth: la brutta, prepotente Elizabeth con i foruncoli sul mento! Margaret le aveva udite mormorare e baciarsi durante la notte e aveva provato di volta in volta sbalordimento, collera, gelosia, invidia. Si era accorta che Monica si era affezionata moltissimo a Elizabeth. E si era sentita offesa ed esclusa dalle occhiate che si scambiavano e dal modo apparentemente casuale con cui si toccavano le mani quando passeggiavano nel bosco o prendevano il tè. Poi, un giorno che Elizabeth era a Londra con la mamma, Margaret era entrata in bagno mentre c'era Monica. Era distesa nell'acqua calda a occhi chiusi e si toccava fra le gambe. Aveva udito Margaret ma, guardandola con gli occhi semichiusi, aveva continuato; e lei era rimasta immobile a osservarla, impaurita e affascinata, mentre si masturbava fino all'orgasmo. Quella notte Monica era andata nel letto di Margaret anziché in quello di Elizabeth; ma Elizabeth aveva fatto una scenata e aveva minacciato di raccontare tutto, e alla fine si erano divise Monica, come la moglie e l'amante in un classico triangolo. Margaret si era sentita in colpa per tutta l'estate, ma l'affetto intenso e il piacere fisico appena scoperto erano troppo meravigliosi per rinunciarvi. Tutto era finito solo quando Monica era tornata in Francia, a settembre. Dopo Monica, andare a letto con Ian era stato uno shock. Lui era goffo e impacciato. Margaret aveva capito che un ragazzo come Ian non sapeva quasi nulla del corpo femminile, perciò non poteva darle il piacere come aveva fatto Monica. Ma presto aveva superato la delusione iniziale; e Ian
l'amava così disperatamente da compensare l'inesperienza con la passione. Come sempre, il pensiero di Ian le fece salire le lacrime agli occhi. Rimpianse profondamente di non aver fatto l'amore con lui più spesso e con più slancio. All'inizio aveva opposto molta resistenza, sebbene lo desiderasse quanto lui; e Ian l'aveva supplicata per mesi finché si era decisa. Dopo la prima volta, anche se desiderava farlo di nuovo, aveva creato mille difficoltà. Non aveva voluto far l'amore nella sua camera da letto per timore che qualcuno trovasse la porta chiusa a chiave e si chiedesse perché; all'aperto non osava, sebbene conoscesse molti nascondigli nei boschi intorno alla casa; e non accettava l'idea di usare gli appartamenti degli amici di Ian per non rovinarsi la reputazione. Alla base di tutto c'era il terrore di ciò che poteva fare suo padre se l'avesse scoperto. Dilaniata tra il desiderio e la paura, Margaret aveva sempre fatto l'amore furtivamente, in fretta e con un senso di colpa. C'erano riusciti tre sole volte prima che Ian partisse per la Spagna. Naturalmente, lei aveva immaginato che avessero davanti a loro tutto il tempo che volevano. Poi Ian era morto, e con quella notizia era venuta la paurosa constatazione che non l'avrebbe più toccato, mai più; e aveva pianto tanto da temere che le scoppiasse il cuore. Margaret era convinta che avrebbero passato la vita imparando a darsi reciprocamente la felicità. Invece non l'aveva più visto. Adesso rimpiangeva di non essersi data liberamente a lui fin dall'inizio, di non aver fatto l'amore ogni volta che se ne presentava l'occasione. Le sue paure sembravano così banali, ora che lui era sepolto su una polverosa collina della Catalogna. E all'improvviso pensò che forse stava per ripetere lo stesso errore. Voleva Harry Marks. Il suo corpo lo desiderava ardentemente. Era l'unico uomo che le avesse suscitato quelle sensazioni dal tempo di Ian. Ma l'aveva respinto. Perché? Perché aveva paura. Perché era su un aereo e le cuccette erano piccole e qualcuno poteva sentire, e suo padre era così vicino, e aveva il terrore che la scoprisse. Ancora quella sua stupida vigliaccheria? E se l'aereo fosse precipitato? si chiese. In fondo, era un volo pionieristico. In quel momento erano a metà strada fra l'Europa e l'America, a centinaia di chilometri dalla terraferma in qualsiasi direzione: se fosse successo qualcosa, sarebbero morti tutti in pochi minuti. E il suo ultimo pensiero sarebbe stato il rimpianto di non aver fatto l'amore con Harry Marks. L'aereo non sarebbe precipitato; ma poteva darsi ugualmente che quella fosse la sua ultima occasione. Non sapeva cosa sarebbe accaduto una volta
arrivati in America. Voleva arruolarsi al più presto possibile, e Harry aveva parlato di diventare pilota dell'aeronautica militare canadese. Forse sarebbe morto in combattimento, come Ian. Cosa contava la sua reputazione, che peso poteva avere la collera di suo padre, quando la vita era tanto breve? Adesso era quasi pentita di non aver lasciato entrare Harry. Lui avrebbe ritentato? Certamente no. Il suo rifiuto era stato molto deciso. Un ragazzo che ignorava un rifiuto come quello doveva essere una vera peste. Harry si era comportato con lusinghiera insistenza, ma senza esagerare. Per quella notte non gliel'avrebbe più chiesto. Come sono sciocca, pensò Margaret. Potrebbe essere qui con me: dovevo solo dire di sì. Si abbracciò immaginando che fosse Harry ad abbracciarla. Con il pensiero, allungò la mano e gli accarezzò il fianco nudo. Doveva avere il pelo biondo sulle cosce, si disse. Decise di alzarsi per andare alla toilette delle signore. Se aveva fortuna, Harry si sarebbe alzato nello stesso momento, o forse avrebbe chiamato lo steward per farsi portare un drink o per qualche altra ragione. Infilò le braccia nelle maniche della vestaglia, aprì la tenda e si sollevò a sedere. La tenda di Harry era chiusa. Margaret si infilò le pantofole e si alzò. Quasi tutti erano andati a letto. Sbirciò nella cambusa: era deserta. Anche gli steward avevano bisogno di dormire. Probabilmente si riposavano nel primo scompartimento, assieme ai membri dell'equipaggio fuori servizio. Si incamminò nella direzione opposta e attraversò la sala comune. Gli irriducibili, tutti uomini, stavano ancora giocando a poker. Sul tavolo c'era una bottiglia di whisky, e si servivano da soli. Margaret proseguì, barcollando per gli sbandamenti dell'aereo. Verso la coda il pavimento saliva, e c'erano gradini fra uno scompartimento e l'altro. Due o tre persone leggevano con le tende aperte, ma quasi tutte le cuccette erano chiuse e silenziose. Lo spogliatoio delle signore era vuoto. Margaret si sedette davanti allo specchio e si guardò. Le sembrava strano che un uomo la trovasse desiderabile. Aveva un viso piuttosto comune, colorito molto pallido, e gli occhi di un verde bizzarro. I capelli erano l'unica cosa davvero bella, lunghi e lisci, del colore splendente del bronzo. Spesso gli uomini li notavano. Cosa avrebbe pensato Harry del suo corpo, se l'avesse lasciato entrare nella cuccetta? Forse i seni grossi l'avrebbero disgustato, gli avrebbero ricordato la maternità o le poppe delle mucche o qualcosa del genere. Aveva sentito dire che agli uomini piacevano i seni piccoli, ben modellati, simili a coppe da champagne. Ma uno dei miei non ci starebbe proprio in una cop-
pa da champagne, pensò malinconica. Le sarebbe piaciuto essere minuta e aggraziata come le modelle di "Vogue"; invece sembrava una ballerina spagnola. Ogni volta che si metteva un abito da sera era costretta a portare il busto, altrimenti il seno ondeggiava incontrollabilmente. Ma Ian aveva amato il suo corpo. Diceva che le modelle sembravano bambole. «Tu sei un vera donna» le aveva dichiarato un pomeriggio, in un momento rubato nella vecchia ala della nursery mentre le baciava il collo e le accarezzava i seni sotto il maglione di cashmere. Allora anche a lei erano piaciuti. L'aereo entrò in una zona di turbolenza e lei dovette aggrapparsi al bordo del tavolo per non essere sbalzata dallo sgabello. Prima di morire, pensò morbosamente, mi piacerebbe che qualcuno mi accarezzasse ancora il seno. Quando l'aereo si riportò in assetto normale, tornò nel suo scompartimento. Tutte le cuccette erano chiuse. Indugiò per un momento, nella speranza che Harry aprisse la tenda: ma lui non lo fece. Guardò il corridoio, per tutta la lunghezza dell'aereo. Non c'era nessuno. Era stata pavida per tutta la vita. Ma non aveva mai desiderato qualcosa tanto intensamente. Scosse la tenda della cuccetta di Harry. Per un momento non accadde nulla. Margaret non aveva un piano; non sapeva cosa avrebbe detto o fatto. Dall'interno non giungeva il minimo rumore. Scosse di nuovo la tenda. Dopo un attimo Harry si affacciò. Si guardarono in silenzio, lui sorpreso, lei intimidita. Poi Margaret udì un rumore dietro di sé. Girò la testa e vide la tenda muoversi. Una mano la afferrò dall'interno. Molto probabilmente suo padre stava per alzarsi e andare in bagno. Senza riflettere, Margaret spinse indietro Harry e si infilò nel letto con lui. Nell'attimo in cui chiudeva la tenda, scorse suo padre uscire dalla cuccetta. Per un vero miracolo non l'aveva vista, grazie a Dio! Si inginocchiò in fondo alla cuccetta e guardò Harry. Stava seduto all'estremità opposta con le ginocchia sotto il mento e la fissava nella luce fioca che filtrava da fuori. Sembrava un bambino che ha visto Babbo Natale scendere dal camino: non riusciva a credere a tanta fortuna. Aprì la bocca per parlare e Margaret lo zittì posandogli l'indice sulle labbra. All'inizio ricordò di aver lasciato le pantofole sul pavimento.
Erano ricamate con le sue iniziali, chiunque poteva capire a chi appartenevano, e adesso erano accanto a quelle di Harry, proprio come le scarpe davanti alla porta di una camera d'albergo. Tutti si sarebbero accorti che era andata a dormire con lui. Erano trascorsi solo un paio di secondi. Margaret sbirciò fuori. Suo padre stava scendendo la scaletta e le voltava le spalle. Si sporse e allungò il braccio. Se lui si fosse girato in quel momento, sarebbe stata spacciata. Cercò a tentoni le pantofole e le trovò. Le raccolse nell'attimo in cui suo padre posava i piedi scalzi sulla moquette. Le tirò fulminea all'interno e chiuse la tenda una frazione di secondo prima che lui si girasse. Doveva essere spaventata; invece era eccitata. Non aveva le idee molto chiare su ciò che voleva veramente. Sapeva solo che voleva stare con Harry. La prospettiva di passare la notte nella sua cuccetta a desiderare che Harry fosse con lei era intollerabile. Ma non intendeva darsi a lui. Le sarebbe piaciuto... le sarebbe piaciuto moltissimo... ma c'era una quantità di problemi pratici, non ultimo il signor Membury che dormiva poche decine di centimetri sopra di loro. Dopo un istante si accorse che, diversamente da lei, Harry sapeva bene cosa voleva. Si sporse verso di lei, le passò la mano dietro la testa, l'attirò vicina e la baciò. Margaret ebbe solo un attimo d'esitazione, poi rinunciò a ogni proposito di resistenza e si abbandonò alle sensazioni. Ci aveva pensato così a lungo che le sembrava di far l'amore con lui da ore. Adesso però era vero; c'era una mano forte sul suo collo, una bocca la baciava, una persona in carne e ossa mescolava il proprio respiro al suo. Fu un bacio lento e tenero, delicato e incerto, e Margaret era consapevole di ogni piccolo dettaglio: le dita di lui che si muovevano fra i suoi capelli, il mento ruvido di barba, il suo alito caldo sulla guancia, la sua bocca che si muoveva, i suoi denti che le mordicchiavano le labbra e finalmente la sua lingua che la cercava. Cedette a un impulso irresistibile e aprì la bocca. Dopo un momento si staccarono ansimanti. Lo sguardo di Harry si posò sul suo seno. Margaret abbassò gli occhi; vide che la vestaglia si era aperta e i capezzoli premevano contro il cotone della camicia da notte. Harry sembrava ipnotizzato. Si mosse lentamente, tese una mano e le sfiorò il seno sinistro con le dita, accarezzò la punta sensibile attraverso la stoffa strappandole un gemito di piacere. Gli indumenti che aveva addosso le sembrarono all'improvviso insop-
portabili. Si tolse in fretta la vestaglia, strinse l'orlo della camicia... ed esitò. Una voce ammonitrice le echeggiava nella mente: "Dopo non potrai tornare indietro!». Margaret pensò: "Meglio!". Si sfilò la camicia dalla testa e si inginocchiò davanti a lui, nuda. Si sentiva vulnerabile e timorosa, ma l'ansia ingigantì l'eccitazione. Lo sguardo di Harry vagava sul suo corpo e Margaret vi lesse adorazione e desiderio. Contorcendosi nello spazio limitato, lui si mise in ginocchio e si sporse, abbassando la testa verso il seno di Margaret. Incerta, lei si chiese cosa intendeva fare. Le sfiorò i seni con le labbra, prima uno poi l'altro; Margaret sentì la mano di lui sotto il seno sinistro: prima accarezzò, poi soppesò e infine strinse delicatamente. Le labbra scesero fino al capezzolo e mordicchiarono con dolcezza. Il capezzolo era turgido da scoppiare. Harry incominciò a succhiare e Margaret gemette di piacere. Dopo un po' desiderò che le succhiasse l'altro, però era troppo timida per chiederlo. Ma lui forse intuì quel desiderio perché un momento più tardi lo esaudì. Lei gli accarezzò i capelli sulla nuca poi, cedendo all'impulso, gli premette la testa contro il seno. Per reazione, Harry succhiò più forte. Margaret desiderò esplorare il suo corpo, e quando lui si fermò lo scostò e gli sbottonò la giacca del pigiama. Avevano il respiro affannoso come se stessero correndo, ma non parlavano nel timore che qualcuno li udisse. Harry si liberò della giacca. Non aveva peli sul petto. Margaret lo voleva tutto nudo, come era nuda lei. Trovò il cordoncino dei pantaloni e, sentendosi molto audace, sciolse il nodo. Harry esitava, un po' sorpreso, e questo le dava l'impressione sgradevole di essere più sfacciata delle ragazze che lui aveva conosciuto finora. Ma sentiva che doveva finire quello che aveva cominciato. Lo spinse all'indietro fino a farlo stendere con la testa sul cuscino, poi afferrò i pantaloni per la cintura e tirò. Harry alzò i fianchi. C'era un ciuffetto di pelo biondo scuro alla base del ventre. Margaret abbassò ancora di più i pantaloni di cotone rosso e soffocò un'esclamazione quando il pene si erse, libero e diritto come l'asta d'una bandiera. Lo fissò, affascinata. La pelle era tesa sulle vene e la punta era gonfia e turgida. Harry stava immobile, come se capisse che era ciò che lei voleva; ma il fatto che lei lo guardasse sembrava eccitarlo, e il suo respiro divenne rauco. La curiosità e forse un insieme di altri impulsi la spinsero a toccarlo; la sua mano era attratta irresistibilmente. Quando intuì cosa stava per fare, Harry gemette. All'ultimo istante Margaret esitò. La mano bianca aleggiò accanto al pene scuro, e Harry emise un lamento sommesso. Allora, con un
sospiro, Margaret lo afferrò, strinse le dita sottili intorno all'asta robusta. La pelle era calda e morbida; ma quando lo strinse leggermente, strappando a Harry un'esclamazione soffocata, si accorse che sotto era duro come un osso. Guardò Harry: aveva il viso in fiamme e ansimava. Margaret desiderava dargli piacere con tutta se stessa. Spostò la presa e cominciò a massaggiare il pene con un movimento che aveva imparato da Ian: strinse con fermezza per spingere verso il basso, poi allentò la stretta per il movimento verso l'alto. L'effetto la sorprese. Harry gemette, strinse gli occhi e premette le ginocchia fra loro. Poi, quando lei spinse verso il basso per la seconda volta, sussultò convulsamente e contrasse il viso in una smorfia. Dalla punta del pene spruzzò lo sperma bianco. Sorpresa e ipnotizzata, Margaret continuò il movimento. A ogni pressione verso il basso, altro sperma fiottava. Era pervasa dal desiderio; si sentiva i seni pesanti, la gola arida, e qualcosa di umido le colava all'interno delle gambe. Poi, dopo qualche movimento, tutto finì. Le cosce di Harry si rilassarono, il volto ritornò disteso, la testa si girò abbandonandosi sul cuscino. Margaret si sdraiò accanto a lui. Harry sembrava vergognarsi. «Scusami» mormorò. «Non devi scusarti!» rispose Margaret. «È stato straordinario. Non l'avevo mai fatto. È una sensazione meravigliosa.» Lui sembrava sorpreso. «Ti è piaciuto?» Margaret era troppo intimidita per dire apertamente: sì, perciò si limitò ad annuire. «Ma io non ho... voglio dire, tu non hai...» balbettò lui. Margaret non disse nulla. C'era qualcosa che poteva fare per lei, ma non osava chiederlo. Harry si girò su un fianco. Adesso erano faccia a faccia sulla stretta cuccetta. «Forse fra qualche minuto...» disse Harry. Non posso aspettare qualche minuto, pensò lei. Perché non dovrei chiedergli di fare per me quello che io ho fatto per lui? Gli cercò la mano, la strinse. Non riusciva a dirgli cosa voleva. Chiuse gli occhi, gli guidò la mano verso l'inguine. Gli accostò la bocca all'orecchio e sussurrò: «Fai piano». Harry comprese. Mosse la mano esplorandola. Margaret era tutta bagnata, e le insinuò facilmente le dita nel sesso. Lei gli cinse il collo con le braccia e strinse. Quando Harry mosse il dito dentro di lei avrebbe voluto dirgli: Non lì, più in alto! Come se le leggesse nel pensiero, lui ritrasse il
dito e lo spostò sul punto più sensibile. Margaret si sentì trafiggere. Il suo corpo era squassato da sussulti di piacere. Rabbrividì convulsamente e per impedirsi di gridare gli affondò i denti nel braccio e morse. Lui si fermò di colpo, Margaret si strusciò contro la sua mano e le sensazioni continuarono, inalterate. Quando finalmente il piacere si placò, Harry riprese a muovere il dito e Margaret fu scossa da un altro orgasmo intenso quanto il primo. Alla fine il punto delicato diventò troppo sensibile, e lei respinse la mano. Dopo un momento Harry si staccò e si massaggiò il braccio morsicato. Senza fiato, Margaret ansimò: «Scusami... ti ho fatto male?». «Sì, un male dell'accidente» mormorò lui. Ridacchiarono. Si sforzarono di non ridere forte, ma fu anche peggio. Per un paio di minuti si abbandonarono all'ilarità repressa. Quando si furono calmati, Harry disse: «Hai un corpo meraviglioso... meraviglioso». «Anche tu» rispose lei con fervore. Harry non le credette. «No, io dico sul serio.» «Anch'io!» Margaret non avrebbe mai dimenticato il pene gonfio che si ergeva dal ciuffo di pelo dorato. Gli passò la mano sull'inguine per cercarlo, e lo trovò reclinato sulla coscia, né rigido né raggrinzito. La pelle era serica. Provò l'impulso di baciarlo, e inorridì al pensiero di essere tanto depravata. Invece gli baciò il braccio dove lo aveva morso. I segni dei denti si vedevano perfino nella semioscurità. Sarebbe rimasto un livido vistoso. «Scusami» sussurrò a voce così bassa che lui non udì. Le dispiaceva di aver danneggiato quel corpo perfetto dopo che le aveva dato tanto piacere. Erano sfiniti dal piacere e scivolarono in un sonno leggero. Margaret ebbe l'impressione di continuare a udire il rombo dei motori, come se sognasse aerei. A un certo momento udì un rumore di passi che si allontanavano e tornavano dopo pochi minuti, ma era troppo stordita per provare curiosità. Per un po' il movimento dell'aereo continuò senza scossoni, e Margaret cadde in un sonno profondo. Si svegliò di soprassalto. Era giorno? Gli altri si erano già alzati? L'avrebbero vista tutti scendere dalla cuccetta di Harry? Il cuore le batteva forte. «Cosa c'è?» mormorò lui.
«Che ore sono?» «È notte fonda.» Era vero. Fuori non c'era nessun movimento, le luci della cabina erano abbassate, e dal finestrino non si vedevano i segni del giorno imminente. Margaret poteva sgattaiolare via senza pericolo. «Devo tornare nella mia cuccetta, subito, prima che ci scoprano» disse ansiosa. Cominciò a cercare le pantofole e non le trovò. Harry le mise una mano sulla spalla. «Calmati» bisbigliò. «Abbiamo molte ore davanti.» «Ma ho paura che mio padre...» si interruppe. Perché era tanto preoccupata? Respirò profondamente e guardò Harry. Quando i loro occhi si incontrarono nella semioscurità, ricordò quello che era accaduto prima che si addormentassero e capì che lui stava pensando la stessa cosa. Sorrisero, un sorriso complice e intimo, da amanti. Adesso Margaret non era più preoccupata. Non era necessario che se ne andasse subito. Voleva restare, quindi sarebbe rimasta. C'era tutto il tempo. Harry si mosse contro di lei, e Margaret sentì che il pene si ergeva. «Non andare via subito» le sussurrò. Margaret sospirò felice. «Non subito» mormorò, e cominciò a baciarlo. 18 Eddie Deakin faceva sforzi sovrumani per dominarsi, ma era come una pentola in ebollizione con il coperchio bloccato, un vulcano che sta per esplodere. Sudava, aveva mal di stomaco e non riusciva a stare fermo. A stento sbrigava il suo lavoro. Doveva smontare di servizio alle due del mattino, ora britannica. Verso la fine del suo turno falsificò un'altra serie di dati del carburante. In precedenza aveva segnato un consumo inferiore per dare l'impressione che c'era carburante a sufficienza per completare il volo, in modo che il comandante non tornasse indietro. Adesso, per compensare, segnò un consumo eccessivo. Quando Mickey Finn, il suo sostituto, avesse preso servizio e controllato i contatori, non avrebbe trovato discrepanze. La "Curva Comevà" avrebbe mostrato una fluttuazione pazzesca nel consumo, e Mickey si sarebbe chiesto il perché; ma Eddie avrebbe spiegato che era per le pessime condizioni atmosferiche. Comunque, Mickey era l'ultima delle sue preoccupazioni. L'ansia più grande, l'angoscia che gli stringeva il cuore in una gelida morsa di paura, era l'eventualità che l'aereo restasse senza carburan-
te prima di raggiungere Terranova. Non c'era la riserva minima prevista dal regolamento. I regolamenti, naturalmente, lasciavano un margine di sicurezza; ma i margini di sicurezza avevano una ragione di esistere. Adesso non c'era più una riserva di carburante per affrontare emergenze come un'avaria a un motore. Se qualcosa fosse andato storto, il Clipper, sarebbe piombato nell'Atlantico in tempesta. Non poteva ammarare in mezzo all'oceano: sarebbe andato a picco in pochi minuti. E non ci sarebbero stati superstiti. Mickey salì sul ponte di comando qualche minuto prima delle due. Era riposato, giovane, scrupoloso. «Siamo a corto di carburante» annunciò subito Eddie. «Ho avvertito il comandante.» Mickey annuì senza sbilanciarsi e prese la torcia elettrica. Il suo primo compito, quando dava il cambio, era un'ispezione dei quattro motori. Eddie lo lasciò e scese al ponte passeggeri. Il secondo pilota, Johnny Dott, l'ufficiale di rotta Jack Ashford, e il marconista Ben Thompson lo seguirono mentre arrivava il cambio. Jack andò in cambusa a prepararsi un panino. La sola idea di mangiare dava la nausea a Eddie. Prese una tazza di caffè e andò a sedersi nel primo scompartimento. Quando non lavorava nulla riusciva a distogliere la sua mente dal pensiero di Carol-Ann nelle mani dei rapitori. Nel Maine, in quel momento, erano le nove passate da poco. Doveva essere buio, e Carol-Ann era a dir poco sfinita e demoralizzata. Da quando era incinta, tendeva ad addormentarsi molto prima del solito. Le avrebbero dato qualcosa su cui sdraiarsi? Quella notte non avrebbe certo dormito, ma forse poteva riposare. Eddie sperava con tutta l'anima che a quei delinquenti non venisse qualche idea... Il caffè non era ancora diventato freddo quando la tempesta investì l'aereo con violenza. Il volo era tormentato già da diverse ore; ma adesso peggiorò di molto. Era come trovarsi su una nave nel mare in burrasca. Simile a una nave in balia delle onde, l'enorme idrovolante si sollevava lentamente e poi si abbassava di colpo, batteva il ventre con un tonfo e risaliva, rollando e beccheggiando in balia dei venti. Eddie si sedette su una cuccetta e sì puntellò con i piedi contro l'angolo. I passeggeri cominciarono a svegliarsi, a suonare chiamando gli steward e a precipitarsi in bagno. I due steward, Nicky e Davy, che sonnecchiavano nel primo scompartimento assieme ai membri dell'equipaggio fuori servizio, si abbottonarono i colletti, indossarono le giacche, e corsero a rispondere alle chiamate.
Dopo un po' Eddie andò in cambusa a prendere altro caffè. In quel momento la porta della toilette degli uomini si aprì e ne uscì Tom Luther, pallido e sudato. Eddie lo squadrò con disprezzo. Provò l'impulso di afferrarlo per la gola, ma si trattenne. «È normale?» chiese Luther in tono impaurito. Eddie non era disposto a mostrare comprensione. «No, non lo è» rispose. «Dovevamo aggirare la tempesta, ma non abbiamo abbastanza carburante.» «Perché?» «Perché sta per finire.» Luther non nascondeva la paura. «Ma avevi detto che avreste invertito la rotta prima del punto di non-ritorno!» Eddie era più preoccupato di lui, ma provava una rabbiosa soddisfazione nel vederlo così stravolto. «Certo, saremmo tornati indietro, ma io ho falsificato i dati. Ho un motivo personale per voler completare il volo in orario, ricordi?» «Sei pazzo!» esclamò disperato Luther. «Stai cercando di ammazzarci tutti?» «Preferisco correre il rischio di ammazzarti, piuttosto che lasciare mia moglie nelle mani dei tuoi compari!» «Ma se moriamo tutti, a tua moglie non servirà!» «Lo so.» Eddie capì in quel momento di correre un rischio tremendo, ma non sopportava l'idea di lasciare per un altro giorno Carol-Ann con i sequestratori. «Forse è vero, forse sono pazzo» disse. Luther era verde. «Ma questo aereo può atterrare in mare, giusto?» «Sbagliato. Possiamo ammarare soltanto su acque calme. Se scendessimo in mezzo all'Atlantico con questa tempesta, l'aereo andrebbe a pezzi in pochi secondi.» «Oh, Dio» gemette Luther. «Non dovevo salire a bordo.» «Non dovevi fare del male a mia moglie, delinquente» replicò Eddie a denti stretti. L'aereo sobbalzò violentemente. Luther si voltò e rientrò vacillando nel bagno. Eddie attraversò il secondo scompartimento ed entrò nella sala comune. I giocatori erano ai loro posti, legati con le cinture di sicurezza. Bicchieri, carte e una bottiglia rotolavano per terra mentre l'aereo sbandava e sussultava. Eddie guardò nel corridoio. Dopo i primi momenti di panico, i passeggeri si stavano calmando. Molti erano tornati nelle cuccette e si erano
legati con le cinture di sicurezza perché si rendevano conto che era il sistema migliore per affrontare la tempesta. Erano sdraiati con le tende aperte, alcuni serenamente rassegnati al disagio, altri con l'aria terrorizzata. Tutti gli oggetti che non erano legati erano rotolati sul pavimento e la moquette era invasa da libri, occhiali, vestaglie, dentiere, monete, gemelli, le varie cose che di notte la gente tiene accanto al letto. Tutti quei personaggi ricchi e affascinanti apparivano molto umani, adesso: Eddie provò qualche fitta di rimorso al pensiero che correvano il rischio di morire per colpa sua. Tornò a sedersi e agganciò la cintura. Ormai non poteva far nulla per rimediare al consumo del carburante; il solo modo per aiutare Carol-Ann era far sì che l'ammaraggio d'emergenza avvenisse secondo i piani. Mentre l'aereo volava sobbalzando nella notte, Eddie cercò di dominare la rabbia e riesaminò il suo copione. Sarebbe stato in servizio alla partenza da Shediac, l'ultimo scalo prima di New York. Avrebbe cominciato immediatamente a scaricare il carburante. I contatori, ovviamente, lo avrebbero rivelato. Mickey Finn avrebbe forse notato la perdita, se per una qualunque ragione fosse salito sul ponte di comando; ma ventiquattr'ore dopo la partenza da Southampton il personale fuori servizio pensava soltanto a dormire. E non era probabile che qualcun altro controllasse i contatori, soprattutto nel breve tratto in cui il consumo di carburante non aveva più un'importanza decisiva. Gli ripugnava l'idea di ingannare i colleghi; per un momento la rabbia lo riassalì. Strinse i pugni, ma non c'era nulla da colpire. Cercò di concentrarsi sul suo piano. Mentre l'aereo si avvicinava al punto in cui Luther voleva che ammarassero, Eddie avrebbe scaricato altro carburante, facendo calcoli scrupolosi perché fosse quasi esaurito una volta giunti sull'area stabilita. Quindi avrebbe annunciato al capitano che il carburante era finito e bisognava ammarare. Doveva controllare con molta cura la rotta. Non seguivano ogni volta esattamente lo stesso percorso: la navigazione aerea non era precisa fino a quel punto. Tuttavia Luther aveva scelto con intelligenza la località dell'incontro. Era senza dubbio il posto migliore per un ammaraggio entro un raggio molto ampio; quindi, anche se fossero stati fuori rotta di qualche chilometro, in caso d'emergenza il comandante si sarebbe diretto proprio là. Se ce ne fosse stato il tempo, il comandante avrebbe chiesto rabbiosamente come mai Eddie non si era accorto della gravissima perdita di carburante prima che diventasse pericolosa. Eddie avrebbe dovuto rispondere
che forse tutti i contatori si erano bloccati: un'eventualità inverosimile. Strinse i denti. I colleghi contavano che svolgesse scrupolosamente il compito cruciale di sorvegliare il consumo di carburante dell'aereo. Mettevano la vita nelle sue mani. Avrebbero capito che li aveva lasciati al loro destino. Una lancia veloce avrebbe atteso nell'area dell'ammaraggio e si sarebbe accostata al Clipper. Il comandante avrebbe creduto che venissero ad aiutarli. Forse li avrebbe invitati a salire a bordo; ma se questo non fosse avvenuto, Eddie avrebbe aperto il portello. Allora i gangster avrebbero sopraffatto Ollis Field, l'agente dell'FBI, e liberato Frankie Gordino. Dovevano agire in fretta. Il marconista avrebbe lanciato un SOS prima che l'aereo toccasse l'acqua, e il Clipper era abbastanza grosso da essere visibile da una certa distanza, quindi molto presto si sarebbero avvicinate altre imbarcazioni. C'era addirittura la possibilità che la Guardia Costiera intervenisse con tanta prontezza da interferire con l'operazione. Per la banda di Luther sarebbe stato un disastro, pensò Eddie, e per un momento sentì rinascere la speranza. Poi ricordò che era nel suo interesse che la missione di Luther fosse coronata da successo. Non riusciva ad abituarsi a desiderare che quei delinquenti realizzassero il loro obiettivo. Continuava a lambiccarsi il cervello alla ricerca di un modo per sventare il piano criminale, ma c'era sempre lo stesso problema: Carol-Ann. Se Luther non fosse riuscito a portare via Gordino, Eddie non avrebbe riavuto sua moglie. Aveva cercato di escogitare qualche sistema perché Gordino venisse preso ventiquattr'ore più tardi, quando Carol-Ann fosse stata in salvo. Ma era impossibile. A quell'ora Gordino sarebbe stato molto lontano. L'unica alternativa era convincere Luther a consegnare prima Carol-Ann, ma era troppo furbo per accettare. Purtroppo Eddie non aveva in mano nulla per ricattare Luther. Luther aveva Carol-Ann, mentre lui aveva... Be', pensò all'improvviso, io ho Gordino. Un momento. Loro hanno preso Carol-Ann e io non potrò riaverla se non collaboro. Ma Gordino è a bordo dell'aereo, e non potranno riprenderlo se non collaborano con me. Forse le carte non sono tutte in mano loro. Si chiese se c'era un modo per prendere l'iniziativa e dominare la situazione. Fissò la parete di fronte senza vederla, immerso nei suoi pensieri. Sì, un modo c'era.
Perché dovevano avere prima Gordino? Uno scambio di ostaggi doveva essere simultaneo. Eddie cercò di frenare la speranza e si impose di ragionare freddamente. Come si sarebbe svolto lo scambio? Dovevano portare Carol-Ann fino al Clipper con la lancia che avrebbe condotto via Gordino. Perché no? Perché no, che diavolo? Si chiese affannosamente se era possibile combinare tutto in tempo. Aveva calcolato che Carol-Ann doveva trovarsi a non più di cento, centodieci chilometri dalla loro casa, e la casa era a un centinaio di chilometri dal punto dell'ammaraggio d'emergenza. Nel peggiore dei casi, si trovava a quattro ore di macchina. Era troppo lontano? E se Tom Luther avesse accettato? La prima occasione per comunicare con il suo complice l'avrebbe avuta al prossimo scalo, Botwood, dove il Clipper sarebbe arrivato alle nove del mattino, ora britannica. Poi l'idrovolante avrebbe proseguito per Shediac. L'ammaraggio fuori programma avrebbe avuto luogo un'ora prima dell'arrivo a Shediac, verso le quattro del pomeriggio, ora britannica, cioè sette ore più tardi. La banda poteva condurre sul posto Carol-Ann con un paio d'ore di anticipo. Eddie stentava a dominare l'eccitazione mentre contemplava la prospettiva di riavere Carol-Ann prima del previsto. Inoltre, questo poteva dargli la possibilità, per quanto remota, di fare qualcosa per danneggiare la missione di Luther. Così si sarebbe riscattato agli occhi dei colleghi. Gli avrebbero perdonato il tradimento se l'avessero visto catturare una banda di gangster assassini. Ancora una volta si disse che non doveva sperare troppo. Era soltanto un'idea. Probabilmente Luther non avrebbe accettato. Eddie poteva minacciare di non far ammarare l'aereo se non accoglievano le sue condizioni; ma forse l'avrebbero vista come una minaccia vana. Sapevano che era disposto a tutto per salvare la moglie, e avevano ragione. Loro, in fondo, cercavano solo di recuperare un complice. Eddie era più disperato, e questo lo rendeva più debole. Ancora una volta fu sopraffatto dall'angoscia. Comunque avrebbe creato un problema a Luther, gli avrebbe fatto sorgere un dubbio, una preoccupazione. Luther poteva anche non credere alla sua minaccia, ma come faceva a essere sicuro? Ci voleva molto fegato per dire a Eddie che bluffava; e Luther non era coraggioso, per lo meno non in quel momento. E comunque, si chiese, cos'ho da perdere? Doveva tentare.
Si alzò dalla cuccetta. Pensò che forse doveva preparare con cura il dialogo, studiare le risposte alle obiezioni di Luther; ma era già teso al massimo e non riusciva a restare ancora lì a riflettere. Doveva agire o sarebbe impazzito. Aggrappandosi a tutti gli appigli che capitavano, si avviò barcollando verso la sala comune. Luther era uno dei passeggeri che non erano andati a letto. Era là in un angolo a bere whisky, ma non giocava a carte. Aveva ripreso un po' di colore e sembrava aver superato la nausea. Leggeva una rivista britannica, l'"Illustrated London News". Eddie gli batté sulla spalla. Luther alzò gli occhi, sorpreso e un po' impaurito. Quando lo vide assunse un'espressione ostile. Eddie gli disse: «Il comandante vorrebbe parlarle, signor Luther». Luther si allarmò. Rimase immobile per un momento, ma Eddie lo sollecitò con un cenno imperioso. Posò la rivista, sganciò la cintura e si alzò. Eddie lo precedette attraverso il secondo scompartimento; ma invece di salire sul ponte di comando, aprì la porta della toilette degli uomini e la tenne aperta per farlo entrare. C'era un leggero puzzo di vomito. Purtroppo non erano soli: un passeggero in pigiama si lavava le mani. Eddie indicò il gabinetto e Luther vi entrò, mentre lui si fermava a pettinarsi. Dopo pochi istanti il passeggero se ne andò. Eddie bussò alla porta del gabinetto e Luther uscì. «Cosa diavolo succede?» chiese. «Stai zitto e ascolta» ordinò Eddie. Non aveva deciso di mostrarsi aggressivo, ma il comportamento di Luther lo esasperava. «So perché sei a bordo, ho capito il tuo piano e voglio introdurre un cambiamento. Quando farò ammarare l'aereo, Carol-Ann dovrà essere a bordo dell'imbarcazione che ci aspetterà.» Luther lo squadrò sprezzante: «Non puoi dettare condizioni». Eddie non si era aspettato che cedesse immediatamente. Ora doveva bluffare. «Bene» ribatté, con il tono più fermo di cui era capace. «Allora d'accordo salta.» Luther sembrò un po' preoccupato. Comunque replicò: «Non dire stronzate. Tu vuoi riavere la tua mogliettina. Quindi farai scendere l'aereo». Era la verità, ma Eddie scosse la testa. «Non mi fido di te. Perché dovrei? Potrei fare tutto quello che vuoi e magari mi fregheresti. È un rischio che non intendo correre. Voglio un accordo diverso.» Luther non aveva ancora perduto tutta la sua sicurezza. «Niente accordi nuovi.»
«E va bene.» Per Eddie era venuto il momento di giocare la carta decisiva. «Va bene, allora finirai in galera.» Luther rise nervosamente. «Cosa dici?» Eddie si sentì un po' più sicuro. Luther cominciava a cedere. «Riferirò tutto al comandante. Al prossimo scalo ti sbarcheranno. Ci sarà la polizia ad aspettarti. E finirai in galera... in Canada, dove i delinquenti tuoi amici non potranno liberarti. Sarai incriminato per sequestro di persona, pirateria... diavolo, Luther, non uscirai più.» Adesso Luther era sconvolto. «È già tutto programmato» protestò. «È troppo tardi per modificare il piano.» «Non è vero» replicò Eddie. «Puoi chiamare i tuoi amici al prossimo scalo e dirgli cosa devono fare. Avranno sette ore per far salire Carol-Ann su quella lancia. Il tempo c'è.» Luther crollò di colpo. «Sta bene. D'accordo.» Eddie non gli credette: il cedimento era stato troppo improvviso. L'istinto gli disse che Luther aveva deciso di imbrogliarlo. «Gli dirai che dovranno chiamarmi all'ultimo scalo, a Shediac, per confermare che hanno ubbidito alla mia richiesta.» Un'espressione di rabbia passò sul viso di Luther, ed Eddie comprese che il suo sospetto era fondato. «E quando la lancia si accosterà al Clipper» continuò, «dovrò vedere Carol-Ann sul ponte prima di aprire il portello, chiaro? Se non la vedrò, darò l'allarme. Ollis Field ti bloccherà prima che tu abbia il tempo di aprire il portello, e la Guardia Costiera arriverà prima che i tuoi amici possano salire a bordo con la forza. Quindi, fai in modo che tutto vada come voglio io, o per voi sarà la fine.» Luther ritrovò il coraggio. «Non lo farai» ringhiò. «Non rischierai la vita di tua moglie.» Eddie cercò di instillargli un dubbio. «Ne sei proprio sicuro?» Non bastò. Luther scosse la testa, deciso. «Non sei pazzo fino a questo punto.» Eddie comprese che doveva convincerlo subito. Era il momento critico. Quella parola, "pazzo", gli diede l'ispirazione. «Ti mostro subito quanto sono pazzo» esclamò. Spinse Luther contro la parete, a fianco del grande finestrino quadrato. Per un momento quello fu troppo sorpreso per resistere. «Ti mostrerò che razza di pazzo sono io!» Con uno scatto inaspettato, gli fece lo sgambetto e Luther stramazzò sul pavimento. In quell'attimo si sentiva veramente pazzo. «Vedi quel finestrino, stron-
zo?» Afferrò la veneziana e la strappò. «Sono pazzo quanto basta per buttarti fuori da questo fottuto finestrino, ecco!» Balzò in piedi sul lavabo e sferrò un calcio al vetro. Calzava un paio di scarponi robusti, ma il finestrino era di plexiglas, spesso mezzo centimetro. Sferrò un altro calcio, più violento, e questa volta il vetro s'incrinò. Un terzo calcio riuscì a sfondarlo. I frammenti caddero dentro la toilette. L'aereo volava a duecento chilometri orari, e il vento gelido e la pioggia entrarono come un uragano. Luther, terrorizzato, si stava rialzando. Eddie balzò dal lavabo e lo bloccò prima che fuggisse. Lo spinse contro la parete. La rabbia gli diede la forza per sopraffarlo, sebbene avessero più o meno lo stesso peso. Lo afferrò per il bavero e gli spinse la testa fuori dal finestrino. Luther urlò. Il fragore del vento era assordante, e l'urlo si sentì appena. Eddie lo tirò dentro e gli gridò all'orecchio: «Ti butterò fuori, lo giuro davanti a Dio!». Spinse di nuovo all'esterno la testa di Luther e lo sollevò. Se Luther non fosse stato in preda al panico, avrebbe potuto liberarsi, ma aveva perso l'autocontrollo. Urlò ancora ed Eddie riuscì a distinguere a stento le parole: «Farò quello che vuoi! Lasciami! Lasciami!». Eddie provò l'impulso di spingerlo fuori completamente; poi si accorse che anche lui era sul punto di perdere il controllo. Non voleva uccidere Luther, si disse, ma solo spaventarlo a morte. C'era riuscito, e questo bastava. Lo depose sul pavimento e mollò la presa. Luther si precipitò alla porta. Eddie lo lasciò andare. Ho recitato benissimo la parte del pazzo, si disse. Ma sapeva che non era stata soltanto una recita. Si appoggiò al lavabo per riprendere fiato. La rabbia cieca l'aveva abbandonato. Era calmo ma sconvolto dalla propria violenza, come se ad agire fosse stata un'altra persona. Dopo un momento entrò un passeggero. Era quello che si era imbarcato a Foynes, Mervyn Lovesey, un uomo alto con una ridicola camicia da notte, un inglese sulla quarantina dall'aria pratica ed efficiente. Guardò il finestrino sfondato e chiese: «Accidenti, cos'è successo?». Eddie deglutì. «Si è rotto un vetro.» Lovesey gli lanciò uno sguardo ironico. «Questo l'avevo capito.» «A volte succede, durante una tempesta» spiegò Eddie. «I venti trasportano la grandine e perfino i sassi.»
