Franco Venturi
Settecento riformatore II
La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti 1 75 8-1 774
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Franco Venturi
Settecento riformatore II
La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti 1 75 8-1 774
Copyright ©
1976
Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino
Giulio Einaudi editore
Indice
p. xi xv
Prefazione Elenco delle abbreviazioni
Settecento riformatore II I. «De lle cose del Portogallo » II. « Sur la déstruction des Jésuites en France» 44 III. L'esempio spagnolo iv. L'Italia anticuriale: Genova e Torino 65 v. L'Italia anticuriale• Milano, Firenze, Modena 86 vi. L'Italia anticuriale: Venezia 1o1 163 vii. L'Italia anticuriale: Napoli 185 viii. Santa Fede e mano morta 214 ix. Parma e l'Europa x. «La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti» 237 25o XI. « Di una riforma d'Italia » 326 xii. Anticlimax 3
30
343
Indice dei nomi
Elenco delle illustrazioni
1. Cacciata dei gesuiti dal Portogallo. 2. Il padre Malagrida in carcere. 3. I tre gesuiti accusati di regicidio. 4. Cronaca figurata dell'attentato al re del Portogallo. 5. L'arrivo nello Stato Pontificio degli esuli gesuiti. 6. Le armi dei gesuiti. 7. Sant'Ignazio di Loyola, flagello dei demoni. 8. Clemente XIII. 9. La statua di papa Rezzonico al Prato della Valle. io. Il gesuita Francesco Pepe. r r. La verità difesa col disvelarsi, opera di propaganda gesuitica. 12. I traffici commerciali internazionali dei gesuiti. 13. La banca romana d'iniquità. 14. Dichiarazione del re del 6 agosto 1761.
15. I gesuiti cacciati dalla Francia. i6. L'opera del Parlamento parigino contro i teologi gesuiti e i collegi della Compagnia. 17. La giustizia armata difende i giovinetti. 18. Il cielo assicurato a tutti gli scolari dei gesuiti. 19. Piazza San Marco di Canaletto (particolare). 20. L'uomo di Diogene: Paolo Sarpi. 21. Memorie anedote di F. Paolo Servita, di Francesco Griselini. 22. I magistrati veneziani pongono un argine all'avidità dei gesuiti. 23. Nobili ed ecclesiastici veneziani sotto la guida dei teologi gesuiti. 24. La giustizia e la verità prevalgono sulle tradizioni monastiche. 25. «Ubi sunt divitiae multae, multi et qui comedunt eas ». 26. Il diritto divino dei vescovi. 27. Autorità legittima de' vescovi e de' sovrani.
28. La monaca per forza.
x 29. 3o. 31. 32.
Elenco delle illustrazioni Ericia o La vestale, dramma di Fontenelle. Il matrimonio di fra Giovanni, commedia di Carlantonio Pilati. Il variopinto mondo dei regolari veneziani in un quadro di Pietro Longhi. La battaglia dei cavalieri e dei frati illuminata da lla nuda ragione.
Ragionamento intorno a' beni temporali posseduti dalle chiese, dagli ecclesiastici, di Montegnacco. 34. Il diavolo suggeritore degli ecclesiastici. Confermazione del Ragionamento intorno ai beni temporali delle chiese, di 35. Montegnacco. 36. Chierici e laici debbono contribuire al bene dello stato. 37. Mamachi, cane latrante, viene colpito dai riformatori. 38. La Compagnia di Gesú riceve un colpo dopo l'altro dai monarchi europei. 39. Clemente XIV a cavallo. 4o. Il papa Ganganelli sopprime la Compagnia di Gesú il 21 luglio 1773. 41. La Congregazione cardinalizia per l'esecuzione del Breve di soppressione della Compagnia di Gesú. 42. Medaglie coniate per papa Ganganelli. 43• Gli stati cattolici d'Europa uniti contro i gesuiti. 44• Bibliotheca Loiolitica. 45. Il funerale di Lorenzo Ricci.
Prefazione
33.
Il mutare e il trasformarsi dei rapporti tra chierici e laici nel nostro primo Cinquecento, quale risulta dal noto ed esemplare saggio di Carlo Dionisotti , costituisce il lontano, ma necessario punto di partenza della presente ricerca. Due secoli dopo, all'aprirsi del secondo Settecento, il processo inverso, quello della declericalizzazione dell'Italia, entrava in una fase decisiva. Con gli anni sessanta del xviu secolo, e phi precisamente tra i1 L758 _e il 1774, la laici77azione della cultura e de lla scuola, il sempre maggior distacco delle classi colte dalle credenze e superstizioni tradizionali, la liquidazione del piú importante ordine della Controriforma, la Compagnia di Gesú, le limitazioni e i controlli imposti agli altri ordini religiosi, i ripetuti tentativi di limitare e di intaccare i beni del clero, la riaffermata autonomia dei governi dalla curia papale, la sempre piú ardita polemica illuminista confluivano in un unico moto riformatore, tanto impetuoso da ottenere risultati irreversibili, non piú cancellati neppure pdalla stanchezza e dalla reazione che pur finirono col raffrenarlo al i a ei primi anni settanta. Ben furono coscienti i contemporanei che un punto di riferimento a monte era proprio la crisi italiana del Cinquecento, lo scoppio della riforma protestante e l'appesantirsi della Controriforma. A uomini e cose di quell'epoca essi fecero continuo riferimento. Ma seppero pure, con altrettanta chiarezza, che si trattava di un rapporto di opposizione, d'un illuminante contrasto storico, non d'una continuità. La loro riforma, la loro rivolta contro Roma non era piú quella di Lutero e di Calvino. La loro cultura, la loro politica erano ormai profondamente diverse. Cercarono una strada propria, quella della «riforma d'Italia», come diceva Pilati, o quella di fissare finalmente, come voleva Cosimo Amidei, «la chiesa e la repubblica dentro i loro limiti». La virtualità protestante è spesso presente in questo moto, tanto che da lontano, dall'Inghilterra, poté parere che gli italiani stessero compiendo con mezzi diversi e piú umani, senza guerre e senza roghi, quella trasformaChierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana,Torino 1967, pp. 55-88.
Prefazione
zione che i loro antenati avevano invano tentata due secoli prima. Ma si trattava appunto di virtualità, di raffronti, magari di tentazioni. In realtà il moto riformatore settecentesco ha la sua propria logica intrinseca, lontana ormai da quella cinquecentesca. In questa ricerca non è possibile, ed è un peccato, seguire Carlo Dionisotti nel solido impianto biografico e statistico del suo lavoro, dove, da buon capitano, egli mostra conoscere uno per uno i suoi soldati, ma li manovra poi a plotoni. Non che anche nel Settecento l'elemento decisivo, in ultima analisi, non sia l'azione e la reazione del singolo (e di scorci e schizzi biografici ho abbondato nelle pagine che seguono). Non che, anche nel secolo xviu, non si possano rilevare de lle tendenze generali che portano gruppi interi a conformarsi a vecchie e nuove forme di organizzazione religiosa e politica (ed ho perciò cercato di penetrare nelle penombre dei senati delle arcaiche repubbliche e magari nelle ombre dei chiostri e delle chiese). Ma la situazione era profondamente mutata. Innanzitutto nel rapporto con l'Europa. L'impulso al moto riformatore che venne negli anni sessanta dal Portogallo, da ll a Francia, dalla Spagna e anche dal mondo tedesco fu fondamentale. L'Italia d'allora era phi calata nell'Europa del suo tempo di quanto non lo fosse stata nel Cinquecento. Tutta la prima parte del presente volume è dedicata appunto a conoscere e a commisurare, con la maggior precisione possibile, attraverso traduzioni, recensioni e catene di trasmissione di pensieri e di notizie, un simile rapporto. In secondo luogo, all'interno stesso dell'Italia, la compartimentazione, la regionalizzazione domina il processo tutto intero, con una forza e con un ritmo ormai ben diverso da quello di due secoli prima. Cercare di narrare la storia del moto riformatore degli anni sessanta del Settecento è in realtà un caso estremo delle difficoltà che incontra chiunque voglia scrivere storia d'Italia, se pur intende, come è suo dovere, cogliere í caratteri comuni a tutta la penisola in un determinato momento senza per questo nascondere o distruggere la straordinaria varietà de lle situazioni locali, delle iniziative, delle originalità d'ogni singola città e regione, stato e borgo, università e laboratorio. L'epoca qui studiata tuttavia, bisogna riconoscerlo, viene in qualche modo in aiuto allo storico: gli elementi riformatori che pullulano al Nord e al Sud, all'Ovest e all'Est finiscono col confluire in un alveo comune e trovano uno sbocco nel duello, che non è italiano soltanto, attorno al ducato di Parma e allo Stato pontificio dell'età di Clemente XIII e di Clemente XIV. La cronaca stessa degli avvenimenti e delle discussioni porta ad un punto comune, ad un incontro delle idee e dei propositi germinati a Venezia e a Napoli, a Genova e a Milano. Ma si tratta pur sempre d'una confluenza e non d'una completa
Prefazione
xui
fusione. Nel seguire questi avvenimenti, che sembrano sfuggire ad ogni sintesi statistica, non mancheranno perciò i salti geografici e cronologici, nonché le ripetizioni e i ritorni indietro. Un terzo elemento, d'importanza essenziale, contribuisce a differenziare la situazione qui studiata da quella con tanta energia definita da Carlo Dionisotti. Nel Settecento siamo di fronte ad una riforma, non soltanto perciò ad un mutare di istituzioni e di rapporti sociali e politici, quanto pure, e soprattutto, ad un cambiare di segno, di valore e d'importanza delle forme e delle forze ereditate dal passato. Diventar prete o frate o vescovo nel Cinquecento è cosa diversa del divenirlo nel secondo Settecento perché è mutata e sta mutando profondamente il significato e la funzione della chiesa nello stato e nella società. Le tanto significative statistiche di Carlo Dionisotti devono lasciare il posto all'analisi, e magari alla cronaca dei conflitti e dei contrasti che portarono, nel giro di pochi anni, ad una trasformazione fondamentale nei rapporti tra chierici e laici. La vera sintesi, come accade, si ritrova nell'individuo. Spero che i capitoli dedicati al padre Mamachi e ai suoi avversari, cosí come a Carlantonio Pilati, a Cosimo Amidei e a Clemente XIV ricondurranno alla fonte stessa di quello che fu il moto di riforma illuministica degli anni sessanta e, contemporaneamente, all'origine di quel torbido e impetuoso fiume che già allora cominciò a chiamarsi della Santa Fede. Siamo, ne sono persuaso, ad uno spartiacque della nostra storia. Gli ostacoli che si frappongono alla ricerca su questo periodo non sono pochi, almeno per chi, come il sottoscritto, tra chierici e laici, tra religione e lumi non prova, nella sua scelta, la minima esitazione. Gran parte invece di questa storia è stata scritta da altri dal punto di vista esattamente opposto. E cosí tocca allo studioso del Settecento convivere a lungo con l'insopportabile barone Ludwig von Pastor, nonché con le uggiose e spesso velenose «Nouve lles ecclésiastiques » e magari con piú accademici e phi ragionevoli, ma talvolta non meno aridi e teologizzanti moderni studiosi e riesumatori del giansenismo settecentesco. L'assidua frequentazione di tutti costoro induce a pensare che se Clemenceau aveva ragione di dire che la guerra era cosa troppo seria per essere lasciata nelle mani dei generali, altrettanto esatto sarebbe affermare che i moti religiosi del passato sono storicamente troppo interessanti per essere lasciati in mano agli uomini pii e debbono essere legittimamente restituiti agli storici della vita morale e politica. Per dichiarare quanto invece ho imparato dagli attuali studiosi del nostro Settecento religioso ed ecclesiastico — e mi basterà ricordare il nome di Ettore Passerin d'Entrèves — avevo pensato aggiungere una sia pur breve nota bibliografica. Uno dei migliori
xiv
Prefazione
tra i plu recenti indagatori di questi problemi, Mario Rosa, ha nel frattempo provveduto nel suo agile libretto su Politica e religione nel '700 europeo, apparso a Firenze nel 1974 e ad esso mi è ora possibile rimandare il lettore. Una terza parte di questo Settecento riformatore, che andrà da lle grandi carestie all'aprirsi della rivoluzione francese spero varrà a dimostrare quanto fosse utile, necessario anzi, passare attraverso lo studio dei moti giurisdizionali, anticuriali e anticlericali degli anni sessanta. Come in Europa, anche in Italia fu quella l'età di transizione tra i progetti e le effettive grandi riforme degli ultimi decenni del secolo. Da noi la presenza del papato e la pesante eredità della Controriforma imposero di passare attraverso una lunga, complicata, dispersa fase di conflitti tra stato e chiesa. Quel che emerse negli anni settanta e ottanta sarebbe incomprensibile senza la « riforma d'Italia», senza la breve ma intensa età di Carlantonio Pilati. Non ho dubbi sull'importanza di quel quindicennio e sull'opportunità, onde meglio intendere il nostro secolo dei lumi, di ripercorrerne minutamente i dibattiti e le vicende. Grandi dubbi ho invece d'esserci riuscito. Alla fine del lavoro, cos. come al suo inizio, non posso che rifarmi al punto di partenza e di raffronto che avevo scelto, ai chierici e laici di Carlo Dionisotti. A lui dedico questo volume, con riconoscenza, ammirazione e amicizia. Ringrazio Giulio Einaudi d'aver voluto ornare anche questo volume d'una documentazione fotografica che, ne sono convinto, servirà grandemente a far meglio intendere quella stagione della storia italiana.
Elenco delle abbreviazioni
Archivio. A Archivio di stato. AS Biblioteca. B Biblioteca nazionale. BN PRO Public Record Office. m. v. more veneto. Le seguenti opere sono indicate in forma abbreviata, come segue: DBI Dizionario biografico degli italiani, Enciclopedia Italiana, Roma. DNB Dictionary of national biography, Londra. VON PASTOR, Storia dei papi LUDWIG VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, Desclée e C., r6 vo ll ., Roma 1910-54. Riformatori
Illuministi italiani, vol. 46 della collana «La letteratura italiana. Storia e testi», Ricciardi, Milano-Napoli 1958-65.
Tomo III: Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di Franco Venturi. Tomo V: Riformatori napoletani, a cura di Franco Venturi. Tomo VII: Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di Giuseppe Giarrizzo, Gianfranco Torcellan e Franco Venturi.
Le riviste italiane schedate nella Bibliografia storica nazionale e quelle straniere schedate nella International bibliography of historical sciences sono indicate con le abbreviazioni in uso in tali bibliografie e cioè: Agric. hist. Agricultural history. Berkeley, Cal. A. Scuola norm, sup. Pisa Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Lettere, storia e filosofia. Pisa.
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Elenco delle abbreviazioni
Annu. Ist. stor. ital. età mod. e contemp. Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma. Arch. stor. ital. Archivio storico italiano fondato da G. P. Vieusseux e pubblicato dalla Deputazione toscana di storia patria. Firenze. Arch. stor. lombardo Archivio storico lombardo. Giornale de lla Società storica lombarda. Milano. Arch. stor. prov. napoletane Archivio storico per le province napoletane. Pubblicato a cura della Società napoletana di storia patria. Napoli. Arch. stor. prov. parmensi Archivio storico per le province parmensi. Deputazione di storia patria per le province parmensi. Parma. Arch. stor. tic. Archivio storico ticinese, Bellinzona. Arch. veneto Archivio veneto. A cura della Deputazione di storia patria per le Venezie. Venezia. Ateneo veneto Ateneo veneto. Rivista di scienze, lettere ed arti. Venezia. A. Ist. ven. sci. lett. ar . Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia. Atti M. Dep. stor. p. antiche prov. modenesi Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. Atti e memorie. Modena. B. Soc. studi valdesi Bollettino della Società di studi valdesi. Torre Pellice. B. stor. bibliogr. subalpino Deputazione subalpina di storia patria. Bollettino storico bibliografico subalpino. Torino. B. stor. Svizzera ital. Bollettino storico della Svizzera italiana, Bellinzona. G. stor. letter. ital. Giornale storico della letteratura italiana. Torino. Lett. ital. ' Lettere italiane. Firenze. Misc. stor. ital. Miscellanea di storia italiana, Torino. Rass. lett. ital. La Rassegna della letteratura italiana. Firenze. Rass. arch. stato Rassegna degli archivi di stato, Roma.
Elenco delle abbreviazioni Rass. stor. Risorg. Rassegna storica del Risorgimento, Roma. Riv. stor. chiesa Italia Rivista di storia della chiesa in Italia, Roma. R. stor. ital. Rivista storica italiana. Torino-Napoli.
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Settecento riformatore u. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti 1758-1774
Capitolo primo «Delle cose del Portogallo»
Neppur da un amico si accetta volentieri l'avviso «che abbiamo il vestito sdrucito ». « Il sentire che uno ci vuol riformare ci dispiace subito». Carica dell'oscuro pericolo di nuovi obblighi e di nuovi «legami», ogni riforma ci appare dapprima come una minaccia. Cosí, alla soglia degli anni sessanta, scriveva un anonimo commentatore delle notizie che, sempre pii insistenti, giungevano dal Portogallo '. Nella quiete che dominava tanta parte dell'Italia alla fine degli anni cinquanta l'eco di quel che stava accadendo a Lisbona portava una nota nuova, che inquietava e incuriosiva. Impressionante la quantità di fogli e libretti che vennero allora, sempre piú frequenti, a fornire informazioni e commenti. Circolarono largamente nel 1759 le versioni italiane dei decreti e manifesti del governo portoghese, presentati come se fossero stampati a Lisbona, talvolta con lo stemma reale e sempre con l'evidente intenzione di far capire che si trattava d'una propaganda ufficiale 2 . Numerosissimi i commenti, gli opuscoli scritti da italiani o tradotti. Già nel 176o gli editori si preoccupavano di mettere insieme questa immensa letteratura. Nacque cosí la Raccolta di opuscoli curiosi e interessanti intorno gli afta' Critica di un romano alle Riflessioni del portoghese sopra il memoriale presentato dalli pp.
gesuiti alla santità di papa Clemente XIII, distesa in una lettera mandata a Lisbona, Genova (Venezia ) 5759, p. 1 4 (cfr. il permesso del 14 gennaio 2759 all'editore Pietro Bassaglia, VENEZIA, AS, Ri-
formatori dello Studio di Padova 336). 2 Cfr., ad esempio: Breve relazione della repubblica che i religiosi gesuiti delle provincie di Portogallo e di Spagna hanno stabilito nei domini ultramarini delle due monarchie..., in Lisbona e in Madrid 5758, con in appendice la Deduzione abbreviata degli ultimi fatti e procedure de' religiosi gesuiti di Portogallo e degli intrighi macchinati da essi nella corte di di [sic] Lisbona; Lettera circolare di S. M. Fedelissima a S. A. R. l'arcivescovo di Braga primate..., per ordine di S. M. F., nella stamperia di Michele Rodriguez, stampatore dell'eminentissimo sig. Cardinale, Lisbona 2759; Documenti autentici emanati ultimamente per il buon regolamento de' fedelissimi stati di Sua Maestà Fedelissima, Lisbona, nella segreteria di stato degli affari del regno li 3 settembre 1759 (secondo il «Giornale gesuitico», tomo I per servire all'anno 1759, Sebasti an o Poletti, Napoli 1760, p. 53, due ne furono le edizioni, «una par di Roma, l'altra è della stamperia Giovannelli in Pisa»); Editto di
S. M. F. il re di Portogallo per cui si aboliscono le scuole minori de' gesuiti e si proibisce il loro metodo d'insegnare e se ne prescrive uno nuovo, nella stamperia di Michele Rodriguez, Lisbona 1 759; Ristretto del processo e sentenza emanata contro gl'infrascritti rei per l'orrendo assassinio machinato ed eseguito contro la sagra persona di Sua Maestà Fedelissima Giuseppe I re di Portogallo la notte del giorno 3 settembre 1758, in Lisbona per ordine di S. M. F. 2759 («Fu questo Ristretto stampato a Roma » ed un'altra edizione a Pisa, «
n2o I , pp. 35-36 ) •
come molti altri opuscoli simili », «Giornale gesuitico », to-
4
Capitolo primo
ri presenti di Portogallo, in sei tometti, con l'indicazione di Lugano, nella stamperia privilegiata della Suprema superiorità elvetica nelle prefetture italiane, 1760. «Ecco la piena e compiuta raccolta di tutti gli opuscoli che sono finora comparsi in Italia, sopra il più grande ed il pii strepitoso avvenimento che sia a' giorni nostri accaduto», si leggeva all'aprirsi del primo volumetto. «I curiosi li van cercando con somma premura...» Ma stentavano a trovarli «per esser ormai divenuti assai rari e l'eccedente prezzo a cui sono ascesi» toglieva «a non pochi il piacer di leggerli e di possederli ». Chi era lo stampatore che con tanta solerzia cercava cosí di venire incontro alla crescente richiesta del pubblico? L'indicazione di Lugano potrebbe far pensare a Giovan Battista Agnelli, ma si tratta invece di una iniziativa dell'editore veneziano Paolo Colombani che già l'anno prima, 1759, aveva dato fuori una Raccolta di memorie, documenti e lettere pubblicate dalla corte di Portogallo intorno agli affari correnti fra la corte di Roma e la suddetta di Portogallo'. Sempre nel 1760 vedeva la luce un'altra serie di tometti intitolata Delle cose del Portogallo rapporto a'p.p. gesuiti, anche questa «in Lugano». Era anch'essa in realtà impresa veneziana. «Non può esprimersi il gradimento del pubblico a favore del signor Bettinelli... Egli è stato quel soggetto si utile al mondo che ha pensata ed eseguita la più rispettabil raccolta di opuscoli gesuitici che potesse mai farsi» 2 . Anche Bettinelli insisteva sull'« avidità straordinaria che si è osservata non solamente in altri paesi, ma ancora nella nostra Italia di andare in traccia delle notizie più sincere ed esatte e procacciarsi, eziandio a caro prezzo, tutti quei libri, scritture, lettere, relazioni, documenti, ecc. che si sono pubblicate su tal soggetto in Lisbona e altre città del re fedelissimo, in Spagna, in Francia ed altri luoghi, per intendere ed accertarsi della verità intorno affari si gravi e interessanti». «Migliaia e migliaia di esemplari» di questi opuscoli erano cosí andati ovunque diffondendosi'. AS, Riformatori dello Studio di Pados. 1. n. d. (Il permesso è del 9 gennaio 1759, VENEZIA, Deduzione di fatto e di ragione, uno dei pii tipici va 336). In questa Raccolta, pp. 31 sgg. stava la documenti de ll a politica di Pombal. Giornale gesuitico», tomo II, per l'anno 1760, 1761, p. 191. Anche questo «Giornale» usci2 « va dai torchi di Giuseppe Bettinelli o, in ogni caso, venne da lui ristampato. Cfr. VENEZIA, AS, Ridi CAformatori dello Studio di Padova 336, 16 aprile 1761. Su di esso vedi l'articolo fondamentalea, che Il «Giornale gesuitico», in «Arch. stor. tic. », anno vII (marzo 1966), p. LISTOCADER,
in realtà una ampia indagine sulle pubblicazioni antigesuitiche all'inizio degli anni sessanta. Il dotto Gaspare Patriarchi, scrivendo all'amico Giuseppe Gennari, da Venezia, il 6 agosto 1760, lo diceva stampato « in Lucca con data di Napoli» ed aggiungeva trattarsi di una pubblicazione «di mano maestra... in ogni pagina c'è il midollo» (PADOVA, B. del Seminario arcivescovile, Mss. 618). Delle cose del Portogallo rapporto a' pp. gesuiti, nella stamperia privilegiata della Suprema superiorità elvetica nelle prefetture italiane, Lugano 1760, vol. I, Avviso del libraio, p. III. Dodici furono i tometti di questa silloge pubblicati nel 1760. L'anno seguente, usciva una Raccolta di varie scritture e documenti sugli affari presenti dei pp. gesuiti, Giuseppe Bettinelli, Lugano-Venezia 1761. Nel 1765 la prima collana venne riedita col titolo Delle cose del Portogallo e della Francia
« Delle cose del Portogallo»
5
Una terza pubblicazione a puntate riguardante gli avvenimenti del Portogallo aveva cominciato ad uscire nel 176o. Portava l'indicazione di Berna, ma era in realtà pubblicata dal libraio Pietro Bassaglia, «in Merceria di S. Salvatore, al segno della Salamandra, in Venezia»'. Di grosso formato, stampata su due colonne, si presentava come una raccolta di letture sugli avvenimenti in corso, una sorta di periodico in forma epistolare. Era una libera versione delle Nouvelles intéressantes au sujet de l'attentat commis le 3 septembre 1758 sur la personne de Sa Majesté Très Fidèle, le Roi du Portugal, che il padre Viou era andato pubblicando aarigi P a pr arti dal e 1759 2 Già ne l 1760 l 'edito r e veneziano Antonio Zatta, messosi al servizio dei gesuiti, contava pii di settanta opuscoli e libri ispirati dagli avvenimenti portoghesi. «Del solo libro della repubblica del Paraguai — diceva rapporto a' pp. gesuiti e loro espulsione perpetua da questi regni o sia Raccolta de' pii scelti monumenti, novamente riordinati e ristampati su quest'importante sogetto, e ve ne sarà aggiunti di unovi, opera fln'ora ridotta in vol. 18, Giuseppe Bettinelli, Lug ano-Venezia. L'editore, a quanto ci assi-
curano le «Nouvelles ecclésiastiques a del 18 luglio 1763, p. 120 aveva lanciato queste sue imprese sotto la protezione di Marco Foscarini, il celebre politico e letterato veneziano. Certo Bettinelli fini coll'essere considerato a Roma come uno « scandaloso stampatore». Cfr. i Verbali delle riunioni del S, Uffizio, fasc. I , 1764-67, f. 227 (ROMA, B. Corsiniana, 2 555, 1 ). Gli stampatori Agnelli di Lugano dovettero difendersi dalle accuse mosse loro dai rappresentanti d'Uri e di Lucerna di aver pubblicato le collane di Bettinelli e di Colombani. In un loro memoriale spiegavano di saper benissimo dell'esistenza di queste opere. « Ci siam ciò non ostante rattenuti dal farne pubblica doglianza per non aémbrare che in tutto condannassimo le predette edizioni, varie delle quali, per l'autorevole origine che hanno, ci pregiam noi pure di avere in questo nostro negozio ». Protestarono soltanto quando anche l'editore veneziano Antonio Zatta si permise di servirsi dell'indicazione di Lugano per uno scritto favorevole ai gesuiti. Evidentemente, dicevano, « la coperta della stamperia di Lugano si fa servire da alcuni stampatori veneziani come le statue di Pasquino e Marforio in Roma per affibiarie quanto si vuole ». Il memoriale degli Agnelli è pubblicato da EMILIO MOTTA, La tipografia
degli Agnelli in Lugano (1746-1799) con alcuni accenni sullo sviluppo della stampa nel Cantone Ti-
cino, in «B. stor. della Svizzera italiana», anno iv, n. 1 (gennaio 1882), pp. 8-9. Sugli opuscoli antigesuiti effettivamente stampati dagli Agnelli vedi un altro loro memoriale del 2759, ibid., n. II (novembre 188z), pp. 277 sgg. t Novelle interessanti in proposito degli affari del Portogallo e dell'attentato commesso a' tre .settembre 1758 sulla sagra e real persona di S. M. Fedelissima Giuseppe I, traduzione dall'originale
francese, nella stamperia della Suprema reggenza elvetica, Berna 1760, tomo I, p. vIII. Il permesso era del 23 dicembre 2760 (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). 2 Fin dall'inizio i rimaneggiamenti furono numerosi per tutto quanto riguardava l'Italia. Si veda, ad esempio, la V' suite des nouvelles intéressantes, corrispondenza da Roma del 16 febbraio 2 759 e vol. I, pp. 102 sgg. della versione italiana con la stessa data. Nuovo era tutto quanto ci si diceva del libro che Griselini aveva allora pubblicato su Paolo Sarpi. Similmente per quel che riguarda le pagine concernenti Muratori nel vol. II, pp. 48 sgg., corrispondenza da Vienna del 26 settembre 1 759, che mancano nella XI' suite des nouvelles intéressantes, pp. 8 sgg. Completamente mutata è la corrispondenza da Roma dell'8 settembre 1758 (vol. II, pp. 94 sgg. e XII' suite des nouvelles intéressantes,
pp. 13 sgg.). Mano mano che si procede le differenze si accentuano. Il volume III è largamente indipendente dal testo francese. (Cfr., ad esempio, pp. 45 sul conflitto tra Genova e la Curia a proposito della Corsica e le corrispondenti notizie da Romasgg. del 24 giugno 176o della XIX` suite des nou velles i ntéressantes, pp. 14 sgg.). L'editore veneziano aggiunge poi, ovunque gli è possibile i documenti originali e fornisce i documenti in extenso. In genere, il confronto tra l'originale` francese e la versione italiana dimostra il rapido, impetuoso accrescersi ed allargarsi della curioBi tà veneziana per tutto quanto riguardava i gesuiti e i conflitti con la chiesa romana. Il terzo volume della versione si ferma alla ventesima lettera francese. Il libraio Bassaglia chiese ed ottenne il permesso di pubblicare un quarto volume di questa raccolta il 23 gennaio 1763 (m. v. e cioè 1764) 'VENEZIA, AS, dello Studio di Padova 337). Esso vide la luce soltanto nel 1768. L'inviato napoletan o aRiformatori l'offriva a Tanucci l'Ir settembre di quell'anno (NAPOLI, AS, Affari esteri 168). Ma non mi Bologna è stato dato ritrovarne un esemplare.
6
«Delle cose del Portogallo»
Capitolo primo
— ho appreso di sette edizioni. Sappiamo che d'un solo di questi libercoli si sono tirati in una edizione quattro mila copie». Calcolava che, se questa era la media, già avevano visto la luce «300 000 esemplari» d'una simile pubblicistica'. Questa letteratura antigesuitica, tanto largamente di ff usa in Italia, varcò in grande quantità le Alpi, tanto nella lingua originale che in traduzione 2. Una simile avida curiosità per tutto quanto stava accadendo in Portogallo era indubbiamente sintomo d'inquietudine e di nascente volontà di riforme. Preoccupazioni religiose, contrasti ed odi teologici, passioni curiali ed anticuriali ricopersero, velarono, ma non nascosero mai del tutto, in questa immensa ed appassionata discussione, il nocciolo politico ed economico di quanto andava in quei giorni compiendo a Lisbona l'energico ministro del re Giuseppe I, Sebastiâo José de Carvalho, conte di Oeiras, più noto col nome di marchese di Pombal, titolo che gli verrà conferito nel 177o (cosí lo chiameremo in seguito per brevità). Tentativo neomercantilistico il suo, diretto contro i privilegi dei commercianti stranieri, soprattutto inglesi e dei grandi ordini religiosi internazionali, soprattutto i gesuiti. A grosse compagnie commerciali create ed appoggiate dallo stato veniva affidata una parte importante dell'attività economica. Scuole nuove o rinnovate avrebbero avuto il compito di creare gli indispensabili quadri d'una amministrazione tecnicamente più preparata e più energica. Al centro, un potere riunito nelle mani del marchese di Pombal, impaziente d'ogni limite e d'ogni controllo. La nuova Lisbona, risorta dopo il terribile terremoto del 1755, con le sue case di stile classico e la sua razionale distribuzione dei quartieri e delle funzioni urbane, era il simbolo di questa riforma '.
I I gesuiti accusati e convinti di spilorceria, Gino Bottagriffi e compagnia, Fossombrone 176o, gesuiti in risposta agli opuscoli che in Raccolta di apologie della dottrina e condotta dei revv. pp. escono contro la venerabile Compagnia di Gesti (Antonio Zatta, Venezia 176o), vol. VI, Prefazione, inp. 3. In un altro suo opuscolo, dell'aprile 1761, Zatta, dopo aver ripetuto ancora una volta che « credibile » era «la moltiplicazione de' libelli », forniva il catalogo di 62 di essi. Cfr. Lettera giustifc
cativa di Antonio Zatta per il libro uscito sotto il suo nome nello scorso gennaio 176o intitolato Dimostrazione dell'ossequio e rispettosa venerazione avuta dai ministri di S. Santità verso la regia persona ed i ministri di S. M. Fedelissima, Antonio Zatta, Venezia 1761, pp. 63 sgg. Si veda ad esempio la Sammlung der neusten Schriften welche die Jesuiten in Portugal betreffen. Aus dem italiänischen übersetzt, Frankfurt und Leipzig 176o. Nella prefazione del primo volume il curatore diceva di voler profittare del successo ottenuto in Germania dalla versione tedesca delle Riflessioni di un portoghese e ricercava perciò opuscoli e documenti, comprese le Novelle interessanti in proposito degli affari del Portogallo. Nel 1762 appariva un « quarto ed ultimo volume » di que-
sta grossa raccolta. Cfr. JORGE BORGES DE MACEDO, Problemas de historia da indústria portuguesa no século xvili, Associaçâo industrial portuguesa, Lisboa 1936; JOSÉ-AUGUSTO FRANÇA, Une ville des lumières. La Lisbonne de Pombal, SEVPEN, Paris 1965; la voce «Pombal» di JORGE BORGES DE MACEDO, nel Dicionàrio de historia de Portugal, dirigido por Joel Serrâo, Iniciativas editoriais, Lisboa 1968, pp. E. 415 sgg.; C. R. BOXER, The Portuguese seaborne empire. 1415-1825, Hutchinson, London 1969; H. Methuen, LonS. FISHER, The Portugal trade. A study in Anglo-Portuguese commerce. 1700-1770, don 1971 (vedi soprattutto pp. 45 sgg.: la politica di Pombal è un tentativo di risposta a un declino del commercio estero portoghese, particolarmente grave negli anni sessanta e settanta, dovuto anche
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Troppo fitte erano le fila che congiungevano Lisbona a Roma, Genova, Venezia, Napoli, perché l'eco di questi avvenimenti non risonasse in ogni parte d'Italia'. A Roma si svolse la parte più drammatica del conflitto 2 . All'inizio era parso che al Quirinale e nelle cancellerie papali si intendesse acconsentire, sia pure non senza molta riluttanza, alle mosse di Pombal dirette contro i gesuiti. Era stato proprio Benedetto XIV ad adoperare per primo, sia pure usandola nella forma più tradizionale, la fatale parola, «riforma» 3 . Poi, a Roma, si era tentato, anche se invano, di opporre un argine all'irruenza del governo di Lisbona, di reagire con energia ad un sempre più largo diffondersi della propaganda portoghese. A Roma finiranno per giungere e nello Stato pontificio saranno accolti i gesuiti cacciati da Pombal `. Pur minore, sempre notevole fu l'eco di tali avvenimenti in altre città italiane. Genova fu uno dei principali tramiti ad una diminuita produzione di metalli preziosi e di zucchero in Brasile e ad una contrazione delle importazioni (gr an o, tessuti) dall'Inghilterra. Il governo britannico attribuiva questa decadenza alla politica economica di Pombal); KENNETH R. MAXWELL, Conflicts and conspiracies: Brasil and Portugal. 1750-1808, Cambridge University Press, London 1973 (che meglio d'ogni altro spiega la duttile e realistica politica di Pombal) I Un indice dei legami commerciali tra gli stati italiani e il Portogallo vien fornito dalle perdite subite dai mercanti in seguito al terremoto del 1755: Inghilterra: 160 milioni di lire tornesi; Amburgo: 4o; Italia: 25; Olanda: 1o; Francia: 4; Svezia: 3; Germania: 2; JoXo LUCIO D'AZEVEDO, O marqués de Pombal e a sua época, in «Anuârio do Brasil », Rio de J anei ro 1922, p. 145, nota I. Uno degli incentivi che spinsero a creare una scuola di commercio a Lisbona, il 9 maggio 1759, derivava dalla necessità in cui si trovavano i portoghesi « to send to Venice and Genua for efficient clerks» (JOHN SMITH, Memoirs of the marquis of Pombal, Longman, London 1843, vol. I, p. 305). Uno dei principali opuscoli della polemica antigesuitica, l'Appendice alle Riflessioni del portoghese
sul memoriale del padre generale de' gesuiti presentato alla santità di pp. Clemente XIII felicemente regnante o sia risposta dell'amico di Roma all'amico di Lisbona, Genova 1759, diceva: «Lisbona è un opulentissimo emporio per il commercio de' genovesi... questi sono ben accolti, son ben veduti
nel Portogallo... alcuni de' loro cittadini passati in Lisbona a vender minute chincaglie col tavolino pendente al collo son ritornati a ll a patria pieni di splendore e carichi di lisbonine e sono stati i loro nomi scritti nel libro d'oro» (pp. 9-IO). 2 Sul contrasto diplomatico con Roma cfr.
Diplomatische Correspondenz aus den Jahren 1 759 und 1760 betref. der Verstrafung und Ausweisung der Jesuiten aus Portugal. Deutsch und im italienisChen Original, Dieterich, Göttingen 1850 e Collecçâo dos negócios de Roma no reinado de el rey dom José I, ministério do marquez de Pombal y pontificados de Benedicto XIV e Clemente XIII, a
cura di Julio Firmino Judice Biker, Imprensa Nacional, Lisboa 1874.
' Nel suo breve del 1° aprile 1758, diretto al cardinale Francesco de Saldanha, diceva: «noi vi stabiliamo visitatore apostolico e riformatore de' chierici regolari della Compagnia di Gesti », come $t,legge, ad esempio, in Raccolta di opuscoli cit., vol. I, p. 191. L'autore dell'immaginaria Conferenza spirituale tra il m. r. p. Gabriele Malagrida gesuita e madama la marchesa d. Eleonora de Tauora (in Delle cose del Portogallo cit., vol. XII, p. 39) mette sulla bocca di Malagrida stesso l'esclamazione: «Dio buono! si avrà da sentire che la nostra Compagnia abbisogna di riforme?» Difficile resistere alla tentazione di citare la descrizione di questo arrivo che ci vien data nella
Lettera del capitano Giuseppe Orebich raguseo contenente il ragguaglio del trasporto di cxxxllI padri gesuiti da Lisbona a Civita Vecchia, Genova 1759, p. 5. La navigazione era durata trentasette Bienni. «Vennero poi da Roma diversi carettoni accomodati a guisa di baracca, con un gran cesto . «Furono mandati de' rinfreschi a Montarone, osteria di mezza strada, dove dovevano riposarsi -ne» qualche ora. I 13 gesuiti che rimasero in Civita Vecchia per cinque giorni seguitarono a mangiare nel q!agazzino del Capolti... Ma considerando che il numero 13 era di cattivo augurio, uno di essi man816 separatamente dagli altri ». Cfr. quanto scrive il «Mercurio storico e politico », gennaio 176o, P. 9: «Il sig. d'Almada, ministro di Sua Maestà Fedelissima... ha fatto stampare e distribuire uno scritto... intitolato Lettera del cap. Erevich [sic], ragusino... Dimostrasi in questa lettera, contro un altro pieno di menzogne e di calunnie, che i detti religiosi non erano né nudi, né spogli, ma per loscritto contrario molto abbondevolmente provveduti d'ogni cosa...»
Capitolo primo
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«Delle cose del Portogallo»
attraverso il quale passarono in Italia le notizie provenienti dal Portogallo. Venezia, come abbiamo visto, fu il pii importante centro di stampa degli opuscoli filoportoghesi ed antigesuiti. Napoli divenne ben presto una delle basi pii sicure dell'azione portoghese in Italia. Là risiedeva, dal maggio del 1760, prima di passare a Madrid, a lla fine del 1763, José Ayres de Si e Melo, diplomatico portoghese strettamente legato alle idee giurisdizionaliste'. A Napoli, soprattutto, operava Tanucci, il pii importante uomo politico italiano impegnato nella lotta contro la curia romana. Venne cosí, in mezzo a molti contrasti ; a stabilirsi una prima confluenza tra le aspirazioni dei riformatori portoghesi e degli italiani. Un uomo, L. Antonio Verney, è come il simbolo di questo incontro 2 . Nato nel 1 717, era venuto a Roma nel 1736 «coll'intenzione di avanzarsi nello stato ecclesiastico». Diventato là dottore in teologia, nel 174o, visse negli anni immediatamente seguenti il suo periodo di scoperte e di entusiasmo, a contatto con quel gruppo di alti prelati che appoggiavano Muratori, quali Alessandro Borgia e Fortunato Tamburini, e che erano impegnati allora a discutere sulla riduzione delle feste di precetto, sui difetti della giurisprudenza, sulle usure, su diversi problemi religiosi e politici'. Guardando a Muratori, di cui fu grande ammiratore, e d'altra parte anche all'ambiente napoletano negli anni in cui Genovesi stava passando dalla teologia all'economia, Verney compi la sua formazione 4. Frutto ne fu un grosso libro, il Verdadeiro método de estudiar para ser útil à repu'blica e à igreja proporcionado a o estilo e necesidade de Portugal, che Gennaro e Vincenzo Muzio gli stamparono a Napo li nel 1746, che fu poi spesso ripubblicato e che costituí il vero e proprio manifesto delle riforme illuminate in Portogallo 5 . Combatteva, come disse chi riassunse le sue idee nel «Journal des sçavans» del 1762, «l'ignorante invétérée et le pédantisme immémorial». Vedeva le scuole ad altro non servire che « à éteindre le flambeau de la raison et du génie». «Les Galilées, les Descartes, les Gassendis, les Newtons, ces défenseurs de la raison, ' Le sue Cfr. la
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credenziali e lettere di congedo sono a NAPOLI, AS, Affari esteri 943. voce «Luis Antönio Vernei», di ANTONIO COIMBRA MARTINS, nel Diciondrio de histo-
ria de Portugal cit., vol. IV, 1971, pp. 27x sgg. Cfr. FRANCO VENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, vol. I, Einaudi, Torino 1972,
all'indice.
a LUIS CABRAL DE MONCADA,
ces réformateurs du monde, ces précepteurs du genre humain, sont traités en Portugal d'hérétiques et d'athées»'. Verney riponeva la sua fiducia nella scienza, nella tecnica. Lasciar da parte la metafisica e far appello agli uomini forniti di «merito fisico e reale», questo secondo lui il dovere e la convenienza dei «monarchi moderni». Seguendo l'esempio dello zar Pietro, si sarebbe dovuto coainciare col rinnovamento degli strumenti del sapere e dell'azione. «Tutte le arti e discip li ne su cui si raggira la felicità di una repubblica dipendono in gran parte dalla fisica... Sendo due i fonti, da' quali si deviva la pubblica felicità, vale a dire la conservazione de' popoli e la tranquillità dello stato, in ambe due queste parti è mirabile l'influenza della fisica moderna...» 2. Verney si diede dunque a scrivere, a conclusione dei suoi manuali di filosofia, di teologia e di metafisica, un'altra grossa opera, De re physica, quasi una somma della scienza moderna, dalla matematica a lla biologia'. Una enciclopedia, in realtà, ch'egli voleva adattata all a situazione portoghese come Diderot pensò alla sua per la Francia dei lumi. Sperò sempre nell'aiuto dell'autorità del suo paese in questa sfía attività di diffusore di cultura; ma esso gli giunse tardi e scarso. «Si trovò in un baratro d'inquietudini, che gli fecero tutto il male possibile e di pii gli rovinarono la salute, la borsa e fino „la speranza». Fini col ritirarsi in Toscana dove, negli anni del governo del generale Botta, poco di consolante gli toccò vedere attorno a sé. La situazione sembrava senza via d'uscita. «Gli uomini dotti si ritrovano fra due estremi pericolosi: da una parte vi è qualche fortezza e dall'altra il S Uffizio. Se uno progetta qualche cosa per il pubblico bene e per riformare i disordini, muore in fortezza. Se indica fin dove si può estendere la libertà del principe e la libertà del pensare, si riduce all'Inquisizione... dal che ne segue che in simili paesi mai si vedano fiorire le scienze, né la politica, né il commerzio, né altre cose che ne sono conseguenze » 4 . Quando vide che il marchese di Pombal faceva sul serio, espelleva i gesuiti, riformava l'università, adoperava l'Inquisizione come strumento «Journal des s Savans», dicembre x762, pp. 835 sgg., riprodotto in ANTONIO ALBERTO DE ANVernei cit., p. 604. E un'ampia recensione e riassunto d'una sua primi tentaminis Pro letteratura scientiisque instaurandis apud Lusitanos, Al. Le Prieur,Synopsis Parisiis 1762 (il testo ladro era accompagnato da una traduzione francese). 2 \ DRADE,
P.
LUIS CABRAL DE MONCADA,
Estudos de historia do dereito, vol. III: Século xvrtl: iluminismo
catolico. Verne y, Muratori, Acta Universitatis Conimbrigensis, Coimbra 1950 e ANDRADE, Vernei e a cultura do seu tempo, Acta Universitatis Conimbrigensis, Lisboa 1965, pp. 87
ANTONIO ALBERTO DE
(studi a Roma), Ito e 566 sgg. (ambiente romano), 299, 339, 493 e 684 (Genovesi). Libro questo ricco di materiale ma che manca d'una adeguata conoscenza dell'illuminismo italiano (p. 299, Giannone è detto «calvinista »). Sui rapporti con Genovesi cfr. PAOLA ZAMBELLI, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Morano, Napoli 1972, pp. 161 sgg. da 5 ANTONIO ALBERTO D'ANDRADE, Vernei cit., p. 453. L'edizione pii recente è quella curata Antonio Salgado Junior, presso l'editore Si da Costa, a Lisbona nel 1 949-5 2 .
9
Un «iluminista» portugués do século
XVIII: Luis Antonio Verney, lìnnenio Amado, Coimbra 1941, P. 156, lettera a Ayres de SA e e non a Francisco de Almada e Mendoza, come ha corretto ANTONIO ALBERTO D'ANDRADE, Vernei Melo cit., pp. 495 sgg•, 25 dicembre x765, da Pisa.
Apparatus ad philosophiam et theologiam ad usum lusitanorum adolescentium libri sex, N. e
M. Pagliarini, Roma 1751 2 (dedicata al re Giuseppe I); De re metaphysica ad usum lusitanorum adolescentium libri quatuor, G. Solomoni, Roma 1753, e De re physica ad usum lusitanorum adolescen-
tlttm libri decem, G. Salomoni, Roma 2 759.
Lettera a Ayres de Sâ e Melo, del 17 luglio 1768, da Pisa, in «iluminista » portugués cit., pp. 151-52. '
LUIS CABRAL DE MONCADA,
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«Delle cose del Portogallo»
Capitolo primo
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una politica duramente dispotica'. Accuse che riecheggiavano a Roma, sollevando problemi piccoli e magari meschini, ma vivamente sentiti. Non era necessario, diceva Tosetti, andar tanto lontano per trovare esempi di speculazioni e di sfruttamento operati dai gesuiti. Sotto gli occhi del papa e del popolo romano la Compagnia esercitava «un commercio non solamente vasto e lucroso, ma anche vile ed abietto. Cominciando dal vino, non solo lo vendono all'ingrosso, ma anche a minuto, tenendo bettole a conto loro. Anzi di piú fanno essi il vino, comprando l'uve coll'improntare ai contadini denaro anticipato, o grano nell'inverno, quando i miseri sono nella necessità e sono costretti ad accordare prezzi infimi» Dai castelli romani scendevano i carri del vino prodotto da questo « monopolio » dei gesuiti. In città, « alla casa professa del Gesú, si vendono tele d'Olanda, cacao, caffè, zucchero, porcellane, cioccolata, fazzoletti, merletti di Fiandra d'ogni genere, tabacchi, sete, velluti, panni d'Olanda, coltre dell'Indie ecc. » 2 . Facevano concorrenza ai laici con la spezieria del Collegio romano. Là si vendevano persino delle «pillole filosofiche», accompagnate da una pubblicità del genere: « Si fanno avvertiti i compratori per loro disinganno che chi vuol queste pillole sicure e sincere vada a' nostri collegi non esitandosi che da' religiosi nostri e vagliono mezzo paolo l'una in Collegio Romano»'. Al seminario si teneva «bottega di chincaglie, dove si vendono anche collari, calzette, panni, stamigne... Si vendevano nella quaresima i maritozzi e in tutto l'anno il pane a molti devoti... Ne' giorni di gran solennità, ne' quali è proibito a' fornari di fare e cuocere il pane, e che perciò non si può avere il pane fresco, nel seminario si fa e si cuoce, e perciò è maggiore lo spaccio». E chi poteva ignorare a Roma «il banco pubblico che tengono i gesuiti alla casa professa » ? Là essi speculavano sui cambi e sugli interessi, in concorrenza con la banca dei Belloni e di altri. Avevano «maggiori vantaggi nelle compre e ne' trasporti», profittando di «molte esenzioni» e andando incontro a ' Cfr. la Relazione breve della repubblica che i religiosi gesuiti delle provincie di Portogallo e di Spagna hanno stabilita ne' domini oltramarini delle due monarchie e della guerra che in esse hanno mossa e sostenuta contro gli eserciti spagnuoli e portoghesi, datata da Lisbona, 20 dicembre 1757. compresa nel volume I di Delle cose del Portogallo cit. Parlava dell'« assoluto manipolio de' cor- È pi ed anime» stabilito nel Paraguai (p. 12), della «usurparazione della libertà degl'indiani» cosí come dell'« agricoltura e del commercio» di quel paese (p. 25). Trecentomila famiglie erano state ridotte «corne altrettanti schiavi che servono i gesuiti per un tozzo di pane» (p. 107). Al che faceva contrasto la magnificenza, il lusso delle chiese della Compagnia. Z Riflessioni di un portoghese cit., pp. 73 - 74. Sui monopoli e le usure gesuitiche attorno a Roma si accese tutta una disputa. Cfr. la Dissertazione teologica sopra il presente dubbio: fra Pietro,
procuratore de' gesuiti nell'anno 1762, circa le feste natalizie sborsò a Pavolo scudi 12 e baiocchi75 con patto che nella vendemmia dell'anno 1763 dovesse darle e trasportarle nel tinello del convento 15 some d'uva... Si ricerca se tal contratto sia lecito o illecito, datata: Roma, 2 novembre 1763 e le Riflessioni sopra le dissertazioni contra le anticipate compre d'uva che si ripubblicano nello Stato ecclesiastico, principalmente da' gesuiti, conservate manoscritte a TORINO, BN, sotto la segnatura: Q', II, 15/9-IO.
Appendice alle Riflessioni del portoghese cit., p. 15.
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«minori spese di pigioni, di ministri, di garzoni ecc.»'. «Bisogna render loro giustizia: nell'arte di far danari sono eccellenti» 2. Polemica questa che ebbe larga eco in Italia e all'estero. In Portogallo la concorrenza con lo stato e soprattutto i grossi monopoli coloniali avevano portato alla loro caduta. I piccoli monopoli, gli antichi privilegi, le annose concorrenze alimentavano in Italia l'ostilità contro di loro e contribuivano a creare l'atmosfera che avrebbe presto portato alla loro rovina. Anche fuori di Roma troviamo le testimonianze d'un simile stato d'animo. A Venezia, a Napoli i processi suscitati attorno alle proprietà della Compagnia peseranno non poco, come vedremo, sulla sua sorte. Le «Nouvelles ecclésiastiques», fin dall'inizio di queste dispute, seguirono con attenzione la minuta cronaca dell'attività economica dei gesuiti in Italia. « Ils ont fermé les deux cabarets qu'ils ténoient » (al Gesú vecchio e alla Nunziatella, a Napoli ) diranno ad esempio il 16 gennaio 1763. A Nizza, quando nell'autunno del 1761 un gesuita venne allontanato perché sospetto d'aver fatto stampare senza autorizzazione un opuscolo apologetico, «les négotians, dont notre ville commence à se peupler — scrissero sempre le "Nouvelles ecclésiastiques " — et les apothicaires surtout verront avec plaisir prendre le même chemin à tous ses confrères qui sont restés içi»'. A Genova, ben noti erano il commercio e l'attività bancaria dei gesuiti Simili proventi eran certo «sottratti a' secolari di Genova per impinguarne la Compagnia » °. Né i gesuiti avevalà disdegnato di metter su «un'osteria, e magnificamente addobbata, ove, continuava ad accusarli un altro polemista, lautamente trattate, per soli quattro paoli a testa, se la godono le dame e i cavalieri vostri partigiani» 5. Il foglio dei giansenisti francesi non mancava un'occasione per dimostrare che i membri della Compagnia erano poco rispettosi dei regolamenti annonari e doganali dei vari stati e città dell'Italia 6. Ma il piú sensibile dei monopoli e la píú acuta delle concorrenze stava nelle scuole, nei collegi, nel mondo dei pedagoghi e dei librai. Anche ip questo campo l'esempio e l'incitamento erano venuti dal Portogallo. decreto di Pombal, del 28 giugno 1759, subito tradotto, aveva un pi-^l glio nuovo e ardito'. Anche quando si rifaceva ad esempi italiani, citanRiflessioni di un portoghese cit., pp. 76 79. ' Appendice alle Riflessioni del portoghese cit., -
2
p. 14.
3 «Nouvelles ecclésiastiques », 2 ottobre 1761.
' Appendice alle Riflessioni del portoghese cit., p. 9. 5 I gesuiti mercanti, opera illustrata con note interessanti, indirizzata al reverendissimo padre Ricci,ó generale della Compagnia di Gesú, Venezia 1768, p. xi. 6 gennaio 1763 (Firenze, Pistoia, Pinerolo), Io ottobre 1763 (Pistoia), 12 marzo 1764 (Fitenze). Cfr. i commenti e precisazioni di Giuseppe Bencivenni Pelli nelle sue Pfemeridi, vol. IX, P. 37, febbraio 1763, FIRENZE, BN, Mss N.A. 1050'.
Editto di S. M. F. il re di Portogallo per cui si aboliscono le scuole minori de' gesuiti e si
Proibisce il loro metodo d'insegnare e se ne prescrive uno nuovo cit. È ristampato nella Raccolta di
opuscoli cit., vol. V, pp. 68 sgg.
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do le riforme e i libri di testo piemontesi, veniva a disseppellire e render di nuovo attive ed efficaci esperienze ed idee per molto tempo da noi dimenticate o assopite'. Violente erano le accuse portate alla pedagogia gesuitica. Se tanto impegnavano i loro allievi nelle «minuzie della grammatica », se diffondevano « il cattivo gusto », era perché pretendevano « allucinare » i portoghesi onde « si conservassero e mantenessero in una soggezione e dipendenza da essi tanto ingiusta quanto perniciosa». Anche nell'insegnamento era tempo ormai di seguire l'esempio « di tutte le nazioni che si son fatte piú culte », istituendo un «metodo ridotto a' termini semplici, chiari e di maggior facilità che si costumano attualmente fra le nazioni culte in Europa » 2 . Questa «riforma» venne avidamente accolta e attivamente sviluppata in Italia. L'autore dell'Appendice alle Riflessioni del portoghese ricordò l'esempio della « corte di Torino' quando interdisse per sempre a' gesuiti le scuole e tarpò loro le penne» '. La rievocazione di Vittorio Amedeo II riapparve sovente in questa polemica'. Ripubblicando un vecchio pamphlet antigesuitico, la Neomenia tuba maxima, vennero rievocate le ragioni che avevano mosso «la grande anima di Vittorio Amedeo a comandare che mai in eterno ne' suoi stati non avessero i gesuiti l'educazione della gioventii». E, difatti, se ne vedevano «colà grandissimi vantaggi » 5 . Il mondo moderno ridava vigore a queste memorie del passato. Con gran soddisfazione si accoglievano le notizie d'una « novella riforma degli studi di Vienna» 6 . Con occhi sempre piú ostili si guardava a ll a diffusione dei manuali ispirati dalla Compagnia. «A Milano i gesuiti, di concerto con Giuseppe Marelli libraio e stampatore, fanno un monopolio de' libri scolastici non solo per quella città, ma per tutto lo stato e per ispacci arli vogliono che i loro scolari se ne proveggano con dire che i soli libri Per l'insegnamento del latino citava le Istruzioni per le scuole di Torino di BERNARDO ANDREA (ibid., p. 18, nota 3) e cosí pure per quel che riguarda l'uso della «critica» e della «filologia» si rifaceva a questo medesimo testo dell'età di Vittorio Amedeo II (ibid., pp. 19 e 32). Numerosissime erano le citazioni delle opere di Portoreale, di Rollin, Lamy, Fleury, oltre ad un manuale «che compose il nostro Ludovico Antonio Verney» (ibid., p. 16). Per il greco si consigliava «anche la collezione di Patuza fatta per uso dell'Accademia reale di Napoli, stampata in 2 tomi in 8°, Venezia, nell'anno 1741 » e Cioè JOHANNES PATUSA ATHENIENSIS, ETKYKAOIIAIAEIA OIAOAOFIKH et locuples omnis generis Graecorum auctorum delectus usui adolescentium rbElevuriv‘xwv, Franciscus Pitteri, Venetiis 1741, in 2 voll. Editto di S. M. F. il re di Portogallo cit., pp. 3-4. Per un tentativo di riforma scolastica a Lisbona di quegli anni, cfr. ROMULO DE CARVALHO, História da fundaçâo do Colégio Real dos Nobres de Lisboa (1761 - 1772), Atlantida, Coimbra 1 959. Appendice alle Riflessioni del portoghese cit., p. 38. 4 Cf r., ad esempio, la Lettera prima intorno la Bolla che comincia Apostolicum pascendi dominicae gregis munus, Sebastian Poletti, Napoli (Venezia) 1765, p. 71: «nell'università di Torino fiorisce meravigliosamente la letteratura, ma i gesuiti non hanno voluto assogettarsi giammai ai regolamenti del re e piuttosto che mettere le loro scuole sul piano stabilito dal sovrano hanno amato di perdere tutti gli scolari in Torino». Delle cose del Portogallo cit., vol. IV, p. 38, nota. 6 Cristoforo Migazzi arcivescovo di Vienna all'emin. Crivelli, legato Apostolico, in Raccolta di varie scritture e documenti cit., p. 135. LAMA, p. 166
«Delle cose del Portogallo»
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stampati dal Marelli son corretti, e scorretti tutti gli altri» '. Un polemista, forse Gioacchino Faranca, scrisse un vivace libretto per distogliere le famiglie nobili dal continuare a mandare i loro figli nei collegi della Compagnia. Citando Saint-Evremond e Locke sosteneva che la disciplina, l'uniformità vi erano evidentemente eccessive. « Se col ferreo pettine dell'autorità si volessero a forza trar nello studio tutti colla stessa massima e collo stesso modo, molti ne soffrirebbero violenza e benché alcuni piegassero, pure l'odio di siffatta collera diverrebbe universale in tutti; resterebbero insomma molti assoggettati, ma pieni di odio per lo studio, ch'è quanto dire, in buoni termini, schiavi de' gesuiti e ignoranti» 2. «Il sovrano di Portogallo, illuminatissimo nelle vere massime del buon governo, ha dato una innegabile prova del genio che ha di render felici i suoi popoli nel nuovo metodo degli studi ordinato ne' suoi regni. Egli rileva che non può essere felice un popolo di ignoranti e che, seguendosi il piano tenuto dai gesuiti, dee per necessità il suo popolo essere ignorante»'. Otto o nove anni di grammatica latina erano un « assassinio della giovent i». «Proprio nell'età in cui i fanciulli hanno l'animo piú sofferente, la memoria piú tenera, la fantasia sgombra da molte tracce, si potrebbero insegnar loro mille cose più utili e piú necessarie ad un uomo colto. Potrebbero imparar le lingue viventi, che adornano assaissimo un giovane cavaliere, gli elementi di geometria e della storia, la geografia e sopra tutto i veri principi generali della buona filosofia, i quali sono i semi di tutta la scienza, di tutti i pensieri e di tutte le azioni della vita civile». Né sarebbe mancato loro il tempo per imparare la grammatica latina, «la quale da per sé non esige che lo studio di pochi mesi» Una simile riforma venne ben presto considerata anche politicamente essenziale. Bisognava ridare ai giovani il senso dell'autentica eloquenza, prendendo a modello «le singolari scritture dei parlamenti di Francia, le nervose orazioni de' veneti senatori». Nel Cinquecento erano '.
' Critica di un romano alle Riflessioni del portoghese cit., p. 57. 2 Lettera seconda ad una dama dubbiosa se debba ritirare i suoi figliuoli dal collegio de' gesuiti; in Delle cose del Portogallo cit., vol. X, pp. 16-17. Il permesso accordato all'editore Giuseppe Bettinelli di stampare quest'opera è del 4 agosto 1760 (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). Lettera seconda cit., p. 17. ° Ibid., p. 18. Un poemetto, L'ombra della marchesa di Tavora alle dame e cittadine d'Italia, Genova 1760 (riprodotto nelle Novelle interessanti in proposito degli affari del Portogallo cit., III, pp. 55 sgg.) invitava la repubblica di Venezia a proseguire la sua politica contraria ai gesuitivol. e
aggiungeva: «Rimane sol che, con uguale impegno, I le scuole lor si tolgano e i fanciulli, I perché non gli corrompano l'ingegno né il seme di virai si perda e annulli; I l'ha fatto altro monarca nel suo regno, gesuita non v'è che si trastulli colà né punto o poco s'imbarazzi I a staffilar le natiche ai ragazzi » (ibid. , p. 13). Un altro opuscolo, pid tardo, ripeteva ancora l'accusa ai gesuiti di essere «maestri incalliti da quel pedantesco esercizio» (la grammatica). Lettera inedita del padre Anton
Maria Benucci gesuita della Casa professa del Gesu di Roma al padre D. Antonio Caramelli abate camaldolese in Arezzo intorno agli sconcerti della Compagnia, pervenuta a Venezia il giorno 30 luglio 1767, Venezia 1767, p. vili.
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ancor fioriti « oratori di vaglia, ultimi avanzi delle buone scuole italiane». Poi erano venuti i gesuiti e «la vera eloquenza » era scomparsa'. «Traslati, riboboli, fioretti,... vuote parole, amene descrizioni, inutili digressioni» avevano riempito i libri scolastici Z. Se si continuava ad andar a scuola da gesuiti, ogni riforma, ogni effettivo mutamento sarebbe rimasto impossibile. Sempre sarebbe «uscito sul palco un consigliere del czar 'Pietro a dissuadere al suo sovrano il commercio e il cambiamento degli antichi vestiti, colla fondamentale ragione che i moscoviti fecero sempre cosí» 3 . La polemica, come si vede, andava rapidamente allargandosi e approfondendosi. L'intera cultura moderna veniva contrapposta alla tradizione delle scuole gesuitiche. Come scrivevano nel 176o le Novelle interessanti in proposito degli affari del Portogallo, «il Galileo, quel grande ingegno italiano..., benché secondato dal famoso p. Paolo Sarpi, dal Santorio, dal Torricelli, dal Viviani e da tanti altri famosi filosofi, nonostante non valse a far accogliere le sue dottrine nelle scuole gesuitiche». « Successivamente un Cartesio, un Newton, un Mariotte, un Mersenne, un Pascal e tanti altri illustri filosofi» non avevano potuto penetrarvi. La Compagnia era cosí riuscita a frustrare il gran piano di riforma culturale di «Bacone da Verulanio, lume chiarissimo di Inghilterra»'. Aspramente conteso in questa disputa fu soprattutto il nome di Ludovico Antonio Muratori'. ' Lettera seconda cit., p. 25. z Ibid., p. 26. 3 Ibid., pp. 56-57. Novelle interessanti in proposito degli affari di Portogallo cit., vol.
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I, p. 238. gesuiti avevano buon gioco a ricordare come egli avesse scritto una sorta d'apologia delle colonie del Paraguai. Gli avversari obiettarono che si era trattato unicamente d'un gesto di compiacenza di quel grand'uomo. Le notizie che venivano da Lisbona erano del resto, aggiungevano, ben altrimenti probanti del libro di Muratori. Come contrapporre la sua testimonianza, lontana e indiretta, ad una « relazione presentata da un re a un papa», da Giuseppe I di Portogallo cioè a Clemente XIII? (Risposta alla lettera scritta da un gesuita sul discuoprimento della congiura contro il re di Portogallo, Lisbona [Venezia] 176o, p. 32). E non erano forse stati proprio i gesuiti ad attaccare Muratori con gran violenza quando ancora era in vita? « Che non hanno detto e non dicono, e che non hanno stampato contro il buon Muratori, fino a chiamarlo in pulpito: stronzolo del diavolo...» (Critica di un romano alle Riflessioni del portoghese cit., p. 24). Le «Nouvelles ecclésiastiques » del 17 aprile 1758 avevano ricordato come Muratori fosse stato trattato da eretico dai gesuiti. « Au reste — avevano aggiunto — les écrits que Muratori a donné pour sa défense sont pleins d'érudition et ceux des Jésuites ou de leurs partisans contre lui pleins d'injures et d'impostures». Certo Muratori, dovevano ammetterlo, aveva « qualche poco adombrata la sua gloriosa fama per blandire e difendere i gesuiti scrivendo quel miserabile e dispriegevole libro sopra le missioni del Paraguai», diceva l'autore della Critica di un romano alle Riflessioni del portoghese cit., p. 27. La Lettera terza ad una dama dubbiosa se debba credere vicina la soppressione de' gesuiti, in Delle cose del Portogallo cit., vol. XII, p. 26, parlava del «pio Muratori» tratto in inganno dalle relazioni de' gesuiti, «da quel loro romanzo intitolato Lettere edificanti». Le Novelle interessanti in proposito degli affari del Portogallo cit., vol. I, pp. 4 - 5 n., assicuravano che «l'autore, che in proseguimento avea avuti lumi più sinceri e più fedeli, poco innanzi la sua morte di non altro più altamente lagnavasi di aver composto esso libro, a cui, parlando co' suoi amici, dava il nome di romanzo ». I gesuiti rispondevano che, se avevano discusso di teologia con Muratori, non per questo l'avevano condannato e maledetto. Non era vero che il padre Pepe a Napoli lo avesse posto in inferno parlando di lui al momento della sua morte. «Hanno veramente scritto alcuni gesuiti contro di lui per la concezione e sulla divozion reI
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Politicamente la discussione suscitata dagli avvenimenti portoghesi si colorò di odio contro il dispotismo (parola spesso usata per definire la politica della Compagnia nel Paraguay) e di timore insieme delle idee tirannicide attribuite ai gesuiti, cosí come delle rivolte popolari che essi vennero insistentemente accusati di voler suscitare. Il governo di Lisbona toccò continuamente questi tasti, parlando della disumanità del sistema coloniale instaurato dai gesuiti, accusandoli e processandoli per l'attentato al re Giuseppe I e assicurando che, in Portogallo, essi erano ricorsi ad ogni possibile mezzo per agitare il popolo. Al momento del terremoto di Lisbona avevano profetizzato orribili punizioni divine scatenate dai peccati e dalle colpe dei governanti. Contro la Compagnia istituita da Pombal per la coltivazione e il commercio del vino dell'Alto Duero avevano «commossa» con una « sedizione » la città di Oporto'. Le notizie del processo, delle esecuzioni capitali, dei roghi diedero un colore sempre piú tragico e fosco alle accuse lanciate contro i gesuiti. Deposizioni, confessioni, commenti, poesie, illustrazioni, tutto fu messo in opera per persuadere l'Italia che la Compagnia di Gesti costituiva un effettivo, impellente pericolo Z. Quando a Lisbona usci, in due volumi, il golata e, se si vuole, con qualche impegno e vivacità...» Ma Muratori restava pur sempre, anche per loro, «l'uomo che dell'italica letteratura si bene meritò » (Lettera del portoghese autore delle Rifles-
sioni... al romano autore della Critica alle medesime Riflessioni, 176o, in Raccolta di apologie cit., vol. XIII, pp. 20-21). Anche questo opuscolo è di F. A. Zaccaria. Cfr. la riedizione del suo Antif ebronius, X. Renaudière, Bruxelles 1829, vol. I, p. xvi. Zaccaria insisteva dicendo che non si poteva
Supporre Muratori né incapace di distinguere tra le buone e le cattive fonti, né trascinato da molta simpatia per i regolari: «Non sarà chi gli contrasti mai una somma perizia nel discernere i monuti veri da í supposti, sieri antichi, sieno recenti. Dunque non e egli un testimonio ingannato ' gesuiti o da' loro terziari. Se gli potrà opporre qualche adulazione alle famiglie secolari e più che qualche attaccamento a' suoi duchi, a i re, a gl'imperatori, ma chi ha scorso almen di passaggio questa gran selva degli scrittori delle cose italiane da lui posta in ordine e molto più chi ha posto pié fermo in quel boschetto, dirò cosí, della sua mezzana età, è costretto a giurare che non è punto
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de lle famiglie religiose, anzi nemico giurato de' loro beni ed acquisti temporali. Dunque il non può essere stato un testimonio subornato da' gesuiti o da' loro terziari» (Il cornier
Muratori
zoppo con quattro lettere di risposta all'autore delle Riflessioni sul memoriale dato al papa dal padre generale de' gesuiti a' 31 luglio 1758, Gino Bottagriffi, s. 1. 1761, p. 57). Inaugurando la biblioteca di Modena nel 1764 lo chiamava: «l'immortale mio antecessore», «l'incomparabile concittadibo vostro, o modenesi» (Nel solenne aprimento della pubblica libreria di Modena. Orazione di &rancescantonio Zaccaria della Compagnia di Gesú, bibliotecario di S. A. S., Eredi di Bortolommeo Soliani, Modena 1764, pp. vu e xui). La polemica di Zaccaria contro Muratori ispirò pure il grosso opuscolo intitolato Errori di stampa notati nel libro II, cap. II del tomo XII della Storia lettera-
ria d'Italia a proposito dell'estratto formato all'Epistola parenetica Lamindi Pritanii redivivi ed emendati da Diego Ferrando Tozeida prete portoghese, in quattro lettere dell'autore del Supplemento di Lucca, Francesco Gaipa, Messina (Venezia) 1759. Deduzione abbreviata degli ultimi fatti o procedure de' gesuiti di Portogallo cit., in Raccolta lat opuscoli cit., vol. I, p. 78. Cfr. FERNANDO DE OLIVEIRA, O motim popular de 1757. Uma pagina na historia da época pombalina, Facultade de letras de la Universidade, Porto 193o. x I sei tometti della Raccolta di opuscoli cit. sono pieni di queste cose. Essi vennero accompa'
gnati da una incisione in cui si vedevano raffigurati i principali momenti dell'attentato e del procesio, con diciture esplicative. I voll. III, IV e V Delle cose del Portogallo cit. contengono pure una mmpla documentazione in proposito. Cfr. GUILHERME G. DE OLIVEIRA SANTOS, O caso dos Tdvoras, Libreria Portugal, Lisboa s. d. (ma 1959), che riproduce anche alcune delle incisioni diffuse in que81t anni in Francia su questi avvenimenti. Uno dei pubblicisti coevi fece giustamente notare quale novità rappresentasse la grande e diffusa pubblicità data alle inchieste e alle condanne del processo contro i nobili e i gesuiti del Portogallo. « Io non trovo in alcuna storia moderna che le corti si sia-
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A voi ne vengo, del mio sangue aspersa, alme ben nate, che in orrore avete l'empietade e l'inganno e la perversa ipocrisia che regnar vedete...
piú violento attacco ai gesuiti che di là giungesse allora, sotto il titolo di Deduzione cronologica e analitica, un libraio veneziano «per appagare
l'impazienza di quelli che bramano vedere le cose avvenute ai giorni nostri nel Portogallo e le confessioni della reità dei gesuiti nell'attentato regicidio », si affrettò a tradurre e pubblicarne un grosso capitolo'. I pericoli corsi dalle colonie americane erano naturalmente sottolineati, cosí come le « altre innumèrabili pastocchie e sedizioni che avrebbero fatto cadere i popoli del Portogallo nel piú pazzo fanatismo », se non fosse intervenuto il governo di Pombal 2 . «L'orrenda sollevazione » del 23 febbraio 1757, a Oporto, era minutamente descritta'. Sinistra era stata l'opera del « sinedrio gesuitico » formatosi in Portogallo, Spagna e Italia `. Soltanto la vigilanza dei sovrani di questi tre paesi aveva potuto sventare tanto oscure trame. Tornava il ricordo di vecchi, tragici esempi, come quello della congiura delle polveri, in Inghilterra. Le pagine storiche di David Hume s'inserirono cosí in questa ansiosa atmosfera 5. Gli esempi cinquecenteschi della Polonia vennero pure evocati 5 . Né mancò, a Venezia, chi attribuí i torbidi e le guerre presenti di quel paese alle radici gesuitiche e controriformistiche che nei secoli addietro là si erano impiantate'. Né mancarono, da parte filogesuitica, le insinuazioni d'un possibile sviluppo protestante della politica di Pombal. Del resto, anche tra i portoghesi ci fu almeno uno scrittore, Francisco Xavier de Oliveira, che lanciò un appello per una riforma religiosa ispirata al modello inglese 8. Attorniato da questa notevole ricchezza di suggestioni europee, l'esempio portoghese si fece in Italia sempre più persuasivo ed efficace, giungendo a toccare le più riposte fibre del sentire morale e politico. Un ignoto verseggiatore evocò L'ombra della marchesa di Tavora alle dame e cittadine d'Italia per fare appello alla loro coscienza, alla loro intima ribellione di fronte al mondo corrotto e falso che le circondava: no credute in obbligo di pubblicare gli atti contro gli autori d'una congiura, non trovo né meno delle relazioni circostanziate di tali avvenimenti...» (Risposta alla lettera scritta da un gesuita sul discuoprimento della congiura formata contro il re del Portogallo, Venezia 1760, p. 5).
Prove e confessioni autentiche estratte dal processo che dimostrano la reità de' gesuiti nell'attentato regicidio di S. M. F. Don Giuseppe I re di Portogallo e compendio di quanto è passato nel suo regno dal di 31 luglio 1750 alla sua espulsione, Venezia 1768, P. 4. z Ibid., p. 24. Ibid., p. 28. Ibid., p. 83. Storia dettagliata della congiura delle polveri seguita in Londra, in cui vi furono implicati i rr. pp. gesuiti, scritta dalla penna celebre dell'inglese sig. Davidde Hume, Venezia 1767. Delle turbolenze di Polonia perpetuate dai pp. gesuiti, opera di un nunzio della dieta trasportata dalla lingua pollacca, Graziosi, Venezia 1767. Cfr. il memoriale dell'agostiniano Valentino Busa ai Riformatori dello Studio di Padova del 7 agosto 1769: «Ne risente pur troppo in oggi gl'irreparabili danni la infelice Polonia e ne rinnova le lugubri scene che i secoli antecedenti compiansero in piú altri meno incolti e meno irregolari governi del cristianesimo » (VENEZIA, Museo Correr, D'nà delle Rose, 341, n. 14). Cfr. ANTONIO GONÇALVES RODRIGUES, O protestante lusitano. Estudio biogràfico e critico sobre o cavaleiro de Oliveira. 1702- 1783, estratto da «Bibles», vol. XXVI, 195o. •
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Anche le dame avevano il dovere di leggere i libri e gli opuscoli che da Roma giungevano a snebbiare gli animi e le menti, cosí come dovevano appoggiare gli stati italiani, come Venezia repubblica saggia e benedetta, custode fedelissima del vero
che riprendevano a lottare contro la Compagnia mentre invece l'Italia accoglie i preti scelerati,
mentre cioè lo Stato pontificio ospitava i gesuiti cacciati da Pombal Propaganda e contropropaganda penetrarono nel profondo della società italiana, producendo reazioni diverse e contrastanti a seconda delle regioni e dei ceti. A Milano i gesuiti, «dividendosi le mansioni, i luoghi,.., le persone da vincere e da espugnare, ritornavano festosi a casa con un'abbondante raccolta di lagrimevole credulità». Erano giunti al punto, pare, di «dichiarare eretico quel pio monarca [Giuseppe I], ebreo il suo ministro [Pombal]» _. A Napoli, dicevano le «Nouvelles ecclésiastiques», i gesuiti non godevano di credito alcuno a corte, «quoique il y ait encore qudiques seigneurs qui leur sont favorables». «Les hommes de la seconde classe » erano convinti che i gesuiti erano « des misérables ». Il popolo invece vedeva in loro « des saints calomniés»'. Certo la propaganda dei gesuiti non era rimasta senza efficacia sulla plebe. «Non si sente altro che ripetere dal popolo minuto se non esser falso l'attentato contro la vita del re di Portogallo, da alcuni che non fu ferito, da altri che si ferí da se stesso, che a questi [i gesuiti], nel condurli al patibolo, fu tenuta coperta la bocca con uno sbandaccio acciò non manifestassero al popolo le vere cause della sua morte...» Il popolo pareva impermeabile alle parole che in Italia facevano eco agli avvenimenti del Portogallo. Agli antigesuiti non restava che la loro profonda convinzione: «il mondo risvegliato » si sarebbe sempre piú allargato e avrebbe compreso un numero sempre maggiore di persone I risultati complessivamente non erano infatti trascurabili. «L'Italie commence a sortir de son assoupissement», dicevano le «Nouvelles ecclésiastiques » 5. Un pamphlet italiano dello stesso anno sembrava far eco '.
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L'ombra della marchesa di Tavora cit., pp. 3, 13, 1o. Scoperte interessanti circa l'impegno che molti dimostrano per la difesa e gloria dei religiosi
della Compagnia di Gesti esposte in una lettera diretta ad un pubblico ministro, in Raccolta di varie
Scritture e documenti cit., pp. 269 7o. -
«Nouvelles ecclésiastiques », 16 aprile 176o. Raccolta di opuscoli cit., vol. IV: Prefazione dello stampatore di Lugano, 1° marzo 176o, p. 7. 5 «Nouvelles ecclésiastiques », 27 febbraio 1761. 5
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a questo giudizio: « I micini hanno aperto gli occhi, come dice il nostro. proverbio fiorentino. Il gusto della critica e delle metafisiche, i tanti metodi di ben pensare e di formare l'idea chiara e consistente delle cose, l'aiuto delle geometrie e dell'algebre, i principi del gius pubblico, l'osservazioni pratiche sopra gli accidenti umani:.. in somma il modo presente di studiare, facile, sodo, chiaro e adattato per fino alla dilicatezza delle dame piú festose, hanno sminchionito il mondo,... il mondo illuminato non si appaga piú di belle parole» Certo la pioggia di libri e di discussioni che era nata attorno alla Compagnia aveva dato nuovo vigore ad una universale curiosità. «Questi libri... corrono per le mani di tutti e persino delle donne... Da tutti sono con prodigioso gusto assaporati e gustati...» «Li leggono i principi», diceva Gioachino Faranca, rivolgendosi ai gesuiti, « ed avrete veduto che imparano a tenervi gli occhi addosso, a diffidar di vgi ed allontanarvi dalle loro corti... Li leggono, sí fatti libri, i ministri di stato ed imparano a cautelarsi di voi... Li leggono tutti i religiosi degli altri ordini Li leggono i ricchi... Li leggono i nobili... Li leggono i poveri ed imparano a gridar vendetta del sangue che avete loro, colla vostra insaziabile avidità, succhiato dalle vene. Li leggono i mercatanti e concepiscono mortale invidia dell'usurpato loro commercio. Li legge la plebe, e raccapricciata di tanti vostri eccessi, comincia già a mostrarvi a dito, come fa il sabato dietro agl'ebrei ed a farvi pubbliche fischiate, come fa a quelli che vanno in gogna per ladronecci e, come mi fu scritto esser seguito ultimamente in Genova, per esservi impicciati per fino nel bel mestiere di macellai» 2 . Ma questa nuova mentalità penetrava lentamente. Le resistenze, le reazioni non mancavano. Tanto violenta e truculenta era la propaganda portoghese che non pochi dovettero essere, anche tra gli uomini colti, a condividere l'opinione di Giuseppe Baretti, che proprio in quegli anni fu a Lisbona nel suo viaggio di ritorno dall'Inghilterra in Italia. Aveva seguito con interesse la campagna contro i gesuiti, che aveva fissato sul Portogallo «the eyes of all Europe » 3 . Ma come prestar fede a tante af'.
Lettera d'un cavaliere amico fiorentino al reverendissimo padre Lorenzo Ricci, generale de' gesuiti esortandolo ad una riforma universale del suo ordine, Lugano (Venezia) 1762, pp. 9-IO. (Cfr. l'autorizzazione, del 26 luglio 1761 in VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). Il 22 afferma che «di questa lettera se ne sono fatte in due anni tre edizioni» e segnala questa «edizione seconda, migliorata», del 1762. « scritta — dice — con del brio e della vivacità e l'autore dee essere probabilmente fiorentino». « tirata a maraviglia ed è un capo d'opera» (ibid., p. 37). A p. 218 quest'opuscolo era attribuito allo stesso autore della Lettera
« Giornale gesuitico», torno III, p.
del Magnifico Signor Antonio Zatta a Sua Eccellenza il Signor duca di *** (cioè d'Aquara, napoletano di casa Spinelli), Firenze 1761, uno dei piú violenti pamphlets contro l'editore veneziano filogesuitico, cosí come della Risposta ad una dama se si debba credere vicina la soppressione de' gesuiti
e di altre simili scritture. Si tratterebbe cioè di Gioacchino Faranca.
Lettera d'un cavaliere amico fiorentino cit., pp. 13-15. A journey from London to Genoa through England, Portugal,' Spain and France, T. e L. Davies, London 17703 , vol. I, p. 261. 3
JOSEPH BARETTI,
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fermazioni del governo di Pombal? Come supporre intenzioni tanto violente e scellerate nell'animo di ecclesiastici che egli aveva sempre conosciuti timidi, vergognosi, paurosi, incapaci di ogni coraggio militare? Era caratteristico il fatto, diceva, che l'epurazione aveva colpito innanzitutto gesuiti italiani, a cominciare da Gabriele Malagrida. Ma anche cosí le misure prese dal governo restavano incomprensibili. In realtà i membri della Compagnia non erano pericolosi come sovversivi o come regicidi, bensí come «indefatigable accumulators of riches»'. Il silenzio voluto dall'autorità era sceso su di loro all'interno del Portogallo, mentre all'estero si erano moltiplicati gli sforzi per discreditarli e combatterli. «Great trouble is taken by means of the press at Lucca, Venice, Lugano and other places to cry them down as murtherers» 2 . Verso l'Italia era stato diretto il grosso della propaganda portoghese. Là le tradizioni locali erano particolarmente pronte ad accogliere questi nuovi incitamenti che giungevano da lontano. Anche Baretti rievocava l'azione di Vittorio Amedeo II, cosí come i conflitti della grande scuola galileiana 3 . Un gran vento di ricordi, di antiche dispute, d'inveterati rancori scatenò infatti, un po' dovunque in Italia, l'azione di Pombal. Furono riprese le vecchie controversie sulla casistica, sul probabilismo, sui riti orientali, sulle missioni in India e in Cina. Molti dei numerosissimi opuscoli e libri usciti attorno al i 760 furon rivolti al passato, rinverdendo vecchie dispute di scuola e di sacrestia. Difficile misurare l'effettiva importanza di queste insistenze e di questi ritorni su vecchi temi e su lontane controversie. Certo èsse contribuirono a concentrare su un unico nemico, il gesuita, i risentimenti e le rivolte contro il cattolicesimo della controriforma. Uno solo l'avversario, la Compagnia di Gesú. La sua soppressione fu sperata 'e sentita come la promessa di un'epoca nuova, nella morale come nell'economia, nella religione come nella politica. I gesuiti si sforzarono di porre un argine al torrente della propaganda dei loro nemici, anche con immagini e incisioni. Ma il clima stava rapidamente mutando ed essi trovarono ostacoli dove meno se l'aspettavano. Cercarono ad esempio, con l'appoggio dell'abate Giuseppe Casale, fratello « del celebre mulattiere Boccalippa e agente in Roma della repubblica di Genova » e con l'aiuto del generale dei gesuiti, che era allora un genovese, il padre Centurione, di far proibire la circolazione in Liguria JOSEPH BARETTI, A journey cit., VOL I, p. 268. Ibid., p. 269. 3 Ibid., p. 291. Sui giudizi di Baretti e sulle polemiche che essi suscitarono si veda la documen-
a
tata introduzione posta da Maria Eugénia de Montalvâo Freitas Ponce de Leào alla sua versione delle Cartas de Portugal pubblicate nella «Revista de Universidade de Coimbra », vol. XXI (1970), PP. 331 sgg.
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del famoso opuscolo di Tosetti, le Riflessioni d'un portoghese. Ma invano: evidentemente Genova non aveva nessuna intenzione di far un favore a Clemente XIII e al cardinale Torrigiani, con cui era in conflitto per le faccende della Corsica'. Si sarebbero mostrati più accomodanti gli Stati sardi? Il tentativo di stampare a Nizza un opuscolo filogesuitico portò alla cacciata del reggente del collegio della città e contribuí a suscitare un clima di speranza da una parte e di recriminazioni dall'altra. Nella contea, nel 1761 c'era già della gente che « se plaignoit avec amertume que le fanatisme, le jansénisme, l'irréligion commencent à pénétrer dans les Etats de Savoye» 2. Restava, a Modena, il padre Zaccaria, fecondo e virulento scrittore, il gran paladino della Compagnia. La cosa era tanto piú dolorosa per gli avversari di questa in quanto Zaccaria occupava la funzione di bibliotecario degli estensi, posto che era stato quello di Muratori. E, ben inteso, si atteggiava a suo erede e continuatore. Resistette a lungo, ma nel 1768 cadde anch'egli e dovette allontanarsi da Modena in seguito alla pubblicazione d'un suo scritto contro Febronio'. Restava Venezia, il gran mercato librario dove i gesuiti potevano sperare di creare un centro di propaganda da contrapporre alla massiccia azione dei Colombani, dei Bettinelli, dei Bassaglia. Con l'indicazione infatti di Fossombrone, di Firenze, di Milano, di Venezia stessa, il libraio Antonio Zatta andò rapidamente moltiplicando gli opuscoli, le collane, i fogli volanti. Diciotto volumetti, ai quali ne seguirono ancor quattro fuori collana, fini col comprendere la sua Raccolta d'apologie edite ed inedite della dottrina e condotta de' pp. gesuiti in risposta agli opuscoli che escono contra la Compagnia di Gesú ` Cominciò, naturalmente, col rispondere ai « due famosi libelli conosciuti pur troppo nel mondo col titolo di Riflessioni e di Appendice, sorgente ambidue copiosissima de lle stomachevoli maldicenze, delle orrende imposture... » s. Sostenne che questo suo opuscolo era stampato da un immaginario editore di Fossombrone (la patria del cardinal Passionei), da lui chiamato Gino Bottagrifi ; o Bottagriffi, nome composito di Giovanni Bottari e Pier Francesco Foggini, fra i piú attivi scrittori del giansenismo
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L'opuscolo era opera del padre Zaccaria. I suoi argomenti non molto incisivi. Si limitava a ripetere senza tregua che i nemici delerano la Compagnia erano colpevoli di leggere e di utilizzare nella loro polemica anche gli scrittori eretici d'oltralpe 2 . Quanto all'attività economica dei gesuiti: « Sogni sono, monsignor mio ». Avevano pure il diritto, rispondeva, di smerciare quel che ricevevano come tributo. «Fingete che in Italia noi preti non potessimo smerciare i nostri grani e dovessimo mandare a vendere nell'Inghilterra... Potrebbesi dire con verità che noi preti traffichiamo? » Si voleva forse proibire ai gesuiti di trasportare da un paese all'altro, da un continente all'altro, « de' libri, de' rosari, delle medaglie e cento tai cose» indispensabili al «lusso sacro nelle chiese», «per magnificenza della religione in faccia all'idolatria»'? Né i gesuiti erano i soli ad avere delle «pubbliche spezierie». «E non l'hanno i barnabiti in Macerata, i domenicani di S. Marco in Firenze (almeno l'aveano di questi anni, seppure il conte di Richecourt non gliela fece serrare, come costà è voce), i benedettini in più luoghi e qui in Milano poi altri religiosi? » A. La discussione sui gesuiti, allargandosi, finiva cosí col coinvolgere l'intero regno dei frati e monaci. La difesa dei collegi era anch'essa scarsamente originale da parte del padre Zaccaria. Piangevan continuamente miseria questi gesuiti, protestando che falsamente si attribuivano loro scuole ricche e pingui rendite. Cercavano d'altra parte di coprirsi con grandi nomi, come con quello dell'« avvocato Goldoni», che pubblicò 165 ottave di consimili versi: romano.
Noto non v'è con qual' amore e zelo sono i figli educati ai gesuiti?
.
Appendice alle Riflessioni del portoghese cit., p. 8. Z «Nouvelles ecclésiastiques », 2 ottobre 1761. J. KÜNTZIGER, Fébronius et le fébronianisme, in «Mémoire de l'Académie royale des sciences, des lettres et des beaux arts de Belgique», tomo XLIV (1889), pp. 88. Su Francesco Antonio Zaccaria cfr. ARTURO CARLO JENIOLO, Stato e chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, 2' ed. a cura di Francesco Margiotta Broglio, Morano, Napoli 1972, p. 401. Per la sua attività in un periodo posteriore, cfr. GIUSEPPE PIGNATELLI, Le origini settecentesche del cattolicesimo reazionario, in «Studi storici», anno xt (197o), n. 4, PP. 755 sgg• Cfr. l'Avviso in calce al torno XVIII. Vedi un opuscolo pubblicitario senza titolo, di 16 pp. che contiene in calce il Catalogo dei suoi libri.
' Lettere dell'abate N. N. milanese ad un prelato romano, apologetiche della Compagnia di Gecontro due libelli intitolati Riflessioni sopra il memoriale presentato da' pp. gesuiti alla santità di papa Clemente XIII felicemente regnante e Appendice alle Riflessioni..., Gino Bottagrifi e compagni, Fossombrone 176o. Sugli pseudonimi di Zatta cfr. Sonetti di F. Giovanni Zoccolante veneziano colla risposta di F. Paraclito livornese e le annotazioni di F. Andrea da Fucecchio, amendue eremitani, Lugano (Venezia) 1763, p. 93: «nome anagrammatico di Gino Bottagrifi, monsignor Bottari e l'abate Foggini, dottissimi uomini e detti contumeliosamente i giansenisti di ponte Sisto ». 2
Interessante tuttavia osservare come i gesuiti sottolineassero il parallelismo con metodi di p
ro
-pagndustil'zoecqnt:«Orah,dimzoneprlutaicvns cercano i nemici de' gesuiti di screditarli non solo co' libri, ma eziandio con le immagini intagliate in rame... » (I gesuiti accusati e convinti di spilorceria cit., in Raccolta di apologie cit., vol. VI, p. z8, nota r). Del resto anche gli avversari della Compagnia riconoscevano quanta fosse l'efficacia della propaganda per immagine: «Hanno inventato e vanno tuttavia inventando vari, bene incisi rami, ne' quali sotto diversi geroglifici sono espressi i vizi della Compagnia, i suoi principali viziosi e i danni che gli uni e gli altri recano alla chiesa, al cristianesimo, alla società civile ed a' principi; ed in somma quanto viene espresso ne' libri tanto si vede disegnato ne' rami, restando solo il dubbio quali de' due, se i primi o i secondi, piú ubertose frutta vadano facendo e tanta certamente è stata dei rami l'universale accoglienza e il plauso che qualcheduno di essi si è venduto per fino due e tre zecchini per copia» (Lettera d'un cavaliere amico fiorentino cit., p. 12). Anche L'ombra della marchesa di Tavora cit., p. r1, parlando della Compagnia di Gesú che «... per meglio capir quanto sia infame I basta mirar l'istoriato rame, I quel rame che descrive a parte a parte, I com'essa renda il popolo infelice, I rame di cui miglior non pinse l'arte e cento cose in picciol giro dice». 3 Lettere all'abate N. N. cit., pp. 88 - 89. 4 Ibid., P. 90.
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Ottima era la loro pedagogia poiché la saggia Compagnia, prudente, la civiltà colla dottrina ha unita '.
Di fronte al governo portoghese i gesuiti prendevano l'atteggiamento di perseguitati. «Qual tiranno, nell'atto di percuotere un infelice ha mai preteso di togliergli per sino la misera libertà di lagnarsi? » 2 . Pur volendo mostrarsi sempre ligi alle autorità, polemizzarono contro la politica di Pombal. « Il ministro non permette l'accesso al trono se non a quelli che pensano e parlano com'egli vuole». I torbidi nel Paraguay erano attribuiti alla rivalità tra Portogallo e Spagna. I loro nemici erano identificati negli uomini, ovunque e soprattutto a Roma, messi in movimento e appoggiati dall'ambasciatore del Portogallo: «una combriccola d'abati falliti e di frati ambiziosi... animata, come credesi, dallo spirito giansenistico» 3. Finirono col chiamare questi «frati perdi-giorni, preti malviventi, libertini, liberi muratori, cattolici si, ma di vernice e di orpello » e col parlare dell'« italiana triplice alleanza di frati perdigiorni, di preti malviventi, di libertini liberi-muratori»'. Contro di loro ricorsero soprattutto ai ricordi delle persecuzioni subite e vittoriosamente sopportate nel passato e cercarono nelle lotte e nei trionfi dei secoli trascorsi una consolazione e una assicurazione nell'incerto presente. I librai veneziani loro avversari poterono rispondere che quel che interessava la gente non erano « cose ammuffite de' secoli andati, ma cose recenti, accadute in questi anni, sotto gli occhi nostri», quali «la tirannia di que' poveri americani tenuti come schiavi», o « vasto commercio mercantile » dei gesuiti, la rivolta di Oporto, le congiure, gli attentati 5. Non soltanto sul terreno delle idee, ma anche su quello dell'organizzazione gli antigesuiti mantenevano del resto la loro superiorità: vendevano meglio una merce migliore 6. Gli opuscoli contro Zatta si moltipli' La barcaccia di Bologna, poema giocoso (dell'abate Luigi Antonio Locatelli), ... aggiuntosi il Burchiello di Padova, poemetto di Polisseno Fegejo (Goldoni), Lugano 176o, in Raccolta di apologie cit., vol. XIV, pp. 79 e 8r. (Il permesso è del 7 ottobre 176o, VENEZIA, AS, Revisori dello Studio di Padova 336). Cfr. Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, Arnoldo Mondadori, Milano x955, vol. XIII, pp. 58o e 581. Baretti, pur cosí ostile a Goldoni, si guardò bene dall'attaccare questo poemetto filogesuitico. «La frusta letteraria», n. 5 (I° dicembre 1763), p. 68. • Appendice alle osservazioni sopra la condotta del ministro di Portogallo, 176o, in Raccolta di apologie cit., vol. XX, p. 12. Osservazioni sopra la condotta tenuta dal ministro di Portogallo nell'affare de' gesuiti, Cosmopoli r76o, pp. 4 e Io.
• Deca di lettere confidenziali del sig. Apisto sassone e del sig. Apronio olandese, eretici, sul libretto titolato Preservativo contro certi libri e sermoni de' gesuiti, in Lugano, 1760, dal tedesco in italiano tradotte da un cattolico a pro' della romana fede e della Compagnia di Gesù, aggiuntevi varie altre lettere interessanti, Gino Bottagrifi e compagni, s. 1. 1761, in Raccolta di apologie cit., vol. XVI, pp. 13 e 22. (Il permesso a Zatta è del 14 marzo 1761. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). • Raccolta di opuscoli cit., tomo IV, Prefazione dello stampatore di Lugano, marzo 176o, P. 4. 6 Ibid., p. 4. L'editore Zatta «afferma che venderà i suoi libri a miglior mercato che gli altri
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carono. Quando Troiano Spinelli d'Aquaro procurò presso il libraio veneziano l'edizione d'un libro proibito a Napoli, La verità difesa col disvelarsi', gli avversari dei gesuiti finsero che Zatta rendesse conto al mecenate di quanto era accaduto e delle critiche piovute 2. Vi saranno le solite bolle, — avevano detto, — i soliti attestati. «Un terzo dovrebbe essere di grossolane invettive,... sarà un composto di ciarle, di amplificazioni panegirico-gesuitiche, di confutazioni degli antichi eretici fritte e rifritte...» 3 . Altri non mancava di apporre il nome di Zatta, a mo' di «corbellatura», ad opuscoli evidentemente antigesuitici, come il Processo fatto dal Sant'Ufizio di Lisbona contro il gesuita Gabriele Malagrida tradotto fedelmente dalla lingua portoghese in italiano, Lisbona e Venezia i761, nelle stamperie di Michele Rodriguez stampatore patriarcale e del Magnifico Signor Antonio Zatta 4. Ma finché la faceva da teologo Zatta non rischiava che dire delle scempiaggini. Piii grave era il pericolo quando si metteva a parlar di politica. « Voi osate mettere la vostra lingua stampatoreccia nei gabinetti e nelle disposizioni dei re per condannarle... Voi asserite non dissimulatamente che i gesuiti han ragione,... che il re di Portogallo è ingiusto, i ministri empi, gli ecclesiastici iniqui e tutto il regno giansenista. Vedete a che passo vi tirano i gesuiti, signor Antonio? Specchiatevi nel Pagliarini, e tremate » 5. La sorte del libraio romano che, come vedremo, piú d'ogni altro dovette pagar di persona in questa disputa, veniva cioè mostrata come uno spauracchio all'editore veneziano. Lo scontro piú grave era avvenuto infatti a Roma, nell'inverno del 176o. Circolò allora una terribile satira contro «les cardinaux et autres prélats romains», intitolata I lupi smascherati 6 . Era l'ultimo e il piú virulento della serie di opuscoli iniziata con le Riflessioni del padre Tosetti un anno prima ed ebbe anch'esso una notevole eco, anche internazionale vecchio e il nuovo si mescolavano inestricabilmente in queste pagine. librai. Io vendo i miei opuscoli — gli rispondeva Paolo Colombani — due lire il torno e sono fogli sedici per torno; egli vende le sue tre particelle cinque lire e mezzo e sono quindici fogli in tutte e tre ». I La verità difesa col disvelarsi della sincera esposizione de' fatti sinistramente accennati contra la Compagnia di Gesù da' celebri riflessionisti, Antonio Zatta, Firenze (Venezia) 1761. Z Lettera del Magnifico Signor Antonio Zatta cit. 3 Ibid., p. 5.
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Cfr. «Giornale gesuitico », vol. III, p. 218.
▪ Lettera del Magnifico Signor Antonio Zatta cit., p. 17. • «Nouvelles ecclésiastiques », 27 febbraio 1761.
I lupi smascherati nella confutazione e traduzione del libro intitolato Monita secreta Societa-
tis Jesu in virtù de quali giunsero i gesuiti all'orrido ed esegrabile assassinio di Sua Sagra Reale Maestà Fedelissima Don Giuseppe I re di Portogallo ecc., con un'appendice di documenti rari ed inediti, nell'officina di Tancredi e Francescantonio padre e figlio Zaccheri de Strozzagriffi, 176o. Come si vede, fin dalla pagina del titolo appariva evidente l'intenzione di polemizzare contro il gesuita Zaccharia e con il suo editore veneziano Antonio Zatta. Sulla traduzione tedesca di quest'opera, dovuta a Le Bret e uscita a Ulm nel 1761, cosi come sui giudizi di questi sulla situazione italiana e romana, Cfr. MARIA LUISA PESANTE, Stato e religione nella storiografia di Goettingen. Johann Friedrich Le Bret, G. Giappichelli, Torino 1971, pp. 22 sgg.
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La riesumazione della polemica contro i Monita secreta andava di pari passo con la propaganda portoghese. Le antiche accuse contro i gesuiti si univano ad una denuncia minuta, insistente del partito gesuitico operante in quei giorni a Roma. Era quest'ultima, naturalmente, la parte phi orignale,dchquov'itelgcsmuavniotà personale, in una zuffa locale che scopriva ambizioni ed odi, fermenti di rinnovamento e miserabili invidie e rivalse del piccolo mondo romano. Ecco « il prete Gio. Battista Matteucci, figlio di un spazzino di Sant'Elpidio nella Marca e uno de' phi impegnati e franchi mentitori in favore della Compagnia»'. Ecco «la bottega de' fratelli Barbiellini, librari a Pasquino, sentina di maldicenze e d'iniquità contro la corte di Lisbona» _. «L'abbate Colla, fratello carnale del famoso macellaro al Corso, nelli pubblici caffè, phi bestia delle bestie macellate dal suo fratello, parla con il solito linguaggio de' gesuiti » 3 . In ogni cantone della città si discuteva pro e contro la Compagnia, pro e contro il Portogallo e non certo con accenti teologici. «Il mercante, il droghiere, il pizzigarolo gridano alle stelle contro i gesuiti di Roma che vendono e negoziano in ogni genere. I magazinieri da vino attestano che i procuratori de' gesuiti hanno nel 1759 specialmente fatta una immensa, prodigiosa raccolta e compra d'uve», speculandovi poi sopra scandalosamente. Avevano ottenuto che «monsignor Antonio Casali, fratello del famoso chincagliere del Seminario romano, il gesuito procuratore Ludovico Casali» fissasse i prezzi del vino in modo favorevole alla Compagnia. «Universale» era stata la «disapprovazione», ciò che non aveva loro impedito di pensare d'accrescerli «altri due baiocchi, e ciò sarebbe seguito infallantemente se non si fosse temuta prossima la solevazione dei poveri de i sette colli e di Trastevere». Il commercio dell'olio era anch'esso dominato dai gesuiti, che lo vendevano «due baiocchi e mezzo alla foglietta di sopra il comune prezzo». «Ecco una coperta gabella caricata al povero, in grazia di quei tanto benemeriti della chiesa che il re fedelissimo ha bandito solennemente da i suoi regni e che va mandando in regalo a chi li protegge ed accarezza in Roma» 4. Nell'estate del 176o la tensione diplomatica tra il Portogallo e la Santa Sede si faceva sempre phi forte e nell'agosto si giungeva alla rottura, rendendo sempre piú precaria la situazione dei lusitani abitanti a Roma, circa duemila'. L'Ii dicembre 176o il governatore di Roma monsignor I lupi smascherati cit., p. xLiv. = Ibid., p. xLVI. Ibid., p. L. Ibid., pp. ci-cm. s «Nouvelles extraordinaires de divers endroits », n. 6o (25 luglio 176o), corrispondenza da Roma de l luglio. Cfr. n. 76 (19 settembre 176o), Roma, 3o agosto.
Monti Caprara Portogallo >, z7 dolo nelle carcerifaceva arrestare il libraio lNic o del dell'inquisizione. pouvoir y rien découvrir de relatif aux rinchiude «Onouvrages a fouilléPagliarini, dans sa boutiqu outiquee sans i orage s qui font du ministère romain» ésias ti de re aggiungend o: n dicevano le «Nouvelle a eu part à l'impressi s ecébit démasqués o ss on et au débit dess Loups il est perdu sans ressource » ', suo conto. Ci d Loups fu Le vo ci gli svizzeri gli si chi attribuí il suo arresto piú diverse corsero corsero sul o a Roma» = a «quelle balle [di libri] pare le Riflessionispedivan Altri disse che era e l'A stato ui a stom _ togallo». Perquisizionil à omZ e a disgrazia'. Paglia ini piute sa ebberostatembasci ine edel Portentò di scolparsi dicend r all'origine aveva in qualche o che cardinal della sua modo tollerato la aveva pubblica i con «la data mentita ora la pubblicazione iLbona do il ministro uufficiali ffi ciali porpor portoghes e di Genova, ora di opuscoli e hi occhio quando farne stampare altri ulonndoianapparvero vero a Roma. Ma il tentativo di un ta do ppa passare a le autorità diffondere questa Venezia attraverso Pesaro romane ad il governo portoghese cercò intervenire, facendo arrestare aveva indotto ild tipografo. Invano suo servizio. «Nato a Rom di proteggerls dichiarando che il pap a , attaccato la sua destinazion era alr e al principe Apostolico e del in qualità di provveditor e de' papa] p er Tribunale del S. U ibri del Sagro dere di sottrarsi alla Palazzo Dopo un anno di giurisdizione romana teva Pagliarini pretenna? 4. lera, oso un an «convaincucarcere, Pagliarini fu condannato d'avoir débité cars écritsautre a sette anni di ga_ «Deux des ses juges ont opiné de plusirt, la mort, deux contre les jésuites m »,. d'autres aux galères sa vie durant, autres lité s'est trouvé e au bannissement, lité de cette dernière o dnaón'es pour sept l La p o aadel febbr aio r 7 e premiato,p realtà ma onoratezz a e «per le alzione portoghes e arassegnazione» con la nominafflizioni soffertelcon soompension e di ducati Napoli, con uno stipendio di a a segretario della lega_ di regno 1800 I2000 c stesso... in cui fu arrestato «ed una » . «Su da verità esaltarono fumi gli ama ste per p ogni dove dell'onestà cene con grandissimeamatori dal della della lodi la munificenza 1 fficenza vera «Nouvelles ecclésiastiques
I
2 es »' 27 febbraio smascherati r zione dellupi ' libro intitolato nell'appendice alle Jesu761 rioni nella statu del portoghese, nella Monito secreta Soc. de l disinganno, Jesu ed in altre traduzione e con 3 « Giornale aggiunte e Aletopoli r 6 1 gesuitico», torno II, documenti rari ed futap 4. documenti ' FILIPPO
in criminalibusMIROGLI, All'illustrissimo e
inediti,
... per il fisco contro Una copia di reverendissimo signore ,b Ni com Pagliarini carcerato , monsignor a, so tgovernator Paioli in r 992 questa la segnate di Roma ' Int. 14. parsa entro scolò Bernabò, Roma quegli anni. $interessant e x°Me anche per conoscere il B. Vaticana, Sotto 1761, pp. 35 e 66.i s «Mercure historique Il meccanis tuo la segnatura: ura: Fer que et politique», della censura romana di q dicembre 1761, p. 623.
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mente reale del monarca » R. Come gli scriveva da Napoli il fratello Marco, il 9 febbraio: «Grand Dieu! L'année dernière en prison comme la plus grand scélérat et cette année riche, comblé d'honneurs et déclaré noble! » 2. Nicola Pagliarini sarà pii tardi nominato «direttore generale» della «nuova regia stamperia» eretta in Portogallo il 29 gennaio 1769, con «375 zecchini annui d'assegnamento, oltre i tre mila cruciati della sua pensione » 3. Farà da tramite tra il governo portoghese e il nuovo papa, Clemente XIV, di cui era «amigo antiquo» e tornerà a Roma trionfante quando si vennero ristabilendo i rapporti tra Lisbona e la Curia °. Come raccontava Nicolas de Azara, l'inviato spagnolo a Roma scrivendo al suo ministro degli esteri Manuel de Roda, i1 4 luglio 1771: «El papa a expedido un breve al famoso Pagliarini, en que declara nulo el proteso que VD bien sabe que le hizo antano, y que no fué reo de ningun delito... y le confiere el caballerato de la Espuela de Oro». Da gran nemico dei preti, Azara aggiungeva che quest'ultima onorificenza era «bien ridicula». P hi onorevole la galera, diceva, ottenuta combattendo contro i gesuiti che questi onori lucrati con servigi resi al papa. «Se cree por seguro — concludeva — que ahora vendra por segretario de embajada en lugar del desgraciado Vernei » 5. Fino alla fine del secolo la libreria Pagliarini resterà uno dei centri pii importanti della vita culturale e politica romana. Una fortunosa carriera aveva cosí portato i fratelli Pagliarini dal clima di ripresa intellettuale dell'età di Benedetto XIV e del cardinal Silvio Valenti Gonzaga, quando essi erano stati gli editori di Girolamo Belloni,,di Daniele Concina e del «Giornale de' letterati», attraverso le dure lotte tra sostenitori e avversari del Portogallo all'età che vide la soppressione della Compagnia di Gesti e i tentativi di riforma di Pio VI ' Cfr. un foglio volante, datato «Roma, 3 febbraio», di cui un esemplare si trova al Italian tracts, 1690-1796, sotto la segnatura: 123o.d.20, n. 106. 2 «Nouvelles ecclésiastiques », 10 aprile 1762. 3 •Nuove di diverse corti e paesi» 27 febbraio 1769, n. 9, Lisbona, 27 gennaio.
BRITISH •
MUSEUM,
^ El espiritu de don José Nicole's de Azara, descubierto en su correspondencia epistolar con don Manuel de Roda, J. Martin Alegría, Madrid 1846, vol. I, p. 370, 7 dicembre 1769 e P. 375, 14 di-
cembre 1769. Cfr. vol. II, p. 83, 26 luglio 1770. Ibid., p. 196, 4 luglio 1771. Numerose notizie e pettegolezzi su Pagliarini di ritorno a Roma si trovano nel foglio manoscritto di notizie conservato a CAMBRIDGE, University Library, Mss Add. 669. 6 Cfr. FRANCO VENTURI, Settecento riformatore cit., vol. I, all'indice e ID., Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, in R. stor. ital. », anno Ixxv, fast. 4, pp. 778 sgg. Ancora all'inizio dell'Ottocento i libri conclusivi di tutto questo moto riformatore, quello di NICOLA MARIA NICOLAI, Memorie, leggi e osservazioni sulle campagne e sull'annona di Roma e quello di FILIPPO MARIA RENAZZI, Storia dell'università degli studi di Roma, uscirono con il nome di Pagliarini, nel 1803 e 1806. Sui rapporti tra Pagliarini e Bottari, cfr. le indicazioni fornite da LUCIO FELICI, Il Carteggio Galiani-Bottari (1751-1759), in «Atti e memorie dell'Arcadia, Accademia letteraria italiana», serie III, vol. V, fast. 4 (1972), pp. 211 sgg. Per i rapporti con Ferdinando Galiani, cfr. le Opere di questi, a cura di Furio Diaz e Luciano Guerci, Illuministi italiani, tomo VI, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 2975, all'indice.
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Non a Roma tuttavia la polemica tra amici e nemici dei gesuiti sboccò in una pii ampia corrente riformatrice. Là si ebbero gli episodi phi clamorsi,nhequtcmsièpovedr,achiusntro i pesanti limiti delle dispute teologiche, delle piccole rivalità economiche e dei conflitti diplomatici. Non a Roma, ma a Napoli, a Venezia e poi, rapidamente, negli altri centri italiani l'antigesuitismo andò confluendo in un nuovo regalismo, in una phi accentuata volontà di trasformare la scuola, la cultura, la vita civile. Con la morte del cardinal Passionei, i1 5 luglio 1761 (e tutti seppero che il suo decesso era dovuto alla rabbia d'aver dovuto sottoscrivere un documento favorevole alla Compagnia), Roma perdette la sua funzione di centro animatore della polemica antigesuitica, cessò di essere la fucina degli opuscoli phi combattivi e vivaci. Ben presto il conflitto con il Portogallo si diplomatizzò. Dopo esser stato fortemente influenzato da scrittori e editori (gli episodi di Urbano Tosetti e Nicola Pagliarini sono particolarmente significativi), il contrasto con Pombal tornò sempre pii nelle mani del Segretario di stato, il cardinal Torrigiani. L'ambiente giansenista raccolto attorno a casa Corsini e al gruppo dell'Archetto continuò ad operare, ma si trattava ormai d'una battaglia a lunga scadenza, volutamente mantenuta sul piano teologico e religioso. Battaglia che sboccò un decennio pii tardi in una vittoria, la soppressione cioè della Compagnia nel 1773. Ma sarà vittoria parziale, settoriale, quando il moto riformatore era andato altrove ben altrimenti allargandosi e diversificandosi. E anche per ottenere questo successo le forze locali, romane non furono affatto sufficienti. Fu necessario l'intervento della Francia, della Spagna, dell'Austria. Dopo il 1761 le voci che giungevano dall'Europa cattolica furono essenziali per imprimere, anche in Italia, un nuovo respiro, una nuova energia alla polemica che si era aperta per iniziativa del Portogallo.
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di despotismo, spesso di menzogna ufficiale. Della perplessità suscitata dall'esempio portoghese è testimone non soltanto Baretti, ma anche Gorani, che pure da quella esperienza fu dapprima incuriosito e attratto Anche l'esempio francese, quando si fece corposo all'inizio degli anni sessanta, sarà difficile da imitare e da seguire, strettamente legato com'era alla situazione politica della Francia, ai rapporti di forza tra la monarchia e i parlamenti, la cultura e i ministri. Ma ben altrimenti seducente era di quello portoghese e tendeva, se non altro, a suscitare una serie di paragoni e di paralleli tra la vita degli stati italiani e quella del regno di Luigi XV, finendo in tal modo col creare un legame di phi tra la Francia dell'Encyclopédie e l'Italia del «Caffè». Erano stati i nobili di toga, gli uomini dei parlamenti, i giudici e gli avvocati francesi a riaprire nel 1758 e a sviluppare negli anni seguenti la lotta contro la Compagnia 2 . Proprio l'ala loro phi decisa nell'opposizione alla monarchia, quella che concepiva la magistratura come un tutto unico, come un ceto, come una classe di uomini politici ammantati nella loro toga, aveva spinto Luigi XV, sia pur riluttante, sulla via del conflitto aperto, scartando ogni compromesso, fino a giungere, un passo dopo l'altro, alla dissoluzione dei gesuiti su tutto il territorio della Francia. Certo questa guida parlamentare aveva prodotto forti differenze nell'intensità dell'azione a seconda dei diversi centri giudiziari, phi estremisti gli uni degli altri e raramente concordi sui dettagli, anche se uniti da un forte senso di responsabilità collettiva. La battaglia si era spezzettata in mille combattimenti locali, ma su tutte queste discrepanze aveva finito col trionfare la volontà di affermare, di fronte al re e al paese, che loro soltanto, i parlamentari, erano in grado di far giustizia delle colpe vecchie e nuove dei gesuiti, suggerendo insieme le indispensabili riforme religiose, pedagogiche, morali. Questa intensa lotta politica rivestita di forme giudiziarie si era aperta con l'eliminazione dell'attività commerciale esercitata dalle missioni della Compagnia nelle colonie francesi in America. L'esempio del padre Antoine Lavalette, condannato 1'8 maggio 1761, era diventato il simbolo, anche in Italia, d'una vittoriosa azione contro le iniziative e la mentalità economica dei gesuiti'. Strappata la radice commerciale, economi-
'.
Dalla Francia aveva continuato per anni a giungere la voce, uggiosa e insistente, delle «Nouvelles ecclésiastiques », organo del giansenismo gallicano piú tradizionale e sclerotizzato. Non ad essa si dimostrarono particolarmente sensibili gli italiani, piú curiosi di notizie politiche e dell'eco dei conflitti economici e sociali del Portogallo e d'oltreoceano che della monotona geremiade sulla decadenza della Sorbona e della chiesa francese, che riempiva le plumbee colonne di quella gazzetta ecclesiastica. Non senza interesse essi dovettero tuttavia notare come anche in Francia ci si cominciasse ad occupare di quel che accadeva da noi e delle polemiche che contro i gesuiti erano andate accendendosi a Roma ed altrove. Accettarono con piacere i complimenti, misti a condiscendenza, che giungevano sempre phi numerosi da quella fonte. Ma il tono restò diverso al di qua e al di là delle Alpi. Quel che era per gli italiani la scoperta d'un mondo d'ingiustizia, di grettezza, di vergogna da denunciare e da combattere, per i giansenisti francesi fu soprattutto riconferma, mista a non poca autosoddisfazione, di tutto quanto avevano detto e ripetuto i loro padri, nonni e bisnonni, nell'età del cardinal de Fleury, della bolla Unigenitus e di Luigi XIV. Dalla Francia, insieme a una ripresa della tradizione giansenista o gallicana giunse in Italia la suggestione d'una phi aperta ed efficace lotta politica contro Roma e i gesuiti. Non senza eco erano restate le insinuazioni che l'attentato di Damiens avesse uno sfondo gesuitico'. Ma era una trama troppo tenue. Phi energica la suggestione proveniente da Lisbona. L'esempio del Portogallo era semplice, lineare, elementare: espulsioni, imprigionamenti, esecuzioni capitali e una propaganda ufficiale che non disdegnava i toni violenti e concitati. Colpiva, scuoteva, anche se non lasciava molto spazio alla riflessione né all'imitazione. Sapeva di tirannia, ' Riflessioni sopra l'attentato commesso il di V gennaro [1757] contro la vita del re, Avignone e Lettera d'un amico ad un suo concittadino in cui si riferiscono i fatti che provano che l'autore dell'attentato contro la vita del re ha de' complici e si ragguaglia il modo con cui è stato formato il di lui processo, Avignone 1759. 1 759
GIUSEPPE GORANI, Corti e paesi (1764-1766), a cura di Alessandro Casati, A. Mondadori, Milano 1938, pp. 175 sgg. Cfr. pure la traduzione di queste pagine, José GORANI, Portugal. A côrte e o pais nos alios de 1765 a 1767, a cura di Castelo Branco Chaves, Editoria Atica, 1 945. 2 Cfr. JEAN EGRET, Le procès des Jésuites devant les Parlements de France (1761-177o), in «Revue historique», anno 74, torno CCIV (luglio-settembre 1950), pp. 1 sgg.; ID., Louis XV et l'opposition parlementaire, Armand Colin, Paris 1970. Cfr. EURIO DIAZ, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino 1962, pp. 428 sgg., cap. vi: La prova di forza fra corona e parlamenti. Cfr. Dispute pro e contra i gesuiti di Francia contenenti una diligente raccolta di opuscoli usci-
ti intorno alla famosa causa tra i signori Lionci, Gouffre, ecc. e le cinque provincie d'essi gesuiti con la sentenza del Parlamento, traduzione dal francese all'italiano, Lugano (Venezia) 1761. Sono 376 pa-
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ca, parve che l'annosa pianta volgesse rapidamente alla morte. Insistente continuò, anche in forme popolari, la propaganda contro la segretezza e le idee tiranniche della Compagnia. Grande impressione produsse ovunque, anche a Venezia, la decisione reale di far esaminare le costituzioni dei gesuiti '. Diversi furono i pareri dei singoli parlamenti. Omer Joly de Fleury, gran nemico dell'Encyclopédie, parlando in nome di quello di Parigi, mise soprattutto in luce l'impossibilità d'ogni controllo da parte dello stato sulla vita della Compagnia e sottolineò perciò la necessità politica di abbatterla, accentuando il pericolo che essa costituiva per la tranquillità e l'ordine pubblico. Essa minacciava, diceva, «de causer dans notre hémisphère de grandes révolutions, de troubler les royaumes et d'inquiéter les maîtres de la terre» 2. Da Rennes, in Bretagna, giunse invece, per bocca di La Chalotais, un appello di ben diverso tono e portata'. Inseriva il problema dei gesuiti in un'ampia visione, secolare, storica della Compagnia. L'organizzazione di questa non aveva avuto all'inizio quel carattere dispotico assunto di poi: « Saint Ignace eut dessein d'établir une monarchie mixte» `. La Compagnia si era trasformata, in seguito, crescendo nei «pays méridionaux», organizzata come era «par des esprits échauffés et mélancholiques et dans des temps de guerres de religion» 5. Era cosí giunta alle idee di regicidio, alla sistematica disubbidienza alle autorità civili. Il sistema educativo, su cui essa aveva costruito la propria supremazia, era basato sui pregiudizi ed errori dell'ultimo Cinquecento e del primo Seicento. La tarda scolastica era diventata la loro filosofia e ad essa i gesuiti eran rimasti fedeli nei secoli. «L'éducation publique que les Jésuites donnent à la jeunesse... tient à l'esprit ultramontain, à l'esprit de parti qui les anime, en conséquence aux anciens préjugés et l'ignorance du seizième siècle» 4. La loro ratio studiorum aveva rappresentato un regresso, un passo indietro rispetto ad Erasmo
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e a Scaligero, frutto di una reazione scolastica da cui i gesuiti non eran riusciti poi a liberarsi mai. Sempre in ritardo nella scena del mondo, avevano accettato Cartesio quando ormai la società che li circondava andava allontanandosi dalle idee di quel filosofo. Lo stato non aveva perciò il diritto di abbandonare i giovani nelle mani di uomini siffatti. «J'accuse la superstition et l'ignorance, un régime ambitieux et despotique, le fanatisme enfin...»'. Entusiasta sarà Tanucci leggendo questo Compte rendu. «Io non ho veduta cosa piú seria, più vera, piú chiara, phi sincera, piú efficace. È un capo d'opera e lo specchio piú lucido ove si veda la Compagnia» 2 . Ammirava in La Chalotais, cosí come nell'azione del Parlamento di Parigi, la capacità di analizzare alla luce della logica giuridica quel gran viluppo di a spirito di restrizione, di avarizia, di ambizione enorme» che i gesuiti erano riusciti ad inserire come «un corpo insidioso che stava e sta dentro lo stato unicamente per divorarlo e sovvertirlo e per togliere la religione e la disciplina» 3 . Tanucci non amava i parlamenti francesi, fedele come era ad una visione tradizionalmente assolutistica. Ma doveva pur riconoscere che la loro azione veniva smontando agli occhi di tutti quell'idolo che tanta devozione e tanto odio aveva finora suscitato, permettendo finalmente di operare giudiziariamente e politicamente contro di esso. Anche in altri centri italiani l'eco di questa polemica fu notevole. Cosí a Venezia venne subito pubblicata la lunga e dettagliata decisione del Parlamento di Parigi di disperdere e abolire la Compagnia 4. Dalla Francia continuò insieme a giungere l'insistente propaganda contro l'ipo1
p 77.
LOUIS-RENÉ CARADEUC DE VON PASTOR, S t oria
LA
CHALOTAIS,
Compte rendu des constitutions des Jésuites cit.,
dei p a p i , vol. XVI, parte I, 1953, p. 757 nota, lette ra a Riccardo Wa ll, 3 o
marzo 1762. 3
Ibid., sr maggio 1762. Arresto o sia sentenza della corte del Parlamento di Parigi in cui si giudica l'appellazione come d'abuso interposta dal Sig. Procuratore generale intorno le bolle, i brevi, le costituzioni e di altri regolamenti della Società sedicente di Gessi, proibisce a se dicenti gesuiti ed a tutti gl'altri di portar l'abito della Compagnia e di vivere sotto l'ubbidienza del generale e delle costituzioni della detta Società e di mantenere alcuna corrispondenza diretta o indiretta col generale e co' superiori di detta Società o con altri da essi preposti, ingiunge a' se dicenti gesuiti di sgombrare dalle case della detta Società, proibisce loro di vivere in comune, riservandosi di accordare a ciascun di essi, su la loro richiesta, le pensioni alimentarie necessarie ecc. De' 6 agosto 1762, Parigi e Lugano 1762. Altri documenti dei parlamenti francesi sono raccolti in Delle cose del Portogallo e della Francia cit.,voll. 4
gine di minuto carattere con una amplissima documentazione sui problemi della gestione economica dei gesuiti e sui loro rapporti con lo stato. (Cfr. il permesso all'editore Giuseppe Bettinelli, del 14 agosto 1761, in VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). Vedi pure Notizie sin qui
pervenute della famosa causa decisa in Parigi dalla Gran Camera il di 8 maggio 1761 contro il padre della Valetta ed il padre generale de' gesuiti, Giuseppe Bettinelli, Venezia 1761. Dichiarazione del re e sentenza della corte del parlamento estratta dai registri del medesimo del di 6 agosto 1761, tradotta dal francese sull'impressione di Parigi, per G. Simon, stampatore del parlamento, nella strada dell'Arpa all'Ercole 1761. Si vende in Venezia da Giuseppe Bettinelli (con una curiosa figurina). 2 Compte rendu des constitutions des Jésuites, par M. Omer Joly de Fleury, s. 1. (Paris), 3 - 7 luglio 1761. Cfr. Idea generale de' vizi principali dell'istituto de' gesuiti cavate dalle loro costituzio-
ni e dagli altri titoli della Compagnia. Primo discorso fatto al parlamento di Parigi da M. l'A. D. C. consigliere l'anno 1761, traduzione dal francese, Lugano (Venezia) 1762. 3
LOUIS-RENÉ CARADEUC DE LA CHALOTAIS,
procureur-général du Roi au Parlement de Bretagne,
Compte rendu des constitutions des Jésuites, 1-5 décembre, s. 1. 1762. Ibid., p. 38. 5 Ibid., p. 72. e Ibid., p. 176.
XVI e XVII. Le rivelazioni portate da simili scritti sulla vita interna della Compagnia di Gesú colpirono profondamente i contemporanei. Ad esempio lo scrittore Gaspare Patriarchi narra, nello scrivere da Venezia all'amico Giuseppe Gennari il 3 settembre 1762, quel che senti alla lettura di uno scritto dell'abate di Chauvelin: «Mi rizzo, do delle mani nel corpo e vo sciamando da me: oh poveri uomini, a quai ceppi vi suggettate e a quai pro. Vi prometto che il libro è di tal forza e di tal verità che i poveri schiavi [i gesuiti] son degni di compassione » (PADOVA, B. del Seminario, Mss 618). Uno degli scritti piú importanti uscirà qualche tempo phi tardi: Motivi dell'esclusione dei
religiosi della Compagnia di Gessi dai regni e stati della Francia esposti nel conto reso delle loro costituzioni al Parlamento di Provenza dal celebre M. Gian-Pier-Francesco de Monclar, procuratore generale del re ecc., tradotto dalla lingua francese nell'italiana favella, opera divisa in 3 torni, Vincenzo Radici, Venezia 1766.
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crisia, la corruttela, la venalità della curia romana, sempre piú coinvolta nella polemica antigesuitica. Particolarmente efficaci furono ovunque in Italia i suggerimenti che i parlamenti francesi erano andati formulando in materia pedagogica. Il problema era grosso, come abbattere cioè e sostituire il predominio dei gesuiti nell'educazione della classe dirigente. Furon i francesi a dare l'esempio delle inchieste sistematiche sui collegi e a proporre i piani d'una progressiva abolizione delle scuole della Compagnia. Furono i francesi a dare un valore esemplare alla polemica contro di loro. E cantarono vittoria quando finalmente i parlamenti ebbero vinto. Anche questa volta dalla Bretagna giunsero le parole che piú profondamente risuonarono da questa parte delle Alpi. La Chalotais proveniva da un ambiente provinciale, ma era aperto alle idee di trasformazione economica, diffuse soprattutto dalla «Société d'agriculture» della Bretagna, sotto l'influenza del liberalismo di Vincent de Gournay'. Aveva assorbito la lezione dell'Encyclopédie. L'articolo Collège di D'Alembert fu essenziale per lui, cosí come fu di gran peso nella discussione contro i gesuiti nell'Europa tutta intera 2. L'interessamento di Voltaire gli fu prezioso. Il 24 marzo 1763, davanti alle «Chambres assemblées» del parlamento di Rennes egli presentò il suo Essai d'éducation nationale, ou plan d'études pour la jeunesse. In esplicita polemica con Rousseau chiedeva allo stato francese di prender coscienza dell'importanza decisiva della cultura moderna, di assumere nelle proprie mani gli strumenti della ricerca e della scuola, formulando un programma generale d'incivilimento. Era per questo necessario, diceva, spazzar via quelle tradizioni, quelle concezioni culturali che i secoli avevano trasmesso e che erano diventate ormai una passività nella vita della nazione. I collegi dei gesuiti, le vecchie università, le arcaiche pedagogie, i metodi antiquati dovevano essere eliminati. Era indispensabile «une réformation générale dans la méthode ordinaire des collèges». La scuola, la cultura non erano scopo a se stesse. Dovevano esser volte al «bien général de la nation » 3 . Bisognava forgiare «une éducation civile qui prépare chaque génération naissante à remplir avec succès les différentes professions de l'é' Cfr. B.-A. POCQUET DE HAUT-JUSSE, La Chalotais. Essai de biographie psychologique, in « Annales de Bretagne », tomo LXXII (giugno 1965), fasc. 2, pp. 263 sgg. 2 Sull'articolo Collège e sulle polemiche da esso suscitate in Francia, cfr. JOHN LOUGH, The «Encyclopédie», Longman, London 1971, pp. 268 sgg. Cfr. JULES DELVAILLE, La Chalotais éducateur, Alcan, Paris 1911, PP. 54. Cfr. pure LEONARD ADAMS, Coyer and Enlightenment, in « Studies on Voltaire and the eighteenth century», The Voltaire Foundation, Banbury (Oxfordshire) 1974, cap. Iv:
Coyer and La Chalotais architects of educational reform. 3 Essai d'éducation nationale, ou plan d'études pour la jeunesse, par messire
LOUIS-RENÉ CARA-
procureur -général du Roi au Parlement de Bretagne, s. 1. 1763, presentazione non paginata. (Numerose sono le edizioni di questo opuscolo. Quella the abbiamo adoperata è di IV, 140 pp.).
DEUC DE LA CHALOTAIS,
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t »'. Concezione funzionale e utilitaria, intesa a dare una nuova forza alsocietà esistente, non certo a plasmarla in senso egualitario. Bisognava arappare ai gesuiti la formazione della classe dirigente e con altrettanta energia bisognava trovare il modo di far stare il popolo al posto che gli eo,mpeteva. «Le bien de la société demande que les connaissances du ,peuple ne s'étendent pas plus loin que ses occupations. Tout homme qui Voit au delà de son triste métier ne s'en acquittera jamais avec courage et avec patience». Bisognava impedire il prolificarsi degli spostati, limitando allo stretto necessario il numero degli studenti. «Il vaut mieux qu'il y ait moins d'étudians, pourvu qu'ils soient mieux instruits; et on les instruira plus facilement s'ils ne sont pas en si grand nombre » 2 . Tutto sarebbe dipeso dal metodo e dal contenuto dell'insegnamento futuro. Dallo studio del latino e delle lingue bisognava passare a quello delle scienze. Il raffinamento letterario era un ostacolo da eliminare. «Des malades ne s'embarrassent pas que les ordonnances de leurs médecins soient en épigrammes. On cherche un avocat qui sçache les loix et non un bel-esprit... Le goût du bel-esprit, devenu une mode, a banni la science et la véritable érudition...»'. La storia, la geografia, la logica avrebbero dovuto essere le fasi attraverso le quali sarebbe passata la nuova educazione, tendente a sviluppare nella classe colta «l'esprit philosophique», «cet esprit de lumière» che vivificava e rendeva feconde ed efficaci le diverse scienze inserendole in una visione generale del passato e del presente delle umane società. Lo spirito filosofico aveva il compito di osservare «les progrès et les retardemens de l'esprit et de la raison dans les sciences spéculatives et pratiques, dans les moeurs des hommes dans les différens siècles » 4. Il confronto tra la situazione della Francia e quella degli altri paesi dell'Europa confermava la necessità, l'urgenza d'una simile riforma generale. Paesi come la Russia o il Portogallo stavano dimostrando il vantaggio d'esser meno gravati da una lunga e pesante tradizione. «On sort plus aisément des ténèbres de l'ignorance que de la présomption d'une fausse science. La Russie en dix ans a plus avancé dans la physique et dans les sciences naturelles que d'autres nations n'auroient fait en cent ans. Il suffit de voir les Mémoires de l'Académie de Pétersbourg. Peut-être que le Portugal, qui réforme entièrement ses études, avancera beaucoup plus que nous à proportion, si nous ne songeons pas sérieusement à réformer les nôtres» 5 . Due anni dopo la pubblicazione di queste parole, nel 1765, giungeva :
LOUIS-RENÉ CARADEUC DE LA CHALOTAIS, Essai d'éducation nationale cit., p. 2. Ibid., PP. 24-25. Ibid., pp. 27-28. • Ibid., p. 'ro. S Ibid., p. 27. Cfr. la recensione della «Biblioteca moderna», tomo II, n. 4o (1764), P. 318. 2 3
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dalla Francia un libro che intendeva fare il punto sulla vittoriosa lotta condotta dai parlamenti francesi contro la Compagnia. Era anonimo e s'intitolava: Sur la destruction des jésuites en France. Ben pochi dovettero essere, anche da noi, coloro che ignoravano trattarsi d'uno scritto di D'Alembert. Fu ben presto tradotto in italiano'. Portava una nota volutamente staccata, dura e fredda nell'appassionato dibattito sulle cause e le conseguenze della politica dei magistrati francesi. Quel che per La Chalotais avrebbe dovuto essere la conseguenza della soppressione dei gesuiti, l'emergere cioè e il prevalere dell'« esprit philosophique », tendeva a diventare, nelle pagine dell'enciclopedia, l'origine, la causa stessa del crollo della Compagnia in Francia. Non erano stati certo i giansenisti a produrre « ce singulier événement » Z. Troppo superstiziosi, troppo chiusi nel loro fanatismo, troppo legati allo spirito di setta, essi altro non avevano fatto che ripetere instancabilmente la loro maledizione. Se fossero stati loro ad abbattere la Compagnia avrebbero semplicemente sostituito le loro melanconie teologiche a quelle dei gesuiti. La cosa essenziale era precisamente evitare che il vuoto lasciato in Francia dalla caduta dei gesuiti fosse occupato dai nemici della bolla Unigenitus. Ma questi ultimi avrebbero costituito una minaccia soltanto nel caso che le forze vive della cultura e della politica francese mancassero al loro compito specifico, quello cioè di contenere le correnti religiose. Né era questo compito da affidare ai parlamenti. Questa sfiducia che D'Alembert si guardava bene dall'esprimere con troppa chiarezza nel suo opuscolo, risultava evidente da tutta la sua analisi. Come Voltaire, anch'egli non aveva alcuna stima per la cultura e per la moralità della nobiltà di toga. I pregiudizi religiosi, il filogiansenismo, la mentalità legalistica dei parlamenti, la loro insensibilità di fronte agli aspetti piú umani della giustizia, il loro spirito di casta, tutto ripugnava a D'Alembert. Ma mentre Voltaire gridava sui tetti il suo disprezzo per gli uomini di toga, D'Alembert, piú diplomaticamente, cercò di strappar da quelle mani il merito, da loro recentemente acquisito, d'aver ottenuto la vittoria decisiva sui gesuiti. Essi non erano stati in realtà, diceva, che gli esecutori, gli strumenti d'una volontà di riforma viva e presente in tutta la Francia. L'Encyclopédie, i philosophes stavano all'origine dei successi ottenuti. I nemici dei gesuiti « ritrovarono la nazione favorevolmente disposta...» «La filosofia, alla quale avevano i giansenisti dichiarata una guerra tanto ar1 Intorno la distruzione de' gesuiti in Francia di un autore disinteressato. Traduzione dal francese, Antonio Locatelli, Amsterdam (Venezia) 1766. Il permesso di stampa, su parete del censore Tommaso Antonio Contin e con la firma di Andrea Tron è del 3 ottobre 1765 (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 337)• z Sur la destruction des Jésuites en France, Avertissement, in OEuvres de d'Alembert, A. Be-
lin, Paris 1821, tomo II, parte I, P. 14.
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de nte come allaCompagnia di Gesú, aveva fatto, loro malgrado e per lor buona sorte, de' sensibili procedimenti... I parlamenti, quando incomin- eiarono ad assalire la Società, trovarono disposti a questo tutti gli spiriPropriamente la filosofia fu quella che, per bocca de' magistrati, diede la sentenza contra i gesuiti... La nazione, e i filosofi alla sua testa, vo.Zeano la distruzione di questi padri...»'. Il giansenismo non fu che il sollecitatore di questa condanna, da tutti desiderata e voluta. Come tutte le spiegazioni basate sull'eterogenesi dei fini, anche questa rimane aperta al dubbio. Certo il modo con cui avvenne in Francia la soppressione della Compagnia fu non poco influenzato dal gran dibattito intellettuale di quegli anni D'Alembert sottolineava fortemente questo fatto, mettendo tra l'altro in luce la presenza, nei parlamenti stessi, di uomini legati alle idee dei philosophes e facendo, ben inteso, i suoi complimenti a La Chalotais 2 . Come acutamente osservava lo stesso D'Alembert, la soppressione dei gesuiti non era stato che uno degli elementi di quella complessa volontà di riforma ovunque emersa in Francia durante e subito dopo la guerra dei sette anni, quasi a rivalsa e risarcimento delle sconfitte e delle miserie che il paese aveva dovuto subire durante quel conflitto. Cosí i philosophes avevano saputo approfittare della rovina dei gesuiti piú d'ogni altra forza in Francia; pii della monarchia, trascinata e non iniziatrice; piú dei giansenisti, che videro tutta una fase della loro esistenza chiusa con l'abbattimento dei loro nemici e che furono costretti, per sopravvivere, ad un profondo riadeguamento; più dei parlamenti, per i quali l'abbattimento della Compagnia non fu che un episodio, e in qualche modo un falso scopo nel loro sempre piú duro conflitto con la monarchia. Ma ciò non significava che D'Alembert avesse del tutto ragione indicando nella philosophie la molla riposta di quel « singulier événement». Piú oscure e intricate ne erano le radici. Passioni, tradizioni, interessi diversi, erano venuti a convergere contro i gesuiti. «La ligue de la nation contre les Jésuites — diceva egli stesso — ressemble à la ligue de Cambrai contre la république de Venise qui avait pour principale cause les richesses et l'insolence de ces républicains » 3 . All'interno stesso della chiesa un Intorno la distruzione de' gesuiti in Francia cit., pp. I11-I2. Questo «celebre magistrato» aveva condotto la sua azione «da uomo di stato, da filosofo e da magistrato illuminato e sciolto da ogni spirito di odio e di partito» (Ibid., pp. 54 e 93). L'opuscolo di D'Alembert era del resto dedicato «Al sig. ***, consigliere del parlamento di ***», quasi a simbolo di questa comune piattaforma che egli intendeva stabilire tra magistrati e philosophes (ibid., P. 6). I membri dei parlamenti — concludeva d'Alembert — « sono tanto perspicaci, buoni cittadini e conoscitori del loro secolo da non soffrire che a quello de' gesuiti succeda un altro fanatismo. Alcuni di essi..., e tra gli altri il signor della Chalotais, si sono chiaramente espressi perché i giansenisti si mortifichino e per meritar l'onore d'esser da essi posti nel numero de' filosofi» (ibid., p. 12o). Cfr. RONALD GRIMSLEY, Jean d'Alembert (1717-83), Clarendon Press, Oxford 1963, pp. 212 sgg. Sur la destruction des Jésuites en France cit., p. 51 (il passo è soppresso nella versione italiana, stampata, come si è visto, a Venezia). Z
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Capitolo secondo
fermento oscuro sommoveva gli animi. «La plupart des ordres religieux, c'est un fait constant, sont agités aujourd'hui par une fermentation intestine et violente qui mine sourdement les uns et dévore ouvertement les autres; nos malheureux moines s'assomment entr'eux dans leurs saintes prisons avec les chaînes qu'ils portent, et qu'ils aspirent à voir brisées...»'. Bastava poi spingere lo sguardo al di là dei confini della Francia per dubitare ancora una volta delle spiegazioni troppo semplici. Non era forse stupefacente che il segnale dell'azione fosse venuto dal Portogallo, dove, con la migliore buona volontà, era difficile reperire molti lumi? In genere, l'iniziativa delle riforme sembrava passare nelle mani degli stranieri. Persino gli italiani, «jusqu'aux Italiens», andavano sentenziando ormai che i francesi non avevano « altra passione che per i biglietti di confessione, ovvero per i buffoni, per la bolla Unigenitus o per l'opera comica » 2. Né D'Alembert ignorava che «quello spirito che accagionò la disgrazia de' gesuiti, in Francia» faceva presagire per loro «una sorte medesima in tutto il rimanente dell'Europa ». «Da lungo tempo sono essi senza credito negli stati del re di Sardegna e della Repubblica di Venezia e la poca esistenza che vi conservano potrebbe assai presto novamente rimanervi scossa da' colpi che hanno ora ricevuti altrove»'. Ma cosa sarebbe accaduto a Napoli? Avrebbe la superstizione dei lazzari consentito al governo di agire? Pii agevole gli pareva la situazione a Parma 4. Con crescente interesse segui le reazioni dei suoi colleghi italiani, quali Frisi e Lagrange, ed ascoltò l'eco molteplice del suo opuscolo anche in Italia. Frisi si dimostrò particolarmente caloroso nell'accogliere quest'opera 5. Ancora alla soglia della morte egli tornò sulle antiche battaglie combattute al fianco del suo grande amico francese. « I gesuiti fremettero di vedere esposta a tutti tranquillamente ed elegantemente la serie degli avvenimenti che obbligarono i parlamenti di Francia a sopprimerli e, quantunque sciolti e dispersi, non cessarono anche dopo la di lui morte di accumulare nei fogli pubblici delle calunnie contro di lui » 6 . Proprio a Frisi D'Alembert aveva scritto, il 20 novembre 1778: «Les Jésuites, Lettre à M. ***, conseiller au parlement de *** Pour servir de supplément à l'ouvrage qui est dédié a ce même magistrat et qui a pour titre: Sur la destruction des jésuites en France. Par un auteur désintéressé, 1768, in OEuvres de d'Alembert cit., torno II, parte I, p. 104. Domenico Carni-
tradusse nell' «Europa letteraria», torno I, parte I (1° settembre 1768), pp. 42 sgg. la recensione che di questo opuscolo aveva dato il «Journal encyclopédique», torno IV, parte I (15 maggio 1768), pp. 91 sgg. Vi si lodava la «viva umanità da cui è tanto caratterizzato il cuore del suo autore ».
ner
: Intorno la distruzione de' gesuiti in Francia cit., pp.