Lovesey non sembrava molto convinto. «Be', io volo da dieci anni con il mio aereo e questa non l'ho mai sentita.» Naturalmente aveva ragione. Qualche volta i finestrini si spaccavano, ma di solito quando l'aereo era in porto, non in mezzo all'Atlantico. Per eventualità del genere avevano a bordo i coprifinestra di alluminio chiamati "oscuratori", che venivano tenuti proprio nella toilette degli uomini. Eddie aprì l'armadietto e ne tirò fuori uno. «Ecco perché portiamo questi» spiegò. Questa volta Lovesey sembrò convinto. «Ma pensa un po'» esclamò, ed entrò nel gabinetto. Nell'armadietto, assieme agli oscuratori, c'era anche il cacciavite, l'unico utensile necessario per installarli. Eddie decise che era meglio se sbrigava personalmente quel lavoro, per evitare commenti. In pochi secondi tolse l'intelaiatura del finestrino, eliminò quel che restava del vetro vuoto, avvitò al suo posto l'oscuratore e rimise l'intelaiatura. «Davvero notevole» disse Marvyn Lovesey, che usciva in quel momento dal gabinetto. Eddie ebbe l'impressione che non fosse del tutto rassicurato: ma tanto, cosa avrebbe potuto fare? Eddie uscì e trovò Davy che scaldava un po' di latte nella cambusa. «Si è rotto il finestrino del gabinetto» disse. «L'aggiusterò non appena avrò portato la cioccolata alla principessa.» «Ho già installato l'oscuratore.» «Oh, grazie, Eddie.» «Però devi spazzare via i vetri, appena puoi.» «Certo.» Eddie avrebbe voluto offrirsi di pulire, dato che era stato lui a causare il guaio. Così gli aveva insegnato sua madre. Ma correva il rischio di sembrare troppo zelante e di lasciar capire che aveva la coscienza sporca. Lasciò fare a Davy. Comunque, qualcosa aveva ottenuto. Aveva spaventato a morte Luther. Adesso era sicuro che Luther si sarebbe adeguato al nuovo piano e avrebbe fatto portare Carol-Ann con la lancia al luogo concordato. O almeno poteva sperarlo. Tornò a pensare all'altra preoccupazione: la scorta di carburante dell'aereo. Non era ancora il momento di riprendere servizio, ma salì ugualmente sul ponte di comando per parlare con Mickey Finn. «La curva sembra impazzita!» esclamò agitato Mickey non appena lo vide arrivare. Ma abbiamo carburante a sufficienza? si chiese Eddie. Ostentò una cal-
ma disinvolta. «Fammi vedere.» «Guarda... il consumo del carburante è incredibilmente alto nella prima ora del mio turno, poi ridiventa normale nella seconda ora.» «Era molto irregolare anche durante il mio turno» lo rassicurò Eddie, cercando di mostrare una moderata preoccupazione, mentre in realtà era in preda a una terribile paura. «Immagino che la tempesta abbia fatto sballare tutte le previsioni.» Poi gli rivolse la domanda che lo tormentava. «Ma abbiamo abbastanza carburante per arrivare a destinazione?» E trattenne il respiro. «Sì, ne abbiamo abbastanza» rispose Mickey. Eddie abbassò le spalle, sollevato. Grazie a Dio. Almeno quella paura era finita. «Ma non abbiamo riserve» aggiunse Mickey. «Spero solo che non si blocchi un motore.» Eddie rifiutava di preoccuparsi per un'eventualità così remota; aveva in mente ben altro. «E le previsioni del tempo? Forse stiamo per uscire dalla tempesta.» Mickey scosse la testa «No» rispose cupo. «Anzi, il peggio deve ancora venire.» 19 Per Nancy Lenehan dividere la camera da letto con uno sconosciuto era un'esperienza sconvolgente. Come le aveva assicurato Mervyn Lovesey, la suite nuziale aveva cuccette singole, nonostante il nome. Comunque, a causa della tempesta non era riuscito a bloccare la porta in modo che restasse aperta. Per quanto provasse, continuava a chiudersi con violenza; alla fine erano arrivati alla conclusione che lasciarla chiusa era meno imbarazzante che continuare a darsi da fare per tenerla aperta. Era rimasta alzata il più possibile. Anzi, aveva pensato di restare nella sala comune tutta la notte, ma era diventata un posto sgradevolmente mascolino, saturo di fumo e di odore di whisky, delle risate sommesse e delle imprecazioni dei giocatori. Si sentiva fuori posto. Alla fine non le era rimasto altro da fare che andare a letto. Spensero la luce e si stesero nelle cuccette. Nancy teneva gli occhi chiusi, ma non aveva sonno. Il cognac che il giovane Harry Marks le aveva fatto portare non era servito a nulla; era sveglia come se fossero le nove del
mattino. E sentiva che anche Mervyn era sveglio: si muoveva nella cuccetta sopra la sua. Diversamente dalle altre, le cuccette della suite non avevano le tende, e solo l'oscurità consentiva un po' di privacy. Nancy pensava a Margaret Oxenford, così giovane e ingenua, insicura e idealista. Intuiva una grande passionalità sotto quell'apparenza esitante, e in questo si identificava con lei. Anche Nancy aveva sostenuto le sue battaglie con i genitori, o almeno con sua madre. Lei avrebbe voluto che sposasse un ragazzo di una vecchia famiglia bostoniana; ma a sedici anni si era innamorata di Sean Lenehan, uno studente di medicina figlio di un caporeparto della fabbrica di suo padre: figurarsi! Per mesi sua madre aveva condotto una campagna contro Sean, riferendole pettegolezzi maligni su di lui e altre ragazze, snobbando sdegnosamente i suoi genitori, ammalandosi e poi guarendo solo per poter rimproverare la figlia di essere egoista e ingrata. Nancy aveva sofferto, ma non aveva ceduto. Alla fine aveva sposato Sean e l'aveva amato con tutto il cuore fino a quando era morto. Forse Margaret non possedeva la medesima forza d'animo. Credo di essere stata un po' troppo dura con lei, pensò Nancy, quando le ho detto che se non sopportava suo padre doveva andarsene da casa. Ma mi è sembrato che avesse veramente bisogno di qualcuno che la spronasse a smettere di piagnucolare e a comportarsi da adulta. Alla sua età io avevo già due figli! Le aveva offerto un aiuto concreto, oltre ai consigli. E sperava di poter mantenere la promessa e offrirle un posto di lavoro. Tutto dipendeva da Danny Riley, il vecchio reprobo che costituiva l'ago della bilancia nella battaglia tra lei e il fratello. Nancy ricominciò a considerare il problema. Chissà se Mac era riuscito a contattare Danny? E se c'era riuscito, Danny come aveva preso la faccenda dell'inchiesta su una sua passata scorrettezza? Sospettava che fosse un'invenzione per far pressione su di lui? Oppure si era spaventato? Nancy si rigirava nella cuccetta mentre prendeva in esame tutti gli interrogativi privi di risposta. Sperava di poter parlare al telefono con Mac al prossimo scalo, Botwood. Forse sarebbe stato in grado di tranquillizzarla. Da un po' di tempo l'aereo sobbalzava e ondeggiava, e Nancy si sentiva ancora più inquieta e nervosa. Dopo un'ora o due la situazione peggiorò. Non aveva mai avuto paura in aereo, ma non si era mai trovata a volare in una tempesta simile. Si aggrappava ai bordi della cuccetta mentre l'enorme aereo sussultava sotto le violentissime raffiche di vento. Aveva affrontato da sola tante cose da quando era morto suo marito; e si disse che doveva
essere coraggiosa e resistere anche questa volta. Ma non poteva fare a meno di immaginare che le ali si spezzassero o i motori esplodessero, e che l'aereo precipitasse in mare: quella eventualità l'atterriva. Chiuse gli occhi e morse il cuscino. All'improvviso l'aereo sembrò piombare in caduta libera; Nancy attese che la caduta si interrompesse, invece continuò. Non riuscì a reprimere un gemito di paura. Finalmente vi fu un tonfo e l'aereo parve raddrizzarsi. Dopo un attimo Nancy sentì sulla spalla la mano di Mervyn. «È solo una tempesta» le disse con l'asciutto accento britannico. «A me è capitato di peggio. Non c'è niente da temere.» Nancy gli cercò la mano e la strinse con forza. Lui si sedette sul bordo della cuccetta. Le accarezzò i capelli negli istanti in cui l'aereo era stabile. Era ancora spaventata, ma si sentiva un po' meglio, ora che qualcuno le teneva la mano. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimasero così. Alla fine la tempesta si placò. Nancy cominciò a vergognarsi e lasciò la mano di Mervyn. Non sapeva cosa dire. Per fortuna, lui si alzò e uscì. Nancy accese la luce e scese dal letto. Tremando, indossò la vestaglia di seta blu elettrico sopra la camicia nera e si sedette al tavolino da toilette. Si spazzolò i capelli: serviva sempre a calmarla. Era imbarazzata per avergli tenuto la mano. In quei momenti aveva dimenticato la dignità e gli era stata riconoscente per quel conforto; ma ora si sentiva impacciata. Per fortuna, Mervyn aveva intuito il suo stato d'animo e l'aveva lasciata sola per darle il tempo di riprendersi. Tornò con una bottiglia di cognac e due bicchieri. Li riempì e gliene porse uno. Nancy prese il bicchiere con una mano e con l'altra si afferrò al bordo del tavolo. L'aereo continuava a sobbalzare. Sarebbe stato peggio se Mervyn non avesse avuto addosso quella camicia da notte così buffa. Era assurdo e lo sapeva, ma si comportava come se fosse in doppiopetto, e in un certo senso questo lo rendeva ancora più comico. Evidentemente era un uomo che non aveva paura del ridicolo. Le piaceva per la disinvoltura con cui portava quella camicia da notte. Nancy bevve un sorso di cognac. Il liquore la riscaldò e la fece sentire meglio. Ne bevve ancora. «È successa una cosa strana» disse Mervyn in tono discorsivo. «Stavo per andare nella toilette degli uomini ed è uscito un passeggero che sembrava spaventato a morte. Quando sono entrato, il finestrino era sfondato e il motorista stava lì con aria colpevole. Mi ha raccontato la balla che il ve-
tro era stato rotto da un frammento di ghiaccio durante la tempesta, ma a me è sembrato che quei due si fossero picchiati.» Nancy gli era grata perché aveva trovato qualcosa di cui parlare; non erano costretti a starsene lì a pensare che si erano tenuti per mano. «Qual è il motorista?» chiese. «Un bel ragazzo alto più o meno come me, con i capelli biondi.» «Ho capito. E il passeggero?» «Non so come si chiama. Un uomo d'affari che sta molto sulle sue, e indossa un abito grigio chiaro.» Si alzò per versarle un altro po' di cognac. Purtroppo la vestaglia di Nancy arrivava appena sotto le ginocchia; si sentiva quasi seminuda con i polpacci e i piedi nudi. Ma poi ricordò che Mervyn inseguiva disperatamente l'adorata moglie e non aveva occhi per le altre; anzi, non avrebbe badato a lei neppure se fosse stata completamente nuda. Le aveva tenuto la mano in un gesto amichevole, niente di più. In fondo alla sua mente, una voce cinica le disse che tenere la mano del marito di un'altra non era quasi mai amichevole e niente di più; ma non l'ascoltò. Cercò qualcosa da dire. «Sua moglie è ancora arrabbiata con lei?» «È come un gatto con un campanello al collo» esclamò in risposta. Nancy sorrise al ricordo della scena cui aveva assistito nella suite quando era tornata dopo essersi cambiata: la moglie di Mervyn che inveiva contro di lui, l'amico che gridava rivolto a lei, mentre Nancy osservava dalla soglia. Diana e Mark si erano zittiti immediatamente ed erano usciti con aria intimidita per continuare altrove il litigio. Sul momento Nancy si era astenuta dal fare commenti perché non voleva dare a Mervyn l'impressione che ridesse della situazione. Però non esitava a rivolgergli domande personali: le circostanze avevano imposto loro quella intimità. «Tornerà con lei?» «Impossibile saperlo» rispose Mervyn. «Quel tale che è con lei... secondo me è una nullità, ma forse è proprio quello che vuole.» Nancy annuì. Mark e Mervyn non potevano essere più diversi. Mervyn era alto e imperioso, bruno, bello e brusco. Mark era molto più mite, con gli occhi nocciola, le lentiggini, la faccia tonda e un'aria vagamente divertita. «Non sono entusiasta del tipo con l'aria da ragazzo, ma a modo suo è attraente» osservò. E pensò: "Se Mervyn fosse mio marito, non lo cambierei certo con Mark. Ma tutti i gusti sono gusti". «Già. All'inizio ho pensato che Diana fosse diventata matta, ma adesso che l'ho visto non ne sono tanto sicuro.» Mervyn rimase assorto per un
momento, poi cambiò discorso. «E lei? Intende battersi con suo fratello fino in fondo?» «Credo di aver scoperto il suo punto debole» rispose Nancy con rabbiosa soddisfazione mentre pensava a Danny Riley. «E ci sto lavorando.» Mervyn sogghignò. «Quando ha quell'espressione, preferisco averla come amica che come avversaria.» «È per mio padre» spiegò lei. «Gli volevo molto bene, e l'azienda è tutto ciò che mi resta di lui. È come un monumento alla sua memoria; anzi è qualcosa di più, perché reca l'impronta della sua personalità.» «Che tipo era?» «Uno di quegli uomini che non si dimenticano. Era alto, con i capelli neri e una voce profonda, e bastava vederlo per capire che era molto energico. Però conosceva per nome tutti quelli che lavoravano per lui e sapeva se la moglie di uno di loro si ammalava, e come andavano i figli a scuola. Ha pagato gli studi a parecchi figli di operai che adesso sono avvocati e commercialisti: sapeva come conquistare la lealtà della gente. In questo senso era un paternalista all'antica. Ma aveva uno straordinario acume per gli affari. In piena Depressione, quando in tutto il New England chiudevano le fabbriche, noi continuavamo ad assumere operai perché le vendite erano in aumento! Aveva capito l'importanza della pubblicità prima di tutti gli altri industriali delle calzature, e la sfruttava in modo geniale. Si interessava di psicologia, delle motivazioni della gente. Sapeva gettare una luce nuova su ogni problema che gli veniva sottoposto. Sento molto la sua mancanza; quasi come sento la mancanza di mio marito.» Nancy si sentì riassalire dall'indignazione. «E non resterò a guardare mentre quel buono a nulla di mio fratello butta via ciò che lui ha impiegato una vita a realizzare.» Si agitò sulla sedia, ripensando alle sue ansie. «Sto cercando di far pressione su un azionista il cui voto è decisivo, ma non saprò se ci sono riuscita finché...» Non terminò la frase. L'aereo piombò nella turbolenza peggiore di tutte e si impennò come un cavallo selvaggio. Nancy lasciò cadere il bicchiere e si afferrò con entrambe le mani al bordo della toilette. Mervyn cercò di puntellarsi con i piedi ma non ci riuscì, e quando l'aereo sbandò da un lato ruzzolò sul pavimento e urtò contro il tavolino. L'aereo si riportò in assetto normale. Nancy tese una mano per aiutare Mervyn a rialzarsi e chiese: «Tutto bene?». In quel momento l'aereo sussultò di nuovo. Nancy scivolò, lasciò la presa e cadde sul pavimento addosso a Mervyn.
Dopo un momento lui scoppiò a ridere. Nancy temeva di avergli fatto male, ma era leggera mentre lui era un uomo robusto. Gli era finita addosso di traverso, e formavano una X sulla moquette color terracotta. L'aereo si riassestò, lei rotolò via e si mise a sedere. Lo guardò: o aveva un attacco isterico o si divertiva. «Dobbiamo sembrare due matti» esclamò lui, e ricominciò a ridere. La risata era contagiosa. Per un momento Nancy dimenticò le tensioni accumulate nelle ultime ventiquattr'ore: il tradimento del fratello, il rischio corso a bordo del piccolo aereo di Mervyn, la situazione imbarazzante nella suite nuziale, la terribile scena sugli ebrei a cena, la sfuriata della moglie di Mervyn e la paura della tempesta. All'improvviso si rese conto che era davvero comico star seduta sul pavimento, in camicia da notte e vestaglia, in compagnia di uno sconosciuto mentre l'aereo sbandava e sussultava. Anche lei cominciò a ridere. Un nuovo scossone li buttò uno contro l'altra. Si trovò fra le braccia di Mervyn e continuò a ridere. Si guardarono. E all'improvviso lo baciò. La sorpresa di Nancy fu totale. Non aveva mai pensato di baciarlo. Non sapeva neppure fino a che punto le piacesse. Sembrava un impulso emerso dal nulla. Mervyn era chiaramente sbalordito: ma si riprese in fretta e ricambiò con entusiasmo. Non c'era nulla di incerto nel suo bacio, non aveva niente di simile a un'accensione lenta: era una fiammata. Dopo un minuto, Nancy si svincolò ansimando. «Cos'è successo?» chiese scioccamente. «Mi hai baciato» rispose Mervyn con aria soddisfatta. «Non volevo.» «Ma sono contento che tu l'abbia fatto» rispose lui, e la baciò di nuovo. Nancy avrebbe voluto svincolarsi, ma la stretta di Mervyn era forte, e la sua volontà, invece, debole. Si accorse che le insinuava una mano nella vestaglia e si irrigidì; aveva i seni così piccoli che provò imbarazzo e temette che lui rimanesse deluso. Mervyn aveva mani grandi e le coprì un seno piccolo e rotondo lasciandosi sfuggire un gemito rauco. Le cercò il capezzolo, e Nancy fu riassalita dall'imbarazzo; i suoi capezzoli si erano molto ingrossati da quando aveva allattato i figli. Seni piccoli, capezzoli grossi: aveva l'impressione di essere quasi deforme. Ma lui non sembrava disgustato, anzi. L'accarezzava con estrema delicatezza: e Nancy si abbandonò a quella deliziosa sensazione che non provava da tanto tempo.
Ma cosa sto facendo? si chiese all'improvviso. Sono una vedova rispettabile, e mi sto rotolando sul pavimento di un aereo assieme a un uomo che ho conosciuto ieri! Cosa mi succede? «Basta!» esclamò, decisa. Si scostò e si mise a sedere. La camicia da notte era scivolata al di sopra delle ginocchia e Mervyn le accarezzava la coscia nuda. «Basta» ripeté, e lo respinse. «Come vuoi» rispose Mervyn con evidente riluttanza. «Ma se cambi idea, io sono pronto.» Nancy gli lanciò un'occhiata e vide sotto la camicia la protuberanza dell'erezione. Si affrettò a distogliere lo sguardo. «È stata colpa mia» mormorò. Aveva ancora il respiro affannoso per il bacio. «Ma è stato un errore. Mi comporto come una civetta, lo so. Scusami.» «Non scusarti» rispose Mervyn. «Erano anni che non mi capitava una cosa così piacevole.» «Ma tu ami tua moglie!» replicò lei, bruscamente. Mervyn trasalì. «Credevo di amarla. In questo momento, per essere sincero, sono un po' confuso.» Anche Nancy era confusa. Dopo dieci anni di castità, smaniava di far l'amore con un uomo che non conosceva. Ma io lo conosco, pensò. Lo conosco bene. Ho fatto un lungo viaggio con lui e ci siamo confidati le nostre preoccupazioni. So che è aspro, arrogante e orgoglioso, ma anche appassionato, forte e leale. Mi piace nonostante i suoi difetti. Lo rispetto. È molto, molto affascinante, persino con quella camicia da notte a righe marrone. E mi ha tenuta la mano quando avevo paura. Sarebbe bello avere qualcuno che mi tiene la mano ogni volta che ho paura. Come se le avesse letto nella mente, Mervyn le riprese la mano. Questa volta la girò e le baciò il palmo. Nancy sentì uno strano formicolio. Dopo qualche attimo, lui l'attirò a sé e la baciò di nuovo. «Non fare così» mormorò Nancy. «Se ricominciamo, non riusciremo a fermarci.» «E io ho paura che se ci fermiamo adesso non potremo ricominciare» rispose Mervyn con la voce arrochita dal desiderio. Nancy sentiva in lui una passione formidabile tenuta a stento sotto controllo; e questo la infiammò ancora di più. Era sempre uscita con uomini deboli e docili che cercavano in lei la sicurezza, e si arrendevano troppo facilmente quando resisteva alle loro richieste. Mervyn avrebbe insistito con energia. La voleva, e la voleva subito. Nancy era pronta ad arrendersi. Sentì la mano sulla gamba sotto la camicia da notte, le dita che le acca-
rezzavano l'interno della coscia. Chiuse gli occhi e, involontariamente, allargò un po' le gambe. Mervyn non aveva bisogno di altri inviti. Un attimo dopo le toccò il sesso e Nancy gemette. Nessuno l'aveva mai fatto dopo suo marito. A quel pensiero, si sentì assalire dalla tristezza. Oh, Sean, mi manchi tanto, pensò; non ho mai voluto ammettere quanto mi manchi. L'angoscia era più acuta adesso di quanto lo fosse mai stata dal tempo del funerale. Le lacrime scorsero fra le palpebre chiuse e le rigarono il viso. Mervyn la baciò e sentì il sapore del pianto. «Cosa c'è?» sussurrò. Lei aprì gli occhi. Attraverso il velo delle lacrime scorse il bel viso turbato, poi la camicia da notte sollevata, la mano fra le sue cosce. Gli afferrò il polso e gli scostò la mano con gentile fermezza. «Non arrabbiarti, te ne prego» disse. «Non mi arrabbierò» promise lui a voce bassa. «Dimmi.» «Nessuno mi ha toccata in questo modo da quando Sean è morto, e me l'hai fatto ricordare.» «Tuo marito?» Nancy annuì. «È passato molto tempo?» «Dieci anni.» «È davvero molto.» «Io sono fedele.» Nancy gli rivolse un debole sorriso. «Come te.» Mervyn sospirò. «Hai ragione. Mi sono sposato due volte, e per la prima volta stavo per commettere un'infedeltà. Pensavo a Diana e a quel tale.» «Siamo due stupidi?» chiese lei. «Può darsi. Dovremmo smettere di pensare al passato, e cogliere il momento, vivere nel presente.» «Forse sì» convenne Nancy, e tornò a baciarlo. L'aereo si impennò come se fosse andato a sbattere contro un ostacolo. Le loro teste si urtarono e le luci si abbassarono per un momento. L'aereo sussultò con violenza. Nancy dimenticò il bacio e si aggrappò a Mervyn per tenersi salda. Quando la turbolenza si attenuò, si accorse che gli sanguinava il labbro. «Mi hai morso» disse lui con un sorriso un po' triste. «Mi dispiace.» «A me no. Spero che mi resti il segno.» Nancy lo abbracciò in uno slancio d'affetto. Rimasero distesi sul pavimento mentre la tempesta infuriava. In un momento di pausa Mervyn disse: «Cerchiamo di arrivare alla cuccetta, stare-
mo più comodi che sulla moquette». Nancy annuì. Si mise carponi, raggiunse la cuccetta e salì. Mervyn le si sdraiò accanto. La prese tra le braccia e lei si rannicchiò contro di lui. Ogni volta che la turbolenza peggiorava, Nancy si stringeva a lui, come un marinaio che si avvinghia all'albero maestro. Quando c'era un momento di calma, lei si rilassava e Mervyn l'accarezzava per tranquillizzarla. Poi Nancy si addormentò. Si svegliò quando qualcuno bussò alla porta e una voce annunciò: «Sono lo steward!». Aprì gli occhi e si accorse di essere fra le braccia di Mervyn. «Oh, Gesù!» mormorò in preda al panico. Si sollevò a sedere e si guardò intorno, affannosamente. Mervyn le posò una mano sulla spalla per trattenerla e rispose in tono imperioso: «Un momento, steward». Una voce piuttosto spaventata replicò: «Sì, signore, faccia con calma». Mervyn rotolò giù dal letto, si alzò e tirò le coperte addosso a Nancy. Lei gli rivolse un sorriso di gratitudine, poi si girò dall'altra parte e finse di dormire per non essere costretta a guardare lo steward. Udì che Mervyn apriva la porta e lo steward entrava. «Buongiorno» disse allegro. L'aroma del caffè appena fatto arrivò a Nancy. «Sono le nove e mezzo del mattino, ora britannica, le quattro e mezzo della notte a New York, e le sei a Terranova.» Mervyn chiese: «Ha detto che sono le nove e mezzo in Gran Bretagna e le sei a Terranova? C'è uno scarto di tre ore e mezzo?» «Sì, signore. L'ora media di Terranova è tre ore e mezzo più indietro dell'ora di Greenwich.» «Non sapevo che ci fossero anche scarti di mezz'ora. Deve complicare parecchio la vita a chi compila gli orari delle linee aree. Fra quanto ammariamo?» «Fra mezz'ora, ma con un'ora di ritardo sul previsto. A causa della tempesta.» Lo steward uscì e la porta si chiuse. Nancy si voltò. Mervyn sollevò le veneziane. Era già chiaro. Guardò Mervyn versare il caffè, e la notte appena trascorsa riaffiorò in una serie di nitide immagini: Mervyn che le teneva la mano nella tempesta, loro due che cadevano sul pavimento, la mano posata sul suo seno, lei che lo teneva abbracciato mentre l'aereo sobbalzava, le carezze che l'avevano aiutata ad addormentarsi. Gesù, pensò, quest'uomo mi piace da morire.
«Come lo preferisci?» chiese lui. «Senza panna né zucchero.» «Come me.» Mervyn le porse la tazza. Nancy bevve con un senso di sollievo. All'improvviso divenne curiosa di conoscere tante cose diverse sul conto di Mervyn. Giocava a tennis, gli piaceva l'opera, si divertiva ad andare in giro per negozi? Leggeva molto? Come si annodava la cravatta? Si lustrava le scarpe da solo? Mentre lo guardava bere il caffè, si rese conto che molte le poteva indovinare. Probabilmente giocava a tennis, ma non leggeva molti romanzi e non gli piaceva andare per negozi. Doveva essere un buon giocatore di poker e un pessimo ballerino. «A cosa pensi?» chiese lui. «Mi osservi come se fossi un assicuratore in dubbio se farmi stipulare una polizza sulla vita.» Nancy rise. «Che genere di musica ti piace?» «Sono stonato» rispose lui. «Quando ero ragazzo, prima della guerra, nelle sale da ballo suonavano solo il ragtime. Il ritmo mi piaceva ma non ero un gran ballerino. E tu?» «Oh, io ballavo. Dovevo farlo. Ogni sabato mattina andavo a scuola di ballo con un abito bianco tutto gale e guanti bianchi, per imparare a ballare con i ragazzini dodicenni. Mia madre era convinta che mi avrebbe aperto le porte della migliore società di Boston. Naturalmente non fu così, ma per fortuna a me non interessava. Mi importava di più lo stabilimento di mio padre... con grande disperazione della mamma. Tu hai combattuto nella Grande Guerra?» «Sì.» Un'ombra passò sul suo volto. «Ero a Ypres. E ho giurato che non avrei sopportato di vedere un'altra generazione di giovani mandati a morire in quel modo. Ma non avevo previsto Hitler.» Nancy lo guardò con occhi pieni di comprensione. Lui alzò la testa. Si fissarono, e Nancy comprese: tutti e due pensavano ai baci e alle carezze di quella notte. Si sentì nuovamente in imbarazzo. Rivolse lo sguardo verso il finestrino e vide la terra. E ricordò che all'arrivo a Botwood sperava di ricevere una telefonata che avrebbe cambiato la sua vita, in un senso o nell'altro. «Siamo quasi arrivati!» osservò. Balzò dal letto. «Devo vestirmi.» «Lascia che vada prima io» disse Mervyn. «È meglio.» «D'accordo.» Nancy non era sicura di avere ancora una reputazione da difendere, ma non lo disse. Guardò Mervyn prendere l'abito dall'attacapanni, e il sacchetto di carta con gli indumenti puliti che aveva acquistato a Foynes assieme alla camicia da notte: una camicia bianca, calzini di lana
nera e biancheria di cotone grigio. Sulla porta esitò, quasi si domandasse se l'avrebbe mai baciata un'altra volta. Gli andò vicino e alzò il viso. «Grazie per avermi tenuta fra le braccia tutta la notte» mormorò. Mervyn si chinò a baciarla. Fu un bacio delicato, a labbra chiuse. Rimasero così per un lungo momento, poi si separarono. Nancy gli aprì la porta e lo fece passare. Poi la richiuse con un sospiro. Credo che potrei innamorarmi di lui, pensò. Si chiese se avrebbe mai rivisto quella camicia da notte. Guardò dal finestrino. L'aereo perdeva quota gradualmente. Doveva sbrigarsi. Si pettinò in fretta allo specchio, poi portò la valigetta nella toilette delle signore, che era accanto alla suite nuziale. C'erano Lulu Bell e un'altra donna, ma per fortuna non era la moglie di Mervyn. Nancy avrebbe desiderato fare il bagno, ma dovette accontentarsi di un lavaggio sommario nel lavabo. Aveva portato biancheria pulita e un'altra camicetta, blu anziché grigia, da indossare sotto il tailleur rosso. Mentre si vestiva ripensò alla conversazione di quella mattina con Mervyn. Pensare a lui la rendeva felice: ma era una felicità accompagnata da un certo disagio. Perché? Non appena si pose la domanda, la risposta fu ovvia. Mervyn non aveva detto nulla di sua moglie. Durante la notte aveva confessato di essere "confuso". Poi, silenzio. Voleva riavere Diana? L'amava ancora? Aveva tenuto Nancy fra le braccia tutta la notte, ma questo non cancella automaticamente un matrimonio. E io cosa voglio? si chiese. Certo, mi piacerebbe rivedere Mervyn, uscire con lui, magari avere una relazione; ma voglio che rinunci per me al suo matrimonio? Come posso saperlo, dopo una sola notte di passione non consumata? Si fermò mentre metteva il rossetto e si scrutò il volto nello specchio. Finiscila, Nancy, si rimproverò. La verità la sai. Vuoi quell'uomo. In dieci anni è il primo che ti interessa davvero. Hai quarant'anni e un giorno, e hai incontrato l'uomo giusto. Smettila di fare la stupida e datti da fare per conquistarlo. Si mise qualche goccia di profumo "Pink Clover" e uscì dalla toilette. In quel momento vide Nat Ridgeway e suo fratello Peter, che avevano i posti lì accanto. Nat la salutò: «Buongiorno, Nancy». Lei ricordò di colpo ciò che aveva provato per quell'uomo cinque anni prima. Sì, pensò, avrei potuto innamorarmi di lui, se ce ne fosse stato il tempo; ma non c'è stato. E
forse è stata una fortuna, forse lui desiderava la Black's Boots e non me. Dopotutto sta ancora cercando di acquisire la società, ma di certo non cerca di conquistare me. Ricambiò il saluto con un cenno brusco e rientrò nella suite. Le cuccette erano state smontate e risistemate a divano, e Mervyn era lì seduto, ben rasato, con l'abito grigio scuro e la camicia bianca. «Guarda dal finestrino» le disse. «Siamo arrivati.» Nancy guardò e vide la terra. Sorvolavano a bassa quota un fitta pineta attraversata da fiumi argentei. Poi gli alberi lasciarono posto all'acqua: non l'acqua scura e profonda dell'Atlantico, ma un tranquillo estuario grigio. Dall'altra parte si scorgevano un porto e un gruppo di costruzioni di legno dominate da una chiesa. L'aereo scese rapidamente. Nancy e Mervyn erano seduti sul divano con le cinture agganciate e si tenevano per mano. Nancy sentì appena l'impatto quando lo scafo fendette la superficie del fiume; ebbe la certezza che erano ammarati solo quando, dopo un momento, i finestrini furono oscurati dagli spruzzi. «Bene» disse «ho sorvolato l'Atlantico.» «Sì. Non sono molti quelli che possono dire altrettanto.» Nancy non si sentiva molto eroica. Aveva trascorso metà del volo preoccupandosi dell'azienda e l'altra metà a farsi tenere per mano dal marito di un'altra. Aveva pensato al volo solo quando il tempo era diventato pessimo e si era spaventata. Cosa avrebbe raccontato ai figli? Avrebbero voluto conoscere tutti i particolari, e lei non sapeva neppure qual era la velocità dell'idrovolante. Decise che si sarebbe informata prima di arrivare a New York. Quando l'aereo si fermò, una lancia venne ad affiancarglisi. Nancy indossò il soprabito, Mervyn il giubbotto di pelle da aviatore. Circa metà dei passeggeri avevano deciso di scendere per sgranchirsi le gambe. Gli altri erano ancora a letto, dietro le tende blu delle cuccette. Attraversarono la sala comune, montarono sul tozzo galleggiante e passarono sulla lancia. L'aria sapeva di salmastro e di legname appena tagliato; molto probabilmente c'era una segheria nelle vicinanze. Accanto all'ormeggio del Clipper c'era una chiatta con la scritta SHELL SERVIZIO AEREI, e alcuni uomini in tuta bianca attendevano di riempire i serbatoi. Nel porto c'erano anche due mercantili piuttosto grandi: l'acqua doveva essere profonda. La moglie di Mervyn e il suo amante erano fra quelli che avevano deciso
di sbarcare. Diana lanciò un'occhiata fulminante a Nancy mentre la lancia puntava verso la riva. Nancy non riuscì a sostenere il suo sguardo anche se, dopotutto, aveva assai meno motivi per sentirsi in colpa. Era stata Diana a commettere l'adulterio, non lei. Sbarcarono passando attraverso un pontone, uno scalandrone e un molo. Nonostante l'ora, c'era una piccola folla di curiosi. In fondo al molo c'erano tre costruzioni della Pan American, una grande e due piccole, tutte di legno dipinto di verde con le rifiniture marrone. Poi c'era un prato con alcune mucche. I passeggeri entrarono nella costruzione più grande e presentarono i passaporti a un impiegato insonnolito. Nancy notò che gli abitanti del luogo parlavano velocemente, con un accento più irlandese che canadese. C'era una sala d'aspetto che però non attirava nessuno, e tutti i passeggeri decisero di esplorare il paesetto. Nancy era impaziente di parlare con Patrick MacBride a Boston. Stava per chiedere dov'era un telefono quando si sentì chiamare: la costruzione aveva un sistema di altoparlanti. Si presentò a un giovane che portava l'uniforme della Pan American. «C'è una chiamata per lei, signora» disse il giovane. Nancy provò un tuffo al cuore. «Dov'è il telefono?» chiese guardandosi intorno. «Nell'ufficio telegrafico in Wireless Road. A meno di un chilometro e mezzo.» Un chilometro e mezzo! Nancy stentava a dominare l'impazienza. «Allora andiamo, prima che la comunicazione si interrompa! Ha la macchina?» Il giovane la fissò sbalordito come se gli avesse chiesto un razzo spaziale. «No, signora.» «Allora andiamo a piedi. Mi faccia strada.» Uscirono. Nancy e Mervyn seguirono l'impiegato. Salirono la collina su una strada bianca priva di marciapiedi. Ai bordi stavano pascolando numerose pecore. Per fortuna Nancy portava un paio di scarpe comode... Black's, naturalmente. Chissà se l'indomani la Black's sarebbe stata ancora sua? Patrick MacBride stava per dirglielo. L'attesa era insopportabile. Dopo una decina di minuti raggiunsero un'altra piccola costruzione di legno ed entrarono. Il giovane indicò a Nancy una sedia davanti a un telefono; lei si sedette e prese l'apparecchio con mano tremante. «Pronto? Sono Nancy Le nehan.» Una centralinista disse: «Resti in linea, c'è Boston».
Vi fu un lungo silenzio, poi: «Nancy? Sei tu?». Non era Mac, contrariamente a quel che si aspettava. Le ci volle un momento per riconoscere la voce. «Danny Riley!» esclamò. «Nancy, sono nei guai e tu devi aiutarmi!» Lei strinse più forte il microfono. Sembrava che il suo piano avesse funzionato. Adottò un tono calmo, quasi infastidito come se la chiamata fosse una seccatura. «Che genere di guai, Danny?» «Mi stanno tirando in ballo per quel vecchio caso!» Un'ottima notizia! Mac aveva messo la pulce nell'orecchio a Danny, che sembrava terrorizzato. Era appunto ciò che lei voleva. Ma finse di non sapere a cosa alludeva. «Quale caso? Di che si tratta?» «Lo sai. Non posso parlarne al telefono.» «Se non puoi parlarne al telefono, perché mi hai chiamata?» «Nancy! Non trattarmi così! Ho bisogno di te!» «D'accordo, calmati.» Danny Riley era abbastanza spaventato: doveva lavorare su quella paura per manovrarlo. «Spiegami esattamente cos'è successo, omettendo nomi e indirizzi. Credo di aver capito a cosa ti riferisci.» «Hai tutte le vecchie carte di tuo padre, vero?» «Certo. Sono a casa, nella mia camera blindata.» «Qualcuno potrebbe chiedere di esaminarle.» Danny le stava raccontando la storia che lei stessa aveva inventato. Il trucco, finora, aveva funzionato alla perfezione. Con molta disinvoltura, rispose: «Non credo che tu abbia motivo di preoccuparti...». «Come fai a essere sicura?» la interruppe lui, affannosamente. «Non lo so...» «Le hai esaminate tutte?» «No, sono troppe. Però...» «Nessuno sa cosa c'è lì dentro. Avresti dovuto bruciarle tutte anni fa.» «Forse hai ragione, ma non pensavo... Chi vuole vedere i documenti?» «È un'inchiesta dell'Ordine degli Avvocati.» «Ne hanno il diritto?» «No. Ma farei una pessima figura se rifiutassi.» «E se rifiutassi io sarebbe tutto regolare?» «Tu non sei un avvocato. Non possono fare pressioni su di te.» Nancy tacque, fingendo di esitare per tenerlo sulla corda ancora per un momento. Finalmente disse: «Allora non ci sono problemi». «Respingerai la richiesta?» «Farò qualcosa di più. Domani brucerò tutto.»
«Nancy...» sembrava sul punto di piangere. «Nancy, sei una vera amica.» Lei si sentì molto ipocrita quando rispose: «E come potrei fare diversamente?». «Dio, te ne sono grato. Davvero. Non so come ringraziarti.» «Be', dato che sei tu a parlarne, c'è una cosa che potresti fare per me.» Si morse le labbra. Era il momento più delicato. «Sai perché sto tornando a casa così in fretta?» «No, non lo so. Ero troppo preoccupato per questa faccenda...» «Peter sta cercando di vendere la società sotto il mio naso.» Silenzio. «Danny, mi senti?» «Sicuro, ti sento. Non vuoi vendere la società?» «No! Il prezzo è irrisorio e nella nuova organizzazione non c'è posto per me... Non voglio assolutamente vendere. Peter sa bene che è un pessimo affare; ma non gliene importa niente, pur di togliersi la soddisfazione di farmi del male.» «È un pessimo affare? Da un po' di tempo la società non va molto bene.» «E tu sai il perché, vero?» «Credo di sì...» «Oh, avanti, devi dirlo. Come dirigente Peter è un disastro.» «Certo...» «Invece di permettere che svenda la società, perché non lo siluriamo? Lascia che assuma io la presidenza. Posso rovesciare la situazione, lo sai. E poi, quando avremo ricominciato a guadagnare, potremo pensare a vendere... a un prezzo molto più alto.» «Ecco, non so.» «Danny, in Europa è appena scoppiata la guerra, e di conseguenza ci sarà un boom degli affari. Venderemo le scarpe più in fretta di quanto riusciamo a produrle. Se aspetteremo due o tre anni potremo vendere la società per un prezzo due, tre volte superiore.» «Ma l'unione con Nat Ridgeway sarebbe molto utile per il mio studio legale.» «Lascia perdere quello che può essere utile. Ti sto chiedendo di aiutarmi.» «Sinceramente, non so se è nel tuo interesse.» Nancy avrebbe voluto gridargli: Maledetto bugiardo, stai pensando al tuo interesse. Ma si morse la lingua e disse: «So che è la cosa migliore per
tutti noi». «D'accordo, ci penserò.» Non era abbastanza. Nancy era costretta a uscire allo scoperto. «Ricordi le carte di mio padre, vero?» E trattenne il respiro. Danny Riley abbassò la voce. «Cosa stai cercando di dirmi?» «Ti chiedo di aiutarmi perché sto aiutando te. So che capisci questo genere di cose.» «Sì, credo di capirlo. Di solito si chiama ricatto.» Nancy rabbrividì, poi ricordò con chi stava parlando. «Vecchio bastardo ipocrita, tu non hai fatto altro per tutta la vita!» Lui rise. «Mi conosci troppo bene, bambina!» Ma questa osservazione lo indusse a farne un'altra. «Non sarai stata tu a provocare quella maledetta inchiesta per poter fare pressione su di me, vero?» Era arrivato pericolosamente vicino alla verità. «Tu l'avresti fatto, lo so. Ma non intendo rispondere ad altre domande. Ti basti sapere che se domani voterai con me, non correrai nessun pericolo. Altrimenti, sarai nei guai.» Cercava di intimidirlo, ed era un metodo che Danny capiva molto bene. Ma si sarebbe piegato o l'avrebbe sfidata? «Non puoi parlarmi così. Ti conosco da quando sei nata.» Nancy addolcì un po' il tono. «E non è una ragione per aiutarmi?» Vi fu un lungo silenzio. Poi lui domandò: «Non ho scelta, vero?». «Credo di no.» «Sta bene» concluse Riley, controvoglia. «Domani ti appoggerò, se sistemerai l'altra faccenda.» Nancy avrebbe voluto gridare per il sollievo. Ce l'aveva fatta! Aveva portato Danny dalla sua parte. Ora avrebbe vinto. La Black's Boots era ancora sua. «Mi fa davvero piacere, Danny.» «Tuo padre aveva previsto che sarebbe andata così.» Quel commento sembrava piovuto dal cielo. Era incomprensibile. «Come sarebbe a dire?» «Tuo padre. Voleva che tu e Peter vi batteste.» Nella voce di Danny c'era una nota subdola che insospettì Nancy. Era risentito perché aveva dovuto cedere e voleva lanciare un'ultima frecciata. Lei esitava a dargli questa soddisfazione, ma la curiosità vinse la prudenza. «Di cosa diavolo stai parlando?» «Diceva sempre che i figli dei ricchi sono di regola pessimi uomini d'affari perché non hanno fame. Era molto preoccupato... pensava che avreste potuto buttare via tutto quello che aveva guadagnato.»