6
accenno a Frisi).
PAOLO FRISI,
tous détruits qu'ils sont, intriguent encore: on n'a jamais vu des hommes lus aisés à tuer et plus difficiles à mourir»'. L'ambiente milanese faceva eco a Frisi. Beccaria scriveva a D'Alembert, il 24 agosto 1765: «J'ai lu avec admiration votre ouvrage sur les ésuites, argument rebattu, qui a pris un air de nouveauté entre vos màins...» Lo lodava d'aver parlato d'un simile soggetto « avec la supé,tiorité digne d'un philosophe», d'aver trovato un degno linguaggio per tparler de ces misérables controverses, la honte et le fléau des foibles humains», d'aver saputo esser neutrale e superiore ai contendenti. «Les philosophes ne voient le tort des Jésuites que du côté de l'humanité et des sciences. Le vulgaire et les bigots surtout ne les détestent que par envie de cabaler et par jalousie d'intrigue contre un corps qui les éclipse» . Da Torino giunsero a D'Alembert le testimonianze del pii vivo plauso da parte del matematico Lagrange. Durante un soggiorno a Parigi, tra il novembre del 1763 e il giugno del 1764, questi aveva assistito alla gestazione del libro. All'inizio del 1765 D'Alembert lo avvertiva che presto avrebbe ricevuto una copia dell'« Histoire de la destruction des Jésuites, que j'ai fait imprimer à Genève; non pas celle que je vous ai lue, mais le même fonds avec beaucoup d'adoucissements. J'ai taché d'y mettre en finesse ce que j'avais mis en force dans l'autre, et je crois que le diable et la Société, et tous les fanatiques, jansénistes, molinistes, augustinistes, congruistes et fous en istes n'y perdront rien» 3 . «Je brule de voir votre Histoire de la destruction des Jésuites, — gli aveva risposto Lagrange da Torino il 20 marzo. — Il n'y en a encore ici qu'un exemplaire, que je sache, et íl est entre les mains du cardinal delle Lanze, mais nos libraires ne seront pas longtemps sans en recevoir, pourvu néanmoins qu'ils ne tombent pas entre les griffes d'une certaine bête qui guette toujours avec une extrème vigilance tous les livres nouveaux et surtout ceux qui viennent de delà les monts». Per fortuna, aggiungeva, l'abate Berta, a cui cosí f aceva allusione, era «plutôt contre les jésuites » e avrebbe perciò lasciato passare l'opuscolo'. Quando poté leggerlo scrisse d'essere « enchanté » di questa Destruction. «Les fanatiques d'ici l'ont déchirée comme de raison, mais le petit nombre de ceux qui pensent l'a regardée comme l'un des meilleurs ouvrages qui soient sortis de votre plume » 5 . Ma non dappertutto l'accoglienza fu cosí favorevole. L'ex doge di Ge17. Cfr. pure un'altra lettera di D'A' OEuvres de d'Alembert cit., tomo II, parte I, p. 48,Lanota Franc-Maçonnerie et la Révolution franlembert a
Frisi, del 9 luglio 1765, in
FRANÇOIS DELBEKE,
çaise et autres essais sur le malt' siècle, «Lectura », Anvers 1 93 8 , P. 5 45.
122-23.
• Ibid., p. 127. • Seconde lettre sur l'édit du roi d'Espagne pour l'expulsion des Jésuites, 15 luglio 1767, in OEuvres de d'Alembert cit., torno II, parte I, p. 114. Cfr. Lettres de M. ***, conseilleur au parlement de *** cit., Première lettre, in Ibid., p. 92,
nota 1 (con un
39
Elogio del signor d'Alembert, Giuseppe Galeazzi, Milano 1786, PP. 48 49. -
Z
Riformatori, torno III, pp. 199-2O0. fEuvres de Lagrange, publiées par J. A. Serret, Paris 1882, vol. XIII, p. 36.
° Ibid. 5 Ibid., p. 42. Una lunga recensione del libro di D'Alembert venne pure inserita, a Firenze, nel le Ef emeridi di Giuseppe Bencivenni Pelli nel luglio del 1765, vol. XIV, p. 166. FIRENZE, BN, Mss
N.A. 10501.
« Sur la destruction des Jésuites en France»
Capitolo secondo
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nova, il filosofo e matematico Agostino Lomellini confessava a Frisi, il 22 giugno 1765: «vi ho trovato delle cose degne di lui, ma il tutto insieme non mi è piaciuto ». Quell'assimilare ai gesuiti qualsiasi ecclesiastico era un errore politico. «Rende cosí la causa de' gesuiti comune a troppe persone, dice quel che dicono i gesuiti, cioè che essi non sono che un pretesto e un primo passo, che si vuol distruggere tutti i religiosi e indirettamente la religione » I. Anche il padre Paciaudi, da Parma, non riusciva a tollerare lo stile scanzonato e superiore di D'Alembert, il quale gli pareva mancare delle « cognizioni elementari del giansenismo per cui mena tanto rumore » e in genere di essere del tutto estraneo ai problemi su cui pretendeva di parlare 2. Come spesso era accaduto, D'Alembert era stato il portavoce ufficioso, il rappresentante dei philosophes di fronte al mondo degli estranei e dei potenti della terra. Ma la sua non era stata la sola voce dell'Encyclopédie a risuonare in questa occasione. Quella pure di Diderot s'era fatta sentire, anche in Italia. Anch'egli si era fatto prendere un momento dall'ondata di speranze che aveva accompagnato la soppressione della Cornpagnia di Geai in Francia. «A l'expulsion des Jésuites — scriverà più tardi — nous croyions toucher au moment de la restauration des bonnes études». Ma si era trattato, si affrettava ad aggiungere, d'una illusione: I parlamenti non s'eran dimostrati a ll'altezza del loro compito. «Les magistrats qui nous ont débarassés de mauvais instituteurs n'ont pas songé à nous en donner de meilleurs. C'est que ce n'est pas le zèle du bien public, mais de petites haines qui les ont dirigés». Neppure La Chalotais era stato capace di proporre un programma davvero convincente'. Quando tuttavia si era trattato di parlare ad un pii vasto pubblico, anche Diderot non aveva potuto non soffermarsi a valutare tutta l'importanza della rimozione dell'ostacolo frapposto da secoli allo sviluppo d'una libera cultura. L'articolo Jésuite sarà pubblicato nel 1765, quando ormai i parlamentari avevano compiuta l'opera loro e quando anche l'Encyclopédie volgeva al suo termine La Compagnia era stata per secoli scuola di dispotismo, diceva. «Soumis au despotisme le plus excessif dans leurs maisons, les Jésuites en sont les fauteurs les plus abjects dans l'état. Ils prêchent aux sujets una obéissance sans réserve pour leurs souverains, aux rois l'indépendance des loix et l'obéissance aveugle au pape; ils accordent au pape l'infallibilité et la domination universelle afin que, maîtres d'un seul, ils soient maîtres de tous». L'ambizione, l'avidità di potere e di rici
SALVATORE ROTTA, Documenti per la storia dell'illuminismo a Genova. Lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in «Miscellanea di storia ligure», vol. I (1958), p. 198. 2
Lettera a Paolo Frisi,
3 DENIS DIDEROT,
21
luglio 1767, conservata a Londra,
BRITISH MUSEUM,
Mss, Eg. 24.
Voyage à Langres, in OEuvres complètes, publiées par J. Assézat et M. Tour-
neux, Garnier, Paris 1876, vol. XVII, pp. 359-6o.
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il celibato Ghezza, li aveva portati alla rovina. La moderna reazione contro brouiller avec se li aveva isolati dal mondo. Avevano avuto il torto di « de lettres, au moment où ceux-ci alloient prendre parti pour eux lessens », cioè i giansenisti. Stupidaennemis contre leurs implacables et tristes mente avevano irritato e si erano inimicati Voltaire. La loro cultura era andata sempre pii inaridendosi. Avevano finito coll'essere considerati piú potenti di quel che erano in realtà. «Et puis cette révolte des habitans pas attirer l'attention des souverains et leurs du Paraguay ne dut-elle » Il fato gravò su di loro. «Enfin le moment fatal étoit penser? donner à le fanatisme l'a connu et en a profité»'. Posizione, come si vede, venu; dissimile da quella di D'Alembert, ma sentita ed esposta con ben dinon passione e intensità. versa L'articolo venne tradotto in italiano, e andò a mescolarsi alla gran congerie degli opuscoli antigesuitici apparsi da noi negli anni sessanta. Quasi che la philosophie fosse ormai in grado di dettar legge in Francia, Diderot aveva concluso dicendo «né odio, né vendetta contro i gesuiti m'ha condotto a scrivere tali cose; il mio fine è stato di giustificare il governo che li ha abbandonati, i magistrati che ne hanno fatta giustizia e di insegnare ai religiosi di quest'ordine che tenteranno un giorno di ristabilirsi nel regno, se vi riuscissero, a quali condizioni possono sperare di mantenervisi» 2. Né mancò in Italia, accanto alla voce di D'Alembert e di Diderot, quella di Voltaire. Fin dall'inizio della polemica il suo nome venne disputato tra sostenitori e avversari della Compagnia. Come « scritti con imparziale e con sommo giudizio » furon accolti dai primi alcuni apprezzamenti inseriti nel Siècle de Louis XIV. I giansenisti risposero «basta che Voltaire abbia dato una sassata a Mons. Pascal perché sia vostro amico e meriti i vostri elogi»'. Come fidarsi d'un uomo cosí vanitoso e egocentrico come Voltaire? Eppure almeno uno dei suoi pamphlets e tra i pii feroci, venne diffuso anche in Italia dai nemici dei gesuiti, la Relazione della malattia, confessione, morte ed apparizione di frate Bertier gesuita, con la relazione del viaggio di frate Garassisa, di quanto è in tal viaggio avvenuto, in aspettazione di ciò ch'anderà in seguito succedendo'. Lo Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences des arts et métiers, Samuel Faulche, Neufchastel (Paris) 1765, vol. VIII, pp. 512 sgg.
Lo stesso anno usciva una «parte 2 Gesuita. Articolo di mano maestra. L'anno 1767, p. XXIV. seconda, che val due lire » di questo opuscolo. Si tratta di una lunga storia dei gesuiti, evidentemente pubblicata per profittare dell'interesse suscitato dall'articolo di Diderot. L'editore era Antonio Graziosi, come ci risulta dai permessi a lui accordati del 5 giugno e del 25 luglio 1767. Il censore era ancora una volta Tommaso Antonio Contin (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova, 340, registro di mandati di licenza stampe 1759 a tutto il 1768).
Risposta alla lettera scritta da un gesuita sul discuoprimento della congiura formata contro il re di Portogallo, in Raccolta di opuscoli cit., tomo III, p. zo.
4 La storia editoriale di questo opuscolo non è del tutto chiara. Gaspare Patriarchi scriveva in proposito all'amico Giuseppe Gennari il 13 aprile 176o: «Se non vi fosse capitato alle mani il se-
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Capitolo secondo
stesso nome di Jean-Jacques Rousseau non fu assente in questo dibattito. A lui era attribuita la Lettera a Gian Francesco Montillet, arcivescovo signore d'Aveto, primate della Guascogna e del Regno di Navarra, consigliere del re in tutti i suoi consigli, che il libraio Bettinelli pubblicò nel
1765. Si trattava d'un apocrifo, significativo tuttavia anch'esso della curiosità con cui si tendeva l'orecchio, a Venezia, alle voci che giungevano d'oltralpe'. L'abate Gaspare Patriarchi, molto legato a Gozzi e ottimo osservatore della vita intellettuale di quegli anni, disse che questa Lettera pareva «fatta in risposta alla Costituzione del p. [apa]», alla bolla cioè Apostolicum pascendi, in difesa dei gesuiti. Ma, si affrettava ad aggiungere, egli non poteva approvare questo tentativo di mescolare il nome di Rousseau alle polemiche religiose del suo tempo. « Se ho da dirvi liberamente l'animo mio — scriveva all'amico Giuseppe Gennari —, mi par cosa mala che si cerchi di rendere affetto il nome d'un autore che fu detestato per i mali suoi scritti in tutti i governi e sino nella sua patria. Il Rousseau è un empio, un cattivo ragionatore, uno stolto politico, un distruggitore d'ogni buon governo e della medesima società, e che un tal nome, che dovrebbesi avere in abominazione, si pronunci con lode, si careggi e si apprezzi non mi garba, né lo posso patire». Punta estrema, come si vede, della ripugnanza dimostrata dal mondo tradizionalista veneziano di fronte alla sempre phi insistente infiltrazione di idee parigine. Eppure anche Patriarchi era in qualche modo costretto ad accettare lo scomodo alleato d'oltralpe nella lotta contro i gesuiti e si affrettava a comunicare, nella stessa lettera ora citata, le notizie delle reazioni francesi contro la bolla Apostolicum pascendi, presto proibita dal Parlamento e dal governo 2. Elemento non trascurabile, come si vede, quello dei philosophes nella polemica dell'inizio degli anni sessanta. Ma troppo immediata fu spesso la curiosità politica degli osservatori italiani perché intendessero perder d'occhio le mosse tattiche dei contendenti e seguissero gli enciclopedisti francesi nelle loro considerazioni pii generali. Per questo gusto politico guente libretto, fate ogni opera per averlo, che vi so dire che vi farà molto ridere. Satira piú mordace, né commedia per invenzione piú ingegnosa non usci mai sul proposito delle circostanze o vertenze di questo tempo. Si dice essere manifattura del Voltaire e si stampa anche qui [Venezia], ma in francese. Il volgarizzamento per altro è bellissimo, né par voltato da questa lingua, ma pretto pretto italiano». La traduzione cosl lodata portava l'indicazione: « In Avignone 1760. A spese della Società» (PADOVA, B. del Seminario arcivescovile, Mss 6x8, f. 412). L'unico permesso di stampa che siamo riusciti a reperire è quello datato del 10 gennaio 1761, all'editore Paolo Colombani, firmato da Marco Foscarini e Alvise Mocenigo. Il luogo di stampa indicato avrebbe dovuto essere « Genevra ». Ben inteso i censori non ignoravano trattarsi d'uno scritto di Voltaire (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336). Non sono riuscito a vedere questa diversa edizione, se pur usci mai alla luce. Il vero autore era probabilmente Pierre-Firmin de Lacroix, avvocato del Parlamento di Tolosa. Cfr. JEAN-JACQUES ROUSSEAU, fEuvres complètes, Gallimard, Paris 1964, vol. III, p. 1872. 2 PADOVA, B. del Seminario, Mss 618, f. 412, Venezia, 6 marzo 1765.
« Sur la destruction des Jésuites en France »
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Portogallo. Ora volgevano gli í lettori italiani avevan già guardato al sguardi soprattutto alla Spagna. Anche agli occhi di D'Alembert la rivolta sordi Madrid del 1766 e le reazioni di Carlo III erano giunte comelauna «raison prevalere col presa. Al di là dei Pirenei, diceva, aveva finito d'état». Dubitava anch'egli, come tanti altri, della colpevolezza dei gesuisempre, diceva, la ti nel « motín d'Esquilace», ma necessaria restava pur in Francia, ma un ampio dibattito, come libero e Non un loro cacciata. ordine venuto dall'alto aveva insomma perduto in Spagna la Compagnia. Né si poteva dar torto al re, « si sage et si juste», quando aveva proibito di parlar pro o contro i gesuiti. «Les mânes même de cette Compagnie épouvantent encore lorsqu'elle n'est plus... qu'il était nécessaire de la renverser! » 1 . Ormai, quando scriveva, nel 1768, i gesuiti erano cacciati anche «de Naples, de Sicile, de Parme, de l'Amérique espagnole, du Paraguai même. Cette expulsion s'est faite pourtant sans bruit, sans scandale, sans la plus légère émeute». La Compagnia aveva mostrato «une fai réelle qui n'avait que le masque de la force » 2. Qual era dunque il-bles significato pii vero e profondo della caduta ormai universale dei gesuiti? Era essa davvero venuta a dimostrare, come d'Alembert pareva insinuare, l'irreparabile debolezza di tutte le tradizioni e credenze religiose? Seconde lettre sur l'édit du roi d'Espagne cit., in OEuvres de d'Alembert cit., tomo II, par-
te I, p. r r2.
Ad d i tion qui doit être mise à la fin de la seconde lettre, in OEuvres de d'Alembert cit., to-
mo II, parte I, p. 118.
L'esempio spagnolo
Capitolo terzo L'esempio spagnolo
Acuto fu in Ita li a l'interesse per le notizie che giungevano da Madrid. Innumeri i legami economici, politici, intellettuali che univano i due paesi. A parte il re, che era stato sovrano delle Due Sicilie prima di passare in Spagna, non pochi tra i riformatori erano gli uomini strettisi attorno a Carlo III che all'Italia erano connessi per origine o per formazione. Tutta la prima fase dell'opera di trasformazione apertasi a Madrid nel 1759 fu dominata politicamente da Leopoldo De Gregorio, il siciliano di oscure origini, diventato marchese di Squillace e primo ministro per una decina d'anni a Napoli, il quale venne nominato in Spagna segretario al trono il 9 dicembre del 1759 e ministro della guerra nel 1763. Fino al marzo del 1766, quando dovrà abbandonare ogni carica in seguito alla rivolta madrilena e tornarsene in Italia, egli sarà l'uomo pii attivo ed energico del governo spagnolo. Grossolano, privo di scrupoli, senza cultura, egli gettò tuttavia il peso della sua forte personalità politica dalla parte dei riformatori. L'odio che s'andò accumulando sulla sua testa da parte dell'aristocrazia e del minuto popolo della capitale, cosí come d'una parte notevole del clero, sta a testimoniare la rozzezza dei suoi metodi politici, ma anche l'energia con cui egli operò contro le forze pii tradizionaliste. Quando cadde, non fu sostituito nel favore del re. L'esperienza fatta tra il 1759 e il 1766 dimostrò che gli strumenti abituali dell'assolutismo, il potere dei favorito, il machiavellismo e magari la burbanza e la durezza, dovevano ormai esser sostituiti dall'opera paziente e sapiente di tecnici e funzionari illuminati, mediati ed equilibrati dall'intervento del sovrano. Il « motín d'Esquilace», come fu detta la sommossa che cacciò il De Gregorio dal potere, non segnò dunque una rottura nella politica riformatrice di Carlo III, ma il passaggio da una fase ad un'altra di essa. La spinta, impressa dal marchese di Squillace, non andò perduta, ma si trasformò profondamente Cfr.
RAFAEL OLAECHEA,
versidad, Zaragoza 1969.
El conde de Aranda y el «partido aragonés», Facultad de letras, Uni-
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Già nel 1763 un altro italiano gli era al fianco nel governo, come ministro degli esteri, Girolamo Grimaldi. Come Alberoni, da rappresentante diplomatico d'un piccolo stato italiano s'era trasformato in architetto della politica estera del paese presso cui era accreditato. Diplomatico genovese in Spagna, era diventato rappresentante di Filippo V e poi di Ferdinando VI a Vienna, in Baviera, in Svezia, all'Aia. Nel 1761 Carlo III gli aveva affidato il delicato compito di negoziare il patto di famiglia e di schierare la Spagna dalla parte della Francia nell'ultima fase della guerra dei sette anni Alla conclusione di questa, nel 1763, e sino al 1 776, Grimaldi insisterà, non senza incontrare forti opposizioni, nel suo orientamento filofrancese, certo perché tale era la volontà del suo sovrano, ma esprimendo pure, in questa sua politica, le preferenze e le simpatie di tanta parte del patriziato genovese da cui proveniva. Uomo colto, amico dei dotti, Girolamo Grimaldi aggiunse pii d'un tocco d'italica finezza al mondo dei riformatori spagnoli. In Italia aveva compiuto gran parte della sua carriera Juan Gregorio Muniain, che nel 1748 era diventato comandante delle truppe di Filippo, duca di Parma, là « se convertio al espiritu " reformista" », tornando in Spagna nel 1762 per partecipare al conflitto con il Portogallo e per diventare nel 1766 ministro della guerra, fino alla sua morte, nel 1772'. Nel piccolo e attivissimo gruppo di uomini che in Spagna forgiarono la nuova politica giurisdizionalista degli anni sessanta, l'esperienza dell'Italia, il contatto diretto con Roma fu spesso elemento decisivo della loro carriera 2 . Manuel de Roda, plenipotenziario di Ferdinando VI a Roma, là si fece i muscoli per quella politica che applicherà poi come ministro della giustizia, a partire dal 1765 3 . José Moi ino, figlio di un notaio e cresciuto anch'egli nel mondo della legge, sarà ambasciatore a Roma nel 1772, particolarmente attivo nell'ultima fase della lotta contro i gesuiti. Per questo egli verrà fatto conte di Floridablanca 4 . Terzo tra cotanto senno era Nicolas de Azara, il raffinato rappresentante della generazione matura dei regalisti illuminati della Spagna, legato per le sue origini VICENTE RODRIGUEZ CASADO,
La politica y los politicos en el reinado de Carlos III, Rialp, Ma-
drid 1962, p. 15o.
2 RAFAEL OLAECHEA, Las relaciones hispano romanas en la segunda mitad del xvirr siglo. La agencia de preces, Universidad, Zaragoza 1965. Spiega come la Spagna avesse a Roma due rappre-
sentanti, un ambasciatore presso lo Stato pontificio e un « agente general de preces o peticiones» presso il papa. Ibid., vol. I, pp. 237 sgg. Un suo ritratto, per mano di Batoni è riprodotto a p. 240. Appena giunto in Italia compi un viaggio a Napoli e fu entusiasta di quel che vide. Tanucci divenne il suo modello, e il suo sentimento d'ammirazione fu ricambiato. «Io lo amo, lo stimo, lo venero... », scriverà Tanucci a Bottari. Da Roma Roda dirà, l'8 novembre 1759, che « las artes y ciencias estan alli [Napoli] en el mayor auge y buen gusto, y es que no hay colegiales [allievi dei collegi universitari e gesuitici] y los golillas [i paglietti] no son tan bârbaros en Espaíía...» (ibid., p. 256). CAYETANO ALCAZAR MOLINA, El conde de Floridablanca (Notas para su estudio), Rivadeneyra, Madrid 1 929, pp. 47 sgg•
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L'esempio spagnolo
Capitolo terzo
al mondo della legge, delle scienze, delle società agrarie, di gusto neoclassico, sottile politico, in cui il giurisdizionalismo si trasformava ormai in un delicato strumento diplomatico per contenere, raffrenare, svelenire tutto il torbido mondo delle superstizioni, dei fanatismi, delle passioni religiose Certo gli anni che seguirono il 1766 videro giungere al governo una équipe di uomini politici tipicamente spagnoli, strettamente legati alle tradizioni e alle esigenze del paese (l'asturiano Campomanes e l'aragonese Aranda sono esemplari), ma è vero pure che le fondamenta gettate tra il 1759 e il 1766 non furono rimosse e che gli avvenimenti di quegli anni, dalle carestie ai conflitti con la curia romana e i gesuiti, finirono col ribadire e rendere pii stretti i rapporti tra la Spagna e l'Italia. Quel che nel 1759 aveva potuto parere un legame puramente personale, ministeriale o dinastico era diventato, nel giro d'una decina d'anni, un nodo politico e intellettuale. L'opera svolta e pii ancora il programma di lavoro del governo di Carlo III colpi gli italiani per la sua ampiezza e varietà. Monomaniaco, a confronto, poteva parere quello portoghese. I rapporti tra chiesa e stato vennero in Spagna esaminati nelle loro implicazioni storiche, giuridiche, finanziarie. Le discussioni economiche tesero presto a sboccare in una legge agraria comprensiva di tutti gli aspetti della vita delle campagne spagnole. Qualcosa di troppo ambizioso stava in questi piani, né mancava un elemento d'utopia intesa a tutto regolamentare. Viva tuttavia si sentiva la nascente volontà d'un rinnovamento integrale. Gli italiani non ebbero la possibilità di leggere la pagina in cui Pablo de Olavide, nel 1768, sintetizzò il programma suo e dei suoi amici. Il suo Plan de estudios para la Universidad de Sevilla rimase inedito 2. Vi poneva il problema politico essenziale, la necessità cioè di spezzare i gruppi, le classi, le corporazioni in cui era suddivisa la Spagna per creare finalmente una nazione. «Parece que Espaíia es un cuerpo compuesto de muchos cuerpos pequeflos, destacados y opuestos entre sé, que mutuamente se oprimen, se deprecian, se hacen una continua guerra civil». Ogni provincia formava un corpo a se stante. Ogni comunità religiosa, ogni collegio, ogni gruppo professionale («gremio») « se separa del resto de la naI.
Di scarso valore il lavoro di CARLOS E. CORONA BARATECH, José Nicolhs de Azara. Un ambajador espanol en Roma, Institución «Fernando el Católico », Zaragoza 1948. Bisogna tornare a quel mirabile documento che sono i tre volumi di El espíritu de don José Nicolas de Azara descubierto en su corrispondencia epistolar con don Manuel de Roda, J. Martin Alegría, Madrid 1846. s Una copia coeva si trova nelle Obras manuscritas de Don Pablo de Olavide conservata ad OXFORD, Bodleian Library, Mss 954, ff. I20 sgg. Cfr. MARCELIN DEFOURNEAUX, Pablo de Olavide ou l'afrancesado (1725-1803), Presses Universitaires de France, Paris 2 959, PP. 109 sgg., cap. V: Le plan de réforme universitaire e FRANCISCO AGUILAR PINAL, La Universidad de Sevilla en el siglo XVItt, Estudio sobre la primera reforma universitaria moderna, Universidad, Sevilla 1969, pp. 201 sgg.
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ción para reconcentrarse en si mismo». Ogni professione era retta da un proprio regolamento e possedeva un proprio tribunale. Cosicché «el militar, el letrado, el colegial, el religioso y el clérigo solo son lo que su profesión indica, pero jamas son ciudadanos» «El pueblo, desde el alto al bajo se divide cada uno en su clase y quiere distinguirse hasta en el culto». Ogni iniziativa tendeva ad esaurirsi entro un ambito ristretto e a dar vita ad una istituzione separata, col risultato che tutte funzionavano male. «Esta singularidad hace que la nación esta llena de tantas pequefias fundaciones, ya inútiles por mal dotadas y peor administradas». Analisi che sarebbe piaciuta agli uomini del «Caffè». Campomanes e Verri — un ravvicinamento che già fu fatto dai contemporanei '. Ma i milanesi avevan dapprima fatto conoscere le proprie idee ( tra l'altro proprio sulla necessità d'una politica che eliminasse i gruppi e i corpi intermedi) ed erano passati poi a tentar di applicare il loro programma, con l'aiuto dell'autorità. Gli spagnoli, Olavide, Campomanes, erano cresciuti all'interno dell'amministrazione, nell'esercizio del potere, della legge e non saran portati a tentar di far conoscere pii largamente le loro idee se non dall'esigenza d'allargare il terreno politico sul quale intendevano muoversi. Non erano generalmente degli intellettuali trasformati in uomini politici, ma dei funzionari che, in mezzo a mille difficoltà, apprendevano a servirsi della pubblicità, della propaganda, delle accademie, delle società agrarie. Campomanes costituí l'esempio decisivo. Fu lui, insieme a Francisco 'Carrasco a far compiere un passo essenziale alla discussione sulla proprietà ecclesiastica 2 . Fino ad allora, a partire soprattutto dal concordato del 1737, si era molto discusso sulle tasse che la chiesa era tenuta a pagare sulle sue terre di nuovo acquisto. Con scarsi risultati, come faceva notare Carrasco'. Bisognava passare, sosteneva, ad una legislazione che limitasse e magari impedisse l'acquisto di beni immobiliari da parte degli ecclesiastici. Una legge dunque non pii finanziaria, ma fondiaria, concepita da lui e da Campomanes come la prima pietra d'una legislazione che «Ciò che è presso noi l'illustre presidente Verri, lo è per la Spagna il conte di Campomanes...» ( «Giornale enciclopedico d'Italia », Napoli, torno VII [1788], n. 1, p. 7). della tesi sostenuta all'università di 2 Si veda il capitolo Campomanes and the amortization '
Oxford da LAURA RODRIGUEZ, Some aspects of reformist policy in Spain, 1759-1788, with special reference to Pedro Rodriguez de Campomanes, che utilizza per la prima volta le carte familiari di
questi, coal come una serie di fondi poco esplorati delle biblioteche e degli archivi spagnoli. Ringrazio la signora Laura Rodriguez di avermi permesso di prendere visione di questo suo lavoro.
Representación hecha al rey N. S. por D. Francisco Carrasco en su Consejo supremo de Castilla y fiscal en el de Hacienda sobre amortización, el primero de junio del 1764, Antonio Marín, Madrid 1765, P. 3. Sull'autore cfr. l'interessante articolo di SALVADOR DE MoXÓ, Un medievalista en el Consejo de la Hacienda: Don Francisco Carrasco, marqués de la Corona (1715-1791),in «Anuario
de historia del derecho espanol», tomo XXIX (1959), pp. 609 sgg. Lo scritto di Francisco Carrasco, cost come gli altri testi di questa discussione vennero tradotti in italiano per uso del governo di Bogino. Vedili manoscritti in TORINO, AS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, mazzo r. Tra le ca rt e di Andrea Querini, uno dei pill attivi patrizi veneziani di quegli anni, si trova una copia del memoriale di Campomanes e di Carrasco del 26 giugno 1765. VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. IX, 26.
.
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Capitolo terzo
L'esempio spagnolo
tendeva a modificare le basi stesse della proprietà terriera. Non si trattava soltanto di difender l'erario, ma di proteggere l'intera società spagnola, rosa all'interno dalla crescente penetrazione clericale. Era necessario un rimedio « radical y fundamental », quello di « poner limites a las adquisiciones de bienes raíces por las manos muertas». Per appoggiare questa tesi Campomanes scrisse il suo Tratado de la regalia de amortización, terminandolo nell'aprile del 1765. Era una grossa opera ispirata alle due passioni intellettuali dell'autore: il diritto e la storia, strettamente congiunte nell'animo suo e che lo spingevano a ricostruire con gran ricchezza di dati i precedenti d'ogni questione prima di giungere a conclusioni semplici e pratiche. Si era evidentemente giunti ad un punto nevralgico della discussione regalistica e di quella economica. Proprio per questo Campomanes chiese ed ottenne che il suo Tratado fosse pubblicato a cura e spese dello stato e diffuso attraverso canali ufficiali ai magistrati centrali e periferici, a numerosi teologi, ed anche all'estero, in tutte le corti italiane, ad esempio'. Larga fu la discussione, e non soltanto al vertice 2. Nel Consiglio di Castiglia Campomanes incontrò forti opposizioni. Venne energicamente difeso da Carrasco e da una abile scrittura che circolò sotto uno pseudonimo, e che era in realtà opera di Morino, il futuro conte di Floridablanca'. Il 26 febbraio 1766 la deputazione dei regni di Castiglia, León e Aragona, allargando sempre maggiormente la discussione, appoggiava vigorosamente la tesi di Campomanes, descrivendo, tra l'altro, gli effetti dirompenti dell'estendersi della mano morta nei villaggi spagnoli. Ogni volta che un monastero acquistava una terra o la riceveva in eredità, diceva, esso si gettava ben presto a comprare « las mejores tierras del lugar», occupava i pascoli comuni con il proprio bestiame e, non pagando imposte, si trovava in una situazione di forza che gli permetteva d'inghiottire l'intero villaggio, il quale, « en muy corto tiempo, se reduce a un vicendario de jornalieros de la misma comunidad» 4 . Proprio qui staLaura Rodriguez,
estado, leg. 7911. 2
nel suo scritto sopra ricordato, cita
SIMANCAS,
Archivio general, Sección
Fondamentale in proposito è la dissertazione sostenuta nel dicembre 1969 presso l'università
di Princeton da CHARLES CURTIS NOEL, Campomanes and the secular clergy in Spain. 1766-1780. Enlightenment vs. tradition (ringrazio la biblioteca di quella università per avermene permesso la consultazione). Da questo lavoro è tratto l'articolo di ID., Opposition to enlightened reform in Spain: Campomanes and the clergy. 1765-1775, in «Societas. A review of social history», vol. III, n. z (in-
verno 1973), pp. 21 sgg. Un interessante tentativo di inquadrare l'iniziativa di Campomanes nella storia generale dei beni ecclesiastici nella Spagna moderna si trova in FRANCISCO TOMAS Y VALIENTE,
El marco politico de la desamortización en Espana, Ediciones Ariel, Esplugues de Llobregat, Bar-
cellona 1971, pp. 24 sgg. Una copia di questo memoriale si trova tra le Obras manuscritas de Don Pablo de Olavide cit., col titolo Dictamen critico-apologético sobre el Tratado de amortización del Sgn. Don Pedro Rodriguez Campomanes, por Don Antonio Joseph Dorre, 1765. ° Consulta por la deputación de estos reynos de Castilla, León y Aragón, s. 1., 26 febbraio 1766, p. 7.
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va la vera causa della decadenza « de la agricoltura, la despoblación del reyno, la falta de comercio, y la minoración de las manufacturas y navigación» . La via sembrava aperta per un'ampia inchiesta agraria, promossa con lo scopo di preparare una nuova legge sulla proprietà terriera della Spagna. L'Expediente de la ley agraria venne infatti lanciato il 7 di aprile 1766 chiedendo agli intendenti di esaminare e descrivere le varie situazioni locali'. Ma la macchina fu lenta a mettersi in movimento. Il problema della riforma agraria era posto, ma, fin dall'inizio, gravi apparvero `gli ostacoli frapposti dalla lentezza dell'amministrazione statale e dalle innumerevoli resistenze conservatrici. Eppure, nel 1766, le voci che giungevano dall'estero suonavano come un incoraggiamento all'azione. Su due colonne, col testo italiano da una parte e spagnolo dall'altra, veniva pubblicato « en la imprenta de la Gazeta», ufficialmente cioè, l'editto del conte di Firmian, del 20 gennaio 1766, sulle mani morte del ducato di Mantova'. « Tra gli oggetti che interessano la nostra materna cura e vigilanza, sempre intenta al bene e al vantaggio dei nostri amatissimi sudditi ci sta specialmente a cuore la propagazione del commercio, onde agevolar loro la conservazione ed aumento delle facoltà... Libera Noi pertanto di promuovere la pubblica f acilità con que' mezzi che più opportuni ci sembrano, senza che il fatto de' nostri predecessori vaglia ad imporci verun obbligo o a prescriverci limitazione alcuna...» Maria Teresa decideva di «tagliare il male alla radice » e di impedire con una serie di misure l'alienazione a favore della chiesa, punendo « gli atti di ultima volontà che si celebrano occultamente e segretamente ». Era poi la volta dell'editto veneziano del Collegio dei Dieci savi sopra le decime di Rialto, del 22 aprile 1766, approvato dal Senato veneto il 26 aprile e pubblicato il 2 2 maggio °. Il tono era più conservatore che non nel decreto lombardo e « sapientissime » erano considerate, ben inteso, le antiche disposizioni. La repubblica non intendeva certo mutarle, ma soltanto rinnovarle e ribadirle. Notava tuttavia come « con grandissimo danno e con sensibilissima pubblica amarezza si vedeva tuttavia abbandonato il pubblico e il privato interesse » di fronte alla crescente ingerenza della chiesa. Era « necessario alla gravità del male applicare li rimedi corrispondenti senza ritardo ulteriore». «Ogni principe » aveva il dovere di conservare l'armonia e la proporzione tra gli individui del pro' Consulta cit., p. 52.
El marco politico de la desamortización cit., pp. 13 sgg. Edicto de la imperatriz reyna de Hungaría y Bohemia, ecc. ecc., duquesa de Mantua y Sabioneta, principesa de Bozolo que prohibe en aquellos dominios la enagenación de bienes raices en manos-muertas sin real permiso, baxo de ciertas reglas, en la imprenta de la Gazeta, ano de 1766. Edicto de la república de Venecia para la puntual esecución de las leyes que prohiben la adquisición de raíces à las manos-muertas, en la emprenta de la Gazeta, ano de 1766. 2
FRANCISCO TOMAS Y VALIENTE,
5o
L'esempio spagnolo
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prio stato, « affinché le sostanze de' sudditi, fermandosi con eccedenza in un membro solo, non impediscano quella circolazione che è necessaria alle azioni di tutto il corpo e alla sussistenza della repubblica nostra» '. Malgrado simili incitamenti, malgrado l'appoggio trovato in Spagna, anche da parte di numerosi teologi, le opposizioni laiche ed ecclesiastiche andarono rapidamente aggravandosi: la proposta di Campomanes fini col cadere vittima della crisi che segui il «motín de Esquilace». Già il gruppo riformatore subì un primo scacco quando non riuscí a portare di fronte ad un pubblico pi ll largo l'essenziale di questo dibattito. Malgrado un intervento di Grimaldi, nel dicembre del 1765, il numero delle copie dei testi da distribuire agli alti funzionari fu ridotto ad una trentina. Al momento decisivo il re non se la senti di affrontare una battaglia col clero, quando già doveva fronteggiare l'ostilità di una parte dell'aristocrazia e del popolo madrileno. Quando si giunse al voto nel Consiglio di Castiglia, l'8 giugno 1766, solo sei membri su sedici votarono a favore, tra i quali Aranda e Miguel Maria de la Nava, che sarà uno degli esecutori dell'espulsione dei gesuiti. Dopo il voto il progetto venne archiviato dal re. Era evidentemente pericoloso lasciare intravedere una diversa soluzione del problema della terra. Non era vero, sottolineò il Consiglio di Castiglia nella sua decisione finale, che la pubblica felicità consistesse in una distribuzione proporzionale della proprietà. Al contrario, ad un buono ed armonioso governo del reame era necessaria l'esistenza di cittadini d'ogni specie, potenti, ricchi, poveri ed anche miseri. Senza questa varietà sarebbe stato impossibile controllare e governare lo stato. Nel 1768 Olavide disse che, in Spagna, la mano morta ecclesiastica era «un davo ya incurable» 2 . Lo scacco insomma era dovuto all'importanza stessa dei problemi che stavano al fondo del Tratado de la amortización di Campomanes. Ciò spiega pure il gran successo che questo libro ebbe in Italia. L'ambasciatore veneziano a Madrid si affrettò ad inviarne una copia al Senato. « Famoso » era già definito questo Tratado da Alvise Contarini nel suo rapporto del ç ottobre 1765'. Nel 1767 ne uscirono ben tre edizioni — e si trattava d'un'opera massiccia, tanto che dovette esser pubblicata in tre volumi Una edizione ne diede a Milano Federico Agnelli, un'altra Vincenzo Radici a Venezia ed un'altra ancora Filippo Carmignani a Parma'. ' Edicto de la república de Venecia cit., p. 12. FRANCISCO TOMAS Y VALIENTE, El marco politico de la desamortización cit., p.
2
28.
3 VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. IV cod. 413, f. 19. « Trovando dunque il detto volume fra le pubbliche carte della Secreta, spedito dall'ambasciator in Spagna come importante a quello stato, credo mio dovere di accennarlo a Vostre Serenissime nel senso appunto di una dell'essenziali provvidenze uscite nelli paesi forestieri sopra il presente argomento ».
4
Trattato della regalia d'ammortizzazione, nel quale si dimostra, seguendo la serie delle diver-
51
«Non declamazioni, non fanatismo, non spirito di partito, ma ragioni, fatti, esami della storia», diceva recensendo l'edizione milanese l'«Estratto della letteratura europea», la rivista creata da Fortunato de Felice, che stava allora passando nelle mani di Pietro Verri e dei suoi amiçi, milanesi. Verri, scrivendo al fratello Alessandro gli parlava del « famoso Campomanes, autore della bell'opera sui beni posseduti da mano morta»'. L'edizione veneziana del Tratado era dedicata ai « deputati extraordinari aggionti al Collegio Eccellentissimo de Dieci savi» Gian Antonio de Riva, Andrea Querini e Alvise Valaresso, ai magistrati cioè incaricati di prendere le necessarie misure sulle mani morte nella repubblica di San Marco 2 . Parma, che nel 1767 stava diventando l'epicentro della lotta giurisdizionale in Italia forni l'edizione pii elegante e completa. Là al Tratado di Campomanes facevano seguito altri progetti e pareri suoi, tra cui il Consulto col quale egli aveva consigliato al governo di non accogliere in Spagna i gesuiti fuorusciti dalla Francia'. Una diffusione insomma, quella italiana, che l'autore non si era neppure sognata in patria. Quel che per Madrid era malgrado tutto rimasto un memoriale chiuso negli ambienti governativi, diventava in Italia un libro di politica economica largamente diffuso e discusso'. Trovarono cosí un'eco da noi non soltanto i sottili e dotti ragionamenti di Campomanes contro la « proprietà ecclesiastica», ma anche la sua appassionata difesa della piccola proprietà contadina. Senza questa radice, diceva, le società erano «piante parassite, a fior di terra», gli uomini «vagabondi», come tanti se ne vedevano per le terre e strade di Spagna, «un tempo abitanti utili, i quali oggidí vanno accattando e commettono misfatti» s. Non era la pigrizia, ma la scarsezza di «beni stabili o se età, fin dal nascimento della chiesa, in tutti i secoli e paesi cattolici, l'uso costante dell'autorità civile nell'impedire le illimitate alienazioni di beni stabili a chiese, comunità e altre mani morte, con una notizia delle leggi fondamentali della monarchia spagnuola sopra questo punto che comincia co' goti e segue ne' vari successivi stati coll'applicazione al Consiglio attuale del regno dopo la sua unione e al benefizio attuale de' vassalli. Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di Emanuele Greppi e di Alessandro Giulini, L. F. Cogliati, Milano 1923, vol. I, parte II, p. 259, 23 marzo 1768. 2 La dice uscita « questa settimana» l'auditore del nunzio, l'abate Gioacchino Paglioni, scrivendo al cardinal Torrigiani il 21 marzo 5767 (ROMA, Archivio segreto vaticano, Nunziature, Ve-
nezia del
223).
3 Ne annunciava la pubblicazione del primo volume il «Supplemento della Gazzetta 21 aprile 5767. «Quanto prima se ne pubblicherà un secondo», aggiungeva.
di Parma»
Della sua diffusione è testimonianza, tra le altre, l'attribuzione « al celebre Campomanes, au-
tore del Trattato della regalia d'ammortizzazione» d'un volumetto apparso nel 5767 a opera di Giovacchin Domenico Ceri, intitolato La causa de' poveri superiore agli ornamenti meno utili, oziosi e superflui dell'altare e alle solennità, in Nuove edizioni dell'impressore e libraio Graziosi di Venezia, in appendice a DOMENICO CAMINER, Saggio storico del regno di Corsica, Venezia 1768, p. 126. Cosi pure, nel 1767, pubblicando, sempre presso Antonio Graziosi, la sua Raccolta di leggi e statuti su
1 Possessi ed acquisti delle mani-morte, con varie dissertazioni di celebri autori
ANTON FILIPPO ADA-
d'un'opera che può servire di continuazione al Trattato della regalia scritto da Don Pedro Rodriguez Campomanes. Altri esempi ritroveremo piú
MI si affrettava ad assicurare il lettore che si trattava
oltre, esaminando il dibattito sulle mani morte nelle diverse terre italiane. Trattato della regalia d'ammortizzazione, ed. di Parma, cit., p. 53.
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libellati» ad aver ridotto le campagne spagnole in quello stato. A sua volta ciò dipendeva da una errata «costituzione» del governo, della nefasta sua politica economica, che non si era curata e non si curava di mantenere la massima possibile eguaglianza dei «fondi da coltivare»'. La lotta contro le mani morte sboccava cosí sulla visione d'una società composta di liberi coltivatori. I progetti e tentativi di Pablo de Olavide nella Sierra Morena saranno alla fine degli anni sessanta l'espressione pii famosa e visibile di una simile tendenza 2 . Campomanes lo appoggerà a fondo, per poi riprendere questi programmi nella sua campagna a favore delle società d'agricoltura e nel suo Discurso sobre el fomento de la industria popular, apparso nel 1774 3 . In una decina d'anni egli era cosí passato dalle dispute giurisdizionali ai piani di trasformazione economica e ad un grandioso tentativo di rimettere la Spagna al lavoro. Gli intellettuali, diceva, distolti finalmente dalle « especulaciones abstractas», avrebbero diretto e guidato questa impresa: «las gentes de letras tienen en la repùblica el encargo que en las tropas los oficiales » 4 . I Trattato della regalia d'ammortizzazione cit., p. 54. 2 Cfr. Informe de Don Pablo de Olavide sobre la ley agraria, pubblicato da Ramón Carande, in
«Bolet.n de la Real Academia de la historia », tomo CXXXIX, quaderno II (ottobre-dicembre 1956), sgg. Anche in Italia il tentativo di colonizzazione di Olavide venne seguito con interesse. Cos. nella gazzetta di Bologna del z febbraio 1768, n. 5, si leggeva: e Le nuove popolazioni, o siano colonie fiamminghe stabilite nella provincia di Sierra Morena vanno facendo p.i progressi che si speravano... » Il 22 marzo dello stesso anno, n. 12, si parlava già di lzoo colonie, «la maggior parte tedesche e ne arrivano ogni giorno delle altre. Il Consiglio di Castiglia non lascia mezzo alcuno intentato per farle fiorire... ha già fatto distribuire ad ogni famiglia una determinata misura di terreno cogli utensili e bestiame necessari per il lavoro e loro sussistenza ed hanno quei coloni seminate una gran parte di detto terreno che si conosce fertilissimo. Questo sarà un principio per rendere popolato questo regno e con questo mezzo si renderà anche phi agevole e piú sicuro il viaggiare in esso». ' Una copia manoscritta del memoriale sulle Poblaciones de Sierra Morena. Dictamen del Sr Campomanes sobre su visita de orden del Consejo si trova ad OXFORD, Bodleian Library, Mss 954• Cfr. MARCELIN DEFOURNEAUX, Pablo de Olavide cit., pp. 129 sgg. Per un bilancio dell'esperienza di bonifica e colonizzazione in Andalusia, cfr. PAUL J. HAUBEN, The first decade of an agrarian experipp. 357
ment in Bourbon Spain: the «new towns» of Sierra Morena and Andalusia, 1766-1776, in «Agric. hist.», vol. 39, n. 1 , PP. 34 sgg. (nel luglio del 1769. coloni stranieri giunti nella Sierra Morena erano 7764. A partire dal 1770 gli spagnoli cominciarono ad essere in numero superiore). Sull'eco in Italia, cfr. Cinque nuovi decreti interessantissimi di S. M. Cattolica compilati dal celebre D. Pe-
dro Rodriguez di Campomanes che riguardano la disposizione de' beni mobili e stabili appartenenti già ai religiosi della sedicente Compagnia di Gessi, in favore di una nuova popolazione di Allemanni e Fiamminghi in Sierramorena, di ospitali, case di misericordia, ecc. Con ordinazioni spettanti all'istruzione della gioventd nelle umane lettere ecc. ecc. e Cedula reale che stabilisce le pene contra i gesuiti che tornassero nei domini di S. M. sotto il pretesto di essere dimessi dalla Compagnia in contravvenzione della prammatica sanzione del due aprile di quest'anno 1767, con una lettera circolare sulle profezie e rivelazioni sparse da fautori de' gesuiti ne' conventi di monache, Gianmaria
Bassaglia e Vincenzo Radici, Venezia 1767. In una parte introduttiva, a p. IV si leggeva: «Non occorre che a voi io dimostri che l'azione pii gloriosa d'un sovrano è quella di popolare i suoi stati di gente industriosa la quale, ponendo in valore le terre incolte e facendovi fiorire l'agricoltura e le altre arti utili, contribuisce cosi all'ampliazione del commercio, fondamento della floridezza degli stati e della pubblica civile prosperità ». Esempio illustre di una simile politica era la colonizzazione della Sierra Morena.
Discurso sobre el fomento de la industria popular. De orden de S. M. y del Consejo, Antonio 1774, P. v. Sull'eco in Italia di questo Discurso, cfr. FRANCO VENTURI, Economisti e riformatori spagnoli e italiani del de Sancha, Madrid
PP. 541
sgg.
'700, in «R. stor. ital. », anno LXXIV, fasc. 3 (luglio 1962),
53
In Spagna, diversamente da quanto avveniva nel medesimo periodo in Italia, meno radicale fu, in ultima analisi, la rimozione degli ostacoli ehe la chiesa andava frapponendo ad una simile volontà riformatrice, phi phi timida e par- picolabre tnpodl'Iquisze, ziale la polemica contro l'organizzazione clericale, piú sorda e limitata l'eco che rispose all'appello, sempre phi radicale e violento, proveniente dai philosophes francesi. Malgrado il grosso colpo inferto dalla cacciata dei gesuiti, quando la Spagna si era dimostrata particolarmente dura ed energica, la spinta riformatrice venne gravemente frenata e contenuta dalla tradizione della chiesa. Ben lo si vide quando l'Inquisizione arrestò Pablo de Olavide, il 24 novembre i 776, per poi processarlo, condannarlo e isolarlo completamente dal mondo per una decina d'anni. Non fu questo che l'ultimo atto d'una lunga resistenza combattuta dal Sant'Ufficio contro libri spagnoli e stranieri (particolarmente caratteristica la pro- ibizione dell'opera di Beccaria, di cui Campomanes era pur riuscito un momento, nel 1774, a far pubblicare una versione castigliana)._Nell'in sieme possiam dire che la chiesa riuscí ad impedire che la lotta regalista si allargasse al di là di certi limiti e si trasformasse in un phi vasto movimento illuminista. L'Inquisizione non fu abolita, come in molte terre italiane, né divenne uno strumento nelle mani dell'assolutismo, come in Portogallo. Continuò ad agire come un potere autonomo, che lo stato riuscí a frenare e limitare, ma non a sostituire o a controllare mai completamente'. Tenace e intelligente, ma difficile, lenta e non sempre vittoriosa fu la battaglia dei riformatori per la riforma delle università, dei Colegios mayores, delle scuole 2 . I vescovi vennero spesso messi al servizio della politica di Carlo III, ma conservarono un gran peso nella vita locale e, anche a Madrid, malgrado il loro diminuito potere nel Consiglio di Castiglia, furono tutt'altro che facili da dirigere. Come in Italia, anche in Spagna i riformatori sperarono di servirsi dei parroci per la loro opera di illuminazione nelle campagne. È difficile dire fin dove ci riuscissero. In Italia la penetrazione del giansenismo, del regaliamo, dell'illuminismo nel basso clero fu certo molto più profonda. In Spagna le radici campagnole della chiesa restarono particolarmente salde. MARCELIN DEFOURNEAUX,
L'Inquisition espagnole et les livres français au xvin' siècle, Presses
Universitaires de France, Paris 1963. cit., pp. 109 sgg. (per Siviglia); LUIS SALA BA2 Cfr., tra le opere recenti, ID., Pablo de Olavide III, UniversiLUST, Visitas y reforma de los Colegios Mayores de Salamanca en el reinado de Carlos GEORGE M. ADsi accenna ad una possibile influenza napoletana); 26, (dove, a p. 1958 dad, Villadolid Duke University Press, Durham (N.C.) DY, The Enlightenment in the University of Salamanca, 1966; A. ALVAREZ DE MORALES, La «ilustración » y la reforma de la universidad en la Espana del siStudents and Soglo XVIII, Instituto de estudios administrativos, Madrid 1971 e RICHARD L. KAGAN, (che riguarda tutciety in early modern Spain, The John Hopkins University Press, Baltimore 1974 tavia il Cinque e Seicento).
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Gli intellettuali, gli ufficiali del moto riformatore, come li chiamava Campomanes, furono attivi, capaci, intelligenti, ma il loro sforzo fu piú duro che altrove. Agli occhi di un acuto osservatore, il veneto Pietro Giusti, allora al servizio dell'impero nell'ambasciata di Madrid e legato con l'ambiente milanese del «Caffè», la Spagna restava, nel 1775, uno dei paesi «ove la luce della filosofia» penetrava «con maggiore elifficoltà e lentezza», come egli scriveva a Cesare Beccaria. La Spagna era «produttrice d'ingegni profondi e naturalmente giusti, ma ritenuti nell'inazione non dall'influenza del clima, come si declama da alcuni e si copia dagli altri, ma dal dispotismo religioso e politico e dalla cattiva legislazione»'. Certo lentamente andava «dileguandosi l'antica nebbia e pare che voglia spuntare l'aurora di un bel giorno», scriveva poco dopo a Paolo Frisi. Non senza frutti restavano infatti «gli sforzi di tre nuovi Bacchi, ovvero Orfei, i quali hanno cominciata la rivoluzione. Il marchese Grimaldi, coll'aperta protezione delle scienze e delle arti, il conte d'Aranda, col perfezionare la pubblica economia e polizia e il fiscale Campomanes col distruggere gli inveterati pregiudizi della giurisprudenza ecclesiastica». «Ma che? Parmi di vedere in essi altrettanti Cesari nuotanti contro un torrente un codice alla mano. Tardissimi sono i passi che si fanno: la nativa indolenza nazionale, l'attaccamento ai radicati pregiudizi, l'orrore della luce filosofica e la superstizione religiosa, che non sa sostenersi se non al buio, disputano a palmi il terreno, e se mai per disgrazia si rallenta il fervore coraggioso di chi li combatte, il destino della Spagna è deciso: "Sedet, aeternumque sedebit infelix"» 2 . Una simile situazione fu il risultato del modo con cui venne impostato e condotto il moto regalista negli anni sessanta. Carlo III era stato trascinato nella lotta contro la curia dall'intransigenza di Clemente XIII e del cardinal Torrigiani. Aveva esitato per lungo tempo ad assumere posizioni nette e precise. Alla proibizione del catechismo di Mésenguy da parte di Roma reagí dapprima stabilendo l'exequatur. Ritirò poi questa misura, con gran dispetto del ministro Riccardo Wall, che si dimise, e con gran preoccupazione di Tanucci che diffidò, in un primo momento, di Grimaldi, che a Wall era succeduto nel ministero degli esteri, pensandolo proclive ad un compromesso col papa. Né phi chiare furono le conseguenze delle dispute — che ebbero notevole eco anche in Italia — intorno alla santità del vescovo Palafox, nemico dei gesuiti nel Seicento in Messico. Eppure l'ingranaggio era ormai in movimento, la CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell'opera e alla sua fortuna nell'Europa del Settecento, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino 1965, p. 567, 12 gennaio 1775. 2 Ibid., p. 569, 17 ottobre 1775.
L'esempio spagnolo
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situazione internazionale aiutando. Il patto di famiglia comportava anche un allineamento della politica spagnola contro il papa e i gesuiti. L'influenza francese scese dal vertice, attraverso i legami diplomatici e i rapporti tra le due corti borboniche di Versailles e di Aranjuez. Tanucci da Napoli, Roda, Azara, Morino con i loro dispacci da Roma contribuirono notevolmente a formulare i programmi del governo spagnolo. Il sovrano, non senza sforzo, fini col dimostrare di saper essere fermo: «donde hay razon, es menestér firmeza», come diceva'. Il governo parve usare altrettanta decisione in materia religiosa quanta stava dimostrandone nel campo dell'annona 2 . L'attacco del vescovo di Cuenca, Isidro de Carvajal y Lancaster, fu rintuzzata con energia'. Eppure questi aveva scritto al re una lettera in cui sosteneva che la Spagna « corria a su ruina, que ya non corna, sino que volaba, y que ya estaba perdida sin remedio humano». La chiesa era perseguitata, « saqueada en sus bienes, ultrajada en sus ministros y atropellada en su inmunidad». Come Campomanes e Morino scoprirono con disgusto, dietro a questo prelato stava tutto un gruppo di aristocratici e di conservatori 4 . Un simile nido di serpi essi furono indotti a sospettare dietro al «motín de Esquilace» e tutto fecero per persuadere il re che non bastava resistere, che era necessario contrattaccare i nemici della riforma 5 . Campomanes, phi forse di ogni altro, operò per far si che sulla testa dei gesuiti scoppiasse la tempesta che andava accumulandosi sugli ecclesiastici spagnoli. Il 3 dicembre 1766 elencava in un memoriale le ragioni re li giose, politiche ed economiche per le quali s'imponeva la loro cacciata dal regno 6 . Una simile conclusione egli trasse anche dall'inchiesta in corso sulle ragioni politiche dei disordini della capitale. Un suo memoriale — che circolò in Italia sotto il titolo di Compendio esatto della causa criminale, pubblicato da Agnelli nel 1769 — provava ed evidenza, come scriveva la gazzetta di Lugano, «la reità dei gesuiti si nella sedizione eccitata da essi in Spagna quanto la loro detestabile politica nell'impiegare i mezzi phi iniqui, ponendo a repentaglio l'onore e la vita altrui, per salvare se stessi quantunque veri e soli autori della sedizioi MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III, in Historia general de Espana, bajo la dirección de Antonio Cânovas del C as tillo, El progreso editorial, Madrid s. d. (1894), vol. II, p.
222.
Taurus, Madrid 197o, 2 GONZALO ANES ALVAREZ, Las crisis agrarias en la Espana moderna, 12. 346 . rta, Matute y Compagni, 3 ANTONIO FERRER DEL Rfo, Historia del reinado de Carlos III en Espa Madrid 1856, torno II, pp. 205 sgg. cit., pp. 3o sgg. 4 Cfr. CHARLES CURTIS NOEL, Opposition to enlightened reform in Spain in «Revista de occidente», n. 121 (aprile 5 LAURA RODRfGUEZ, El motin de Madrid de 1766, [maggio 1973], pp. 117 sgg.) e ID., Los 59 1 973), pp. 24 sgg. (in inglese in «Past and Present», n. motines de 1766 en provincias, ibid., n. 122 (maggio 1973) (in inglese in «European studies review», vol. III, n. 3 [luglio 1973], pp. 223 sgg.). 6 ID., El motín de Madrid cit., p. 47, nota 39.
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Capitolo terzo
ne»'. Da Napoli, Tanucci si gettò in una vera e propria campagna epistolare tendente a gettare il massimo di responsabilità sugli ecclesiastici e sui gesuiti in particolare'. Da Roma il rappresentante spagnolo, Nicolâs de Azara gli scriveva: delenda est Cartago e Tanucci gli rispondeva che era indispensabile imitare i portoghesi e il marchese di Pombal III fini col persuadersi che i suoi consiglieri avevano ragione. Aranda assicurò una esecuzione perfetta del piano di soppressione della Compagnia. Nella notte dal 2 al 3 aprile 1767 tutti i gesuiti spagnoli, con una operazione di polizia che impressionò l'Europa intera, furono arrestati, convogliati sulle navi che li attendevano e cacciati in perpetuo esilio. Come diceva in un suo epigramma Juan de Yriarte, noto letterato ed erudito, zio del phi famoso Tomas de Yriarte, i gesuiti erano stati cacciati dal Portogallo servendosi degli strumenti della religione, dell'Inquisizione. Quelli francesi avevano dovuto soccombere alle manovre giuridiche dei parlamentari. In Spagna aveva trionfato la ragion di stato, la volontà del re: Lusiades socios papae depellit ad instar, causidici Gallus, regis ad instar Iber 4.
Al fondo restava il profondo contrasto economico che era alla radice della rovina di tutta la Compagnia: Hijos de un pais de hierro quisimos buscar el oro, de aquí sin duda provino la ruina de nuestros socios 5.
In Italia, dove giunsero i gesuiti spagnoli esiliati, essi furono per lungo tempo al centro di una intensa curiosita 6 . Il libraio Colombani che, come si ricorderà, era stato tra i primi a diffondere le pubblicazioni 'antigesuitiche del e sul Portogallo, si affrettò a metter fuori una silloge di documenti ufficiali spagnoli col titolo di Raccolta prima di quanto è seguito ai gesuiti per li regni della Spagna. Né fu il solo. Giammaria Bassaglia, anch'egli un veterano ormai della polemica antigesuitica, pubblicò, sempre nel 1767, un opuscolo intito'
2
«Nuove di diverse corti e paesi», 6 febbraio 1764, n. 6.
Impressionante la documentazione raccolta in MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III cit., tomo III, pp. II sgg. Ibid., P. 43, da Caserta, 14 febbraio 1767. 4 JUAN DE YRIARTE, Obras sueltas, Madrid 1774, vol. I, p. 176. Ibid., p. 178. s A Venezia uscirono due edizioni della Prammatica sanzione di S. M. C. in forza di legge per l'espulsione dei gesuiti da tutti i suoi domini, adí 2 aprile 1767, senza indicazione di luogo e di editore. La seconda s'intitolava Pubblicazione della prammatica sanzione di S. M. C. in forza di legge per l'espulsione da questi regni de' religiosi della Compagnia, occupamento delle loro territorialità e inibizione del loro ristabilimento in tempo veruno, Venezia 1767.
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lato, Delle cagioni della espulsione de' gesuiti da tutti i regni della monarchia spagnola esposte in una lettera da un gesuita del Collegio Roma-
no ad un suo fratello abitante in Venezia di cittadinesca estrazione '. Segui ben presto una Lettera seconda... ove si recano tutti, nessuno eccettuato, i documenti attinenti alla medesima fin ora usciti, molte novelle curiose di Napoli e di Roma che vi hanno relazione ed alcune riflessioni sulla reale prammatica, comprovate dai sentimenti di F. Paolo Servita tratti dalle lettere inedite e dalle opere di questo memorabile e celebre uomo. Oltre le vecchie storie delle dispute attorno alla santificazione di Palafox vi si trovava un elogio «dell'eccellente opera sull'ammortizzazione» di Campomanes. «Quest'opera era istituita ed ordinata all'oggetto che, illuminato per essa il pubblico, potesse quindi il re placidamente appigliarsi ai provvedimenti pii valevoli a frenare gli acquisti specialmente de' gesuiti». Ma la «sedizione» di Madrid era venuta a turbare il corso di queste pacifiche riforme. La risposta aveva dovuto essere preparata segretamente ed eseguita con decisione. L'eco ne era stata profonda in tutta Italia. I gesuiti, persino a Roma, cominciavano ad essere guardati con diffidenza. Le piú strane storie o «filastrocche» essi andavano inventando per difendersi. Una era «bellissima». «Sappia V. E. — aveva detto un gesuita ad una dama terziaria assai ricca — che gli ebrei sono cagione di tutto questo gran male $ noto che, ad onta della loro proscrizione dai domini della Spagna e dei rigori dell'Inquisizione, si ha degli stessi un numero considerabile, che ci vive celatamente e che per rimanervi con piú sicurezza e fuori d'osservazione vestono l'abito di frati e di preti e che fin esercitano i sagri ministeri della religione. Molti di costoro sono introdotti nella nostra Società e con somma ipocrisia essendosi meritata la confidenza de' superiori, sono stati impiegati o nel maneggio degli affari o spediti nelle missioni dell'America e delle isole Filippine o destinati alla corte in grado di confessori. Questi sono coloro, che, portati dal genio della loro nazione a mercanteggiare, ad acquistare soverchiamente ed a meschiarsi nelle cose del governo, han commesso tutti quei delitti la pena dei quali viene sofferta adesso da tutta la innocente Compagnia». «La buona dama restò persuasa affatto di questa novella», ma non tutti erano « sciocchi a segno di dar fede a siffatte scempiataggini » 2. A Venezia bisognava tornare a ci dice che queste lettere era1 «L'Europa letteraria», tomo V, parte II (I° giugno 1769), p. 97 no opera di Antonio Contin. Potremmo dubitarne vedendo che il censore loro fu proprio il padre Contin (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341, 25 luglio 1767). Ma non sarebbe questo il solo caso di autocensura. Il 18 febbraio 1768 (m. v. e cioè 1769) l'opuscolo Il bue e l'asino. Dialogo sopra l'agricolturaera censurato da Scotton, che ne era l'autore (ibid.). Propenderei per accettare l'attribuzione a Contin, anche perché è poco probabile che il redattore dell'« Europa letteraria» sbagliasse in una materia a lui tanto vicina. 2 Lettera seconda cit., pp. 5-6.
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Capitolo terzo
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Paolo Sarpi e ai nuovi insegnamenti. «Un veneziano che ami la sua patria non può amare i gesuiti» Un po' ovunque in Italia si diffuse il paragone tra il vespro siciliano e questa cacciata dei gesuiti che fu perciò detta «il mattutino spagnolo». Cosí è chiamato da un foglio volante, di probabile origine veneta, che portava la data di Roma, 18 aprile 1767. «Ecco come sono finiti in Ispagna i gesuiti — diceva — staremo a vedere ora cosa accaderà loro in Napoli, ed in Parma, come pure in Toscana, in Genova e nelle altre parti d'Italia, non meno che in Germania, dovendo naturalmente fare un poco impressione le provvidenze prese fin ora a riguardo dei gesuiti da tre non piccoli sovrani e sopratutto il cattolico». In una Lettera seguente veniva descritta l'atmosfera di Roma nei giorni in cui si attendeva l'arrivo degli esuli gesuiti. «L'orrida carestia che regna da tre anni in qua ha sconvolto tutto lo stato, ha fatto uscire quasi tutta la massa numerarla che ci circolava... Se vivo ancora fosse il marchese Belloni, che tanto ne sapeva in materia di finanze e di economia, in vano adoprerebbe le sue speculazioni per saldare una piaga si grande». Ormai Roma non riceveva pii il tributo dei paesi della cattolicità. «I tempi son cambiati e cambiandovi i principi hanno aperto gli occhi... a benefizio de' loro popoli e ad accrescere la civile prosperità de' medesimi. Di qui ecco seccati i fonti donde in Roma colavano l'oro e le ricchezze, quelle ricchezze e quell'oro che supplivano alla mancanza d'ogni industria, delle arti utili, del commercio», La carestia e la miseria rendevano dunque difficile poter accogliere i gesuiti spagnoli. Essi giungevano a Roma a testimoniare della rovina del loro dispotismo in America. Ancora una volta la storia dimostrava, tanto in Spagna che nello Stato pontificio, quanto aveva ragione Montesquieu nel considerare le mani morte come una delle cause di decadenza dell'impero d'oriente'. Finalmente si era trovato, a Madrid, chi aveva dimostrato di saper combattere contro mali cosí gravi. Il conte di Aranda «nella presente occasione si è immortalato ». Combattere contro i gesuiti, scoprire i loro raggiri «è cosa più difficile assai che non già vincere una o due battaglie, di conquistare, di salvare un regno che fosse aggredito dai nemici i pii fini e i pii terribili». « Il mondo che va fantasticando sopra i Liberi Muratori e il loro segreto, perché non si volge a ricercarlo ne' gesuiti? Si, sono essi i Liberi Muratori, essi nascondono quel misterioso segreto che di pe'.
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' Lettera seconda cit., p. 19. Notizie pervenute da Roma, da Parigi e da Napoli intorno le ragioni dell'espulsione de' gesuiti dai regni della monarchia spagnola, non ché dell'arrivo di questi religiosi alle spiagge papali. Lettera terza dell'ab. N. N. veneziano ad un suo fratello di cittadinesca famiglia, ove in fine vi è un problema assai interessante, G. Bassaglia, Venezia 1767. x
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netrare si cerca»'. Anche in Italia vi era chi stava dimostrando di saper imitare il grande esempio del conte d'Aranda. A Napoli Tanucci, «uomo noto per essere utile alla patria..., profondo nelle scienze, sublime nell'arte di governare », aveva anch'egli cacciato i gesuiti. Gli «ignaziani» non s'aspettavano un colpo simile. «Eglino si tenevano sicuri di avere il popolo dalla loro... Una non esorbitante quantità di tozzi distribuiti alle porte de' collegi a quella plebe nuda e per la maggior parte nel seno dell'abbondanza affamata, consolazioni melate ne' confessionali, prediche in piazza e istruzioni poco severe che promettevano il paradiso anche a' mariuoli, purché nel mariuolare avessero buona intenzione, erano armi temperate espressamente per guadagnare quella sorte di gente. V'abbisognava un abile ministro per cangiare si perniciose disposizioni del popolo » 2 . Venticinque, si disse, finirono coll'essere i libri usciti «per l'espulsione de' pp. gesuiti dalle Spagne » e vennero elencati in un catalogo del 1767'. Era una esagerazione: in realtà alcuni degli opuscoli qui citati riguardavano altri paesi, altri fronti della lotta antigesuitica. Pur significativa era una simile pubblicità, che veniva anch'essa a dire qual fosse l'interesse dimostrato a Venezia per quanto stava accadendo a Madrid. Non mancarono neppure i versi in veneziano: Portogallo alla fin l'ha cazzai via, la Franza l'ha bandi col so perché in Spagna gesuiti pii non ghe, Genoa i varda con molta gelosia... `.
Che i genovesi facessero molta attenzione. Se volevano « gran guerra ai
corsi preparare» stessero ben attenti a non farsi portar via gli indispensabili soldi dai gesuiti: Guarda ben però che il gesuita, non men furbo del genovese, vuoti tutte le borse del paese '.
Anche i versi d'un «valente poeta francese» vennero rapidamente tradotti in italiano, rendendo anche cosí omaggio al re spagnolo che si era deciso al gran passo: Lettera quinta sulle cagioni dell'espulsione de' gesuiti dai regni della monarchia spagnola contenente le novelle pizi recenti e non pochi anecdoti interessantissimi, G. Bassaglia, Vene-
zia 1767.
Z Lettera sesta sulle cagioni dell'espulsione de' gesuiti dai regni della monarchia spagnola, dell'amico di Venezia all'ex gesuita di Roma, G. Bassaglia, Venezia 1768. Lettera anfibologica e persuasiva di un gesuita ad un cavaliero suo discepolo colla risposta del medesimo, Venezia 1767, in calce. 4 Lettera di S. M. Cattolica a papa Clemente XIII intorno la stabilita espulsione de' pp. gesuiti da tutta le Spagne con la risposta del sommo pontefice e replica del re. Aggiuntevi alcune note storico-politico-critiche ed alcuni sonetti, Venezia 1767, p. xxv1. Ibid., p. xxx.
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Capitolo terzo da te all'Iberia è resa la prima libertate, il primo lume da te purgato, alle scienze i' veggio da te riaperto e assicurato il seggio.
L'esempio spagnolo era venuto a confermare la giustezza della politica svolta dai magistrati dei parlamenti, o del francese impero alti sostegni o braccia delle leggi e tutelari, ministri del poter d'un re diletto, incliti senatori...
Ora gli «esuli gesuiti» spagnoli muovevano navigando verso l'Italia. A loro andava il pensiero conclusivo del poeta, che volgeva il suo «voto a Nettuno» 1. Retorica e glorificazione a parte, certo la cacciata della Compagnia aveva aperto a Madrid un'epoca nuova. «Que mutación tan divina ha abido en Espafia en tan poco tiempo!» poteva scrivere Azara da Roma, il 10 marzo 1768. «Quanto bien nos ha da venir! » Espulso dal corpo del paese era quel male «que nos rota las entreíïas!» Diventava urgente ormai diffondere, propagandare le buone dottrine. Sarebbero bastati, per cominciare, «dos o tres libros»: Giannone, Fra Paolo, Fleury. In un anno si sarebbe illuminata la Spagna per sempre 2. «Vivan los buenos libros», aggiungeva, beato il sovrano che riformava le università e la scuola, traendo cosí la Spagna «de la ignorancia y barbarie»'. Ricordava come Giannone avesse detto che gli spagnoli «siempre han curado las llagas de Roma con unguentos y emplatros. Dios quiera que ahora las curemos de una vez con hierro » 4 . Già Azara intravedeva la possibilità di abbattere il «dominio temporal» della Santa Sede, di eliminare lo Stato pontificio, su cui, diceva, Sua Santità non aveva maggior diritto di quanto non avesse avuto Maometto II su Costantinopoli 5 . «Ha llegado el tiempo en que, en conciencia, esta el rey obligado a redimirnos de la tirania de esta Babilonia » 6 . Si rallegrava vedendo che Firmian si muoveva in Lombardia. Un vero «capo d'opera» gli parevano le istruzioni dell'imperatrice alla Giunta economale di Milano La Spagna umiliata al suo ottimo re Carlo III dopo l'espulsione de' gesuiti dai domini spagnoli, Venezia 1767. Il permesso dei riformatori dello studio di Padova, del 17 luglio 1767 è firmato da Andrea Tron e da Girolamo Grimani.
El espiritu de don José Nicolas de Azara cit., vol. I, p. 26. Ibid., pp. 40, 41, 31 marzo 1768. • Ibid., P. 45, 14 aprile 1768. • Ibid., p. 86, 3o giugno 1768. 6 Ibid., p. 109, 11 agosto 1768. Ibid., p. 120, 26 agosto e p. 186, 75 novembre 1768. 2
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Anche «los pantalones», o, come pure li chiamava, «los diablos de venecianos » erano sulla via delle riforme'. Atmosfera italiana che si rifletteva, come si vede, in uno specchio iberico. La propaganda antigesuitica apparsa in Italia negli ultimi anni ebbe d'altra parte anch'essa un'eco notevole in Spagna, venne spesso tradotta e ad essa fecero riferimento, approvandola, quei vescovi spagnoli che appoggiavano la politica del governo 2 . La lotta contro i gesuiti aveva insomma saldato un anello particolarmente robusto tra Italia e Spagna negli anni sessanta'. Ma Azara era pur costretto a constatare che all'interno della Spagna progresso restava lento e difficile. Si rallegrava che la rivista madriil lena il «Mercurio» avesse cominciato ad aprir gli occhi alla gente e che la gazzetta cominciasse «a hacer lo mismo sobre Roma: este es un buen medio porque la leen todos » ". Ma i libri che egli aveva suggerito non venivano tradotti. Egli stesso finiva col rinunciare a scrivere quell'opera sulle ricchezze del clero che aveva progettata. In Spagna, la liberazione dalla Babilonia romana restava, alla fine degli anni sessanta, un programma difficile e incompiuto. Una esperienza parallela stava compiendo Campomanes a Madrid nello stesso anno decisivo, il 1768. Nel gennaio aveva scritto un Juicio imparcial sobre las letras en forme de breve que ha publicado la Curia romana, che avrebbe dovuto essere stampato a difesa della politica spagnola nella questione di Parma 5 . Invalide dichiarava le scomuniche con cui il papa tentava di imporre la propria volontà mentre legittima proclamava la resistenza contro di esse. Cinque vescovi presenti nel Consiglio di Castiglia denunciarono questo scritto all'Inquisizione, accusandolo di tendenze ussite e luterane. Eran questi argomenti che, come vedremo, circolavano largamente anche in Italia, ad esempio negli scritti ' El espiritu de don José de Nicolas de Azara cit., vol. I, p. 177, 7 dicembre 1768. due scritti di ' Le Re$exiones sobre el memorial e l'Apéndice a las Reflexiones del portugués (i Doc-
Urbano Tosetti) apparvero a Barcellona, presso Thomas Piferrer, nel 176o e 1769. Cfr. pure la
trina de los expulsos extinguida. Pastoral que, obedeciendo al rey dirigia a su diócesis el ilustrisimo sefior Don Joseph Xavier Rodriguez de Arellano, arzobispo de Burgos, del Consejo de S. M. ecc., Thomas Piferrer, 1768, in cui il prelato faceva le lodi di «un gran monarca que quiere racional, civil y christiana su monarqufa» (p. 6), citava l'esempio di Venezia e di Paolo Sarpi (p. 7), attaccava Antonio Zaccaria (p. 19), ricordava il commercio esercitato a Roma dai gesuiti («entre las muchas cosas que vendìan en Roma publicamente era muy bueno o muy mal chocolate, y el padre chocolatero ponía por senuelo un ji-is en cada ladrillo. Dixe uno que esto seria por vender mas. No, hijo mio, respondio el, sino porque se tome con mas devoción», p. 38) e definiva « el ruidoso misonero padre Pepe » il «Malagrida de la Italia», ricordando come il frate napoletano avesse osato attaccare Muratori (p. 48). Cfr. MIGUEL BATLLORI, La cultura hispano-italiana de los Jesuitas expulsos espafioles-hispanoamericanos-filipinos, Gredos, Madrid 1966 e WALTER 5IAMISCH, Itinerario y pensamiento de los Jesuitas expulsos de Chile (1767-1815), Andres Bello, Santiago de Chile 1972. o El espiritu de don José Nicolas de Azara cit., p. 177, 7 dicembre 1768. • SIMANCAS, Archivio histórico nacional, Consejos, leg. 553 0 , citato da Laura Rodriguez nello scritto ricordato a p. 47, nota 2.
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Capitolo terzo
del padre Mamachi. Ma, in Spagna, non erano delle accuse soltanto, bensí delle minacce. Il vescovo di Tarazona dichiarò che lui e i suoi confratelli erano pronti ad appoggiare la politica del re, ma non a trarne le conseguenze teoriche che il fiscal aveva indicato. Dicevano che Cam -. pomanesrdvlponatermgiunatria tanto delicata. Cosí questi dovette accettare che la sua opera fosse rivista. «Se non è ancor giunto il momento che il paese sia illuminato, mi contenterò di fare quello che posso, anche attirando su di me una ostilità che la mia franchezza e il mio disinteresse non dovrebbero meritarmi», scriveva a Roda. Quando il libro venne pubblicato a Madrid, nel 1769, presso il libraio Ibarra, smorzate erano le sue affermazioni sulla chiesa primitiva, da lui considerata priva d'ogni forza costrittiva sui fedeli, fondata unicamente sulla tolleranza e la preghiera. Assente era la sua asserzione sulla superiorità dei concili e sulla legalità della loro convocazione da parte dei sovrani. Meno chiaro il legame che egli aveva voluto stabilire tra la decadenza della chiesa e l'acquisto da essa compiuto di beni terreni, né più risaltava la sua disamina sul diritto stesso degli ecclesiastici al possesso di proprietà. Rimaneva il nocciolo giurisdizionale, espresso con energia e sapienza, ma tutto racchiuso entro i limiti d'un problema legale e politico'. L'eco che giunse in Italia di questi contrasti ne rivelava la gravità e suggeriva le ragioni più profonde d'un simile rallentarsi e arenarsi dell'opera di riforma. A Roma, le voci sulla crescente resistenza che andava incontrando la politica di Aranda e di Campomanes tra il popolo, il clero, la nobiltà della Spagna venivano raccolte e annotate con evidente compiacimento, per esser poi largamente diffuse. Nell'agosto del 1768 circolava una satira contro il Consiglio di Castiglia, che era composto, si diceva, di «cinque vescovi senza coscienza, due fiscali ateisti, un presidente senz'anima». I tentativi d'intaccare l'immunità ecclesiastica rischiavano di suscitare altri torbidi a Madrid. Quando dei soldati avevano tentato di strappare un delinquente da una chiesa, « accorse tanto popolo che formò un tumulto considerabile, che andava a formare una sommossa di tutta la città se non accorreva un ufficiale, che s'imbatté nel tumulto, il quale e per il credito che godeva e per le buone maniere non avesse calmato il popolo e fatto si che i soldati restituissero il prigioniero alla chiesa. Il popolo... andava gridando: vogliono leJudicio imparcial sobre las letras en forma de breve que ha publicado la Curia romana en que se intentan derogar ciertos edictos del Serenísimo Senor Infante Duque de Parma y disputarle la soberanta temporal con este pretexto, Joaquin Ibarra, Madrid 1768. Cfr. CHARLES CURTIS NOEL, Campomanes and the secular clergy cit., cap. v: Campomanes vs. Clement XIII. Il testo di Campomanes é stato ripubblicato in Obras originales del coude de Floridablanca y escritos referentes a su persona, a cura di Antonio Ferrer del Río, Biblioteca de autores espanoles, vol. 59, Madrid 1899, pp. 71 sgg.
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varci Gesù Cristo e la sua chiesa ancora». Nel settembre si diceva che «sempre seguitano i torbidi e le satire a Madrid». «Vi era qualche riscontro alla corte che in Saragozza potesse essere accaduta una sollevazione ». Il governo non riusciva a decidere come avrebbero dovuto essere utilizzati i beni espropriati ai gesuiti. Fermento popolare e indecisione al vertice si univano in tal modo in un inquietante quadro della situazione spagnola Cosí, all'apice dello scontro attorno a Parma, Carlo III fini coll'arrestarsi di fronte al potere ecclesiastico. Poté colpire la curia ristabilendo l'exequatur, il 16 giugno 1768, ma non fu in grado di spezzare, ad esempio, il controllo del Sant'Ufficio sulla stampa 2. Su questo problema Campomanes era passato all'attacco con un violento memoriale, accusando l'inquisizione di proteggere i gesuiti, e di ledere i diritti del re, e chiedendone la riforma. Questo suo scritto, riservato al Consiglio, cadde nelle mani dell'inquisitore generale, il quale, in una eloquente lettera, ricordò al sovrano come tutti i suoi predecessori avessero sempre amato e protetto il Sant'Ufficio, punendo chi, come Macanaz, aveva voluto abbatterlo. Come aveva potuto Campomanes dipingerlo come un «orrendo mostro»? Le parole sacrileghe del fiscal meritavano punizione. Ma a tanto Carlo III non era disposto. La sua reazione fu freddamente amministrativa. Apri un'inchiesta su chi aveva consegnato il memoriale nelle mani dell'inquisitore generale. Era un modo d'insabbiare la faccenda e di impedire toccasse a Campomanes la sorte che qualche anno piú tardi sarà quella di Pablo de Olavide. Carlo III, alla fine degli anni sessanta, non era più in grado di far dei passi avanti. Ma non era disposto neppure ad indietreggiare. Anche in Italia si continuò a seguire con interesse in quel periodo le minute riforme di Carlo III. Erano ormai delle esemplificazioni di una politica tenacemente mantenuta piuttosto che indicazioni di nuovi sbocchi e problemi'. Gli avversari del regalismo erano lungi dall'essere sconfitti. Nel 1772 il vescovo di Terruel, Francisco José Rodriguez Chico, appoggiava la pubblicazione, in una tipografia clandestina, di due opuscoli usci'.
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Notizie segrete, uno dei tanti fogli manoscritti fabbricati a Roma, all'intenzione della corte piemontese, TORINO, AS, Materie politiche in genere, mazzo 53, 13 e zo agosto, 2 settembre 1768. 2 Cfr. JOSÉ EUGENIO DE EGUIZABAL, Apuntes para una historia de la legislación espanola sobre la imprenta desde el ano de 148o al presente, Imprenta de la Revista de legislación, Madrid 1879, P. 80. Cfr. Raccolta delle regie cedole e degli ordini di sua maestà cattolica spediti a protezione del-
la disciplina canonica e monastica colla consulta del Consiglio, a fine che i regolari si ritirino a clausura e che tanto essi quanto gli altri ecclesiastici si astengano da' commerci, guadagni e negozi secolari, non convenendo allo stato e alla professione loro, Luigi Pavini, Venezia 1768. Vi erano pubblicati (pp. xxv sgg.) anche alcuni dei documenti giudiziari sulla polemica col vescovo di Cuenca. Numerosi pure gli echi degli atteggiamenti e dei provvedimenti spagnoli nella gazzetta di Napoli che nella prima metà del 1768 si chiamava «Napoli» e pia tardi «Foglio ordinario». Si veda, ad esempio, 19 gennaio, 2 febbraio, 5 aprile, ecc.
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Capitolo terzo
ti dalla penna d'un prete avventuroso, Francisco de Alba, intitolati l'Ars methodica e La verdad desnuda, intesi a controbattere il permesso accordato dalla censura alla pubblicazione in Spagna dell'opera di Febronio o del Juicio imparcial di Campomanes. Il tono era violento e il re dovette intervenire. Alba dovette fuggire a Roma e fu condannato nel 1773. Ma il vescovo, dopo lunga inchiesta fini col dover pagare soltanto 30o ducati di multa, oltre a metà delle spese processuali'. L'episodio ebbe un'eco anche in Italia. In una corrispondenza da Venezia del 18 luglio 1772 le «Notizie del mondo» dicevano che La nuda verità era diretta contro «tutte le scritture e libri del Campomanes» e pretendeva sottoporre «la coscienza del re nelle materie ecclesiastiche e spirituali al giudizio supremo del papa». L'opuscolo faceva «gran strepito» e «non ostante tutte le pii rigorose perquisizioni del conte di Aranda» non si era riusciti a scoprirne l'autore né lo stampatore 2. Pochi giorni dopo, da Madrid, giungeva l'eco dell'indignazione degli ambienti riformatori. La scrittura rimproverava in sostanza «a questo governo» di cercare «tutti i mezzi di allontanare affatto la barbarie da questi regni ed introdursi un pii sano pensare». Il «fanatismo» aveva guidato il prete di Salamanca, ormai fuggitivo e che aveva lasciato «in molti imbarazzi non pochi soggetti» suoi complici'. Nell'agosto si diceva che «diversi esemplari stampati alla macchia del già indicato libro La verità scoperta al re e distribuiti furtivamente sono stati ritirati, essendo dichiarata l'opera sediziosa e per sentenza del Consiglio di Castiglia è stata bruciata per mano del carnefice nella Piazza maggiore » `. Piccolo e significativo episodio d'una lotta che non riusciva a trovare il suo sbocco. Il potere dell'Inquisizione, pur contenuto, rimaneva saldo nelle sue radici. L'opposizione clericale restava virulenta al vertice come alla base. La fase più attiva del regalismo spagnolo, dominata dalla figura di Campomanes, si chiudeva certo con una vittoria morale e pratica di grande portata (la cacciata dei gesuiti), ma senza un successo decisivo per tutto quanto riguardava le proprietà ecclesiastiche, la scuola, la censura. A metà degli anni settanta la lotta riprenderà, si allargherà, con caratteri ormai diversi, accentuando sempre pii gli aspetti economici e sociali dell'opera di riforma. Ancora una volta l'evoluzione di Campomanes sarà esemplare: dal Tratado de la regalia o dal Juicio imparcial egli passerà al Discurso sobre el fomento de la industria popular. Le forze, i poteri della chiesa erano aggirati, ma non distrutti. CHARLES CURTIS NOEL,
Opposition to enlightened reform in Spain cit., pp. 3o sgg.
«Notizie del mondo », n. 59 (25 luglio 1772), p. 489. 3 Ibid., n. 62 (4 agosto 2772), p. 509. 4 Ibid., n. 64 (II agosto 1772), p. 525. 2
Capitolo quarto L'Italia anticuriale: Genova e Torino
In Italia, l'impulso che giunse dal Portogallo, dalla Francia e dalla Spagna fu certo di notevole importanza per modellare il moto anticuriale degli anni sessanta. Ma questo moto ripeteva le sue origini nelle tradizioni dei singoli stati della penisola. A ciascuna di queste terre dobbiamo avvicinare il nostro sguardo se intendiamo davvero capire il movimento riformatore. All'inizio del decennio ognuno degli stati parve arroccarsi nel proprio passato e nei propri privilegi, gelosamente e puntigliosamente riscoprendoli o difendendoli contro la politica di Clemente XIII e del cardinal Torrigiani. Nel giro di pochi anni si poté constatare come alcuni tendessero ad immobilizzarsi in una minuta, rabbiosa e spesso impotente difesa dello statu quo, mentre altri si mostravano pii o meno capaci di aprirsi ad un ulteriore sviluppo, discutendo o affrontando i problemi d'una pii vasta riforma, d'una trasformazione della realtà morale, sociale e politica. Genova e Modena, Torino e Milano, Venezia e Napoli divennero cosí poli opposti d'un unico movimento. Ma al di là di queste pur profonde differenze quel che contò fu l'emergere d'un moto che fini col comprendere tutte le terre italiane, muovendole ad un ritmo comune, convogliandole, pii o meno riluttanti, nella polemica sui beni della chiesa e sulla necessità di riforme agrarie, sulla doverosa povertà degli ecclesiastici e della chiesa, sulle scuole e le università, sul lavoro, sulla vita famigliare e matrimoniale, sull'autorità del clero e dello stato e, in ultima analisi, sul peso stesso dell'idea di legge e di peccato nella vita sociale. Incrinatasi la scorza legale del giurisdizionalismo, apparve allora, poco a poco, il frutto illuministico ormai maturo. Apertosi con gli echi romani della politica di Pombal, a partire dal 1758, questo processo raggiunse il suo punto culminante con la pubblicazione dell'opera di Carlantonio Pilati, Di una riforma d'Italia, di cui il primo volume apparve nel 1767, il secondo nel 177o e la cui eco si prolungò, in Italia e all'estero, negli anni seguenti. Chiesasticamente
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L'Italia anticuriale: Genova e Torino
Capitolo quarto
il moto coincise col pontificato di Clemente XIII (1758-69) e di Clemente XIV (1769-74). Politicamente possiamo farlo datare dalla partenza di Carlo di Borbone per la Spagna (1759) e giungere alla caduta del ministro Bogino a Torino (1773) o di Tanucci a Napoli (1776). Parve, in un primo momento, che si ripetesse in Italia quel che stava accadendo in Europa. I primi e pii duri conflitti tra chiesa e stato si manifestarono là dove meno erano prevedibili, nei paesi considerati pi6 arretrati e marginali, in Portogallo e a Genova. L'esempio della aristocratica repubblica ligure è particolarmente significativo di questo incrocio di arcaiche tradizioni e di incipienti volontà di rinnovamento. Esigenze pratiche, finanziarie indirizzano i patrizi genovesi verso un primo tentativo di far pagare qualche cosa di piú agli ecclesiastici. Durante l'occupazione imperiale del 1746 il Banco di San Giorgio si era coperto di debiti. Nel 1749 Benedetto XIV aveva concesso, per dieci anni, una tassa speciale sui chierici, che si era cominciato a riscuotere nel 1751. Dieci anni dopo « si riconobbe che tutto il prodotto della collettazione degli ecclesiastici e dei laici saldava poco piú della terza parte delle contribuzioni austriache». Era necessario provvedere alle « pubbliche necessità»'. Anche pii minaccioso l'estendersi, in quegli anni, della mano morta, il passare cioè d'una quantità sempre maggiore di terre e di case dalle mani di patrizi in quelle dei chierici secolari e dei regolari. Già nel 1759 si cominciò a meditare sulle radici di una simile decadenza. Con un movimento a ritroso, simile a quello che contemporaneamente si produceva a Venezia, ci si chiese come e quando la repubblica avesse abbandonato quella strenua difesa contro l'ingerenza finanziaria del clero che pure l'aveva contraddistinta nei secoli gloriosi della sua formazione ed espansione. Perché era stato abrogato dagli statuti il capitolo vi del libro VI, « quod omnia bona sint a ffecta reipublicae», stabilito nel 1308 e ancora riconfermato nel 1588? Quest'arma di difesa i patrizi se l'erano essi stessi tolta di mano per debolezza, per insipienza, quando, nel 16o6, in occasione del conflitto tra Paolo V e Venezia, avevano seguito una politica ben diversa da quella di Paolo Sarpi e avevano voluto, su richiesta dei cardinali genovesi, ingraziarsi il papa, sperando con questo gesto di abbandono e di compiacenza di attirarsi i favori della Curia. Ora bisognava riprendere la retta via, dopo quella deviazione e decadenza. Come diceva un biglietto di calice, una di quelle interrogazioni che i patrizi indirizzavano al governo, era indispensabile «ripigliare... le leggi, l'uso e il metodo degli anGENOVA, AS, Archivio segreto 1419, Jurisdictionalium, Contributo degl'ecclesiastici, Memoria del 9 ottobre 1770 al cardinal Pallavicini, segretario di stato.In quello stesso fascio stanno numero-
si altri documenti su questa tassazione.
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tichi nostri legislatori e supprimere quell'infelicissime innovazioni posteriormente introdotte». Fuor di luogo era ogni scrupolo religioso: « Erano pur cattolici i genovesi fino al i605...»'. I teologi della repubblica confermarono queste nascenti opinioni. Lo scolopio Carlo de Si.noriis assicurava il governo che «non v'è né ombra, né fumo di ragione perché non possa il principe proibire ai laici di alienare i propri beni in mani ecclesiastiche». Non proibiva forse il papa ai chierici «di alienare i loro averi in mani laiche »? 2 . Ormai le circostanze erano ben diverse da quelle del ,6o6. Che si approfittasse anzi, diceva il «biglietto di calice» che abbiamo ora citato, del fatto che si aveva «sul trono pontificio un papa veneziano, passatovi dal vescovado di Padova». La campagna per una legge che ponesse un freno alle mani morte continuò per tutto il 1760. «Hanno ingoiato e sempre piú divorano le intiere aziende di questo piccolo paese», diceva una voce. Il pericolo non era ormai piú soltanto economico, coll'impoverire i nobili e scoraggiare i mercanti. Le basi stesse della costituzione della repubblica parevano ormai in pericolo. «La moltitudine delle case patrizie che si sono estinte in questo paese, se andranno crescendo a questa misura, metteranno in necessità il governo serenissimo di variare perfino le municipali leggi di questa repubblica». Lo stato patrizio si fondava sul servizio gratuito dei nobili, ma come avrebbero potuto continuare a compierlo se le loro sostanze erano assorbite dal clero e se le casate stesse deperivano? La mancanza di mezzi impediva « a secondi geniti di formar nuove case». «Avendo i nostri savi e prudenti legislatori, diceva un altro intervento, fissato per base fondamentale di questa repubblica ducento e pii persone che nel comodo patrimonio dovessero regolare tutti gli affari politici ed economici e dovessero fornire allo stato i giurisdicenti e alla città tutti i magistrati», non era possibile assistere alla «perdita e decadimento delle famiglie» senza che nascesse il pensiero, nella mente di «alcuni zelanti e affezionati della patria», che « si potesse o si dovesse cambiare questa base»'. Un'altra proposta del 24 luglio 1761 scongiurava i Serenissimi Consigli di «procurare qualche riparo in avvenire, giacché prima d'ora con una deplorabile cecità non si è pensato a porre un freno ad un tale disordine». Finalmente il Minor Consiglio votava, il 1 o febbraio 1762, una legge contro i testamenti a favore della chiesa e il 13 marzo questa disposizione veniva confermata dal Grande Consiglio. Genova apriva tosi, negli anni sessanta, la serie delle leggi italiane intese a limitare i possessi del clero. GENOVA, AS, Archivio segreto 5392, Jurisdictionalium, Mani morte 1760-70. I Ibid., memoriale del 27 novembre 1759. Ibid., vari biglietti di calice. 1
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Capitolo quarto
Quando, nel 1767, Anton Filippo Adami volle raccogliere le leggi e gli statuti che riguardavano le proprietà ecclesiastiche dovette constatare che, dopo i provvedimenti di Richecourt in Toscana, del 1751, si saltava a questa «legge di Genova». «La mente e lo spirito» di questo provvedimento, come spiegava una disposizione aggiuntiva del 3I gennaio 1764, stava nella volontà «che i beni immobili dello stato sempre rimaner debbano sul dominio e possesso delle persone particolari e laiche, senza che mai passare possano in mani morte». Ancora il 23 luglio del 1764 una serie di precauzioni venivano prese per evitare frodi e raggiri'. Come notava Campomanes, si trattava d'un tentativo di «tagliare all e radici il pregiudizio che riceveva lo stato». Riguardava tuttavia soltanto il futuro e non tentava, come questi aveva cercato di proporre in Spagna, di liquidare una parte almeno delle terre che già il clero possedeva 2. In occasione di questi provvedimenti riemersero a Genova vecchie dispute giuridiche ed economiche. Il nome di Giannone e quello di Campomanes servirono a difendere la nuova politica della repubblica. Rapidamente il governo si accorse che il problema della mano morta coinvolgeva quello pii generale della pubblica carità, della mendicità, del rapporto stesso tra proprietari e salariati. A chi obiettava, difendendo le mani morte, che gli ecclesiastici altro non facevano che passare ai laici delle mercedi tratte dai frutti dei loro possessi, l'autore d'un memoriale rispondeva: «Ma la repubblica non è composta solamente di artefici, contadini, rivenditori; sono questi la parte infima e pii abietta, che né più né meno attenderebbe da' secolari la ricompensa di sue f atiche ». «Gli ordini più culti ed eletti veruno aiuto e solievo traggono da simili spese e pure sono questi la più distinta e scielta parte che serve ideatamente la repubblica». «Quale politica sarebbe quella d'impoverire i facoltosi per avere di che somministrare alli oziosi, ai vagabondi e ridurre la società ben ordinata ad una greggia di mercenari e mendicanti? » I luoghi pii, le fondazioni, ecc. erano cose « ottime, lodevoli, piene di merito, sino a quel punto che sollevano i miseri, l'impotenti, i derelitti. Ma subito che trascendono a fomentare l'infingardaggine sono anzi dannose alla società e cagione di un'infinità di sconcerti»'. ANTON FILIPPO ADAMI,
Raccolta di leggi e statuti su i possessi ed acquisti delle mani-morte
sgg. L'azione di Genova ebbe fin dall'inizio l'approvazione di Tanucci. Se non si fosse proceduto metodicamente contro le mani morte, si sarebbero potute avere delle sedizioni e forse addirittura degli scismi, diceva in una lettera a Orsini, da Caserta, 3o maggio 1762, citata in MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III cit., vol. II, p. 231. 2 PEDRO RODRIGUEZ DE CAMPOMANES, Trattato della regalia d'ammortizzazione, Vincenzo Radici, Venezia 1767, vol. I, p. 171. 3 GENOVA, AS, Archivio segreto 1392, Jurisdictionalium, Mani morte 1760-70, Obietti contro
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Ma le difficoltà maggiori non furono quelle economiche, bensì quelle legali• «Gli stratagemmi» per aggirare la legge del 1762 e del 1764 furono presto inventati. Il teologo Carlo De Signoriis ne descriveva alcuni particolarmente efficaci, ben convinto di quale capacità avesse in simile materia «quella vasta moltitudine di uomini che vanta di avere da Dio il privilegio di cangiar natura come le torna a bene e di deporre a tempo, e a tempo di rivestire il carattere umano e la qualità di parte della società civile». Tutti gli argomenti erano buoni per accrescere le mani morte, dichiarandole di «diritto divino», sostenendo che la divina provvidenza « sempre supplisce a quanto si sottrae alle sostanze de' laici in favor della chiesa», «che le orazioni degli ecclesiastici sono mai sempre efficaci per la sicurezza d'un frutto copioso d'interesse eziandio temporale alla liberalità de' loro benefattori» e infine che «gli eretici come Wicleffo e Giovanni Hus hanno anch'essi perseguitato l'arricchimento delle chiese e gli acquisti del clero e de' monasteri». Per combattere contro una simile politica clericale non eran più sufficienti, concludeva De Signoriis, le leggi sulle mani morte, bisognava passare ad una riforma del clero e dei conventi '. «Le difficoltà» di applicare le leggi sulle proprietà ecclesiastiche erano « in certa maniera insuperabili», sarà costretto a constatare il governo genovese molti anni più tardi. I provvedimenti del 1762 e 1764 erano stati inefficaci. Non sarebbe stato meglio rifarsi alla legge toscana del 1751? Genova, che aveva aperto il problema, si era dimostrata incapace di andare in fondo alla strada sulla quale si era messa al principio degli anni sessanta'. La guerra contro la ribellione dell'isola corsa, entrata in una fase piú acuta fra gli anni cinquanta e sessanta aveva reso più grave il conflitto finanziario fra la repubblica e la chiesa e portato ben presto ad una serie di scontri diplomatici tra Genova e la Curia. Già nel 1759 i cappuccini venivano espulsi, avendo il loro generale, Serafino da Capricolle, nominato nell'isola un vicario provinciale secondo i desideri di Pasquale Paoli'. Quando, il aprile 176o, parti da Civitavecchia Crescenzio De Angelis, vescovo di Segni, nominato visitatore apostolico in Corsica, Genova rispose, il 14 dello stesso mese, con un editto che prometteva 6000 scudi a chi lo avesse catturato e consegnato alle autorità della Serenissima °. Dietro i patrizi del Minor Consiglio stavano
cit., pp. 77
la legge delle mani morte e risposte a medesimi obietti.
GENOVA,
2
AS, Archivio segreto 1392, Consulto, s.
ital. età mod. contemp.», 4
d.
Ibid., Archivio segreto 1294, Jurisdictionalium 1781, Memorie e proposte sulle mani morte. FAUSTO FONZI, Le relazioni tra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, in « A. Ist. stor. vol.
VIII (1956), Roma 1 957,
p. 1 7 1 .
Ibid., p. 144. L'inviato piemontese a Genova, il conte di Lavriano notava: «Non sembra che
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Capitolo quarto
schierate le phi attive forze nobiliari ed ecclesiastiche, dai gesuiti ai vescovi, non alieni, anche questa volta, dall'appoggiare un atteggiamento deciso, anzi violento contro l'isola ribelle'. I due dogi che si susseguono nei bienni 1758-6o e 176o-62 parvero promettere l'uno, Matteo Franzoni, una politica energica e l'altro, Agostino Lomellini, intelligente e illuminata 2. Ma presto il blocco di queste forze si sfaldò. Come al governo genovese mancò l'animo per spingere a fondo la lotta contro Pasquale Paoli, cosí gli fecero difetto le forze per condurre in modo coerente la battaglia contro Roma. Già nel giugno si riaperse a Genova la discussione sull'opportunità della taglia sulla testa del visitatore apostolico. Le orecchie si tendevano ad ascoltare quel che ne pensavano gli stati vicini, mentre si apprendeva con timore che la Francia pareva disapprovare il provvedimento'. E con apprensione venivano seguiti i ragionamenti che Tanucci svolgeva a Napoli, che si temeva potessero allargare il conflitto. Se il papa scomunicava la repubblica, confidava Tanucci all'inizio del 1761 al rappresentante di Genova, Scipione Giuseppe Casale, si sarebbe potuto far appello «al futuro concilio». I precedenti non mancavano, anche se erano lontani nel tempo. «La repubblica di Firenze fece da se stessa adunar un concilio di vescovi quando Sisto IV diede mano alla congiura dei Pazzi, nel quale fece scomunicare lo stesso papa». Roma era debole, bisognava procedere con decisione, insisteva Tanucci. «L'affare è delicato per la corte di Roma piú assai di quello che pensa... portato all'estremità può far piú male ad essa che ad altrui » `. Offriva la propria mediazione, pensando magari servirsi «d'un vescovo di nomina regia, addetto alla corte, di massime regaliste, di fazzione ghibellino, uomo di prudenza e per nulla portato per la corte di Roma» 5 . Era evidentemente convinto, e lo si capiva anche troppo chiaramente, che la repubblica, lasciata a se stessa, difficilmente si sarebbe decisa a prendere «un partito vigoroso » 4 . Quando i fatti vennero a dargli ragione, Tanucci ne trasse non soltanto qualche motivo di phi per disprezzare e odiare la corte romana, la cui condotta gli parve anche siasi incontrata nel Minor Consiglio veruna opposizione alla pubblicazione di questo decreto... I soggetti del governo si dolgono assai apertamente della Corte di Roma...» (TORINO, AS, Lettere ministri, Genova, mazzo 21, 19 aprile 176o). Sulla politica religiosa di P. Paoli, dr. FRANCO VENTURI, Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica, in «R. stor. ital.», anno Lxxxvi, fasc. 1 (marzo 1974), pp. 6r sgg. VENEZIA, AS, Nunziatura Corsica, mazzo r, 24 maggio 1760. L. LEVATI, Dogi di Genova dal 1746 al 1771 e vita genovese degli stessi anni, Tipografia della gioventú, Genova 1 9 1 4, PP. 40 sgg. e SALVATORE ROTTA, Documenti per la storia dell'illuminismo a Genova cit., pp. 189 sgg. 3 TORINO, AS, Lettere ministri, Genova, mazzo 21, dispaccio del conte di Lavriano, 7 giugno 176o. • GENOVA, AS, Archivio segreto 2331, Lettere ministri, Napoli, mazzo 4, ro gennaio 1761. Ibid., 31 gennaio 1761. e Ibid., r1 aprile 1761.
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questo caso obbrobriosa, ma anche per ribadire nell'animo suo i dubbí che sempre aveva nutrito sulla consistenza della politica genovese. Una riforma giurisdizionale era tuttavia venuta compiendosi allora a Genova, anche se in sordina. Il 12 maggio 176o si era proibita «la .pubblicazione o esecuzione di qualunque atto proveniente da Roma senza l'approvazione del governo», stabilendo cosí, senza troppo farlo notare, quell'exequatur che, come si ricorderà, aveva suscitato tanti contrasti nella Spagna di Carlo III '. Con una serie di compromessi il goyerno riuscí a mettere qualche freno e limite alla riottosità, talvolta alla aperta ribellione dei vescovi delle due riviere. Riflesso anche questo, sul terreno ecclesiastico, di quel contrasto tra la dominante e le province che ritroviamo in tutti gli stati dell'antico regime e che era particolarmente accentuato nelle arcaiche repubbliche, non certo esclusa Genova. Mentre nelle monarchie assolute, modellate su quella di Luigi XIV, era lo stato a promuovere l'autonomia dei vescovi contro Roma,negli stati piú vecchi, piú deboli, i vescovi tendevano a fare per conto proprio, a non lasciarsi controllare dallo stato. Il compromesso al quale si fini col giungere a Genova fu il risultato di due contrapposte e contrastanti debolezze, quella romana e quella genovese 2 . L'atteggiamento di fronte ai gesuiti è anch'esso rivelatore della situazione in cui venne a trovarsi la repubblica. Contrariamente a Venezia, la polemica attorno alla sorte della Compagnia non ha nulla di palese e di pubblico. Resta nei chiostri, nei conventi, nelle sagrestie delle chiese e nei palazzi dei patrizi, dove l'eco degli avvenimenti portoghesi, francesi e spagnoli pur giunge a sommuovere le coscienze, e suscita dubbi e curiosità che piú non si spegneranno. Basta percorrere il voluminoso epistolario di Pier Maria Giustiniani, il più combattivo e colto dei vescovi liguri, sempre alla testa dei conflitti con i massoni, con i corsi, con il senato stesso della repubblica, per accorgersi di come l'atmosfera vada mutando anche nell'alto clero genovese. Le lettere soprattutto che egli riceveva a Ventimiglia da suo fratello Stefano Maria, priore dei domenicani a Santa Maria di Castello, a Genova, cosí come da frate Giuseppe Maria, il provinciale dei cappuccini nella dominante o da Pier Filippo Ghio, una sorta di suo agente letterario a Pisa, sono piene di allusioni ai sorprendenti libri ed opuscoli che si andavano pubblicando all'inizio degli anni sessanta a Roma, a Lugano, a Venezia e che circolavano ormai largamente anche sulla riviera ligure. Le vecchie dispute sul probabilismo, sul molinismo mutano di significato a contatto con le notizie della condanna a FAUSTO FONZI, 2
Ibid., pp.
212
Le relazioni tra Genova e Roma cit., p. 258. sgg.
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Lisbona di Malagrida, della rottura dei rapporti diplomatici tra Roma e il Portogallo. L'ampiezza, la violenza della disputa stupisce, scandalizz a questicla,mernovidatze,scmbianolbri e commenti. Quando frate Giuseppe Maria il 25 agosto 1759 si trova davanti un libro francese in cui si chiede se i gesuiti sono stati piú o meno nocivi alla chiesa di Lutero e di Calvino, scrive: « Io ho il piacere di non intendere la lingua francese perché questa mia imperizia mi libera eziandio dal prurito di leggerlo» `. Ma quando il libro è in italiano come I lupi smascherati, dice che «non si può leggere senza grande orrore», per poi aggiungere subito: «Confesso che l'ho letto, con estrema mia afflizione considerando le tante segrete sordidissime piaghe che fa comparire alla luce» 2. Anche in questo carteggio, che pur, come si vede, ci permette di gettare uno sguardo nell'animo di questi uomini, quel che domina è l'elemento politico. Anche le loro preoccupazioni, e a maggior ragione quelle del governo de lla repubblica, sono dominate dalla volontà di non inimicarsi il Portogallo, la Francia, la Spagna, il regno di Sardegna, lo Stato pontificio con atteggiamenti e misure troppo ostili o troppo favorevoli alla traballante Compagnia di Gesti. Accogliere o non accogliere in Corsica e in Liguria i gesuiti cacciati, impedire che la polemica su di loro dilaghi anche sul territorio della repubblica, questi i quesiti di fronte ai quali si trovano i serenissimi'. Gli interessi commerciali e bancari delle grandi famiglie richiedono che non si offenda il Portogallo, anche quando questo caccia la Compagnia'. Anche la Spagna era troppo importante per la vita economica perché la repubblica si opponesse alla politica anGENOVA, AS, Archivio segreto 1505, Jurisdictionalium, Lettere ricevute da Pier Maria Giustiniani vescovo di Ventimiglia nell'anno 1 759. 2 Ibid., Lettere ricevute da Pier Maria Giustiniani nell'anno 1760, 22 ottobre. 3 GENOVA, AS, Archivio segreto 1422, Jurisdictionalium, Beni de' gesuiti espulsi di Francia, Napoli e Corsica e ibid., 1423, Espulsione dei gesuiti del Portogallo. Espulsione dei gesuiti spagnuoli. Sulla pubblicistica, cfr. ad esempio, Archivio segreto 2574, Jurisdictionalium, Copialettere 17601764, p. 44v, S. Remo, 11 luglio 1761, misure prese per impedire ogni attività al padre gesuita « sfrattato sulle instanze del ministro del Portogallo da' stati del re sardo a motivo del libro da esso fatto stampare in Nizza sugli affari del Portogallo». FAUSTO FONZI, Le relazioni tra Genova e Roma cit., p. 104. Vien citato un biglietto di calice in cui si raccomanda al governo di non opporsi al Portogallo, « commercio del cui regno è nei tempi presenti la principale e quasi unica sussistenza di questa città e stato ». In una corrispondenza da Torino del 9 febbraio 1761 le Nouvelles intéressantes ou sujet de l'attentat commis le 3 septembre 1758 sur la personne sacrée de Sa Majesté Très Fidèle le Roi du Portugal, fasc. 22, pp. 73 sgg. raccontav ano come nell'ottobre 1760 fosse giunto a Genova il conte d'Almada, famoso per i suoi scontri col papato quando era rappresentante del Portogallo a Roma. «Dès qu'il y fut arrivé, il fut proposé dans le Sénat de nommer des députés pour aller le complimenter. Quelques sénateurs paroissant improuver cette proposition, le Doge tira de sa poche une lisbonine (monnoie d'or du Portugal) et dit en la montrant: "celle-ci nous vient du Portugal et non pas des jésuites" ». I senatori si affrettarono ad accettare la proposta. Le accoglienze furono particolarmente solenni. L'ambasciatore fu ovunque festosamente ricevuto. Alcuni gesuiti protestarono e « ils allèrent jusqu'à tenir en toute occasion les propos les moins mésurés». Gli inquisitori di stato li richiamarono all'ordine, minacciando di espellerli se non tacevano.
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esuitica di Carlo III '. Né sarà certo la repubblica a rischiar di spezzao ad allentare i rapporti con la Francia, proprio negli anni in cui la poca corsa veniva legando Genova sempre piú strettamente a Choiseul, alla cessione dell'isola stessa, nel 1768, l'anno decisivo della lotta ticuriale in Italia e in Europa 2. Le contraddizioni della politica ecastica genovese giunsero allora a lle conseguenze estreme: i gesuiti vano un bell'essere giurisdizionalisti e difendere anche cosf gli finte' del patriziato, questi interessi stessi costringevano rapidamente la bblica ad abbandonare la Compagnia ai suoi sempre più numerosi cl.
Ne risultò una politica riluttante, esitante, che soffocava e impediva aperta discussione. Anche la polemica sulle scuole, sui collegi, sui aetodi d'insegnamento, non certo assente a Genova pure (basta penste ad un uomo come Agostino Lomellini) è piú contenuta e tarda che 4rove. Soltanto la soppressione della Compagnia, nel 1773, porrà dayrepubblica di fronte al problema di creare un centro universita40'. Atonia che si colorò spesso d'indifferenza, come notò, fin dal 1762, rivista olandese. In una corrispondenza da Genova leggiamo sul « ercure historique et politique» di quell'anno: «Notre différend avec i St. Siège, puissance moins redoutable pour nous que le chef des rebelles de Corse, semble n'intéresser plus personne. Sénateurs ou rotutiers, philosophes ou supersticieux, il n'est pas un seul d'entre nos concitoyens auquel ce brouillamini trouble la tête. Mais il y a 200 ans tout eût été en désordre en semblable circonstance» anche se a piú lungo andare, i frutti non mancarono. Maturyrono lentamente nella antica repubblica, ma furono abbondanti. Proprio Genova che aveva cercato d'evitare con cura ogni risvolto politico religioso dell'antigesuitismo diverrà, come è noto, uno dei centri piú attivi della riforma giansenista. L'anticurialismo, che i patrizi lo voles. aero o meno, fini anche là col porre problemi politici e sociali fondamen1 FAUSTO FONZI, Le relazioni tra Genova e Roma cit., p. 206. Cfr. ALESSANDRO MONTI, La ComP.gnia di Gesa sul territorio della provincia torinese,M. Ghirardi, Chieri 1915, vol. II: Fondazioni asticbe. Soppressione, pp. 622, sull'eco a Genova delle temute minacce spagnole d'interrompere il emnmercio «coi sovrani d'Italia ritenenti nei loro stati i gesuiti».
*3
Le relazioni tra Genova e Roma cit. La Giunta di giurisdizione, nella sua Relazione del 13 agosto 1773 sottolineava che « il co ll e-
2 FAUSTO FONZI,
di S. Girolamo e l'Università, e le scuole che vi sono esiggono le piú serie considerazioni pet ttbilire come abbiano a proseguirsi, se coll'attuale o con altro diverso metodo, con qual direzione; se di ex-gesuiti o di quali altri religiosi claustrali, oppure di sacerdoti secolari, ovvero se conve>e di prevalersi di maestri e professori laici, o promiscuamente » (GENOVA, AS, Archivio segreto 7*çIs
Jurisdictionalium, Case, collegi e beni de' gesuiti nell'imminente e indi successa soppressione
medesimi). Nel medesimo periodo il teologo Carlo De Signoriis riteneva opportuno ricordare al **erno i suoi doveri per quel che riguardava le scuole, « troppo importando che gli studi fioriscano
nel suo stato, giacché senza letteratura regnerebbe tra di noi quella cecità vergognosa e quella ignouosa ignoranza che è il principio d'ogni barbarie e la sorgente d'un viver pessimo » (ibid.). -` «Mercure historique et politique », gennaio 1762.
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Lisbona di Malagrida, della rottura dei rapporti diplomatici tra Roma e il Portogallo. L'ampiezza, la violenza della disputa stupisce, scandalizza questi ecclesiastici, ma essi cercano avidamente notizie, si scambiano libri e commenti. Quando frate Giuseppe Maria i125 agosto 1759 si trova davanti un libro francese in cui si chiede se i gesuiti sono stati più o meno nocivi alla chiesa di Lutero e di Calvino, scrive: « Io ho il piacere di non intendere la lingua francese perché questa mia imperizia mi libera eziandio dal prurito di leggerlo»'. Ma quando il libro è in italiano come I lupi smascherati, dice che «non si può leggere senza grande orrore», per poi aggiungere subito: «Confesso che l'ho letto, con estrema mia afflizione considerando le tante segrete sordidissime piaghe che fa comparire alla luce» '. Anche in questo carteggio, che pur, come si vede, ci permette di gettare uno sguardo nell'animo di questi uomini, quel che domina è l'elemento politico. Anche le loro preoccupazioni, e a maggior ragione quelle del governo della repubblica, sono dominate dalla volontà di non inimicarsi il Portogallo, la Francia, la Spagna, il regno di Sardegna, lo Stato pontificio con atteggiamenti e misure troppo ostili o troppo favorevoli alla traballante Compagnia di Gesti. Accogliere o non accogliere in Corsica e in Liguria i gesuiti cacciati, impedire che la polemica su di loro dilaghi anche sul territorio della repubblica, questi i quesiti di fronte ai quali si trovano i serenissimi'. Gli interessi commerciali e bancari delle grandi famiglie richiedono che non si offenda il Portogallo, anche quando questo caccia la Compagnia'. Anche la Spagna era troppo importante per la vita economica perché la repubblica si opponesse alla politica anGENOVA, AS, Archivio segreto 1505, Jurisdictionalium, Lettere ricevute da Pier Maria Giustiniani vescovo di Ventimiglia nell'anno 1759. a Ibid., Le tt ere ricevute da Pier Maria Giustiniani nell'anno 1760, 22 ottobre. di Francia, Na3 GENOVA, AS, Archivio segreto 1422, Jurisdictionalium, Beni de' gesuiti espulsi poli e Corsica e ibid., 1423, Espulsione dei gesuiti del Portogallo. Espulsione dei gesuiti spagnuoli. Sulla pubblicistica, cfr. ad esempio, Archivio segreto 1374, Jurisdictionalium, Copialettere 17601764, p. 44v, S. Remo, rr luglio 1761, misure prese per impedire ogni attività al padre gesuita « sfrattato sulle instanze del ministro del Portogallo da' stati del re sardo a motivo del libro da esso fatto stampare in Nizza sugli affari del Portogallo ». di calice 4 FAUSTO FONZI, Le relazioni tra Genova e Roma cit., p. 104. Vien citato un biglietto in cui si raccomanda al governo di non opporsi al Portoga llo, « commercio del cui regno è nei tempi presenti la principale e quasi unica sussistenza di questa città e stato ». In una corrispondenza da Torino del 9 febbraio 1761 le Nouvelles intéressantes ou sujet de l'attentat commis le 3 septembre 1758 sur la personne sacrée de Sa Majesté Très Fidèle le Roi du Portugal, fasc. 22, pp. 73 sgg. raccontavano come nell'ottobre 1760 fosse giunto a Genova il conte d'Almada, famoso per i suoi scontri col papato quando era rappresentante del Portogallo a Roma. «Dès qu'il y fut arrivé, il fut proposé dans le Sénat de nommer des députés pour aller le complimenter. Quelques sénateurs paroissant improuver cette proposition, le Doge tira de sa poche une lisbonine (monnoie d'or du Portugal) et dit en la montrant: "celle-ci nous vient du Portugal et non pas des jésuites" ». I senatori si affrettarono ad accettare la proposta. Le accoglienze furono particolarmente solenni. L'ambasciatore fu ovunque festosamente ricevuto. Alcuni gesuiti protestarono e «ils allèrent jusqu'à tenir en toute occasion les propos les moins mésurés ». Gli inquisitori di stato li richiamarono all'ordine, minacciando di espellerli se non tacevano.
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tigesuitica di Carlo III '. Né sarà certo la repubblica a rischiar di spezzare o ad allentare i rapporti con la Francia, proprio negli anni in cui la politica corsa veniva legando Genova sempre pii strettamente a Choiseul, fino alla cessione dell'isola stessa, nel 1768, l'anno decisivo della lotta anticuriale in Italia e in Europa'. Le contraddizioni della politica ecclesiastica genovese giunsero allora alle conseguenze estreme: i gesuiti avevano un bell'essere giurisdizionalisti e difendere anche cosí gli interessi del patriziato, questi interessi stessi costringevano rapidamente la repubblica ad abbandonare la Compagnia ai suoi sempre pii numerosi nemici. Ne risultò una politica riluttante, esitante, che soffocava e impediva ogni aperta discussione. Anche la polemica sulle scuole, sui collegi, sui metodi d'insegnamento, non certo assente a Genova pure (basta pensare ad un uomo come Agostino Lomellini) è piú contenuta e tarda che altrove. Soltanto la soppressione della Compagnia, nel 1773, porrà davvero la repubblica di fronte al problema di creare un centro universitario'. Atonia che si colorò spesso d'indifferenza, come notò, fin dal 1762, una rivista olandese. In una corrispondenza da Genova leggiamo sul «Mercure historique et politique» di quell'anno: «Notre différend avec le St. Siège, puissance moins redoutable pour nous que le chef des rebelles de Corse, semble n'intéresser plus personne. Sénateurs ou roturiers, philosophes ou supersticieux, il n'est pas un seul d'entre nos concitoyens auquel ce brouillamini trouble la tête. Mais il y a 200 ans tout eût été en désordre en semblable circonstance» anche se a piú lungo andare, i frutti non mancarono. Maturarono lentamente nella antica repubblica, ma furono abbondanti. Proprio Genova che aveva cercato d'evitare con cura ogni risvolto politico e religioso dell'antigesuitismo diverrà, come è noto, uno dei centri piú attivi della riforma giansenista. L'anticurialismo, che i patrizi lo volessero o meno, fini anche là col porre problemi politici e sociali fondamen1 FAUSTO FONZI, Le relazioni tra Genova e Roma cit., p. 206. Cfr. ALESSANDRO MONTI, La Co nt . pagnia di Gesù sul territorio della provincia torinese, M. Ghirardi, Chieri 1915, vol. II: Fondazioni antiche. Soppressione, pp. 622, sull'eco a Genova delle temute minacce spagnole d'interrompere il
comeri«svand'Itlreiosagut».
Le relazioni tra Genova e Roma cit. 3 La Giunta di giurisdizione, nella sua Relazione del 13 agosto 1773 sottolineava che « il collegio di S. Girolamo e l'Università, e le scuole che vi sono esiggono le pi ll serie considerazioni pet Z
FAUSTO FONZI,
stabilire come abbiano a proseguirsi, se coll'attuale o con altro diverso metodo, con qual direzione, se di ex-gesuiti o di quali altri religiosi claustrali, oppure di sacerdoti secolari, ovvero se convenisse di prevalersi di maestri e professori laici, o promiscuamente » (GENOVA, AS, Archivio segreto 1421, Jurisdictionalium, Case, collegi e beni de' gesuiti nell'imminente e indi successa soppressione de' medesimi). Nel medesimo periodo il teologo Carlo De Signoriis riteneva opportuno ricordare al governo i suoi doveri per quel che riguardava le scuole, « troppo importando che gli studi fioriscano nel suo stato, giacché senza letteratura regnerebbe tra di noi quella cecità vergognosa e quella ignominiosa ignoranza che è il principio d'ogni barbarie e la sorgente d'un viver pessimo » (ibid.). «Mercure historique et politique», gennaio 1762.
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tali e col differenziare la religiosità delle classi dirigenti da quella più tradizionalista del popolo minuto. Anche là, malgrado tutto, i conflitti e le beghe degli anni sessanta furono in realtà l'inizio d'un'epoca nuova l. In Piemonte il regalismo era una tradizione, non un movimento. Un po' ovunque in Europa, negli anni sessanta, discutendo sui gesuiti, vennero ricordate, come abbiam visto, le riforme di Vittorio Amedeo II, la sua volontà di neutralizzare l'Inquisizione, la creazione a Torino d'una nuova università. Ma all'interno degli stati dei Savoia di queste cose ci si guardava bene dal vantarsi. Costituivano un arcano di stato, non un motivo di propaganda. Quando Carlo Sebastiano Berardi, uno dei maggiori canonisti italiani, citato come un modello anche al di là delle Alpi, sintetizzò nel 1764 in un lucido trattatello la sua Idea del governo ecclesiastico si guardò bene dal diffondere questo suo scritto, offrendolo unicamente, in gran segretezza, al principe ereditario, il futuro Vittorio Amedeo III, dopo aver avuto cura di copiare di propria mano l'esemplare a questi dedicato, onde evitare che occhi profani avessero a posarsi sulle sue pagine 2 . Ripeteva cosí, forse senza saperlo, il gesto di Alberto Radicati di Passerano nell'offrire a Vittorio Amedeo II i suoi Discours. La differenza tra i due autori, i due sovrani, i due testi misura tutta la distanza che era venuta frapponendosi col trascorrere d'un trentennio. All'invito a seguire l'esempio di Enrico VIII e di Pietro il Grande si era sostituita una lucida costruzione giuridica, atta a tenere stato e chiesa al loro posto, nell'immobile rapporto d'una oculata, rigida difesa delle funzioni e dei diritti d'ambedue. Una ben consolidata tradizione insegnava a tener la Curia alla debita distanza. Solo lo stato assoluto era capace di tanto. Non la polemica né la discussione erano necessarie, ma la lunga pazienza e la fermezza del sovrano. Non v'è allusione nelle pagine di Berardi agli avvenimenti che nel 1764 stavano agitando gli animi, in Italia e in Europa. Dei gesuiti non si parla, né delle scuole, né delle manimorte. La tradizione dello stato piemontese era chiusa e perfetta in Cfr.
SALVATORE ROTTA, Documenti per la storia dell'illuminismo a Genova cit., e EDOARDO Morfologia e dinamica della vita associativa urbana. Le confraternite a Genova fra i secoli xvi e xvtrt, «Atti Soc. ligure stor. p.», nuova serie, V (Genova 1965), fase. 2. 2 CARLO SEBASTIANO BERARDI, Idea del governo ecclesiastico, a cura di Arnaldo Bertola e Luigi
se stessa. Al massimo, si poteva discutere sui mezzi migliori per trasmetterla alle nuove generazioni, senza voler riaprire questioni già da tempo decise e conchiuse. Come diceva il conte Caissotti, uno dei più alti dignitari della corte, in materia di teologia bisognava continuare a sostenere e ad insegnare all'università «un sistema di dottrina non solamente sana e lontana da ogni sospetto, pericolo o debolezza, ma anche stabile, certa e nemmeno esposta a variazioni per opinioni particolari di professori» `. Naturalmente, era una illusione. Anche in Piemonte il giurisdizionalismo riprendeva, negli anni sessanta, a fermentare politicamente e religiosamente. Il perfetto equilibrio voluto da Berardi, da Caissotti, da Carlo Emanuele III, rischiava di dispiacere tanto a Roma quanto ai più decisi anticurialisti. «C'est ce qui arrive à ces politiques » come scriveva nel 1766 l'abate giansenisteggiante G. M. Bentivoglio 2. Anche all'interno del Piemonte era passato il tempo in cui, pochi anni prima, il predecessore di Berardi sulla cattedra torinese, Francesco Antonio Chionio, era stato cacciato per aver aperto uno spiraglio degli arcana imperii ed essersi mostrato alquanto proclive alle idee gallicane e richeriste. I colleghi più giovani di Berardi ed i suoi allievi, Innocenzo Maurizio Baudisson, Giovanni Battista Bono, Vincenzo Spanzotti, non erano più disposti ad accontentarsi dell'immobilità'. Lo stato usava tutte le possibili cautele per evitare si riaprissero i contrasti con Roma, come si vide in occasione de lle dispute sul catechismo di Mésenguy °. Ma qualcosa cominciava a muoversi anche a Torino. Come diceva la rivista veneziana «L'Europa letteraria», «L'Italia nostra, avvezza da tanti mali a portar il giogo del pregiudizio, ha d'uopo di scrittori prudenti e solidi per scuoterlo poco a poco». Un'opera recentemente apparsa in Piemonte faceva pensare che «il sign. Spanzotti meritasse luogo tra questi » 5 . Anche la prudenza piemontese cominciava, alla fine degli anni sessanta, ad avere una funzione nel quadro del generale moto di riforma. Profonda era l'impronta lasciata dalla tradizione regalistica in Piemonte. Se una spiegazione può essere data all'erratica condotta del cardinal Delle Lanze, che bruciò negli anni sessanta quei libri portorealisti e giansenisti che aveva dapprima con tanto amore raccolti, questa spie-
GRENDI,
Firpo, G. Giappichelli, Torino 1963. Ad ulteriore prova del carattere segreto degli scritti di Berardi, si veda l'ordine del 27 aprile 1769, al «primo segretario de' regi archivi» con cui gli venivano consegnati «due manoscritti del fu sig. abate Berardi, regio consultor canonista e professore di sacri canoni, intitolato l'uno Del governo o giurisdizione ecclesiastica e l'altro Delle pretenzioni, affinché li faccia ligare e custodire secretamente in codesti regi archivi, senza lasciarli vedere, salvo a chi S. M. stimasse di ordinare» (TORINO, AS, Sardegna, Corrispondenza coi particolari sardi dalli 31 gennaio 1769 alli r6 maggio 1770, vol. XIII, f. 8). Nel vol. XII di questo medesimo fondo si trovano delle lettere al maggiore Torrazza, a Mondovi, dove si parla a lungo della malattia e morte di Berardi.
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2
TORINO, AS, Pareri del conte Caissotti, registro 11, 31 gennaio 1761. Lettera a Ducoudray, citata da F. MARGIOTTA BROGLIO, nella voce «C. S. Berardi» del DBI,
vol. VIII, p. 754. 3 Su Baudisson cfr. la voce di
G. LGCOROTONDO nel DBI, vol. VII, pp. 288 sgg. Su Bono la voce ibid., vol. XII, pp. 282 sgg. Su Spanzotti, MARIO GORINO, G. V. Spanzotti. Contributo alla storia del giansenismo piemontese, in «Miscellanea di storia subalpina», Torino 1931. ' Cfr. TORINO, AS, Pareri del conte Caissotti cit., vol. XI, ff. 43v sgg., dove risulta che Carlo
di
G. RICUPERATI,
Emanuele III non intendeva seguire l'esempio di Napoli, ma si affrettava ad aggiungere che «non sarebbe nemmeno conveniente che questo governo fosse il solo a darne un esempio contrario ». 5 «L'Europa letteraria», tomo VI, parte II (I° agosto 1769), pp. 85 sgg.
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gazione sta nel riflesso di ubbidienza che istintivamente lo portò a fianco del suo sovrano non appena senti che la lotta contro i gesuiti poteva portare a rimettere in dubbio la disciplina, l'ordine, tanto nella chiesa Che nello stato, e perciò anche nei loro reciproci rapporti'. Anche tra coloro, come Bentivoglio, Berta, Paciaudi, che tennero invece fede alla propria ispirazione religiosa, in un modo o in un altro svolgendo le idee gianseniste, anticuriali, riformatrici che li animavano, sempre profondo rimase il segno della loro origine strettamente regalistica 2 . Tanto ne furono coscienti che con gran cura e pietà si rifecero, fin dall'inizio della loro azione, all'epoca di Vittorio Amedeo II, raccogliendone le memorie, stringendosi attorno ai sopravvissuti di quell'età ormai lontana, rallegrandosi nel vedere gli allievi e i figli seguire le orme dei maestri e dei padri. La morte, nel 1763, del cavalier Ossorio, «ministre attaché réellement à la vérité», gettò Bentivoglio «dans un abattement étonnant». L'avrebbe privato «de tous moyens de faire parvenir aux oreilles du roy les choses nécessaires pour mantenir ce monarque pieux dans les bonnes dispositions dans lesquelles il est » ;. Quasi contemporaneamente scomparivano l'abate Palazzi e il magistrato Giovanni Battista Gallo, simboli anch'essi della tradizione vittoriana. Fortuna che un nuovo tramite col sovrano si era presentato nella persona «de l'abbé Mélarède, l'écclésiastique savoyard nourri de la bonne doctrine, connoissant parfaitement les bénis pères [e cioè, naturalmente, i gesuiti] et toutes leurs manoeuvres». «L'abbé de Mélarède est rempli des maximes de feu comte de Mélarède son père, qui a été un des ministres de roy Victor des plus accrédités par ses lumières et sa fermeté a défendre les droits de son souverain » `. Da Parma Paciaudi chiedeva a Berta di mandargli dettagliate informazioni sull'università di Torino all'epoca del re Vittorio, sui « cambiamenti accaduti alloracché furon interdette e chiuse le scuole dei gesuiti », sul «piano degli studi e delle scuole nelle città provinciali » s. Riemergeva il ricordo di Bernardo Andrea Lama e di Mario Agostino Campiani, i due protagonisti della cultura torinese degli anni venti. Dal figlio di Francesco d'Aguirre, il riformatore dell'università, Paciaudi comprava « tutti gli scritti di suo padre, fatti per ordine del re Vittorio sugli affari colla corte di Roma ». Le contese del ducato di Part Il giansenismo in Italia. Collezione di documenti, a cura di Pietro Stella, Pas Verlag, Zürich
1966-70, vol. I: Piemonte, parte I, pp. 159 sgg. 2 Cfr. PIETRO STELLA, Giurisdizionalismo e giansenismo all'università di Torino nel secolo XV II I, Sei, Torino 1958, con un esame dettagliato delle posizioni, ad esempio di Berta, il quale, anche quando si schierò dalla parte degli avversari delle troppo grandi ricchezze del clero, tosi intitolò il suo trattatello: Ragioni di stato o sia diritto della real casa di Savoia sopra i beni ecclesiastici. 3 PIETRO STELLA, Giurisdizionalismo e giansenismo cit., p. 53o, a Ducoudray, 22 dicembre 1764. Cfr. pure, pp. 527 sgg., a Bottari, 19 settembre 1764. 4 Ibid., p. 531, a Ducoudray, 22 dicembre 1764. S Ibid., parte II, p. 63, 17 novembre 1767.
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ma con Clemente XIII li rendevano, evidentemente, di nuovo attuali. «Ne sono contentissimo. Era uomo sommo e l'acquisto non è per noi indifferente»'. Il rinato interesse per l'università muoveva pure dal desiderio di risalire alla fonte, onde poter meglio combattere le deformazioni successive. La dottrina che vi si insegnava negli anni sessanta era ormai, scriveva Bentivoglio, un «assemblage monstrueux... de bons et mauvais sentimens » 2. I pii giovani ed attivi membri del clero subalpino che si aprivano alla lotta contro i gesuiti provenivano spesso anch'essi da scuole e famiglie dell'età vittoriana, come il vescovo Paolo Caissotti di Chiusano. « I suoi principi — diceva il conte di Rivera, ambasciatore sardo a Roma — debbono esser quali già ànno molti e forse tutti quelli che ànno studiato nella nostra università»'. Malgrado le preoccupazioni di Bentivoglio, questa era e restava la principale sorgente dei pensieri giurisdizionalisti nella vita ecclesiastica e civile del Piemonte. Come ha notato Pietro Stella, che ha recentemente tratto dall'ombra questi uomini, la teologia dell'omnis potestas a Deo, ferma al cuore delle loro convinzioni religiose e politiche, impediva loro ogni movimento, ne faceva dei conservatori, dei tradizionalisti'. Non mancavano di informazioni, di contatti, di libri e gazzette. Stupisce anzi, percorrendo i loro carteggi, l'ampiezza delle loro conoscenze. Seguivano con passione quel che avveniva in Portogallo, in Francia, in Spagna. Erano in rapporto con i giansenisti francesi e inviavano notizie alle «Nouvelles ecclésiastiques» (perpetuamente contristati della scarsissima accuratezza con cui queste stampavano le informazioni che giungevano dall'Italia). Ma non riuscirono mai né a polemizzare apertamente, né ad esercitare una vera influenza sulla politica subalpina. Finché visse Carlo Emanuele III, fino al 1773, la loro presenza in Piemonte fu molto pii scarsa di effetti che quella di altri simili gruppi in altre parti d'Italia, dei teologi e polemisti veneti, degli scrittori dell'Archetto a Roma, degli intellettuali raccolti a Parma. Annidati al centro del potere, tra ministeri, biblioteche, archivi e chiese non ebbero difficoltà a superare i non piccoli ostacoli che la censura frapponeva ai comuni mortali. Ma salvo Paciaudi, che si incamminò per le vie del mondo e operò a Parigi e soprattutto a Parma, non vollero profittare di questa loro situazione privilegiata per liberarsi delle loro anguste visioni politiche e religiose. Furono spesso altrettanto tetri e melanconici quanto i giansenisti francesi, senza peraltro godere di quella libertà di movimento che le lotte de' parlamenti offrivano ai confratelPIETRO STELLA, Giurisdizionalismo e giansenismo cit., parte II, p. 65, 1° dicembre 1767. Ibid., parte I, P. 542, a Ducoudray, 13 luglio 1765. 3 Ibid., parte II, p. 225, nota 1. ° Ibid., p. 163, nota 1. 2
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li d'oltralpe. Divennero strumenti d'una politica di conservazione perché interpretarono la tradizione regalistica piemontese nel senso di considerare ogni sorta di opposizione come un errore e un peccato. Sperarono sempre in riforme che venissero dall'alto, dal sovrano. E quando queste non vennero, si acconciarono senza difficoltà ad accettare lo statu quo. Rimasero nell'ombra proprio quando, ovunque in Italia, anticuriali, giansenisti, riformatori andavano muovendosi sempre phi allo scoperto. Non che mancassero, anche nel Piemonte, i ribelli. Se è vero che l'autore dei Lupi smascherati è l'abate Luigi Capriata bisogna concluderne che una delle punte estreme dell'odio antigesuitico e antiroman fu raggiunta proprio da un piemontese'. Qualcosa di simile può dirsi d'un nobile subalpino, Carlo Armano di Gros, tanto fanatico nella sua lotta contro la Compagnia di Gesti, tanto insistente nella sua protesta giansenistica da attrarre sulle proprie spalle le riprovazioni e persecuzioni non soltanto dello Stato pontificio e di Carlo Emanuele III, ma dello stesso Tanucci 2 . Ma il fatto che agissero fuori degli Stati sardi, cosí come la loro stessa passionalità, ci dice trattarsi di estremismi e fanatismi tipici d'un mondo chiuso e costretto quale quello del Piemonte. Chi meglio e piú ampiamente di ogni altro cercò invece di svolgere la tradizione regalistica piemontese in senso riformatore, sforzandosi di tradurne le premesse teologiche e politiche in chiave illuministica fu Carlo Denina. Non era partito da una rivolta e neppure da un atteggiamento critico ma da un fiducioso, benevolo conformismo, cercando di dimostrare che le riforme e un phi largo accoglimento del mondo moderno erano inclusi e impliciti nell'opera di Vittorio Amedeo II e nella lunga fedeltà del suo successore Carlo Emanuele III, cos{ come negli esempi migliori forniti ormai da mezzo secolo dall'alto clero subalpino. Non ignorava davvero che, entrando a far parte dell'ordine ecclesiastico, egli aveva rinunciato ipso facto ad ogni possibilità di carriera politica e civile. «Car dans notre pays — spiegò nella sua autobiografia —, depuis plus d'un siècle, il n'y a presque pas d'exemples d'ecclésiastiques qui ayent été employés dans un département économique, politique ou civil»'. Preti Già nel 1759 il cardinal delle Lanze si scandalizzava della Critica di un romano alle Riflessioni del portoghese cit. per le «cose incredibili che vi si dicono» sulla corte di Savoia. Paciaudi diceva che i Lupi smascherati erano un e pamphlet trop brutal ». Cfr. PIETRO STELLA, L'«apostasia» del card. delle Lanze (1712-1782). Contributo alla storia del giansenismo in Piemonte, Sei, Torino 1963, p. 26. z
Il giansenismo in Italia cit., parte II, p. 187. Da notare tuttavia la cautela con cui procedette Tanucci, che non amava la corte piemontese e tanto meno la politica ecclesiastica di Torino e che non dimenticava « la storia di Giannone», come egli scriveva a de Roda, ministro degli esteri spagnolo, proprio a proposito del conte Gros, il 25 febbraio 1768 (NAPOLI, AS, Archivio borbonico 14). 3 CARLO DENINA, La Prusse littéraire sous Frédéric II, H. A. Rottmann, Berlin 179o, vol. I, p. 366.
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e nobili, funzionari e professori: che ognuno facesse il proprio mestiere, il proprio dovere. La sua formazione, tanto a Saluzzo che a Torino, era stata antigesuitica. Entrò presto in contatto con l'ambiente milanese (là egli si addottorò in teologia), conoscendovi tra gli altri il teatino Michele Casati, il futuro vescovo giansenisteggiante di Mondovi. Poco bastò per rendergli la situazione difficile a Pinerolo, dove era diventato professore di umanità nel 1753. Aveva scritto per i suoi allievi una commedia da recitarsi in collegio, Don Margofilo, a conclusione della quale « deux bourgeois se disputoient sur le système des écoles publiques». Era evidente intenzione di Denina di difendere e illustrare cosí la politica dei suoi sovrani, favorevole al clero secolare contro l'insegnamento impartito dai regolari. Uno dei disputanti della sua pièce « soutenoit que les écoles publiques étoient tout aussi bien sous la direction d'un magistrat et de prètres séculiers qu'elles l'avoient été sous les moines ou clercs réguliers». I gesuiti e i loro partigiani, cos{ come i domenicani, si ritennero offesi. Il ministero non lo sostenne e Denina dovette «quitter Pignerol et les écoles royales » `. Una non dissimile debolezza dimostrava qualche tempo dopo l'autorità cacciando l'abate Chionio dall'insegnamento superiore. Denina piegò la testa di fronte a questi atti del potere sovrano, senza rinunciare tuttavia a continuare a dire sommessamente la propria opinione. Cercò di allargare l'eco dell'insegnamento di Sigismondo Gerdil pubblicando nel 1758 la sua prima opera, De studio theologiae et norma ei. Tre anni dopo dava alla luce un opuscolo inteso a dimostrare che il clero non doveva arroccarsi nella gelosa difesa dei propri privilegi, ma collaborare attivamente con i sovrani nel miglioramento dell'economia pubblica, facilitando la riscossione delle tasse, promuovendo la repressione del contrabbando, osservando scrupolosamente le disposizioni economiche emanate dallo stato 2. Eppure anche questa benintenzionata scrittura cominciò a porre Denina in sospetto agli occhi delle autorità ecclesiastiche e civili subalpine. Troppo alto l'esempio di virai civica e religiosa da lui presentato per non suggerire un qualche rimprovero, una qualche sia pur blanda rampogna in chi vi si specchiasse. Gli era parso pur strano che i predicatori, nei loro quaresimali, non toccassero « presso che mai » un argomento tanto importante quale «l'obbligo di coscienza che hanno i cristiani di obbedire esattamente e osservare lealmente gli ordini CARLO DENINA, La Prusse littéraire cit., pp. 368 sgg. Sulle scuole reali cfr. MARINA ROGGERO, La scuola secondaria nel Piemonte di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III: crescita e involuzione di un modello innovativo, in «B. stor. bibliogr. subalpino», vol. LXXII, fasc. 2 (luglio-dicembre 1 974),
PP. 449 sgg.
Lettera di N. Daniel Caro al p. Atanasio da Passagna sopra il dovere de' ministri evangelici di predicare colle istruzioni e coll'esempio l'osservanza delle leggi civili e spezialmente in riguardo agl'imposti, Jacopo Giusti, Lucca 1761. N. Daniel Caro era un trasparente anagramma di Carlo De2
nina. Atanasio da Passagna era un agostiniano lombardo.
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della civil società»'. Capitava anzi spesso che i casisti, per loro ignoranza (e «non vorrei già dire per malizia», si affrettava ad aggiungere Denina), finissero col giustificare tutte le possibili frodi fiscali, esortando « alla disubbidienza per via di sofistiche distinzioni, di perverse interpretazioni ed eccezioni» 2. I predicatori mancavano soprattutto al loro dovere quando non s'impegnavano a combattere i contrabbandieri, contribuendo cosí ad impedire all'autorità civile di giungere finalmente al tanto desiderato fine di « purgare in parte il paese di due spezie di gente egualmente dannosa e sospetta, vale a dire i contrabbandieri stessi e di que' soldati o sergenti che a freno dei primi con grave spesa si mantengono » 3 . Peggio ancora operava chi non eseguiva puntualmente ed esattamente le consegne del grano, temendo che, cosí facendo, avrebbe visto aumentate le proprie imposte, «per sospetto che si accresca loro la taglia». Lo stato finiva coll'essere male informato sulla consistenza delle scorte e, nel timore d'una carestia, comprava grano all'estero, provocando una stasi nel mercato annonario e una generale crisi del paese. « Avvenne in questi anni — diceva Denina — che i ministri "ingannati" dalle false consegne, temendo che il grano mancasse nel paese, ne fecero fare le condotte necessarie di fuori. Ed ecco poi i nobili e i ricchi posseditori di terre venir lamentandosi che il danaro va mancando e che i granai rimangono pieni d'un anno all'altro » °. La frode insomma portava un danno generale. « I pastori, gl'ecclesiastici e i religiosi facessero dunque il loro dovere ed esortassero tutti a servire con zelo lo stato » 5. Ben intenzionato, ma inopportuno parve questo intervento di Denina agli occhi di Bogino, il quale le finanze statali intendeva amministrarle da solo, senza consigli di letterati e di ecclesiastici. «De quoi se mèle votre don Denina... », fu il suo commento 6. Ogni tentativo di difendere « quello che chiamasi patriotismo e per conseguenza le virtú politiche » entro l'ambito dell'assolutismo di Carlo Emanuele III suonava come una stonatura '. Invano Denina aveva fatto il possibile per trovare un terreno d'intesa tra governanti ed ecclesiastici. Invano aveva spiegato a questi ultimi che soltanto aiutando i sovrani nel loro compito essi avrebbero potuto riacquistare quel prestigio che andavano invece di giorno in giorno perdenLettera di N. Daniel Caro cit., p. 3. 2 Ibid., p. 7. Ibid., pp. ri. 4 Ibid., P. 74. Ibid., p. 15. 6 CARLO DENINA, La Prusse littéraire cit., p. 373. Lettera di N. Daniel Caro cit., p. i6. Giambattista Vasco fece allusione a questo contrasto con Bogino nella recensione che scrisse alle Rivoluzioni d'Italia di Denina nell'«Estratto della letteratu-
ra europea».
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do. «Quando noi ci dolghiamo — diceva — che la dignità, l'autorità e l'immunità ecclesiastica pare che di giorno in giorno venga diminuita ed avvilita dalle potenze secolari, dovremmo prima esaminare se di fatto cogl'abusi che vi sono non abbiamo meritato noi stessi questa freddezza e allontanamento de' magistrati civili pel poco zelo che dimostrano a far rispettare e onorare l'autorità temporale » '. La sua autocritica non potrebbe essere piú ampia ed esplicita. « Se gli ecclesiastici e i pastori procurassero nel modo che al ministero lor si conviene d'insinuare ne' popoli l'ubbidienza che Iddio prescrive verso i principi o superiori civili, questi sarebbero altresí piú disposti e piú pronti a prestar la mano e l'autorità per mantenere l'onor della chiesa e promuovere i vantaggi della religione» 2 . Seguendo una simile politica la chiesa del quarto secolo era riuscita a stabilire su solide basi l'alleanza del sacerdozio e dell'impero. Cosí erano nate le immunità ecclesiastiche, concessioni certo del potere laico e non diritti originari, intese appunto a permettere al clero di compiere la propria funzione. Avevano avuto torto gli ecclesiastici dei secoli posteriori ad estendere eccessivamente queste immunità e aveva avuto ragione l'autorità laica di tentar di rimediare a simili abusi. «Le dispute che di qui nacquero, i libri che si scrissero da tanti valenti uomini su queste materie, le determinazioni fatte e gli accordi presi da vari principi cattolici con la chiesa o con la Santa Sede per questo fatto furono, a ben considerarli, di vantaggio non meno della disciplina ecclesiastica che al governo politico delle genti» ;. Sovrani ed ecclesiastici avrebbero dovuto prendere esempio dagli ottimi concordati dell'inizio del regno del re Carlo Emanuele III. Là stava la soluzione d'un problema di cui tanto si andava discutendo altrove. Si assicurasse ai preti un'esistenza parca e dignitosa, togliendo loro quei privilegi che rischiavano di corromperli inducendoli a «tirar da lontani paesi liquori squisiti, aromi e droghe pellegrine, drappi raffinati, pietre preziose e gioielli, tutte cose che non servono ad altro che a nutrire il lusso e la mollezza d'una vita pomposa, vana e deliziosa, tanto lontana dalla gravità e severità della vita clericale e religiosa». Si stroncasse con energia ogni «lucroso commerzio » che favorisse gli ecclesiastici'. Come tollerare gli spacci di vivande riservati ai preti? Come ammettere « osterie e botteghe privilegiate per le persone religiose, affinché, essendo gabella sulla vendita del vino, possano i chierici andarci a pigliar vino a miglior prezzo che i laici ed abbiano con detrimento della repubblica maggior agio di usare le crapole e darsi all'intemperanza»? 5 . ToccaLettera di N. Daniel Caro cit., p. 17. Ibid., p. 18. Ibid., p. 2 3. Ibid., pp. 25 -26. 5 Ibid., p. 2 8.
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va invece proprio agli ecclesiastici dar l'esempio della puntualità e precisione nel pagamento delle imposte, « francamente e largamente eziandio » ubbidendo per primi a quei principi che era lor dovere inculcare agli altri'. «Quando la moltitudine sarà convinta che gli ecclesiastici stessi si sottomettono di buon grado e di buona fede agli stessi pesi, le persuasioni loro opereranno sicuramente l'effetto desiderato » 2 . Malgrado tutta la sua buona volontà, con questo suo opuscolo Denina non si era acquistato il favore del governo, né s'era accattivato quello degli ecclesiastici, troppo stretti ai loro privilegi per seguirlo sulla strada ch'egli indicava. Ma su questa via egli prosegui, convinto com'era che il modello piemontese meglio non poteva rispondere alle esigenze dei tempi. Riprendendo la sua polemica due anni pii tardi egli piazzò a Roma stessa, all'epicentro del dibattito giurisdizionale, le immaginarie conversazioni che egli volle intitolare Il parlamento ottaviano, ovvero. adunanze degli osservatori italiani, che andò stampando a puntate nel 1763 presso Jacopo Giusti, quello stesso editore che gli aveva pubblicato la sua Lettera al p. Atanasio da Passagna. I conflitti tra stato e chiesa non erano che un aspetto di questo suo periodico, tutto intento a dissertare di letteratura, a discutere sulla funzione degli intellettuali nella società, su Voltaire, Rousseau e d'Alembert. Ma la radice piemontese, la tradizione vittoriana si affacciavano in mezzo a questo giardino cosmopolita. Non poté far a meno di delineare, con occhio critico, eppure con qualche simpatia, il ritratto d'un prete buontempone e ignorante, incarnazione caricaturale d'un clero tutto chiuso nella sua fede da carbonaio e ben deciso a non alzare gli occhi su cose e persone che non riguardassero i preti, bensí i nobili e i dotti. Mezzo approvando e mezzo scherzando Denina gli metteva sulla bocca una sorta di rinuncia ad ogni potere e cultura. « Codesti vostri teologi — gli faceva dire — tanto pii studiano, phi perdono il cervello e danno nell'eresie. Vedete i gesuiti. Avrebbero ora eglino tante preoccupazioni addosso se avessero studiato meno e stampati non avessero tanti libri»? 3 . Nella sezione (e cioè fascicolo) V il discorso si faceva phi serio, riproponendo l'intero problema degli abusi e delle riforme. Certo il compito di rimediare ai primi e di promuovere le seconde toccava ai governanti, non ai privati. Scrittori e progettisti avevano il compito phi modesto, ma pur sempre importante, di mettere in movimento le autorità. Ecco un esempio concreto. Ovunque si andava dicendo che troppo grande era il numero degli ecclesiastici. «Codesta moltitudine di 1 2
Lettera di N. Daniel Caro cit., p. 29. Ibid., p. 3o. Il parlamento ottaviano ovvero adunanze degli osservatori italiani, Nicola de Romanis, Ro-
ma; Jacopo Giusti, Lucca 1763, tomo I, sezione II, pp. 39 -40.
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chierici diventa sospetta ai principi e a' magistrati secolari..., ognuno conosce quale animo questi debbono avere alla vista di tanti collarini che inutilmente ingombrano le contrade e lasciano vote le campagne di lavoratori, i fondachi e le officine di negozianti e d'artefici». Spopolamento ed ozio erano le conseguenze di questo ampliarsi della chiesa. « Con tutto questo niuno è che ardisca pur di propor qualche riforma a riparo di questo abuso». I vescovi si trovavano tra l'incudine e il martello, tra le pretese del clero e le esigenze della corte di Roma, che «si fieramente aveva loro tarpato le penne». I ministri del sovrano non avevano animo abbastanza per resistere « alle violente declamazioni di zelanti religiosi o alle amare querele de' vescovi o de' pontefici». Gli scrittori erano tutt'altro che al riparo delle « censure» laiche ed ecclesiastiche. «E forsanche non ardirei di cosí parlare — confessava Denina — e molto meno di mandar questi fogli alle stampe sennonché tante ragioni mi muovono a cosí giudicare che non voglio per nissun rispetto dissimulare una verità agli occhi miei si rilevante» Il perfetto equilibrio tra chiesa e stato voluto e teorizzato dal governo piemontese si svelava in somma per quel che era in realtà, incapacità a muoversi sulla via delle riforme. Il passato pesava sul presente. I precedenti diventavano ostacoli. Restava ineliminabile l'« obbligo delle persone discrete e in pubblico e in privato e nelle conversazioni, e ne' libri o nelle lettere commendare que' rettori, que' capi delle comunità i quali, senza riguardo a ciò che abbian fatto gli altri avanti loro, volgonsi unicamente a cercare ché si convenga di fare e che cosa ordinin le leggi si faccia» 2 . Anche quando gli intellettuali non erano in grado di ispirare, di guidare i governanti, lodassero almeno coloro tra i sovrani e i loro ministri che tentavano di opporsi alla decadenza e alla corruzione. Nessuno doveva pretendere di mutare l'umanità. «Ma niuno debbe per questo mostrarsi meno fermo nell'intraprendere riforme». Se un esempio era necessario, bisognava pensare a Geronimo Feijóo, il dotto benedettino asturiano, che si era mostrato capace di indipendenza di fronte al proprio paese, « sopra il costume della sua nazione critico scrittore » 3 . Diamo atto a Denina che per pii di dieci anni egli tentò ostinatamente di tener fede a questo suo impegno e programma, cercando una strada fuor dell'immobilismo subalpino. Di fronte agli abusi e alla rhlassatezza, perfino l'indulgenza di Benedetto XIV gli parve criticabile, e lodevole forse lo zelo difensivo di Clemente XIII. Ma non camminò a lungo per questa via: gli zelanti, che secondo lui meglio sarebbe stato '.
1 Il parlamento ottaviano cit., tomo I, sezione V, pp. 204 sgg. 2 Ibid., p. io8. 3 Ibid., p. 109.
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L'Italia anticuriale: Genova e Torino
Capitolo quarto
fossero invece chiamati gl'ignoranti, gli si pararono contro. Il Parlamento ottaviano venne interrotto dall'azione congiunta di Roma e di Torino. Il rigorismo del cardinal delle Lanze egli vide servir soltanto a frenare ogni iniziativa e a intorpidire ogni cultura. I giansenisteggianti come il bibliotecario Francesco Berta, l'uditore del Santo Ufficio Giovanni Antonio Rayneri, il teologo Talpone gli si presentarono nella veste di occhiuti censori'. Denina cercò appoggio nella corte e nel governo, riconciliandosi con Bogino, mettendo dalla sua Caissotti e ottenendo la protezione del vecchio re. Ciò gli permise di diventare professore universitario a Torino, di scrivere l'opera sua pii importante, Le rivoluzioni d'Italia e di delineare un complesso programma di riforme, moderato certo, ma non privo di qualche efficacia 2. Nel 1773 fini di scrivere la sua operetta Dell'impiego delle persone, dove ceti ed ordini della società civile, il clero secolare e regolare, i nobili, i militari, i letterati, «i popolari, i plebei, i cittadini e i borghesi, i poveri, i forzati» erano visti in una prospettiva che manteneva, riconfermava l'equilibrio esistente tra di loro, ma tentava di portare all'interno di ciascuno di essi migliorie e modifiche. Aveva scritto l'opera sua «con lo scopo di cavare convenientemente partito da ogni classe d'uomini », come scriverà molti anni pii tardi a Carlo Marco Arnaud, suo nipote'. L'eco delle dispute che si scatenarono in Italia durante i pontificati di Clemente XIII e XIV risuona attutito in queste pagine. Niente sui gesuiti, poco o nulla sulla mano morta. Il fermento anticlericale, tanto diffuso altrove, è qui assente. La data stessa di quest'opera, il 1773, ormai tarda, ben lontana da quel 1768 che un po' ovunque aveva segnato l'apice della disputa. Entro la solita cornice subalpina l'inserimento del clero nel mondo moderno parve pii facile e naturale. Bastava non preoccuparsi di sottigliezze teologiche e metter gli ecclesiastici al lavoro, anche al lavoro manuale, soprattutto agricolo, come Denina energicamente raccomandava. Anche i frati e le monache ritrovavano una loro funzione, immettendosi in quella complessa opera di carità e di solidarietà che era compito dello stato imporre alla società civile tutta intera. Ospedali, chiese e scuole avrebbero costituito l'ossatura stessa di questa politica, che si voleva conservatrice perché capace di correggere i sempre risorgenti abusi. Né i possidenti dovevano mai dimenticare che il clero era pur sempre il ceto pii legato e vicino al popolo delle campagne. «L'istruzione del pub' Cfr. soprattutto la già menzionata autobiografia ne La Prusse littéraire cit., pp. 403 sgg. 2
Sulle Rivoluzioni d'Italia, cfr. ALDO GAROSCI, Storiografia piemontese tra il Cinque e il Settecento, corso per l'anno accademico 1971-72 alla Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Torino, Editrice Tirrenia, 1972, pp. 339 sgg. Le pagine conclusive delle Rivoluzioni d'Italia, che stanno al passaggio tra la sua opera di storico e quella di riformatore e che s'intitolano Riflessioni sopra lo stato d'Italia dopo la pace d'Utrecht si trovano riprodotte in Riformatori, tomo III, pp. 725 sgg. 3 CARLO DENINA, Dell'impiego delle persone, Michel-Angelo Morano, Torino 1803, vol. I, p. Ix.
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buco sta in mano degl'ecclesiastici e de' religiosi nelle scuole e nelle chiese perché non v'è altro luogo in cui si parli alla moltitudine»'. Il rapporto tra stato e chiesa e la riforma stessa del clero doveva tener conto innanzitutto di questo fatto. Dei preti bisognava servirsi per trasformare la società civile, per farla pii compatta, ubbidiente, colta e illuminata. Neppure un momento uno stato d'antico regime, uno stato di ceti e di ordini, poteva allentare o dimenticare questo suo rapporto con la chiesa, fatto di controllo e di fiducia insieme. È caratteristico del clima dei primi anni di Vittorio Amedeo III che a questo moderato programma di riforme si finisca col rispondere a Torino con un no. Per anni Denina aveva cercato di proseguire attraverso il labirinto delle censure ecclesiastiche e civili. Quando infine perse la pazienza e tentò di stampare il suo libro fuori del Piemonte, a Firenze, attirò sul proprio capo una serie di guai. Perse la cattedra, fu confinato a Vercelli e poi nella sua natia Revello. In una felpata atmosfera di accuse e di minacciosi silenzi venne sospinto sulla via dell'esilio. Nel 1782 era a Potsdam, presso Federico II, lontano ormai dal suo tenace, insistente tentativo di offrire una possibilità di sviluppo illuminato della tradizione giurisdizionalista piemontese. CARLO DENINA,
Dell'impiego delle persone cit., vol. I, pp. 35-36.
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Capitolo quinto L'Italia anticuriale: Milano, Firenze, Modena
In Lombardia, in Toscana e anche a Modena, nelle terre cioè pii o meno direttamente imperiali, il ritmo delle riforme giurisdizionali venne regolato da Vienna. Come in Piemonte, scarsa dapprima l'eco della polemica antigesuitica. Ben altrimenti vigorosa invece la politica intesa a combattere, con crescente intensità ed efficacia, le ingerenze e i privilegi del clero. Sistematico è l'allargamento di questa battaglia a tutti gli aspetti della vita sociale, dalle manimorte al numero degli ecclesiastici, dalle scuole alla censura. In Lombardia l'epoca decisiva ebbe inizio col 1764, per poi passare con ritmo incalzante dai problemi parziali e locali, che riguardavano i vescovi di Como e di Mantova e il concordato con i Grigioni, agli anni che il maggior conoscitore di questi avvenimenti, Ferdinand Maas, ha chiamato della «Vorentscheidung» (il 1767) e finalmente del « Sieg des neuen Staatskirchentums » (1768 )'. Ritmo che avrà grande influenza, decisiva talvolta, su tutto il moto riformatore italiano. L'animo con cui da Vienna era andato operando il ministro Kaunitz si era fatto ogni anno pii pugnace e pungente 2. Fino al 1764 la sua azione giurisdizionale era ferma e solida, ma egli si asteneva quasi completamente da giustificazioni e da spiegazioni che andassero al di là della difesa del diritto e dell'interesse dell'impero. Nell'esporre a Maria Teresa la questione del concordato con i Grigioni egli si era limitato a sostenere la necessità di proseguire nella via tradizionale d'una tolleranza di fatto di fronte al protestantesimo di quelle terre'. Erano anni di guerra e Vienna non intendeva togliersi la possibilità di ottenere dal papa i necessari permessi per una tassazione straordinaria dei beni ecclesiastici «nelle presenti angustie dell'erario» 4 . Nel dicembre del 1763 Kaunitz faceva FERDINAND MAAS, Der Josephinismus. Ursprung und Wesen, vol. I: 1760-69, Herold, Wien PP. 56 e 69. Cfr. w. BAUM, Luigi Maria Torrigiani (1697 - 1777), Kardinal staatssekretär Pabst Klemens XIII, in e Zeitschrift für Katholische Theologie », vol. XCIV (1972), fast. x, pp. 46 sgg. 3 FERDINAND MAAS, Der Josephinismus cit., vol. I, pp. x46 sgg., x3 settembre x762. Cfr. pp. x58 sgg. la risposta di Kaunitz al nunzio, del 24 dicembre 1762. 4 Ibid., p. 155, al cardinal Albani, 8 novembre 1762. 1 95 1 ,
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ancora il possibile per ricordare a Roma che l'imperatrice meritava d'esser considerata «il pii cattolico e il pii religioso fra tutti i principi» '. Ma già nel febbraio del 1764 è evidente l'irritazione del ministro di fronte all'ostinazione e cavillosità della curia. « Il ragionamento del cardinal Torregiani, che egli chiama una dimostrazione geometrica... fa pietà», scriveva alla sovrana 2. Nel novembre dello stesso anno Kaunitz attaccava apertamente «l'arte di Roma», la sua politica dilazionatrice e spiegava a Maria Teresa che Clemente XIII, opponendosi al concordato dei Grígioni, difendeva non «la religione cattolica», ma «l'ambizione e l'interesse privato del clero di que' paesi». Ormai è la mentalità stessa della curia che gli è diventata insopportabile, quel suo continuo trasporre cioè le questioni concrete in un mondo ideale e immaginario, dove le parole perdono ogni precisione e significato: Una vera lezione di logica Kaunitz impartisce cosí alla sovrana. «Le idee di cose determinate devono avere il loro significato circoscritto da certi confini. Se tutte le voci particolari dovessero intendersi in un senso illimitato, non vi sarebbe pii società. L'idee si ridurrebbero tutte all'universale e gli uomini, invece di comunicar insieme in un mondo finito, dovrebbero sempre aggirarsi per gli spazi immaginari». La polemica con la mentalità religiosa sboccava, come sì vede, in una logica del concreto, del finito, tipicamente illuminista Bisogna costringere Roma, concludeva, ad ammettere che «la libertà e l'immunità ecclesiastica hanno ad avere un confine». In tutti gli aspetti dei rapporti tra chiesa e stato era necessario un ritorno sulla terra, ai problemi cioè della società civile. Per quel che riguardava le proprietà ecclesiastiche era indispensabile che i loro frutti fossero depositati «ne' banchi pubblici». Nelle mani dei laici dovevano tornare i lasciti pii. E quando Roma chiamasse simili provvedimenti «un distruggere la religione cattolica, un propagare la eresia», non restava che contrapporle il duro e preciso linguaggio della convenienza economica: «è d'esigenza indispensabile d'ogni principato che restino i terreni liberi al pubblico commercio». Bisognava impedire agli ecclesiastici «l'accesso de' poderi», liberando cosí i chierici «dalla distrazione che seco porta l'amministrazione degli stabili» 3 . Kaunitz non cesserà pii dopo il 1764, di ribadire e di sviluppare queste idee. Su questa base egli cercherà ed otterrà una sempre pii attiva collaborazione degli amministratori illuminati e dei giovani riformatori che andavano affermandosi in Lombardia negli anni sessanta. Cosí Ilario Corte, l'amico di Pietro Verri, sarà strumento indispensabile nell'impo,
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FERDINAND MAAS, Der Josephinismus cit., Ibid., p. 193, 19 febbraio 1764. 3 Ibid., pp. 213 sgg., 8 novembre 1764.
vol. I, p. 186, al cardinal Albani, 29 dicembre 1763.
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stare e nel portare a compimento l'approfondita inchiesta allora realizzata sui possessi e privilegi del clero '. Se la partecipazione di Firmian all'avvio delle riforme fu pii fredda e limitata di quanto tradizionalmente si sia detto, dopo l'istituzione del 3o novembre 1765 e l'allargamento poi del 3 agosto 1767 dei poteri della Giunta per le materie ecclesiastiche anch'egli venne solidamente inserito nel generale programma di trasformazione della Lombardia'. Il 25 giugno 1767 il coreggente Giuseppe De Sperges e Firmian stabilirono una vasta e minuziosa inchiesta sui beni del clero, «patrimonio de' poveri»'. Il 5 settembre 1767 venne emanato l'editto sulle mani morte'. «La Giunta economale va dilatando sempre pii la sua attività — scriveva pieno d'entusiasmo Pietro Verri al fratello Alessandro verso la fine del 1767 —. Le chiese debbono essere chiuse alle ventiquattro ore tutte quante, non s'apriranno che a giorno chiaro. I mendicanti di bussole, i romiti ecc. proscritti dal primo di dicembre in avanti. Domenicani, agostiniani, confratelli ecc., fuori che i frati che non possedono fondi assolutamente, tutti sono costretti a non pii questuare... Frati di sorte alcuna non debbono immischiarsi ne' carcerati o case di correzione, tutto spetta a' parrochi. Ciò è già fatto pacificamente. L'arcivescovo è afflitto, i frati umiliati assai. Se vedessi Milano, ti parrebbe d'esser stato assente per molti anni»' Nel 1768 s'aggravarono i conflitti con Roma per quel che riguardava la tassazione del clero e la censura sui libri. Già da tempo Kaunitz era persuaso che bisognava modificare il regime della censura, « diretto in apparenza alla conservazione della purità della fede, in sostanza al fine di estendere la giurisdizione della corte di Roma » 6. Con l'editto del 3o dicembre 1768, la censura passò dalle mani dell'Inquisizione e del Senato in quelle di uomini FERDINAND MAAS, Der Josephinismus cit., vol. I, pp. 229 sgg. Kaunitz a Maria Teresa, 26 febbraio 1767; cfr. ibid., pp. 51 sgg. 2 Sull'atteggiamento di Firmian si vedano gli importanti studi di ELISABETH GARMS-GORNIDES, tra i quali soprattutto le Marginalien des 18. Jahrhunderts zu zwei Biographien des Grafen Karl Firmien, in «Mitteilungen des österreichischen Staatsarchivs», vol. XXXII (1970), Wien 1971, pp. 128 sgg. Sulle sempre pii ampie e importanti funzioni della Giunta economale, cfr. FERDINAND MAAS, Der Josephinismus cit., vol. I, pp. 236 sgg. e soprattutto pp. 238 sgg., Maria Teresa a Francesco di Modena, 3 agosto x767 e pp. 292 sgg., Kaunitz a Maria Teresa, 15 giugno 1768. Cfr. UGO PETRONIO,
Il senato di Milano. Istituzioni giuridiche ed esercizio del potere del Ducato di Milano da Carlo V a Giuseppe II, Giuffrè, Milano 1972, pp. 326 sgg. Una copia di queste disposizioni a stampa si trova in TORINO, AS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, mazzo x, n. I.
Der Josephinismus cit., vol. I, pp. 24o sgg. Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. I, parte II, p. 104, 3 novembre 1787. 6 FERDINAND MAAS, Vorbereitung und Anfänge des Josephinismus im amtlichen Schriftwechsel des Staatskanzlers Fürsten von Kaunitz - Rittberg mit seinem bevollmächtigten Minister beim Governo generale der österrechischen Lombardei, Karl Grafen von Firmian, 1763 bis 177o, in «Mit4
FERDINAND MAAS,
teilungen des österreichischen Staatsarchivs», fasc. 2, n. 69 (2948), p. 388, 13 ottobre 1766. Cfr. pure ibid., n. 74, 9 aprile 1767. Fondamentale ora la ricerca di GRETE KLINGENSTEIN, Staatsverwaltung
und Kirchliche Autorität im 18. Jahrhundert. Das Problem der Zensur in der theresianischen Reform, Verlag für Geschichte und Politik, Wien 597o, con una interessante appendice di documenti.
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accuratamente scelti e selezionati dallo stato '. Fin dal giugno 1768 Kaunitz aveva spiegato al nunzio papale Eugenio Visconti che Gesii Cristo aveva attribuito ai suoi apostoli «l'amministrazione de' sacramenti, il culto divino e la disciplina interna». Tutto il resto apparteneva alla « sovranità» e perciò anche «l'ispezione generale sopra la stampa, introduzione e vendita de' libri». La chiesa poteva giudicare se un libro era ortodosso o meno. Ma «l'impedire o il permettere con leggi penali la pubblicazione dei libri» dipendeva unicamente dallo stato. Doveva riconoscere che si trattava di una innovazione, di qualcosa che contraddiceva le pratiche usate nel passato. Ma chi obbligava il principe a continuare negli errori e nelle debolezze dei secoli trascorsi? «La suprema podestà civile non solamente può, ma anzi deve, secondo le esigenze della causa pubblica, accomodare e proporzionare ai tempi ed alle circostanze come le proprie sue leggi, cosí ancora ogni altro stabilimento sopra oggetti non spirituali» 2 . La nuova organizzazione della censura avrebbe certo compreso degli ecclesiastici, ma nominati dallo stato. Invano il papa Clemente XIII spiegò all'imperatrice Maria Teresa che «il metodo che Vostra Maestà intende di stabilire in Milano per la stampa ed introduzione dei libri non è buono e pone in pericolo la purità della nostra santa fede e l'integrità della morale cristiana», soprattutto «in questi tempi, nei quali la religione e la fede è da mille parti attaccata con una guerra tanto pii pericolosa quanto pii occulta, che i libri empi ogni di pii si aumentano e si traducono ne' volgari idiomi, che tutti leggono e sortiscono il veleno nascosto sotto le lusinghevoli fallacie di una vana filosofia..., che la chiesa e i suoi ministri sono per cosí dire fatti il bersaglio delle irrisioni e dei pii fieri colpi degli uomini »' Malgrado simili esortazioni, il decreto emanato poco dopo colpiva al cuore quello che Kaunitz chiamava «il cosí detto Sant'Officio » e compiva un passo decisivo nella strada del rinnovamento lombardo ' Gli uomini del «Caffè» avevano seguito con grande attenzione questi sviluppi della politica di Kaunitz. Il 3 gennaio 1769 Pietro Verri, scri.
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cit., p. 340.
UGO PETRONIO, Il senato di Milano FERDINAND MAAS, Der Josephinismus
cit., vol. I, pp. 306 sgg., 25 giugno x768. Ibid., p. 319, 20 agosto 1768. " Ibid., p. 299, Kaunitz a Maria Teresa, 16 giugno 1768. Cfr. «Nuove di diverse corti e paesi», n. 3 (16 gennaio 1769), dove veniva riportato l'editto in cui la sovrana riferiva dettagliatamente sulle opposizioni incontrate da parte dell'arcivescovo e dell'Inquisizione e dichiarava la propria volontà di passar oltre. L'editto del 3o dicembre 1768 è riportato integralmente sulle «Notizie del mondo », n. 5 (17 gennaio 1769), pp. 38 sgg. Leggeva con gran passione queste notizie di gazzetta Giovanni Cadonici, un colto ecclesiastico di Cremona ed osservava, scrivendo all'amico Isidoro Bianchi, che la reazione romana a queste misure «fa pietà... perché non si conserva in nulla la dignità pontificia». Pur non senza apprensione, ammetteva che le riforme erano necessarie. «Gli obbrobri di questo paese mi paion enormi, appunto perché non si studia, non si sa, né si respira altro che l'aria impestata gesuitica» (MILANO, B. Ambrosiana, T. 128 Sup., ff. 142 e 151, so settembre 1768 e 2 febbraio 1769). 2
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vendo al fratello in tal modo concludeva: «Cos{ è perduto per sempre il diritto romano sulle stampe e sui libri» i. Paolo Frisi aveva attivamente collaborato con il ministro, come Verri narrerà nella biografia di lui: «nell'autunno del 1768 il nostro matematico passò all'imperial corte di Vienna... Kaunitz... ravvisò lo spirito e il genio di lui... Quantunque il gius canonico e le controversie di giurisdizione fra il sacerdozio e l'impero fossero materia affatto aliena dalla professione del nostro Frisi, vi fu chi volle ascoltarlo su tale argomento, che allora era uno de' primari oggetti politici» 2 . «L'ottimo di tutti i Cesari» e cioè Giuseppe II e il «genio superiore», Kaunitz, con lui avevano discusso, come Frisi stesso scriveva, sui punti cruciali dei rapporti tra chiesa e stato. Ne era nato un Ragionamento sopra la podestà temporale de' principi e l'autorità spirituale della chiesa, che non venne mai pubblicato e che era uno dei phi maturi frutti
del moto regalista degli anni sessanta'. «Istrutto com'era della storia Verri — , dotato di chiarissime idee, scrisse, anche cos{ comandato,—dirà con evidenza tale che comparve nuovo un argomento cotanto dibattuto e riuscf interessantissimo lo scritto suo» `. Ogni ingerenza della chiesa nel campo politico egli dichiarava del tutto illegittima. Bolle e decreti non avevano valore alcuno. Assurdo addirittura era ogni concordato, non essendovi alcun punto di contatto tra i poteri dello stato e quelli del papa. «Cedendo il principe una parte della podestà temporale che ha, la chiesa non può cederne una parte perché non l'ha e cos{ tutto il danno del concordato è da una parte e tutto il vantaggio dall'altra, il che basta per dichiararne l'illegittimità». Né il principe, «come depositario della pubblica forza e rappresentante di tutto il corpo politico», aveva il diritto di intaccare in alcun modo la sua «rappresentanza e sovranità». Ogni concessione fatta nel passato agli ecclesiastici poteva essere revocata e i loro beni limitati e tassati. L'asilo sacro non nasceva certo da diritto alcuno della chiesa «di decidere qual sia il luogo dove le leggi umane devon tacere». Non si dovevano permettere «tante moderne pratiche di divozione che, non conducendo a formar il cuore veramente cristiano, molte volte fomentano l'ozio e il libertinaggio». Quanto alle feste di precetto, bisognava esaminare se non conveniva «rimetterle tutte nei giorni di domenica e cavarle interamente dal calendario». La «professione religiosa» era «una scambievole obbligazione di un suddito con un ceto 2
Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. II, pp. 113 sgg. Memorie appartenenti alla vita ed agli studi del signor don Paolo Frisi,Marel-
PIETRO VERRI,
li, Milano 1787, p. 37. 3 I1 ms è conservato a MILANO, B. Ambrosiana, Y 163 Sup., 23 sgg. Cfr. Riformatori, tomo III, pp. 322 sgg. e SILVANA TOMANI, I manoscritti filosofici di Paolo Frisi, La Nuova Italia, Firenze 1968, PP. 24 sgg. 4 PIETRO VERRI, Memorie cit., p. 37.
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di altri sudditi, cioè è un contratto puramente civile, a cui si aggiungeva íi legame spirituale dei sacri voti». «Toccherà alla provvidenza del principe il decidere sotto quali condizioni la detta obbligazione possa essere valida o no », stabilendo l'età dei voti, seguendo l'esempio di Venezia che con decreto del 7 settembre 1768 l'aveva fissata a venticinque anni. Era indispensabile limitare il numero dei regolari, «massime mendicanti». «Il precetto di far limosina ai veri poveri non deve eccitare la voglia di accrescere i poveri e i carichi dello stato..., mai si potranno autorizzare tante migliaia di uomini sani e robusti ad abbandonare l'agricoltura, le arti e il commercio per vivere coi sudori degl'altri coloni e artisti». Era indispensabile intervenire per limitare e intaccare i privilegi giudiziari del clero, abolendo innanzitutto le carceri dei conventi, anche questa volta seguendo l'esempio della Repubblica di San Marco, e finendo con l'abbattere il Sant'Ufficio. «L'Inquisizione dovrebbe essere in ogni parte formalmente abolita». La censura doveva passare interamente nelle mani dello stato. «La chiesa può censurare e condannare un libro e proibire ancora di leggerlo sotto tutte le pene spirituali. Ma l'impedire che un libro si stampi, s'introduca, si venda, è un atto di sovranità temporale, che non appartiene alla chiesa». Bastava pensare all'uso che il papato aveva fatto dei poteri censori che si era arrogato: « sappiamo con che rigore si proibiscano a Roma i libri che tendono a ridurre ne' giusti limiti il dominio temporale dei papi». Né miglior sorte avevano avuto le scuole. «Essendo i religiosi italiani quasi tutti educati nelle opinioni della podestà temporale della chiesa, l'occhio vigile del governo si dovrà stendere ancora sopra le scuole dirette da essi in Italia». In questo campo pure unarifomedspbl.Igovern atch«onsi perdesse tanto tempo nella lingua latina e in tanti inutili questioni, perché non si trascurasse tanto lo studio della geografia, della storia, della meccanica, dei diritti del principe ecc.»'. Vasto programma che presagiva le vie che il governo viennese avrebbe effettivamente imboccato negli anni seguenti. Il 1769 vide uno stillicidio di misure giurisdizionali, una pii incisiva dell'altra. Il 9 marzo erano abolite tutte le carceri esistenti presso i regolari 2. «La chiesa — vi si leggeva — mentre che continuava nella sua primitiva purità, non ha mai ambito, ma anzi aborrita questa spezie di giurisdizione criminale..., nulla pare piú contrario all'indole del sacro ministero che la podestà coercitiva del corpo, massime esercitata con pubblico apparato, e molto piú dee riputarsi contrario a tale pratica lo spiRiformatori, torno III, pp. 323 sgg. Vedi il decreto in « Notizie del mondo », 8 aprile 1769, p. 221 e «Nuove di diverse corti e paesi», n. 15 (10 aprile 1769). 2
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rito della professione monacale, alterato anche in questo articolo come in tanti altri dalla corruttela de' tempi». Il 25 aprile giungevano da Vienna ulteriori precisazioni sulle mani morte. Due giorni dopo, il 27, Firmian definiva altre modalità riguardanti i piccoli conventi, che da un anno si andavano riducendo o abolendo'. I « disordini», gli « inconvenienti» a cui questi andavano incontro «nelle città di questo stato e molto pii alla campagna » apparivano sempre pii gravi e irrimediabili agli occhi del governo. Il 17 luglio veniva pubblicato il Dispaccio in regolamento de' regolari, inteso a « temperare la cupidigia [loro] di procacciarsi titoli, e distinzioni di mero lusso... titoli, privilegi, precedenze». Era ormai indispensabile «andare alla radice» di simili «abusi» 2 . Il 14 ottobre era la volta dei parroci. «Si proibisce la pompa esterna», suscitata tra l'altro, si diceva, « dall'attuale molteplicità delle feste». Non pii di una festa all'anno per confraternita, dunque, « con espressa proibizione degli spari, banchetti, rinfreschi ed altri usi superflui»'. L'applicazione di queste direttive fini coll'incidere su tutta la devozione popolare. A Mantova, ad esempio, il vescovo ordinò ai parroci di spiegare a coloro « che tengono sopra le loro case madonne e immagini di altri santi che si compiacciano levarle del tutto e, se dipinte sopra il muro, disadornarle e non fare ulteriormente davanti le medesime né feste, né altro segno di venerazione » °. L'aprirsi degli anni settanta vedeva l'editto sull'asilo sacro'. Il 17 ottobre 1770 l'età minima per la professione dei voti monastici veniva fissata a ventiquattro anni 6 . Lo stato non si limitava pii a rivendicare i propri diritti. Passava a legiferare in materia ecclesiastica. Era iniziato il decennio che porterà al vero e proprio giuseppinismo. La svolta tra gli anni sessanta e settanta aveva segnato un momento decisivo anche nelle riforme della scuola nella Lombardia austriaca. La generazione del «Caffè» entrava nelle Scuole palatine a Milano e nell'Università di Pavia insieme ad alcuni elementi di punta del moto antigesuitico. Cosí Alfonso Longo era nominato contemporaneamente a Martino Natali. Il 18 dicembre 1769 Longo, che era stato uno dei redattori del «Caffè», leggeva la sua prolusione, in latino. Quando circolò stampata, si poté constatare come l'abate fosse stato particolarmente deciso nelle sue affermazioni regalistiche e anticuriali'. I popoli ormai, diceva «noscunt «Nuove di diverse corti e paesi», n. 18 (1° maggio 1769) e ibid., n. 23 (5 giugno 1769). «Notizie del mondo», n. 86 (28 ottobre 1769), P. 705. 3 Ivi, n. 88 (4 novembre 1769), p. 722. Ivi, R. 99 (12 dicembre 1769), p. 811. 5 FERDINAND MAAS, Der Josephinismus cit., vol. II, pp. x32 sgg. 6 Ibid., pp. 7 39 sgg.
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7 Prolusio ab Alphonso marchione Longo, canonico theologo basilicae sancti Stephani, iuris publici ecclesiastici in Palatinis mediolanensibus scholis regio professore recitata, 1769. Era stata pubblicata da Galeazzi. Su tutto questo episodio, cfr. la tesi di laurea di BRUNO BECHINI su Alfonso Lon-
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pietatem propriam bono publico sociare et religione intacta maiestatis jura conservare ». Essi acconsentivano perciò alle riforme che andavano compiendo Maria Teresa, il suo ministro Kaunitz e, in Lombardia, il conte Firmian, approvavano le nuove leggi sulla censura e in genere tutti gli sforzi che lo stato andava facendo per ripristinare quel diritto « quod n onnullorum fraude, nonnullorum vero imbecillitate summo cum reipublicae detrimento negligebatur». Bisognava proseguire su questa strada, senza farsi fermare dai pregiudizi e dai vizi che avevano finito col prevalere nella corte romana. Lo studio della storia della chiesa, il ritorno a lle forme e alle idee dei primi secoli del cristianesimo avrebbero guidato tutti coloro che andavano preparandosi ad affrontare i problemi della riforma ecclesiastica e civile. Di fronte a simili affermazioni, le reazioni non mancarono. Pietro Verri diceva di questa prolusione: «L'ho fatta correre, è piaciuta, altri però la trovano scandalosa, com'è naturale»'. E tra gli scandalizzati pare vi fosse lo stesso papa Clemente XIV, che sembra giudicasse questo testo «niente politico», cioè inopportuno. Lo stesso Kaunitz, scrivendo a Firmian il 25 gennaio 1770 sottolineava «la gelosia dell'argomento», che esigeva « una somma delicatezza». « In somma ravviso in questo saggio il detto canonico Longo ripieno bensí di zelo e di buona intenzione, ma troppo ardente e proclive alla declamazione » 2. La collaborazione tra filosofi e ministri non era facile, anche quando, in realtà, la pensavano alla stessa maniera. Tutto dipendeva dal momento. Longo dovette rassegnarsi a pubblicare una seconda edizione, edulcorando la sua prolusione. Nelle riforme degli studi lombardi, alla nuova cultura si era affiancata la nuova scienza: Beccaria e Parini si ritrovarono accanto a Spallanzani'. I1 discorso d'apertura dell'Università di Pavia, nel novembre del 1769, fu tenuto dal padre Soave, il diffusore delle idee lockiane e condillachiane. L' 1 i maggio 1770 Martino Natali aveva pronunciato la sua prolusione. Come diranno pii tardi gli « Annali ecclesiastici» di Firenze: «giunto ad una pressoché deserta università, e trovativi gli studi languenti e dominanti i pregiudizi, per primo aveva posto mano a ristorarla, a risvegliare gli studi ed a sgombrare i pregiudizi, sí che si vide, in breve spazio di tempo, tutta volgersi a migliori speranze e presto fiorirvi ogni go: scuole, biblioteche e censure nella Lombardia del Settecento sostenuta alla Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Milano, 1967-68, con Marino Berengo relatore. Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. III, p. 161. 2 MILANO, AS, Studi parte antica, cart. 275, citata da BRUNO BECHINI, Alfonso Longo cit., p. 25. «Nuove di diverse corti e paesi», n. 46 (13 novembre 1769), e n. 49 (4 dicembre 1769). Curioso, e significativo notare che le «Notizie del mondo» informando di queste nomine presentava ai suoi lettori Giuseppe Parini come « soggetto assai noto per il foglio periodico che dà settimanalmente alla luce in questa dominante ». Non dunque la poesia, ma la pubblicistica l'aveva portato alla fama. Cfr. n. 94 (25 novembre 1769), p. 771.
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sorta di scienze sacre non meno che di profane»'. Il moto di riforma religiosa, come di quella politica ed economica, aveva trovato a Pavia alla fine degli anni sessanta un punto di convergenza particolarmente fruttuoso. Sulla Toscana pesò il fatto d'esser sottoposta all'impero e di esserlo, contrariamente alla Lombardia, in modo indiretto, fuori dell'ambito d'azione di Kaunitz. Durante il governo del generale Botta Adorno, tra il 1757 e 1766, il granducato venne a trovarsi in un angolo morto. Quando poi la Toscana divenne autonoma, con Pietro Leopoldo, ci volle qualche anno perché si rimettesse al passo dell'Italia e dell'Europa. Non che, negli anni cinquanta e sessanta, fosse là estinto il fermento giurisdizionale e ariticlericale, tanto vigoroso nel periodo del governo di Richecourt. Tutt'altro. Esso continuava ad agire tanto sugli organi di governo quanto e soprattutto sulla vita culturale. Giovan Vincenzo Alberti, l'uomo politico che insieme a Giulio Rucellai e Filippo Rota aveva steso il progetto di legge sulle mani morte dell' 1 i marzo 1751, — considerato allora come particolarmente ardito — , fu a partire dal 1758 alla testa degli affari ecclesiastici della Toscana 2. Tra i funzionari lorenesi sempre vivo restò quel senso di ripugnanza e di disprezzo per la superstizione e il bigottismo del paese in mezzo al quale era toccato loro di operare. Quando le pretese di monsignor Francesco Piccolomini, vescovo di Pienza, divennero esorbitanti anche agli occhi del generale Botta Adorno, questi si decise, nel marzo del 1764, a farlo arrestare. II capitano De Fisson, un lorenese appunto, venne incaricato di eseguire quest'ordine. Il rapporto da lui redatto rivela il suo stato d'animo Il prelato si fece trovare a letto, rifiutandosi di alzarsi. « Il eut recours au fanatisme et, prenant le crucifix, dit qu'il vouloit tout souffrir pour l'amour de Dieu, qu'il vouloit qu'on le liat, qu'on le battit, enfin milles autres extravagances et propos de cette nature». Ci vollero delle ore per costringerlo a partire. « Come s'étoit un jour de dimanche, à l'heure que l'on sortoit de l'église, une foule de peuple se trouva à la porte, les uns à genoux, les autres droits, jettant des cris assez haut... Je me trouvai pressé et presque suffoqué de gens qui vouloient lui baiser la robe. Je commandai à mon détachement de repousser à coup de bourade toute cette populace, repoussant moi-même les prêtres », i quali si
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affollavano chiedendo la benedizione di monsignore. Questi, sul calesse che lo portava via da Pienza, non faceva che lamentarsi del fatto di non esser legato, aggiungendo «que cela manquoit à sa gloire, que Jésus Christ et tant de saints l'avoient bien été» 1 . La cultura toscana manteneva fede alle idee degli anni trenta e quaranta. Lami continuava sulle colonne delle sue «Novelle letterarie» la sua battaglia contro superstizioni e lassismi. Erudizione e critica improntavano il cristianesimo dei dotti. Ma, negli anni sessanta, non era difficile accorgersi che si trattava spesso d'una sia pur fervorosa ripetizione di motivi già noti, teologici e morali, non d'un loro svolgimento sul terreno d'una piú immediata polemica. La partecipazione toscana alla discussione sui gesuiti è scarsa e riguarda piuttosto la beatificazione di Palafox, l'attività pubblicistica del padre Zaccaria, il catechismo di Mésenguy che i conflitti del Portogallo, le lotte dei parlamentari francesi, le dispute sulle scuole e i commerci della Compagnia 2 . Le memorie di Lami in materia di benefici ecclesiastici e del diritto d'asilo servirono in qualche misura a preparare le riforme leopoldine del 1769. Ma il tono sarà allora ben diverso, ispirate come si mostreranno a criteri di efficienza e di economicità, lontani ormai dalle annose polemiche dell'età del Lami'. Quando questi mori, nel 1770, le «Novelle letterarie » diverranno l'organo di Marco Lastri, georgofilo, economista, completamente staccato ormai dalla tradizione erudita e giansenistizzante. Quel non molto di nuovo che emerse negli anni sessanta derivò, anche in Toscana, dal mondo degli uomini di legge. Gioacchino Domenico Ceri è un isolato, ma non privo di qualche valore. Il libretto che pubblicò nel 767, a Lucca, sotto lo pseudonimo di « Ireneo Cocidogmacchinvio giureconsulto», intitolato Causa de' poveri superiore agli ornamenti meno utili, oziosi e superflui dell'altare e alle solennità fu giudicato da Genovesi «libellus satis doctus ac bonae frugis» 4 . Due anni dopo, nel 1769, pubblicò uno dei piú persuasivi inviti tra i molti di quel periodo, a riprendere la via indicata da Muratori d'una profonda riforma dell'amministrazione della giustizia, della « scienza del giusto e dell'ingiusto», delle leggi e dei codici 5. Anche in lui — come si vede — riforma ecclesiastica e riforma laica andavano di pari passo. 1 ANTONIO ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1858, Luigi Molini, 1850, vol. I, pp. 7879, 13 marzo 1764. Cfr. FIRENZE, AS, Reggenza 706-9, Memorie sulle controversie col vescovo di
Pienza. 2
MARIO ROSA,
Atteggiamenti culturali e religiosi di Giovanni Lami nelle «Novelle letterarie »,
in «A. Scuola norm. sup. Pisa», serie II, vol. XXV (1956), fasc. 3 -4, PP. 57 sgg. ' «Annali ecclesiastici », 9 dicembre 1791, citato da NILO CALVINI, Il p. Martino Natali cit., p. 30. 2 Cfr. la voce «G. V. Alberti » di A. SAPORI nel DBI, vol. I, p. 695 e FRANCO VENTURI, Settecento riformatore cit., vol. I, pp. 311 sgg.
Ibid., pp. 66 sgg. 4
ANTONIO GENOVESI, De jure et officis, Neapoli 17672, vol. II, p. 142 nota. GIOVACCHIN DOMENICO CERI, Prodromo all'estirpazione del pirronismo dalla
ragion civile d'Italia, s. 1. 1769, p. 6. Cfr. «L'Europa letteraria», torno II, parte II (1° dicembre 1769), recensione di Alberto Fortis, che approvava caldamente lo scritto di Ceri, sostiene anch'egli «l'indispensabile ne-
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Dal mondo dei legisti toscani derivò pure l'autore del pii importante scritto — insieme a quello di Carlantonio Pilati — suscitato in Italia dalle controversie giurisdizionali e religiose di quegli anni. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, se pure, come par certo, Cosimo Amidei deve essere considerato l'autore di questo pamphlet. Ma l'eco di queste pagine si fece sentire soprattutto a Milano, a Napoli, a Venezia, mentre minore, pii ritardato ed attenuato fu a Firenze. Le sue radici toscane sono significative, ma quel che pii conta, come vedremo, è il frutto italiano che su di esse crebbe e si sviluppò. Alla fine del 1769 i librai Allegrini e Pisoni, gli stessi che davan fuori le «Notizie del mondo», cominciarono a pubblicare una serie di volumetti sotto il titolo generale di Collezione di scritture di regia giurisdizione, che fini col diventare una delle pii importanti raccolte apparse in quegli anni sui rapporti tra chiesa e stato `. Ma basta sfogliarla per accorgersi che riportava testi o commenti veneziani e napoletani, non toscani. Era un'ottimo specchio delle polemiche italiane, uno strumento di discussione, meno un riflesso della politica granducale. La grande carestia del 1766-67 orientò le energie di Pietro Leopoldo, appena diventato granduca, verso i problemi delle sussistenze, della libertà del commercio, delle bonifiche, delle migliorie. Per superare la grave crisi in cui si imbatté egli dovette far appello a tutte le energie, le sue, quelle dei suoi illuminati ministri, nonché quelle del clero, alto e basso, impegnato in quegli anni rovinosi in una vasta opera di mediazione sociale. Basta percorrere le pagine della «Gazzetta toscana» per capire come non fosse quello tempo di grossi conflitti giurisdizionali. Ma tra il 1768 e il 1769 l'atmosfera cominciò a mutare. Tutti gli stati italiani si coalizzarono contro Roma, mentre si andava stringendo l'alleanza anticuriale dei Borboni e degli Asburgo. La Toscana segui la corrente. L'esempio che giungeva da Vienna e dalla Lombardia si fece sempre seducente. Come notavano le «Notizie del mondo » — la bella gazzetta, aperta su quanto avveniva fuori dei confini del granducato, mentre provinciale ed aulica restava la «Gazzetta toscana » — i nuovi provvedimenti giurisdizionali di Pietro Leopoldo vennero allora emanati «sull'orme degli editti pubblicati da S. M. l'imperatrice regina apostolica per la Lombardia austriaca » 2. Certo il terreno era pii che preparato. Pompeo Neri, Giulio Rucellai avevano da tempo spiegato cosa bisognasse fare per quel che riguardava la nunziatura, i conventi, gli asili, le mani morte'. cessità dell'abolizione totale del presente sistema giurisdizionale d'Italia», lo chiama « buon patriota» ecc. Sulla data di pubblicazione, cfr. «L'Europa letteraria», tomo II, parte I (r° novembre 1769). 2 «Notizie del mondo », 14 marzo 1769. Assai ricca la documentazione su questo ultimo tomo a FIRENZE, AS, Reggenza 869, n. 4.
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Quando Clemente XIII mori venne il momento della realizzazione. « Il 2 I febbraio, meno di tre settimane dopo la morte del papa, Giulio Rucellai rimise a Rosemberg, il primo ministro, la lista di tutte le richieste che avrebbero potuto essere avanzate nelle trattative con la curia di Roma». La chiesa toscana avrebbe dovuto essere completamente riorganizzata. Erano previste, tra l'altro, «la soppressione della giurisdizione ecclesiastica, la subordinazione dei conventi e degli ordini religiosi ai vescovi, il divieto di chiedere l'elemosina per gli ordini che possedessero beni, la fissazione dell'età per i professi nei conventi e la limitazione dei frati per ogni convento ed altre questioni ancora » `. Kaunitz, al quale questo piano venne sottoposto, si mostrò scettico sulla possibilità di ottenere tante cose insieme e soprattutto consigliò ai toscani di non trattare mai con gli ecclesiastici, cosa, diceva, sempre inutile. Meglio metter Roma di fronte al fatto compiuto E cosí si fece. Si procedette per gradi, senza aperte polemiche, ma anche senza trattative diplomatiche. Si cominciò con la legge sulle mani morte, che bene si collegava col generale programma di riorganizzazione economica del granducato. Opera soprattutto di Giulio Rucellai, era particolarmente ampia, riguardando « tutti i corpi, collegi, università ecclesiastiche e laiche e tutte quelle persone che per esistere devono necessariamente essere rappresentate da esecutori, amministratori ecc. » 2. Con una mossa che uno storico moderno ha chiamata «geniale» veniva estesa anche alla proprietà laica quella legislazione che prima riguardava soltanto i beni del clero. Segnava cioè l'inizio della politica di riforma agraria di Pietro Leopoldo'. Seguirono le disposizioni concernenti l'exequatur e la soppressione degli asili ecclesiastici °. Questi provvedimenti giunsero durante il conclave e nel primo periodo del pontificato di Clemente XIV. ADAM WANDRUSKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 253 sgg. Una larghissima raccolta di documenti, con il commento dello stesso granduca, su tutti gli affari riguardanti i rapporti tra stato e chiesa in Toscana dal 1765 al 1769 si trova, in quattro volumi, a Firenze, alla B. Marciana, Mss Frullani 41, Affari ecclesiastici giurisdizionali. È indispensabile per conoscere l'atteggiamento di Pietro Leopoldo e dei suoi ministri di fronte al clero e alla Curia romana negli ultimi anni del pontificato di Clemente XIII. Il granduca era fin dall'inizio perfettamente cosciente della necessità di continuare l'opera di suo padre e di rompere sempre p16 decisamente il nodo storico che aveva unite Firenze e Roma durante l'età medicea. Questi documenti sono fondamentali pure per capire gli atteggiamenti e le idee di Néri, Rucellai, ecc. Complete le testimonianze sul conflitto con l'inquisitore di Pisa, nel marzo 1766 a proposito del commercio di libri proibiti fatto da Filippo Mazzei. 2 MODESTO RASTRELLI, Memorie per servire alla vita di Leopoldo II imperatore de' romani, gin gran-duca di Toscana, Italia 1792, p. rio. 3 Vedi la legge in «Gazzetta toscana», n. ri (Firenze 18 marzo 1769), p. 42. Cfr. HERMAN BÜCHI, Ein Menschenalter Reformen der Toten Hand in Toskana (1751-1790), in «Historische Stu-
dien», fasc. xcix, Emil Ebering, Berlin 1912, p. 64. 4 ANTONIO ZOBI, Storia civile della Toscana cit., vol. II, pp. 71 sgg. menziona due circolari del 20 luglio e 19 agosto 1769 per l'exequatur ed una del ro novembre dello stesso anno riguardante gli
asili.
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Roma non ebbe né la possibilità né la voglia di opporsi. La Toscana raccoglieva per sé una congrua parte delle spoglie che Borboni e Asburgo avevano conquistato nella lotta contro Clemente XIII. Lo stillicidio dei provvedimenti giurisdizionali continuò poi negli anni seguenti. Il e giugno 1770 venivano abolite le carceri claustrali, anche qui sulla scorta di quanto già si era fatto in altri stati italiani. Bisognerà attendere tuttavia il 1773 e la soppressione della Compagnia per vedere emergere un programma di riforma delle scuole j. Certo si può osservare che di simili leggi c'era meno bisogno in Toscana che altrove, perché molti dei nodi erano già stati sciolti in passato e perché la cultura era più che altrove critica e indipendente. Né certo la relativa calma ed equanimità con cui Pietro Leopoldo procedette nella sua opera regalistica era da attribuire ad una qualsiasi sua simpatia per la curia e gli ecclesiastici. Quando fu a Roma, insieme a suo fratello Giuseppe, nel 1769, ebbe occasione di incontrare l'inviato spagnolo Nicol6s de Azara. Dopo aver parlato del più e del meno il granduca gli propose: « spolitichiamo un poco; come si va con questi preti? » Come Azara riferí al suo ministro degli esteri: «Tuve gran gusto di oirlo discurrir. Adulación aparte, no puede vd. creer la instrución y los principios en que estâ, y el juicio y fundamento con que habla » 2. Il fatto stesso d'incontrarsi con Azara, uno dei più estremi avversari della Roma papale, dimostrava con che occhi Pietro Leopoldo guardasse alla politica curiale. Resta il fatto che il granducato, che è alla testa delle riforme economiche degli anni sessanta, più lentamente partecipò al generale movimento di revisione e di trasformazione regalista. Ma se più lento fu l'avvio, più lunga fu la corsa. La legge sulla manomorta risultò più ampia e comprensiva in Toscana che altrove. E proprio là, come è noto, negli anni settanta e ottanta, nell'età di Scipione de Ricci, verrà compiuto il maggior tentativo italiano d'una vera e propria chiesa nazionale'.
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currens incommodes»'. Soltanto nella primavera del 1768 padre Zaccaria fu privato del suo posto di bibliotecario per aver scritto il suo Antif ebronio o, come altri disse, per aver sostenuto i diritti del papa nella secolare controversia con la casa d'Este sulle terre ferraresi 2 Anche a Modena le esigenze fiscali ed economiche finirono con lo spingere il governo sulla strada d'un sempre più accentuato regalismo. L'esempio della Toscana e della Lombardia ebbe pure gran peso. Infine, nel piccolo stato, i provvedimenti risultarono spesso energici e radicali'. Nel 1758 venne istituita una giunta di giurisdizione. Tra il 1763 e il 177o si svolse la lotta contro le mani morte, che ricoprivano «per lo meno la metà dei beni stabili posti nello stato di Modena» °. La creazione dell'Opera pia generale de' poveri, nell'anno della carestia, il 1764, portò all'incameramento a favore dell'erigendo ricovero di mendicità d'un numero rapidamente crescente di beni prima appartenenti a ordini religiosi. Grosso patrimonio che si sfaldò tuttavia rapidamente, passando in parte notevole nelle mani di proprietari laici'. Nel 1768 tutti i beni acquistati da ecclesiastici dopo il 1620 vennero assoggettati « al pagamento dell'imposta generale dell'estimo egualmente che i beni dei laici con indistinta parità di trattamento» (mentre prima ne pagavano la metà) 4. Il 20 gennaio 1770 venne pubblicato l'editto generale sulle mani morte'. Il 25 dicembre 1771 dello stesso anno fu deciso il riscatto di tutte le esenzioni fiscali rimaste, fossero esse laiche o ecclesiastiche'. La pubblicazione quello stesso anno 1771 del Codice di leggi e costituzioni per gli stati di Sua Altezza Serenissima venne a porre il sigillo a queste ed altre simili riforme, per le quali, come ci dice Carlo Poni, «il piccolo stato affrontò una lunga polemica con la curia pontificia » 9 . Parallelamente veniva smantellato il controllo curiale sulla stampa e nelle scuole. La nuova legge sulla censura .
«Nouvelles ecclésiastiques », 23 gennaio 1765. J. KUNTZIGER, Fébronius et le fébronianisme cit., p. 88 e «Supplément aux nouvelles de divers endroits », 14 maggio 1768, corrispondenza da Modena del 17 aprile 1768. j
2
3 GIUSEPPE SALVIOLI, La legislazione di Francesco III duca di Modena (da documenti inediti dell'Archivio di stato di Modena), in «Atti M. Dep. stor. p. antiche prov. modenesi », serie IV, vol.
Il ducato di Modena, come le altre terre comprese nell'orbita imperiale, tardi diede mano al conflitto con i gesuiti. Proprio là anzi il padre Zaccaria per parecchio tempo trovò uno dei suoi principali punti d'appoggio. Ancora alla fine del 1 764 la Compagnia otteneva, anche se non senza qualche difficoltà, che fossero cacciati dal ducato gli scolopi, « conStoria civile della Toscana cit., vol. II, pp. 122 sgg. El espíritu de don José Nicoläs de Azara cit., vol. I, p. 239, 9 marzo 1769. Cfr. il capitolo sugli Affari ecclesiastici in PIETRO LEOPOLDO, Relazioni sul governo della To-
ANTONIO ZOBI, 2
scana, a cura di Arnaldo Salvestrini, Leo S. Olschki, Firenze 1969, vol. I, pp. 169 sgg.
IX (7899), pp. 3 sgg. La legislazione modenese in questa materia fu modellata sulle disposizioni di Richecourt del 1751, come ben sapevano i contemporanei. Cfr., VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 413, f. 1zv. Interessante il promemoria del duca di Modena sulla situazione dei rapporti tra stato e chiesa pubblicato da PERDINAND MAAS, Vorbereitung und Anfänge des Josephinismus cit., n. 76, pp. 396 sgg. e n. 82, pp. 409 sgg. 4 CARLO PONI, Aspetti e problemi dell'agricoltura modenese dall'età delle riforme alla fine della restaurazione, estratto dal vol. LX, serie IV, della « Collezione storica del Risorgimento e dell'Unità
d'Italia», Stem-Mucchi, Modena, p. 19, che cita una memoria del 1764. 5 Ibid., pp. 21 sgg. s Ibid., p. 18. Cfr. Editto di S. A. Serenissima Francesco III duca di Modena ecc. ecc. intorno ai beni acquisiti delle manimorte dopo l'anno 1620, Graziosi, Venezia 1768. Il decreto era del 7 giugno e pubblicato l'x1 luglio 1768. Vedilo in «Notizie del mondo», n. 27 (3 aprile 1770), p. 213. CARLO PONI, Aspetti e problemi cit., p. 18. 9 Ibid., p. 19.
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era del 3o dicembre 1768 3 . Una decina d'anni pii tardi, nel 1779, verrà abolito il Sant'Ufficio. Nel 1772 si era avuta la riorganizzazione dell'Università 2. Negli anni settanta l'in fluenza toscana sarà sensibile. Modena finirà coll'allinearsi, anche se con qualche moderazione e prudenza, con l'atteggiamento dell'impero e della Spagna. Senza affrettarsi, ma con passo sicuro, il ducato si avviò cosf a diventare, negli anni ottanta, una delle punte pii avanzate del giuseppinismo italiano'. Vedila in «Notizie del mondo», n. 5 (17 gennaio 1769). Cfr. «Notizie del mondo», n. 41, 23 maggio 1772. Cfr. CARLO GUIDO MOR e PERICLE DI PIETRO. Storia dell'Università di Modena, Leo S. Olschki, Firenze 1975. 3 GIUSEPPE SALVIOLI, La legislazione di Francesco III cit., p. 36.
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Sotto il segno di Paolo Sarpi era stata ripresa a Venezia la discussione religiosa negli anni sessanta. Fu Marco Foscarini, il più dotto dei patrizi e il più strettamente legato alla tradizione della repubblica ad indurre Francesco Griselini a pubblicare nel 1760 quelle Memorie aneddote spettanti alla vita e agli studi del sommo filosofo e giureconsulto F. Paolo Servita che ripresentarono la figura di Sarpi in una luce chiaramente riformatrice e illuminista'. Appena Griselini ebbe pubblicata quest'opera, ci narra l'autore stesso, « i gesuiti cominciarono a screditarlo,... un satrapo della Società in fioritissima città d'Italia , parlandone con un gran cavaliere, mi fe' l'onore di sentenziare che non si potea leggere senza peccato, che in me andavasi sviluppando un novello Giannone e che persone di tal sorte non erano da tollerarsi ne' governi ben regolati» 2 . Questo gesuita diceva meglio di quanto non credesse: dal ritorno a Sarpi Venezia vide nascere «un novello Giannone », un nuovo giurisdizionalismo. A questo non poco contribuirono, come abbiamo visto, gli echi di quanto andava accadendo in Portogallo, in Francia, in Spagna. A Venezia operarono, come abbiamo notato, due contrapposte schiere di editori, pro e contro i gesuiti. L'intera vita culturale della repubblica fu colorata da questo conflitto, all'inizio degli anni sessanta: Baretti, la «Frusta letteraria», Facchinei, Zaccaria con le sue innumeri riviste, anche Goldoni si trovarono dalla parte dei gesuiti. Foscarini, Griselini, Calogierà, Seriman, Gasparo Gozzi, Andrea Tron da quella opposta'. GIANFRANCO TORCELLAN, Francesco Griselini, in Riformatori, tomo VII, pp. xoo sgg., ora in Settecento veneto e altri scritti storici, G. Giappichelli, Torino 1969, pp. 24o sgg., e FRANCO VENTURI, Settecento riformatore cit., vol. I, p. 291. L'editore delle Memorie era Pietro Bassaglia. Il II).,
permesso di stampa «con quelle eccezioni che furon fatte sull'esemplare presentato», è del 4 ottobre x760 e per disposizione dei censori portava l'indicazione di Losanna. Cfr. VENEZIA, AS, Rif orma-
tori dello Studio di Padova 336. 2 FRANCESCO GRISELINI, Memorie aneddote spettanti alla vita e agli studi del sommo filosofo e giureconsulto F. Paolo Servita, edizione seconda, Giovanni Nestenus, Losanna (ma Venezia) x760, P. XXII. Per Calogierà e Seriman, redattori delle «Nuove memorie per servire all'istoria letteraria », vedi l'interessante testimonianza d'un rinnovato interesse loro per Paolo Sarpi citata da CESARE DE MIL'illuminismo veneziano (Rassegna di studi), in «Lett. ital.», anno xvxu (1966), fasc. 3, D. 306. Su Gaspare Gozzi e la sua collaborazione con Andrea Tron, soprattutto in materia di riforme CHELIS,
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Il ritorno a Paolo Sarpi riapri naturalmente la discussione su tutto un lungo passato di contrasti e di lotte con la curia romana. L'elezione di Clemente XIII, d'un cardinale veneziano cioè, era parsa portare una breve rappacificazione'. Quando i contrasti ripresero, ecco apparire una nuova raccolta di documenti storici, ricca di spunti polemici 2. Nella prefazione l'anonimo autore ( si trattava di Tommaso Antonio Contin) rivendicava a Venezia, nel passato come nel presente, una oculata ed efficace politica antigesuitica e anticuriale. «Molto prima che i parlamenti di Francia rilevassero dalle costituzioni dei pp. gesuiti il loro sistema politico, che forma del loro generale un monarca universale e rende que' religiosi incapaci di giuramento e per voto d'essere veri sudditi del naturale loro principe, si era rilevata una tale verità in Venezia; molto prima che si dimostrasse dai francesi che il sistema dei pp. gesuiti gli rende perniziosi ad un governo monarchico, si era dai veneziani provato che li rende assai più perniziosi ad un governo aristocratico»'. Non avevano forse i gesuiti alla fine del Seicento appoggiato «l'assemblea dei barcaiuoli», «privando gli stessi maestrati gravissimi dei loro servi»?'. E a Padova non avevano forse subornato la «più vil feccia della plebaglia», costringendo l'autorità pubblica ad operare per « disgregarla »? 5 . Più recentemente, «nel mese corrente di agosto r 762 », non si erano visti forse costretti gli abitanti di Montevecchio Maggiore, nel Vicentino, a « dar mano agli archibugi» per liberarsi di «missionari cotanto caparbi»? 6. A Murano simili « scenici spettacoli» non avevano forse l'anno innanzi mosso «a riso sino le stesse monache spettatrici»?'. Nell'Istria i gesuiti avevano «venduto molte casse di corone, immagini ed altre cianfrusaglie», carpendo a « quei meschinissimi popoli» una tale quantità di denaro che «dopo cinque o sei anni ne risentivano il danno ancora». «La spiritosa nobiltà di Capo d'Istria, resa avveduta, non solo per la luce che apportano le ottime discipline e i buoni studi, ma per il saccheggio passato del suo territorio, sta in sulla guardia » 8. A Bergamo, a Venezia, nella Dalmazia, i contrasti non eran stati meno vivi 9 . La necessità d'una azione contro i gesuiti era palese. In « tutta l'Europa», tranne che nella «pigra dell'insegnamento, cfr. GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron (1712-1785) e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Università degli studi, Trieste x957, p. 152 e passim. ANDREA MOSCHETTI, Venezia e la elezione di Clemente XIII, Deputazione di storia patria per le Venezie, Venezia x890. 2 Monumenti veneti intorno i padri gesuiti, s. 1. 1762. Ibid., p.ix.
* Ibid., p. 45. Ibid., p. 46. e Ibid., p. 46. ' Ibid., p. 51. 8 Ibid., p. 51. ' Ibid., P. 47.
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Italia», si era ormai dato mano alla « riforma circa gli studi». I collegi dei gesuiti, «più che ad erudire»; erano rivolti, lo si sapeva ormai, « a strappare di seno alle famiglie i nobili giovanetti con insidiose vocazioni», nel tentativo, tante volte ripetuto, di « goderne le carpite spoglie»'. I gesuiti non indietreggiavano di fronte a nessun mezzo pur di poter moltiplicare le loro ricchezze: «variazione di monete, fabbriche di mulini, osterie, seghe..., livelli, quelle loro misteriose cambiali » 2. I gesuiti di Verona avevano « impiegato da mezzo secolo in qua più di ioo i000 ducati nella cornpera di terreni fuori stato». Gli esempi portoghesi dimostravano quanto la Compagnia fosse capace di spericolate imprese economiche. Anche se su scala diversa, lo stesso si poteva dire di quanto accadeva nella repubblica di San Marco. «Non all'Indie, non nelle coste della Guinea sono imprestati i denari de' gesuiti dello stato veneto, ma nel Mantovano e nel Ferrarese » — fuori cioè dei confini della repubblica —, in Lombardia e nello Stato pontificio'. Anche a Venezia, come in Francia e a Napoli, l'azione contro i gesuiti fu dapprima più giuridica che politica, intesa a dimostrare che la Compagnia violava le leggi dello stato. Il conflitto, nella Repubblica di San Marco, si scatenò attorno ai lasciti e ai tentativi di creare nuovi collegi. Famoso divenne il caso dell'eredità della nobildonna Faustina Lazzari, che aveva destinato 500 000 ducati all'erezione di una nuova scuola. Da tempo non si era visto a Venezia tanto interesse per una vicenda giudiziaria. «Dopo tanti secoli della Veneta Repubblica», di nuovo il pubblico si appassionava a questi problemi. Questa causa « attrasse non che i veneti ad udirla, ma i forestieri ancora di lontane regioni, fino a rendersi anguste le pareti stesse delle sale immense del Maggior Consiglio, le quali si empirono molto tempo avanti l'ora terza»'. A Parigi una incisione di De Montolais celebrò la vittoria degli organi giudiziari della Serenissima. Qualche anno dopo la causa Zucchi rinnovò una simile appassionata curiosità del pubblico 5. Questi processi colpivano non soltanto l'avidità, l'avarizia dei gesuiti, ma l'ideale stesso, il modello a cui si rifaceva la loro opera pedagogica. Monumenti veneti intorno i padri gesuiti cit., p. 81. 2 Ibid., p. 89. • Ibid., p. 89. o Stampa prodotta in giudizio nella causa tra il N. H. F. Gio. Battista Lazzari Gussoni e la casa professa de' gesuiti di Venezia nel giorno di 2 giugno 1761, colla sentenza definitiva di 4o al Civil Vecchio, Giuseppe Bettinelli, Venezia 1761. Lettera di un veneziano ad un prelato di Roma contenente la storia d'una celebre causa che molto interessava l'inclita e sempre venerabile Compagnia di Gesti trattata a' 20 settembre 1766 dinanzi all'eccellentissimo Consiglio de' Quaranta civil nuovo e definita con inapellabile sentenza del medesimo. Con in pii una lettera del medesimo autore sopra i suoi giannizzeri, Paolo Colombani, Venezia 1766.
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tutto un mondo di eleganza, di lusso, di parata che viene intaccato, sbrecciato da una rinnovata esigenza di libertà e di carità. In tono ironico un polemista fa parlare un gesuita che spera di invogliare un giovane a venire a far parte della Compagnia. Cerca di far leva sul senso di superiorità dei gesuiti rispetto a tutti gli altri religiosi. Con disdegno allude agli ordini mendicanti che «vanno raccogliendo ogni minuta elemosina... sino nelli villaggi e ad instanza di qualunque vil femminella entro a' capitelli e case particolari per vilissimo prezzo celebrano gli santissimi sacrifici » `. I gesuiti invece sostenevano che «li beni di fortuna sono necessari a chi desidera attendere alle lettere». Né bisognava rinunciare ad un ideale di perfezione formale, neanche nel fisico delle persone e negli atteggiamenti del corpo. «La bellezza è un vero segno della vivacità dello spirito e bontà dell'ingegno». Indubbia era la convenienza pratica delle scuole gesuitiche, nelle « case e nei collegi fondati con una santissima usura, ove, a chi vien concesso il potervi entrare, troverà modo di acquistare molti comodi con mediocri ricchezze, le quali poi fra noi si possono tenere e godere » 2 . Nella sua risposta il « cavaliere discepolo» allontana da sé questi doni avvelenati e rinuncia per sempre a questo falso ideale di bellezza, ricchezza, nobiltà, virti. «L'apparenza di culto esteriore è un inganno di mente simile a quell'argento che copre l'amarezza delle pillole, per non ispaventar l'occhio dell'infermo». Dietro tanta apparenza e tanto fasto stava in realtà «un'ipocrisia senza pari, un'ambizione senza simile, un'avarizia senza uguale » 3 . Ripugnante era il disprezzo dei gesuiti per coloro che «non hanno la fortuna di nascere nelle città principali», o di essere nati nobili. «Come se per li soli nobili fosse venuto Cristo al mondo». Era pur vero quel che si diceva «che li gesuiti guardano le persone negli abiti, confessando anche un latrinaro che va vestito da nobile e negando la confessione ad un nobile che va vestito da latrinaro » `. Due mondi morali venivano cosí contrapponendosi man mano che si approfondiva la polemica contro la Compagnia. Patrizi capaci di riprendere la tradizione del passato, uomini di leggi, anch'essi generalmente derivati dall'aristocrazia, preti rigoristi cercarono un terreno comune nella lotta contro i gesuiti. Al centro stava e rimaneva il patriziato, il vecchio ceppo delle antiche famiglie veneziane. Ripugnanza per i mezzi e la mentalità d'un pii vasto e spregiudicato mercato finanziario, timore di ribellioni e rivolte popolari, ripulsione di fronte ' Lettera anEibotogica e persuasiva d'un gesuita ad un cavaliero suo discepolo colla risposta del medesimo cit., p. 8. 2 Ibid., p. 23. ' Risposta del cavaliere discepolo alla lettera persuasiva del gesuita maestro(seguito, anche co-
me paginazione, dell'opuscolo precedente), p. 33. 4
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Ibid., P. 43.
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ad una morale fastosa e una cultura tutta letteraria confluivano nella loro volontà di mantenere intatta la dignità dello stato di San Marco. Il primo loro riflesso è la chiusura su se stessi, il ripudio di tutto quanto non derivi dalla annosa tradizione della repubblica. Ma questa istintiva serrata è presto contrastata e minata da una sempre pii ampia e fervida discussione, che va rapidamente allargandosi. Le suggestioni che vengono da lontano giungono presto ad increspare questa mentalità tradizionalista. Nel 1763 usciva a Francoforte l'opera di J. N. von Hontheim, il vescovo suffraganeo di Treviri, diventato subito famoso ovunque nell'Europa cattolica con lo pseudonimo di Giustino Febronio. Polemisti coevi e storici moderni ci hanno detto che il suo grosso libro De statu ecclesiae non conteneva nulla di nuovo rispetto alla tradizione giurisdizionalista, episcopaliana e conciliarista. Eppure l'opera di Febronio diede subito l'impressione di esser particolarmente minacciosa, pericolosa per la chiesa romana. Era una somma, ma rischiò di provocare uno scisma. Giungeva nel momento in cui andavano sempre pii tendendosi i rapporti tra Clemente XIII e gli stati d'Europa. Veniva a fornire una pesante corazza all'azione delle corti borboniche e al nascente giuseppinismo imperiale. Non a caso Roma si affannò in tutti i modi per far argine al febronianesimo e per ottenere, sia pur tardi, una sconfessione di quest'opera da parte del suo autore j. Intanto, questo appello ai principi, agli stati perché procedessero alla riforma della chiesa aveva avuto il tempo di suscitare un'eco profonda. A Venezia l'opera del Febronio venne ripubblicata nel 1765 2 L'anno dopo Giuseppe Bettinelli, che il Sant'Ufficio, come si ricorderà, chiamava lo « scandaloso stampator di Venezia», proponeva di darne per sottoscrizione una traduzione italiana. A Roma il segretario di stato rispose il 28 novembre 1766 con un editto che comminava dieci anni di galera « o altre pene corrispondenti secondo il grado e la qualità delle persone» a chi avesse accettato un simile invito'. Per i canali diplo.
' Cfr. ARTURO CARLO JEMOLO, Stato e chiesa cit., all'indice. Già il 3 settembre 1764 le «Nouvelles ecclésiastiques », p. 144 dicevano che l'opera di Febronio « fait beaucoup de bruit en Italie». Sulla sconfessione finale cfr. LEO JUST, Der Widerruf des Febronius in der Korrespondenz des Abbé Franz Heinrich Beck mit der Wiener Nuntius Giuseppe Garampi, F. Steiner, Wiesbaden 1960.
z Justini Febronii jureconsulti de statu ecclesiae et legitima potestate romani pontificis liber singularis, apud Guillelmum Evrardi, Bullioni (ma Venezia) 1765. I permessi di stampa sono due, sem-
pre al libraio Antonio Graziosi, l'un del 20 luglio 2764 e il secondo del io marzo 1765. I due censori sono Gasparo Gozzi e Giovanni Francesco Scotton. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 337. Per un utile confronto con la situazione ecclesiastica e con il moto riformatore nelle terre della Germania in cui operava Febronio, cfr. T. C. W. BLANNING, Reform and Revolution in Mainz, 1743-1803, Cambridge University Press, London 2974, pp. Io1 sgg. con larga ed aggiornata bibliografia. « Supplément aux Nouvelles de divers endroits », 24 dicembre 1766, corrispondenza da Roma del 7 dicembre.
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matici la curia cercò in tutti i modi di ostacolare la diffusione del libro `. Le confutazioni fioccarono. Quel «conservatore rigido» che fu Pietro Ballerini — l'avversario di Scipione Maffei in materia di usure — pubblicò la sua a Verona nel 1766 e 1768'. A Brescia (con l'indicazione di Lucca) Pietro Camillo Almici dava alla luce nel 1766 delle Riflessioni critiche sopra il libro De statu ecclesiae. A Venezia stessa, nel 1768, veniva pubblicata la polemica che ebbe maggior risonanza, e non in Italia soltanto, quella del gesuita padre Zaccaria'. Il cappuccino Viatore da Coccaglio (al secolo Vincenzo Bianchi) cercò di mobilitare il patriottismo teologico italiano contro Febronio, cercando di dimostrare che la santa fede e l'Italia erano identiche: offender l'una era anche offender l'altra. «Certus sit lector Febronium theologis Italis terrorem non incutere», diceva presentando la seconda edizione dell'opera sua'. A Venezia pare tentasse di far ristampare il suo scritto contro Febronio sant'Alfonso de' Liguori 5 . «Molto soddisfatto», a quanto pare, fu il papa « della confutazione fatta all'opera di Giustino Febronio dal padre Sangallo, minor conventuale in Venezia» 6 . Di fronte a tutta questa tempesta teologica e politica il governo della repubblica non fu esente da incertezze ed esitazioni. Ma, nell'assieme, esso fece si che Venezia restasse il terreno sul quale, in Italia, con maggior ampiezza e libertà venisse dibattuto il febronianesimo. Venezia fu pure la città dove continuarono a confluire gli echi delle polemiche iberiche. Antonio Pereira, una sorta di Febronio lusitano, qui vide pubblicata la versione della sua Dottrina dell'antica chiesa intorno la suprema podestà del re eziandio sovra gli ecclesiastici..., dedicata a S. M. Giuseppe I. Una miriade di altri problemi, elementi tutti d'una volontà di riforma che andava emergendo, vennero proposti all'attenzione degli italiani dagli stampatori veneziani. Giambattista Pasquali, che era stato l'editore ' L'ambasciatore veneziano a Roma, Girolamo Ascanio Giustinian narrava il 5 gennaio 1764 (m. v. e cioè 1765) come fosse venuto a trovarlo il segretario della cifra esponendogli « il suo vivissimo desiderio che non si ristampasse in Venezia un libro uscito recentemente in Germania con scandalo dei buoni cattolici e pregiudizio gravissimo della religione » (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori, Roma 285). Il suo successore Nicolò Erizzo riferiva il 29 novembre 1766 della proibizione «a chiunque nello stato ecclesiastico di associarsi all'edizione del Febronio tradotta in lingua italiana che venisse annunciata dal libraio Bettinelli» (ibid., Roma 286). Annesso sta un esemplare dell'editto del 28 novembre. • Cfr. la voce « Pietro Ballerini » di OVIDIO CAPITANI in DBI, vol. V, pp. 575 sgg. Ci siamo serviti della versione italiana: Anti - Febronio o sia apologia storico-polemica del primato del papa, Gregorio Biasini, Cesena 1770 2 , in 4 voll. • Italus ad Febronium J. C. Clar. De statu ecclesiae, editio altera, novis curia elaborata, correctior et aucta, Lucae (Venezia) 1770, p. VIII. ALFONSO MARIA DE LIGUORI, Vindiciae pro suprema romani pontificis potestate adversum Iustinum Febronium, s. 1. n. d. Cfr. la voce di G. CACCIATORE, in DBI, vol. II, p. 346. 6
Dispaccio di Niccolò Erizzo da Roma del 24 gennaio 1766 (m. v. e cioè
Dispacci degli ambasciatori, Roma 286). ' Vincenzio Radici, Venezia 1768.
1767) (VENEZIA,
AS,
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di Muratori e sarà quello di Genovesi, riapri nel 1763 la discussione sul diritto d'asilo con un Discorso attribuito a Pompeo Neri ma opera in realtà di Francesco d'Aguirre'. Era moderato di tono e di sostanza. Non chiedeva l'abolizione integrale degli asili ecclesiastici, ma era fermo sui principi e senza veli sulle brutture che un lungo passato aveva trasmesso al presente. Non la Bibbia, ma i costumi del paganesimo stavano all'origine di questa istituzione. Soltanto alla fine del Cinquecento, con Gregorio XIV, la chiesa aveva compiuto il tentativo di usurpare completamente i diritti degli stati. Principi e repubbliche avevano cercato di resistere, riuscendovi meglio quando erano grossi e potenti. «La sola Italia, divisa in piccoli domini ha soggiaciuto...» A favore della chiesa si erano allora schierati innumeri « teologi scolastici, moralisti, canonisti e legisti», dicendo e scrivendo spesso cose che «non l'avrebbero certamente taciute Aristofane o Plauto per far ridere gli astanti se a' tempi di coloro simil sorte di letterati avesse fiorito » 2. Non eran bastati gli sforzi e i lumi di uomini come «il grande Alciato» e Paolo Sarpi per impedire s'impiantassero «le leggi dell'asilo, opposte al ben pubblico e alla retta ragione»'. Era tempo ormai di rovesciare questa secolare tendenza. « Il voler onorare Iddio col far la sua casa spelonca di ladri è lo stesso che offerire dalle rapine un olocausto al Signore» 4 . Non era bontà e benignità quella che portava a rendere intoccabili i criminali. L'asilo sacro non aveva nulla a che fare con le giuste garanzie che la legge doveva assicurare all'imputato. Né corrispondeva alla naturale esigenza che la punizione fosse umana e meno dura possibile. In realtà l'asilo sacro non difendeva i rei, ma i delitti. Si basava non su un principio, ma su un fatto «totalmente estrinseco e accidentale, com'è quello d'aver il reo toccato le mura d'un ' Debbo l'identificazione dell'autore a Giuseppe Ricuperati che ha compiuto uno studio approfondito su questo collaboratore di Vittorio Amedeo II, riformatore dell'università torinese, passato poi a Milano. Il confronto col manoscritto dimostra che questo testo degli anni venti fu qua e là edulcorato dagli editori veneziani d'una generazione piú tardi. Giuseppe Ricuperati ha studiato anche le polemiche suscitate dalla pubblicazione nel 1763 di questo Discorso, ad opera di Giuseppe Luigi Assemani e Girolamo Pistorozzi, ambedue difensori dell'asilo sacro. Sul D'Aguirre, cfr. GIUSEPPE RICUPERATI, Ludovico Antonio Muratori e il Piemonte, in La fortuna di L. A. Muratori. Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani, Modena 1972, Olschki, Firenze 1975, vol. III, pp. 25 sgg. Pompeo Neri fu tuttavia colui che procurò la stampa di questo manoscritto, come si legge nell'interessante annotazione nelle Elemeridi di Giuseppe Bencivenni Pelli, vol. XI, p. 52, novembre 1763, FIRENZE, BN, N.A. 1050': « Ho letto un discorso uscito di fresco con la data di Firenze, ma impresso in Venezia in 4° dal Pasquali sopra l'asilo ecclesiastico. Ha fatto molto parlare perché S. E. Neri è stato quello che lo ha mandato in luce, perciò d'alcuni è stato creduto che sia suo. Questo per altro non è assolutamente vero, ma non si sa di positivo di chi sia. Alcuni vogliono che sia di un giureconsulto napoletano, suo amico già morto, altri d'altre penne, ma sopra di ciò tutto quello che si dicesse sarebbe un'equivoca congettura». Che l'autore del libro fosse D'Aguirre disse 1'« Estratto della letteratura europea», gennaio-marzo 1767, torno I, p. 277. z Discorso sopra l'asilo ecclesiastico, Giambattista Pasquali, Firenze e si vende in Venezia 1763, p. 72. Il permesso di stampa è del 5 agosto 1763 (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova
337). ' Discorso
sopra l'asilo ecclesiastico cit., p. 92. Ibid., P. 104.
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luogo immune, sicché, tolto di mezzo quel velo di religione con cui la legge si difende, altrettanto favorevole ella può dirsi quanto un'altra legge che sottraesse il reo dalla pena per essere piovuto quel giorno»'. Era non solo interesse, ma dovere dei principi abolire qualsiasi asilo sacro, conservandolo unicamente per i delitti preterintenzionali e quale rifugio contro le ire e le vendette private (compreso il caso, esplicitamente menzionato, d'un servo che sfuggiva al suo padrone). Due anni dopo, nel 1766 l'editore Graziosi pubblicava su questo medesimo tema l'opera postuma del cancelliere Cristiani 2. Meno netta nelle conclusioni che la scrittura di Francesco d'Aguirre, veniva a portare l'eco di quella stagione riformatrice che aveva seguito la fine della guerra della successione austriaca, a metà del secolo. Con l'eco delle polemiche degli anni venti e cinquanta la contemporanea pubblicazione a Venezia di queste scritture sull'asilo sacro pareva invitare ad una conclusione pratica, ad una concreta riforma. Manoscritto circolò invece un Promemoria... toccante la riforma generale del corpo ecclesiastico, dovuto anch'esso al conte Cristiani, spedito, come leggiamo in una postilla, sui margini dell'esemplare conservato tra le carte di Andrea Querini, « al Griselini d'ordine di S. E. il conte Firmian»'. Le «troppe ricchezze» diceva, avevano rovinato la chiesa. «Molti abbracciano lo stato ecclesiastico per trovare una sicura sussistenza e non già per divina ispirazione». « Troppi in numero i cittadini inutili, sudditi anfibi e cattivi religiosi», che finivano col formare «uno stato dentro lo stato». La chiesa era il regno della mediocrità. « I religiosi non hanno mai dato un letterato di primo ordine». Perfino in teologia « sono riusciti assai pii dotti ed eruditi i protestanti, dei quali però — si affrettava ad aggiungere — disapprovo gli errori». «Se qualche religioso è riuscito bravo nelle scienze, o le ha imparate nel secolo o è sortito di religione». Bisognava trasformare tutte le case religiose di ordini non lavoratori in « fabbriche per l'agricoltura». «Che non sia permesso a nessuno vivere da romito separatamente», concludeva. La voce della tradizionale politica giurisdizionalista della repubblica veneziana giungeva l'anno dopo, nel 1767, filtrata, attraverso le postume riflessioni di Camillo Manetti, che era stato professore di diritto feuDiscorso sopra l'asilo ecclesiastico cit., pp. 105 6. Deduzione sopra l'asilo saro, opera del cancelier Cristiani per la prima volta pubblicata da -
2
(Anton Filippo Adami), Antonio Graziosi, Venezia 1766. II censore era stato Antonio Contin e il permesso era stato accordato 1'11 aprile 1766 (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341). Lo stesso anno quest'opera appariva a Milano, da Giuseppe Galeazzi. Cfr. la recensione sul « Journal encyclopédique », 15 ottobre 1766, pp. 1 49 -50 . 3 VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. F.X.26. S.E.A.F.A.
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dale nell'università di Padova '. Era un richiamo ai governanti perché non dimenticassero le antiche battaglie e non si lasciassero soverchiare dagli ecclesiastici. Era scandalizzato nel « vedere tale e poi tanta inazione ne' pastori ordinari di non valersi di quel gius naturale che loro compete» e nel «veder correre certe massime e il lasciar insegnare liberamente nelle scuole e pubblicar colle stampe certe dottrine che sono diametralmente opposte ai religiosi istituti de' governi temporali» 2. Bisognava proibire alla chiesa di acquisire nuove terre, obbligare i chierici a pagare le imposte come i laici, impedire la circolazione di teorie sovversive quale il tirannicidio, togliere qualsiasi validità all'Indice romano, seguire una politica simile a quella di Luigi XIV, del «gran Vittorio Amedeo», di Giuseppe I del Portogallo, « riserbato prodigiosamente da Dio per bene e vantaggio de' suoi sudditi», della « grand'anima di Maria Teresa, attuai regina d'Ongaria». In Piemonte le scuole erano state tolte ai gesuiti. In Portogallo si era proibito « metodo d'insegnar di certi religiosi come tendente alla rovina non solo delle arti e delle scienze», ma d'ogni buon governo. Nell'Impero probabilisti e «moralisti rilassati» erano stati allontanati dalle cattedre. In Francia i parlamenti indicavano la giusta via'. Che cosa attendeva Venezia per seguir questi esempi? Il controllo de ll a cultura doveva essere unicamente nelle mani del potere civile. Certo questo non avrebbe permesso la circolazione dei libri eretici. Ma non aveva bisogno né del consiglio né dell'aiuto della chiesa per sapere quali opere proibire e quali invece lasciar discutere dai propri sudditi. «Avec beaucoup de modération et de respect pour le St. Siège», come notarono le «Nouvelles ecclésiastiques», si esprimeva in quel medesimo torno di tempo l'anonimo autore d'una Dissertazione già apparsa a Napoli e poi ristampata a Venezia ". Anch'essa, come Febronio, intendeva richiamare la chiesa a « sa liberté primitive», cioè alla dottrina «evangelica o de' padri», denunciare la potenza mondana del papato, la quale « aveva rovinato quel sistema fatto da Cristo di due distinte principali podestà per il governo del mondo » 5 . Vivaci e penetranti giungevano intanto a Venezia le voci dalla Parigi dell'Encyclopédie. Il traduttore dell'opuscolo di D'Alembert Intorno la distruzione de' gesuiti in Francia, che già abbiamo ricordato, faceva precedere la sua versione da una Lettera ad un ministro di stato dove apAvvertimenti politici, istorici, canonico-legali ai principi cristiani intorno all'uso della loro podestd sulle cose ecclesiastiche e sacre, opera postuma del signor Camillo Manetti, p. p. di feudi dell' università di Padova, Modesto Fenzo, Venezia 1767. 2
3
Ibid., Avviso al lettore, non pag. Ibid., 73 sgg.
Pp. ° Dissertazione isagogica intorno lo stato della chiesa e la podestà del romano pontefice e de' ve-
scovi, a spese della società, Cosmopoli 1768. Cfr. «Nouvelles ecclésiastiques », 23 gennaio 2767. 5 Dissertazione isagogica cit., pp. 7 e IX.
z Lo
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provava «i punti di vista politici e delicati» partendo dai quali l'autore francese aveva affrontato il problema di questi religiosi. I gesuiti erano colpevoli soprattutto «di smodata ambizione», diceva, d'aver voluto «rendersi arbitri delle città e dei principati». In Francia, per eliminarli, era stata necessaria l'opera di un altro, contrapposto fanatismo. I soli uomini di buon senso non erano bastati « ad abbattere un colosso cosí spaventevole»'. La potenza dei gesuiti rendeva necessaria l'alleanza dello stato e dei filosofi. A D'Alembert si attribuiva, anche se a torto, a Venezia come oltralpe, la Storia dello stabilimento dei monaci mendicanti. Il presentatore italiano, Giovanni Francesco Giorgetti, la comprendeva « tra l'eccellenti produzioni d'un de' più celebri autori ch'abbia in oggi la Francia». Certo, asseriva, essa poteva esser utile agli italiani. La politica che andava conducendo quel « cosí saggio governo» nell'intento di contenere e ridurre gli ordini mendicanti, « alle nostre circostanze ancora mirabilmente s'adatta» 2. In quegli stessi anni gli scritti d'un altro collaboratore dell'Encyclopédie, Du Marsais,,venivano tradotti a Venezia'. A fiotti giungeva intanto dalla Francia la pubblicistica prodotta da ambienti gallicani o parlamentari talvolta non pochi decenni prima Cosí nel 1769 venne messa in circolazione la traduzione della Histoire de l'origine et du progrès des revenus ecclésiastiques, che Richard Simon aveva pubblicata con uno pseudonimo nel lontano 1684'. Le Vayer de Boutigny, fecondo polemista secentesco, fu considerato degno d'una versione perché, come leggiamo nella prefazione, era ben altrimenti dotto di coloro che «appiccano facilmente conversazione e talvolta la stimolano sopra un argomento sul quale, non potendo usare una profonda perizia di storia sagra e profana, ,
' Intorno la distruzione de' gesuiti in Francia cit., p. 5. Peccato non sapere chi fosse l'autore di questa presentazione. Là si leggeva che l'operetta di d'Alem be rt « famoso filosofo » era stata «resa alla nostra lingua da una penna egualmente famosa» (ibid.). Ma anche il traduttore mi è restato ignoto.
2 Storia dello stabilimento dei monaci mendicanti, in cui trattasi dell'origine de' monaci, del loro primiero fervore, della loro rilassatezza, della los decadenza, delle loro differenti riforme fino a S. Domenico e a S. Francesco, Carlo Palese, 1768, pp. xi sgg. Pare sia da attribuirsi a Etienne-Joseph
Poullin de Lumina.
La dottrina della chiesa gallicana, opera postuma di Cesare Chesnau signore di Marsais, A. 1766 (trad. dell'Exposition de la doctrine de l'église gallicaine par rapport aux prétensions de la cour de Rome [a cura di Cerfvol], Cramer, Genève 1757); e In., Della chiesa, del parte seconda dell'opera postuma, ibid., 1767. Sul Du Marsais, cfr. Le philosophe, papa, de' vescovi, Graziosi, Venezia
texts and interpretation by Herbert Dieckmann, Washington University, Saint Louis 1948, pp. 12 sgg.; WERNER KRAUSS, Über ein Kampfschrift der Aufklärung: der «Essai sur les préjugés», in In., Studien zur deutschen und franzosischen Aufklärung, Rütten und Loening, Berlin 1963, pp. 2 73 sgg. e FRANCO VENTURI, Le origini dell'Enciclopedia, Einaudi, Torino 19702 , pp. 6o sgg.
GIROLAMO A. COSTA, Istoria dell origine e del progresso delle rendite ecclesiastiche, nella quale si tratta secondo il gius antico e moderno di tutto quello che concerne le materie beneficiarie, della regalia delle investiture, delle nomine e degl'altri diritti attribuiti a' principi, traduzione dal france'
se, Guglielmo
Zerletti, Venezia 1768, in 2 voll.
IIr
di concili, di santi padri e di leggi divine ed umane, si affidano chi all'acume dell'ingegno, chi alla sola ostentazione»'. « Traduzione dal francese» era pure l'Autorità legittima de' vescovi e de' sovrani per procedere alla riforma de' regolari senza che vi concorra l'autorità delpapa'. Come negare ai sovrani il diritto, perché renderli insensibili al dovere di riformare gli ordini monastici? Era certo giusto «vietare a' monaci d'andare alla taverna, bere, mangiare, riempirsi; vietare alle badesse l'uscita de' monasteri senza gli ordini del re; la proibizione della caccia co' cani, falconi, sparvieri ecc. fatta agli abbati; alle badesse, a' monachi e alle monache, quella dell'uscire dal monastero per impacciarsi di affari del mondo e trattargli; finalmente quella dello schizzare gli occhi a' monaci o del mutilargli, ecc... Cosí basti, senza entrare in altri particolari: le sregolatezze che sono penetrate sino in que' santi e venerandi asili sono notissime...» I regolari avevano dimostrato d'essere incapaci di riformarsi da sé. Accettassero ora una «riforma solenne» che veniva dalle autorità religiose e politiche'. Ad uno scopo non dissimile doveva servire la pubblicazione d'un altro famoso trattato della tradizione gallicana, quello di Louis Ellies Du Pin che venne pubblicato a Venezia, in tre volumi, nel 177o col titolo: Trattato dell'autorità ecclesiastica e della potestà temporale'. Accanto a questi libri ed opuscoli non mancarono in versione italiana gli atti stessi del governo francese in materia di riforma e riduzione dei conventi'. Sotto il soffio di questa ventata francese il tono della polemica si fece qua e là più acceso. «Felice l'Italia — si leggeva in un anonimo opuscolo — se in vece di pascere come fa 200 000 frati inutili a se stessi e gravosi al ' Dell'autorità del re sopra l'età necessaria alla professione solenne de' religiosi,opera del signor Le Vayer de Butigni, avvocato del parlamento di Parigi ed ora trasportata in lingua italiana, Luigi Pavini, Venezia 1768, pp. 3 sgg. L'opera venne ripubblicata a Napoli, da Giovanni Gravier, nel 1768. Contro di essa il domenicano Ermanno Domenico Cristianopulo scrisse due volumi intitolati Analisi critica del trattato del sig. Le Vayer de Butigni dell'autorità del re sopra l'età necessaria alla professione solenne de' religiosi, s. 1. 1772, con larga informazione sull'autore, le sue opere e le opposizioni che aveva incontrato, in Francia e in Italia. 2 Guglielmo Zerletti, Venezia 1768. Gasparo Gozzi fu il censore di quest'opera. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 342. Registro mandari di licenze stampe, 1769 a tutto il 1780. Ancora nel 1771 usciva, s. 1., una Lettera di risposta ad un amico sopra l'opera intitolata Autorità legittima de' vescovi e de' sovrani..., opera quest'ultima, diceva, « lavorata colla scorta dell'eresia e dell'empietà» (p. 5). «Dio mio! Può darsi empietà piú empia di quella con cui, sotto lo specioso titolo di pietà, si viene a man salva a distruggere la stessa pietà di tutti gli stati cattolici? » (ibid., p. 9). L'originale era opera di AMBROISE RIBAILLER, Lettre à l'auteur des Cas de conscience sur la commission établie pour la réforme des corps réguliers (e cioè, a quanto pare, il benedettino Charles Clémencet), s. 1. 1767. Ribailler era stato nominato dal re sindaco della Sorbona nel 1765 ed era in continua lotta e polemica contro giansenisti e philosophes. Vedi su di lui, Dictionnaire de théologie catholique, vol. XIII, parte II. 3 Autorità legittima cit., pp. CLIV sgg. ° Il traduttore era Cosimo Mei, «uno de' destinati alla ricognizione dei libri da stamparsi in questa città [Venezia] », come dicevano le « Notizie del mondo », n. 45 (5 giugno 1770), p. 374. Riforma degl'ordini religiosi di Francia stabilita con reale editto pubblicato a Versaglies il mese di marzo 1768 e registrato in Parlamento il giorno 26 delo stesso mese, Graziosi, Venezia 1768.
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pubblico, mantenesse io 000 professori di arti e di scienze!» La chiesa si trovava ormai davanti al compito « o di riformare o di sopprimere tutte le communità religiose e d'applicare le loro sterminatissime entrate a persone pii utili agli stati»'. La volontà di abolire «usi ed abusi» fini col portare a dei progetti di integrale riorganizzazione della chiesa, che il padre Zaccaria, e con lui tutti i conservatori, non potevano non attribuire a «delirio» e a « fantasie stravolte» 2. I mali erano tali e tanti, scriveva nel 1766 l'autore d'un curioso libretto intitolato Del celibato ovvero riforma del clero romano, che non restava altro riparo se non quello d'una trasformazione integrale della condizione degli ecclesiastici. «Il mondo è appestato di libri che tendono o a mettere in ridicolo la religione o a rovesciarla in gran parte. Ogni saputello vuol far pompa di metter fuori qualche massima dell'opera di Rousseau, di Voltaire, dell'Elvezio, del filosofo di Sans-Soucy...» Il pericolo era grave: « coll'andar del tempo metteranno gli stati o in disperate anarchie o in guerre civili cosí fiere come un tempo sofferse la Francia e l'Alemagna» 3 . Per risponderè davvero a simile minaccia bisognava innanzi tutto rendersi conto che si trattava di operare in un secolo «fra i pii illuminati che le passate istorie ci mettano in vista» e che «l'impegno de moderni scrittori era di giovare all'uman genere» `. Tanto pii colto ed umano doveva perciò essere chi si accingeva alla «riforma del clero romano». Era tempo ormai di «mettere gli ecclesiastici in una onesta libertà » 5. «Non so intendere il perché non si può annullare una costumanza che, mettendola a giusta bilancia, arreca phi svantaggio che bene» Non era forse vero che «da molto tempo in qua i ministri del santuario, invece di rendere gli uomini buoni, rivolgono il sacerdozio in Della necessità di assoggetare tutti li claustrali a loro respettivi vescovi e di abolire la perpetuità degli abbati benedettini, Lettera prima, A spese della buona volontà e ad instanza della necessità, 1768. 2 «Biblioteca moderna», n. 21 (23 maggio 1767), p. 161 e n. 35 (29 agosto 1767), p. 275. 3 Del celibato, ovvero riforma del clero romano, trattato teologico-politico del C.C.S.R., con annotazioni del medesimo autore, Antonio Graziosi, Venezia 1766, pp. 36 - 37. Contin fu il censore di quest'opuscolo, che ottenne il permesso di stampa il 1° agosto 1766. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341. Francescantonio Zaccaria, nella sua Storia polemica del celibato sacro da contrapporre ad alcune detestabili opere uscite a questi tempi, Giovanni Zampel, Roma 1774, P. xxviii ci dice trattarsi della ristampa « d'un libriciattolo che col titolo de' Pregiudizi del celibato fu primamente stampato l'anno 1765 nel regno di Napoli», che però non m'è riuscito di trovare. Contro l'opuscolo Del celibato si scagliò quel mezzo matto dell'abate Ferdinando D'Adda nelle sue Considerazioni sopra lo scritto che ha per titolo De' pregiudizi del celibato, Agnelli, Lugano 1767. Vedere la recensione nell'«Estratto della letteratura europea», tomo I (1767), pp. 23 sgg. Rinfacciava al suo avversario l'uso della parola «riforma», che secondo lui avrebbe dovuto essere abolita dal dizionario «poiché i novatori del secolo xvi se ne sono serviti assai... » Su questo personaggio cfr. Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. I, parte I, p. 1o6, nota 1. 4 Del celibato, ovvero riforma del clero romano cit., p. 3. s Ibid., p. 5. 6 Ibid., P. 7•
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un vile mestiero»? '. Si trattava d'operar finalmente «una necessaria riforma del clero». «Ognuno loda i tempi de' primitivi cristiani e nessuno pensa a fargli ritornare come essi erano » 2 . Il numero degli ecclesiastici era palesemente eccessivo. Facevano a gara « a chi può pii approfittarsi di prebende, calpestando i canoni e le sanzioni» 3 . I maggiorascati costringevano molti cadetti a prendere l'abito talare, pena il rischio di diventar «piuttosto servi che fratelli del maggiore»'. Abolizione del celibato e fissazione del numero degli ecclesiastici « a seconda delle possibilità», ecco gli indispensabili rimedi a tanti mali 5 . L'opuscolo suscitò numerose polemiche. Sempre nel 1766 usciva la Difesa del celibato del clero romano e progetto per la sua riforma migliore che non è quello del trattato teologico politico del C.C.S.R., fatta da Eusebio Filopolitab. «Ella è una somma ingiustizia far degli ecclesiastici un fascio ed avvilire tutto l'ordine per cercare un pretesto di riformarlo alla guisa di pretesi riformatori»'. Jacopo Antonio Sanvitali pubblicò le sue Riflessioni sopra il trattato teologico-politico del celibato 8. Come insegnava l'esperienza dei secoli, diceva, «le riforme e le novità arsero e ruinarono gl'imperi i phi possenti e portarono sino tra' pacifici augusti silenzi de' templi il sangue, le stragi e la desolazione». Era un grosso errore credere che «gli abusi» giustificassero le riforme. Se ciò fosse vero, «non vi è legge o di politica, odi morale, odi religione che vi andrà esente». Come esser certi che «i mali della riforma saranno minori de' presenti»? 9. Logica conservatrice che si trasformò, sotto la penna del padre Zaccaria, in violento sfogo reazionario. Nella sua «Biblioteca moderna » chiamò l'autore dell'opuscolo in discussione « anonimo ginevrino, quand'anche egli non fosse piuttosto apostata rifugiato a Costanza » e parlò delle «sciocchezze del suo argomentare»''. Ma anche il padre Zaccaria era costretto a scendere sul terreno del suo secolo e ad esaminare l'aspetto economico e sociale del celibato sacro. Ancora una volta il raffronto tra la società laica e quella ecclesiastica emergeva come fondamentale. Se i preti erano di danno, che dire dei soldati? E perché far ricadere la responsabilità dello spopolamento soltanto sugli uomini di chiesa? Non derivava piuttosto dai ' Del celibato, ovvero riforma del clero romano cit., p. 6. 2 Ibid., pp. 9 IO. 3 Ibid., p. 12. Ibid., p. 18. 5 Ibid., p. 32. -
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Giuseppe Bettinelli, Venezia 1766.
Difesa del celibato del clero romano cit., p. 5. $ Antonio Graziosi, Venezia 1766. 9
JACOPO ANTONIO SANVITALI,
Riflessioni sopra il trattato teologico-politico del celibato cit.,
Pp• 5-6. 10 «Biblioteca moderna», n. 25 (21 giugno 1766), p. 192 e n. 40 (4 ottobre 1766), P. 34.
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maggiorascati e fedecommessi e soprattutto dal lusso ovunque diffuso? Anche il paragone che, da questo punto di vista, si andava facendo tra paesi cattolici e paesi protestanti nulla provava contro la chiesa romana. L'Olanda non aveva monaci, ma «il lusso vi si è allignato, vi si è diminuito il commercio »'. Da tutt'altro punto di vista, ancora qualche anno piú tardi, uno dei maggiori esponenti del moto riformatore italiano di quegli anni, Carlantonio Pilati, ritornando su questa proposta d'abolizione del celibato ecclesiastico, finiva col concludere che non si sarebbe trattato d'un rimedio davvero efficace ai mali della chiesa e della società italiana. «On n'y auroit rien gagné: les moines, qui sont les trois quarts du clergé, auroient dû, comme auparavant, vivre dans le célibat. Dès lors ils seroient devenus les seules idoles du peuple, malgré leurs vices et leur libertinage. Le peuple qui n'auroit pas trouvé d'objet d'admiration dans les prêtres séculiers, auroit tourné tous ses hommages vers les moines, qui sont les ennemis naturel des princes, du gouvernement civil et des états » 2. Pii radicale era l'autore d'un altro opuscolo, che non suggeriva un rimedio singolo, quale l'abolizione del celibato, ma proponeva una integrale trasformazione della vita della chiesa tutt'intera. «Non vi è chi non veda che la maggior parte de' disordini e de' mali provengono dagli ecclesiastici ». Troppi di numero, troppo ricchi, essi turbavano e scandalizzavano la società civile. « Ad altro non pensano che a far valere i loro dritti, a godere delle loro rendite e nel farne un reprensibile abuso» 3 . L'autorità dello stato, anche se legittima, doverosa, non aveva forza sufficiente per rimediare a tanti mali. Soltanto un concilio generale, meglio se convocato nel periodo d'interregno tra un papa e l'altro, avrebbe potuto affrontare «la necessaria riforma » `. La «gelosia» dei pontefici per i concili era ormai diminuita, né v'era da temere che venisse a scatenarsi un movimento profondo e rovinoso, corne era accaduto nel Cinquecento. I tempi erano ormai mutati. «Non è da temere, come ne' secoli andati, che la novità possa far partito nell'universale de' fedeli; avrebbono avuto poco seguito e Lutero e Calvino se si fossero incontrati nell'indifferenFRANCESCANTONIO ZACCARIA,
Storia polemica del celibato sacro cit., p. 425. Per una politica,
nettamente piú repressiva, dei governo toscano di fronte ad un altro caso coevo di discussione del celibato sacro, cfr. MARIA AUGUSTA TIMPANARO, Legge della stampa e attività editoriale a Firenze nel secondo Settecento, in «Rass. arch. stato», XXIX, n. 3 (settembre-dicembre 1969), pp. 613 sgg. 2 CARLANTONIO PILATI, Traité du mariage et de sa législation, Pierre-Frédéric Gosse, La Haye 1776, PP. 15 sg.
Piano ecclesiastico per un regolamento da tentare nelle circostanze de' tempi presenti, con l'aggiunta di un Discorso sopra l'autorità della chiesa,Bortolo Baronchielli, Venezia 1767, p. v. L'approvazione, firmata da Natal Delle Laste e stampata in calce, era del 12 febbraio 1766 (m. v. e cioè 1767). 4 Ibid., p. vu1.
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tismo che regna in oggi; la maggior parte pensano a vivere, e nulla piú»'. Tanto phi urgente era il dovere della chiesa di riformare se stessa, abolendo le troppe feste, togliendo di mezzo tante devozioni superflue, «immagini e reliquie de' santi sopra gli altari, apparati, illuminazioni, incenso, genuflessioni, processioni ecc. » 2. Bisognava unificare e ridurre a quattro soltanto gli ordini regolari, phi la Congregazione di San Filippo. I voti dovevano venir pronunciati passato il trentesimo anno di età per gli uomini e i ventiquattro anni per le donne. «Sia levata agli ecclesiastici l'amministrazione de' beni tutti e resti soltanto a cadaun d'essi assegnata certa tal summa sufficiente a mantenersi comodamente e corrispondente al loro essere, dignità e titolo»'. «Malagevole impresa io propongo... Grand'impresa a dir vero e fino al giorno d'oggi considerata per impossibile. Ma dich'io: che non può l'amor di Dio e del prossimo?... E poi, noi cristiani non dobbiamo appoggiare le cose alla sola ragion naturale per discorrerla sempre da puri filosofi...» « Siccome ne' mali fisici, cosí ne' morali, volendosi dar rimedio, o fermare almeno i progressi, conviene andare alla radice de' mali medesimi» `. «Seguitando i muovimenti del mio cuore — concludeva — seguiterò a dire, o riforma, riforma, quanto sei necessaria » 5. Tono accorato e convinto, al quale insufficientemente parevano rispondere le Riflessioni sopra un opuscolo intitolato Piano ecclesiastico, nelle quali sul fondamento delle leggi canoniche già stabilite si fa vedere non v'esser bisogno d'un concilio ecumenico per la riforma dell'ecclesiastica disciplina, pubblicato anch'esso a Venezia da Bortolo Ba-
ronchielli, sempre nel 1767 6 . Anche in questo scritto si discuteva sui mezzi, sulle modalità della riforma, ammettendo implicitamente la necessità di rimediare in qualche modo ai difetti e alle colpe del clero. Ogni suggerimento veniva in quei giorni accolto con interesse. Nel 1768 una voce ferma e moderata insieme proveniente dal regno di Napoli fu accettata in questo complesso coro di riformatori veneti'. Un tono popolaresco assumeva talvolta la propaganda contro i frati, come ad esempio nel dialogo tra Marforio e Pasquino intitolato Parere sopra le communità religiose 8 . Piano ecclesiastico cit., p. xli. Ibid., p. xxxlll 3 Ibid., p. xLI. o Ibid., pp. III-I V. 5 Ibid., p. xLVI. 2
6 Fu approvato per le stampe il 15 maggio 1767 su parere di Rebellini. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341. ▪ Del moderato e convenevol numero de' chierici secondo l'antica e moderna disciplina della chiesa. Dissertazione recitata in pubblica ragunanza di letterati da Agnello Onorato, dottore di leggi e canonico prete della Santa chiesa di Aversa, Luigi Pavini, Venezia 1768. • Parere sopra le comunità religiose, Nel secolo decimottavo, Stampato per soddisfare il pubbli-
co, s. d. Porta il segno tipografico di Graziosi.
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Quando mori Clemente XIII ci fu chi ritenne opportuno riproporre al futuro papa quelle riforme che si andavano chiedendo da anni e che pareva strano non si fossero ancora realizzate. «Diversi principi — diceva P. Budò — non sanno capire come si abbia tanto zelo nell'immunità ecclesiastica e tanta trascuratezza della buona vita degli ecclesiastici». Con tono moderato ma fermo si credeva anch'egli in dovere di denunciare gl'innumerevoli abusi della Corte romana. Bastava pensare alle « franchigie pretese da diversi grandi personaggi ne' loro palazzi», trasformati con « gravissimo pregiudizio della buona giustizia» in « asili di scellerati» e che perciò « si deplorano e detestano da tutti »'. Venezia divenne pure, alla fine degli anni sessanta, il centro di diffusione di tutta una letteratura diretta contro le monacazioni forzose, contro la tradizione di sacrificare nei conventi una parte della gioventi. Già nella tragedia Idomeneo e nell'opera Je f té, diceva Elisabetta Caminer nell'autunno del 1768, furono fatte vedere «le conseguenze funeste d'un voto inconsiderato». La pièce di Fontenelle Ericie ou la Vestale, pubblicata a Parigi nel 1768, veniva ora ad attaccare «un abuso ancora pii pernicioso e sfortunatamente pii frequente da noi. Pur troppo numerosi sono gli esempi di padri ingiusti che sacrificano il resto della loro famiglia ad un figlio che idolatrano e di figli infelici che, o per dispetto o per timidezza, o sedotti da altre vittime, si lasciano impegnare in legami che non possono pii rompere. Tale è la misera Ericia» 2. A Parigi l'apparizione di questa pièce diede luogo ad una violenta reazione della Sorbona e dell'arcivescovo di Parigi. La stampa ne venne proibita. E quando fu rappresentata a Lione, si ordinò di abbruciarla per mano del boia'. Nella repubblica di San Marco essa venne prontamente diffusa in una versione italiana di Francesco Albergati Capacelli `. Poco tempo dopo giungeva dalla Francia un altro dramma, anche più tipico della polemica antimonacale, la Mélanie di La Harpe. Rappresentata a Parigi nel febbraio del 1770, in tre giorni se ne vendettero duemila esemplari. La censura aveva tolto di mezzo una scena tutt'intera. D'Alembert e Voltaire non risparmiarono le lodi. L'arcivescovo di Parigi la proibì anche ' P. sunò, Istruzioni per un sommo pontefice, presso i librai che vendono le novità, in Venezia con approvazione 1769, pp. 19-20. «L'Europa letteraria», tomo I, parte II (ottobre 1768), p. 55. Cfr. « Journal encyclopédique», tomo IV (1768), parte I, pp. 91 sgg. «Cette tragédie, qui produit les plus grands effets sur les théâtres où elle est représentée, offre le spectacle le plus frappant et la vérité la plus terrible». Cfr. HENRY CARRINGTON LANCASTER, French tragedy in the time of Louis XV and Voltaire, 17154774, John Hopkins Press, Baltimore 1950, cosf come Iv. IVANOV, Politiceskaja rol' francuzkago teatra v svjazi s filosofici xviii-go veka, in «Ucenye zapiski imp. moskovskago universiteta», Otdel istoriko-filologiceskij, fasc. 21 (1895), che resta, a mia conoscenza, la più ampia monografia su questo problema. Ericia o la Vestale, dramma francese tradotto in versi sciolti da Bialgerat poeta arabo, Amsterdam x769. Cfr. la recensione nell'«Europa letteraria », tomo V, parte I (I° maggio 1 769), p. 45. Indica come editori Moroni a Verona e Colombani a Venezia.
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sulle scene private. Ciò che, ben inteso, non impedí la larga diffusione di questo dramma. A Venezia venne pubblicato nel 1770 1 . Poco prima aveva cominciato a circolare, anche in Italia, la pii violenta pièce antimonacale del teatro di quegli anni, Il matrimonio di fra Giovanni, opera di Carlantonio Pilati. Quando a Lucca venne ripubblicato, nel 1769, uno scritto di F. Vargas Maciucca Degli abusi introdotti ne' monasteri, l'eco a Venezia fu pii importante e significativa del libro stesso. In una recensione particolarmente esplicita Alberto Fortis sintetizzò la repulsione di molti suoi contemporanei contro la tradizione monastica tutta intera. Questa appariva ormai ai suoi occhi completamente degenerata e corrotta. «Oscurato vi è l'oro, ed ha mutato l'ottimo suo colore». «Una sciagurata alchimia, adoperandosi nell'oscurità dell'ignoranza e fra' vapori malefici dell'impostura, della superstizione, della cupidigia, ha trasformato l'oro in piombo e pur troppo alle volte in arsenico». Ormai i chiostri erano «abitati da uomini... moltiplicati eccessivamente, poveri coll'unico fine di servirsi dell'altrui ricchezza, obbligati a pratiche religiose che potrebbero essere meno pesanti ad essi e meno inutili alla società». La loro pecca fondamentale consisteva in una concezione sbagliata e falsa della povertà. Bastava paragonare il lavoro dei monaci e quello di chi faticava davvero per accorgersene. «Pochi nobili e poche donne vorrebbero fare il voto di povertà de' cappuccini, ch'è il meno imperfetto fra i voti di chi vuol lavorare, poiché quel girare colle bisacce è pur fatica, e pochi cappuccini vorrebbero fare il voto del povero contadino, del facchino, del marinaro, che sarebbe per certo voto di povertà pii perfetto». Perfino gli intellettuali, gli scrittori stavano peggio dei falsi poveri che popolavano i conventi. « Se si dovesse dirigere un uomo perché facesse un voto perfetto d'indigenza si potrebbe consigliarlo di scrivere per un libraio fallito, e spendere tutto il suo tempo negli studi, a imaginare progetti, a insegnare la grammatica o a filar corde, vuotar canali, portar sportelle o far altri mestieri congeneri. O! Questa si che è vera povertà». I frati avrebbero dovuto farne l'esperienza. «Se un convento veramente povero restasse un giorno senza mangiare, la provvidenza lo soccorrerebbe in qualche modo e forse salutarmente ispirando agli individui che lo abitassero il pensiero di lavorare per non morirsi di fame. Questo lavorare è per le mani, e chi à mani può farlo senza che arrossisca nel volto » 2 . Frasi ed idee che tornano in mente guardando lo straordinario quaMelania, ovvero la monaca. Dramma del sig. de la Harpe. Trasportato dal francese nel verso sciolto italiano, s. 1. 1770. Luigi Pavini ne fu l'editore. Si diffuse anche in altre parti d'Italia. La si vendette a Firenze nella libreria Allegrini e Pisoni, come si legge nelle « Notizie del mondo», (28 aprile 1770), p. 272. s «L'Europa letteraria», tomo III, parte I (1° gennaio 1770), pp. 21 sgg.
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dro di Longhi che sembra riassumere in breve spazio il pittoresco mondo dei regolari veneziani di quegli anni, cosí come il sottile, penetrante, corrosivo senso critico ed ironico che contro di loro si levava da tutti gli angoli della Serenissima. Seduto in un angolo, il padre Lodoli continua, anche dopo la morte, a suggerire l'inquietudine dei tempi nuovi. Accanto a lui una serie di abiti riempiti da dotti e da vanitosi, da figure cordiali, torve, preoccupate e rassegnate, tutte ormai diventate irreali e strane sotto la nuova luce della ragione '. Grande fu, come si vede, la varietà dei temi e degli spunti che la pubblicistica veneziana andò cosí agitando negli anni sessanta. Ed i libri e gli opuscoli fin qui citati non rappresentano che la parte pi ll nuova e visibile di tutta una ampia attività editoriale e giornalistica. La ripubblicazione dei classici del giurisdizionalismo andò allora accelerandosi: i nomi di Sarpi e Giannone appaiono spesso nelle liste delle Opere autorizzate dai riformatori dello studio di Padova, sia pure con i trasparenti accorgimenti di porre in calce a queste ripubblicazioni le indicazioni di luoghi di stampa fittizi come Helmstat o Palmira 2 Numerosi classici del pensiero moderno vennero allora diffusi dalle stamperie veneziane. Gasparo Gozzi propose venisse permessa la pubblicazione Dello spirito delle leggi e i riformatori dello Studio di Padova lo concessero il 4 luglio 1767 all'editore Gio. Batta Pasquali'. Certo le opere di Voltaire e di Rousseau che potevano essere stampate allora a Venezia non comprendevano gli scritti loro pii importanti, né Candide, né il Contrat social. Ma Opere scelte di Voltaire erano pur state autorizzate il 19 ottobre 1759 . La Lettre di Jean-Jacques all'arcivescovo di Parigi era lasciata passare dal censore Contin il 16 febbraio 1764 (m. v. e cioè 1765), per i tipi del libraio Bettinelli 5 . Lo stesso Contin dava il suo benestare, il 21 aprile 1766, a favore di Antonio Graziosi, alla versione dovuta a Scotton, del pii originale libro di economia politica apparso in quegli anni, il Saggio sulla natura del commercio in generale di Richard Cantillon 6 Uno degli scritti economici pii influenti in quegli anni, quello del pastore svizzero Elie Bertrand, il Saggio nel quale si esamina qual debba essere la legislazione per incoraggiare l'agricolturaera approvato da Contin e concesso il 18 maggio 1767 su richiesta del libraio Bettinelli'. Quanto agli italiani, .
' I1 quadro conservato nella galleria Querini Stampalia, a Venezia. 2 Cfr. ad esempio VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336, permesso a Bortolomeo Baronchielli del 23 luglio 1760; 337, 22 giugno 1762 (Sarpi), ad A. Graziosi del 16 aprile 1765 (Vita di Giannone); 341, 1 0 ottobre 1765 a Pasquali (Istoria civile).
Ibid. Ibid. Ibid. 6 Ibid. 7 Ibid. "
s
336. 337• 341. 339.
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Genovesi venne sistematicamente ristampato a Venezia '. Antonio Zatta progettò la ristampa delle Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri 2 . E se si fece invece il viso dell'arme all'opera di Beccaria, le ragioni furono politiche, il timore cioè che Dei delitti e delle pene contenesse una qualche critica al governo dei patrizi veneziani'. Malgrado la straordinaria ampiezza di questa produzione libraria, ci si potrà fare un'idea esatta della ricchezza — e insieme dei limiti — della cultura veneziana d'allora soltanto osservando i fogli periodici e le riviste che, con eccezionale frequenza, andarono nascendo e scomparendo in quegli anni Non bisogna innanzi tutto dimenticare che il «Caffè», nella prima parte della sua breve vita, fu pubblicazione della repubblica di San Marco, stampato a Brescia da Gio. Maria Rizzardi e ristampato poi, parrebbe da Pietro Rizziolato, a Venezia stessa'. Nasceva contemporaneamente il «Corner letterario », pubblicato da Antonio Graziosi — uno degli editori più attivi, come si ricorderà, nella polemica giurisdizionalista. Contin diede il suo parere favorevole e i riformatori dello studio di Padova l'autorizzarono il I° ottobre 1765 5 . Il frontespizio diceva quel che questo foglio intendeva essere, una scelta degli articoli più importanti de ll a stampa periodica: «Il caffè, gli estratti della letteratura europea d'Iverdon, le novelle letterarie di Firenze, articoli scelti dell'Enciclopedia, pezzi tratti dai migliori giornali d'Europa..., tradotti dall'inglese, francese, tedesco», oltre a «notizie particolari comunicate dagli eruditi» e un « catalogo d'opere nuove». E difatti il «Caffè» vi passò quasi intero, e particolarmente larga fu la scelta delle altre pubblicazioni. Basta guardar la lista degli abbonati, pubblicata in calce, per vedere che il «Cornier letterario » bene rispose alle curiosità della classe più attiva della Venezia d'allora, a cominciare da coloro che si distinsero nella battaglia giurisdizionale, da Contin a Natal Delle Laste, da Niccolò Tron a Angelo Querini, da Domenico Caminer al console inglese Joseph Smith. La formula del «Cornier letterario» era felice e fu in vario modo imitata. Graziosi stesso pensò procurarsi il permesso per ristampare tutt'intero l'«EstratVENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 336, 25 aprile 1761 (Storia del commercio della Gran Bretagna, del libraio Antonio Foglierini); 337 (Meditazioni filosofiche, da Remondini, il zo luglio 1764; 341 (Elementa artis logico - criticae, da Tommaso Bettinelli, col parere di Gasparo '
Gozzi, il 9 aprile 1766, permesso poi ritirato e concesso, su parere di Contin, a Carlo Falece il 15 maggio 1766). 2 Ibid. 337, 14 aprile 1764. II censore fu Angelo Calogierà. 3 GIANFRANCO TORCELLAN, Cesare Beccaria a Venezia, in In., Settecento veneto cit., pp. 203 sgg. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 337 (il permesso per il « libro manoscritto il Caffè » da stamparsi a Brescia è del 9 agosto 1765, su proposta del censore Angelo Calogierà) e 341 (permessi del 5 novembre 1765 e del 5 gennaio 1765 (m. v., e cioè 1766) per il libraio Rizziolato, con pareri, rispettivamente di Gozzi e di Calogierà). Come si vede la storia editoriale del «Caffè» è lungi ancora dall'esser del tutto chiara. 5
Ibid. 341.
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to della letteratura europea»'. Quando apparve a Coira il « Giornale letterario » di Carlantonio Pilati, si pensò di ripetere l'operazione 2. Già nel 1765 il libraio Luigi Pavini aveva inteso stampare « tanto in originale francese, quanto in italiano» le «Journal encyclopédique», l'organo piú attivo dei philosophes, stampato a Bouillon, o come dicevano a Venezia, a Bovillone. Gasparo Gozzi e i riformatori furono d'accordo, ad una condizione tuttavia: «lasciando però sempre fuori tutta quella parte ch'è intitolata Nouvelles politiques » 3 . Il governo veneziano, come si vede, era disposto a dare una possibilità di conoscere le idee che circolavano per il mondo, ad organizzare persino un largo dibattito (già l'abbiam visto in occasione delle dispute sui gesuiti e la corte di Roma), a condizione tuttavia che le discussioni politiche non mettessero in alcun modo in dubbio e in pericolo la politica dei patrizi all'interno e la situazione internazionale della repubblica all'esterno. L'episodio di Beccaria, che già abbiamo citato, non è che un esempio di una linea di condotta sistematicamente seguita. Abbiam già visto che l'unica censura operata nell'opera di d'Alembert sui gesuiti riguardava Venezia. E basterebbe confrontare l'olandese «Mercure historique et politique» con la versione veneta che regolarmente usci in quegli anni («Mercurio storico politico») per averne una conferma. Le notizie che questo periodico riporta sono svariate e non edulcorate. Ma riguardano quel che accade fuori della Serenissima. Di quest'ultima si parlava invece soltanto in modo ufficioso. Non che non vi fosse una spinta verso una maggior libertà di stampa. «L'Europa letteraria», il periodico di Domenico Caminer e di sua figlia Elisabetta, apparso nel 1768 e che riprese anch'esso, all'inizio, l'idea di raccogliere e tradurre quel che di piú interessante venisse alla luce nel «Journal encyclopédique», nel «Mercure de France» ecc., andò rapidamente accogliendo una collaborazione locale di notevole valore (basta pensare ad Alberto Fortis) e difese, con particolare vigore ed energia, il diritto d'informare e di discutere. Anche questa difesa riguardò i paesi esteri, non Venezia, ma non fu per questo meno significativa. Elisabetta Caminer scrisse il i° febbraio 1768 (m. v. e cioè 1769) un articolo, come altri non se ne videro in nessun altro angolo d'Italia, per difendere la gazzetta di Lugano e il suo redattore l'abate Agnelli. « L'animosità dei gesuiti contro di essa è contemporanea alla loro congiura contro il re di Portogallo». Ben sapevano che il direttore godeva « in tutta l'I' VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341, u dicembre 1766, i8 settembre 1767, 28 agosto 1768, con parere di Contin. z Ibid., 1° luglio 1768, con parere di Contin.
Ibid.
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talia una reputazione di probità estesa del pari che ben fondata». Agnelli era stato il primo «che ardi di dar parte al pubblico» delle malefatte gesuitiche. La Compagnia tutto aveva fatto per chiudergli la bocca. «Nel 1763 parlò il papa stesso al cardinal Albani contro la gazzetta di Lugano, come introduttrice in Italia di massime francesi, ingiuriose al papa e alla Santa Sede» e fece delle «rimostranze al governo di Milano, ove il sig. Agnelli ha tutta la sua famiglia». Anche a Venezia si cercò di farlo condannare in occasione della ristampa del catechismo di Mésenguy, che tuttavia Agnelli aveva avuto l'accortezza di trarre dalla versione veneziana, là autorizzata e non da quella napoletana, proibita. « S'egli faceva stampare de' romanzi, delle commedie e altri libri di questa fatta, i gesuiti se ne sarebbero presa pochissima pena». «Felice il signor Agnelli, i di cui sovrani [gli svizzeri cioè] non fanno giudicare... senza prima aver riguardo alle giuste loro difese». Pagina tipica della situazione di Venezia, libera entro i limiti accuratamente e con notevole larghezza fissati dalla politica patrizia. Situazione di libertà controllata e manovrata che suscitò un senso di noia e di disgusto in alcuni uomini più sensibili o più scettici della cultura veneziana. Lo stesso Domenico Caminer non nascondeva il suo senso di imbarazzo di fronte alla marea montante di polemiche e di opuscoli. «Sono dette e ridette, o bene o male, le cose tutte che a' frati si appartengono e per avventura noiosa sarebbe ogni somiglianza di replica», scriveva già all'inizio del 1769'. Spesso sulla «Europa letteraria» ritroviamo l'eco d'un simile stato d'animo. Più amaro e distaccato è il giudizio di Melchiorre Cesarotti, anch'esso dell'inverno 1768-69. Scrivendo da Padova al professore di greco dell'università di Utrecht Michaël Rijklof van Goens, diceva che «l'Italia è ora inondata di riformatori politici ed ecclesiastici: libri antigesuitici, antiromani, antimonacali ci assediano da tutte le parti. Ogni piccolo scrittoruzzo pieno di pedanteria, di fiele e d'increanza si crede Fra Paolo o Montesquieu, ma tutta questa immensa biblioteca (se si eccettuano tre o quattro scrittori) non vale una pagina dell'opuscolo di Mr d'Alembert sopra l'espulsione dei gesuiti. I teologi al solito combattono bestialmente al buio, e storpiano la povera ragione che sta di mezzo per accordarli; i politici fanno quasi tutti la corte ai principi, e quasi nessuno all'equità naturale. Le cose tra noi sono vicinissime ad una crisi universale. L'ambizione ecclesiastica combatte con la secolare, questa la vincerà senza dubbio: io vorrei che l'umanità la vincesse una volta per sempre contro l'ambizione de' potenti; ma questo tempo è ancora lontano e poiché non giunge, io non so risolvermi a ' «L'Europa letteraria», tomo
III,
parte II (1° febbraio 1768)
(m. v.,
e cioè 1769), p. 73.
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prender certo interesse in queste brighe e le riguardo solo con occhio d'indifferente curiosità»'. Eppure la lettura della gran quantità di stampe uscite negli anni sessanta dai torchi veneti, cosí come lo spoglio dei registri dei riformatori dello Studio di Padova di quel medesimo periodo lasciano l'indubbia impressione d'un mutamento notevole d'atmosfera, d'una svolta fondamentale. Attorno al 1764 si fanno avanti ed assumono una parte sempre phi importante nella vita intellettuale uomini come Gasparo Gozzi e soprattutto come Griselini, Contin, Scotton, Fortis ( anche quest'ultimo vediamo tra i censori, a partire dal 1768). Si danno un gran da fare a tradurre, a scrivere sui temi piú attuali, dalla religione all'economia. Portano un elemento d'avventura, d'ardimento e di indubbia intelligenza in mezzo all'erudizione e al sorridente moralismo della tradizione. Son loro, come abbiamo visto, a far da censori, accettano in pieno 1e'regole del gioco fissate dal Senato, cos{ come accettano di contenere la polemica giurisdizionalista entro limiti precisi, senza travalicare in una discussione di fondo nella religione: Ma, entro quei limiti, non nascondono la loro passione, la loro cultura. Sono « spiriti innovativi», come scandalizzato scriveva l'auditore del nunzio, l'abate Gioacchino Paglioni al cardinal Torrigiani Z,'Basta confrontarli con gli uomini della generazione precedente, con Marco Foscarini e Angelo Calogierà, ad esempio, per sentire la differenza, tanto di origine che di mentalità, Come a Milano, anche a Venezia gli anni sessanta segnarono una profonda trasformazione della censura. Mentre in Lombardia furono le istituzioni stesse a mutare, con l'abolizione del Santo Ufficio, nella repubblica di San Marco i cambiamenti furono minori, ma gli uomini che azionarono i vecchi congegni non furono più gli stessi. Il conservatorismo veneziano non deve nascondere le reali modificazioni che andarono operandosi anche nella Serenissima. Di questi uomini Gozzi è il phi noto e lo vedremo in azione quando si pose il problema della trasformazione delle scuolé e dell'Università. Griselini è il phi generoso diffusore di cultura illuminata. Era stato lui, come si ricorderà, a dare il via alla ripresa sarpiana degli anni sessanta. Poi i suoi programmi e le sue attività si allargarono in tutte le direzioni, mentre l'elemento giurisdizionalista e religioso tendeva a prender sempre meno importanza e a stemperarsi in un più ampio quadro di rinnovamento culturale'. Fortis è indubbiamente il più intelligente e originale di questo gruppo di uomini Vedemmo le sue con,
' Opere dell'abate Melchior Cesarotti, Capurro, Pisa 1813, vol. XXXV: Epistolario, torno I, p. 141 e Brieven aan R. M. van Goens, a cura di W. H. Beaufort, Kemink e Zoon, Utrecht 1884, pp. 470 sgg., Padova, 23 gennaio 1769. 2 ROMA, Archivio segreto vaticano, Nunziature, Venezia 223, 14 febbraio 1767. 3 GIANFRANCO TORCELLAN, Profilo di F. Griselini, in ID., Settecento veneto cit., pp. 235 sgg.