«Non mi ha mai detto che la pensava così» osservò Nancy, sospettosa. «Perciò ha messo le cose in modo che vi batteste fra voi. Ti ha addestrata a prendere il comando dopo la sua morte, ma non ti ha ceduto il posto; e diceva a Peter che sarebbe stato compito suo dirigere la società. In questo modo vi sareste battuti, e il più duro l'avrebbe spuntata.» «Non ci credo» esclamò Nancy. Ma non era sicura quanto sembrava. Danny era irritato per essere stato manovrato, quindi reagiva per cattiveria. Ma ciò non significava che mentisse. Si sentì gelare. «Credi quello che vuoi» replicò Danny. «Ti riferisco solo quanto mi ha detto tuo padre.» «E così aveva detto a Peter che voleva proprio lui come presidente?» «Certo. Se non mi credi, domandalo a Peter.» «Se non credo a te, non crederei certo a Peter.» «Nancy, ti ho vista per la prima volta quando avevi due giorni» proseguì Danny, con una nota nuova di stanchezza nella voce. «Ti conosco da sempre. Sei una persona buona, molto determinata, come tuo padre. Non voglio litigare con te per questioni d'affari o per altro. Mi dispiace di averne parlato.» Adesso Nancy gli credeva. Sembrava dispiaciuto per davvero, e questo la convinse che era sincero. Era sconvolta dalla rivelazione e si sentiva debole, un po' stordita. Per un momento non disse nulla, cercando di ritrovare la lucidità. «Immagino che ti vedrò alla riunione del consiglio» aggiunse Danny. «D'accordo.» «Ciao, Nancy.» «Ciao, Danny.» E riattaccò. Mervyn esclamò: «Perdio, sei stata grande!». Nancy sorrise a denti stretti. «Grazie.» Lui rise: «Voglio dire, come l'hai messo nel sacco... non aveva una possibilità al mondo. Quel poveraccio non ha neppure capito cosa gli è successo...» «Oh, stai zitto!» esplose lei. Mervyn la guardò come se lo avesse schiaffeggiato. «Come vuoi» rispose secco. Lei si pentì subito. «Perdonami» disse toccandogli il braccio. «Alla fine Danny ha detto qualcosa che mi ha sconvolta.» «Te la senti di parlarmene?» le chiese Marvyn. «Ha detto che mio padre aveva provocato questa lotta fra me e Peter
perché alla fine fosse il più duro a dirigere la società.» «E tu gli credi?» «Sì, è questa la cosa terribile. Sembra proprio vero. Non ci avevo mai pensato prima d'ora, ma spiega molte cose sul conto mio e di mio fratello.» Mervyn le prese la mano. «Sei sconvolta.» «Già.» Nancy gli accarezzò il dorso della mano. «Mi sento come il personaggio di un film che recita una sceneggiatura scritta da qualcun altro. Mi sono lasciata manovrare per anni, e questo mi esaspera. Non so neppure se voglio vincere la battaglia contro Peter, ora che ho scoperto come sono stata raggirata.» Mervyn annuì, comprensivo. «Cosa vorresti fare?» La risposta le venne in mente non appena ebbe sentito la domanda. «Vorrei essere io a scrivere il mio copione, ecco.» 20 Harry Marks era così felice che non aveva voglia di mettersi in movimento. Era a letto e ricordava ogni attimo della notte: il brivido improvviso di piacere quando Margaret lo aveva baciato, l'ansia mentre cercava il coraggio di farsi avanti, la delusione quando lei lo aveva respinto, lo sbalordimento e la gioia quando era balzata nella sua cuccetta come un coniglio che si tuffa nella tana. Inorridì nel ricordare che era venuto nel momento in cui Margaret l'aveva toccato. Gli succedeva sempre, la prima volta con una ragazza nuova; e non riusciva ad abituarsi. Era umiliante. Una ragazza lo aveva deriso e disprezzato. Per fortuna Margaret non era rimasta delusa o frustrata. Stranamente, si era eccitata ancora di più. E alla fine, comunque, era stata felice. Anche lui. Non riusciva a credere alla propria fortuna. Non era intelligente, non era ricco, non apparteneva alla classe sociale giusta. Era un imbroglione e Margaret lo sapeva. Cosa vedeva in lui? Quello che lo attirava in lei non era difficile da indovinare: era bella, amabile, generosa e vulnerabile; e come se non bastasse, aveva il corpo di una dea. Chiunque poteva innamorarsi di Margaret. Ma lui? Non era brutto, d'accordo, ed era elegante, ma aveva la sensazione che per Margaret questo non contasse molto. Eppure sembrava attratta. Era affascinata dal suo modo di vivere; e lui conosceva tante cose che le erano sconosciute sulla vita della classe operaia in
generale ma soprattutto sul mondo della criminalità. Forse vedeva in lui un personaggio romantico come la Primula Rossa, oppure una specie di fuorilegge, Robin Hood o Billy the Kid, o un pirata. Gli era straordinariamente grata perché le aveva scostato la sedia in sala da pranzo, un gesto di poco conto che Harry aveva compiuto quasi senza riflettere, ma per lei aveva significato molto. Anzi, era sicuro di averla conquistata proprio in quel momento. Le ragazze sono strane, si disse. Comunque il motivo iniziale dell'attrazione non aveva più importanza. Da quando si erano spogliati, era stata una pura e semplice reazione chimica. Non avrebbe più dimenticato la vista dei seni candidi nella luce fioca, i capezzoli così piccoli e pallidi da essere a stento visibili, il ciuffo di pelo castano fra le gambe, le lentiggini sparse sulla gola... E adesso rischiava di perdere tutto. Stava per rubare i gioielli di sua madre. Non era una di quelle cose che una ragazza poteva prendere con una risata. I suoi genitori si comportavano malissimo con lei, e probabilmente era convinta che le loro ricchezze avrebbero dovuto essere ridistribuite: ma sarebbe comunque inorridita. Derubare qualcuno era come schiaffeggiarlo: anche se il danno non era grave, la gente si infuriava in modo sproporzionato. Poteva segnare la fine del suo rapporto con Margaret. Ma la parure di Delhi era lì, sull'aereo, nel bagagliaio, a pochi passi da dove si trovava. Erano i gioielli più belli del mondo, e valevano un patrimonio, abbastanza per consentirgli di vivere bene il resto della vita. Smaniava di tenere fra le mani quella collana, di saziarsi gli occhi con il rosso profondo dei rubini birmani, di passare le dita sui diamanti sfaccettati. Sarebbe stato necessario distruggere le montature, naturalmente, e dividere la parure non appena fosse finita nelle mani di un ricettatore. Una tragedia inevitabile. Le pietre sarebbero sopravvissute in un'altra parure, sulla pelle della moglie di un miliardario. E Harry Marks avrebbe comprato una casa. Sì, il denaro l'avrebbe speso così. Avrebbe comprato una casa in campagna, in qualche angolo dell'America, forse nella zona che chiamavano New England, dovunque fosse. Gli sembrava già di vederla, con i prati e gli alberi, e gli invitati per il fine settimana, in pantaloni bianchi e cappelli di paglia, e sua moglie che scendeva la scala di quercia pronta per una cavalcata, in pantaloni e stivali... Ma sua moglie aveva il volto di Margaret.
Lo aveva lasciato all'alba, passando furtivamente fra le tende quando non c'era nessuno a vederla. Harry aveva guardato dal finestrino pensando a lei mentre il Clipper sorvolava le abetaie di Terranova e ammarava a Botwood. Gli aveva detto che sarebbe rimasta a bordo durante la sosta, per dormire un'ora; e Harry aveva risposto che avrebbe fatto altrettanto, anche se non aveva intenzione di chiudere gli occhi. Al di là del finestrino, vedeva un gruppo di persone in soprabito che salivano sulla lancia: c'erano metà dei passeggeri e quasi tutti i membri dell'equipaggio. Adesso che quasi tutti coloro che erano rimasti a bordo dormivano aveva l'occasione di insinuarsi nella stiva. Le serrature dei bagagli non gli avrebbero fatto perdere molto tempo. Molto presto avrebbe avuto fra le mani la parure di Delhi. Ma si domandava se i seni di Margaret non fossero le gemme più preziose che avrebbe mai potuto toccare. Si impose di tornare con i piedi sulla terra. Margaret aveva passato la notte con lui: ma l'avrebbe rivista una volta sbarcati? Aveva sentito parlare dei "romanzetti di bordo", notoriamente effimeri; gli amori a bordo degli idrovolanti dovevano essere ancora più fuggevoli. Margaret non sognava altro che abbandonare i genitori e diventare indipendente; ma sarebbe accaduto davvero? Tante ragazze ricche si gingillavano con l'idea dell'indipendenza, ma in pratica era molto difficile rinunciare a una vita di lussi. Margaret era sincera al cento per cento, Harry lo sapeva; ma non immaginava come vive la gente comune, e quando avesse tentato di farlo non le sarebbe piaciuto. No, era impossibile prevedere cosa avrebbe fatto. I gioielli, al contrario, erano assolutamente affidabili. Sarebbe stato più semplice se avesse dovuto compiere una scelta diretta. Se il diavolo gli fosse apparso e avesse detto: «Puoi avere Margaret o rubare i gioielli, ma non l'uno e l'altro» avrebbe scelto Margaret. Ma la realtà era più complicata. Poteva rinunciare ai gioielli e perderla comunque. Oppure poteva avere tutto. Era sempre stato portato a rischiare. Decise di tentare di prendere tutto. Si alzò. Si infilò le pantofole e indossò la vestaglia. Si guardò intorno. Le tende delle cuccette di Margaret e di sua madre erano ancora chiuse. Le altre tre erano vuote: quella di Percy, di lord Oxenford e del signor Membury. La sala comune era deserta; c'era solo una donna delle pulizie, con il fazzolet-
to in testa, che presumibilmente era salita a bordo a Botwood e stava svuotando i portacenere con aria assonnata. Il portello era aperto, e l'aria fredda soffiava sulle caviglie nude di Harry. Nel terzo scompartimento, Clive Membury parlava con il barone Gabon. Harry si chiese di cosa discutessero: forse di panciotti? Più indietro, gli steward stavano ritrasformando le cuccette in divani. A bordo c'era l'atmosfera un po' squallida del mattino dopo. Harry andò a prua e salì la scala. Come al solito, non aveva un piano, non aveva scuse pronte e neppure la più vaga idea di ciò che avrebbe fatto se l'avessero sorpreso. Sapeva che quando cercava di pensare al futuro e di immaginare che le cose potevano mettersi male, finiva per diventare troppo ansioso. Ma anche così aveva il respiro corto per la tensione. Calmati, si disse: lo hai fatto centinaia di volte. Se andrà male inventerai qualcosa, come al solito. Arrivò sul ponte di comando e si guardò intorno. La fortuna era dalla sua parte. Non c'era nessuno. Respirò più agevolmente. Magnifico! Lanciò un'occhiata avanti e notò un portello basso, aperto sotto il parabrezza, fra i sedili dei piloti. Si affacciò e vide un ampio spazio vuoto nella prua dell'idrovolante. Nella fusoliera c'era una porta aperta e uno dei membri più giovani dell'equipaggio stava facendo qualcosa con una corda. No, questo non andava. Harry si affrettò a tirare indietro la testa per non farsi vedere. Percorse in fretta la cabina e varcò la porta in fondo. Adesso si trovava fra le due stive, sotto la botola da carico che includeva anche la cupoletta dell'ufficiale di rotta. Scelse la stiva di sinistra, entrò e si chiuse la porta alle spalle. Adesso nessuno lo vedeva; e immaginava che il personale non avesse alcun motivo di curiosare nelle stive. Si guardò intorno. Sembrava di essere in una valigeria di lusso. Dappertutto c'erano eleganti valigie di cuoio legate alle fiancate. Doveva trovare in fretta i bagagli degli Oxenford. Si mise al lavoro. Non era facile. Alcuni bagagli erano ammonticchiati con l'etichetta del nome sotto, altri erano coperti da valigie faticose da spostare. La stiva non era riscaldata e, in vestaglia, Harry aveva freddo. Le mani gli tremavano e le dita gli dolevano mentre slegava le corde che impedivano ai bagagli di muoversi durante il volo. Lavorava sistematicamente per non lasciarsi sfuggire nessun bagaglio e per non controllare due volte le stesse valigie. Tornò a legare le corde meglio che poteva. I nomi erano un assortimento
internazionale: Ridgeway, D'Annunzio, Lo, Hartmann, Bazarov... ma non Oxenford. Dopo venti minuti aveva controllato tutto; tremava di freddo e aveva accertato che i bagagli che cercava dovevano essere nell'altra stiva. Imprecò sottovoce. Legò l'ultima corda e si guardò intorno con attenzione. Non aveva lasciato tracce della sua visita. Ora doveva compiere lo stesso lavoro nell'altra stiva. Aprì la porta, uscì e una voce sbalordita esclamò: «Merda! Lei chi è?». Era l'ufficiale che Harry aveva visto nello scompartimento di prua, un giovane lentigginoso dall'aria cordiale in camicia a maniche corte. Harry era altrettanto sbalordito, ma riuscì a nasconderlo. Sorrise, si chiuse la porta alle spalle e rispose con calma: «Harry Vandenpost. E lei?». «Mickey Finn, assistente motorista. Non dovrebbe essere qui, signore. Mi ha spaventato. Scusi la parolaccia. Ma cosa sta facendo?» «Cerco la mia valigia» rispose Harry. «Ho dimenticato il rasoio.» «Signore, non è permesso accedere ai bagagli durante il viaggio. In nessun caso.» «Non pensavo che ci fosse qualcosa di male.» «Be', mi dispiace, non è consentito. Posso prestarle il mio rasoio, se vuole.» «La ringrazio, ma preferirei il mio. Se potessi trovare la mia valigia...» «Vorrei accontentarla, signore, ma proprio non posso. Quando tornerà a bordo il comandante potrà chiederlo a lui, ma so già che le risponderà allo stesso modo.» Con una stretta al cuore Harry si rese conto che doveva rassegnarsi alla sconfitta, almeno per il momento. Sorrise e, con tutto il garbo di cui era capace, disse: «Allora accetto in prestito il suo rasoio, grazie». Mickey Finn gli tenne aperta la porta, e Harry passò nella cabina di pilotaggio e scese la scala. Che sfortuna schifosa, pensò rabbiosamente. Ancora pochi secondi e ci sarei arrivato. Dio sa quando mi capiterà un'altra occasione. Mickey entrò nel primo scompartimento e ritornò con un rasoio di sicurezza, una lametta ancora nella bustina e una tazza con il sapone da barba. Harry li prese e lo ringraziò. Non gli restava che radersi. Portò la sua ventiquattrore nel bagno e continuò a pensare ai rubini birmani. Carl Hartmann, lo scienziato, era in pigiama e si lavava con energia. Harry lasciò nella valigia il suo rasoio di ottima qualità e usò in fretta quello di Mickey. «Che brutta notte» disse tanto per parlare.
Hartmann alzò le spalle. «Ne ho passate di peggiori.» Harry gli guardò la schiena ossuta: sembrava uno scheletro ambulante. «Ci credo» commentò. Non dissero altro. Hartmann non era loquace e Harry era assorto. Quando finì di radersi, Harry prese una camicia celeste nuova. Togliere dall'incarto una camicia nuova era uno dei piccoli, intensi piaceri della vita. Amava il fruscio della carta velina e il contatto vivo del cotone vergine. La indossò con gioia e fece un nodo perfetto alla cravatta di seta color vino. Quando tornò nello scompartimento vide che la tenda della cuccetta di Margaret era ancora chiusa. La immaginò addormentata, i magnifici capelli sparsi sul cuscino, e sorrise tra sé. Si affacciò nella sala comune e vide gli steward intenti a preparare una colazione che gli fece venire l'acquolina in bocca: fragole con panna, spremuta d'arancia e champagne in ghiaccio nei secchielli d'argento. Dovevano essere fragole di serra, in quella stagione. Rimise a posto la ventiquattrore e risalì sul ponte di comando con il rasoio di Mickey Finn, deciso a ritentare. Mickey non c'era ma, con grande disappunto di Harry, un altro membro dell'equipaggio stava seduto al tavolo delle carte e faceva calcoli su un blocco. L'uomo alzò la testa, sorrise e disse: «Salve. Posso esserle utile?». «Cerco Mickey. Devo restituirgli il rasoio.» «Lo troverà nel primo scompartimento, a prua.» «Grazie.» Harry esitò. Doveva trovare il modo di oltrepassare quell'uomo... ma come? «C'è altro?» chiese gentilmente quello. Il ponte di comando è qualcosa di incredibile» esclamò Harry. «Sembra un ufficio.» «Sì, incredibile davvero.» «Le piace volare con questi aerei?» «Moltissimo. Senta, mi piacerebbe avere tempo per parlare, ma devo finire questi calcoli e mi terranno impegnato fino al momento del decollo.» Harry provò una stretta al cuore. L'accesso alla stiva sarebbe rimasto bloccato fino alla partenza. Non gli veniva in mente nessun pretesto per entrare nella stiva. Ancora una volta si sforzò di nascondere il disappunto. «Mi scusi» disse. «Allora vado.» «A noi fa piacere parlare con i passeggeri, ma in questo momento...» «È colpa mia.» Harry si spremette ancora il cervello, poi rinunciò. Girò
sui tacchi e ridiscese la scala imprecando fra sé. A quanto pareva, la fortuna lo aveva abbandonato. Andò a prua e restituì a Mickey il rasoio; poi tornò nel suo scompartimento. Margaret non si era svegliata. Harry attraversò la sala comune e uscì sull'idrostabilizzatore. Aspirò a pieni polmoni l'aria umida e fredda. Sta per sfuggirmi la grande occasione della mia vita, pensò rabbioso. Gli prudevano le mani all'idea dei favolosi gioielli che si trovavano poche decine di centimetri sopra la sua testa. Ma non si era ancora arreso. C'era un altro scalo: Shediac. Sarebbe stata l'ultima possibilità di rubare il tesoro. PARTE QUINTA Da Botwood a Shediac 21 Eddie Deakin percepiva l'ostilità dei compagni mentre si dirigevano a terra con la lancia. Tutti evitavano di incontrare il suo sguardo. Sapevano di aver corso il rischio di restare senza carburante e di precipitare nell'oceano in tempesta. Si erano trovati in pericolo di vita. Nessuno sapeva perché fosse accaduto; ma il carburante era responsabilità del motorista, quindi la colpa era di Eddie. Dovevano aver notato che si comportava in modo strano. Era rimasto assorto per tutto il volo, a cena aveva parlato in modo da spaventare Tom Luther, e un finestrino si era rotto inspiegabilmente mentre lui era nella toilette. Non c'era da meravigliarsi se gli altri pensavano che non fosse più affidabile al cento per cento. Sensazioni come quelle si diffondevano in fretta in un equipaggio molto unito, quando la salvezza di ciascuno dipendeva dagli altri. Rendersi conto che i compagni non si fidavano più di lui era fonte di amarezza. Era sempre stato orgoglioso di venire considerato uno dei più affidabili. Come se non bastasse, non perdonava facilmente gli errori altrui, e aveva trattato male quanti si comportavano in modo discutibile a causa di problemi personali. «Le giustificazioni non volano» aveva detto a volte; il solo pensiero di quella frase gli dava i brividi. Aveva cercato di convincersi che non gliene importava nulla. Doveva salvare sua moglie e doveva farlo da solo; non poteva chiedere aiuto a nessuno e non poteva preoccuparsi dei sentimenti altrui. Aveva rischiato le vite dei colleghi; ma era andata bene, quindi tutto finiva lì. Il ragionamento
non faceva una grinza, e tutto il resto non contava. Il motorista Deakin, solido come una roccia, era diventato Eddie l'inaffidabile, un tipo da tenere d'occhio perché c'era il rischio che combinasse un disastro. Lui detestava gli individui come Eddie l'inaffidabile. Detestava se stesso. Molti passeggeri erano rimasti a bordo dell'aereo, come succedeva sempre a Botwood: ne approfittavano per dormire un po' mentre il Clipper era fermo. Anche Ollis Field, l'agente dell'FBI, e il suo prigioniero Frankie Gordino erano rimasti a bordo, ovviamente: non erano sbarcati neppure a Foynes. Tom Luther era nella lancia: indossava un cappotto con il collo di pelliccia e un cappello grigio tortora. Mentre si avvicinavano al molo, Eddie gli si accostò e sussurrò: «Aspettami alla sede della linea aerea. Ti condurrò al telefono». Botwood era un gruppo di case di legno raccolte intorno a un porto profondo nell'estuario riparato del fiume Exploits. Nemmeno i miliardari che viaggiavano sul Clipper riuscivano a trovare molto da comprare. Il villaggio aveva il telefono soltanto da giugno. Le poche automobili viaggiavano sul lato sinistro della strada perché Terranova era sotto il dominio britannico. Entrarono tutti nella sede della Pan American e l'equipaggio si diresse nella Sala operativa. Eddie lesse subito i bollettini meteorologici trasmessi via radio dal nuovo grande aeroporto di Gander Lake, a una sessantina di chilometri. Poi calcolò il fabbisogno di carburante per la prossima tratta. Era una tappa assai più breve e quindi i calcoli non erano molto importanti; l'aereo, comunque, non caricava mai più carburante del necessario perché il rifornimento costava. Era amareggiato mentre faceva i conti. Sarebbe mai riuscito, in futuro, a svolgere quelle mansioni senza pensare a quella giornata spaventosa? Era un interrogativo accademico: dopo ciò che stava per fare, non sarebbe più salito su un Clipper come motorista. Forse il comandante si stava già chiedendo se era opportuno fidarsi dei suoi calcoli. Eddie doveva fare qualcosa per riconquistarne la fiducia. Decise di mostrare qualche dubbio. Esaminò due volte le cifre risultanti poi le porse al comandante Baker e disse in tono neutro: «Vorrei che qualcuno le controllasse». «Non sarà male» rispose il capitano senza sbilanciarsi; ma sembrava sollevato, come se avesse voluto proporre lui stesso un controllo ma fosse riluttante a farlo. «Vado a prendere una boccata d'aria» dichiarò Eddie, e uscì. Trovò Tom Luther davanti alla sede della Pan American. Stava lì con le
mani in tasca e guardava cupo le mucche sul prato. «Ti accompagno all'ufficio del telegrafo» disse Eddie, e si incamminò su per la collina a passo deciso. Luther rimase indietro. «Ehi, tu, sbrigati» incalzò Eddie. «Devo tornare indietro.» Luther affrettò il passo. Sembrava che preferisse non irritarlo. E non c'era da stupirsi, visto che per poco non l'aveva buttato dall'aereo. Fecero un cenno di saluto ai due passeggeri che tornavano dall'ufficio del telegrafo, il signor Lovesey e la signora Lenehan. L'uomo indossava un giubbotto da pilota. Per quanto fosse distratto, Eddie notò che sembavano felici. La gente diceva sempre che lui e Carol-Ann sembravano felici insieme e provò una fitta dolorosa. Arrivarono all'ufficio e Luther fece la chiamata. Scrisse il numero su un pezzo di carta: non voleva che Eddie lo sentisse. Entrarono in una stanzetta con un telefono su un tavolo e un paio di sedie, e attesero la comunicazione con impazienza. A quell'ora del mattino le linee non dovevano essere sovraccariche, ma con ogni probabilità c'erano parecchi collegamenti da stabilire fra Botwood e il Maine. Eddie era sicuro che Luther avrebbe detto ai suoi uomini di condurre Carol-Ann all'appuntamento. Era un notevole passo avanti: significava che sarebbe stato libero di agire nel momento in cui l'operazione fosse terminata, invece di continuare a preoccuparsi per sua moglie. Ma come poteva agire, esattamente? La cosa più ovvia sarebbe stata avvertire subito per radio la polizia; ma Luther l'avrebbe previsto e con ogni probabilità avrebbe messo fuori uso la radio del Clipper. Nessuno avrebbe potuto far nulla finché non fossero arrivati i soccorsi. E ormai Gordino e Luther sarebbero stati a terra, in fuga a bordo di una macchina, e nessuno avrebbe saputo se erano in Canada o negli Stati Uniti. Eddie si spremeva il cervello alla ricerca di un modo per facilitare la caccia a Gordino, ma non gli veniva in mente nulla. Se dava l'allarme in anticipo, c'era il rischio che la polizia intervenisse troppo presto mettendo in pericolo Carol-Ann: Eddie non voleva neppure pensarci. Cominciò a domandarsi se aveva davvero ottenuto qualche risultato. Dopo un po' il telefono squillò e Luther sollevò il ricevitore. «Sono io» disse. «Il piano è cambiato. Dovete portare la donna sulla lancia.» Un silenzio, poi: «Il motorista vuole così, e dice che altrimenti non farà niente. Io gli credo; quindi portate la donna, intesi?». Dopo un altro silenzio, guardò Eddie. «Vogliono parlare con te.» Eddie sentì una stretta al cuore. Fino a quel momento Luther si era com-
portato come se fosse il capo. Adesso sembrava che non avesse nemmeno il potere di ordinare che Carol-Ann venisse accompagnata all'appuntamento. Chiese nervosamente: «Questo è il tuo capo?». «Il capo sono io» rispose Luther impacciato. «Ma ho dei soci.» Evidentemente ai complici non andava l'idea di portare Carol-Ann all'appuntamento. Eddie imprecò. Doveva offrire loro la possibilità di dissuaderlo? Aveva qualcosa da guadagnare a parlamentare? No, probabilmente no. Erano capaci di trascinare Carol-Ann al telefono e di farla urlare per costringerlo a cedere... «Digli che vadano a farsi fottere.» L'apparecchio era sul tavolo. Aveva parlato a voce alta nella speranza che lo udissero. Luther sembrava spaventato: «Non si parla così a quella gente!» protestò. Eddie si chiese se anche lui aveva motivo di spaventarsi. Forse aveva interpretato male la situazione. Se Luther era uno dei gangster, di cosa aveva paura? Ma non c'era tempo di riesaminare la sua posizione. Doveva attenersi al piano. «Voglio un sì o un no» ribatté. «Non ho nessun bisogno di parlare con quello stronzo.» «Oh, mio Dio!» Luther riprese il ricevitore. «Non vuole venire al telefono... ve l'avevo detto che faceva il difficile.» Poi un silenzio. «Sì, buona idea. Glielo dirò.» Si rivolse di nuovo a Eddie e gli porse il ricevitore. «C'è in linea tua moglie.» Eddie allungò la mano, ma subito la ritrasse. Se le avesse parlato, si sarebbe messo nelle loro mani. Ma aveva un bisogno disperato di sentire la voce di Carol-Ann. Fece appello a tutta la sua forza di volontà, affondò le mani nelle tasche e scosse la testa in silenzio. Luther lo fissò per un momento, quindi disse al telefono: «Non vuole parlare! Lui... Togliti di mezzo, stronza. Voglio parlare con...». Eddie lo afferrò alla gola e l'apparecchio cadde sul pavimento con un tonfo. Premette i pollici sul collo tozzo di Luther, che farfugliò: «No! Lasciami! Lasciami...». La stretta gli troncò la voce. La nebbia rossa che velava gli occhi di Eddie si disperse. Si rese conto che stava per ucciderlo. Allentò la pressione ma senza lasciarlo. Si accostò, faccia a faccia, così vicino che Luther sbatté le palpebre. «Stai a sentire» ordinò. «Tu devi chiamare mia moglie "signora Deakin".» «D'accordo! D'accordo!» disse Luther con voce rauca. «Lasciami andare, Cristo!» Eddie lo lasciò.
Luther si massaggiò il collo, ansimando. Riprese il telefono. «Vincini? Mi è saltato alla gola solo perché ho chiamato sua moglie... con una brutta parola. Dice che devo chiamarla signora Deakin. Adesso ha capito, o devo spiegarlo con un disegno? È capace di fare qualunque cosa!» Un silenzio. «Sì, credo che potrei sistemarlo, ma se la gente ci vede litigare, cosa penserà? Potrebbe rovinare tutto!» Questa volta il silenzio si protrasse più a lungo. «Bene, glielo dirò. Senta, è la decisione giusta. Lo so. Un momento.» Si rivolse a Eddie. «Hanno accettato. Sarà sulla lancia.» Eddie si sforzò di nascondere l'immenso sollievo. Luther continuò nervosamente: «Però devo avvertirti: se ci saranno degli ostacoli, lui le sparerà». Eddie gli strappò l'apparecchio dalle mani: «Stai a sentire, Vincini. Uno: voglio vedere mia moglie sul ponte della lancia prima di aprire i portelli dell'aereo. Due: dovrà salire a bordo con voi. Tre: Non mi interessa se ci saranno degli ostacoli, ma se le succederà qualcosa ti ammazzerò con le mie mani. Non dimenticarlo, Vincini!». E prima che l'altro avesse il tempo di rispondere, riattaccò. Luther sembrava sgomento. «Perché l'hai fatto?» Riprese il ricevitore e batté sul gancio. «Pronto? Pronto?» Scosse la testa e riattaccò. «Troppo tardi.» Fissò Eddie con un miscuglio di rabbia e di paura. «Ti piace vivere pericolosamente, eh?» «Vai a pagare la telefonata» gli rispose Eddie. Luther si frugò nella tasca interna ed estrasse un grosso rotolo di banconote. «Senti» disse «è inutile arrabbiarsi. Ti ho dato quello che volevi. Adesso dobbiamo collaborare perché l'operazione riesca, nell'interesse di tutti e due. Perché non cerchiamo di andare d'accordo? Ormai siamo soci.» «Vai a farti fottere, stronzo» replicò Eddie, e uscì. Era più furibondo che mai mentre tornava al porto. L'ultima frase di Luther lo aveva punto sul vivo. Aveva fatto quanto poteva per proteggere Carol-Ann, ma era pur sempre impegnato a collaborare alla liberazione di Frankie Gordino, assassino e stupratore. Il fatto che fosse costretto pareva giustificarlo, e forse l'avrebbe giustificato agli occhi degli altri; ma gli sembrava che non facesse nessuna differenza. Sapeva che se fosse stato al gioco fino in fondo non avrebbe più avuto il coraggio di andare in giro a testa alta. Mentre scendeva verso la baia guardò il Clipper galleggiare maestoso sulla superficie calma. La sua carriera sui Clipper era finita, lo sapeva. E anche questo lo sconvolgeva. All'ancora c'erano due grossi mercantili e di-
versi pescherecci; con sorpresa notò una motovedetta della Marina degli Stati Uniti ormeggiata al molo. Chissà cosa faceva a Terranova! Forse era lì a causa della guerra? Gli ricordava il tempo in cui anche lui era in Marina. Adesso gli sembrava un periodo d'oro, quando la vita era semplice. Forse il passato appare sempre più bello quando si è nei guai. Entrò nella sede della Pan American. Nell'atrio dipinto di verde e bianco c'era un uomo in uniforme di tenente che doveva essere sceso dalla motovedetta. Quando Eddie entrò, l'ufficiale si girò verso di lui. Era un omaccione con una brutta faccia, gli occhi piccoli e troppo vicini e una verruca sul naso. Eddie lo fissò, sbalordito e felice. Non riusciva a credere ai propri occhi. «Steve?» chiese. «Sei proprio tu?» «Ciao, Eddie.» «Come diavolo...» Era Steve Appleby, che Eddie aveva cercato di contattare dall'Inghilterra; il suo migliore amico, l'unico uomo che voleva avere al fianco in una situazione difficile. Era davvero incredibile. Steve si avvicinò. Si abbracciarono e si scambiarono pacche sulle spalle. «Dovresti essere nel New Hampshire... cosa diavolo ci fai da queste parti?» «Nella ha detto che quando hai chiamato sembravi disperato» rispose Steve, serio. «Accidenti, Eddie, io non ti ho mai visto neppure un po' scosso. Sei sempre stato solido come una roccia. Ho capito che dovevi essere in una brutta situazione.» «È vero. Io...» Eddie fu sopraffatto dall'emozione. Per venti ore s'era tenuto serrati dentro i suoi sentimenti, e stava per esplodere. Il fatto che il suo migliore amico avesse mosso cielo e terra per venire ad aiutarlo lo commosse profondamente. «Sono in una brutta situazione, davvero» confessò. Gli salirono le lacrime agli occhi, la gola gli si chiuse. Non riuscì a parlare. Si voltò e uscì. Steve lo seguì. Eddie lo condusse oltre l'angolo, varcò la grande porta aperta ed entrò nella rimessa vuota dove di solito veniva tenuta la lancia. Lì nessuno poteva vederli. Steve parlò per primo, per nascondere l'imbarazzo. «Non so neppure io quanti favori ho dovuto chiedere per venire qui. Sono in Marina da otto anni, e molti avevano debiti di gratitudine con me; ma oggi li hanno ripagati tutti, e adesso sono io in debito. Ci vorranno altri otto anni per pareggiare il conto!» Eddie annuì. Steve era un gran maneggione, uno dei più abili della Marina. Avrebbe voluto ringraziarlo ma non riusciva a trattenere le lacrime.
Steve cambiò tono. «Eddie, cosa diavolo succede?» «Loro hanno preso Carol-Ann» riuscì a rispondere. «Loro chi, in nome di Cristo?» «La banda Patriarca.» Steve lo fissò, incredulo. «Ray Patriarca? Quello del racket?» «L'hanno sequestrata.» «Dio onnipotente! E perché?» «Vogliono che io faccia ammarare il Clipper.» «Ma perché?» Eddie si asciugò il viso con la manica e si dominò con uno sforzo. «A bordo c'è un agente dell'FBI con un detenuto, un delinquente che si chiama Frankie Gordino. Immagino che Patriarca voglia liberarlo. Comunque, un passeggero che dice di chiamarsi Tom Luther mi ha ordinato di fare ammarare l'aereo al largo della costa del Maine. Ci sarà una lancia ad attendere, e a bordo ci sarà Carol-Ann. Scambieranno Carol-Ann con Gordino, poi Gordino sparirà.» Steve annuì. «E Luther è stato abbastanza intelligente da capire che l'unico modo per costringere Eddie Deakin a collaborare era sequestrare sua moglie.» «Sì.» «Che bastardi!» «Voglio quei farabutti, Steve. Voglio crocifiggerli. Voglio inchiodare quei bastardi, lo giuro.» Steve scosse la testa. «Ma cosa puoi fare?» «Non lo so. Perciò ti ho cercato.» Steve aggrottò la fronte. «Per loro la fase pericolosa è tra il momento in cui salgono sull'aereo e quello in cui tornano alla macchina. Forse la polizia può trovare l'auto e tendere un'imboscata.» Eddie ne dubitava. «E come farebbe la polizia a riconoscerla? Sarà una macchina come le altre, parcheggiata vicino a una spiaggia.» «Vale la pena di tentare.» «Non è abbastanza, Steve. Troppe cose potrebbero andare male. E non voglio coinvolgere la polizia... può fare qualcosa che metterebbe in pericolo Carol-Ann.» Steve annuì. «E la macchina potrebbe essere al di qua o al di là del confine, quindi dovremmo far intervenire anche la polizia canadese. Diavolo, il segreto non reggerebbe neppure per cinque minuti. No, meglio lasciar fuori la polizia. Rimangono la Marina e la Guardia Costiera.»