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siderazioni sui frati e abbiam sentito la sua voce nel dibattito religioso. Ma anch'egli, come Griselini, tende a staccarsi sempre pii tanto nella sua vita privata che nei suoi interessi intellettuali, dai contrasti tra stato e chiesa, per volgersi verso nuovi orizzonti scientifici, alla ricerca di nuova realtà, fino alla sua appassionata scoperta del mondo slavo, al di là dell'Adriatico'. Scotton è il phi avventuroso: la passione di libertà che è in lui cerca di aprirsi un'varco e trova finalmente uno sbocco in una riforma delle campagne venete. La sua nuova visione è agitata dalla scoperta della miseria contadina e illuminata dalle idee economiche phi vive dell'Europa d'allora, da Cantillon ai fisiocratici. Il suo stile «vivace e immaginifico, la durezza quasi rozza delle sue argomentazioni», come ha scritto Torcellan, imprimono un accento personale ai suoi scritti 2 . Lontano è ormai nelle sue pagine il legame, pur presente anche in lui, tra questa sua attività di riformatore illuminista ed i dibattiti religiosi degli anni sessanta. Non Sarpi è il suo modello, ma Tarello. La tradizione veneta è ripresa e rivissuta, ma diversi ormai i suoi scopi e le sue speranze. Il teatino Tommaso Antonio Contin rimase invece tutta la sua vita legato alla matrice giurisdizionalista e religiosa da cui era partito. Una passione simile a quella che stava nell'animo di Fortis o di Scotton visse in lui, ma entro i duri limiti d'una riaffermata, voluta ortodossia. Proprio per questo egli è il più caratteristico rappresentante, in questo gruppo, della riforma veneta al passaggio tra gli anni sessanta e settanta'. Grandissima, fin dall'inizio, è la sua curiosità intellettuale. Giovane lettore di teologia nel seminario di Messina scriveva a Paciaudi parlandogli di antichità, ma soprattutto del suo desiderio di ottenere il permesso di leggere libri proibiti'. Tornato a Venezia è lui a pubblicare quei Monumenti veneti intorno i padri gesuiti che sono uno dei documenti più importantidella ripresa sarpiana dell'inizio degli anni sessanta. Un ignoto avversario tentò invano di spiegargli che colpendo i gesuiti egli rischiava di danneggiare ogni altro ordine. « Questo libro è pernicioso agl'altri religiosi... Bisogna persuadersi che se il mondo par prevenuto contro i gesuiti, non per questo è portato a stimar molto e ad amare gli altri, e parlo egualmente degli ecclesiastici., Or con questi confronti si mette a pericolo d'imbe,
I GIANFRANCO TORCELLAN, Profilo di Alberto Fortis, 2 ID., Un problema aperto: politica e cultura nella
in ID., Settecento veneto cit., pp. 263 sgg. Venezia del '700, in ID., Settecento veneto
cit., p. 313. Torcellan stava preparando una ricerca su Scotton, che era già molto avanzata quando scomparve. Ringrazio la signora Nanda Torcellan per aver voluto mostrarmi questo lavoro. Cfr. ANTON FRANCESCO VEZZOSI, I scrittori de' chierici regolari detti teatini, Propaganda Fide, Roma, vol. I, op. 282 sgg. (sintomatico il fatto che non una delle opere importanti di Contin sia qui menzionata); Aus den Tagebuchern Friedrich Münters, Wander- und Lehrjahre eines dänischen Gelehrten, a cura di Ojivind Andreasen, parte I, 1785-87, O. Harrassowitz, Kopenhagen und Leipzig 1937, p. 162; MARIA LUISA PESANTE, Stato e religione nella storiografia di Goettingen cit., pp. 44 sgg., e ARTURO CARLO JEMOLO, Stato e chiesa cit., all'indice. 4 PARMA, B. Palatina, Carteggio Paciaudi 74, senza anno, del 12 gennaio.
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vere il pubblico di una opinione disfavorevole a tutti... A forza di metter sospetti su le ricchezze e l'avarizia, su l'ambizione e le mire, su le intenzioni e i portamenti dei gesuiti, si muove l'attenzione verso gli altri... gli rispose ammettendo che l'opinione pubblica era poco favorevole ai religiosi e che «pur troppo era vero che molti van dicendo: se i gesuiti che avevano tant'apparenza di virai sono rei di si enormi delitti, quanto piú lo saranno gli altri», ma ciò non era tuttavia una buona ragione per «allarmare i libertini contro la religione istessa » 2. Contin era attento lettore di quanto veniva d'oltralpe. Quando venne pubblicata a Venezia un'Arte di render felice attribuita a Jean-Jacques Rousseau, si affrettò a disingannare il pubblico in una lettera aperta diretta a Stefano Carli e pubblicata sul «Cornier letterario». «Nel leggere Rousseau — diceva — io devo pensare, nel leggere questo mi annoio e rido». Ne nacque tutta una discussione tra Capodistria e Venezia. Carli si mostrò grande ammiratore di Rousseau, ma volle nel medesimo tempo confermare la sua ortodossia. Contin gliene diede atto. I limiti della religione non dovevano essere scavalcati'. Con tanto maggior energia, pensava Contin, era lecito battersi all'interno della chiesa cattolica. Quando il papa riconfermò il suo appoggio ai gesuiti con la bolla Apostolicum pascendi, una delle piú energiche risposte, tra le molte che apparvero allora fu proprio la sua'. Nel 1769 usci l'opera principale di Contin, le Riflessioni sopra la Bolla in coena Domini'. Si apriva con una bella stampina in cui si vedevano I
Lettera di un uomo onesto ad un religioso intorno al nuovo libro contro i gesuiti (A. Zatta),
Venezia 1762. 2
Appendice alla prima parte dei monumenti veneti in risposta alla lettera d'un uomo onesto,
(Giuseppe Bettinelli), Lugano (ma Venezia) 1763, p. 99. Cfr. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 337, 2 marzo 1763. ' «Corner letterario», n. zo (26 aprile 1766), col. 470; n. 23 (27 maggio 2766), col. 55o e n. 5 (22 giugno 1766), coll. 47-5 8 . ° Lettera prima (e poi seconda, terza) intorno alla bolla che comincia Apostolicum pascendi dominici gregis, in Raccolta d'alcuni scritti usciti sin'ora intorno alla bolla Apostolicum pascendi, Guglielmo Evrardi, Buglione (queste indicazioni richiamano quelle con cui fu pubblicato Q. Febronio, ma si trattava, naturalmente, di Venezia). Quest'opera venne tradotta in francese col titolo di Lettres d'un célèbre canoniste d'Italie sur la Bulle Apostolicum, s. 1. 2765, e fu messa all'indice il 7 settembre 1765. Il generale dei teatini lo convocò a Roma, producendo un conflitto con la repubblica di San Marco. Cfr. Il giansenismo in Italia cit., vol. I, parte I, pp. 545. Proprio in quest'occasione « le SénatdeVis,urlpndebaisôtélrvonà'quisetlarmnèment â des magistrats», come scriveva il 13 agosto 1765 l'abate Bentivoglio a Ducoudray (ibid., p. 556). Il non trascurabile episodio fu conosciuto un po' ovunque in Europa. Cfr. ad esempio quel che si legge sul «Mercurio histórico y politico», il pii importante periodico che si stampasse allora a Madrid, in una corrispondenza da Venezia sul fascicolo del febbraio 1766, p. 148: «Habendo el P. Conti, religioso theatino de esta ciudad, escrito contro la Bula Apostolicum que confirma el instituto de los Jesuitas, ha sido llamado a Roma por su general, pero el Senado de Venecia por liberarle del castigo que le amenazaba le prohibió expresamente al salir de sus dominios ». A spese dell'autore, Venezia 1769. Era stampata da Antonio Graziosi. Il «Cornier letterario » la diceva «sotto i torchi» nel n. 25 (26 novembre 1768), col. 593.« L'Europa letteraria» scriveva che « con tanta avidità fu accolto questo libro... che il signor Graziosi è stato costretto a farne una seconda edizione» e il 1 0 giugno 1769 aggiungeva che «il Graziosi ha sotto il torchio la terza edizione»
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dei giovani cavalieri in tricorno che, armata manu, cacciavano dei frati muniti di lunghe croci. La scena era dominata da una ignuda verità, munita di clessidra, di penna e di documenti, che dominava e illuminava il mondo, col motto: «Tenebrae eam non comprehenderunt». Come dirà un potente nemico di Contin, il padre Mamachi, «l'autore delle Riflessioni sopra la bolla in coena Domini, per rame prefisso all'opera stessa, si rappresenta figliuol della luce, non rammentandosi del detto del Signore: "vide ne lumen quod in te est tenebrae sint", Lucae, c. xi, v. 35». Queste Riflessioni erano effettivamente il punto d'arrivo dei «figli della luce» veneziani negli anni sessanta. Ancora un passo e si entrava in pieno nel mondo del protestantesimo e della miscredenza filosofica. Contin si fermava tuttavia sul limite, ed aveva piena coscienza dell'ardua posizione in cui si trovava. Prendendo come punto di partenza la polemica, ovunque viva allora, contro la bolla In coena Domini — questo simbolo sopravvissuto d'una chiesa medievale — tracciava una storia del papato ed affrontava le immense macerie del passato che era ormai necessario prestamente rimuovere perché potesse sorgere una struttura ecclesiastica adatta ai tempi nuovi. Certo l'ispirazione gli veniva dagli storici protestanti, cosí come da Fleury e da Giannone, da lui tutti abbondantemente citati. Ma egli sapeva pure quanto mutata fosse la situazione rispetto a quella cinquecentesca. La chiesa tradizionale stava vacillando sotto i colpi del giurisdizionalismo, dell'ostilità contro i conventi e le mani morte, sotto gli attacchi dei philosophes. Perché fosse in pericolo egli lo spiegava con parole tratte da Montesquieu. Il dominio dei «romani pontefici» era un «dispotismo» ed esso «non potea decadere che per quei motivi medesimi per cui osserva l'autore dello Spirito delle leggi che decadono pure i dispotismi politici, cioè per il vizio radicale della sua natura». Non avrebbe potuto mantenersi se non stabilendo «un timor che abbatta tutti i coraggi ed estingua ne' sudditi sino all'ultima scintilla di ambizione» 2 . Ma ormai questa depressione era passata. Il risveglio degli animi stava portando alla rovina la curia papale. Per intendere questa mutazione bisognava rifarsi all'origine dell'età moderna, all'epoca dei concili di Costanza e di Basilea. Allora «alcuni spiriti fervidi, i quali furono Arnaldo da Brescia e Marsilio da Padova in Italia, Wicleffo in Inghilterra, Girolamo da Praga in Germania e tant'altri, veg(« L'Europa letteraria», tomo IV, parte III, p. 95 e tomo V, parte II, p. 9o). Il permesso era del 21 ottobre 1768. VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341.
Del diritto libero della Chiesa d'acquistare e di possedere beni temporali si mobili che stabili libri III contro gli impugnatori dello stesso diritto e specialmente contro l'autore del Ragionamento intorno ai beni temporali posseduti dalle chiese ecc. stampato in Venezia l'anno 1766, s. 1. 1770, libro III, torno III, parte II, p. 29 nota. 2
Riflessioni sopra la bolla cit., pp. 54-55.
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gendo il fasto delle ricchezze degli ecclesiastici e la pompa che ne menavano sotto l'ombra della legge di Dio, traboccarono coi loro biasimi in quelle espressioni che furono poi condannate dalla chiesa»'. Allora si volle «riformare la chiesa non men nelle membra che nel capo » 2. Grandioso tentativo, ma che non sorti buon fine. Di fronte a questo fallimento, « i principi laici si divisero quasi in due partiti. Una porzione, veggendo troppo radicati i pregiudizi..., gittatasi a disperato partito, rinunziò ai sacri dommi ed all'unità della chiesa... Parve simile allo scoppio che fa talora la terra eruttando all'impensata fiamme e rovine dal suo seno quell'improvvisa sollevazione...»'. Un'altra parte si manteneva fedele alla chiesa e alla volontà di riformarla dall'interno. Uomini come Paolo Sarpi e Marco Antonio De Dominis («con dalmata fierezza») avevano tenuta viva questa seconda tendenza nei secoli. I recenti avvenimenti del Portogallo e di Francia, i nuovi libri come quelli di Pereira, di Febronio, di Montegnacco, di Campomanes, di Veremondo di Lochstein provavano che essa stava ora riaffermandosi con sempre maggior energia'. Né era valsa a soffocarla la secolare politica papale, né le scomuniche, né le ricchezze, né le pompe esterne, «né un augusto apparato di dignità, né certi esterni segni di autorità», come aveva giustamente osservato «un filosofo moderno» e cioè J.-J. Rousseau nel suo Emile'. Come una lugubre ombra di questo doloroso passato s'allungava ancora sull'Italia e sull'Europa la bolla In coena Domini, con le sue pretese d'altri tempi (come la scomunica dei pirati che si avventuravano sulle coste dello Stato pontificio), con la sua assurda pretesa d'esenzioni fiscali, d'asili, di giurisdizioni separate, con la sua difesa ad oltranza del dominio temporale dei pontefici (persino sulla Corsica, di ben altri problemi occupata in quegli anni), con la sua rigida intolleranza di fronte agli scismatici e agli eretici, con le sue ormai assurde pretese di dettar legge agli stati moderni. «Chi esaminerà lo spirito della Bolla della Cena, ed il sistema che formano le varie sue parti congegnate insieme, vedrà che tende a snervare tutti i domini laici e ridurre i cristiani di Europa allo stato di abbiezione in cui sono quelli dell'Etiopia... » 6. « Questa dottrina è fabbricata a guisa delle reti che hanno sempre aperto l'ingresso e mai l'uscita... Depositando ogni generazione qualche privilegio in seno degli ecclesiastici senza che possano uscirne più, questi finalmente divengono padroni di tutto»'. Ma ormai l'Europa aveva capito il pericolo che
.
' Riflessioni sopra la bolla cit., p. Ibid., p. 56. 3 Ibid., pp. 75 sgg. Ibid., pp. 86 e 1 96 - 97. s Ibid., p. 130. 6 Ibid., p. 277. ' Ibid., p. 296.
2
291.
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correva e ovunque si discuteva dei mezzi e dei modi dell'indispensabile riforma. Aveva torto Febronio a riporre la sua speranza in un « concilio generale libero». Questo era un sogno degno « dell'abate San Pietro». Anche « i concili provinciali» delle nazioni rischiavano d'esser troppo conservatori, troppo attaccati ai pregiudizi e alle tradizioni locali. «Un corpo, qualunque siasi, che può versare in ciò che gli aggrada, può divenir pure molesto ai governi civili... questo è provato chiaramente dalle assemblee del clero di Francia, nelle quali la libertà di versare su molti argomenti non sempre produsse la tranquillità e la calma»'. Né i vescovi erano lo strumento adatto, come troppo dipendenti da Roma. Quanto ai teologi e canonisti erano più spesso corruttori che riformatori. La diffusione della cultura, la discussione, l'istruzione e la volontà dei governanti di agire secondo l'utile d'ogni singolo paese erano le uniche vie per « sterpare le radici» della Bolla della cena. Non bisognava lanciarsi in progetti avventurosi come facevano «l'inconsiderato autore del Piano ecclesiastico o il fanatico autore della Riforma d'Italia» 2. Bisognava proseguire pazientemente lungo la strada intrapresa, procedere sistematicamente sulla via delle riforme'. Quando Parma divenne il centro di tutto il moto anticuriale, Contin lasciò Venezia per diventare professore di diritto canonico nella nuova università che là andava sorgendo. Paciaudi, che di quella era stato l'ideatore e l'animatore, aveva trovato di suo gusto il libro sulla bolla In coena Domini, «tranne alcune imprudenziuncole » 4. «Non si può dubitare che a quest'onore non gli abbiano aperto la strada le belle sue produzioni e particolarmente l'ultima», la quale testimoniava « della sua vasta cognizione negli studi canonici e sulla vera teologia», dicevano le «Notizie del mondo» 5 . Nel ducato di Parma Contin rimase due anni e poi dovette allontanarsene, nella primavera del 1772, « per la fiera persecuzione che gli hanno mosso contro i preti e i frati parmigiani, di maniera che era mostrato a dito per le strade quale disseminatore di nuove e strane sentenze e quale eretico » 6. Il governo di Du Tillot era caduto e a nulla val' z
Riflessioni sopra la bolla cit., p. 327. Ibid., p. 338.
Malgrado questa conclusione moderata, queste Riflessioni «essendo state tradotte in lingua tedesca furono credute parto di un luterano », come narrò lo stesso Contin parecchi anni piú tardi (« Giornale letterario ossia progressi dello spirito umano nelle scienze e nelle arti », n. 29 [23 luglio 1783], p. 42x). Erano infatti apparse, trasposte in tedesco per opera di Johann Friedrich Le Bret, nel 1769, con una importante e significativa introduzione e presentazione. Ne segui, sempre in Germania, come egli aggiungeva « tutta una guerra letteraria... per iscuoprire tal furto e per vindicar ai cattolici un libro che dice tutto quel che giustamente si può dire contro l'alterata disciplina, senza urtare punto a' sacri dommi, nel ché appunto è differente dai protestanti ». ° II giansenismo in Italia cit., vol. I, parte II, p. 8x. Paciaudi a Berta, 31 gennaio 1769. 5 «Notizie del mondo», n. x5 (21 febbraio 1769), p. 12o, corrispondenza da Parma, 16 febbraio 1769. 6 Un foglio manoscritto di Notizie di Parma, del 31 dicembre 1771, diceva che « famoso
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sero i tentativi degli amici e soprattutto del ministro spagnolo José Agustín Llano y Quadra di salvarlo'. Non mancò neppure chi disse esser egli diventato matto 2. Tornato a Venezia continuò quasi vent'anni (mori nel 1796) a insegnare (nel 1777 era stato fatto professore di storia ecclesiastica a Padova) e a polemizzare contro chiunque si discostasse dalla sua concezione religiosa e politica. Mamachi fu uno dei nemici contro i quali si lanciò con particolare accanimento, scrivendo tra l'altro un'opera in due volumi sulle mani morte. Era un combattimento di retroguardia, perché ormai si stavan spegnendo i lumi della gran disputa veneziana sui beni del clero'. Contin si sfogava descrivendo all'amico Paciaudi, il 19 giugno 1773, i contrasti interni e la funzione negativa del Senato al momento della dissoluzione della Deputazione ad pias causas. Stentò a reinserirsi nel mondo universitario, dove i professori « si morsicano sempre e fanno de' continui ricorsi l'un contro l'altro». Rimpiangeva la stagione riformatrice che l'aveva portato a Parma. Il solo Felino era stato capace, diceva, «di beneficiare quei che non conosceva». «Ma di quel carattere ne nascono pochi»'. A Venezia gli toccava ormai di vedere il rovescio della medaglia di quella politica alla quale egli stesso aveva qualche anno prima collaborato. «Orribile sconvolgimento di questo paese, cieca e brutale massima di questi sapienti che, non contenti d'aver avvilito i frati, li vogliono di professione ignoranti». Sperò un momento di poter essere chiamato in una delle nuove università che si andavano progettando a Trieste o a Vienna o a Lisbona. Ma «i maneggi della corte di Roma e de' frati domenicani fecero sospendere la mia elezione a Vienna dopo l'invito fattomi», scriveva il 25 gennaio 1776 (m. v. e cioè 1777). Fini coll'acconciarsi a Padova. «Fra professori tanto diversi per nascita, genio, studi ed anche educazione, poco mi frammischio, quantunque coltivi un certo numero di uomini onesti » 5 . fra Contini ha fatto querela al magistrato de' studi perché non aveva che uno scolare; sono stati chiamati i scolari dal presidente e han risposto d'essere obbligati dai confessori di lasciar la scuola d'un frate rilassato e corrotto... » (TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 56, 1771). NAPOLI, AS, Affari esteri 74 - 76, Corrispondenza del cavalier Cantelli, Milano, 13 maggio 1772. Come dirà di se stesso pii tardi, parlando in terza persona « il Contin » era diventato « presso i Romani come quel capo degli ebrei contro di cui era lecito ad ognuno lo scagliar maledizioni, senza riguardarsene il modo» (« Giornale letterario », n. 29 [23 luglio 1783], p. 421). z «Notizie del mondo», n. 6o (29 luglio 1769), P. 491, corrispondenza da Piacenza, 23 luglio 1769: «... era stato sparso da alcuni suoi malevoli trovarsi oppresso da deplorabile infermità di spirito, lo che è totalmente falso, mentre gode d'una perfettissima salute, che ci fa sperare altre produzioni della sua ormai famosa penna». La stessa notizia nelle «Nuove di diverse corti e paesi », n. 46 (13 novembre 1769), dove si annuncia pure l'intenzione di Contin di rispondere a Mamachi. 3 Il diritto e la religione giustificati dall'autore delle Riflessioni sulla Bolla in Coena Domini
contro le declamazioni dello scrittore Del diritto libero della chiesa di acquistare e possedere beni temporali si mobili che stabili, Antonio Graziosi, Venezia 1773. 4 PARMA, B. Palatina, Carteggio Paciaudi 74. Ibid. Sulle sue idee pedagogiche, cfr. i suoi articoli Sull'educazione dei fanciulli, in «Giorna-
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Non tuttavia a Padova, ma a Venezia, tra opuscoli, riviste, imprese editoriali il padre Contin continuava a sentirsi a casa sua. Nel 1771 era uscita la seconda edizione (la prima era stata turbata da contrasti editoriali) della traduzione da lui curata, con numerose note ed aggiunte, del Dizionario dell'eresia di Pluquet. Rivelava certo una straordinaria curiosità, sua e dei suoi lettori, per le pii svariate eterodossie. Gli articoli su Calvino, Lutero, l'Olanda erano dei piccoli trattatelli di storia del protestantesimo. Il tono era ortodosso, ma continua pure, nelle aggiunte di Contin, una dura polemica contro il cattolicesimo della controriforma. «Gesti volle piantata la chiesa sulla povertà, sull'umiltà, sull'abiezione, laddove il Pallavicino sostiene ch'è piantata sui torrenti di pecunia, sul commando, sull'ambizione» '. Né Contin evitava di porsi il problema che stava al centro di tante speculazioni intellettuali in quegli anni, in Francia come in Italia e altrove, su quale cioè «fosse stata la religione primitiva degli uomini » 2 Rimproverava a Pluquet di mancar del senso della primitiva religione, di lasciarsi andare a «galanti supposizioni», rappresentando «il mondo nella sua rozzezza come nei tempi della maggior cultura»'. Bisognava distinguere nettamente, aggiungeva, quel che era materia di fede dalla ricerca sui primi passi dell'umanità. Meglio era lasciar da parte, non discutere affatto di problemi come quello dell'origine delle arti in un libro di religione. La confusione dei due piani stava anzi all'origine — egli ne era convinto — della moderna incredulità, del «pirronismo religioso del nostro secolo». «I recenti increduli perciò errano perché cercano nei dommi sacri non i principi luminosi che ne provano la certezza, ma l'oscurità degli oggetti particolari» '. Religione e ragione dovevano essere tenuti ben distinti. Sempre l'ambizione tentava di far della religione un proprio strumento. «Io credo ch'eguale sia stato l'orgoglio di Diogene, di Giulio Cesare e di Lutero» s. Soltanto ponendo i dogmi della Chiesa su una sfera diversa e soltanto accettando l'iniziativa dell'autorità politica si sarebbe evitato di ricominle d'Italia», 15,
22 e 29 maggio, 5, 12 e 19 giugno 1773. Cfr. GIUSEPPE GULLINO, La politica scolastica veneziana nell'età delle riforme, in «Deputazione di storia patria per le Venezie. Miscellanea di
studi e memorie », vol. XV, Venezia 1973, pp. 64 sgg.
' Dizionario dell'eresie, degl'errori e degli scismi o sia memorie per servire all'istoria degli sviamenti dello spirito umano per rapporto alla religione cristiana, opera tradotta dal francese ed accresciuta di nuovi articoli, note ed illustrazioni da don Antonio Contin C. R., primario professore del diritto canonico nella regia università di Parma, edizione seconda, corretta ed aumentata di un sesto tomo intorno le frodi degli eretici, dello stesso traduttore, Gian Francesco Garbo, Venezia 1771, tomo I, Avvertimento del traduttore, senza paginazione. Il permesso di stampa del 28 novembre 1770 è firmato da tre dei maggiori esponenti dell'anticurialismo veneziano di quegli anni, Sebastian Zustinian, Andrea Tron, Sebastian Foscarini. Sarà pii tardi ripubblicato a Napoli, presso Antonio Cervone, nel 1777, in sei volumi. Z Dizionario dell'eresie, degl'errori e degli scismi cit., vol. V, 1772, pp. 5 sgg. Ibid., p. 13. ' Ibid., p. 306. Ibid., vol. VI, 1772, p, xrv.
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ciare la lunga «istoria degli sviamenti» dello spirito umano, quali egli andava ripercorrendo nelle pagine di questo dizionario. «Come distinguere lo spirito dell'amante del vero dallo spirito dell'impostore? ... Il primo sfoggia uno spirito di riformatore, l'altro lascia determinarsi i regolamenti da chi si conviene e giustifica quando li crede giusti... Questo fu lo spirito che guidò... il cardinale Cusano e tanti altri illustri vescovi e porporati..., tanti eletti teologi, tra i quali Paolo Sarpi, l'illustre Campomanes, il prudente Pereira e molti altri teologi di questo secolo»'. Teoria della riforma veneta degli anni sessanta, potremmo concludere, filtrata ormai attraverso le delusioni della contrastata ed appassionata vita del padre Contin. Riforma religiosa, ma per iniziativa e per volontà dell'autorità politica illuminata. I piú diretti ed immediati avversari suoi restavano sempre gli ecclesiastici romani, il loro costume e le loro idee 2. La religiosità che la Compagnia di Gesti aveva per tanto tempo imposta alla chiesa gli fu sempre altrettanto insoffribile. «Quali erano le massime dei gesuiti? di far missioni, nelle quali, coi modi straordinari o non usati, muovevano dei momentanei passeggeri affetti; di far credere strepitose le lor conversioni colla facilità della lor morale; col trarsi dietro il popolaccio con divozioncelle da nulla; di rendersi singolari con opinioni piú curiose che vere...» «Quest'uso delle missioni accompagnate da riti straordinari nelle città e terre colte è la piú ridicola e pazza invenzione che abbia infantata la falsa pietà» 3. Attorno al nucleo religioso, ridotto sempre all'essenziale, il suo sguardo continuò a spaziare su tutti gli aspetti della vita e della scienza moderna. Scrisse sul vitto dei contadini e sul valore nutritivo della polenta, sul regime delle acque e sui cicisbei `. Si mostrò particolarmente interessato agli scritti politici di Franklin e alla storia della Scozia di Robertson (quest'ultima come un doveroso tentativo di superare la storiografia confessionale dei cattolici e dei protestanti)'. Continuò ad osservare i philosophes francesi, che finirono coll'apparirgli « troppo lontani dalle quoti' Dizionario dell'eresie, degl'errori e degli scismi cit., vol. VI, p. 5o. a
«Oh teologi controversisti romani, come volete che un povero galantuomo si debba contenere?... quanti teologi può generare l'aria fruttifera dei sette colli... teologi romani phi infesti delle mosche d'agosto... Che pretendete con questi schiamazzi dell'autorità pontifizia? Sarete vescovi. E poi? Potreste esser cardinali. E poi? Potreste esser anche papi... Qual cattolico ha mai negato che s'abbian a prestar tutte le debite sottomissioni alla S. Sede? La difficoltà è che il Baronio esige ancora le indebite, e questo è il pomo fatale della discordia. Perché i protestanti negano tutto, perciò voi altri teologi romani vi sfogate coll'aggregarci ai protestanti se non aduliamo... Alle esagerazioni baroniane, in fondo, non ci credete pi ll di noi, ma scrivete o per fanatismo, o per interesse... » E, scrivendo in terza persona, aggiungeva: «Contin ha il mostaccio capace di provarvelo» («Giornale letterario», n. 3o [3o luglio 1783], pp. 449 sgg.). Ivi, n. 44 (5 novembre 1783), p• 895. 4 Ivi, R. 19 (12 maggio 1783), pp. 157, n. 34 (27 aprile 5 7 8 3), pp• 2 75 sgg• e n. 17 (28 aprile 1783), PP. 133 sgg. s Ivi, n. 32 (13 agosto 1783) e R. 7 (18 febbraio 1784), p• 1 94.
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diane difficoltà della vita, troppo astratti e soddisfatti»'. Non mancò invece un'occasione per ricollegarsi al ricordo dei pii fattivi riformatori italiani. Fu lui a scrivere per il «Giornale letterario » l'Elogio storico del signor marchese don Bernardo Tanucci. «Ognuno sa che, dai primi tempi feudali sino ai giorni nostri, scompartiti i regni delle due Sicilie quasi in piccioli pezzi tenevano il sovrano piuttosto il capo dei feudatari che il padre e il pastor de' suoi popoli...» Tanucci aveva fatto il possibile per rovesciare una simile situazione, abbattendo immunità, stroncando delitti, «riconducendo ad una immediata comunicazione i popoli col lor sovrano » 2 . Quando Paolo Frisi mori, il padre Contin ne esaltò la memoria, non senza ricordare, con uno sguardo rivolto a se stesso, alle proprie speranze e ambizioni, che «pochi regolari dall'oscurità dei loro claustri emersero a maggior gloria di quella ch'egli ottenne». Egli rivolse pure un pensiero al « Sig. conte Pietro Verri, tenero amico sin dagli anni puerili del defunto Frisi e grande amatore della gloria della sua nazione e di ogni classe di letteratura». «Milano non soltanto aveva meritato d'avere cittadini cosí illustri», ma aveva «saputo conoscerli e viventi ricompensarli»'. L'elemento autobiografico di simi li annotazioni appare evidente. Lo slancio degli anni sessanta non si era inaridito in lui, ma egli aveva dovuto reinserirsi in quel mondo veneziano da cui pareva un momento esser sfuggito. Aveva conservato la propria indipendenza interiore, il suo libero sguardo sulle convenzioni, le falsità, le ipocrisie che lo attorniavano. Ma questa libertà egli aveva mantenuto rinchiudendosi sempre piú nella corazza dell'ortodossia. La sua ambizione non era sboccata in una attiva partecipazione alla vita politica, né egli aveva fatto carriera nella chiesa. Era rimasto un isolato, un polemista, un giornalista. Piccola figura significativa, a mezza strada tra Lodoli e Ortes, un altro tra i molti ' Particolarmente significativo il raffronto che egli fa tra d'Alembert e Frank li n, in occasione della pubblicazione a Padova, nel 1783, delle Opere filosofiche di quest'ultimo. « Quanta differenza passa tra questo filosofo inglese e quel caporione dei filosofi francesi che testè è mancato, il S. d'Alembert!... Il filosofo francese si fece predicatore delle leggi di umanità, senza tuttavia provarne nel suo molle sofà gl'incommodi, predicò i diritti dell'uomo senza osservarli... Il filosofo inglese, in mezzo una campagna e sotto un albero riunf le incerte e cespitanti idee dei naturali diritti di un popolo libero ch'era agitato nell'incertezza di formarsi un sistema e senza fasto rappresentò ad una corte i voti di milioni di uomini per rassicurarli e renderli felici. D'Alembert professò una filosofia astratta, che rendesi ammirabile al volgo quanto men l'intende... Franklin professò principalmente quella filosofia la quale è volta a discuoprire non i rapporti della immaginazione, ma la natura ed i rapporti degli elementi che abbiamo intorno». Nel modo stesso di esprimersi i due uomini erano diversi, sempre attento presentatore e raccoglitore delle proprie opere il francese, mentre Franklin «in lettere private o in piccoli scritti soggetti a smarrirsi gittò i più bei pensieri e le pii interessanti scoperte» («Giornale letterario», n. 7 [18 febbraio 1784]). Ivi, n. zo (21 maggio 1783), pp. 177 sgg. 3 Ivi, n. 45 (10 novembre 1784), pp. 1418 sgg. Sul «Giornale letterario» e sulla collaborazione ad esso di Contin, cfr. Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Feltrinelli, Milano 1962, pp. xxrv sgg. e all'indice.
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esempi della vitalità e dell'originalità dei singoli, degli individui chiusi entro le cornici della tradizione veneziana. Pii compassata, meno originale, ma politicamente pii efficace fu la personalità del giurista che apri nel 1766 la polemica sulle mani morte e indicò cosí la via sulla quale doveva muoversi la riforma veneziana negli anni seguenti. Antonio Montegnacco era allora vicino alla conclusione della sua carriera. Le sue parole riflettevano la lunga tradizione dei « consultori in jure» della Serenissima e insieme la sua propria esperienza di tenace e spregiudicato difensore dei diritti della repubblica nei conflitti degli anni cinquanta. Ai suoi Ragionamenti intorno a' beni temporali posseduti dalla chiesa, dagli ecclesiastici e da quelli tutti che si dicono mani morte, arrise un immediato successo'. «Dans trois ou quatre jours il en a été fait deux éditions, qui ont été presque aussitôt épuisées », ci assicura il «Journal encyclopédique». Se questo libro non era fatto per piacere a tutti, aggiungeva questo periodico, sarebbe tuttavia stato approvato, in ogni nazione, « de tous ceux qui la peuplent et la cultivent » 2 . Venne apprezzato da De Felice che ne pubblicò un'ampia recensione sull'«Estratto della letteratura europea»: « il libro è scritto senza passione e senza fiele, con ordine e con chiarezza». Aveva sintetizzato «quanto prima restava sparso e diviso in molti volumi». Alcune sue affermazioni erano troppo prudenti, aggiungeva tuttavia. Il clero non rappresentava il 3 %, ma il no % della popolazione. Né era vero ormai che la chiesa «potesse avere idea d'opporsi alle leggi d'ammortizzazione». Gli esempi della Toscana, della Baviera e di Parma provavano il contrario'. Ma era ottimismo prematuro. Le opposizioni non mancarono affatto, neanche a Venezia. Se là il «Cornier letterario» s'affrettò a riprodurre la recensione dell'« Estratto », la «Biblioteca moderna» scrisse gioiosa che «in Bologna si allestisce una pronta e forte confutazione d'un tal libro». L'autore di esso, aggiungeva, «calcando l'orme di Marcantonio De Dominis e d'altri mal affetti alla S. Sede di Roma, sul dominio temporale della chiesa raziocina in modo che sembra delle due mani o forze, chiamate morte e vive, confondere lo stato naturale non che civile e po li -tico»°.L'ausdrflpoteansimdvroetlachi' Gasparo Gozzi fu il censore dei Ragionamenti. Il permesso venne concesso il 9 aprile 1766 a Pietro Valvasense e poi, il 15 maggio 1766, ritirato e rilasciato a Carlo Palese. Il 6 giugno 1766 e poi 1'8 ottobre 1766 Luigi Pavini ebbe l'autorizzazione di ristamparlo, cosí come Giuseppe Zorzi il 5 ottobre 1766 (e questa volta il censore fu Contin). Quest'ultima edizione portava sul frontespizio una bella figurina in cui si vedeva la repubblica di San Marco che controllava la chiesa e la campagna (VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341). 2 «Journal encyclopédique», 15 novembre 1766, pp. 149-5o. 3 «Estratto della letteratura europea», tomo II (1766), pp. 154 sgg. Sulla percentuale del clero aveva piuttosto ragione Montegnacco. Del z% parla BARTOLOMEO CECCHETTI, La repubblica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, P. Naratovich, Venezia 1874, vol. I, p. 216. 4 «Cornier letterario», 14 marzo 1767, coll. 341-46; «Biblioteca moderna», n. 36 (6 settembre 1766).
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sa e lo stato era lanciata ed essa riapparirà puntualmente ad ogni svolta della lunga polemica che cosí veniva iniziata Simili libri, insisteva la « Biblioteca moderna» , erano «dannosi al pari della legga smalcaldica». La chiesa primitiva vi veniva presentata come povera, libera d'ogni bene terreno. Era voler «ridurre il clero tutto alla povertà dei cappuccini». Era farsi scudo dell'errata idea che «gli apostoli non possedessero beni di sorte veruna » `. Le Riflessioni di Montegnacco miravano in realtà ad un obiettivo piú vicino e concreto, una ferma e moderata riaffermazione del diritto dello stato di impedire o limitare le mani morte. Il passato, la tradizione garantivano questo diritto. Le concessioni fatte in determinate epoche erano e restavano sempre revocabili. Ben sapeva Montegnacco che queste sue idee sarebbero state riavvicinate da parte dei suoi nemici a quelle degli eretici medievali e di Arnaldo da Brescia, cosí come non gli sfuggiva il legame che le univa a quelle di Paolo Sarpi 2. Era tuttavia ben convinto di essere ortodosso quando insisteva sul dovere dello stato di agire con energia, senza troppi scrupoli. Già gli ecclesiastici possedevano in alcuni stati «per lo meno la metà di tutte le rendite, in alcun altro qualcosa di meno». A Venezia, ad esempio, simili rendite erano tutte «in detrimento di famiglie patrizie mancanti in gran parte di successione e necessarie al mantenimento della costituzione» 3 . « Anno da qualche tempo essi principi cominciato ad accorgersi di questa mal intesa liberalità verso la chiesa e gli ecclesiastici, la quale ne' primi tempi non isbilanciava l'equilibrio dello stato», quando quelle ricchezze tornavano in circolazione attraverso la carità, ora portavano invece ad «uno sbilancio incredibile». Il lusso degli ecclesiastici, la crescita de' «desideri terreni» rendevano indispensabile un intervento dei pubblici poteri, tenuti sempre a reprimere « ogni turbativa dell'eguaglianza e della buona economia pubblica ». «Grave» era ormai « il bisogno di metter almeno argine e confine al non mai pago desiderio di possedere e di accrescere nelle persone ecclesiastiche» 4 . Come permettere che si continuasse a scivolare lungo una china che avrebbe «al fin de' conti ridotta la repubblica medesima necessariamente a due soli ordini d'uomini, cioè ad ecclesiastici patroni e laici «Biblioteca moderna», n. 41 (II ottobre 1766), P. 32o.
Ragionamento intorno a' beni temporali posseduti dalle chiese, dagli ecclesiastici e da tutti quelli che si dicono mani morte, Carlo Palese, Venezia 1766, pp. 37-38: «Arnaldo, uno de' fanatici 2
seguaci di Pietro di Bruis, non meno che il suo maestro Abailardo professava veramente molti errori in materia di dogma... » e fu perciò giustamente condannato. Ma non era eretico quando negava «che il possesso ed il dominio de' beni temporali sia derivato agli ecclesiastici per instituzione di Cristo Signore, o sia de jure divino». Ibid., p. 6. Parla allora della necessità che «gli ottimati laici possedano beni e ricchezze per le quali si possa da essi sostenere l'onor del governo» (ibid., p. 115). Ibid., pp. 84 sgg.
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coloni e lavoratori delle lor terre»? «Destati finalmente dalle grida di tutto il mondo, ànno essi principi dovuto aprire gli occhi per necessità e provvedere a tanti disordini cagionati dalli men regolati acquisti delle chiese e degli ecclesiastici ed ànno dovuto cercare per mezzo della provvidenza delle leggi di salvar la repubblica e la religione in un medesimo tempo...»'. Gli rispose subito un opuscolo, opera dell'abate Francesco Florio, intitolato Le mani morte ossia lettera all'autore del Ragionamento intorno a beni posseduti dalle chiese'. «Il vostro libro — gli diceva — da principio fu ricevuto con molta curiosità». I chierici non avevan mancato di declamare avanzando «gl'infausti nomi di Arnaldo di Brescia, de' poveri di Lione, de' fraticelli, di Vicleffo, de' zuingliani». Ma il problema era ben altro. La polemica di Montegnacco contro i beni ecclesiastici rischiava di riaprire dispute ben piú pericolose, proprio in un'epoca in cui sempre numerose si facevano le minacce che derivavano dai philosophes d'oltr'alpe. Se Montegnacco, «questo buon cittadino » , « volea far pompa della sua fedeltà e del suo patriottismo», se voleva parlare a nome della tradizione della repubblica di Venezia, avrebbe fatto meglio a « combattere contro l'autore del nuovo Codice di natura, contro il preteso legislatore de' Costumi, contro l'Emilio», contro cioè Morelly, Toussaint e Rousseau, «i quali tutti distruggono la società, aboliscono il potere legittimo, stabiliscono l'anarchia » 3 . Invece di prendersela con gli ecclesiastici e le manimorte avrebbe dovuto fare il possibile, attraverso la carità e magari le società agrarie, per migliorare la situazione « di due classi di popolazione benemerite dell'uman genere, cioè degli artigiani e dei contadini, le quali abbiamo vedute co' nostri occhi, non ha molto, per mancanza di biade e d'industria, languir dalla fame»'. Polemica ortodossa dunque e miglioramento economico, non dispute sulla chiesa. Per quanto riguardava i beni del clero, predicando che il mantenimento della « quiete pubblica», richiedeva che «un ordine di persone» (gli ecclesiastici cioè) non possedesse «piú beni di quelli che sieno necessari a mantener l'equilibrio cogli altri ordini di cittadini e di sudditi», Montegnacco non faceva in realtà che favorire passioni e speranze che potevano porRagionamento intorno a' beni temporali posseduti dalle chiese cit., p. 89. z Francesco Pitteri, Venezia 1766. I1 permesso è del 26 agosto 1766 e il censore Merati. Fu ristampato lo stesso anno da Galeazzi, a Milano. L'autore era «primicerio del capitolo di Udine». Pare «vi avesse avuta mano anche il p. De Rubeis, domenicano» (D. TASSINI, I friulani cit., p. 195). L'autore era il fratello di Daniele Florio, poeta, scrittore e corrispondente di Metastasio. Cfr. l'interessante opuscolo, con uno splendido ritratto di Francesco Florio, di ANGELO FASRONI, Francisci et Danielis Floriorum fratrum vitae, apud Cajetanum Cambiagi, Florentiae 1795. A p. 17 si parla dell'opuscolo su Le mani morte. Ci siamo serviti dell'edizione: Le mani morte o sia lettera all'autore del Ragionamento intorno ai beni posseduti dalle chiese, Giuseppe Galeazzi, Milano 1766, pp. 8 sgg. Le mani morte cit., p. 1o.
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tare ad una rovina generale. «Vi consiglio a far un viaggio per la Boemia, per la Polonia e per altri regni e vedere se la quiete pubblica abbisogni di questo rimedio e se questo possa adoperarsi senza turbarla». Se si cominciava a toglier le terre agli ecclesiastici, altri avrebbe chiesto venissero pii equamente divisi anche i fondi dei laici. « Altri diranno che una famiglia non deve possedere fondi si ampi che tolgano l'equilibrio all'altre famiglie del suo ordine». Proprio Montegnacco, membro d'un governo aristocratico veniva cosí a rimuovere la pietra angolare d'un edificio che rischiava di crollare tutt'intero. L'eguaglianza, se lo ricordasse bene il suo avversario, «non può aver luogo, se non forse nella prima fondazione di un governo popolare, ma non già dove comanda uno solo, né tampoco nelle repubbliche governate da ottimati, presso i quali, per valermi delle parole d'uno scrittore ingegnoso, lo spirito di moderazione tiene il luogo dello spirito d'uguaglianza (L'esp. des loix, livre IV, chap. viii)». Non bisognava fornire armi a chi avrebbe potuto servirsene non soltanto contro le mani morte, ma anche contro quelle vive del 1767 Roma stessa si pronunciava contro l'opera di Montegnacco. La Congregazione dell'Indice condannava l'opera sua, insieme agli scritti recentemente apparsi sul celibato sacro e ad altre opere della polemica giurisdizionale 2 . L'auditore del nunzio, l'abate Gioacchino Paglioni, segui a Venezia, con crescente inquietudine, l'attività di Montegnacco. «In questo torbido cervello può tanto lo spirito dell'intrapresa che mai si quieta». L'II aprile aggiungeva: « Io so che costui consuma dei giorni intieri in progetti e, benché abbia un piede e mezzo nella fossa, non fa che declamare contro le mani morte » 3 . Nella sua ampia e dettagliata risposta Montegnacco ribadiva energicamente il suo punto di vista. Si sentiva appoggiato da una sempre phi Ragionamento aveva ormai avuto parec- largopineubc.Ils chie edizioni 4 . Era sempre phi deciso a lottare per una chiesa « fondata in casta ed umil povertate», come diceva citando una canzone di Petrarca, per difendere la «massima evangelica che non compete alcun dominio alli pastori sopra le possessioni e beni terreni»'. Questo aveva ribadito «un grand'uomo, fra Paolo » e questo anch'egli avrebbe difeso a viso aperto. Il contrasto tra questo ideale e la realtà circostante era profondo. I prelati erano tutti intenti a difendere i loro titoli « di principe, di duca, ' Le mani morte cit., pp. 75 sgg. 3
«Bologna» , n. 6 (ro febbraio 1767), corrispondenza da Roma del 4 febbraio. Archivio segreto vaticano, Nunziature, Venezia 223.
ROMA,
Confermazione del Ragionamento intorno ai beni temporali delle chiese ecc., indirizzata agli autori dello scritto che ha per titolo Le mani morte, ossia lettera all'autore del Ragionamento divisa in cinque lettere e in due parti, edizione seconda, Antonio Zatta, 1768, parte I, p. Ix: « per ben cinque volte numerose edizioni». A p Ibid., pp. XVIII-XIX.
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parla tuttavia di « quattro differenti edizioni italiane
».
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di conte, di marchese», ad ottenere nuovi «titoli onorari»'. «I pastori profondono in cuochi ed in bottiglieri, in scuderie e cocchi..., gran parte de' monaci e de' frati sono immersi nell'ozio e nella infingardaggine; ristretti alcuni in poco numero rispetto alle amplissime e regali residenze loro, godono vastissime tenute...» 2. Neppure quando tutt'intorno si moriva di fame questi chierici si mostravan disposti a rinunciare alle loro ricchezze. Non era vero che «i vescovi e gli abati del regno di Napoli... asciugassero le lagrime a gran numero di famelici nell'ultima carestia del Regno». «Ardirei di sfidarvi a produr la vendita di due soli campi di terra fatta o da qualche vescovo o da qualche monastero per questo oggetto». Bastava leggere i due succosi volumi raccolti dal valente cittadino di Molfetta Ciro Saverio Minervino, il quale aveva dimostrato che gli ecclesiastici di quella regione, ben lungi dal soccorrere gli affamati, si erano in realtà impadroniti di quel territorio « senza che resti libero un palmo di terra», riducendo ad « affittuali e censuari tutti li secolari». La situazione nello Stato pontificio non era migliore. In una terra di Romagna, nella «somma penuria» dell'anno stesso in cui egli scriveva, nel 1768, «quando tutti i secolari concorrono di buon animo a dar mano a provvedimenti caritatevoli per non lasciar andar all'eccesso i prezzi e le difficoltà di aver grani, li soli ecclesiastici sono quelli che sono i piú restii ad unirsi con proporzionati esborsi»'. Ovunque, negli anni delle grandi carestie — che stavano appena terminando quando Montegnacco scriveva queste parole — il clero si era dimostrato insensibile ed egoista. «In questi due ultimi anni di estrema penuria, nelli quali infiniti mendici gemevano per le vie in traccia di pane e che parecchi si davano per disperazione agli ultimi eccessi, sicché a taluna città convenne chiuder le porte per garantirsi dagli insulti che la disperazione sa suggerire, ed alcuni si sono trovati in certe regioni svenuti e morti di inedia, mai troverete voi che in anni cosí luttuosi abbia qualche comunità ecclesiastica o qualche presidenza o qualche sagro pastore fatto qualche dimostrazione strepitosa di carità cristiana colla vendita di qualche fondo di tanti che taluna chiesa possiede o di qualche mobile prezioso. Hanno forsi fatto tregua almeno le pretenzioni eli piati ne' fori, le esazioni verso i censuari meschini? » Confermazione del Ragionamento intorno ai beni temporali delle chiese ecc. cit., p. xxix. Ibid., p. XLVIII. Ibid., p. cxxxviii. Su Molfetta, cfr. la Memoria per il ceto de' secolari di Molfetta alla maestà del re, firmata C. S. M. (Ciro Saverio Minervino), Napoli 1765, in 2 voll. Montegnacco vi torna sopra in ibid., parte seconda, p. xxiii L'opera era piaciuta a Genovesi, che la indicava come un esem2
pio da seguire a Fortunato Carbone, in una sua lettera del 7 giugno 1766. Cfr. ANTONIO GENOVESI, Autobiografia, lettere ed altri scritti, a cura di Gennaro Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 196. Ciro Saverio Minervino fu invitato ad insegnare il diritto pubblico a Parma, ma preferi ricoprire un simile incarico a Napoli, cfr. lettera di Paciaudi a Berta, del 13 dicembre 1768, in Il giansenismo in Italia cit., vol. I, parte II, p. 78.
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Quali chiese e monasteri avevano aperto i loro tesori? Certo le «pubbliche notizie» avevan riferito che in Toscana si erano « venduti gli argenti di molte chiese... per sovvenir d'annona i poverelli». «Si eh? ma là dove ciò si è fatto, si fece poi per cura caritatevole e spontanea degli ecclesiastici, ovvero per vigilante provvidenza de' principi? » Una volontà d'eguaglianza o per lo meno di maggior equilibrio sociale nasceva spontanea da simili fatti. Gli esempi de ll a Boemia e della Polonia erano soltanto un pretesto per distogliere lo sguardo da situazioni phi vicine e immediate. Ben altrimenti concreto e aderente era « il bellissimo trattato della regalia d'ammortizzazione scritto dall'eruditissimo D. Pedro Rodriguez Campomanes..., uscito non è guari dai torchi», dove giustamente si insisteva sulla necessità di porre un argine al « torrente d'uno smisurato ammassamento di beni e di ricchezze in mani privilegiate », che minacciava alla base stessa ogni stato e ogni società civile. Aveva certo ragione Campomanes: se non si scongiurava un simile pericolo, «una repubblica secolare si volgerebbe ad essere una anarchia ecclesiastica signoreggiata dalle comunità privilegiate e a poco a poco verrebbe sconvolto il suo governo civile e la sua libertà». Né gli esempi mancavano, in Germania, in Polonia, in Italia'. Si voleva davvero tornare a quella «mezzana età» che Muratori aveva tanto vivamente descritto, mettendone in luce quel che egli aveva chiamato la «pia industria», la «frode bella e buona» allora posta in opera dagli ecclesiastici? 2 Era tempo d'osservare da vicino le ingiustizie e le miserie che derivavano dalla iniqua distribuzione delle terre e de lle rendite ecclesiastiche. Le ricchezze si accumulavano nelle mani dell'alto clero, il quale neppure «vede, né conosce lo squallore..., le miserie inenarrabili de' meschini villici che li pagano la decima ed i censi», frodando cosí «quel misero popolo che in phi mesi dell'anno non mangia altro pane che quel delle sue lagrime e de' propri stenti». Ben poco restava ai parroci stessi. Soltanto «un ristrettissimo ritaglio delle rendite » finiva nelle mani d'«un meschino ignorante sacerdote», il quale aveva spesso bisogno di collette per sostenersi, costringendo in tal modo «il popolo a nuove contribuzioni» . Tanto all'interno, quanto nei suoi rapporti con i laici la chiesa necessitava dunque riforme. Toccava al principe provvedervi e a un « saggio ministro» esortarlo a ciò, sventando tutte le manovre di chi intendeva conservare gli antichi abusi. «E se un qualche Nestore rimbam.
1
Confermazione del Ragionamento intorno ai beni temporali della chiesa ecc. cit., vol. I, par-
te I, p. 2
CLXX I.
Ibid., parte II, p. xxxvii. Cfr. pure pp. LX=IX sgg. Ibid., p. LITI.
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bito per l'età e reso timido da un panico timore che gli andasse istillando qualche pseudoprofeta pensasse a metter innanzi in tai casi i luoghi cornmuni de' vecchi costumi, delle nocive novità, de' nuovi pericolosi sistemi, si troveranno cento uomini saggi che scopriranno i nascondigli d'onde hanno la sorgente simili concetti, diranno che putiscono d'avarizia, d'interesse, d'insaziabilità travestita col bel manto di religione e celebreranno i lumi e le cognizioni che hanno sgombrato alla fine dalle menti de' regnanti le tenebre che la insana superstizione, il pazzo fanatismo e la mal coltivata ignoranza sparse avevano sopra le menti di tanti ministri» La Confermazione di Montegnacco fece impressione anche all'estero. Il «Journal encyclopédique » notò che una simile polemica era tanto più significativa in Ita li a «où l'on a longtems regardé les biens de mains-mortes comme une chose sacrée ». Gli italiani stavano rimettendosi al livello dei francesi: «Il paroît que l'écrivain ultramontain s'est beaucoup rapproché de la jurisprudence françoise. Est-il bien étonnant après celà qu'on se soit élevé contre lui avec une espèce de fureur? » 2. Contin e Montegnacco erano stati i due maggiori pubblicisti delle riforme veneziane degli anni sessanta. Andrea Tron fu l'uomo politico che più operò per realizzarle. Attorno a lui era un gruppo di patrizi quali Zan Antonio da Riva, Andrea Querini, Alvise Valaresso, Natal Delle Laste, decisi a incidere nel groviglio dei corpi religiosi, a render più semplice, lineare, chiara l'organizzazione della chiesa e dei suoi rapporti con il governo'. Come ha scritto Gaetano Cozzi, loro scopo era: «difendere l'indipendenza della chiesa veneziana da ogni indebita ingerenza della Sede romana, contenere nei giusti limiti l'attività del clero secolare e regolare, perseguirne le degenerazioni, controllarne l'influenza sulla scuola e sull'opinione pubblica» Dopo gli alti e bassi degli anni cinquanta, la ripresa di questa politica può farsi datare da una scrittura indirizzata da Montegnacco a da Riva nel 1760, fondata sull'idea che «la podestà sovrana » aveva il « debito preciso di metter in circolazione e di rettamente distribuire ed impiegare in sollievo de' bisognosi» tutti i beni ecclesiastici non strettamente indispensabili al clero'. Ma tardò qualche anno a giungere una azione in questo senso. Inchieste, discussioni ed echi di quanto stava accadendo al di '.
'.
' Confermazione del Ragionamento intorno ai beni temporali della chiesa ecc. cit., vol. I, parte II, p. cLXXXIII 2 «Journal encyclopédique», torno II (15 marzo 1768), parte III, p. 145. 3 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 115 sgg.
Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale nel Settecento, estratto da Sensibilità e razionalità nel Settecento, Sansoni, Firenze 1967, p. 375. Sempre fondamentali le pagine di VETTOR SANDI, Principi di storia civile della repubblica di Venezia, Sebastian Coleti, Venezia 1772, vol. III (che giunge fino al 1767) e di MARCO FERRO, Dizionario del diritto comune e veneto, Modesto Fenzo, Venezia 178o, tomo VII, pp. no sgg. 5 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., p. 116. GAETANO COZZI,
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fuori dei confini della repubblica prepararono lentamente il terreno'. Il passo decisivo venne compiuto con la creazione della « deputazione estraordinaria aggiunta al Collegio dei Dieci Savi di Rialto», il 12 aprile 1766. Composta da Zan Antonio da Riva, Andrea Querini, Alvise Valaresso, fu generalmente chiamata la deputazione ad pias causas. Era un organo straordinario, non era sottoposta a quegli avvicendamenti, a quelle rotazioni delle cariche che tanto spesso rendevano lenta o inoperante la volontà politica degli organi del Senato. Fu uno strumento nuovo per una funzione che, pur inserita in una lunga tradizione, era sentita come nuova e innovatrice. Per agire aveva bisogno dell'appoggio d'una solida maggioranza in Senato. Questa le fu assicurata dalla fermezza e dall'abilità di Andrea Tron 2 . Dopo più di un anno di lavoro, il 12 giugno 1767, la deputazione fu in grado di presentare un'ampia relazione che portava la firma dei tre deputati ed era opera di Piero De Franceschi, il segretario. Questi non apparteneva alla classe patrizia, rappresentava in seno alle vecchie strutture veneziane quello che altrove erano i nuovi burocrati e funzionari'. La collaborazione di consulenti ufficiosi come Montegnacco, di patrizi come da Riva, Querini, Valaresso e Tron, di cittadini come Pietro de Franceschi assicurò il successo dell'opera di questa deputazione. La relazione del 12 giugno 1767 non è soltanto la base da cui sarebbe partita l'opera di riforma che andò svolgendosi a Venezia negli anni seguenti. Essa è anche un modello di azione giurisdizionale, verso il quale si volgeranno gli sguardi di molti altri stati italiani. Verrà integralmente pubblicata a puntate nelle «Notizie del mondo», nel 1769, con l'intento di spiegare ai lettori della gazzetta fiorentina quale fosse la fonte prima di quello stillicidio di provvedimenti che essi erano andati seguendo settimana dopo settimana negli anni immediatamente precedenti ". Il compito della commissione non era stato facile: «necessariamente dovettero impiegar qualche tempo nel rintracciar le cose passate, svilupparle ed esaminarle nei loro infiniti rapporti». Si trovarono cioè di fronte allo stesso compito che vorrebbe poter portare a termine lo storico di Eccellente è il rapporto presentato il 4 ottobre x765 da Alvise Contarini al Senato. Ancor oggi esso costituisce una delle migliori storie del problema delle mani morte nei diversi stati italiani (VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 413, pp. x1 sgg.). • GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 120 sgg. • Ibid., pp. 44 sgg. e all'indice. o «Notizie del mondo », n. 41 (23 maggio 1769), pp. 323 sgg. Memoria inedita presentata al Se-
renissimo principe dalla Giunta al Collegio de' dieci savi ad pias causas, da cui sono derivate tutte quelle leggi che in diversi tempi si sono vedute inserite in questi fogli. Continua poi, saltuariamente, nei numeri seguenti fino al n. 8x (ro ottobre 1769), p. 668. È inserita in BARTOLOMEO CECCHETTI, La repubblica di Venezia e la corte di Roma cit., vol. II: Documenti, pp. 119 sgg. Cfr. P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterreform in Venedig (1767-177o). Dissertation zur Erlangung der Doktorwürde von der. philosophischen Facultät der Universität Freiburg in der Schweiz, Druckerei «Kacic», Sibenik s. d. (ma posteriore al 1927), con larga bibliografia e numerose ricerche negl'archivi veneziani. Erra tuttavia, a p. 44 attribuendo la scrittura del 12 giugno 1767 ad Andrea Tron.
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meno dubitoso dei membri di quella deputazione sull'entità delle proprietà ecclesiastiche venete, sul numero dei chierici, sul peso effettivo della chiesa nella repubblica. Pur tra molte incertezze il quadro che risultava era illuminante. L'inchiesta era risalita lontano, al 1232. Scendendo nei secoli la deputazione aveva scritto una vera e propria storia di Venezia, dal punto di vista dei rapporti tra chiesa e stato. Con particolare attenzione aveva seguito la vicenda delle proprietà ecclesiastiche, ponendo in rilievo i mezzi vecchi e nuovi usati dagli ecclesiastici per acquisirle ed accrescerle. Terreni paludosi bonificati dai laici e caduti in mano dei chierici; momenti di debolezza della repubblica, come all'epoca della lega di Cambrai; esigenze della «cassa pubblica esausta», come all'epoca della peste del 1630, con conseguenti tassazioni sul clero; mutamenti nei «contratti livellatizi»: era il bilancio di una plurisecolare convivenza'. «Questo, Serenissimo Principe — concludevano — è il cornplesso della legislazione promulgata nello spazio di cinque secoli per custodire i patrimoni delle famiglie secolari » 2. Era tempo, su questa base, di affrontare il problema delle mani morte. Bisognava chiedersi, anche sull'esempio di Campomanes, «fino a qual segno e di quanta somma e per quali modi resti impedita la circolazione dei fondi dello stato e di quanti tarli venga corroso quel cibo che dovrebbe alimentare il corpo laico». Compito tutt'altro che facile. Non sempre si era riusciti a «penetrare in tutti i nascondigli, riconoscere tutte le frodi e calcolare con giuste misure tutti i rapporti. Mense vescovili, abbazie, benefizi residenziali e semplici, chiericati, chiese, oratori, altari, cappelle, monasteri dell'uno e dell'altro sesso, case religiose, collegi, eremi, seminari, ospizi, missioni, ospitali, cittelle dismesse, penitenti terziarie, scuole, fabbriche, luminarie, fratterne, custodie, compagnie divote, mansionarie, legativi pii, messe manuali, anniversari, novene, ottavari, commissarie ed altre istituzioni infinite che portano fondi, rendite ed altri emolumenti visibili al corpo ecclesiastico furono le classi in esame». Ma «ciò che l'accortezza altrui ha saputo nascondere e ciò che per incognite vie passa alla giornata dalla divozione del popolo nelle mani morte, non sarà mai possibile di conteggiare » 3 . Le decime ammontavano ad una rendita annua di 1 8o 285 ducati, pari (capitalizzando al tre e mezzo per cento) a quasi 4o milioni di ducati di mani morte direttamente controllate dal Collegio dei Dieci Savi. A queste bisognava aggiungere gli estimi di Terraferma che si presentavano tuttavia come «una faraggine tanto immenoggi, non
,
' «Notizie del mondo», nn. 42 , 44, 48 , 5o (del 27 maggio, 3, 17, 24 giugno 1 769), pp. 333, 350 , 388, 406. 2 Ivi, n. 53 (4luglio 2 769), p. 431. Ivi, n. 54 (8 luglio 1768), P. 439.
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sa di confusioni, di mancamenti e di varietà di metodi e di calcoli che abbiamo quasi disperato — confessavano — di poter uscire da quelle tenebre e trovar luce alcuna»'. Mancavano i catasti, i libri erano perduti o nascosti. «Non è della nostra ispezione di consigliare sopra questo punto, ma si è fatto questo breve cenno perché la pubblica sapienza comprenda lo stato lacrimevole delle sue camere». Tutto sommato la deputazione calcolava che bisognava aggiungere 7 3 I 5 23 I ai 4o milioni di mani morte precedentemente conteggiate. I monasteri pesavano per altri 8 6 57 290 ducati. Se si sommano le altre proprietà e rendite, si giungeva, complessivamente, al «grandioso capitale di 85 057 879 ducati». Bisognava aggiungere le «rendite incerte», elemosine, questue ed altri emolumenti (su 7638 regolari, solo la metà era provvista di rendite fisse), ed erano altri 4 858 984 ducati. «Eppure in questa partita non sono abbracciate le monache questuanti, le terziarie ecc.». Le messe pesavano con un capitale di 9 8 3o 333 2 • Le messe fisse erano distribuite nel modo pii disuguale. Solo 9223 preti ne erano provvisti. «Ne restavano privi li restanti altri Ir 644 preti». Ma anche questi avevano una sia pur minore e pii precaria rendita derivante dalle messe («almeno 3o soldi»), che capitalizzate ammontavano a 29 297 804 ducati. Testamenti ed altre disposizioni erano anche pii difficili da calcolare. Soltanto nella Dominante, in un decennio, pii di 2 milioni erano passati alle cause pie. La deputazione citava alcuni casi specifici particolarmente impressionanti dell'amministrazione di simili lasciti, provenienti da grosse famiglie patrizie, quale quella di « Andrea Pisani fu de Ser Vincenzo», per concludere: «ci par un punto degno di pii alta riflessione l'indagare se li rispetti del governo civile e del sistema particolare della nostra aristocrazia possano soffrire che simili dispense e amministrazioni sieno riposte nell'assoluto arbitrio di una sola persona e questa anche ecclesiastica». Il denaro era stato lasciato per «i poveri vergognosi e le donzelle periclitanti». Era ammissibile che il controllo di questa carità fosse lasciato ad un ecclesiastico, rendendolo « arbitro di una classe di famiglie tanto pii gelosa quanto si solleva dall'infima condizione della plebe»? 3 . L'aristocrazia profittava, come si vede, della revisione della situazione degli ecclesiastici per cercar di controllare pii da vicino l'assistenza riguardante i membri della propria classe. Complessivamente, la deputazione calcolava che le mani morte costituivano un capitale di 129 048 ooi ducati, «un capitale di tanta grandezza che forma spavento nell'immaginarlo»'. ' «Notizie del mondo», n. 57 (18 luglio 1769), p. 467. 2
4
Ivi, n. 58 (22 luglio 1769), pp. 482 - 83. Ivi, n. 6o (29 luglio 2769), p. 491. Ivi, n. 61
(10
agosto 1769), P. 499 e n. 69 (29 agosto 1 76 9), P. 564.
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Gli ecclesiastici erano 45 773 (senza contare i 1913 religiosi greci) su una popolazione di 2 655 484 persone, un po' meno cioè del due per cento. Per fare il confronto tra il capitale ecclesiastico e quello laico sarebbe stato necessario calcolare esattamente anche quest'ultimo, cosa ancor pii difficile e complessa'. Comunque, concludevano i deputati, da un simile paragone «ne risulterebbe una somma chimerica e non vera», troppo immensa per esser creduta, «dal ché ad evidenza risulta lo sbilancio ormai fatto e il pericolo di farlo maggiore». Pii facile era paragonare le rendite: quella degli ecclesiastici «cammina quasi del pari con quella del principato». Le leggi del passato evidentemente non erano «rimedi sufficienti». Bisognava provvedere se si voleva che i laici fossero meglio in grado di pagare le tasse, se si intendeva diminuire il numero degli «oziosi infelici che languiva per le strade», se si intendeva far meglio circolare la ricchezza 2 . La Francia, la Spagna, il Portogallo, l'Impero, la Baviera e, in Italia, la Toscana, la Lombardia, Genova, Lucca, Parma, Mantova avevano già in qualche modo provveduto. Ora toccava a Venezia. «L'oggetto pubblico è quello d'impedire l'esterminio del laico, siccome l'oggetto degli ecclesiastici è quello d'impedire il proprio... La conoscenza dei disordini è la madre di tutte le leggi e la salute della nazione fu sempre la legge suprema di tutti i domini » 3 . A questi energici propositi corrispose non un provvedimento complessivo, che mirasse al cuore del problema, ma una serie di colpi ed attacchi alla potenza del clero. Già il 18 settembre 1766 si era limitato il Sant'Uffizio passando una parte dei suoi poteri nelle mani della magistratura dei Savi all'eresia. Alla fine dello stesso anno il Consiglio dei dieci tentò di limitare e modificare la religiosità popolare, ma senza molto successo'. Il io settembre 1767 si prendevano le deliberazioni chieste dalla deputazione ad pias causas onde impedire l'accrescersi delle mani morte e il 20 novembre vennero poste le basi per la riduzione del numero dei conventi, per un Sugli ostacoli che si frapponevano ad una esatta conoscenza della situazione finanziaria, malgrado i tentativi di riforma compiuti proprio in quegli anni a Venezia, anch'essi sotto l'impulso di Andrea Tron, cfr. Commissione per la pubblicazione dei documenti finanziari della repubblica di Venezia, serie II, Bilanci generali, vol. IV: Bilanci dal 1756 al 1783, a cura di Angelo Ventura, Tipografia Antoniana, Padova 1972. 2 «Notizie del mondo », n. 69 (29 agosto 1769), p. 562. Ivi, n. 8 (ro ottobre 1769), p. 668. ° « Nacque nei mesi scorsi — diceva l'uditore del nunzio scrivendo a Roma — un decreto del Consiglio dei dieci con cui si abolivano certi corpi di divozione sparsi per la città qui denominati capitelli. Ultimamente i parochi ricorsero per la ritrattazione di detto decreto e la ottennero mediante un assai religioso decreto dato alle stampe con cui furono rimessi in piedi come erano prima detti corpi di divozione, suffragi e capitelli» (ROMA, Archivio segreto vaticano, Nunziature, Venezia 223).
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nuovo controllo delle vocazioni e della disciplina claustrale'. Il governo contava sull'appoggio dell'alto clero, dei vescovi legati alle famiglie patrizie, per resistere tanto a Roma che alla massa dei secolari e regolari. Il 7 settembre 1768 il Senato prendeva in questo senso un decreto basato « sulla pubblica risoluta volontà di non ammettere nel nostro dominio nelle dette materie esenzione alcuna dalla ordinaria loro giurisdizione » 2 . Si moltiplicava intanto la pubblicistica su questi problemi'. La reazione di Roma fu dura. L'8 settembre 1768 il papa accusò Venezia di mettere in pericolo la religione con il suo desiderio di novità e di preparare l'estinzione dei regolari °. Il Senato resistette ribadendo la «podestà legislativa della repubblica», senza la quale «sarebbe imperfetto ogni governo e resterebbe esposta a travagliose vicende, insieme col servizio divino, la quiete dei popoli e la sicurezza degli stati» '. La discussione puramente giuridica e la proclamata ortodossia erano le condizioni perché il senato e i vescovi si mostrassero se non unanimi, per lo meno compatti di fronte alla curia. Ben lo si vide quando il cardinal Giovanni Molino, vescovo di Brescia, rifiutò di piegarsi agli ordini del governo, fuggendo dalla sua diocesi e riparando a Ferrara, in territorio pontificio. « I beni della mensa vescovile furono messi sotto custodia pubblica, gli effetti appartenenti al prelato furono sequestrati, al vicario generale della diocesi fu ingiunto di provvedere con impegno al governo spirituale», mentre s'impediva ogni rapporto con il prelato fuggiasco. Il vescovo fini col tornare e far ammenda. Al papa si comunicò che il governo era soddisfatto del risultato ottenuto: «li regolari tutti si vanno conformando con la dovuta rassegnazione e prontezza alle leggi nostre» L'appoggio delle corti borboniche non fu senza influenza nel confermare Venezia in questa sua fermezza. Anche a Vienna sempre pii largo fu l'interesse e il compiacimento imperiale per quel che stava operando la repubblica. Kaunitz, nell'ottobre 1768, disse che i provvedimenti del Senato erano «l'oggetto della maggiore attenzione di tutti». Giuseppe II EMILIO PESENTI, Roma e Venezia 1754-1769. Politica ecclesiastica di Venezia dal Pontificato di Benedetto XIV alla morte di Clemente XIII, in «Ateneo veneto», anno xxxiv, vol. I, fasc. 1-2,
p. 167. Una eccezione ai lasciti pii erano quelli devoluti a « fanciulle nubili, la Pia casa de' catecumeni e la Fraterna de' poveri vergognosi in Sant'Antonino, le Fraterne di tutti i poveri della dominante, gli ospizi, ecc.» Tutta l'opera assistenziale della repubblica continuava ad essere strettamente legata all'organizzazione ecclesiastica. Sull'assistenza, particolarmente importante il rapporto su « ospitali e luoghi pii » dei tre membri della deputazione ad pias causas, del 23 settembre 1771 (VENEZIA, B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 569). 2 EMILIO PESENTI, Roma e Venezia cit., p. 178.
Regolamento del clero secolare e regolare giusta a' sacri canoni co' decreti stabiliti ad pias causas, Bortolo Baronchielli, Venezia 1768 e Nuove leggi ad pias causas agiunte al regolamento del clero secolare e regolare ecc., Bortolo Baronchielli, Venezia 1768 (che contiene, con numerosi altri documenti, il decreto del 7 settembre 1768). EMILIO PESENTI, Roma e Venezia cit., pp. 188 sgg. 5 Ibid., p. 192. 6 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 133-34.
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li lodò parlandone con Tron durante il suo breve viaggio a Venezia nell'estate del 1769 '. Quali erano le convinzioni profonde dei patrizi che guidarono l'azione contro Roma? Non è facile conoscerle: una delle virtù più apprezzate nella repubblica era la riservatezza. Dobbiamo spesso indovinare le loro intenzioni in mezzo a mille ombre e riserve, le quali tuttavia fanno posto talvolta, anche nei dispacci ufficiali, ad aperte prese di posizione contro i privilegi ecclesiastici e a favore delle leggi riformatrici, patrie e straniere'. Né dobbiamo mai dimenticare, osservando questi patrizi nella loro azione quotidiana, che Venezia era una sorta di governo parlamentare: la vita politica era fatta di influenze e di alleanze, di manovre e di tattiche che tenevano conto degli interessi e delle tradizioni delle varie f amiglie, cosí come del continuo comporsi e scomporsi delle maggioranze e delle minoranze. L'iter de lle idee e dei programmi finiva col frammentarsi e disperdersi. Sempre difficile è cogliere una volontà politica che emerga tra queste divergenze e tra questi dibattiti, anche perché essi sono stati poco studiati e, a tanta distanza di tempo, è tutt'altro che facile ricostruirli. Già fra i contemporanei e tanto più tra i posteri questa politica veneziana fu considerata frutto di vane chiacchiere, di rivalità personali, di inguaribile corruzione e decadenza. È la tradizione assolutistica della nostra storia che ancora tende ad obliterare il mondo della libertà aristocratica veneziana. Eppure, la storia della lotta anticuriale della fine degli anni sessanta a Venezia dimostra che, malgrado tutti gli ostacoli e le difficoltà, fu proprio la repubblica a perseguire una delle piú coerenti linee giurisdizionali tra le molte che si affacciarono nell'Italia di allora, e la realtà dei rapporti tra stato e chiesa fu studiata meglio a Venezia di quanto avvenisse altrove e che insomma, ancora una volta, la tradizione di Sarpi seppe allora incidere sulla politica italiana. Del resto il raffronto con gli stati assolutisti ci può persuadere dell'importanza e del valore del metodo veneziano. Il più assolutista di tutti gli stati italiani era quello piemontese. Aveva anch'esso non scarse né labili tradizioni giurisdizionali. Ma nulla seppe operare nella crisi dell'età di Clemente XIII e XIV. L'omnis potestas a deo fu d'ostacolo ad ogni iniziativa. Quanto al confronto con le altre repubbliche, esso non può non riuscire a vantaggio di Venezia. Notevoli furono ad esempio i provvedimenti GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 146-47 e s. ROMANIN, Storia documentata di Venezia, Pietro Naratovich, Venezia 1859, vol. VIII, p. 189. Per appoggiare e giustificare questa politica Antonio Graziosi pubblicò nel 1769 i Sentimenti di G. Febronio intorno ciò che sia giusto rapporto al-
le rendite dei monasteri e la legge di ammortizzazione. Opera tradotta dal tedesco che può servire di continuazione all'aureo libro del medesimo autore sopra lo stato della chiesa e della legittima podestà del romano pontefice. Z
NIC,
Si vedano ad esempio i dispacci di Niccolò Erizzo, inviato a Roma, citati da
Die Klosterref orm cit., pp. 22 sgg.
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presi sulle mani morte dalle leghe cattoliche dei Grigioni nel 1762. Ma, come dice Alvise Contarini nel suo rapporto al Senato del 4 ottobre 1765: «Quanto provvido fosse l'editto enunciato, non lasciò tuttavia di soffrire un cambiamento nella Dieta del 1763, poiché venne quasi annullato riguardo alla chiesa e all'ecclesiastico della Valtellina e di Chiavenna. Nella Dieta poi successiva di febbraio 1764 insorsero nuovi torbidi popolari per l'annullazione fatta del suddetto editto ed il partito phi sano sostenne di non rinnovarlo, ma prima di nuovamente sostenerlo o annullarlo venne stabilito di chiedere il voto generale dei comuni... Si divisero in partiti fomentati dalla forza degli ecclesiastici e dall'autorità della famiglia Salis, uscirono degli opuscoli contro l'alienazione dei beni nelle mani morte. E nelle successive Diete niente più si ottenne, sicché resta ancora l'affare pendente e rimesso ai comuni. Somma però essendo l'influenza degli ecclesiastici e ricchi in un governo popolare per li vari modi che usar possono per vincere la maggior parte, non sarà quindi difficile che li comuni si lascino sedurre a rinonziare al bene dello stato con l'annullazione assoluta del provvido editto del 1762»'. Soltanto insomma un governo come quello di Venezia era in grado di agire con continuità e prudenza. Certo gli ostacoli contro cui gli iniziatori della politica giurisdizionale veneziana dovettero combattere erano innumeri. Intendevano restare entro i confini delle tradizioni, delle leggi, delle consuetudini, entro i limiti delle ortodossie politiche e religiose, dove dicevano di sentirsi sicuri. Ma proprio in quella cornice trovavano ogni giorno maggiori difficoltà a muoversi, ad agire. Uno dei documenti più significativi di questa situazione si trova tra le carte di Andrea Querini, uno dei protagonisti, come abbiamo visto, della battaglia giurisdizionale di quegli anni. Intendeva finalmente, dopo tante discussioni, riuscire a « far cosa e non scrivere solamente una legge». Non c'era che un mezzo: espropriare il clero di tutti quei beni che esso deteneva ad onta d'ogni disposizione presa nel passato. I preti avevano l'obbligo di vendere, entro il termine di due anni, i beni che ricevevano in dono o in lascito. Ma avevano sempre evitato d'ottemperare a questa legge ed avevano accumulato ricchezze su ricchezze. Era tempo ormai che il governo intervenisse. Bisognava assegnare «alli corpi delle città, castelli e territori rispettivamente quella quantità di beni ecclesiastici... che sul suo recinto o pertinenza si ritrovasse». Soltanto se la repubblica si fosse assunta la responsabilità d'una simile misura avrebbe potuto essere superata e vinta la superstizione che impediva al popolo di acquistare i beni ecclesiastici, considerati come sacri, « da
P. VLADIMIR RADOVENEZIA,
B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 413, ff.
14 e 14V.
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non toccarsi e che col contatto abbruciano il rimanente del suo avere». L'intervento dello stato avrebbe abbattuto un simile pregiudizio. « Superstizione che cessa quando il bene esce dalla mano del principe». Certo un simile provvedimento nulla aveva di eretico, concludeva, e rientrava perfettamente entro i limiti della tradizione e della legge. Non in questo stava l'ostacolo maggiore, gli rispondeva Piero De Franceschi annotando questo memoriale. Non le leggi mancavano, ma gli strumenti per applicarle. Come affidare ai corpi locali una operazione del genere? «La maggior parte dei corpi di qua del Mincio è miserabile. Prenderà l'amministrazione, ma resterà sempre in notabile difetto de' pagamenti». Allo stato ben poco sarebbe rimasto. «Mettendo all'incanto le terre abusivamente trattenute dal clero non si otterrà questa volta niente nientissimo di pii di quello che per il passato si ottenne e rimarrà di nuovo ineseguita la vendite a cui s'aspira». Anche «al di là del Mincio», dove « i corpi sono solidi e idonei» i risultati non sarebbero stati migliori. Quel che mancava insomma era un efficiente strumento statale e fiscale `. Eppure, malgrado questa e mille altre simili difficoltà, qualche passo avanti venne compiuto. La forza che sostenne i giurisdizionalisti veneti possiamo ancora sentirla viva ed agente in quel gran numero di scritture che i membri della deputazione ad pias causas ricevettero dai pii diversi angoli della repubblica, da giuristi soprattutto ed ecclesiastici. In mezzo a mille ripetizioni e citazioni, qualcosa di profondamente sentito emerge, ad esempio negli scritti del padre Valentina Busa, agostiniano. La visione d'una chiesa primitiva, la volontà di tornarvi al disopra e al di là dei secoli di controriforma, non è per lui una vuota forma. La bolla In coena Domini non era per lui un documento su cui andavan disputando le corti d'Europa. Era la radice d'«irreparabili danni», sofferti nei secoli. Bastava volger lo sguardo all'« infelice Polonia » per vedervi là ripetute «le lugubri scene» che nel passato si eran prodotte «in pii altri meno incolti e meno irregolari governi del cristianesimo». Indispensabili erano le riforme per non ricadere in simili situazioni'. Il decreto del Senato del 16 marzo 1769, con cui la bolla In coena Domini veniva abolita suscitò in questo ecclesiastico un sentimento di gratitudine rivolto alla repubblica cosí come di speranza negli ulteriori sviluppi della sua politica. Venezia si era mostrata « gelosa egualmente della sua libertà e della sua religione». La «intrinseca sua costituzione» si era finalmente dimostrata incompatibile con «tutto ciò che la politica e l'ambizione altrove introdusse nei secoli posteriori». Solo la Serenissima poteva gloriarsi « del bel VENEZ IA , B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 412, del 1767, conservato insieme ad altre curiose scritture su simili problemi. a VENEZ IA , Museo Correr, Donà delle Rose 341, n. 14, Venezia, 7 agosto 1769.
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vanto d'aver conservata in ordine alla ecclesiastica potestà la primiera disciplina, in mezzo a mille cambiamenti». Lo sguardo del padre Busa si volgeva compiaciuto al mondo bizantino, che Venezia sembrava finalmente ritrovare e sentire come proprio. Là vescovi e primati non avevano mai esercitata giurisdizione temporale alcuna. Là profonda era la separazione e la subordinazione della chiesa nei confronti dello stato. « Conservossi costantemente questo costume nella chiesa orientale, tenacissima delle tradizioni e conservasi ancora al presente». In Occidente invece « gli stati monarchici furono i primi» ad attribuire una funzione politica agli ecclesiastici, perché cosí esigeva la loro costituzione. «I governi dispotici dovettero soffrirla come un temperamento alla naturale loro violenza». Soltanto i « saggi governi repubblicani, nei quali non può influire punto la passione degli individui, soffocata da quello spirito di moderazione di tutto il corpo che ne è l'anima, la vita e la essenza, né può mai andar disgiunta la salvezza del governo da quella delle leggi e dei popoli» erano stati in grado di conservare le basi stesse dei veri rapporti tra chiesa e stato. Là «non potevano mai allignare le innovazioni», che si affermarono invece nel diritto canonico e in quello pubblico delle monarchie. I papi avevano costruito, a partire dal settimo secolo, «lo spirituale loro dispotismo» coordinando e dominando le usurpazioni ecclesiastiche già prodottesi negli stati monarchici e feudali. Ora che « tutto il mondo cattolico» mostrava la sua volontà di abbattere «l'universale temporal monarchia » dei papi, tutti volgevano lo sguardo verso Venezia e riconoscevano che essa era riuscita a difendere i propri diritti, « ancora in mezzo alla universale ignoranza e all'avvilimento delle altre nazioni». Bastava ricordare la figura di fra Paolo per persuadersene. Ma non bisognava farsi illusioni. Anche a Venezia, questa tradizione era decaduta negli ultimi secoli. Né la repubblica tutt'intera reagiva allo stesso modo di fronte ai tentativi di ripristinarla. E ciò era dovuto a ragioni storiche. « Se scorgesi minor attacco allo spirito nazionale nelle chiese nostre di terra ferma, ne attribuirei la ragione ad un avanzo di quella fastosa ambizione di cui furono ne' barbari tempi in possesso per esser state annesse al sistema e governo germanico e i titoli de' loro feudi, i tribunali, le carceri, le torture e gli altri contrassegni d'impero dei quali in qualche residenza se ne conserva la traccia non lasciano loro dimenticare l'auge della passata grandezza». Anche per loro Venezia aveva il dovere di ristabilire un costume, una disciplina millenaria. Soltanto il modello della chiesa orientale poteva condurre ad una simile «salutare riforma». Non lo si confondesse con quello gallicano, « affatto diverso » e che «invece di recarci lume ci offusca con nuove tenebre». Ovunque e soprattutto negli ordini religiosi bisognava colpire la sempre risorgente volontà politica e
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di dominio. Tornare alle origini dunque, guardando al mondo bizantino da cui Venezia aveva tratto e traeva la sua tradizione Raramente è dato cogliere come in queste pagine il valore propulsivo e l'elemento insieme ambiguo del mito della chiesa primitiva, che ritroviamo ovunque in Italia, ma che era particolarmente sentito a Venezia. Al di sopra dei secoli, la continuità della repubblica diventava uno strumento contro la curia romana e il potere politico ed economico del clero. Una sorta di divisione della chiesa dallo stato trovava la sua giustificazione storica in un mondo antico, anteriore al feudalesimo e al papato. Il padre Busa pareva esprimere, sia pure in forma estrema, un ideale che ritroviamo in varie forme in tutto il moto giurisdizionale della repubblica di San Marco. Dopo la morte di Clemente XIII, nella repubblica si accelerò l'emanazione delle leggi che derivavano dai principi stabiliti negli anni precedenti'. All'inizio del 1769 furono aboliti «i titoli di baccelliere, maestro ecc.» per i frati. Si presero disposizioni « onde in avvenire gli ecclesiastici pagassero le stesse gravezze de' secolari»'. Il 16 marzo venne abolita la bolla In coena Domini, come «nociva e turbatrice della pubblica potestà» 4 . Bisognava ora «estinguerne ancor la radice ne' scolastici libri». Fu affidata all'università di Padova la scelta « di persone prudenti, pie» perché li correggessero e sostituissero'. Quando, nel maggio del 1770, l'Inquisizione condannò un libro apparso a Parigi — intitolato Tre quesiti accademici trattati in tre separate lettere, da un filosofo critico, Goa, « a spese del capriccio, nella stamperia della moda», per «le false dottrine», con cui combatteva « apertamente la cattolica religione» — l'inquisitore di quella città, Antonio Sangallo, minore conventuale, venne biasimato per il suo operato « grave, riprensibile e irregolare e disordinato». Soltanto gli organi della repubblica avevano il diritto di esaminare quell'opera del conte Manfredini 6. Contemporaneamente andò realizzandosi passo passo la riforma dei conventi dello stato veneto. Nel 1766 i regolari erano 7703 (Istria, Dal'.
VENEZIA, Museo Correr, Doni delle Rose 341, n. 14, x6 marzo 1769. : Volendo avere una idea della minuta e fitta opera dei giurisdizionalisti veneziani si apra il Catalogo dei decreti pig importanti nelle materie ecclesiastiche compilato per Andrea Querini e conservato nella B. Querini Stampalia, Mss cl. IV, cod. 412. Raccolta di scritture e prospetti concernenti beni di manimorte, vol. I, ff . 1 sgg. Dal 15 dicembre 1759 al 23 febbraio 1770 (m. v., e cioè
1771). Sono 22 pagine fitte, comprendenti 197 decreti. 3 « Nuove di diverse corti e paesi », n. 8 (20 febbraio 1769), corrispondenza da Venezia del 4 febbraio. Gli esemplari di questa bolla furono accuratamente rastrellati chiedendo ai singoli ecclesiastici di consegnarla. Una bella collezione se ne trova in VENEZIA, AS Consultori in jure 574. Curioso il pò le autorità. caso del convento dei minori conventuali di Sebenico, che preoccu «Notizie del mondo», n. 14 (3 marzo 1769), corrispondenza da Venezia del 26 marzo. 6 Ivi, n. 39 (15 maggio 1770), p. 310 e n. 72 (8 settembre 177o), p. 580.
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mazia, Albania e Levante esclusi), suddivisi in 39 ordini e ospitati in 44 1
chiostrepz.Dquanostrie,cèudSanMrco 436 persone'. Troppi e mal distribuiti, pensavano i senatori veneziani. Tanto piú che le loro rendite assommavano complessivamente a 2 391 03 I lire venete, anch'esse distribuite con forti disparità tra ordine e ordine, convento e convento 2 . Si procedette per gradi, empiricamente, stabilendo tre diverse categorie di regolari e provvedendo in modo e ritmo diverso per ognuna di loro. «Abbiamo visto — si diceva in una scrittura del 28 settembre 1767 — che non era possibile lo stendere la mano sopra tutti i regolari in un colpo e che bisognava a parte e per minuti confronti guidare cosí ingrato negozio». Avrebbero agito dapprima sulla « classe dei mendicanti e dei questuanti», i cui disordini erano particolarmente invisi'. Gli strumenti preferiti furono la severa regolamentazione delle nuove vestizioni e la rescissione di ogni dipendenza organizzativa dall'estero. Il decreto fondamentale fu votato (con 105 voti favorevoli, 58 contrari e 54 «non sinceri», astenuti) il 7 settembre 1768 4 . Per applicarlo venne aggiunto un membro ai provveditori sopra i monasteri, il patrizio Alessandro Duodo, poco amico dei frati. Meno di un anno dopo, il 20 aprile 1769, questa commissione riferiva al Senato l'improbo lavoro che aveva dovuto sostenere per cercar di piegare all'obbedienza le varie famiglie religiose. Molto varia era «la forma della polizia, alcuni istituti essendo fondati sopra modelli di aristocrazia, altri di oligarchia ed altri finalmente di monarchia ovvero nel dispotismo ». Erano concordi soltanto nel tentativo d'« indebolire la legge colla introduzione d'infinite eccezioni». Come sperare «perfetta ubbidienza in uomini che per l'educazione ricevuta e per proprio interesse si credono dipendenti dalle influenze d'un altro cielo e per l'arte appresa nel sistema delle loro scuole sanno maneggiare ogni linguaggio e cavar suterfugi meravigliosi dall'astuzia delle parole»? «L'arte del sofisma e l'aria di riverenza avrebbero potuto sorprendere lo spirito nostro se oramai non fosse avvezzato a conoscere queste magie ed a scoprire il veleno sotto il miele delle parole » 5 . Ormai la repubblica era decisamente avviata verso una netta riduzione del monachesimo. I quasi ottomila regoVedi la dettagliata tabella pubblicata da P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterreform cit., pp• 3 1-3 2 .
2 P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterreform cit., pp. 31-32, basandosi sulla scrittura del 29 dicembre 1766 dei provveditori sopra monasteri riprodotta in BARTOLOMEO CECCHETTI, La repubblica di Venezia e la corte di Roma cit., vol. II, pp. 113 sgg. 3 P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterref orm cit., p. 48, nota 42. 4 BARTOLOMEO CECCHETTI, La repubblica di Venezia e la corte di Roma cit., vol. II, pp. 2x8 sgg. P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterref orm cit., p. 87, nota 73. Un bell'esempio di ramanzina fatta, mezzo in italiano e mezzo in veneziano a frati riottosi che avevano « sparso per tutti gli angoli della città equivoci e diffidenze» ibid., p. 91, nota 85.
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lari presenti nel 1766 erano diventati 5055 nel 1778, 4166 nel 1781, 4692 nel 1785 e 4265 nel 1790'. I documenti riportati da P. Vladimir Radonie non lasciano dubbi sulla costante, ferma attività delle magistrature veneziane per contenere, controllare, piegare frati ed eremiti d'ogni specie, sottomettendoli economicamente e politicamente al volere del Senato. Ma, come abbiamo visto seguendo la vita di Contin (anche Montegnacco non riuscí a riottenere il titolo ufficiale di consultore che gli era stato tolto nel 1754), a questo fruttuoso lavoro pratico ed amministrativo aveva finito col non corrispondere una parallela espansione nel campo intellettuale e dell'insegnamento. Gli sforzi del governo non mancarono neanche in questo senso, ma si arenarono presto. In una corrispondenza da Venezia del 22 settembre 1770 si leggeva sulle «Notizie del mondo »: che «il serenissimo principe, sempre intento ad accrescere non meno la felicità de' suoi amatissimi sudditi che a procurare i modi onde la gioventú sia istruita nel miglior modo possibile nelle ottime discipline e nelle scienze utili alla società, cosa che difficilmente si ottiene nelle scuole de' regolari», aveva incaricato il magistrato dei riformatori dello studio « di scrivere sopra un oggetto sí interessante e sí degno de' pubblici riflessi». La relazione insisteva sulla necessità di «formare l'uomo utile, buon patriotta e buon cittadino » e si richiamava al ricordo dei « celebri uomini che nel decimosesto secolo illustrarono le cattedre delle pubbliche scuole mantenute dal principe » 2. La relazione era sottoscritta da Andrea Tron e dai riformatori suoi colleghi, Angelo Contarini e Sebastian Foscarini (il nipote di Marco) ed era ispirata da Gasparo Gozzi'. Intendevano stabilire l'insegnamento di «una serie d'arti e di scienze le quali abbiano a formare ingegni per la repubblica». La Chalotais, in Francia, aveva parlato di nazione. I veneziani erano piú circoscritti e precisi. Intendevano commisurare le loro scuole al tipo di governo e di società della loro repubblica. Il modello patrizio era sempre davanti ai loro occhi. Tutte le altre classi dovevano ad esso coordinarsi e sottomettersi. Dalle scuole dovevano uscire «patrizi egregiamente avviati alle considerazioni e a' consigli di governo, alla custodia delle leggi, de' magistrati, de' popoli, cittadini che li assecondino coll'ingegno e con l'opera e spezialmente con la probità ne' pubblici offizi, ed in breve far sf che ciascuno 3 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., p. 127. Per una minuta cronaca di queste soppressioni e riduzioni, cfr. P. VLADIMIR RADONIC, Die Klosterreform cit., pp. 126 sgg. 2 «Notizie del mondo », n. 78 (29 settembre 1770), p. 640. 3 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., p. 152 e GIUSEPPE GULLING, Una riforma settecentesca della Serenissima: il collegio di San Marco, in «Studi veneziani», vol. XIII (1971), pp. 533 sgg.; ID., La politica scolastica veneziana nell'età delle riforme cit., pp. 13 sgg. Su G. Gozzi, vedi il bel ritratto che ne dà MARINO BERENGO nell'edizione da lui curata dei Giornali veneziani del Settecento cit., pp. XXVII sgg.
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sia atto e pronto all'osservanza delle leggi e capace di servire alla patria in quegl'impieghi che gli sono dalla sua condizione destinati» Evidente tuttavia l'intenzione di allargare la classe dirigente offrendo una medesima educazione ai patrizi e ai cittadini, ai veneziani e ai nobili di terra ferma, sapientemente dosando gli uni e gli altri e improntando tutto della tradizione aristocratica e repubblicana. A questo scopo, né un'educazione domestica, né l'iniziativa di singoli professori, fin troppo inclini ad «un piano d'ammaestramenti tutto d'oltremonti» potevano esser considerate adeguate e sufficienti'. Peggio ancora erano « gli studi detti d'umanità », di stampo gesuitico, indirizzati ad esercitare la memoria e dove la riflessione veniva stemperata «in vocaboli, figure, colori di stile»'. In simili scuole, fino a diciassette o diciotto anni i giovani non eran posti a contatto con la metafisica e la fisica, «e quel ch'è peggio, storia appena si tocca»'. Non piccola era la responsabilità della Compagnia nell'aver distorta e vanificata l'intenzione dimostrata nei secoli dalla repubblica di educare adeguatamente la propria gioventú 5 . Unico rimedio era la creazione, a Padova, d'un centro scolastico « che insieme accogliesse un buon numero di patrizi, di cittadini veneti, di nobili della terraferma e dello stato per essere ammaestrati sotto un'istituzione diretta interamente dalle leggi e dallo spirito del principato » Non «libertà nel filosofare », ma severo insegnamento religioso morale, storico, matematico, sempre tenendo conto della tradizione locale: leggi e storia veneta perciò ad ogni momento essenziale di questo processo educativo, senza per questo negare affatto l'insegnamento delle lingue straniere, il francese e l'inglese, «necessarie o rispetto alle dottrine trattate da' letterati di quelle due nazioni con chiari metodi o rispetto all'arti piú giovevoli al genere umano, delle quali hanno scritto e scrivono con somma diligenza»'. Gasparo Gozzi si era infatti ben presto accorto, malgrado tutto il suo desiderio di mostrarsi ligio alla tradizione della repubblica, che i libri di testo mancavano e che era pur necessario ricorrere (per il momento almeno, fino a quando altri libri non fossero stati scritti) a Bacone e a Fleury, a Genovesi e a Batteux, a Du Marsais e a Terrasson, se si voleva davvero '.
GASPARO GOZZI, Sulla riforma degli studi agli eccellentissimi riformatori dello Studio di Padova, in Scritti, con giunta d'inediti e rari, scelti e ordinati da Niccolò Tommaseo, con note e proe-
mio, Felice Le Monnier, Firenze 1849, vol. II, p. 297. • Ibid., p. 299. 3 Ibid., p. 300. ' Ibid., p. 301. 5 «Furono verso il 155o introdotte nella città le caritatevoli scuole da' pp. gesuiti, maestri sommi nell'insegnare inutilità con pompose apparenze, i quali, non contenti dell'esser stati accolti, furono vicini ad abbattere l'università di Padova, rimasa sola refugio delle dottrine se nel 1591, 23 dicembre, non vi si fosse opposta con ordine vigoroso la sapienza dell'Eccellentissimo Senato» (Ibid.,
PP• 307-8). 6 Ibid., p. 311. ' Ibid., p. 330.
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uscire dai classici dell'antichità e dell'umanesimo'. Illudersi d'esser ancora all'epoca di Platone o della Venezia del Quattro o del Cinquecento non solo non serviva a nulla, ma era dannoso. Il mondo era cambiato, le scuole, l'università dovevano supplire là dove una molta la società aveva operato da sola, spontaneamente. «La cognizione delle scienze era a que' tempi accetta generalmente; stimavasi onore e decoro il nome di filosofo o di letterato. Ne sono testimonio i molti dotti, e principalmente patrizi, che producevano opere colle stampe e proteggevano uomini di lettere. Ognuno riconosceva la necessità de' buoni maestri, la gioventú li chiedeva alla pubblica munificenza». Né questo era genio solo della Città, ma di tutta l'Europa e dell'Italia principalmente. «Oggidí in Venezia l'inerzia è quasi generale: di faticar nello studio non v'ha chi si curi. I dizionari bastano. Dunque conviene allettare la gioventú e ricondurla, quasi suo malgrado, e senza che se ne avvegga, all'applicazione. Conviene destare gli animi e farli attenti» 2. Gasparo Gozzi e Andrea Tron cercavano in tal modo di sviluppare le idee dello scrittore e doge Marco Foscarini (del quale Gozzi era stato collaboratore in gioventú). Il problema delle scuole era evidentemente parallelo e simile a quello dello stato: rimettere in movimento i patrizi, farli di nuovo responsabili e coscienti dei problemi della repubblica e creare d'altra parte gli organi di governo e di amministrazione in grado di sostenere e, se necessario, di sostituire una aristocrazia stanca, spesso incapace di rinnovamento. Le nuove scuole, che avrebbero dovuto sorgere a Padova e altrove, avevano anch'esse questa funzione di stimolo e di sostituzione. Onde la continua incertezza, che ritroviamo anche in Gozzi, « se nella istituzione d'un cittadino di repubblica siano da subordinare gli studi delle scienze a quello dell'eloquenza», se cioè più valeva una ripresa della tradizione politica o l'uso di nuovi strumenti tecnici e scientifici'. Onde l'attrazione e la ripulsa, l'apertura e la ritrosia di Venezia di fronte ai lumi moderni, indispensabili e pur sospetti, necessari e pericolosi insieme. Da queste esigenze nacque, all'inizio degli anni settanta, tutta una serie di progetti, inchieste, discussioni sulle scuole vecchie e nuove, sui metodi migliori di riformarle o di crearle 4. Il dibattito fu ampio. Natal Delle Laste fu particolarmente attivo. Chiese fosse istituita una cattedra di teologia morale e tentò di infondere un nuovo spirito nell'insegnaVedi il suo scritto Delle scuole di Venezia da porre in vece di quella de' gesuiti, in Scritti cit., vol. II, pp. 334 sgg. 2 Intorno all'educazione. Frammenti, in Scritti cit., vol. II, pp. 381-82. Ibid., p. 383. 4 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 151 sgg. e GIUSEPPE GULLING, Una riforma settecentesca cit., pp. 538 sgg.
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mento delle altre materie, essendosi, come diceva, « ora illustrate al maggior segno le scienze e cangiato avendo l'antico aspetto la metafisica stessa » '. Insieme a Gasparo Gozzi, le cui idee fondamentali egli accettò, chiese insistentemente si erigessero « collegi per la educazione della nobile gioventú». Là si sarebbero innanzi tutto insegnate le lingue. «Comincerei dall'italiano — diceva — come la più prossima alla lingua materna e però più facile ad apprendere e specialmente di maggior uso in tutta la vita. Aggiungerei la francese, quasi sorella dell'italiana, e resa ormai necessaria alle persone di professione letteraria e di civile, le quali due lingue saranno per chiavi della latina, che vorrei riservare all'altra classe, per manco tedio e fatica de' fanciulli». Quanto alla storia bisognava cominciare con quella veneziana, «essendo l'antica troppo rimota dalle idee di questa età e però meno intelleggibile e meno dilettevole... All'istoria darei per compagna la geografia». Cosí mano mano, anno dopo anno, veniva esposto un dettagliato programma d'insegnamento che comprendeva tutte le materie utili alla vita civile e politica e che non trascurava neppure «la coltivazione di fiori, di semplici, d'arbusti in qualche giardino, sull'esempio di Ciro e dei romani e qualche geniale arte meccanica per documento del Locke». Molto sarebbe dipeso, concludeva, dalla «prudenza, costume, dottrina, autorità condite di dolcezza, assiduità e amorosa pazienza » dei maestri. Come leggiamo in un'altra anonima memoria di quegli stessi anni «la riforma de' pubblici studi» era simile e parallela « alla riforma delle milizie». «Un nuovo piano militare con disposizione e con uso diverso d'un medesimo numero d'ufficiali può render pii attiva una truppa, emendandone i difetti...» 2 . La discussione sulla riforma delle scuole venete travalicò ben presto i confini della repubblica. A Firenze venne pubblicato «un piano per l'educazione di questa nobile gioventù», redatto da «un soggetto distinto e che non mancava d'interesse. Là più che altrove parevano fondersi le recenti polemiche antigesuitiche e la volontà di rinnovamento civile. L'educazione doveva esser «conveniente ad un cittadino repubblicano» e perciò ispirata a libertà. «Il timore è la pii vergognosa e la piú funesta di tutte le passioni, eccita e fomenta nel cuore umano la viltà, l'ipocrisia e la simulazione... una società composta di simili cittadini è disposta ad una presta e sicura rovina». Le infinite regole con cui veniva insegnato il latino costituivano un «gravissimo danno» in «tutte le scuole d'Italia». Che si imparasse il francese e l'inglese. «Le opere eccellenti pubblicate in queste lingue le rendono utili e necessarie». « Aritmetica, geografia, storia della patria». Gli studi dovevano essere indirizzati « a 2
VENEZIA, AS, Consultori in jure 265, Nuovo piano di studi per l'università di Padova. Memoria conservata anch'essa in VENEZIA, AS, Consultori in jure 265.
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formar l'uomo di stato, il presidente della guerra e delle finanze, il senatore, il generale, il comandante dell'armata, il governatore della provincia, il giudice e l'ecclesiastico». Bisognava rendersi conto che la situazione in Europa era profondamente mutata. L'accordo tra la Francia e gli Asburgo, «avvenimento il pii grande e il pi i terribile che sia succeduto in questo secolo», minacciava « a tutti la schiaviti e l'oppressione». Le potenze del Nord erano troppo povere e l'Inghilterra troppo « agitata da interne convulsioni» per poter intervenire. Tanto piú l'insegnamento doveva esser orientato sui problemi politici ed economici. «La scienza del commercio... deve esser studiata e coltivata in questo collegio con tutta la cura ed attenzione della gioventú patrizia. Sono stati pubblicati tanti trattati che possono formare una intera biblioteca». Cosí anche per il diritto: si dovrà innanzitutto approfondire la giurisprudenza veneta, ma «la lettura del trattato dello Spirito delle leggi di Montesquieu in molte parti può esser assai utile», insieme alla storia universale pubblicata in Inghilterra. Bisognava escludere decisamente tutti gli studi che risultassero «stranieri e inutili ad un cittadino che è chiamato dalla sua nascita ad aver parte al governo politico d'una repubblica». Un'illusione era il tentativo di veder tutto con occhi matematici. «Molti giovani patrizi » erano «sedotti ed ingannati dalle vane e false promesse dei maestri che gli hanno assicurati della gloria e felicità dello stato quando sia governato da menti avvezze a regolarsi in tutti i loro giudizi con principi di certezza ed evidenza». Le conseguenze non potevano non essere « funeste e perniciose». « Questa scienza è stata incognita ed ignorata da quei venerabili padri che, per molti secoli, presso tutte le nazioni hanno acquistato e conservato una singolare fama e reputazione di prudenza e di politica... Il matematico, che nelle meditazioni ricerca solamente il certo e l'evidente, negli affari politici, dove tutto è incerto, oscuro e dubbioso, ritrovandosi abbandonato dai suoi principi di certezza e d'evidenza, pieno di timore e di diffidenza, in mezzo a tante tenebre sempre incerto, lascia in abbandono lo stato all'incertezza e alla disperazione». La scienza della politica che gli spagnoli del secolo precedente avevano creduto di poter trovare in Tacito era altrettanto fallace. «Il politico non ha altra guida che il probabile e il verosimile». I nuovi sistemi, Newton, Leibniz, «non hanno fatto il genere umano né migliore né piú felice». «Gli uomini in tutte le azioni, dopo aver cancellata la prudenza, debbono lasciare il resto alla fortuna». «Cessino questi nuovi riformatori d'inquietare coi loro sistemi il genere umano, che per cinquecento secoli ha saputo regolarsi con prudenza, gloria e felicità». Piuttosto degli «algebristi» sarà da apprezzare «un fabbro, un falegname». «La rovina della religione» era anch'essa, ben inteso, una conseguenza inevitabile del prevalere delle
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moderne scienze matematiche'. Biagio Ugolino Della Marca, «noto abbastanza alla repubblica letteraria» (che tale fu rivelato esser l'autore di questo piano) suscitò forti discussioni ad Ancona, a Venezia, a Firenze 2 . E si capisce: aveva messo a nudo il risvolto conservatore, tradizionalista del moto di riforma di quegli anni a Venezia. L'empirismo, la volontà di concretezza politica del patriziato si svolgeva contro i lumi La riaffermata religiosità ricopriva del suo manto questa volontà veneziana d'un mondo sempre identico, felice della propria staticità'. I tentativi di promuovere invece una sempre maggior diffusione dei lumi e di dare un carattere phi moderno ed efficiente alla scuola della repubblica non mancarono all'inizio degli anni settanta. La faticosa opera di riorganizzazione dei collegi tradizionalmente esistenti a Padova, cornpiuta con intelligenza e tenacia da Sebastian Foscarini, nipote di Marco, e che culminò nella creazione del Collegio di San Marco, tendeva non soltanto a rendere piú disciplinati e piú decentemente mantenuti gli studenti, ma mirava a ben precisi obiettivi politici: permettere cioè l'accesso all'università ad un numero maggiore di giovani provenienti dal patriziato phi povero, dalla provincia e dai ceti non nobiliari °. Allo stesso scopo tendeva la riforma dell'Accademia dei nobili della Giudecca'. Contemporaneamente Andrea Tron, coadiuvato sempre da Gasparo Gozzi, si sforzava di rinnovare l'insegnamento elementare e medio, tanto a Venezia che in provincia b. Gli ostacoli e i limiti che arrestarono spesso questo sforzo multiforme furono principalmente di carattere religioso. Certo la repubblica non aveva molto denaro da spendere in queste riforme; il senato era lento; poco attivo, abulico spesso il ceto dei professori. Ma più grave era lo scontro inevitabile con la chiesa e gli ordini religiosi. La sostituzione dei gesuiti non prese quell'aspetto di svolta decisiva, che ebbe invece, tra il 1 767 e il 1773, a Napoli, a Parma, a Milano, persino a Genova. A Venezia lo scontro si spezzettò in una serie di minuti episodi, pro o contro un collegio che dipendeva dal patriarca, tra il seminario e il Collegio San Marco di Padova, attorno a questa o quella cattedra già esistente o da istituire. Fu, come ha scritto Giuseppe Gul1 «Notizie del mondo», nn. 17, 28, 20, 21, 27, 2 9, 33 (del 26 febbraio, 2, 9, 12 marzo, 2, 9, 23 aprile 1771), PP. 131, 1 40 , 257, 264, 210, 228, z6o sgg. Ivi, n. 42 (25 maggio 1771). Una polemica contro questo Piano d'educazione si trova in un foglio a stampa Per la laurea in
ambe le leggi nella regia università di Pavia dell'ornatissimo signor don Francesco Scolti patrizio milanese. Sonetti, Giuseppe Bolzani, Pavia 1771. Vi si trova una aperta difesa della matematica e del-
la ragione. Una copia di questo foglio si trova a Milano, B. Ambrosiana, Mss X.234, che è il vol. 61 delle carte di Antoniotto Botta Adorno. 4 GIUSEPPE GULLINO, Una riforma ecclesiastica cit., pp. 54o sgg. • LUIGI ZENONI, Per la storia della coltura in Venezia dal 1500 al 1797. L'Accademia dei nobili alla Giudecca (1619- 1797), in «Miscellanea di storia veneta. A cura della Deputazione veneta di storia patria», serie III, fasc. 9 (1916), pp. I sgg. 6 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 153 sgg.
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lino, « aspra polemica tra gruppi filoclericali e giurisdizionalisti e che giunse talora ad assumere il tono di una vera e propria lotta combattuta senza esclusione di colpi»'. Ma troppo interconnesse erano la chiesa e la repubblica perché questo combattimento potesse avere un risultato decisivo. Una nuova università non sorse. Padova non poté neppure lontanamente paragonarsi a Pavia. La diffusione delle scuole elementari e medie, pur notevole nei decenni seguenti, non rivesti l'importanza che ebbe altrove, ad esempio in Lombardia. Sebastian Foscarini, che tanto aveva operato per lo sviluppo della scuola, nel 1780 mandò il proprio figlio, Giacomo, al Collegio Teresiano di Vienna. A Genova, negli stessi anni e per la stessa ragione, i Serra facevano lo stesso con la propria progenie. I patriziati delle arcaiche repubbliche non erano riusciti a creare una scuola che rispondesse alle loro esigenze politiche e sociali. La cacciata dall'università di Padova dell'abate Angelo Fabro fu l'episodio piú significativo degli anni settanta proprio perché mise a nudo il contenuto religioso e politico di simili contrasti e conflitti. I diritti dello stato furono portati alle estreme conseguenze (quel professore venne accusato d'aver sostenuto nel programma a stampa del suo corso del 1771-72 che i sudditi dovevano continuare ad obbedire anche a un sovrano che diventasse eretico). La virtualità protestante di questo moto — virtualità sempre accuratamente tenuta nascosta dal suo lontano ispiratore, Paolo Sarpi, e da tutti i suoi seguaci — tornò a presentarsi come una minaccia, sia pur lontana (Fabro aveva parlato di Cristo come capo della chiesa, tacendo completamente del papa ed aveva chiamato libri sibillini le bolle e i canoni romani). Al centro del dibattito fu posto il problema della tolleranza religiosa, che per Fabro, come per Contin, non era unicamente uno strumento politico, ma un doveroso rispetto per l'umana coscienza 2 . Andrea Tron cercò di proteggere Fabro, ma dovette cedere. Il successore prescelto, Alvise Guerra non era meno convinto giurisdizionalista, ma era prudente abbastanza per citare «l'autore, l'anno, il libro, la pagina», avendo cura che i suoi autori non fossero stati condannati da Roma'. Fabro fu sacrificato per aver abbandonato un momento questo prudente cabotaggio erudito. Altri professori in altre terre italiane si erano posti alla testa del moto di quegli anni, non senza talvolta difficoltà e
contrasti con i governi: Genovesi a Napoli, Longo a Milano, Paciaudi a Parma. A Venezia anche le modeste parole del professor Fabro potevano suonare come una minaccia e furon punite come un'eresia. Il ritorno a Paolo Sarpi doveva restare uno strumento dell'azione politica quotidiana del Senato. Inaccettabile diventava invece chiunque volesse mettere in discussione la chiesa e la religione. Contin, Fabro, Pilati (che a Padova pensò un momento, come vedremo, di diventare professore) fecero ognuno a modo proprio l'esperienza di questo invalicabile limite. Quali fossero le conseguenze ultime, sul piano pratico, economico e politico, del conflitto tra chiesa e stato riconobbe, in quegli stessi anni, con particolare acutezza il solitario economista veneziano Giammaria Ortes. All'inizio del 1771, ormai sessantenne, egli pubblicava la sua prima opera importante, gli Errori popolari intorno all'economia nazionale, considerati nelle presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento dei beni'. Si presentava come l'anti-Montegnacco, come il convinto e deciso difensore delle proprietà ecclesiastiche. Non discuteva, come Mamachi, il problema delle legittimità, del diritto della chiesa. Non poneva neppure un momento in dubbio la religione stessa, le sue forme e la sua moralità. Per Ortes queste non eran cose da discutere, ma da accettare senza riserve. Il suo era un punto di vista diverso, quello dell'analisi economica dei possedimenti ecclesiastici, sola capace, ai suoi occhi, di misurarne la funzione e il valore. Economicamente, la religione era uno dei tanti servizi (Ortes li chiamava «occupazioni») forniti da un gruppo di persone, i chierici, alla comunità, esattamente come i fabbricanti di cuffie, i setaioli ecc. Il numero degli ecclesiastici era determinato dalle esigenze di questo servizio. Le rendite di cui essi godevano ne erano la naturale ricompensa. Per loro come per gli avvocati, ad esempio, la rendita doveva «desumersi non men dalla quantità che dalla qualità dell'occupazione e non men dal tempo di sua durata quanto dall'importanza e reputazione per essa» 2 . Il dato fondamentale da misurare era perciò quale fosse la parte di reddito nazionale di cui godevano gli ecclesiastici. Che poi questo reddito derivasse da proprietà terriere, da decime o da offerte di diverso genere era un fatto che aveva il suo peso e significato sociale, ma, economicamente, quel che bisognava innanzi tutto conoscere era l'entità della rendita. Il calcolo di Ortes riguardava uno stato di due milioni e
GIUSEPPE GULLINO, Una riforma ecclesiastica cit., p. 55. MARINO BERENGO, La società veneta alla fine del '700, Sansoni, Firenze 1956, pp. 176 sgg.; GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 39 sgg. e 138 sgg. e ARTURO CARLO JEMOLO, Stato e chiesa
Il libro usci senza indicazione d'editore e di luogo e fu stampato a Bologna, ben sapendo l'autore che difficilmente avrebbe potuto esser licenziato dalla censura veneziana. Persino a Bologna Ortes dovette superare non pochi ostacoli. Cfr. GIANFRANCO TORCELLAN, Scritti editi e inediti di Gianmaria Ortes, in ID., Settecento veneto cit., p. Io e ID., Un economista settecentesco Gianmaria Ortes,
,
2
Cfr.
cit., pp. 78 e 387 sgg. In questi studi è indicata l'ampia bibliografia anteriore, tra cui soprattutto BIAGIO BRUGI, Una gloria politica della Serenissima, in «A. Ist. ven. sci. lett. ar . », torno LXIX (1909-Io), parte I, pp. 167 sgg. 3 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., p. 39.
ibid., pp. 91 sgg. 2 Errori popolari intorno all'economia nazionale considerati nelle presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento di beni, s. 1. (ma Bologna) 1771, p. 6.
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Capitolo sesto
158
mezzo di abitanti, con un reddito nazionale (o, come diceva, di «rendite annuali») di cento milioni di scudi. Calcolava cioè, come è facile vedere, sulla repubblica di Venezia. Le rendite derivate da «beni stabili» costituivano i 3/ 20 del reddito nazionale. Di questi, due terzi erano in mano ai nobili, un terzo agli ecclesiastici. Le «rendite di chiesa, mobili e incerte » rappresentavano circa un milione di scudi annui, r / i oo del reddito nazionale, pii o meno lo stesso di quanto avevano «i fabbricanti di nastri, cuffie, mantiglie e simili abbigliamenti donneschi». Se si sommavano le rendite fondiarie (r /20 ) con quelle di diverso genere (i / i oo ), ne risultava che «3/5o delle rendite comuni era nelle mani degli ecclesiastici, circa 6 milioni di contro a 94 dei laici»'. E allora perché tutte quelle polemiche contro le ricchezze del clero e tutti quei timori che i laici venissero assorbiti, inghiottiti dai chierici? Semplicemente perché si era confusa la rendita con i possedimenti fondiari. Se questi erano un terzo di quelli esistenti, ben diverso era il rapporto - che solo contava — tra la porzione di reddito nazionale usufruito dai chierici rispetto a quello dei laici. Anche le rendite fondiarie, del resto, come ogni altra rendita, andavano agli ecclesiastici soltanto e unicamente in funzione dei servizi che essi fornivano alla società. «L'ecclesiastico possessor di beni non può computarsi che come un laico che li possieda per la professione ecclesiastica, come il nobile, il calzolaio, l'arrotino » 2. I chierici avrebbero potuto assorbire e dominare i laici soltanto se avessero essi compiuto tutti i lavori, tutte le funzioni da questi esercitati. Assurdità e paradosso che serviva a metter sempre pii chiaramente in luce la concezione che Ortes si faceva della chiesa come servizio in mezzo agli altri servizi. «L'ecclesiastico, il curiale, il lanaiolo, il setaiolo o altro qualunque occupato dee tanto acquistar di beni comuni per la sua occupazione quanto corrisponde alla quantità, qualità e meriti dell'occupazione stessa, o quanto equivalga e corrisponda al capitale o di dottrina salutare o di dottrina forense o di lana e di seta o simil altro col quale soccorre la nazione intera in queste sue rispettive e particolari esigenze»'. Tanto è vero che sempre la funzione e il prestigio degli ecclesiastici era stato misurato dalle ricchezze da loro accumulate, «imperciocchè è certo che siccome le ricchezze dan credito e la povertà dà discredito ad ogni stato e condizione di persone e ad ogni genere o maniera di professione, cosí non è possibile che lo stesso non avvenga in proposito ancora dello stato e della professione ecclesiastica, la quale, quantunque pii eccellente di tutte le altre, in ge-
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Errori popolari intorno all'economia nazionalecit., pp. 57-5 8 . Ibid., p. 23. 3 Ibid., p. 3o.
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Cacciata dei gesuiti dal Portogallo. L'angelo vendicatore atterra e costringe alla fuga i sodomiti, i regicidi, gli «exécrables Jésuites». Tranquilli navigano ormai, nel porto di Lisbona, le navi protette dallo scudo della monarchia (pp. 3 sgg.).
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la precedente è opera dell'incisore garez, « à Lisbonne, chés BonnarL'immagine di Malagrida in carce:compagnata dall'augurio: «Quoy, es fers un Prophète, un Apôtre, gne fils de Loyola. I Bon Dieu que it-ils tous là I Pour leur salut et e nôtre» (pp. 17 sgg.).
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3. I tre gesuiti accusati di tentato regicidio. Nelle iscrizioni si legge: «Attentat commis sur S. M. le Roi de Portugal le 3 sept. 1758. Les jésuites principaux chefs de la conspiration». «Religion des jésuites, parricide des rois. Gabriel Malagrida, Jean de A. Sales, Jean Alexandre et autres jésuites ». Nei quattro angoli i simboli di «Rome, France, Espagne, Portugal». In basso: «Au dieu préservateur et vengeur des rois. Ces pères, à la tête de plusieurs autres de leurs [sic] Société, ayant engagé les Grands de l'Etat dans leur conspiration contre la vie du Monarque, pour se venger de leur expulsion de la Cour, méritée par des forfaits inouis, ont été mis dans les fers, où ils attendent leur jugement». « Poison, Fer, Feu ». « O société perturbatrice de l'église et des royaumes ». « Foris canes venefici, impudici, homicidac et idolis servientes », Ap [ocalypsis] 2.2 (pp. 1 7 sgg.).
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4• L'attentato al re del Portogallo e la punizione dei colpevoli in una stampa coeva, quasi certamente veneziana. Nelle diciture si legge: «Andando il re del Portogallo ad un luogo di delizie viene assalito e da una archibuggiata colpito in un braccio, dandosi gli assalitori ad una precipitosa fuga». « Gli undeci [gennaio 1759] si adunò il tribunale per incombere al giudizio dei rei dell'attentato commesso contro al re e la sessione durò fino alla mattina appresso ». «Il di 13 gen. 1759 all e otto del mattino viene decapitata la marchesa di Tâvora doppo aver francamente parlato al popolo dicendo aver ella meritata la morte per la sua indiscretezza ». « Il marchese di Tâvora Giuseppe Maria, figlio secondogenito, viene coricato sopra una macchina fatta a croce e nel mentre che il giustiziere lo strangolava, due altri gli ruppero le membra». «Allo stesso suplizio sogiacque il terzo figlio della marchesa di Tavora e '1 conte Atouguia suo genero, due domestici del duca d'Averio e uno del vecchio marchese Tâvora, lo stesso marchese e finalmente il duca d'Aveiro». «Antonio Alvarez Ferreira e l'effige di Gioseffo Policarpo d'Azevedo vengono attaccati ad un palo, dove con materie combustibili, doppo aver riconosciuti li corpi estinti de giustiziati, furono arsi e consunti e getate le ceneri al mare». Questa cronaca figurata venne largamente diffusa in Italia, contribuendo a suscitare curiosità e orrore per i tragici avvenimenti portoghesi (p. 1 7, nota 2).
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5. L'arrivo nello Stato Pontificio dei gesuiti cacciati dal Portogallo e dalle corti borboniche. Sullo sfondo, Civitavecchia. In cattedra, il generale dei gesuiti, piangente, prende conoscenza de « la foudre qui vient d'être lancée contre nous...» Una lettera, a terra, constata che «la consternation s'est répandue dans nos esprits à la vue de nos malheurs...» Come si legge nei versi che accompagnano la scritta: «La Vérité triomphe et nous sommes détruits; On a de nos projets sçu percer les abîmes. Par un flatteur espoir nous étions trop séduits, De nos propres desseins nous sommes les victimes. De trois puissants Etats exilés sans retour Daignez nous recueillir après ce triste orage L'exil qui nous amène en ce nouveau séjour, I Vous le sçavez hélas est votre propre ouvrage. I Voyez nos compagnons qui du même malheur Attendent en tremblant les atteintes funestes Hélas, nous le voyons, quels excès de douleur! De l'Ordre rien ne peut sauver les tristes restes». I numerosi errori con cui viene stampato questo testo fa pensare ad una origine non francese (p. 7, nota 4).
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ant'Ignazio di Loyola, flagello dei demoni. ImIagine spagnola di propaganda gesuita che cirolò anche in Italia (pp. 22 sgg. e 44 sgg.).
8. Clemente XIII, il papa che tentò di opporsi ai regalisti, ai giansenisti, ai riformatori e agli illuministi (pp. 65 sgg.).
II . Uno dei più tipici esempi di contropropaganda gesuitica. Incisione dell'opuscolo
La verità difesa col disvelarsi nella sincera esposizione de' fatti sinistramente accennati contra la Compagnia di Gessi da' celebri rifiessionisti, opera dell'AccadeFfUWCl5CUS 1'ET'^ SÖC-iESt! "'„ ^! v;^,,,,r rr^ ^:ú; "r",mur "l uM öóv£ elm g ay '77., vamr suc x
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a massiccia figura di papa Rezzonico, Clemen-
s XIII, incombe in atteggiamento benedicente Padova, nel Prato della Valle (pp. 65 sgg.).
Il gesuita Francesco Pepe, nemico di Muratori, ideatore dell'obelisco del Gesti Nuovo, animatore della plebe napoletana (pp. 26, nota).
mico, tra pescatori, Cratilidi Colliado, fatta dare alle stampe da S. F. il Signor D. Trojano Spinelli, a spese di Antonio Zatta stampatore veneto, Firenze (in realtà Venezia) 2761. Vi si legge: «Protexisti me Domine a conventu malignantium », «Scuto circumdedit me veritas eius », «Liberavit me Deus de laqueo venantium et a verbo aspero». A destra si vedono i due autori delle «Rif[lessioni]» e dell'« Appendice] », protetti e ispirati dal diavolo. A destra in basso: «Presso A. Z.[atta]» (pp. 22 sgg.).
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DICHIARAZIONE
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DEL PARLAMENTO Matta dai Regiflri del Medefimo del dr 6. Ago(lo 1761. Tradotte dal Franceft full' imprefone di
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PARIGI per G. Simon Stampatore del Parlamento,nella fgada del l'Arpa all'Ercole 176r. Si vende in Venezia da Giufeppe Bettinelli h
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13.
Il papa vende insegne episcopali e reliquie. Bolle e decreti vengono smerciati nella romana «Banque d'iniquité» (pp. 31 sgg.).
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1 4. Uno degli innumerevoli opuscoli attraverso i quali venne fatta conoscere in Italia la campagna dei parlamenti francesi contro la Compagnia di Gesti (p. 31, nota
.
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r2.
Incisione francese contro i traffici commerciali internazionali dei gesuiti. In alto: «Laur[ent] Ricci, gén[éral] de la Soc[iété] de Jésus, roy du Paraguay, prév[ôt] des march[ands] de l'univers». Due gesuiti con un pugnale ed una coppa di veleno ed un terzo con una «Lettre» «[à] la vue» (di cambio) e dei fagotti di «diamant », «rubis», «perle». « A ces signes, mis en vos mains, Vous vaincrez toute âme indocile, I Fils d'Ignace, à tous les humains I Allez prêcher cet Evangile». E pila sotto: «Grand monarque, de grâce épargne ma sellette. I Garde toi d'envoyer au Pont-neuf Lavallette. I Je suis roy comme toi. Que chacun ait son bien. Ton trône est un bureau, ma sellette est le mien». In basso, sotto l'insegna «A Saint Ignace», sta un «Magazin de toutes sortes de marchandises, en gros et en détail», dove si vede una «Pharmacie», con «ambre», «thériaque», «tafia» (acquavite di zucchero), «sucre», «indigo», cosí come dell'«étoffe de Perse», «dentelle», «ballon d'or et d'argent». In basso, una sorta di ironica pubblicità: «Messieurs, sur la vieille méthode I Cessez de régler votre goût. I A Saint-Ignace on vend de tout. I Voici les marchands à la mode» (pp. 3r sgg.).
La cacciata dei gesuiti dalla Francia. «Regis, regni, ecclesiae hostibus debellatis ». « Jesuitarum Societas irrevocabiliter exclusa. J. C. vi Aug. MDCCLXII»
(pp. 31 sgg.).
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16. Come spiega la didascalia, il Parlamento parigino, con la sua sentenza del 6 agosto 1761, ordinava l'abbruciamento per mano del boia dei più famosi libri della Compagnia di Gesú. Proibiva inoltre ai gesuiti di ricevere altri novizi e ordinava « tous pères et mères de retirer leurs enfants des collèges de la Société». «Ad majorem Dei gloriam» i magistrati spezzavano cosí la cultura gesuitica. I giovani allievi uscivano felici dalle «perverse scuole » in cui erano stati rinchiusi (pp. 32 sgg.).
1
7.
Con lo stesso decreto illustrato a fig. 16 il Parlamento di Parigi dichiarava che i ragazzi che avessero continuato i loro studi nei collegi, pensioni, seminari dei gesuiti non avrebbero più potuto accedere alle università e a tutte le cariche civili e municipali, cosí come a ll e pubbliche funzioni. La giustizia armata difendeva cosí i giovinetti, ingiungendo al gesuita: «Vrai racoleur d'enfans, retire toi, ou je te perce ». Citazioni bibliche venivano usate per trattare ormai i membri della Compagnia come degli appestati. Incisione di De Montolais (pp. 32 sgg.).
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i8. Il cielo assicurato a tutti i seguaci e scolari dei gesuiti. «Quelle ressource immense en de nombreux collèges, I Où l'adresse aux enfans peut tendre mille pièges, I Offrir de notre corps un tableau séduisant, I Vanter de nos travaux le détail amusant, I Flatter l'un par l'espoir d'être un grand personnage, I A l'autre en traits brillants étaler l'avantage I De voir prôner par tout ses talens, ses vertus, I Ouvrir le ciel à tous et leur montrer Jésus, I Qui se hâte à la mort d'y donner une place, I A qui s'offre couvert de la robe d'Ignace » . Incisione di De Montolais (pp. 32 sgg.).
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AGLS STUDJ
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F.PAtiLO SERVITA • RACCOLTE ED.DRDINATE
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FRANCESCO qRISELENTR VENEZIANO, Delia venin Accademia dell' Itlinlsu . delle Scienze di Bologna. EDIZIONE
SECONDA,
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20-21.
Paolo Sarpi: punto di partenza del movimento riformatore veneziano degli anni sessanta. Diogene ha trovato l'uomo: «Paulus servita ve.[netus] sereniss.[imae] reipub.[licae] venetae theologus » . «Tandem hominem inveni cuius sapientia caelo I lapsa oculos aperit regibus et populis» (pp. roi sgg.).
22.
I magistrati veneziani pongono un argine alla avidità dei gesuiti. « Arrêt du Conseil des xL sénateurs de Venise. Extrait des registres du 3 may NIDCCLxI. Maisons professes des Jésuites déclarées incapables de tout héritage. Le noble Lazzari autorisé à disposer à son gré du fonds de quatre cens mille ducats, valant r 200 000 lires monnoye de France. La république de Venize, sous la figure de la justice tient d'une main ses balances et de l'autre son épée. A droite est un jésuite qu'elle menace, à gauche est le seigneur Lazzari. La justice, par ses balances, qui penchent du côté du suppliant, donne à entendre qu'elle juge en sa faveur; plus bas est une Lionne Couronnée tenant entre ses griffes une épée et un écusson chargé d'une tête de lion et de la figure de S. Marc l'évangéliste protecteur de la République. Enfin sont deux ancres suspendus qui désignent l'espérance et le commerce de la nation. "Legs considérable enlevé à l'avidité jésuitique. I Jésuite, borne ici le cours d'une avarice I Qui te rendroit un jour maître de l'Univers. I Laisse aux vrais héritiers un bien que ma justice I Enlèvera toujours à tes desseins pervers" ». È firmato: De Montolais. Ironicamente l'incisione viene data come stampata: «A Venize, chez Zatta» (p. 503).
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r; et rnc'raAtltizfacfa suntúz terra; Fer. c. s. 3o. rlterrY7 23. La più importante delle incisioni veneziane antigesuitiche ed una delle più significative tra le molte apparse in quegli anni nell'Europa tutta intera. In una prospettiva che deriva evidentemente dal Cinquecento veneziano, dall'età di Paolo Veronese, una folla di nobili, di guerrieri, di monaci si lascia indurre da un teologo gesuita, appoggiato su una serie di celebri nomi di teologi della Compagnia a contemplare la scritta che viene loro indicata: «Nolite cogitare», tratta dal Vangelo di Matteo. Gli autori gesuiti che portano queste conclusioni sono esposti sui gradini. Nella scritta in alto si legge: « Numquid super his non visitabo aut super gentem huiscemodi non ulciscetur anima mea! lerem. c. 5.29 ». «Ego, ego sum, ego vidi, dicit Dominus.
Ier. c. 7.11 ». In basso: «Stupor et mirabilia facta sunt in terra, Ier. c. 5.3o ». «Interrogate gentes, quis audivit talia horribilia, quae fecit nimis Virgo Israel? Ier. c. 18.13 ». Questa incisione si trova inclusa in Raccolta di varie scritture e documenti sugli affari presenti dei pp. gesuiti, Giuseppe Bettinelli, Lugano (in realtà Venezia) 1761, e, anche più tardi, all'opuscolo: Delle filiazioni gesuitiche o sia i gesuiti occulti, terza edizione veneta, Giuseppe Bettinelli, s. 1. (ma Venezia) 1767. Fu insomma adoprata dal noto libraio Giuseppe Bettinelli per illustrare la sua vasta praduzione antigesuitica. Secondo quanto ha avuto la cortesia di scrivermi Giuseppe Mazzariol questa incisione è da attribuire a Pietro Antonio Novelli (pp. 104 sgg.).
t giustizia e la verità prevalgono sulla tradime monastica. Re e principi s'inchinano apovando. Una turba di ecclesiastici, sullo sfondo, tto il sole della verità accetta dubitosa il vertto. Le iscrizioni dicono: «Iustitia et veritas ». >sppensus es in statera et inventus es minus hans. Dan. c. V, v. 27» (p. r o).
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25. «Ubi sunt divitiae multae, multi et qui comedunt eas. Eccles.» Incisione che illustra Girolamo A. Costa, Istoria dell'origine e del progresso delle rendite ecclesiastiche, Guglielmo Zerletti, Venezia 1769 (p. 1I
nrr• nt, ynAra , AtYCrtz [rt c/ILO YDJ Sfrlr7lrrJ .1[znctrLr /u`o ft/1E/rt./Co Vo.r r'eyerr F.cclç^iartt Dec srl. so:
o). 26. « Attendite vobis et universo gregi, in quo vos Spiritus Sanctus posuit episcopos regere Ecclesiam Dei, Act. 20.28 » (p. Iu).
27. Frontespizio dell'opera da cui è tratta la figura precedente. Tipico esempio del vasto interesse veneziano negli anni sessanta per le questioni giurisdizionali e chiesastiche (p. I1 1).
ERICIA o
LA VESTALE DRAMMr4 FRriNGESE TRADOTTO IN VERSI SCIOLTI ITALIANI DA
BIALGERAT POI rA ARAao.
AMSTE R DAM i7 6 y
29.
Dramma di Fontenelle: uno dei principali documenti della polemica contro le monacazioni forzate (p. 116).
}t0 1'i-wl)lc[lÌJt, 6c°71 Or c47na7. rc.? / 'ci from() cYaropnzLO^varG^11^."ic^., .
FRA GIOVANNI aca per forza. «O Dio vendicator, ben or conosco, •oppo caro prezzo il ver dal falso ». Incisione di a Valesi (p. 116).
COMMEDIA. 31. Fulcra Lavern¢,
Do ,,M> falten ; da iuflum , fo. ne tunrgtre vvderi. Nocteo peccan t , fraudd u. eSim e mdkrru. Horst .
3o. La piú forte satira italiana contro i frati, di Carlantonio Pilati, stampata a Coira nel 1769 (pp. 117 e 3 0 7 sgg.).
Nel quadro di Pietro Longhi sta tutto il variopinto mondo dei regolari veneziani, proprio negli anni in cui esso cominciava ad essere intaccato da ll a politica del Senato. In uno scritto autografo, incollato sul retro di questo quadro si legge: «Monaci, canonici e frati di Venezia ed isole vicine in tre ordini. Primo ordine. Quelli che godono il buon tempo. San Salvatore, La Madonna dell'Orto, Sant'Elena, La Carità, S. Bastia, Carmini, Frari, Santo Stefano, Pauloti. Secondo ordine. Quelli che studiano. Un Domenicano, un Gesuita, un Servita, un Benedettino nero, un Sommasco, un Teatino. Terzo ordine. De divoti. Cappuccini, San Clemente, Cestorini, Scalzi, Riformati, Gesuato. Ed un Francescano già noto che compisce l'assunto» (pp. 117 sg.).
RAGIONAMENTO IN T u R N o A'BENI TEMPORALI '
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DAGLI ECCLESIASTIC! E da quelli tutti, che fi dicono Mani mote.
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33.
34.
La Repubblica di San Marco fa giustizia tra la campagna e la chiesa, tra laici ed ecclesiastici. Frontespizio di una delle edizioni dell'opera pii importante di Antonio Montegnacco (pp. 132 sgg.).
Il diavolo disti ll a documenti e memoriali che passa ad un gruppo di preti e frati intenti a difendere i loro beni e privilegi. La stampa accompagna l'opera di Mon tegnacco il cui frontespizio è qui riprodotto (pp. 1 35 sgg.).
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32. «Tenebrae ea rn non comprehenderunt ». La battaglia dei cavalieri e dei frati illuminata da ll a nuda ragione. Incisione dell'opera di Tommasio Antonio Contin, Riflessioni sopra la bolla In coeva Domini, a spese dell'autore, Venezia 1769 (pp. 124 sgg.).
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35. L'ultima e la pii energica polemica di Montegnacco contro le mani morte (pp. 135 sgg.).
36. Chierici e laici contribuiscono al bene dello stato e al sostentamento dei poveri. «Reddite ergo cui tributum tributum ». «Ministri enim Dei sunt in hoc ipsum servientes », San Paolo, Rom. XIII. Disegno di Pietro Novelli e incisione di Dion[igio] Valesi. Incisione che accompagna l'opera di Tommaso Antonio Contin, Il diritto e
37. Mamachi, cane latrante, viene colpito dai riformatori, illuminati dall'ignuda sapienza. Illustrazione dell'edizione veneta dell'opera di Salvatore Spiriti, Dialoghi de' morti, stampata a Venezia da Giuseppe Bettinelli, Giuseppe Bettinelli, Venezia 177o (p. 203).
la religione giustificati dall'autore delle Ri-
flessioni sulla Bolla in coeva Domini contro le declamazioni dello scrittore Del diritto libero della chiesa di acquistare e possedere beni temporali si mobili che stabili, Antonio
Graziosi, Venezia 1773 (p. 203). 38. La Compagnia di Gessi riceve un colpo dopo l'altro dai monarchi europei e ovunque i suoi membri vengono cacciati. «Per me reges regnant». «1. Sinedr.[ium]. 2. Despota. 3. A It. [alia]. q. A Gal.[lia]. S. A. Lus.[itania]. 6. A Hisp.[ania]. 7. A Ger.[mania]. 8. Aulici. Incisione che accompagna l'opera di Salvatore Spiriti, Osservazioni su la carta di Roma col titolo Litterae in forma brevis... con la giunta delle provvidenze pubblicate da molte corti d'Europa su tal dipendenza, nuova edizione veneta, Giuseppe Bettinelli, Venezia 1769 (p.
226).
40.
3i
Il papa Clemente XIV, ispirato dallo Spirito Santo e pregato dall'ambasciatore spagnolo José Monino, conte di Floridablanca s'induce, il 21 luglio 1773, a sopprimere la Compagnia di Gesù. Accanto i cardinali A. Corsini, M. Marefoschi, F. Carafa, F. S. de Zelada, A. Casali e i due prelati V. Macedonio e O. Alfani (pp. 331 sgg.).
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39. Clemente XIV a cavallo nel corteo che si dirige, «solemni equitatu », verso la chiesa della Minerva il giorno della festa dell'Annunziata, il 25 marzo 1770. Incisione dedicata al cardinale Lazzaro Opizio Pallavicini, dapprima nunzio in Spagna e poi segretario di stato, da Giordano Domenico Porta, incisa da Domenico Cunego, a Roma 1770 (pp. 326 sgg.).
41.
Congregazione cardinalizia insediata il 9 agosto 1773 per l'esecuzione del Breve di soppressione dei gesuiti. Il disegno è di T. Conca e l'incisione di D. Cunego (pp. 335 sgg.).