Eddie si sentiva un po' meglio per il solo fatto di poter discutere il problema con qualcuno. «Parliamo della Marina.» «D'accordo. Supponiamo che io possa mandare una motovedetta a intercettare la lancia dopo lo scambio, prima che Gordino e Luther arrivino a terra.» «Potrebbe funzionare» convenne Eddie, cominciando a sperare. «Ma tu potresti farlo?» Era quasi impossibile far muovere un mezzo della Marina al di fuori delle vie gerarchiche. «Credo di riuscirci. Sono tutti impegnati nelle manovre, nell'eventualità che i nazisti decidano di invadere il New England dopo la Polonia. È solo questione di far cambiare rotta a qualcuno. E chi può farlo è il padre di Simon Greenbourne... ti ricordi di Simon?» «Certo.» Eddie ricordava un ragazzo scatenato con un bizzarro senso dell'umorismo e una sete inestinguibile di birra. Si metteva sempre nei guai, ma se la cavava a buon mercato perché era figlio di un ammiraglio. Steve continuò: «Una volta Simon ha passato il segno: ha dato fuoco a un bar di Pearl City e ha bruciato mezzo isolato. È una storia lunga, ma gli ho evitato la galera e suo padre mi è eternamente grato. Credo che sarà disposto ad aiutarmi». Eddie guardò la motovedetta con cui Steve era arrivato. Era un cacciasommergibili classe SC, vecchio di vent'anni, con lo scafo di legno, ma armato di una mitragliatrice calibro 23 e bombe di profondità. Sufficiente a terrorizzare un branco di mafiosi cittadini a bordo di una lancia. Ma dava nell'occhio. «La vedrebbero da lontano e si metterebbero in allarme» obiettò ansioso. Steve scosse la testa. «Quei mezzi si possono nascondere nelle piccole insenature. Pescano meno di due metri a pieno carico.» «È rischioso, Steve.» «E allora? Quelli vedono una motovedetta della Marina che li lascia in pace. Cosa credi che faranno... annulleranno l'operazione?» «Potrebbero fare del male a Carol-Ann.» Steve sembrò sul punto di ribattere. Poi cambiò idea: «È vero» convenne. «Potrebbe capitare qualunque cosa. Tu sei l'unico che ha il diritto di dire se possiamo correre il rischio.» Eddie sapeva che Steve non diceva ciò che pensava veramente. «Credi che io sia spaventato a morte, no?» gli chiese brusco. «Sì. Ne hai tutte le ragioni.» Eddie diede un'occhiata all'orologio. «Cristo, devo tornare nella Sala o-
perativa.» Aveva deciso. Steve gli aveva proposto il miglior piano che poteva organizzare, e adesso spettava a lui decidere. Steve aggiunse: «C'è una cosa che forse non hai considerato. Può darsi che abbiano comunque intenzione di fregarti». «E come?» Steve alzò le spalle. «Non lo so, ma quando saranno a bordo del Clipper sarà un problema discutere con loro. Potrebbero decidere di portare via Gordino e anche Carol-Ann.» «E perché diavolo dovrebbero farlo?» «Per assicurarsi che tu non collabori con la polizia per un po' di tempo.» «Merda.» E c'era anche un'altra ragione, pensò Eddie. Aveva inveito contro quegli individui, li aveva insultati. Forse meditavano di dargli una lezione. Era con le spalle al muro. Ormai doveva accettare il piano di Steve. Era troppo tardi per fare diversamente. E Dio mi perdoni se sbaglio, pensò. «D'accordo» decise. «Ci sto.» 22 La prima cosa che Margaret pensò al risveglio fu: Oggi devo dirlo a mio padre. Raccolse le idee per ricordare cosa doveva dirgli; non voleva andare a vivere con loro nel Connecticut; intendeva lasciar la famiglia e trovarsi un alloggio e un lavoro. E lui avrebbe fatto una scenata. Fu sopraffatta da una sensazione nauseante di paura e di vergogna. Era una sensazione nota, e l'assaliva ogni volta che voleva sfidare suo padre. Ho diciannove anni, pensò; sono una donna. Stanotte ho fatto appassionatamente l'amore con un uomo meraviglioso. Perché ho ancora paura di mio padre? Era sempre stato così, a quanto ricordava. Non aveva mai capito perché fosse tanto deciso a tenerla in gabbia. Si comportava nello stesso modo con Elizabeth, ma non con Percy. Forse voleva che le sue figlie fossero gingilli inutili. Si infuriava sempre quando desideravano fare qualcosa di pratico, come imparare a nuotare, costruire una casetta su un albero o andare in bicicletta. Non se la prendeva se spendevano parecchio in abiti da
sera, ma non permetteva che avessero un conto aperto in una libreria. Non era solo la prospettiva della sconfitta a darle la nausea. Era il modo in cui diceva di no, con rabbia e disprezzo, con frecciatine sarcastiche e la faccia paonazza per la collera. Spesso aveva cercato di aggirarlo con l'inganno, ma c'era riuscita molto di rado; aveva un tale terrore che lui sentisse raspare il micino nascosto in soffitta, o la sorprendesse a giocare con i bambini del villaggio, o trovasse nella sua camera Le vicissitudini di Evangeiina di Elinor Glyn, che tutte quelle gioie proibite finivano col perdere ogni fascino. Era riuscita ad andare contro la sua volontà solo con un aiuto esterno. Monica l'aveva iniziata ai piaceri del sesso, e suo padre non aveva potuto toglierle quella soddisfazione. Percy le aveva insegnato a sparare, Digby a guidare. E forse adesso Harry Marks e Nancy Lenehan l'avrebbero aiutata a diventare indipendente. Aveva già l'impressione di essere diversa. Sentiva nei muscoli un indolenzimento piacevole, come se avesse passato la giornata impegnata in un lavoro faticoso all'aria aperta. Rimase sdraiata nella cuccetta e si passò le mani sul corpo. Negli ultimi sei anni si era vista brutta, con rotondità eccessive e sgraziate e capelli troppo vistosi; ma adesso, all'improvviso, il suo corpo le piaceva. Harry sembrava giudicarlo meraviglioso. Dall'esterno della tenda giungevano rumori sommessi. I passeggeri si stavano svegliando, pensò. Sbirciò all'esterno. Nicky smontava le cuccette di fronte, dove avevano dormito sua madre e suo padre e ricomponeva il divano. Quelle di Harry e del signor Membury erano già state rifatte. Harry, vestito di tutto punto, era seduto al suo posto e guardava dal finestrino con aria meditabonda. Sopraffatta dalla timidezza, Margaret richiuse la tenda prima che potesse vederla. Era strano: poche ore prima tra loro c'era stata la massima intimità, ma adesso si sentiva imbarazzata. Si chiese dove fossero gli altri. Percy era probabilmente sceso a terra, e il papà doveva aver fatto lo stesso: in genere si svegliava presto. La mamma non aveva mai molte energie, al mattino; di sicuro era nella toilette delle signore. Il signor Membury non si vedeva. Margaret guardò dal finestrino. Era giorno. L'idrovolante era all'ancora davanti a un paesetto circondato da una pineta. Era uno scenario molto tranquillo. Si riadagiò, assaporando quel momento di solitudine e il ricordo della notte; rievocò i particolari e li riordinò come fotografie in un album. Ave-
va la sensazione di aver perduto veramente la verginità, quella notte. Con Ian i rapporti erano stati frettolosi, difficili e troppo rapidi, e lei si era sentita come una bambina disubbidiente che imita un gioco riservato ai più grandi. Ma quella notte lei e Harry si erano comportati come due adulti che si davano reciprocamente piacere. Erano stati discreti ma non furtivi; timidi ma non imbarazzati; incerti ma senza goffaggine. Si era sentita donna. Voglio che continui così, pensò. E si abbracciò, in uno slancio audace. Immaginò Harry come lo aveva appena visto, seduto accanto al finestrino, con la camicia celeste e un'espressione pensierosa sul bel volto, e sentì improvviso il desiderio di baciarlo. Si sollevò a sedere, si assestò la vestaglia sulle spalle, aprì la tenda e disse: «Buongiorno, Harry». Lui girò la testa di scatto, come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di illecito. A cosa stavi pensando? chiese mentalmente lei. Harry la guardò negli occhi e sorrise. Margaret ricambiò il sorriso e si accorse che non riusciva a smettere. Si sorrisero come due stupidi per un lungo minuto. Finalmente Margaret abbassò lo sguardo e si alzò. Lo steward, che stava sistemando il divano di sua madre, si voltò e disse: «Buongiorno, lady Margaret. Vuole una tazza di caffè?». «No, grazie, Nicky.» Con ogni probabilità aveva un aspetto da far paura e voleva arrivare in fretta davanti a uno specchio per pettinarsi. Si sentiva spogliata. Anzi, lo era davvero, mentre Harry si era fatto la barba e aveva indossato una camicia pulita e sembrava addirittura rimesso a nuovo. Comunque, desiderava baciarlo. Infilò le pantofole e ricordò che le aveva lasciate sventatamente accanto alla cuccetta di Harry e ricuperate una frazione di secondo prima che suo padre potesse vederle. Infilò le braccia nelle maniche della vestaglia e si accorse che Harry le guardava il seno. Non si offese; anzi, ne provò piacere. Annodò la cintura e si passò le dita fra i capelli. Nicky finì il suo lavoro. Margaret si augurò che lasciasse lo scompartimento per poter baciare Harry. Invece le chiese: «Posso sistemare la sua cuccetta?». «Certo» rispose lei, delusa. Si domandò quanto avrebbe dovuto attendere un'altra occasione di baciare Harry; gli lanciò un'occhiata di rammarico, prese la valigetta e uscì. L'altro steward, Davy, stava preparando il buffet della colazione in sala da pranzo. Margaret rubò una fragola sentendosi peccaminosa e percorse tutto l'aereo. La maggior parte delle cuccette erano state ritrasformate in divani, e alcuni passeggeri assonnati bevevano il caffè. Margaret vide il si-
gnor Membury parlare animatamente con il barone Gabon e si chiese cosa avessero da dirsi due persone tanto diverse. Mancava qualcosa: e dopo un momento capì di cosa si trattava: non c'erano i giornali del mattino. Entrò nello spogliatoio delle signore. Sua madre era seduta davanti allo specchio. All'improvviso Margaret si sentì assalire dal rimorso. Come ho potuto fare certe cose, pensò turbata, mentre la mamma era a due passi da me? Sentì il rossore salirle alle guance. Con uno sforzo disse: «Buongiorno, mamma». Con sorpresa scoprì che la sua voce sembrava del tutto normale. «Buongiorno, cara. Mi sembri un po' accaldata. Hai dor mito?» «Ho dormito benissimo» rispose, arrossendo ancora di più. Poi, con un'ispirazione improvvisa, aggiunse: «Mi sento in colpa perché ho rubato una fragola dal buffet della colazione». E si rifugiò nella toilette. Quando uscì, fece scorrere l'acqua nel lavabo e si lavò energicamente la faccia. Le dispiaceva dover indossare ancora l'abito del giorno prima. Avrebbe preferito qualcosa di fresco. Si spruzzò un altro po' di profumo. Harry le aveva detto che gli piaceva: e aveva addirittura capito che era "Tosca". Era il primo uomo di sua conoscenza capace di riconoscere i profumi. Si spazzolò a lungo i capelli. Erano la cosa più bella che aveva, e doveva metterli in risalto. Dovrei avere più cura del mio aspetto, pensò. Non ci aveva fatto caso, finora; ma adesso le sembrava importante. Avrei bisogno di vestiti che mettano in risalto la mia figura, e scarpe eleganti che attirino l'attenzione sulle mie lunghe gambe, e colori che si intonino ai capelli rossi e agli occhi verdi. L'abito che portava adesso andava bene: era rossomattone. Ma era abbondante e piuttosto informe. Si guardò allo specchio, e pensò che le avrebbe donato di più se avesse avuto le spalle più squadrate e una cintura in vita. La mamma non le avrebbe mai permesso di truccarsi, naturalmente, quindi doveva rassegnarsi a essere pallida. Ma almeno aveva i denti molti belli. «Sono pronta» disse allegra. La mamma non si era mossa. «Immagino che andrai a chiacchierare con il signor Vandenpost.» «Penso di sì, dato che non c'è nessun altro nello scompartimento e tu sei ancora occupata a restaurarti la faccia.» «Non essere così impertinente. Quell'uomo ha qualcosa dell'ebreo.» Be', non è circonciso, pensò Margaret. Era sul punto di dirlo, per dispetto. Invece cominciò a ridacchiare. Sua madre si risentì. «Non c'è nulla da ridere. Sappi che non ti permette-
rò di rivedere quel giovanotto dopo che saremo sbarcati.» «Allora sarai felice di sapere che non me ne importa niente.» Era vero. Margaret aveva deciso di lasciare i genitori, quindi ciò che intendevano o non intendevano permetterle non aveva nessuna importanza. Sua madre le lanciò un'occhiata insospettita. «Perché mai ho l'impressione che tu non sia sincera?» «Perché i tiranni non possono mai fidarsi di nessuno» esclamò Margaret. Era un'ottima battuta finale, pensò, e si avviò alla porta. Ma sua madre la richiamò. «Non andare via, tesoro» disse, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Voleva dire Non uscire di qui oppure Non abbandonare la famiglia? Poteva aver indovinato quello che lei intendeva fare? Aveva sempre avuto un intuito penetrante. Margaret non fiatò. «Ho già perduto Elizabeth, non sopporterei di perdere anche te.» «Ma è colpa del papà!» scattò Margaret. Avrebbe voluto piangere. «Non puoi impedirgli di comportarsi in modo tanto tremendo?» «Credi che non cerchi di farlo?» Margaret era stupefatta. Sua madre non aveva mai ammesso che suo marito poteva avere torto. «Io non posso farci niente, se lui è così» si giustificò, avvilita. «Potresti cercare di non provocarlo.» «Vuoi dire che dovrei cedere sempre.» «Perché no? Sarà così finché non ti sposerai.» «Se tu gli tenessi testa, forse si comporterebbe in modo diverso.» Sua madre scosse la testa, tristemente. «Non posso prendere le tue difese contro di lui, cara. È mio marito.» «Ma ha torto!» «Questo non cambia nulla. Lo capirai quando sarai sposata.» Margaret si sentì con le spalle al muro. «Non è giusto.» «Non sarà per molto. Ti chiedo solo di sopportarlo ancora qualche tempo. Quando compirai ventun anni sarà diverso, te lo assicuro, anche se non sarai sposata. Lo so che è difficile. Ma non voglio che tu sia messa al bando come la povera Elizabeth...» Margaret si rese conto che sarebbe rimasta sconvolta quanto lei, se fossero diventate due estranee. «Neppure io lo voglio, mamma» esclamò. Si avvicinò allo sgabello. La mamma spalancò le braccia. Si abbracciarono, un po' a fatica, Margaret in piedi e sua madre seduta. «Promettimi che non litigherai con lui» chiese la mamma.
Sembrava così triste che Margaret avrebbe desiderato con tutto il cuore farle quella promessa; ma qualcosa la trattenne. Rispose soltanto: «Cercherò, mamma. Davvero». Sua madre la lasciò andare, la guardò, e Margaret le lesse in viso la rassegnazione. «Grazie comunque» le disse. Non c'era altro da aggiungere. Margaret uscì. Harry si alzò quando la vide entrare nello scompartimento. Lei era così sconvolta che dimenticò ogni cautela e gli gettò le braccia al collo. Dopo un momento di stupita esitazione, Harry ricambiò l'abbraccio e le baciò i capelli. Margaret cominciò a sentirsi subito meglio. Riaprì gli occhi e vide l'espressione sbalordita del signor Membury che era tornato al suo posto. Non le importava molto; tuttavia si staccò da Harry. Si sedettero nell'altra parte dello scompartimento. «Dobbiamo fare un piano» disse Harry. «Forse questa è per noi l'ultima occasione di parlare da soli.» Margaret sapeva che fra poco i suoi genitori e Percy sarebbero tornati e risaliti a bordo con gli altri passeggeri; da quel momento lei e Harry non sarebbero più rimasti soli. Fu assalita da un senso di panico mentre immaginava loro due che si separavano a Port Washington e non si rivedevano mai più. «Dove posso trovarti? Presto, dimmelo!» chiese. «Non lo so... non so dove andrò. Ma non preoccuparti, mi metterò in contatto con te. In che albergo alloggerete?» «Al Waldorf. Mi telefonerai questa sera? Devi farlo!» «Calmati. Certo, ti telefonerò. Dirò di essere il signor Marks.» Il tono disteso di Harry le diede la sensazione di essere sciocca e un po' egoista. Doveva pensare a lui, non solo a se stessa. «Dove passerai la notte?» «Troverò un albergo poco costoso.» Margaret fu colpita da un'idea: «Ti piacerebbe infilarti di nascosto nella mia camera al Waldorf?». Harry sogghignò. «Dici sul serio? Lo sai che mi piacerebbe!» Lei era felice di farlo contento. «Di solito dividevo la camera con mia sorella, ma adesso sarò sola.» «Magnifico! Non vedo l'ora.» Margaret sapeva che lui amava la bella vita, e voleva accontentarlo. Cos'altro gli sarebbe piaciuto? «Ordineremo uova strapazzate e champagne, serviti in camera.»
«Vorrei restare là in eterno.» Quelle parole la riportarono alla realtà. «Fra qualche giorno i miei genitori andranno nella casa del nonno nel Connecticut. E allora dovrò trovarmi un posto dove andare a vivere.» «Lo cercheremo insieme» affermò Harry. «Magari prenderemo alloggio nella stessa casa, o qualcosa del genere.» «Davvero?» Margaret era emozionata. Alloggiare nella stessa casa! Era proprio ciò che voleva. Aveva temuto che Harry si precipitasse a chiederle di sposarlo, e al tempo stesso aveva avuto paura che non volesse più rivederla. Ma quella era la soluzione ideale. Poteva stargli vicino e imparare a conoscerlo meglio senza un legame troppo precipitoso. E poteva andare a letto con lui. Però c'era un inconveniente. «Se andrò a lavorare per Nancy Lenehan, dovrò stare a Boston.» «Posso venire a Boston anch'io.» «Davvero?» Margaret non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Un posto vale l'altro. Dove si trova, comunque?» «Nel New England.» «Nuova Inghilterra... somiglia a quella vecchia?» «Be', ho sentito dire che la gente è molto snob.» «Allora sarà come essere a casa.» «Che alloggio prenderemo?» chiese Margaret, eccitata. «Voglio dire, quante stanze e così via?» Harry sorrise. «Avrai una stanza sola, e faticherai a pagare perfino quella. Se somiglia all'equivalente inglese, avrà mobili scadenti e una sola finestra. Con un po' di fortuna, può darsi che ci sia un fornelletto elettrico o a gas per fare il caffè. E il bagno sarà in comune.» «E la cucina?» Lui scosse la testa. «Non puoi permetterti la cucina. Il pranzo sarà l'unico pasto caldo della giornata. Quando tornerai a casa, mangerai una fetta di torta con una tazza di tè, e magari potrai farti il pane tostato se avrai una piastra elettrica.» Margaret capì che Harry cercava di prepararla a quella che considerava una realtà spiacevole; ma a lei sembrava meravigliosamente romantico. Potersi preparare il tè e pane tostato quando voleva, in una cameretta tutta sua, senza doversi preoccupare dei genitori e senza i domestici che borbottavano... Sembrava un paradiso. «I proprietari di solito vivono lì?» «A volte, ed è molto utile perché tengono bene la casa, anche se ficcano il naso nella tua vita privata. Se il proprietario vive altrove, spesso la casa è
lasciata andare: tubature rotte, intonaco scrostato, tetti da cui filtra l'acqua e altri inconvenienti simili.» Margaret si rendeva conto che aveva moltissimo da imparare, ma niente di ciò che Harry diceva la sgomentava: era troppo esaltante. Prima che riuscisse a fare altre domande, ritornarono i passeggeri e i membri dell'equipaggio che erano sbarcati; nello stesso momento la mamma rientrò dalla toilette, pallida ma bella. L'euforia di Margaret si sgonfiò. Ricordò il dialogo con sua madre e si rese conto che l'incanto della fuga con Harry si sarebbe mescolato con la sofferenza. Di solito non mangiava molto al mattino, ma quel giorno era affamata. «Vorrei un po' di uova e pancetta» disse. «Anzi, una porzione abbondante.» Incontrò lo sguardo di Harry e ricordò che aveva fame perché aveva fatto l'amore con lui tutta la notte. Represse un sorriso. Harry le lesse nel pensiero e si affrettò a distogliere gli occhi. L'aereo decollò qualche minuto più tardi. A Margaret sembrò estremamente eccitante, anche se era un'esperienza che si ripeteva per la terza volta. Comunque, non aveva più paura. Ripensò al colloquio con Harry. Voleva andare a Boston con lei! Anche se era così bello e affascinante e aveva certo molte possibilità con ragazze del suo genere, sembrava che fosse attratto da lei in un modo speciale. Era una cosa improvvisa, ma Harry si comportava con buon senso: non faceva promesse assurde, però era pronto a fare praticamente di tutto per restare con lei. Il suo impegno le cancellò ogni dubbio dalla mente. Fino a quel momento non aveva voluto pensare a un futuro assieme a lui; ma adesso provava una fiducia assoluta. Avrebbe avuto tutto ciò che voleva: libertà, indipendenza e amore. Non appena l'aereo si mise in assetto orizzontale i passeggeri furono invitati a servirsi al buffet della colazione, e Margaret fu veloce ad andare. Tutti presero fragole e panna, tranne Percy che preferì i cornflakes. Papà prese champagne con le fragole, e Margaret prese anche i panini caldi imburrati. Mentre stava per tornare nello scompartimento, incontrò lo sguardo di Nancy Lenehan che si era fermata davanti al porridge caldo. Nancy era elegante come sempre e portava una camicetta di seta blu al posto di quella grigia del giorno prima. Chiamò Margaret con un cenno e le disse a voce bassa: «A Botwood ho ricevuto una telefonata molto importante. Oggi vincerò. Può stare sicura: avrà il posto».
Margaret sorrise raggiante. «Oh, grazie!» Nancy le mise sul piattino del pane un biglietto da visita. «Mi chiami quando sarà pronta.» «Certo! Fra pochissimi giorni! Grazie!» Nancy si portò l'indice alle labbra e strizzò l'occhio. Margaret tornò euforica al suo scompartimento. Sperava che suo padre non avesse notato il biglietto da visita. Non voleva che facesse domande. Per fortuna era troppo occupato a mangiare per accorgersi di qualcos'altro. Mentre faceva colazione, Margaret si rese tuttavia conto che doveva dirglielo, prima o poi. La mamma l'aveva pregata di evitare uno scontro, ma era impossibile. L'ultima volta aveva cercato di svignarsela, ed era stato inutile. Adesso intendeva annunciare apertamente che se ne andava, in modo che lo sapesse tutto il mondo. Non dovevano esserci segreti, o pretesti per chiamare la polizia. Doveva fargli capire chiaramente che aveva posto dove andare e amici che l'avrebbero aiutata. L'aereo era senza dubbio il posto più adatto per affrontarlo. Elizabeth l'aveva fatto sul treno, e il sistema aveva funzionato perché lui era stato obbligato a controllarsi. Più tardi, in albergo, avrebbe potuto fare tutto quello che voleva. Quando dirglielo? Meglio prima che dopo; suo padre sarebbe stato dell'umore migliore subito dopo una colazione accompagnata da champagne. Più tardi, dopo un paio di cocktail e qualche bicchiere di vino, sarebbe diventato più irascibile. Percy si alzò e disse: «Vado a prendere un altro po' di cornflakes». «Siediti» gli ordinò il padre. «Stanno per servire la pancetta. Hai già mangiato anche troppe porcherie.» Chissà per quale ragione, era contrario ai cornflakes. «Ho ancora fame» ribatté Percy, e con grande sorpresa di Margaret uscì. Papà era sbalordito. Percy non lo aveva mai sfidato apertamente. La mamma si limitò a sgranare gli occhi. Tutti attesero il ritorno il Percy. Ricomparve con una scodella piena di cornflakes. Sotto lo sguardo di tutti, si sedette e cominciò a mangiare. «Ti avevo detto di non prenderne altri.» Percy replicò: «Non sei tu quello che deve mangiarli». E continuò a masticare. Papà sembrava sul punto di schizzare in piedi, ma in quel momento arrivò dalla cucina Nicky con un piatto di salsicce, pancetta e uova affogate. Per un secondo, Margaret pensò che suo padre avrebbe scagliato il piatto
in faccia a Percy; ma aveva troppa fame. Prese coltello e forchetta e chiese: «Mi porti un po' di senape inglese». «Mi dispiace, ma non abbiamo senape, signore.» «Come posso mangiare le salsicce senza la senape?» chiese lui furioso. Nicky sembrava spaventato. «Mi dispiace, signore... nessuno l'aveva mai chiesto. Me la procurerò per il prossimo volo.» «Non mi servirà a molto, vero?» «Temo di no. Mi scusi.» Papà borbottò e cominciò a mangiare. Aveva sfogato la rabbia con lo steward e Percy se l'era cavata. Margaret era sorpresa: non era mai accaduta una cosa simile. Nicky le portò uova e pancetta e Margaret mangiò di buon appetito. Possibile che suo padre si fosse ammorbidito un po', finalmente? La fine delle sue speranze politiche, l'inizio della guerra, l'esilio e la ribellione della figlia maggiore sommati insieme erano forse riusciti a incrinare il suo egocentrismo e a renderlo più malleabile. Non poteva esserci un momento più adatto per dirglielo. Margaret terminò la colazione e attese che finissero anche gli altri. Poi aspettò che lo steward portasse via i piatti, e che suo padre bevesse un altro caffè. Finalmente non ci fu più motivo di rimandare. Si spostò sul sedile centrale del divano, accanto a sua madre e quasi di fronte a suo padre. Respirò profondamente e disse: «Ho una cosa da dirti, papà, e spero che non ti arrabbierai». «Oh, no...» mormorò la mamma. Il papà chiese: «Che altro c'è?». «Ho diciannove anni e non ho mai lavorato in vita mia. È ora che incominci.» La mamma esclamò: «Perché, in nome del cielo?». «Voglio essere indipendente.» La mamma ribatté: «Ci sono milioni di ragazze che lavorano nelle fabbriche e negli uffici e darebbero la mano destra per essere al tuo posto». «Me ne rendo conto.» Ma si rendeva anche conto che la mamma discuteva con lei nel tentativo di lasciar fuori il papà. Non ci sarebbe riuscita per molto. La mamma la sorprese capitolando quasi subito. «Be', immagino che se davvero sei così decisa, tuo nonno potrà farti assumere da qualcuno che conosce...» «Ho già trovato un lavoro.»
L'annuncio fu una sorpresa per la mamma. «In America? Com'è possibile?» Margaret decise di non dir nulla di Nancy Lenehan; sarebbero stati capaci di parlarle e avrebbero cercato di rovinare tutto. «È già combinato» affermò con calma. «Che genere di lavoro?» «Assistente nel reparto vendite di un calzaturificio.» «Oh, in nome del cielo, non dire stupidaggini.» Margaret si morse le labbra. Perché la mamma aveva quel tono sprezzante? «Non è una stupidaggine. Sono fiera di me. Ho trovato un lavoro da sola, senza un aiuto tuo, del papà o del nonno. Solo per i miei meriti.» Non era andata proprio così, però Margaret cominciava a mettersi sulla difensiva. «Dov'è questo calzaturificio?» chiese la mamma. Suo padre intervenne per la prima volta. «Non può lavorare in fabbrica, e questo è quanto.» Margaret replicò: «Lavorerò all'ufficio vendite, non in fabbrica. Ed è a Boston». «Allora questo risolve tutto» concluse sua madre. «Tu abiterai a Stamford, non a Boston.» «No, mamma. A Boston.» Sua madre aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Si era resa finalmente conto di trovarsi di fronte a una situazione che non poteva liquidare con facilità. Tacque per un momento, poi chiese: «Ma cosa stai dicendo?». «Che vi lascerò e andrò a Boston, troverò alloggio in una pensione e lavorerò.» «Oh, è una stupidaggine troppo enorme.» Margaret scattò. «Non essere così dispotica!» La mamma rabbrividì nel sentire il tono incollerito, e lei si pentì immediatamente. Aggiunse più calma: «Farò semplicemente quello che fanno tante ragazze della mia età». «Tante ragazze della tua età, forse, ma non certo della tua classe sociale.» «Perché questo dovrebbe cambiare le cose?» «Perché non ha senso che tu abbia uno stupido impiego da cinque dollari la settimana e viva in un appartamento che ne costa a tuo padre cento al mese.» «Non voglio che lui mi paghi l'appartamento.»
«E allora dove abiterai?» «Te l'ho detto, in una camera ammobiliata.» «Nello squallore! Ma a che scopo?» «Risparmierò fino a quando avrò da parte la somma sufficiente per il biglietto, poi tornerò in Gran Bretagna e mi arruolerò nell'ATS.» Suo padre intervenne di nuovo. «Non hai idea di quello che dici.» Margaret si sentì punta sul vivo. «C'è qualcosa che non so, papà?» La mamma tentò di intromettersi. «No, non...» Margaret non la lasciò parlare. «So che dovrò sbrigare le commissioni, preparare il caffè e rispondere al telefono in ufficio. So che vivrò in una stanza con un fornello a gas e dividerò il bagno con altri pensionanti. So che non mi piacerà essere povera: ma sarò felice di essere libera.» «Tu non sai niente» disse suo padre in tono sprezzante. «Libera? Tu? Saresti un coniglietto domestico lasciato libero in un canile. Te lo dico io cosa non sai, ragazza mia. Non sai che sei stata viziata e coccolata per tutta la vita. Non sei nemmeno mai stata a scuola...» L'ingiustizia di quell'affemazione le fece venire le lacrime agli occhi e la spinse a ribattere. «Io volevo andarci!» protestò. «Sei stato tu a non permettermelo!» Suo padre ignorò l'interruzione. «Hai sempre avuto qualcuno che ti lavava i vestiti e ti preparava da mangiare e ti portava in giro in macchina dovunque volessi andare, e gli altri bambini venivano accompagnati a casa tua per giocare con te, e non ti sei mai chiesta come si provvedeva a tutto questo...» «Invece me lo sono chiesta!» «E adesso vuoi vivere da sola! Non conosci neppure il prezzo di una pagnotta, vero?» «Lo scoprirò presto...» «Non sai lavarti la biancheria. Non hai mai viaggiato su un autobus. Non hai mai dormito sola in una casa. Non sai caricare una sveglia, preparare una trappola per i topi, lavare i piatti, far bollire un uovo... saresti capace di far bollire un uovo? Sai come si fa?» «Di chi è la colpa se non lo so?» chiese Margaret. Era sul punto di piangere. Suo padre continuò implacabile; il volto trasformato in una maschera di disprezzo e di rabbia. «Come potresti renderti utile in un ufficio? Non puoi preparare il tè... non sai come si fa! Non hai mai visto uno schedario. Non hai mai dovuto stare rinchiusa in un posto dalle nove del mattino alle cin-
que del pomeriggio. Ti annoieresti e lasceresti tutto. Non resisteresti una settimana.» Suo padre stava dando corpo a tutti i timori segreti di Margaret, ed era proprio questo a sconvolgerla tanto. Aveva il terrore che avesse ragione: sarebbe stata incapace di vivere sola, si sarebbe fatta licenziare. La voce sarcastica e spietata che dava come sicuri e reali i suoi timori più profondi distruggeva il suo sogno come il mare demolisce un castello di sabbia. Margaret piangeva senza ritegno e le lacrime le rigavano il viso. Udì la voce di Harry: «Questo è troppo...». «Lascialo continuare» lo interruppe lei. Era una battaglia che Harry non poteva combattere al posto suo: era una questione fra lei e suo padre. Rosso in faccia, papà agitava l'indice e parlava a voce sempre più alta. «Boston non è Oxenford, sai. Là la gente non si aiuta a vicenda. Ti ammalerai e verrai avvelenata da dottorucoli mezzosangue. Sarai derubata dai padroni di casa ebrei e violentata per strada dai negri. E quanto all'idea di arruolarti...» «Migliaia di ragazze si sono arruolate nell'ATS» obiettò Margaret, ma la sua voce era un bisbiglio. «Non sono ragazze come te» continuò lui. «Sono abituate ad alzarsi presto alla mattina e a lavare i pavimenti. Non sono signorine viziate. E Dio non voglia che tu debba trovarti di fronte a un pericolo... crolleresti!» Margaret ricordò come si era sentita sperduta nell'oscuramento, spaventata, impotente, atterrita. Avvampò per la vergogna. Suo padre aveva ragione: era crollata. Ma non sarebbe stata in eterno indifesa e impaurita. Lui aveva fatto il possibile per renderla debole e dipendente dagli altri: ma era fermamente decisa a diventare autosufficiente, e continuò a tenere viva quella fiammella di fiducia anche mentre rabbrividiva di fronte al violento attacco paterno. Suo padre puntò l'indice verso di lei. Gli occhi sembravano sul punto di schizzare dalle orbite. «Non resisterai una settimana in un ufficio, e nell'ATS non resisteresti un giorno» proclamò malignamente. «Sei troppo molle.» E si assestò sul divano con aria soddisfatta. Harry andò a sedersi accanto a Margaret. Prese dalla tasca un fazzoletto pulito e le asciugò le guance con delicatezza. Suo padre disse: «In quanto a lei, giovanotto...». Harry si alzò di scatto e si voltò verso di lui. Margaret soffocò un grido. Temette che si picchiassero. Harry proruppe «Non si permetta di parlarmi così. Io non sono una ragazzina. Sono un uomo adulto, e se mi insulta pas-
serò ai pugni». Lord Oxenford ammutolì. Harry gli voltò le spalle e tornò a sedersi accanto a Margaret. Lei era sconvolta, ma in cuor suo provava un senso di trionfo. Aveva detto a suo padre che se ne andava. Lui aveva inveito e gridato e l'aveva fatta piangere, ma non era riuscito a farle cambiare idea. Se ne sarebbe andata comunque. Però era riuscito a gettare il seme di un dubbio. Margaret aveva già temuto di non avere il coraggio di realizzare i suoi piani, di farsi paralizzare dall'ansia all'ultimo minuto. Suo padre aveva alimentato quel dubbio con il sarcasmo e la derisione. Margaret non aveva mai compiuto un gesto coraggioso in vita sua: ci sarebbe riuscita adesso? Sì, pensò. Non sono molle, e lo dimostrerò. Sua padre l'aveva scoraggiata, ma non era riuscito a farle cambiare rotta. Tuttavia, forse non si sarebbe dato per vinto. Margaret sbirciò al di sopra della spalla di Harry. Suo padre guardava dal finestrino con un'espressione malevola. Elizabeth lo aveva sfidato e lui l'aveva messa al bando, e le avrebbe impedito di rivedere la famiglia. Quale terribile vendetta stava meditanto contro Margaret? 23 Diana Lovesey pensava malinconicamente che il vero amore non dura a lungo. Quando Mervyn si era innamorato di lei, era stato felice di soddisfare ogni suo desiderio, ogni suo capriccio. Era disposto a correre a Blackpool per comperarle un dolce, a prendersi un pomeriggio di libertà per andare al cinema, a lasciare perdere ogni cosa per volare a Parigi. Era felice di girare tutti i negozi di Manchester in cerca di una sciarpa di cashmere di quel punto preciso di verde-azzurro, di abbandonare un concerto a metà perché lei si annoiava, oppure di alzarsi alle cinque del mattino e portarla a far colazione in un caffè per operai. Ma le cose non erano durate a lungo dopo il matrimonio. Era difficile che le negasse qualcosa, ma non trovava più pia cere nell'accontentare i suoi capricci. La gioia si era trasformata dapprima in tolleranza, quindi in impazienza e a volte, verso la fine, in disprezzo. Adesso Diana si domandava se anche il suo rapporto con Mark avrebbe avuto lo stesso andamento. Per tutta l'estate era stato il suo schiavo: ma adesso, pochi giorni dopo
essere scappati insieme, avevano litigato. La seconda notte della loro fuga avevano litigato di nuovo al punto da dormire separati! Nel cuore della notte, quando era scoppiata la tempesta e l'aereo aveva incominciato a impennarsi e a sgroppare come un cavallo imbizzarrito, Diana aveva avuto tanta paura che era stata sul punto di calpestare l'orgoglio e di infilarsi nella cuccetta di Mark. Ma sarebbe stato troppo umiliante. Perciò era rimasta immobile a pensare che stava per morire. Aveva sperato che fosse Mark a venire da lei; ma si era dimostrato altrettanto orgoglioso e questo la esasperava ancora di più. La mattina non avevano quasi scambiato una parola. Si era svegliata mentre l'aereo scendeva verso Botwood; e quando si era alzata, Mark era già andato a terra. Adesso sedevano l'una di fronte all'altro nei posti di corridoio del quarto scompartimento e fingevano di fare colazione. Diana si gingillava con le fragole e Mark sminuzzava un panino senza mangiarlo. Non capiva più perché si era tanto infuriata quando aveva scoperto che Mervyn divideva la suite nuziale con Nancy Lenehan. Mark avrebbe dovuto mostrarsi comprensivo e appoggiarla. Invece aveva messo in dubbio il suo diritto di irritarsi e insinuato che doveva essere ancora innamorata di Mervyn. Come poteva affermare una simile assurdità, quando aveva rinunciato a tutto per fuggire con lui? Si guardò intorno. Alla sua destra, la principessa Lavinia e Lulu Bell conversavano svogliatamente. Nessuna delle due aveva dormito a causa della tempesta, e avevano un'aria esausta. Sulla sinistra, al di là della corsia, l'agente dell'FBI Ollis Field e il suo prigioniero Frankie Gordino mangiavano in silenzio. Gordino era ammanettato per la caviglia al sedile. Tutti sembravano stanchi e irritati. Era stata una notte tremenda. Lo steward Davy venne a portare via i piatti della colazione. La principessa Lavinia si lamentò perché le sue uova affogate erano troppo molli e la pancetta troppo cotta. Davy offrì il caffè. Diana non ne volle. Incontrò lo sguardo di Mark e si sforzò di sorridere. Lui le lanciò un'occhiata risentita. Diana proruppe: «Non mi hai rivolto la parola per tutta la mattina». «Perché ti interessa più Mervyn di me!» ribatté lui. Diana si intenerì di colpo. Forse, pensò, aveva ragione di essere geloso. «Scusami, Mark» mormorò. «Sei tu l'unico uomo che mi interessa, davvero.» Mark le prese la mano. «Dici sul serio?» «Sì. Mi sento molto stupida. Mi sono comportata male.»
Lui le accarezzò il dorso della mano. «Sai...» La guardò negli occhi e Diana si accorse che era sul punto di piangere. «Sai... ho paura che tu mi lasci.» Questo non se l'aspettava. Rimase senza fiato. Non aveva mai pensato che lui temesse di perderla. Mark continuò: «Sei così incantevole, così desiderabile... Potresti avere tutti gli uomini che vuoi e mi è difficile credere che tu voglia proprio me. Ho paura che tu capisca il tuo errore e cambi idea». Diana era commossa. «Sei l'uomo più adorabile del mondo. Perciò mi sono innamorata di te.» «Davvero non ti importa niente di Mervyn?» Lei esitò, solo per un attimo, ma fu sufficiente. Mark cambiò di nuovo espressione e disse amaramente: «Gli vuoi bene». Come poteva spiegarlo? Non era più innamorata di Mervyn, ma Mervyn aveva ancora una specie di potere su di lei. «Non è quello che pensi» disse in uno slancio disperato. Mark ritirò la mano. «Allora chiariscimi le idee. Dimmi come stanno le cose.» In quell'istante entrò Mervyn. Si guardò intorno, vide Diana e disse: «Eccoti qui». Diana fu assalita dal nervosismo. Cosa voleva da lei? Era arrabbiato? Si augurò che non facesse una scenata. Guardò Mark, che era pallido e teso. Lui respirò a fondo poi disse: «Stai a sentire, Lovesey... non vogliamo un'altra lite, quindi è meglio che sparisci». Mervyn non gli badò. Si rivolse a Diana. «Dobbiamo parlare.» Lei lo guardò, diffidente. Mervyn aveva un'idea piuttosto unilaterale di una discussione: un "dialogo" a volte si riduceva a un'arringa. Però non sembrava aggressivo. Cercava di restare impassibile, ma Diana aveva l'impressione che fosse un po' confuso. E questo era strano. «Non voglio chiassate» disse prudente. «Niente chiassate, lo prometto.» «Allora va bene.» Mervyn le si sedette accanto. Guardò Mark e disse: «Ti dispiacerebbe lasciarci soli per qualche minuto?». «Certo che mi dispiacerebbe!» ribatté Mark. Tutti e due la guardarono e Diana si rese conto che toccava a lei decide-
re. Avrebbe preferito restare sola con Mervyn; ma se l'avesse detto, Mark si sarebbe offeso. Esitò: non osava schierarsi con l'uno o con l'altro. Finalmente pensò: Ho piantato Mervyn e sto con Mark... dovrei essere dalla sua parte. Con il cuore in gola, decise: «Parla pure, Mervyn. Se non puoi farlo di fronte a Mark, non voglio ascoltarti». Mervyn la guardò stupito. «D'accordo, d'accordo» convenne in tono irritato. Poi si ricompose e si calmò. «Ho pensato a quello che hai detto. Di me. Hai detto che sono diventato freddo, e che eri infelice.» Si interruppe. Diana taceva. Non se l'aspettava da Mervyn. Cos'altro stava per dire? «Voglio dire che mi dispiace veramente.» Diana era sbalordita. Capiva che era sincero. Ma cosa aveva causato il cambiamento? Mervyn continuò: «Volevo renderti felice. All'inizio non desideravo altro. Non ho mai voluto che tu fossi infelice. Non è giusto che tu lo sia. Meriti la felicità perché sai darla. Fai sorridere la gente quando entri in una stanza». Diana aveva le lacrime agli occhi. Sapeva che era vero. Alla gente piaceva guardarla. «È un peccato rattristarti» disse Mervyn. «Non lo farò mai più.» Stava promettendo di essere buono? si chiese con una fitta improvvisa di paura. L'avrebbe implorata di tornare con lui? Non voleva che glielo chiedesse. «Non tornerò con te» disse ansiosamente. Mervyn non l'ascoltò. «Mark ti rende felice?» chiese. Diana annuì. «Andrà bene per te?» «Sì, ne sono sicura.» Mark intervenne: «Non parlate di me come se non ci fossi!». Diana si sporse e gli prese la mano. «Noi due ci amiamo» disse a Mervyn. «Sì.» Per la prima volta l'ombra di una smorfia gli passò sul viso, ma sparì subito. «Sì, lo credo.» Come mai era diventato tanto conciliante? Non era da lui. Fino a che punto la bella vedova era responsabile della trasformazione? «È stata la signora Lenehan a dirti di venire a parlare con me?» chiese Diana in tono sospettoso. «No... però sa cosa sto per dire.» Mark si spazientì: «Vorrei che ti decidessi a farlo».
Mervyn gli lanciò uno sguardo sprezzante. «Non seccare, figliolo. Diana è ancora mia moglie.» Mark non cedette. «Lascia perdere» disse. «Non hai diritti su di lei, quindi non cercare di inventartene uno. E non chiamarmi figliolo, nonno.» Diana esclamò: «Smettetela! Mervyn, se hai qualcosa da dire, deciditi e piantala di tenerci sulla corda!». «D'accordo, d'accordo. Si tratta solo di questo.» Mervyn respirò profondamente. «Non ti darò più fastidio. Ti ho chiesto di tornare con me e tu hai rifiutato. Se credi che quello lì riesca dove io ho fallito e possa renderti felice, buona fortuna a tutti e due. Vi faccio gli auguri.» Tacque, girando lo sguardo dall'uno all'altro. «Ecco.» Ci fu un momento di silenzio. Mark stava per dire qualcosa, ma Diana lo precedette. «Maledetto ipocrita!» sibilò. In un lampo aveva visto quello che realmente passava nella mente di Mervyn ed era sorpresa dalla furia della propria reazione. «Come ti permetti?» Mervyn trasalì. «Come? Ma perché...?» «Non mi incanti, con la promessa di non darmi più fastidio. Ti degni di farci gli auguri come se per te fosse un sacrificio. Ti conosco troppo bene, Mervyn Lovesey: tu rinunci a una cosa solo quando non la vuoi più!» Diana si era accorta che i presenti ascoltavano con interesse, ma era troppo irritata per curarsene. «Lo so cos'hai in mente! Stanotte te la sei spassata con la vedova, vero?» «No!» «No?» Diana lo osservò con attenzione e pensò che molto probabilmente diceva la verità. «Ma c'è mancato poco, eh?» L'espressione di Mervyn le rivelò che questa volta aveva indovinato. «Ti piace, tu piaci a lei, e adesso non mi vuoi più... ecco la verità! Ammettilo!» «Non ho intenzione di ammetterlo...» «Perché non hai il coraggio di essere sincero. Ma io so come stanno le cose, e a bordo lo sospettano tutti. Mi hai delusa, Mervyn. Credevo che avessi più fegato.» «Più fegato?» La frecciata aveva colto nel segno. «Sicuro! Invece ti sei inventato una frottola e sei venuto a dirmi che non ci darai più fastidio. Be', sei diventato scemo! Non sono nata ieri e non puoi imbrogliarmi così facilmente!» «E va bene!» disse Mervyn alzando le mani in gesto difensivo. «Ho fatto una proposta di pace e tu l'hai respinta. Fai come vuoi.» Si alzò. «A sentirti parlare, chiunque penserebbe che sono stato io a scappare con l'amante.»