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42. Medaglie coniate per papa Ganganelli. Dalla Storia della vita, azioni e virai di Clemente XIV, Gact, Cambiagi, Firenze 1768. Come si legge a pp. 182 sgg.: «La prima rappresentava nel suo diritto del santo padre, all'intorno di cui erano scolpite queste parole: "Clemens XIV Ganganellus. vaden. po max." e nel rovescio d'essa appariva l'effigie del divin redentore prostrato in terra ed oppresso dal pesa' carico della sua croce sopra le spalle con questo motto in giro: "Factus est principatus super humer . eius". La seconda esibiva nel suo diritto l'effigie del papa col giro di queste parole: "Clemens XIV pe r fex max." e nel rovescio scorgevasi da una parte Cristo co' suoi apostoli e dall'altra opposta alcuni gesi . in atto di partire confusi, con questo detto all'intorno: "Nunquam novi vos: discedite a me omnes". Sot: piano di queste figure leggevasi pure quest'epigrafe: "Exauguratae societatis memoria anno MnccLxxur domino factum est istud". La terza medaglia, onorevole più dell'altre alla memoria dell'ottimo nostro pon fice, portava nel suo diritto il busto di Clemente sovrapposto ad un cippo fra due geni gravati de' simb della chiesa ed a pie' di quello si vedevano sedenti le quattro virtù caratteristiche del defunto eroe, sapi: : za, pietà, affabilità e concordia... Nel rovescio, al destro lato di un'ara v'erano tre figure, che dagli sce stemmatici posti ai loro piedi si scorgevano per geni de' tre regni di Francia, Spagna e Portogallo, c' stendevano in alto le rispettive loro destre porgendo tre memoriali che, posti su d'una bilancia da un nietto alato sovrastante all'ara, si vedevano preponderare e però al corrispondente lato si leggeva la vor "exaudit". Sull'ara stessa vi stava la figura del pontefice... in atto di scacciare col piede della croce patriar, . le tre altre figure muliebri esistenti al lato sinistro dell'ara suddetta, una delle quali l'ipocrisia si vede r prostesa in terra supina colla maschera in mano, l'avarizia e l'ambizione in atto di fuggire e v'era da que' parte il motto: "repellit". In facciata dell'ara suddetta era scolpita la seguente iscrizione: "praeclaru certamen orbi christiano strenue certatum" e nell'esergo il nome dell'artefice: I. C. Reich. Fe. [JohaChristian Reich fecit]» (p. 337, nota 2).
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43 Contro Roma, rappresentata come la gran bestia dell'Apocalisse, muovono, salutati dagli angeli, i guerrieri degli stati cattolici dell'Europa tutt'intera. La soppressione de ll a Compagnia di Gesù, decisa il 21 luglio 1773, viene interpretata come una loro straordinaria vittoria. Incisione francese (pp. 335 sgg.).
L'Italia anticuriale: Venezia
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44. Bibliotheca Loiolitica. Incisione tratta dall'opuscolo intitolato Lezione salutare alla gente timorata di dio sopra l'empie massime de' benemeriti gesuiti, terza impressione, nell'elet-
trica stamperia pichiana di Monte Porzio, MDCCLXXII. Là si legge: «r. Li fulmini figurano l'editto reale che manda alle fiamme li libri lojolitici. Ite maledicti in ignem aeternum. 2. Rappresenta Lucifero che tenta di riparare la ruina. Diabolus stat a dextris eius. 3. Il padre generale Ricci che, cadendo dal trono, sostenuto da tali diaboliche massime, disperatamente dice al diavolo: Sta super me et interfice me. 4. Una monaca terziaria, che attentamente medita Benzi, il quale Posuit carnes sanctorum bestiis terrae. 5. Un soldato terziario che, leggendo Suarez, grida Non habemus regem nisi Caesarem Riccium. 6. Una zitella e una maritata terziarie che profittano della lezione di Sanchez: Juvenes comedit ignis et virgines non sum lamentatae. 7. Ecclesiastici terziari ebbri dallo studio di Escobar. Uva ejus uva fellis, fellis draconum vinum eius. 8. Regolari terziari che scartabellano Berruyer: Meditati sunt inania adversus Dominum et ad versus Christum ejus» (pp. 326 sgg.).
45. Incisione che accompagna l'opuscolo Messa della defonta compagnia loiolitica, impressa nella stamperia de' sicari, con licenza de' supc riori. Nella scritta: «Prospetto della macchina funebre esposta nella casa professa di Roma per la morte del p. generale Lorenzo Ricci » Sopra una gradinata costituita dai sette peccati capitali sta un catafalco dove si legge: «Mortuus est dives et sepultus est in infer ». A sinistra il Sinedrio, a destra l'asino morto de] probabilismo. La messa, iniziata con l'invocazione: «Kyrie eleyson, deleatur Societas, synagoga impiorum », continua con preghiere per la fine della « Jesuiticam hypocrisim» e perché «in hoc illuminatissimo saeculo» si compia « eorum dispersionem et sempiternam abolitionem». Si leva poi un canto: «Dies irae, dies illa Solvet Riccium in favilla... I Hic est Ricci florentinus I Frater Diaboli cuginus Semper illi stans vicinus... I Lusitanus rex sedebit, I Gallispanus tune ridebit I Nil absconditum manebit... E cosí parodiando, tutto il rito: il Pater è cosi trasformato: «Pater noster qui es in coelis, societas ista vilescens nomee tuum, fac, ut non veniat ad Regnum tuum, quia falso et temere dominari credit in coelo et in terra. Panem nostrum quotidianum to ll e illi hodie, nec dimitte et debita ejus sieut non dimittit debitoribus suis et ea rn iudica in damnationem et ne liberes eam a malo» (pp. 326 sgg.). .
159
nere però di economia comune e di possesso di beni per essa, non è contraria alle regole di equità generale colle quali procedono le altre e dee anzi procedere in conformità a queste regole» '. Proprio questa libertà e volontà di assicurarsi le rendite necessarie alla propria funzione costituiva la superiorità del mondo moderno rispetto a quello antico e dei paesi civili rispetto a quelli che lo erano meno o affatto. Schiavitú e servitú erano esistite nell'impero romano e esistevano ancora nella Russia moderna. Soltanto la loro abolizione e la sostituzione con una libera competizione spiegava «la ragione per cui le arti tutte, meccaniche, liberali, scientifiche e politiche si trovino fra noi al presente molto phi perfezionate di quel che fossero ad altri tempi» 2. Come tutti gli altri, anche i chierici dovevano adoperarsi per procurare «per la loro professione il phi che sia possibile di beni per farne il migliore possibile uso » 3 . Ma perché allora tutta la polemica e la lotta attorno alle mani morte, perché tutta la battaglia giurisdizionale? Ortes non negava vi fosse in essa un rimpianto d'altri tempi, di epoche di miseria, di schiavitú, d'un meno libero gioco delle umane «occupazioni». L'idea di attribuire al precetto cristiano di povertà e di carità il significato di rinuncia al lavoro per attendere di esser nutriti da altri, o ancora la tentazione che qua e là si affacciava di trarre da questi precetti religiosi una conseguenza egualitaria ne erano prove palesi e convincenti. Ma troppo aderente ai problemi economici intendeva essere Ortes per soffermarsi molto su simili storture. La radice maggiore delle dispute moderne stava, secondo lui, nella concorrenza tra i due tipi esistenti di proprietà fondiaria, quella nobiliare e quella ecclesiastica. I nobili, possessori già dei 3/2o delle rendite tendevano ad allargarle a scapito dei chierici, che ne avevano 1/2o. Dispute tra proprietari che potevano anche lasciar indifferenti tutti gli altri abitanti della repubblica. «Tutta la gara per trasportar esse rendite dagli uni agli altri doveva bensí interessar molto quei particolari medesimi chierici o nobili tra i quali vanno esse divise senzaché perciò la nazione se ne interessi in modo alcuno» °. «La nazione sarà certamente sempre indifferente se i beni raccolti da una tenuta sian raccolti da terre tenute da un vescovo o da un marchese» 5 . Poche famiglie dunque, non la comunità erano interessate alla disputa sulle mani morte. Quel che invece doveva importare a tutti era che i servizi assicurati dalla chiesa fossero adeguatamente retribuiti. Perché questo avvenisErrori popolari intorno all'economia nazionale cit., p. 83. Ibid., p. 109. Ibid., p. itt, Ibid., p. 55. Ibid., p. 56. 7
Capitolo sesto
r6o
se non bisognava, innanzi tutto, porre limite alcuno agli acquisti di beni fondiari da parte dei chierici, né impedimento alcuno ai lasciti, testamenti, donazioni a favor loro. Ben parevano rendersene conto, malgrado ogni apparenza, anche quei governi e sovrani che tanto parlavano di riforme, limitazioni ed espropriazioni. Ortes li sfidava a metter davvero in pratica simili propositi, ad addivenire ad «un simile esperimento », passando dalle «minuzie» a «piti forti risoluzioni»'. Sarebbe stato impedire alla chiesa di compiere la sua funzione. Avrebbe portato all'estinzione del clero. Ma le «nazioni colte e cristiane» non potevano fare a meno dei « servigi che ricevevano e aspettavano dalla religione» 2 . Si voleva davvero tornare alla situazione delle «nazioni barbare e incolte » e rifare a ritroso il cammino dei secoli? Dopo l'invasione dell'impero romano i sovrani avevano a poco a poco imparato a servirsi dei due strumenti indispensabili d'ogni controllo sociale e politico, i feudatari cioè e i vescovi. Se allora, nei primi secoli dopo Costantino, avevano accordato piú alla chiesa che ai nobili era perché si eran resi conto dell'importanza di « governare i popoli phi colla mansuetudine della religione che colla forza delle armi». Anche per Ortes, come per i giurisdizionalisti, le vicende passate delle rendite ecclesiastiche, la loro origine e il loro sviluppo fornivano un indice essenziale per capire la storia del medio evo e dell'età moderna. Ma egli rovesciava il segno delle idee dei suoi avversari: il prevalere dei chierici nel possesso della terra e nel governo degli uomini era sempre per lui indice d'incivilimento e di pace. Soltanto con la lotta delle investiture la situazione aveva cominciato a mutare. Da allora «gli stabilimenti ecclesiastici non solo non si accrebbero, ma sono andati scemando a favore dei nobili...»'. Eppure non si poteva negare che «gli ecclesiastici, nel persuadere nelle chiese quelle massime di verità, di preghiera e di religione insomma » avevano vantaggiosamente affiancato e sostituito nei secoli i nobili, i quali « astringono colla forza nei tribunali civili e criminali e coll'uso ancora dell'armi» ". Si voleva davvero impedire ai chierici, privandoli delle loro rendite, di esercitare questa loro funzione? Come pensare di togliere alla chiesa il suo compito assistenziale? Soltanto gli ecclesiastici, mossi da spirito di carità, animati da un ideale di povertà che nulla aveva a che fare con la mendicità, essendo invece volontà loro adeguare il proprio modo di vita ai propri compiti, erano in grado di svolgere una funzione tanto essenziale. I nobili, per far gli ' Errori popolari intorno all'economia nazionalecit., p. 59. Ibid., pp. 61-62. Ibid., p. 62. Ibid., p. 63.
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L'Italia anticuriale: Venezia
r 6r
ufficiali, i capitani di navi, i governatori chiedevano che un salario fosse aggiunto alle rendite dei loro feudi. Solo gli uomini di chiesa impiegavano tutte le loro ricchezze nell'esercitare la propria «occupazione». Il lusso delle chiese, la ricchezza dei paramenti sacri, l'agiatezza stessa dei chierici aveva una indispensabile funzione sociale, rappresentando un insostituibile incentivo ad attività e lavori che altrimenti neppure sarebbero esistiti. Toccare le rendite del clero era compiere un passo verso l'impossibile idea d'uguaglianza, verso la distribuzione di tutte le proprietà in parti uguali, il che avrebbe immancabilmente significato l'arresto di tutti quei lavori e servizi che costituivano l'essenza d'una società civile, il ritorno a quello stato selvaggio di cui tanto parlava « qualche genio strano di questi tempi», ma a cui nessuno in realtà sarebbe stato capace di adeguarsi. La libertà della chiesa era legata alla libertà d'ogni altra moderna attività economica. Il ragionamento di Ortes era basato sul presupposto di una società in cui poco poteva variare il rapporto esistente tra le varie « occupazioni». Qualche ripresa d'una antica lotta tra nobili e chiesa, qualche lieve variazione nel numero di chierici, tutto ciò non spostava la realtà sociale. Anche là dove la chiesa era del tutto libera, come nello Stato pontificio, la proporzione tra clero e laicato, tra rendite dell'uno e dell'altro non variava di molto rispetto a quella veneziana. Ortes teorizzava questo equilibrio, dicendo che il reddito nazionale di un paese era sempre il medesimo e che non poteva variare se non a causa di un aumento o diminuzione di popolazione. Se i paesi protestanti, come l'Inghilterra e la Prussia, avevano un reddito nazionale minore dell'Italia, ciò era dovuto al loro spopolamento. Presupposto e paradosso che nascondevano il punto debole di tutta la polemica di Ortes sulle mani morte e le rendite ecclesiastiche. Se davvero la chiesa era un servizio tra tutti gli altri servizi, esso doveva necessariamente esser piú o meno richiesto a seconda delle diverse epoche e dei diversi paesi. Ortes accettava il fatto che la chiesa aveva avuto un compito piú o meno ampio prima e dopo Costantino, Carlo Magno, Federico Barbarossa. Sapeva che la situazione era diversa nei paesi protestanti. Davvero non si chiese mai se nell'epoca moderna, negli anni della sua vita, l'incredulità, l'indifferenza religiosa, che egli ben sapeva sempre piú diffuse, non avrebbero finito col render sempre meno necessario, inutile addirittura il prete o il monaco? Seppe mai che questa precisamente era la convinzione di molti enciclopedisti, del barone d'Holbach, che proprio in quegli anni andava scrivendo che il giudice bastava a reggere la società e che superfluo era ormai il sacerdote? Come mai non si accorse che metter la funzione religiosa in equazioni matematiche era invitare i suoi
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Capitolo sesto
lettori a pensare alla possibilità che una delle varianti — e precisamente la domanda di religione — potesse diminuire sempre piú, scomparire addirittura? Leggendo le pagine di Ortes par difficile escludere che egli si rendesse perfettamente conto di simili possibilità e ipotesi. Tanto teso è il suo ragionamento, tanto paradossali le sue conseguenze, da render facile, quasi naturale, il rovesciamento della sua tesi. Bastava supporre, cosa davvero non difficile, una società in movimento, con forti contrasti interni tra le varie « occupazioni» e in via di trasformazione tecnica ed economica. Quando scelse come suo motto: «Chi mi sa dir s'io fingo? » mise le mani avanti di fronte ad un pericolo che egli sentiva presente e vicino. Con tanta maggior forza egli s'aggrappava alla religione, alla tradizione, avendo rifiutato la possibilità d'ogni riforma. Si chiuse nell'ortodossia religiosa, non per consolarsi, ma per vivere fino in fondo il dramma dell'individuo, del singolo che rifiuta ogni trasformazione della società, che può capire questa soltanto se statica e ferma, fissa nelle formule geometriche che sole permettono di spiegarla. Ortes, come si disse di D'Alembert, era anch'egli un Diogene moderno. Il primo documento della ripresa del giurisdizionalismo veneziano negli anni sessanta era stato il libro di Griselini su Paolo Sarpi. L'incisione che accompagnava questo libro rappresentava il servita come l'uomo di Diogene. Uno dei piú significativi quadri di Alessandro Longhi fu un Diogene. Lodoli aveva fatto sua questa immagine. Ortes è anch'egli uno degli anelli della catena cinica della Venezia settecentesca, cinico anch'egli alla ricerca dell'uomo in un mondo di cui non accettava venisse spezzata l'immobilità '.
' La visione di Diogene dei veneziani settecenteschi continuava e rovesciava insieme quella dei loro antenati del Cinquecento, che del filosofo cinico si erano fatti un «idolo polemico», come ha scritto ANGELO VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Laterza, Bari 1964, P. 37 1 •
Capitolo settimo
L'Italia anticuriale: Napoli
Particolarmente forti e profonde erano, come è ben noto, le radici che legavano l'azione di Tanucci al passato del regno meridionale. Una nuova fase della lunga storia dei conflitti tra Napoli e Roma, tra laici e clero può dirsi tuttavia aver inizio con la partenza del re Carlo per la Spagna, nel 1759, per concludersi nel 1774, quando Tanucci fu costretto a restituire Benevento alla Santa Sede. Rispetto ad altre terre italiane piú serrato fu nel Napoletano l'intreccio dei motivi diplomatici e delle ragioni politiche, dei problemi economici e delle motivazioni intellettuali, come ben sa chi ha percorso lo sterminato epistolario tanucciano di quegli anni, con i suoi continui, bruschi passaggi dalle considerazioni tattiche a quelle religiose, dall'odio e disprezzo per gli avversari alle considerazioni morali piú distese e convinte. Contrariamente a quanto era accaduto in Portogallo, la lotta anticuriale e antigesuitica non apparve a Napoli come un atto d'arbitrio, ma come la conclusione d'una lunga maturazione. Anche la ragion di stato fu meno imperiosa nell'Italia meridionale che in Spagna, da cui pure vennero i modelli d'azione e talvolta gli ordini e le disposizioni. I magistrati, gli alti funzionari ebbero un'azione decisiva nell'uno e nell'altro paese. A Napoli tuttavia piú larga fu la partecipazione di scrittori, di professori, di non pochi elementi del clero. Tutto ciò era dovuto, ben inteso, alla tradizione che risaliva a Giannone. Ma non piccolo fu l'apporto derivante dalla personalità, dalla decisione, dalla riposta passione di Tanucci. Né certo minore fu il peso della generazione andata formandosi negli anni quaranta e cinquanta la quale trovava, nella polemica giurisdizionalista e antigesuitica uno dei suoi terreni d'azione. Tanucci, De Marco, De Leon, per non fare che qualche esempio, furono i politici di questo moto. Genovesi fu il simbolo del nuovo elemento intellettuale, morale, legato ai lumi Le riforme degli anni sessanta posson cosí esser viste come una collaborazione, o meglio una concordia discors del ministro Tanucci e del filosofo Genovesi. Mosso il primo da profonda ripugnanza per la materia umana in mezzo alla quale gli toccava agire, da sempre rinascente vo-
L'Italia anticuriale: Napoli
Capitolo settimo
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lontà di mettere a nudo tutte le brutture che osservava attorno a sé (e una parte sempre maggiore di questo suo disdegno andò concentrandosi in quegli anni sul ceto clericale), ma mosso pure da chiara coscienza poli -. ticadelmsuozideblpotr,Tanucifsve indotto a sperare negli strumenti dell'assolutismo, e magari in ripieghi e compromessi piú o meno machiavellici. Sospinto invece Genovesi da una piú profonda fiducia nella natura umana e nella riforma, cosí come nella capacità di questa, una volta iniziata, di crescere e di espandersi, si mostrò propenso ad operare con la persuasione, con le parole, con l'appello alle coscienze. Le loro vie s'incontrarono spesso, ma non di rado furono divergenti, fornendo nel loro intreccio uno dei più vivi esempi d'incontro tra lumi e potere che sia dato vedere nel nostro Settecento. Da tempo, nel suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, apparso nel 1753, Genovesi aveva esposto, col suo stile pacato e risoluto insieme, íl suo programma su quel che bisognava fare col clero, ridurlo cioè di numero e renderlo utile alla società. E, naturalmente, parlava in prima persona. « Se noi, dopo le cure del nostro principale santissimo dovere volessimo... aver la pazienza e dirò ancora la carità di apprendere l'agricoltura, la teoria del commerzio, la storia della natura, la meccanica, e altrettali attualissime scienze, e di far penetrare nella gente phi bassa i frutti di tali lumi, noi non faremmo niente che mal convenisse al nostro carattere e potremmo arrecare al nostro regno quel giovamento che difficilmente può avere da veruna altra parte di coloro che l'abitano» Gli pesava la mancanza d'un lavoro da compiere, gli pesava la sua situazione sociale che non gli pareva reggere al confronto con gli uomini di legge e con i medici. Saldamente ancorato, dopo le traversie della gioventú, ad una prospettiva economica, Genovesi faceva della riduzione del numero degli ecclesiastici e della riforma della loro funzione sociale uno dei capisaldi del suo insegnamento. Salito sulla cattedra intieriana nel 1754, nella prima versione a noi nota delle sue lezioni, che pronunciò nel 1757-58, aff ermò che il clero esercitava «industria mercenaria e utile perciocché ella fa parte dell'arte di educare gli uomini, senza la quale educazione non saremmo quasi differenti dalle bestie». Ma si affrettò ad aggiungere che «perciocché questa classe vive anch'ella dell'altrui fatighe, ella dovrebbe esser la menoma possibile, vale a dire né piú grande, né piú piccola dei bisogni umani; altrimenti ella pesa al pubblico e nuoce a se stessa» 2 . Genovesi conveniva cosí con i giurisdizionalisti nel `.
Cfr. Riformatori, tomo V, p. 120. corsd del 1757-58 è manoscritto e si conserva a NAPOLI, BN, tato è pubblicato in Riformatori, torno V, p. 225, nota 2. 2 Il
(XIII, B, 92).
Il passo ora ripor-
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combattere il potere cosí come il numero dei chierici. Ma la giustificazione era diversa e scaturiva non da equilibri o contrasti di potere bensí dalla volontà di non sfruttare chi lavora, di servirlo e non di servirsi di lui. Quando si apri la nuova fase della lotta regalista Genovesi cercò e trovò una collaborazione in Tanucci. All'inizio degli anni sessanta appoggiò il tentativo del ministro di imporre a Roma il catechismo di Mésenguy. Non eran certo motivazioni teologiche che lo portavano a questo. Se mai, egli era stato, quando si occupava di queste cose, piuttosto mot linista che giansenista'. Ora, il problema era diverso, pro o contro Roma, pro o contro i gesuiti. Genovesi fu dalla parte dei regalisti come Niccola Fraggianni, Carlo de Marco, e dei riformatori filogiansenisti come il domenicano Alberto Capobianco o, a Roma, Gaetano Bottari. Ben sapeva che contro il catechismo di Mésenguy, essendo « opera molto dotta, i gesuiti avrebbero mossa una guerra » 2 . Suggerí al libraio che si accingeva a pubblicarlo — De Simone, il quale gli andava stampando in quegli anni i numerosi suoi libri — di offrire quest'opera al re, rivestendola cosí d'un carattere ufficiale e si esibí anzi di scrivere egli stesso la dedica. Una copia di questa fu spedita a Roma perché la vedesse Bottari, mentre già a Napoli il nunzio andava «in giro per questi signori della reggenza ad insinuarli di non farla accettare»'. Tanucci si rendeva ben conto che non era facile spuntarla. «Dell'accettazione della dedica — scriveva a Bottari — vedrò, ma non assicuro. Siamo sette voti nella reggenza. Due sono assolutamente gesuiti illusi. Due pretendono di sapere, due non pretendono, anzi ostendono la semplicità naturale...»'. E difatti, la dedica non vide mai la luce 5 . Eran le prime battute d'una intricata vicenda, alla fine della quale Tanucci, malgrado tutto il suo impegno e malgrado cercasse di mettere in movimento tutte le forze di cui poteva disporre nel clero e tra i laici, dovette finire col considerarsi sconfitto. Roma condannò il catechismo e a lui non rimasero che le armi giurisdizionali. Invano aveva ripetuto senza stancarsi che «la proibizione esacerberà l'odio che da tutte le parti scaturirà contro la Compagnia», che la condanna del papa « avrebGIUSEPPE GALASSO,
Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, in «R. stor. ital.», anno 1
Lxxxii (197o), fasc. 4, pp. 80o sgg. 2 PASQUALE SPOSATO, Per la storia del giansenismo nell'Italia meridionale. Amici e corrispondenti di Alberto Capobianco, arcivescovo di Reggio Calabria (con appendice di documenti inediti),
Collezione meridionale editrice, Roma 1966, p. 24, lettera dell'editore Paolo De Simone a G. Bottari, 24 gennaio 1761. Ibid., p. 21, 3 gennaio 1761 e p. 32, 21 marzo 1761. Tanucci attribuiva ai gesuiti gran parte della colpa dell'opposizione romana al Catechismo. Cfr. Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), regesti a cura di Rosa Mincuzzi, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1969, p. 72, 17 marzo 1761. PASQUALE SPOSATO, Per la storia del giansenismo cit., p. 24, 31 gennaio 1761. 5 PAOLA zAMSELLI, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Morano, Napoli 1972, pp. 694 sgg.
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be acceso un fuoco pericoloso», che non era «piú il tempo del despotismo ecclesiastico»'. Ma le minacce e la persuasione non bastavano. Lo stato non aveva «altra arma, né altra briglia del papato che l'exequatur» 2. Fraggianni scrisse una delle sue phi energiche consulte per appoggiare l'azione di Tanucci'. Ma anche l'exequatur, come dimostrava la Spagna di quegli anni, non era strumento facile da maneggiare. Cosf una goccia ancora d'amarezza cadde nell'animo del ministro, ad aumentarne il pessimismo. «Li vescovi son per lo piú in Italia cortigianelli e causidici. La nobiltà ignorante, e la plebe. Di questo ingrassa il porco di S. Antonio e principalmente li gesuiti, la Dataria, li brevi ecc.»'. L'insofferenza per i regolari continuava a crescere in lui: «la canaglia monacale si ficca, intriga, turba, guasta... » 5. La pubblicazione a Napoli del catechismo di Mésenguy non fu che un episodio. I punti di frizione tra Roma e Napoli andarono rapidamente moltiplicandosi dopo il 1 759. « Ces malheurs ont commencé, dit-on, aussitôt après le départ de S. M. Catholique et n'ont fait que s'accroître avec le tems », diranno le «Nouvelles ecclésiastiques» 6. Malgrado l'azione frenante di San Nicandro e d'altri membri della reggenza, ventinove punti di frizione contò la curia in un memoriale inviato nel 17 63 al re di Spagna per pregarlo d'intervenire a Napoli'. La situazione del clero veniva minata da una serie ininterrotta di minute e insistenti riaffermazioni del potere statale Niccola Fraggianni fu il braccio destro di Tanucci in questa sua azione, finché mori, il 9 aprile 1763. La sua scomparsa coincise con l'affievolimento, sia pur temporaneo, dello spirito regalista che veniva da ll a Spagna, quando là fu allontanato dal ministero Richard Wall. Ma intanto anche il conflitto con i gesuiti si era aperto. Quando il padre Gennaro Sanchez de Luna, della Compagnia, aveva osato intervenire nelle polemiche veneziane difendendo il suo ordine, Tanucci gli riPASQUALE SPOSATO, ZO 1761.
Per la storia del giansenismo cit., p. 26, 7 febbraio 1761 e p. 31, 7 mar-
Ibid., P. 39, 4 aprile 1761. Ibid., pp. 188 sgg., 3 luglio 1761. Ne parlava Stefano Patrizi nel suo bellissimo ricordo di Fraggianni che apre le sue Consultationes sacri et regii iuris, Francesco Morelli, Napoli 177o, torno I, p. xx e menzionando pure in questa occasione i rapporti di Fraggianni con Bottari. 4 PASQUALE SPOSATO, Per la storia del giansenismo cit., p. 46, 17 luglio 1761. Ibid., p. 48, 6 ottobre 1761. 6 16 gennaio 1763. 7 VON PASTOR, Storia dei papi, vol. XVI, parte I, 1933, p. 868. Ventiquattro punti erano elencati nelle «Nouvelles ecclésiastiques » dell'U aprile 1763. Cfr. la Relazione dei gravami della giurisdizione ecclesiastica nel regno di Napoli e delle infrazioni del concordato compilata dal nunzio nel 1762, studiata da EGIDIO PAPA, Aspetti di politica ecclesiastica napoletana durante la Reggenza (1759-1767), in « Studi di scienze ecclesiastiche», Pontificia facoltà teologica napoletana San Luigi, Napoli 1961, vol. II, pp. 56 sgg. ROSA MINCUZZI, Bernardo Tanucci ministro di Ferdinando Borbone 1759-1776, Dedalo libri, Bari 1967, pp. 48 sgg.
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cordò duramente il suo dovere di nulla stampare fuori del regno'. I gesuiti furono soprattutto attaccati da una serie di processi riguardanti le proprietà dei loro collegi 2. L'azione legale contro quello di Sora fece particolarmente impressione'. Nel 1764 cominciò ad uscire una sorta di collana di opuscoli stampati nella Tipografia reale, rilegata alla fine d'anno in tomi separati, quasi fosse la collezione d'un periodico. Era intitolata Inquietudini de' gesuiti'. Il primo volume era stato tutto francese di tono e di contenuto. L'eco delle «Nouvelles ecclésiastiques » giungeva a Napoli portandovi una insolita, incongrua preoccupazione apocalittica. «I nostri mali son cosí grandi e hanno per molti capi tanta somiglianza con quelli degli ultimi tempi che, se non sapessimo che restano ancora a compiersi delle promesse a favore della chiesa, avremmo un gran fondamento di pensare che il Giudice Supremo sta alla porta e ch'egli è vicino a venire a fulminare l'anatema su la terra». Sullo sfondo stava la grande crisi cinquecentesca che alla chiesa aveva «tolti popoli e regni interi». «Ella cominciava appena a respirare da questa crisi violenta quando nimici di un altro genere l'hanno assaltata» tentando di riportarla « alla serviti della legge», riducendo «la pietà de' suoi figliuoli a un puro fariseismo». «t sorta nel suo proprio seno una società pervertita nella fede quasi dal suo nascere, corrotta nella sua morale, agitata da una smisurata ambizione di aggrandirsi e dalla passione di arricchire per qualunque strada si sia». L'alba di una nuova epoca, «o almeno la liberazione d'un gran male» era cominciata ' Nuova collezione delle prammatiche del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, torno VII, Napoli 180 4, P. 79. 2 Su tutta la complessa questione dei diversi tipi di proprietà della Compagnia vedi le interessanti pagine di FRANCESCO RENDA, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti, Università di Catania, Facoltà di lettere e filosofia, Catania 1970, pp. 35 sgg. Sulle terre possedute dai gesuiti del Collegio Romano e del Nunziato Romano in territorio di Foggia, a Orta, Ordona, Stornara e Stornarella, cfr. AURELIO LEPRE, Feudi e masserie. Problemi della società meridionale nel '600 e nel '700, Guida, Napo li 1 973, Pp. 83 sgg. E GIO. BATTISTA ELIA, Memoria per D. Pietro Maria. Renzi contro i pp. gesuiti di Sora, e Per D. Pietro Maria Renzi risposta all'ultima scrittura divulgata da pp. gesuiti, zo febbraio 1763 in Inquietudini de' gesuiti, tomo II, 1764. A p. 3 si legge che « la causa... guadagnò l'approvazione cornune non solo degli uomini dotti ed eruditi, ma de' plebei e de' volgari ancora. Questa è la fortuna che suole accompagnar le cause celebri e bene apprese». Le «Nouvelles ecclésiastiques » del 16 gennaio 1763 dicevano «les jésuites humiliés par le procès de Sora ». Ancora nel 1767 il libraio Vincenzo Radici pubblicò a Venezia un opuscolo intitolato Giudizio formato dalla suprema camera reale di san-
ta Chiara in Napoli contro li pp. gesuiti, opera che serve a mettere in chiaro il sistema involuto ed oscuro delle gesuitiche regole e costituzioni. Si era trattato di sapere se il collegio di Sora era «collegio scolastico», «capace cioè d'acquisto e di possessione », oppure «casa professa incapace dell'uno e dell'altro». L'intero problema della «povertà fondamento dell'istituto de' gesuiti» era rimesso in questione (p. 27). Il procedimento giuridico del parlamento di Bretagna non fu senza influenza sulla sentenza firmata da Giuseppe Romano, Niccola Fraggianni, Carlo Gaeta, Angelo Cavalcanti, del 31 agosto 1761. Il permesso di stampa di questo opuscolo veneziano porta la firma di Andrea Tron e Girolamo Grimani. Scrivendo a Grimaldi, ministro degli esteri della Spagna, Tanucci dirà che egli « in questi ultimi quattro anni» era andato facendo stampare questa miscell an ea « per la istruzione dei popoli » (NAPOLI, AS, Archivio Borbone 54, 13 aprile 5768. Cfr. Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone cit., p. 536, 4 luglio 1769).
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con l'azione dei parlamenti francesi. Un immenso compito restava aperto: scuole, seminari, diocesi, parrocchie dovevano essere purificati e rinnovati `. Tutto il resto del primo volume era dedicato a fornire una ampia documentazione su questa battaglia. Spiccava la Denunzia ed esame nel Parlamento di Bretagna sulle costituzioni de' gesuiti, preceduto da un elogio dell'autore, «il signore de Caradeuc de La Chalotais, procuratore generale» e da una testimonianza del successo che l'opera sua aveva riscosso «a Parigi, a Versaglies e in tutta la Francia». «La moderazione nelle espressioni, la forza de' fatti, la maniera semplice e naturale di rappresentarli » aveva fatto di questo memoriale francese, anche a Napoli, un classico dell'antigesuitismo. Uscito anch'esso nel 1764, il secondo tomo delle Inquietudini de' gesuiti era di contenuto tutto napoletano. Oltre ai documenti attorno al collegio di Sora vi si trovava la Supplica alla maestà del re nostro Signore di Ottavio Falces, che riguardava anch'essa le proprietà della Compagnia. Constatava con soddisfazione che il governo aveva finalmente cominciato ad opporsi alla moltiplicazione « dei collegi, monasteri e conventi de' regolari, a fin di porsi, meglio tardi che mai, fine all'ammortizzazione de' beni che cagionavano mendicità a secolari, mancanza di sussidio al regio erario e desolazione alle città del regno». Tutti si erano finalmente persuasi che «le ricchezze acquistate dalle comunità regolari sono giunte all'eccesso». Palesi erano ormai le origini storiche della situazione. «La fazione guelfa, dopo la deplorabil morte di Manfredi e Corradino, ebbe occasione di spargere le sue massime perniciose». La gente, «o istupidita per l'ignoranza o atterrita dalla prepotenza», aveva finito per persuadersi che «opporsi all'acquisto delle chiese fosse delitto enorme». Le ricchezze acquisite avevano finito col nuocere alla chiesa stessa. I legisti non erano stati in grado di opporsi. Le scuole erano state corrotte dai nuovi metodi d'insegnamento. Era tempo ormai di rifarsi all'esempio di Vittorio Amedeo: « volle questo savio monarca purgar le lettere di quelle barbarie che le ingombravano e farle fiorire con quel culto e splendore che meritavano e richiedevano i desti e sagaci ingegni de' suoi vassalli». I dotti provenienti da Napoli, come Bernardo Andrea Lama, avevano portato a Torino la loro collaborazione. Ora, anche negando l'autorizzazione ad erigere un collegio gesuitico a Brindisi — che era l'occasione immediata di questa memoria — si sarebbe fatto un passo verso una simile indispensabile riforma. Il volume si chiudeva su altri echi de lle controversie gesuitiche in Portogallo e in Francia, che con sempre maggiore attenzione e interesse venivano seguite nel regno napoletano. 1
Inquietudini de' gesuiti, torno I, 1764, Discorso preliminare, pp. 1 sgg.
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La grande carestia del 1763-64, ricca come fu di scontri tra secolari e regolari, volse sempre piú il pensiero del governo e della classe colta a riconsiderare il problema delle proprietà ecclesiastiche. I morti di fame furono molti, i soccorsi risultarono insufficienti, l'egoismo dei conventi e dei vescovi palese. Un'ondata di proteste venne cosí ad abbattere molti degli ostacoli che si frapponevano ad un intervento dello stato I. Numerosi furono i progetti di riorganizzazione e di una nuova utilizzazione delle mani morte. «Grand'esempio e grand'occasione di riforma sarebbe questa calamità...» diceva Tanucci, pensando soprattutto alla città di Napoli 2 . Genovesi volgeva il suo pensiero sempre piú alle campagne, alla necessità di creare una classe di piccoli proprietari o affittuari attivi e prosperi. Non legge agraria, adatta unicamente per i popoli di nuovo stanziamento. Né bisognava attendere la rivolta popolare, «uno di quegli entusiasmi e vapori a cui vogliono essere di tanto in tanto soggetti i popoli». « Io non sono sf stolto, né si temerario da pensare a rimedi o impossibili o pericolosi alla pubblica pace». Ma sapeva «che dove le terre sono con minore disugualità divise si può meglio coltivare ed avere phi abbondanza, sentire meno spesso le carestie, esservi phi gran quantità di popolo, i grandi piú ricchi e piú potente il sovrano»'. Consiglio tanto piú pressante quando i fondi erano nelle mani della chiesa. «Gli ecclesiastici non possono e (come sono oggi le cose) non debbono coltivare per se stessi. Il dire che san Paolo si gloriava di aver lavorato colle sue mani per vivere, che nelle prime regole de' fondatori degli ordini religiosi è comandata l'agricoltura è non accorgersi che essendo nel xviii secolo si parli agli uomini del primo e del quarto». Ormai non c'era che un rimedio, la ridistribuzione della proprietà agricola. «Perché i beni non decadano non si può somministrar agli ecclesiastici più bel consiglio che livellate, livellate, ma a piccole porzioni». L'affitto a lunga scadenza, l'enfiteusi era l'unica soluzione per le mani morte. Certo le resistenze non sarebbero mancate. Ma lo stato aveva il diritto d'intervenire senza esitazioni o incertezze. «Se a me appartenesse pregare umilmente colui che n'è il capo e che ha diritto di muovere tutto il corpo in benefizio costante della chiesa e dello stato, direi, Signore, obbligateli con un decreto... Si obbliga a fare del ben colla sferza della legge dove non giovano i consigli» 4 . Lezioni che, come vedremo, Tanucci si sforzò di seguire quando, dopo il 1767, fasc.
FRANCO VENTURI, 1764: Napoli nell'anno della fame, in «R. 2, PP. 344 sgg. ROLANDO NIERI, Ber lardo Tanucci e la carestia del 1764, in
stor. ital.», anno LXXXV (1973),
«Annali della Facoltà di scienze politiche» dell'Università di Pisa, fasc. 1 (1972), P. 92, 14 febbraio 1764. L'agricoltore sperimentato da Cosimo Trinci con alcune giunte dell'abate Genovesi, Stamperia Simoniana, Napoli 1764, p. XIV. 4 Ibid., p. xvi. 2
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si trovò di fronte al problema di disporre dei beni tolti ai gesuiti una volta cacciati dal regno. Genovesi, intanto, aveva continuato a proclamare ad alta`e chiara voce le sue idee sulla riforma della chiesa. Nel 1765 erano uscite le sue Lezioni di commercio, dedicate a Tanucci. Vi era delineata la figura ideale d'un primo ministro, capace di portar sulla terra le speranze che in quelle pagine erano delineate. Il combattivo, acre spirito anticuriale e anticlericale di Tanucci non era, d'altra parte, restato senza in fluenza sull'animo di Genovesi. I due uomini andarono avvicinandosi nel secondo quinquennio degli anni sessanta. Con un crescendo che possiamo seguire confrontando le diverse opere da lui pubblicate in questo periodo, il filosofo cercò e mostrò la via per rendere moralmente ed economicamente piú saldi e sicuri i provvedimenti che il governo andava progettando o prendendo. Si trattava del tentativo di far pagare le tasse agli ecclesiastici? «Alcuni ecclesiastici» rispondevano: «non siamo tenuti a' pesi pubblici, siamo personalmente e realmente sciolti da ogni obbligo civile». Genovesi rispondeva che era «contradditorio vivere in società, essere alimentato e difeso dal corpo politico e dichiararsi sciolto da ogni obbligo civile». Diceva senza esitazione ai chierici che «sí fatti sofismi a lungo andare non possono non distruggerli»'. Si trattava delle mani morte? Spiegava come qualsiasi «inalienabilità» fosse «opposta a tutte le buone leggi e distruttiva d'ogni vincolo di società», creando essa fatalmente un piccolo numero di grandi proprietari e insieme uno sterminato numero di schiavi, briganti e pitocchi 2. Bisognava impedire che «le terre si accumulino soverchiamente nelle case religiose ed ecclesiastiche», era indispensabile «porre un certo termine al numero de' chiostri e de' benefici». Come indicazioni e incitamenti Genovesi guardava alle leggi della repubblica di Venezia e all'«ultime de' toscani». Ma allargava lo sguardo chiedendosi da chi e in che modo avrebbero potuto altrove esser compiute simili riforme. Non abbandonava del tutto la speranza che fosse la chiesa a mettersi all'opera. Altrimenti, lo stato. E, in ultima analisi, il popolo. La chiesa sarebbe moderata, misurata, «una gentile ripulitura di barbieri», come diceva. L'intervento dello stato «non può non essere operazione chirurgica». «Ma il popolo riforma sempre da guastator militare»'. Sorprendiamo anzi Genovesi talvolta diventato scettico su ogni altro rimedio che non fosse quello appunto delle « gran crise». ConstaDelle lezioni di commercio o sia d'economia civile, Stamperia Simoniana, 17682, parte I, cap. I, par. xx, nota a, pp. 35-3 6 . 2 Ibid., cap. Iv, par. rv , nota d, p. 82. Ibid., cap. v, par. xxiv, pp. 117 e 118, nota a. Cfr. pure ibid., parte I, cap. ix, par. x, pp. 250-51.
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tava che «in questi ultimi tempi quasi tutte le corti europee pensavano» ad eliminare l'eredità « de' tempi barbari». Ma si chiedeva: «V'arriveranno esse? Non so, perché sinora poche sono che lavorino su le radici, e pi ll poche che vi possono lavorare». Concludeva perciò: «Dunque il rimedio deve venir dalla natura medesima. Non vi ha che le gran crise che possano deviare i gran mali ed invecchiati» '. Gli pareva talvolta d'esser la Cassandra della propria età e diceva «bella e meravigliosa sentenza» quella che Eschilo aveva messo in bocca al suo Agamennone. Certo, paragonando l'epoca propria con « i tempi d'ira e di miseria», con quel passato italiano che Sigonio e Muratori avevano descritto nelle loro opere si doveva esser presi da un moto d'ottimismo. Ma bastava «un'ombra trista e di ferale ammanto», come aveva detto il poeta greco per tornare a convincersi che una ricaduta era sempre possibile, forse inevitabile 2. Continuava tuttavia a sperare in una soluzione meno dolorosa, quella d'una riforma voluta e attuata dallo stato. Ma sapeva quanto fosse difficile. Si trattava addirittura di rovesciare il millenario corso storico della chiesa. Questa «fu ne' primi anni democrazia, benché sotto l'ispezione d'un capo; la virtú dunque n'era l'anima. Divenne poi, il iv secolo, aristocratica e la virtú vi si scemò. Il x secolo prese la forma di monarchia assoluta e la virtú divenne ancora minore. Il xlli cominciò l'inquisizione e se ne fece un istrumento di despotismo, e il despotismo ecclesiastico cominciò a distruggere se stesso nel xv secolo. I mali economici e politici, concludeva, son sempre rampolli dell'ignoranza, dell'errore, dell'ingiustizia, ch'è essa medesima la peggiore delle ignoranze e l'errore il piú infesto all'uomo»'. Con questo stato d'animo Genovesi assistette alle «operazioni chirurgiche» di Tanucci, culminate con la cacciata dei gesuiti nel 1767. La riforma era difficile, ardua, ma certo indispensabile. Come non intervenire in uno stato in cui c'erano 6o 000 frati e preti di troppo? 4. Come avrebbe potuto non gettarsi nella lotta un seguace di Cristo, il quale sempre era stato dalla parte degli umili, in una società fondata sull'ineguaglianza e che generava continuamente «nella parte povera invidia, odio, rabbia, sedizioni», e faceva pensare alla «parte ricca e potente» che «i bassi e i poveri... fossero animali nati per voluttà dei grandi», degni soltanto d'«un trattamento iniquo e inumano, che aggrava infinitamente i mali della natura»? 5. Non piccola, in una simile situazione, la responsaDella diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, Domenico Terres, Napoli s. d. (ma 1771), tomo II, p. 223, nota b. 2 Ibid., PP. 254, nota a. Lezioni di commercio cit., parte I, cap. y, par. xxiv, pp. 112 e 113, nota a. Cfr. pure ibid., parte I, cap. xt, par. x, p. 237. ° Ibid., cap. xxii, par. XLV, p. 5 1 3. Ibid.
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bilità storica della chiesa. «Perché la gente, avida naturalmente di ricchezze e di posti, cominciando a conoscere che l'arte di corbellare gli avidi di pietà e i semplici era grandissima e sicura sorgente di ambedue, nella quale non era necessario né di arare, né di navigare, né di sparger sangue unendosi bene con una vita molle e oziosa, tutta, ne' tempi bui e illetterati, s'avviò per una si facile via. Questi professori di finzioni e di menzogne, cioè questi ipocriti, dovettero essere i primi a non tener la legge di Dio che in conto di botteghino e di mercato...»'. Cosí fu apertamente violato il principio secondo il quale « il primo carattere d'una religione è l'esser utile al genere umano » 2 . Sarebbe stato capace il governo di operare in simili condizioni? Ancora una volta, alla fine del 1766, egli esortò all'azione, chiamato come fu a dare il suo parere sul libro di Stefano Patrizi sulle doti delle monache e sulle mani morte'. Con l'aiuto di Andrea Serrao, Patrizi ripresentava in quegli anni le sue consulte, che avevano fatto rumore nel passato e che sempre phi ora parevano d'attualità. La ripresa della lotta. tra stato e chiesa gli richiamava vecchie gloriose memorie. Nel settembre del r 770 scriverà un vivace ritratto di Niccola Fraggianni per premetterlo ad un'altra edizione delle sue Consultationes sacri et regii iuris. Gli si affollavano alla mente i nomi di Gaetano Argento, di Pietro Contegna, di Alessandro Riccardi, di Domenico Aulisio e di Pietro Giannone, di tutta una lunga lotta contro la prepotenza degli ecclesiastici. Ora questa azione andava rinnovandosi e trasformandosi intorno a lui. Dai diritti alle proprietà, dalle aule dei tribunali alle scuole, questa era evidentemente la mutazione che la tradizione giurisdizionale andava compiendo. Anche Stefano Patrizi intendeva parteciparvi, e non soltanto con i ricordi e le riesumazioni. Scriverà per questo la sua Epistula ad virum doctissimum Petrum Rodriquez de Campomanes in Supremo Castellae Senatu magnum Pisci advocatum, guardando all'esempio spagnolo per ispirazione Lezioni di commercio cit., parte I, cap. xxii, par. xLV, p. 323. La logica per gli giovanetti, Simone, Napoli 1769, p. 305. Stephani Patritii regii consiliarii in Supremo regni neapolitani consilio De recta dotium monasticarum ratione ineunda consultatio cum adnotationibus p. Andreae Serrai presbyteri, ex typographia Simoniana, Neapoli 1766. L'anno seguente usciva la seconda parte di quest'opera De renunciationibus monalium et amortizatione bonorum, anch'essa con presentazione e note di Andrea Serrao. 2
Quest'ultimo toccava tutti i problemi pii discussi in quegli anni, dall'esigenza di una distribuzione non squilibrata delle terre, dannosa soprattutto se andavano «in monasteriorum proprietatem » (vol. I, p. 275, nota 35), alla necessità di limitare la mano morta, «tum religioni ingiuriosa, tum maxime reipublicae plurimum detrimenti importare censetur» (vol. II, Praefatio non pag.). Serrao concludeva con una amplissima nota che è una vera e propria storia degli stati moderni rispetto al problema dell'ammortizzazione (e ricordava naturalmente Vittorio Amedeo, Venezia, Genova, Modena, Parma, ecc.). Come egli stesso diceva, di queste cose aveva recentemente parlato « autor locupletissimus, idemque doctissimus, de Campomanes consiliarius et advocatus fiscalis in Castellae Senatu, qui locupletissimum edidit tractatum De amortizatione, unde nos pleraque exempla desumpsimus, nostrisque addimus» (vol. II, p. 195, nota 12).
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sua e della politica napoletana di quegli anni'. E sarà particolarmente lieto dell'applauso riscosso dalle sue opere nei centri phi attivi ed importanti della polemica anticuriale. Riproduceva con gran cura, alla fine delle sue Consultationes quel che aveva letto sulle fiorentine «Novelle letterarie» di Lami (1768, n. 48 e 1769, n. 3): « Il dotto sig. Patrizi in queste due consultazioni ha veramente la mira alla riforma degli abusi e delle corruttele introdotte nel Regno di Sicilia, ma le sue teorie e le sue ri flessioni convengono a tutte le provincie cristiane e cattoliche » 2 . Non meno soddisfatto dovette essere leggendo e riportando la recensione «Ex v. tomo ephemeridum curiensium a. 1 768 », p. 8 «et torno VI, p. 82 », e cioè dal « Giornale letterario » che Carlantonio Pilati pubblicava allora a Coira nei Grigioni. A legger Patrizi, diceva, veniva spontaneo assentire con quanto aveva scritto Voltaire: quando la ragione sarebbe tornata in Italia « egli è verisimile ch'essa sia per fissare il suo domicilio nel regno di Napoli». «Di fatto gli spiriti napoletani mandano tratto tratto a luce tanti bei libri pieni d'ingegno e di giudizio ch'egli sembra che si siano proposti di volere, per mezzo di queste lor opere, caparrarla perché faccia ritorno ed assicurarla anticipatamente della serena e lieta accoglienza che le sarà da loro fatta»'. Ma Patrizi dovette essere particolarmente impressionato dal giudizio che dell'opera sua aveva dato Antonio Genovesi'. Ed è infatti una delle pagine phi energiche e vigorose uscite dalla penna dell'abate. Tutti ne furono colpiti: Lami le riportò in sunto nelle sue «Novelle letterarie» Pilati disse che Genovesi «aveva cavato il sugo» dello scritto di Patrizi, « ed hallo col suo proprio ingegno ancora phi copioso e phi forte renduto » 6 . L'autore aveva dimostrato, diceva Genovesi, «fino ai ciechi le grandissime ingiustizie che si fanno cosí ai privati come a tutto il corpo civile nell'abuso delle doti monastiche nelle successioni alle loro famiglie»'. L'incameramento di sempre maggiori ricchezze da parte dei conventi era rovinoso per la stessa disciplina monastica, introducendo nei monasteri «poco a poco la cupidigia de' beni mondani, il lusso, e tutti i vizi che il lusso e la moda portan seco irreparabilmente» 8 . Il sistema vigente, d'altra parte, spodestava e rovinava le famiglie, i legittimi eredi. «A misura
'.
Stephani Patritii regii consiliarii in Supremo regni neapolitani consilio consultationes sacri
et regii juris, vol. 2 3
6
I, Francesco Morelli, Napoli 1770, pp. 209 sgg. La lettera era del febbraio 1770.
Ibid., vol. I, p. 307. Ibid., p. 277. Ibid., pp. 273 sgg• n. 48 (1768), coll. 758 sgg. «Giornale letterario», tomo V (1768), p. 81.
' STEPHANI PATRITII, De recta dotium 2 dicembre 1766.
• Genovesi è datato del 8 Ibid., p. 223.
monasticarum ratione ineunda cit., p. 220. Il parere di
che crescono gli acquisti ecclesiastici, — Patrizi lo dimostrava perfettamente —, vengono a stringersi e ad impicciolirsi ogni giorno i fondi delle famiglie laiche, che sostengono la nazione, tutte le classi dello stato, e '1 trono de' sovrani». Si rischiava di «ridurre la massima parte delle f amiglie d'uno stato alla mendicità », rendendo « la nazione squallida e deforme per arricchire poche adunanze di persone»'. Non bisognava mai dimenticarsi che «non ci è pii gran sorgente di delitti quanto l'estrema miseria». «A proporzione dunque che le classi degli agricoltori, manifattori, quelle de' gentiluomini, de' grandi, divengon povere, a quella medesima diventano mendaci, furbe, intraprendenti, nequitose. Perché dunque sostenere una sorgente di delitti? » «Le soverchie ricchezze saranno sempre invidiate... Dall'invidia è facile di passare all'odio, dall'odio alla guerra. Qual'orribile catastrofe non ne può nascere»? 2 . Ripeteva perciò il suo avvertimento e la sua lucida minacciosa profezia. «Quando certi mali nel corpo politico son giunti all'estremo, tutto il mondo desidera riforma. Questa riforma non può nascere che da tre bande: I) da coloro che devon essere riformati. ir) dalla destra del capo della repubblica. irr) dal popolo. Quei che meritano riforma è difficile che vengano a riformar se stessi; il popolò non ha riformato mai che spiantando, medicina senza paragone peggiore del male. Si richiede dunque, Signore, la Vostra mano, mano di padre, mano di savio, mano veneranda per gotesta che Dio l'ha data, mano che non frustra portat gladium»'. Tanucci pure intensificò la sua opera di propaganda e di preparazione degli spiriti. «Da qualche anno — si vanterà nel 1768 — io aveva tenuta la regola di fare inserire nella nostra gazzetta tutto quello che tendesse a scoprire la malvagità, la frode, l'ipocrisia, l'ingordigia, la sedizione dei buoni padri ed aveva anche lasciato stampare nella Stamperia reale dissertazioni, istanze fiscali, arresti che tendevano allo stesso oggetto. Si leggevano pii avidamente nelle curie dei notari, nei corpi di guardia, nei caffè, nelle sagrestie, nelle botteghe ancora delli speziali e dei barbieri...»'. Nel 1767 la stretta decisiva parve giusta. All'inizio di quell'anno usci il torno III delle Inquietudini de' gesuiti, di quella miscellanea cioè che abbiamo sentito testè ricordare da Tanucci. Nel Proemio stava ancora l'invito rivolto a Roma a « separare gl'interessi di quella corte da quella de' gesuiti», ad abbandonare ormai «le favole italiane», che screditavano la chiesa «in tutte le quattro parti del mondo». «Uniamoci dunque 2
STEPHANI PATRITII, De recta dotium monasticarum ratione ineunda cit., p. 224. Ibid., pp. 225-26 . Ibid., p. 227. «E questa è la sostanza del presente libro», concludeva Pilati (« Giornale lette-
rario», vol. V (3768], p. 8x). 4
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NAPOLI,
naio 3768.
Archivio Borbone 14, a Castromonte, l'ambasciatore napoletano a Parigi, 3o gen-
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per chiedere a Dio con istanza, dicevano, una nuova pentecoste, un'abbondante effusione dello spirito di verità e di santità che rinnovi la faccia della terra». «Che guadagnerebbe in effetti la religione nell'estinzione della Società se gli uomini non ne divenissero migliori e se lo spirito gesuitico regnasse nel mondo com'ora? » Non sufficiente dunque chiudere «la piaga de' gesuiti», ma pur sempre immediatamente necessario Il modello era già pronto. Si trovava nelle pagine stesse di questa raccolta: Real decreto de' 27 febbraio del 1767 per eseguirsi l'espulsione de' '.
regolari della Compagnia, del che resta incaricato da S. M. l'ecc.mo signor conte d'Aranda come presidente del consiglio. In spagnolo e in ita-
liano, su due colonne veniva pubblicato questo decreto di Carlo III, con tutte le appendici, istruzioni, ecc. Come aveva detto il parlamento di Parigi il 29 aprile (anche questo documento era messo a disposizione dei lettori napoletani), si trattava del caso «pii inaspettato, il pii importante e il pii memorabile che mai sia avvenuto». Come Tanucci raccontava in una sua lettera a Grimaldi, scritta da Portici il e r aprile 1767, non appena egli aveva saputo della cacciata de' gesuiti dalla Spagna, aveva svegliato, a mezzanotte, il re sedicenne e gli aveva spiegato l'importanza dell'avvenimento dicendogli che Carlo III, con il suo intervento, era riuscito ad evitare l'agitazione e le dispute che avevano accompagnato in Francia un simile provvedimento. Il sovrano suo genitore aveva agito direttamente, attraverso gli organi dello stato 2 . L'idea di far lo stesso a Napoli non abbandonò pii Tanucci. Ma troppi erano i pensieri, i ricordi, i risentimenti che un simile progetto suscitava nell'animo suo perché egli potesse concepirlo come un puro e semplice esercizio della ragione di stato. Non appena aveva saputo della sommossa di Madrid, nel 1766, aveva pensato alla responsabilità dei gesuiti in altri simili moti popolari, « particolarmente a quello del Mondovi, avvenuto in vita mia e che diede il primo passo alla fortuna d'Ormea». Ma in Piemonte la giusta reazione dello stato aveva finito poi col deviare e degenerare. «Ormea,... asceso al pii alto grado nella corte di Torino, mori infame pel tradimento fatto non meno al celebre Giannone che al suo re Vittorio Amedeo». L'uno e l'altro, lo scrittore e il sovrano, erano stati da lui fatti morire in carcere. Ora, pii di trent'anni dopo, finalmente, la Spagna si era messa sulla strada giusta. La sommossa del 1766 era stata caratterizzata dal fatto che non aveva un capo, «non signore, non militare, non capopopolo, non unione e assemblea delli consigli; ovunque confessioni, ovunque visite e donne e donne». Soltanto ' Inquietudini de' gesuiti cit., tomo III, pp. x, g, 24, zo. MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III cit., vol. III, p. 50.
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colpendo i gesuiti sarebbe stato possibile eliminare la radice d'un simile pericolo, d'una simile minaccia. La superstizione era ormai un ostacolo che lo stato aveva il dovere di rimuovere dal proprio cammino Napoli doveva seguire Madrid. « Qui staremo agli ordini paterni — concludeva — Vienna, Venezia, Turino forse si muoveranno al grande esempio. Tutti contano che le Sicilie e Parma faranno e dovranno». Roma stessa si sarebbe sentita spinta dal moto generale « a far colle sue mani la sua riforma» Il 4 agosto il re di Spagna approvò la cacciata dei gesuiti da Napoli'. 3 . L'atto d'accusa della Com- Tanucivspreòomadun«fist» pagnia, del 25 ottobre, portava le firme di tutto lo stato maggiore del giurisdizionalismo napoletano, De Marco, Cavalcanti, Vargas Maciucca, De Leon. Fino all'ultimo momento una atmosfera di timore religioso attorniò e rischiò di paralizzare il piano di Tanucci. Il Vesuvio entrò in eruzione. La promessa sposa del re, l'arciduchessa Giuseppa, mori. Da Capua giunsero le profezie di sventura di Maria d'Esterlich. Nello Stato pontificio si diffuse «una fingida revelación en cabeza de cierta monja... que anunciaba el regreso de los regulares de la Compagnia» nel regno di Spagna". Malgrado tutti gli ostacoli, nella notte dal 20 al 21 novembre 1767, 388 gesuiti vennero espulsi dal Regno delle due Sicilie e 212 secolarizzati 5 . Grandissima fu l'eco, in Italia e un po' ovunque nel mondo. A Venezia, ad esempio, venne pubblicata una lettera datata del 21 novembre 1767 intitolata I gesuiti espulsi da Napoli e da tutti gli altri stati di Sua Maestà Siciliana, stampata da Giammaria Bassaglia. «Si è veduto al primo annunzio brillare la gioia sulla faccia di ognuno». «La gente stava alla finestra per piacere di vederli partire, i soldati bevettero di buon vino nelle cantine gesuitiche, un gesuita presso Nola, visitato da' soldati aveva due cinti pieni d'oro della summa di molti migliaia». Il momento piú bello di questa espulsione era stata la presa di possesso, da parte dei più noti e attivi regalisti, dei collegi e delle chiese dei loro avversari. « Il —,
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Un facsimile di questa lettera indirizzata a Manuel de Roda da Portici, il 28 aprile 1767 si trova in MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III cit., vol. III, di fronte a p. 5o. 2 Ibid., p. 78. 3 Ibid., p. 51.
Instrumentos auténticos que prueban la obstinación de los regulares expulsos y sus seguaces, fingiendo supuestos milagros para conmover y mantener el fanatismo sobre su regreso, Joachin Ibarra, Madrid 1768, p. r. Sull'atmosfera a Napoli al momento della cacciata dei gesuiti, cfr. le Memorie per servir all'istoria del discacciamento dei gesuiti dai regni delle Due Sicilie, tradotte dalla lingua francese, Venezia 1768. 5
PIA ONNIS ROSA,
L'abolizione della Compagnia di Gesú nel Regno di Napoli, in «Rass. stor. ID., Filippo Buonarroti e altri studi, Ed. di sto-
Risorg. », n. 15 (1928), fasc. 4, pp. 759 sgg. ed ora in ria e letteratura, Roma 1971, pp. 382 sgg.
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signor cavaliere Vergas fu incaricato per il Collegio de' nobili, il consigliere Gennaro Pallante per il Gesú Vecchio, D. Gennaro Di Ferdinando per il Gesú Nuovo, il consigliere Ferro per il Collegio degli aragonesi detto di S. Francesco Saverio, D. Diodato Fraggianni per la Nunziatella, il presidente Granito per il Carminello, il consigliere Patrizi per S. Giuseppe e un tenente colonnello per la Conocchia». La setta era distrutta, la Compagnia era annientata: «ebbe ragione, concludeva, quell'autore che paragonolli a que' sudditi del Vecchio della Montagna». Ancor piú importante fu il contraccolpo all'interno stesso delle due Sicilie'. Tanucci era stato particolarmente lieto d'aver potuto portare a termine l'operazione da lui intrapresa, senza troppi ostacoli e contraccolpi 2 . Tanto piú volentieri colse l'occasione per applicare concretamente ai beni espropriati dalla Compagnia le idee che Genovesi aveva proposto, facendo sorgere, sulle rovine della grande proprietà ecclesiastica, un nuovo mondo di contadini ancorati alle loro affittanze a lungo termine, ai loro «livelli». La recente, interessantissima ricerca di Francesco Renda, ci ha mostrato come in Sicilia Tanucci riuscisse, in mezzo a mille difficoltà, ad evitare il puro e semplice saccheggio delle proprietà gesuitiche (che non mancò all'inizio, almeno per quel che riguardava libri, quadri ecc.) e, cosa anche più difficile, a salvar quelle terre dalle avide mani della nobiltà isolana per affidarle in parte ad imprenditori (gabellotti) e in maggioranza, anche se piccola maggioranza, il 55-6o%, ai contadini, in piccoli lotti e con modiche affittanze'. Non possediamo un lavoro parallelo a questo per la parte continentale del regno, anche se abbiamo un sondaggio significativo per i beni gesuitici della Capitanata 4 . Si veda soprattutto NAPOLI, AS, Giunta degli abusi, Cautele, n. 1-2-3 (provvisori). Ai ff. 99 ' sgg. del mazzo I esiste un Elenco delle case dei Gesuiti date a censo, con una dettagliata contabilità, ai ff . tor sgg. le Tasse, feudi censiti e venduti. 2 «Noi abbiamo felicemente cacciati i gesuiti, — scriveva a Castromonte. — Niun rumore, niuno inconveniente è venuto. Lacrime e spettegolature d'alcune dame amiche di quella buona gente e qualche satirico pedante uscito da quelle scuole non son cose degne del governo» (NAPOLI, AS, Archivio Borbone 14, I° gennaio 1768). 3 FRANCESCO RENDA, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti cit., pp. 124 sgg. 4 ADDOLORATA SINISI, I beni dei gesuiti in Capitanata nei secoli xvii-xviii, Miscellanea giuridico-economica meridionale, Serie «Dogane e Tavoliere di Puglia», Napoli-Foggia-Bari 1963, Pp. 45 sgg., dove viene narrata la storia del sorgere dei centri abitati di Orta nova, Ordona, Carapelle, Stornarella e Stornara al momento della distribuzione, nel 1774, dei beni gesuitici della Casa di Orta fra 410 famiglie, in ragione di 12 versure ciascuna per un tenue canone e per la durata di ventinove anni. Interessante notare quanto profondamente fosse penetrata l'idea della piccola proprietà coltivatrice tra gli alti funzionari del regno. Don Francesco Nicola De Dominicis, uditore della dogana di Foggia e incaricato dell'amministrazione dei beni espropriati alla Compagnia, era convinto che «con somma avvedutezza si è dalla Maestà Sua prescritto il sistema delle censuazioni a piccole porzioni per beni degli espulsi, perché in quella maniera si potrebbe nel Regno molto migliorare l'agricoltura» (p. 47, nota 7). De Dominicis si dedicò con vero entusiasmo a questa che egli stesso chiamava «gloriosa opera della censuazione» (p. 58). Anche in Capitanata, come in Sicilia, la mancanza di capitali, con conseguenti debiti e ritardi nella semina, resero difficile la vita dei coloni. Poco a poco le terre furono vendute a grossi proprietari, generalmente nobili napoletani (ad esempio il duca Nicola di Sangro), ma anche a commercianti delle città pugliesi.
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Il programma genovesiano venne applicato dall'Azienda gesuitica, l'organo che amministrava i beni che eran stati della Compagnia e che divenne cosí, nelle mani del ministro, uno dei nuovi strumenti pii attivi e importanti di riforma. «Assegnare in Sicilia, nello spazio di qualche anno, 21 000 ettari di terra a 3000 contadini poveri, francamente costituiva un fatto politico ed economico di non comune rilevanza»'. Sul continente, « altra terra di un uguale ordine di grandezza » fu assegnata ai coltivatori diretti. Giustamente F. Renda, che ci ha fornito questi dati, ravvicina il tentativo di Tanucci a quelli dei riformatori spagnoli nella Sierra Morena e a quelli di Pietro Leopoldo in Toscana. Lo spirito è simile, la volontà cioè di contrapporre il lavoro contadino all'assenteismo e all'agricoltura estensiva. Il ritmo è diverso. Tanucci è tra i primi a tentare di mettersi su questa strada ed è anche quello che incontra maggiori ostacoli e che è costretto ai maggiori ritardi. La rivolta palermitana del 1773, che mise a nudo il lungo malgoverno del vicerè Fogliani, produsse una inattesa, ma sostanziale accelerazione nella distribuzione delle terre. La caduta di Tanucci, nel 1776 segnò l'inizio della liquidazione dell'esperimento. La nobiltà riprese il sopravvento mettendo le mani sulle terre che eran state della Compagnia. Soltanto negli anni novanta il problema della censuazione delle terre ecclesiastiche verrà ripreso 2 . Le difficoltà incontrate da Tanucci negli anni che seguirono immediatamente la cacciata dei gesuiti non riguardavano soltanto l'utilizzazione dei loro beni. Tutta la politica regalista battè il passo a Napoli. Gli altri stati italiani, soprattutto la Lombardia e Venezia, procedevano sulla via delle riforme. «Noi resteremo addietro — diceva Tanucci —. Non sarà mia colpa»'. «Predicare posso, fare non posso», diceva poco dopo'. L'esempio di Modena lo induceva a riprendere il tentativo, fallito nel '64 e nel '66, di rimettere in vigore la legge dell'ammortizzazione. Scriveva a Carlo III che si trattava d'un provvedimento «con grandi e continue querele domandato da tutti gli ordini dello stato, poca terra essendo rimasta ai poveri secolari». Ma da Madrid gli risposero che occorreva rimandar tutto a « tempo pii sereno di quel che ora corre»'. L'azione di Tanucci si fece spicciola, intesa piuttosto a reprimere gli scandali che a trasformar le cose. Scrivendo a Galiani il 14 gennaio 1769 diceva: «Qui non si può far nulla per ora che non venga comandato dalla Spagna in FRANCESCO RENDA, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti cit., p. 186. 2 MARIO CONDORELLI, Momenti del riformismo ecclesiastico nella Sicilia
borbonica (1767-1850). Il problema della manomorta, Edizioni parallelo 38, Reggio Calabria 1971. Lettere inedite cit., in «Arch. stor. prov. napoletane», xxxIi (1907), P. 749. Ibid., p. 303, 19 novembre 1768. Cfr. ROSA MINCUZZI, Bernardo Tanucci cit., pp. 77 78, 13 ottobre 1768. -
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queste materie di chiesa»'. Batteva cioè il passo di fronte agli ostacoli che a Madrid avevano fermato Campomanes. Contrariamente alla Spagna tuttavia, proseguí a Napoli e andò approfondendosi il dibattito, più o meno aperto, sulla situazione degli ecclesiastici, sui loro beni, sulle scuole, per merito, ancora una volta, di Tanucci e di Genovesi. Il 1° dicembre 1767 il ministro « si rivolse al filosofo per invitarlo a collaborare al riordinamento della Casa del Salvatore, l'ex Collegio Massimo», che la Compagnia aveva gestito fino alla sua cacciata'. Due giorni dopo Genovesi rispose con un dettagliato e vigoroso piano di riforma. Se non si voleva restare « addietro e come barbari » bisognava approfondire la lingua e letteratura italiana, affiancata dallo studio del greco, dell'ebraico e del latino (in quest'ordine). Ma bisognava pure creare, subordinata a questa «nuova scuola di letteratura e di scienze», «un'ampia scuola di leggere, di scrivere, di abaco prattico, di piccolo catechismo, dove si allevino nei primi anni i figli degli artisti... si preparino alle scuole più alte quei fanciulli che si destinano alle scienze . Niuna scuola mi sembra tanto necessaria quanto questa ». Bisognava, su questa base, sviluppare le cattedre «di cose», accanto e più di quelle «di parole». Storia universale, trigonometria, geografia, geometria, disegno, architettura. In genere, diceva, « si potrebbero nella nuova scuola piantare di certo cattedre utilissime che mancano nella nostra vecchia università». Era assente, ad esempio, quella di «instituta di meccanica... ancorché niente sia più necessario a tutte le arti meccaniche che servono allo stato». E, ben inteso, d'agricoltura, seguendo l'esempio dell'università di Padova. Né dimenticava, naturalmente, le scienze esatte. Non dovevan neppure mancare le cattedre atte « a fare buoni teologi, giureconsulti, canonisti», dalla logica alle antichità e al diritto naturale e delle genti. «Mi guarderò di dir nulla di cattedre teologiche perché la teologia scolastica non solo è una perdita di tempo, ma la stimo scuola da guastare in mille modi i cervelli». Se proprio lo si voleva, avrebbe dovuto esser fondata sul catechismo di Colbert, il vescovo di Monpellier, «che ultimamente S. M. portughese ha fatto pubblicare per un editto del patriarca di Lisbona come il solo catechismo che debba essere adoperato nei suoi stati»'. In una lettera successiva, del 2 gennaio 1768, Genovesi indicava i professori e maestri che avrebbero potuto prender parte ad una simile riorganizzazione della Casa del Salvatore. Ci teneva a sottolineare che si Lettere inedite cit., p. 749. A. ZAZO, Antonio Genovese e il suo contributo alle riforme scolastiche nel Napoletano (1767.769), in ID., Ricerche e studi storici, Tip. del Sannio, Benevento 1 933, vol. I, p. 20. Si aggiunga la documentazione che sta a NAPOLI, AS, Giunta degli abusi, Cautele, n. 1 ff. 11 sgg. 3 A. ZAZO, Antonio Genovese cit., vol. I, pp. 32 sgg. Il testo è conservato in NAPOLI, AS, Casa reale, fast. 1473. Cfr. il riassunto di queste proposte fatto da GIUSEPPE MARIA GALANTI, Elogio storico del signor abate Antonio Genovesi, Napoli 1772, pp. 144. 2
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trattava, ad esempio nel caso di Alessandro Calefati, di persone « attaccatissime ai diritti della sovranità e amanti del ben della patria». Tra di loro stava Andrea Serrao, che già abbiamo visto attivo nella polemica di quegli anni e che era destinato a diventare uno dei maggiori rappresentanti del clero riformatore della seconda metà del Settecento. L'intera scuola, il partito di Genovesi, per tramite del maestro, cercava di giungere nella capitale e di sostituirvi i maestri gesuiti: Franceso Diodato Marone, il domenicano che sarà negli anni seguenti mescolato alle piú avanzate iniziative editoriali, dalla pubblicazione delle opere di Machiavelli a cura di Giuseppe Galanti alla difesa di Francesco Mario Pagano, l'amico di Filangieri e di Munter; Giuseppe Torallo, « eccellente geometra e filosofo», al quale Genovesi aveva indirizzato le sue Lettere accademiche e che proveniva dal gruppo, particolarmente attivo, di Terlizzi, in Puglia; Francesco Longano, « studioso di storia del genere umano, di finissimo discernimento», come diceva Genovesi stesso e che diverrà uno dei piú originali suoi allievi e prosecutori; Giacinto Dragonetti, «nobile aquilano, geometra, filosofo, giureconsulto e uomo di elevatissimo ingegno, chiaro per l'operetta pur dianzi data alla luce, Della virtú e del premio, la quale ha avuto grandissimo spaccio non solo fra i filosofi italiani, ma tra i francesi medesimi, nella cui lingua è stata subito tradotta», e considerata, aggiungiamo, come un diretto proseguimento e completamento dell'opera di Beccaria; Francesco Antonio Grimaldi, «giovane di molta dottrina e abilità», che dedicherà la sua vita a riprendere e a discutere i temi genovesiani dell'eguaglianza e della filosofica li bertà. Accanto a loro, uomini di scienza e di diritto, figure certo minori, inseriti anch'essi nell'alveo aperto da Genovesi nella cultura meridionale'. Le proposte vennero, se non totalmente, almeno largamente accettate. Serrao, Dragonetti ed altri vennero designati. Troppo ambizioso tuttavia si dimostrò il piano genovesiano di fare dell'ex collegio gesuitico napoletano una sorta di scuola propedeutica e insieme sostitutiva dell'istruzione superiore. Bastarono pochi mesi perché Genovesi si accorgesse che i problemi dell'università non si potevano aggirare e che essi restavano essenziali. Nel novembre del 1768, alla notizia che era stata messa a concorso la cattedra di diritto canonico, detta delle decretali, non poté trattenere il suo sdegno. «Che diavolo son altro le decretali che il codice della monarchia universale della curia di Roma? » scrisse a Ferdinando De Leon, uno dei piú importanti regalisti napoletani, erede della tradizione di A. ZAZO,
Antonio Genovese cit., vol. I, pp. 35 sgg.
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Fraggianni e attivo collaboratore di Tanucci. «Tanto dunque i re son solleciti della loro sovranità? E cos. voialtri ministri del re sostenete i suoi diritti? Questa cattedra infame, disunitrice dell'unità dei popoli, sovvertitrice della sovranità, ruffiana dei padri curialisti, questo vecchio cuoio della gran bestia, va bruciata e le ceneri sparse al vento»'. Il ministro degli affari ecclesiastici, Carlo De Marco, trasmise queste parole, sotto il velo dell'anonimato, alla Camera di Santa Chiara perché decidesse. La magistratura difese la cattedra «antichissima, stabilita fino da' principio che fu eretta in questa nobilissima città la università degli studi». Stimava «che non si abbiano a fare novità » 2 . Appena le riforme cominciavano ad incidere sul profondo, i giudici napoletani si schieravano per lo statu quo. Anche a Parigi e a Madrid forte era questo riflusso conservatore. Ma piú radicato era a Napoli, come ben sapeva Genovesi, che tante volte imprecando aveva criticato gli uomini di legge. Ispiratore della Camera era allora Pasquale Cirillo, perfetta incarnazione di professore e magistrato conservatore, l'avversario di Muratori negli anni quaranta e colui che piú d'ogni altro aveva contribuito ad insabbiare il tentativo del re Carlo di stabilire un nuovo codice'. «Mostrava gran disprezzo per Genovesi ed affettava molta divozione», dirà Galanti". Cos. Genovesi si trovò al centro «d'una tempesta populare» 5 . Rispose ai magistrati e difese le sue idee e il suo operato in una lunga lettera a de Marco. «Vuole la V. E. che io le dica che mi paiono le Decretali? Una processione di crocesegnati, tutti o scovertamente o di sotto i grandi zimarroni armati di fili di rasoi, i quali escono con molta apparente compostezza e divozione dal Vaticano, girano pe' quattro cantoni della terra stronizzando sovrani, bruciando tutti i codici di leggi, spogliando tutti i magistrati civili della loro giurisdizione e tutti i vescovi della loro autorità, dichiarando vectigafes populi romani tutti i popoli e tutti i loro fondi e scopando finalmente le nazioni fino de' bricioli delle loro ricchezze e essi menando seco alla volta di Roma popoli debellati e regi oppressi, rientrano nel Vaticano carichi di prede delle quattro parti del mondo» °. GENNARO MARIA MONTI,
Due grandi riformatori del Settecento: A. Genovese e G. M. Galanti,
Vallecchi, Firenze 1926, p. 69; DOMENICO FORGES DAVANZATI, Giovanni Andrea Serrao cit., pp. 87 sgg.; PIETRO SAVIO, Devozione di Mgr. Adeodato Turchi alla Santa Sede, L'Italia francescana, Roma 1938, pp. 75 sgg. e Riformatori, torno V, pp. 318 sgg. Una ampia documentazione su questa discussione inviò a Torino il conte Lascaris, l'ambasciatore sardo a Napoli, TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 53, 1768. Z GENNARO MARIA MONTI, Due grandi riformatori cit., p. 68, 29 novembre 1768. 3 FRANCO VENTURI, Settecento riformatore cit., vol. I, pp. 169 sgg. 4 GIUSEPPE MARIA GALANTI, Testamento forense, Antonio Graziosi, Venezia 1806, vol. II, p. 292. 5 GENNARO MARIA MONTI, Due grandi riformatori cit., p. 68, e Riformatori, tonno V, p. 320. Ibid., p. 69 e Riformatori, tomo V, p. 321, 21 dicembre 1768.
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La monarchia papale aveva invaso e sottomesso ogni aspetto della vita umana, dalla sovranità alle nozze, «divorzi, nascite, legittimità o illegittimità, sepoltura,... eresie, sospetto d'eresia, cioè ogni opinione che loro non piace, magia e sospetto di magia... stregoneria, fattucchieria, usure, simonie, bestemmie, adulteri, concubinati, parricidi e delle volte semplici omicidi...»'. Ora finalmente l'intero mondo umano si rivoltava contro il dominio di Roma. Era tempo che gli stati collaborassero per liberarsene, esautorando i tribunali ecclesiastici, dando nuove leggi a tutta l'attività religiosa, «facendo compilare un codice della chiesa universale » 2 . Riaffermava la sua fedeltà al cattolicesimo, ribadiva la sua ortodossia, ma combatteva insieme l'idea della chiesa come d'una società perfetta, attribuendole funzione e valore puramente spirituale e aprendo un sempre maggior spazio ai bisogni, alle passioni, alla vita tutta intera dell'uomo politico e sociale. In una seconda lettera, sempre a De Marco, spiegò che cosa avesse inteso dire parlando del «cuoio della gran bestia» frase che aveva scandalizzato non pochi, facendolo trattar d'eretico. La monarchia romana, la quarta delle bestias grandes del profeta Daniele, il toro che aveva «le zampe, i denti e dieci corna di ferro», aveva lasciato in eredità alla Roma papale le proprie spoglie e di quell'antico cuoio i curiali si erano ammantati nei secoli. «Essi presero adunque quel cuoio e afin di poterlo facilmente allungare e distendere il misero ad ammollare e spiritualizzare nell'aquavite. E come parve loro d'esser divenuto bastantemente pieghevole e da potersi stendere in tutte le direzioni il misero addosso alla corte romana. Cosí si vidde quella corte marciare sotto il cuoio del gran toro e sopra gli antichi passi de' Cesari» 3 . Ribadiva ancora, in una terza lettera, che soltanto per debolezza questa monarchia papale si asteneva dallo scomunicare i governi che gli resistevano, «i presenti principi Borboni, la corte di Portogallo, il governo di Milano e di Mantova, di Torino, di Modena, di Venezia e tutte le corti cattoliche europee» 4. Quel che il papa non poteva pii fare sul piano politico, continuava tuttavia a compiere su quello finanziario. « Si ha a pagar denaro per turare le fauci improbe del gran toro, denari per esser marito, denari per avere figli legittimi, denaro per avere sepoltura, denaro per ricomprarsi da ogni peccato... denaro per esser usuraio a man franca, denaro per far lo bandito e l'assassino di strada con una pronta bolla del chiericato nel caso che venghi in mano alla giustizia, denaro per sottrarsi da' legittimi magistrati,... ,
GENNARO MARIA MONTI, Due grandi riformatori cit., pp. 7i-72 e Riformatori, torno V, P. 324. Ibid., p. 73 e Riformatori, tomo V, p. 326. Ibid., pp. 76, 83 e Riformatori, tomo V, p. 328. ' Ibid., p. 88. 2
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denaro per non esser scomunicati, e le cagioni delle scomuniche sono infinite... » '. Che fare dunque? « I protestanti gettarono al fuoco le decretali e cosí si salvarono». Ma un mezzo cosí radicale «non si addice ai cattolici». Gli strumenti del giurisdizionalismo, del regalismo, come l'exequatur e il controllo sui vescovi, lo sfratto dei frati erano gli unici strumenti possibili. Mezzi insufficienti, Genovesi ne conveniva, ma pur necessari. Un giorno si sarebbe capito che i veri sudditi del re, quelli per i quali bisognava governare, erano coloro che non avevano e non ambivano «né benefici né pensioni» e cioè il «pastore, cred'io, il contadino, il misero artista, il marinaio, il facchino» 2. Tanucci, che con grande interesse aveva seguito questa discussione, considerò «vergognosa» la consulta della Camera di Santa Chiara'. Ma non osò accettare fino in fondo le proposte di Genovesi. La prima cattedra delle decretali fu trasformata in una « cattedra de' concili», di storia ecclesiastica cioè, con un soldo diminuito d'un terzo. La seconda sarebbe tuttavia rimasta, con l'intesa «che questo cattedratico illuminar debba i suoi scolari in modo che non bevano alcuna massima estrania al Testamento Nuovo ed alla sovranità e podestà nativa del re» 4 . Poco a poco questa cattedra, privata dei privilegi di cui prima godeva, sarebbe andata perdendo d'importanza. Ma, anche qui, il taglio non era avvenuto alla radice. Genovesi si sentiva solo in mezzo ai suoi colleghi dell'università, agli uomini di chiesa, agli avvocati, agli eruditi, a tutti coloro che non avevano capito né Muratori né Giannone, ai dotti come Cirillo e Martorelli, che lo odiavano per il suo disinteresse e la sua libertà interiore. Pallida era l'ombra giansenista del canonico Giuseppe Simioli, flebile la sua voce d'uomo sempre pronto a ripetere l'odi prof anum vulgus (sarà lui, costretto da Tanucci, ad accettare la diminuita cattedra dei concili). In un dialogo, piccolo germe d'un suo Neveu de Rameau, Genovesi li mise in scena questi «uomini onesti », questi «cristiani decretalisti» che, come Cirillo, si sdilinquivano di fronte al fasto romano, a « quei palazzi cardinalizi, quelle ville incantate, quelle tapezerie che sembran fatte per arte magica, quelle statue, quei musei, quelle pitture, la basilica di San Pietro, quelle mense raggianti di finissimi ori e argenti, fumiganti di altro che ambra, le carrozze e gli abiti prelatizi, ma de' lacché, le conversazioni non di satiri, come fra noi, dove si crede poco, ma di angeli, tutti sfolgoGENNARO MARIA MONTI, Due grandi riformatori cit., p. 99. Ibid., pp. toI 2. Ibid., p. 74, 22 dicembre 1768. ' Ibid., p. 102, 5 gennaio 1769. 2
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ranti di celestiali ricchezze». Né si accorgevano, come diceva Simioli, che avevano ridotto «la povera chiesa » ad «un mondano e impuro teatro». Alla loro litania: «Cre-do in De-um, pat-rem om-» faceva eco, alla chiusura di questo dialogo, un «Credo in de-um forca forca». La discussione sulla cattedra delle decretali terminava coll'accorato rimpianto d'uno degli intervenuti sui quattrocento scudi di stipendio che s'erano perduti nella recente riforma
Capitolo ottavo Santa Fede e mano morta
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GENNARO MARIA MONTI,
Due grandi riformatori cit., pp. 103 sgg.
La polemica, ancor cosí familiare e domestica nelle pagine di Genovesi, era intanto andata qua e là mutando di carattere e d'intensità, anche al di là dei confini del regno. Da Roma giungevano, alla fine degli anni sessanta, i primi appelli d'una violenta reazione contro ogni speranza e volontà riformatrice. La chiesa, isolata, stretta d'assedio, messa sotto accusa, si difendeva con virulenza, chiamando alla riscossa non soltanto frati e preti, ma nobili e contadini e chiunque fosse disposto a muoversi per difendere un vecchio mondo che andava sfaldandosi. I primi rintocchi della campana della Santa Fede risuonarono allora, anche se soltanto nelle pagine dei libri e non ancora nelle campagne, nelle strade delle città italiane, come accadrà un quarto di secolo pin tardi. Il domenicano Tommaso Maria Mamachi, greco d'origine, è l'esempio phi cospicuo di questa nuova ondata di polemisti cattolici, tutti tesi a cercar di sfruttare in senso conservatore e reazionario la volontà ovunque allora diffusa d'un ritorno alle origini, al mondo primitivo cosí come alla chiesa anteriore alla Controriforma. Sua è, a quanto pare, la pin efficace opera pubblicata negli anni sessanta contro le infiltrazioni illuministiche che sempre pín andavano permeando il moto regalista. L'opera corrisponde e fa eco a preoccupazioni sempre phi gravi della Curia di fronte al dilagare della diffusione in tutta Italia della polemica e discussione sulla religione `. Nel 1767 uscivano a Roma due tometti, intitolati La Si veda l'enciclica del 25 novembre 1766 «ad omnes episcopos ut creditum sibi ipsis dominicum gregem a noxiorum librorum lectione avertant» dove si deprecava la «pestiferam contagionem librorum » e i « serpentina venena » che corrompevano la fede «et religionis fundamenta convellunt », non peritandosi neppure di « irruere in ipsam Petri sedem». L'ambasciatore veneziano Niccolò Erizzo notava nel suo dispaccio del 6 dicembre 1766 « esser volontà risoluta di questo pontefice di usar tutti li modi da lui dipendenti per distogliere li principi d'Italia a non permettere nei loro stati la stampa, singolarmente in idioma italiano niente meno di libri offensivi la chiesa (nel che si scorge un santo e ecclesiastico zelo), come parimenti di quelli che influir possono a promuovere de' pregiudizi alla Corte di Roma, punto questo di grandissima gelosia in questo clima, almeno egualmente che quello della religione» (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori, Roma 286). Nella versione italiana dell'enciclica ora citata si diceva che era tempo di porre «la falce alle radici» tanto piú che gli autori moderni « adornavano i loro scritti di una certa pulitezza studiata, di un piacevole apparato e di un bell'incanto di vaghe parole affine di tanto phi infettare col veleno della falsità l'ani-
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pretesa filosofia de' moderni increduli, singolarmente bene informati ed
abili, diretti contro l'assieme del pensiero enciclopedistico francese L'ispirazione transalpina è palese, derivante almeno in parte dalla notissima opera di Nicolas-Sylvestre Bergier 2, Le déisme ré f uté o da quella, anch'essa largamente diffusa, dell'abate Gauchat intitolata Le religion vengée. Oppone Rousseau ai philosophes e non manca di utilizzare l'opera di Victor Riqueti de Mirabeau contro l'ateismo del gruppo dell'Encyclopédie e sopratutto di Diderot e d'Holbach 3 . Ma l'eco romana di queste lontane polemiche acquista un tono phi violento e penetrante, quasi un incitamento ripetuto e insistente a sterminare tutti coloro che, dovunque ed insistentemente, andavano attribuendo un valore illuminista a tutta la cultura, ad ogni aspetto della scienza moderna. «Con qual violenza — diceva l'autore il torrente dell'irreligione ha inondata ne' nostri tempi la repubblica letteraria! Non v'à quasi facoltà che ne sia rimasta illesa, la fisica, la metafisica, la stessa teologia chi '1 crederebbe!, ma la morale, li studi della negoziazione e del commercio, la politica, la giurisprudenza, la grammatica, la storia, l'eloquenza, la poesia, tutt'è rimasto preda infelice d'una falsa filosofia sollevatasi contro il cristianesimo» `. Il « filosof ante partito», o come altrove viene chiamato, «il partito filosofico » o il «partito filosofista» era andato acquistando una influenza, un potere sempre maggiore 5 . Era tempo ormai di reagire, di opporsi al torrente filosofico che stava dilagando. Bisognava innanzi tutto chiedersi « quali mezzi impiegar debbano i sovrani in difesa della religione». Certo non bisogna rifiutare nessuno strumento atto a questo scopo, anche se, come l'autore si compiaceva di ammettere, «la religione
'.
mo di chi legge ». Qualche tempo dopo Niccolò Erizzo II, fratello omonimo del precedente, anch'egli ambasciatore a Roma riferiva come « intorno l'introduzione de' libri proibiti questa Inquisizione si dimostra sempre piú rigorosa... in aggiunta ha dato un ordine per scritto a tutti i librari dello stato di non poter introdur né vender qualunque libro stampato in Italia che non sia approvato dal rispettivo inquisitoti del Sant'Offizio» (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori 287, 55 marzo 5768). La pretesa filosofia non è compresa nella bibliografia compilata da ANTONINO PAPILLON, Opera omnia Th. M. Mamachi O. P., in «Archivium fratrum praedicatorum», vol. V ( 5 935), pp. 249 sgg. Parlando della ristampa veneta di quest'opera le «Notizie del mondo», n. 45 (5 giugno 577o) diceva trattarsi d'un libro « prima mandato in luce a Roma, di cui si pretende autore il padre Mamachi », mentre lo attribuisce senza esitare a quest'ultimo Domenico Caminer scrivendo nell'« Europa letteraria», tomo IV, parte II (1° aprile 5770), pp. 24 sgg. Vedi questa recensione in MARINO BERENcO (a cura di), Giornali veneziani del Settecento cit., pp. 352 sgg. L'opera di Mamachi, se pure è sua, si presenta nella forma d'una serie di lettere inviate da Roma a partire dal 15 dicembre 5766. 2 Su tutti questi apologeti e polemisti vedi l'opera sempre fondamentale di ALBERT MONOD, De Pascal à Chateaubriand. Les défenseurs français du christianisme de 1670 à 1802, Alcan, Paris 19x6, cosf come il saggio di ROBERT R. PALMER, Catholics and unbelievers in eighteenth century France, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 5 939. Cfr. PURIO DIAZ, Filosofia e politica nel Settecento francese cit., pp. 358 sgg. e 386 sgg.
La pretesa filosofia de' moderni increduli esaminata e discussa pe' suoi caratteri in varie lette-
re, Carlo Barbiellini, Roma 1767, vol. I, p. 5
9.
La pretesa filosofia de' moderni increduli cit., vol. I, p. 15o; vol. II, pp. 29, 33, 67 («i gonfa-
lonieri del partito filosofista»), 8o ecc.
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non sempre esige rimedi sanguinolenti per rintuzzare l'errore, quantunque — si affrettava ad aggiungere — questi siano talvolta necessari allorché l'errore pregiudica la tranquillità ». Non era certo possibile seguire «il partito filosofico » nella sua difesa della tolleranza. «La Chiesa, colla sua intolleranza altro non fa che seguire gli ordini di Gesú Cristo » '. Non ammetteva forse lo stesso Rousseau che «il sovrano ha diritto di punire l'empietà»? 2 . Due recenti manifestazioni dei filosofi, la concezione morale di Helvétius, e soprattutto l'idea che essi venivano divulgando del «patriottismo» meritavano una dura e netta risposta. «Espressione del tutto nuova» quest'ultima, «che da alcuni anni in qua... corre per tutte le bocche»'. Bastava aprire l'Emile per accorgersi che si trattava d'«un'idea falsa, degna d'uno spartano»'. Essa negava quanto stava alla base dell'insegnamento religioso, la «legge universale» uguale per « tutti gl'abitanti dell'universo» 5 . Guardando agli esempi greci e romani, finiva col suscitare un «intollerabile fanatismo» 6. Soltanto il cristianesimo e la chiesa permettevano di « combinare l'amore di una patria speciale coll'amor generale verso l'intera umanità» '. «Il patriottismo degl'increduli» rivelava invece la sua piú vera natura nelle opere politiche di Rousseau, dove si polemizzava contro «lo spirito di schiavitú secondo lui essenziale al cristianesimo», si sosteneva che la chiesa era sempre stata ostile a « qualunque forma di governo alla popolare libertà favorevole» e si finiva col contrapporre il popolo alla volontà del sovrano, « a niente meno tendendo che a render la sovrana autorità il bersaglio del popolo» Ciò avrebbe finito col fare «qualunque cittadino giudice del buon uso o abuso dell'autorità sovrana» 3 . «Rivoluzione», «massima d'anarchia che sott'il bel pretesto di patriottismo cercasi per ogni parte introdurre» '°. Per giungere a tanto i filosofi si servivano delle phi diverse politiche. Il regalismo era uno dei loro piú efficaci strumenti. Dichiaravano di «voler riunire perfettamente le due teste dell'aquila», seguendo in questo l'insegnamento di Hobbes, l'esempio «del re d'Inghilterra e dello czar di Moscovia». Ciò avrebbe praticamente comportato la fine d'ogni autonomia degli ecclesiastici, « allora i preti cesserebbero di comunicare insieme e il clero non formerebbe phi un corpo » ". Per ottenere questo '.
La pretesa filosofia de' moderni increduli cit., vol. II, p. 29. Ibid., p. 58. Ibid., p. 87. Ibid., p. 89. 5 Ibid., p. 9o. ' Ibid., p. 98. Ibid., P. 104. s Ibid., pp. 1x6-17 e x20. 9 Ibid., p. 122. 10 Ibid., p. 123. 11 Ibid., p. 526. 2
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scopo gli «increduli» sfruttavano in ogni modo le «gelosie frequenti tra le due podestà spirituale e temporale par cagion di giurisdizione » 1 . Ma dopo la lettura del Contratto sociale non era pii possibile nutrire dubbi sugli scopi ultimi degli «increduli». «Lo spirito d'innovazione e di riforma in materie di religione» bisognava esserne ben persuasi, finiva sempre coll'essere «funesto non meno allo stato che alla chiesa... Il togliere ogni privilegio e le ricchezze al clero non solamente sarebbe un esporre a repentaglio la religione, ma ridonderebbe di nocumento allo stato » 2. Nessuno doveva ignorare che la mescolanza di patriottismo e di filosofia era altamente pericolosa. «Eglino, aggiungendo alla qualità di gran filosofi quella di patriotti contrassegnano la lor pendenza per le innovazioni ». Non ci si facesse illusioni: il mondo che essi andavano sognando era radicalmente diverso da quello esistente. «Non pii feste solenni o pubbliche processioni per implorare la divina clemenza a pro de' popoli, non pii celibato ne' sagri ministri dell'altare, non pii chiostri pe' cenobiti d'ambedue i sessi, non phi magnificenza ne' luoghi a Dio dedicati, non phi pompa nelle cerimonie e ne' riti della religione. In contraccambio di questi, il lusso fin dove può giungere, gli spettacoli ed i divertimenti profani si varino in infinito, i teatri si moltiplichino,... non pii si abbia riguardo per l'ordine ecclesiastico, né abbia il clero verun privilegio... si tolgano tutte le possessioni e le ricchezze del clero si secolare che regolare... » 3 . Di fronte ad un simile progetto di riforma, non potevano gli «increduli» sostenere di non esser loro i « turbatori della pubblica tranquillità»'. Il passato dimostrava anzi che i filosofi non avevano disdegnato d'assumere la funzione di «capi di sedizione». Bastava pensare a quanto aveva operato Locke nel 1688. Rousseau «tantoppii de' nostri pretesi filosofi perspicace quanto ad essi è superiore in tutti i generi» non si era lasciato persuadere dalle loro dichiarazioni di pace e concordia. In realtà, se mai doveva vincere il partito filosofico, le conseguenze sarebbero state catastrofiche. « Si vedrebbero le chiese spogliate, gli altari abbattuti...» E poiché non si poteva supporre che non sarebbe rimasto vivo un nucleo almeno di fedeli alla chiesa e alla religione, si sarebbe assistito ad una guerra civile di fronte alla quale «le guerre phi sanguinolenti e le stragi pii crudeli a cui la religione ha potuto dar occasione sarebbero un trastullo »'. Se era improbabile che tutto ciò accadesse, il merito non era davvero delle idee e delle intenzioni degli increduli, ma unicamente della loro debolezza e impotenza politica. Condizio' La pretesa filosofia de' moderni increduli cit., vol. II, p. 134. Ibid., p. 157. Ibid., p. 158. ' Ibid., p. 164. Ibid., p. 172. 2
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ne indispensabile per «cagionar» tumulti nello stato era «l'aver acquistato credito nello spirito de' popoli». «Ella è cosa certissima che non può accendersi guerra civile per motivo di religione e per qualunque si voglia altra cagione se il popolo non si solleva ». Era un fatto invece che «la filosofica setta non alligna ne' popoli» '. Il popolo era religioso, profondo era il suo bisogno di credere. «I popoli saranno sempre all'oscuro d'una filosofia che non può far progressi se non tra i grandi, tra i ricchi e tra le persone dell'ordine mezzano». I deisti, « se non hanno da lor lato il partito del popolo, non bastano per far una sedizione ed introdurre le guerre civili in uno stato». La prevalenza del «partito del popolo» sul «partito filosofico» era tale da allontanare il pericolo che i libertini «squarciassero della patria il seno e vi facessero scorrere torrenti di sangue» 2 . Bastava leggere Voltaire per accorgersi quale fosse la vera radice della loro debolezza. Evidente era in lui il disprezzo per coloro che lavorano con le proprie mani, da lui giudicati incapaci di raziocinio. Poteva anche aver ragione se alludeva al «lavoro mercenario e forzato, al lavoro di quelle persone che una educazione grossolana e bassa ratteneva nell'ignoranza ». Ma, anche in questo caso Voltaire, con questo suo giudizio, segnava dei limiti invalicabili alle proprie idee: «la sua filosofia non riesce migliore per essere inaccessibile a cotesta specie di persone». Anche loro erano uomini. «hanno lo stesso diritto che i magnati, che i doviziosi, che i letterati, che gli spiriti phi elevati alle verità che l'umanità in generale interessano, eglino ne compongono il numero maggiore, eglino possono e devono essere istruiti di ciò che risguarda i loro doveri, il loro destino, la loro felicità. Il lavoro delle mani, qualunque siasi, può far ottima lega con siffatte cognizioni... Maledetta quella filosofia che promettendo da un lato d'illuminare gli uomini intorno a materie si importanti, isdegna la semplicità del popolo. Essa, col dichiararsi di non esser fatta per lui, porta seco il segno di sua condanna» 3 . Quando La pretesa filosofia venne ristampata a Venezia, nel 177o, il governo della repubblica intervenne e proibí il libro, pericoloso evidentemente tanto agli occhi dei riformatori che dei patrizi, dei seguaci di Sarpi e di coloro che si aprivano alle idee provenienti da Parigi'. Domenico Caminer ne scrisse una violenta recensione 5. L'attacco allo spi2
La pretesa filosofia de' moderni increduli cit., vol. II, p. 175. Ibid., p. 178. Ibid., p. 179.
Cfr. «Notizie del mondo », n. 45 (5 giugno 1770), p. 374. Il libro venne « severamente proibito» mentre furono « sequestrati tutti gli esemplari ». Era stato pubblicato da Antonio Zatta, con una dedica ad Arnaldo Speroni, vescovo di Adria ed era stato autorizzato dalla censura il 21 novembre 1769. «L'Europa letteraria», torno IV, parte II (aprile 177o), pp. 29 sgg. È riprodotta in Mnxlxo EERENGO (a cura di), Giornali veneziani del Settecento cit., pp. 352 sgg.
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rito scientifico, alla volontà di tolleranza lo colpirono, ma egli era soprattutto scosso dalle accuse mosse al «patriottismo» in generale e a quello veneziano in particolare, e cioè alla tradizione sarpiana che, in quegli anni di lotta con la curia romana, ne era diventata il cuore e il simbolo. Ed essa era ormai andata mescolandosi con le idee dei filosofi, tanto che ormai potevano parere strani paradossi quelli del polemista romano che il secolo xviii era non «illuminatissimo», ma «stupido», cosí come le sue accuse di cecità rivolte a Locke e Newton, D'Alembert, Montesquieu, Hume e a « tutti gli enciclopedisti»'. Ma Caminer evitava di scendere sul terreno della politica e di seguire Mamachi — egli era persuaso che questo fosse l'autore della Pretesa filosofia — nell'esame del riflesso dei lumi sulla società del suo tempo. Lo accusava anzi di «sciocca imprudenza » per aver fatto «vieppiú conoscere nella nostra lingua italiana col pretesto di confutarli, i sofismi di Rousseau... e le arditezze di Voltaire non a tutti note»'. Si trattava tuttavia di dispute e controversie un po' sfocate, lontane. Quel che contava erano i problemi immediati, l'acutizzarsi, sullo scorcio degli anni sessanta, a Venezia come altrove, dei conflitti tra stato e chiesa. Come notava Caminer, Mamachi nel 1767 aveva interrotto «la sua corrispondenza letteraria contro gl'increduli» e si era volto con tutta la sua foga «contro a' principi e a' loro ministri»'. Tralasciando l'appello al «partito del popolo» contro i nemici della tradizione cattolica si era buttato ad una difesa ravvicinata ed energica dei privilegi del clero. L'opera sua — e questa volta non c'è dubbio che uscisse dalla sua penna — fu l'attacco piú massiccio che il giurisdizionalismo italiano subisse tra la fine del pontificato Rezzonico e l'inizio di quello Ganganelli. Ripubblicando le sue Lettere accademiche Genovesi ebbe ancora il tempo, nei primi mesi del 1769 (mori nel settembre) di rispondere in una lunga nota al «frate mammalucco» che aveva attaccato lui insieme a Montegnacco, a Contin, a Campomanes, a Pilati'. Particolarmente violento era stato l'attacco di Mamachi. «Il prurito d'impugnare — aveva scritto — le libertà e i diritti della chiesa è ormai arrivato a una specie di furore» 5 . Con uno sviluppo esattamente inverso a quello di Genovesi, la MARINO BERENGO (a cura di), 2
Ibid.,
p. 354.
Giornali veneziani del Settecento cit., pp. 352 e 353.
3 Ibid., p. 353. 4 ANTONIO GENOVESI, Lettere accademiche su la questione se sieno piú felici gl'ignoranti che gli scienziata, Stamperia Simoniana, Napoli 1769, lettera xi, p. 212 nota. 5 TOMMASO MARIA MAMACHI, Del diritto libero delle chiese di acquistare e di possedere bent temporali si mobili che stabili libri III contro gl'impugnatori dello stesso diritto e specialmente contro l'autore del Ragionamento intorno ai beni temporali posseduti dalla Chiesa ecc., stampato in Venezia l'anno 1766, s. 1. 1769, torno I, p. III. Genovesi poté conoscere i primi due volumi di que-
st'opera. Gli altri sono del 1770. Come scriveva G. C. Amaduzzi a Isidoro Bianchi da Roma, il 28 giugno 1769: «La stampa si dice fatta in Bologna, ma... è stata fatta in Roma nella stamperia di San
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sua concezione della chiesa e della religione si era fatta sempre pii materiale e corposa, intessuta sempre maggiormente di potere, ricchezze, tradizioni, privilegi. Ogni deviazione da questa visione era per lui un ritorno all'eresia di tutti i tempi, all'ideale della povertà e della spiritualità, ai «sofismi degli antichi falsi apostolici, di Arnaldo da Brescia, de' Waldesi, di Giovanni Wiclefo e di altri di simil genia..., dell'eresiarca Marsilio di Padova e di alcuni protestanti, del finto cattolico e vero calvinista F. Paolo » '. Perfino il fiscale del Consiglio di Castiglia, «il sig. Campomanes » era stato trascinato da questo sogno d'iniziale purezza della chiesa ed errava sostenendo che bisognava rifarsi «all'uso de' tempi apostolici e de' tre primi secoli..., ne' quali i beni dati alla chiesa si vendevano per provvedere del necessario i ministri e i poveri» 2. Sacrilego era chi poneva un qualsiasi limite al diritto della chiesa d'acquisire dei beni terreni o che pretendeva amministrar questi sostituendosi agli ecclesiastici. Diritto di proprietà pieno, quiritario. «Altrimenti la potestà men sublime, qual è la secolare, potrebbe dar legge alla pii sublime, qual'è la ecclesiastica, lo che è alieno non solo dalle dottrine de' padri, ma eziandio dalla ragione naturale»'. Ma anche Mamachi, dopo questa superba difesa di principio dei diritti inalienabili del clero sui beni di questa terra, era pur costretto a scendere nell'arena del suo secolo. Gli « acquisti della chiesa», si chiedeva, erano «pregiudiziali» o « giovevoli» alla repubblica? Il problema doveva esser discusso anche sul terreno dell'utilità, della politica. Mamachi non aveva dubbi: non la mobilità, la circolazione de' possedimenti è necessaria, ma il loro sempre maggiore accumularsi nelle mani del clero. Ciò avrebbe infatti spinto i capitali e le iniziative a dirigersi verso il commercio e l'industria. Cedendo le loro proprietà alla chiesa, diceva, i laici sarebbero stati indotti « a impiegare il prezzo che ne avevano ritratto nella mercatura», ciò che avrebbe prodotto «l'abbondanza nello stato per l'agricoltura da una parte, e dall'altra per la mercatura, a cagion de' lavori e delle manifatture che si dovranno fare». «Circolerà il danaro per la plebe stessa, non che pe' cittadini, con vantaggio particolare del pubblico » 4 . Tanto piú aggiungeva, che le terre ecclesiastiche erano meglio coltivate delle laiche. Oltre a queste ragioni economiche, anche degli argomenti sociali militavano a favore dell'inalienabilità dei beni ecclesiastici. Se le mani morte erano di danno allo stato, che dire dei fidecom,
Michele presso Giunchi, erede di Francesco Bizzarini Komarek » (MILANO, B. Ambrosiana, T. 128 Sup., f. 115). Lo stesso aggiungeva, il 16 luglio: «Ora è sotto il torchio il libro III, che sarà un IV volume» (ibid., f. 116). TOMMASO MARIA MAMACHI, 2 3
Del diritto libero delle chiese cit., tomo I, pp. tv-v.
Ibid., p. 138. Ibid., torno II, parte I, p. 155. Ibid., tomo III, parte I, p. 141.
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messi? Come questi garantivano la nobiltà, cosí quelle il clero. Senza l'uno e senza gli altri era inconcepibile una vera società. Mamachi sapeva benissimo che c'era chi pensava ad una società completamente, radicalmente diversa. Proprio questi erano i suoi nemici, i «nuovi politici », i «difensori di certi sistemi di repubblica che con isconvolgimento degli stati si vanno giornalmente fabbricando dagli oziosi e interessatissimi progettanti, i quali, con certe macchine di recentissima invenzione de' Voltaire e de' Rousseau, s'immaginano di essere arrivati come a elettrizzare in maniera le loro menti ch'elle da per tutto schizzino luce e illuminino sopra ogni altro il nostro secolo...»'. Mettendo da parte la religione, avrebbero voluto che « tutto sia abbondanza di cose terrene, tutto comodi, tutto tranquillità e pace nel mondo, tutto ricchezze» 2 . Erano loro i nemici delle mani morte cosí come dei fidecommessi, « spiantati difensori del nuovo patriotico filosofismo», che, collo « spogliamento » del clero e della nobiltà, « o si vorrebbero ingrandire o sperano di arrivare a non essere d'inferiore condizione» 3 . Erano i partigiani di quella «paritas », di quell'uguaglianza che giustamente Giacomo I aveva combattuto quando l'aveva vista emergere tra i puritani d'Inghilterra `. Idee, diceva, «ch'eran state quelle di Cromwell» 5 . Ora avevano cominciato a circolare in Italia. I loro partigiani sostenevano che lo spopolamento derivava dalla «disuguale distribuzione delle terre», che l'inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici e nobiliari produceva «mendichi e disperati e vagabondi» o. Tra i maggiori sostenitori di queste idee stava Genovesi, «il declamatore dalla sua cattedra non già del commercio, ma delle chimere e della irreligiosa filosofia de' Rousseau e de' Voltaire», il professore che nelle sue lezioni d'economia aveva apertamente dimostrato di non volere «i maggiorascati, né i feudi e fidecommissi addetti ad una famiglia», che aveva additato ai suoi scolari e lettori, «i lavoratori delle campagne» quasi fossero « schiavi additizi» e che sempre aveva sostenuto il diritto dello stato a regolamentare le manimorte'. «Ma chi sa che il voler far uguali, per quanto si possa, tutti i cittadini nel possedere, affinché non appariscano schiavi additizi, e non si diano alla disperazione, non sia uno di que' semi gettati a fine di far nascere ne' popoli degli spiriti antimonarchici, pe' quali, considerato quale schiavitit l'essere di suddito, si sollevino disperatamente e pretendano quella democrazia per cui sia 1 TOMMASO MARIA MAMACHI, 2 Ibid., p. x86.
ognuno partecipe del governo e di cui dice il Genovesi che la virtú sia l'anima?» Contro un simile pericolo Mamachi faceva appelllo cosí ai nobili come al popolo. Ai primi spiegò senza stancarsi che invano tentavano di scindere la loro causa da quella del clero : insieme sarebbero rimasti saldi o caduti. Utilizzava anche l'elemento nobiliare presente nelle pagine di Mirabeau, l'amico degli uomini, per ribadire l'errore d'ogni idea d'eguaglianza. I nobili dovevano rigettare le proposte di uomini come Campomanes e persuadersi che i riformatori, « se arrivassero mai a far valere i loro pensamenti, metterebbero la repubblica in confusione e iscompiglio » 2. Si astenessero, soprattutto, dal guardare con invidia o con desiderio alle terre del clero. Si ricordassero che, a confronto dei nobili, gli ecclesiastici erano dei poveri. Perfino a Roma, al « centro di ogni ecclesiasticità», non esisteva «una basilica che tanto possegga quanto possiede ciascuna di quelle particolari famiglie del secolo le quali, a quel che porta la voce comune, passano i cento mila scudi di annua rendita» Come paragonare il lusso dei laici a quello dei preti? La manodopera utilizzata dagli ecclesiastici, i contadini innanzi tutto, era ben altrimenti utile, che non quella al servizio dei laici, i quali invece mantenevano un gran numero di artigiani di lusso, confettieri, pasticcieri, parrucchieri, «giocolieri, istrioni, cantimbanchi, ballerini e ballerine, cantori e cantatrici». «Essendo promosse da' secolari si fatte arti, avviene che moltissimi della plebe, invece di applicarsi alle necessarie e utili, si appigliano alle superflue e alle dannose professioni» ". Senza contare — e cosí Mamachi passava a fare appello alla plebe — che gli ecclesiastici, contrariamente ai nobili, pagavano «puntualmente» i loro artigiani, senza far loro « aspettare sí lungamente la mercede, come ordinariamente l'aspettano, con gran loro danno o incomodo, da' secolari» 5 . Era questo uno dei mille fili che tenevano unito il clero e il popolo, fili che Mamachi faceva passare e ripassare tra le sue mani per stringere sempre strettamente l'uno all'altro. Infinito era il numero di coloro, diceva, che avevano gustato della carità, dei soccorsi degli ecclesiastici. Non sarebbero certo stati loro ad impugnare la legittimità o l'utilità dei beni ecclesiastici. Con lusso di dettagli descriveva «le porzioni di pane assegnate da monasteri piú volte alla settimana alle case povere vergognose, e i canestri di altri commestibili che loro giornalmente vi mandano». Né era vero, come si andava dicendo, '.
'.
Del diritto libero delle chiese cit., torno II, parte I, P. 184.
Ibid., p. 215. Ibid., p. 253. Ibid., torno III, parte II, p. 69. 6 Ibid., pp. 125, 233 e 244. 7 Ibid., pp. 247, 21x, 248.
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2
TOMMASO MARIA MAMACHI, Del diritto libero delle chiese cit., torno III, parte II, p. 248. Ibid., p. 218 nota. Ibid., p. 279. Curiosi i dati di questo confronto patrimoniale che Mamachi prosegue minuta-
mente nelle pagine seguenti.
" Ibid., pp• 436 Ibid., P. 430.
5
e 432.
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che le «minestre fratesche» attirassero solo i vagabondi. Molti di coloro che se ne nutrivano erano « coltivatori delle campagne, che, non avendo da lavorare per le frequenti piogge o per qualche infermità contratta, non hanno per allora il modo di mantenersi». Né mancavano «persone che portan parrucca e che in luogo appartato si soglion mettere, a fine di salvarne, per quanto si possa, il decoro». Né era giusto il rimprovero che si distribuisse soltanto «una bobba di brodo, di pane, di erbe e di non so che altri intrugli». Che forse i miserabili avrebbero dovuto esser trattati « a buone zuppe, a polli, e a vitella»? Invece di declamare contro le mani morte, dessero i laici più soldi al clero, se questo volevano. Appoggiassero, non tentassero di intaccare il sistema di assistenza, che era e restava tutto nelle mani della chiesa'. Né era vero, anche a parte la carità, che le ricchezze della chiesa profittassero unicamente al clero. Per infiniti canali le rendite passavano nelle mani dei laici più bisognosi. «Quante f amiglie potremmo noi contare le quali se non avessero avuto uno o più preti in casa o non avrebbero avuto, né avrebbero tuttavia con che sostentarsi...» 2. Né eran pochi ad aver tratto vantaggio dalla solidità economica delle aziende agricole della chiesa, non esposte alle vicissitudini di quelle laiche. Tuttavia quel che era accaduto durante le recenti carestie e le polemiche che ne erano nate non rendevano certo facile a Mamachi il compito d'apologeta delle ricchezze ecclesiastiche. L'esempio napoletano era sempre presente nella mente di tutti. Né, come aveva detto Montegnacco, la situazione era stata molto migliore in Romagna, dove il clero nulla aveva sacrificato per soccorrere gli affamati. «Queste — aveva scritto — sono le inumanità che cavano le lacrime»'. Anche questa volta Mamachi rispondeva con una chiamata di correo rivolta alla nobiltà. Almeno i frati napoletani non avevano avuto «maggior compassione de' cavalli loro che de' cristiani, sicché a quelli abbiano dato quel pane che a questi negavano, come sappiamo che fecero alcuni di coloro i quali nientedimeno hanno per avventura la sfrontatezza di sparlare de' beni de' luoghi pii » 4 . Mille invece gli esempi di carità dei missionari, dei certosini, del clero secolare, non solo a Napoli, ma in tutto il regno e non soltanto nel Sud, ma in Toscana e nello Stato pontificio. Pagine e pagine di esempi, che male tuttavia cercavano di nascondere quello iato profondo che le carestie degli anni sessanta avevano aperto, un po' ovunque in Italia, tra coscienza laica e realtà ecclesiastica. In Spagna il libro di Mamachi venne rigorosamente proibito, «connota
I
TOMMASO MARIA MAMACHI,
2
Ibid., parte I, pp. 161-62.
I.
Del diritto libero delle chiese cit., tomo III, parte II, p. 166,
A. MONTEGNACCO, Confermazione del Ragionamento cit., parte I, pp. cXXXVIII. 4 TOMMASO MARIA MAMACHI, Del diritto libero delle chiese cit., torno III, parte II, p. 172. 3
195 dannando color che osassero ritenerne o introdurne copia a dieci anni di galera»'. Tanucci volle seguire l'esempio di Madrid'. Qualche dubbio non mancò neppure a Roma ' , I «riformatori» scesero risolutamente in campo `. Nel settembre del '768 Tanucci insisteva perché anche a Napoli si seguisse l'esempio dei «decreti di Parma, di Venezia, di Mantova, di Genova, di Toscana» e si ponesse un freno all'ammortizzazione 5 . Alla fine del 1768 la Giunta degli abusi aveva cercato a Napoli di porre un freno alla propaganda del padre Alfonso de' Liguori, e di altri libri « pregiudiciali alla regalia » 4. La polemica rapidamente andò allargandosi. Giovanni Andrea Serrao, anche lui attaccato nel Diritto libero, rispose con un Apologeticus pubblicato a Napoli nel 1771'. La voce di Genovesi parve ancora risuonare, dopo la morte, nel grosso volume che Salvatore Spiriti, magistrato calabrese, pubblicò con l'indicazione di Palmira, e cioè Napoli, senza data, nel 1770 8. Era un Genovesi più classico ed accademico di quanto egli fosse stato in vita. Il suo libero dialogo sulle decretali, rimasto inedito, diventava nelle pagine di Salvatore Spiriti phi lucianesoft ,mniedatorvlipst stati d'animo e risentimenti. L'elemento giurisdizionale riprendeva il sopravvento nella discussione, lasciando meno spazio ai problemi e alla volontà di riforme più radicali. Il Dialogo dei morti ha tuttavia una sua calma efficacia, anch'essa d'eredità genovesiana. Vuol essere il punto d'incontro della tradizione veneta (Paolo Sarpi), dei lumi francesi (Fontenelle), della più ortodossa tradizione cattolica (Natale d'Alessandro e ' «Notizie del mondo», n. 84 (21 ottobre 1769), pp. 685 e 69o. 2
Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone cit., p. 567, 28 novembre 1769. Una delle ragioni di questo provvedimento napoletano consisteva nelle ingiurie che Mamachi aveva lanciato contro Campomanes, Spiriti e Genovesi. 3 Un foglio manoscritto di Notizie segrete, giunto a Torino all'inizio del 1770 diceva: « Si sente correr la voce che sia stato per ordine della Spagna detto al p. generale dei domenicani di far ritirare l'opera del p. Mamachi... È certo che anche a Palazzo non è piaciuto, almeno esternamente, che nel detto libro sia stato nominato il sig. Campomanes...» (TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 56, Roma, 6 gennaio 1770). 4 Mamachi fu uno dei primi ad adoperare la parola «riformatore» nel senso specifico di partecipe alle idee e vicende che abbiam sin qui seguito. Aveva l'abitudine di aggettivare il titolo dai libri dei suoi avversari. Cosí l'autore del Ragionamento (Montegnacco) diventa il «ragionatore», l'autore delle Osservazioni sulla carta di Roma (Spiriti) l'« osservatore», l'autore delle Riflessioni sopra la bolla in Coena Domini (Contin) il «riflessionista» e infine l'autore del libro Di una riforma d'I, talis (Pilati), il «riformatore». E per nessun altro la definzione era rosi esatta come per lui. Tra i numerosi esempi, cfr. Del diritto libero delle chiese cit., tomo II, parte I, pp. 173, 25 1 , 33o ecc. L'uso corrente del plurale («riformatori») poté facilitare l'adozione corrente d'un simile termine. Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone cit., P. 475, 13 settembre 1768. Cfr. pure P. 485, 25 ottobre 1768. 6 NAPOLI, AS, Giunta degli abusi, Cautele, n. 1, Appuntamenti della Giunta degli abusi degli 11 decembre 1768, n. 7. GIUSTINO CIGNO, Giovanni Andrea Serrao e il giansenismo nell'Italia meridionale (secolo xvrtl), Université, Louvain 1938, p. so5. Dialoghi de' morti o sia Trimerone ecclesiastico-politico in dimostrazione de' diritti del principato e del sacerdozio in risposta all'autore del Diritto libero della chiesa di acquistare e di possedere beni temporali si mobili che stabili, Palmira s. d. Cfr. R. DE MAIO, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1972, p. 33o, nota 201.
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il cardinal Pallavicino), mobilitati tutti contro «il frate Tommaso Mamachi domenicano », contro la pretesa da questi accampata che « gli ecclesiastici possono avere possesso, dominio e proprietà, possono aver cura delle cose tutte secolaresche, possono esercitar giurisdizione temporale e divenire anche sovrani». (Fontenelle finisce col proporre paradossalmente che tutti diventin chierici e di risolvere cosí ogni contrasto e contesa)'. La lunga polemica regalista aveva reso inaccettabile il controllo stesso del clero sulla società civile, a cominciare dai tradizionali metodi caritativi. «Li veri poveri erano, ma ora non lo sono, quei che cantano in coro, o che recitano quattro salmi, o pur quei che van pitoccando per le case. Son ora veri poveri quei campagnoli ed artigiani che da mattino a sera sudano, per mangiare un tozzo di pane, con recar dell'utile allo stato. Son quegli orfani privi d'ogni soccorso e quelle oneste donzelle che talora soffrono insidie da quell'istessi a' quali ricorrono per consiglio spirituale ed aiuto. Sono tante università che per li naturali sinistri e per le disordinate stagioni non ricavando gli sperati prodotti da' i loro terreni rimangono insofficienti alla contribuzione de' necessari pesi per la conservazione dello stato» 2 • Palesi infine erano le conseguenze dell'ostinata difesa dei privilegi ecclesiastici. L'esperienza era ormai secolare. Nel Cinquecento, «le false dottrine, in sostegno degl'illeciti guadagni e del vano fasto cagionarono la separazione dal centro di tutto quasi il settentrione. L'irritamento spinse gli animi aizzati ad attaccare anche i veri dogmi della santa fede». Una situazione non dissimile era ora venuta ripresentandosi nel mondo cattolico. «Ora, riproducendosi gli stessi oggetti temporali d'indipendenza, di giurisdizione e di ricchezze, temo che dopo non molto girar di cielo si vedrà isolata la sede romana, né pii ascoltandosi come vera depositaria della vera credenza nelle materie puramente spirituali, troverassi il cristianesimo squarciato in mille parti»'. A questa minaccia e profezia fa riscontro un apologo posto sulle labbra di Genovesi (ed è probabile che sia effettivamente suo), di fresco giunto negli inferi. Fontenelle, esprimendo «piacere inesplicabile » d'aver fatto la sua conoscenza, narrava come Genovesi avesse definito l'opera di Mamachi «un poema», un'epopea. «Mi ha fatto vedere che l'eroe di quest'opera è il dio Mammona. Il grosso dell'esercito esser composto da' ricchi regolari, truppa tutta scelta, valida e ben tenuta, come quella che non dura alcuna fatiga. Le truppe ausiliarie esser li commendatari ed i benefiziati semplici. Il comando supremo risiedere nel generale Mamachio. L'esercito contrario esser formato da' laici, dolenti di SALVATORE SPIRITI,
z 3
Ibid., pp. 2 94-95. Ibid., p. 3 25.
Dialoghi de' morti cit.,
pp. x5 e 74.
197
vedersi spogliati di tutto, nel tempo stesso che fra mille stenti, sostenendo i pesi dello stato, veggono li loro contrari sganassare nell'ozio; questa truppa è tutta smunta, lacera e sfiaccata per le continue fatighe. Congiunti di mira e d'interesse co' laici trovansi quei curati e preti meschini che deplorano il loro stato di dover vivere con gli onorari delle messe e con le scarse congrue de' loro uffizi, senza alcun benefizio, nel tempo stesso che le parrocchie sono ridotte quasi spelonche di ladri e da' privilegi de' regolari vengono intieramente li parrochi privi de' loro diritti. Li comandanti generali di questa truppa esser la giustizia e la ragione, che si sono messe sotto la protezione de' principi vindici e custodi de' canoni e della disciplina». La battaglia che si scatena tra questi due eserciti mette in gioco tutti i valori essenziali della religione e della società. «Mamachio suona la tromba e poi, deposta questa, va anche a battersi coraggiosamente con gli apostoli, con gl'evangelisti e co' padri e dottori, cagionando loro ferite pii ancora di quelle fatte da Diomede a Marte... Sopravviene intanto la notte de' raggiri, dell'ignoranza e della superstizione e la battaglia rimane indecisa e laici, non ostante che abbiano per conduttrici la giustizia e la ragione, rimangono nudi e sprovvisti come prima entrarono nella zuffa» Conclusione delusa e pessimistica, che non deve tuttavia farci velo sull'importanza che ebbero in quegli anni la polemica di Mamachi e le risposte dei suoi avversari. In quella disputa, come abbiamo visto, gli schieramenti divennero sempre più netti. Da una parte il potente frate domenicano che potrebbe essere detto il primo suscitatore di quel mito che alla fine del secolo prenderà il nome di Santa Fede, col suo tentativo di unire attorno alla chiesa i nobili e la plebe contro i riformatori, i sognatori d'eguaglianza, i programmatori d'una nuova società civile. Dall'altra, la truppa guidata dalla giustizia e dalla ragione, gli uomini «nudi e sprovvisti», che pur continuano a protestare contro i privilegi della chiesa e dell'aristocrazia. Dietro a loro, guidate da loro, sempre pii numerose le forze che si vanno mano mano staccando dal blocco degli avversari e dei tradizionalisti, i nobili che non disdegnano di avanzare le loro pretese sui beni ecclesiastici, i borghesi che non si accontentano del consiglio di Mamachi di investire i loro capitali nelle manifatture e nei traffici, rinchiudendosi nella loro antica funzione all'interno delle mura cittadine, ma vogliono uscirne, impadronendosi dei possessi del clero e della no'.
SALVATORE SPIRITI, Dialoghi de' morti cit., pp. 469 sgg. Poco o nulla aggiunge a questa polemica, accentuandone anzi il carattere accademico e letterario, il poema Mamachiana per chi vuol divertirsi, uscito dallo stesso ambiente del Dialogo de' morti e dovuto, pare, alla penna di Carlo Pecchia, il continuatore di Giannone e dello stesso Salvatore Spiriti. Non privi tuttavia di qualche efficacia i pastiches di autori latini e italiani, che si trovano in appendice all'uno e all'altro libro. Ecco Catullo: «Rex vigilet, sudet populus, voret omnia clerus I Hoc docet, huc ducit pagina Mamachii ».
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biltà, e con loro i preti di campagna, il clero povero e derelitto. Sempre pizi numerosa, alle spalle dei riformatori, anche se lontana ancora e divisa da mille tradizioni ed ostacoli, l'immensa turba dei poveri, degli artigiani, dei contadini, che pur sempre meno s'accontentano delle minestre dei conventi e delle briciole delle mense ecclesiastiche. Ai loro occhi i riformatori cominciano a mostrare un programma d'eguaglianza che non a torto Mamachi considera come il piú pericoloso. Ma i riformatori spiegano insieme, senza mai stancarsi, che ogni passo verso una trasformazione economica e sociale era immancabilmente legato all'atteggiamento dei governi, dei principi, che senza di loro non era possibile cornbattere e vincere gli avversari phi immediati e vicini: i frati, i preti, l'organizzazione mondana della chiesa. Qui stava il punto di contatto, la cerniera tra la ripresa giurisdizionalista degli anni sessanta e l'intero moto riformatore settecentesco. L'eco della disputa intorno a Mamachi, che rapidamente andò allargandosi a tutta Italia, dimostrò ancora una volta la presenza d'un simile nesso. Una difesa della politica papale aveva voluto essere un grosso opuscolo, pubblicato a Roma nel 1767 da Andrea Tosi, il quale fin dal titolo si proclamava «veneziano», con l'evidente scopo di contrapporre la sua origine e persona all'opera giurisdizionale allora in atto nella repubblica di San Marco. Combatteva soprattutto Montegnacco e il suo Ragionamento contro le mani morte'. Anch'egli accusava d'eresia i suoi avversari, anch'egli li sospettava di voler « promuovere dissenzioni e discordie » 2 . E anche lui si preoccupava di mostrare quanti e quali fossero i legami organici che univano la chiesa alle famiglie, alle terre italiane. «Niuno rimane escluso — diceva — dai beni che godono i clerici, ché anzi le ricchezze loro divengono un tesoro da dispensarsi a' figli, nipoti, fratelli e consanguinei dei medesimi laici... Di pii i frutti di tali beni hanno vie maggior giro che quelli che sono in mano de' laici istessi, poiché agli ecclesiastici aspirar puote ed il patrizio ed il plebeo, or quel d'una or quel d'altra famiglia...»'. Perché chiamare mani morte i possessi ecclesiastici? «Han giro e vita nel commercio mai sempre e vivi sempre rimangono in uso della civil società, girando continuamente di persona in persona, di diversi ordini e di diverse famiglie, laddove i beni de' laici non si facilmente passano dall'uno all'altro casato, ma stanno immobili e fissi pii tempo in una sola determinata famiglia... Con pii ragione si debbono Ragionamento di Andrea Tosi veneziano intorno a' beni ecclesiastici ed al celibato, Salomoni, Roma 2767. 2
Ibid., p. 1. Ibid., p. 36.
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chiamare mani morte le primogeniture, i fidecommissi inalienabili...» Né i chierici spendevano, come gli aristocratici, «per abbigliarsi e vestirsi di ricche straniere merci»'. Perché i governi avrebbero dovuto appoggiare una classe sociale in cui la mobilità patrimoniale e personale era minore che non tra gli ecclesiatici e che era proprio quella che impediva di metter in pratica quei programmi piú o meno mercantilistici di limitazione del lusso e d'incremento delle manifatture locali? Sempre dallo Stato pontificio, e piú precisamente da Ferrara, giungeva di rimbalzo dalla Baviera, la voce monotona e insistente del monaco benedettino Anselmo Desing 2. Veniva da un paese, la Germania, in cui i protestanti, la storia cinquecentesca della riforma, le secolari polemiche con luterani e calvinisti non potevano mai uscir dalla mente di un ecclesiastico che si ponesse il compito di difendere la ricchezza e la funzione sociale del clero. Pii vicina nel tempo era per lui l'ondata razionalistica, la volontà cioè di tanti suoi contemporanei di costruire, lo notava con particolare dispetto e dolore, una visione della umana società del diritto naturale fondata tutta sulla «sola ragione». Il 13 ottobre 1764 la Baviera aveva emanato un editto sulle mani morte che fu spesso citato e preso a modello anche in Italia'. Anselmo Desing s'era cosí dato a scrivere in gran numero grossi libroni e piccoli saggi indirizzati tutti a combattere la tradizione protestante e insieme a rintuzzare le nuove idee avanzanti, ultime figlie, ai suoi occhi, dello scisma e della riforma del Cinquecento. Nel 1757 usciva a Monaco, in tre volumi, l'opera sua intitolata Iuris naturae larva detratta compluribus libris sub titulo iuris naturae prodeuntibus ut puflendorfianis, heineccianis, wolfianis etc.'.
Non questa tuttavia, ma altre pii maneggevoli opere sue pensò di tradurre in italiano un suo confratello. « Si, frate io sono, e me ne fregio », diceva presentando la prima di queste'. «Non voglio all'Italia nostra far questo torto — diceva presentando, poco tempo dopo, una raccolta di opuscoli di Desing — di creder cioè ch'in essa alligni si fatta razza d'uomini della rivelazione nimici e tutti al culto della sola ragione consagrati » ' Ragionamento di Andrea Tosi veneziano cit., p. 37. x Cfr. ILDEFONS STEGMANN, Anselm Desing, Abt von Ensdorf, 1699-1772. Ein Beitrag zur Geschichte der Aufklärung in Bayern, München 1929. Vedi una copia di questo decreto in TORINO, AS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, mazzo 1 n. 1. 4 Cfr. FRANCO VENTURI, Utopia e riforma nell'illuminismo, Einaudi, Torino 197o, p. 529, ,
nota I.
Le ricchezze del clero utili e necessarie alla repubblica, opera del P. D. ANSELMO DESING, benedettino d'Ensdorf, per la prima volta dalla latina trasportata nella italiana favella, in Ferrara 1768, appresso Giannantonio Coatti. Si vendono a Roma nella libreria di Fausto Amidei al Corso. Nell'originale l'opuscolo s'intitolava: Opes sacerdotii num reipublicae noxiae? Ex rerum natura, sana politica et communi sensu generis humani examinatum, Johannis Gastl, Pedepontii prope Ratisb. 1 753. e Opuscoli del padre D. Anselmo Desing monaco benedettino della congregazione di Baviera dalla latina nell'italiana favella tradotti,Giuseppe Rinaldi, Ferrara 2769, Il traducitore a chi vorrà leggerne e profittarne, P. 4.
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Ma, pur allontanando da sé, non senza sforzo, un simile dubbio, ben si rendeva conto che comunque era necessario «in Italia... destare un po' pii di rispetto e di amore pel sacerdozio»'. Tanto phi che alle locali discussioni e polemiche sul clero si aggiungeva la grande ondata che veniva dal Settentrione e dalla Francia e che tendeva a scalzare la tradizione tutta intera, e cioè le «non ha molto scaturite limacciose e impure fonti» che derivavano dalle opere di Pufendorf, Wolff, Thomasius, cosí come dagli scritti di Voltaire, Montesquieu, Rousseau «e altri simili signoracci, i quali presso la Regina Ragione occupano i primi posti di confidenza e di onore» 2. Desing si era cioè reso conto che, un po' ovunque, si stava passando da un razionalismo inteso a preparare la via alla rivelazione ad uno che tendeva a sostituirla e distruggerla. Muratori era stato un esempio del primo, diceva, Montesquieu e Wolff del secondo'. «Guai all'uman genere — concludeva — se la formatasi di fresco setta de' naturalisti e degli uomini onesti serventisi della sola ragione prende piede e si stabilisce»'. Evidenti erano le conseguenze sociali e politiche di un simile razionalismo. Paradossalmente, ma non senza qualche apprensione, paventava il momento in cui i tedeschi si sarebbero messi ad « alzare una gran catasta ed in essa ardere e incenerare gli esemplari tutti delle divine scritture, de' padri, de' concili, de' teologi, de' filosofi e quanti finora è stato in Germania consultato per le regole aver de' costumi, oppure tutto gittare in fondo al lago di Zell o sia di Costanza e sommergerlo » 5 . Queste le conseguenze della «ragione sola» che, in Italia avrebbero potuto condurre a gettare «prmamente nel Tevere il papa con una macina al collo», per poi « sbandir... tutti i chierici» e magari «rilegarli nella Siberia o nella gran penisola a lei vicina, recentemente scoperta la Kamtzcatka» 6. A simili conseguenze rischiava di portare la politica dei « disadattati e sciocchi riformatori»'. Minacciata — Desing non lo ignorava — non era in realtà la vita, ma la ricchezza e il potere del clero. La sua controffensiva antiregalista è almeno altrettanto strenua quanto quella che egli sferrava còntro i razionalisti I «riformatori» (il suo traduttore usa spesso questa parola) erano altrettanto e «pii pericolosi dei naturalisti». Come osava Pufendorf parlare del pericolo che la chiesa costituisse uno stato nello stato? Già aveva dimostrato, nella sua Larva detracta, che «la chiesa non è Le ricchezze del clero cit., p. Opuscoli cit., p. 4. Ibid., p. 183. ' Ibid., p. 202. Ibid., p. 215. 6 Ibid., p. 227. 7 Ibid., p. 259. ANSELMO DESING,
2
ID.,
IX.
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uno stato ne' regni, ma questi sono stato nella chiesa». Bastava pensare all'Italia per persuadersene. « Se Pufendorf pensa giusto, ne segue non
esserci mai prima di questi tempi in Europa, e massimamente in Italia, stato alcun popolo libero, alcuna repubblica, poiché tutti dal sommo pontefice dipendono » '. Convinzione solidamente medievale, ancorata alla bolla In coena Domini. Il clero cattolico aveva innanzi tutto il dovere di «conservare la dipendenza » dei vari paesi dalla Santa Sede e di « difendere la cattolica unità», custodendo «in un solo ovile, sotto di un solo pastore il gregge». Per far questo, frati e preti avevano bisogno di mezzi, di terre, di soldi. Come negarglieli? Leggendo le sue pagine, sembra di veder Desing difendere con tutto l'animo suo uno dei conventi, una delle chiese barocche, cariche di ori e di ornamenti, tanto frequenti nella Germania meridionale. Tutti gli argomenti eran buoni per dimostrare che lo stato e la società traevano soltanto vantaggio d'un simile accumularsi di dovizie nelle mani della chiesa. Questa soltanto poteva garantire l'indispensabile opera d'assistenza ai poveri. I suoi poderi erano meglio coltivati. Non ne profittavano soltanto i chierici, ma le innumeri famiglie che dipendevano da loro. Pii originale è Desing quando tenta di calcolare, sia pure in modo elementare, l'effetto d'ogni possibile ridistribuzione della ricchezza tra le varie classi della società, ben inteso per dimostrare che soltanto la situazione esistente, quella tramandata dal passato, corrispondeva a giustizia e ragione. Tutta invidia era quella che muoveva nobili e riformatori a tentare una ridistribuzione delle terre, magari illudendosi di poter giungere cosí all'eguaglianza dei beni. Non ai contadini avrebbero finito col capitare quelle terre, bensì ai nobili o ad altri ricchi proprietari. «Non è certamente da sperare che i beni del clero distribuiscansi fra i terrazzani ed i coloni, e quando pur ciò facessesi, costoro, ingranditi cosí, diventerebbero nobili e vorrebbero vivere con più lusso, verrebbono a moltiplicarsi i poveri e quei che già pur troppo vi sono resterebbero privi di aiuto » 2. Non solo impreveggenti, ma privi di ogni generosità erano i riformatori. Perché non cominciavano le ridistribuzioni da loro auspicate nelle loro proprie terre? E perché insistevano tanto a considerare il lusso degli ecclesiastici pii nocivo di quello dei laici? Non aveva forse Mandeville spiegato che per «render fiorita e beata la repubblica esser i vizi necessari egualmente che la fame? » Vero era che il libro di questo medico inglese era «degno d'eterno silenzio ed oblio»'. Ma se il punto di vista puramente economico valeva per i laici doveva pure esANSELMO DESING,
Ibid., p. 64. ' Ibid., p. 32 2
.
Le ricchezze del clero cit.,
p.
8.