Si avvicinò al passaggio. «Fammi sapere quando ti sposi. Ti manderò un servizio di piatti.» E uscì. «Questa poi!» Diana era ancora furiosa. «Che faccia di bronzo!» Girò lo sguardo sugli altri passeggeri. La principessa Lavinia distolse altezzosamente gli occhi, Lulu Bell sorrise, Ollis Field aggrottò la fronte con aria di disapprovazione e Frankie Gordino esclamò: «Brava!». Finalmente guardò Mark, e si chiese cosa aveva pensato del comportamento di Mervyn e della sua sfuriata. Con grande sorpresa vide che sorrideva. Era un sorriso contagioso, e Diana lo ricambiò. «Cosa c'è di tanto divertente?» chiese soffocando un risolino. «Sei stata magnifica. Sono fiero di te. E sono contento.» «Perché?» «Hai tenuto testa a Mervyn per la prima volta in vita tua.» Era vero? Diana pensò di sì. «Sì, credo di sì.» «Non hai più paura di lui, eh?» Diana rifletté. «Hai ragione. Non ho più paura.» «Capisci cosa significa?» «Significa che non ho più paura di lui, ecco tutto.» «No, non è solo questo. Significa che non lo ami più.» «Davvero?» esclamò pensosa Diana. Aveva continuato a ripetersi che aveva smesso di amare Mervyn molto tempo prima; ma adesso poteva guardare nel proprio cuore e rendersi conto che non era esatto. Per tutta l'estate, anche mentre lo tradiva, era rimasta legata a suo marito. Mervyn aveva conservato una sorta di potere su di lei perfino dopo che lo aveva lasciato; a bordo dell'aereo era stata assalita dal rimorso e aveva pensato di tornare da lui. Ma ora tutto era cambiato. Mark le chiese: «Cosa proveresti se se ne andasse con la vedovella?». Senza riflettere, Diana rispose: «Perché dovrei prendermela?». «Visto?» Diana rise. «Hai ragione. È finita davvero.» 24 Mentre il Clipper puntava sulla baia di Shediac, nel golfo del San Lorenzo, Harry cominciava ad avere qualche ripensamento sul furto dei gioielli di lady Oxenford. Margaret aveva indebolito la sua decisione. Dormire con lei in un letto del Waldorf, svegliarsi e ordinare la colazione in camera valeva molto più
dei gioielli. Ma pensava anche a quando sarebbe andato con lei a Boston a vivere in camere ammobiliate, aiutandola a rendersi indipendente e imparando a conoscerla davvero. L'euforia di Margaret era contagiosa ed Harry condivideva l'entusiasmo di lei per la loro semplice vita futura, insieme. Tutto sarebbe cambiato se avesse derubato sua madre. Shediac era l'ultimo scalo prima di New York. Doveva decidere in fretta. Era l'ultima occasione per entrare nella stiva. Ancora una volta si chiese se c'era un modo per avere Margaret e anche i gioielli. Innanzi tutto, lei avrebbe mai saputo che era stato Harry a rubarli? Lady Oxenford avrebbe scoperto la sparizione non appena aperto il baule, presumibilmente al Waldorf. Ma nessuno avrebbe saputo se i gioielli erano stati rubati a bordo oppure prima o in seguito. Margaret sapeva che era un ladro, quindi l'avrebbe sospettato; ma se lui avesse negato, gli avrebbe creduto? Forse. E poi? Sarebbero vissuti in povertà a Boston mentre lui aveva centomila dollari in banca! Ma non sarebbe durato a lungo. Margaret avrebbe trovato un modo per tornare in Inghilterra e arruolarsi; e lui sarebbe andato in Canada per diventare pilota di caccia. La guerra poteva durare un anno o due, forse anche di più. Quando fosse terminata, Harry avrebbe ritirato il denaro dalla banca e comprato quella casa in campagna; e forse Margaret sarebbe andata a vivere con lui... e avrebbe voluto sapere dove aveva preso tutto quel danaro. Comunque andassero le cose, prima o poi avrebbe dovuto dirle la verità. Ma era meglio il più tardi possibile. Doveva inventare una scusa per rimanere sull'aereo a Shediac. Non poteva dirle che si sentiva poco bene perché Margaret avrebbe voluto restare con lui rovinando tutto. Doveva assicurarsi che andasse a terra e lo lasciasse solo. Le lanciò un'occhiata. In quel momento Margaret si allacciava la cintura di sicurezza e tirava indietro lo stomaco. Con un guizzo dell'immaginazione la vide nuda nella stessa posa, con i seni nudi profilati dalla luce che entrava dal finestrino, un ciuffo di pelo castano che spuntava fra le cosce, le lunghe gambe distese. Non sarebbe stato uno sciocco, si chiese, a rischiare di perderla per una manciata di rubini? Ma non si trattava di una manciata di rubini: era la parure di Delhi che valeva cento bigliettoni, abbastanza per fare di lui ciò che aveva sempre desiderato: un gentiluomo benestante. Nonostante tutto, si gingillava con l'idea di dirle subito: Ho intenzione di
rubare i gioielli di tua madre. Spero che non ti dispiaccia. Forse Margaret avrebbe risposto: Buona idea, la vecchia non ha fatto niente per meritarli. No, non avrebbe reagito così. Credeva di essere socialista e predicava la ridistribuzione della ricchezza, ma solo in teoria. Si sarebbe scandalizzata profondamente se lui avesse espropriato la famiglia di una parte delle ricchezze. L'avrebbe preso come un colpo basso, e questo avrebbe potuto cambiare i suoi sentimenti verso di lui. Margaret incontrò il suo sguardo e sorrise. Harry ricambiò il sorriso con un vago senso di colpa e guardò dal finestrino. L'aereo scendeva verso una baia a ferro di cavallo. Tutto intorno erano sparsi alcuni paesini, dietro i quali si vedevano terreni coltivati. Quando si avvicinarono, Harry scorse una ferrovia che partiva da un lungo molo e serpeggiava fra i campi. Al molo erano ormeggiati velieri di stazza diversa e un piccolo idrovolante. A est del molo c'erano chilometri di spiagge sabbiose, e alcuni grandi cottage da vacanze costellavano le dune. Harry pensò che sarebbe stato fantastico avere una casa per l'estate in un posto come quello. Be', se è questo che voglio, lo avrò, si disse. Diventerò ricco! L'aereo ammarò agevolmente. Harry era meno teso: ormai era un esperto viaggiatore dell'aria. «Che ore sono, Percy?» chiese. «Le undici, ora locale. Abbiamo un'ora di ritardo.» «Quanto ci fermeremo?» «Un'ora.» A Shediac era in uso un altro metodo di attracco. I passeggeri non sbarcavano con una lancia. Una specie di battello per la pesca delle aragoste si avvicinò per rimorchiare il Clipper. Furono fissate le gomene alle due estremità dell'aereo che, per mezzo di argani, fu accostato a un pontone galleggiante, collegato al molo da una passerella. Era un sistema che risolveva il problema di Harry. Negli scali precedenti, quando i passeggeri erano stati portati a terra con una lancia, c'era stata una sola possibilità di sbarcare. Harry avrebbe dovuto escogitare una scusa per restare a bordo durante la sosta evitando che Margaret rimanesse con lui. Ora, invece, poteva lasciarla andare a terra e dirle che l'avrebbe seguita dopo qualche minuto; e sarebbe stato meno probabile che lei insistesse per non lasciarlo. Uno steward aprì il portello e i passeggeri cominciarono a indossare soprabiti e cappelli. Tutti gli Oxenford si alzarono. Si alzò anche Clive
Membury, che durante il lungo viaggio non aveva parlato quasi con nessuno... a parte una discussione piuttosto animata con il barone Gabon, come ricordava. Ancora una volta si chiese di cosa avevano parlato. Poi scacciò con impazienza quel pensiero e si concentrò sui suoi problemi. Mentre gli Oxenford uscivano, Harry momorò a Margaret: «Poi ti raggiungo». E andò nella toilette degli uomini. Si pettinò e si lavò le mani, tanto per fare qualcosa. Il finestrino si era rotto chissà come durante la notte, e adesso c'era uno schermo fissato all'intelaiatura. Udì l'equipaggio scendere dal ponte di comando e passare davanti alla porta. Guardò l'orologio e decise di aspettare altri due minuti. Immaginava che sarebbero scesi a terra quasi tutti. A Botwood molti erano insonnoliti, ma adesso volevano sgranchirsi le gambe e respirare un po' d'aria pura. Ollis Field e il suo prigioniero sarebbero rimasti a bordo, come sempre. Era strano che Membury andasse a terra, però, se doveva tener d'occhio Frankie. L'uomo col panciotto color vino destava ancora la curiosità di Harry. Gli addetti alle pulizie sarebbero saliti a bordo quasi subito. Ascoltò: non si udiva nessun rumore al di là della porta. La socchiuse e guardò. Via libera. Uscì cautamente. La cucina di fronte a lui era deserta. Diede un'occhiata nel secondo scompartimento: vuoto. Guardò in direzione della sala comune e vide le spalle di una donna che maneggiava una scopa. Non esitò più e salì la scala. Si mosse a passo leggero per non rivelare la propria presenza. Sugli ultimi gradini si fermò a esaminare il ponte di comando. Non c'era nessuno. Stava per riprendere a salire quando scorse due gambe che si allontanavano. Si nascose e tornò a sbirciare. Era l'assistente motorista Mickey Finn, lo stesso che lo aveva sorpreso la volta precedente. Si fermò alla postazione del motorista e si voltò di nuovo. Harry tirò indietro la testa chiedendosi dov'era diretto Finn. Avrebbe sceso la scala? Ascoltò con attenzione. I passi attraversarono il ponte di comando, poi non si sentirono più. L'ultima volta, ricordò Harry, aveva visto Mickey nel compartimento di prua, intento a maneggiare l'ancora. Stava facendo la stessa cosa anche adesso? Era un rischio che doveva correre. Continuò a salire senza far rumore. Non appena fu all'altezza sufficiente, guardò davanti a sé. Non aveva sbagliato. La botola era aperta e Mickey non si vedeva. Harry non si fermò per controllare; attraversò in fretta il ponte di comando e varcò la porta che
dava nella zona delle stive. La chiuse con delicatezza e riprese a respirare. La volta precendente aveva frugato la stiva di destra. Adesso entrò in quella di sinistra. Si accorse subito di avere la fortuna dalla sua. Al centro della stiva c'era un enorme baule di cuoio verde e oro, tempestato di borchie di bronzo. Era sicuro che appartenesse a lady Oxenford. Controllò il cartellino. Non c'erano nomi ma l'indirizzo era "The Manor, Oxenford, Berkshire". «Ci siamo» mormorò. Il baule era chiuso da un lucchetto molto semplice. Harry lo scassinò con il temperino. Oltre al lucchetto c'erano sei fermagli di bronzo, senza serratura. Li aprì tutti. Il baule era stato realizzato per essere usato come guardaroba nella cabina di un transatlantico. Harry lo mise in piedi e lo aprì. L'interno era diviso in due settori spaziosi. Da una parte c'era una riioga alla quale erano appesi abiti e cappotti, e in fondo un piccolo scomparto per le scarpe. L'altra metà conteneva sei cassetti. Harry frugò subito i cassetti: erano di legno leggero rivestito di cuoio e foderati di velluto. Lady Oxenford vi aveva riposto camicette di seta, golfini di cashmere, biancheria di pizzo e cinture di coccodrillo. Dall'altra parte, la sommità del baule si sollevava come un coperchio, e la riioga scivolava fuori perché fosse più agevole prendere gli abiti. Harry passò le mani su tutti gli indumenti, uno a uno, e ispezionò l'interno del baule. Alla fine aprì il portascarpe. Dentro c'erano le scarpe e niente altro. Era molto deluso. Era convinto che lady Oxenford avesse portato con sé i gioielli. Ma forse c'era una lacuna nel suo ragionamento. Era troppo presto per abbandonare la speranza. Il primo impulso gli suggeriva di cercare negli altri bagagli della famiglia Oxenford; ma si fermò a riflettere. Se dovessi trasportare gioielli inestimabili nel bagaglio controllato alla dogana, pensò, cercherei di nasconderli. E sarebbe più facile creare un nascondiglio in un grande baule che in una valigia normale. Decise di cercare meglio. Incominciò con il compartimento degli abiti. Mise una mano all'interno e una all'esterno e cercò di valutare lo spessore dei fianchi. Se era anormale poteva darsi che ci fosse uno scomparto segreto. Ma non scoprì niente di insolito. Si voltò dall'altra parte e tirò fuori tutti i cassetti...
E trovò il nascondiglio. Il cuore gli batté più forte. Un grossa busta di carta e un portafogli di pelle erano fissati con l'adesivo contro il fondo del baule. «Dilettanti» borbottò, scuotendo la testa. Incominciò a staccare il nastro adesivo, sempre più emozionato. Il primo oggetto che gli rimase nelle mani fu la busta. Sembrava che contenesse soltanto carte, ma l'aprì comunque. All'interno c'erano cinquanta fogli di carta pesante, stampati in modo elaborato su una sola facciata. Impiegò qualche secondo per capire cos'erano: buoni al portatore, e ognuno valeva centomila dollari. Cinquanta certificati equivalgono a cinque milioni di dollari, cioè un milione di sterline. Restò immobile a fissarli. Un milione di sterline. Era incredibile. Harry sapeva perché erano lì dentro. Il governo britannico aveva varato norme valutarie d'emergenza per impedire l'esportazione del denaro. Oxenford stava portando all'estero i suoi buoni del tesoro, e naturalmente era un reato. È disonesto quanto me, pensò Harry con sarcasmo. Non aveva mai rubato buoni del tesoro. Poteva incassarli? Erano al portatore: c'era scritto chiaramente su ogni certificato. Ma erano numerati, in modo che fosse possibile identificarli. Lord Oxenford avrebbe denunciato il furto? Se l'avesse fatto, avrebbe ammesso di averli portati via illegalmente dall'Inghilterra. Ma probabilmente avrebbe inventato qualche storia. Era troppo pericoloso. Harry non aveva esperienza in quel campo. Se avesse tentato d'incassare i buoni, lo avrebbero beccato. Li mise da parte, controvoglia. L'altro oggetto nascosto era di pelle nocciola, fatto come un portafogli da uomo ma più grande. Harry lo staccò. Sembrava un portagioie. La pelle morbida era chiusa con una lampo. L'aprì. Sulla fodera di velluto nero c'era la parure di Delhi. Sembrava rifulgere nel buio della stiva come la vetrata di una cattedrale. Il rosso intenso dei rubini si alternava con lo scintillio iridescente dei diamanti. Le pietre erano enormi, squisitamente assortite e tagliate in modo perfetto. Ognuna era incastonata in una base d'oro e circondata da delicati petali d'oro. Harry era senza fiato. Prese la collana con un gesto solenne e lasciò che le gemme gli scorres-
sero fra le dita come acqua colorata. È strano, pensò, che sembrino così calde e a toccarle siano invece tanto fredde. Era il gioiello più bello che avesse mai avuto tra le mani, forse il più bello che fosse mai stato creato. E avrebbe cambiato la sua vita. Dopo un paio di minuti posò la collana ed esaminò il resto della parure. Il bracciale era come la collana, con i rubini e i diamanti alternati, anche se le pietre erano proporzionalmente più piccole. Gli orecchini erano elegantissimi: ognuno formato da un rubino da cui pendevano diamanti e rubini fissati a una catena d'oro, ogni pietra inserita nell'incastonatura a petali d'oro. Harry immaginò la parure su Margaret. L'oro e il rosso sarebbero risaltati meravigliosamente sulla sua pelle chiara. Mi piacerebbe vederla con questa e niente altro, pensò. Quella fantasia gli causò un'erezione. Non sapeva da quanto tempo era seduto sul pavimento a contemplare le pietre preziose quando udì qualcuno avvicinarsi. Il primo pensiero fu che si trattasse ancora dell'assistente motorista. Ma i passi sembravano diversi: energici, aggressivi, autoritari... ufficiali. La paura lo assalì. Un nodo gli attanagliò lo stomaco. Strinse i denti e serrò i pugni. I passi si avvicinarono rapidamente. Con movimenti convulsi, Harry rimise a posto i cassetti, buttò all'interno la busta con i buoni del Tesoro e chiuse il baule; si stava cacciando in tasca la parure di Delhi quando la porta si aprì. Harry si buttò dietro il baule. Ci fu un lungo attimo di silenzio. Ebbe la sensazione spaventosa di non essersi gettato sul pavimento abbastanza in fretta. Forse l'altro lo aveva visto. Udì un respiro un po' affannoso, come di un uomo grasso che fosse salito in fretta. Sarebbe entrato per guardarsi intorno o no? Harry trattenne il fiato. La porta si chiuse. Lo sconosciuto se n'era andato? Harry ascoltò con attenzione. Non udiva più respirare. Si alzò adagio e sbirciò. L'uomo se n'era andato. Sospirò di sollievo. Ma cosa stava succedendo? Aveva la sensazione che quei passi pesanti e quel respiro affannoso fossero di un poliziotto. O di un doganiere. Forse si era trattato di un semplice controllo di routine. Andò alla porta e la socchiuse. Udì un rumore di voci sommesse che provenivano dal ponte di comando, ma sembrava che lì fuori non ci fosse
nessuno. Uscì e si accostò alla porta del ponte di comando. Era socchiusa e ne uscivano due voci maschili. «Non è sull'aereo.» «Ci deve essere. Non è sceso a terra.» Gli accenti erano riconoscibili... canadesi. Ma di chi parlavano? «Forse se l'è svignata dopo tutti gli altri.» «E dov'è andato? Non si trova.» Frankie Gordino era riuscito a scappare? si chiese Harry. «Ma chi è?» «Dicono che è un "socio" del delinquente qui a bordo.» Dunque Gordino non era fuggito. Ma uno della sua banda era stato a bordo, era stato scoperto ed era riuscito a fuggire. Chi poteva essere, fra quei passeggeri dall'aria tanto rispettabile? «Non è un reato essere un socio, vero?» «No. Però viaggia con un passaporto falso.» Un brivido gelido scosse Harry. Anche lui aveva un passaporto falso. Possibile che lo cercassero? «Be', adesso cosa facciamo?» chiese una voce. «Facciamo rapporto al sergente Morris.» Dopo un momento Harry fu assalito dal pensiero terrificante che forse stavano cercando proprio lui. Se la polizia aveva saputo o intuito che a bordo c'era qualcuno incaricato di far fuggire Gordino, era logico che controllasse l'elenco dei passeggeri; e così avrebbero scoperto molto in fretta che Harry Vandenpost aveva denunciato il furto del suo passaporto a Londra due anni prima; e sarebbe stato sufficiente telefonargli a casa per scoprire che non era a bordo del Clipper della Pan American bensì in cucina a mangiare cornflakes e a leggere il giornale del mattino, o qualcosa di simile. E poiché sapevano che Harry era un impostore, avrebbero presunto che fosse lui l'uomo con il compito di portar via Gordino. No, si disse. Non saltare a conclusioni affrettate. Ci dev'essere un'altra spiegazione. Intervenne una terza voce: «Ma chi state cercando?» sembrava l'assistente motorista, Mickey Finn. «Si spaccia per Harry Vandenpost, ma non è lui.» Non c'erano più dubbi. Harry rimase stordito. Lo avevano scoperto. La visione della casa di campagna con il campo da tennis sbiadì come una vecchia fotografia: al suo posto vide Londra nell'oscuramento, un'aula di tribunale, una cella e alla fine una caserma. Era la sfortuna peggiore che
potesse capitargli. Il motorista stava dicendo: «Sapete, l'avevo trovato a curiosare quassù, durante lo scalo a Botwood». «Be', adesso non c'è.» «È proprio sicuro?» Stai zitto, Mickey, pensò Harry. «Abbiamo guardato dappertutto.» «Avete controllato le postazioni dei meccanici?» «Dove sono?» «Nelle ali.» «Sì, abbiamo guardato anche nelle ali.» «Ma vi siete infilati nei passaggi? Ci sono posti per nascondersi che dalla cabina non si vedono.» «Sarà meglio che torniamo a guardare.» I due poliziotti sembravano piuttosto stupidi, pensò Harry. Chissà fino a che punto il sergente poteva fidarsi di loro. Se avesse avuto un po' di buon senso, avrebbe ordinato un'altra perquisizione dell'areo. E la prossima volta avrebbero guardato senza dubbio dietro il baule. Dove poteva nascondersi? C'erano diversi piccoli nascondigli, ma l'equipaggio li conosceva tutti. Una ricerca meticolosa avrebbe incluso lo scompartimento di prua, le toilette, le ali, lo spazio vuoto nella coda. Qualsiasi posto Harry avesse potuto trovare, l'equipaggio lo conosceva. Era incastrato. Poteva andarsene? Poteva scendere di nascosto dall'aereo e allontanarsi lungo la spiaggia. Era una possibilità remota, ma sempre meglio che consegnarsi. Comunque, anche se fosse riuscito ad allontanarsi dal paesino senza farsi scoprire, dove poteva andare? In una città sapeva destreggiarsi con le chiacchiere, ma aveva la sensazione di essere molto lontano da qualsiasi città. In campagna era spacciato. Aveva bisogno della folla, di vicoli, di stazioni ferroviarie, di negozi. Aveva l'idea che il Canada fosse un Paese molto grande e quasi completamente coperto di alberi. Sarebbe andato tutto bene se fosse riuscito ad arrivare a New York. Ma nel frattempo dove poteva nascondersi? Udì i poliziotti uscire dalle ali. Per prudenza, tornò a rifugiarsi nella stiva... E si trovò di fronte la soluzione del problema. Poteva nascondersi nel baule di lady Oxenford.
Ci stava? Pensava di sì. Era alto circa un metro e mezzo, e la base era sessanta centimetri per sessanta: vuoto, poteva contenere agevolmente due persone. Naturalmente non era vuoto: doveva farsi posto togliendo una parte degli abiti. Ma cosa ne avrebbe fatto? Non poteva lasciarli in giro. Però poteva stiparli nella sua valigia che era semivuota. Doveva sbrigarsi. Si arrampicò sul mucchio dei bagagli e prese la sua valigia. L'aprì febbrilmente e vi buttò dentro i cappotti e i vestiti di lady Oxenford. Dovette sedersi sul coperchio per riuscire a chiuderla. Adesso poteva entrare nel baule. Si accorse che poteva chiuderlo abbastanza facilmente dall'interno. Ma sarebbe riuscito a respirare? Non sarebbe rimasto dentro a lungo: l'aria sarebbe diventata pesante ma non sarebbe morto per così poco. I poliziotti si sarebbero accorti che i fermagli erano aperti? Sì, era possibile. Poteva chiuderli dall'interno? Ecco, sembrava difficile. Studiò il problema per un lungo momento. Se avesse aperto qualche foro nel baule vicino ai fermagli avrebbe potuto infilare il temperino e spostarli fino a chiuderli. E quei fori avrebbero lasciato entrare l'aria. Prese il temperino. Il baule era di legno rivestito di cuoio verde scuro, con un fregio di fiori dorati. Come tutti i coltelli tascabili di lusso, il suo aveva un utensile a punta per togliere i sassolini dagli zoccoli dei cavalli. Harry premette la punta al centro di uno dei fiori e spinse. L'attrezzo penetrò abbastanza facilmente nel cuoio, ma il legno era più duro. Harry continuò a lavorare. Il legno aveva uno spessore di circa mezzo centimetro. Impiegò un minuto o due, ma riuscì a sfondarlo. Estrasse la punta. Il foro non si notava, confuso nel fregio. Entrò nel baule, e constatò con sollievo che poteva chiudere e aprire il fermaglio dall'interno. C'erano due fermagli in alto e tre sul fianco. Harry si mise al lavoro su quelli in alto perché erano i più visibili. Aveva appena finito di sistemarli quando risentì un rumore di passi. Entrò nel baule e lo chiuse. Questa volta non fu altrettanto facile far scattare i fermagli: doveva tenere le ginocchia piegate e così era più difficile manovrare. Alla fine, comunque, ci riuscì. Dopo un paio di minuti la sua posizione diventò fastidiosamente scomoda. Si spostò e si girò, ma fu inutile. Doveva rassegnarsi. Gli sembrava che il suo respiro fosse molto rumoroso. I rumori giunge-
vano dall'esterno smorzati. Comunque udiva i passi davanti alla stiva, forse perché non c'era la moquette e le vibrazioni si trasmettevano attraverso il pavimento. Là fuori c'erano almeno tre persone. Non sentì la porta che si apriva e si chiudeva, ma all'improvviso un passo echeggiò molto vicino. Qualcuno era entrato. Una voce gli giunse all'improvviso da destra. «Non so proprio come abbia fatto a scapparci, quel delinquente.» Non guardare i fermagli, per favore, pensò disperatamente Harry. Sentì un brusco "toc" sulla sommità del baule. Harry trattenne il respiro. Forse l'uomo si era appoggiato con il gomito, pensò. Parlò qualcun altro, un po' più lontano. «No, non è sull'aereo» rispose il primo. «Abbiamo cercato dappertutto.» L'altro riprese a parlare. Harry aveva le ginocchia indolenzite. In nome di Dio, pensò, andate a chiacchierare in qualche altro posto! «Oh, lo prenderemo. Non potrà fare a piedi duecentoquaranta chilometri fino al confine senza che qualcuno lo veda.» Duecentoquaranta chilometri! Ci voleva una settimana per percorrerli. Forse poteva farsi dare un passaggio, ma in una zona praticamente disabitata si sarebbero ricordati di lui. Per qualche secondo nessuno parlò. Poi Harry udì i passi allontanarsi. Rimase in attesa per un po' e non udì più nulla. Tirò fuori il coltello e lo infilò in uno dei fori per aprire il fermaglio. Questa volta fu ancora più difficile. Le ginocchia gli dolevano tanto che stentava a reggersi. Sarebbe caduto, se ci fosse stato lo spazio. Perse la pazienza e infilò più volte la lama attraverso il foro. Il panico della claustrofobia si impadronì di lui. Qui dentro morirò soffocato! pensò. Si sforzò di stare calmo. Dopo un momento riuscì a cancellare dalla mente il dolore mentre muoveva la lama attraverso il foro in modo che afferrasse il fermaglio. Spinse. La lama sollevò l'occhiello di bronzo, poi scivolò. Harry digrignò i denti e tentò di nuovo. Questa volta il fermaglio scattò. Lentamente, dolorosamente, agì sull'altro fermaglio. Alla fine poté separare le due metà del baule e raddrizzarsi. Quando tese le gambe il dolore alle ginocchia divenne lancinante e per poco non gli strappò un grido. Poi si placò. E adesso, cosa poteva fare? Non poteva scendere dall'aereo a quello scalo. Probabilmente sarebbe stato al sicuro fino all'arrivo a New York, ma poi...?
Doveva restare nascosto sull'aereo e sgattaiolare via durante la notte. Forse se la sarebbe cavata. E comunque non aveva scelta. Tutti avrebbero saputo che aveva rubato i gioielli di lady Oxenford. Soprattutto l'avrebbe saputo Margaret. E lui non le sarebbe stato vicino per parlargliene. Più pensava a quella possibilità e più gli ripugnava. Sapeva che il furto della parure di Delhi avrebbe messo in pericolo il suo rapporto con Margaret; ma aveva sempre immaginato di essere presente quando lei avesse capito cos'era successo, e di poter sistemare tutto. E anche così si era sentito a disagio. Adesso, invece, potevano passare giorni e giorni prima che riuscisse a mettersi in contatto con lei; e potevano passare anni, se le cose fossero andate male e l'avessero arrestato. Immaginava quello che avrebbe pensato Margaret. Se l'era fatta amica, aveva fatto l'amore con lei e aveva promesso di aiutarla a trovare un alloggio; ma era stata una finzione, perché aveva rubato i gioielli di sua madre e l'aveva lasciata nei guai. Avrebbe pensato che lui mirava solo ai gioielli fin dall'inizio. Si sarebbe disperata e avrebbe finito per odiarlo e disprezzarlo. Era un'idea intollerabile. Fino a quel momento non si era reso veramente conto di quanto Margaret fosse importante per lui. L'amore di Margaret era autentico. Tutto il resto, nella sua vita, era falso: l'accento, le belle maniere, gli abiti, il modo di vivere erano una mascherata. Tuttavia Margaret si era innamorata del ladro, il ragazzo della classe operaia che non aveva un padre... il vero Harry. Era la cosa più bella che gli fosse capitata. Se l'avesse gettata via, la sua vita avrebbe continuato a essere ciò che era adesso, finzione e disonestà. Margaret lo aveva indotto a volere qualcosa di più. Harry sperava ancora nella casa di campagna con il campo da tennis: ma non ci sarebbe stato volentieri senza di lei. Sospirò. Harry non era più Harry. Forse stava diventando un uomo. Aprì il baule di lady Oxenford. Si tolse di tasca il portagioie di pelle nocciola che conteneva la parure di Delhi. Aprì la busta ed estrasse i gioielli. I rubini splendevano come braci. Forse non vedrò mai più qualcosa di simile, pensò. Ripose i gioielli. Poi, con una stretta al cuore, rimise la busta nel baule di lady Oxenford. 25 Nancy Lenehan era seduta sul lungo molo di Shediac, nel punto più vi-
cino a terra, davanti al terminal. Era una costruzione che sembrava un cottage per le vacanze, con i fiori nelle cassette alle finestre e le tende parasole; ma una grande antenna radio accanto alla casa e una torre-osservatorio sul tetto ne rivelavano la vera funzione. Mervyn Lovesey era seduto accanto a lei su un'altra sdraio di tela a righe. L'acqua sciabordava contro il pontile con un rumore tranquillo. Nancy chiuse gli occhi. Non aveva dormito molto. Un lieve sorriso le incurvò gli angoli della bocca al ricordo del modo in cui lei e Mervyn si erano comportati quella notte. Era contenta di non essere andata fino in fondo. Sarebbe stato troppo improvviso. Adesso, invece, si prospettava un'attesa piacevole. Shediac era un paesetto di pescatori e una località per le vacanze. A ovest del pontile c'era una baia soleggiata dove galleggiavano alcune imbarcazioni per la pesca delle aragoste, qualche cabinato e due aerei, il Clipper e un piccolo idrovolante. A est c'era un'ampia spiaggia sabbiosa che sembrava estendersi per molti chilometri; quasi tutti i passeggeri scesi dal Clipper erano seduti fra le dune o passeggiavano sulla battigia. La pace di quella scena fu turbata da due macchine che si fermarono accanto al pontile con grande stridore di pneumatici. Ne scesero sette o otto poliziotti che entrarono di corsa nel terminal. Nancy mormorò a Mervyn: «Sembra che abbiano intenzione di arrestare qualcuno». Mervyn annuì. «Chissà di chi si tratta.» «Forse è Frankie Gordino?» «Impossibile, è già in arresto.» I poliziotti uscirono dopo qualche istante. Tre salirono a bordo del Clipper, due si avviarono lungo la spiaggia, altri due lungo la strada. Sembrava che cercassero qualcuno. Quando uscì uno dell'equipaggio del Clipper, Nancy chiese: «Con chi ce l'hanno?». L'uomo esitò, come se non fosse sicuro di poter rispondere. Poi alzò le spalle e rispose: «Si fa chiamare Harry Vandenpost, ma non è il suo vero nome». Nancy aggrottò la fronte. «Era il giovanotto che stava nello scompartimento degli Oxenford.» Sospettava che Margaret Oxenford avesse una cotta per lui. «Sì» disse Mervyn. «Ma è sceso a terra? Io non l'ho visto.» «Non ne sono sicura.» «Mi sembrava un tipo poco raccomandabile.» «Davvero?» Nancy lo aveva scambiato per un giovane di buona fami-
glia. «È così educato.» «Appunto.» Nancy soffocò un sorriso: sembrava tipico di Mervyn avercela con gli uomini beneducati. «Credo che Margaret abbia un debole per lui. Mi auguro che non ne soffra.» «I suoi genitori ringrazieranno il cielo per lo scampato pericolo, immagino.» Nancy non se la sentiva di rallegrarsi per i genitori di Margaret. Lei e Mervyn erano stati testimoni del comportamento inqualificabile di lord Oxenford nella sala da pranzo del Clipper. Quella gente meritava il peggio. Tuttavia le dispiaceva che Margaret si fosse innamorata di un mascalzone. Mervyn riprese: «Di solito non sono un tipo impulsivo, Nancy». Lei si irrigidì. «Ti ho conosciuta poche ore fa» continuò. «Ma sono assolutamente certo di volerti conoscere per tutto il resto della mia vita.» Nancy pensò: Non puoi esserne certo, stupido! Comunque quelle parole le facevano piacere. Tacque. «Ho pensato alla prospettiva di lasciarti a New York e tornare a Manchester, e non voglio farlo.» Nancy sorrise. Era proprio ciò che desiderava sentirgli dire. Gli toccò la mano. «Ne sono felice» disse. «Davvero?» Mervyn si girò verso di lei. «Il guaio è che molto presto diventerà impossibile attraversare l'Atlantico per chiunque non sia militare.» Lei annuì. Aveva considerato il problema. Non ci aveva pensato molto, ma era sicura che avrebbero trovato una soluzione, se lo volevano davvero. Mervyn continuò: «Se ci lasciamo adesso possono passare anni prima che ci rivediamo. Per me è inaccettabile». «Anch'io la penso così.» Mervyn chiese: «Allora torni in Inghilterra con me?». Il sorriso sparì dalle labbra di Nancy. «Cosa?» «Torni in Inghilterra con me. Puoi stabilirti in un albergo, se vuoi, oppure comprare una casa o un appartamento... come preferisci.» Nancy si sentì assalire dal rancore. Strinse i denti e cercò di non perdere la calma. «Sei impazzito» commentò sbrigativamente. E distolse gli occhi. Era molto, molto delusa. Mervyn sembrava ferito e sconcertato da quella reazione. «Cosa ti prende?»
«Ho una casa, due figli e un'azienda che vale molti milioni di dollari» ribatté lei. «E pretendi che abbandoni tutto per trasferirmi in un albergo di Manchester?» «No, se non vuoi!» replicò Mervyn, indignato. «Puoi vivere con me, se ti va.» «Sono una vedova rispettabile con un posto nella società... non ho nessuna intenzione di fare la mantenuta!» «Senti, io credo che ci sposeremo, anzi ne sono sicuro. Ma non penso che tu sia disposta a impegnarti in promesse matrimoniali dopo poche ore, no?» «Non si tratta di questo, Mervyn» spiegò Nancy, anche se in un certo senso era proprio così. «Qualunque sia la soluzione che hai in mente, mi offende la disinvoltura con cui presumi che io rinunci a tutto per seguirti in Inghilterra.» «Ma in quale altro modo potremmo stare insieme?» «Perché non fai questa domanda, invece di prospettare la risposta?» «Perché è l'unica risposta possibile.» «No, ce ne sono tre. Io potrei trasferirmi in Inghilterra; tu potresti trasferirti in America; oppure potremmo trasferirci tutti e due in un posto come le Bermuda.» Mervyn era sconcertato. «Ma il mio Paese è in guerra. Devo partecipare al conflitto. Forse sono troppo vecchio per combattere, ma le forze aeree avranno bisogno di migliaia di eliche, e in questo settore ne so più di chiunque altro. Hanno bisogno di me.» Tutto ciò che diceva sembrava peggiorare la situazione. «E cosa ti fa pensare che il mio Paese non abbia bisogno di me?» chiese Nancy. «Io fabbrico calzature per militari e quando gli Stati Uniti entreranno in guerra ci saranno ancora più soldati che avranno bisogno di scarponi.» «Ma io ho uno stabilimento a Manchester.» «E io ho uno stabilimento a Boston... molto più grande, fra l'altro.» «Per una donna non è la stessa cosa!» «Ma certo che è la stessa cosa, stupido!» esclamò lei. Subito si pentì di quella parola. Un'espressione di furia gelida gli apparve sul volto; lo aveva offeso a morte. Mervyn si alzò. Lei voleva dire qualcosa per trattenerlo, ma non trovò le parole giuste. Un attimo dopo, era sparito. Nancy imprecò rabbiosa. Era in collera con lui, ma soprattutto con se stessa. Non voleva allontanarlo. Le piaceva. Molti anni prima aveva impa-
rato che gli scontri aperti non sono l'approccio migliore quando si ha a che fare con gli uomini: sono disposti a tollerare l'aggressività da parte di un altro uomo, ma non da parte di una donna. Negli affari aveva sempre moderato lo spirito combattivo e addolcito il tono, e aveva ottenuto ciò che voleva manovrando gli altri, non litigando. Ora, per un momento, aveva dimenticato stupidamente tutto, e di conseguenza aveva litigato con l'uomo più affascinante che avesse conosciuto da dieci anni. Sono una sciocca, pensò. So che è molto orgoglioso, anzi è una delle cose che mi piacciono in lui perché fa parte della sua forza. È un duro, ma non ha soffocato tutti i sentimenti come fanno spesso gli uomini. Guarda come ha inseguito per mezzo mondo la moglie che gli è scappata. Guarda come ha difeso gli ebrei quando Oxenford ha fatto la scenata in sala da pranzo. Ricorda come ti ha baciata... E l'ironia stava nel fatto che si sentiva disposta a pensare a un cambiamento nella sua vita. Quello che le aveva detto Danny Riley di suo padre aveva gettato una luce nuova su tutta la sua storia. Aveva sempre creduto che lei e Peter litigassero perché suo fratello non le perdonava di essere più intelligente. Ma quel genere di rivalità fraterna di solito sparisce durante l'adolescenza; i suoi due figli, che per quasi vent'anni si erano azzuffati come cane e gatto, adesso erano i migliori amici del mondo. Invece l'ostilità fra lei e Peter era rimasta anche con il passare degli anni e Nancy si rendeva conto adesso che la responsabilità era di suo padre. Suo padre le aveva detto che sarebbe toccato a lei prendere il suo posto e a Peter lavorare ai suoi ordini; ma a Peter aveva detto il contrario. Di conseguenza, entrambi avevano creduto di essere destinati a dirigere la società. Ma non si trattava solo di questo. Suo padre aveva sempre rifiutato di fissare regole chiare e di definire i campi di responsabilità. Aveva acquistato per loro giocattoli che dovevano spartirsi rifiutandosi poi di arbitrare le inevitabili dispute. Quando erano stati abbastanza grandi per guidare aveva comprato una macchina perché la usassero entrambi; e loro se l'erano contesa per anni. Con Nancy, la strategia paterna aveva dato l'esito voluto: l'aveva resa perspicace e volitiva. Ma Peter aveva finito per diventare debole, subdolo e dispettoso. E adesso il più forte dei due stava per assumere il controllo della società, esattamente secondo i piani di suo padre. Ed era questo che turbava Nancy. Era tutto secondo i piani di suo padre. La consapevolezza che quanto faceva era stato predisposto da un altro ro-
vinava il sapore della vittoria. Adesso le sembrava che tutta la sua vita fosse stata un compito in classe assegnato da suo padre: lei aveva ottenuto il massimo dei voti, ma a quarant'anni era troppo vecchia per andare a scuola. Intendeva scegliere le proprie mete e vivere la propria vita. In realtà, quel giorno era dell'umore ideale per discutere apertamente con Mervyn sul loro futuro. Ma lui l'aveva offesa presumendo che fosse disposta ad abbandonare tutto per seguirlo in capo al mondo; e lei, invece di parlare per convincerlo, aveva gridato al punto di metterlo in fuga. Certo, non si aspettava che Mervyn si inginocchiasse per farle una proposta di matrimonio, ma... Si rendeva conto che, in cuor suo, desiderava che gliela facesse. Dopotutto, lei non era una bohémienne. Era una donna americana, cattolica, e se un uomo voleva un impegno da lei, aveva il diritto di farlo in un unico modo... chiedendo la sua mano. Se non lo faceva, non poteva pretendere nulla. Sospirò. Non aveva avuto torto a indignarsi: ma l'aveva addirittura fatto fuggire. Forse la rottura non sarebbe stata definitiva, se lo augurava con tutto il cuore. Soltanto adesso che correva il pericolo di perdere Mervyn capiva quanto tenesse a lui. I suoi pensieri furono interrotti dall'avvicinarsi di un altro uomo che un tempo aveva fatto fuggire: Nat Ridgeway. Nat si fermò davanti a lei, si tolse educatamente il cappello e disse: «A quanto sembra mi hai sconfitto... un'altra volta». Nancy lo studiò per un momento. Non sarebbe stato capace di fondare un'azienda e potenziarla come aveva fatto suo padre con la Black's Boots; non ne aveva né la lungimiranza né l'energia. Ma era abilissimo nel gestire una grande organizzazione. Era intelligente, duro, lavoratore. «Se questo può consolarti, Nat» disse Nancy, «so di aver commesso uno sbaglio cinque anni fa.» «Uno sbaglio negli affari o nelle questioni personali?» chiese lui. Nella sua voce c'era una sfumatura che tradiva un risentimento sotterraneo. «Negli affari» affermò lei con noncuranza. La partenza di Nat aveva messo fine a un romanzo d'amore appena cominciato; Nancy non voleva parlarne. «Congratulazioni per il tuo matrimonio» disse. «Ho visto una foto di tua moglie... è molto bella.» Non era vero: al massimo si poteva dire che era piacente. «Grazie» rispose Nat. «Ma per tornare agli affari, mi sorprende che tu sia ricorsa al ricatto per ottenere ciò che volevi.»