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ser accettato anche per i chierici. Economia, in realtà, quella di Desing, fondata, come quelle d'Ortes — al quale può esser riavvicinato, se non certo per acutezza, per alcuni presupposti generali — , sulla solida convinzione che illusorio era ogni miglioramento, che tutto sarebbe presto o tardi tornato ad un equilibrio di ricchi e di poveri, di servi e di signori, di laici ubbidienti e sottomessi e di chierici potenti e ricchi. Cosí era accaduto sempre, tra i messicani e i peruviani, i greci e i romani, gli indiani e i cinesi (e Desing dedicava a questa esemplificazione metà del suo libro). Come pensare a riforme illuminate dalla «ragione sola»? Piú penetranti e importanti le osservazioni di Desing sui valore e i risultati del desiderio ovunque presente di ritornare alle origini, di rifarsi alla chiesa primitiva. Desiderio -che cozzava contro il reale progresso, contro l'effettiva trasformazione che la chiesa, cosí come la società tutta intera aveva compiuto in tanti secoli. Bastava guardarsi attorno per accorgersene. I laici, che pur parevano indulgere a questi sogni di primitiva povertà e semplicità, sarebbero stati loro capaci di tornare alla situazione in cui erano nel lontano passato? «Mirabil cosa che costoro per tutti gli altri ordini della repubblica trovino ragioni a bizzeffe perché nuove delizie ogni giorno procurino, nuove mode ritrovino, poste in non cale e rigettate le antiche». Soltanto per il clero veniva richiesta la fedeltà a un modo di vita tramontato. « Si consideri l'antica nobiltà della Germania, il tenor di vita se ne disamini. Lo stesso facciasi degli antichi ministri de' prencipi, de' prencipi stessi, de' cittadini, della plebe degli uomini di villa e di tutte le altre membra della repubblica, facciasi delle antiche colle moderne costumanze un esatto confronto»'. Desing toccava qui uno dei punti più sensibili dell'epoca sua: la contraddizione tra il desiderio di ritorno alla chiesa primitiva e le idee di progresso, tra la riviviscenza giansenista e l'affermazione delle idee voltairiane, tra primitivismo e volontà di progresso economico. Di tutto questo egli non vedeva che un angolo. Ma anche la sua prospettiva ecclesiastica non era priva d'una qualche efficacia per intendere le implicazioni dei conflitti tra chierici e laici a metà del Settecento. L'eco degli scritti di Desing non mancò a Venezia. «L'Europa letteraria » recensí un lungo suo libro, uscito anch'esso a Ferrara, sempre nel 1768, su La questione se le ricchezze del clero nocevoli siano alla repubblica, stupendosi di sentirlo proclamare se stesso «frate e arcifrate» 2. Pilati, come vedremo, polemizzerà contro il benedettino bavarese. Ma, ben inteso, anche nella Repubblica di San Marco, al centro di tutte le di-
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spute restò l'attacco di Mamachi, cosí come le risposte che si eran date all'irruente domenicano. Il Dialogo dei morti di Salvatore Spiriti venne ripubblicato a Venezia, con l'aggiunta di qualche pagina dell'autore stesso'. Tre anni dopo, nel 1773 tornò in campo l'abate Contin, con due grossi volumi pubblicati da Antonio Graziosi: Il diritto e la religione giustificati dall'autore delle Riflessioni sulla Bolla in Coena Domini contro le declamazioni dello scrittore Del diritto libero della chiesa di acquistare e possedere beni temporali si mobili che stabili. Ancora una volta i deputati aggiunti ad pias causas, Zan Antonio da Riva, Andrea Querini, Alvise Valaresso si vedevano offrire un'opera che giustificava «le loro incredibili fatiche» per rimettere ordine e disciplina nel clero veneto. «Dottor risolutissimo del secolo», « confutator generale delle leggi» « don Chisciotto della letteratura», egli chiamava il Mamachi, accomunandolo a coloro che si arrogavano «l'appalto privato della teologia» 2 . Contro di lui Contin assumeva posizioni solidamente conservatrici, a difesa della tradizione sarpiana e di una profonda divisione tra potere politico e ecclesiastico, tipica del mondo veneto. Non primitivismo (polemizza spesso con Rousseau), men che mai nostalgie anabattiste, ma la legge di Gesú Cristo, il quale aveva subordinato « qualunque possesso ed uso » alle leggi del principato'. Ma questa subordinazione pratica, economica, non significava affatto dipendenza e men che mai piaggeria di fronte a chi era piú forte e potente. Questa bassezza ed adulazione l'abate Contin lasciava tutta intera al suo avversario e a tutti coloro che scrivevano per compiacere la curia romana e per far carriera nello Stato pontificio. Difendessero loro i benefici e le terre del clero. Perché non proponevano addirittura, visto che queste erano meglio coltivate, di passare nelle mani dei chierici tutte le terre ora in possesso dei laici? Finalmente si sarebbe raggiunto un ideale teocratico, a cui solo la lontana Etiopia, con tutte le sue ricchezze ecclesiastiche, pareva in qualche modo avvicinarsi. Mamachi pareva aver cosí trovato la formula per render prosperi tutti i paesi. Invano si erano sforzati di reperirla « tanti scrittori di commercio», quasi tutti inglesi, olandesi, «e simile genia ereticale». « Gioirà questo popolo di mendicanti dello suo stupendo segreto di renderlo ricco ad esclusione di altre nazioni e vittorioso nella sorda guerra dell'attuale commercio, e, senza fondi propri, espugnerà sotto la vostra direzione il traffico degli olandesi, degli inglesi, dei cinesi e di alDialogo de' morti..., edizione seconda, con aggiunta una lettera di Filotimo a Filalete, Giuseppe Bettinelli, Venezia 177o. Cfr. la recensione di Domenico Laminer nell'« Europa letteraria», tomo I, parte I (settembre 177o), pp. 55 sgg. 2
ANSELMO DESING, Le ricchezze del clero cit., p. 31. 2 «L'Europa letteraria», tomo IV, parte I (r° marzo 1769), p. too.
203
e
TOMMASO ANTONIO CONTIN,
211.
Ibid., vol. II, p. 125.
Il diritto e la religione cit., vol. I, p. 28, e vol. II, pp. 17, 226
204
Capitolo ottavo
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tri eterodossi, come senz'armi espugnarono gli ebrei la ben munita Jerico»'. L'eco di queste discussioni si di ff use ovunque in Italia. I Dialoghi de' morti del marchese Spiriti furono ripubblicati a Firenze, nel 1770, nei tomi V e VI della Collezione di scritture di regia giurisdizione. Perfino a Torino, dove più sorda era stata l'eco a tutti i dibattiti degli anni sessanta, ci fu chi si persuase che era pur necessario rimettersi in moto. Il 27 marzo 1770 l'avvocato Carlo Ignazio Montagnini terminava le sue
Riflessioni sopra gli editti riguardanti le mani morte ne' stati de' principi catolici e segnatamente nel ducato di Milano e nelle provincie suggette al felicissimo dominio di S. M. Ben inteso non eran scritte per esser pub-
blicate, riservate come erano a Carlo Emanuele e ai suoi ministri Z. Tecnicamente erano eccellenti. I raffronti da lui istituiti tra i provvedimenti presi nei diversi stati italiani sulle proprietà ecclesiastiche possono ancor oggi esser d'aiuto allo storico. Particolarmente interessato era Montagnini alla legislazione lombarda, anche per l'evidente ragione che una parte del territorio della monarchia sabauda era legato a quella tradizione giuridica. Notava con esattezza e precisione gli sforzi che, anche in Piemonte, la magistratura aveva compiuto negli ultimi anni per contenere l'aumento delle mani morte. Ma era costretto a concludere che le vecchie leggi non eran più sufficienti, che il governo doveva intervenire e che anche a Torino era pur necessario seguire l'esempio di Campomanes. Altrimenti le proprietà si sarebbero sempre più concentrate nelle mani del clero. Non era giusto « che i molti travaglino per arricchire i pochi, che a' bisogni dello stato pochissimo il ristretto numero contribuisca e che la maggior contribuzione cada sopra chi poco o nulla possedesse». Si rischiava cosí di immiserire il paese tutt'intero e d'estinguere «e la nobiltà e ogni civiltà». «La carestia, la fame, la guerra, il peso straordinario de' tributi, gli accidenti e le calamità delle cose, il lusso e lo sconcerto de' tempi, non sono che ondeggiamenti de lo stato che vanno sospingendo i beni de' secolari nelle mani morte». La piccola proprietà veniva inghiottita e i contadini si trasformavano in braccianti. Invano i difensori di questo processo sostenevano che « agiata, felice e popolata » era « quella provincia la quale, in cambio di abitanti padroni di case e poderi, altro non abbia che fittaiuoli e lavoratori a giornata». Ragione di più per opporsi all'espansione della proprietà ecclesiastica. Citando gli spagnoli come Carrasco, i francesi come Forbonnais, i veneti come Montegnacco, i napp.
TOMMASO ANTONIO CONTIN, Il diritto e la religione cit., vol. II, TORINO, AS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, Manimorte, mazzo
304 sgg. da ordinare. Cfr. Dell'antica legislazione italiana sulle mani morte, Memoria di Carlo Ignazio Montagnini, conte di Mirabello, a cura di Luigi Montagnini, in «Misc. stor. ital.», torno XIX, IV della serie II (188o), pp. rog sgg. 2
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poletani come Vargas Maciucca insieme a Montesquieu e Campomanes, l'autore riassumeva, con vigore ed energia, gli argomenti che da anni giurisdizionalisti e regalisti andavano diffondendo in tutt'Europa. Notevole pure il suo sforzo per applicare questi giudizi alle terre di Carlo Emanuele III. Ma qui incontrava anch'egli le stesse difficoltà che si erano frapposte all'opera dei senatori veneziani, quell'oscurità cioè che circondava la reale situazione sociale del clero. Quanti erano gli ecclesiastici e quanta terra possedevano? Domande a cui non era facile rispondere. Gli esempi che portava erano tuttavia istruttivi. A Tortona il reddito degli abitanti, poco più di 40 000 anime, era da lui calcolato a «754 582 lire, mentre 137 regolari, più 221 monache ne avevano 247 067». Ad Alessandria, il reddito complessivo era di 1 868 472 e quello delle mani morte 492 6 53 (321 regolari, 23o monache su una popolazione di 59 086). « Assai notabile sproporzione», come diceva Montagnini. Lucido nella sua impostazione, colto e preciso, egli non era tuttavia in grado di proporre un programma incisivo. La sua conclusione è debole. Né le sue parole ebbero effetto alcuno sull'animo del sovrano. Dopo la morte di questi, Graneri fu costretto a constatare, il IO novembre 1774, che «Carlo Emanuele, di sempre gloriosa ricordanza, con somma avvedutezza e prudenza pose freno ai soverchi acquisti delle mani morte con mezzi indiretti», ma che questi avevano ormai palesato da tempo la loro insufficenza. Troppo facilmente gli ecclesiastici sfuggivano alle vecchie leggi e disposizioni'. Il Piemonte vedeva cosí aprirsi di fronte a sé un lavoro che altri stati italiani, e soprattutto il vicino Milanese, già ormai avevano alle spalle. A Napoli, che, con Venezia era uno dei due poli di tutto il moto anticuriale, le conclusioni vennero tratte, all'inizio degli anni settanta, da Giuseppe Maria Galanti Morto appena Antonio Genovesi, questo suo allievo decise di scriverne un Elogio storico. La raccolta di un ricco e prezioso materiale, le difficoltà frapposte da censure e polemiche faranno si che questa sua opera non vedesse la luce che nel 1772 2 . Guardava a Genovesi come al filosofo che più d'ogni altro aveva preparato «una felice rivoluzione nelle leggi e ne' costumi»' Non Giannone, non Vico, non altri scienziati e studiosi, ma proprio colui che aveva saputo unire in un nodo inscindibile la riforma intellettuale a quella morale, «l'arte di ben pensare» a quella « di giovare agli uomini » 4 Dopo aver seguito passo passo la carriera del maestro egli si soffermava con parAS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, mazzo z, pp. 943 sgg. 3 GIUSEPPE MARIA GALANTI, Elogio storico cit., p. 25. TORINO,
s Cfr. Riformatori, torno V, Ibid., P. 24.
n.
6.
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Santa fede e mano morta
Capitolo ottavo
ticolare attenzione sull'attività anticuriale degli ultimi anni di Genovesi, quando questi aveva visto nella riforma delle scuole, nella lotta contro le mani morte, nella polemica contro l'eccessivo numero dei chierici i piú immediati ed efficaci strumenti d'una trasformazione della società meridionale. Partiva dal 1767, quando furono « contentati i voti del pubblico, o per dir meglio dei picciol numero degli uomini ragionevoli nella nostra nazione, con vedersi purgati questi regni de' pp. gesuiti, riconosciuti alla fine perniziosi egualmente alla religione che allo stato piú che la fine della Compagnia doveva segnare l'inizio di nuove scuole, ispirate a piani e consigli del filosofo. Anche se « del disegno formato dall'abate Genovesi si mise in opera quel tanto che la congiuntura de' tempi permetteva che si facesse», senza metterlo in pratica in tutta la sua interezza, ciò era però bastato per dimostrare «in quanto vantaggio del pubblico è tornata l'espulsione de' gesuiti». Genovesi aveva contribuito ad aprire un'epoca nuova. «Aspettiamo cose maggiori dal tempo, dalla bontà del re, dalla saviezza de' suoi ministri e dallo spirito di filosofia, di ragione e di umanità che comincia a spargere da per tutto il suo lume» 2. L'ultima battaglia del maestro — proprio sull'orlo estremo della sua vita e addirittura postuma —, quella attorno alla cattedra della decretali e alle mani morte, suscitava particolarmente l'ammirazione di Galanti. Posto di fronte a questi segni rivelatori della profonda scissura che divideva la chiesa e lo stato, la religione e la politica, la società civile da quella ecclesiastica, « il nostro filosofo cittadino non poté a meno di rispondere con filosofica franchezza e col piú vivo sentimento del bene della sua patria, e dell'umanità, inspiratogli dalla vista de' disordini politici in quella regnanti e dall'ardente brama di vedergli un dí corretti»'. Una violenta reazione aveva tentato di soffocare il suo «virtuoso zelo». «L'impostura» e «l'ipocrisia» «addentarono con li piú furiosi sforzi il suo sapere, la sua virai, la religion sua». «Un frate domenicano ipocrita ed arrogante, per nome Mamachio, autore di alcune opere teologiche appena nate che obbliate, con una temerità senza esempio, nel 1769, si elevò in Roma contro a tutti i sovrani e contro ai filosofi per mezzo di un libro calunnioso, scritto sí bene con isciocca e falsa logica, ma, secondo le occorrenze de' tempi, col piú reo e sedizioso disegno » 4 . Contro di questi è diretta tutta una ampia appendice dell'Elogio storico, intitolata Risposta alle calunniose detrazioni di fra Mamachio contro l'abate GenoGIUSEPPE MARIA GALANTI,
vesi. La polemica è minuta, ostinata, talvolta pedante, ma il risultato è rivelatore: la concezione stessa della religione e della società era cosí diversa nei due contendenti che ogni conciliazione era ormai impossibile. Struttura della chiesa, etica quotidiana, mentalità politica ed economica non avevano piú nulla in comune in due uomini che pure, apparentemente, appartenevano alla stessa religione e alla stessa epoca. L'abisso scavato dalla discussione giurisdizionalista degli anni sessanta poteva esser qui misurato in tutta la sua profondità. Soprattutto quando Galanti parlava di forme di governo, di democrazia e di monarchia. Una nuova visione politica era nata dall'esercizio del potere che gli stati erano andati compiendo contro le ingerenze della chiesa, un ritorno a Machiavelli e una piú aperta comprensione di Jean-Jacques Rousseau. Quel che aveva mosso Genovesi, diceva Galanti, era la volontà di eliminare la discordanza tra potere civile e potere religioso e questo lo aveva portato a riflettere di nuovo sul Principe e sul Contratto sociale. Certo non era vero che le idee di Genovesi mettessero in pericolo la monarchia del regno di Napoli. Ma era pur vero che anche là era ormai nata e si era radicata una nuova forza, e una nuova visione politica — precisamente, avrebbe potuto aggiungere, quella del partito dei filosofi che Mamachi aveva tanto mostrato di paventare qualche anno per l'innanzi. Certo era ridicola calunnia affermare, come questi faceva, che «l'abate Genovesi aveva già, nel 1769, in cui egli scrive, diecimila discepoli ebbri di virai e di democrazia, in conseguenza mal sofferenti la monarchia» e che essi, rapidamente moltiplicandosi, avrebbero, poco tempo dopo, fatto si che il re perdesse «il regno per sola opera dell'abate Genovesi '. Erano sciocchezze. Ma era pur sempre operante anche a Napoli, e anche per merito di Genovesi, un gruppo di pensatori i quali non intendevano chiudere le orecchie quando Rousseau parlava «dello stato di crisi in cui pretende che sieno le gran monarchie di Europa » 2 . Non erano i filosofi a metter in pericolo gli stati. Ma essi non potevano non riflettere sulla realtà che li circondava. Combattendo i teologi essi avevano mutato la vita politica stessa di tutti i paesi. «I libri de' filosofi respirano l'amor del genere umano, quelli de' teologi, tutti gli orrori del fanatismo. I filosofi, illuminando gli spiriti, hanno addolcito i costumi, i teologi, offuscandogli di tenebre, gli hanno renduti furiosi. Quelli hanno formato uomini, questi de' mostri... Voi, padre mio, mentite mille volte per la gola quando chiamate un Rousseau autore di sollevazioni de' popoli. Queste sono state l'opera di coloro che l'hanno perseguitato in nome di Dio » 3 .
Elogio storico cit., p. 144.
2
Ibid., p. 160. Ibid., p. 170. 4 Ibid., pp. 170-71.
207
GIUSEPPE MARIA GALANTI, 2
Ibid., p. 46. Ibid., P. 49.
Elogio storico cit., p. 42.
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Capitolo ottavo
Santa fede e mano morta
Il 20 settembre 1773, quando si erano da poco assopite le polemiche suscitate dal suo Elogio storico (« il cardinale arcivescovo di Napoli lo denunciò formalmente al re come un'opera scandalosa»... « tre famosi teologi furono da lui riservatamente impiegati a far l'esame del libro»), Galanti scriveva a Voltaire, «benefattore del genere umano » per proclamarsi sconfinato ammiratore di chi, con i suoi scritti, tanto aveva contribuito ad « operare una sicura rivoluzione negli spiriti d'Europa» La risposta che ne ricevette era il più bell'augurio che il moto anticuriale italiano suscitasse mai nell'animo del patriarca di Ferney. Il «bellissimo libretto » di Galanti era ai suoi occhi una promessa, se non della distruzione, per lo meno dell'incatenamento, «senza poter dare un crollo», del «mostro del fanatismo». «Il vecchio filosofo, prima di morire, augura questo regalo alla bella costiera di Napoli per le buone feste», scriveva il 1° gennaio 1774 2 . Ma anche a Napoli, lo slancio degli anni sessanta andava in realtà smorzandosi. Galanti avrebbe voluto continuare la polemica contro gli avversari di Genovesi e suoi e gettò sulle carte molte pagine contro le accuse rivolte ad ambedue dall'abate Magli, ma nulla poi pubblicò di questo suo scritto'. La relativa tolleranza che lo aveva protetto contro gli attacchi dell'arcivescovo e dei teologi, l'appoggio che nel 1773 aveva avuto da parte di Carlo De Marco, ancora una volta sulla breccia nella lotta giurisdizionale, non erano tuttavia sufficienti per riaprir subito una battaglia che ovunque in Italia subiva una battuta di arresto. Del resto vien fatto di pensare, rileggendo le accuse dell'abate Magli, che anche questi suoi attacchi, come quelli del padre Mamachi e di altri che si volevano campioni dell'ortodossia, finivano non per scalzare ma per ribadire quel che era il risultato più importante di tutto il moto del decennio precedente, la confluenza cioè della corrente giurisdizionalista con quella dei filosofi illuministi. L'abate Magli, pur tentando in tutti i modi di distinguere il pensiero di Genovesi da quello di Galanti, pur contestando ostinatamente il diritto del secondo a far propria l'eredità del primo, doveva pur finire con l'ammettere che la polemica contro le decretali, .la concezione stessa che Genovesi aveva finito col farsi della storia della chiesa, cosí come la sua visione dei rapporti tra sovrani e sacerdoti, la sua insistente richiesta, rivolta allo stato, d'una riforma di mille aspetti della vita ecclesiastica erano sfociate infine in una concezione nuova della politica, incompatibile con la tradizione della chiesa. Era rimessa in que-
'.
SALVATORE ROTTA, Giuseppe Maria Galanti e Voltaire, in «Rass. lett. ital.», anno LiVI, n. (gennaio-aprile 1962), p. 118 e in Riformatori, torno V, pp. lo2x sgg. 2 Ibid., p. 119 e Riformatori, torno V, p. 946. 3 Ibid., PP. 991-92.
1
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stione la legittimità stessa dell'idea delle «due podestà». La «filosofia politica » di Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Pufendorf, dei luterani, dei calvinisti, dei deisti e al seguito loro, degli illuministi francesi e di Rousseau rischiavano di sostituirsi al pensiero dei teologi di tutti i tempi'. All'orizzonte si stagliava ormai nettamente la visione di una società tutta umana, senza distinzione di clero e di laici. Il Contratto sociale finiva col diventare l'ideale anche del «Rousseau italiano», come l'abate Magli ripetutamente chiamava Giuseppe Maria Galanti 2. Che facesse egli molta attenzione, si affrettava ad aggiungere: l'abolizione del potere spirituale avrebbe portato le società che eran state cristiane verso un mondo politico simile a quello dei turchi, e, in generale, del dispotismo orientale. «Voi biasimate come tirannica e anticristiana l'autorità divina ed infallibile della chiesa, de' pontefici e de' vescovi, né altro sospirate che libertà di pensare, che libertà di coscienza, che tolleranza, e poi volete introdur nel cristianesimo il dispotismo orientale e il dispotismo de' turchi e de' pagani?» 3 . Paradosso polemico che tendeva a rivelare e a sottolineare due possibili, effettive tendenze del pensiero riformatore: «che nelle nazioni il sovrano sia anche il pontefice, il vescovo, il sacerdote..., come appunto pretendono gli eretici luterani e calvinisti, gli scismatici inglesi e i miscredenti deisti e naturalisti» e, d'altra parte, l'idoleggiamento dei mondo classico, delle società antiche, anteriori ad ogni separazione del sacerdozio e dell'impero 4 . A questo conduceva l'idea che il culto divino era «mero affare di polizia e non di rivelazione», a questo portava il sempiterno contendere tra le due potestà 5 . Le conseguenze le aveva già tratte Rousseau quando aveva sostenuto che «la religione cristiana divide gli uomini, ond'è perniziosa e gli rende tutti disuniti d'interessi, onde ogni stato diviene mancante di forze e di attività » 6 . Era questo il nocciolo del Contratto sociale, che l'abate Magli citava a lungo, quasi a specchio del pensiero politico di Galanti, finendo poi con lo sbottare non in una polemica o confutazione, ma in una sorta di formula di scongiuro di fronte a tanta empietà. «Per ismentir voi e Rousseau vostro maestro ed Dissertazioni del sacerdote D. Pasquale Magli sul diritto della natura, e sulla legge della grazia, consagrate alla maestà sacrosanta e divina dell'eterno vero e vivo, uno e trino Iddio, qual onnipotente creator d'ogni natura e liberalissimo donator d'ogni grazia e primo principio e ultimo fine infinitamente ragionevole e onesto e santo e giusto d'ogni diritto, d'ogni providenza, d'ogni sovranità e d'ogni legge, Vincenzo Orsini, Napoli 1773, torno III: Appendice alla presente sesta ed ultima dissertazione in cui si contiene un avvertimento all'autor del libro anonimo iscritto Elogio storico dell'abate Genovesi, pp. 130 sgg. 2 PASQUALE MAGLI, Dissertazioni cit., pp. 24 sgg. Ibid., p. 133. Cfr. pure pp. 170 sgg. 4 Ibid., p. 134. Ibid., p. 138. 6 Ibid., p. 140.
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Capitolo ottavo
originale vi so dire ch'io son cittadino cattolico romano e membro della chiesa cattolica e son vassallo del mio re delle due Sicilie e so che debbo ubbidire e ciecamente ubbidisco alla chiesa e ai suoi ministri negli affari della religion rivelata... ed egualmente ubbidisco alle leggi e disposizioni del mio sovrano negli affari pertinenti alla vita presente sensibile e civile. Falsamente addunque asserite che negli stati cristiani non si sa a chi ubbidire, non v'è economia, non v'è un tutto ben ordinato e sossistente e ben reggente dipersestesso, ma precario e sempre in punto di disfarsi e sciors'in fumo, come gl'increduli vorrebbero far d'ogni società e chiesa e repubblica. Ma est Deus in Israel, ed Egli regge e governa, spezialmente gli umili e ubbidienti a i suoi ministri» '. Come si vede quella unità e armonia che i riformatori cercavano in una società tutta umana, senza scissure interne, i polemisti cattolici volevano imporre con l'autorità, la tradizione. Soltanto cosí sapevano di potersi opporre a quello sfaldamento e sgretolamento che si era venuto operando per opera delle contese giurisdizionali e della penetrazione illuminista Quanto piú sentivano la precarietà della situazione in cui erano venuti a trovarsi, con tanta maggior decisione alzarono la bandiera della Santa Fede, facendo appello alla ubbidienza o alla fedeltà. Come poteva Genovesi permettersi il lusso di parlare delle origini democratiche della chiesa, della sua degenerazione poi in aristocrazia e in monarchia assoluta, con un processo che portava, tra il xru e il xiv secolo, all'inquisizione e al despotismo ecclesiastico? 1 . Eran queste idee d'«un cristiano cattolico romano o d'un luterano e calvinista e d'un miscredente deista? » 3. E come poteva Galanti, sulle tracce del suo maestro, tanto insistere nella «libertà di pensare»? Erano i «novatori», i «naturalisti» a sostenere che «la religione cristiana, spogliandoci di siffatta libertà, ci violenta la nostra natura, ci spoglia della nostra umanità e ci abbassa, e ci avvilisce alla vil condizione delle macchine e delle bestie». Queste erano inammissibili bestemmie. Un vero «cattolico romano» doveva vivere, guardandosi intorno, osservando l'Europa del suo tempo e concludere che «fortunatamente» mancava « a noi italiani» una simile «libertà di pensare», del tutto incompatibile con l'«autorità della chiesa»'. «Voi dunque biasimando co' deisti l'intolleranza cattolica e della chiesa e volendo una tolleranza universale nella chiesa biasimate le istituzioni divine di Cristo... e volete commutar la chiesa in una vera torre di Babele ed in una combricola di Satanasso e spogliarla della sua unità e cangiarPASQUALE MAGLI, Dissertazioni Cit., P. 147. Ibid., p. 157. 3 Ibid., p. 161. Ibid., pp. 166 e 569.
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la in una mostruosissima idra d'innumerevoli teste sventate, quali son le teste di tutti i novatori» '. Era passata soltanto una decina d'anni da quando Genovesi si era proclamato «naturae simplex nudusque sacerdos », scandalizzando grandemente Mamachi. L'abate Magli, anche questa volta, cercava di difendere l'amico filosofo, ma era costretto ad ammettere che i tempi erano rapidamente cambiati, che le parole stavano rapidamente mutando di senso e che era stata «una somma imprudenza ed una massima noncuranza », da parte «d'un vero cristiano e sacerdote cattolico romano lasciarsi unger gli stivali ed essere acclamato sacerdote della natura nell'età nostra, in cui i naturalisti, i deisti, gli atei, gli empi si spaccian vangelisti, appostoli e martiri della natura, dell'umanità, della ragione, in discredito e discapito della grazia, della divinità e della rivelazione». Non aveva forse il barone di Holbach, l'autore dell'empio libro «del Système de la nature» innalzati ormai quegli «autels de la nature», nei quali offrivano «i loro sacrifici naturali», «i nuovi sacerdoti della natura», «il Genovesi e il suo galantissimo elogista»? 2. Ma l'abate Magli si spingeva troppo oltre in questa sua assimilazione della scuola di Genovesi con gli illuministi francesi. Certo Voltaire e Rousseau erano sempre presenti al maestro napoletano e alla sua scuola. Ma non al Contrat social o al Système de la nature essi potevano fare appello. E neppure a quei lontani esempi protestanti ai quali polemicamente tanto spesso si rifaceva l'abate Magli. La riforma religiosa cinquecentesca poteva attirar lo sguardo dei veneti o di un uomo come Carlantonio Pilati. A Napoli invece l'appello di Rousseau ad una società senza scissure, senza chiesa trovava la sua risposta in una nostalgia del mondo antico, in una classicità anteriore al cristianesimo. La spinta egualitaria e democratica contenuta in Jean-Jacques veniva cosí convogliata in forme pill conservatrici e tradizionali, le quali pure corrispondevano alla profonda esigenza di offrire una risposta positiva, un corposo e storico modello di una società diversa da quella continuamente discussa e contestata dalle discussioni anticuriali. Il mito neoclassico, anche a Napoli, sorgeva a conclusione di un lungo contrasto tra stato e chiesa. Basta, per accorgersene, aprire le pagine che pubblicò nel 1774 uno dei migliori tra i riformatori religiosi del Mezzogiorno, Andrea Serrao, destinato, come è noto, a portare fino alle estreme conseguenze, nei decenni seguenti, questa sua volontà di trasformazione ecclesiastica e civile. Era allora professore nella scuola napoletana del San Salvatore, là
:
PASQUALE MAGLI, Z
Ibid., p. 233.
Dissertazioni cit., p. 179.
212
Capitolo ottavo
chiamato su indicazione di Genovesi, a sostituire i gesuiti. Un manuale di scuola era infatti il suo libro, un testo classico accompagnato da ampia prefazione '. Qui si misura con ampiezza quanto persistente fosse l'eco dell'insegnamento di Genovesi nella scuola napoletana all'inizio degli anni settanta. Le idee del filosofo conservano tutto il loro vigore, anche se filtrate attraverso l'ammaestramento quotidiano. Serrao aveva seguito con grande interesse la discussione suscitata dall'Elogio storico di Galanti. «Non va esente da difetti notabili — aveva scritto ad Isidoro Bianchi —, ma contiene similmente molte cose buone e dimostra spirito maggiore che non comporta la condizion de' tempi» 2. Ora, commentando Senofonte, egli contemplava con compiacimento e ammirazione un mondo lontano e ideale in cui «l'oggetto primario degli studi letterari altro non era che l'etica, la politica e l'economia, nelle quali facultà bene addotrinati divenivano poscia ottimi e giureconsulti e legislatori e magistrati, e capitani e padri di famiglia, tutti insomma i migliori cittadini, utili a sé, utili alla patria». Esempio da imitare anche nei tempi moderni, senza farsi arrestare dal pregiudizio che una simile formazione animata dall'amor di patria e non distratta dagli studi contemplativi fosse adatta unicamente ai governi repubblicani. « Se non m'inganno non v'ha cosa che impedisca che, siccome a quei tempi antichi, cosí parimenti a' di presntilagovù mentdal'ic om,adl politica ancora, come da tre purissime fonti, si desse ad apprendere gl'insegnamenti dell'ottimo cittadino, per cosí rendersi idonea a servire lo stato»'. Economia dunque, più che giurisprudenza. Agricoltura innanzitutto, per trasformare le province e mutare la mentalità dei contadini. Azione pratica («fecciosa politica di Romolo»), senza inutili raffinamenti teorici (« perfettissima ed ottima forma della politica di Platone») 4 . Imitazione degli «industriosissimi piemontesi» e dei genovesi per la manifattura della seta, non senza ascoltare gli ammaestramenti del marchese Domenico Grimaldi 5 . Lasciare agli spagnoli, ai francesi, ai popoli settentrionali il traffico mondiale, ma sfruttare al massimo le risorse agricole della propria terra. Morale semplice ed energica, fondata sull'evidente vantaggio, sull'utile comune della buona fede. Seguendo le orme di Genovesi, un passo dopo l'altro, anche Serrao procedeva cosí sulla via della laicizzazione integrale della società. «E se le occupazioni della mia ca' L'economia di Senofonte, di greco tradotta in italiano con la prefazione e le annotazioni di Andrea Serrao, regio maestro di Teologia morale e di catechismo nell'Accademia del SS. Salvatore. Raimondi, Napoli 1774. x MILANO, B. Ambrosiana, '
T.
13o Sup., f. 15v, 19 settembre
L'economia cit., pp. 5 sgg. Ibid., p. 217. Ibid., pp. 31 sgg•
3 SENOFONTE,
Santa fede e mano morta
i
1772.
213
rica mi daranno tanto di agio — concludeva la sua prefazione —, vi prometto di darvi un trattato di economia cavato dai libri della nostra Sacra Scrittura, acciocché meglio intendiate quanto bene colla nostra divina legge e coll'ordine stabilito da colui che tutto regge si accorda la buona economia»'. Conclusione pedagogica, eco finale dell'intervento genovesiano nel dibattito giurisdizionalista a Napoli negli anni sessanta. SENOFONTE,
L'economia cit.,
p. 47.
Parma e l'Europa
Capitolo nono .Parma e l'Europa
La polemica sui gesuiti, cosí come quella sulle scuole e le mani morte, localizzate dapprima in questo o quel centro, si erano presto allargate sino a comprendere, al di sopra dei confini dei singoli stati, l'Italia tutta intera. Le reazioni restarono diverse e contrastanti a seconda si trattasse di Napoli o di Venezia, di Firenze o di Torino. Molto contarono, come abbiamo visto, le tradizioni locali. Ma di maggior peso e importanza furono senza dubbio gli elementi comuni che vennero mano mano emergendo. Quando Carlantonio Pilati, nel 1767 cercò un titolo per il suo intervento poté ormai chiamarlo Di una riforma d'Italia. L'anno dopo una serie di circostanze, europee ed italiane, venne a dare un centro unico a tutto il moto riformatore italiano. Parma divenne, per un momento, il punto d'incontro di tutte le polemiche, il modello d'una trasformazione intellettuale e politica, economica e religiosa. Fu il risultato inatteso d'una situazione diplomatica, che poneva il ducato al punto d'incontro della influenza spagnola e di quella francese in Italia, e ne faceva la vetrina della politica borbonica in Europa, proprio quando il patto di famiglia era all'apice del conflitto con la curia romana. E ciò in uno staterello legato fin dall'origine al papato, nato per la famiglia Farnese, nel ducato nostro parmensi, come diceva Clemente XIII. L'idea di fare del pii guelfo degli stati italiani il modello d'una riforma giurisdizionale e illuminata era un paradosso che durò poco, ma che assunse per un momento un valore esemplare. Proprio uno dei pii artificiosi stati italiani assurse cos{ a simbolo della difesa dell'idea di sovranità contro l'universalità medievale del papa. Attorno a Parma vennero a schierarsi, pii o meno esplicitamente, quasi tutti gli altri stati italiani, e quando l'impero appoggiò le corti borboniche in questo loro conflitto con Roma si poté dire che l'Europa tutta intera faceva scudo al ducato contro le ingerenze e le pretese papaline Senza questo elemento internazionale le trasformazioni di Parma dopo Aquisgrana sarebbero rimaste nell'ambito di una riorganizzazione locale di carattere assolutistico. Per andar pii in là mancavano i soldi e gli
215
uomini. Piccolo stato indebitato, uscito saccheggiato, rovinato dalle guerre della prima parte del secolo, il ducato non aveva amministratori capaci, né una attiva nobiltà e tanto meno tecnici e imprenditori. Il confronto con la vicina Modena è rivelatore. A Parma, dappertutto clero e soltanto clero, di tutti gli ordini e di tutti i gradi. Se una tradizione esisteva era quella dello sfarzo, delle grandi spese per la corte, dei grandi progetti, dei grandi sogni architettonici e politici. Una eredità farnesiana questa, d'una grande famiglia del Rinascimento italiano. Prima di diventare un esemplare focolare dei lumi, alla fine degli anni sessanta del Settecento, Parma era stata, per due secoli, uno dei pii vistosi frutti politici della controriforma italiana. Ambizioni sterminate, su scala europea, che avevano trovato una ultima espressione in Elisabetta Farnese e nel cardinale Alberoni e che avevano lasciato la loro impronta nelle strade, e nelle piazze di Parma. Ora, passata la metà del xviii secolo, questa tradizionale grandiosità entrava in conflitto con coloro che per tanto tempo se ne erano nutriti, che su di essa avevano prosperato: preti e frati, chiese o conventi. Le cifre sono impressionanti. Nel 1759 su monti e dazi della città di Parma gli ecclesiastici godevano d'un reddito annuo complessivo di 429 796 lire e i laici di 272 992 (mentre 46 369 erano divisi tra gli uni e gli altri). Quasi tre quinti dunque'. La città contava 91 chiese e oratori, 19 confraternite, 4 congregazioni, 21 conventi femminili, 18 maschili oltre ai pii conservatori 2 . A Piacenza, alla stessa data, su 30 590 abitanti, 815 erano ecclesiastici, 647 chierici, 488 sacerdoti regolari, 200 conversi, 478 monache coriste, 202 sorelle converse. Circa il dieci per cento della popolazione'. Nel piacentino due quinti delle terre, in quel di Borgo San Donnino pii della metà, due terzi nel Parmigiano erano nelle mani degli ecclesiastici secondo calcoli incerti, ma pur indicativi'. Guillaume Du Tillot, il francese figlio d'un piccolo funzionario de ll a corte di Luigi XIV, educato a Parigi e passato dal servizio di don Carlos a quello di suo fratello don Filippo, aveva cominciato ad affrontare questa realtà quando fu nominato ministro e intendente dell'azienda, il 22 giugno 1756 e poi, il i8 giugno 1759, primo ministro 5 . Già da qualche anno gli inquisitori di Parma e di Piacenza andavano lamentandosi di non esser ascoltati pii come nel passato. Dicevano che UMBERTO BENASSI,
ne di
Guglielmo du Tillot. tin ministro riformatore del secolo xvirr, Deputazio-
storia patria, parte I, Parma 19 1 5, p. 89.
Ibid., p. 292. Ibid., p. 92. ° Ibid., parte III, 1921, p. 12. 5 Ibid., p. 231, e ibid., parte V, 1924, p. 17 e 1789, Honoré Champion, Paris 1928, pp. 73 sgg. 2
HENRI BÉDARIDA,
Parme et la France de 1748
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Capitolo nono
il governo era giunto al punto di permettere la sosta in un albergo della città d'un forestiero sospetto d'essere luterano o di non tenere sufficientemente a freno l'«indegna ciurmaglia» degli ebrei. Qualche timido tentativo di limitare l'importazione nel ducato di Parma di frati stranieri incontrò subito forte opposizione tra i vescovi. Le tradizioni farnesiane, dapprima fedelmente rispettate, impedivano di mettere un qualsiasi limite alle immunità e ai privilegi sacri. Il tentativo di ottenere dal papa qualche concessione per quel che riguardava la tassazione dei clero diede risultati irrisori a confronto con quelle sancite nei concordati con Napoli, Torino e Madrid '. I primi conflitti di qualche entità si ebbero dopo l'introduzione, nel 1758, d'una nuova ferma per le imposte. Contenere il contrabbando e l'evasione fiscale era impossibile senza intaccare le franchigie ecclesiastiche 2 . Sei anni di preparazione furono tuttavia ancora necessari perché si giungesse al decreto del 25 ottobre 1764 sulle mani morte, la prima misura importante di Du Tillot sul terreno giurisdizionale'. L'esempio della legge genovese del 1762 fu di qualche influenza, anche tramite Giacomo Maria Schiattini, genovese egli stesso, presidente del Supremo Magistrato Camerale a Parma e uno dei più attivi collaboratori di Du Tillot 4. Modena aveva già provveduto nel 1763, ma Francesco III riconobbe che i provvedimenti di Du Tillot erano migliori dei suoi. Non mancarono gli incoraggiamenti dalla Francia, da Milano, da Venezia. Solo la Spagna frenava. Lo spettro dei Farnese pareva tornare su Parma da Madrid, nella persona della vecchia regina madre Elisabetta e poi dello scrupoloso suo figlio Carlo. Ma quel che più conta, un piccolo ed attivo gruppo di uomini era in via di formazione attorno a Du Tillot. Oltre a Schiattini, Girolamo Nasalli e Giambattista Riga, un numero crescente di ecclesiastici favorevoli alla nuova politica: Pietro Capellotti, arciprete di Momigliano, uscito da lunga prigionia per mano dell'inquisizione, Adeodato Turchi (il quale nel 1764 derideva il pontefice che invece d'impiccare quattro o UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte I, pp. 282 sgg. Ibid., parte II, 1920, pp. 43 sgg. Ibid., parte III, pp. 1I sgg. Vedi l'editto che si trova pure in Raccolta di leggi, decreti, avvisi ed istruzioni concernenti le mani morte ed altri oggetti di suprema giurisdizione negli stati di Parma, di Piacenza e di Guastalla, Stamperia nazionale, Parma anno xi della repubblica francese 1803, n. I, pp. 1 sgg. Cfr. STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Adeodato Turchi, uomo, oratore, vescovo (17241803), Istituto storico Ord. Fr. Min. Cappuccini, Roma 1961, pp. 81 sgg. L'ambasciatore veneziano 2
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cinque monsignori per la loro rovinosa politica annonaria aveva ordinato gran processioni di penitenza « per divertire il popolo dall'accusare le cause seconde»'), il teatino piemontese Paolo Maria Paciaudi, che sarà il maggiore artefice della politica culturale parmense 2, gli storici Ireneo Aff• e Giuseppe Pezzana, redattore quest'ultimo del più importante organo di propaganda di Du Tillot, la «Gazzetta di Parma»'. Erano giuristi ed ecclesiastici che si aprivano ai lumi europei: lumi filtrati spesso attraverso la diplomazia e la politica francese, derivanti piuttosto da Chauvelin, e da Choiseul che dagli enciclopedisti e dagli economisti, dall'azione dei parlamenti che da quella dei philosophes, ma pur sempre lumi, attivi e brillanti rispetto alla tradizione locale, rappresentata in modo tipico dal conte gesuita Giambattista Roberti, e sempre pronta a riflessi nazionalistici italiani, contro i francesi (Angelo Mazza ne è un tipico esempio), propensa cosí alla satira come alla declamazione celebrativa e ornamentale. Proprio contro questa tradizione reagiva Paciaudi, prendendosela con il «furor poetico degli italiani per qualunque oggetto e motivo», contro l'erudizione immaginosa, «l'etruschismo de' nostri tempi» 4 . Adeodato Turchi riempiva allora i suoi quaderni di appunti da Rousseau, Mably, Levesque de Pouilly, Servan, Beccaria, Marmontel, Deleyre, Duclos, anche se si guardava bene dal citarli perché, come diceva, erano « proibite merci» 5 . Du Tillot leggeva il «Caffè» fin dai primi numeri, guardava ai milanesi come ad un modello, cercava la propria via verso l'economia politica, lottando anche in questo campo con difficoltà e ostacoli grandissimi (ancora nel 1761 il libro di Broggia gli veniva consigliato come il migliore) ed egli, pur mostrandosi grande ammiratore del decreto francese di liberalizzazione del 1764, non riusciva se non a stento a liberarsi, a Parma, nella sua concreta azione politica, da un radicato, meschino vincolismo locale 6 . La lettura della «Gazzetta di Parma», nel 1766, dà un'idea dello sforzo che si veniva compiendo. Filippo Carmignani, il libraio ducale, promette il 2 luglio « oltre le nuove ordinarie che ci vengono, per cosí dire, di prima mano... di pubblicare regolarmente le notizie di rilievo in genere di commerzio, agricultura, scienze ed arti e principalmente quelle de'
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a Roma, Girolamo Ascanio Giustinian diceva, scrivendo in patria il io novembre 5764, che simili provvedimenti erano divenuti necessari a Parma «per la impotenza dei laici a portare da soli, i pesi dello stato» (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori, Roma 285). UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, pp. 113 sgg. e 156 sgg. e Raccolta di leggi e statuti... , a cura di A. F. Adami, pp. 91 sgg. (l'autore di questa Raccolta avrebbe voluto dedicarla a Du Tillot. Questi rifiutò, ma fu tuttavia lieto di esser considerato uno dei primi, in Italia, a prendere seri provvedimenti contro le mani morte).
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UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 62. WIDAR CESARINI SFORZA, Il padre Paciaudi e la riforma dell'Università di Parma ai tempi di Tillot, in «Arch. stor. ital. », anno Lxxrv (1918), VOL I, disp. I, pp. 109 sgg. e UMBERTO BENAS-
Lamenti del padre Paciaudi, collaboratore di un ministro dell'età delle riforme, in Miscellanea di studi storici in onore di Giovanni Sforza, Bocca, Torino 1923, pp. 42 5 sgg. Tip. Ducale, vol. VI, Parma 3 ANGELO PEZZANA, Memorie degli scrittori e letterati parmensi, SI,
1833, che è la maggior storia intellettuale del ducato. UMBERTO BENASSI, Lamenti del padre Paciaudi cit., pp. 465 e 433. STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Adeodato Turchi cit., pp. 41 sgg. cit., parte IV, p. 165. 6 UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot 4 5
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paesi oltremontani che non siamo sí facilmente a portata di sapere». Viene infatti istituita una nuova rubrica economica. Nel suo negozio si trovano i libri piú diversi, dalle polemiche beccariane di Risi e Venturini alle Meditazioni sulla felicità di P. Verri con le note di F. D. Vasco, nonché libri di agricoltura, di matematica, di scienza (12 agosto 1766). Col settembre, una apposita rubrica, Notizie letterarie, prende a parlare di Rousseau, Hume, Voltaire (23 settembre 1766). Du Tillot, personalmente, si serve d'una lingua francese, spagnola, italiana dove certo non prevalgono le preoccupazioni letterarie e che spesso raggiunge la pura e semplice sgrammaticatura. Eppure le Rêveries di questo ministro cosmopolita non son prive di energia'. La cultura dei lumi parigini penetra in lui sempre puú profondamente. L'animo di Du Tillot si apre al sogno del secolo, di cui si sente parte attiva e cosciente. La sua corrispondenza con Azara, il rappresentante spagnolo a Roma, è particolarmente rivelatrice. L '8 marzo 1767 gli scriveva: «Veo, Como V. S. dice, que el espíritu philosophico va haziendo progresos. Los haze tambien en Espana, en fin en todo el mundo católico, cuasi. Los harâ despues en Italia, pues ya ha adelantado en la mayor parte de ella, Venecia, Turin, Florencia, Napoles, Génova. Pero vera V.S. que antes de un siglo ese espíritu, después de haverse exercitado sobre materias de jurisdición en la clase que ha relación con Roma, se estendera a lo civil y politico de los gobiernos. Los hombres querân tratar de su libertad y de los limites de su obediencia, el gobierno sera mas arduo. Vea V.S. lo que se discute en Francia, son pasos a romper alcun pedazo de vinculos y cadenas. Las mentes no se iluminerân sin que se busque a abrir carrera a la libertad. Muchos escritos, come el Contrato social van ya conteniendo maximas y principios que con el tiempo alarmerân los ministros. El gobierno despotico se sentira de elio. Averla mucho a decir sobre este punto » 2. Du Tillot sentiva cosí maturare il frutto illuminista della politica giurisdizionale nella quale egli era ogni giorno maggiormente impegnato. L'arrivo a Parma di Keralio, Condillac, Deleyre, Mullot venne a consacrare, agli occhi dell'Europa tutt'intera, questo sempre piú evidente volgersi di Parma verso i lumi Keralio era un seguace degli enciclopedisti, ammiratore di d'Alembert e di d'Holbach 3 . Certo Condillac era stato scelto per l'educazione del duchino Ferdinando anche perché aveva sempre voluto mantenere di fronte alla religione un silenzio che poteva esser interpretato come rispettoso ed era certo prudente. Ma il UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte II, p. 4 e parte III, p. 162. 2 VON PASTOR, Storia dei papi, vol. XVI, pa rt e I, p. 835 nota. 3 FRANCO VENTURI, La corrispondenza letteraria di Auguste de Keralio e Paolo
Frisi, in Europäische Au/klärung. Herbert Dieckmann zum 6o. Geburtstag, a cura di Hugo Friedrich e Fritz Schalk, W. Fink, München 1967, pp. 301 sgg.
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suo nome era già simbolo, al di là e al di qua delle Alpi, dei lumi parigini'. Deleyre era ateo dichiarato e grande amico di Diderot e di Rousseau 2. Quanto a Mulot, si trattava d'un ex gesuita, le cui idee storiche erano voltairiane e che era apprezzato da Grimm come «homme chez qui les préjugées de son état n'ont pas éteint le principe de justice et d'humanité»'. Se si aggiunge la collaborazione di Mably all'opera storica di suo fratello Condillac e la benedizione, da lontano, di Voltaire, l'inquadratura francese delle riforme parmensi risalta in tutto il suo splendore, tale da mutare i colori stessi del quadro, del paziente quotidiano lavoro giurisdizionale cioè che 'si andava compiendo in quegli anni a Parma. Come scriveva in quegli anni, con splendida frase, l'ambasciatore veneziano a Roma, Niccolò Erizzo, «la reffrazione de' lumi e delle scienze e letteratura » mostrava quanto fosse ormai «invecchiato il vasto edificio» del dispotismo ecclesiastico romano «il qual per gli urti che da piú parti va ricevendo crolla, e già apparendo in esso gl'insulti del tempo, minaccia maggiori rovine» All'editto sulle mani morte segui, il 13 gennaio 1765, quello di perequazione dei carichi pubblici, che incontrò non pochi ostacoli e non fu messo in vigore se non nel 1767'. Ma già all'inizio del 1765, il 29 gennaio, veniva istituita una Giunta di giurisdizione, l'organo cioè che a Parma come a Milano, a Modena e a Venezia, sia pure con modalità diverse, incarnava la nuova vòlontà di rompere con tutte le vecchie strutture e di far prevalere la nuova volontà statale". Tribunale del diavolo, lo chiameranno gli avversari delle riforme'. Avocò a sé gran parte dei potere dei tribunali ecclesiastici e non poche delle mansioni di sorveglianza in precedenza affidate agli organi della chiesa'. Le resistenze crebbero rapidamente, malgrado la prudenza con cui procedeva Du Tillot, il quale pareva voler seguire il consiglio di uno dei suoi progettisti, Baldassarre Maria Martelli, procedeva cioè con la spada in una mano e con il vangelo nell'altra, perché, diceva, «per tèner basso il prete bisogna farla da prete»'. I rapporti diplomatici con la curia peggiorarono rapidamente, né mancarono, ben presto, delle vere e proprie rivolte nelle zone di confine LUCIANO GUERCI, La composizione e le vicende editoriali del Cours d'études di Condillac, in Miscellanea Walter Maturi, G. Giappichelli, Torino 2966, pp. 285 sgg. 2 FRANCO VENTURI, Un encyclopédiste: Alexandre Deleyre, in ID., Europe des lumières. Recherches sur le 186 siècle, Mouton, Paris 2972, pp. 51 sgg. • LUCIANO GUERCI, Il « Cours d'études» cit., p. 203. o VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori, Roma 286, 7 marzo 1767. N. Erizzo concludeva co-
si un suo rapporto sulla situazione a Parma. • Raccolta di leggi, decreti, avvisi cit., n. 4, p. 2o. Cfr. UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, pp. 115 sgg. 6 Ibid., p. 122. ' Ibid., p. x27. • Raccolta di leggi, decreti, avvisi cit., n. 5, pp. 25 sgg. 9 UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 219.
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del ducato, da parte di contadini e contrabbandieri che reagivano all'abolizione di antichi privilegi e che erano affamati dalla grande carestia del 1764'. Pii grave d'ogni altra fu l'opposizione del clero del ducato, soprattutto nel Piacentino e a Borgo San Donnino, opposizione esasperata dalla crescente ostilità che Du Tillot andava dimostrando contro i gesuiti e i loro numerosi sostenitori. Le dame orsoline di Piacenza furono al centro dell'opposizione ecclesiastica 2. Il «motín d'Esquilace» e il prevalere a Madrid nel 1766 del partito delle riforme ridiede nuovo impulso a Du Tillot. Il modo stesso di procedere mutò, abbandonando il ripetuto tentativo di ottenere l'assenso pontificio e facendo finalmente per conto proprio. Con l'inizio del 1767 la rottura con Roma era completa, consenzienti la Francia e la Spagna. La Giunta di giurisdizione entrò in azione indagando e disponendo su conventi e parrocchie, stabilendo l'exequatur, avocando al governo l'imprimatur dell'Inquisizione, obbligando il clero « alla pura predicazione evangelica», con l'astensione da «qualsiasi allusione ai principi riguardanti la sovranità, il governo, le leggi»; proibendo infine qualsiasi ricorso a Roma Un'immagine straordinariamente viva del fermento prodotto da simili misure al centro stesso della resistenza clericale, a Piacenza, nell'estate del 1767, troviamo nei rapporti che di là giunsero a Du Tillot da parte d'un ecclesiastico partigiano delle riforme ed evidentemente zelantissimo nel servire il governo 4. In nessuna altra città italiana ci è stato dato ritrovare un quadro altrettanto minuzioso e preciso delle reazioni locali alle riforme giurisdizionali. A Venezia i senatori sono riservati. A Napoli la voce di Tanucci è dominante Da Piacenza ci viene invece un brusio di voci. Ci troviamo di fronte ad un formicolio di nobili, preti e monache, presi nel gorgo d'una trasformazione che li obbliga a cambiare i loro pii cari modi di pensare, di agire, persino di gestire. I gesuiti cercano di reagire «colla compostezza del corpo e colla modestia del volto ». Ma nell'animo loro sta la preoccupazione per le «persecuzioni degli ignaziani spagnoli» 5 . Mentre passeggiano sulle mura della città vanno sussurrando che il re di Spagna « operava senza cervello», che il cardinal '.
UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte II, p. 29; parte V, p. 66 (rivolte di Mezzani, alla confluenza dell'Enza nel Po, al grido di viva il papa) e p. 31 (rivolte delle Corti di Manchio e nelle Valli dei Cavalieri, sull'Appennino, sulla strada tra Parma e Aulla). 2 Ibid., pp. 72 sgg. Ibid., pp. 179 sgg. Una ampia raccolta di disposizioni giurisdizionali del ducato di Parma si trova in TORINO, AS, Materie ecclesiastiche, cat. 33, mazzo 1, n. s. 4 Cfr. UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 71. Le lettere sono conservate a PARMA, B. Palatina, Mss parmensi, Storia 581. Sui preti Antonio Schenone e Antonio Colombi, informatori di Du Tillot, cfr. ibid., p. 210. 5 PARMA, B. Palatina, Mss parmensi, Storia 581, pp. 29 sgg., 22 giugno 1767.
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Alberoni era il vero padre dei figli della regina Elisabetta '. I loro partigiani, ben inteso, proclamavano che del tutto ingiusto era attribuire alla Compagnia la colpa del tumulto madrileno dell'anno prima 2 Le solidarietà che essi trovavano in città erano numerosissime. I parroci erano « tutti dervis», quello di Sant'Alessandro era «il mufti dei giannizzeri», «il decano dei loiolisti travestiti»'. Un libraio, Ferrante Malchiodi, era gran partigiano della Compagnia'. La bottega di un fabbricante di pettini, uno dei loro centri 5 . Tanto erano organizzati che si andava dicendo in giro che eran loro «li franchi muratori, perché le massime attribute a questi sono le medesime..., come il segreto inviolabile, la mira all'universale dominio, la perfetta unione fra di loro » 6 . Venivano attribuite ai gesuiti delle vere e proprie provocazioni. Di notte erano stati sparsi per la città dei biglietti su cui si avvisava «che se non li si scacceranno si farà una sollevazione di popolo». Cercavano essi di «mettere in sospetto al governo il partito contrario ai gesuiti, che in apparenza pare numeroso, ma che in realtà pecca gravemente nel diminutivo » 7. I « terziari» erano «pii di due terzi degli abitanti » 8 . Né mancavano le minacce di morte e le accuse di essere « eretico notorio » per chiunque fosse ostile alla Compagnia'. L'intero governo di Parma, non la sola Giunta di giurisdizione era dichiarato « eretico» '°. Gli avversari della Compagnia sembravano tuttavia, malgrado l'ambiente ostile, farsi alquanto pii attivi e decisi. «Io prendo per un buon augurio li circoli che anche in pubblica strada si vanno facendo dai cosí nominati giansenisti, vale a dire non gesuiti, fatto che prima succedeva alla rovescia » ". Si sentivano appoggiati dalle parole e dall'azione di uomini come Adeodato Turchi o Paolo Maria Paciaudi ". Erano soprattutto rincuorati dalle notizie che giungevano sull'accentuarsi dell'azione dei governi contro la curia romana. Un dottore, un notaio intravediamo tra questi « giansenisti». Il marchese Nicolò Conti era invece tra i partigiani dei gesuiti. Quest'ultimo arrivò un giorno a dichiarare «che se si fosse messo mano alla beatificazione del vescovo Palafox, si contentava di morire». Poco tempo dopo «il notar Giuseppe Cozzi» gli fece visita «per avvisarlo di disporsi alla morte, giacché il fo.
PARMA, B. Palatina, Mss parmensi, Storia 581, p. 95, 6 luglio 1767. 2 Ibid., P. 43, 2 9 giugno 1767. Ibid., P. 39, 25 giugno 1767. Ibid., P. 47, 29 giugno 1767. Ibid., p. 119, 23 luglio 1767. 6 Ibid•, P. 47, 2 9 giugno 1767. ' Ibid., p. 69, 2 luglio 1767. 8 Ibid., p. 136, 20 luglio 1767. 9 Ibid., p. 159, 27 luglio 1767 e p. 229, 12 aprile 1767. 1° Ibid., p. 249, 17 aprile 1767. 11 Ibid., p. x39, 23 luglio 1767. 12 Ibid., p. 39, 25 giugno 1767. 3
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ghetto notificava che Roma trattava la causa del santo»'. Non risparmia-
vano i colpi questi nemici della Compagnia. Il corrispondente di Du Tillot non disdegna di segnalare fatti scandalosi e si compiace di menzionare «gli esercizi animali, cioè dell'anima, dati da uno de' Soci a quelle beate vestali » 2 . La devozione del Sacro Cuore gli strappa una invocazione voltairiana: «Acquetati, Cartesio, e gioisci nella parte pii pura ove risiedi del cielo, che forse un giorno verrà che la tua glandula pineale esaltata sia a tali onori, o il cervello almeno, qual sede dell'anima immortale...»'. La sorte, in quell'estate del 1767, volgeva ormai dalla parte dei riformatori. A Piacenza, nel settembre, il contegno stesso dei gesuiti lasciava presagire la loro imminente sconfitta. «Sembrano tanti uccellacci nella rete: girano intorno alle mura della città, ma isolati da tutti e sino da' pii appassionati terziari, che non frequentano neanche al collegio, cose che fanno andare pensierosi, dimessi e confusi » 4. Sconsolato era pure, nel luglio 1767, l'inquisitore di Piacenza, il padre Vincenzo Ciacchi. In un suo rapporto al Sant'Ufficio, chissà come capitato tra le carte di Du Tillot, cercava di spiegare insieme le ragioni generali delle ostilità da cui era circondato il clero e quelle particolari, personali, della propria deiezione. «La guerra del mondo agli ecclesiastici, e specialmente ai gesuiti, è eccitata — diceva — dalle loro ricchezze, ché se molti non sono ricchi, la moltitudine però impoverisce il secolo. Qui non si veggono che carrozze e sterzi di monaci e il solo povero inquisitore, che deve restituire mille visite, se ne va a piedi». La curia non aveva «con che provvedere quei che servono la S. Sede». Era indispensabile trovare qualche rimedio, «restituire in parte il perduto splendore a Roma e arricchire la camera e la dataria, che non ha ormai piú con che provvedere quei che servono la S. Sede... e gli ecclesiastici poveri». Bisognava «por termine a tante decadenze ne' luoghi pii». Altrimenti, «verrà un tempo che nello stato del papa i sudditi non avranno piú pane»'. Una simile situazione spiega come Du Tillot potesse procedere sempre pii spedito per la propria strada. Sospinto dalla Spagna e soprattutto dalla Francia passò il a febbraio 1768 all'espulsione dei gesuiti. Come a Napo li , cosí a Parma il modello è quello madrileno. Ma un'aura pii soave accompagna l'operazione nel ducato. Non mancarono neppure i sonetti di Frugoni. Sulla «Gazzetta di Parma » Pezzana, dando notizia dell'avvenimento, abbondò in colori rosei e delicati'. «Per una saggia comPARMA,
binazione di ordini e provvidenze del nostro vigilantissimo governo, nella notte di domenica, in un'ora medesima, con indicibile tranquillità tutti i gesuiti sono stati espulsi dai domini di S. A. R. ... In ogni collegio un ministro togato recò l'ordine sovrano, che prudenti militari fecero eseguire con ogni umanità, secondo le religiose intenzioni di S. A. R. Ieri mattina si è veduta affissa la prammatica sanzione del reale infante relativa a questa prescrizione. Risplende in essa la pietà, la religione del sovrano e la sua singolare benevolenza verso i suoi amatissimi sudditi». Centosettanta padri, attraverso il ducato di Modena, raggiunsero Bologna, in territorio pontificio'. Era un altro duro colpo inferto a Roma 2. Il pensiero corse subito a quel collegio dei nobili dove avevano insegnato, ancora di recente, Bettinelli e Roberti e dove tanti giovani rampolli della aristocrazia italiana erano stati educati'. «La proscrizione dei gesuiti non lascerà tra noi alcun vuoto», assicurava la «Gazzetta di Parma». «S. A. R. ha chiamati in questa città i piissimi padri delle missioni per la cristiana istruzione della gioventi e per la continuazione di' tutti gli esercizi di pietà dianzi praticati. Ai dottissimi padri delle Scuole pie, chiamati dalla Toscana, è stata affidata l'istruzione dei nobili convittori di questo Real Collegio » 4. Faceva eco la cosiddetta «Gazette de Berne»: «L'on avait préparé cet événement à Parme par la publication d'un règlement de réforme sur les études pour les écoles publiques, les Collèges et les Universités de l'Etat» 5 . La Costituzione per i nuovi regi studi, pubblicata nello stesso febbraio 1768, opera di Paciaudi, era infatti un importante tentativo di creare una scuola coordinata e controllata dallo stato, dalle elementari all'università. Invidiata da Firmian, ammirata a Parigi, imitata nel 1770 in Spagna, essa è uno dei frutti pedagogici maggiori del moto riformatore italiano 6. Paciaudi sapeva benissimo che il problema era sostanzialmente po li sione dei gesuiti dai ducati parmensi (febbraio 1768), in «Aurea Parma », anno L (2966), fasc. 3 e an-
no LI (1967), fasc. I. ' Cfr. «Supplément aux Nouvelles de divers endroits», 24 febbraio 1768. 2 L'ambasciatore veneziano presso la curia, Niccolò Erizzo riferiva: « non è credibile quanto questa corte ne sia penetrata in vista non solo delle riguardevoli somme che da essi gesuiti erano nascostamente fatte passare in Roma, ma pur in vista della restrizione della propria grandezza in parte non indifferente costituita della popolazione di regolari, da essa considerati suoi dipendenti, sicché, mancandole una turba si numerosa, non può a meno che non ne soffra la sua potenza» (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori 286, 23 maggio 1767). 3 GAETANO CAPASSO, Il collegio dei nobili di Parma, estratto dall'«Arch. stor. prov. parmensi », serie II, vol. I (1901). 4 « Supplemento alla Gazzetta di Parma», n. 6 (9 febbraio 1768). s « Supplément aux Nouvelles de divers endroits », 24 febbraio 1768. -
6 GIUSEPPE BERTI, Atteggiamenti del pensiero italiano nei ducati di Parma e Piacenza dal 1750 al 1850, CEDAM, Padova 1958, pp. IO6 sgg. e GIOVANNI GONZI, Un tentativo di riforma scolastica soprattutto nel Settecento a Borgotaro, in «Arch. stor. prov. parmensi», serie IV, vol. XXII (1970), e ID., Storia della scuola popolare nei ducati parmensi dal 1768 al 1859,I: Dalla «Costituzione per i nuovi regi studi » alla caduta del Du Tillot, in «Aurea Parma », anno Lv1, fasc. 1 (gennaio-aprile
B. Palatina, Mss parmensi, Storia 58x, p. 283.
2 Ibid., p. 33, 22 giugno 2767. Ibid., p. 39, 22 giugno 1767. 4 Ibid., p. 305, 3 settembre 1767. Ibid., p. 103, 6 luglio 1767.
6 «Supplemento alla Gazzetta di Parma», n. 6 (9 febbraio 2768). Cfr.
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GIOVANNI GONZI,
L'espul-
1972), PP. 49
sgg.
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tico. Dopo qualche anno di esperienza concludeva scrivendo a Luigi Cerretti: «Nuove leggi per gli studi sono tutt'uno che le nuove legislazioni di politica, di economia, di commercio, d'agricoltura. Dopo averle bilanciate e proporzionate all'indole del paese, bisogna che chi presiede le faccia osservare. Il che non è si facile nella porzione del globo che noi abitiamo»'. Paciaudi temeva quello che finirà col chiamare la «natia barbarie parmigiana» 2 . Da buon piemontese temeva soprattutto la mancanza di fermezza politica, requisito indispensabile d'ogni riforma. «Le novità salutari riescono in Moscovia e in Prussia perché si mandano in Siberia o a Spandau i refrattari». Certo la distanza tra la Russia di Caterina II, la Prussia di Federico II e Parma di Ferdinando di Borbone era grande. Sperava tuttavia nella capacità di Du Tillot nel mantenere abbastanza disciplina per non cadere nell'esempio della Polonia, almeno. Se si lasciava troppo fare ai professori «l'Università somiglierà assai a una dieta di Polonia, ove i senati consulti sono sempre conformi alle volontà degli starosti che hanno pii numero di parziali, che sfoderano la sciabola contro la ragione pii evidente, ove al senso comune prevale la forza» Malgrado tutte le difficoltà riuscí a Paciaudi di chiamare all'Università uomini come Contin, Ciro Minervino e G. B. Comaschi, riorganizzando cosí l'insegnamento della giurisprudenza civile e canonica. Dal Sud e dal Nord venivano a raccogliersi in Parma i giuristi riformatori. «Quanto è stato detto dai phi illuminati maestri ovvero prescritto negli statuti delle pii celebri università di Europa, tutto ciò è stato saggiamente accomodato al bisogno di queste scuole nell'accennato piano», scriveva la gazzetta di Lugano'. Quanto al collegio dei nobili, dove i gesuiti partendo lasciavano sessantasei allievi, ci si sforzò di sostituire con la mentalità scientifica, tecnica degli scolopi quella umanistica dei gesuiti. Invano, tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei sessanta Saverio Bettinelli, d'accordo con Du Tillot e in aperta discussione con i francesi, con Condillac, con De Keralio aveva tentato di portare uno spirito nuovo nell'insegnamento della '.
«L'Epistolario, ossia Scelta di lettere inedite», anno 1 , n. 14 (Venezia, 8 aprile 2795), PP. 109 22 maggio 1772. Le diciassette lettere di Luigi Cerretti indirizzate a Paciaudi e conservate a PARMA, B. Palatina, Carteggio Paciaudi 73, riguardano generalmente problemi universitari e costituiscono una documentazione di grande interesse sulle esperienze parmensi e mode. nesi di riorganizzazione universitaria. 2 Dodici lettere inedite di Paolo Paciaudi a Clemente Sibiliato, Padova 1 845, P. 3 6 , 24 maggio 1 774. 3 «L'Epistolario», anno 1, n. 14, pp. 109 sgg. ' «Nuove di diverse corti e paesi», n. 45 (6 novembre 1769). In una lettera di plauso il conte Aurelio Bernieri, uno dei riformatori degli studi, diceva a Paciaudi, tra l'altro: « ella su la cattedra richiama, come l'Alciato, l'esule erudizione e il candore della lingua latina e gli aurei libri delle p an -det . »
sgg. lettera da Parma,
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storia. I suoi superiori gli avevano opposto una critica diffidente e avevano finito col rimuoverlo da Parma'. Ora si sperava nell'insegnamento del francese Millot, che veniva a portare a Parma una ventata di entusiasmo per la storia filosofica. Come diceva la gazzetta di Lugano in una corrispondenza da Parma: «Lo studio della storia, tant'utile agli -uomini e tanto sin ora trascurato da chi si era arrogato l'ammaestramento della nostra gioventii, ben si meritava tutti i riflessi del real nostro sovrano in un tempo in cui si vedono gli evidenti vantaggi che il nuovo metodo degli studi va riportando in questo dominio». Il programma pubblicato dal professore francese per l'anno accademico 1769-70 era esplicito. La storia non era un «oggetto di curiosità», ma, offrendo agli occhi dei giovani «il grande spettacolo del genere umano» era in grado di formare «cittadini per lo stato e uomini per la società». Non erudizione dunque, ma «buon gusto, verità e saggezza », capaci di plasmare « l'onest'uomo per servire la patria ed assicurare la propria felicità». Lasciando da parte «le questioni spinose su cui variano gli eruditi», «le ricerche inutili, i nomi ed i fatti degni d'obblivione o poco memorabili», si sarebbe per due anni diretta l'attenzione «alla sostanza delle cose», tentando «di dare un'idea giusta di quanto è pii necessario a sapersi». Lasciata da parte la storia sacra, dato che il popolo eletto «pochissima celebrità ebbe nel mondo politico», il corso di storia sarebbe diventato «un esercizio della ragione destinato a propagare quella vera filosofia che, mediante la cognizione dell'uomo e delle cose umane, porta a giudicar sanamente di tutto e ad operare in tutto con avvedutezza». Anche dal punto di vista pedagogico Millot intendeva innovare: « si preferirà — diceva — il metodo delle conferenze a quello delle lezioni ordinarie » 2. Come diceva un altro francese, Charvert Delorme, forse gli italiani avrebbero finalmente corretto uno dei peggiori vizi del loro paese. «Le génie de cette nation, autrefois si vaste, se trouve aujourd'hui borné parce que l'éducation y est la plus vicieuse possible; on peut même dire qu'il n'y en a point, les trois quarts des collèges ne sont enseignés que par des pédans... Les maîtres d'école comme les précepteurs ambulans y croupissent dans l'ignorance la plus abjecte » 3 . La nobiltà non si preoccupava abbastanza dell'educazione dei propri figlioli. Le accademie restavano dei centri di vaniloquio. BARTOLOMEO GENERO, Ricerche bettinelliane. La riforma dell'insegnamento della storia nelle scuole dei gesuiti e l'origine del «Risorgimento», in «G. stor. letter. ital. », vol CXXXVIII (1961), fast. 423, pp. 365 sgg., dove vengono pubblicati un importante memoriale e una lettera a Du Tillot
del 28 febbraio 2
1757.
«Nuove di diverse corti e paesi », n. 3 (x6 gennaio 1769).
Nouveau plan pour former la jeunesse dans un état et la rendre utile à la patrie, ou essai sur l'éducation publique et particulière, par M. Charvert Delorme A. C., Michel Goudard, Parme 1770, PP. 24 sgg.
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La gallica terapia d'urto contribuí a sospingere per qualche anno Parma all'apice del moto riformatore italiano. Tutto sarebbe dipeso, Paciaudi lo aveva perfettamente capito, dalla situazione politica .1 Dopo la cacciata dei gesuiti, nel febbraio 1768, giunse per il ducato il momento della prova di forza. Occasione ne fu la legge del 16 gennaio 1768 con cui veniva vietato a tutti i sudditi, anche ecclesiastici, il ricorso ai tribunali esteri, compresi quelli di Roma, senza l'autorizzazione ducale. Il 30 gennaio Clemente XIII rispondeva con il suo Litterae in forma brevis, diventato ben presto famoso in tutt'Europa col nome di Monitorio di Parma. Il pontefice cassava, in nome della propria sovranità (in ducato nostro parmensi) e in nome della bolla In coena Domini, tutta intera la legislazione di Du Tillot in materia ecclesiastica. Lo stupore fu grandissimo ovunque. L'abate Berta a Torino diceva che non era possibile immaginare «una maggiore bestialità di quella commessa dalla Corte di Roma in questo affare... i terziari medesimi dei gesuiti ne sono stati sorpresi e biasimano altamente una tale condotta, forte temendo le pessime conseguenze che ne deriveranno anche per i buoni padri... Non so capire come sia giunto a questo segno l'acciecamento del ministero romano, né posso pensare altrimenti se non che Iddio vuol castigare quel vile, sordido, interessato governo »'. A Milano, «nonostante il bollore del Carnevale», tutti ne parlavano. Perfino l'arcivescovo considerava il «monitorio troppo violento e insultante per la sovranità » 2. A Modena Lodovico Antonio Loschi scriveva delle «bellissime e profonde osservazioni sopra il breve papale»'. A Napoli Tanucci era pieno di rabbia e di speranza. «Tutta Italia bestemmia Roma, Rezzonico, Torrigiani, il generale dei gesuiti... Roma ha fatto un editto bestiale... L'Italia aspetta il bastone di Spagna e di Francia sulle spalle di Torrigiani e de' Rezzonici». Salvatore Spiriti apriva le sue Osservazioni su la Carta di Roma, che Giuseppe Bettinelli ristampò rapidamente a Venezia, dicendo che «le persone intelligenti sono rimaste meravigliate del gesto pontificio » `. B. Reale, Vernazza 266, f. 6, a Paciaudi, senza data. Lettera di un corrispondente da Milano del 12 febbraio 1788 citata in UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 264, nota 3. Anche lo « spregiudicatissimo» cardinale arcivescovo di Bologna, Boncompagni-Ludovisi, era di un'opinione non dissimile. NAPOLI, AS, Affari esteri 168, Zambeccari a Tanucci, 2 aprile 1768. 3 NAPOLI, AS, Affari esteri 168. Zambeccari a Tanucci, Bologna, 21 febbraio 1768. TORINO,
2
Osservazioni su la carta di Roma col titolo Litterae in forma brevis quibus abrogantur et cassantur ac nulla et irrita declarantur nonnulla edicta in Ducatu Parmensi et Placentino edita, libertati, immunitati et jurisdictioni ecclesiasticae praejudicialia, Romae 1768, con la giunta delle provvidenze pubblicate da molte corti d'Europa su tal dipendenza, nuova edizione veneta, Giuseppe Bettinelli 1769, p. 15. Che sia opera di Salvatore Spiriti è affermato nell'«Europa letteraria », tomo I, parte I (settembre 1770), p. 57. Cfr. UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 276. Il
conte di Rivera ricevette dall'ambasciata sarda a Napoli una copia di quest'opera e la fece pervenire a Torino, precisando che si trattava d'uno scritto del marchese Spiriti, «che non potrà a meno che di dispiacere qui [a Roma] sensibilmente come pieno di proposizioni tendenti tutte a distruggere affatto l'autorità pontificia» (TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 53, 9 aprile 1768).
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Intendeva davvero il papa prendere fino in fondo la difesa del variopinto mondo ecclesiastico nel quale il governo di Parma aveva tentato di mettere qualche ordine? «Se ne veggon tanti e tanti — diceva il marchese Spiriti — che si distinguono con cappe, mezze cappe e cappe lunghe; maniche, manichette e maniconi; scarpe, pianelle e zoccoli; cocolle larghe e cocolle strette; cappucci aguzzi e cappucci ottusi; correggie di cuoio e fasce di seta; cordoni di filo e cordoni di canape; colori bianchi, colori neri e colori bianchi e neri, grigi e cannellone; barbe, barbette e barboni; preti regolari e regolari non preti; mendicanti per istituto e mendicanti per privilegio, ancorché possessori di fondi e straricchi, i quali tutti, benché tra loro distinti in varie foggie e divise, benché opposti tra loro in dottrina scolastica, sono concordemente convenuti nella massima che quando si toglie ai laici, si toglie a' figli di Belial ed al demonio, perché l'impiegano in vizi e peccati e quanto da' regolari si acquista, si acquista a' figli di Set e a Dio, perché l'impiegano in sollievo de' poveri ed in opere di pietà»'. In un'Apostrofe supplichevole al Santo Padre, con cui Spiriti terminava le sue Osservazioni, egli chiedeva a Clemente XIII di ritirare il suo breve, «considerato che i pontefici vostri antecessori, quando ebbero troppo a cuore gl'interessi temporali, creduti erroneamente inseparabili da' diritti spirituali, furono amarissima e funesta cagione di quei gran mali che non andarono a terminare se non dopo lo spargimento d'infinito sangue battezzato». Il «nero turbine» della guerra minacciava di nuovo, per colpa del papa, la «povera Italia » 2 . Non era difficile accorgersi che il pontefice aveva colpito il pi ll picoldegstabrniolpechésavrndelco la Spagna, la Francia o le Due Sicilie, e che aveva condannato le misure del duca Ferdinando unicamente perché non aveva la forza di protestare contro quelle di Carlo III, di Luigi XV o di Ferdinando IV. Proprio il 9 febbraio la «Gaceta de Madrid» aveva illustrato la «prudentisima ley» dell'exequatur, recentemente emanata dal governo spagnolo e molto simile ai provvedimenti che avevano attirato su Parma i fulmini pontifici'. A Roma il rappresentante spagnolo Nicolas de Azara scriveva al ministro degli esteri che il ricordo di quanto era accaduto pi ll di un secolo e mezzo prima, all'epoca di Paolo V e di Paolo Sarpi, avrebbe dovuto togliere a « estos pretes gana de repetir esta comedia». Ma poiché proprio un papa veneziano voleva ricominciare, bisogna «mostrar los Osservazioni cit., p. 69. Ibid., pp. 266-67. Cfr. pure il memoriale di Francesco Vergas Maciucca incluso nella Collezione di scrittori di regia giurisdizione cit., vol. II, p. 153 e i documenti raccolti da Angelo Querini, VE2
B. Querini Stampalia, Mss i.e. 1764, che testimoniano ampiamente dell'interesse con cui gli avvenimenti di Parma venivano seguiti nella repubblica di San Marco.
NEZIA, 3
MANUEL DANVILA Y COLLADO,
Reinado de Carlos III cit., vol. III, p. 181.
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dientes»'. Campomanes scrive il suo Juicio fortemente negativo, ben inteso, contro il breve. A Tanucci si attribuí l'intenzione di giungere alle conseguenze ultime: togliere al papa il potere temporale, dividersi i suoi stati tra Venezia, il granduca, Modena, Parma e le Due Sicilie 2 . Intanto diceva a chiunque voleva sentire che era il momento «di tarpar le ali alli preti e rifilare il piviale di S. Pietro»'. In Francia il parlamento di Parigi condannava e proibiva il Monitorio il 26 febbraio e il governo convenne con le altre corti borboniche che si sarebbe dovuto far pressione sul papa occupando Avignone, mentre i napoletani si sarebbero impadroniti di Benevento e Pontecorvo, come infatti venne fatto 4. Il Portogallo e Venezia solidarizzarono con Parma, anche se Venezia fu ben attenta a conservare la propria neutralità 5 . Maria Teresa offri una mediazione che isolò sempre pi ll il papato. Anche Carlo Emanuele III si dichiarò neutrale. Come diceva l'inviato britannico a Firenze, Horace Mann, evidente era ormai « the gradual decay of the credit and influence» della corte romana. «Even the most bigotted courts, provoked by the opposition» incontrata nelle loro «most reasonable demands, have given the first the exemple of shaking off that servile dependence on that court » 6 . Il conflitto di Parma metteva a nudo la profonda decadenza politica del papato. A Roma stessa la situazione si faceva pesante. Il popolo, soprattutto a Trastevere, era inquieto. Il pane «puzza», ed è scarso di peso. «Fermento v'è». «Il popolo romano — come scriveva Tanucci — è bastantemente irritato contro Torrigiani e contro il papa e sono quei palatini in gran timore». E poco pii tardi aggiungeva: «Roma sta come Londra involta nei rumori plebei per la carestia»'. Il papa rifiutava di ritirare il monitorio, malgrado le numerose, insistenti richieste, chiudendosi in una rassegnata passività. «Qui niente fa pii alcun senso — si leggeva il 2 luglio i 768 in un notiziario manoscritto —. Caduti sono in cosí grande costernazione e avvilimento che, per quanto sia per succeder contro la El espíritu de don José Nicolés de Azara cit., vol. I, pp. 9 sgg., 4 febbraio 1768.
MANUEL DANVILA Y COLLADO, Reinado de Carlos III cit., vol. 3 TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, 1768, mazzo
2
III, p. 184.
53, Notizie segrete da Roma, I1
giugno 1768. 4 Come narrava il conte di Rivera, l'inviato piemontese a Roma: «Potrà ben concepirsi facilmente in quale agitazione e divisione e confusione di partiti si trovi ora questa corte, e qual sia l'estrema afflizione di S. Santità » dopo aver ricevuto le notizie dell'occupazione di Avignone e Pontecorvo. «La Santità Sua molto inasprita e turbata, aveva quella mattina lasciato per fino, contro il suo solito, di prendere il cioccolato dopo averlo ap7ena assaggiato... » (ibid., 18 giugno 1768). Malgrado le sollecitazioni della Francia «non pareva che la Repubblica fosse disposta a prender marito», come diceva il cardinal Torregiani al conte di Rivera (ibid., 4 giugno 1768). 6 LONDON, PRO, SP. 98/73, Tuscany 1768, f. 41, 27 febbraio 1768. 7 NAPOLI, AS, Archivio Borbone 14, a Grimaldi, 19 e 26 luglio 1768.
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S. Sede, stanno nella ferma deliberazione di non far altro che orazioni»
'.
Parve un momento che la trama della storia italiana dovesse disfarsi, che gli stati italiani stessero per ripercorrere a ritroso il passato. Il papa aveva reclamato come suo il ducato di Parma. Avrebbe ciò riaperto l'antica disputa di Castro e Ronciglione, spingendo Parma ad impadronirsene come Francia e Napoli avevano occupato Avignone e Benevento? Pareva si fosse alla vigilia della «seconde guerre de Parme et du SaintSiège», come scriveva Voltaire il 6 maggio a d'Argental, amico suo e rappresentante di Parma presso Luigi XV. E non era il solo a ripensare alle lotte che attorno a quel feudo farnesiano si erano accese tra il 164r e il 1649 2 . Quando poi il re di Spagna pose il suo veto al piano di Du Tillot, questi intessé un'alleanza con il ducato di Modena per agire insieme contro lo Stato pontificio: gli estensi avrebbero ripreso Ferrara e Comacchio, perdute alla fine del Cinquecento e avrebbero ceduto Reggio ai parmigiani. Bozzolo e Sabbioneta, sempre contesi, sarebbero andati definitivamente agli imperiali. Tutto il difficile equilibrio che si era venuto a creare in Romagna nell'età della controriforma sembrava cosí crollare in seguito alla testarda debolezza dello Stato pontificio di Clemente XIII. Le trattative tra Parma e Modena si intensificarono coll'approssimarsi dell'estate. Il vero motore di questa politica, oltre a Du Tillot, fu l'abate Felice Antonio Bianchi, l'agente estense a Parma. «Tremila fanti e trecento cavalieri con un buon treno d'artiglieria» vennero apprestati'. La frana sembrava imminente e numerosi erano coloro che si auguravano che essa travolgesse lo Stato pontificio. « Il faut espérer que Rezzonico qui a un nez à la vénitienne, et qui n'a pas le nez fin, recevra seul les croquignoles», diceva Voltaire `. Federico II ne scriveva a D'Alembert, e questi si affrettava a diffondere la lettera dove si leggeva « que le grand Lama du Vatican ressemble à un vieux danseur de corde qui dans un âge TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, 1768, mazzo 53, Notizie segrete da Roma, 2 luglio 1768. Curiosa e interessante in proposito, sia pure nella sua modestia e rattenutezza, la fonte utilizzata da BIANCA GETTO, Papa Rezzonico attraverso le lettere inedite del confessore apostolico, in «R. stor. chiesa Italia», xxvul, n. 2 (luglio-dicembre 1 974), pp. 388 sgg. Si tratta del frate servita Antonio Maria Borini, che per molti anni corrispose con Federico Maria Giovannelli, il futuro patriarca di Venezia, ragguagliandolo minutamente sulle miserie, gli intrighi, le debolezze della Roma di Clemente XIII e XIV. 2 VOLTAIRE, Correspondence, vol. LXIX, p. IIO. 3 UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 282. Allarmato, l'inviato napoletano a Bologna scriveva a Tanucci il 3o luglio 1768: «Le truppe di Modena sono da alcuni giorni in continui esercizi militari e si aumentano sempre piú , oltre una considerabile quantità di palle da cannone che si è fatta venire da Massa. Dalla maggior parte si crede che questi preparativi abbiano di mira il riacquisto di Ferrara». Il 4 settembre lo stesso diplomatico forniva dettagliate notizie sulle misure difensive prese a Ferrara, non senza produrre conflitti di competenza tra il Senato e il vicedelegato. L'unico risultato positivo, concludeva, era che Bologna si era finalmente liberata « da una moltitudine di mendici, oziosi e vagabondi che a Ferrara sono stati forzatamente condotti per i necessari lavori » (NAPOLI, AS, Affari esteri x68, Zambeccari a Tanucci). 4 VOLTAIRE, Correspondence cit., vol. LXIX, p IIo, a D'Argental, 6 maggio 1768.
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d'infirmité veut répéter ses tours de force, tombe et se casse le cou»'. Voltaire si lanciava in una vera campagna contro il potere temporale dei papi. Nell'estate usciva il suo opuscolo Les droits des hommes et les usurpations des autres. Traduit de l'italien, datato 24 giugno 1768, che si apriva con la domanda: «Un prêtre de Christ doit-il être souverain? » e con l'affermazione che il cristianesimo nulla aveva a che fare con «le domaine de Rome, de la Sabine, de l'Ombrie, de l'Emilie, du Boulonais, de Comacchio, de Bénévent, d'Avignon»'. Quanto a Napoli, Giannone già aveva spiegato quali fossero le origini della pretesa sovranità papale. «Ce droit du pape est contraire à la religion chrétienne, à la saine politique, à la raison», concludeva'. Il possesso di Ferrara era una pura e semplice usurpazione compiuta da Clemente VIII nel 1597. Gli effetti non avevano tardato a farsi sentire. «Depuis ce temps Ferrare devint déserte, son terroir inculte se couvrit de marais croupissans. Ce pays avait été sous la maison d'Este un des plus beau d'Italie. Le peuple regretta toujours ses anciens maîtres » 4. Quanto a Castro e Ronciglione, di cui Voltaire narrava minutamente le vicende, era stato acquisito dalla Curia tanto ingiustamente che qualsiasi tribunale « depuis ceux de la Chine jusqu'à ceux de Corfou» si sarebbero sentiti obbligati a restituirli ai duchi di Parma. In realtà «les papes n'ont pas un pouce de terre en souveraineté qui n'ait été acquis par des troubles ou par des fraudes» Era dunque tempo che restituissero il maltolto. Ai romani stessi egli si rivolgeva contemporanea-rnente per incitarli alla rivolta contro il papato. «Vous périssez de misère sous de beaux portiques... L'opulence est pour vos maîtres et l'indigence est pour vous... Eveillez vous, Romains, à la voix de la liberté, de la vérité et de la nature. Cette voix éclate dans l'Europe, il faut que vous l'entendiez; rompez les chaînes qui accablent vos mains généreuses, chaînes forgées par la tyrannie dans l'antre de l'imposture» 6 . Urbino, Ferrara, Castro, Bologna, Roma, Napoli vengono continuamente menzionati negli scritti di Voltaire in quei mesi, illuminati tutti dalla speranza che presto saranno vendicate simili usurpazioni papali'. «Le mépris où est tombée la tyrannie de la Cour de Rome et tout ce qu'on ose contre elle» eran sempre presenti agli occhi suoi'. A '.
VOLTAIRE, Correspondence cit., vol. LXIX, p. no, D'Alembert a Voltaire, 13 maggio 1768. L'opuscolo è inserito ne L'évangile du jour, vol. I, Londres 1769, p. 63. Voltaire si premurava di farlo giungere a Parma, tramite D'Argental. Correspondence cit., vol. LXX, P. 24, 22 agosto 1768. 3 VOLTAIRE, Les droits des hommes cit., p. 69. 2
°
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Ibid., p. 75. 3 Ibid., p. 86. 6 L'Epître aux Romains, ibid., P. 34. ' Cfr. Homélie du pasteur Bourn, prèchée à Londres le jour de la pentecôte 1768, ibid., p. 44. e Remonstrances du corps des pasteurs du Gévaudan à Antoine Jean Rustan pasteur suisse à Londres, ibid., p. 79.
tutti chiedeva la rottura con Roma, la riaffermazione della sovranità degli stati. «La politique et la raison exigent dans l'univers entier que chacun jouisse de son bien et que tout état soit indépendant» Che era poi quanto sosteneva — ben inteso in termini meno pungenti — la pubblicistica parmense. «Non da Cristo, o da Pietro di lui vicario à ricevuto il romano pontefice la dominazione. Nelli peccati e non nelli beni temporali è la di lui podestà... Le cose terrene hanno li suoi giudici e sono i re e principi della terra». Cosí concludeva Pietro Capellotti il suo libro, il pii importante tra gli scritti polemici usciti a Parma nell'estate del 1768 2. Il ducato poteva presentarsi in quelle pagine come campione della sovranità e autonomia degli stati moderni proprio perché esso aveva ormai rotto completamente col suo passato, rinnegando la sua origine farnesiana e feudale e ripetendo ormai la sua origine unicamente dalla volontà politica degli stati europei nel trattato di Aquisgrana. Quale un'offesa veniva accolta la pretesa di Clemente XIII di considerar come proprio il ducato. «Può udirsi produzione di intelletto piú sconcertato! Formula pii ingiuriosa, colpo piú arrischiato, insulto piú offensivo! » Voleva forse il pontefice «eccitare i sudditi fedelissimi a macchinare turbolenze atte a prorompere in aperte ribellioni»? Che si rendesse conto una buona volta in che epoca viveva. «Doveva pur persuadersi il ministero romano che siamo in un secolo de' più illuminati»'. Si era ormai ben lontani dall'età in cui la «romana politica», poggiando sul partito guelfo e sugli ordini mendicanti, era riuscita a creare il proprio potere politico, o dall'epoca di Leone X il quale, tolta Parma e Piacenza alla Francia nel 1521, aveva ordinato grandi feste « deliziandosi fra le acclamazioni del popolo trepidante, mentre alla religione era squarciato e lacerato a brani il seno dalle furibonde eresie della Germania » °. Parma era infine caduta in mano a Pier Luigi Farnese. «Possesso e dominio illegittimo ed ingiusto». Era stata necessaria, dopo secoli, la guerra per rovesciarlo. Tale era l'«incanto» del potere che era «stato d'uopo adoperare, unito alla religione, il potente esercizio della forza». Nel 1718 Parma era stata dichiarata feudo imperiale. Nel 1 734 Filippo V « appropriava per se e suoi successori, col mezzo della ragione di guerra, quel supremo alto dominio che prima della guerra aveva l'impero » 5 . «Con questi sodi e giusti principi crede sicuramente il Reale '.
' Les droits des hommes cit., p. 63.
Esame storico-legale-teologico sopra le lettere in forma di breve pubblicate a Roma il primo di febbraio dell'anno corrente 1768 contro gli editti de' reali sovrani di Parma, emanati intorno l'immunità e disciplina ecclesiastica, s. 1. n. d., p. 191. Ibid., p. 6. Ibid., P. 49• 5 Ibid., p. 53. 2
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Sovrano Infante Ferdinando che la totale indipendenza di questi ducati sia talmente stabilita che non possa ora avere pii luogo a formarsi un dubbio ragionevole»'. «La libertà, la indipendenza, la allodialità» d'uno «stato indipendente e assoluto» erano venute a disperdere per sempre ogni « ombra o immagine di qualità feudale», e insieme ogni dipendenza da Roma z Era una negazione del proprio passato parallela a quella che andava in diverse forme in quegli anni compiendosi in Toscana e nel Milanese. Nell'estate del 1768 parve un momento che un simile ripudio avrebbe potuto toccare anche lo Stato pontificio, costretto a cedere privilegi e conquiste dei secoli trascorsi. Ma troppo debole era quella « sovranità», quella «indipendenza» rivendicate da Parma, cosí come da Modena, dai due ducati cioè interessati a promuovere lo sgretolamento dello Stato pontificio. A Parma non si era neppure in grado di mettere in campo qualche soldato da affiancare a quelli estensi. A Napoli, Tanucci, malgrado molti progetti, non poteva muoversi al di là di Benevento e Pontecorvo senza l'assenso spagnolo'. Tutto dipendeva, in Italia, dalla politica dei grandi stati. La Francia era impegnata in Corsica. La Spagna riluttava all'idea di riporre in questione l'equilibrio italiano. Luigi XV e Carlo III rimisero la decisione a Vienna. Là Kaunitz, pronto ad appoggiare le riforme e la politica giurisdizionale, non era tuttavia disposto ad una guerra contro lo Stato pontificio. '11 22 luglio arrivò da Vienna una staffetta che metteva fine alle speranze dell'abate Bianchi e di Du Tillot'. La disputa tornava sul terreno nel quale era nata, lotta di idee all'interno dei quadri politici esistenti. Non una nuova guerra di Castro, ma un intensificarsi del moto di riforma — lo sapeva benissimo anche Tanucci — era l'unica via realmente fruttif era. L'occupazione di questa o quella città papale non era sufficiente. Quel che importava era colpire «le rendite ecclesiastiche», la Dataria e riportare cosí la chiesa « alla vera disciplina e alla pratica dei primi dodici secoli»'. La soppressione della bolla In coena Domini fu la prima risposta a simi li esigenze. Seguirono .
Esame storico-legale-teologico cit., p. 60. Ibid., pp. 6o-62.
Si diceva pure che egli voleva invadere gli stati del papa prendendo a modello quel che si era fatto all'epoca di Filippo II e di Paolo IV, occupando cioè Terracina, Segni, Alatri, tenendole « in
Materie politiche estere in depositrulafopedSgrClio»(TRINO,AS Notizie segrete da Roma, 3o aprile 3768). ^ UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 283. Attivamente partecipe a queste
genere, 1768, mazzo
53,
vicende fu il cappuccino Adeodato Turchi, che servi di tramite diplomatico tra Roma e Modena e cercò di intervenire anche con la sua predicazione a Bologna. Come diceva a Du Tillot, egli si mostrò «piú cittadino che frate ». Fu ricompensato con la nomina a predicatore ordinario di corte «per la sua fondata dottrina e lo zelo apostolico » e per « rinnovare alla memoria del sovrano le massime del Vangelo» (STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Adeodato Turchi cit., pp. 96 sgg.). 5 NAPOLI, AS, Archivio Borbone 14, a Grimaldi, 19 aprile 1768.
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le leggi sulle mani morte e l'intensificarsi della campagna contro i regolari. Ancora il venerdI santo del 1768, « sulla Gran loggia del Vaticano, il papa, dopo avervi letto la Bolla In coena Domini» aveva dato «la so, Ma fu per l'ultima lenne benedizione all'infinito popolo accorsovi»'. volta. L'anno dopo, la cerimonia non venne piú ripetuta 2. Nel frattempo la bolla era stata soppressa a Napoli (giugno 1768), a Milano (19 ottobre 1768), a Parma ( 3 novembre 1768), a Venezia (16 marzo 1769 )'. Tra 1768 e 1769 gli stati italiani si erano liberati d'un simbolo visibile del passato guelfo. Roma si rassegnò. A Parma il lavorio giurisdizionale riprese con ritmo sempre piú vivace. Conventi, confraternite, luoghi pii vennero ridotti, controllati e riorganizzati Apposite Istruzioni e Avvertenze furono pubblicate il 3o gennaio 1769'. Le istituzioni ecclesiastiche erano apertamente accusate di non rispondere pii alla funzione per la quale erano state create, di soccorrere i poveri e gli infermi. Toccava ora allo stato di affrontare «la situazione lagrimevole di quella classe di persone che per mancanza de' necessari soccorsi, tutto risentono il peso delle umane calamità». «L'affluenza de' poveri infermi agli ospedali destituiti di bastevoli rendite o per mantenerli in vita o per rendere meno penosa la loro morte; la quantità de' mendichi sparsi per le strade, frequenti alle case e molesti nelle chiese per difetti degli occorrenti alberghi; le fanciulle in copia vaganti anche nelle ore notturne, senza direzione, senza ricovero e senza altro sostegno fuorché quello che potrebbe loro provenire dai propri pericoli per la tenuità dei redditi de' conservatori destinati alla loro custodia; la condizione infelice di molti giovani che per la loro indigenza tengono inutili i talenti che o nelle lettere o nelle arti li renderebbero utili a se stessi e alle proprie famiglie e alla patria e l'inopia finalmente della maggior parte de' parrochi, cui manca la congrua sussistenza, indispensabile al decoro e alle funzioni del sagro ministero», erano pro«Bologna », n. 15 (13 aprile 1768). 2 Come scriveva l'ambasciatore veneziano a Roma, Niccolò Erizzo II, « tal e tanta è stata l'universal impressione che ha fatto in questa città la novità di non esser pubblicata nel giovedf santo, secondo il costume, la Bolla in Coena Domini che piú d'un cardinale non ha creduto di poter far a meno di rappresentare a S. Santità le funeste conseguenze ch'essi supponevano che ne potessero derivare» (VENEZIA, AS, Dispacci degli ambasciatori 287, 21 aprile 177o). A Napoli il governo non ammetteva trasgressione alcuna al suo ordine. La Giunta degli abusi, il 13 novembre 1768, deliberava «che si faccia sentire all'arcivescovo di Capoa, che non dichiara di non far leggere piú la Bolla in coena Domini, che non tornerà mai piú alla diocesi» (NAPOLI, AS, Giunta degli abusi, Consulte, n. r, f. 191. Appuntamenti della Giunta degli abusi del 13 novembre 1768, n. 4). Sulla riottosità dei vescovi di Capua e Taranto e sulle reazioni di Tanucci cfr. EGIDIO PAPA, Aspetti di politica ecclesiastica napoletana durante la Reggenza cit., pp. 383 sgg. Sull'eco in Piemonte, cfr. le Notizie istoriche sopra la Bolla in Coena Domini, B. Reale, Mss Varie 247, n. 2. UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, pp. 294 sgg. questa «riforma magistrale » come la chiamò l'abate Felice Bianchi venne promulgata l'8 febbraio 1769, nel primo anniversario della cacciata dei gesuiti (STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Adeodato Turchi cit., p. 104).
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blemi che lo stato aveva sentito da tempo, senza tuttavia possedere ancora i mezzi finanziari atti a risolverli. Ora la riduzione dei monasteri avrebbe dovuto supplire i cespiti necessari `. Come Du Tillot e i suoi collaboratori poterono presto constatare, era metter le mani in un ginepraio, che non fu sterpato col Piano di regolamento economico, adottato il 17 dicembre 1770. Un bilancio dell'utilizzazione dei beni espropriati alla chiesa in quegli anni è ancora da farsi. Anche a Parma, come a Modena, il tentativo di rimediare alla miseria con un albergo dei poveri non corrispose alle grandi speranze che il governo aveva nutrito e suscitato. Questa scorciatoia era una illusione. Grande la tenacia con cui il governo di Parma tentò di proseguire l'opera sua di trasformazione anche in altri campi religiosi e culturali dopo la morte di Clemente XIII, avvenuta il 4 febbraio e l'elezione di papa Ganganelli, il a maggio 1769. Il 23 maggio un editto della Giunta di giurisdizione aboliva l'Inquisizione, «tremendo fratesco tribunale», come la chiamava lo stesso Du Tillot 2. Ma fu questo l'ultimo suo atto importante. Quella stessa debolezza che aveva impedito ogni iniziativa autonoma nell'estate del 1768 fermava ora la sua mano. Nell'atmosfera di generale rilassamento e di delusione che si andava facendo sempre pii pesante, come proseguire da solo? Tanto pii che andavan crescendo attorno a lui le opposizioni e le resistenze. Il duca dimostrava quanto inutile posse stata l'educazione filosofica che gli era stata impartita. Bigotto, d'animo chiuso e meschino, prestò sempre pii orecchio agli avversari delle riforme. I vescovi erano sempre phi decisi a non pagare le tasse, o come dice Umberto Benassi, «baldanzosi nella loro morosità»'. A Parigi, la caduta di Choiseul, alla fine del 177o, tolse un appoggio prezioso a Du Tillot. In Spagna si era sempre pii propensi a liberarsi del fastidio di dover continuamente intervenire a Parma. In questa situazione quel che è notevole non è la caduta di Du Tillot, ma il fatto che fosse necessario ricorrere ad una vera e propria dimostrazione di piazza, ad una sorta di sommossa per eliminarlo Nell'estate del 17 71 le acclamazioni ai sovrani, alla Santa Fede, alla Religione si susseguirono, a Piacenza soprattutto. Pietro Capellotti e alcuni altri finirono coll'essere arrestati e chiusi nel Castello, Paciaudi relegato in un convento. Du Tillot fu costretto a lasciare Parma il 19 novembre 1771. Tutti i mezzi di propaganda vennero impiegati contro di ' Raccolta di leggi, decreti, avvisi cit., n. 19, pp. 119 sgg. Cfr. «Notizie del mondo», n. x4 (17 febbraio 1769), pp. Ito sgg. 2 UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 204. Cfr. «Nuove di diverse corti e paesi» , n. 22 (29 maggio 1769), e «Supplément aux Nouvelles de divers endroits», 21 maggio 1769. «Spiritato dalla paura» dell'Inquisizione si era mostrato negli anni precedenti il cappuccino Adeodato Turchi (STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Adeodato Turchi cit., p. 77). 3' UMBERTO BENASSI, Guglielmo du Tillot cit., parte V, p. 335•
Parma e l'Europa
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lui. Una pittura lo rappresentava sul letto di morte, attorniato da Capellotti, Paciaudi, Contin (che leggeva Lutero e Machiavelli), Giambattista Riga, Francesco Bertoli, della giunta di giurisdizione. Una poesia diceva: Pensò il superbo e stolido fellone di Fellino la religion sopprimere coll'armi del destino.
Negli stessi versi, volgendosi a Capellotti, si ricordava il tempo che questi aveva trascorso nelle carceri dell'Inquisizione, cos. come le sue massime di libertà (addirittura repubblicana) che sempre aveva sostenute: E tu, scrittor pestifero, che la Battavia affetti, senti di tua perfidia lí esecrandi effetti. Dovevi pur di carcere in un decennio intiero a raffrenare apprendere coll'opra anche il pensiero '.
Poesia da Santa Fede, non molto diversa tuttavia da quelle che la politica di Parma ispirava ad un raffinato intellettuale piemontese, a Tommaso Valperga di Caluso, «nel 1768 quando i re di Francia, Spagna, Portogallo, e Napoli, il duca di Parma erano con Clemente XIII in rottura, presso Avignone e Benevento, emanata in Venezia il 17 settembre una legge che spiacque molto al papa»: ... quai sono questi di maestà fiammanti rai?... Alza Ginevra trionfali strida Ed oggi par che speri Al suol di Pier la Sede invitta O almeno a lei rubelli i regni interi... Bella fiamma, onde ardea già a pi ll mila cuori un solo cuore qual phi tra noi favilla del tuo ardore?... E inique richieste e rei sospetti... già ingombrata ragion tutto confonde, già superbo furor tutto governa z.
Un impetuoso vento di reazione spazzava ormai, come si vede, le terre italiane al passaggio tra gli anni sessanta e settanta. Ma il moto riformatore aveva piantato ormai solide radici e già aveva trovato la propria Z
S. LOTTICI e G. SITTI, Bibliografia generale parmense, Parma 1904, pp. 16 e 14. Versi italiani di Tommaso Valperga Caluso, Bernardo Barberia, Torino 1807, pp. 154 sgg.
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espressione piú perfetta in due opuscoli, in due piccoli libri, i quali, meglio di tanti e tanti altri apparsi in quell'epoca, paiono racchiuderne l'animo e la forza: La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti di Cosimo Amidei, e Di una riforma d'Italia di Carlantonio Pilati.
Capitolo decimo
«La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti »
Nel 1768, anonimo e senza indicazione alcuna, vedeva la luce l'opuscolo intitolato La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti. Già i contemporanei si chiesero donde provenisse, né, dopo due secoli, possiamo rispondere con assoluta certezza. Domenico Caminer, a Venezia, lo disse pubblicato a Firenze. «Non ha questo libro né data del luogo dove fu stampato, né nome di stampatore, ognuno però ci assicura che fu stampato a Firenze e l'autore lo manifesta a p. 9»'. Vi leggiamo infatti: « Io sonucritad,hefomlqusinaprtedlo stato in cui vivo». La Toscana contava 890 605 abitanti nel 1738 ed era aumentata, raggiungendo quasi il milione, negli anni seguenti. «L'amore della verità — continuava —, il bene comune e le mire del mio monarca dirette a questo fine, con una saviezza superiore alla di lui età, sono la causa di questo scritto...» 2 . Pietro Leopoldo, diventato granduca nel 1765, aveva nel 1768 ventun anni. Dell'opuscolo una testimonianza coeva ci indica come autore Cosimo Amidei 3. L'attribuzione è stata accolta, sia pure dubitativamente, da Mario Rosa nella voce nel Dizionario biografico degli italiani'. Il confronto del testo dell'opuscolo con le lettere che Amidei aveva inviato a Beccaria poco tempo prima e con un altro suo scritto, Discorso filosoficopolitico sopra la carcere de' debitori, anch'esso senza indicazione di provenienza, del 177o, mi sembra confermare pienamente l'attribuzione. Scrivendo a Milano, il 21 aprile 1766 si era presentato a Beccaria con parole simili a quelle or ora riportate: « Io sono un legale di questa curia, ma insieme un oscuro e pacifico seguace della ragione » 5 . Era poi ' «L'Europa letteraria», tomo II, parte I (I° novembre 1768), p. 82. Il «Corner letterario», pur di Venezia, lo annunciava senza altre indicazioni nel n. 23 (I2 novembre 1768), col. 552. 2 La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, Concordia discors, s. 1. 1768, p. 9. Nota manoscritta sull'esemplare di questo opuscolo conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze sotto la segnatura 7.A.5.59: «L'autore di questo libro si dice il Dottor Cosimo Amidei, procuratore fiorentino ». ^ DBI, vol. II, P. 794. La lettera, conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (Beccaria B 231) è pubblicata in CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 206.
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entrato a discutere con lui sui fondamenti stessi del diritto e della politica: «V. S. Ill.ma ha distinto lo stato di natura e lo stato di aggregazione... Hobbes ha confuso l'uno con l'altro. Lo stato infantile dell'uomo è diverso dallo stato di adolescenza e questo dallo stato di virilità. Quanto è difficile il trasportarsi fuori dallo stato in cui uno è!» Erano in nuce i pensieri che Amidei svilupperà poi nell'Introduzione de La chiesa e la repubblica. «L'amor di se stesso è il primo sentimento impresso nell'uomo dalla natura e da esso ne deriva la conservazione di se stesso, ma alcune volte nello stato di aggregazione la conservazione di uno era il risultato della distruzione dell'altro... E tale doveva essere l'indole degli uomini nell'infanzia de' popoli...»'. «A me sembra — continuava il cap. III, Della origine della potestà politica — che l'infanzia rappresenti lo stato primitivo dell'uomo e che il di lui passaggio da una in un'altra età sia il ritratto de' successivi cambiamenti seguiti nella natura umana» 2. Proseguiva poi, polemizzando con Hobbes e approvando invece Rousseau, secondo le linee maestre del suo pensiero che già aveva adombrate scrivendo a Beccaria. Nella lettera come nell'opuscolo palese era d'altra parte la sua preferenza per le formule matematiche, anche per esprimere fatti e concetti capaci di essere espressi pure in modo più semplice e diretto. Quando voleva dire che molti uomini di legge compravano Dei delitti e delle pene sperando di trovarvi un sussidio per l'esercizio della loro professione, ignari che si trattava invece d'un trattato politico, Amidei scriveva: «Per la folla de' criminalisti esistenti nel suolo toscano crebbe il numero de' compratori in ragione inversa del numero degli esemplari perché, trasportati semplicemente dalla intitolazione del libro, si lusingavano di trovare in esso piuttosto un sistema criminale rispondente alle loro mire che un sistema politico»'. Innumerevoli gli esempi di simili formulazioni nell'opuscolo su La chiesa e la repubblica. Il rapporto tra la sovranità formatasi « dall'aggregato delle volontà» e «la libertà particolare di ciascun membro» è tutto espresso in formule matematiche °. Il problema della tassazione degli ecclesiastici lo porta alla conclusione che « ancorché questi contribuissero come i laicali, non sarebbero proporzionati i rapporti fra loro poiché sta sempre il superfluo in ragion composta della diretta de' beni e della inversa delle persone » 5 . Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Idee e formule simili ritroviamo, anche se meno frequenti, nel Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debiLa chiesa e lo stato cit., pp. 3 4. Ibid., p. 25. 3 CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 206. La chiesa e la repubblica cit., pp. 36 sgg. Ibid., p. 59. 2
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tori. Bisognava ben distinguere un debitore, diceva, da colui che aveva
tentato di spezzare o intaccare il patto sociale o, come egli scriveva, da «chi ha tentato di togliere o di fatto ha tolto dal pubblico deposito quella porzione di libertà posta in esso per la difesa della rimanente, con abusarne a danno della società»'. Ne La chiesa e la repubblica già aveva spiegato quali fossero le conseguenze di ogni tentativo di « sottrarre dalla somma totale alcuna porzione» della sovranità 2. Formule rousseauiane, indubbiamente. Riprese e ripetute tuttavia troppo spesso per non rappresentare l'opinione più vera di chi scriveva. «L'origine della sovranità e della podestà politica viene immediatamente dal patto sociale, cioè da convenzioni di uomini riunitisi in un sol corpo per la loro tranquillità », leggiamo nell'opuscolo del 1768'. E in quello del 1770: « Il fine del patto sociale, che è l'istesso che dire della riunione degli uomini in corpi politici per il bene comune... Ma per proteggerlo e mantenerlo ci vuole una forza di ciaschedun socio e questa forza non è che la summa delle forze di tutti gli individui»'. Anche un'altra lettera di Cosimo Amidei a Beccaria, scritta essa pure negli anni che precedono immediatamente l'apparizione de La chiesa e la repubblica, conferma l'attribuzione qui proposta. Il 17 giugno 1766 egli faceva un grande elogio di Pietro Verri, «profondo pensatore e brillante filosofo, che non si è perduto in vane speculazioni, ma che ha fatto lo studio dell'uomo». Nelle sue Meditazioni sulla felicità Verri si era tanto bene «internato ne' rapporti che passano fra la morale e la politica che, in una per cosí dir pennellata, ha messo in prospetto le cause degli stabilimenti e rivoluzioni degli imperi e colle sue estese vedute ha tutto previsto il futuro, con una sorte d'entusiasmo che si dice il capo d'opera della ragione » 5 . Una simile visione ritroviamo nella Introduzione dell'opuscolo, dove contemplava l'uomo politico, il creatore delle umane società, «trasportato da entusiasmo, che fu il capo d'opera della ragione, dire agli uomini, io son messaggero degli dei e vengo per parte loro ad annunziarvi la felicità » Una ulteriore prova della attribuzione ad Amidei può trarsi dalla ripubblicazione di quest'opera, un quindicennio phi tardi: La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti. Concordia discors. Nuova edizione accresciuta di considerabili aggiunte, Amsterdam 1783. Parla con distacco
di questo libro «stampato non so dove l'anno
1768,
nel tempo delle tur-
' Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori, s.1. 1770, p. 6. La chiesa e la repubblica cit., p. 36. 3 Ibid., p. 32. Discorso filosofico-politico cit., p. 13. 2
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MILANO,
B. Ambrosiana, Mss Beccaria B 231.
La chiesa e la repubblica cit., p. 5.
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Capitolo decimo
bolenze di Parma»', ma poi, in una presentazione A chi legge, rivela chiaramente la mano dell'autore. Si vantava di aver sopportato «in silenzio le delazioni» dei suoi nemici, « portate al tribunale della irragionevolezza ». «Frattanto imparai a conoscere gli uomini del mio paese, veddi quanto grande era il numero degli scioli, delle persone che avevano male impiegati i loro talenti negli studi della giurisprudenza e, con sommo mio rincrescimento, trovai che di fatti costoro erano uomini nemici degli altri uomini e che un piccolo numero era il difensore della causa dell'umanità». Anche dall'accusa di aver ripreso le idee e le frasi di JeanJacques egli si difendeva attaccando: «Non pretendo di occultare il plagio. Il Contratto sociale del Sig. Rousseau mi è servito di guida e qualche volta certe vivaci e forti espressioni sono state da me trasportate nella mia favella perché ho creduto di non potermi esprimere con maggiore energia». Un simile procedimento avevano usato Cicerone, Virgilio e Teocrito. «Dunque il reato sarà uguale. Il manifestarlo sarebbe stato superfluo, perché si trattava di avere attinto ad una sorgente troppo nota ai pensatori». Del resto, aggiungeva, « sarebbe stata la citazione un pii forte motivo per iscreditare l'opera nel vedermi prevalere della dottrina di un autore interdetto dell'acqua e del fuoco » 2. Insomma, non di plagio si trattava, ma d'una ben calcolata manovra per non dare adito al contrattacco dei suoi nemici'. Accettare l'attribuzione a Cosimo Amidei dell'opuscolo La chiesa e la repubblica non vuol dire, ben inteso, pensare che questi non evolvesse poi affatto nelle sue opere posteriori. Anch'egli, come Gorani in quegli stessi anni, come molti altri, tra cui lo stesso Cesare Beccaria, pas' La chiesa e la repubblica... Nuova edizione... cit., p. III. Ibid., pp. 4 sgg• L'attribuzione ad Amidei dell'opuscolo La chiesa e la repubblica urta con una testimonianza, del resto contradditoria, di Le Bret. Nella Pragmatische Geschichte der so berufenen Bulle in Coena Domini, parte I, s. 1. 1769, nella Vorrede, non paginata, diceva che un «pisanische Professor 2 '
zum Verfasser haben sollte», aggiungendo che era « so frey abgefasst, dass man in Neapel einige Exemplarien davon in Beschlag genommen». Più avanti, a p. 142, diceva trattarsi di uno «der schönen Geister Italiens » e aggiungeva: « Mein Freund sieht die Privilegien und Personal-Exemption der Geistlichen mit einer unpartheyschen Freymüthigkeit an, welche auch durch den man in Neapel auf sein Buch gelegt, nicht gehemmt werden wird ». Le Bret traduceva poi tutt'intero l'importante capitolo x: De' concordati (La chiesa e la repubblica cit., pp. 71 sgg.) e concludeva: «Dieses sind Gedanken eines Philosophen, den ich unter die Erstlinge des hervorkeimenden guten Geschmocks in den neapolitanischen Staaten rechne, und deswegen gedoppelt verehre» (p. 131). Nel suo saggio su Stato e religione nella storiografia di Goettingen cit., p. 48, nota 37, Maria Luisa Pesante, ha accettato questa ultima testimonianza ed ha indicato come autore de La chiesa e la repubblica « qualche allievo di Genovesi». Che fosse napoletano pensava pure l'anonimo autore di una coeva nota manoscritta che si trova in un esemplare di quest'opuscolo da me posseduto. Dopo aver scritto: « Si Beccaria di Milano », cancellò queste parole correggen- atribusceqol brmaches do: «Anzi non è suo ». «Altri con più fondamento l'attribuirono a un altro Becheria, letterato napoletano ». Eppure si tratta, molto probabilmente, di una informazione inesatta o, nel caso di Le Bret, forse di intenzionale volontà di confondere le traccie che potevano portare all'identificazione dell'autore. Aveva dapprima parlato, come si è visto, d'un professore pisano. Amidei professore non era, ma pis ano sf. Marco Lastri nella sua Biblioteca georgica lo dice infatti «di Peccioli nel Pisano» (p• 45)•
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sò, alla curva tra gli anni sessanta e i settanta, da una visione rousseauiana ed egualitaria ad una concezione pii influenzata dalla fisiocrazia, dall'economia politica, da esigenze pii immediate di riforma giuridica e sociale. Anche Amidei segui questa strada, diventando membro attivo e lucido nel gran cantiere di Pietro Leopoldo, intento ad abolire leggi antiquate e crudeli, a combattere contro la mendicità, o a porsi il problema d'un coronamento costituzionale delle trasformazioni già operate in Toscana chiesa e la repubblica era intanto passata attraverso fortunose vicende. Nel novembre del 1768 quest'opera veniva messa in vendita a Napoli 2. Ma ben presto le autorità intervenivano. «La Giunta — dicevano le "Notizie del mondo", n. 3, del io gennaio 1769 — ha fatto affiggere ne' pubblici luoghi alcuni cartelloni stampati ne' quali viene ordinato che chi la ritenesse la dovesse portare a certi determinati individui, proibendo a tutti di comprarla e venderla sotto gravissime pene». Ed era vero. La suprema Giunta degli abusi, l'organo istituito nell'ottobre del 1768 per controllare la liquidazione della Compagnia di Gesù aveva il 13 dicembre dello stesso anno pubblicato una prammatica, firmata dai pii bei nomi dell'amministrazione napoletana, da Bernardo Tanucci a Carlo De Marco, da Francesco Vargas Maciucca a Stefano Patrizi, da Gennaro Pallante a Ferdinando De Leon e a Pasquale Carcano, con lo scopo di metter fuori legge La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti'. Pochi giorni prima, nella sua riunione del 27 novembre, la Giunta aveva deciso: « che il libro si proibisca e si bruci per mano del boia». Il libraio Donato Carpi era già arrestato ed era stato interrogato. « Si scriva a Firenze — concludeva la Giunta — per appurarsi la sua corrispondenza col libraio Vincenzo Landi, da cui dice il Carpi aver ricevuto il detto libro stampato » °. Evidentemente Tanucci e i suoi colleghi si erano adombrati di fronte alle affermazioni rousseauiane dell'anonimo autore, timorosi della « sediziosa proposizione » sull'origine popolare della sovranità'. Cfr. ADAM WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo cit., all'indice. Gli «Avvisi di Napoli », del novembre 1768 riportati in VENEZIA, AS, Nunziatura Spagna 433, f. 411 scrivevano: « sortita alla luce l'opera che ha per titolo La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti. La materia è trattata filosoficamente e con nuove vedute. Si rimonta a' principi del diritto politico per far chiaramente vedere quali e quante sieno le porzioni di sovranità usurpate dalla potestà ecclesiastica, si propongono i mezzi per ricuperarle, si fissano secondo i predetti principi i confini dell'una e dell'altra podestà e si dimostra come la religione sia connessa con la politica e la politica colla religione. La detta opera si trova vendibile appresso Donato Campo, alla Font an a di Monte Oliveto » (citato da PIETRO SAVIO, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti veneti del secolo xvüi, in «Arch. veneto», anno Lxxxviff, serie V, n. 97 [1958], p. 31, nota 3). Nuova collezione delle prammatiche del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli 1804, tomo VII, p. 81. NAPOLI, AS, Giunta degli abusi, Cautele, n. 1, f. 276. Citato da MARIO ROSA, in DNB, vol. II, P. 794. Di non diverso parere era la Segreteria di stato, a Roma. Il libro, « con derivare l'origine delle sovranità dal mero contratto sociale, attribuisce a ciascun individuo della repubblica una porzione contingente della medesima sovranità e gli dà per conseguenza il diritto di reclamare ogniqualvolta il principe se ne abusa, annulla cosf ogni concor'
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Un mese dopo, colpo di scena. «Il sig. Campi... è uscito dalle carceri come innocente — si leggeva nel n. 16, del 26 febbraio delle medesime "Notizie del mondo" — ed ha avuto in remunerazione i 2 ducati il mese, sua vita durante»'. La politica giurisdizionale, tanto energicamente condotta in quelle pagine, compensava evidentemente l'elemento troppo rousseauiano che pure di là chiaramente emergeva. Anche Firmian a Milano diede l'autorizzazione a ristamparlo. Se ne stupí non poco Kaunitz a Vienna, che si affrettò a scrivergli: «Sapendo io essere stato [questo libro] condannato in Napoli come contenente de' principi troppo arditi e perniciosi ai diritti de' sovrani sopra i popoli loro sudditi, desidererei da V. E. di sapere per quali motivi sia accordata la licenza di ristamparlo costi » 2 . Ma intanto anche a Napoli si era mutato d'opinione. Fatto sí è che un'altra edizione usci nell'Italia del Nord, sempre con la data del 1768, probabilmente a Milano stessa'. Una ultima edizione vedrà la luce, come già abbiamo accennato, molti anni piú tardi, nel 1783, con l'indicazione di Amsterdam, stampata probabilmente a Pavta, come indicavano, in una interessante recensione, le « Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen» `. Le ragioni dello scandalo e del notevole successo di questo opuscolo stavano nell'incontro verificatosi nelle sue pagine tra il più avanzato pensiero politico degli anni sessanta, soprattutto quello del Contrat social, con le idee e problemi del giurisdizionalismo italiano. dato fatto tra due supreme potestà e ogni concessione o privilegio che tenda a qualsiasi diminuzione dei diritti sovrani di qualunque specie si siano, fra i quali conta in primo luogo quelli circa sacra». Idee che si poteva temere penetrassero facilmente nel mondo degli avvocati e magistrati napoletani. «In vista di tutte queste massime — concludeva la Segreteria di stato — che andavano facilmente ad allignare negli animi del pagliettismo, la corte ha fatto subito raccogliere tutti gli esemplari che si erano sparsi del libro e carcerare lo stampatore » (PIETRO SAVIO, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti cit., p. 32, nota r). Il nunzio di Napoli scrivendo a Roma il 5 dicembre 1768 riferiva che tutti gli esemplari del libro erano stati sequestrati «primacché si vendessero ». «Si sa di certo che il ministero è fortemente irritato per tale stampa e si crede possa darne qualche pubblica dimostrazione, giacché questi paglietti si mostrano intesi del contenuto della medesima ed approvano il sentimento dell'autore intorno alla sovranità e potestà politica... Nella Giunta degli inconfidenti tenutasi mercoledi scorso credesi possa aver luogo l'esame di quest'opera » (VENEZIA, AS, Nunziatura Napoli 292, f. 327, citato da PIETRO SAVIO, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti cit., p. 33, nota I). Poco tempo dopo la stessa nunziatura riferiva come a Napoli si dicesse che l'opera era stata « fatta stampare dal padre Torre comasco per mezzo di un suo dipendente, al quale ha fatto aprire poco fa una stamperia» e cioè dal Domenico Campo di cui si era già anteriormente parlato (ibid., Nunziatura Napoli 372, f. 29o, citato ibid., p. 32). Molto piú sfumato era l'annuncio di questo avvenimento dato a Roma dal nunzio: «Finora [il libro] non ha portato alcun sinistro evento né al padre Torre, né al suo confidente, che mi vien supposto sia stato rimesso in libertà » (VENEZIA, AS, Nunziatura Napoli 392, f. 384, citato in PIETRO SAVIO, Dottrina e azione dei giurisdizionalisti cit., p. 32, nota 2). A Roma si faceva l'ipotesi che l'autore potesse essere « il marchese Beccaria di Milano, che già divulgò l'altro libro anonimo Dei delitti e delle pene» (VENEZIA, AS, Nunziatura Napoli 372, f. 290, citato ibid., p. 32, nota 2). 2 MILANO, AS, Studi patte antica, n. 31. Mentre l'edizione che suppongo fiorentina contava 162 pp., quella che penso milanese era di 16o pp. 4 «Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen», 1783, pp. 843 sgg.
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Questo incontro, come abbiamo visto, era da tutti sentito come possibile, auspicato dai polemisti piú aperti, paventato dai pi ll retrivi. Ma nessuno come Cosimo Amidei aveva ancora osato giustificare il conflitto tra chiesa e stato con la teoria di Jean-Jacques, né chiarire i vari aspetti del regalismo alla luce delle idee che stavano emergendo a conclusione del moto enciclopedistico francese. Malgrado tutta la sua moderazione, malgrado le mille precauzioni di cui l'autore si attorniò, fu questa la novità che stupí e colpi i contemporanei. Non era certo il primo — basta pensare ai polemisti veneti — a stabilire uno iato profondo tra lo stato e la chiesa, ad insistere sulla funzione puramente mondana dell'uno e sul valore unicamente spirituale dell'altra. Ma Amidei, col suo linguaggio rousseauiano e matematizzante insieme (simile in questo a quello di Beccaria), veniva a spezzare addirittura ogni possibile legame e rapporto reciproco. Inscindibilmente uniti nel paganesimo, all'origine delle umane società, stato e chiesa erano stati per sempre scissi e divisi dal cristianesimo, che era venuto a istituzionalizzare cosí il dualismo di corpo e anima, presente in ogni essere umano. « Siccome per l'acquisto della felicità eterna la religione ci propone oggetti spirituali, divini e infiniti, e la felicità presente consiste in oggetti materiali e finiti, dalla diversità degli oggetti sono fissati i confini dell'una e dell'altra podestà e tra l'una e l'altra vi è di mezzo l'infinito»'. Come risolvere questo paradosso di stabilire dei limiti e rapporti tra due entità divise addirittura dall'infinito? La risposta di Amidei rivela le tendenze più profonde dell'età sua tutt'intera. L'unica soluzione di questo quasi assurdo problema sta nell'affrontarlo da un punto di vista puramente umano, politico, lasciando alla religione, alla chiesa una totale libertà, su un piano però unicamente spirituale, togliendole cioè ogni potere, ricchezza, influenza che vada al di là della singola anima, del suo rapporto con dio. Come aveva insegnato Beccaria, non bisognava mai confondere delitto e peccato. Amidei tentò di applicare questo principio a tutte le umane attività, sempre fisso all'idea di «tener separate le virtù religiose dalle virtù politiche ed i vizi religiosi, che prendo per peccati, dai vizi politici, che chiamo delitti». Le leggi di ogni paese diventano cosí il criterio su cui misurare il limite del potere politico. «Ciascheduno dunque studi il codice delle leggi che gli si appartiene e troverà in esso descritte le regole per tirarne la linea di separazione » 2 . Soltanto una concezione come quella di Rousseau, soltanto il contratto sociale poteva dare un simile valore paradigmatico e preponderante allo stato di fronte alla chiesa. « Le volontà di tutti si riuniscono nel 2
La chiesa e la repubblica cit., p. 16. Ibid., p. 23.
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bene comune, ed una tal riunione formò il contratto sociale, per cui alla esistenza fisica ed indipendente ricevuta dalla natura fu sostituita una esistenza parziale e morale, ed ebbe vita il corpo politico... In forza di una convenzione si è formata la società, ma ogni convenzione lega scambievolmente le parti contrattanti, ed ecco come le potenze divengono legittime. Non possono essere che legittime perché sono resultati di una forma di associazione che difende e protegge con tutta la forza comune ciaschedun socio e per mezzo della quale ognuno unendosi a tutti non ubbidisce che a se stesso e rimane libero com'era prima»'. Soltanto dunque uno stato democratico, quale Rousseau lo definiva, era capace di assumere di fronte alla chiesa una posizione pienamente giusta e legittima? Amidei non trae esplicitamente questa conclusione, che pur traluce dalle sue pagine. Quel che invece risulta evidente è la nuova forza ed energia che lo stato acquista, nel suo rapporto con la religione, da questa visione rousseauiana d'ogni sovranità. Non l'origine divina, non la provvidenza, ma l'umana volontà spiega e giustifica il potere nato dalla volontà dei singoli di riunirsi « in un sol corpo per la loro tranquillità » 2. «La sovranità è libera e indipendente perché è composta di uomini naturalmente liberi ed indipendenti i quali, riunitisi in tanti corpi separati, hanno formato diverse nazioni» 3 . Sovranità ben inteso inalienabile, irrenunciabile e indivisibile. «Ma se è cosí — si chiede Amidei — perché nel mondo europeo si è veduta una potenza straniera, istituita solamente per le cose d'una vita futura, essere ammessa a regolare il sistema d'una vita presente? » Soltanto «l'ignoranza degli uomini, le rivoluzioni degli imperi e un mal inteso attacco alla religione» spiegavano il peso politico che Roma era venuta acquistando ". Storia di errori e di colpe che egli ripercorreva ancora una volta, infondendo nuovo vigore alla tradizionale polemica contro il formarsi della monarchia papale. Ecco ad esempio come descriveva la creazione del potere temporale. «Ma che non fecero alcuni principi a vantaggio del papa? Arrivarono fino al segno di alienare lo stato con donarlo a San Pietro e per esso al papa per riceverlo da lui, e di sovrani indipendenti rendersi di lui feudatari in danno de' popoli a loro stessi commessi» 5 . Eran questi frutti « della superstizione e del fanatismo » che era tempo ormai di cancellare dalla faccia della terra 6. Bisognava finalmente ,
' La chiesa e la repubblica cit., pp. 28 29. Ibid., p. 32. Ibid., P. 34• 4 Ibid., pp. 41-42. Ibid., P. 44. 6 Ibid., P. 47. -
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giungere alla conclusione d'un combattimento iniziato da Dante Alighieri, da Occam, da Marsilio da Padova Si era oramai arrivati ad una stretta, forse ad una conclusione. «Io prevedo che questo tempo verrà — concludeva — e allora sarà bandita la superstizione e trionferà la religione nella sua purità e semplicità. Questo punto è lontano, ma tutte le linee fin qui tirate tendono a diminuirne la distanza e vedo due potenti e rispettabili monarchie dell'Europa [Francia e Spagna], mentre che scrivo, interessarsi negli attentati fatti al duca di Parma dalla Sede romana, nel tempo ch'egli non pensa, colle sue leggi, che al benestare de' suoi sudditi » 2. Riforma, come si vede, insieme politica e giurisdizionale. Non si trattava soltanto di riportare la chiesa entro i limiti che la sua natura le prescriveva. Anche il potere politico doveva rispettare i limiti che la sua origine contrattualistica gli imponeva. «Gli uomini come cittadini devono rendere allo stato tutti i servizi possibili, ma all'incontro il sovrano non può caricare i sudditi di una catena inutile alla comunità»'. Il singolo e la società civile avevano una sfera loro riservata che non doveva esser violata dal sovrano. Non è ancora costituzionalismo quello di Amidei, ma è pur sempre una sorta di garantismo che sembra aprire la strada anche ad una visione pii propriamente costituzionale dello stato. Non certo a caso Amidei sarà, non molti anni piú tardi; uno degli ispiratori dei progetti in proposito ventilati e voluti da Pietro Leopoldo 4. Ma quel che piú lo interessa, anche al di là del problema dei limiti del potere, è la funzione egualitaria che esso è tenuto a compiere. Amidei giunge cosí ad un vero e proprio tentativo di giustificazione rousseauiana delle riforme in atto nel ducato di Parma, l'apice, il punto d'arrivo, come abbiamo visto, di tutto il moto politico di quegli anni « Il duca di Parma nelle sue deliberazioni attaccate da una potestà straniera [e cioè dal papato] si è servito della qualità di sovrano, poiché gettando gli occhi sopra i suoi sudditi ha veduto che gli aggravi si posavano tutti sopra una parte ch'è la maggiore e meno ricca e che l'altra, ch'è la minore e piú ricca, ne andava esente, onde lo stato si allontanava da quella uguaglianza ch'è la voce del contratto sociale o della riunione degli uomini in forma di popolo. Servendosi dunque della suprema potestà, diretta dalla volontà generale, non ha fatto altro che il bene comune colle sue leggi tendenti alla equazione. Gli atti diretti a questo fine sono atti della volontà generale... » s. '.
' La chiesa e la repubblica cit., p. 49. Si noti, a riprova dell'origine toscana di queste righe, come l'autore apra con Dante la serie di coloro che si opposero al papato. 2 Ibid., pp. 50-51. Ibid., p. 52. 4 ADAM WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo cit., pp. 402 sgg. 5 La chiesa e la repubblica cit., P. 54.
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Tutti gli aspetti del giurisdizionalismo, le immunità, le esenzioni, il numero dei chierici, le mani morte, ecc. venivano riesaminati in questa luce. L'eguaglianza diventava il metrò su cui misurare ognuno di questi problemi. Il linguaggio matematico servi a render pii esplicita questa volontà di livellamento. «Se, diviso lo stato in trentacinque parti — diceva ad esempio —, una di queste parti solamente possiede tanti beni quanti ne posseggono tutte le altre parti prese insieme, le immunità e l'esenzione da' pesi pubblici sono ingiuste perché il vantaggio è tutto per una parte, ed il gravame tutto per le altre e l'uguaglianza fra i membri dello stato è tanto lontana quanto è distante il numero i dal numero 35» Per mutare una simile situazione era necessaria tanto la volontà di rivendicare la propria sovranità quanto l'accettazione delle nuove idee. «Proteggete lo spirito filosofico », non si stancava di ripetere ai principi. Esso soltanto era capace di portar gli uomini fuori dalle loro «volontà particolari» e di far nascere in loro la volontà politica 2. Naturalmente Amidei ammirava le repubbliche, dove questo spirito comune si esprimeva con maggior forza e continuità. «Gli stati monarchici sono sempre stati fluttuanti nella maniera di governarsi, a differenza degli stati repubblicani, che sono stati pii attaccati ad una forma fissa e che hanno meglio inteso i loro interessi». Anche se non era vero che la « libertà civile» esistesse soltanto nelle repubbliche, queste avevano pur sempre offerto un modello che ogni principe aveva il dovere di seguire'. Garanzie dunque, ma non mai suddivisione e smantellamento del potere. Amidei è perciò contro ogni possibile rapporto concordatario tra stato e chiesa. I concordati altro non sono per lui che «patti spogliativi de' diritti de' popoli», giuridicamente «nulli» e politicamente rovinosi `. Anche l'asilo ecclesiastico è da condannare come « un luogo dove tacciono le leggi». « Ogni opposizione all'eguaglianza morale fa riviviscere la disuguaglianza fisica e l'ordine sociale si sovverte » 5 . Eppure, come in Beccaria, anche in Amidei questa rigida applicazione della volontà generale si tempera di pietà, di umanità, conscio di quanto sia difficile farla passare nei fatti. «Il celebre autore de' delitti e delle pene, il di cui libro, per servirmi dell'espressione di un chiarissimo filosofo oltramontano, dovrebbe essere il breviario de' sovrani e de' legislatori», lo induce a porsi il problema fondamentale: è colpevole o innocente colui che si rifugia un asilo? Nessun dubbio nel primo caso. Nel caso contrario, « se è un innocente oppresso, mi commuove troppo e mi eccita un interno fremito a
' La chiesa e la repubblica cit., p. 58. Ibid., PP. 63-64. Ibid., p. 68. 4 Ibid., pp. 71 SBB. s Ibid., p. 83. 2
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la vista di un povero disgraziato racchiuso in carcere oscuro dalla calunnia e, ritornando sopra me medesimo, mi dico: oggi son libero, ma domani posso essere accusato e chi sa che in questo stesso momento un nemico cittadino non mi tenda qualche insidia e non ispii l'istante di sorprendermi» `• Amidei riprende qui e sviluppa un dubbio che già abbiam visto Aguirre porre a limite della sua volontà di abolire ogni esenzione e privilegio derivante dal passato medievale. Viva è anche in lui come si vede, la preoccupazione di non abbattere le garanzie individuali tradizionali prima di averne solidamente creato delle nuove. Anche in questo,Amidei si trovava alla soglia dello stato di diritto e del costituzionalismo, cosciente sempre com'è delle difficoltà che comporta l'instaurazione d'una legislazione fondata sul contratto sociale. Paradosso apparente e realismo effettivo che si manifestano anche nel modo con cui egli affronta il problema del celibato ecclesiastico. Non questo gli pare esser la causa essenziale dello spopolamento, derivante secondo lui essenzialmente dai privilegi, dalle disuguaglianze della società. « Il lusso eccessivo che cagiona spese straordinarie, le false idee di rango e di superiorità che non convengono nel commercio ed una specie di amore dell'ozio di certe persone nelle quali si fa passare la nobiltà per retaggio e non per merito personale e l'immenso numero di soldati mercenari che servono di sostegno al libertinaggio » gli sembrano esser gli ostacoli pii gravi sulla strada d'uno sviluppo demografico 2 . La nobiltà dunque e gli eserciti stanziali nelle monarchie moderne costituiscono gli ostacoli maggiori. Anche qui, suggerisce Amidei, le riforme d'ispirazione giurisdizionale avranno un significato soltanto se applicate ad una società trasformata, libera ormai dai privilegi ereditati dal passato. Anche per quel che riguarda le terre del clero, la loro rimessa in circolazione avrà una funzione positiva soltanto se esse saranno messe a disposizione dei contadini. «Cosí si moltiplicherebbero i possidenti, si aumenterebbe l'agricoltura e in conseguenza la popolazione»'. $ chiaro che per ottenere un simile scopo, Amidei non esiterebbe ad adoperare anche mezzi estremi, quale l'esproprio. Ma si rende ben conto che ciò lo porterebbe fuori dal quadro istituzionale entro il quale egli intende rimanere e perciò si ritrae, pago di indicare le riforme immediatamente possibili. «Vi sarebbe ancora un altro mezzo — dice —, ma siccome parmi che attacchi la proprietà, mi astengo dal porlo in prospetto». Amidei ha anche qui coscienza di trovarsi al limite tra il mondo del passato ed un altro che gli si apre di fronte agli occhi. Se si arresta è per volontà di ve' La chiesa e la repubblica cit., P. 84. Ibid., p. 96. Ibid., p. Io1.
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der concretamente realizzate le proposte da lui formulate, non per ripugnanza o timore. Tanto è vero che chiara gli appare ormai di fronte la società verso la quale egli vorrebbe si camminasse, fondata tutta su una rinnovata operosità e capace perciò di superare gli ostacoli che la tradizione cattolica era venuta per tanti secoli frapponendo. «Solo dirò che se le premure del governo si dirigono ad accrescere e favorire l'industria, ed a togliere il pregio all'ozio, tutti potranno vivere comodamente e si diminuirà da se stesso il numero de' celibi»'. Una simile fiducia nella «fortunata rivoluzione» ormai in corso, una forte certezza che «lo stato d'infanzia » era «finito» 2 colorano pure tutte le sue considerazioni sugli altri aspetti dei rapporti tra stato e chiesa, dai benefici ecclesiastici a ll a «Bolla della Cena del Signore», dalle scomuniche alle indispensabili riforme nelle scuole '. «Tocca a voi, o principi — conclude —, ritornare a' vostri primi diritti, a rimettere in via i popoli a voi soggetti...»'. Appello all'autorità che si basa ormai su una solida coscienza dei diritti dei popoli e sulla esigenza che questa trovi modo d'esprimersi in modo legale, organizzato, politico. Tanto è vero che Amidei si mostra favorevole, sia pure con quella moderazione di linguaggio che è tipica del mondo toscano da cui egli deriva, alla libertà di stampa. «Il miglior regolamento per diminuire gl'inconvenienti politici credo che sarebbe quello che, prima di deliberare sopra cose concernenti il pubblico, desse la libertà ad ognuno di esporre suoi sentimenti in carta, perché allora gli stabilimenti si approssimerebbero alla volontà generale. Il re di Svezia ha fatto cosí ed è da desiderarsi che il di lui savio esempio sia seguito dagli altri regnanti»'. Libertà che, ben inteso, verrebbe a colpire al cuore la pretesa degli ecclesiastici ad occuparsi della censura dei libri. Mai come in questo campo la separazione netta, infinita, tra chiesa e stato doveva trovare la propria giusta applicazione. «La stampa è una invenzione umana... La compra e vendita de' libri forma un considerevole ramo di commercio ed il commercio è una delle risorse dello stato. La vista è un sentimento corporeo datoci dal creatore dell'universo per farne uso ne' bisogni di questa vita ed il possesso di una qualche cosa dipende dal diritto di proprietà, che ha per garante la potestà pubblica. Come dunque la potestà ecclesiastica può arrogarsi la facoltà di proibire i libri fuori de' suoi stati, quando tal affare è meramente materiale e corporeo? » I libri di religione siano giudicati dalla chiesa. La chiesa e la repubblica cit., p. lox. Ibid., pp. 115 e 128. Ibid., pp. 117 sgg. Ibid., p. 140. Ibid., p. 141. 6 Ibid., pp• 145-46. 2
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Per tutti gli altri valeva esclusivamente l'autorità dello stato, conscia che dare «la libertà alla stampa» non poteva che giovare alla società tutta intera `. Anche Amidei, malgrado tutte le sue speranze, approdava tuttavia con qualche dubbio ed esitazione al gran problema che in vario modo preoccupava le menti dei philosophes negli anni sessanta: sarebbe stato davvero sufficiente lo stato a mantenere l'ordine e la compattezza della società, senza l'aiuto della religione? D'Holbach, in quegli stessi anni, rispondeva di si. Amidei si dimostra convinto della necessità di lasciare alla chiesa, pur entro i suoi ben precisi limiti, la propria funzione di correggere, di reprimere i vizi e di stimolare, esaltare le virai. Il cristianesimo anzi, proprio perché era, rispetto alle altre, «la religione piú reprimente » in materia di peccati, sembrava permettere allo stato e alla società, entro la loro sfera, una maggiore libertà 2 . Ripensando a Rousseau — sempre presente nelle pagine di Amidei — egli sembrava concludere che non vi poteva essere migliore religione civica per le moderne società che il cristianesimo, ben inteso depurato di tutte le incrostazioni della tradizione romana. «Nel Giappone, ove la religione dominante è quasi priva di dogmi e non propone né inferno né paradiso, la severità delle leggi vi supplisce... Ma quando la religione stabilisce il dogma della libertà, le pene delle leggi devono essere piú miti... Chi ha detto che la religione cristiana rompa l'unità sociale e che sia senza legame col corpo dello stato non ha considerato la di lei interna costituzione, ch'è veramente degna di un dio, ma ha avuto in vista solamente i resultati di essa e non i principi su cui è stabilita... Quali dogmi più veri e piú santi non possono avere delle cattivissime conseguenze?... Il vero è che il cristianesimo anziché rompere il legame sociale, ha resa piú solida l'autorità de' nostri moderni governi, meno frequenti le loro rivoluzioni ed in conseguenza meno sanguinari, e la prova di fatto si rileva dal confrontarli cogli antichi governi... La nostra santa religione ci ha resi migliori e, oltre a dirigerci nella felicità nell'altra vita, ha fatta ancora la nostra felicità in questa, poiché si oppone al despotismo»'. Conclusione tanto più importante in quanto Amidei, sia pure con la solita prudenza, si pronuncia per la « tolleranza civile»'. Qualcosa di liberale, del liberalismo emerso poi al trapasso dal Sette all'Ottocento, aleggia già nelle sue pagine. ' La chiesa e la repubblica cit., p. 148. 2 Ibid., p. 149. Ibid., pp. 150 sgg. Ibid., p. 159.