«Si tratta di un'acquisizione, non di un tè per signore. Sei stato tu a dirlo non più tardi di ieri.» «Touché.» Nat esitò. «Posso sedermi?» Quella formalità le fece perdere la pazienza. «Sì, che diavolo» sbottò. «Abbiamo lavorato insieme per anni, e per qualche settimana siamo anche usciti insieme. Non hai bisogno di chiedermi il permesso per sederti, Nat.» Lui sorrise. «Grazie.» Prese la sdraio di Mervyn e la spostò per poterla guardare. «Ho cercato di acquisire la Black's senza il tuo aiuto. È stata una sciocchezza, e ho fallito. Avrei dovuto saperlo.» «Senza il minimo dubbio.» Nancy si rese conto che la sua risposta aveva un tono ostile. «E senza rancore.» «Mi fa piacere che tu dica così... perché voglio comunque acquistare la tua azienda.» Nancy era sconcertata. Aveva corso il rischio di sottovalutarlo. Non abbassare la guardia! si disse. «Cos'hai in mente?» «Ho intenzione di ritentare» rispose Nat. «Naturalmente, la prossima volta farò un'offerta migliore. Ma soprattutto ti voglio dalla mia parte, prima e dopo la fusione. Voglio arrivare a un accordo con te, e voglio che tu entri a far parte del consiglio di amministrazione della General Textiles e che firmi un contratto di cinque anni.» Nancy non se l'aspettava, e non sapeva cosa pensare. Per guadagnare tempo gli chiese: «Un contratto? Per far che?». «Per dirigere la Black's Boots come divisione della General Textiles.» «Perderei l'indipendenza... diventerei una specie di impiegata.» «Potresti essere un'azionista: tutto dipende dal modo in cui struttureremo l'accordo. Guadagnerai parecchio e avrai tutta l'indipendenza che vuoi. Non interferisco mai nell'attività dei settori che rendono. Se dovessi perdere denaro, allora sì, perderesti anche l'indipendenza. Io licenzio gli incapaci.» Nat scosse la testa. «Ma tu non fallirai.» Nancy provò l'impulso di rifiutare. Per quanto cercasse di allettarla, voleva comunque portarle via la società. Tuttavia si rese conto che un rifiuto automatico era ciò che avrebbe voluto suo padre; e aveva deciso di smettere di vivere secondo i programmi paterni. Doveva dire qualcosa, e cercò di prendere tempo. «Potrebbe interessarmi.» «È quanto volevo sapere» concluse Nat, e si alzò. «Pensaci, e cerca di immaginare quale genere di accordo ti andrebbe bene. Non ti offro un assegno in bianco, ma ci tengo a farti sapere che sono disposto a fare il possibile per accontentarti.» Nancy era un po' sorpresa; la tecnica di Nat era
convincente. Aveva imparato molto sui negoziati in quegli ultimi anni. Lui guardò verso la terraferma. «Credo che tuo fratello voglia parlarti.» Nancy girò la testa e vide Peter che si avvicinava. Nat si rimise il cappello e si allontanò. Sembrava una manovra a tenaglia. Nancy fissò Peter con aria risentita. L'aveva ingannata e tradita, e lei non sopportava l'idea di parlargli. Avrebbe preferito riflettere sulla proposta di Nat Ridgeway e pensare come poteva conciliarsi con il suo nuovo modo di vedere la propria vita. Ma Peter non gliene lasciò il tempo. Si fermò davanti a lei, inclinò la testa da una parte come faceva da bambino, e disse: «Possiamo parlare?». «Ne dubito» ribatté lei. «Voglio scusarmi.» «Sei pentito del tuo tradimento, adesso che è fallito.» «Vorrei fare pace con te.» Oggi tutti vogliono qualcosa da me, pensò irritata Nancy. «Come credi di poter rimediare a quello che mi hai fatto?» «Non posso» rispose immediatamente Peter. «Non ci riuscirò mai.» Si sedette sulla sdraio lasciata libera da Nat. «Quando ho letto il tuo rapporto, mi sono sentito uno stupido. Dicevi che non sapevo dirigere la società, che non ero un uomo come mio padre, e che mia sorella era più efficiente di me. Mi sono vergognato moltissimo perché in fondo sapevo che era vero.» Bene, pensò Nancy, questo è un progresso. «Mi sono infuriato, Nan, per essere sincero.» Da bambini si chiamavano fra loro "Nan" e "Petey" e quando Nancy sentì quel nomignolo, un nodo le strinse la gola. «Probabilmente non sapevo quello che facevo.» Lei scosse la testa. Era una scusa tipica di Peter. «No, lo sapevi benissimo.» Si sentiva più triste che arrabbiata. Un gruppo di persone si fermò a chiacchierare accanto all'entrata della sede della linea aerea. Peter si voltò a guardarle, infastidito, e chiese: «Vieni a fare due passi con me lungo la spiaggia?». Nancy sospirò. Dopotutto era il suo fratellino. Si alzò. Peter le rivolse un sorriso raggiante. Si avviarono verso l'estremità del pontile, poi attraversarono i binari della ferrovia e scesero sulla spiaggia. Nancy si tolse le scarpe con i tacchi alti e camminò nella sabbia. La brezza agitava i capelli biondi di Peter e lei vide, con un lieve trasalimento, che si stavano diradando sulle tempie. Si chiese come mai non l'aveva notato prima, e si accorse che Peter si pettinava in modo da nasconderlo. Si sentì vecchia. Non c'era più nessuno intorno a loro, ma per un po' Peter continuò a ta-
cere. Alla fine fu Nancy a parlare. «Danny Riley mi ha detto una cosa molto strana. Ha detto che nostro padre aveva sistemato di proposito le cose in modo che io e te ci battessimo.» Peter aggrottò la fronte. «Perché l'avrebbe fatto?» «Per renderci più duri.» Peter rise, una risata aspra. «Tu ci credi?» «Sì.» «Anch'io.» «Ho deciso che non vivrò il resto della mia vita sotto l'incantesimo di nostro padre.» Peter annuì. «Cosa significa?» «Ancora non lo so. Forse accetterò la proposta di Nat, e la fusione della nostra società con la sua.» «Non è più la nostra società, Nan. È tua.» Lei lo scrutò. Era una reazione sincera? Le sembrava meschino essere tanto sospettosa. Decise di concedergli il beneficio del dubbio. Peter aveva l'aria sincera mentre continuava: «Mi sono accorto di non essere tagliato per gli affari, e ho intenzione di lasciarli nelle mani delle persone capaci come te». «Ma cosa farai?» «Ho pensato di comprare quella casa.» Stavano passando davanti a un bel cottage dipinto di bianco con le persiane verdi. «Avrò a disposizione molto tempo per le vacanze.» Nancy provò un po' di compassione per lui. «È molto carina» osservò. «Ma è in vendita?» «C'è un cartello dall'altra parte. Sono passato a vedere poco fa. Vieni.» Girarono intorno alla casa. La porta e le imposte erano chiuse, e non era possibile guardare nelle stanze; ma dall'esterno era molto graziosa. C'era una grande veranda con un'amaca, e nel giardino un campo da tennis. Un po' discosta c'era una piccola costruzione priva di finestre, e Nancy immaginò che fosse una rimessa per le barche. «Potresti tenere una barca» disse. A Peter era sempre piaciuta la vela. La porta laterale della rimessa era aperta. Peter entrò. Nancy lo sentì esclamare: «Mio Dio!». Varcò la soglia e scrutò nella semioscurità. «Cosa c'è?» chiese, preoccupata. «Petey, tutto bene?» Lui apparve al suo fianco e le afferrò il braccio. Per una frazione di secondo Nancy vide il suo maligno sorriso di trionfo, e comprese di aver
commesso un errore terribile. Peter le strattonò il braccio con violenza e la trascinò all'interno. Nancy barcollò, gettò un grido, lasciò cadere le scarpe e la borsetta e piombò sul pavimento polveroso. «Peter!» gridò furiosa. Udì tre passi rapidi, poi la porta sbatté lasciandola nell'oscurità. «Peter?» chiamò, intimorita. Si rialzò. Sentì uno stridio e poi un colpo secco, come se la porta venisse incastrata. Gridò: «Peter! Di' qualcosa!». Non ebbe risposta. Una paura isterica le salì alla gola. Avrebbe voluto urlare per il terrore. Si portò la mano alla bocca e morse la nocca del pollice. Dopo un momento il panico cominciò a placarsi. Cieca e disorientata, immobile nel buio, si rese conto che Peter aveva pianificato tutto: aveva trovato la casa vuota con la rimessa per le barche, l'aveva attirata lì e l'aveva rinchiusa perché non potesse prendere l'aereo e votare al consiglio d'amministrazione. I rimorsi, le scuse, le intenzioni di rinunciare agli affari, la sincerità addolorata erano tutte finzioni. Aveva evocato cinicamente la loro infanzia per intenerirla. Ancora una volta si era fidata di lui, e ancora una volta l'aveva tradita. Ce n'era abbastanza per farla piangere. Si morse il labbro e rifletté sulla situazione. Quando gli occhi si abituarono all'oscurità, riuscì a scorgere un filo di luce sotto la porta. Si avviò con le mani protese in avanti. Arrivata alla porta, tastò la parete ai due lati e trovò un interruttore. Lo girò, e la rimessa fu inondata di luce. Afferrò la maniglia e cercò di aprire, senza molte speranze. Era bloccata. Appoggiò una spalla e spinse con tutte le sue forze, ma la porta non si mosse. I gomiti e le ginocchia le dolevano per la caduta, le calze erano strappate. «Porco» disse a Peter che non c'era. Si infilò le scarpe, raccolse la borsetta e si guardò intorno. Quasi tutto lo spazio era occupato da una grande barca a vela su un carrello. L'albero maestro era appeso al soffitto, le vele erano piegate ordinatamente sulla tolda. Nella parte anteriore della rimessa c'era una porta molto ampia. Nancy andò a esaminarla e, com'era prevedibile, scoprì che era chiusa a chiave. La casa era un po' lontana dalla spiaggia ma era possibile che i passeggeri del Clipper o magari qualcun altro passassero di lì. Nancy respirò profondamente e gridò: «AIUTO! AIUTO! AIUTO!». Decise di gridare a intervalli di un minuto, per non perdere la voce. Entrambe le porte erano robuste e fissate saldamente, ma forse sarebbe
riuscita a sfondarle se avesse trovato un piede di porco o qualcosa di simile. Si guardò intorno. Il proprietario era molto ordinato; non teneva gli attrezzi per il giardinaggio nella rimessa della barca. Non c'erano pale né rastrelli. Gridò ancora per chiedere aiuto, poi si arrampicò sul ponte della barca in cerca di un utensile. C'erano diversi armadietti, tutti chiusi a chiave. Si guardò ancora intorno dall'alto del ponte, ma non vide niente di nuovo. «Accidenti, accidenti, accidenti!» imprecò a voce alta. Si sedette sulla tolda e rifletté. Nella rimessa faceva piuttosto freddo, ed era contenta di avere il soprabito di cashmere. Continuò a chiamare aiuto a intervalli di circa un minuto; ma con il passare del tempo le sue speranze diminuirono. Ormai i passeggeri dovevano essere tornati a bordo del Clipper. Presto l'aereo sarebbe decollato lasciandola a terra. Nancy si rese conto che la perdita della società era in fondo l'ultima delle sue preoccupazioni. E se nessuno fosse entrato nella rimessa per una settimana? Poteva morire lì dentro. In preda al panico, incominciò a urlare senza interruzioni. C'era una nota isterica nella sua voce e questo la spaventò ancora di più. Dopo un po' fu vinta dalla stanchezza e si calmò. Peter era perfido, ma non era un assassino. Non l'avrebbe lasciata lì a morire. Con ogni probabilità aveva intenzione di fare una telefonata anonima alla polizia di Shediac per avvertirla. Ma non prima della riunione del consiglio, ovviamente. Nancy si disse che non correva pericoli; ma si sentiva profondamente inquieta. E se Peter era più perfido di quanto lei immaginava? Se si fosse dimenticato? Se si fosse sentito male o avesse avuto un incidente? Chi l'avrebbe salvata, allora? Udì il rombo dei potenti motori del Clipper echeggiare nella baia. Il suo stato d'animo passò dal panico alla disperazione più nera. Era stata tradita e sconfitta; e aveva perso anche Mervyn, che in quel momento doveva essere a bordo dell'idrovolante in attesa del decollo. Forse si chiedeva vagamente dov'era finita. Ma poiché gli aveva dato dello stupido, con ogni probabilità pensava che tutto fosse finito. Mervyn era stato arrogante a presumere che lo avrebbe seguito in Inghilterra; ma in realtà qualunque uomo avrebbe pensato la stessa cosa, e lei era stata sciocca a prendersela. Adesso si erano lasciati con rabbia e non lo avrebbe rivisto mai più. E forse sarebbe morta. Il rombo dei motori lontani salì in un crescendo. Il Clipper stava per decollare. Il rumore rimase altissimo per un minuto o due, quindi cominciò a
smorzarsi mentre, pensò Nancy, l'aereo saliva verso il cielo. È fatta, pensò. Ho perduto l'azienda e ho perduto Mervyn, e probabilmente morirò di fame qui dentro. No, non sarebbe morta di fame ma di sete, fra le urla e il delirio... Sentì una lacrima scorrerle sulla guancia e l'asciugò con la manica. Doveva scuotersi. Doveva trovare un modo per uscire. Si guardò di nuovo intorno e si chiese se poteva usare l'albero come un ariete. Si tese verso l'imbracatura. No, l'albero maestro era troppo pesante perché una persona sola potesse smuoverlo. Poteva sfondare la porta? Aveva letto che certi prigionieri, nelle segrete medievali, grattavano le pietre con le unghie, anno dopo anno, nel vano tentativo di aprirsi una via di fuga. Lei non aveva anni a disposizione, e aveva bisogno di uno strumento ben più robusto delle unghie. Guardò nella borsetta. Aveva un pettinino d'avorio, un rossetto quasi terminato, un modesto portacipria che i figli le avevano regalato per il suo trentesimo compleanno, un fazzoletto ricamato, il libretto degli assegni, un biglietto da cinque sterline, alcuni da cinquanta dollari e una penna d'oro. Niente di utile. Pensò ai suoi indumenti. Portava una cintura di coccodrillo con la fibbia placcata d'oro. Forse poteva usare il puntale della fibbia per scavare il legno intorno alla serratura. Un lavoro lungo, ma aveva tutto il tempo che voleva. Scese dalla barca ed esaminò la serratura della porta principale. Il legno era robusto, ma forse non sarebbe stato necessario scavarlo completamente: una volta aperto un solco profondo, forse si sarebbe spezzato. Gridò di nuovo per chiedere aiuto. Nessuno le rispose. Si tolse la cintura. La gonna non stava più su; la tolse, la piegò con cura e l'appoggiò sul parapetto della barca. Anche se nessuno poteva vederla, era contenta di avere indosso un bel paio di mutandine orlate di pizzo e un reggicalze assortito. Tracciò un quadrato intorno alla serratura e cominciò a scavare il solco. Ma il metallo della fibbia non era molto forte e il puntale finì per piegarsi. Nancy però insistette, interrompendosi a intervalli di circa un minuto per gridare. A poco a poco il solco si approfondì. La segatura cadeva sul pavimento. Il legno della porta era morbido, forse a causa dell'umidità. Il lavoro procedette più in fretta, e Nancy pensò che presto avrebbe potuto uscire. Proprio quando cominciava a sperare, il puntale si spezzò. Lo raccolse dal pavimento e tentò di continuare, ma senza la fibbia era difficile maneggiarlo. Se scavava a fondo le sfuggiva dalle dita, se lo usava
con mano leggera il solco non si approfondiva. Dopo averlo lasciato cadere cinque o sei volte imprecò a voce alta, pianse per la rabbia e martellò invano la porta con i pugni. Una voce chiese: «Chi è?». Nancy tacque e smise di battere. Aveva udito davvero quella voce? «Ehi, aiuto!» gridò. «Nancy, sei tu?» Il cuore le balzò in gola. Riconobbe la voce dall'accento britannico. «Mervyn! Dio sia ringraziato!» «Ti stavo cercando. Cosa diavolo ti è successo?» «Fammi uscire.» La porta tremò. «È chiusa a chiave.» «Gira dall'altro lato.» «Subito.» Nancy attraversò la rimessa, girò intorno alla barca e raggiunse la porta laterale. Udì Mervyn che diceva: «È incastrata... un attimo solo...». Si ricordò di essere seminuda, e si strinse addosso il soprabito. Dopo un istante la porta si spalancò, e lei si gettò fra le braccia di Mervyn. «Credevo che sarei morta qui dentro!» proruppe e, con suo estremo imbarazzo, scoppiò in pianto. Mervyn l'abbracciò e le accarezzò i capelli. «Su, su.» «È stato Peter a chiudermi dentro» esclamò continuando a piangere. «Sospettavo che avesse fatto una mascalzonata. Tuo fratello è una carogna, se vuoi sapere come la penso.» A Nancy non importava nulla di Peter. Era troppo felice di rivedere Mervyn. Lo guardò negli occhi attraverso un velo di lacrime, poi gli coprì il viso di baci: occhi, guance, palpebre, labbra. All'improvviso fu colta da una profonda eccitazione. Aprì la bocca e lo baciò appassionatamente. Mervyn l'abbracciò e la strinse, e lei lo strinse a sua volta, smaniosa del contatto con il suo corpo. Mervyn le passò le mani sulla schiena, sotto il soprabito, e si fermò, sconcertato, quando toccò le mutandine. Si scostò e la guardò. Il soprabito si era aperto. «Dov'è finita la gonna?» Nancy rise. «Ho cercato di scavare il legno della porta con la fibbia della cintura, e la gonna non stava su. Così l'ho tolta...» «Che piacevole sorpresa» mormorò Mervyn con voce un po' roca. Le accarezzò le natiche e le cosce nude. Nancy sentì il pene ergersi contro il suo stomaco e lo accarezzò. In un attimo il desiderio li travolse. Nancy voleva fare l'amore con lui,
subito, e sapeva che anche Mervyn lo voleva. Mervyn le coprì i piccoli seni con le mani. Con un'esclamazione soffocata, Nancy gli sbottonò i calzoni. Intanto, nel profondo della mente, continuava a pensare: Potevo morire, potevo morire, e quel pensiero le ispirava una smania disperata. Gli strinse il pene e lo liberò. Tutti e due ansimavano. Nancy si scostò e abbassò lo sguardo sul grosso pene stretto nella sua mano piccola e bianca. Cedette a un impulso irresistibile, si chinò e lo prese in bocca. Ebbe la sensazione che la riempisse. Un odore di muschio le saliva alle narici e sentiva nella bocca un sapore salato. Gemette: aveva dimenticato quanto le piaceva. Avrebbe continuato per sempre; ma Mervyn le sollevò la testa e mormorò: «Basta, o scoppio». Si chinò davanti a lei e le abbassò adagio le mutandine. Nancy si sentiva intimidita ed eccitata nello stesso tempo. Mervyn le baciò il pelo del pube, poi le fece scivolare le mutandine fino alle caviglie, e lei le sfilò. Mervyn si rialzò, l'abbracciò di nuovo e poi, finalmente, le posò la mano sul sesso e dopo un attimo Nancy sentì il dito insinuarsi dentro di lei. Intanto continuavano a baciarsi, le labbra e le lingue freneticamente unite, interrompendosi soltanto per respirare. Dopo un po' Nancy si scostò, si guardò intorno e chiese: «Dove?». «Passami le braccia intorno al collo» sussurrò Mervyn. Nancy gli intrecciò le mani dietro la nuca, lui la afferrò sotto le cosce e la sollevò agevolmente. Il soprabito ondeggiava dietro di lei. Quando Mervyn la abbassò, lei lo guidò dentro di sé e gli avvinghiò le gambe intorno alla vita. Per un momento rimasero immobili e Nancy assaporò la sensazione che le era mancata per tanto tempo, il senso di intimità totale che le dava avere un uomo dentro di lei, l'unione completa di due corpi. Era la sensazione più piacevole del mondo: era stata pazza a farne a meno per dieci anni. Poi incominciò a muoversi: si spingeva verso Mervyn e poi si scostava. Lo udiva gemere, e il pensiero del piacere che gli dava l'accendeva ancora di più. Provava un po' di vergogna all'idea di far l'amore in quella posizione bizzarra con un uomo che conosceva appena. In un primo momento si chiese se Mervyn poteva sostenere il suo peso; ma era minuta, e lui era alto e forte. Le stringeva le natiche e la muoveva, la sollevava e la abbassava. Nancy chiuse gli occhi e assaporò il contatto del pene che la penetrava e usciva, della clitoride che gli premeva contro il ventre. Abbandonò ogni altro pensiero e si concentrò intensamente sulle sensazioni che provava. Dopo un po' aprì gli occhi e lo guardò. Avrebbe voluto dirgli che lo a-
mava. In fondo alla sua mente, la sentinella del buon senso le disse che era troppo presto; ma era ciò che sentiva. «Sei molto caro» bisbigliò. L'espressione negli occhi di Mervyn le disse che aveva compreso. Lui mormorò il suo nome e cominciò a muoversi più in fretta. Nancy richiuse le palpebre e pensò solo alle ondate di piacere che emanavano dal punto di contatto dei loro corpi. Udì la propria voce risuonare come da una grande distanza e prorompere in brevi grida di piacere ogni volta che affondava su di lui. Mervyn ansimava ma reggeva il suo peso e non sembrava affaticato. Poi Nancy si accorse che si tratteneva per aspettarla, e pensò alla pressione che si accumulava in lui a ogni movimento; quell'immagine la spinse nell'abisso. Tutto il suo corpo era un fremito di piacere. Gridò. Lo sentì sussultare, e lo cavalcò come un cavallo che sgroppa mentre l'orgasmo li travolgeva entrambi. Finalmente il piacere si placò. Mervyn rimase immobile e lei gli si abbandonò contro il petto. Mervyn l'abbracciò con forza. «Diamine, ma con te è sempre così?» Lei rise, senza fiato. Le piaceva un uomo che sapeva farla ridere. Poi la depose sul pavimento; lei rimase ritta, tremante, e continuò ad appoggiarsi a lui per qualche attimo. Alla fine, con riluttanza, si rivestì. Si sorrisero, ma senza parlare. Uscirono nel sole mite e si avviarono lentamente lungo la spiaggia verso un pontile. Nancy si chiese se il suo destino era vivere in Inghilterra e sposare Mervyn. Aveva perso la battaglia per il controllo della società; non sarebbe riuscita ad arrivare a Boston in tempo per il consiglio d'amministrazione, quindi Peter avrebbe potuto battere Danny Riley e la zia Tilly e ottenere la vittoria che voleva. Pensò ai suoi figli; ormai erano indipendenti, e lei non era obbligata a vivere secondo le loro esigenze. E aveva appena scoperto che Mervyn era l'amante che desiderava. Si sentiva ancora stordita e un po' debole, dopo aver fatto l'amore con lui. Ma cosa fare in Inghilterra? si chiese. Non posso diventare una casalinga. Arrivarono al pontile e si fermarono a guardare la baia. Nancy si chiese quando partivano i treni. Stava per proporre di andare a informarsi quando vide Mervyn fissare qualcosa in lontananza. «Cosa guardi?» chiese. «Un Grumman Goose» disse lui pensieroso. «E cos'è?» Mervyn indicò. «Quel piccolo idrovolante. Si chiama Grumman Goose. È un modello nuovo, in commercio da un paio d'anni. Ed è molto veloce, più del Clipper...» Nancy guardò l'idrovolante. Era un monoplano bimotore dall'aspetto
moderno, con la cabina chiusa. Intuì il pensiero di Mervyn. Con quello lei poteva arrivare a Boston in tempo per il consiglio d'amministrazione. «Possiamo noleggiarlo?» chiese, incerta. Non osava sperare. «Ci stavo proprio pensando.» «Andiamo a sentire!» Nancy si avviò verso la sede della linea aerea, e Mervyn la seguì a grandi passi. Il cuore le martellava in gola. Poteva ancora salvare la sua società. Comunque, frenò l'euforia. Forse sarebbe emerso qualche inconveniente. Entrarono. Un giovane con l'uniforme della Pan American disse: «Ehi, ma voi avete perso il Clipper!». Senza preamboli, Nancy chiese: «Sa chi è il proprietario di quel piccolo idrovolante?». «Il Goose? Sicuro. È il padrone di una segheria, Alfred Southborne.» «Lo noleggia?» «Oh, sì, tutte le volte che può. Volete noleggiarlo?» Il cuore di Nancy diede un tuffo. «Sì!» «Uno dei piloti è qui... era venuto a vedere il Clipper.» Il giovane andò ad affacciarsi nella stanza accanto. «Ehi, Ned, c'è qualcuno che vuole noleggiare il Goose.» Ned uscì. Era un uomo d'aspetto allegro, sulla trentina, che indossava una camicia con le spalline. Accennò un saluto e disse: «Mi farebbe piacere aiutarvi, ma il mio copilota non è qui, e il Goose ha bisogno di un equipaggio di due persone». Nancy si sentì riassalire dall'avvilimento. Mervyn intervenne: «Io sono pilota». Ned non sembrava molto convinto. «Ha mai pilotato un idrovolante?» Nancy trattenne il respiro. «Sì» disse Mervyn. «Il Supermarine.» Nancy non aveva mai sentito nominare il Supermarine; ma doveva essere un aereo da competizione, perché Ned chiese: «Lei fa gare?». «Le facevo quand'ero giovane. Adesso volo soltanto per divertimento. Ho un Tiger Moth.» «Be', se ha pilotato un Supermarine non avrà nessuna difficoltà a fare da copilota sul Goose. E il signor Southborne starà via fino a domani. Dove volete andare?» «A Boston.» «Vi costerà mille dollari.» «Non è un problema!» esclamò Nancy. «Ma dobbiamo partire immedia-
tamente.» L'uomo la guardò, un po' sorpreso. Aveva pensato che fosse Mervyn a decidere. «Possiamo partire fra pochi minuti, signore. Come intende pagare?» «Posso farle un assegno personale, oppure può mandare il conto alla mia società, la Black's Boots, a Boston.» «Lavora per la Black's Boots?» «È mia.» «Ehi, sa che porto le sue scarpe?» Nancy abbassò lo sguardo. Ned calzava un paio di Oxford nere con punta rinforzata da 6 dollari e 95. «Si trova bene?» chiese automaticamente. «Benone. Sono scarpe ottime. Ma immagino che lo sappia.» Nancy sorrise. «Sì» disse. «Sono ottime scarpe.» PARTE SESTA Da Shediac alla Baia di Fundy 26 Margaret era fuori di sé per la preoccupazione mentre il Clipper sorvolava il New Brunswick e si dirigeva verso New York. Dov'era Harry? La polizia aveva scoperto che viaggiava con un passaporto falso; a bordo ormai lo sapevano tutti. Margaret non riusciva a immaginare come l'avessero saputo, ma era una domanda accademica. Era più importante quello che gli avrebbero fatto se lo avessero preso. Presumibilmente l'avrebbero rispedito in Inghilterra, dove sarebbe finito in carcere per il furto di quei maledetti gemelli oppure arruolato nell'esercito: e allora come avrebbe fatto a ritrovarlo? Per quanto ne sapeva, non l'avevano ancora trovato. L'ultima volta che l'aveva visto stava andando alla toilette degli uomini mentre lei sbarcava a Shediac. Era stato l'inizio di un piano di fuga? Aveva intuito allora di essere nei guai? I poliziotti avevano perquisito l'aereo senza risultato, quindi doveva essere sceso. Ma dov'era andato? Forse in quel momento camminava su una strada attraverso la foresta cercando di ottenere un passaggio. O forse aveva trovato il modo di imbarcarsi su un peschereccio ed era partito via mare. Qualunque cosa avesse fatto, Margaret era torturata dallo stesso interrogativo: l'avrebbe mai rivisto?
Continuava a ripetersi che non doveva scoraggiarsi. Era doloroso perdere Harry, ma poteva ancora contare sull'aiuto di Nancy Lenehan. Ormai suo padre non poteva fermarla. Era un fallito e un esule, e aveva perduto il potere di costringerla. Tuttavia aveva ancora paura che reagisse come un animale ferito e facesse qualcosa di tremendo. Non appena l'aereo raggiunse la quota di crociera, Margaret sganciò la cintura di sicurezza e andò a poppa per parlare con la signora Lenehan. Gli steward stavano preparando la sala da pranzo quando lei passò. Nel quarto scompartimento, Ollis Field e Frank Gordon erano seduti fianco a fianco, ammanettati l'uno all'altro. Margaret andò fino in fondo all'aereo e bussò alla porta della suite nuziale. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, poi aprì. La suite era vuota. Una paura gelida le sfiorò il cuore. Forse Nancy era nello spogliatoio delle signore. Ma dov'era il signor Lovesey? Se fosse salito sul ponte di comando o fosse andato alla toilette degli uomini, Margaret l'avrebbe visto passare dal secondo scompartimento. Si fermò sulla soglia, aggrottò la fronte e si guardò intorno come se quei due potessero essere nascosti da qualche parte. Ma non c'erano nascondigli. Peter, il fratello di Nancy, e il suo compagno di viaggio erano seduti vicino alla suite, di fronte alla toilette. Margaret chiese: «Dov'è la signora Lenehan?». Peter rispose: «Ha deciso di scendere a Shediac». Margaret restò senza fiato. «Cosa? Come fa a saperlo?» «Me l'ha detto lei.» «Ma perché?» chiese ansiosa Margaret. «Perché è rimasta?» Peter la fissò con aria offesa. «Non lo so» rispose gelido. «Non me l'ha detto. Mi ha semplicemente chiesto di comunicare al comandante che non sarebbe risalita a bordo per l'ultima tappa del volo.» Margaret sapeva che era una scortesia insistere, ma doveva farlo. «Dov'è andata?» Peter prese il giornale dal sedile. «Non ne ho idea» rispose, e cominciò a leggere. Margaret era desolata. Come aveva potuto Nancy fare una cosa simile? Sapeva quanto fosse importante per lei il suo aiuto. Non era possibile che avesse lasciato l'aereo senza dirle qualcosa, senza un messaggio. Margaret fissò Peter e pensò che aveva un'espressione subdola. Inoltre si era irritato un po' troppo per le sue domande. D'impulso, esclamò: «Non
credo che mi abbia detto la verità». Erano parole molto pesanti, e lei trattenne il respiro in attesa della reazione. Peter alzò la testa e arrossì. «Ha ereditato la maleducazione di suo padre, signorina» replicò. «Se ne vada.» Margaret era disperata. Niente poteva dispiacerle più che sentirsi dire che somigliava a suo padre. Si voltò senza aggiungere altro. Era sul punto di piangere. Mentre attraversava il quarto scompartimento notò Diana Lovesey, la bella moglie di Mervyn. Tutti erano rimasti affascinati dal dramma della fuga degli amanti e dell'inseguimento del marito e si erano divertiti moltissimo quando Nancy e Mervyn si erano trovati nella necessità di dividere la suite nuziale. Margaret si chiese se Diana sapeva cos'era successo a suo marito. Sarebbe stato imbarazzante domandarlo, certo, ma era troppo disperata per preoccuparsene. Si sedette accanto a Diana e chiese: «Mi perdoni, ma sa cosa sia successo al signor Lovesey e alla signora Lenehan?». Diana la guardò, sorpresa. «Come? Non sono nella suite nuziale?» «No. Non sono neppure a bordo.» «Davvero?» Diana era chiaramente sconcertata. «E come mai? Hanno perso l'aereo?» «Il fratello di Nancy dice che hanno deciso di non terminare il viaggio, ma io non gli credo.» Diana aggrottò la fronte. «A me non hanno detto niente.» Margaret lanciò un'occhiata interrogativa al compagno di Diana, il mite Mark. «E non si sono confidati certo con me» disse lui. Diana cambiò tono. «Spero proprio che non gli sia successo niente.» Mark chiese: «Cosa vorresti dire, tesoro?». «Non lo so neppure io. Spero solo che non gli sia successo niente.» Margaret annuì. «Non mi fido del fratello. Mi sembra un tipo disonesto.» «Forse ha ragione» rispose Mark, «ma penso che non possiamo fare nulla finché siamo in volo. E poi...» «Mervyn non mi riguarda più, lo so» sbottò Diana con uno scatto di irritazione. «Ma è stato mio marito per cinque anni e sono in pensiero per lui.» «Probabilmente ci sarà un messaggio ad aspettarci quando arriveremo a Port Washington» affermò Mark per sdrammatizzare. «Me lo auguro» concluse Diana. Lo steward Davy sfiorò il braccio di Margaret. «Il pranzo è pronto, lady
Margaret. I suoi sono già a tavola.» «Grazie.» Non aveva nessuna voglia di mangiare. Ma quei due non erano in grado di dirle altro. Quando Margaret si alzò, Diana le chiese: «È amica della signora Lenehan?». «Doveva darmi un lavoro» rispose amaramente Margaret. E si allontanò mordendosi le labbra. I suoi genitori e Percy erano già in sala da pranzo. In quel momento stavano servendo la prima portata: cocktail d'aragosta, preparato con le aragoste fresche di Shediac. Margaret si sedette e disse automaticamente: «Scusate il ritardo». Suo padre le lanciò un'occhiataccia. Lei giocherellò con il cocktail. Desiderava appoggiare la testa sulla tavola e piangere. Harry e Nancy l'avevano abbandonata entrambi senza avvertirla. Era tornata al punto di partenza, senza mezzi per vivere e senza amici ad aiutarla. Era ingiusto: aveva cercato di imitare Elizabeth e di pianificare tutto, ma il suo meticoloso progetto era fallito. Dopo l'aragosta fu servita una zuppa di rognoncini. Margaret l'assaggiò e posò il cucchiaio. Era stanca e irritata, le doleva la testa e non aveva appetito. Il Clipper superlussuoso cominciava a sembrarle una prigione. Erano in viaggio da quasi ventisette ore, e ne aveva abbastanza. Voleva sdraiarsi su un letto vero, con un materasso soffice e una quantità di cuscini, e dormire per una settimana. Anche gli altri risentivano della fatica. La mamma era pallida e stanca. Il papà aveva i postumi della sbronza, gli occhi iniettati di sangue e l'alito pesante. Percy era agitato e nervoso come se avesse bevuto troppo caffè, e continuava a lanciare occhiate ostili al papà. Margaret ebbe la sensazione che si preparasse a fare qualcosa di scandaloso. Per la portata principale si poteva scegliere tra sogliola fritta con salsa cardinale oppure filetto. Margaret non aveva voglia di mangiare ma ordinò il pesce, con contorno di patate e cavolini di Bruxelles. Chiese a Nicky un bicchiere di vino bianco. Pensò ai giorni squallidi che l'attendevano. Sarebbe andata al Waldorf con i genitori, ma Harry non sarebbe entrato di nascosto nella sua camera; sarebbe andata a letto sola e avrebbe pensato a lui con nostalgia. Avrebbe dovuto accompagnare la mamma a far spese. Poi sarebbero partiti tutti per il Connecticut. Senza chiederle se era d'accordo, l'avrebbero iscritta a un club d'equitazione e a uno di tennis. E avrebbe ricevuto inviti alle feste. La mamma avrebbe stretto in pochissimo tempo un giro di amicizie, e presto
sarebbero venuti ragazzi "accettabili" al tè o ai cocktail o a fare gite in bicicletta. Come poteva lei adeguarsi a una vita simile mentre in Inghilterra si combatteva? Più ci pensava, più si sentiva depressa. Come dessert c'era torta di mele con panna oppure gelato con salsa di cioccolata. Margaret ordinò il gelato e lo mangiò tutto. Il papà chiese cognac con il caffè, poi si schiarì la gola. Stava per fare un discorso. Possibile che intendesse scusarsi per l'orribile scenata della sera prima? No, era impossibile. «Io e tua madre abbiamo parlato di te» esordì. «Come se fossi una cameriera disubbidiente» scattò Margaret. La mamma intervenne: «Sei una bambina disubbidiente». «Ho diciannove anni e da sei ho le mestruazioni... come posso essere una bambina?» «Zitta!» esclamò scandalizzata la mamma. «Il solo fatto che ti permetta di pronunciare parole simili di fronte a tuo padre dimostra che non sei matura.» «Mi arrendo» rispose Margaret. «Non posso vincere.» Suo padre proseguì: «Il tuo comportamento sciocco conferma tutto ciò che abbiamo detto. Non ci si può ancora fidare che tu ti inserisca in una normale vita di società fra gente della tua classe». «Grazie al cielo!» Percy rise rumorosamente e suo padre lo fulminò con un'occhiata ma continuò a parlare a Margaret. «Abbiamo cercato di pensare a un posto dove mandarti, un posto dove avrai poche possibilità di causare guai.» «Un convento?» Lui non era abituato a sentirla reagire con tanta audacia, ma dominò la collera con uno sforzo. «Questi discorsi non miglioreranno la tua situazione.» «E come potrebbe essere migliore? I miei affettuosi genitori stanno decidendo il mio futuro e pensano solo al mio interesse. Che altro potrei pretendere?» Con grande sorpresa di Margaret, una lacrima spuntò dagli occhi di sua madre. «Sei davvero crudele» mormorò mentre l'asciugava. Margaret si commosse. La vista di quelle lacrime distrusse la sua resistenza. Chiese in tono più mite: «Cosa vuoi che faccia, mamma?». Fu suo padre a rispondere. «Andrai a vivere con la zia Clare. Ha una casa nel Vermont. È in mezzo alle montagne, piuttosto isolata. Non ci sarà vicino nessuno che tu possa mettere in imbarazzo.»
La mamma aggiunse: «Mia sorella Clare è una donna meravigliosa. Non si è mai sposata ed è la colonna della chiesa episcopale di Brattleboro». Margaret si sentì assalire da una rabbia gelida, ma si dominò: «Quanti anni ha la zia Clare?». «Più di cinquanta.» «Vive sola?» «Sì, a parte i domestici.» Margaret fremeva di collera. «Questa è la punizione perché ho cercato di vivere la mia vita» replicò con voce malferma. «Mi mandate in esilio fra le montagne a vivere con una zitella matta. Per quanto pretendete che ci stia?» «Finché non ti sarai calmata» affermò suo padre. «Un anno, forse.» «Un anno!» Sembrava un'eternità. Ma non potevano costringerla. «Non essere tanto stupido. Diventerò pazza, mi ucciderò o scapperò.» «Non potrai andartene senza il nostro consenso» disse suo padre. «E se lo farai...» Esitò. Margaret lo guardò in faccia. Mio Dio, pensò, persino lui si vergogna di quello che sta per dire. Cosa può essere? Suo padre strinse le labbra in una smorfia decisa, poi disse: «Se scapperai, ti faremo dichiarare pazza e rinchiudere in manicomio». Margaret soffocò un gemito. Era ammutolita dall'orrore. Non avrebbe mai immaginato che fosse capace di una simile cattiveria. Fissò sua madre, ma lei rifiutava di sostenere il suo sguardo. Percy si alzò e buttò il tovagliolo sul tavolo. «Vecchio imbecille, ti ha dato di volta il cervello» esclamò e uscì. Se Percy avesse parlato in quel modo una settimana prima si sarebbe scatenato l'inferno; ma questa volta fu ignorato. Margaret guardò suo padre: aveva un'espressione colpevole e tuttavia ostinata. Sapeva di sbagliare, ma non avrebbe cambiato idea. Finalmente Margaret trovò le parole per esprimere ciò che provava. «Mi hai condannata a morte» disse. La mamma cominciò a piangere in silenzio. All'improvviso il suono dei motori cambiò. Tutti se ne accorsero e smisero di parlare. Poi vi fu un sobbalzo, e l'aereo incominciò a scendere. 27 Quando i due motori di sinistra si spensero contemporaneamente, il de-
stino di Eddie fu segnato. Fino a quel momento avrebbe potuto cambiare idea. L'aereo avrebbe proseguito il volo senza che nessuno sapesse cosa aveva progettato di fare. Ma adesso, qualunque cosa accadesse, la verità sarebbe venuta a galla. Non avrebbe più volato se non come passeggero. La sua carriera era finita. Dominò la rabbia che minacciava di sopraffarlo. Doveva restare calmo e portare a termine il lavoro. Poi avrebbe pensato ai delinquenti che gli avevano rovinato la vita. L'aereo doveva compiere un ammaraggio di fortuna. I sequestratori di Carol-Ann sarebbero saliti a bordo e avrebbero liberato Frankie Gordino. Poi poteva succedere di tutto. Carol-Ann sarebbe stata sana e salva? La Marina avrebbe teso l'imboscata ai gangster mentre si dirigevano verso terra? Lui sarebbe finito in carcere per la parte avuta nella vicenda? Era prigioniero del destino. Ma se avesse potuto stringere Carol-Ann fra le braccia, sana e salva, tutto il resto non avrebbe avuto importanza. Un momento dopo che si erano spenti i motori udì nella cuffia la voce del comandante Baker. «Cosa diavolo succede?» Eddie aveva la bocca arida per la tensione. Dovette deglutire due volte prima di riuscire a parlare: «Ancora non lo so» rispose. Ma lo sapeva. I motori si erano fermati perché non ricevevano carburante. Lui aveva interrotto l'afflusso. Il Clipper aveva sei serbatoi. I motori erano alimentati da due piccoli serbatoi contenuti nelle ali. Quasi tutto il carburante era nei quattro più grandi, situati negli idrostabilizzatori, i tozzi galleggianti dove montavano i passeggeri per scendere e salire a bordo. Il carburante poteva essere scaricato dai serbatoi di riserva; ma non poteva farlo Eddie, perché i comandi erano nella postazione del secondo pilota. Eddie, però, poteva pompare il carburante dai serbatoi di riserva a quelli nelle ali e viceversa. Il trasferimento era controllato da due grandi volani situati a destra del quadro degli strumenti del motorista. Ora l'aereo si trovava sopra la baia di Fundy, a circa otto chilometri dal luogo dell'appuntamento, e negli ultimi minuti Eddie aveva vuotato i serbatoi delle ali. Il serbatoio di destra conteneva carburante per qualche chilometro; quello di sinistra era asciutto, e i due motori da quella parte si erano fermati. Sarebbe stato molto semplice pompare il carburante dai serbatoi di riserva, naturalmente. Ma mentre l'aereo sostava a Shediac, Eddie era tornato a bordo e aveva manomesso i volani, spostando i quadranti in modo che quando annunciavano "Pompaggio" in realtà non funzionavano, e quando
indicavano "Spento", pompavano. Adesso i quadranti mostravano che stava cercando di riempire i serbatoi delle ali, mentre in realtà non succedeva nulla. Aveva usato le pompe con le indicazioni errate per la prima parte del volo; e un altro motorista avrebbe potuto accorgersene e chiedere cosa stava succedendo. Eddie aveva temuto che Mickey Finn salisse sul ponte di comando; ma era rimasto a dormire nel primo scompartimento, come lui aveva previsto. In quella fase del lungo volo il personale che non era di turno dormiva sempre. A Shediac c'erano stati due brutti momenti. Il primo quando la polizia aveva annunciato di aver scoperto il nome del complice di Frankie Gordino a bordo dell'aereo. Eddie aveva pensato che parlassero di Luther; per un po' aveva creduto che fosse tutto finito, e si era tormentato alla ricerca di un altro modo per salvare Carol-Ann. Poi avevano fatto il nome di Harry Vandenpost, e per poco Eddie non si era messo a saltare di gioia. Non immaginava perché Harry Vandenpost, che sembrava un giovane americano beneducato e di buona famiglia, viaggiasse con il passaporto falso: ma gli era grato perché distoglieva l'attenzione da Luther. I poliziotti non avevano cercato oltre, Luther era sfuggito alla loro attenzione; e il piano poteva proseguire. Ma per il comandante Baker tutto questo era troppo. Mentre Eddie si riprendeva dallo spavento, Baker aveva lanciato la bomba. Il fatto che ci fosse un complice a bordo significava che qualcuno era intenzionato a liberare Gordino, aveva detto, e quindi esigeva che Gordino sbarcasse. Anche questo avrebbe rovinato tutto. C'era stata una lite furiosa fra Baker e Ollis Field; l'agente dell'FBI aveva minacciato di farlo incriminare perché ostacolava la giustizia. Alla fine il comandante aveva chiamato la Pan American a New York e aveva scaricato il problema; la Pan American aveva deciso di far proseguire Gordino. Ancora una volta Eddie aveva tirato un respiro di sollievo. A Shediac aveva trovato una buona notizia. Un messaggio cifrato ma inequivocabile di Steve Appleby confermava che una nave guardacoste della Marina americana avrebbe pattugliato la costa nel tratto dell'ammaraggio del Clipper. Si sarebbe tenuta nascosta fino all'ammaraggio e poi avrebbe intercettato il mezzo che avesse stabilito un contatto con l'idrovolante. Per Eddie, questo cambiava tutto. Ora sapeva che i gangster sarebbero stati catturati, e poteva far scendere l'aereo con la coscienza tranquilla.
Ormai era quasi fatta. L'aereo era vicino al punto stabilito e volava con due soli motori. In quel momento il comandante Baker era al fianco di Eddie. All'inizio Eddie non disse nulla. Tese la mano tremante e regolò l'alimentazione in modo che il serbatoio dell'ala di destra fornisse carburante a tutti i motori, poi tornò ad avviare quelli di sinistra. Infine annunciò: «Il serbatoio dell'ala di sinistra si è svuotato e non riesco a riempirlo». «Perché?» chiese brusco il comandante. Eddie indicò i volani. Si sentiva un traditore, ma disse: «Ho messo in funzione le pompe, ma non succede niente». Gli strumenti non mostravano né il flusso del carburante né la pressione fra i serbatoi di riserva e quelli dell'alimentazione, ma c'erano quattro spie a vetri in fondo alla cabina di comando per il controllo visuale del carburante nei tubi. Il comandante Baker andò a guardare. «Niente!» esclamò. «Quanto è rimasto nel serbatoio dell'ala di destra?» «È quasi asciutto... pochi chilometri.» «Come mai te ne sei accorto solo adesso?» chiese il comandante. «Credevo che le pompe funzionassero» rispose Eddie debolmente. Era una risposta insufficiente, e il comandante era furioso. «Com'è possibile che tutte e due le pompe abbiano smesso di funzionare contemporaneamente?» «Non lo so... ma grazie a Dio abbiamo una pompa a mano.» Eddie afferrò la leva accanto al suo tavolo e cominciò ad azionarla. Quella pompa veniva usata normalmente solo quando il motorista drenava l'acqua dai serbatoi durante il volo. L'aveva fatto subito dopo la partenza da Shediac, e aveva omesso volutamente di rimettere a posto la valvola che consentiva all'acqua di sgorgare all'esterno. Di conseguenza, l'energica manovra di pompaggio invece di riempire i serbatoi dell'ala scaricava il carburante. Il comandante non lo sapeva, ovviamente, e non era probabile che notasse la regolazione della valvola. Ma attraverso le spie di vetro poteva vedere che il carburante non scorreva. «Non funziona!» esclamò. «Non capisco come mai tutte e tre le pompe abbiano smesso di funzionare nello stesso momento!» Eddie guardò i quadranti. «Il serbatoio dell'ala di destra è quasi asciutto» disse. «Se non ammariamo in fretta, precipiteremo.» «Prepararsi per un ammaraggio di fortuna» ordinò Baker. Poi puntò l'indice verso Eddie. «Non mi piace il tuo ruolo in tutta questa faccenda, Deakin» aggiunse con fredda indignazione. «Non mi fido di te.»