«Di una riforma d'Italia»
Capitolo undicesimo
«Di una riforma d'Italia»
L'altro e maggior libro emerso nella pubblicistica giurisdizionale degli anni sessanta s 'intitola Di una riforma d'Italia. Era opera di Carlantonio Pilati ed usci nel 1767. L'autore era già piuttosto noto per libri che aveva pubblicato, per lo spirito avventuroso che era in lui e che lo spingeva a viaggiare, a conoscere il mondo, a mutar spesso di mestiere e di residenza. Era originario di Tassullo, in Val di Non, ai «confini d'Italia», come allora si diceva. Era passato da ragazzo attraverso diversi crocicchi della cultura italiana e tedesca. Trento innanzi tutto, «pays où vont couler toutes les sottises de l'Italie et toutes celles de l'Allemagne», come dirà egli stesso '. A Salisburgo poi, dove andò, sedicenne, a curvarsi sulla cultura giuridica tradizionale del mondo cattolico tedesco, apprendendo ad odiarla per il resto dei suoi giorni. «Teorici barbari — li chiamerà —, gente goffa, inetta, sciocca, stupida come le pietre». « Quando io era giovane ed allo studio delle leggi applicava, ho avuto fatal disavventura di urtare in bocca a questi cani». Fu oppresso dai libri di uomini come « clar.mus et plurimum reverendus P. Desing», che già abbiamo incontrato citando la sua estrema difesa dei privilegi del clero. «E mi rimasi fra le unghie di questi animali irragionevoli, finché la sorte propizia me ne liberò col farmi capitare fra le mani libri di gusto migliore e di discernimento piú sodo » 2 . Come propri liberatori egli considerò il colto e illuminato suo zio, il canonico Andrea Cristiani, cosí come Muratori, al quale egli adolescente rese visita poco prima che morisse, Genovesi, di cui poi sempre parlò con ammirazione, Montesquieu, la cui opera egli pose alle fondamenta stesse della sua concezione della legge naturale, e finalmente i giuristi e gli storici tedeschi della scuola di Lipsia e di Gottinga, Thomasius e Mosheim, che egli conobbe durante un suo soggiorno in Germania e che lasciarono una durevole impronta sulla sua personalità, sulla sua cultura ed anche sul suo stile. Né fu senza in fluenza Voyages en différens pays de l'Europe cit., vol. I, p. 222. 2 Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile di Carlantonio Pilati, professore di legge in Trento, Antonio Zatta, Venezia 1766, pp. 114 e 115. Cfr. A. MüHLBÖCK, Die Pflege der Geschichte in der Universität Salzburg, Geyer, Wien-Salzburg 1973, pp. 6o sgg.
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su di lui «Gianadolfo Hoffmanno, celebre e savio politico della Germania », che gli insegnò «che quelli solamente amano le leggi romane i quali odiano la loro patria e bramano di poter tenere nascoste le loro cabale e furberie»'. I viaggi, non soltanto in Italia e in Germania, ma in Danimarca, in Olanda, in Inghilterra compirono la sua formazione. L'italiano, il tedesco, il francese divennero le lingue che egli scrisse correntemente, l'inglese quella delle sue frequenti letture. Pilati era destinato a restare tutta la sua vita un cosmopolita autodidatta. Nel 1758 era stato nominato professore di diritto civile a Trento. L'istituzione di una simile cattedra costituiva un'« audace novità» per il piccolo mondo del principato ecclesiastico e non poté realizzarsi se non attraverso una serie di trattative e compromessi con i gesuiti, che, anche là, avevano nelle loro mani le scuole 2. Interruppe il suo insegnamento due anni dopo, per viaggiare in Germania, in Olanda e in Italia, tornando a Trento nell'estate del 1763 3 . Stava preparando il suo primo libro, che apparve l'anno dopo: L'esistenza della legge naturale impugnata e sostenuta da Carlantonio Pilati'. Si era persuaso, come scriverà due anni piú tardi, che «i tedeschi, con pii giudizio e con maggiore sodezza... di buona parte di noi altri italiani», avevano saputo «trattare lo studio della giurisprudenza » 5. Sulle loro tracce era necessario risalire ai principi primi del diritto, riesaminare le fondamenta stesse della legge di natura. Era del resto un tema largamente discusso a Venezia a metà del Settecento. Presto là sarebbe uscita, nel 1765, la monumentale opera di Giovanni Finetti, De principiis iuris naturae et gentium adversus Hobbesium, Pufendorfium, Thomasium, Wolfium et alios'. Qualche anno priDi una riforma d'Italia, ossia dei mezzi di riformare i pig cattivi costumi e le piú perniciose leggi d'Italia, Villafranca (Coira) 1767, p. 280. Alludeva a JOHANN ADOLF HOFFMANN, Politische Anmerkungen von der wahren und falschen Staats-Kunst, dritte verbesserte und vermehrte Auflage, Jo'
hann Carl Bohn, Hamburg 1758. La prefazione di questa terza edizione era stata scritta a Lipsia nel 1758. Era molto influenzato dagli scrittori inglesi e olandesi e citava, ad esempio, «der kluge Johann de Witt », rivelando cosí la radice repubblicana della sua polemica contro il diritto romano. 2 MARIA RICATTI, Un illuminista trentino del secolo xviii. Carlo Antonio Pilati, Vallecchi, Firenze 1923, p. 51. Cfr. ALDO STELLA, Riforme trentine dei vescovi Sizzo e Virgilio di Thun (17641784), in «Arch. veneto », voll. LIV-LV, 1 954, PP. 8o sgg., M. DEAMBROSIS, Filogiansenisti, anticuriali e giacobini nella seconda metà del Settecento nel Trentino, in «Rass. stor. Risorg. », 1961 e ora soprattutto l'importante studio di CLAUDIO DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), Sansoni, Firenze 1975. Una curiosa e minuta documentazione su questi viaggi si trova in alcuni suoi libretti di appunti conservati a TRENTO, B. Comunale, Mss 634. Numerose annotazioni su libri si alternano là alla registrazione delle tappe allora da lui percorse. ° Antonio Zatta, Venezia 1764. Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., P. 143. Thomas Bettinelli, Venetiis 1765. La Bibliografia vichiana di BENEDETTO CROCE, riveduta e rielaborata da Fausto Nicolini, R. Ricciardi, Napoli 1947, vol. I, p. 264 dà la data del 1764 facendo notare che la dedica a Maria Teresa è del 1765. L'esemplare da me posseduto porta 1765. Cfr. G. F. FINETTI, Difesa dell'autorità della Sacra Scrittura contro G. B. Vico, a cura di Benedetto Croce, G. Laterza, Bari 1936. Una interessante lettera indirizzata da Finetti a Pilati, scritta da «Venezia, alle Zattere, 16 ottobre 1765» ci mostra i due uomini d'accordo nel condannare le idee di Duni e cioè l'interpretazione vichiana dell'erramento ferino. «Non potendo io dubitare ch'Ella lo abbia fatto
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ma, r757-59, era uscito l'adattamento cattolico del Diritto della natura e delle genti di Pufendorf a cura di Giovambattista Almici, il quale, nel 1766, farà uscire le sue Osservazioni sopra il libro del sig. Elvezio intitolato lo Spirito che questi temi ampiamente sviluppava. Nel 1765, le Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando Facchinei riportarono la discussione ai principi primi, al problema cioè se insito nell'uomo era l'istinto sociale o se all'origine delle umane società stava un libero contratto'. Un collaboratore dell'« Europa letrai»fchmneotarl'ispcdmliussioni. «Inondata è presentemente l'Italia di certi libri intorno l'argomento importantissimo del diritto naturale, comune e pubblico, quali torcendo dal vero senso le sane dottrine e i buoni principi, danno fondamento alla libertà di pensare e di operare e divengono pregiudiziali, massime a' giovani focosi ed inesperti ed assai dannosi ai ben regolati governi» 2. Questo dibattito veneziano era disordinato spesso e senza grande originalità, ma largamente informato e aperto alle idee italiane e francesi, tedesche e inglesi. Finetti discuteva a lungo con Vico e con Rousseau, Almici con Helvétius. Facchinei alludeva ai giuristi e filosofi della Germania e della Gran Bretagna. Mondo tipico della Venezia degli anni sessanta. Carlantonio Pilati si inseriva in questo mondo aggiungendo qualche autore trascurato dagli altri, come l'olandese Ulricus Huber. Cercava di dare un certo ordine, anche se scolastico e formale, alla discussione, elencando nella prima parte del suo libro tutti gli argomenti contro l'esistenza della legge naturale, e nella seconda quelli favorevoli. «Voglio schierare qui tutte le principali ragioni degl'impugnatori della legge naturale e presentarle nella più bella figura che per me loro dare si possa. Voglio per un pezzo di tempo della causa degli avversari far causa mia propria... Ciò fatto, stabilirò poi anch'io il mio sistema, produrrò anch'io le mie ragioni ed andrò sventando gli argomenti contrari con quelle armi che la verità e la natura stessa mi somministreranno. Per questo modo ognucon quel candore ch'è proprio del suo bell'animo, l'assicuro che m'ha dato non poco di coraggio per parlar con pii franchezza con quello sfrenato avversario nell'operetta che contro di lui scrivo e che già sto per finire e che subito che sia stampata mi darò l'onore di fargliela capitare... Le rendo poi infinitissime grazie pei lumi che, non senza suo incomodo, s'ha degnato di comunicarmi nell'ultima sua, i quali certamente non mi saranno inutili pel mio lavoro...» (TRENTO, B. Comunale, Mss 2 433, ff. 4 e 4v). FRANCO VENTURI, «Socialità» e «socialismo» nell'Italia del Settecento, in «R. stor. ital. », anno Lxxv, fasc. I (matzo 1963). pp. 129 sgg. e GIANFRANCO TORCELLAN, Cesare Beccaria a Venezia, in ID., Settecento veneto cit., pp. 203 sgg. 2 «L'Europa letteraria», tomo V, parte II (giugno 1771), pp. 28 sgg., recensione a De' principi del diritto naturale, comune e pubblico, discorso del conte Pietro Trieste, nobile di Asolo, Bassano 1771.
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no avrà campo di conoscere per se medesimo e di giudicare se le ragioni di chi impugna la legge naturale possano stare al cimento con quelle di coloro che la sostengono» Ma perché questo lungo armeggiare? Quale era l'intenzione effettiva, la reale conclusione di questo esercizio dialettico? Già se lo chiesero i contemporanei, resi dubitosi dall'inusitato modo con cui questo nuovo autore si presentava ai lettori. Pubblicava i suoi libri da Antonio Zatta, l'editore dei gesuiti, di Baretti, di Facchinei, eppure metteva tanto calore a difendere le tesi meno accettabili agli occhi dei difensori dell'ortodossia. Tutto il suo comportamento pareva fatto apposta per suscitare dubbi e diffidenze 2 . Non pochi dovettero pensare come Lami, il quale scrisse nelle «Novelle letterarie» di Firenze: «Io non posso soffrire i libri che mettono nella più luminosa veduta l'empietà e poi non si curano di potentemente e concludentemente distruggerla» ;. Pilati aggravò la situazione polemizzando con uno dei piú tipici rappresentanti dell'ortodossia trentina, il minore conventuale Giovanni di Dio, al secolo Francesco Staidel. Questi, nel 175o, aveva preso la difesa della tradizione contro Tartarotti e Maffei'. Oltre a pubblicare un manuale di pratica ecclesiastica, egli aveva voluto inserirsi, nel 1765, nella discussione sulla legge naturale, ponendosi cosf accanto a Finetti e a Pilati s. Ogni dubbio, ogni problematicità era assente nelle sue pagine. Gli argomenti di Pilati in favore della legge naturale erano lodati, riesposti e ribaditi, ignorando tutto il resto. Assenti gli attacchi personali, ma grevi e monotone le accuse ai novatori e contro tutti coloro che nell'età moderna avevano seguito Hobbes e Spinoza, « omnis religionis contemptor» 6 . Le loro idee facevano arrossire «non modo docti, verum etiam agrestes ac barbari»'. I «minuti philosophi» d'altro non erano capaci che di «puerilia sophismata » 3. Contro di loro stava il peso massiccio della tradizione classica e cristiana, la quale veniva riformulata ancora una volta in tono indignato e predicatorio. Troppa passione aveva messa Pilati nella sua discussione perché po'.
L'esistenza della legge naturale impugnata e sostenuta cit., p. 3. 2 «Biblioteca moderna», torno II, n. 19 (1764), p. 145, dove era avvicinato a «Pirrone, Carneade, Epicuro» e accusato di voler toccare « il polso alle menti guaste di coloro che dubitano circa l'esistenza della legge naturale». «Novelle letterarie», n. 43 (25 ottobre 1765), col. 679. Cfr. la difesa che delle idee e della persona di Pilati, suo « grande amico» fece su queste colonne, in una lettera da Rovereto, Clemente Baroni Cavalcabò il 13 agosto 1766 (ibid., n. 8 jzo febbraio 1767], coll. 124 sgg.). 4 Ars magica adserta a Fr. Francisco Staidelio ord. min. conventualium tbeologo atque examinatore prosynodali, Ex Typographia Monaussiana, Tridenti 1750. Lex naturae propugnata a Fr. Francisco Joanne de Deo Staidelio ord. min. conventualium tbeologo atque examinatore prosynodali, Ex typographia episcopali Monaussiana, Tridenti 1765. a Ibid., p. ro. Ibid., p. 83. Ibid., p. 203.
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tesse accettare in silenzio questo solenne seppellimento d'ogni dubbio, d'ogni controversia. In tutte quelle pagine, non gli riusciva di apprezzare che la buona volontà, priva tuttavia d'ogni elemento nuovo e importante'. Difendeva contro Staidel il diritto di scrivere in italiano, tanto pii che la lingua del suo avversario, pii che latina, era in realtà «gotica et longobardica» Z. Quanto al contenuto, perché Staidel non aveva appreso qualche cosa da Grozio, Cumberland, Pufendorf, Cudworth, Wollaston? E se non voleva degli eretici, «si haereticos odis», perché non si rifaceva a Genovesi o a Finetti e ai loro eccellenti scritti? . Gli antichi, i classici non erano sufficienti ed anch'essi dovevano essere interpretati criticamente, non meccanicamente riecheggiati. Non cosí si doveva discutere con «hobbesiani, spinosistae, baeliani ac voltaeriani»'. Un « parus theologus» non era adatto a intendere la legge naturale'. Bastava vedere, aggiungeva, quale eco avevano avuto, in Francia e in Germania, le opere di Finetti e di Pilati per capire che una nuova mentalità dominava ormai la discussione su questo problema Altrettanto antiquate ed errate erano le dottrine morali del padre Giovanni di Dio, ad esempio per quel che riguardava l'usura e il duello'. In realtà ai teologi come Staidel contrapponeva ormai un mondo morale profondamente diverso, di gente che irrideva «fabulas illas aniles» ostinatamente ripetute dai frati, che non credeva alle superstizioni da questi predicate, che si rifiutava di dir male del prossimo «religions causa», come essi invece continuavano a fare, che andavano ormai in giro con la testa dritta e non col collo torto («capite recto atque celso, minimeque in alterum latus inclinato procedimue»), che leggevano «bons libros», disprezzando gli «autores malos». «Nulli scholae non mancipimus — concludeva —, nullius imperio paremus, optima quaeque undique ratione et judicio colligimus. Contra quae mala sunt, aut prava, aut inepta et a ratione aberrantia, si vel ab optimo dieta scrjptave sunt, reDcimus» Pilati metteva cosí in piena luce la volontà di indipendenza e di ragione che lo aveva spinto a scrivere e ad agire. I116 giugno 1766 L'esistenza della legge naturale impugnata e sostenuta veniva messa all'indice. Gli elogi che contemporaneamente riceLapi Coraliti Judicium de duobus P. Joannis de Deo Staidelii libris, quorum alter Lex naturalis propugnata alter Enchiridium theologiae inscriptus est, Typis Agnelli et Soc., Lugani 1766, p. 4. Lo pseudonimo 2 Ibid., p. 6.
è anagramma di Carlo Pilati.
' Ibid., p. 8. ' Ibid., p. 56. s Ibid., p. 18. 6 Ibid., p. 20. Ibid., pp. 35, 44, 45 sgg• s Ibid., p. 23.
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vette potevano esser considerati altrettanto compromettenti quanto le condanne. Le «Journal encyclopédique» disse che «cet ouvrage fait honneur à l'auteur et mérite d'être lu et médité»'. Nel 1767 ne usciva una traduzione tedesca, a cura di Wilhelm Heinrich Winning, che era pastore protestante a Coira e precettore nella famiglia von a Salis 2 In una prefazione di un centinaio di pagine, Winning tracciava la biografia di Pilati e diceva come egli si fosse liberato dal pericolo «unter den Händen barbarischer Lehrer der schönen Wissenschaften und der Weltweisheit zu werwildern», raccontava poi dei suoi viaggi e dei suoi scritti, per concludere con questo ritratto: «Eine unüberwindliche Liebe zur Wahrheit, die ihn einem geschwornen Feinde aller Vorurtheile macht, eine gelehrige Bescheidenheit, die sich nicht schämt geirret zu haben, mehr Freimüthigkeit als der Geist der Verfolgung leidet, und ein Herz das der Freundschaft fähig ist, sind Züge seines lebenswürdigen und philosophischen Characters ». Tanto pii penoso dover constatare che un uomo come Pilati, che faceva onore alla sua patria, era oggetto di calunnia e di accuse da parte degli ignoranti e dei «Ketzermachern», dei fabbricanti di eretici'. Eppure anche per Winning c'era qualcosa d'inquietante nel libro di Pilati, quel suo far unico affidamento sulla ragione, quel metter da parte con troppa decisione il problema della rivelazione. L'amico traduttore lo scusava, ma anch'egli non poteva far a meno di polemizzare con lui. Quel che infatti colpisce nella prima parte di quest'opera, quella intesa a provare che la legge naturale non esiste, è la simpatia con cui Pilati accompagna il pensiero di Montaigne, dei libertini, dei pirronisti, degli scettici, di Helvétius, «valente scrittore in materia di morale », di .
«Journal encyclopédique»,
15 luglio 1765, fase. V, parte II, p. 145. L'anno seguente questi pubblicherà le sue Predigten zu Chur in Graubünden gehalten, Orell, Gessner, Walser, Chur 5767. Erano prediche di nessuna originalità, ma tipiche d'un protestantesimo illuminato. Le dedicò alle autorità di Coira. Winning partecipò pure al movimento « patriotiCo » caratteristico della Svizzera di quegli anni. Nel 5773-74 pubblicherà, insieme a Heinrich Bansi 1 2
un Grundriss der Geschichte Gmeiner Drey Bündten Lande, mit patriotischer Freiheit und unparteiligkeit entworfen. Winning conserverà sempre stima ed amicizia per Pilati. La lettera che gli scrisse da Cuira il 15 gennaio 1782, conservata a TRENTO, B. Comunale, Mas 457, f. 7 è in qualche modo la conclusione della loro lunga collaborazione. Gli parlava della sua attività: «Oui, je prêche toutes fêtes et dimanches — gli diceva —. Mes sermons n'ont pour objet que de faire voir à mes auditeurs l'Evangile dans sa simplicité et de leur faire aimer la vraie vertu. Aussi semble-t-il qu'ils soient pour toutes les confessions. Il y a souvent des catholiques touchés jusqu'aux larmes. Apparemment qu'on me croit honnête homme et ce que je dis part du coeur. On a plus fait de progrès depuis quinze ans dans la théologie que dans toutes les autres sciences. Cela fait espérer dans la religion des révolutions salutaires à l'humanité». Morirà nel 1789. Cfr. REMO BORNAT1co, Carlo Antonio Pilati, 1733 -1802, fiero patriota italiano e irrequieto europeo del 700, estratto da «Quaderni grigionitaliani», anno xxxvil5, n. 4 (ottobre 1969), P. 5• ' Des Herrn. Pilati bestrittene und verfochtene Wirklichkeit des natürlichen Gesetzes, aus dem Italiänischen übeserzt und mit einer Vorrede be gleitet von Wilhelm Heinrich Winning, Jacob Otto, Lindau 1767. Lo stampatore era Ludwig Stoffel. Era dedicato ad Andrea von Salis. La Vorrede non è paginata. 10
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tutti coloro, compreso Nicolas-Antoine Boulanger, che facevano del mondo dell'aldilà «una pura e pretta invenzione de' legislatori umani»'. Per la conservazione dell'umanità, dicevano, il diritto naturale non era indispensabile. «Molti ripieghi poterono i legislatori umani pel mezzo della sola ragione ritrovare, senza che mestiere ci fosse di alcuna legge naturale per far si che le azioni de' particolari tender dovessero a procurare il bene comune della repubblica. Tale fu tra l'altro l'invenzione delle religioni...» 2 . La conclusione era tratta dal Trattato teologico politico di Spinoza: «L'uomo non può essere pii astretto a seguitare leggi naturali ch'egli non conosce di quel che possa essere tenuto un gatto di conformarsi alla natura del leone» 3 . Critica corrosiva che aveva scavato nell'animo di Pilati. Unita alla critica della giurisprudenza, gli aveva insegnato a diffidare dei sistemi inventati dai dotti e da questi usati per imporsi al «popolo», ai « semplici », agli «idioti». Erano i dotti ad aver finito col trasformare l'idea stessa di legge naturale in «un puro fantoccio de' legislatori umani o un ghiribizzo di sottili ma vani razionatori» 4 . «Le persone idiote, sapendo per esperienza benissimo quanto agevolmente possano essere aggirate dalle persone pii ingegnose, un fondato motivo hanno di non arrendersi alle dimostrazioni de' principi morali inventate da qualche acuto e dotto soggetto» 5 . La umana realtà era fatta di egoismi, di interessi, di passioni, di vizi, di continue lotte che invano i dotti volevano mascherare e raddolcire. La concezione hobbesiana dello stato di natura veniva contrapposta all'ottimismo di tanti pensatori e anche di Antonio Genovesi, messo in queste pagine duramente in discussione 6. Nella critica spinoziana, libertina e materialista Pilati aveva riconosciuto la propria ricerca di verità, al di là delle formule dei filosofi e dei giuristi, la propria ribellione alle autorità della scuola e della tradizione, la propria volontà egualitaria contro i privilegi dei dotti e dei potenti. Ma quando cercava poi di formulare il proprio pensiero sulla legge naturale, la pura negazione non gli bastava più, né si accontentava di Hobbes e di Helvétius. Neppure si mise per la via di tanti suoi contemporanei, quella aperta da Rousseau, cercando, come ad esempio Beccaria, un punto d'incontro tra l'egualitarismo di Jean-Jacques e l'utilitarismo di Helvétius. La sua strada Pilati la trovò in Inghilterra, nei seguaci di Shaftesbury e di Hutcheson, nei teorici dell'istinto morale. L'utilità non ba-
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stava, bisognava pur ammettere la «gagliardissima inclinazione alla società» insita nell'uomo, un «istinto naturale che '1 trae con forza gagliardissima ed irresistibile a ricercare assolutamente il bene ed abbominare il male»'. La verità non era dunque da ricercarsi in quella complessa costruzione logica che si usava chiamare la legge naturale, partorita dall'orgoglio della ragione, ma negli « stimoli della nostra natura», in « quell'istinto che proprio è di tutto il genere umano » 2 . « Questo istinto è che ci rende umani, giusti, misericordiosi, benevoli ed amici l'uno dell'altro»'. «Certamente, adunque, che la ragione non è in fatto di legge naturale la nostra maestra, ma l'è sebbene l'istinto» '. Conclusione di cui Pilati non ignorava le difficoltà. Davvero in tutti i popoli e in tutti i tempi l'umanità aveva dato prova di possedere un simile istinto? Fin dove questo istinto poteva essere formulato in leggi? Ma l'istinto aveva ai suoi occhi un evidente vantaggio, quello di spiegare in modo puramente umano, senza alcun intervento religioso, il fondamento morale delle leggi 5 . Conclusione che egli poneva — e la cosa è significativa — sulla bocca d'un « africano». Non rousseauianamente d'un selvaggio, ma d'« un figlio di un mercante africano » che faceva ritorno in patria dopo aver studiato in Europa, convinto ormai che i «dotti europei» erano «gran ciurmadori, gran bugiardi, gran dicitori di nulla » e gran calunniatori delle « nazioni » che essi chiamavano «barbare» 6. Ricordassero piuttosto, gli europei, le «bestie e furie spagnole che cosí spietatamente hanno incrudelito contro i nostri innocenti e sciagurati maggiori», la «loro maledetta ed esecranda rabbia» 7 . In Europa avevano voluto spiegargli che cosa fosse la legge naturale. «Ed io — rispondeva — mi rimarrò, rispetto almeno a questa materia, nella mia barbarie, perché cosí piace a voi d'appellare la schiettezza, la semplicità e la naturalezza. Questa legge che cos{ pretendete d'insegnarmi, s'ella è naturale e comune a tutti gli uomini la saprò anch'io al pari di voi, e se non è naturale, tenetevela per voi stessi, che io ne voglio vivere in libertà più che posso...» 8 . « Se la ragione è quella maestà che ci fa distinguere il giusto dall'ingiusto, come avviene poi che quelli i quali fanno maggiore uso della ragione sono costantez 3 4
L'esistenza della legge naturale cit., pp. 52 e 72. s Ibid., p. 103. Ibid., p. ro6. 4 Ibid., p. 27. 5 Ibid., pp. II-12. 6 Ibid., pp. 84 sgg.
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L'esistenza della legge naturale cit., p. 118. Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 3o. Ibid., p. 33. Ibid., P. 41.
▪ Cfr. quanto diceva la «Biblioteca moderna», n. 29 (19 luglio 1766), pp. 222 sgg. recensendo quest'opera: «rincrescerà forse ai leggitori il veder confusi li due termini di sentimento morale e d'istinto naturale, quasi natura e costume in via civile fossero una cosa medesima...» 6 Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., pp. 26, 27 e 29.
▪ Ibid., PP. 34 sgg. $ Ibid.,
p. 32.
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mente pii ingiusti di color che meno dalla ragione e pii dall'istinto vengono retti? I popoli che voi chiamate barbari sono senza verun dubbio pii umani, pii sinceri, pii misericordiosi e meno ingannatori, meno avari, meno traditori, meno crudeli di voi altri europei che della vostra ragione fate tanto uso e tanto schiamazzo. Io ho osservato che le persone idiote, che mai furono alla scuola di qualche maestro e che meno sono da voi altri dotti praticate, sono, anche in Europa, pii oneste e pii giuste che non sono quei tali che uomini d'ingegno e di dottrina s'appellano»'. Piacque a Winning questo discorso del giovane africano, lo tradusse in tedesco e lo pubblicò a Coira nel 1767 2 . L'anno dopo Pilati stesso recensi sul suo «Giornale letterario» la versione che il pastore grigionese aveva fatta della prima opera sua, dell'Esistenza della legge naturale'. Tanto eccellente era la traduzione, diceva, tanto interessante la presentazione che gli pareva quasi di aver tra mani un'opera nuova e originale. Ottima occasione per riprendere la discussione sulla legge naturale che tanto lo aveva appassionato. Ancora una volta si ritrovava a rimeditare le idee di Montaigne e di Helvétius e soprattutto a sottolineare il contrasto tra la morale e la tradizione cattolica. Si serviva del protestantesimo del suo amico per formulare tutta una serie di critiche ai padri della chiesa. «Il sig. Winning si sforza di far vedere che, nonostante tutto quello che da' nostri in favore de' padri si è detto, non si possono però né difendere, né scusare giammai certe loro dottrine che, a suo dire, essi hanno troppo apertamente contro alla ragion naturale sostenute. Tra queste dottrine annovera egli l'abborrimento che mostrano diversi di loro alle seconde nozze, alla pratica di giurare nei giudizi e nelle faccende di grave momento, alla milizia ed a tante altre cose troppo necessarie per la conservazione della civile società. La medesima taccia di cattive dottrine dà egli ancora al loro amore ed alle loro lodi del celibato, della solitudine e delle pie frodi. Nelle quali cose egli, secondo i principî, come ognun vede, di sua religione ragiona » `. Non ci stupiremo constatando che l'autorecensione di Pilati suscitasse l'interesse dei giornalisti veneziani e venisse riprodotta nel «Cornier letterario » del Io settembre 1768 5 Pilati aveva intanto tratto pubblicamente le conclusioni pratiche delle sue idee sulla legge naturale. Nel giovane africano aveva simboleggiato .
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259 la sua liberazione dalla tradizione giuridica. Era tempo ora di combattere in dettaglio e di indicare le riforme che egli considerava indispensabili. La sua convinzione era esplicita: la miglior cosa da fare era di abolire completamente le leggi romane e di sostituirle con un codice del tutto nuovo. Per persuadersene bastava osservare l'origine della legislazione antica. Il modello libertino della religione, opera e strumento di potenti, veniva cosí da lui trasposto al mondo del diritto. Le dodici tavole, diceva, erano state emanate coll'intento « di tenere celate alla plebe» le arti e le intenzioni dei primi giureconsulti romani, per nascondere il loro «malizioso e ingiusto procedere » '. Dopo secoli, dall'epoca della compilazione delle leggi romane, le loro falsificazioni si erano moltiplicate. Su quelle leggi «Giustiniano e diversi altri babbuassi» avevano lasciato la loro orma indelebile 2 . Quando il diritto romano era riapparso in Italia, all'epoca di Irnerio, ancora una volta i giuristi profittarono dell'ignoranza e della credulità generale per stabilire il loro dominio Gli studenti si affollarono a Bologna « stupefatti dalle ciarle de' loro maestri, stretti da un cieco rispetto del nome romano...» « Imbaldanziti dalla stima che la gente idiota lor professava... tanto pii agevole venne a questi nuovi giuristi la loro mal pensata impresa in quanto che con ogni premura erano ricercati da' principi e dal popolo»'. Il risultato fu catastrofico. «La stranezza, l'oscurità, le sottigliezze, i bizzarri principi e tante altre particolarità delle leggi romane, mescolate alla consuetudini e colle leggi d'ogni paese in particolare, cagionarono uno sconcerto, una confusione ed una incertezza si fatta che non si può facilmente comprendere, né in un breve ragionamento spiegare». Ci vollero secoli per superare simili ostacoli. Furono necessari uomini come Cujas con la sua comprensione storica delle leggi, come Thomasius, ci vo ll e il buon senso di avvocati come De Luca, studiosi dell'antichità come Noodt, «universellement reconnu comme le plus savant et le plus judicieux des auteurs qui, dans ces derniers temps, ont écrit sur les loix romaines» 4 , fu soprattutto indispensabile l'opera di Muratori e di Montesquieu perché si giungesse a concludere, come faceva Pilati: « Il mio pensare sarebbe adunque che interamente abolite fossero le leggi romane e altre nuove venissero fatte» '. ' Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 67. Interessante notare che, una decina d' an Traité des loix civiles, Pilati piú che ai legisti attribuiva questa «malice» al- -nipùtard,elsuo
l'« ordre des patriciens», cit., vol. I, pp. 21 sgg. 2
Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 4o.
Gedanken eines Afrikanes über das Gesetz der Natur. Als ein Anhang zu dem Werke des Herrn Pilati von der Wirklichkeit des naturlichen Gesetzes; aus dem Wälschen ubersetzt von W. H. 2
W., Orell, Gessner, Walser, Chur 1767. 3 « Giornale letterario», tomo II (1768), pp. 75 sgg. 4 Ivi, pp. 8o sgg. N. 14, toll. 319 sgg.
Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 95. Ibid., p. 46. Traité des loix civiles cit., vol. II, p. 72. Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 111. In chiave polemica a, ztro le leggi romane è pure la Dissertatio de servitutibus realibus, che Pilati pubblicò a Venezia presso Antonio Graziosi nel 1765. Cfr. soprattutto la Praefatio, pp. 1 sgg. « L'aperta censura... contro la civile giuri4
sprudenza» che là si trovava fu indicata come pericolosa dalla «Biblioteca moderna», torno III, n. 22 ( 1 765), p. 169.
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Ma come credere e sperare in una cósí radicale riforma? Tutta la parte conclusiva dei suoi Ragionamenti egli dedicò ai rimedi immediati, ai provvedimenti pi i urgenti, in attesa della sperata rimozione delle immense macerie del passato. « Siccome l'abolizione delle leggi romane si può ben desiderare, ma non già sperare si presto, cosí ho giudicato esser conveniente cosa di dover di quelle regole trattare le quali io avviso essere le piú utili per riuscire buono e vero giureconsulto intanto che queste leggi romane sussistono » '. Anche queste pagine erano autobiografiche. Cosí egli aveva tentato di fare a Trento. Accettare il quadro giuridico esistente e operare per il meglio. «Lasciar da parte le leggi troppo oscure, troppo controverse e troppo aliene da' nostri costumi» 2 Ispirarsi ai grandi giuristi che negli ultimi due secoli avevano tentato quest'opera di mediazione e di perfezionamento da Cuiacio a Eineccio, da Fabro a Bynkershoek. Cercar di metter insieme la teoria e la pratica, la storia cioè del diritto e le consuetudini legali di diversi paesi, pur non stancandosi mai di lottare contro la barbarie e l'ignoranza dei praticoni, di coloro che non sapevano far altro che consultar gli indici delle tanto numerose raccolte di sentenze del passato. Cercar di proteggere contro le trappole del foro tutti coloro che erano stritolati dalla macchina giudiziaria, a cominciar dai «poveri rei», sottoposti a «interrogatori suggestivi » e a mille altre ingiustizie'. Opporsi sempre alle « arti inique e disoneste» dei giudici e in primo luogo alla « tortura, la piú abominevole cosa che si abbia inventata la rabbia umana ed il maggior vituperio del nostro secolo»'. Spiegare ai «principi e popoli» che «non erano e non sonc tenuti a ricevere nei loro tribunali le leggi romane» 5, cercando invece ogni volta un utile contemperamento nella legge comune, negli statuti municipali e nelle consuetudini Programma minimo, ma che era già eccessivo per chi a Venezia si accaniva nella difesa del passato. La «Biblioteca moderna » del 16 aprile 1766, ricordò come anche «il celebre Muratori, con una sua voluminosa opera volle dimostrar le gravissime magagne che difformano il bel volto delle leggi civili», ma come già allora «per le rime gli fosse stato risposto dall'avvocato veneto Gianantonio Querini» 6.Ora Pilati aveva rincarata la dose. Insopportabili erano ormai «gli acerbi latrati e querele qui introdotte contro gli interpreti delle leggi o statutarie ovvero romane». Inammissibile era «l'ampia condannazione qui fatta della tortura, come se Ragionamenti intorno alla legge naturale cit., p. 112. Ibid., p. 216. ,; Ibid., p. 233. Ibid., P. 134. 5 Ibid., p. 140. cit., vol. I, pp. 168 sgg. 6 Cfr. FRANCO VENTURI, Settecento riformatore 2
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questa nelle giudicature criminali fosse una pratica da lasciarsi solo ai tiranni, alle nazioni barbare ed alli musulmani», mentre era in realtà «una consuetudine ragionevole circa i delitti e le pene», un mezzo per «rivelare non solo i rei, ma eziandio i complici di delitti toccanti spezialmente gli atti piú criminosi chiamati di lesa maestà sacra». Non era forse stata la tortura usata per tanti secoli in mezzo al « consenso delle phi coltedarinz»?Pechédunqlairsote, come faceva Pilati ? '. Obiezioni come queste, la soffocante atmosfera di Trento, dove nel giugno del 1766 l'Ufficio spirituale ripeté la condanna romana della sua Esistenza della legge naturale, persuasero Pilati che le riforme all'interno della giurisprudenza esistente non erano davvero sufficienti e che bisognava cercare altrove la possibilità di dire apertamente quel che gli ribolliva nell'animo. Il distacco dalla patria fu violento, il moto di ribellione che lo strappò alla famiglia e al suo piccolo mondo fu impetuoso, quasi rabbioso. L'occasione sperata gliela forni il legame che i suoi libri gli avevano procurato con Winning e con il mondo dei Grigioni. Nell'estate del 1766 fu a Coira e là fece la conoscenza personale del suo traduttore '. Là fu pubblicata, nel febbraio dell'anno dopo, Di una riforma d'Italia, ossia dei mezzi di riformare i piú cattivi costumi e le piú perniciose leggi d'Italia'. «I malanni onde l'Italia viene da gran tempo travagliata sono cosí gravi di peso e cosí infiniti di numero che un animo patriotico non li può con occhio indifferente riguardare», scriveva nelle prime pagine di questo suo libro, dando inizio alla sua appassionata battaglia. Le «funeste piaghe» inferte all'Italia derivavano «parte dal clero mal diretto e regolato, parte dalla superstizione del popolo, parte dalla ruina dell'agricultura, del commerzio, delle arti, delle manifatture troppo oppresse e trasandate e parte finalmente dalla cattiva amministrazione della giustizia» °. La religione dunque, l'economia, la giustizia: i temi fondamentali del moto riformatore degli anni sessanta convengono in quest'opera di Pilati. Il suo valore sta proprio nell'aver voluto unire polemiche e critiche altrove disperse, vedendo un'unica riforma là dove prima stava una miriade di proteste e di proposte. Sintesi difficile, talvolta sforzata e spesso tenuta assieme phi da profondo sentimento, da sincera ambascia per i mali d'Italia, da slancio morale che da una coerente visione e da un armonico programma di trasformazioni. Il motore della riforma di Pilati è la riforma stessa, l'esigenza di mutare le cose, la certezza di non poter ' «Biblioteca moderna», n. 33, pp. 251 sgg. Ce lo dice Winning stesso nella Vorrede alla sua versione dell'Esistenza della legge natura-
2
le impugnata e sostenuta.
Villafranca (Coira) 1767.
Di una riforma d'Italia cit., Introduzione, pp. 3 sgg.
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continuare come prima, la ripugnanza e la rivolta contro la falsità, la tradizione. Per servirsi di termini che egli aveva adoperato parlando della legge naturale, questo suo libro è mosso da un istinto morale piú che da una logica costruzione politica ed economica. Non propone cambiamenti nei confini o nella struttura degli stati italiani (salvo, e la cosa è tipica, di quello pontificio). Vuole una trasformazione di tutta la vita italiana. La sua riforma assume perciò un carattere religioso, che tutto comprende, tutto pervade, mutando gli uomini e le cose. Nella religione egli cerca una forza atta « a mantenere gli stati buoni ed uniti, a tenere in soggezione ed in quiete i popoli e ad ispirare a' sudditi dell'amore per la patria, della intrepidezza nelle imprese vantaggiose al pubblico o al privato bene e della inclinazione a far cose utili in favor del prossimo suo, ed a osservare una vicendevole concordia fra di loro»'. Spinta religiosa che ben sapeva come al centro d'ogni riforma d'Italia non potevano non stare i problemi della chiesa, dell'economia, della giustizia. La chiesa innanzi tutto. Era il primo ostacolo sulla via d'ogni miglioramento. I preti avevano l'uso di trattar da eretico chiunque, « conoscendo la verità e sapendo nelle cose distinguere il nero via dal bianco, imprenda di parlarne o scriverne pubblicamente». Certo anche a lui, Pilati, sarebbe capitato lo stesso. Avrebbero detto che egli aveva «a rei fonti bevuto e da falsi principi false conseguenze cavate». Era però venuto il momento di superare ogni timore. «Ma dovrassi per questo sempre tacere e sempre stare colle mani alla cintola e sempre tollerare con rassegnazione le calamità che dalla parte del clero ci vengono? » « Io per me non voglio, né volendo potrei rimanermi dal mettere in vista le loro usurpazioni, le loro cattive pratiche, i loro scandali e dal suggerire que' rimedi che io secondo il mio parere giudico phi spedienti per liberarne, se non interamente, almeno in buona parte l'Italia». Ormai non mancavano davvero le persone che sapevano quanto fosse necessario «pel bene e per la salute d'Italia di abbassarvi la potenza degli ecclesiastici, di scemarne il numero, di ristringerne le ricchezze e di regolarne i costumi» 2 Quel che mancava era un appello all'azione ed egli era deciso ormai a lanciarlo, formulandolo, come si vede, con parole che avevano la durezza e la precisione d'un imperativo morale. Appello rivolto «ai principi secolari e agli altri laici» perché aprissero finalmente gli occhi sul pericolo rappresentato dal clero. Da tempo si era studiato e capito in Italia quali fossero le radici storiche delle ricchezze e del potere della chiesa. Il passato, la storia non avevano piú misteri. Per millenni, dall'epoca di Erodoto e Z
Di una riforma d'Italia cit., cap. x: Della religione, pp. x66 sgg. Ibid., Introduzione, pp. 4 sgg.
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di Geremia si sapeva che «la troppa potenza dei preti è stata in ogni tempo, in ogni luogo ed in ogni religione la ruina degli stati» 3 . Bisognava finalmente passare ai fatti e ascoltare il consiglio di Machiavelli quando parlava d'un ritorno ai principi e stimava «necessario di obbligare il clero a ripigliare i suoi costumi di prima e che ei aveva una volta, quando si ricordava del Vangelo e degli insegnamenti degli apostoli» 2 . In questa sua Riforma d'Italia Pilati rifiuta ogni discorso sul dogma e sulla fede. La trasformazione sarebbe venuta, anche per la chiesa, nelle leggi e nei costumi. Riforma politica, illuminata dalla lontana visione d'una chiesa primitiva priva di ricchezze e di ambizioni mondane. Bisognava abolire le leggi canoniche come «contrarie al bene dello stato» e che arrecavano pure «un gravissimo pregiudizio a tutte le persone private» 3 . «Le immunità che godono le persone ed i beni ecclesiastici» derivavano soltanto dalla «dabbenaggine de' sovrani» e dovevano essere radicalmente abrogate °. Era una « società leonina» quella che lasciava ai preti tutti i vantaggi e ai laici tutte «le cure e molestie» della vita civile. Era tempo di sottoporre «alle medesime contribuzioni degli altri» «cotesti abati sí ricchi, cotesti monsignori sí splendidi, cotesti vescovi tosi facoltosi, cotesti frati si potenti» '. Anche tutti gli altri abusi, tutte le altre ingiustizie nei rapporti tra stato e chiesa dovevano essere sanati dai «principi e repubbliche d'Italia». «E questo puossi agevolmente non già ad un tratto, ma col tempo, di mano in mano andare eseguendo purché in ciò pazienza e prudenza si usi». «Innanzitutto rispingere dentro a' confini dello Stato romano l'autorità sia ecclesiastica che temporale del papa» e contrastare insieme ogni pretesa del clero d'imporre la propria legge 6 . La tattica del moto regalista attivo in quegli anni in ogni parte d'Italia è accettata, in pieno, come si vede, da Pilati, che si sforza tuttavia d'infondere in esso un nuovo afflato e un rinnovato coraggio. Non si tema, diceva «la superstizione della gente». Bastava guardare a quel che si andava facendo in paesi dove essa era « ancor maggiore che in Italia», nel Portogallo cioè, e nella Spagna, verso cui si volgevano allora effettivamente, come abbiamo visto, gli sguardi di molti italiani. «Convien solamente usare prudenza; cogliere le occasioni, non precipitare, guadagnarsi i preti e per poterli guadagnare ridurli a pochi, cacciar via ed estirpare i frati..., spargere buoni libri»'. L'azione dello stato contro il potere della chiesa avrebbe dato immancabilmente i suoi frutti. La superstizione sai Di una rif orma d'Italia cit., p. io. x 4. Ibid., cap. I: Del pontefice e delle leggi canoniche, p. 29. ' Ibid., p. 33. Ibid., PP. 34 sgg. 6 Ibid., pp. 3 6 sgg. ' Ibid., pp. 37 sgg.
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rebbe diminuita, «l'amore de' cittadini per la patria, l'affezione e l'ubbidienza per il suo principe cresceranno» nel popolo, grato di non aver pii «da dividere il suo affetto infra due diverse potenze». I colpi inferti alle ricchezze del clero avrebbe migliorata la situazione di tutti. «L'agricoltura, le arti, il commerzio, cose che non possono soggiornare fra gente povera ed oppressa, principieranno a rifiorire». «Finalmente, a misura che saranno mandate in disuso quelle leggi che danno occasione al clero di essere licenzioso, scostumato e scandaloso per le immunità che e' gode, verranno migliori, e pii virtuosi i costumi del volgo, il quale nella nostra Italia per lo piú è sedotto da' cattivi esempi del clero»'. Esplicite sono, come si vede, agli occhi di Pilati, le sperate conseguenze economiche e morali dei conflitti e delle rivendicazioni giurisdizionali. Ma perché questi frutti maturassero era necessario innanzi tutto togliere alla chiesa ogni possibilità di perseguitare e di opprimere, abolendo l'Inquisizione. «Cosa hanno da fare nella nostra Italia que' mascherad persecutori del genere umano che infestano le città e le campagne, che, sotto pretesto di religione, fanno provare i piú funesti ed esecrandi effetti de' loro implacabili odi e delle loro furiose rabbie ad ogni sorta d'innocenti persone, che di tratto in tratto, sotto sembiante di pietà, ci levano via qualche bello spirito, qualche grande ingegno, qualche singolare artista, qualche bravo agricoltore, qualche utile mercatante, qualche lume ed ornamento delle scienze, che in ogni cosa vogliono mantenere le tenebre, la cecità, l'ignoranza ed odiano lo apparire della luce, che ci tengono a tutto potere lontano ogni eccellente maestro in ogni scienza ed arte, che impediscon l'ingresso ad una infinità di buoni coltivatori delle campagne, che serrano l'entrata ad ogni buon libro, che, con lo spargimento e con la conservazione di tante superstiziose opinioni, pongono mille ostacoli alla propagazione degli uomini cotanto necessari in tutte le differenti contrade dell'Italia, che, tuttoché sudditi, come avrebbero ad essere, fanno tremare i loro principi e che in fine sono la peste di ogni buona e lodevole cosa? » 2 . Molte manifestazioni di scontento, di ribellione contro il potere dericale abbiamo visto emergere nell'Italia degli anni sessanta. In molti stati abbiamo visto la soppressione del Sant'Ufficio. Unica tuttavia è la rabbiosa passione che troviamo nelle pagine di Pilati. Non soltanto egli presenta per primo la formula, destinata a tanta fortuna, dell'Inquisizione causa della decadenza intellettuale e morale dell'Italia, ma lancia un appello all'abolizione d'un simile mostro. «Principi e repubbliche, date la caccia a costoro, sterminateli e fate che non ne rimanga piú nell'Italia z
Di una riforma d'Italia cit., cap. i, pp. 41 sgg. Ibid., cap. II: Della tolleranza in punto di religione, pp. 43 sgg.
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nostra vestigio veruno. Non ci sia più Inquisizione ed il nome solo d'inquisitore sia di perpetuo abborrimento negli animi italiani. Noi abbiamo bisogno di gente per coltivare le nostre terre, per ampliare e mettere in fiore le arti, per introdurre e aumentare il commerzio... A noi mancano persone che vogliano metterci sulla buona strada riguardo a quelle scienze che sono le più necessarie per la conservazione e per il vantaggio delle società civili...»'. Ogni passo avanti dell'Italia presupponeva l'eliminazione della «rabbiosa teologia » mantenuta dall'Inquisizione e l'instaurazione della tolleranza religiosa. Anche su quest'ultimo punto Pilati è piú esplicito di tutti gli altri polemisti coevi. « Tutti questi malanni non si possono torre via se non se col tollerare ogni religione e col permettere che ognuno pensi in ciò a posta sua, purché si astenga dal cagionar male e dal seminar dottrine contrarie alle virtù morali ed al bene dello stato». Anche qui il frutto voltairiano maturava sull'albero giurisdizionalista. «La diversità delle religioni egualmente tollerata — concludeva Pilati — produce l'indifferenza negli animi, l'indifferenza produce la pace e la quiete ed il vicendevole amore. E senza di queste cose non possono né fiorire le arti, né aver bene gli stati» 2. La battaglia contro l'Inquisizione non era, evidentemente, che un aspetto della generale polemica contro il clero, sia secolare che regolare. Ad esso Pilati dedica quattro capitoli del suo libro, che in sostanza dicevano in un tono piú appassionato quello che si poteva leggere, in quegli stessi anni, in una miriade di fogli e di opuscoli. Originali tuttavia e interessanti le sue riflessioni, ispirate a Montesquieu, su quale delle forme politiche fosse la piú atta a lottare fino in fondo con i privilegi del clero. Le sue preferenze vanno alle aristocrazie che, essendo in grado di vivere senza i monarchi, avrebbero potuto «per avventura fare senza il clero»'. Il pensiero corre a Venezia ed è evidente che in direzione della Repubblica si volgono sempre più le speranze di Pilati in quegli anni Né l'influenza del modello olandese deve essere sottovalutata. Il suo discorso si rivolge però all'Italia tutta intera, ai principi come alle repubbliche, e gli è giocoforza perciò accettare le regole generali entro le quali si stava svolgendo in Italia il gioco politico regalistico. Riduzione dunque, non abolizione del clero, limitazione al minimo della sua azione giuridica e politica. Con tanto maggior gusto si sfogava contro monaci e frati, oggetto ovunque di critiche e di attacchi. I suoi suggerimenti in materia sono più pratici che teorici e ricordano piú la politica di Pombal che quella di Kaunitz. «Come schiantare costoro? — si chiedeva. — Se i frati di a
Di una riforma d'Italia cit., cap. II, pp. 45 sgg. Ibid., pp. 46 sgg. Ibid., cap. iii: Del clero, p. 52.
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un chiostro vivono una vita molle e corrotta, lasciate loro ogni libertà, ma mettete loro le spie dattorno, che facciano palesi i loro adulteri, le loro fornicazioni, i loro sacrilegi, i loro rubamenti, i loro intrighi e cabale e gli altri misfatti tutti; fategli accusare, fategli trovare sul fatto, fategli mostrare al popolo. Questi griderà vendetta, e voi punite i frati, mandateli via, spianate il monastero e destinate le sue entrate ad usi grati alla gente»'. E se pi ll morigerato era invece un altro monastero, bisognava spingerlo ad applicare alla lettera la regola iniziale del proprio ordine, fino a quando ne uscissero tutti i fannulloni. Intensa propaganda, controllo continuo, magari esercitato attraverso il clero secolare, limitazione sistematica delle risorse economiche avrebbero reso la vita dei monasteri sempre pii difficile, togliendo ogni forza alla superstizione, alle inutili dispute, a tutta la mentalità teologica e f anatica. Era quanto molti stati italiani stavano allora facendo. Pilati a questo programma aggiungeva qualcosa di pii, che lo portava, malgrado tutte le sue precauzioni e proteste, al margine del protestantesimo. «Eccessivo», diceva, era il «culto de' santi». Serviva agli italiani di copertura dei loro peggiori vizi e delitti. «Essi si danno a rubare, ad uccidere ed a danneggiare per altra qualunque maniera il prossimo suo e poi intraprendono qualche pellegrinaggio al santuario del loro santo avvocato, fanno celebrare delle messe in suo onore, come costuman di dire, offeriscono qualche moneta nella cassetta di suo altare, festeggiano il giorno suo, fanno qualche confessione, e comunione per amor suo e ciò fatto eglino non temono pii di altro e si tengono sicuri che il suo santo gli abbia da ogni pericolo non solo in questa, ma anche nella futura vita da liberare » 2 . I santi mettevano in ombra ogni moralità e lo stesso Domineddio, cosí come impedivano ogni legame e attaccamento che andasse al di là del proprio paese o del proprio ceto. «Presso di noi ogni città, ogni borgo, ogni terra ha il suo santo protettore. Ma ciò non basta, ogni professione ed ogni classe di uomini ha il suo santo particolare; inoltre quasi ogni male ha il suo santo a cui si ricorre per la guarigione » 3 . Versione italiana dei pensieri di Pablo de Olavide sul particolarismo spagnolo, se pur Pilati avesse potuto conoscerli. Il nuovo patriottismo spagnolo e italiano nasceva dalla volontà di rompere i compartimenti stagni ereditati dal passato, economici, sociali e religiosi. Il culto dei santi non era soltanto una superstizione, era un ostacolo all'affermarsi d'una pii larga coscienza politica. «Non soltanto è contrario alla religione, ma ancora alla società umana ed al bene dello stato». Certo bisognava procedere 2 3
Di una riforma d'Italia cit., cap. iv: Dei monisteri, pp. 61 sgg. Ibid., cap. VI: Dell'eccessivo culto de' santi, pp. 87 sgg. Ibid., p. 97.
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con cautela, ma era pur necessario agire: «non già con leggi che direttamente vadano a ferire il culto medesimo, ma per indiretto devesi a questa dannosa idolatria tagliare le gambe»'. Ridurre le feste, nocive alla economia, frapporre «mille ostacoli a' pellegrinaggi che sono proprio una sconcia e vituperevole cosa e che impegnano la gente a spendere ed a starsi per qualche tempo oziosi» 2. Una curiosa e inattesa citazione viene a corroborare queste polemiche di Pilati, ed egli la trae da Andrea Fricio Modrevio, De republica emendanda, lib. 4, cap. z3'. Il grande umanista polacco, che forse egli aveva appreso ad apprezzare durante il suo soggiorno nelle università della Germania, è come il simbolo del ritorno alle radici cinquecentesche del dibattito tra riforma e controriforma che ritroviamo anche nella polemica religiosa di Pilati, come in tanti altri aspetti del dibattito degli anni sessanta. Non ultimo quello economico. Anche Pilati è persuaso della superiorità pratica, della maggiore ricchezza dei paesi dove le superstizioni sono state da tempo spazzate via, delle terre dove era passata la riforma religiosa. «I paesi de' protestanti, dove gli oziosi e dissoluti uomini non hanno il modo di poter secondare il genio suo coll'entrare nell'ordine ecclesiastico, sono pieni di uomini industriosi ed utili allo stato, i costumi della gente sono regolati e lodevoli, l'oro e l'argento vi è in grande copia e l'abbondanza regna in mezzo a' paesi sterili e poveri di lor natura ». Bastava aprire gli occhi viaggiando in Germania per accorgersene. « In quelcitàdaMgnovepr'citadèlvnestdi Lutero e parte nella fede della chiesa romana, i primi de' quali, per la mancanza di benefici ecclesiastici, sono necessitati di darsi all'industria e però ricchi e buoni cittadini riescono, laddove i nostri nella gran copia di spirituali prebende vivono nella povertà e nella dissolutezza» 4 . «L'Olanda, l'industriosa Olanda e la travagliatrice Inghilterra» forniscono gli esempi pii evidenti d'una simile incontroversibile verità'. Di una riforma d'Italia cit., cap. vI pp. ro9 sgg. Ibid., pp. III sgg. 3 Ibid., p. 113. ' Ibid., cap. xIII: Umilissima supplica del popolo romano al sommo pontefice per lo ristabilimento dell'agricoltura, delle arti e del commerzio, pp. 244 sgg. s Ibid., p. 254. La fonte di questi pensieri è probabilmente da ritrovarsi nei celebri viaggi che Gilbert Burnet pubblicò nel 1686. Li citava, tra i molti, anche Johann Adolf Hoffmann, che di Pilati fu uno dei maestri, nelle sue Politische Anmerkungen cit., insistendo sulla di ff erenza economica e civile dei cattolici e dei protestanti. La phi ampia discussione settecentesca sugli e ff etti economici e politici del protestantesimo si trova in VICTOR RIQUETI DE MIRABEAU, L'ami des hommes ou traité de la population, Chrétien Hérold, Hambourg 1759, vol. I, cap. II, pp. 43 sgg. dove si legge tra l'altro: «La prétendue réforme fit universellement des révolutions dans tous les états et il est certain qu'il est des secousses qui avivent les esprits politiques et régénèrent les ressorts du gouvernement et de l'industrie». La «Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. XVIII, parte II (1773), pp. 6ro sgg. recensisce un opuscolo sul problema: Warum ist der Wohlstand der protestantischen Länder sogar viel grösser als der catholischen?, Salzburg und Freysingen 1772, che non mi è stato possibile trovare. Pilati tornerà spesso su questo parallelo tra paesi cattolici e protestanti. Nel suo Traité du mariage et '
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La riforma della chiesa doveva dunque avere come suo scopo essenziale la trasformazione di tutto il corpo sociale, del costume, del modo di vita degli italiani. Uno specchio egli intende adoperare per mostrare ai suoi compatrioti che cosa essi sono in realtà, usciti dalle mani dei preti, attorniati per tutta la loro esistenza dall'atmosfera chiesastica. «Considerate un poco — scrive al cuore stesso di questo suo libro — un cristiano perfettamente formato sul gusto del vostro clero... Io ve lo voglio rappresentare, acciocché da uno li possiate conoscere tutti». Ecco il ritratto: «Figlio di un ricco padre gran veneratore de' frati» viaggiò in gioventú, con l'unico risultato che « s'impestò del solito male». Trovò moglie soltanto perché «due preti e quattro frati» costrinsero questa a non rifiutarlo. Gran lettore di vite di santi, fini col diventare ministro d'uno di quei «principi ecclesiastici» in cui non è difficile riconoscere il vescovo di Trento, «che non pensano ad altro che ad arricchire la casa sua, ad abbellire la sua chiesa catedrale ed a darsi buon tempo senza curarsi né di sollevare i sudditi dalle miserie e dalle oppressioni de' ministri, né di far amministrare loro veruna giustizia, né di procacciare loro alcun bene». Cinque messe al giorno, nessun aiuto ai poveri che si trovano nelle condizioni peggiori e molte elemosine ai conventi, obbligo per una figlia di chiudersi fra le suore, sordida avarizia di fronte ai suoi contadini, indulgenza per gli omicidi, adulteri, ladri in grado di pagare la loro libertà, e severità invece per chi pensava con la propria testa o cercava di seguire i dettami della giustizia. «Sono due anni che per denari avuti da mercatanti forestieri egli vendette loro tutto il grano che vi si trovava. Un anno dappoi sopraggiunse una incredibile carestia per cui una infinità di gente moriva di fame». Ma nulla egli fece, « e la gente continua a perire di fame». Di fronte ai lamenti, alle accuse, « egli si consola coi suoi preti e frati e dice che anche i santi, di cui esso si vanta di volere imitare i costumi, hanno avuto i suoi gran guai e le sue molestie e però egli si dichiara di sopportare tutti questi schiamazzi del popolo per amore di Dio e di offerirli a lui. Intanto tre di quelli che fecero il maggior sussurro, benché carichi di figli, furono senza compassione alcuna impiccati per la gola»'. Se tali erano i dirigenti, i ministri, come stupirsi che gli italiani de sa législation cit., p. 3, scriverà: « Considérez les Chinois d'aujourd'hui, les Suisses, les peuples
protestans d'Allemagne, les Hollandois, les Anglois, les habitans de l'Asie et de l'Amérique qui sont sous la domination des protestans; considérez, dis-je, tous ces peuples; les seuls en qui l'on voit quelque reste de vertu, d'industrie, d'amour pour le travail; vous trouverez que chez eux ni les moeurs, ni les loix, ni la manière de penser ne favorisent le célibat. Au contraire, jettez les yeux sur l'Italie, le Portugal, la Pologne, sur les pais de l'Allemagne catholique, sur ceux de l'Asie et de l'Amérique possedés par les Espagnols et les Portugais, vous verrez dans leurs loix le célibat préféré au mariage et dans leurs moeurs vous ne remarquerez que de la paresse, de la poltronnerie, de la volupté, de la superstition ». Di una riforma d'Italia cit., cap. x: Della religione, pp. 1 72 sgg.
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di tutti i ceti, corrotti dalla predicazione della chiesa, fossero diventati «poltroni, timidi, solitari, miseri, avari, tristi, malinconici, stupidi, inabili ad ogni cosa e ad ogni azione »? '. «Come discepoli de' preti e frati noi appena conosciamo la volontà di Dio ed all'incontro ogni giorno ci sentiamo rimbombare le orecchie dei precetti della chiesa. Noi tremiamo al pensare che abbiamo mangiato del butiro e del latte in giorno di vigilia e raccontiamo con piacere quante donne ci sia venuto fatto di sedurre e quanti nostri concittadini abbiamo uccisi». «Orsd — concludeva —, principi e repubbliche d'Italia, togliete di mezzo questi scandali e queste superstizioni prima per lo vantaggio de' vostri stati e per la vicendevole sicurezza de' vostri sudditi e poi per il decoro e l'onore d'Italia» 2 . Malgrado questo reiterato appello agli stati, Pilati sapeva benissimo che, in una riforma come quella da lui proposta, era necessario procedere poggiando sulla libertà, facendo appello non solo all'imperio, ma alle coscienze. Seguendo i suggerimenti di Machiavelli e di Montesquieu, diceva, le leggi andavano corrette da altre leggi, i costumi da altri costumi, le idee da altre idee. «Lo adoperar le leggi laddove si tratta di riformare i costumi e le maniere, si è del tutto un modo tirannico, da cui altro non si può sperare che di sbigottire e disgustare il popolo senza poterlo condurre a ciò che si vuole » 3 . La formazione dell'opinione pubblica era essenziale. Un misto di nuove scuole, di censura, di teatro e di propaganda avrebbero finito col creare «certe maniere di pensare che siano affatto opposte a quelle che si sono usate finora» 4 . Le scuole, i seminari che egli proponeva erano ispirati agli esempi germanici e, anche per questo, precorrevano i provvedimenti che presto verranno presi dalla Lombardia austriaca. L'università per cui egli traccia i suoi programmi fa pensare a Pavia e il suo modello di censura non è lontano da quello che Kaunitz avrebbe presto instaurato a Milano. Il miglioramento della situazione economica avrebbe facilitato l'accettazione delle nuove leggi, aggiungeva, rendendo vano ogni tentativo di opposizione tradizionalista. « Laonde, per questo modo, operando tutti i principi per l'istessa maniera, tutta l'Italia avrà insensibilmente cangiato e costumi e maniere» 5 . Che era, come si vede, un teorizzare quel che stava accadendo attorno a lui mentre egli scriveva queste righe. «E non so — concludeva —, se da questa riforma si potesse schermire neppure lo Stato del papa, perché i romani veggendo una volta come i loro vicini si fossero cavati dalle mise-
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Di una riforma d'Italia cit., cap. x, pp. 171 sgg. Ibid., pp. 188 sgg. Ibid., cap. xi': Di certi mezzi generali per intraprendere una riforma, p. 204. Ibid., p. 205. Ibid., p. 210.
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rie nelle quali sarebbero stati per lo addietro e come fossero divenuti più felici e più comodi mediante la nuova riforma abbracciata da loro, i romani, dico, a ciò riflettendo, potrebbero prendere la risoluzione di obbligare il pontefice a seguitare anch'esso lo stesso esempio o, non volendosi egli a questo partito ridurre, ardirebbero essi forse d'intraprendere una nuova e totale riforma da se medesimi a dispetto della Santa Sede e di tutte le arti sue»'. Perciò il libro si chiudeva con un programma di riorganizzazione dello Stato pontificio, espresso in forma di supplica rivolta dal popolo romano a Clemente XIII. Alla luce dei grandi ricordi dell'antichità tanto più meschina e tragica appariva la situazione presente dei «fedeli sudditi» del papa. «Vedrete le campagne — dicevano rivolgendosi al pontefice — deserte e sterili per la mancanza de' coltivatori, ritroverete i lavoratori della terra ridotti alla più trista miseria per le oppressioni de' vostri ministri e de' signori potenti, osserverete le arti e manifatture neglette per mancanza di protezione e di regolamento, troverete la gente impoltronita per disperazione e stupirete vedendo tutto íl popol romano ridotto a poche migliaia di misere ed oziose persone» 2. Anche Pilati, come tanti suoi contemporanei, guardando allo Stato pontificio osservava soprattutto gli abitanti di Roma. Tanto più facile gli era addossare tutte le colpe della decadenza alla chiesa, più ancora che all'amministrazione pontificia. Anche la cattedra di San Pietro era ormai in rovina. «I tesori delle nazioni forestiere» non calavano più nelle sue casse, che andavano sempre più inaridendosi'. Il prestigio po litico era pure fortemente scosso. «Questa Sede, dopo la deserzione de' sudditi estranei, per la miseria o povertà di quei del proprio stato di Roma a tanta penuria è ridotta che viene battuta da una gran copia di creditori e da tutti vilipesa» 4. Bisognava cessare finalmente di guardare soltanto al clero, di accrescerne «il numero, le ricchezze, l'autorità», di concentrare le ricchezze in « alcune poche famiglie», di «ornare eccessivamente i templi», di «alzare grandissime e sontuosissime chiese» e di «fondare vasti e superbi chiostri» 5 . Tutti gli sforzi dovevano esser invece diretti all'agricoltura, alle manifatture, al commercio. «Scemare il celibato» sull'esempio dei paesi protestanti, incoraggia-re- la popolazione come avevano fatto gli antichi romani 6 . Rendere, soprattutto, profittevole la coltivazione delle campagne «perché la viltà del prezzo delle sue derrate riduce il lavoratore in estremità», incoDi una riforma d'Italia cit., cap. RII, pp. 210 sgg. 2 Ibid., cap. xIII: Umilissima supplica del popolo romano al sommo pontefice per lo ristabilimento dell'agricoltura, delle arti e del commerzio, pp. 233 sgg. 3 Ibid., p. 236. ' Ibid., p. 239. 5 Ibid., p. 240.
• Ibid.,
p. 245.
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raggiare l'esportazione e rendere sicura la vita dei contadini'. «Umigliate per ogni modo i grandi e liberate il popolo dalle loro oppressioni, dalle loro vendette sf pubbliche che segrete, proteggetelo contro la loro avarizia e crudeltà nell'esigere spietatamente gli eccessivi affitti delle terre, del denaro imprestato, del grano e delle vettovaglie per vari usurari modi alla povera gente affamata somministrate» 2 . Come si vede Pilati è ben al corrente della situazione dello Stato pontificio che proprio allora stava passando attraverso gravi, tragiche carestie'. Tutto il sistema annonario andava mutato. «Distruggete, oppure con altre leggi e per altra maniera ordinate i pubblici granai, che sono la calamità dello stato, la tempesta delle nostre entrate ed il flagello di tutti i sudditi vostri poiché, in luogo di mantenere l'abbondanza del grano, introducono una universale caristia ed invece di sollevare i poveri ed i lavoratori della campagna saccheggiano quelle poche entrate che fanno»'. «Pigliate norma dalla repubblica di Ginevra, la quale, non nascendo nel suo paese tanto grano quanto, attesa la moltitudine del suo popolo, le ne bisogna, altronde se ne procura e ne' pubblici granai messo e da savi e disinteressati uomini custodito, regolato e governato, lo fa poi a' popolani per un assai modico prezzo dispensare» 5 . Mendicità, ospedali erano il centro della sua attenzione. Ed anche qui la riforma doveva essere radicale. « La caritàdelpn.ositgàelfarquchmosingla di paltoneri e di vagabondi di ogni sorta e di ogni paese, ma nel procurare a tutti i suoi cittadini un modo sicuro di sussistere...» «Abbiate sempre presente all'animo questa gr an massima, che un uomo non è povero perché egli non possegga nulla, ma perché egli non travaglia» Soltanto una trasformazione integrale di tutto lo Stato pontificio avrebbe potuto risolvere simili problemi. Bisognava modificarne «la costituzione politica», i tribunali, le imposte, le scuole, l'amministrazione tutta intera '. Programma colbertista in economia (il nome del ministro francese era menzionato dallo stesso Pilati) e, in politica, di attiva lotta contro tutti i privilegi, i nepotismi, le ingiustizie. Non senza qualche minaccia di ribellione se non si poneva fine all'oppressione. «Defendete noi, le nostre famiglie, le nostre cose, le nostre entrate e le nostre borse da ll a violenza e dalla rapacità de' vostri governatori, dalla oppressione, dalla dissolutezza, dall'ambizione e dall'avarizia de' vostri parenti, dall'ingordigia e dalDi una riforma d'Italia cit., cap. xiii, p. 247. Ibid., pp. 248 sgg. xv, 3 FRANCO VENTURI, 1764-1767. Roma negli anni della fame, in «R. stor. ital.», anno txxx fasc. 3 (luglio 1 9 73), pp• 5 14 sgg• o D i una riforma d'Italia cit., cap. xni, p. 261. 2
5 6
Ibid., pp. 262 Ibid., P. 252.
• Ibid., p. 258.
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la soverchieria de' prelati, de' monaci e delle chiese, dalle cabale, dalle frodi, dalle furfanterie, dalle stiracchiature e dalla insolenza de' causidici... Disturbate le primogeniture, sciogliete i maggioraschi, sminuite i feudi, abolite i fidecommessi...» La durata degli stati dipendeva dal «riunire le estremità il piú che sia possibile». «Non ci vuole né gente troppo ricca e potente, né gente troppo povera». La tirannia degli uni e la schiavitú degli altri portava alla rovina della «libertà pubblica», conculcata dai primi e venduta dai secondi, «ignudi» e che altro non possedevano se non «i sudori delle loro mani e le gocciole cadenti da' loro volti». Situazione che non sarebbe durata a lungo. « Alla fine l'insolenza, la superbia, la cupidigia, la poltroneria de' grandi deve partorire l'odio, l'invidia e la disperazione negli animi degli oppressi e da ciò deve poi seguire la rovina comune di loro e dello stato ancora» `. «Questi sono, Beatissimo Padre, i nostri desideri.... Se Voi non darete ascolto a queste nostre preghiere — diceva chiudendo questo appello — è da temere che i nostri posteri, ridotti alla disperazione, si pongano a distruggere quella Cattedra che è l'origine di tutti i loro malanni e che ristabiliscano il Senato romano ed ogni autorità in quello trasferiscano perché, in mancanza vostra, questo solamente può essere la salute ed il ristoro del popolo romano» 2 Da questi bagliori lontani, da questi annunzi di tempesta sul cielo di Roma Pilati tornava, a chiusura del suo libro, alla riforma giuridica, allo strumento legale di quelle trasformazioni religiose e politiche che era venuto finora annunciando. Tornava al punto da cui, studente, e professore di giurisprudenza, era partito per scoprire le piaghe morali, i «piú cattivi costumi» della sua patria. Era tempo, concludeva, di affrontare e combattere «le piú perniciose leggi d'Italia». Poteva ormai fornire 12 prova pratica di quanto aveva affermato sulle leggi romane. « In niun luogo del mondo i tribunali sono cosi mal regolati e la giustizia non viene in niun'altra parte cosi male amministrata ed i legali non sono in niun angolo della terra cosi asini insieme e bricconi come in quei paesi d'Italia dove le leggi di Giustiniano si osservano»'. Era sempre piú persuaso che «per riparare a cosi gran male altro modo non vi ha che di abolire le leggi romane, che sono la fonte e l'origine donde tutte queste ribalderie scaturiscono»'. Sostituirle era compito di politici dotti e illuminati, non di teorici del diritto naturale. Ripeteva, esemplificando, sulla traccia di Montesquieu, che bisognava tener gran conto del clima, dei costumi, d'ogni forma del governo, democratico, aristocratico, monar,
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chico. E, naturalmente, faceva gran conto della religione e dell'economia dei diversi paesi. Tutto ciò era vero tanto per il diritto civile che per quello penale, sul quale ultimo poco gli restava da aggiungere, diceva, «dopo quello che ne fu scritto dal gran Montesquieu e dal giudizioso e prudente autore del Trattato de' delitti e delle pene»'. Il suo interesse fondamentale continuava tuttavia ad essere per il diritto civile, e di questo finiva col proporre un vero e proprio codice, indicando pure come sarebbe stato necessario procedere per portarlo a compimento. Le leggi romane avrebbero fornito un modello, ma negativo, «d'esempio di tutti i disordini che si possono commettere nel comporre le leggi» 2 . « Se così avesse fatto il Coccejo, il Codice Fridericiano non sarebbe riuscito cosi pieno di formalità e cosi carico di inutili specificazioni di casi e questioni particolari com'esso è»'. Per l'Italia, suggeriva s'introducesse una sorta di sindacato post mortem, almeno per le persone che avevano rivestito funzioni importanti é che perciò «con maggiore sicurezza d'impunità possono nuocere o allo stato in generale o a' sudditi in particolare», i giudici e gli avvocati ad esempio. «Costoro sono ordinariamente i piú rubaldi uomini che si abbia la repubblica, eppure essi scampano sempre ogni castigo», grazie alla loro abilità e alla paura che incutono alle loro vittime. «La costante loro malvagità ha accostumato il mondo alla pazienza ed alla rassegnazione» ". Un giudizio compiuto dopo la loro morte, come facevano gli antichi egiziani, avrebbe contribuito a ristabilire il rispetto della legge tra i loro colleghi. Nell'antichità egli cercava altri suggerimenti, atti a spezzare l'omertà e risvegliare la vigilanza e l'iniziativa dei cittadini, a ridare agli italiani ciò di cui mancavano ormai del tutto, il senso della ripugnanza, dell'orrore di fronte all'assassinio, cosi come a ristabilire tra loro la franchezza, l'onestà nel palesare pubblicamente la «loro maniera di guadagnarsi il pane » 5 . Al centro di tutti i problemi italiani gli pareva stesse la prepotenza dei signori. « In Italia l'ambizione de' grandi è cosi fuori di misura, la loro prepotenza cos{ eccessiva che egli è non solo utile, ma necessario di avere continuamente l'occhio sopra di loro, di mortificarli e di punirli sovente». Certo c'erano delle eccezioni, ma molti erano «del tutto cattivi ed insoffribili ». «E questi voglionsi assolutamente quietare e tenere bassi». La storia delle antiche e delle moderne repubbliche suggeriva i mezzi atti all'uopo. « Starebbe bene di creare di proposito un severissimo tribunale contro di loro, simile a quello de' censori presso i romani 2
2
Di una riforma d'Italia cit., cap. xui, pp. 264 sgg. Ibid., pp. 2 77 sgg. Ibid., cap. xiv: Delle leggi civili, p. 280. Ibid., p. 287.
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Di una rilorma d'Italia cit., cap. xIV, p. 321. Ibid., p. 327. Ibid., p. 328. Ibid., p. 337. Ibid., p. 343.
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e degli efori presso i lacedemoni o dei logisti presso gli ateniesi o degli inquisitori di stato presso i veneziani». Certo Montesquieu aveva scritto che simili censori «non erano buoni se non che nelle repubbliche». Ma era pur necessario trovare il modo di farli funzionare anche nelle altre forme di governo. «Delle particolari circostanze rendono in Italia necessario un magistrato severo contro ai nobili e ricchi che si dilettano di opprimere altrui e d'usare prepotenze». Magistrati che, come i governatori, i giudici, i generali, insomma tutti coloro che «possono recar de' gravi danni o a' privati od allo stato» Pilati avrebbe voluto fossero eletti dal popolo. Ispirandosi anche qui a Montesquieu diceva che «il popolo è mirabile nello scerre coloro» che dovranno dirigerlo. «Il popolo sa ottimamente che un generale è stato alla guerra e ch'egli ha fatto queste e quelle operazioni. Sicché esso è capacissimo di eleggere un generale. Egli sa che un giudice è diligente, che la gente parte contenta dal suo tribunale e che niuno sospetta di lui che si lasci corrompere o con promesse o con regali. Sicché il popolo ne sa abbastanza per nominarsi un magistrato di giustizia». Il magistrato invece che era scelto dal principe non aveva generalmente « altro merito che quello che gli ha saputo attribuire la f alsità, la menzogna o la corrotta fantasia del raccomandante»'. Questi i suggerimenti d'una legislazione che sarebbe stata utile, anzi necessaria «in quasi tutta l'Italia». Assieme ai provvedimenti contro i preti e gli avvocati, all'abolizione degli asili sacri e della tortura avrebbe fornito la base da cui «la prudenza e la saviezza d'un legislatore» si sarebbero mosse per creare i codici dei singoli stati e nazioni 2 . L'eco che ovunque in Italia e fuori d'Italia rispose a questi appelli, a queste speranze, a queste proposte di Pilati, può essere considerato un indice particolarmente sensibile, proprio negli anni decisivi, tra il 1767 e il 1769, del punto al quale era giunta ormai nella penisola la fusione tra riforma giurisdizionale, tradizione giansenisteggiante e sempre piú prevalente volontà di trasformazione economica e politica, insomma tra riforma religiosa e riforma illuminista «È uscito un libro sulla riforma d'Italia — scriveva Pietro Verri a suo fratello Alessandro il 24 ottobre 1767 —. Credesi stampato negli svizzeri». Era «scritto in buon italiano e con moltissimo giudizio». «Contentissimo» ne era rimasto il padre Frisi. «Vi si tratta de' preti, de' frati, delle scienze, della tolleranza, della felicità pubblica, di tutti
gli oggetti pii Importanti». Mentre la religione era rispettata, i poteri della chiesa erano ridotti entro i loro «giusti confini» Giunto insieme alle notizie di rinnovate iniziative dei parlamenti francesi contro i regolari, questo libro pareva annunciare e promettere grandi mutamenti anche in Italia. «Portogallo, Spagna, Francia e casa d'Austria scuotono il giogo pontificio». «Impossibile» era ormai anche ai nostri stati fermarsi sulla via delle riforme'. Maturo pareva cosí a Pietro Verri il frutto politico del lungo lavorio giurisdizionalista. Ma gli ostacoli non mancavano. Frisi fece il possibile per diffondere l'opera di Pilati. Cosí la contessa della Somaglia. Ma a Parma l'opera parve troppo carica di minacce, non soltanto per preti e frati, ma per la chiesa tutt'intera, tale insomma da non poter essere accettata senza discussione. Agli occhi di Keralio, uno dei francesi in missione nel ducato, essa sembrava mancare di quella concretezza che il momento esigeva. «C'est une déclamation — rispose a Frisi — et point du tout un ouvrage raisonné et philosophique». Insufficienti gli parevano le indicazioni pratiche. «Quant aux moyens de procéder à cette réforme on ne peut pas estre plus bref qu'il est sur cet article, aussi bien que sur celui de l'administration de la justice. Articles cependant bien intéressants, bien essentiels» 2. A Cremona Giovanni Cadonici, uno degli uomini piú colti della sua città, fu scandalizzato «Ho sentito plagas contro il libro l'Italia riformata, libro empio, di cui saprei volentieri l'autore. Forse l'avrò in prestito perché in tali empietà io non ispendo danaro». Chi l'aveva scritto aveva indubbiamente sbagliato tattica. «Non sono certamente questi libri che possono regolare o muovere i principi... pieni di religione e di moderazione...» Bastava guardare alla Francia per persuadersene. Negli ultimi provvedimenti là adottati «campeggia, a quel che mi dicono, il disinteresse, il vero zelo. Iddio farà vedere che i sovrani sanno pensare e rimediare ciò che Roma o non poteva o non voleva e verrà tempo di veder nelle sedi vescovili de' veri vescovi, da' quali dipende tutto»'. Quanto a Pilati, diceva in un'altra lettera, il suo destino pareva esser quello di Jean-Jacques, isolato e bandito da tutti. « Questo è un secondo tomo di Rousseau e farà la sua fine» 4. Fredda fu pure l'accoglienza di Agostino Lomellini a Genova. «Ho letta la Riforma d'Italia — scriveva a Frisi il 26 febbraio 1768 —. L'autore rende giustizia al prudente e giudizioso autore De' delitti e delle pene, Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. I, parte II, pp. 86 sgg. La corrispondenza letteraria di Auguste de Keralio e Paolo Frisi cit., pp.
2 FRANCO VENTURI,
302 sgg.,
' Di una riforma d'Italia cit., cap. xiv, pp. 344 sgg. 2 Ibid., P. 354•
275
novembre 1767. B. Ambrosiana, T. 127 Sup., f. 73, Cremona, 13 novembre 1767. Ibid., f. 96v, a Isidoro Bianchi, Cremona, 14 gennaio 1768. 2
3 MILANO,
276
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ma è ben lontano dall'imitarlo». Proprio il tentativo di sintesi compiuto da Pilati, proprio il suo scoperto slancio morale, che costituivano la sua maggiore originalità, colpivano negativamente l'ex doge della repubblica. «Le verità sparse in molti libri, che egli ha raccolte nel suo e che è sempre imprudente cosa raccogliere, si trovano in questo, a parer mio, pregiudicate dalle declamazioni, dalle esagerazioni, da quella specie di fanatismo che regna in tutta l'opera». Incerto e contraddittorio gli era parso Pilati sul problema della tolleranza. L'elemento machiavellico che emergeva in queste pagine gli ripugnava. Ma l'errore fondamentale di Pilati stava nella sua tattica, errata e controproducente. « Anche Giannoni aveva scritto storia vera e cose vere, e la poca prudenza non solo fu cagione della di lui rovina, ma per molto tempo ha pregiudicate le verità del suo libro». Era «una chimera pretendere di riformare gli abusi tutti in una volta». Annunciare una generale riforma e svilupparne agli occhi del pubblico le diverse parti non era soltanto una «grande imprudenza», era mettere «nell'impossibilità d'eseguirla » chi ne avesse avuta «l'intenzione» '. Altrettanto diffidenti i napoletani. ,Tanucci si chiedeva anche lui chi era l'autore del libro, supponendo trattarsi addirittura di Giulio Rucellai, che da un trentennio dirigeva la politica giurisdizionale della Toscana. Ma la violenza polemica di Pilati lo scandalizzava. «Niuna grazia, — scriveva a Galiani, — niuna generosità, ristretto, unico, talora ributtante con qualche rutto, insomma discorso da corpo di guardia e da femme savante» 2 . Da Parigi Galiani faceva eco parlando d'un libro di chi « non ha capo né chiaro, né ricco ed il discorso ne è scabro», ma non poteva far a meno di notare come esso stesse riscuotendo un notevole successo a Parigi. «Il libro della riforma in Italia mi fu mostrato dalla duchessa di Choiseul... » 3 . I1 marchese suo marito, nella sua polemica contro il clero francese l'aveva trovato addirittura troppo debole, secondo quanto lo stesso Pilati era venuto a sapere. « Il primo ministro di Francia — scriveva al suo amico Bassetti — ha detto che quel che vien narrato dall'autore è troppo poco e che, per rispetto alla Francia, conviene scrivere assai piú» 4. Nell'autunno del 1768 la conferma decisiva venne dal patriarca dei
2
SALVATORE ROTTA, Documenti BERNARDO TANUCCI, Lettere a
per la storia dell'illuminismo a Genova cit., p. 203. Ferlinando Galiani, a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari
1914, vol. II, p. 131, 17 ottobre 1767. Eppure anche Tanucci, l'anno dopo, poneva già l'opera di Pilati a fianco dei grandi classici della lotta anticuriale: «le opere di Sarpi, quelle di Giannone, la Riforma d'Italia, gli Annali d'Italia del Muratori », come scriveva all'ambasciatore napoletano in Francia, Castromonte, il 12 marzo 1768 (NAPoLI, AS, Archivio Borbone 14). FERDINANDO GALIANI, Opere cit., p. 94o. MARIA RIGATTI, Un illuminista trentino cit., p. 135, nota 2, da Coira, 26 gennaio 1768.
«Di una riforma d'Italia»
277
philosophes. «Ah que la Riforma dell'Italia est un bon livre! — scriveva
il 3 ottobre a Pierre-Michel Hennin. — Qu'on laisse faire les Italiens, ils iront à bride abattue». Con un ritorno su se stesso e sull'opera sua, aggiungeva : «Que vous êtes heureux! Vous verrez le jour de la révolution dont je n'ai vu que l'aurore, et cela sera fort plaisant»'. Qualche giorno dopo scriveva a D'Alembert che «la pluie des livres contre la prêtraille continue toujours à verse. Avez-vous lu la Riforma d'Italia, dans laquelle le terme de canaille est le seul dont on se serve pour caractériser les moines? Per genus proprium et diff erentiam proximam» 2. Forte giungeva a lui, anche se non sempre precisa e netta, l'eco delle riforme che stavano compiendosi in Ita li a e se ne compiaceva: « Soyez sûr — scriveva a Sébastien Dupont, avvocato di Colmar — que d'un bout de l'Europe à l'autre il s'est fait depuis quelque temps dans les esprits une révolution... Ce qui se passe en Italie doit vous faire voir combien les temps sont changés. On débite actuellement dans Rome la cinquième édition de la Riforma d'Italia, livre dans lequel il est démonstré qu'il faut très peu de prêtres, et point de moines et où les moines ne sont jamais traités que de canaille. Il faut une religion au peuple, mon ami, mais il la faut plus pure et plus dépendante de l'autorité civile. C'est à quoi on travaille doucement dans tous les états...»'. Con il marchese Francesco Albergati Capacelli non parlava phi soltanto di teatro e di letteratura. «Vous allez réformer le théâtre italien; c'est le temps, ou jamais. Le livre intitulé la Riforma d'Italia a beaucoup de réputation en Europe, et fait espérer de très grands changements » 4 . Pilati era diventato ai suoi occhi il simbolo di tutto quanto stava accadendo nella penisola. «Il n'y a guère d'ouvrage plus fort et plus hardi; il fait trembler tous les prêtres et inspire le courage aux laïques. L'idole de Sérapis tombe en pièces; et on ne verra que des rats et des araignées dans le creux de sa tête. Il se peut très bien faire que les Italiens nous devancent, car vous savez que les Welches [e cioè i francesi] arrivent toujours les derniers en tout, excepté en falbalas et en pompons » 5 . Scrivendo a D'Argental, il rappresentante diplomatico del ducato di Parma presso la corte di Luigi XV, insisteva ancora compiaciuto su questa concorrenza tra italiani e francesi per «écraser l'infâme». «Les livres français sont tous très circonspects et honnêtes en comparaison. Quand l'auteur parle des moines, il ne les appelle jamais que canailles. Enfin tous les yeux sont éclairés, toutes les langues déliées, toutes les ' Voltaire's Correspondence, edited by Theodore Besterman, Institut et Musée Voltaire, vol. LXX, 2
5
Genève 1962, p. 87.
Correspondence cit., vol. LXX, p. 98, 15 ottobre 1768. Ibid., p. 102, 15 ottobre 1768. Ibid., p. 118, 2r ottobre 1768. Ibid., p. 225, a Charles Bordes, 17 dicembre 1768.
VOLTAIRE,
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plumes taillées en faveur de la raison»'. Voltaire continuò in quegli anni a seguire con passione quel che accadeva al di là delle Alpi. Lanciò i suoi appelli ai romani, appelli ispirati, come abbiam visto, alla Riforma di Pilati. Sperò che Napoli e Parma si muovessero contro lo Stato pontificio, impadronendosi di Castro e di Ronciglione. «Je suis encore plus fâché — diceva, sempre scrivendo a D'Argental — que ce Tanucci soit une poule mouillée. Que peut-il craindre? Est ce qu'il n'entend pas les cris de l'Europe? Est ce qu'il ne sait pas que cent millions de voix s'élèveront en sa faveur? » 2. Se scrisse talvolta che la Riforma era «un ouvrage trop déclamatoire», ne attendeva tuttavia con interesse una versione francese ed era ben lieto che sonasse «le tocsin contre tous les moines». Metteva questo libro accanto alle recenti produzioni del gruppo di d'Holbach, al Christianisme dévoilé, o al Militaire philosophe «Enfin il y a cent mains invisibles qui lancent des flèches contre la superstition» 3. L'e ff etto prodotto in Italia era stato «prodigieux»'. Come si vede, anche in Francia, nel 1769, l'eco fu eccezionale. Nel febbraio il «Mercure de France» annunciò la pubblicazione d'una prima versione dell'opera di Pilati 5 . Della Riforma traduceva «les deux derniers chapitres, la partie de l'ouvrage la plus solide, la plus substantielle et qui en est comme le résumé», diceva il traduttore". Aveva dedicato «quelque moment de loisir» a rendere in francese un'opera scritta «dans une langue dont je fais mes délices»'. Ma, uomo ligio alla religione e al governo, ne aveva «retranché sévèrement tous les endroits», non molti in verità, « qui avoient l'air de déclamation et de satire». Ma malgrado tutte queste precauzioni, non poteva nascondere la sua simpatia per l'autore della Riforma. Fecondo era il principio « de la tolérance absolue en matière de religion». Degna di meditazione l'idea dell'autore « que le pape n'est que le premier des évêques du monde catholique et qu'il n'est par conséquent ni l'évêque universel, ni le législateur général, ni le juge souverain du reste de l'église». Quel che più lo colpiva era «le machiavelisme» sparso ovunque in quest'opera. E cioè, si direbbe, VOLTAIRE, Correspondence cit., vol. LXX, p. 235, 21 dicembre 1768. Ibid. Ibid., p. 249, alla marchesa Du Deffand, 26 dicemb re 1768. 4 Ibid., vol. LXXI, p. 33, a D'Alembert, 13 gennaio 1769. Mi pare probabile sia di quest'epoca e 2 3
cioè del r° gennaio 1769, la lettera pubblicata nel vol. LXXIV, p. 17, a Marc-Antoine Louis Claret de La Tourette, là attribuita al 177o.
L'Italie réformée, ou nouveau plan de gouvernement pour l'Italie développé dans les très humbles remontrances du peuple Romain au Souverain Pontife pour le rétablissement de l'agriculture, des arts et du commerce et dans un traité abrégé des lois civiles, ouvrage traduit de l'italien, chez les frères Albertini, Rimini 1769. La traduzione è attribuita, sulla fede di una nota manoscritta d'un esemplare conservato nella Bibliothèque nationale di Parigi (K. 725o) a un non meglio identificato Le Brun. 6 Ibid., Préface du traducteur, p. xi. 7 Ibid., p. Ix.
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non l'astuzia e la furberia, ma l'energica volontà politica che portava l'autore a presentare i suoi principI « avec une liberté qui souvent dégénère en licence»'. Il contrario, come si vede, di quello che tradizionalmente s'intendeva per machiavellismo. Quando, a Venezia, i redattori dell'«Europa letteraria» ebbero tra mano questa versione non riconobbero, o fecero finta di non riconoscere, la Riforma d'Italia, « libro ben noto per le stravaganti sue proposizioni ed altri difetti». Dissero che l'opuscolo era «una vera indegnità e non può se non nauseare chi lo legge », ma ciò non ostante spiegarono chiaramente che esso «portava in trionfo la tolleranza assoluta in materia di relis gione», intendeva « abolire tutti i conventi e specialmente quelli degli uomini, ridurre gli ecclesiastici a pochissimo numero, proscrivere le vite de' santi e la lettura de' Santi Padri, sopprimere tutti i benefici che non esigevano residenza, ecc. ecc.», cose tutte, come sappiamo, che a Venezia, nel 1769, suonavano meno insolite e scandalose di quanto l' «Europa letteraria» volesse far credere 2 . Intanto ad Amsterdam, presso Marc-Michel Rey, l'editore dei philosophes parigini, era uscita una traduzione integrale della Riforma'. L'iniziativa era partita dal pastore Nicolas-Sébastien Allamand, fratello del più noto François-Louis, amico e corrispondente di Voltaire. Fin dal novembre del 1767 il primo di essi si era messo in contatto con Pilati, uscito dall'Italia, come diceva, «pour se soustraire aux persécutions de la prêtraille». Il filosofo tedesco Friedrich Heinrich Jacobi aveva appoggiato l'iniziativa scrivendo all'editore che avrebbe fatto «fort bien» a fornire una traduzione francese di questo « excellent ouvrage»'. Ma era poi vero, come l'autore sosteneva, che tanto pessimi erano in Ita li a gli ecclesiastici e i giuristi? Ne discuteva Marc-Michel Rey presentando il libro, nell'Avertissement du libraire. «Il y a actuellement dans les monastères d'Italie nombre de gens distingués par leur politesse et par le rang qu'ils occupent dans la république des lettres». Né mancavano buoni studiosi del diritto. «Le goût avec lequel la nation italienne a toujours cultivé les sciences et les beaux arts et ce génie subtil et pénétrant qui en a toujours fait un caractère distinctif ne nous permettroient d'en douter si nous n'en avions pas d'ailleurs des preuves incontestables». Quel L'Italie réformée cit., pp. xv sgg. Cfr. la recensione di questa traduzione nel «Journal encyclopédique », 1° aprile 1769 e sulla «Gazette littéraire universelle de l'Europe », n. 7 (15 maggio 1 76 9), pp. 106 sgg. 2 « L'Europa letteraria», torno V, parte I (1° maggio 2769), p. 203.
Projet d'une réforme à faire en Italie, ou Moyens de corriger les abus les plus dangereux et de réformer les loix les plus pernicieuses établies en Italie. Ouvrage traduit de l'Italien, Marc Michel
Rey, Amsterdam 1769. In realtà le edizioni furono due, una con introduzione e note del traduttore e l'altra senza. J. TH. DE BODY, La traduction française de Di una riforma d'Italia de Pilati di Tassulo, in «Studies on Voltaire and the eighteenth century », vol. XII (1960), pp. 29 sgg.
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che contava tuttavia nelle pagine dell'autore era «le zèle dont il est animé pour le bien de ses compatriotes», la sua volontà di promuovere «la réformation tant de la religion que du gouvernement » del proprio paese. Se quel che diceva non si applicava, ad esempio, alla Francia, dove «les évêques et les curés forment une classe de citoyens qui honore la société », era pur sempre utile, necessario farne sentire una simile voce anche fuori d'Italia. Come si vede, le pagine che apparivano ora in traduzione francese erano cosí scottanti che anche l'editore di Voltaire e di D'Holbach si credeva in dovere d'incorniciarle con mille precauzioni e spiegazioni. Particolarmente interessante era la Préface du traducteur, opera di un piemontese, nativo di Oulx, Jean Manzon o Manzoni, come Pilati stesso lo chiamava, dicendolo «homme d'esprit et très instruit». Dopo parecchie vicende Manzon aveva finito per diventare il proprietario e il direttore di una delle piú importanti gazzette d'Europa, il «Courrier du Bas-Rhin», pubblicato a Clèves, in territorio prussiano j. Portavoce di Federico II, fornitore di notizie e di commenti a tutti i gabinetti e ambasciate d'Europa, Jean Manzon aveva assunto nella sua Prefazione un atteggiamento insieme illuminato e distaccato, libero e scettico. Servirà a qualche cosa, si domandava, un libro come quello di Pilati, «dans lequel il est question de réformer le genre humain et de perfectionner la société civile»? 2. Certo l'umanità era perfettibile, ma da che cosa dipendeva in ultima analisi il suo destino? «Faut-il le dire, à quoi il tient? A quelques centaines d'individus que le hazard a mis à la tête des autres». Fino a quando non fosse cambiato questo stato di cose, fino a quando non si fosse rimediato a questo «vice radical des sociétés politiques», vano era credere e sperare in un autentico progresso. La radice di ogni male politico stava, «je ne crains pas de le dire, sur les trônes, dans la tête et dans le coeur des rois et de leurs ministres». Perciò la ragion di stato e le guerre dominavano ogni vita sociale. Ma, se cosí stavano le cose, perché allora far meglio conoscere agli uomini «leur misère et l'oppression sous laquelle ils gémissent, et leur rappelant l'ideé de leur liberté perdue, en excitant en eux le désir d'un meilleur sort? » A questo era ridotta la funzione degli intellettuali, dei filosofi? A che cosa poteva servire «de proposer des réformes quand la raison d'état sert de prétexte pour tout entreprendre, quand ou peut, d'un clin d'oeil, ôter aux malheureux le CARLANTONIO PILATI, Voyages en diflérens pays de l'Europe cit., vol. I, p. 329. «Ich bin ein geborner Untertan des Königes von Sardinien », diceva lo stesso Manzon il 5 dicembre 1788 in una lettera pubblicata negli «Stats-Anzeingen» di August Ludwig Schlözer, fasc. 49, ( 1 789), p. 39• Cfr.
Niederrheinisches Geistesleben im Spiegel Klevischer Zeitschriften des achtzehnten Jahrhunderts, A. Marcus und E. Webers Verlag, Bonn 1912, pp. 4o sgg. 2 Projet d'une réforme à faire en Italie cit., P. 4. PAUL BENSEL,
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dernier morceau de pain, dépeupler en un instant les campagnes...»? «Philosophes, moralistes, prédicateurs, brulez vos livres, déchirez vos belles maximes et vos sublimes spéculations! Foibles, dénoués de tout pouvoir et de toute autorité, courbés comme nous sous les sceptres de fer qui gouvernent la terre, incapables par conséquent d'aller d'une main hardie placer la vérité sur les trônes et de l'y faire écouter, vous perdez votre temps à la dire. Elle nuit plus qu'elle ne sert et le monde n'en ira pas moins comme il va » 2 . Il libro che aveva tradotto lo confermava nei suoi tristi pensieri. Una versione tedesca di esso era stata bruciata recentemente a Dillingen, la città bavarese nota come centro di polemica antiprotestante ispirata dai gesuiti. Si augurava addirittura che la propria traduzione francese subisse la medesima sorte. Sarebbe stata l'unica possibile conferma che il libro era effettivamente buono e che il mondo era fatto come egli pensava. «On prouvera par là que j'ai raison de dire que les meilleurs livres sont inutiles pour corriger les hommes et réformer les gouvernemens» 3. Nelle note che appose al testo la sua critica si faceva anche piú ravvicinata. A che cosa potevano servire le lotte giurisdizionali e il tentativo di liberare la società dal dominio dei preti? «Croyez-vous que vous en serez plus heureux et plus libres? Pensez-vous que vous aurez obvié à tout quand vous aures corrigé les moindres abus et que la plaie sera-t-elle moins dangereuse parce-que vous avez appliqué des palliatifs? Pour guérir una maladie il faut l'attaquer dans sa source et la source de nos maux est sacrée, comme l'Arche du Seigneur»'. Le riforme nei rapporti tra stato e chiesa nulla avrebbero mutato fino a quando l'una e l'altra di queste due potenze restavano quel che erano. Quanto alla religione cristiana, anch'essa rappresentava un male radicale, che vano era sperare di poter curare rifacendosi alla chiesa primitiva o alla riforma protestante. «Il n'exista jamais de religion au monde qui eut moins que la nôtre le caractère de bonté et de vérité, ainsi il n'est pas étonnant que les Saints Pères n'aient enseigné que des vertus destructrices de toute société» 5 . Il cristianesimo, lasciato a se stesso, «dépeupleroit la terre dans moins de cent ans». Montesquieu aveva velato questa verità, «retenu par la bienséance et peut-être par la crainte» 6 . Era tempo ormai di denunciare apertamente il carattere antisociale della superstizione, come del resto dell'ateismo. Non con le idee si poteva mutare la natura dell'u'.
s
' 6
Projet d'une réforme à faire en Italie cit., p. 6. Ibid., p. 7. Ibid., p. ro. Ibid., pp. II-12. Ibid., p,15. Ibid., pp. 15-16.
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mana società. Cosí come era indispensabile metter tutti in guardia contro il rifiorire di speranze nell'efficacia e bontà del protestantesimo. La differenza tra cattolici e riformati «n'est pas remarquable», diceva Manzon. Bastava osservare la morale degli uni e degli altri. «On se souvient que les protestants affectoient dans leur origine une grande regularité de moeurs. Mais on ne veut pas faire attention qu'ils n'ont plus aujourd'hui les mêmes raisons d'être réglés dans leur conduite, ainsi le sont ils beaucoup moins»'. Le ferree leggi d'una società fondata sull'oppressione e la disuguaglianza dominavano anche loro. In tono deluso, quasi cinico, Manzon muoveva cosí a Pilati quelle obiezioni che Diderot, con una luce di speranza in un mondo radicalmente diverso, aveva opposto a Beccaria e che presto Condorcet formulerà leggendo le idee economiche di Pietro Verri. O si mutava dalle radici la società, oppure ogni riforma era vana, e rischiava di diventare un inganno. Anche con Manzon ci troviamo al bivio che portava i philosophes francesi sempre phi verso la rivoluzione, rendendoli apertamente critici della volontà di riforma che stava invece nell'animo degli italiani e che proprio nel libro di Pilati aveva trovato una espressione particolarmente radicale. Ma era una simile volontà e fiducia compatibile con la violenza delle passioni da cui Pilati era scosso e sospinto? Se lo chiese un recensore inglese. «The author writes in a very bold and spirited manner and like one who feels strongly for the distresses and calamities of his country, but his zeal often carries him beyond the bounds of truth and decency». Certo i mali da lui denunciati erano reali. « The irregular lives of the clergy, the superstition of the people, the languishing state of agriculture, commerce, arts and manufactures and the corrupt administration of justice are the sources, he tells us, of all the calamities, under which Italy labours». Pilati aveva mostrato agli inglesi un'Italia in verità ben diversa da quella che, proprio in quello stesso periodo, nel 1768, Baretti aveva posto di fronte agli occhi dei lettori inglesi. «There is undoubtedly too much truth in what this author advances, and there are many irregularities and abuses which ought to be corrected, both in the civil and ecclesiastical goverment of his country». Ma perché esprimersi con tanta passione? «His complaints would have had more weight, and made a much deeper impression if they had been urged with more temper and moderation». La «illiberal manner » di Pilati non doveva tuttavia nascondere, concludeva, tutto quanto di giusto e d'importante stava nelle sue pagine. «His observations are often very just and striking, and expressed with great force and energy» 1. Z
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Projet d'une réforme à faire en Italie cit., p. 19. «The monthly review», vol. 41 (1769), pp. 559 sgg.
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Qualcosa di simile scrisse la «Allgemeine deutsche Bibliothek» dando «un molto ampio estratto» della Riforma'. «Hanno desiderato — come Pilati stesso riassumeva — che io mi fossi astenuto dall'usare termini amari e forti, non tanto perché volessero mostrare di credere che quelli contro di cui sono diretti non se li meritassero, quanto perché avvisano che un tal procedere non sia acconcio a far ravvedersi e a sgannare i viziosi e delinquenti, ma piuttosto in sulla loro malvagia condotta piú ostinati e perfidiosi li renda ». Rispondeva che era convinto esattamente del contrario. Coloro che egli aveva attaccato non si potevano mutare con «parole o dolci o aspre». «Niun modo rimane per disverre dalla società cosí fatti autori di mali che con lo eccitare contro di loro o lo sdegno del legislatore o la furia ed indegnazione del popolo, o l'uno e l'altro insieme. Ora né l'uno, né l'altro si può ottenere se non si grida bene e non si mena un rumore altissimo». I libri « scritti dolcemente» si leggevano con piacere, ma non producevano nessun effetto. «Ma quando si folgora, si tuona e si tempesta e quando si fa sentire al di fuori l'agitazione grande e veemente che vi è al di dentro, allora ognuno che ha la mente libera de' pregiudizi contrari e il cuor buono si riscuote, si commuove e resta investito della medesima passione dello scrittore... Oltre che, quale umanità e quale amore della patria saria questo, vedere gli orsi, le tigri, i rinoceronti, i coccodrilli stare tutti ansanti addosso alla patria a sviscerarla e sbudellarla e non correre tostamente ad assalire cotesti animalacci con tutto l'impeto e mettergli in pezzi e lacerargli, ma, tutto al contrario, tenerci discosti e con rimirare da lungi lo spettacolo, con animo bensí turbatetto, ma non irato e come se fosse una tragedia non vera, ma di teatro, intenerirsi leggermente e piagnere e querelarci dolcemente? » 2. Al di là tuttavia di questa replica, cosí rivelatrice dell'animo con cui egli aveva scritto la sua Riforma, la recensione dell'«Allgemeine deutsche Bibliothek » non poté non colpirlo. La principale rivista dell'Au f klärung tedesca considerava l'opera sua come una delle migliori prove che i lumi toccavano ormai anche quelle terre dove ancor recentemente non ci si sarebbe aspettato che potessero penetrare'. Accanto a Dei delitti e delle pene e al «Caffè», ecco ora che un italiano dimostrava d'aver intelligentemente letto tutto quello che si era di recente scritto di meglio «Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. VI, parte II (1768), pp. 242 sgg.
i pin cattivi costumi e le piú perniciose leggi d'Italia, edizione seconda, accresciuta di altrettanto, Villafranca (Coira) 177o, Prefazione alla s Di una riforma d'Italia ossia dei mezzi di riformare
seconda edizione, non pag.
Der philosophische Geist, welcher in unserm Jahrhunderte über die Staatskunst ein gut3 « thätiges Licht auszubreiten angefangen hat, zeiget sich auch in den Ländern wirksam wo man noch vor wenig Jahren ummöglich geglaubet hätte, dass er dahin durchdringen könnte» (« Allgemeine deutsche Bibliothek», vol .VI, parte II [2768], P. 143).
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sull'arte politica riunendo poi in un sol volume « tutte le piú importanti verità che potevano contribuire alla felicità e al benessere della sua patria ». Certo molte delle osservazioni che egli faceva erano ben note in Francia, in Inghilterra e nella Germania protestante. Ma erano nuove in Italia, anche per gli spiriti migliori. Attribuiva, in misura che pareva perfino esagerata, tutta la responsabilità dei mali d'Italia, alla chiesa e agli ecclesiastici. Il recensore riassumeva largamente i vari capitoli, sottolineando la polemica di Pilati contro il clero, l'Inquisizione («die grösste Feindin von der Erleuchtung, von der Bevölkerung und von dem Wohlstande seines Vaterlandes » ), i regolari, la morale e la cultura cattolica '. Le idee che l'autore della Riforma enunciava sulla teologia e sulla storia ecclesiastica «auch in den protestantischen Ländern befolget zu werden verdienten». Questo era vero anche quando Pilati, con grande talento di satirico, tratteggiava il ritratto dell'uomo religioso secondo i dettami e le tradizioni della chiesa romana. «Er entlarvet hier die falschen Christen mit der Geschiklichkeit eines vortrefflichen Satyrenschreibers. Sein Timotheus ist ein Mann der ohne Zweifel auch an manchem protestantischen Hofe seines gleichen finden wird » 2 . Particolarmente attratto era il recensore dal programma generale di rieducazione del paese, attraverso scuole, accademie, teatri, ecc. che Pilati aveva esposto nel dodicesimo capitolo dell'opera sua. Era interessato al piano, alla gradualità della Riforma: prima la diffusione della cultura e le leggi per il miglioramento economico, poi la trasformazione dello stato. Sulle modalità aveva qualche dubbio. «Ohne Zweifel aber kennet er sein Vaterland besser als wir und er hat vielleicht gute Gründe gehabt die Missbräuche und die Vorurtheile desselben so gerade zu anzugreifen » 3. Gli piacque l'appello finale al papa, al popolo romano, che ben sintetizzava, diceva, il meglio di quel che Pilati aveva scritto nelle sue pagine precedenti. Si augurava che questa parte del libro venisse largamente di ff usa in Italia, contribuendo a maturarvi pian piano «una rivoluzione» capace di ridare a quel paese l'antico suo splendore'. La situazione in cui si trovava quella terra, i suoi sovrani e i suoi scrittori confermavano che era ormai tempo di scrivere per quelle idee che tanto energicamente Pilati aveva sostenuto. I governanti della penisola parevano ormai favo1 Z
«Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. VI, parte II (1768), Ibid., pp. 246-47. Ibid., p. 15o.
pp.
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revolmente disposti alle riforme. «Turin, Neapolis, Parma, Florenz haben das Glük unter Beherrschern zu leben von welchen sie alles was gross, alles was edel, alles was zu dem erhabensten Wohlstande der Staaten erspriesslich ist erwarten sollen». E come non avrebbero questi principi trovato in Italia ministri degni di loro? «Sollte Italien nicht mehrere Firmians besitzen? » Collaboratori nell'opera delle riforme si sarebbero certo trovati tra i molti italiani che ormai « dedicavano l'intera loro esistenza al servizio dell'umanità e che trovavano il loro piacere nel far il bene e la felicità degli altri»'. Disponibilità che, il recensore lo ammetteva con qualche riluttanza, sembrava esser maggiore nelle monarchie che nelle repubbliche d'Italia. Certo grandi uomini nascevano anche in queste ultime, ma in gran numero pure venivano eliminati. Fatto si era che i re traevano vantaggio dal benessere dei loro popoli. «I patrizi invece o i demagoghi erano spesso tanto phi potenti, ricchi e stimati quanto peggiore era la situazione dei loro concittadini, quanto piú imperfetta era la costituzione dei loro stati». Potevano permettere una maggiore libertà, ma potevano anche indebolire e render vana ogni volontà di riforma quando si tentava di portarla sul piano della pratica 2 . «Tanto maggiore, tanto piú bello ed eccellente un progetto, quanto piú è sicuro che in una repubblica esso verrà rigettato». Era vero che il timore dei principi costituiva un limite ed un ostacolo per le teste pensanti. Ma se le idee nuove trovavano albergo nell'anima di un principe, allora esse passavano nella realtà e «lo stato godeva pienamente dei felici frutti della ingegnosa saggezza»'. Le idee nuove dovevano germogliare nelle repubbliche, per esser poi trapiantate nelle monarchie. Troppo grande era la passionalità politica delle prime perché si potessero avere degli effettivi miglioramenti. Ogni proposta nuova « era frutto d'una passione, opera d'una fazione». Questo impediva di scegliere i mezzi piú acconci e spingeva spesso a passare da un estremo all'altro. Ben maggiore era la ponderazione delle monarchie 4 . Il recensore terminava tuttavia queste sue considerazioni ricordando i pericoli d'oppressione che il potere d'uno solo non poteva non presentare, mentre questo svantaggio era minore nelle repubbliche. Ogni forma di governo aveva, cosí, i suoi vantaggi e svantaggi. Quel che contava in ultima analisi era la saggezza e la volontà morale di coloro che avevano il potere nelle mani.
144 sgg.
° «Wir wünscheten dass dieses Hauptstück und das zwölfte besonders gedruckt und in Italien
bekannter gemachet würden, als es wahrscheinlicher Weise das ganze Werk allda werden wird. Es scheinet dieses von der Natur so vorzüglich begünstigte Land werde auch allmählich zu einer Revolution reif, welche es wiederum mit seinem alten Glanz beglükseligen könnte. Es scheinet aber nun der rechte Zeitpunkt zu seyn solche vortreffliche Saamen auszustreuen» (ibid., p. 1 53).
« Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. VI, parte II (1768),
P.
154.
Z «Sie können die Freyheit zu denken nicht hindern wie der Einzelherr, sie müssen den Gei-
stern ihrer Bürger den freyen Lauf lassen, aber sie haben desto mehr Mittel einen jeden guten Gedanken zu entkräften, so bald er zur Ausführung vorgeschlagen wird ». 3 Ibid., p. 155. 4 Ibid., p. 156.
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« Di
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Come si vede, si tratta d'una meditazione di grande interesse sulla situazione italiana al punto pii alto del suo moto riformatore degli anni sessanta: Milano e Venezia, i semi gettati da Sarpi e che fruttificavano ormai lontano dalla repubblica di San Marco, la creazione in Lombardia, in Toscana degli strumenti indispensabili d'una effettiva trasformazione e l'inadeguatezza invece di quelli messi in opera da un uomo come Andrea Tron. L'incertezza finale stessa di queste considerazioni non era senza significato. Quel che contava ormai, anche in Italia, erano meno le forme politiche trasmesse dal passato che non le correnti di pensiero e d'azione che spingevano verso le riforme illuminate, il sorgere d'una nuova pubblica opinione, il prevalere dell'interesse, come egli stesso notava, per «l'agricoltura, il commercio, le monete, la popolazione, le arti, i talenti della nazione» I. Il libro di Pilati era, di per se stesso, un risultato della mutazione in corso nella penisola. Certo, aggiungeva, l'opera avrebbe finito con l'essere perseguitata in Italia. Eppure essa avrebbe adempiuto anche cosí il proprio compito e avrebbe portato a tempi e pensieri nuovi e diversi. «Indessen wird es doch keinen geringen Eindruck machen — und wenn es auch dermals ganz fruchtlos bleiben sollte, so wird es doch ein guter Saame seyn, der bey einer bessern Nachwelt sich entwickeln und welcher dereinst die herrlichsten Früchte bringen wird» 2. La recensione era firmata con la lettera q. Certo Pilati seppe chi si nascondeva sotto questa sigla, il maggiore degli illuministi della Svizzera tedesca, Isaak Iselin. Questi aveva letto la Riforma tra la fine d'aprile e il principio di maggio del 1767, aveva corrisposto in proposito con Meta von Salis, il protettore di Pilati nei Grigioni, e ne aveva parlato anche con altri suoi amici, tra cui H. G. Hirzel, il ben noto autore del Socrate rustico. Iselin aveva scorto nell'autore de ll a Riforma un secondo, «pii temibile Febronio» sbocciato proprio in quella terra che aveva portato per secoli « oscurità e schiavitù al resto del mondo». Scrivendo per la rivista di Nicolai aveva efficacemente espresso la sua sorpresa, la sua ammirazione ed aveva cominciato ad esporre i numerosi problemi che questa fioritura dello spirito riformatore in Italia poneva anche a lui, come a tutti i cultori dei lumi in Europa Questa ed altre reazioni alla Riforma dovettero persuadere Pilati che il combattimento era sempre pii necessari6 La traduzione tedesca uscita nel 1768 con l'indicazione di Freiburg (e cioè Villafranca) e che '.
I «Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. VI, parte II (1768), p. 16o. Ibid., p. 162. 3 ULRICH IM HOF, Isaak Iselin und die Spätaufklärung, Francke Verlag, 1967, PP. 190 e 340 sgg. 2
Bern und München
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venne pubblicata a Zurigo fu, come abbiamo sentito affermare da Manzon, abbruciata a Dillingen I. In Italia una vera e propria campagna l'attacchi e d'ingiurie si scatenò contro il libro e il suo autore. Padre Mamachi fu uno dei pii violenti, scandalizzato com'era dal fatto che «lo scrittore dell'empio libro intitolato Di una riforma d'Italia, quantunque fieramente maltratti il monachesimo, il clero secolare e sino i sommi pontefici e i santi padri e con solenni imposture s'ingegni di denigrarne la fama, osasse poi nientedimeno di lagnarsi de' teologi ortodossi come di tanti cani i pii arrabiati poiché con vigore a' novatori si oppongono » 2 . Zaccaria nel suo Anti-Febronio chiamava Pilati «l'insensato ugualmente che furioso ed empio autore della Riforma d'Italia»'. Pii grave era il fatto che anche coloro che si reputavano partecipi del moto riformatore si credessero in dovere di distinguersi e distanziarsi da Pilati. Cosí faceva Contin 4. E, cosa anche pii preoccupante perché rivelava uno iato tra riforma religiosa e riforma civile, Antonio Zanon con lui polemizzò nel suo discorso sull'Utilità morale, economica e politica delle accademie d'agricultura, pubblicato a Udine nel 1771 .; Nella seconda parte della sua Riforma Pilati aveva criticato chi si «reputa l'uomo il pii illuminato del mondo e il dio dello stato se arriva a fondare un'accademia d'agricoltura nella quale una dozzina di farneticanti che non hanno un palmo di terra insegnino ai possessori di poderi con lunghissime cicalate e con alcune centinaia di regole le pii spropositate un'arte i cui pii importanti e quasi soli precetti sono grascia e diligenza » 5 . Zanon si era risentito contro questo disprezzo per gli studi agronomici e questo elogio della pratica e della tradizione e, come diceva 1'«Europa letteraria», ne aveva «confutate le ardite e maligne espressioni » Ma, ben inteso, fu la polemica religiosa a predominare ovunque, ed essa rimbombò per anni e decenni. Quando, nel 1787, mori il padre Francesco Antonio Fantuzzi, predicatore cappuccino, tra le sue carte si .
' Non sono riuscito a verificare questo fatto di cui non c'è menzione in FR. ZOEPFL, A. M. SEITZ e A. LAYER, Geschichte der Stadt Dillingen, Manz, Dillingen-Donau 195o, né nelle pubblicazioni che ho potuto vedere sui gesuiti di quella città. 2 TOMMASO MARIA MAMACHI, Del diritto libero delle chiese cit., libro III, tomo III, parte I, p. XVI.
FRANCESCANTONIO ZACCARIA, Anti-Febronio o sia apologia storico-polemica del primato del papa cit., vol. IV, p. 314. • Riflessioni sopra la bolla in Coena Domini cit., p. 338, dove lo chiama «il fanatico scrittore della Riforma d'Italia», e lo accomuna nella sua deprecazione all'«inconsiderato autore del Piano ecclesiastico», colpevoli ambedue ai suoi occhi di non aver ben distinto « lo scandalo che deriva nel
popolo coll'attaccare gli oggetti anche men essenziali del culto dalla necessità di esporre a chiara luce la divina ed incomunicabile origine della civil legge che lo raffrena ». Pilati quando seppe che Contin avrebbe attaccato anche l'altra sua opera, le Riflessioni di un italiano si limiterà a commentare, scrivendo da Coira allo zio Andrea Cristiani: «Egli è un frate» (TRENTO, B. Comunale, Mss 457, f. 25, s. d.). • Di una rif orma d'Italia cit., vol. II, pp. 428 sgg. • «L'Europa letteraria», tomo I, parte I (ottobre 1771), p. 37. 11
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trovarono delle Lettere riflessive contro il libro intitolato: Riforma d'Italia. Alla Santità di Clemente XIV'. E ancora nel 1793 vedeva la luce un libro intero intitolato Brevi riflessioni d'Eufrasio Lisimaco su un libro sulla Riforma d'Italia, opera del barnabita Michelangelo Griffini $ vero che se gli ecclesiastici ritenevano ancor viva l'opera di Pilati, altrettanto facevano i riformatori. Una ristampa vedrà infatti la luce con l'indicazione di Parigi (ma è libro italiano), anno IV e cioè al momento della campagna napoleonica in Italia. La Riforma era ormai diventata un classico dell'illuminismo nostrano. Quando essa aveva visto la luce per la prima volta, all'inizio del 1767, la situazione dell'autore si era rapidamente fatta insostenibile a Trento. Non soltanto rispetto alle autorità politiche e religiose, ma alla stessa sua famiglia. Le « sue donne », la moglie e una sorella, si allontanarono da lui, trascinate dalla impetuosa corrente di coloro che lo consideravano ormai un reprobo. Esse prestavano ormai fede, come egli stesso diceva, « agli urli di quelle goffe bestie di nonesi» (di abitanti cioè della Valle di Non), i quali si erano persuasi d'aver a che fare « con uno sciagurato impazzito». Se le «sue donne», aggiungeva, volevano ancora «vivere meco concordemente, bisogna che meco si accordino ad avere a schifo le strida di quegli stupidi animali». A Coira viveva solitario, mangiando all'osteria, ed egli si sentiva finalmente libero. « Io non sono né frate che abbia fatto voto di stare inchiodato in un luogo, né poltrone che paventi il moto». Il mondo si apriva di fronte a lui. E comunque, anche a Coira, l'aria era «molto migliore della nonesa» 3 . Era disposto a tutto. Di fronte a una risposta «piena d'impertinenza e d'ironia » dei suoi famigliari, rispondeva: «abbandonerò per sempre fin la memoria di casa mia» `. Le notizie che gli giungevano delle persecuzioni alle quali la sua opera era sottoposta a Trento lo inorgoglivano. «Non dubito che qualunque sentenza siano per fare i trentini, essa non m'abbia a portare onore e vantaggio e da darne materia di un vero e lungo divertimento » 5. Si sentiva uomo libero, capace di scegliere la propria strada al di fuori d'ogni legame col passato. Nell'estate del 1767 egli era all'Aia e nell'agosto aveva mandato in patria le dimissioni da professore 6. Attraverso il conte Da Cunha, il rappresentante portoghese presso le Province Unite, riceveva l'offerta d'una carica importante a Lisbona. Di fronte a lui sembrava aprirsi la strada che già era stata quella dell'editore romaI «Novelle letterarie», n. 21 (25 maggio 1787), col. 336. Sassi, Bologna 1 793. 3 TRENTO, B. Comunale, Mss 457, lettera ad Andrea Cristiani, f. 35, Coira, 9 dicembre 1767. " Ibid., f. 34, Coira, 25 marzo 1768. Ibid., f. 32, Coira, z8 dicembre 1768. 6 MARIA RICATTI, Un illuminista trentino cit., p. 97. 2
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no Nicola Pagliarini. Preferí tuttavia, con evidente soddisfazione, l'invito che gli venne fatto dal suo amico Winning e dalla pi ll potente famiglia di Coira, i De Salis, di trasferirsi nei Grigioni per dirigere una stamperia, la Società tipografica, con uno stipendio di cento luigi d'oro'. Non che Pilati fosse grande ammiratore della poco efficente democrazia delle Leghe Grige. Tutt'altro 2 Ma le possibilità d'azione che gli si offrivano erano eccezionalmente larghe. Avrebbe trovato grande libertà e un appoggio economico che era impossibile trovare altrove. Il 17 settembre 1767 giunse a Coira e vi rimase due anni, tra i più fecondi della sua esistenza. La Società tipografica, là creata per volontà di Ulysses von SalisMarschlins, di Battista de Salis-Soglio e di altre personalità grigionesi, con la collaborazione dei libraio Giacomo Otto, giunto appositamente da Lindau, divenne il centro dell'intensa attività di Pilati'. Per quel centro editoriale scrisse molto, cercò e rivide manoscritti, con piena dedizione. «Noi non ci curiamo di bagatelle — scriveva allo zio Andrea Cristiani il 28 giugno 1768 —, come non ci curiamo neppure di fare il menomo guadagno, atteso che la nostra Società si è solamente unita per poter far stampare quello che vuole » 4. Per l'inizio del 1768 Pilati annunciò la pubblicazione d'una rivista, il « Giornale letterario», pubblicato poi tra l'aprile e il settembre di quell'anno Non osò fare il salto che avevan compiuto gli uomini del «Caffè», rinunciando alla vecchia formula d'una serie di recensioni per offrire ai lettori una miscellanea periodica di saggi, considerazioni, note e pezzi di colore. Fu forse indotto a mantenere il modello tradizionale anche dall'«Estratto de ll a letteratura europea», la rivista di De Felice che proprio in quegli anni era passata da Yverdon a Milano, sotto l'influenza di Pietro Verri e che aveva molto successo 5 . II «Giornale letterario » fu dunque composto di recensioni, ognuna delle quali tendeva tuttavia a trasformarsi per vivacità di stile e per valore polemico in un piccolo saggio. Ne uscirono soltanto sei tometti. Ebbe vita breve, ma fu, tra gli epi.
I META VON SALIS-MARSCHLINS, Ein genialer Abenteurer, in «Jahresberichte der historisch-antiquarischen Gesellschaft von Graubünden», fasc. 68 (1938), p. 129, a Ulysses von Salis dall'Aia, 14 agosto 1767. Sulla vita intellettuale nei Grigioni, cfr. WILLY DOLF, Die oekonomisch - patriotische Bewegung in Blinden, R. Sauerländer, Aarau 1943 e J. A. VON SPRECHER, Kulturgeschichte der Drei Bünden im 18. Jahrhundert, Bischofberger, Chur 1951. Sui problemi politici dei Grigioni, cfr. BE-
NJAMIN R. BARBER,
The death of communal liberty. A history of freedom in a Swiss mountain Can
Princeton University Press, Princeton (N.J.) 5974. -ton, 2 Voyages en différens pays de l'Europe cit., vol. I, pp. 154 sgg., dove si parla anche delle famiglie principali di quelle terre, tra cui primeggiavano i de Salis (pp. 158 sgg.). 3 REMO BORNATICO, Carlo Antonio Pilati cit., p. 7. TRENTO, B. Comunale, Mss 547, f. 3o. In de Felice, Pilati senti un precursore e un compagno di lotta. Lo disse di « gran dottrina, di grande ingegno e d'un singolare discernimento fornito... Quante volte l'abbiamo noi nel nostro cuore ammirato e benedetto, quando l'abbiamo veduto con tanto coraggio e tanta nobiltà d'animo sollevarsi contro i parolai, i sonettanti, i compositori di filosofiche inezie..., contro gli avvocati e promotori delle favole e delle superstizioni...» («Cornier letterario», tomo II, p. 64).
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goni del « Caffè», il periodico migliore. Fu l'organo cosmopolitico della battaglia giurisdizionale e illuminata del 1768, l'anno di Parma e dei conflitti tra stato e chiesa un po' ovunque in Italia. Ma non fu un bollettino di queste vicende. Dal di fuori, dalla Germania, dalla Francia, dal mondo tutt'intero venne a portare un incoraggiamento, un aiuto, un consiglio costante e pugnace'. Fin dal primo tometto, parlando dell'opera di Veremund von Lochstein, che anche Contin andava lodando in quel mentre, Pilati si mostrava compiaciuto del fatto che fosse finalmente apparsa un'opera polemica sulle immunità ecclesiastiche anche in Baviera, che non era «per altro un paese dove la gente ardisca di mostrare il ceffo al clero, che colà, piú che in ogni altro luogo della Germania è potente e copioso e ricco e venerato » 2. Continuava pure la polemica contro gli apologeti ortodossi italiani. Il padre Sangallo, sforzandosi di confutare Febronio, diceva, «si era imbarcato senza biscotto » ;. Era scandaloso che parlando del diritto di natura si continuasse a citare il padre Desing «le cui opere tutte sono le phi sconcie e vituperevoli che siano venute al mondo» 4. Altrettanto virulenta la battaglia contro gli uomini di legge «Ella è una cosa che spaventa la mente umana il considerare l'immensa quantità di legali onde viene impestata e saccheggiata quella parte del mondo che colta e umana si chiama, val a dire l'Europa intera». In Inghilterra c'erano 5o 000 « di quelle biscie che avvocati s'appellano». Dopo l'Inghilterra, «non vi è dubbio che la contrada piú piena di questo flagello si è la nostra Italia». Bisognava «pian piano, a forza di gridare, di scrivere , spingerli a buttar lontana da sé «la brutta barbarie onde vanno gonfi e tronfi» s. Un sempre phi largo e approfondito sguardo al mondo avrebbe fornito un incoraggiamento e offerto gli strumenti per questa sempre rinnovata battaglia contro ogni falsità e inganno. La rivista di Pilati parlò infatti dei Mélanges di D'Alembert come di Winckelmann, degli Annali 1 In una lettera del zo marzo 1768 Pilati parlò di una collaborazione internazionale: « quelli articoli che non sono distesi e che non contengono perfetti estratti non sono miei, ma del signor d'Alembert di Parigi, cioè di quel celebre filosofo, del sign. prof. Allamand di Leyden o del sig. prof. Lambert di Berlino, e di un medico inglese: tra i corti articoli però sono ancora miei quei d'Italia o quei che spettano alle quistioni teologiche o canoniche, poiché i mentovati miei consoci non vogliono avere fastidio di codeste bagatelle» (TRENTO, B. Comunale, Mss 497, f. 28, ad Andrea Cristiani, s. d.). È difficile dire fin dove questa collaborazione internazionale rimanesse un progetto o si realizzasse effettivamente. Già nella lettera ora citata Pilati continuava dicendo: «Il terzo torno conterrà quasi interamente de' miei estratti ». Certo le idee e lo stile di Pilati caratterizzano la gran maggioranza degli articoli, come si potrà vedere anche dalle citazioni che seguono. 2 «Giornale letterario», tomo I, P. 43. Cfr. TOMMASO ANTONIO CONTIN, Riflessioni sopra la bolla in Coena Domini cit., p. 196. V. von Lochstein era lo pseudonimo di P. von Ostetwold. 3 Ivi, p. 117. ' Ivi, p. 127. Ivi, tomo II, pp. 90 sgg.
«Di una riforma d'Italia»
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russi, allora resi pubblici da Schlözer, e di Wieland, del metodo storico di Gatterer e della filosofia della storia di Iselin, delle polemiche sul Portogallo e della storia di New York. Ma poi sempre tornò all'Italia e ai suoi problemi, ad esempio all'opera di Patrizi sulle doti delle monache e soprattutto al lungo e dettagliato parere che di quest'opera aveva dato «il celebratissimo abate Genovesi» il quale «ne aveva cavato il sugo parlando delle tre possibili riforme, di chi ne aveva bisogno, dello stato e del popolo»'. Presa tra queste alternative, a che punto pareva essere la riforma d'Italia a metà del 1768? In chi bisognava maggiormente sperare? Il mezzogiorno attirava sempre piú l'attenzione di Pilati. «Il governo napoletano è occupato a fare il processo alla superstizione, l'immortale sig marchese Tanucci s'ingegna di preparare alla ragione uno stabile e sicuro soggiorno al regno di Napoli, una parte de' valentuomini napoletani è tutta intenta a rintracciare e distruggere le opere della barbarie e dell'impostura» 2. Uomini come Massimiliano Murena gli parevano meritare plauso e incoraggiamento. Recensendone le Dissertazioni su i doveri del giudice e sulle pubbliche e private violenze, uscite a Napoli nel 1768, concludeva: «Noi siamo obbligati a que' grandi spiriti napoletani perché di tratto in tratto ci regalano qualche opera eccellente, o di storia o di filosofia, o di giurisprudenza che serve ad illuminare diversi compatrioti i quali vivono in certe piagge ottenebrate dalla barbarie e dal pregiudizio». Vero tuttavia che se «valenti e veramente dotti» erano gli studiosi laici del Mezzogiorno, «i frati del medesimo regno erano all'incontra i piú infuriati nemici in tutta quanta l'Italia di quelle dottrine che sotto il nome di novità si procura di rendere odiose alle brigate goffe»'. Anche Pilati talvolta era preso da un moto d'ottimismo guardando all'Italia dei riformatori e degli scienziati. Non poteva esimersi dal tradurre integralmente il passo che il medico e scrittore tedesco J. G. Zimmermann aveva inserito nella quarta edizione, apparsa a Zurigo, nel 1765, dell'opera sua Vom dem Nationalstolze. I rimproveri che continuamente si facevano agli italiani d'essere incapaci di seguire ormai i grandi modelli del passato, di non esser phi fecondi nelle scienze e nelle arti, erano, a ben guardare, non soltanto «incivili», ma « caricati». «La filosofia, la matematica, la fisica, la storia naturale, la medicina e le belle lettere fioriscono in Italia cosí bene come in Francia e in Inghilterra». Il gusto per gli studi massicci si va distendendo per tutta l'Italia. Molti autori scrivono con libertà ed i loro pensieri non sono phi figurati secondo il gusto passato. I phi recenti filosofi italiani spezzano le catene dell'ec' «Giornale letterario», tomo V, p. 98.
2 Ivi, p. 109. Ivi, tomo IV, pp. 146 sgg.
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clesiastico dispotismo con una intrepidezza che non ha quasi esempio. Leggasi la nuova opera di un illustre scrittore Della Riforma d'Italia, leggasi il trattato dell'immortale Beccaria Dei delitti e delle pene, leggasi il "Caffè", opera italiana che usciva in Milano ogni settimana, in paragon della quale lo "Spettatore" inglese sembra non essere scritto che per le donne, leggansi finalmente le Riflessioni d'un italiano sopra la chiesa in generale e sopra il clero si regolare che secolare, sopra il papa[opera proprio allora uscita, di Pilati stesso], e vergognisi chi dice che l'Italia non produca piú gente di spirito » [. Se simili lodi non potevano non far piacere, Pilati non ignorava tuttavia l'immensità del compito che gli stava di fronte. Proprio dialogando con Voltaire sulle pagine di questa sua rivista, egli cercava di volgere a favore della propria opera, delle proprie idee, gli auspici che il patriarca dei philosophes andava formulando allora per l'Italia tutta intera. Ne L'homme aux quarante écus, Voltaire aveva infatti immaginato un viaggio della ragione al di là delle Alpi. «La ragione si era presentata in Italia — riassumeva Pilati —, ma era stata (l'autore dice anche da chi) respinta. Sicché ella non ha potuto fare allora che lasciarsi indietro nascostamente alcuni suoi fattori i quali vi facciano del bene in vece sua. Costoro vi fanno dei progressi, ed egli è da credere che in pochi anni il paese dei Scipioni non sarà piú in preda all'ignoranza e alla dappocaggine. Ma se la ragione fa dei nuovi sforzi per rientrare ella medesima in Italia, l'autore crede ch'ella comincerà a stabilirsi a Venezia e che di quivi passerà a soggiornare nel regno di Napoli». «Noi desidereremmo — interveniva Pilati — che nel passare dalla Germania allo Stato veneto la ragione facesse qualche dimora in un angolo posto in mezzo all'Allemagna e l'Italia, coperto di monti, popolato da' Reti, ristorato da' Goti, or abitato da beotica gente, dove la barbarie e l'ignoranza, la superstizione e la crudeltà, la cabala e l'insolenza, scacciate da molte parti d'Europa ed in molte altre assalite, hanno radunata la sostanza delle loro forze e vi signoreggiano a bacchetta, occupandosi a lacerare con velenosi morsi empiamente la fama della gente onesta... » 2 . Il Trentino stava sempre al centro dei suoi pensieri. Di là egli avrebbe voluto partire per accompagnare la ragione nel suo viaggio di liberazione in Italia. L'eco del «Giornale letterario» fu ben maggiore di quanto non potrebbe far pensare l'estrema scarsità delle copie che di esso possono essere rinvenute nelle biblioteche italiane'. Prova della censura che que' «Giornale letterario», tomo V, pp. 67 sgg. Ivi, tomo III, p. 136. Ci siam serviti dell'esemplare conservato alla Biblioteca Nazionale di Torino, sotto la segnatura TVll.V1,292. 2
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ste biblioteche esercitarono o della loro incuria phi che dell'insuccesso al quale sarebbe andato incontro questo periodico. In realtà esso ebbe tre edizioni, anche se non complete ed integrali. Nel Mezzogiorrno Pilati sperò un momento di poterne continuare la pubblicazione quando venne interrotta nei Grigioni. «Il giornale continuerà forse a Napoli — scriveva al canonico Cristiani —. Ho ricevuto lettera appunto oggi in cui viene scritto che il re forse permette di stamparlo colà»'. Certo a Napoli i primi tre tometti vennero ripubblicati tra il 1769 e il 1773, presso Giuseppe Maria Severino Boezio 2 . Il primo numero era « dedicato al sublime merito del signor D. Gioachino M. Renzi ecc., avvocato napoletano» (forse della famiglia che aveva aperto la polemica contro i gesuiti a proposito del Collegio di Sora). Anche gli altri erano dedicati ad avvocati napoletani. Il fermento nel mondo dei paglietti, che le autorità avevano temuto in occasione della diffusione dell'opuscolo di Cosimo Amidei, trovava nella ripubblicazione della rivista di Pilati un'altra, simile espressione. Significativo pure il permesso del censore, Giuseppe Rossi, datato del 28 giugno 1769: «L'Autore non iscrive cosa che offende la religione. A maggior cautela si sono aggiunte alcune brevi note, le quali mi sembrano togliere ogni ombra che passa fare ostacolo alla ristampa di un libro che giudico utilissimo». A Venezia il libraio Luigi Pavini chiese il permesso di ristampare il « Giornale letterario». Il censore De Bonis diede parere favorevole ed esso venne accordato il 20 luglio 1768'. Che io sappia, questa edizione non vide mai la luce. Ma basta aprire il «Corner letterario» dell'estate di quell'anno per vedervi inseriti un gran numero d'articoli tratti dal «Giornale letterario», ivi compresa, come abbiam visto, l'autorecensione al primo libro di Pilati Toscana non vi fu alcuna ristampa, ma certo non fu là difficile procurarsi l'originale pubblicato nei Grigioni. In una nota della «Gazzetta toscana» si leggeva: «Si fa noto al pubblico come in Livorno da Francesco Natali libraio sarà dispensato in associazione un tometto ogni mese in 8°... al prezzo di lire 18 l'anno... L'opera è intitolata Giornale letterario, stampato in Coira e darà contezza di tutti i libri che usciranno nei paesi esteri... farà al piú un estratto particolare di quelli che di tempo in tempo anderanno fuori della nostra Italia... » 5. [ TRENTO, B. Comunale, Mss 457, f. 25, 27 agosto [1769]. FRANCO VENTURI, Carlantonio Pilati nel Mezzogiorno, in
«B. Soc. studi valdesi », n. 114 (dicembre 2963), PP. 41 sgg. 3 VENEZIA, AS, Riformatori dello Studio di Padova 341. ° «Corner letterario», n. ro (13 agosto), coll. 229 sgg.; n. 11 (2o agosto 2768), coll. 254 sgg.; n. 12 (27 agosto 1768), coll. z86 sgg.; n. 13 (3 settembre 1768), coll. 294 sgg.; n. 19 (17 settembre [768), coll. 343 sgg.; n. 23 (12 novembre 1768), coli. 546 sgg. ecc. 5 «Gazzetta toscana », n. 45, nota da Livorno, 2 novembre 1768, p. 292. 2
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Se la Riforma e il «Giornale letterario » erano appelli e propaganda, le Riflessioni di un italiano, apparse all'inizio del 1768, furono il primo tentativo di Pilati di inserirsi nel processo riformatore con un preciso programma di governo'. Si presentavano come la risposta ad una eccellenza (in cui pare si debba ravvisare il Kaunitz) che gli aveva chiesto «di stendere in carta e dare alla luce i suoi sentimenti, qualunque essi si fossero, intorno a ll a chiesa, al clero, ai pontefici ed ai diritti de' principi sopra le cose e le persone della chiesa». Con grande dignità, con qualche orgoglio intellettuale anzi, protestando d'aver avuto riguardo «unicamente alla verità», egli offriva cosí un vero e proprio trattato di politica regalistica. In apertura, con una sorta di romanzo filosofico, la Relazione del regno di Cumba, Pilati faceva il punto dell'invasione clericale e dei tentativi finora compiuti per rimediare ad una tanto grande rovina. Una storia della Controriforma in controluce. Chiese ricche e popolazione miserabile, confraternite, oratori privati, «divozioni singolari», «limosine» e conventi sempre pii ricchi e potenti'. «Laonde la popolazione andava ogni giorno diminuendo sempre pii ed i pruni, gli stecchi e l'erbe selvatiche si dilatavano sopra la terra, che si lasciava incolta». «All'incontro i frati oziosi, i letterati inutili, gli artigiani superflui, i nemici della fa tica, gli spigolistri, i picchiapetti, i paltronieri, i pitocchi e l'altra gente inutile cresceva ogni giorno maggiormente»'. Disgregazione del diritto penale e di quello civile, corruzione della giustizia. Scuole dove l'insegnamento era « tutto sottigliezze, tutto difficoltà inutili, tutto concettini senza spirito, tutto arzigogoli irragionevoli, tutto pregiudizi, tutto f al -sità,uocnfedsri»'.Coí,nzafemrsidtgl attentati e alle ribellioni e servendosi dell'inquisizione e della corruzione, gli ordini religiosi avevano messo sempre pii fortemente le mani sullo stato. Ma il loro dominio, al momento stesso del trionfo, era entrato in crisi. «I frati, che furon sempre perfettamente concordi finché si trattava di ridurre la nazione a quel segno a cui avevano mirato, cominciarono a disunirsi ed inimicarsi vicendevolmente come furono per1
Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa in generale, sopra il clero si regolare che secolare, so-
pra i vescovi ed i pontefici romani e sopra i diritti ecclesiastici de' pontefici, Borgo Frantone, x768. A quanto ci dice lo stesso Pilati quest'opera fu stampata a Basilea donde quasi tutti gli esemplari furono mandati « ad un solo mercatante d'Italia», a Bergamo. TRENTO, B. Comunale, Mss 457, ff. 21 e 28, ad Andrea Cristiani, r8 febbraio 1768 e s. d. In un'altra lettera (ibid., f. 32, 28 dicembre 1768) aggiungeva che «In Venezia si vendono le Riflessioni d'un italiano a dodici lire. Egli è vero che qualche libraio le vende anche a otto lire, ma quelli non fa un soldo di profitto perché tanto vengono a costare a lui medesimo». z Ibid., pp. 15 sgg. Ibid., p. 18. Ibid., p. 21.