Eddie era sconvolto. Aveva una ragione valida per mentire al comandante, ma si vergognava comunque. Si era sempre comportato onestamente con tutti, e disprezzava coloro che ricorrevano all'inganno e alla menzogna. Ora si comportava in un modo che gli ripugnava. Alla fine capirai, comandante, pensò; ma avrebbe voluto poterglielo dire. Baker si girò verso la postazione dell'ufficio di rotta e si chinò sulla carta. Jack Ashford lanciò un'occhiata perplessa a Eddie, poi indicò un punto sulla carta e disse al comandante: «Siamo qui». Il piano prevedeva che il Clipper scendesse nel canale tra la costa e l'isola Grand Manan. I gangster puntavano su quello, e anche Eddie. Ma nelle situazioni di emergenza la gente faceva le cose più strane. Eddie decise che se Baker avesse irrazionalmente scelto un altro punto, sarebbe intervenuto per sostenere i vantaggi offerti dal canale. Baker si sarebbe insospettito, ma avrebbe compreso che il suggerimento era logico; e allora sarebbe stato lui a dare l'impressione di comportarsi in modo strano se fosse ammarato altrove. Comunque non fu necessario intervenire. Dopo un momento Baker disse: «Qui. In questo canale. Ecco dove scenderemo». Eddie girò la testa per nascondere l'espressione di trionfo. Si era avvicinato di un altro passo a Carol-Ann. Mentre tutti si occupavano delle procedure per l'ammaraggio di fortuna, Eddie guardò dal finestrino e cercò di valutare le condizioni del mare. Vide una piccola imbarcazione bianca simile a quelle per la pesca sportiva che oscillava sulle onde. La superficie era piuttosto mossa. Sarebbe stato un ammaraggio brusco. Udì una voce che gli fermò il cuore. «Cos'è successo?» Era Mickey Finn, il suo assistente, che saliva la scala per controllare. Eddie lo fissò sconvolto. Mickey avrebbe intuito subito che la valvola della pompa a mano non era stata riposizionata Doveva sbarazzarsi di lui, e in fretta. Ma per fortuna il comandante Baker lo precedette. «Fuori di qui, Mickey!» intimò. «Il personale che non è di turno deve stare seduto e legato con le cinture di sicurezza durante un ammaraggio di fortuna, e non andare a spasso per l'aereo a fare domande stupide!» Mickey sparì subito. Eddie riprese a respirare. Il Clipper perdeva quota rapidamente. Baker voleva essere vicino all'acqua il più possibile, nell'eventualità che il carburante finisse prima del previsto.
Virarono verso ovest per non sorvolare l'isola; se fossero rimasti in secco sopra la terraferma, sarebbe stata la fine. Dopo qualche istante furono sopra il canale. C'erano onde lunghe, alte circa un metro e venti, calcolò Eddie. L'altezza critica dell'onda era novanta centimetri: al di sopra di quella, ammarare con il Clipper era pericoloso. Eddie strinse i denti. Baker era un bravo pilota, ma sarebbe stato un rischio. L'aereo continuò a scendere. Eddie sentì lo scafo toccare la sommità di un'onda. Proseguirono il volo ancora per qualche attimo, poi toccarono di nuovo. La seconda volta l'impatto fu più forte: Eddie sentì un tuffo allo stomaco quando l'enorme apparecchio balzò di nuovo in aria. Aveva paura: era così che si schiantavano gli idrovolanti. Benché il Clipper fosse in volo, l'impatto aveva ridotto la velocità e la spinta ascendente era minore; anziché scivolare nell'acqua a un angolo attenuato, sarebbe sceso con violenza. La differenza che c'è fra un tuffo ben fatto e una spanciata dolorosa; ma il ventre dell'aereo era di alluminio sottile e poteva spaccarsi come un sacchetto di carta. Eddie rimase immobile in attesa dell'urto. L'aereo batté sull'acqua con un "bang" terrificante che si ripercosse nella sua spina dorsale. Le onde aprirono i finestrini. Essendo seduto di traverso, Eddie fu scagliato verso sinistra ma riuscì a restare sul sedile. Il marconista, che era rivolto in avanti, batté la testa contro il microfono. Eddie temette che l'aereo stesse per schiantarsi. Se avesse immerso un'ala nel mare, sarebbe stata la fine. Passò un secondo, poi un altro. Dal vano della scala salivano le grida di terrore dei passeggeri. L'aereo si risollevò, si staccò in parte dall'acqua, avanzò per un tratto, poi ricadde; Eddie fu scagliato di nuovo da un lato. Ma il Clipper rimase in assetto orizzontale; Eddie cominciò a sperare che ce l'avrebbero fatta. I finestrini divennero nuovamente trasparenti, e vide il mare. I motori rombavano ancora; non erano stati sommersi. L'aereo rallentò gradualmente. Di secondo in secondo Eddie si sentiva più sicuro e alla fine il Clipper si fermò, sollevandosi e abbassandosi sulle onde. Attraverso la cuffia, Eddie sentì la voce del comandante: «Gesù, è stato peggio di quel che mi aspettavo». Gli uomini dell'equipaggio risero per il sollievo. Eddie si alzò e guardò da tutti i finestrini, in cerca di una barca. Brillava il sole, ma c'erano nubi gonfie di pioggia. La visibilità era piuttosto buona ma non riusciva a scorgere altre imbarcazioni. Forse la lancia si trovava dietro al Clipper, dove non poteva vederla.
Tornò a sedersi e spense i motori. Il marconista trasmise un SOS. Il comandante disse: «È meglio che vada a tranquillizzare i passeggeri» e scese la scala. Il marconista ricevette una risposta; Eddie si augurò che fosse di quelli che venivano a prendere Gordino. Non riusciva a star fermo in attesa. Andò a prua, aprì la botola e scese la scaletta del compartimento anteriore. Il portello si apriva verso il basso e formava una piattaforma. Eddie vi salì. Era costretto ad aggrapparsi all'intelaiatura del portello per non perdere l'equilibrio a causa delle onde che coprivano i galleggianti. Alcune erano abbastanza alte da spruzzargli i piedi. Il sole spariva ogni tanto dietro le nubi e c'era una brezza tesa. Studiò con attenzione lo scafo e le ali, e non vide nessun danno. Il grande idrovolante sembrava illeso. Calò l'ancora, quindi indugiò a scrutare il mare tutto intorno, in cerca di un'imbarcazione. Dov'erano i soci di Luther? E se fosse successo qualcosa, se non fossero comparsi? Finalmente scorse una lancia in lontananza. Gli parve che il suo cuore si fermasse. Era quella? E Carol-Ann era a bordo? Adesso aveva paura che si trattasse di un'altra imbarcazione, forse qualcuno che veniva per curiosità a vedere l'aereo ammarato. Avrebbe interferito con il piano. La lancia si avvicinava veloce balzando sulle onde. Eddie avrebbe dovuto tornare al suo posto sul ponte di comando dopo aver gettato l'ancora e controllato i danni, ma non riusciva a muoversi. Fissava ipnotizzato la lancia che ingrandiva. Era grossa e veloce, con la timoneria coperta. Sapeva che filava a venticinque o trenta nodi, ma sembrava muoversi con penosa lentezza. Distinse un gruppo di figure sul ponte. Riuscì a contarle: erano quattro. E notò che una era molto più piccola delle altre. Sembravano tre uomini vestiti di scuro e una donna con un cappotto blu. Carol-Ann aveva un cappotto blu. Pensava che fosse lei ma non ne era sicuro. La donna aveva i capelli biondi e la figura snella, proprio come lei. Stava in disparte dagli altri. Tutti e quattro erano accanto al parapetto e guardavano il Clipper. Poi il sole uscì da dietro una nube e la donna si portò una mano al viso per ripararsi gli occhi. Qualcosa, nel suo gesto, toccò il cuore di Eddie. Era sua moglie. «Carol-Ann» disse a voce alta. L'emozione lo travolse. Per un momento dimenticò i pericoli che ancora li attendevano e si abbandonò alla gioia di rivederla. Alzò le braccia, le agitò. «Carol-Ann!» gridò. «Carol-Ann!» Lei non poteva sentirlo, naturalmente. Ma lo vide. Trasalì per lo stupore,
esitò come se non fosse sicura, poi ricambiò il gesto di saluto, dapprima timidamente, poi con vigore. Se poteva sbracciarsi con tanta energia allora stava bene, pensò Eddie, e si sentì mancare per il sollievo e la gratitudine. Poi ricordò che non era ancora finita. C'era molto da fare. Agitò di nuovo il braccio e rientrò, anche se a malincuore. Uscì sul ponte di comando nel momento in cui il comandante risaliva dal ponte passeggeri. «Nessun danno?» «No, a quanto ho potuto vedere.» Il comandante si rivolse al marconista, e quello riferì. «Hanno risposto diverse navi, ma il mezzo più vicino è un'imbarcazione da diporto che si stava avvicinando da sinistra. Probabilmente può vederla.» Il comandante guardò dal finestrino e vide la lancia. Scosse la testa. «Non può aiutarci. Dobbiamo farci rimorchiare. Cerca di contattare la Guardia Costiera.» «Quelli della lancia vogliono salire a bordo» disse il marconista. «Niente da fare» rispose Baker. Eddie lo fissò sgomento. Dovevano salire a bordo! «È troppo pericoloso» continuò il comandante. «Non voglio un'imbarcazione legata all'aereo. Potrebbe danneggiare lo scafo. E se cerchiamo di trasportare la gente con questo moto ondoso, qualcuno cadrà in acqua. Digli che li ringraziamo, ma non possono aiutarci.» Eddie non l'aveva previsto. Assunse un'espressione disinvolta per mascherare l'ansia. Al diavolo i danni all'aereo: la banda di Luther doveva salire a bordo! Ma avrebbero avuto difficoltà senza collaborazione dall'interno. E anche con la collaborazione, sarebbe stato un incubo tentare di salire passando per i portelli normali. Le onde spazzavano i galleggianti e arrivavano a metà dei portelli: nessuno poteva tenersi in equilibrio su un galleggiante senza aggrapparsi a una cima, e con il portello aperto l'acqua sarebbe penetrata fin nella sala da pranzo. Eddie non ci aveva pensato perché di solito il Clipper ammarava in acque più calme. E allora, come potevano venire a bordo? Dovevano passare dalla botola del compartimento di prua. Il marconista annunciò: «Li ho avvertiti che non possono salire, comandante, ma sembra che non abbiano capito». Eddie guardò fuori. La lancia girava in cerchio intorno all'aereo. «Non badargli» disse il comandante. Eddie si alzò e si avviò verso prua. Quando mise il piede sulla scaletta
che scendeva nel compartimento di prua, Baker scattò: «Dove vai?». «Devo controllare l'ancora» spiegò vagamente Eddie, e continuò a scendere senza aspettare una risposta. Udì Baker dire: «Quello è finito». Lo sapevo già, pensò con una stretta al cuore. Uscì sulla piattaforma. La lancia era a dieci, dodici metri dal muso del Clipper, e Carol-Ann era in piedi accanto al parapetto. Indossava un vecchio abito e scarpe senza tacco, del tipo che metteva per sbrigare i lavori di casa. Quando l'avevano portata via, si era infilata il cappotto più bello. Adesso Eddie poteva vedere il suo viso. Era pallida e sfinita. Si sentì ribollire di rabbia. Me la pagheranno, pensò. Sollevò l'arganello pieghevole, poi fece un cenno alla lancia. Indicò l'argano e mimò l'atto di lanciare una cima. Dovette ripetere il gesto più volte prima che gli uomini capissero. Non dovevano essere marinai esperti. Anzi, sembravano fuori posto su una lancia con quelle giacche doppiopetto, mentre trattenevano con le mani i cappelli perché il vento non li portasse via. Quello che stava nella timoneria, e probabilmente era lo skipper, era occupato con i comandi e cercava di mantenere costante la posizione della lancia rispetto all'aereo. Finalmente uno degli uomini fece un segno d'intesa e raccolse una cima. Non sapeva neppure lanciarla. Dovette fare quattro tentativi perché Eddie riuscisse ad afferrarla al volo. La fissò all'argano. Gli uomini sulla lancia si accostarono al Clipper, dato che era molto più leggera, l'imbarcazione si sollevava e si abbassava di più sulle onde. Legarla all'aereo sarebbe stato difficile e pericoloso. All'improvviso udì dietro di sé la voce di Mickey Finn: «Eddie, ma cosa diavolo fai?». Si voltò. Mickey era nel compartimento di prua e lo guardava con un'espressione preoccupata sul viso leale e lentigginoso. Eddie gli gridò: «Non immischiarti, Mickey! Ti avverto, se ti intrometti qualcuno ci andrà di mezzo!». Mickey si spaventò. «Va bene, va bene, come vuoi.» E tornò indietro, verso il ponte di comando. Doveva essersi convinto che Eddie fosse ammattito. Eddie si girò verso la lancia che ormai era molto vicina. Guardò i tre uomini. Uno era giovanissimo; non doveva avere più di diciotto anni. Un altro era più anziano, ma basso e magro, con una sigaretta che penzolava dall'angolo della bocca. Il terzo, in abito nero gessato, sembrava il capo.
Avevano bisogno di due cime, pensò Eddie, per tener salda la lancia. Si portò la mani alla bocca come portavoce e gridò: «Lanciate un'altra cima!». L'uomo in abito gessato raccolse una cima a prua, vicino a quella che stavano già usando. Così non andava: ce ne voleva una a ogni estremità dell'imbarcazione per formare un triangolo. «No, quella no» gridò Eddie. «Buttane una da poppa.» L'uomo capì. Questa volta Eddie afferrò subito al volo la cima. La portò all'interno dell'aereo e la legò a una travatura. La lancia si avvicinò rapidamente, con due uomini che tiravano le due cime. Poi i motori si spensero, un uomo in tuta uscì dalla timoneria e cominciò a maneggiare le cime con i movimenti esperti del marinaio. Eddie udì un'altra voce dietro di sé. Proveniva dal compartimento di prua. Era il comandante Baker. «Deakin, hai disubbidito a un mio ordine!» Lo ignorò e pregò il cielo che non si immischiasse ancora per qualche istante. La lancia era ormai vicina. Lo skipper avvolse le cime intorno a due puntali, lasciandole allentate quanto bastava perché l'imbarcazione potesse alzarsi e abbassarsi con le onde. Per salire a bordo del Clipper, gli uomini dovevano attendere che l'onda portasse il ponte della lancia allo stesso livello della piattaforma, e poi balzare dall'uno all'altra. Per non perdere l'equilibrio dovevano aggrapparsi alla cima che andava dalla poppa della lancia all'interno dell'aereo. Baker urlò: «Deakin! Torna qui!». Il marinaio aprì un cancelletto nel parapetto e il gangster in abito gessato si tenne pronto a spiccare il salto. Eddie sentì la mano del comandante Baker afferrargli la spalla. Il gangster se ne accorse e infilò la mano nella giacca. L'incubo peggiore di Eddie era che qualcuno dei suoi compagni decidesse di comportarsi da eroe e si facesse ammazzare. Avrebbe voluto parlare della nave guardacoste della Marina mandata da Steve Appleby... Ma aveva paura che qualcuno di loro se lo lasciasse sfuggire mettendo in allarme i gangster. Doveva tentare di tenere sotto controllo la situazione. Si voltò verso Baker e urlò: «Comandante, si tolga di mezzo! Quei delinquenti sono armati!». Baker trasalì. Guardò il gangster e si tirò indietro. Eddie si voltò e vide l'uomo in abito gessato rimettere la pistola nella tasca della giacca. Gesù, spero di riuscire a evitare che sparino a qualcuno, pensò impaurito. Se ci
scapperà il morto, la colpa sarà mia. La lancia era sulla cresta di un'onda, con il ponte un po' più in alto del livello della piattaforma. Il gangster afferrò la cima, esitò, poi si decise a saltare. Eddie lo sostenne. «Tu sei Eddie?» chiese l'uomo. Riconobbe la voce: l'aveva sentita al telefono. Ricordava il nome di quell'uomo: Vincini. L'aveva insultato e adesso era pentito perché aveva bisogno della sua collaborazione. «Voglio darti una mano, Vincini» propose. «Se vuoi che tutto vada liscio, senza intoppi, lascia che ti aiuti.» Vincini lo fissò duramente. «Okay» disse dopo un momento. «Ma se fai una mossa falsa, sei morto.» Aveva un tono energico, sbrigativo. Non sembrava risentito; senza dubbio aveva ben altro per la testa che pensare alle offese passate. «Entra e aspetta mentre faccio passare gli altri.» «Okay.» Vincini si girò verso la lancia. «Joe... adesso tu. Poi Kid. La ragazza per ultima.» Entrò nel compartimento di prua. Eddie guardò all'interno e vide il comandante Baker salire la scaletta del ponte di comando. Vincini estrasse la pistola e ordinò: «Tu resta lì». Eddie aggiunse: «Faccia come le dice, comandante, per amor di Dio. Questi non scherzano». Baker scese dalla scaletta e alzò le mani. Eddie si voltò. L'ometto che si chiamava Joe era accanto al parapetto e sembrava spaventato a morte. «Non so nuotare!» disse con voce stridula. «Non ce n'è bisogno.» Eddie gli tese una mano. Joe saltò, gli afferrò la mano, e quasi cadde nel compartimento di prua. L'ultimo fu il giovane. Aveva visto gli altri trasbordare senza difficoltà e si sentiva troppo sicuro. «Nemmeno io so nuotare» disse sogghignando. Balzò troppo presto, atterrò sull'orlo della piattaforma, perse l'equilibrio e s'inclinò all'indietro. Eddie si sporse, reggendosi alla cima con la mano sinistra, lo afferrò per la cintura dei pantaloni e lo tirò sulla piattaforma. «Ehi, grazie!» disse quello come se Eddie gli avesse solo dato una mano e non salvato la vita. Carol-Ann era sul ponte della lancia e guardava la piattaforma con un'espressione di paura. Di solito non era pavida, ma il pericolo corso dal ragazzo l'aveva sgomentata. Eddie le sorrise e disse: «Fai come loro, tesoro. Ci riuscirai». Carol-Ann annuì e si aggrappò alla cima. Eddie attese col cuore in gola. L'onda portò la lancia allo stesso livello
della piattaforma. Carol-Ann esitò, si lasciò sfuggire il momento opportuno e apparve ancora più impaurita. «Fai pure con calma» la tranquillizzò Eddie, usando volutamente un tono molto pacato. «Salta solamente quando sei pronta.» La lancia si abbassò e si risollevò sull'acqua. Ora Carol-Ann appariva risoluta: le labbra strette e la fronte aggrottata. La lancia si allontanò di circa mezzo metro dalla piattaforma, allargando un po' troppo il varco. Eddie gridò: «Non adesso...». Ma era troppo tardi. Carol-Ann era così decisa a comportarsi con coraggio che aveva già spiccato il salto. Non arrivò alla piattaforma. Gettò un urlo di terrore e restò appesa alla cima, con i piedi che battevano l'aria. Eddie non poteva far nulla mentre la lancia scivolava sulla curva dell'onda e Carol-Ann ricadeva lontano. «Tieniti forte!» le gridò disperatamente. «Risalirai!» E si preparò a tuffarsi in mare per salvarla se avesse lasciato la presa. Ma Carol-Ann si aggrappò con tutte le sue forze alla cima mentre l'onda la faceva scendere e poi la riportava in alto. Quando arrivò all'altezza giusta, allungò una gamba verso la piattaforma, ma inutilmente. Eddie piegò un ginocchio e cercò di afferrarla. Si sbilanciò e per poco non cadde in acqua, ma non riuscì a toccarle la gamba. L'onda la riportò in basso e CarolAnn proruppe in un grido disperato. «Devi oscillare!» gridò Eddie. «Oscilla avanti e indietro quando risali!» Carol-Ann lo udì. La vide stringere i denti per il dolore alle braccia e oscillare indietro e in avanti mentre l'onda sollevava la lancia. Eddie si inginocchiò, si sporse. Quando arrivò alla sua altezza, Carol-Ann oscillò con tutte le sue forze. Eddie le afferrò una caviglia nuda. La tirò più vicina e le strinse anche l'altra caviglia, ma i piedi di Carol-Ann non arrivavano ancora alla piattaforma. La lancia superò la cresta dell'onda e cominciò a riabbassarsi. Carol-Ann urlò nell'attimo in cui si sentì ricadere. Eddie continuò a tenerla per le caviglie. Poi lei lasciò la cima. Eddie la tenne stretta con tutte le sue forze. Nel momento in cui CarolAnn cadde, si sentì trascinare in avanti dal peso e per poco non precipitò in mare. Ma riuscì a buttarsi sul ventre e a restare sulla piattaforma. CarolAnn rimase a penzolare a testa in giù. In quella posizione era nell'impossibilità di sollevarla, ma il mare lo aiutò. Un'ondata sommerse il busto di Carol-Ann sollevandola verso di lui. Allora lasciò andare una caviglia per avere libera la destra, e le passò il braccio intorno alla vita. Era fatta. Riposò per un attimo e disse: «Tutto a posto, piccola, ti ho pre-
sa» mentre lei, semisoffocata, sputava l'acqua. Poi la issò sulla piattaforma. Mentre lei si girava e si rialzava, le tenne la mano e l'aiutò a entrare. Carol-Ann gli si buttò sighiozzando fra le braccia e lui si strinse al petto la testa grondante. Era sul punto di piangere, ma si dominò. I tre gangster e il comandante Baker lo guardavano con aria d'attesa ma li ignorò ancora per qualche istante. Tenne stretta Carol-Ann che era scossa da un tremito violento. Finalmente le chiese: «Tutto bene, tesoro? Quei delinquenti ti hanno fatto del male?». Lei scrollò la testa. «Tutto bene, credo» rispose continuando a battere i denti. Eddie alzò gli occhi e incontrò lo sguardo del comandante Baker. Il comandante fissò lui, poi Carol-Ann, e di nuovo lui. Finalmente mormorò: «Cristo, comincio a capire questa...». Vincini ordinò: «Basta con le chiacchiere, mettiamoci al lavoro!». Eddie lasciò Carol-Ann. «Okay. Credo che per prima cosa dobbiamo pensare ai membri dell'equipaggio, calmarli e toglierli di torno. Poi vi condurrò dall'uomo che cercate. D'accordo?» «Sì, ma sbrighiamoci.» «Seguitemi.» Eddie raggiunse la scaletta e salì. Uscì per primo sul ponte di comando e cominciò subito a parlare. «State a sentire, ragazzi, non cercate di fare gli eroi, non è proprio necessario. Spero che capirete.» Non poteva rischiare più di quell'allusione. Un attimo dopo Carol-Ann, il comandante Baker e i tre gangster uscirono dalla botola. Eddie continuò: «State tutti calmi e fate quello che vi sarà detto. Non voglio che si spari, non voglio che qualcuno ci vada di mezzo. Il comandante vi dirà la stessa cosa». E guardò Baker. «Proprio così» confermò Baker. «Non date a questa gente un pretesto per adoperare le pistole.» Eddie si rivolse a Vincini. «Bene, andiamo. Comandante, per favore, venga con noi per tranquillizzare i passeggeri. Poi Joe e Kid condurranno l'equipaggio nel primo scompartimento.» Vincini annuì. «Carol-Ann, tu vai con l'equipaggio, vero, tesoro?» «Sì.» Eddie respirò di sollievo. Sarebbe stata lontana dalle armi e avrebbe spiegato ai suoi colleghi il motivo per cui lui collaborava con i gangster. Guardò Vincini. «Vuoi mettere via quella pistola? Spaventerai i passeg-
geri.» «Vai a farti fottere» ribatté Vincini. «Sbrighiamoci.» Eddie alzò le spalle. Se non altro ci aveva provato. Scese per primo la scala che portava al ponte passeggeri. C'era un intenso brusio di voci e di risate nervose, e una donna singhiozzava. I passeggeri erano tutti ai loro posti e i due steward facevano sforzi eroici per mostrarsi calmi e naturali. Eddie si avviò attraverso l'aereo. La sala da pranzo era un caos; sul pavimento c'erano piatti e bicchieri rotti, ma per fortuna non c'era molto cibo sparso perché il pranzo era quasi terminato e al momento dell'ammaraggio stavano servendo il caffè. Tutti ammutolirono nel vedere la pistola di Vincini. Il comandante Baker, che stava dietro di lui, spiegò: «Chiedo scusa, signore e signori, ma vi prego di restare seduti e di non perdere la calma. Finirà tutto in fretta». Aveva un tono così rassicurante che persino Eddie si sentì meglio. Attraversò il terzo scompartimento ed entrò nel quarto. Ollis Field e Frankie Gordino erano seduti fianco a fianco. Ecco, pensò Eddie: sto per liberare un assassino. Scacciò quel pensiero, indicò Gordino e disse a Vincini: «Ecco il tuo uomo». Ollis Field si alzò. «Questo è l'agente dell'FBI Tommy McArdle» dichiarò. «Frankie Gordino ha attraversato l'Atlantico a bordo di una nave che è arrivata ieri a New York, e ora si trova in un carcere di Providence, Rhode Island.» «Cristo!» esplose Eddie, esterrefatto. «Un'esca! Ho passato tutto quello che ho passato per una stramaledetta esca!» Allora non avrebbe liberato un assassino; ma non poteva esserne contento perché aveva troppa paura della reazione dei gangster. Guardò Vincini con occhi spaventati. Vincini sbottò: «Diavolo, noi non vogliamo Frankie. Dov'è il crucco?». Eddie lo fissò, ancora più frastornato. Non cercavano Gordino? Cosa significava? Chi era il crucco? Dal terzo scompartimento giunse la voce di Tom Luther. «È qui, Vincini. Ce l'ho io.» Luther era in piedi sulla soglia e puntava una pistola alla testa di Carl Hartmann. Eddie non capiva più nulla. Perché diavolo la banda di Patriarca intendeva sequestrare Carl Hartmann? «Cosa volete da lui?» chiese. Luther rispose: «Non è uno scienziato come gli altri. È un fisico nucleare». «Siete nazisti?» «Oh, no» rispose Vincini. «Facciamo solo un lavoretto per loro. Per la
precisione, siamo democratici.» E rise fragorosanente. Luther ribatté in tono freddo: «Io non sono democratico. Sono fiero di far parte della Deutsch-Amerikaner Bund». Eddie ne aveva sentito parlare: ufficialmente era un'innocua associazione per l'amicizia tedescoamericana, ma era finanziata dai nazisti. Luther continuò: «Questi uomini lavorano per me, ecco tutto. Ho ricevuto un messaggio personale del Führer che chiedeva la mia collaborazione per catturare uno scienziato fuggiasco e riportarlo in Germania». Era orgoglioso di tanto onore, pensò Eddie: era l'avvenimento più grandioso che potesse capitargli. «Ho pagato queste persone perché mi aiutassero. Ora riporterò Herr Doktor Professor Hartmann in Germania, dove la sua presenza è richiesta dal Terzo Reich.» Eddie guardò Hartmann negli occhi. Lo scienziato era fuori di sé per la paura. Eddie si sentì sopraffare dal rimorso. Hartmann sarebbe stato ricondotto nella Germania nazista, e la colpa era sua. «Avevano preso mia moglie...» gli spiegò. «Cosa potevo fare?» L'espressione di Hartmann cambiò immediatamente. «Capisco» disse. «In Germania ci siamo abituati. Ti costringono a tradire una lealtà per un'altra. Non aveva scelta. Non ha niente da rimproverarsi.» Eddie era sbalordito: quell'uomo trovava la forza di consolare lui in un momento simile. Si girò verso Ollis Field. «Ma perché ha portato un'esca a bordo del Clipper?» chiese. «Voleva che la banda di Patriarca sequestrasse l'aereo?» «No» rispose Field. «Siamo stati informati che volevano uccidere Gordino per impedirgli di parlare. Intendevano eliminarlo all'arrivo in America. Perciò abbiamo diffuso la notizia che era a bordo del Clipper, ma in realtà l'abbiamo mandato avanti con una nave. A quest'ora, la radio avrà dato la notizia che Gordino è in carcere e la banda capirà di avere perso la partita.» «Perché non proteggevate Carl Hartmann?» «Non sapevamo che era su questo volo... nessuno ci aveva avvertiti!» Hartmann completamente privo di protezione? si chiese Eddie. Oppure aveva una guardia del corpo che non si era ancora rivelata? Il gangster piccoletto che si chiamava Joe entrò nello scompartimento con la pistola nella destra e una bottiglia di champagne stappata nella sinistra. «Stanno buoni come agnellini, Vinnie» disse a Vincini. «Kid è in sala da pranzo, e da lì tiene d'occhio la parte anteriore dell'aereo.» Vincini chiese a Luther: «E dov'è il fottuto sommergibile?». «Arriverà da un momento all'altro, ne sono sicuro» disse Luther.
Un sommergibile! Luther aveva un appuntamento con un U-boot proprio lì, al largo della costa del Maine! Eddie guardò dai finestrini. Si aspettava di vederlo emergere dall'acqua come una balena d'acciaio, ma non vide altro che le onde. Vincini intervenne: «Be', la nostra parte l'abbiamo fatta; adesso dammi i soldi». Continuando a tenere Hartmann sotto tiro, Luther indietreggiò fino al suo sedile, prese una valigetta e la consegnò a Vincini. Vincini l'aprì. Era piena di mazzette di banconote. «Centomila dollari, tutti in biglietti da venti» disse Luther. «È meglio controllare.» Vincini ripose la pistola e si sedette con la valigia sulle ginocchia. «Ci metterai un'eternità...» obiettò Luther. «Mi hai preso per un pivello?» replicò l'altro con tono esageratamente paziente. «Controllo due mazzette, e poi conto quante mazzette sono. L'ho già fatto altre volte.» Tutti rimasero a guardare mentre Vincini contava il denaro. I passeggeri dello scompartimento: la principessa Lavinia, Lulu Bell, Mark Alder, Diana Lovesey, Ollis Field e il falso Frankie Gordino assistevano in silenzio. Joe riconobbe Lulu Bell: «Ehi, ma tu non fai il cinema?» chiese. Lulu distolse gli occhi e non rispose. Joe si attaccò alla bottiglia, poi la porse a Diana Lovesey, che impallidì e si ritrasse. «Sono d'accordo, questa roba è sopravvalutata» convenne il gangster, poi tese il braccio e versò lo champagne sull'abito a pois rossi. Diana gettò un grido e respinse la mano. La stoffa bagnata aderiva al seno mettendolo in evidenza. Eddie inorridì. Era una di quelle cose che potevano far esplodere la violenza. «Ehi, piantala» ingiunse. Joe non gli badò. «Belle tette» disse con un ghigno. Lasciò cadere la bottiglia e strinse forte un seno di Diana. Diana urlò. Mark, il suo amico, stava cercando di sganciarsi la cintura di sicurezza. «Non toccarla, sporco delin...» Con un movimento sorprendentemente veloce, Joe lo colpì alla bocca con la pistola e il sangue sprizzò dalle labbra di Mark. «Vincini!» girdò Eddie. «Cristo, fallo smettere!» Vincini replicò: «Una ragazza come quella, diavolo, se non si è ancora fatta palpare le tette alla sua età è ora che cominci».
Joe infilò la mano nella scollatura dell'abito di Diana. Lei si dibatté per sfuggirgli, ma era bloccata dalla cintura di sicurezza. Mark aveva sganciato la sua cintura, ma nel momento in cui si alzava Joe lo colpì di nuovo, questa volta all'angolo dell'occhio. Con il pugno sinistro lo centrò allo stomaco, poi lo colpì alla faccia con la pistola per la terza volta. Il sangue colò negli occhi di Mark e lo accecò. Le donne urlarono. Eddie era inorridito. Aveva deciso di evitare ogni spargimento di sangue, e Joe stava per colpire ancora Mark. Eddie non resistette più. Decise di rischiare e lo afferrò da dietro, bloccandogli le braccia. Joe si dibatté e cercò di puntargli contro la pistola, ma Eddie riuscì a impedirglielo. Joe premette il grilletto. Lo sparo fu assordante in quello spazio limitato, ma la canna era puntata verso il basso e il proiettile penetrò nel pavimento. Il primo colpo era stato sparato. Eddie ebbe la sensazione agghiacciante che la situazione gli sfuggisse dalle mani. Se la cosa si fosse ripetuta, ci sarebbe stato un bagno di sangue. Finalmente Vincini intervenne: «Piantala, Joe» urlò. Joe si fermò di colpo. Eddie lo lasciò. Joe gli lanciò un'occhiata piena di astio, ma non disse niente. Vincini annunciò: «Adesso possiamo filarcela. I soldi ci sono tutti». Eddie intravide un raggio di speranza. Se se ne andavano subito, la violenza sarebbe stata limitata. Andate, pensò. Per amor di Dio, andate! Vincini continuò: «Porta via la troietta se vuoi, Joe. Magari la sbatterò anch'io... mi piace più della moglie del motorista, quella è troppo magra». E si alzò. Diana urlò: «No! No!». Joe le sganciò la cintura di sicurezza e la afferrò per i capelli. Diana lottò. Mark si alzò, cercando di pulirsi gli occhi dal sangue. Eddie lo afferrò, lo trattenne. «Non si faccia ammazzare!» supplicò. Poi abbassò la voce e mormorò: «Finirà tutto bene, glielo assicuro». Avrebbe voluto dirgli che la lancia dei gangster sarebbe stata fermata da una nave guardacoste della Marina americana prima che avessero il tempo di fare qualcosa a Diana, ma temeva che Vincini lo udisse. Joe puntò la pistola contro Mark e ordinò a Diana: «Tu vieni con noi o il tuo amichetto si becca un colpo fra gli occhi». Diana restò immobile e cominciò a singhiozzare.
Luther intervenne: «Vengo con voi, Vincini. Il mio sommergibile non ce l'ha fatta». «Lo sapevo» commentò Vincini. «Non possono avvicinarsi tanto agli Stati Uniti.» Vincini non capiva niente di sommergibili. Eddie immaginava la vera ragione del mancato arrivo dell'U-Boot. Il comandante doveva aver visto la nave guardacoste inviata da Steve Appleby pattugliare il canale e probabilmente era nelle vicinanze e ascoltava il traffico radio del guardacoste nella speranza che andasse a pattugliare un altro tratto di mare. La decisione di Luther di fuggire con i gangster anziché aspettare il sommergibile risollevò il morale di Eddie. La lancia dei gangster sarebbe finita nella trappola di Steve, e se Luther e Hartmann erano a bordo, lo scienziato si sarebbe salvato. Tutta quella faccenda poteva anche concludersi con qualche punto sulla faccia di Mark Alder: Eddie avrebbe avuto di che esserne felice. «Andiamo» ordinò Vincini. «Prima Luther, poi il crucco, poi Kid, poi io, poi il motorista... ti voglio vicino finché non avrò lasciato questo cassone volante. Poi Joe con la bionda. Muoversi!» Mark Alder cominciò a dibattersi per liberarsi da Eddie. Vincini disse a Ollis Field e all'altro agente: «Volete tenerlo fermo o volete che Joe gli spari?». I due afferrarono Mark e lo bloccarono. Eddie uscì dietro Vincini. I passeggeri li guardarono con gli occhi sgranati mentre attaversavano il terzo scompartimento ed entravano nella sala da pranzo. Quando Vincini entrò nel secondo scompartimento, Clive Membury estrasse una pistola e intimò: «Fermo!». Puntava l'arma su di lui. «Fermi tutti o ammazzo il vostro capo!» Eddie indietreggiò di un passo per togliersi di mezzo. Vincini impallidì e disse: «D'accordo, ragazzi, che nessuno si muova». Quello chiamato Kid si voltò fulmineo e sparò due volte. Membury cadde. Vincini urlò infuriato al ragazzo: «Stronzo, poteva uccidermi!». «Non hai sentito la sua voce?» ribatté Kid. «È inglese.» «E allora?» urlò Vincini. «Io ho visto tutti i film che hanno fatto, e nessuno muore mai ammazzato da un inglese.» Eddie s'inginocchiò accanto a Membury. I proiettili erano penetrati nel petto. Il sangue aveva lo stesso colore del panciotto. «Chi è lei?» gli chie-
se. «Scotland Yard, Servizi Speciali» mormorò Membury. «Avevo il compito di difendere Hartmann.» Dunque lo scienziato non era del tutto privo di protezione, pensò Eddie. «Ho fallito» sussurrò Membury con voce rauca. Chiuse gli occhi e smise di respirare. Eddie imprecò. Aveva giurato a se stesso di fare in modo che i gangster lasciassero l'aereo senza che nessuno perdesse la vita, e c'era quasi riuscito! Ma adesso quel poliziotto coraggioso ci aveva lasciato la pelle. «Una morte inutile» disse a voce alta. Udì Vincini dire: «Come mai sei tanto sicuro che nessuno ha bisogno di fare l'eroe?». Alzò gli occhi. Vincini lo fissava con aria sospettosa e ostile. Cristo, gli piacerebbe uccidermi, pensò. Vincini continuò: «Sai forse qualcosa che noi non sappiamo?». Eddie non rispose. Ma in quel momento il marinaio della lancia scese precipitosamente la scala ed entrò nello scompartimento. «Ehi, Vinnie, ho appena sentito Willard...» «Gli avevo detto di adoperare la radio solo in caso di emergenza!» «È un'emergenza... c'è una nave della Marina che va avanti e indietro fra noi e la riva, come se cercasse qualcuno.» Il cuore di Eddie si fermò. Non aveva previsto quella possibilità. La banda aveva una sentinella a riva con una radio a onde corte per comunicare con la lancia. Adesso Vincini sapeva della trappola. Era tutto finito, Eddie aveva perso. «Mi hai imbrogliato» sibilò Vincini. «Io ti ammazzo, bastardo!» Eddie incontrò lo sguardo del comandante Baker e lesse sul suo viso comprensione, sorpresa e rispetto. Vincini puntò la pistola contro Eddie. Ho fatto del mio meglio, pensò lui, e tutti lo sanno. Non mi importa di morire. A questo punto intervenne Luther: «Vincini, ascolta! Non senti niente?». Tacquero tutti. Eddie udì il rumore di un altro aereo. Luther guardò dal finestrino. «È un idrovolante e sta per ammarare proprio qui.» Vincini abbassò la pistola. Eddie si sentì piegare le ginocchia. Vincini guardò fuori; Eddie seguì il suo sguardo. Vide il Grumman Goose che era attraccato a Shediac. In quel momento l'idrovolante ammarò sul lato lungo di un'onda e si fermò. Vincini sbottò: «E allora? Se ci danno fastidio, ammazzeremo quei ba-
stardi». «Ma non capisci?» esclamò Luther. «È la nostra salvezza! Possiamo sorvolare la stramaledetta nave e fuggire!» Vincini annuì. «Buona idea. Faremo proprio così.» Eddie comprese che sarebbero riusciti a fuggire. Era salvo, ma aveva fallito. 28 Nancy Lenehan aveva trovato la soluzione del suo problema mentre sorvolava la costa canadese a bordo dell'idrovolante preso a nolo. Voleva sconfiggere il fratello, ma voleva anche trovare il modo di allontanarsi dal percorso obbligato che suo padre aveva tracciato per lei. Voleva stare con Mervyn, ma temeva, lasciando la Black's Boot per andare in Inghilterra, di diventare una casalinga frustrata come Diana. Nat Ridgeway si era detto disposto a fare un'offerta più alta per la società e a darle un posto nella General Textiles. Aveva riflettuto, e si era ricordata che la General Textiles possedeva diverse fabbriche in Europa, quasi tutte in Inghilterra; e Ridgeway non avrebbe potuto visitarle fino al termine della guerra... forse tra qualche anno. Gli avrebbe chiesto di nominarla direttore della General Textiles per l'Europa. Così poteva vivere con Mervyn e continuare a occuparsi del suo lavoro. Era la soluzione ideale. L'unico inconveniente era la guerra in Europa, e il rischio di morire. Stava riflettendo su quella possibilità remota ma agghiacciante quando Mervyn si girò dal suo posto di copilota e indicò qualcosa dal finestrino. Nancy vide il Clipper che galleggiava sul mare. Mervyn cercò di contattarlo per radio, ma non ebbe risposta. Nancy dimenticò i suoi problemi mentre il Goose volava intorno al gigante ammarato. Cos'era successo? A bordo erano tutti sani e salvi? L'aereo sembrava indenne, ma non c'erano segni di vita. Mervyn si girò verso di lei e gridò, superando il rombo dei motori: «Dobbiamo scendere a vedere se hanno bisogno d'aiuto». Nancy annuì vigorosamente. «Aggancia la cintura e tieniti forte. Potrebbe essere un ammaraggio brusco, con quelle onde.» Nancy agganciò la cintura di sicurezza e guardò fuori. Il mare era mosso, le onde lunghe. Il pilota, Ned, fece scendere l'idrovolante parallelo alle
creste delle onde. Lo scafo toccò l'acqua sul dorso di un'ondata e l'apparecchio la cavalcò come un surfista hawaiano. Fu un ammaraggio meno brusco di quanto Nancy avesse temuto. Una lancia a motore era legata al muso del Clipper. Un uomo in tuta e berretto uscì sul ponte e li chiamò a cenni. Nancy immaginò che chiedesse al Goose di affiancarsi alla lancia. Il portello di prua del Clipper era aperto, e probabilmente sarebbero saliti a bordo passando da lì. Nancy capiva il perché: le onde spazzavano gli idrostabilizzatori, e quindi sarebbe stato difficile passare dal portello nomale. Ned fece avvicinare l'idrovolante alla lancia. Nancy si rendeva conto che era una manovra difficile in quel mare. Ma il Goose era un monoplano ad ala alta, e l'ala si trovava molto al di sopra della sovrastruttura della lancia: quindi poterono accostarsi e lo scafo dell'aereo urtò contro la fila di pneumatici fissati alla fiancata dall'imbarcazione. L'uomo sul ponte legò l'aereo alla lancia, a poppa e a prua. Mentre Ned spegneva i motori, Mervyn andò a poppa, aprì il portello e calò la passerella. «Io devo restare a bordo dell'aereo» gli disse Ned. «È meglio che vada lei a vedere cos'è successo.» «Voglio venire anch'io» affermò Nancy. L'idrovolante era legato alla lancia, perciò si sollevavano e si abbassavano insieme sulle onde e la passerella sbandava molto poco. Mervyn scese per primo e tese una mano a Nancy. Quando furono entrambi sul ponte, Mervyn chiese all'uomo in tuta: «Cos'è successo?». «Hanno avuto dei problemi col carburante e sono stati costretti ad ammarare» rispose quello. «Non sono riuscito a mettermi in contatto radio.» L'uomo alzò le spalle. «Vi conviene salire a bordo.» Il trasbordo dalla lancia al Clipper comportava un salto dal ponte alla piattaforma costituita dal portello di prua aperto. Mervyn passò per primo anche questa volta. Nancy si sfilò le scarpe e le avvolse nel soprabito, poi lo seguì. Era un po' nervosa, ma la manovra non fu difficile. Nel compartimento di prua c'era un ragazzo che non aveva mai visto. «Cos'è successo?» chiese Mervyn. «Un ammaraggio di fortuna» rispose lo sconosciuto. «Noi stavamo pescando e abbiamo visto la scena.» «Perché la radio non funziona?»
«Non lo so.» Non era molto sveglio, pensò Nancy. Anche Mervyn doveva pensarla nello stesso modo perché disse, in tono spazientito: «Sarà meglio che vada a parlare col comandante». Il ragazzo non era certo vestito per la pesca sportiva, con scarpe bicolori e cravatta gialla, pensò divertita Nancy. Seguì Mervyn su per la scaletta del ponte di comando, che era deserto. Questo spiegava come mai Mervyn non era riuscito a contattare il Clipper per radio. Ma perché erano tutti in sala da pranzo? Strano che l'intero equipaggio avesse abbandonato il ponte di comando. Nancy cominciò a sentirsi inquieta mentre scendeva la scala che portava al ponte passeggeri. Mervyn la precedette nel secondo scompartimento e si fermò di colpo. Nancy sbirciò al di sopra delle sue spalle e vide il signor Membury sul pavimento in una pozza di sangue. Si portò una mano alla bocca per reprimere un grido di orrore. «Santo cielo» esclamò Mervyn «ma cosa succede?» Dietro di loro il ragazzo con la cravatta gialla ordinò: «Muovetevi» con voce diventata imperiosa. Nancy si voltò e vide che impugnava una pistola. «È stato lei?» proruppe in tono sdegnato. «Chiudi il becco e muoviti!» Entrarono in sala da pranzo. C'erano altri tre uomini armati di pistola. Uno era grande e grosso, in abito gessato, e sembrava il capo. Un ometto con la faccia da carogna stava dietro la moglie di Mervyn e le palpava il seno con noncuranza: quando Mervyn lo vide, proruppe in un'imprecazione. Il terzo era uno dei passeggeri, Tom Luther. Teneva la pistola puntata contro il professor Hartmann. Il comandante e il motorista sembravano ridotti all'impotenza. Alcuni passeggeri erano seduti ai tavoli, ma quasi tutti i piatti e i bicchieri erano caduti sul pavimento e si erano rotti. Nancy scorse Margaret Oxenford, pallida e spaventata; e in un lampo ricordò quando le aveva detto che la gente normale non aveva motivo di temere i gangster perché quelli agiscono solo nei bassifondi. Che stupida! Stava parlando Tom Luther: «Gli dei mi assistono, Lovesey. Lei è arrivato con un idrovolante proprio quando ci serve. Potrà portare me, il signor Vincini e i nostri soci al di là della nave guardacoste che quel traditore di Eddie Deakin ha chiamato per metterci in trappola».
Mervyn lo fissò in silenzio. L'uomo in abito gessato intervenne: «Muoviamoci prima che la Marina perda la pazienza e venga a dare un'occhiata. Kid, tu prendi Lovesey. La sua amica resta qui». «Okay, Vinnie.» Nancy non era sicura di aver capito cosa stava succedendo, ma sapeva che non voleva restare sul Clipper. Se Mervyn era nei guai, preferiva essere al suo fianco. Ma nessuno le aveva chiesto il suo parere. L'uomo chiamato Vincini continuò a dare ordini. «Luther, tu prendi il crucco.» Nancy si chiese perché mai portavano via Carl Hartmann. Aveva pensato che ci fosse di mezzo Frankie Gordino, che invece sembrava scomparso. «Joe, tu porta la bionda» disse Vincini. L'ometto puntò la pistola al seno di Diana Lovesey. «Andiamo» incitò. Lei non si mosse. Nancy era inorridita. Perché sequestravano Diana? Ebbe l'atroce sospetto di conoscere la risposta. Joe premette la canna della pistola contro il morbido seno di Diana con tanta forza da strapparle un gemito. «Un momento» esclamò Mervyn. Tutti lo guardarono. «D'accordo, vi porterò via con l'idrovolante, ma a una condizione.» Vincini scattò: «Chiudi il becco e muoviti. Non puoi imporre nessuna fottuta condizione». Mervyn allargò le braccia. «E allora sparami» disse. Nancy gettò un grido di paura. Quelli erano capaci di sparare a chi li sfidava. Possibile che Mervyn non lo capisse? Ci fu un attimo di silenzio, poi Luther chiese: «Quale condizione?». Mervyn indicò Diana. «Lei resta qui.» Joe gli lanciò un'occhiata feroce. «Non abbiamo bisogno di te, stronzo» replicò Vincini. «Qui c'è un branco di piloti della Pan American... uno qualsiasi di loro può pilotare quell'aereo al posto tuo.» «E tutti metteranno la stessa condizione» affermò Mervyn. «Chiediglielo... se ne hai il tempo.» Nancy si rese conto che i gangster non sapevano che a bordo del Goose c'era un altro pilota. Comunque, non cambiava molto le cose. Luther disse a Joe: «Lasciala qui».
L'ometto diventò rosso di rabbia. «Ehi, perché...» «Lasciala qui!» gridò Luther. «Io ti ho pagato perché mi aiutassi a sequestrare Hartmann, non perché violentassi le donne!» Vincini intervenne. «Ha ragione lui, Joe. Potrai scegliere un'altra troietta più tardi.» «Okay, okay» cedette Joe. Diana si mise a piangere per il sollievo. Vincini incalzò: «Non abbiamo molto tempo. Andiamo via!». Nancy si chiese se avrebbe mai rivisto Mervyn. Dall'esterno giunse il suono di un clacson. Lo skipper della lancia cercava di attirare la loro attenzione. Kid chiamò dallo scompartimento accanto: «Merda, capo, guarda da quel fottuto finestrino!». Harry Marks perse i sensi quando il Clipper ammarò. Al primo impatto cadde a capofitto sul mucchio di valigie; poi, mentre si metteva carponi, l'aereo ripiombò in mare e lo scaraventò contro la paratia di prua. Batté la testa e perse conoscenza. Quando rinvenne si chiese cosa diavolo stava succedendo. Sapeva che non erano arrivati a Port Washington: erano passate solo due ore, e il volo ne durava cinque. Era una sosta imprevista, quindi, e sembrava che fosse stato un ammaraggio di fortuna. Si mise a sedere e si tastò per accertare i danni. Adesso capiva perché gli aerei avevano le cinture di sicurezza. Il naso sanguinava, la testa gli faceva un male d'inferno, ed era pieno di lividi dappertutto. Ma non c'era nulla di rotto. Si asciugò il naso con il fazzoletto e pensò che in fondo aveva avuto fortuna. Il bagagliaio non aveva finestrini, naturalmente, quindi non poteva scoprire cosa succedeva. Per un po' rimase immobile in ascolto. I motori erano spenti, e ci fu un lungo periodo di silenzio. Poi udì uno sparo. Le armi da fuoco le avevano i gangster; e se c'erano gangster a bordo, probabilmente erano venuti a prendere Frankie Gordino. Ma soprattutto una sparatoria comportava confusione e panico, e in circostanze del genere Harry sarebbe forse riuscito a fuggire. Doveva dare un'occhiata fuori. Socchiuse la porta. Non vide nessuno. Uscì nel corridoio e raggiunse la porta di comunicazione con il ponte di
comando. Si fermò ad ascoltare. Niente. Piano piano, senza far rumore, aprì la porta e sbirciò. Il ponte di comando era deserto. Varcò la soglia in punta di piedi e andò alla scala. Udì voci maschili che discutevano, ma non riuscì a distinguere le parole. La botola anteriore era aperta. Andò a guardare e vide il compartimento illuminato dalla luce del giorno. Si sporse e notò che era aperto anche il portello esterno. Si alzò, guardò dal finestrino e vide una lancia a motore legata al muso dell'aereo. Sul ponte c'era un uomo con stivali di gomma e berretto. Harry si rese conto che aveva a portata di mano una possibilità di fuggire. Quell'imbarcazione veloce poteva condurlo in un punto solitario della costa. Sembrava che a bordo ci fosse solo un uomo. Doveva trovare un sistema per liberarsene e impadronirsi della lancia. Udì un passo dietro di sé. Si girò di scatto. Il cuore gli martellava in gola. Era Percy Oxenford. Il ragazzo era sulla soglia, in fondo, e sembrava sconvolto. Dopo un momento Percy chiese: «Dove si era nascosto?». «Lascia perdere» rispose Harry. «Cosa succede là sotto?» «Il signor Luther è un nazista e vuole rimandare il professor Hartmann in Germania. Ha assoldato una banda di gangster per aiutarlo e ha consegnato loro una valigetta con centomila dollari!» «Cristo!» esclamò Harry, dimenticando l'accento americano. «E hanno ucciso il signor Membury. Era un agente di Scotland Yard, la guardia del corpo del professore.» Ah, ecco chiarito il mistero! «E tua sorella? Tutto bene?» «Finora sì. Ma vogliono portar via la signora Lovesey perché è così bella... spero che non mettano gli occhi addosso a Margaret...» «Dio, che disastro» mormorò Harry. «Sono riuscito a svignarmela e a salire dalla botola vicino alla toilette delle signore.» «E perché?» «Voglio prendere la pistola dell'agente Field. Ho visto quando il comandante Baker gliel'ha confiscata.» Percy aprì il cassetto del tavolo delle carte nautiche. C'era una pistola a canna corta, del tipo che un agente dell'FBI poteva portare sotto la giacca. «Lo immaginavo... Una Colt 38 Detective
Special» osservò Percy. La prese, l'aprì con gesti esperti e fece girare il tamburo. Harry scosse la testa. «Non credo che sia una buona idea. Ti farai ammazzare.» Afferrò il ragazzo per il polso, gli prese la pistola, la rimise nel cassetto e lo chiuse. All'esterno ci fu un gran rumore. Harry e Percy guardarono dai finestrini e videro un idrovolante girare in cerchio sopra il Clipper. Chi diavolo era? Dopo un momento l'aereo cominciò a scendere. Ammarò su un'onda e si avvicinò. «E adesso che altro c'è?» proruppe Harry. Si guardò intorno. Percy era sparito. Il cassetto era aperto. E la pistola non c'era più. «Accidenti» imprecò Harry. Varcò la porta in fondo, passò correndo davanti alle stive, sotto la cupoletta dell'ufficiale di rotta e attraverso un compartimento molto basso, poi guardò al di là di una seconda porta. Percy stava strisciando lungo una passerella in uno spazio molto stretto che continuava a ridursi verso la coda. Lì la struttura dell'aereo era spoglia, con le travature e i rivetti visibili e i cavi stesi sul pavimento. Era uno spazio vuoto sopra la metà posteriore del ponte passeggeri. In fondo c'era luce, e Harry vide Percy calarsi attraverso un foro quadrato. Ricordava di aver notato una scala a pioli nella paratia accanto alla toilette delle signore, sopra alla quale c'era una botola. Ormai non poteva fermare Percy. Era troppo tardi. Ricordò quello che aveva detto Margaret. Tutti gli Oxenford sapevano sparare, era una mania di famiglia. Ma il ragazzo non sapeva niente dei gangster. Se si fosse messo in mezzo, l'avrebbero ammazzato come un cane. Harry lo trovava simpatico, ma si preoccupava più per Margaret che per lui. Non voleva che vedesse il fratello ucciso dai gangster. Però cosa diavolo poteva fare? Tornò al ponte di comando e guardò fuori. L'idrovolante stava attraccando alla lancia. Forse quelli dell'idrovolante sarebbero saliti a bordo del Clipper, o forse qualcuno si sarebbe spostato dal Clipper all'aereo più piccolo. Comunque, qualcuno sarebbe passato fra poco dal ponte di comando. Harry doveva sparire per qualche istante. Passò dalla porta sul fondo, lasciandola socchiusa per sentire cosa succedeva. Poco dopo qualcuno salì la scala dal ponte passeggeri e si avviò verso il compartimento di prua. Dopo pochi minuti ritornarono due o tre persone.
Harry ascoltò i passi scendere la scala, e uscì. Erano venuti per dare aiuto oppure erano rinforzi dei gangster? Era di nuovo all'oscuro di tutto. Si avvicinò alla scala. Esitò, e decise di arrischiarsi a scendere per un tratto ad ascoltare. Raggiunse la curva della scala e sbirciò oltre l'angolo. Da lì poteva vedere la cucinetta: era vuota. Cosa avrebbe fatto se il marinaio della lancia avesse deciso di salire a bordo del Clipper? Lo sentirò arrivare, pensò, e m'infilerò nella toilette degli uomini. Continuò a scendere, adagio, un gradino alla volta, soffermandosi a ogni passo per ascoltare. Quando arrivò in fondo udì una voce. La riconobbe: era Tom Luther, e aveva un accento americano colto con una sfumatura europea. «Gli dei mi assistono, Lovesey. Lei è arrivato con un idrovolante proprio quando ci serve. Potrà portare me, il signor Vincini e i nostri soci al di là della nave guardacoste che quel traditore di Eddie Deakin ha chiamato per metterci in trappola.» Questo spiegava tutto. L'idrovolante doveva permettere a Luther di fuggire portando via Hartmann. Harry risalì furtivamente la scala. Il pensiero del povero Hartmann nelle mani dei nazisti era sconvolgente. Harry, comunque, avrebbe lasciato che succedesse. Non era un eroe. Ma il giovane Percy Oxenford poteva commettere una sciocchezza da un momento all'altro, e lui non riusciva a restare inerte mentre il fratello di Margaret si faceva ammazzare. Doveva intervenire, creare un diversivo, mettere un bastone fra le ruote ai gangster... per amore di lei. Guardò nel compartimento di prua, vide una cima legata a una travatura ed ebbe un'ispirazione. Adesso sapeva come creare un diversivo e forse anche come sbarazzarsi di uno dei gangster. Per prima cosa doveva slegare le cime e lasciare che la lancia andasse alla deriva. Passò dalla botola e scese la scaletta. Il cuore gli batteva forte. Aveva paura. Non pensò a quello che avrebbe detto se qualcuno l'avesse sorpreso in quel momento. Avrebbe inventato qualcosa, come faceva sempre. Attraversò il compartimento. Come aveva pensato, la cima veniva dalla lancia. Tese le mani verso la travatura, slegò il nodo e lasciò cadeva la cima sul pavimento.
Guardò all'esterno e vide una seconda cima: andava dalla prua della lancia al muso del Clipper. Maledizione! Per raggiungerla doveva uscire sulla piattaforma rischiando di essere visto. Ma non poteva rinunciare proprio adesso. E doveva anche sbrigarsi. Percy era là dentro come Daniele nella fossa dei leoni. Uscì sulla piattaforma. La cima era legata a un arganello che sporgeva dal muso del Clipper. La slegò velocemente. Udì un grido venire dalla lancia. «Ehi, tu, cosa stai facendo?» Harry non alzò la testa. Si augurò che l'uomo non avesse una pistola. Staccò la cima dall'argano e la buttò in mare. «Ehi, tu!» Harry si voltò. Lo skipper della lancia era in piedi sul ponte e urlava. Non era armato, grazie a Dio. Afferrò l'estremità dell'altra cima e tirò. La cima uscì serpeggiando dal compartimento di prua e piombò in acqua. Lo skipper s'infilò nella timoneria e accese il motore. Adesso veniva la parte più pericolosa. I gangster avrebbero impiegato pochi secondi per accorgersi che la lancia andava alla deriva. Si sarebbero allarmati. Uno di loro sarebbe sceso a controllare e a legare di nuovo la lancia. E allora... Harry era troppo spaventato per pensare a quello che avrebbe fatto. Salì precipitosamente la scaletta, attraversò il ponte di comando e tornò a nascondersi nel bagagliaio. Sapeva che era mortalmente pericoloso scherzare in quel modo con i gangster e si sentiva agghiacciare al pensiero di ciò che gli avrebbero fatto se lo avessero preso. Per un interminabile minuto non successe niente. Dai, pensò: sbrigatevi a guardare dal finestrino! La vostra lancia va alla deriva... dovete accorgervene prima che io perda il mio coraggio. Finalmente udì un rumore di passi, passi pesanti e frettolosi che salivano la scala e attraversavano il ponte di comando. Purtroppo sembravano due uomini. Harry non aveva previsto di doverne fronteggiare due. Quando calcolò che fossero scesi nel compartimento di prua, si affacciò. Via libera. Attraversò la cabina e sbirciò dalla botola. Due uomini con la pistola in pugno guardavano dal portello di prua. Anche se non fossero stati armati, Harry avrebbe capito che erano delinquenti dai loro abiti vistosi. Uno era uno smilzo dalla faccia di carogna, l'altro era giovanissimo, sui diciotto anni. Forse dovrei tornare a nascondermi, pensò Harry.
Lo skipper manovrava la lancia. Il piccolo idrovolante era ancora legato alla fiancata. I due gangster avrebbero dovuto legare di nuovo la lancia al Clipper, ma non potevano farlo con le pistole in pugno. Harry attese che le riponessero. Lo skipper gridò qualcosa che Harry non capì. Dopo qualche istante i due gangster riposero le pistole e uscirono sulla piattaforma. Col cuore in gola, Harry scese la scaletta ed entrò nel compatimento di prua. Gli uomini cercavano di afferrare al volo la cima lanciata dallo skipper, e tutta la loro attenzione era rivolta verso il mare: quindi in un primo momento non lo videro. Harry attraversò furtivamente il compartimento. Era arrivato al centro quando il più giovane afferrò la cima. L'altro, il piccoletto, si voltò a mezzo... e lo vide. Mise la mano in tasca ed estrasse la pistola nel momento stesso in cui Harry lo raggiungeva. Harry ebbe la certezza di stare per morire. Disperatamente, senza riflettere, si chinò, afferrò la caviglia dell'altro e tirò. Echeggiò uno sparo, ma Harry non sentì nulla. L'uomo barcollò, lasciò cadere la pistola e si aggrappò al compagno per sostenersi. Il ragazzo perse l'equilibrio e mollò la cima. Per un momento vacillarono aggrappandosi l'uno all'altro. Harry continuava a stringere la caviglia del piccoletto. E tirò ancora una volta. I due precipitarono dalla piattaforma e piombarono fra le onde. Harry lanciò un urlo di trionfo. I due affondarono, tornarono a galla e cominciarono a dibattersi. Non era difficile capire che non sapevano nuotare. «Questo è per Clive Membury, bastardi!» gridò Harry. Non rimase a vedere cosa sarebbe successo. Doveva scoprire come andavano le cose nel ponte passeggeri. Riattraversò in gran fretta il compartimento di prua, si arrampicò su per la scaletta; uscì nella cabina di comando e scese la scala a chiocciola in punta di piedi. Arrivato sull'ultimo gradino, si fermò e rimase in ascolto. Margaret sentiva il battito del proprio cuore. Le risuonava nelle orecchie come una grancassa, a tonfi ritmici e insistenti, e così forte che anche gli altri, immaginava, dovevano sentirli.
Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. E se ne vergognava. Si era spaventata per l'ammaraggio di fortuna, l'apparizione improvvisa delle pistole, il modo sconcertante in cui Frankie Gordino, Tom Luther e il motorista continuavano a cambiare ruolo, la brutalità noncurante di quegli stupidi gangster vestiti in modo tanto orrendo; e soprattutto si era spaventata per il taciturno signor Membury, che giaceva morto sul pavimento. Era troppo impaurita per muoversi, e se ne vergognava. Per anni aveva dichiarato che voleva combattere il fascismo, e adesso se ne era presentata l'occasione. Lì, davanti a lei, un fascista stava sequestrando Carl Hartmann per riportarlo in Germania. Ma lei non riusciva a fare nulla perché era paralizzata dalla paura. Forse non poteva fare niente in nessun caso; forse poteva solo farsi ammazzare. Ma avrebbe dovuto tentare, e aveva sempre proclamato di essere disposta a rischiare la vita per la causa e per la memoria di Ian. Suo padre aveva avuto ragione a deridere i suoi atteggiamenti coraggiosi, se ne rendeva conto. Il suo eroismo era tutto nella fantasia. Il sogno di diventare una motociclista portaordini sul campo di battaglia non era altro che una fantasia: al primo sparo sarebbe scappata a nascondersi sotto una siepe. Di fronte a un pericolo vero, lei era completamente inutile. Stava seduta immobile mentre il cuore le martellava nelle orecchie. Non aveva pronunciato una parola quando il Clipper era ammarato, i gangster erano saliti a bordo, e Nancy e il signor Lovesey erano arrivati con il piccolo idrovolante. Era rimasta in silenzio quando il ragazzo chiamato Kid aveva visto la lancia andare alla deriva e l'uomo chiamato Vincini aveva mandato Kid e Joe a legarla di nuovo. Ma urlò quando vide che Kid e Joe stavano annegando. Guardava dal finestrino senza tuttavia vedere le onde, quando i due entrarono nella sua visuale. Kid cercava di tenersi a galla ma Joe gli stava sulla schiena e lo spingeva sott'acqua nel tentativo di salvarsi. Era uno spettacolo orribile. Quando Margaret urlò, Tom Luther accorse e guardò fuori dal finestrino. «Sono finiti in acqua!» gridò istericamente. «Chi? Kid e Joe?» chiese Vincini. «Sì!» L'uomo a bordo della lancia buttò una cima ma i due non la videro. Joe si dibatteva in preda al panico e continuava a tenere Kid sott'acqua. «Fai qualcosa!» urlò Luther. Anche lui era sull'orlo del panico. «E cosa?» urlò Vincini di rimando. «Non possiamo fare niente. Quegli
imbecilli non sono abbastanza svegli per salvarsi!» I due si stavano avvicinando all'idrostabilizzatore. Se avessero conservato la calma avrebbero potuto salirvi e mettersi in salvo. Ma non lo vedevano neppure. La testa di Kid affondò e non risalì. Joe perse il contatto con Kid e inghiottì una gran quantità di acqua. Margaret sentì il suo grido rauco, smorzato dall'isolamento acustico del Clipper. La testa di Joe affondò, riemerse, e affondò di nuovo per l'ultima volta. Margaret rabbrividì. Erano morti tutti e due. «Com'è successo?» chiese Luther. «Come mai sono caduti?» «Forse sono stati spinti» disse Vincini. «Da chi?» «Dev'esserci ancora qualcun altro a bordo di questo fottuto aereo!» Harry! pensò Margaret. Possibile che Harry fosse ancora a bordo? Si era nascosto chissà dove mentre la polizia lo cercava ed era uscito dopo l'ammaraggio di fortuna? Era stato Harry a spingere in mare i due gangster? Poi pensò a suo fratello. Percy era scomparso dopo che la lancia era stata ormeggiata al Clipper, e lei aveva pensato che fosse andato nella toilette degli uomini decidendo poi di non farsi vedere. Ma non era nel carattere di Percy. Era più probabile che i guai se li andasse a cercare. Margaret sapeva che aveva trovato un modo per arrivare al ponte di comando senza farsi vedere. Cosa stava preparando? Luther borbottò: «Sta andando tutto a rotoli! Cosa facciamo?». «Ce ne andiamo con la lancia, come avevamo deciso. Tu, il crucco e i soldi» ordinò Vincini. «Se qualcuno si mette in mezzo, sparagli nella pancia. Calmati e andiamo.» Margaret ebbe la premonizione raggelante che avrebbero incontrato Percy sulla scala, e che sarebbe stato lui a prendersi un proiettile nella pancia. E mentre i tre uomini uscivano dalla sala da pranzo, udì la voce di Percy. Proveniva dalla parte posteriore dell'aereo. «Fermi dove siete!» Con immenso stupore, Margaret vide che impugnava una pistola... e la puntava su Vincini. Era una pistola a canna corta, e Margaret intuì subito che doveva essere la Colt confiscata dal comandante all'agente dell'FBI. Adesso Percy la im-
pugnava a braccio teso, come se mirasse a un bersaglio. Vincini si voltò lentamente. Margaret provò uno slancio di orgoglio per il fratello, anche se temeva per la sua vita. La sala da pranzo era affollata. Dietro Vincini, accanto al posto dov'era seduta Margaret, c'erano Luther e Hartmann, e Luther puntava la pistola alla testa dello scienziato. Dall'altra parte dello scompartimento c'erano Nancy, Mervyn Lovesey, Diana Lovesey, il motorista e il comandante. E quasi tutti i posti a sedere erano occupati. Vincini fissò Percy per un lungo istante, poi disse: «Sparisci, ragazzino». «Butta la pistola» ordinò Percy con quella sua voce da adolescente. Vincini si mosse con prontezza sorprendente. Si chinò da un lato e alzò la pistola. Echeggiò uno sparo. Il rombo assordò Margaret. Udì un urlo lontano e comprese che era la sua voce. Non si capiva chi fosse stato colpito. Percy sembrava illeso. Poi Vincini barcollò e cadde. Il sangue gli fiottava dal petto. Lasciò cadere la valigetta, che si aprì. Il sangue piovve sulle mazzette di banconote. Percy buttò la pistola e fissò inorridito l'uomo cui aveva sparato. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Tutti guardavano Luther, l'ultimo, l'unico che impugnava ancora una pistola. Carl Hartmann scattò all'improvviso, si liberò dalla stretta di Luther approfittando di una sua distrazione e si gettò sul pavimento. Margaret temette che Luther lo uccidesse e poi sparasse a Percy. Ma quello che accadde la colse completamente di sorpresa. Luther afferrò lei. La strappò dal sedile e la tenne di fronte a sé puntandole la pistola alla testa, esattamente come aveva fatto con Hartmann fino a un momento prima. Tutti si immobilizzarono. Margaret era troppo terrorizzata per muoversi, parlare, persino urlare. La canna della pistola le premeva dolorosamente contro la tempia. Luther tremava: era spaventato quanto lei. Nel silenzio, ordinò: «Hartmann, vada al portello di prua. Salga a bordo della lancia. Faccia quello che dico o ammazzo la ragazza». Una gelida calma si impadronì improvvisamente di Margaret. Si rese conto con orribile chiarezza che Luther era di un'astuzia diabolica. Se a-
vesse puntato la pistola contro Hartmann, lo scienziato avrebbe potuto dire: «Spara... preferisco morire piuttosto che tornare in Germania». Ma adesso era in gioco la sua vita. Il professore poteva essere disposto a farsi uccidere, ma non avrebbe sacrificato una ragazza. Hartmann si rialzò lentamente. Ora tutto dipendeva da lei, pensò Margaret con fredda logica. Poteva salvare Hartmann sacrificandosi. Non è giusto, pensò. Non me l'aspettavo. Non sono pronta, non posso! Cercò lo sguardo di suo padre. Sembrava inorridito. In quell'attimo spaventoso ricordò che l'aveva derisa, le aveva detto che era troppo molle per combattere, che nell'ATS non avrebbe resistito un giorno. Aveva ragione? Non doveva far altro che muoversi. Luther poteva ucciderla, ma gli uomini presenti gli sarebbero balzati addosso prima che potesse fare altro, e Hartmann si sarebbe salvato. Il tempo trascorreva lento come in un incubo. Posso farlo, pensò con la stessa terribile, gelida lucidità. Respirò profondamente e pensò: Addio a tutti. All'improvviso udì dietro di sé la voce di Harry. «Signor Luther, credo che sia arrivato il suo sommergibile.» Tutti guardarono dai finestrini. Margaret sentì la pressione della pistola contro la tempia attenuarsi leggermente, e si rese conto che per un attimo Luther si era distratto. Chinò la testa, si divincolò e sfuggì alla sua stretta. Risuonò uno sparo, ma lei non sentì nulla. Tutti si mossero nello stesso momento. Eddie le sfrecciò accanto e piombò su Luther come un albero che cade. Margaret vide Harry afferrare la mano di Luther e strappargli la pistola. Luther stramazzò sul pavimento. Eddie e Harry gli stavano addosso. E Margaret si rese conto di essere ancora viva. All'improvviso le mancarono le forze. Si lasciò cadere su un sedile. Percy accorse e lei lo abbracciò. Il tempo si fermò. Poi Margaret udì la propria voce chiedere: «Stai bene?». «Credo di sì» rispose Percy, tremando. «Sei stato così coraggioso!» «Anche tu.» Sì, è vero, pensò Margaret. Sono stata coraggiosa.
Tutti i passeggeri cominciarono a gridare contemporaneamente, poi il comandante Baker urlò: «Per favore, fate silenzio tutti quanti!». Margaret si guardò intorno. Luther era sul pavimento, bocconi, immobilizzato da Eddie e da Harry. A bordo dell'aereo non c'era più pericolo. Margaret guardò fuori. Il sommergibile galleggiava sull'acqua come un enorme squalo grigio. I fianchi d'acciaio grondanti luccicavano nel sole. Il comandante disse: «C'è una nave guardacoste nelle vicinanze. Dobbiamo metterci subito in contatto radio e avvertirla della presenza dell'Uboot». L'equipaggio era arrivato dal primo scompartimento. Il comandante si rivolse al marconista. «Di corsa alla radio, Ben.» «Sissignore. Però il comandante del sommergibile potrebbe intercettare il nostro messaggio radio e filarsela.» «Meglio così» borbottò Baker. «I nostri passeggeri hanno già corso anche troppi pericoli.» Il marconista salì al ponte di comando. Tutti continuavano a guardare l'U-boot. Il portello era ancora chiuso. Senza dubbio il comandante aspettava per vedere come andavano le cose. Baker continuò: «C'è un gangster che non abbiamo ancora preso, e vorrei catturare anche quello: lo skipper della lancia. Eddie, vai al portello di prua e attiralo a bordo... dirgli che Vincini vuole parlargli». Eddie, che stava addosso a Luther, si alzò e uscì. Il comandante si rivolse all'ufficiale di rotta: «Jack, raccogli tutte quelle stramaledette pistole e togli le munizioni». Poi si accorse di aver imprecato e aggiunse: «Prego le signore di perdonarmi». Avevano sentito un tale turpiloquio sulle bocche dei gangster che Margaret rise di lui perché si scusava per quello "stramaledetto"; anche i passeggeri che le stavano intorno risero. In un primo momento Baker rimase sconcertato, poi capì e sorrise. Quel piccolo episodio fece comprendere a tutti che erano fuori pericolo. Qualche passeggero cominciò a rilassarsi. Margaret si sentiva ancora sottosopra, e si accorse di rabbrividire come se avesse un freddo tremendo. Il comandante sospinse Luther con la punta del piede e ordinò a un altro membro dell'equipaggio: «Johnny, porta questo individuo nel primo scompartimento e non perderlo di vista». Harry, che era rimasto addosso a Luther, si alzò. Uno degli uomini portò via il nazista. Harry e Margaret si guardarono.
Margaret aveva creduto che l'avesse abbandonata, che non l'avrebbe più rivisto. E aveva avuto la certezza di stare per morire. Adesso le sembrava incredibilmente meraviglioso che fossero tutti e due vivi e insieme. Harry le si sedette accanto, e lei gli si gettò fra le braccia. Si strinsero di slancio. Dopo un po', Harry le bisbigliò all'orecchio: «Guarda là fuori». Il sommergibile si stava immergendo lentamente. Margaret sorrise a Harry e lo baciò. 29 Quando tutto fu finito, Carol-Ann si rifiutò di toccare Eddie. Era seduta in sala da pranzo e beveva un caffè con latte preparato da Davy. Era pallida e sconvolta ma continuava a ripetere che stava bene. Tuttavia trasaliva e si scostava ogni volta che Eddie la sfiorava con una mano. Eddie le sedeva accanto e la guardava, ma lei rifiutava di incontrare il suo sguardo. Parlavano a bassa voce dell'accaduto. Ripeteva, ossessivamente, che gli uomini avevano fatto irruzione in casa e l'avevano caricata sulla macchina. «Ero lì che preparavo la conserva di prugne!» continuava a dire, come se fosse l'aspetto più inaccettabile dell'intera vicenda. «Adesso è tutto finito» ripeteva Eddie ogni volta, e lei annuiva vigorosamente, ma lui capiva che non gli credeva. Finalmente lo guardò in faccia e chiese: «Quando dovrai tornare a volare?». Eddie comprese. Carol-Ann aveva paura di ciò che avrebbe provato la prossima volta che fosse rimasta sola. Respirò di sollievo: quanto a questo poteva rassicurarla senza difficoltà. «Non volerò più» le disse. «Mi dimetto in questo momento. Altrimenti dovrebbero licenziarmi. Non possono tenere un motorista che ha fatto ammarare un aereo premeditatamente come ho fatto io.» Il comandante Baker, che aveva udito in parte quel dialogo, lo interruppe: «Eddie, devo dirti una cosa. Capisco quello che hai fatto. Eri in una situazione impossibile e l'hai risolta nel modo migliore. Anzi, non so proprio chi avrebbe saputo fare altrettanto. Ti sei comportato con coraggio e intelligenza, e sono orgoglioso di volare con te». «Grazie» rispose Eddie. Un nodo gli serrava la gola. «Non so dirle quanto mi faccia piacere.» Con la coda dell'occhio scorse Percy Oxenford seduto tutto solo, con l'aria sconvolta. «Credo che dovremmo ringraziare tutti il
giovane Percy. È stato lui a salvarci!» Percy alzò la testa. «È giusto» convenne Baker. Diede una pacca sulla spalla di Eddie e andò a stringere la mano al ragazzo. «Sei molto coraggioso, Percy.» Percy si illuminò. «Grazie!» esclamò. Il comandante si sedette e cominciò a parlare con lui. Carol-Ann chiese a Eddie: «Se non volerai più, cosa faremo?». «Avvierò l'attività di cui abbiamo parlato.» Eddie vide la speranza affiorare sul viso della moglie: ma non riusciva ancora a credergli. «Pensi che possiamo?» «Ho risparmiato abbastanza per comprare quel piccolo campo di aviazione, e mi farò prestare la somma che servirà per avviarlo.» Carol-Ann si andava sempre più rasserenando. «Potremo gestirlo insieme?» chiese. «Io tengo la contabilità e rispondo al telefono mentre tu ti occupi delle riparazioni e dei rifornimenti di carburante.» Eddie annuì con un sorriso. «Certo. Almeno finché non arriverà il bambino.» «Vuoi dire una piccola impresa familiare.» Lui le prese la mano. Questa volta Carol-Ann non si ritrasse e ricambiò il gesto. «Della nostra famiglia» disse Eddie. E finalmente Carol-Ann sorrise. Nancy stava abbracciando Mervyn quando Diana gli batté una mano sulla spalla. Nancy era travolta dalla gioia e dal sollievo di essere viva e assieme all'uomo che amava. Ma adesso si chiese se Diana era venuta a gettare un'ombra sulla sua felicità. Diana aveva lasciato Mervyn senza essere troppo sicura di quello che faceva, e più volte aveva fatto capire di essere pentita. Lui aveva dimostrato di esserle ancora affezionato, quando aveva mercanteggiato con i gangster per salvarla. Era venuta a implorarlo di riprenderla? Mervyn si girò e rivolse uno sguardo cauto alla moglie. «Sì, Diana?» Lei aveva il viso rigato di lacrime ma l'espressione decisa. «Vogliamo stringerci la mano?» chiese. Nancy non sapeva bene cosa significasse e il comportamento guardingo di Mervyn le faceva capire che anche lui era incerto. Tuttavia le tese la mano. «Naturalmente.» Diana gli prese la mano tra le sue. Ricominciò a piangere e Nancy ebbe
la sensazione che stesse per dirgli: Ritentiamo. Invece disse soltanto: «Buona fortuna, Mervyn. Ti auguro di essere felice». Mervyn aveva un'espressione solenne. «Grazie, Di. Ti faccio lo stesso augurio.» E Nancy comprese: si stavano perdonando a vicenda le sofferenze che si erano causati. Si lasciavano, ma da amici. D'impulso, Nancy disse a Diana: «Vogliamo stringerci la mano anche noi?». Diana esitò per una frazione di secondo. «Sì» rispose. Si strinsero la mano. «Auguri» disse Diana. «Anche a te.» Diana si voltò senza aggiungere una parola e si avviò lungo il corridoio verso il suo scompartimento. Mervyn chiese: «E noi? Cosa faremo?». Nancy ricordò che non aveva ancora avuto il tempo di parlargli del suo progetto. «Diventerò il direttore per l'Europa della società di Nat Ridgeway.» Mervyn la fissò, sorpreso. «Quando ti ha offerto l'incarico?» «Non l'ha ancora fatto... ma lo farà» rispose lei ridendo. Poi udì il rombo di un motore. Non era del Clipper, doveva trattarsi di una piccola imbarcazione. Guardò dal finestrino e si chiese se era arrivata la Marina. Rimase sorpresa nel vedere che la lancia a motore dei gangster non era più ormeggiata al Clipper e al piccolo idrovolante e si allontanava velocemente. Chi c'era a bordo? Margaret diede gas al massimo e condusse la lancia lontano dal Clipper. Il vento le scostava i capelli dal viso. Proruppe in un grido di esultanza. «Libera!» esclamò. «Sono libera!» Lei e Harry avevano avuto l'idea nello stesso momento. Erano nel corridoio del Clipper e si chiedevano cosa avrebbero fatto quando Eddie aveva condotto giù per la scala lo skipper della lancia e l'aveva messo assieme a Luther; e tutti e due erano stati colpiti dallo stesso pensiero. I passeggeri e l'equipaggio erano troppo occupati a scambiarsi congratulazioni per badare a Margaret e Harry quando erano sgattaiolati nel compartimento di prua ed erano saliti a bordo della lancia. Il motore era in folle. Harry aveva slegato le cime mentre Margaret studiava i comandi: erano
esattamente come quelli della barca che suo padre teneva a Nizza. Non pensava che li avrebbero inseguiti. La nave guardacoste chiamata dal motorista stava dando la caccia a un sommergibile tedesco e non si sarebbe certo interessata a un uomo che a Londra aveva rubato un paio di gemelli. Quando fosse arrivata la polizia, avrebbe dovuto occuparsi di omicidio, sequestro di persona e pirateria: sarebbe passato parecchio tempo prima che si ricordasse di Harry. Harry frugò in un armadietto e trovò un fascio di carte nautiche. Le studiò, poi disse: «Ci sono diverse carte delle acque intorno a una baia che si chiama Black's Harbour, proprio al confine fra gli Stati Uniti e il Canada. Credo che siamo vicini. Dovremo puntare verso la parte canadese». Dopo qualche istante aggiunse: «C'è un grosso centro centoventi chilometri a nord, St. John. Ha una stazione ferroviaria. Siamo diretti a nord?». Margaret consultò la bussola. «Più o meno.» «Non capisco niente di navigazione, ma se restiamo in vista della costa non possiamo sbagliare. Dovremmo arrivare verso l'imbrunire.» Margaret sorrise. Harry posò le carte e le andò accanto. La guardò. «Cosa c'è?» chiese lei. Harry scosse la testa, incredulo. «Sei così bella» disse. «E ti piaccio!» Margaret rise. «Piaceresti a tutti, se ti conoscessero.» Lui le passò un braccio intorno alla vita. «È straordinario, navigare sotto il sole con una ragazza come te. Mia madre diceva sempre che sono fortunato. E aveva ragione, no?» «Cosa faremo quando arriveremo a St. John?» «Tireremo in secco la lancia, andremo a piedi in città, prenderemo una camera per stanotte e domattina partiremo col primo treno.» «Non so come faremo, senza denaro» osservò Margaret aggrottando la fronte. «Sì, è un problema. Io ho solo poche sterline, e dovremo pagare alberghi, biglietti del treno, vestiti nuovi...» «Mi dispiace di non aver portato la mia ventiquattrore come hai fatto tu.» Harry sorrise maliziosamente. «Non è la mia» disse. «È quella di Luther.» Margaret non riusciva a capire. «Perché hai preso la valigetta di Luther?» «Perché dentro ci sono centomila dollari» esclamò Harry, e scoppiò a ri-
dere. NOTA DELL'AUTORE L'età d'oro degli idrovolanti fu molto breve. Furono costruiti solo dodici Boeing B-314, sei del primo modello e sei di una versione leggermente modificata, chiamati B-314A. Nove furono ceduti alle forze armate degli Stati Uniti all'inizio della guerra. Uno di questi, il Dixie Clipper, portò il presidente Roosevelt alla conferenza di Casablanca nel gennaio 1943. Un altro, lo Yankee Clipper, precipitò a Lisbona nel febbraio 1943 e causò la morte di ventinove persone. Fu l'unico incidente nella storia di questo aereo. I tre apparecchi che la Pan American non cedette alle forze armate americane furono venduti agli inglesi. Anch'essi furono usati per trasportare personaggi illustri attraverso l'Atlantico. Churchill volò a bordo di due, il Bristol e il Berwick. Il punto di forza degli idrovolanti stava nel fatto che non avevano bisogno di lunghe e costose piste di cemento. Ma durante la guerra piste di questo tipo furono costruite in molte parti del mondo per i bombardieri pesanti, e quindi il vantaggio offerto dagli idrovolanti risultò annullato. Dopo la guerra si constatò che i B-314 erano antieconomici, e furono smantellati. Al mondo non ne è rimasto nemmeno uno. RINGRAZIAMENTI Ringrazio le persone e le organizzazioni che mi hanno aiutato a compiere le ricerche per questo romanzo, in particolare: A New York: la Pan American Airlines, e soprattutto la bibliotecaria Liwa Chiu. A Londra: lord Willis. A Manchester: Chris Makepeace. A Southampton: Ray Facey dell'Associated British Ports e Ian Sinclair della RAF Hythe. A Foynes: Margaret O'Shaughnessy del Flying Boat Museum. A Botwood: Tip Evans, del Botwood Heritage Museum, e gli ospitali abitanti della cittadina. A Shediac: Ned Belliveau e la sua famiglia, e Charles Allain e il Moncton Museum.
Gli ex membri degli equipaggi della Pan American e altri dipendenti che avevano volato a bordo dei "Clipper": Madeline Cuniff, Bob Fordyce, Lew Lindsey, Jim McLeod, States Mead, Roger Wolin e Stan Zedalis. Per aver rintracciato molte delle persone elencate qui sopra: Dan Starer e Pam Mendez. FINE