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venuti al fine da loro bramato » '. Contro i gesuiti si erano schierati i domenicani, i francescani, i cappuccini. «Ogni partito trovò i suoi clienti ed i suoi avvocati e la furia di queste controversie invase tutte le case si de' signori come de' plebei» 2 . Le accuse pii gravi vennero lanciate da una parte e dall'altra, accuse che corrispondevano a verità e che bene s'attagliavano a tutte le parti in contesa. Un giovane sovrano ed un vecchio, probo consigliere avevano tentato finalmente di reagire. Ne erano seguiti uccisioni, complotti, guerre provocate dagli ecclesiastici. « Trovasi ogni ordine di persone cosí corrotto — narrava il sovrano — i miei tesori cos{ vuoti, la confusione cosí universale, le forze dello stato cosí ruinate» da costringerlo a rassegnarsi alla sconfitta e all'esilio'. Era davvero l'Italia, nel i 768, di fronte ad un simile pericolo? Certo Pilati era convinto che il momento della crisi era giunto. La sua Relazione del regno di Cumba era una sorta di utopia negativa di quel programma che egli intendeva proporre e che solo avrebbe potuto operare ciò che lui stesso chiamava ormai «una grandissima rivoluzione»'. « Quel medesimo destino che ora va conducendo l'Italia al suo precipizio la deve un di far risorgere e le metterà in mano istromenti potenti per reggersi e sollevarsi» 5 . Bisognava portare la lunga battaglia giurisdizionalista a conclusione, dandole l'unico sbocco che rispondesse alla sua logica profonda e ai bisogni del paese, una separazione cioè della chiesa dallo stato, accompagnata da una vivace ripresa d'iniziativa politica educativa, economica dello stato stesso. La parola « separazione» non si trova, naturalmente, nel testo di Pilati. Ma questa è la sostanza del disestablishment che egli propone. Una sorta di nostalgia di periodi e terre lontane in cui lo stato non aveva da lottare in alcun modo con gli ecclesiastici nell'adempiere al suo compito di giustiziere e di animatore dell'economia non era mancata, come abbiamo visto, un po' ovunque in Italia durante gli anni sessanta. Ora Pilati veniva a dare una forma giuridica, semplice ed efficace, a questa esigenza. La scuola giuridica di Thomasius e quella storica di Mosheim gli fornivano molti degli strumenti atti a trasformare le rivendicazioni giurisdizionaliste italiane in un coerente e radicale programma di distinzione e separazione della chiesa dallo stato 6. ,
,
Riflessioni di un italiano cit., p. 26. • Ibid., p. 27. • Ibid., p. 3o. o Di una riforma d'Italia cit., tomo II, cap. xvi: Lettere sopra certi studi degli italiani, p. 384. Ibid., cap. xv: In cui si dimostra che il presente è il tempo pig opportuno di liberare l'Italia dalla tirannia dei pregiudizi e della superstizione, p. 374• 6 È caratteristico il fatto che la prima formulazione di queste idee si trovi nel già menzionato libretto d'appunti sui suoi viaggi, soprattutto in Germania, dal 1761, conservato nella B. Comunale di Trento, Mss 634. Dopo aver menzionato Gatterer, Jurieu, Tillotson, Mosheim, Bourdaloue, Mas-
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Tentativo di dare uno sbocco protestante alle polemiche italiane degli anni sessanta? Ma si trattava ormai d'un protestantesimo tutto giuridico e storico, per nulla teologico o religioso. La forza propulsiva stava tutta nella volontà di riforma, che tendeva a trasformare non soltanto la chiesa, ma anche lo stato. La visione della chiesa quale si presenta agli occhi di Pilati al termine della trasformazione che egli propone è democratica, basata su una assoluta eguaglianza tra i fedeli e su un sistema elettivo per la scelta del clero. Pilati è qui influenzato dal nascente richerismo, ma è soprattutto sospinto dalla logica del suo pensiero. Lo abbiam visto nella Riforma proporre l'elezione di giudici, generali, governatori. L'esigenza democratica, viva in lui, penetra tanto il mondo della politica quanto quello della religione. I limiti, nell'uno e nell'altro caso, sono dovuti alla sempre presente preoccupazione di render possibile, d'agevolare e promuovere la trasformazione, la riforma dei costumi, delle leggi, delle scuole, della società tutta intera. E per questo, egli ne era convinto, uno stato e una chiesa diversi e nuovi erano indispensabili. Già nella Riforma vi aveva qua e là accennato. Ora la sua concezione della chiesa veniva esposta in tutta la sua completezza: «Eguale società di fedeli, nella quale niuno ha l'autorità di comandare e niuno è obbligato d'ubbidire, niuno è superiore e niuno inferiore, niuno è principe e niuno è suddito». A che pro' ordini e comandi, quando non v'era materia di «premi e gastighi temporali»? Perché una gerarchia quando i fedeli erano tutti fratelli? '. Non solo non costituiva uno stato nello stato, ma dallo stato differiva radicalmente. Gli scopi, la ragion d'essere della « società ecclesiastica» e di quella «civile» erano qualitativamente diversi. La prima doveva «mantenere fra i fedeli la dottrina di Gesú Cristo, introdurre fra di loro la purità e santità dei costumi, penetrare fino ne' loro cuori e far regnare non solamente nelle operazioni esteriori, ma perfino negli animi stessi la giustizia e la virtii». Nessun valore etico o religioso aveva invece lo stato. «Per mantenere l'ordine e per conservare la pace nelle società civili basta che le azioni de' cittadini siano buone e giuste e non vi è bisogno che buono e giusto sia anche l'animo e la volontà di chi le opera». Non era compito dello stato occuparsi «della bontà o malvagità degli animi de' cittadini, ma solamente della bontà e malvagità delle loro azioni». La distinzione tra delitto e peccato che stava a sillon, Lessing ecc. egli getta sulla carta uno schema di ragionamento: «La chiesa è un collegio. Da ciò si ricava: 1) che non vi è disuguaglianza tra i membri; 2) che la hierarchia ecclesiastica è senza fondamento...; 3) che i diritti che s'arroga il papa sono fallaci...; 4) de' concili, de' padri, delle tradizioni. La proibizione di leggere la scrittura, la messa in latino, la indissolubilità del matrimonio, il tener per cose sacre le profane della chiesa...» Sono le idee che egli svilupperà nelle sue Ri-
flessioni di un italiano. ' Riflessioni di un italiano cit., p. 226.
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fondamento del pensiero di Beccaria, era qui posta alla base dei rapporti tra stato e chiesa. «Le pene non illuminano, non persuadono, non convincono l'intelletto, ma l'obbligano soltanto a dovere anche suo malgrado fare un'azione la quale egli non ama o ad ometterne un'altra che avrebbe talento di fare». «La società spirituale» invece «vuole che non solamente riescano giuste e rette le azioni de' fedeli, ma che principalmente giusti e retti siano gli animi» '. Lo stato costringeva, la chiesa persuadeva. Ogni potere nelle sue mani snaturava la sua funzione, il suo compito. Ogni pena da lei comminata non poteva aver altro effetto che togliere all'uomo ogni merito e perciò ogni speranza di vita eterna, perché allora la sua libertà veniva cosí annullata, oppure, quando l'uomo resisteva e conservava intatta la propria libertà, la chiesa non faceva che «tormentare la gente senza poter produrre frutto veruno». «L'uso delle pene e dell'autorità di obbligare altrui per via della forza sono adunque cose contrarie alla natura della proprietà ed all'essenza medesima della società ecclesiastica» 2. Giuridicamente la chiesa doveva essere considerata «un puro collegio», uno fra i tanti che esistevano nella società civile e che, come loro, non aveva funzione alcuna di potere politico. Come qualsiasi altro collegio essa aveva il diritto di creare la propria organizzazione e di prendere le disposizioni necessarie per realizzare i propri fini. I cristiani erano pellegrini su questa terra, avevano bisogno «di guide e condottieri i quali li conducano per le strade buone e sicure»'. Era giusto che essi se li scegliessero attraverso una votazione della « congregazione dei fedeli», la quale aveva il dovere e il diritto di controllarli attentamente nel loro ministero `. Al popolo toccava pure il compito di allontanare dalla chiesa «gli scandalosi, gli eretici e i pubblici peccatori» 5 . Ognuna delle chiese era pienamente autonoma. I vescovi erano «ispettori dei preti ed i primi fra quelli», avendo cosí unicamente una funzione di coordinazione e di conciliazione 6. Questa era stata la struttura della chiesa primitiva e tale essa doveva tornare ad essere dopo lunghi secoli di abusi e di corruzione, che Pilati minutamente descriveva nella loro origine e nel loro sviluppo, ricalcando le orme di una consolidata tradizione che risaliva a Richard Simon, a Giannone, agli storici e giuristi tedeschi e francesi e che giungeva ormai a François Richer. Una simile chiesa era letteralmente tollerata dallo stato. «La superiorità territoriale» doveva avere l'occhio addosso ai «pellegrini cristiani» Riflessioni di un italiano cit., p. Ibid., p. 215. Ibid., P. 284. Ibid., p. 233. 5 Ibid., p. 247 . 6 Ibid., P. 254. ^
211.
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perché non cagionassero « qualche disordine e qualche malanno nello stato ». In realtà tanti erano i guai originati da questi cristiani, pareva dire Pilati, che la sorveglianza dello stato non poteva non essere ferma e occhiuta. Egli non era giunto alla conclusione di Jean Manzon e di tanti illuministi, i quali avevano finito per considerare il cristianesimo un male radicale. Pilati restava sul terreno della storia e delle riforme, non si poneva su quello della negazione assoluta. Elencava le disgrazie accumulate sull'umanità da papi e frati, ma si mostrava persuaso che si trattava di deviazioni e di corruzioni che sarebbe stato possibile correggere, riformando la chiesa, ridandole il suo carattere libero ed egualitario e fissando con precisione i suoi doveri e i suoi limiti Il compito di stabilire le modalità di questa tolleranza toccava al potere pubblico. «Se la chiesa brama di essere tollerata in uno stato e se desidera di potervi stare in pace ed in sicurezza, egli è di ragione ch'essa non intraprenda niente che possa riuscire a danno o disagio allo stato. Laonde ne siegue ch'essa non solamente deve vivere soggetta a quella potenza nel cui territorio essa è, ma che il principe ha inoltre da essere informato da lei di tutte le dottrine, di tutte le pratiche e di tutti i costumi ch'essa professa perché egli possa conoscere se questa società gli possa arrecare del pregiudizio » j. Un principe, anche se cattolico, avrebbe perfettamente ragione, ad esempio, di non accettare sul proprio territorio dei cristiani che pretendessero di formare uno stato nello stato, di ubbidire al papa da loro considerato superiore a tutti i principi della terra, di perseguitare a morte chi non la pensava come loro, di accogliere nelle loro chiese i furfanti, di « smungere il denaro dalle borse dei cittadini e dei sudditi utili allo stato e di farlo entrare nelle case de' poltroni». E non era forse proprio questo che «noi altri cattolici insegnamo? » «Non sarebbe da maravigliarsi in conto nessuno se i principi comandassero che noi abbiamo quindi innanzi di gittare dopo le spalle cotesti principi o che, in caso contrario, ci mandassero con queste nostre ciance in mille esili» 2 . L'eco della cacciata dei gesuiti dal Portogallo, dalla Spagna, da Napoli, da Parma era ormai in queste parole dilatato ad un principio generale, risuonava ora come la condanna di tutta la tradizione cattolica. Cosí pure avveniva per le minute e pazienti misure che gli stati erano andati prendendo per porre un argine alle ingerenze della chiesa. Lo stato aveva il diritto di rivedere perpetuamente le basi giuridiche con cui tollerava la chiesa. L'ispezione del principe « doveva essere perpetua»'. I concili dovevano essere controllati con particolare cura. L'esperienza ' Riflessioni di un italiano cit., pp. 284 sgg. Ibid., pp. 291 sgg. ' Ibid., p. 292. 2
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di quello di Trento doveva servire di ammaestramento. Bisognava stabilire come un principio inderogabile che «niun concilio nazionale o provinciale si possa mai tenere senza che v'intervengano i commissari del principe di quello stato dove un tal concilio viene celebrato». Pilati fissava con minuzia le modalità d'una simile sorveglianza. Ecco un esempio: «Non deve essere sotto qualsiasi pretesto ai membri del concilio permesso di poter tenere sessioni particolari in qualche casa privata e fuori del luogo destinato quando non vi vengano anche invitati i commissari del principe» `• Una simile sorveglianza egli proponeva sulle elezioni degli ecclesiastici, sulle cerimonie, i riti, i sacramenti. La disputa parigina sui biglietti di confessione era citata come prova della necessità di impedire sul nascere simili « scandali, fazioni, turbolenze», tenendo gli occhi addosso ai preti; eventualmente, « gastigarli come ribelli e cattivi sudditi» 2. Cosí pure lo stato aveva il dovere « di regolare i matrimoni», sui quali invece il clero aveva ormai finito col legiferare': Il principio, in proposito, era chiaro: «i sovrani avevano il diritto di proibire in certi casi e tra certe persone i matrimoni e vice versa di permettere in certi casi e per certe cagioni il totale scioglimento del matrimonio)'. Pilati era infatti diventato ormai un energico sostenitore del divorzio. Un capitolo del suo Traité des loix civiles e, nel 1776, un intero libro egli dedicherà di 11 a pochi anni, a questo problema Anche la polemica contro i privilegi e immunità degli ecclesiastici giungeva alla sua conclusione in queste pagine delle Riflessioni. «Se gli ecclesiastici sono con li secolari in società, che osservino le leggi che sono proprie del contratto sociale. Se all'incontro essi non hanno co' laici alcuna società, che non ne domandino la protezione e non pretendano di essere da loro trattati al pari, anzi meglio di quelli che sono nella società» 6 In un campo almeno lo stato non poteva tuttavia limitarsi a riportare la chiesa all'obbedienza del diritto in vigore per tutti i suoi membri. Innanzi tutto nella lotta contro i frati. Ragioni politiche ed economiche consigliavano « di distruggerli e d'abolirli tutti, a poco a poco, nel proprio stato e di non lasciarne pii entrare altri da fuori». « Impresa » pii facile di quanto non si pensasse. Appoggiandosi su un clero secolare ben scelto '.
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Riflessioni di un italiano cit'., pp. 302 sgg. Ibid., p. 316. Ibid., p. 32o. 4 Ibid., p. 326. Traité des loix civiles cit., cap. v: Des mariages et des divorces, pp. 159 sgg. e Traité du mariage et de sa législation cit. In quest'ultimo libro, a p. 28 scriverà: « Le canon du Concile de Trente 2
prouve assez que le St. Esprit ne préside pas toujours aux conciles ». Concludeva che « de toutes les causes qui peuvent justifier le divorce ou la répudiation, celle de l'incompatibilité d'humeurs est la plus grande et la plus juste» (ibid., p. 8o). 6 Riflessioni di un italiano cit., pp. 357 sgg.
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e ben sorvegliato non sarebbe stato impossibile giungere allo « sterminio » dei frati'. Se poi la cosa fosse stata considerata «troppo dura o troppo malagevole» bisognava operare una riforma dei conventi, riducendo gli ordini a pochi e modificandone le regole. Né il prevedibile intervento del papa era da paventare. « Questa non è una difficoltà che per piú cagioni può oggimai aver luogo fra noi», in Italia. « Imperocché si lascia che il papa protesti come ei vuole e ch'egli mandi tante bone quante gli piace ... Egli non è da temere che la Corte romana venga oggi giorno a veruna estremità e che faccia uso delle scomuniche contro verun principe dell'Italia poiché quella Corte già sa che sono passati i tempi degli Arrighi e che il lanciare in questi giorni una scomunica contro ad un sovrano altro effetto non produce che lo sdegno degli uni e le be lle degli altri». Se poi un singolo principe dovesse ancora temere le minacce romane, «un sicuro mezzo di mettersi al coperto di qualunque pontificia intrapresa sarà che il principe faccia colleganza con altri sovrani d'Italia e che li persuada a fare lo stesso ed a venire alla medesima riforma». Certo allora il pontefice si sarebbe fermato di fronte a lle loro « forze unite .e ad una resistenza comune» 2. La convergenza che si andava operando attorno a Parma nei mesi in cui usciva quest'opera di Pilati sembrava fornire finalmente un appoggio reale, concreto alle speranze di lui. Ma, come nella Riforma, anche nelle Riflessioni le sue speranze andavano al di là d'ogni coalizione diplomatica e finivano col proiettarsi in un accorato appello dove l'azione antipapale prendeva un colore e un valore di patria. «La grandezza del torto che vien fatto all'italica nazione, l'amore della patria, cui la verità viene con tanto rigore tenuta celata e lo zelo per il pubblico bene», l'avevano mosso, diceva, a protestare, a scrivere. «La Francia va già da qualche tempo in qua colla luce delle sue dottrine scacciando da sé di mano in mano le phi dense tenebre, la Germania cattolica ha già prodotto i suoi Febroni, la Polonia si va già studiando di scuotere il giogo della cecità, il Portogallo ha già avuto i suoi Pereiri, e noi italiani, noi che una volta abbiamo fatto rifiorire nel mondo le spente scienze, noi siamo soli, per le male arti e per le acerbe durezze de' nostri propri concittadini, costretti a dover tuttavia giacere sommersi nel fango e sepolti nel buio» 2 . Quel che si disse in Italia de ll e sue Riflessioni non dovette render Pilati molto ottimista. Il «Cornier letterario » definiva l'autore una sorta di maniaco, una persona, « che si fosse fitta in capo per avventura di es' Riflessioni di un italiano cit., pp. 170 sgg. 2 «L'Europa letteraria», tomo III, parte I, pp. 177 sgg. Riflessioni di un italiano cit., pp. 204 sgg.
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sere a bella posta venuto al mondo per riformare il clero e le altre comunità religiose» '. «V'è chi si abusa delle presenti controversie ecclesiastiche. Questo libro prova l'esistenza di tale abuso », diceva l'« Europa letteraria » 2 . Lo stesso periodico annunciava poco phi d'un anno phi tardi che «la Sagra Inquisizione» romana aveva fatto « abbruciare per mano del ministro della giustizia» insieme alle opere di La Mettrie, ad un'opera di Voltaire, al sunto di Fleury scritto da Federico II di Prussia (non una brutta compagnia come si vede) anche le Riflessioni di un italiano, attribuite, aggiungeva, « al signor Carlo Antonio Pilati», «le quali opere ha proibite sotto pena della scomunica maggiore per i secolari e per gli ecclesiastici anche regolari della sospensione a divinis da incorrersi ipso facto, riservando Sua Santità a sé solo e a' suoi successori la permissione di poter leggere o ritenere i suddetti libri»'. Contin scriveva che a Pilati, evidentemente, erano insopportabili «non gli abusi solamente degli ecclesiastici, ma gli ecclesiastici stessi e forse la chiesa» °. A Napoli, il cappuccino Felice Maria ( al secolo Garcia Alonso Guzmán) lanciò contro Pilati tre interi volumi All'inizio non sapeva chi fosse il suo avversario, che supponeva potesse essere Fortunato De Felice, «l'apostata rattore e adultero » o un non meglio identificato « canonico NN, vagabondo esso ancora per i paesi degli eretici che si dicono riformati e protestanti» 6. Ma prima di terminar l'opera sua, che andava stampando man mano che usciva dalla sua penna, venne a sapere con chi aveva a che fare, con l'autore cioè della Riforma d'Italia, o, come egli si esprimeva dell'« arzigogolata » , « pazza », « bestiale», « sgangherata » , «sciagurata» Riforma'. Fini addirittura col definirlo: « questo riformatore de' miei stivali» La Relazione del regno di Cumba con cui si aprivano le Rifles sioni di Pilati lo scandalizzarono particolarmente, pensando ritrovarvi le idee dell'autore «della Basiliade e del Codice della natura [Morelly] e del famoso Rousseau», l'eguaglianza cioè, l'assenza d'ogni certa autorità e il vagheggiamento d'una «irregolarissima forma di governo», basata sui « capricci del popolo»'. A modo suo padre Felice Maria aveva « Corner letterario», n. 14 (10 settembre 1768), coll. 328 sgg. 2 «L'Europa letteraria», torno III, parte I (I° gennaio 1768 [m. v. e cioè 1769]), pp. 99 sgg.
• Ivi, parte II (1° febbraio 7770 [m. v. e cioè 1771]), p. 96 e FRANCESCANTONIO ZACCARIA, Storia polemica della proibizione de' libri, Generoso Salomoni, Roma 1777, p. 216. Riflessioni sopra la bolla in Coena Domini cit., p. 197. Dimostrazione dell'ignoranza e dell'empietà dell'italiano anonimo scrittore delle Riflessioni sopra la chiesa in generale, sopra il clero regolare e secolare, ecc., Stamperia Simoniana, Napoli 1770. Il permesso di stampa, del canonico Giuseppe Simioli, era del 2 gennaio di quell'anno. Sull'autore cfr. STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Felice Maria de Napoli tra illuminismo e giansenismo, in « Collectanea francescana», xxxvsi (1967), pp. 33 sgg. 6 Dimostrazione dell'ignoranza cit., vol. I, p. 2. 7 Ibid., vol. III, pp. 21, 3 1 , 4 1 , 5 6 , 75. • Ibid., p. 56. 9 Ibid., pp. 5 e 9. '
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colto cioè l'elemento democratico effettivamente presente nelle pagine dello scrittore trentino. Ma non si accontentò di simili ravvicinamenti e condanne intendendo scoprire phi riposti e segreti nessi tra il pensiero del suo avversario e quello dei phi famosi filosofi viventi. Aveva letto molto e continuava evidentemente a tenersi al corrente dei grandi dibattiti della sua epoca. Ma orizzontarsi non era facile. Nell'opera di Victor Riqueti de Mirabeau, L'ami des hommes ou Traité de la population (vol. I, cap. ii) aveva trovato una citazione che l'aveva molto incuriosito, tratta dall'Essai sur la nature du commerce en général (parte I, cap. xvi) e fin i. col persuadersi che l'autore di questo scritto non era Richard Cantillon, come il marchese di Mirabeau giustamente indicava, bensí David Hume, di cui padre Felice Maria conosceva altri scritti riguardanti l'economia e la popolazione. A questo composito fantasma egli attribuí l'ispirazione e l'origine piú vera delle idee del suo avversario Pilati, nemico come Cantillon dei frati, soprattutto mendicanti, e seguace insieme delle idee politiche e morali di Hume, odioso ai suoi occhi, tra l'altro, per l'umiliazione da lui inflitta a Jean-Jacques Rousseau, «in traditoresca maniera » dopo averlo condotto «in Inghilterra per avvilirlo»'. Quel che maggiormente rimproverava a Cantillon-Hume era d'aver sostenuto che l'Inghilterra e l'Olanda eran diventate prospere in seguito alla soppressione da loro operata degli ordini monastici. Volentieri seguiva il marchese di Mirabeau nel sostenere che ben altre erano le ragioni della ricchezza delle nazioni protestanti. Le colonie americane per la Gran Bretagna e la «libertà» conquistata dall'Olanda ribellandosi contro la Spagna erano ai suoi occhi spiegazioni ben altrimenti valide e persuasive. Era del resto passata una decina d'anni da quando l'« amico degli uomini » aveva scritto e la crisi della fine degli anni sessanta non aveva risparmiato neppure la Gran Bretagna. «D. Hume, che tanto declama contro i monaci» avrebbe fatto meglio ad osservare che «l'Inghilterra si era indebolita e spallata cosí fattamente in mezzo alle travedute sue ricchezze e potenza che non sa dove trovare la via di scontare i tanti milioni di lire sterline che ha di debito nazionale». Né migliore era la situazione della Gran Bretagna dal punto di vista politico. «Sempre, dalla morte di Enrico VIII, essa era stata un teatro permanente di disordine, di tumulti, di ribellioni e di scandalosissimi eccessi». «Lo "spirito sedizioso" di quella nazione l'aveva renduta precaria » 2. Lo stesso David Hume, nei suoi Discorsi politici non era stato in grado di «dissimulare lo scontento e la perplessità della sua nazione nello stato che si ha pro2
Dimostrazione dell'ignoranza cit., vol. II, p. 6 43. Ibid., pp. 703 sgg.
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curato»'. Né era vero, aggiungeva, che soltanto i paesi protestanti fossero capaci di miglioramento economico. «Credo che potrebbe bastare per tutta pruova quello del regno di Napoli e massime della sua capitale, dove io son nato, che in cinquantotto anni che conto di vita è andata cosí fattamente ricrescendo di abitazioni e per conseguenza naturale di abitatori» che si poteva dir di lei quel che di Roma aveva scritto Dionisio d'Alicarnasso, non esser pii facile ormai, «assegnare dove essa termini e dove abbia principio la campagna » Z. Né padre Felice Maria intendeva lasciarsi prendere tutt'intero dalla logica dei suoi avversari protestanti ed increduli. Che diritto avevano essi di assumere la ricchezza e la potenza come supremi criteri di giudizio? «Se reggessero cosí fatti raziocini bisognerebbe credere cattivo il cristianesimo e buono il gentilismo» 3 . Non avevano forse i pagani attribuito alla nuova religione la decadenza dell'impero romano? Giustamente sant'Agostino li aveva redarguiti per questo loro modo di vedere e di pensare 4. Anche l'autore de La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, che padre Felice spesso citava e discuteva e che egli pii volentieri accettava per la sua maggior moderazione ed equanimità, aveva avuto il torto di considerare il problema del « celibato cristiano » da un punto di vista esclusivamente umano e politico 5 . L'autore delle Riflessioni e della Riforma era andato tuttavia phi in là d'ogni altro nei suoi errori e nelle sue empietà. Egli aveva osato accettare «il principio dei valdesi», «ribelli a Dio e al sacerdozio » 6 . Invano cercava di mascherarsi da regalista, di proporsi come difensore dei diritti dei sovrani. In realtà egli negava ogni legittima autorità, tanto religiosa che politica. «Il bando in cui egli si trova dalla sua patria, rifugiatosi tra gli svizzeri protestanti, avrebbe dovuto trarlo d'errore e fargli conoscere nella religione del suo principe naturale, dalla cui giurisdizione si è sottratto, la forza costrettiva ch'egli nega alla chiesa» Eppure — e la cosa è molto significativa — anche questo violento polemista, questo nemico della riforma d'Italia non poteva in fine non ammettere che bisognava pur mutare qualcosa nell'organizzazione del clero. Non era ammissibile che quasi due terzi dei beni ecclesiastici fossero nelle mani dei frati lasciandone ai secolari una parte del tutto insufficiente. A legger simili cifre non aveva potuto «non sentirsi commosso dall'ira» Bisognava che lo stato intervenisse a ristabilire un phi giusto equilibrio. '.
5.
' Dimostrazione dell'ignoranza cit., vol. III, p. 758. Ibid., pp. 58 sgg. Ibid., vol. II, p. 701. Ibid. Ibid., vol. III, p. 41. e Ibid., pp. 425 e 357. Ibid., p. 378. $ Ibid., p. 652. 2
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Non che avesse ragione Antonio Genovesi — di cui egli tuttavia ricordava commosso l'amicizia — quando aveva sostenuto nelle sue Lezioni di commercio che 35 000 ecclesiastici sarebbero bastati per il Regno, con i suoi tre milioni e mezzo di abitanti. Intanto le cifre erano sbagliate. La popolazione complessiva superava, sia pure di poco, i quattro milioni. E il clero non contava 200 00o membri, bensí esattamente 107 37o, di cui 3o 484 erano frati, 53 626 preti e 23 246 monache. Quel che bisognava fare era ridistribuire meglio tra di loro le ricchezze e le rendite. Le «Notizie de' letterati», di Palermo, dissero che se il padre Felice Maria « si fosse astenuto da alcune ripetizioni e avesse alquanto raffrenato la penna nel proverbiare il suo contradittore, la sua opera sarebbe per ogni parte commendabilissima»'. Né, malgrado la violenza del tono polemico, fu questa la replica pii dura suscitata dalle Riflessioni di Pilati. Un ignoto frate già nel 177o aveva cominciato un altro libro contro di lui, che vide la luce soltanto due anni pii tardi, non per colpa dell'autore, come questi s'affrettava a sottolineare, bensí dell'editore 2 Certo non molto perspicace era questo confutatore. Una cosa almeno aveva tuttavia capito e cioè che Pilati si poneva all'apice d'un movimento di riforma ovunque diffuso e presente. «Tutto il mondo presentemente non parla che di riforma, in ogni luogo, in ogni parte, per ogni dove null'altro risuonare si sente che riforma; qualunque persona, sia grande, sia piccola, dotta o ignorante, capace o incapace grida riforma». Moto che mirava soprattutto alla chiesa e che in realtà altro non faceva che portarvi « disordine, confusione, distruzione e rovina»'. Tempestando contro Montesquieu, Voltaire e Rousseau, che mostrava tuttavia di conoscere indirettamente, l'anonimo autore di questo Ragionamento accusava Pilati, senza nominarlo e forse senza conoscerlo, d'aver usurpato « il glorioso titolo di riformatore e legislatore della chiesa cattolica » I suoi argomenti erano teologici e religiosi, ma anche sociali, ispirati questi ultimi ad una realistica e soddisfatta apologia dello stato quo. Eran tanti gli studenti che non trovavano posto, i militari che non avevano ingaggio. « Si desiramoltunpg,acri ezopsídian, ma sono, a proporzione della moltitudine di chi cerca, cosí pochi gli impieghi, i posti, le cariche che la maggior parte coi loro studi, colle loro indefesse fatiche, colle loro fatte gravissime spese si muoiono di fame». .
2
«Notizie de' letterati», n. 24 (16 giugno 1772), col. 374•
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I
Ragionamento critico, cristiano e politico sopra la pretesa riforma degli ordini regolari insinuata dall'autore delle Riflessioni di un italiano sopra la chiesa in generale, sopra il clero si regolare che secolare, sopra i vescovi ed i pontefici romani e sopra i diritti ecclesiastici de' principi, colla data di Borgo Francone, 1768, s. 1. 1772. Ibid., p. 5. 4 Ibid., P. 45.
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Questo nelle « civili famiglie ». Se poi si guardavano le città e le campagne, ecco «la gran moltitudine di mendichi e pezzenti, i quali non trovando in che impiegarsi, non avendo da lavorare, bisogna che per necessità si riducano ad accattarsi un tozzo di pane»'. Davvero, in questa situazione, si voleva togliere alla gente la speranza di entrare in convento, di farsi prete, di ricevere qualche elemosina dalla chiesa? « Su via, adunque si faccia a genio loro; sia tolto il celibato di religione, che sopportare non possono, non sia pii da alcuno vestito l'abito religioso, che disprezzano, si annientino totalmente gli organi regolari, che loro danno tanto ombra, si sforzi infine anche di pii la gioventù tutta a prendere moglie, il che è impossibile. Diverrà forse pii popolato un paese, ma sarà ancora certamente pii infelice, pii povero e pii miserabile». Tutti i ceti ne sarebbero impoveriti. «Quella nobile famiglia la quale vediamo oggi vivere con tanto fasto e con tanto lusso, che mai sarebbe se due o tre della medesima, a diverse religioni dedicati, non le avessero tutto il loro rinunziato? Di quel tale che cosí gonfio e superbo, d'ogni novità seguace, passeggia, che sarebbe ora se il di lui fratello non si fosse dal mondo staccato coll'entrare in un chiostro?» 2. Quanto agli « oziosi» e ai « poveri», coloro che erano entrati in una religione e si erano «per conseguenza, come dice il volgo, assicurati il pane», almeno «trattenuti si sono dal mal fare e, di cattivi cittadini che erano prima o che sarebbero stati forse in progresso di tempo, sono divenuti buoni cristiani e ottimi sudditi»'. Argomenti che poterono effettivamente persuadere Pilati = che questo anonimo chiamava un « politico riformatore » `—, insieme alla generale povertà delle ragioni teoriche che gli vennero contrapposte, che i suoi Ragionamenti d'un italiano contenevano un programma ancora troppo avanzato, troppo spinto per l'età in cui gli era toccato di vivere. Anche gli echi che gli giunsero dall'estero furono meno numerosi e significativi di quelli che avevano risposto alla Riforma. Nicolas de Azara, che un anno prima aveva mandato la Riforma a Roda, il ministro degli esteri spagnolo e aveva dimostrato grande ammirazione per Pilati, fu colpito anche questa volta dalle Riflessioni, ma non ne riconobbe l'autore. Il libro « excelente », diceva, era « obra de Fra Felice... que se ha refugiado en los Suizos », e cioè del ben noto scrittore ed editore Fortunato De Felice'. Una sola traduzione si ebbe delle Riflessioni, in tedesco, dovuta a Johann Conrad Voegelin, che già aveva volto in tedesco due scritti di Mably ' Ragionamento cit., p. 83. Ibid., p. 85. 3 Ibid., p. 86. Ibid., p. 174. El espiritu de don José Nicolas de Azara cit., vol. I, p. 284, 29 maggio 1769. s Reflexionen eines Italiäners über die Kirche überhaupt, über die reguläre und seculäre Geistlichkeit, über die Bischöpfe und römischen Päpste, und über die kirchlichen Rechtsame der -Für2
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Intanto, mentre si andava svolgendo questa aspra discussione, dalla Svizzera la propaganda e la difesa delle idee simili a quelle di Pilati continuava insistente. Nello stesso anno delle Riflessioni usciva un Discorso intorno alla giurisdizione de' principi e de' magistrati secolari sopra le persone ecclesiastiche, tradotto dal francese, con una ampia e polemica
prefazione. Anche se questa, come è probabile, non è sua, certo usciva da una penna a lui molto vicina. Sosteneva doveroso pubblicare delle opere straniere come quella che egli ora offriva, non foss'altro per combattere ed eliminare quel senso di superiorità, quella boria che gli italiani avevano dimostrato nei secoli passati. Era tempo ora di imparare dagli altri. «A me pare che colle numerosissime ristampe che si fanno a' di nostri in Italia d'opere di valorosi ultramontani si risarcisca per alcun modo la non leggiera ingiuria fatta dai nostri italiani alle altre nazioni, riputate dalli medesimi e denominate tutte barbare, anche rispetto alle lettere ed ancora dopo l'universale rinascimento di queste»'. Citava a riprova le opinioni di Ludovico Vives e di Vincenzo Gravina. Ben altro il vanto che legittimamente l'Italia poteva ormai contrapporre alle accuse degli stranieri. Essa aveva finalmente cessato di essere il paese «di cieca ubbidienza ai papali comandi». Aveva anzi «dimostrato» quanto essa fosse mutata rifiutando «di ammettere ne' phi de' suoi stati l'uffizio e la messa di Gregorio VII », «deridendo le artifiziose pratiche» messe in opera « nella attentata santificazione del cardinal Bellarmino» e mostrando palesemente, in tante altre occasioni, «ch'ella pur già non crede phi essere tutto oro, come si suol dire, quello che agli occhi de' semplici tanto risplende in quella pomposa cerimonia di religione della quale Roma ha voluto farsi una privativa nel tratto degli ultimi sette secoli» 2.Oramai «i lumi si copiosi che ne' due ultimi secoli hanno svelate le fallacie della corte di Roma » avevano finito col rompere e annientare « tante malizie» papali. sten, Aus dem italiänischen übersetzt, Freyburg (Zürich) 1768. L'esemplare di quest'opera conservato alla Zentralbibliothek di Zurigo (III, O. 17o), proveniente dalla «Bibliotheca Collegii Alumnorum turicensis », portava l'iscrizione manoscritta: «Jo. Conradus Voegelinus, qui hune Pilati scriptum ex Italico Germanicum fecit. 1769». J. C. Voegelin è il traduttore dei Dialogues de Phocion e delle Observations sur l'histoire de la Grèce di Mably. Anche le Reflexionen, cosf come la Riforma furono recensite da Iselin nella «Allgemeine deutsche Bibliothek», vol. X, parte II (1769), pp. 21 sgg. Vi si mostrava sempre grande ammiratore d'un autore «der mit einem grossen Muthe
und mit einer unter seinen Landesleuten sehr seltenen Einsicht die Missbräuche und das Elend von Italien aufgedeckt und die Mittel dieses ehmals so verehrungswürdigen Land wieder glücklich und blühend zu machen erforschet hat». Ora Pilati aveva esaminato l'aspetto legale, istituzionale della chiesa, con risultati non meno notevoli. Si compiaceva dell'utilizzazione fatta dall'autore di giuristi e storici come Böhmer, Thomasius, Mosheim e concludeva scrivendo: «Wir wünschen viele Leser unter den Ministern und Räthen der römischkatholischen Fürsten. Sie werden darinne manche wichtige Wahrheit finden die ihnen in dem Seminarium nicht gesagt worden ist und die zu wissen sie doch sehr nöthig haben wenn sie den wahren Vortheil ihrer Fürsten und ihrer Mitbürger mit glüklichen Erfolge befördern wollen ». ' Discorso intorno alla giurisdizione de' principi e de' magistrati secolari sopra le persone ecclesiastiche, tradotto dal francese, in Friburgo 1768, Prefazione del traduttore, p. v11. 2 Ibid., p. v111.
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Gli ultimi avvenimenti italiani erano finalmente giunti a smuovere non piú soltanto le coscienze, ma anche gli stati. «Nel phi che temerario suo attentato contro il real duca di Parma», Roma aveva tentato di difendere le « eccessive ricchezze» del clero '. Ma era ormai troppo tardi. Già erano in azione, nella penisola, «que' valorosissimi soggetti, i quali ad ogni fatto di civile ed ecclesiastica eterodossia hanno già dichiarata eroicamente inesorabile guerra » 2. La polemica di Pilati stesso si fece sempre phi varia ed incisiva. Nel Matrimonio di fra Giovanni, una commedia in prosa, i personaggi sembravano uscire dalla sua Riforma d'Italia'. Il conte Palombi è un bigotto, sempre pronto ad ogni sorta di compromesso pur di far l'interesse della propria casata. Non esita un istante a tentar di mettere sua figlia in convento piuttosto che concederla ad una famiglia con cui è in contrasto, o ancor peggio, ad un eretico inglese. La contessa sua moglie, e sua figlia cercano attraverso sotterfugi di sfuggire alla tirannica autorità del capofamiglia. I frati, numerosi in questa commedia, sono uno peggiore dell'altro, sempre pronti per denaro o per prestigio a sostenere le tesi teologiche phi assurde; venali e ossessionati dalle donne, capaci dei phi bassi intrighi, terrorizzati dalle carceri conventuali, ma incapaci di rivolta, sboccati e soprattutto immensamente ignoranti e superstiziosi. Di fronte a questi manigoldi in saio sta Milord Honestman, inglese ricco e generoso, franco e leale, capace perfino, alla fine della pièce, di evitare la punizione di fra Giovanni, che lo aveva ingannato e tradito, ma che egli non vuol lasciare nelle grinfie dei superiori e che preferisce far sposare con una sua schiava negra, che egli emancipa, spedendo tutti e due nella libera Pensilvania onde si rifacciano una vita. Il contrasto tra la morale cattolica e quella protestante è l'asse intorno al quale ruota tutta la commedia. L'inglese è tollerante, pieno di comprensione per tutto salvo per il groviglio d'inganni, di ipocrisie, di segrete violenze, d'invidia e ambi2 1
Discorso intorno alla giurisdizione de' principi e de' magistrati secolari cit., p. x. Ibid., pp. xv-xv1. Il matrimonio di fra Giovanni. Commedia, s. 1. n. d. (ma Coira 1769). Vent'anni dopo, nella
«Gazzetta universale» del 2 giugno 1789, n. 44 si leggeva: «Con l'ultimo corriere di Milano è pervenuto a questo Filippo Stecchi negoziante di libri in Firenze un ballotto di libri proveniente dalla Germania. Questo contiene diverse copie di una commedia che ha per titolo: Il matrimonio di fra' Giovanni. Si vende al negozio del medesimo posto in via de' Tavolini al prezzo di paoli tre». La medesima «Gazzetta», il 18 luglio 1789, n. 57, diceva che «Filippo Stecchi libraio in via de Tavolini si fa un dovere di annunciare al pubblico che essendogli giunte diverse copie del Matrimonio di fra' Giovanni ristampato a Ginevra è in grado di venderle a un paolo e mezzo l'una, a differenza della già pubblicata edizione di Germania che non poteva darsi a meno di tre paoli l'esemplare». È probabile che questi annunci fossero intesi a coprire il fatto che lo stesso Filippo Stecchi aveva pubblicato una sua edizione: Il matrimonio di fra' Giovanni. Si vende due terzi di fiorino, s. 1. 1789. Fu allora posto all'indice. Cfr. «Giornale ecclesiastico di Roma», 14 novembre 1789, p. 290. Non appena giunsero i francesi in Lombardia questa pièce venne ripubblicata e rappresentata: Il matrimonio di fra Giovanni ossia il fanatismo smascherato. Commedia rivoluzionaria, Si trova presso il cittadino Ranza, [Milano] 1796.
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zioni inestinguibili che egli scorge dietro la tonaca dei frati, e, di riflesso, dietro l'abito d'ogni abitante d'una contrada, come l'Italia, aduggiata dalle idee e dai costumi papalini Malgrado le parti puramente espositive, che sembrano nate piuttosto per un pamphlet di Pilati che per un teatro, l'autore riesce ad imprimere un ritmo alla sua commedia, un crescendo di vituperio, di male parole, di rabbia irreprimibile che esplode alla fine in una vera e propria scena di famiglia non priva di brutale efficacia. Il conte Pacifici finisce per dichiarare che ogni frate era « nato per fare il boia». La negra, o, come egli scrive, la «mora», accetta come marito fra Giovanni «perché so per pruova che nel servizio delle donne tutta l'altra gente è una beffa rispetto a quello che sono i frati». Fra Giovanni stesso si rivolge ad un suo complice che lo aveva abbandonato dicendogli: «O potta di Santa Nuta di merda... Indarno sarei stato frate se non avessi l'animo e l'arte di vendicarmi... Tu sei frate e ben sai cosa è frate» e il. conte Palombi chiude con una ultima battuta: « Tutta canaglia, e frati e sfratati»'. In questa violenza sta un indice dell'impazienza, della rabbia che muovevano allora Carlantonio Pilati. Un'altra faccia della sua personalità e della sua azione, quella pazientemente riformatrice, sta in due libri non suoi, ma che egli curò con impegno, presentò con ampie prefazioni e cercò in tutti i modi di far conoscere. Erano opera dello zio canonico, Andrea Cristiani, che vent'anni per l'innanzi lo aveva istradato per la via dei lumi, e che allora, alla fine degli anni sessanta era l'unico solido legame famigliare che lo tenesse ancora unito alla famiglia e al Trentino '. Facendosi l'editore di questi libri Pilati non intendeva compiere soltanto un doveroso gesto di riconoscenza. Essi rappresentavano per lui un ritorno a quella radice muratoriana e genovesiana sulla quale era poi venuto crescendo il suo phi ardimentoso pensiero. Evidentemente sincera la convinzione di Cristiani che soltanto facendo partecipare anche i contadini al moto riformatore, questo avrebbe potuto acquistare la necessaria forza e solidità. Trepido il suo dubbio sulla possibilità di farsi ascoltare nei villaggi, d'esser in grado di vincere i pregiudizi, le passività, i tradizionalismi d'un mondo isolato, povero, ignorante, senza medici, senza consiglieri, senza guide. Tanto piú sincera la convinzione perciò che il clero secolare, i parroci, i pastori costituivano l'unico strumento possibile per far giungere i lumi anche nelle campagne. Lumi che, anche nell'opera del canonico Cristiani, hanno la loro sorgente nei paesi protestanti e che si volgono al mondo cattolico sperando di poterne mutare la morale, l'igiene, la mentalità di fronte alla Il matrimonio di fra Giovanni cit., pp. 110-r1. Un illuminista trentino cit., pp. 38 sgg. e clesiastici e laici sul Trentino cit., p. 41. 2
Su di lui, cfr. MARIA RIGATTI,
CLAUDIO DONATI,
Ec-
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famiglia, al lavoro, alla salute fisica, al matrimonio, alla scuola Lumi certo molto phi pallidi di quelli di Pilati, ma in cui egli dovette pur riconoscere preoccupazioni non dissimili dalle sue. Il primo libro intendeva insegnare come diffondere la cultura tra il popolo'. L'«Europa letteraria » disse che conteneva «gli avvertimenti piú salutari», che avrebbe potuto essere «di sommo utile a' contadini di qual si sia paese», aggiungendo la propria fiduciosa speranza che «quest'operetta» venisse presto ristampata a Venezia 2 . Pilati era lieto di poter annunciare allo zio, alla fine del 1768, che «le donne di questo paese [Coira] vanno diligentemente leggendo il suo libro e due hanno già dato esecuzione ad alcune delle massime ch'ella prescrive per l'educazione de' fanciulli». «In Italia — aggiungeva — ne vengono di tanto in tanto ricercate delle copie», mentre esso andava diffondendosi «in ogni parte anche phi remota dell'Europa». Certo lo spaccio era lento ma bisognava pur rassegnarsi al normale ritmo di diffusione di opere del genere'. L'anno dopo, 1769, uscivano due tomi intitolati Sere d'inverno o sia dialoghi sopra il miglioramento dell'economia rustica°. Nel luglio Pilati aveva già potuto annunciargli che , erano quasi pronti. Alla fine d'agosto erano usciti 5 . Ancora una volta, come nelle lettere precedenti, egli si assumeva la piena responsabilità della presentazione di quest'opera. La prefazione sarebbe stata calcolata esattamente: «Intorno a ciò Ella si riposi francamente sopra di me: io conosco a quest'ora tanto bene l'Italia che posso giudicare quello che in tali cose convenga» 6. La prefazione che cosí nacque dalla loro collaborazione è un documento particolarmente interessante sulla volontà riformatrice maturatasi alla fine degli anni sessanta. La radice locale, trentina è scoperta. « Vado phi volte pensando e ripensando — diceva — come mai sia possibile che una valle si bella, di natura sua si fruttifera e si vasta come la nostra veggasi sí povera e si sprovveduta del necessario. Ognun che abbia cognizione di questo nostro paese dee meravigliarsi grandemente nel vedere che vi sia tanta povertà»'. Proprio coloro che vi lavoravano «con gran sudori e fatica per guadagnarsi il pane» si vedevano costretti, «nell'avvicinarsi del verno », ad emigrare, lasciando patria e famiglia e tutto ciò era Avvisi alla gente di campagna per bene educare la gioventú rispetto all'agricoltura, a spese della Società tipografica, Coira 1768. 2 «Europa letteraria», torno V, parte I (I° maggio 1769), P. 54. TRENTO, B. Comunale, Mss 457, f. 32, 28 dicembre 1768. 4 A spese della Società tipografica, Coira e Lindò 1769. 5 TRENTO, B. Comunale, Mss 457, ff. 24 e 25, 5 luglio e 27 agosto [1769]. 6 Ibid., f. 24, 5 luglio 1769. Aveva già discusso di questo problema in una postilla d'una lettera dell'I, maggio 1768 (ibid., f. 31), nella quale, di fronte ai dubbi dello zio, aveva riaffermato di non cercar altro che « il proprio onore quanto il bene della patria ». 7 Sere d'inverno cit., vol. I, Prefazione indiretta al nobilissimo signor conte Felice d'Arzt e Vas ecc., capitano delle valli d'Annone e Sole ecc., non pag.
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considerato normale, indifferente anche agli occhi di chi phi avrebbe avuto il dovere di preoccuparsi della sorte di questi uomini «Par veramente che nessuno vi sia che pensi al ben pubblico ed al regolamento di questo paese ». Una trasformazione economica era indispensabile e l'esempio doveva venir dall'alto, attraverso gli esperimenti e le iniziative dei benestanti e degli uomini colti. « Sarebbe certo da desiderarsi che i piú ricchi ed i piú nobili del paese dessero buon esempio ai poveri contadini». Queste Sere d'inverno erano infatti un lungo dialogo tra un proprietario ed un coltivatore, intese a mutare l'intera mentalità agronomica ed economica di tutti coloro che stavano a diretto contatto con la terra. Lo sforzo per uscire dalla miseria era esplicitamente indicato come l'unica via razionale che si aprisse di fronte a loro, mentre false ed illusorie erano tutte le strade tradizionali. Il piccolo commercio locale, la chiesa, la legge, verso cui tutti guardavano, non facevano che aggravare i mali della maggioranza dei lavoratori. «Molti contadini, i quali principiano ad alzare il capo sopra gli altri» abbandonavano i campi e cercavano « di metter in piedi qualche osteria o qualche negozio», o, inerpicandosi per la strada degli studi, si facevano preti o « diventano disperatamente notai». Era compito e dovere della classe dirigente dar loro una nuova mentalità economica, mostrando essi stessi, in prima persona, quale fosse invece la primordiale importanza del lavoro, dell'agricoltura. Gli ecclesiastici dovevano seguire l'esempio di Montelatici. I nobili quello di Pietró il Grande, che lavorava con le proprie mani. Tutti dovevano opporsi alla litigiosità, alla insana passione leguleia delle classi contadine, cosf come alle superstizioni diffuse tra loro. La lotta contro l'eccessivo numero dei preti e degli uomini di legge era premessa indispensabile per una vera trasformazione del paese. Polemica politica, religiosa, economica. L'attività di Pilati negli anni di Coira non si limita a questi, pur vastissimi, campi. Fin da quando era giunto nei Grigioni andava meditando su quella riforma storiografica che il contatto con le università tedesche gli aveva ispirato. La Istoria dell'impero germanico e dell'Italia è forse la meno conosciuta delle sue opere'. Ma a torto. Il suo è un tentativo, il primo in Italia, di far conoscere la scuola storica di Gottinga, seguendo le orme della quale egli ritiene sarebbe stato possibile far compiere un passo decisivo alla storiografia italiana, al di là di Muratori. $ cioè convinto che uno strenuo compito di esplorazione tra documenti, monete, iscrizioni, ancor del tutto ignoti, era indispensabile per scrivere una «storia d'Italia dei secoli ' La istoria dell'impero germanico e dell'Italia dai tempi dei Carolingi fino alla pace di Vest-
falla, Stocholma [Coira] 1769-72, in 2 voll. I primi fogli erano già sotto il torchio nel maggio del 1768, come scriveva ad Andrea Cristiani l'1r di quel mese (TRENTO,
B.
Comunale, Mss 457, f. 3 1 ).
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di mezzo » e che bisognava seguire in questo l'esempio che i tedeschi avevano offerto studiando ed applicando al proprio paese i metodi da loro con tanta cura elaborati. «Giacciono tuttavia — diceva — negli archivi de' principi, delle città e delle persone illustri infiniti documenti, da' quali si potrebbero trarre lumi incredibili. Una immensa quantità di quelli che sono stati messi a luce sono falsi e parti dell'interesse e dell'ambizione... » «La cronologia e la geografia de' bassi tempi, da ognuna delle quali infinitamente dipende la certezza della istoria sono tuttora piene di errori, di confusioni, d'incertezze». Mancavano glossari aggiornati. «Ma quel che piú importa si è che nelle collezioni degli storici dei tempi di mezzo che sono state fatte da' letterati e storici piú illustri del passato e presente secolo non vi si scorge, per dirlo francamente, né ordine, né scelta, né giudizio, né critica veruna». Ben lo avevano dimostrato ormai studiosi come Semler. Era tempo di dar delle edizioni critiche dei testi raccolti da uomini come Leibniz e Muratori. «I dottissimi soci del regio istituto delle scienze storiche a Gottinga» vi si erano accinti ed avevano acceso «nella storia dei bassi tempi un lume chiarissimo», che « partorirà a loro fama immortale». Bisognava intanto astenersi dallo scrivere storie del medioevo, si chiedeva Pilati, in attesa che l'esplorazione e l'opera critica fossero compiute? Troppo grande la volontà politica di Pilati perché egli potesse rispondere di si. Troppo forte la sua passione antipapale per astenersi dal narrare ancora una volta le luttuose vicende che avevano nei secoli rovinato l'Italia. Anche se non era quella storia critica che egli avrebbe voluto, « ci lusinghiamo nondimeno — diceva — che essa possa essere ad alcuni compatrioti che ancora sono schiavi del pregiudizio, della falsità e della superstizione, giovevole...» «Uno scrittore il quale, come noi, s'accinge a scrivere la storia dei tempi di mezzo avanti che sia venuto il tempo di scriverla ed avanti che siano state premesse tutte le disposizioni necessarie ad una tale impresa, soddisfa, per nostro avviso, bastevolmente al suo ufficio se s'ingegna a tutto potere di rendere la storia utile, importante ed istruttiva col liberarla dai miracoli, dai portenti onde è stata da lla superstizione e dalla malizia vituperevolmente mascherata, col purgarla dalle falsità delle quali lo spirito di partito, l'interesse, l'ambizione l'hanno imbrattata e coll'alleggerirla dalle ridicole ed inutili novellette, dalle false massime e dagli stolti principi di cui è stata dalla semplicità e stolidezza indegnamente aggravata»'. La istoria dell'impero germanico e dell'Italia cit., vol. I, Prefazione, non paginata. Cfr. FRANHistory and reform in the middle of the eighteenth century, in The diversity of history. Essays in honour of sir Herbert Butterfield, a cura di J. H. Elliot e H. G. Koenigsberger, Routledge Paul, London 197o, pp. 223 sgg. Il primo volume dell'Istoria venne tradotto in tedesco, and Kegan Geschichte des deutschen Reichs and Italiens, von Karl dem Grossen bis zum westphälischen Friedensschluss, Lindau and Chur 1771. Vedine la recensione nell'« Allgemeine deutsche Bibliothek », CO VENTURI,
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Con la mente Pilati stava dalla parte della scuola di Gottinga. Con l'animo, stava con Giannone e Voltaire. Con il secondo volume della Riforma d'Italia, uscito nel 1769, quasi contemporaneamente alla Istoria dell'impero germanico, Pilati tornava ai suoi temi fondamentali'. Le conclusioni sul passato d'Italia che egli aveva esposto in stile compassato nel suo grosso volume, tornavano qui in forma animata e suggestiva. Vicino ormai alla morte, Carlomagno ripensava alla propria vita e si confessava a Eginardo. «Rispetto alle mie imprese militari e politiche, niuna è di cui i9 tanto mi affligga e per cui tanto tema di avermi attirato l'ira di Dio quanto le cose che ho fatte in Italia... Ho aiutato i papi a dar compimento alla loro ribellione contro gl'imperadori greci, loro veri e legittimi sovrani... Ho distrutto il regno longobardico in tempo che l'Italia aspettava di ricevere da quei re la gloria, lo splendore e la felicità che aveva a' tempi de' romani... Ho serrato per cosí dire l'ingresso a' greci nell'Italia, dai quali quella contrada riceveva le cognizioni delle arti e delle scienze, talché, restando privata di maestri cosí necessari, l'Italia, un tempo piena di lumi, verrà in breve ora, per colpa e vergogna mia, coperta di un'orrida notte...» Peggio ancora, con la sua celebre donazione, egli aveva fatto i papi « signori di una grande contrada d'Italia, con che veggo di avere gettati i fondamenti dell'intera rovina di tutta l'Italia » 2. Eginardo, commosso da queste confessioni e profezie, prendeva a consolare l'imperatore morente, facendo appello al «destino a cui sono soggetti tutti gli stati di questo mondo» e facendogli intravedere un lontano riscatto per l'Italia asservita al papato. «Quel medesimo destino che ora va conducendo l'Italia al suo precipizio, la deve un di far risorgere e le metterà in mano istrumenti potenti per reggersi e sollevarsi». Il veggente scorgeva già, sulla scena italiana, chi sarebbe stato un giorno in grado di rovesciare il regno papale, fondato sulla «codardia, la viltà». Il destino si sarebbe servito a questo fine principalmente «della virai di quella gente che s'è formata un'abitazione maravigliosa colà, nelle lagune del mare Adriatico». Venezia avrebbe un giorno ispirato «all'Italia giacente, col suono di una tromba divina, il vol. XVII, parte II (1772), pp. 467 sgg. La versione pareva al recensore tanto piú utile in quanto, diceva, l'italiano « jetz in Deutschland desto unbekannter zu werden anfängt, je ausgebreiteter sie sonst bey unsern Schrifstellern war». «L'Europa letteraria», torno I, parte II (1769), p. 89, parlava dello « stile anfibio» della « ambigua frase» di quest'opera, sempre pronta tuttavia a far segno dei «piú oltraggiosi epiteti tutti que' monarchi che difesero la Santa Sede e l'arricchirono, chiamandoli bacchettoni ecc.». Le «Novelle letterarie», vol. I (1770), col. 191 scrissero invece che «l'opera in generale è scritta con della chiarezza e dell'espressione ». Sulla coincidenza cronologica, cfr. «L'Europa letteraria», tomo I, parte II (1769), p. 89, recensione alla Istoria, in cui si accenna alla Riforma, di cui «da poco tempo si pubblica una seconda parte ». 2 Di una riforma d'Italia cit., torno II, cap. xv: In cui si mostra che il presente è il tempo piú opportuno di liberare l'Italia dalla tirannia dei pregiudizi e della superstizione,pp. 363 sgg.
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coraggio di alzarsi in piedi, e porgerle una mano nell'atto di risorgere»'. Venezia era allora, nel 1769, all'apice della sua politica di riforma. Esisteva un'iniziativa veneziana che gli altri stati italiani sembravano disposti ad accogliere, a far propria. «Egli è oggimai venuto il tempo di cui parlò Eginardo e l'Italia è già con un piede in alto... Tutti i principi che governano l'Italia sembrano paratissimi a darle ogni soccorso; la maggior parte dei loro primi ministri sono soggetti pieni di saviezza, di umanità e di zelo per liberare questa infelice contrada dallo stato di oppressione in cui è si lungo tempo miseramente giaciuta » 2. Come diceva nel titolo stesso del capitolo da cui queste parole sono tratte, «il presente è il tempo piú opportuno di liberare l'Italia dalla tirannia dei pregiudizi e della superstizione». Tanto piú palese e urgente il dovere degli scrittori. «È obbligo di noi altri d'imgegnarci a tutto potere di sollevare le fatiche e gli studi [dei ministri] coi nostri consigli ed avvertimenti » 3 . Il peso del passato gravava sul presente e rendeva timide, insufficienti le riforme che si andavano facendo. Nelle nuove università non si erano accantonati i pregiudizi religiosi, né si era eliminata la tradizione del diritto romano. Angusto ancora restava «il regno delle scienze», in Italia. «Non si sono erette cattedre per le scienze più importanti, come se la vera scienza dell'uomo non consistesse in tutt'altre cose che in quelle ciance che s'imparano nelle scuole le quali sono state in uso finora» ". Una sola riforma scolastica faceva eccezione, né Pilati diceva di quale si trattasse. È probabile pensasse alla Lombardia, dove il 1769 vide in cattedra Beccaria e Spallanzani 5 . Ma tutte queste incertezze, tutti questi limiti non dissuadevano Pilati dalla sua convinzione essenziale. «Secondo quello che io vado da parecchie circostanze argomentando, egli mi pare che l'Italia sia oggimai condotta a un termine che la non possa piú scansare una grandissima rivoluzione». «Le percosse continue che si danno al papato e al clero e principalmente agli ordini religiosi debbono finalmente produrre qualche ruina e da questa conviene che nasca ad ogni modo una mutazione nelle cose d'Italia» 6. Tutto il movimento degli anni sessanta gliene pareva fornire le prove. «La massima parte delle leggi dei nostri principi ed un buon numero delle opere che vengono stampate sono dirette al fine di far nascere coDi una riforma d'Italia cit., cap. xv, pp. 371 sgg. 2 Ibid., pp. 376 sgg. ' Ibid., p. 377. o Ibid., p. 381. • «La massima parte di codeste riforme, ed anzi non ne va cavata dal numero di queste se non che una di un paese solo, mostrano ad evidenza che gli animi di chi le hanno consigliate erano tuttavia tiraneggiati dai pregiudizi...» (ibid., p. 378). 6 Ibid., cap. xvi: Lettera sopra certi studi degli italiani, pp. 384 sgg. La lettera è indirizzata ad un « Gioseppe carissimo» che, se non è immaginario, resta tuttavia inedentificato.
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testo cangiamento». Certo era impossibile che l'Italia andasse peggio di prima, se non foss'altro per il naturale avvicendamento delle umane cose. «Essendo noi italiani pervenuti e stati fermi per un gran pezzo di tempo nel fondo è necessario che nel mutar fortuna andiamo risorgendo»'. Finalmente tutti si volgevano « a distruggere la smoderata potenza che si è finora acquistata il clero e a mettere qualche argine ai disordini infiniti e straordinari, da quello sf nel governo politico come nella vita comune introdotti». «Questo scambiamento dello stato nostro» andava «a rilento forse pii che non piace a parecchi». Ma anche questo ritmo piú riposato poteva avere i suoi vantaggi: il moto avrebbe toccato un maggior numero di problemi, non concentrandosi in un solo punto, ma riformando la vita religiosa come quella economica, le leggi come i costumi 2 Pilati sentiva, come si vede, che l'Italia stava nel momento decisivo della sua riforma: il ritmo e l'ampiezza di essa avrebbero deciso della sua sorte. Quando le riforme degli italiani « saranno pervenute alla loro maturità faranno senza verun dubbio in guisa che gli stati saranno liberati da una infinità di topi che rodono loro le ossa e le midolla; che i mariti ed i genitori non avranno da stare tutto il giorno a custodire le loro mogli e figliuole perché non siano assalite da' satiri; che i poveri infermi ed impotenti non avranno più da temere che i cani in figura umana aggrappino loro il boccone fuori delle canne della gola», mentre diminuiranno l'«impostura e la superstizione»; la popolazione lavorativa crescerà, «i due mari d'Italia vedranno fendere le loro acque piú spesso che per lo pas sato da patrie navi; le muse avranno meno corruttori e meno gente maliziosamente ignorante intorno a sé», la religione sarà «meno infamata» e la morale migliorata; «i templi della divinità cesseranno omai di essere tanti luoghi profani dove alla giornata concorrono delle truppe di maschere religiose a celebrare il loro carnovale facendovi i saltimbanchi e incantando la gente con musiche lascive»; il Campidoglio stesso sarà liberato dai frati e diverrà il luogo dove verrà «eternata la memoria e la venerazione dei difensori della patria, dei consiglieri savi ed onesti, dei giudici retti, dei distruggitori della falsità e dei pregiudizi e principalmente dei principi virtuosi» 3. Quadro mirabile delle speranze sollevate dalle riforme degli anni sessanta. Con il senno di poi non è difficile sentire il pericolo che insidiava quel moto. La sua dispersione è evidente, ovvia la mancanza di un centro politico, di una forza che tenga insieme queste mille aspirazioni. Il ' Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, pp. 385 sgg. Ibid., PP. 386 sgg. 3 Ibid., Pp. 388 sgg.
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carattere religioso del movimento, quel desiderio che ovunque prorompeva di mutare gli uomini, di farli, al di là di ogni trasformazione giuridica e istituzionale, diversi e migliori, era insieme la sua forza e la sua debolezza. Sospingeva in avanti ministri e scrittori, principi e giornalisti, ma non forniva un centro sul quale tanti programmi potessero convergere, tanti piani trovare la forza necessaria per immettersi nella realtà. Pilati lo sentiva benissimo anch'egli. «Questi rimedi», quelli cioè finora adottati, «non sono sufficienti per liberare l'Italia da quegli7infiniti guai che l'affliggono». Non era bastevole combattere «la pedanteria, la poesia puerile, l'eloquenza indegna, la giurisprudenza deforme, la teologia rabbiosa», cose tutte che, come Pilati scriveva con parole che paiono di Goya, «producono dei mostri». Bisognava finalmente «appiccare il fuoco» a tutte queste accumulate brutture. «Voglio ancora io colla mia sferza cacciare insieme i miei pedanti tristi, i miei poeti insulsi, i miei oratori infami, i miei giuristi bestiali e i miei teologi del diavolo» '. Sperava fermamente che, intensificando la volontà riformatrice, dando maggior impeto alle riforme, parlando con tono piú violento e concitato sarebbe stato possibile vincere gli ostacoli che egli giustamente sentiva ancor tanto forti e tenaci. Era generosa illusione. La dispersione degli obiettivi rimaneva, l'assenza d'un centro propulsivo non era colmata. Un aurorale senso di patria non poteva bastare, anche se Pilati l'esprimeva, come abbiamo udito, con accenti che intendevano essere profetici. Piú vicina alla realtà era l'altra intuizione che sta in queste sue pagine, l'idea cioè che la lotta contro il papa e contro la morale cattolica costituivano di fatto l'unico centro unificatore del moto riformatore tutt'intero. t il suo écrasez l'in f âme. Ma, a differenza di Voltaire, egli era trattenuto da mille esigenze pratiche e politiche. Se voleva influire sui suoi contemporanei doveva continuare a porsi nell'ambito ed entro i limiti del cattolicesimo. Se intendeva farsi ascoltare da chi aveva il governo degli stati italiani, non poteva fare come Fortunato De Felice che s'era fatto protestante. Troppo bene Pilati conosceva il riformismo italiano, troppo era legato alle sue speranze e troppo cosciente dei suoi limiti per porsi al di fuori di esso. Il suo proprio compito, egli lo sapeva benissimo, era quello del riformatore illuminista italiano, con tutte le difficoltà, ma anche con tutta l'appassionante complessità dell'impegno che questa posizione presupponeva. Il moto degli anni sessanta in Italia non era una riedizione, rivista e migliorata, della riforma protestante. Né era l'incipiente rivoluzione illuminista dei postenciclopedisti francesi. Era la scoperta, da parte di un crescente numero di intellettuali e di Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, pp. 392 sgg.
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uomini politici italiani, d'un nuovo rapporto con la chiesa e lo stato, con i contadini e i cittadini, con la legge e la scienza. Il rovescio della medaglia non era difficile da scoprire: i ministri e gli scrittori illuminati, ai quali era affidato un compito tanto importante, in Italia, erano pochi, quasi annegati in un gran mare d'ignoranza e di corruttela. Quasi quasi — anche se egli non lo dice — si potevano contare sulle dita delle mani: «i conti Firmian, i marchesi di Felino, i marchesi Tanucci ed alcuni veneti senatori e delle piccole società di milanesi, di veneziani e di napoletani, per opera de' quali un dí, se qualche gran rovina non gli sfracella tutti, deve l'Italia ricevere di nuovo quello splendore ch'ella aveva quando i Livi, i Sallusti ed i Cesari scrivevano le storie, i Virgili e gli Orazi poetizzavano, i Ciceroni e gli Ortensi arringavano, i Servi Sulpizi la legge spiegavano ed i Catoni moralizzavano». «Ma intanto », si affrettava ad aggiungere, i nemici restavano potenti, «quelli animalacci immondi vincono cosí smisuratamente di numero e di potenza le persone savie e culte ed essi tengono nelle loro branche grifagne stretta tutta l'Italia»'. Isolamento che permetteva ai predicatori nelle chiese e fuori di esse di prendersela con «i cicisbei ed i filosofi», invece di colpire, come sarebbe stato loro dovere, «gli usurieri furbi, gli avvocati maligni» e altra simile genia di persone 2 . I filosofi non potevano che far appello ai principi, dicendo loro che la situazione non poteva durare. « Se la non si cangia, i sudditi rovinano e il padrone conviene che rovini con essi»'. Similmente dovevano rivolgersi ai padri di famiglia invitandoli a chiudere la porta di casa in faccia « a quella marmaglia che predica l'ozio e ch'è piena di tutti i vizi che nascono dall'ozio». Dovevano infine rivolgersi alla «gioventù che studia» perché buttassero via i libri frateschi e si rifacessero ai classici. «Imparate il franzese, l'inglese e s'è possibile il tedesco... Spezzate le catene onde tengonvi fieramente legati i vostri tiranni scolastici, uscite in libertà, armatevi di giudizio, di buon gusto e di virtù e vendicatevi di chi ha messo ogni cosa in opera per guastarvi la mente, la religione ed i costumi» ` Soltanto i filosofi avrebbero potuto prender la testa del moto delle riforme. Soltanto loro avrebbero evitato all'Italia la iattura «di essere cavata da una buca di fango e gettata in un'altra, non già del tutto, ma però quasi simile alla prima » 5 . Che nessuno riponesse la propria fiducia in coloro che tenevano «nello stesso tempo del cattolico e dell'antiromano» e che si mascheravano di Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, p. 425. z Ibid., pp. 43 1 sgg. Ibid., 5 P. 447• ° Ibid., pp. 45 0 sgg. 5 Ibid., pp. 462 sgg.
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strane e misteriose formule'. La filosofia, per essere efficace, doveva liberarsi di tutte le scorie del passato, essere semplice e diretta. Solo a questo patto sarebbe stato possibile giungere a quella che Pilati chiamava talvolta una «riformazione» 2. In questa luce anche l'opuscolo La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti gli parve ambiguo e pericoloso, troppo moderato e troppo astratto ed egli lo attaccò violentemente. L'autore non aveva capito quale o quanta fosse l'importanza dell'ambiente, della cultura nella formazione delle opinioni dei singoli. Privo com'era di sensibilità e volontà politica aveva osato sostenere che il celibato ecclesiastico non era una delle ragioni essenziali della decadenza dei paesi cattolici. « Se a costui si dicesse che l'abolir il celibato, almeno con lo sterminare i frati, sarebbe anzi una delle principali maniere di riformare il sistema politico, egli non troverebbe certamente nella sua filosofia alcuna regola che gli potesse far comprendere questa proposizione». Eppure la cosa era evidente. Bastava guardare «ciò che si è ottenuto ai tempi di Lutero e di Calvino in quei paesi dove si sono distrutti tutti a un tratto e quasi impensatamente non solamente i frati, ma anche tutti gli altri generi di vita celibe» 3 . Bastava ancora una volta osservare l'Olanda, la «povera, depressa e tiranneggiata Olanda», la quale, attraverso il suo passaggio al protestantesimo, era riuscita a metter fine alla scioperataggine ed aveva cosí gettato le basi della propria prosperità `. Eppure gli scrittori, i filosofi che si muovevano sotto il segno della «prudenza» non riuscivano a capire la necessità di simili drastici mutamenti. «Imperocché essi dicono che bisogna tenere la via di mezzo e non pretendere di alterare e rinnovare troppe cose, a fine di non esacerbare la gente e in ciò credono eglino consistere il fiore della prudenza. Ma non cosí l'avrebbero appellata gli antichi romani, né gli altri maestri di po litica. Questa non è prudenza, ma stoltizia... Questo seguire la strada di mezzo, ch'essi con tanto calore raccomandano, non toglie mai i disordini che stanno dai due lati, i quali sono sempre i peggiori di tutti. Or s'essi intendono di non voler torre via altro che i disordini piccioli, farebbero più senno a starsi quieti del tutto e a non ingombrare la via coi loro corpi grossolani o infingardi». Peggior strada non c'era di quella indicata da simili «anime vili»; che non intendevano fosse « scavata la radice onde que' mali ed altri maggiori provengono». La loro «mancanza d'animo» era vizio largamente diffuso tra studiosi e scrittori italiani 5 . «Di fatto questa razza di filosofi non può essere differente Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, p. 463. Ibid., p. 485. 3 Ibid., P. 470. 4 Ibid., p. 474. 5 Ibid., PP. 475 sgg.
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da quella che è». Era gente incapace di andar fino in fondo nell'esercizio del proprio mestiere. «Chi gli esamina uno per uno ritrova che sono tutti disertori o della giurisprudenza, o della teologia, o della poesia», capaci unicamente di «ringhiare e latrare contro certe taccherelle di lieve momento», risparmiando invece « tutte le deformità pii orribili Qualche segno che simili esortazioni fossero finalmente ascoltate non mancava. A Napoli si era sulla buona strada. All'università, la nuova cattedra degli uffizi avrebbe presto permesso alla «gioventi napoletana » di « strignersi nelle spalle e far bocca da riso al sentire i discorsi assurdi dei teologi moralisti » 2 . «Le cattedre di matematica addestreranno i giovani a mostrare il viso alla falsità » ;. « Che il governo invigili che in quel regno, che ha prodotto dei Giannoni e in cui vivono tuttavia degli spiriti pieni di vera dottrina e di una onesta libertà di pensare, non vengano occupate le cattedre di storia da gente infetta dalle massime e furberie della vicina Romagna»'. Ma tutto ciò non era sufficiente. Bisognava creare scuole per i fanciulli, introdurre in esse le scienze utili alla vita pratica, e, nelle università, riorganizzare completamente l'insegnamento delle belle lettere, togliendo finalmente di mezzo quel «pensar vile, abbietto e sporco che s'appicca alla gioventù nelle scuole» 6. Tasso e Ariosto dovevano esser banditi. La nuova cattedra di letteratura avrebbe avuto lo scopo d'«ispirare per tempo alla gioventù un odio ed un'abominazione somma per la massima parte di questi nostri scrittori italiani che vengono riputati per gli umanisti i pii colti e i pii sensati » 6 . Il terreno era cosí energicamente spazzato per un ritorno, effettivamente neoclassico, all'antichità e soprattutto per una immissione di cultura, di critica, di letteratura tedesca, che Pilati desiderava fosse compiuta nelle scuole italiane a dosi massicce. Certo Boileau, Dubos e Batteux, ma soprattutto, come egli elencava, «Bodmer, Breitinger, Baumgarten, Schlegel, Rammler, Moses, Lessing, Hagedorn, Klotz, Winkelmann, Riedel »'. Questi avrebbero finalmente messo in ombra un « oratore fratacchione» come il padre Segneri, cosí come gl'innumeri suoi seguaci o imitatori 8 . Tra i tedeschi stessi bisognava star ben attenti a scegliere i protestanti. Gli altri non valevano pii dei nostri 9 . Anche nello studio della politica, delle leggi, dell'economia, bisognava rifarsi ai tedeschi, ma non cattolici. `.
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Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, pp. 479 sgg. Ibid., p. 487.
Ibid., p. 490. ° Ibid., P. 492• e 6 8 9
Ibid., p. 505. Ibid., pp. 506 sgg. Ibid., p. 508. Ibid., p. 519. Ibid., p. 569.
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Era tutto fiero che la «Allgemeine deutsche Bibliothek», parlando di quanto egli aveva scritto in proposito nella prima parte della Riforma, non solo l'avesse approvato, ma avesse aggiunto che eran «regole le quali meriterebbero di essere osservate anche ne' paesi de' protestanti»'. Quanto all'insegnamento della medicina, l'ispirazione di Pilati veniva invece — ed è curioso notarlo a testimonianza della larghezza dei suoi interessi cosmopolitici — da «un medico portoghese che fu lungo tempo in Olanda, Germania e Moscovia» e cioè Antonio Sanches, figura effettivamente notevole di riformatore lusitano 2. Lavoro enorme, insomma, quello compiuto da Pilati a Coira negli anni che avevano seguito immediatamente il primo volume della Riforma d'Italia, apparso nel 1767. Era riuscito ad animare e a far produrre ad un ritmo straordinariamente veloce la Società tipografica. Aveva stabilito rapporti commerciali con molti centri italiani, soprattutto con Venezia e con Napoli . Era riuscito a diventare non soltanto uno scrittore ormai influente e ben noto, ma un editore capace insieme d'onestà e d'efficenza. Guardava per questo a Pasquali, a Venezia, o a «qualche altro onorato stampatore», mentre rigettava lontano da sé il modello, l'esempio di speculazione libraria che offriva allora, sempre nella repubblica di San Marco, un imprenditore come il Remondini Poca stima aveva ormai degli altri editori veneziani. Non di Zatta, con cui nulla pii ebbe in comune. E neppure di Graziosi, «l'iniquo Graziosi» da lui accusato di aver voluto profittare per proprio conto della fama che aveva cominciato a circondare l'autore della Riforma d'Italia. Ma era tutta l'organizzazione della produzione e della vendita dei libri in Italia, più ancora della censura, che opponeva non piccoli ostacoli all'espansione della Società tipografica'. Questa fini per entrare in crisi. Già nel 1769 il disinteressato slancio iniziale che aveva unito patrizi grigionesi, librai tedeschi e lui, libero scrittore trentino attorno a questa impresa cominciava ad appesantirsi. Fin dal 1767, Pilati aveva cercato di trovare qualche controassicurazione alla sua precaria posizione di libero intellettuale, sperando sempre di trovare una potenza lontana, prima la Danimarca e poi la Prussia, che gli desse qualche maggiore sicurezza, qualche non gravosa protezione. Il 18 febbraio 1768 scriveva allo zio: «quanto prima avrò ' Di una riforma d'Italia cit., cap. xvi, pp. 58o sgg. Ibid., p. 597. Cfr. DAVID WILLEMSE, Antonio Nunes Ribeiro Sanches, élève de Boerhaave et son importance pour la Russie, E. J. Brill, Amsterdam 1966, soprattutto pp. 24 sgg. sui suoi progetti di riforma dell'insegnamento della medicina. Sanches lesse e commentò Di una riforma d'Italia, nella versione di Jean Manzon. Cfr. PIERRE VAN BEVER, La religion du docteur Nunes Ribeiro Sanches, in Studies on Voltaire and the eighteenth century, Institut et Musée Voltaire, Genève 1966, vol. 2
XLI, p. 281. Tutto il carteggio con Andrea Cristiani è di grande interesse per conoscere l'aspetto editoriale dell'attività di Pilati a Coira, soprattutto la lettera del 5 luglio 1769 (TRENTO, B. Comunale, Mss 457, f. 24). 12
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un carattere da una potenza e benché non lo abbia ricercato, mi viene scritto che avrò ancora un salario per quello. Ed il carattere sarà tale che sorpasserà ogni mio merito ed ogni mia speranza»'. Il 17 dicembre di quell'anno riceveva infatti la nomina a consigliere del re danese Cristiano VII. Il diploma portava la firma del ministro Bernstorff, tanto lodato da Voltaire per le sue illuminate riforme 2 . Quando, nell'autunno del 1769 decise di lasciare Coira e di passare a Venezia, disse d'aver cosí ubbidito ad un « ordine del suo re» 3 . Ma in realtà le ragioni del suo viaggio erano ben diverse. Quel che poteva fare nei Grigioni pareva ormai esaurito. Parallelamente a tutto il moto riformatore di quegli anni, anche la sua prospettiva era andata rapidamente allargandosi. Era partito con lo sguardo fisso sul Trentino, in violenta polemica con la sua piccola patria. Ora guardava all'Italia tutta intera, alla quale era andato sempre pii consciamente ricollegando i suoi appelli. «La nostra patria è l'Italia», scriveva allo zio subito prima di partire. A questa «patria in generale» bisogna rivolgere gli sguardi. Ormai il Trentino era diventato ai suoi occhi «il luogo pii immondo, dove vi stanno solamente gli insetti pii sporchi»'. La situazione sembrava f avorevole ad una azione pii larga. Clemente XIII era morto. Papa Ganganelli era stato eletto. Era tempo di cercare di agire direttamente, in prima persona, da un centro importante e non pii ormai da quella libera, ma lontana periferia che era la repubblica grigionese. Pensò naturalmente alle terre imperiali. «Il conte Firmian, informato previamente della mia partenza da Coira mi fece scrivere che io potrei trattenermi a mio piacimento nella Lombardia e che se volessi andare a riverirlo mi accoglierebbe con piacere» s. La soddisfazione era tanto maggiore in quanto Firmian era di Trento: le parole del ministro suonavano come riparazione delle persecuzioni che continuava a subire. Il processo che a Trento venne intentato contro di lui nell'inverno 1768-69 e che si concluse, il 29 aprile, in una condanna e in un bando gli impediva per il momento il ritorno in patria, anche l'avesse voluto. «Io non solo non farò niente per ottenere la revoca — si affrettava ad aggiungere il 3o agosto —, ma quand'anche qualche amico me la ottenesse, la rifiuterei; troppo sono stomacato di tante cabale» 6 . E neanche la Lombardia lo attrasse. Pensò un momento di raggiungere Napoli, dove i suoi scritti avevano avuto un'accoglienza singolarmente favorevole. Ma, in viaggio, a Ferrara, gli TRENTO,
B. Comunale, Mss 457, f. 21.
Un illuminista trentino cit., p. 98. B. Comunale, Mss 457, f. 29, s. d. Ibid., f. 24, 5 luglio 1769. 5 Ibid., f. 29, s. d. 6 MARIA RIGATTI, Un illuminista trentino cit., pp. xo6 sgg. 2
MARIA RIGATTI, TRENTO,
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giunse la notizia della caduta del ministro danese Bernstorff. Non poteva pii contare sull'appoggio di Cristiano VII. Venezia divenne la sua grande speranza. Già lo abbiamo sentito mettere nella bocca di Eginardo la profezia che la repubblica di San Marco sarebbe stata un giorno la protagonista della riforma italiana. Ancora qualche anno pii tardi, in una temperie ormai completamente mutata, egli darà nei suoi Voyages un quadro tutto ombre e luci, ma dove traspariva ancora la fiducia che egli mise un momento nella capacità di uomini come Andrea Tron di portare l'opera di trasformazione religiosa e politica pii avanti d'ogni altro stato della penisola'. E cosí cercò di far di Venezia il centro della sua azione. Il 24 ottobre scriveva da Padova al suo mecenate grigionese Ulysses von Salis ancor tutto stupito dell'accoglienza che aveva trovato, della libertà con cui aveva potuto circolare, nei giorni precedenti, di villa in villa dei patrizi veneti. Gli dava dettagliate notizie della guerra tra russi e turchi, che stava mutando la situazione nel Mediterraneo, gli spiegava le precauzioni che eran necessarie per comunicare con lui e finiva col firmarsi con il nome di Corrado Planche 2 . Allo zio Cristiani diceva pure dell'ottima accoglienza ricevuta e parlava delle riforme in corso a Venezia'. Situazione incerta e pur promettente che gli fece un momento intravedere grandi probabilità nel futuro. La sorveglianza, la diffidenza, la corruzione, l'atmosfera soffocante erano a Venezia fatti indubitabili, ma altrettanto certa era la presenza d'un nucleo di patrizi e di scrittori aperti ai programmi pii arditi. «Il y a parmi les nobles vénitiens quantité de personnes éclairées et libres de tout préjugé; ils s'appliquent indifféremment à toutes les sciences, mais celles qu'ils cultivent le plus sont les belles lettres, l'histoire et la politique. Il me paroit que des gens destinés au gouvernement ne souroient pas choisir des sciences plus utiles». Il clima di ripresa della tradizione, la rinascita sarpiana degli anni sessanta accoglievano cosí Pilati e suscitavano nell'animo suo nuove speranze. Anche la polemica contro coloro che tentavano di risolver tutto con la maVoyages en différens pays de l'Europe cit., vol. I, pp. 194 sgg. Ein genialer Abenteurer cit., pp. 129 sgg. Cfr. pure la lettera
2 META VON SALIS-MARSCHLINS,
ad Andrea Cristiani, TRENTO, B. Comunale, Mas 457, f. 29, s. d. «Porto il nome di Corrado de' Planche, nome che mi sono preso unicamente per la vicinanza dei malvagi trentini, perché nello stato veneto il Pilati è protetto dal pubblico, dai privati le sue opere sono lodate ed i frati hanno interamente fiaccate le corna, talché, lungi dal porsi ad offendere altrui, sono contenti di essere lasciati in pace essi medesimi. Rispetto a questi dello stato veneto si sono messe in pratica due massime suggerite dall'autore delle Riflessioni, l'una delle quali si è di non permettere che alcuno non si possa far frate senza la licenza del principe e che il principe non la conceda mai a chi può essere in istato di servire per qualsivoglia maniera il pubblico» (ibid., cfr. ENRICO BROL, Carlantonio Pilati a Venezia, estratto da «Pro Cultura », fase. x [1912], pp. 8-9). Vedi pure (ibid., p. 8) la lettera dei primissimi di novembre 1769 a Giuseppe Bassetti, da Padova, in cui parlava della sua visita ad Agnolo Querini, nella villa di Altichiero, dei suoi rapporti con altri nobili e con i professori padovani.
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tematica, polemica viva a Venezia in quegli anni, trovava consenziente l'animo suo. Ancora parecchi anni pii tardi ricordava il discorso d'un patrizio contro questo tipo di « science mathématique... qui n'est bonne à rien, qui ne produit rien de réel ni d'utile». I seguaci di questa vana scienza erano frati e ciò era una prova evidente delle errate conseguenze pratiche a cui approdavano le loro teorie. Meglio sempre il semplice ragionamento dei contadini e degli artigiani. «Ces grands raisonneurs n'ont jamais inventé qu'une manière de vivre folle et contraire à celle des autres hommes»'. Par difficile non riconoscere in queste parole una satira di Ortes, che non solo era frate, ma traeva dai propri studi conseguenze politiche diametralmente opposte a quelle dei patrizi riformatori. A uomini come lui Pilati vedeva contrapposto il piccolo gruppo raccolto attorno a Andrea Tron, « de tous les ministres d'état de ce temps, celui qui a fait le plus de bien à sa patrie» 2 . «Si l'on peut jugerr par les livres que des personnes de sa connoissance, qu'il protégoit, ont publié, je crois qu'il auroit insensiblement fait abolir tous les ordres de moines et permettre le mariage aux prêtres » 3 . Forte era l'opposizione contro di lui, ma, nell'autunno del 1769, Pilati pensò di poter diventare uno degli interpreti e degli esecutori della politica dell'attivissimo senatore 4 . Pare ambisse addirittura alla carica di consultore. Certo non era possibile trovar meglio per chi intendeva porre uova illuministe nel nido giurisdizionalista. Anche per lui, come per Montegnacco e Contin, le opposizioni furono tuttavia troppo forti ed egli ripiegò su una cattedra di diritto pubblico a Padova. Ma anche questo restò un progetto. La cattedra fu affida ta ad Angelo Fabro, che la tenne per breve tempo, perdendola ben presto in seguito alle vicende che abbiamo visto. Comunque Pilati visse qualche tempo nell'ambiente di Tron, di Valaresso, di Caterina Dolfin, del consultore Gian Battista Billesimo, del libraio Pasquali. Giorni entusiasmanti, in cui sempre piú egli si convinse che nella repubblica di San Marco, «les sujets les plus sensés et les plus éclairés se trouvent dans le sénat», ma che sotto di loro, tra pubblicisti e scrittori, grandi invece erano il misoneismo e l'ignoranza 5 . Quel che era accaduto a Venezia al momento della pubblicazione del libro di Beccaria, il terribile granchio preso dalla magistratura di sorveglianza, era una prova deprimente delle paure, delle prevenzioni, delle stupidità del vecchio stato veneziano. «Les inquisiteurs d'état d'alors» si erano dimostrati ancora una volta Voyages en différens pays de l'Europe cit., vol. I, pp. 204 sgg. Ibid., p. 208. Ibid., p. 209. 4 GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron cit., pp. 29 sgg. Voyages en différens pays de l'Europe cit., p. 210. 2
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« des gens soupçonneux sans aucune teinture de lettres»'. Contro questa spessa coltre di pregiudizi uomini come Gasparo Gozzi erano riusciti a prevalere soltanto con grandi difficoltà. I riformatori parevano affondare nella melma dei vizi, delle indifferenze, delle frivolezze d'un mondo di monache libertine e di monaci invadenti e pettegoli, «aussi incommodes que les espions » 2 . Grande era la tolleranza, anche per quel che riguardava gli eretici. Quel che mancava, concluse Pilati, era un terreno su cui potessero poggiare solidamente i piedi quei patrizi che con tanta intelligenza, cultura e buona volontà intendevano mutare gli animi, e le cose di Venezia. La campagna ortodossa che si scatenò contro Pilati fu molteplice e violenta. Già il 1° di dicembre si senti gravemente minacciato e chiese aiuto a Trento al suo amico Bassetti'. Sospettò che fossero stati i suoi nemici a far stampare nelle «Notizie del mondo» una denuncia della sua presenza a Venezia. « Sono piú giorni — vi si leggeva il dicembre — che qui trovasi il celebre dottor Pilati sotto nome di Casimiro cavaliere sassone e dicesi che aspetta d'esser dichiarato dal re di Danimarca suo ministro alla corte di Napoli. In questo frattempo lavora sopra la sua opera già pubblicata e che porta il titolo Riforma d'Italia per darla alla luce piú esatta e piú completa della prima edizione » 4. Dei frati avrebbero dichiarato che non sarebbero rimasti a Venezia se Pilati era nominato consigliere. Non mancarono di quelli che parlarono di coltellate. Anche tra coloro che si erano mostrati suoi amici, ci fu chi lo abbandonò. Fini con l'incolpare della sua « tragedia » il consultore Billesimo, il padre Busa e il padre Fortis, invidiosi delle sue ambizioni politiche ed accademiche 5 . Il 3o dicembre 1769 gli inquisitori di stato trassero le conseguenze pratiche di simili considerazioni. L a fecero arrestare e accompagnare a Pontelagoscuro, intimandogli lo sfratto dallo stato veneziano, pena la vita. La giustificazione di questa espulsione era eloquente: « Il dr. Carlo Antonio Pilati, trentino, troppo celebre autore di libri empi e sovversivi..., essendo... comparso in questa dominante da pochi giorni, mentendo nome e patria ed essendo stato riconosciuto e sparsa essendosi la fama del di lui arrivo, era frequentato da molte persone, che, volendo far secoVoyages en dilférens pays de l'Europe cit., p. 211. 2 Ibid., p. 265. 3 ENRICO BROL, Carlantonio Pilati a Venezia cit., pp. II-12. «Notizie del mondo» , n. 98 (9 dicembre 1769), p. 8o1, corrispondenza da Venezia del 2 dicembre. Cfr. ibid., n. 2 (6 gennaio 1770), p. II, corrispondenza da Venezia del 3o dicembre 1769, in cui si smentiva la possibile nomina a rappresentante di Cristiano VII, «benché i1 soggetto sia molto erudito e celebre nella repubblica letteraria». Cfr. META VON SALIS-MARSCHLINS, Ein genialer Abenteurer cit., pp. 132 sgg., a Baldassarre Zini, 2 gennaio 1770; pp. 135 sgg., a Ulysses von Salis, 24 gennaio 1770; ENRICO BROL, Carlantonio Pilati a Venezia cit., pp. 17 sgg., lettera a Giovanni Dall'Armi, 2 febbraio 177o e a Bassetti, 25 febbraio 1770.
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lui pompa di talento, malamente però impiegato, gustavano li rei di lui principi, insinuandoseli nella mente e nel cuore a perdizione di se stesse e di altre che potrebbero essere purtroppo facilmente sedotte ed allettando il reo maestro a trattenersi nella dominante colla lusinga di procurargli onorevole stato»'. L'ipocrisia del piccolo e meschino sottobosco veneziano non poteva trovare migliore espressione. Pilati tuttavia, pur cosí espulso, non dimenticò mai che accanto a non poca tortuosa bassezza, aveva trovato a Venezia anche vigorosi virgulti riformatori e illuministi 2. Anche pii ambiguo e traditore il piccolo mondo trentino nel quale sperò un momento, nei primi mesi del 177o, di riuscire a rimetter piede. Spinto dagli amici impauriti a metà gennaio passò le montagne piene di neve e, transitando per Tirano, si ritrovò a Coira, deluso, stanco, quasi disperato e deciso ormai a non farsi pii vedere in Italia'. Ma le sue avventure al di qua delle Alpi non erano concluse. La sua condanna a Trento fu revocata, forse per intervento di Giuseppe II e nel maggio egli era di nuovo a Tassullo. Ogni volta il contatto con il mondo cattolico italiano lo faceva rabbrividire, con le sue processioni, i suoi parroci e i suoi frati'. Ma ancora una volta si era riaccesa in cuor suo la speranza di poter ottenere un incarico in cui gli sarebbe stato possibile operare per le proprie idee. Il vescovo principe lo ricevette bene. Trovò appoggi ed amici. Vienna, Innsbruck, Milano, sembravano volgersi a suo favore. Volle seguitare da Tassullo il lavoro di collaborazione con le edizioni grigionesi, consigliando libri e continuando ad occuparsi della sua Istoria dell'impero germanico. Gli parve un momento, nell'inverno 1770-71, aver trovato una possibilità di operare tanto in patria che fuori, tanto come scrittore che come consigliere politico. Ma fu anche l'ultimo suo tentativo. Il margravio di Ansbach nella primavera del 1771 lo nominò professore all'università e consigliere di corte. Nel giugno egli era a Erlangen 5 . Fu l'inizio d'una nuova fase della ENRICO BROL,
Carlantonio Pilati a Venezia cit., p.
15 e MARIA RIGATTI,
Un illuminista trentino
cit., pp. 112 sgg. La scena è raccontata con curiosi dettagli nella lettera a Ulysses von Salis del 14 gennaio 1770 pubblicata da META VON SALIS-MARSCHLINS, Ein genialer Abenteurer cit., p. 236. 2 Un decennio piú tardi Caterina Dolfin, divenuta procuratessa Tron gli rimproverava ancora, pur tra mille profferte d'amicizia, questo suo atteggiamento insieme critico e ammirato per la Venezia che lo aveva accolto e cacciato. Cfr. ENRICO BROL, Carlantonio Pilati a Venezia cit., pp. 23 sgg. e TRENTO, B. Comunale, Mss 2433, f. 36, 29 settembre 1780. • META VON SALIS-MARSCHLINS, Ein genialer Abenteurer cit., pp. 137 sgg. a Ulysses von Salis, 14 gennaio 1770; ENRICO BROL, Carlantonio Pilati a Venezia cit., pp. 17 sgg. e MARIA RIGATTI, Un il-
luminista trentino cit., p. 114.
• Cfr. META VON SALIS-MARSCHLINS, Ein genialer Abenteurer cit., pp. 139 sgg., a Battista von Salis Soglio, 5 maggio 1770. Ibid., alla Società tipografica di Coira, 10 giugno 1771. La notizia era riportata nelle «Novelle letterarie», vol. II (1771), col. 704, dove si diceva tra l'altro che egli era autore «di un libro che ha fatto strepito senza meritarlo, intitolato la Riforma d'Italia e d'altre cose di simil calibro».
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sua agitata « fruttifera vita di scrittore cosmopolita». Già nel settembre del 1771 era all'Aia, per poi passare a Londra. Entrato nell'orbita di Federico II, dovette accorgersi che non era questo un sovrano con cui si potesse tentare di agire di testa propria, come aveva fatto con la Danimarca. Invano tentò, nel 1773, di operare ancora nel Trentino'. Del 1 774 - 75 è la lunga peregrinazione lungo tutta la penisola compiuta con l'avaro appoggio del re di Prussia, che Pilati stesso ci ha narrato nei suoi Voyages. Poi sempre più andò staccandosi dall'Italia, tornandovi soltanto negli anni della rivoluzione francese, in un clima ormai profondamente mutato. Il suo generoso e ardito tentativo di inserirsi nel moto riformatore al passaggio tra gli anni sessanta e i settanta si era chiuso con una almeno apparente sconfitta 2. Restava, a testimonianza della sua intelligenza e passione, l'opera sua maggiore, Di una riforma d'Italia e gli altri libri ed opuscoli che l'avevano accompagnata. «Je n'ai rien à dire contre votre voyage a Trente, mais je ne saurois vous faire [des] appointements de quatre mois et demi que vous venés de me demander par votre lettre. Je ne vous dissimulerai plustôt point que ces longues absences ne me plaisent nu[liement]. Sur ce je prie Dieu qu'il vous ait en sa sainte et digne garde. Posdam ce 9 de juin 1773 » (TRENTO, B. Comunale, Mss 457, f. 3). Cfr., su problemi dello stesso genere (ibid., f. 6), la lettera da Berlino del 19 maggio 1774 di Giovanni da Castiglione. 2 Quale fama egli si fosse acquisita nelle terre piú conservatrici di Italia è dimostrato da una sorta di circolare diffusa dalla segreteria di Sua Maestà Sarda, che si trova riportata in una comunicazione della cancelleria di Milano (MILANO, AS, Cancelleria, Letterati, Carteggio, Pilati): « Informata S. M. S. che possa giungere e fermarsi in codesta città certo Pilati, da alcuni chiamato canonico, da altri dottore ed avvocato, soggetto assai pernicioso alla società per i libercoli de' quali si fa autore e per le dottrine che suole spargere nel pubblico, contenenti massime erronee e non tanto contrarie ai principi di religione quanto atte a produrre sconcerti in un ben regolato governo, commanda che... nel caso vi capiti, faccia attentamente vagliare sovra la di lui condotta e, trovando fosse tal quale è stata definita, immediatamente avvisi per averne la sovrana mente».
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corti. Fu proprio questa diplomatizzazione, già evidente nella battaglia attorno a Parma e fattasi poi sempre più palese nelle segrete mene che avevano accompagnato il conclave, a far cadere il tono e a sminuire il vigore della polemica dopo il 1769, a permettere il ristabilirsi, sia pure lento e incerto, di quell'equilibrio o compromesso tra stato e chiesa che era andato incrinandosi e sfaldandosi sotto i colpi della controversia degli anni precedenti Come ben presto si vide, le corti borboniche concentrarono i loro sforzi su un unico obiettivo, la soppressione della Compagnia di Gesù. Finirono con ottenerla da Clemente XIV, ma questi ebbe in cambio un maggior appoggio, a Lisbona come a Parigi e soprattutto a Madrid, nel suo sforzo di far fronte ad altre, più lontane minacce, dai philosophes ai tentativi di liquidazione dei beni delle chiese, dalla trasformazione delle scuole ad una mutazione dei costumi e delle idee. Papa Rezzonico aveva resistito fino all'ultimo. Papa Ganganelli cedette, promise di farla finita con i gesuiti, cercò la conciliazione anche con coloro che più aspramente si erano opposti alla Santa Sede, come il Portogallo e Parma. Fu largo di sorrisi e di concessioni. Di fronte a questa diplomazia della comprensione e della conciliazione molti pensarono d'aver raggiunto i propri scopi e cantarono vittoria, altri cercarono di profittare al massimo del mutamento di rotta della curia. Nelle fila dei riformatori ciò portò all'allentarsi, al dissolversi di quell'unione tra antigesuitismo, rigorismo, giansenismo, lotta contro i privilegi del clero, polemica illuminista, unione che era andata formandosi e rinsaldandosi attraverso un decennio. Ognuno degli elementi insieme confluiti tese a riprendere la propria strada, certo con andatura diversa dopo l'esperienza insieme compiuta, ma anche senza lo slancio che li aveva accomunati nella battaglia contro Clemente XIII. Il pontificato di papa Ganganelli segnò, e non in Italia soltanto, l'anticlimax del moto riformatore degli anni sessanta. La radice dell'atteggiamento di Clemente XIV stava non tanto, o per lo meno non soltanto nella sua, pur evidente, debolezza e incertezza di carattere, quanto nella coscienza, che era profonda in lui, della fiacchezza, della fralezza dello Stato pontificio e del papato stesso. Sapeva benissimo che la moderna «filosofia menzognera » godeva «d'un grandissimo credito a' tempi nostri» 2. Contro di essa egli moltiplicò gli esorcismi e le '.
Guardando le cose in una prospettiva più distante, cos. la sconfitta dell'iniziativa di Pilati come l'insuccesso del suo tentativo d'inserirsi nel mondo veneziano paiono derivare da un errore di valutazione politica. Come molti altri anch'egli era convinto che l'elezione di papa Ganganelli dovesse essere considerata un fatto positivo, capace di accelerare e approfondire il moto anticuriale. Eran state le corti borboniche a volere Clemente XIV sul soglio di San Pietro, né era mancato l'assenso dell'impero. Ora i sovrani, incoraggiati da questa loro vittoria, vieppiù convinti della necessità di portare fino in fondo la lotta contro i gesuiti, avrebbero forzato la mano al papa e lo avrebbero sempre più legato alla loro politica. Certo Ganganelli era frate, derivava cioè proprio da quella parte della chiesa contro cui con maggior energia si era volta la polemica dei riformatori. Ma, come scriveva Pilati a suo zio, «la lasci pure che i frati divengano papi, la si assicuri che questo è un servizio grande per l'Italia». Il pontefice ora eletto sarebbe stato costretto a fare una politica tutt'altro che fratesca. «Io ho in mano delle lettere di gente che contano in Italia, io so quello che ne pensano, e guai a Sua Santità se non avrà giudizio». Bastava guardarsi intorno per sentire da che parte volgeva il vento. Non avevano forse vari stati approfittato del mutamento di papa per proseguire con sempre maggior energia la loro battaglia contro le mani morte, i conventi, le superstizioni? «I veneziani hanno già dato qualche piccolo principio». Ormai Clemente XIV si trovava di fronte ad un inevitabile dilemma. «Se il papa novello non burla la Francia, la Spagna, Napoli, il Portogallo, non saranno burlati e non avranno da dolersi né anche i galantuomini, e, se egli pensa di farsene beffe delle corone, tanto meglio per gli galantuomini ché le corone distruggeranno il beffeggiatore e tutte le pompe sue»'. Era mettere nelle mani delle potenze la sorte delle riforme e far dipendere il rinnovamento dell'Italia dai calcoli e dalle opportunità delle TRENTO,
B. Comunale, Mss 457 2 f. 24, Coira, 5 luglio 1769.
Come scriveva Firmian a Kaunitz il 20 giugno 1769, il nuovo papa era stato eletto sulla base di pressioni diplomatiche e politiche, non in seguito ad un mutamento effettivo di idee e di indirizzi della curia. «Io per me paragono l'elezione di Clemente XIV a quella di Clemente V, dopo i dissidi di Filippo il Bello con Bonifacio VIII», diceva sottolineando l'importanza di quanto era accaduto, ma anche la sostanziale continuità della politica papale. FERDINAND MAAS, Vorbereitung und Anfänge der Josephinismus cit., P. 437. 2 AGOSTINO ThEINER, La storia del pontificato di Clemente XIV, Luigi Niccolai, Firenze 18 54, vol. I, P. 344•
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prediche, scarsamente convinto tuttavia, si direbbe, dell'efficacia degli uni e delle altre. Aveva fatto la sua carriera nel Sant'Ufficio, proprio negli anni in cui l'ondata illuminista aveva traboccato ovunque. La sua cultura, per quel che ne sappiamo, era aridamente teologica. Gli apprezzamenti della moderna letteratura francese, di Fontenelle e Voltaire, che il suo biografo Caraccioli gli attribuiva, non hanno nulla della viva curiosità dimostrata in questo campo da Benedetto XV. Papa Ganganelli non era uomo da tentare un gioco, magari rischioso, con i propri avversari. Troppi i cedimenti che sentiva attorno a sé per avventurare il piede su altre rovine'. Era tempo di apologeti come Bergier o come Gauchat, che egli apprezzò e ringraziò per i loro sforzi, ma che erano in realtà privi d'ogni energia morale e filosofica. Un tono di benevolenza ufficiosa stava alla base di simili scrittori, anche quando adoperavano parole grosse per coprire il vuoto delle loro pagine'. Clemente XIV fini coll'avere l'apologeta e il biografo che si meritava: Luigi Antonio Caraccioli, legato alla celebre famiglia napoletana, ma cittadino cosmopolita dell'Europe française (è il titolo di uno dei suoi libri). Nella sua vastissima produzione questi seppe impastare il vero e il falso traendone una vivanda adatta a tutti i gusti e ovunque diffusa. Fu capace di inventare un intero epistolario e di scrivere una fortunatissima vita di Clemente XIV, e quando dovette difendersi dalle frequenti accuse di falso non trovò di meglio che chiamare a parte della disputa il ben noto cuoco di papa Ganganelli, frate Francesco, facendogli dire che il successo dell'epistolario di Clemente XIV era una prova sufficiente del valore di tale libro e che si trattava del «meilleur plat de macaroni qui soit sorti de l'Italie depuis long tems» 3 . Certo l'immenso successo, davvero europeo, della presentazione compiuta da Caraccioli della figura di Clemente XIV è di per se stesso significativo. Il suo giudizio su Ganganelli non è privo di valore. Egli ha il merito di presentarci il papa come figlio anch'esso ed erede dell'età di Giannone, Muratori, Cerati, Lami, Maffei, Querini. Un riflesso della cultura del primo Settecento italiano sta in lui. Cosí come sempre presente è il grand'esempio di Benedetto XIV. Ma la situazione è ormai mutata. Quel che in loro era scoperta AGOSTINO THEINER, La storia del pontificato di Clemente XIV cit., pp. 390 sgg. Cfr. le curiose osservazioni attribuite al papa su Voltaire («di cui ammirava la poesia»), su Rousseau («un pittore difettoso in tutte le teste e solo eccellente nel panneggiare »), su d'Holbach (« un insensato », ma pur rivelatore dell'epoca in cui viveva). «Dopo i tempi superstiziosi sono venuti i giorni dell'incredulità e l'uomo che adorò una volta una moltitudine di dei, affetta oggigiorno di non riconoscerne alcuno». Non era pi ll tempo di lotte aperte e di martiri. « Io sono sventuratamente obbligato a essere il tristo testimonio dell'errore e dell'empietà». Vita del sommo pontefice Clemente XIV Ganganelli scritta dal signor marchese Caraccioli, tradotto dall'originale francese, Felice Repetto, Genova 1775, p. 6o.
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critica, tentativo di assimilare ed utilizzare la nuova cultura europea, si trasformava ormai, in papa Ganganelli, in una perpetua concessione, in una corriva indulgenza, in una timorosa politica intesa a salvare il salvabile. A Venezia si tornava a Paolo Sarpi? A Napoli si ripubblicava Giannone? Tanto valeva, a Roma, permetterne la lettura. Pur senza confessarlo si poteva, sopprimendo la bolla In coena Domini, far vedere che si era capaci d'aggiornamento. Caraccioli spiegava che Clemente XIV era sempre stato «porté pour les droits des souverains que soutient Giannone»'. Non era phi davvero il caso, con i tempi che correvano, di prender la difesa della «petite dévotion» 2 . E del resto, rispondeva Caraccioli a Fréron: « que diriez-vous donc si vous lisiez l'ouvrage de l'immortel Muratori sur la dévotion? » 3. Ogni tentativo di irrigidirsi si era ormai dimostrato inutile, anzi dannoso. La cultura italiana aveva trovato, malgrado papa Rezzonico, il suo punto di confluenza con la volontà di riforma dei sovrani d'Europa. Opporsi significava soltanto rischiare una catastrofe che sarebbe ricaduta tutt'intera sulla Santa Sede. «Non vi fu papa che mai fosse eletto in un tempo phi tempestoso », diceva Caraccioli, dimentico evidentemente del passato medievale e rinascimentale, ma riflettendo anche con questa sua osservazione una opinione e un timore largamente diffusi nel 1769 ". « Sbigottito dalla tempesta che romoreggiava da tutte le parti ed ancora píú afflitto perché non si procurava di calmarla, disapprovava gl'impegni presi e vedeva il profondo abisso ove si sarebbe sepolta la gloria di Roma se si seguitava a resistere ostinatamente ai monarchi » 5 . Erano idee e timori che ritroviamo nelle phi diverse testimonianze di quei giorni. Ranieri Calzabigi scriveva a Paolo Frisi nel giugno del 1769: «Ecco il Ganganelli diventato il Giove Capitolino della moderna Roma, colla tiara e colle pianelle, vibrante fulmini di cartapecora. Il negozio però non cammina come ne' passati secoli di timore, onde il povero Giove sarà credo costretto a far la statua e appigliarsi al silenzio pitagorico... Lasciamolo dar benedizioni e desideriamo che sia ridotto a non poter phi maledire, come il re d'Inghilterra che in vigor di quella ammirabile 6. costituzione può far del bene e mai del male, e vero e finto» Un ex gesuita tedesco rappresentava qualche anno dopo la situazione in modo non molto diverso. «L'époque où Clement XIV monta sur le trône ne
2
Lettre de frère François, cuisinier du pape Ganganelli sur les lettres de ce pontife à un parisien de ses amis, Manory, Louques e Paris 1776, p. 22.
Lettre de frère François cit., p. 16. Remerciement à l'auteur de l'Année littéraire de la part de l'éditeur des lettres du pape Ganganelli, Manory, La Haye - Paris 1777, p. 31. • Ibid., p. 29. • LUIGI ANTONIO CARACCIOLI, Vita del sommo pontefice Clemente XIV cit., p. 35. s Ibid., p. 27. e S. TOMANI, I manoscritti filosofici di P. Frisi cit., pp. 162 sgg., Vienna, is giugno 1769. 2
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pouvoit être plus critique...» I sovrani europei erano schierati contro la curia. Dappertutto in Europa pareva trionfare «le fameux tolérantisme», «ce tyran caché sous le masque de l'humanité». « Quelle horrible tempeste agite la barque de S. Pierre! » 1 . Evidentemente non c'era altro da fare che affidarsi all'« affabilité», alla « sage indulgence» di papa Ganganelli, sole virtú che avrebbero potuto in quelle circostanze assicurare pace e tranquillità 2 . Anche l'anonimo autore francese del Tableau historique de Laurent Ganganelli conveniva che una sola via d'uscita restava aperta al papa, quella di accontentare i sovrani d'Europa, di accettare le riforme e le soppressioni degli ordini religiosi. Se Clemente XIV si fosse ostinato, le corti avrebbero riesumato «le colosse du patriarchat » contro la Curia romana e avrebbero impedito ogni ulteriore flusso degli « émolumens provenans des biens ecclésiastiques et des dispenses tirées de Rome». Parma, Venezia, la Polonia «murmuroient déja d'être obligés de reconnoître la jurisdiction des papes, d'accorder tant d'honneurs aux nonces du St. Siège, de demander continuellement l'entremise du souverain pontife pour pacifier aux fréquens abus des choses de dogme et de culte». «Une fausse démarche de la part de Clément XIV — concludeva — et son pontificat eût été l'époque funeste de la séparation de toutes les cours d'avec le Saint Siège et du triomphe éclatant de l'irréligion, qui ne cherchoit qu'à s'accréditer pour toujours et s'élever sur les ruines de la puissance papale»'. Era pur necessario rendersi conto che i tempi erano profondamente mutati. Non a caso il problema cruciale che ovunque si era andato discutendo negli anni del papa Ganganelli era quello degli ordini mendicanti. Come chiudere gli occhi di fronte agli «abus énormes des monastères, qui dépeuplent les campagnes et la société?» Non era davvero il caso di accusare d'empietà e d'ateismo coloro che non potevano phi accettare «cette foule d'oisifs bénis, consacrés par l'état à ne contribuer en rien au bonheur de leur patrie ni des autres individus de l'espèce humaine». Un tempo, i monaci erano stati utili, quando essi «cultivoient d'une manière fructueuse les campagnes et les belles lettres». «Mais aujourd'hui, qu'ils sont aussi inutiles et impropres à la culture des sciences qu'à celle de la terre, rien de plus juste que de les/aire rentrer dans les classes différentes de citoyens d'où ils sont sortis, pour les forcer à partager les Oraison funèbre de pape Clément XIV (Ganganelli) prononcée par M. l'abbé Simon Mattzell, ancien membre de la Société de Jésus, prédicateur actuel du chapitre de la grande église collégiale de Fribourg en Suisse en présence du Sénat souverain de la République le 15 novembre 1774,
traduite de l'allemand, De Saint, Fribourg-Paris 1 775, P. 45. Z Ibid., p. 47.
fonctions premières et indispensables de la société civile». Anche la soppressione della Compagnia di Gesù, che Ganganelli «eut l'intrépidité et la sagesse d'exécuter», era senza dubbio alcuno «une réforme devenue nécessaire» Su chi avrebbe mai potuto poggiare una politica diversa? Non certo sul popolo dell'urbe, sempre più continuamente riottoso dopo le carestie degli anni sessanta e che, durante il pontificato di Clemente XIV offri non pochi esempi di lunghe e inconcludenti sommosse, quale quella dell'inverno 1773 74. Men che mai sulla nobiltà, la quale, come scriveva Caraccioli, cullata dal «flusso e riflusso dei suoi sovrani troppo spesso inetti al governo e quasi sempre troppo attempati, profittava di quei languori per vegetare con letargica oziosità» 1. Ganganelli era di piccola famiglia romagnola. I patrizi, gli aristocratici dell'urbe e delle altre città dello Stato pontificio (ad esempio di Bologna) gli furono sempre ostili. Non certo in loro avrebbe potuto trovare un appoggio per il suo governo. Né egli tentò, come gli altri sovrani della sua età (basta pensare a Pombal) di suscitare una nuova classe burocratica o imprenditoriale, capace di riforme e di iniziative. Fin dalla grande penuria del 1764, Ganganelli si era persuaso, d'altra parte, dell'incapacità e dell'indegnità di coloro che piú naturalmente avrebbero dovuto collaborare alla sua amministrazione, dei suoi colleghi prelati e cardinali'. Aveva poi visto l'arenarsi del tentativo di rianimare l'agricoltura dell'agro romano e di riformare l'annona dell'urbe. L'autore del Tableau historique de Laurent Ganganelli, pur cosí favorevole a Clemente XIV e alla sua politica, doveva convenire anch'egli che, malgrado molta buona volontà, malgrado tante disposizioni intese ad evitare la speculazione e la frode, malgrado piani di bonifica dell'agro romano, i problemi economici dello stato pontificio non avevano compiuto progresso alcuno durante il suo pontificato. Quando egli era salito al soglio di San Pietro «l'Italie, cette contrée si fertile, éprouvoit une famine affligeante et l'état ecclésiastique gémissoit sous le fléau d'une disette extrème, amenée par les mesures vicieuses du pontificat précédent et par les abus du monopole des grains que Clément XIII n'avoit pas su réprimer». Il suo successore non era riuscito a mutare la situazione, nulla aveva fatto per «réaliser le projet utile de défri. cher et d'enrichir les environs de Rome» 4. Caraccioli non era d'opinione diversa. «Se non diede all'agricoltura quel moto e forza ond'ella abbisogna per coltivare e rendere fertile il patrimonio di S. Pietro, ciò avvenne .
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Tableau historique de Laurent Ganganelli cit., pp. 54 sgg. del sommo pontefice Clemente XIV cit., p. 53. 3 Cfr. FRANCO VENTURI, 1764 -1767. Roma negli anni della fame cit., p. 527. Tableau historique de Laurent Ganganelli cit., pp. 43 sgg.
2
Tableau historique de Laurent Ganganelli souverain pontife sous le nom de Clément XIV,
par un membre de l'Académie des Arcades de Rome, Jacques Bronkhorst, Rotterdam 1776, p.
37.
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perché era pienamente convinto che una simile impresa non può riuscire se non in un regno ereditario o in un paese repubblicano. Il regno dei papi è troppo corto...»'. Anche da un punto di vista economico gli stati con cui il papa aveva avuto che fare, fossero essi monarchici come Spagna e Francia o repubblicani come Olanda e Venezia, apparivano come superiori, perché meglio organizzati. Ganganelli sfiduciato fin i. col lasciare via libera a quegli speculatori e affaristi senza scrupoli che erano venuti affiorando negli anni sessanta (l'esempio di Nicola Bischi è particolarmente significativo), cosí come a quei mercanti di campagna che non avevano interesse alcuno a riforme agrarie, tendendo anzi ad una sempre maggiore estensione della pastorizia nell'agro romano (uno di questi mercanti di campagna, Carlo Giorgi, fornirà i quattrini per il monumento funebre di papa Ganganelli, che Canova scolpirà per la chiesa dei Santi Apostoli) 2 . L'unico scrittore di problemi economici che cer casse di indicare a Clemente XIV la via d'un qualche rinnovamento, Claudio Todeschi, fini. con una confessione di debolezza e d'impotenza. Anch'egli guardava alla Francia, alla Spagna, a Napoli, ma senza vera fiducia di poter imitare davvero questi paesi. « Il Dominio pontificio — diceva — si trova a una misera condizione rovinosa... la bilancia del commercio non pende che a suo svantaggio » 3 . Ma da dove traeva origine « tal funestissima sua decadenza»? Quel che mancava era semplicemente, la forza propulsiva, il motore. «Assomigliar noi possiamo lo stato ad una macchina a cui niuna manchi delle necessarie sue ruote, ma solamente una maggior forza impulsiva per accelerare il suo moto...»'. Incapace di far presa sulle forze sociali tradizionali e di suscitarne delle nuove, Clemente XIV finiva insomma col trovarsi in una situazione non dissimile da quella della nobiltà decaduta e immiserita, ovunque pullulante in Italia, quella stessa nobiltà che riempiva tribunali, conventi e chiese. Il ravvicinamento è di Giuseppe(Baretti che ci ha dato la migliore caratterizzazione sociale di Lorenzo nganelli dicendo che era papa diventato ormai «barnabotto», ridotto cioè, per la sua politica in Europa e all'interno dello Stato pontificio, nella situazione di quella plebe nobiliare che a Venezia si accalcava, povera e petulante, attorno a campo San Barnaba s.
e
Vita del sommo pontefice Clemente XIV cit.,
p. 54. a Cfr. la voce «Bischi, Nicola» di G. PIGNATELLI nel DNB, vol. X, pp. 666 sgg. e VON PASTOR, LUIGI ANTONIO CARACCIOLI,
Storia dei papi, vol. XVI, parte II, p. 421. 3 CLAUDIO TODESCHI, Saggi di agricoltura, manifattura e commercio coll'applicazione di essi al vantaggio del Dominio pontificio, dedicati alla Santità di Clemente XIV, Arcangelo Casaletti, Ro-
ma x770, pp. LXXXI sgg. ' Ibid., p. LXXXVIII.
5 GIUSEPPE EARETTI, Scritti scelti inediti o rari, con nuove memorie della sua vita, G. B. Bianchi, Milano 1822-23, vol. I, p. 207, lettera a Vincenzo Bujovich, ro novembre 1768: «Affé che il papa è proprio come cotesti vostri gentiluomini che coll'andare de' secoli vanno diventando barna-
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Sulla gerarchia ecclesiastica, sugli ordini religiosi, sulla struttura stessa della curia avrebbe il papa potuto, in teoria, poggiare la propria azione. Ma proprio qui, al cuore del suo stato erano visibili le crepe, le breccie, le rovine che il moto giurisdizionale aveva finito col produrre. Ogni cardinale era legato, pii o meno direttamente, ad una potenza. I regolari erano profondamente divisi. I gesuiti stessi, malgrado tutte le paure che continuavano ad incutere, si dimostrarono più deboli e remissivi di quanto non si pensasse generalmente. E cosí papa Ganganelli governò solo, isolato, diffidando in ogni cosa di tutto e di tutti: una sorta d'assolutismo che fu sentito come un'offesa dai curiali, dai nobili, e finalmente da tutte le componenti della società romana. Tentò di dare una giustificazione morale della politica alla quale le circostanze lo costringevano. Ripeté che per lui la politica non poteva essere l'arte d'ingannare e che «pour régner sûrement et glorieusement il vaut mieux être moins fin et plus juste». La sua stessa segretezza e riservatezza erano da lui scherzosamente spiegate con la sua volontà di impedire alla gente che lo attorniava di diventare indiscreta, « en ne confiant rien à personne»'. Deboli, pallidi tentativi insomma di presentare il suo isolamento come una sorta di benevolo assolutismo illuminato, adeguandosi, anche su questo terreno, all'atmosfera dell'Europa d'allora. Pur attraverso tutte le sue esitazioni e incertezze traluceva in lui una convinzione, che egli aveva in comune con il suo secolo, un giudizio ormai negativo sulle forme tradizionali della politica, sugli inutili raffinamenti della ragion di stato. « Il en était, selon lui, de la politique comme de toutes les inventions de l'art qui s'usent et perdent de leur charme et de leur utilité par les e ffets du tems» 2 . Ma, di fronte alle potenze, la sua indifesa solitudine lo espose sempre pii gravemente alle pressioni dei Borboni e dell'impero. La definizione che circolava a Roma nel settembre del 1773 rispecchiava bene l'imbarazzante situazione in cui il pontefice era venuto a trovarsi: subditus tyrannorum, tyrannus subditorum'. Da lontano, da Vienna, l'ormai vecchio Metastasio esprimeva meglio forse d'ogni altro il senso di scoramento che la politica di Clemente XIV finiva col suscitare ovunque. « Voglia il cielo — scriveva il 2 luglio 177o — che egli cunctando restituat rem... Ma, caro fratello, son troppi gli Annibali co' quali egli combatte e ,
botti e tuttavia conservano il titolo e la superbia originale... I papi, come tutti gli altri uomini, non vogliono mai perdere la memoria delle grandezze passate e dar luogo a chi ne acquista delle nuove. Che bel vedere farebbe una nobil guerra tra un papa e un duca di Parma! » ' Tableau historique de Laurent Ganganelli cit., pp. 46 sgg. 2 Ibid., p. 57• Foglio manoscritto di notizie, xs settembre 1773 (TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 57, 1773).
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senza una di quelle catastrofi delle quali ha la privativa l'onnipotenza, la mia speranza non vede uncino dove attaccarsi. Avvezzo io da tanti anni nelle mie favole teatrali a rivolgere a lieto fine gli affari pii disperati, non so immaginarmi incidente nel presente caso capace di cagionare una felice peripezia»'. Sul terreno religioso, questa sua posizione lo condusse a compiere anche le riforme pii importanti nel modo pii asettico possibile, senza accettare le conseguenze storiche, religiose, teologiche dei suoi atti, quasi fosse sospinto unicamente dalla logica della politica o dall'esigenza suprema della sopravvivenza della religione cattolica. Rifiutò cosí di vedere quella che era la realtà e che cioè, con la soppressione della Cornpagnia di Gesti, egli stava chiudendo un periodo storico, e, suo malgrado, ne stava aprendo un altro. Fini cosí con l'ottenere meno ammirazione e gratitudine di quanto in realtà meritasse, quasi strumento cieco e senza autonomia d'una riforma che pure gran parte d'Europa considerava indispensabile e salutare. Persino il suo contributo al mutamento del gusto venne accettato senza riconoscenza. Gli anni del suo pontificato coincisero con l'affermazione del neoclassicismo. Ma già i contemporanei dissero che la fondazione in Vaticano del Museo clementino, che di questa nuova visione fu uno dei centri maggiori, era stata una concessione alle tendenze dell'epoca, piuttosto che frutto di un suo vivo e reale interesse. Come diceva Caraccioli, anche in questo «Ganganelli corrispose perfettamente all'aspettazione de' romani e si accomodò alla loro maniera di essere, e di pensare» Z E come pare dichiarasse Chastellux, e seguace di Voltaire, dopo una sua visita a Roma, Clemente XIV non era affatto un intenditore d'arte, ma «in qualità di sovrano si credeva obbligato di esporre i bei modelli agli occhi degli artisti e dei curiosi affinché s'imparasse a conoscerli ed imitarli»'. Ludovico Bianconi, ottimo conoscitore dell'ambiente romano, ribadisce anch'egli questo giudizio. «Non era a dir vero questo principe gran giudice delle belle arti, perché nel suo chiostro era stato sempre assorto negli studi di teologia e nelle cose monastiche, ma, dopo di esser asceso al trono, aveva creduto suo dovere di dichiararsene amatore e protettore»'. Cosí nel campo artistico come in quello economico, Clemente XIV operò sotto l'influenza di Giovanni Angelo Braschi. Questi, diventato Pio VI, avrebbe ottenuto quel plauso che papa Gan.
Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di Bruno Brunelli, A. Mondadori, Milano 1951, vol. V, p. 26. 2
LUIGI ANTONIO CARACCIOLI,
Vita del sommo pontefice Clemente XIV cit., p. 83.
Ibid., p. 65. LUDOVICO BIANCONI,
no 178o, P. 54.
Elogio storico del cavaliere Raffaello Mengs, Giuseppe taleazzi, Mila-
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ganelli non era riuscito a suscitare. Anche il museo delle antiche statue fini col chiamarsi Pio-clementino. Sul piano diplomatico, la prima tappa di una lunga serie di cedimenti e di conciliazioni venne con l'inatteso accordo con il Portogallo. Clemente XIV, logicamente, cominciò col pii debole dei suoi avversari. Ma il prezzo pagato fu altissimo, comportò la piena accettazione del sistema instaurato da Pombal, di quel suo adoperare senza scrupoli l'Inquisizione e il carcere, l'alto clero e le università quali istrumenti insieme religiosi e polizieschi per promuovere il suo dispotismo illuminato. Anche sul piano tattico i mezzi impiegati furono tra i pii spregiudicati. Pagliarini, il tipografo incarcerato da Clemente XIII, ebbe una funzione di primo piano in questo inatteso rapprochement. L'ambasciatore Almada, che era la bestia nera della Curia romana, ne divenne rapidamente il beniamino Lo sforzo e lo splendore delle feste che accolsero a Lisbona il nuovo nunzio, dopo tanti anni di rottura diplomatica, parvero gettare un velo variopinto e pesante sui conflitti, le persecuzioni, i roghi, le mannaie dell'ultimo decennio. Non ci si fece certo frenare da scrupoli religiosi. Il fratello di Pombal, il grande inquisitore, venne fatto cardinale. Le riforme pombaline vennero benedette'. Azara, a Roma, si chiedeva come tutto ciò fosse stato possibile. La trasformazione era stata troppo rapida perché egli potesse accettarla senza stupore e meraviglia. Soltanto il vecchio Bottari, vicino ormai alla morte, fini col dargli una spiegazione accettabile: « che voi non credete — gli disse — che vi siano maghi in Roma». « Voy viendo que tiene razón», commentò Azara. Di fronte a simili spettacoli, aggiungeva, come non prestar fede alle metamorfosi descritte da Ovidio? «Son menos inverosímiles y mejór contados», concludeva amaramente 2. Una profonda disperazione finiva col dominare l'animo suo: Maometto e Lutero erano pur riusciti a trascinare le moltitudini; la ragione, evidentemente, non riusciva a fare altrettanto. Era davvero necessario rassegnarsi di fronte alla constatazione che «ningin progreso hace en este siglo la verdad apoyada del raciocinio»? Un senso di stanchezza, di scetticismo finiva col penetrare cosí anche in coloro che più si erano appassionati alla battaglia anticuriale del decennio precedente. Di cenere sapevano i frutti al momento del raccolto. Roma operava con la sua secolare magia. Ancora una volta sembrava esser in grado di superare tutte le crisi mutando le forme e restando sem'.
di Clemente XIV cit., vol. II, pp. 18o, 235 sgg. e pp. 86 sgg. 2 El espiritu de don José Nicolés de Azara cit., vol. I, p. 37o, 7 dicembre 1769, e vol. II, P. 64, 31 maggio 177o. 3 Ibid., vol. II, p. 91, 16 agosto 1770.
AGOSTINO THEINER, Storia del pontificato VON PASTOR, Storia dei papi, vol. XVI, parte II,
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pre la medesima nella sostanza. E non in Italia soltanto. Ovunque in Europa, con l'aprirsi degli anni settanta si avvertivano i segni d'una crisi, d'un ripiegamento. L'esempio della Francia, nel dicembre del 1770, con la caduta di Choiseul è l'esempio più noto I. Certo i veneziani, in quel medesimo torno di tempo, riuscirono ancora, come abbiam visto, a procedere autonomi, ma anche per loro era questione di un breve rinvio. Nel 1773 erano arenati anch'essi. Napoli era sempre piú frenata dalla stasi spagnola. Solo le terre piú o meno direttamente legate all'impero, Milano e Firenze, procedevano sulla via delle riforme, ma anche là sempre pii evidente si faceva il prevalere dei problemi economici e politici su quelli religiosi e chiesastici. Gli uomini piú energici resistettero a questa generale involuzione. Pilati aveva già avvertito l'approssimarsi della crisi nello scrivere la prefazione alla seconda edizione della sua Riforma, nel 1770. Dopo l'elezione di papa Ganganelli, era davvero utile, si chiedeva, insistere ancora nella polemica antifratesca? Rispondeva sottolineando ancora una volta i motivi di fondo che l'avevano sempre animato. Molti erano in quegli anni coloro che avevano polemizzato con i regolari, diceva. Per lui questa battaglia non era stata che un aspetto, un momento d'un pii vasto e decisivo combattimento. «Noi sappiamo di aver scritto quest'opera nostra non per vituperare gli ordini religiosi, ma per mettere in vista, oltre le fraterie, tutte le altre sorgenti dei malanni d'Italia». AAaragone dell'indignazione da cui si sentiva mosso, meschini apparivano i calcoli e le astuzie 'dei suoi rivali e avversari. « Abbiamo già l'animo incallito contro tutti gli avvertimenti e vituperi dei pusillanimi e vili uomini i quali, siccome fanno essi medesimi in tutto il corso della loro vita, cosí vorrebbero che ogni altro parimente il bene universale al suo proprio sacrificasse». Potevano cambiare i papi, poteva mutare la loro politica. La sua volontà di riforma non mollava. «Il cangiamento recentemente avvenuto nelle circostanze estrinseche non deve far mutare consiglio a nessuna persona dotata di sentimenti onesti, giacché sussiste tuttavia intrinsecamente il medesimo male e la medesima radice del male». La nuova situazione non avrebbe fatto che separare i superficiali e i disonesti da coloro che erano mossi da pii profondi e seri motivi. Per coloro che cercavano vendette, che seguivano il « capriccio o una vana gloria», «per coteste carrucole le cui opere perverse e piene di assurdità fanno a tutti assai palese la malvagità del loro scopo è certamente venuto oggimai il tempo di ritirarsi nelle cucine a raccontare le loro favole alle vecchie ed alle gatte. Ma quelli, cui uno zelo giusto e da niuna rea passione CURIO DIAZ,
Filosofia e politica nel Settecento francese cit., pp. 447 sgg.
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macchiato snoda la lingua e mena la penna ritengono tuttavia, siccome cittadini, il diritto di parlare in un pro della loro patria»'. Ma non erano ormai in molti in Italia, all'inizio degli anni settanta, a tenere un simile linguaggio. Un vento di reazione soffiò impetuoso, non soltanto contro i pii arditi riformatori, ma anche contro il sorridente buon senso della politica ufficiale. Un'ondata di superstizione rispose alla ragion di stato di Carlo III e alla condiscendenza di Clemente XIV. La polemica antigesuitica diede l'avvio a tutta una serie di leggende latomistiche, destinate a proliferare negli ultimi trent'anni del secolo, soprattutto nel mondo tedesco. Già abbiam visto come, nel fuoco della disputa la Compagnia fosse stata ravvicinata alla massoneria o agli ebrei. Ora, con la sua soppressione e con l'imprigionamento nel Castel Sant'Angelo del suo ultimo generale, queste strane visioni andarono moltiplicandosi. Anche pii immediatamente visibile fu lo scoppio di superstizione popolare e monacale che accompagnò la fine dei gesuiti. Non soltanto il gusto per le società segrete, ma anche quello per l'oscuro e il misterioso trovò una delle sue radici nell'atmosfera che andò formandosi a Roma nei mesi in cui tutti attendevano che il papa si decidesse infine a vibrare il gran colpo o in quelli che trascorsero lenti e ansiosi tra la fine dei gesuiti e la morte di papa Ganganelli. I miracoli, le visioni, le profezie andarono sempre pii infittendosi 2 . Erano le manifestazioni pii visibili della « fermentazione» che non era difficile scorgere «in tutto lo Stato ecclesiastico, come in Toscana a' tempi de' Guelfi e de' Ghibellini » 3 . Ovunque, e soprattutto nei conventi femminili operarono «le fazioni delle vergini forsennate » 4. Pullularono le « visionarie» e i «fanatici» 5 . Le autorità ecclesiastiche dovettero ripetutamente intervenire per reprimere i bollori d'una simile « immaginazione riscaldata». Era pur necessario un «gastigo» per insegnare al popolo romano «che il tempo delle Cassandre e delle Sibille non esiste pii» 6 . Le gazzette diedero ampie notizie di questa fermentazione religiosa'. I profeti di sciagura erano diventati cosí frequenti, annotava un testimonio, che poco mancava «risorgessero le Sibille e gl'antichi oracoli» s. Sembrava davvero che la Compagnia di Gesti, tanto strettamente legata per secoli al mondo dell'aristocrazia e della ricchezza, non trovasse pii altri difensori che la plebe Di una riforma d'Italia cit., prefazione alla seconda edizione, non paginata. 2 Storia della vita, azioni e virtu' di Clemente XIV pontefice ottimo massimo di nuovo arricchita di medaglie, iscrizioni e d'altri monumenti, Gaetano Cambiagi, Firenze 1778, p. 186. 3 LUIGI ANTONIO CARACCIOLI, Vita del sommo pontefice Clemente XIV cit., p. 91. Ibid., p. 92. Ibid., p. soy. 6 Ibid., p. 1so. ' Cfr., ad esempio, «Nuove di diverse corti e paesi», n. 3o (25 luglio 1 774), P. 2 33 e n. 39 (26
settembre 7774), 8
P.
VON PASTOR,
305.
Storia dei papi, vdi. XVI, parte I, p. 398.
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inquieta di Roma e dello Stato pontificio. «Un ramas de populace, quelques religieuses fanatiques et à demi-folles, voilà les illustres soutiens des compagnons d'Ignace contre la puissance ecclésiastique et civile, contre tous les souverains d'Europe et le chef de la chrétienté. Ou peut dire que leur chute fut aussi humiliante que leur éclat avait été éblouissant...» Le insistenti voci d'avvelenamento che subito andarono moltiplicandosi attorno alla salma di Clemente XIV non fecero naturalmente che render sempre piú cupa questa atmosfera di sospetti e di illusioni. Pochi furono tanto freddi e distaccati quanto Tanucci, il quale fini coll'attribuire ai gesuiti stessi queste dicerie, allo scopo di accrescere la fama di misteriosa potenza che li circondava. «Io persisto nel credere — scriveva 1'8 agosto 1775 — che li stessi gesuiti siano autori della fama del veleno, anche non vera: serve l'opinione ad atterrire e a mostrar potenza, come non dispiace alle femmine d'esser credute puttane, perché indica che piacciono agl'uomini e gli alletta a concorrere». Lo stesso Tanucci, del resto, accettava generalmente una diversa ipotesi, quella cioè che i gesuiti non avessero propinato al papa altro veleno che quello di avergli fatto credere di esser avvelenato e che erano stati i rimedi da lui usati quelli che avevano provocato la morte 2 . Morto insomma di veleno o di paura: questa la fama che circondò la fine di Clemente XIV. Non mancarono i tentativi di presentare questa fine come un martirio, di esaltare in lui la santa vittima della reazione gesuitica. Non pietà egli doveva suscitare, ma ammirazione e venerazione. Non con «occhio di compassione» bisognava «rimirare questo sommo sacerdote dell'invitta consumazione del suo sacrificio». Era giusto invece «annoverarlo '.
Tableau historique de Laurent Ganganelli cit., p. 76. Cfr. pure AGOSTINO THEINER, Storia del pontificato di Clemente XIV cit., vol. III, p. 366, dove si trova riferita una delle piú tipiche profe-
tra i pii gloriosi campioni della nostra cristiana santissima religione» e contemplarlo nei cieli dove « se ne vive immortale e beato nel soggiorno dei santi» diceva uno dei suoi biografi'. Gli vennero attribuiti numerosi miracoli (non senza scusarlo del fatto che di miracoli, in vita, non ne aveva compiuti) e si cercò di organizzare attorno a lui una sorta di culto. Non certo a caso il libro che raccolse la lunga serie di questi prodigi venne pubblicato a Lugano, dal libraio Agnelli, che negli anni sessanta era stato alla testa della polemica antigesuitica 2 . I nuovi miracoli venivano esplicitamente contrapposti ai prodigi e alle imposture che avevano accompagnato la soppressione della Compagnia e la morte del papa. Ma tutto invano. Il culto di papa Ganganelli non attecchí. La fermentazione che aveva accompagnato e seguito il suo papato fu superstiziosa e fratesca, non fu giansenista e riformatrice, sintomo anch'essa di quel distacco tra la religione delle classi colte e quella popolare che andò approfondendosi negli ultimi decenni del Settecento, uno dei rivoli insomma che confluirono nella Santa Fede. Troppo debole, passiva, priva d'ispirazione era stata l'azione di papa Ganganelli perché egli potesse diventare davvero un emblema, e tanto meno un santo dei riformatori, anche se in questa luce tentarono, stancamente, di presentarlo Caraccioli ed altri suoi biografi e, con maggior ingegno e sensibilità, il giovane poeta Aurelio de Giorgi Bertola. Questi nelle sue Notti clementine', rappresentava il papa come un suo paesano, uscito dalla «felice parte dell'Adriatica riva», preso poi nel gran vortice dell'urbe, della politica europea, capace tuttavia di mantenere una benevolenza, una ragionevolezza, una cultura che avevano fatto di lui un «insolito eroe», un «filantropo eroe», un «Tito migliore» ". Cosí era riuscito a sciogliere nodi che sembravano inestricabili, al reo bifronte zel cadder le larve, tacque l'invidia e la menzogna sparve 5 .
'
zie circolate in quei giorni, quella della monaca Anna Teresa Poli, ribaltamento di tutta la storia dell'ultimo decennio. « Verso la metà dell'anno 1773 la Beata Vergine le rivelò che il re di Portogallo sarebbe strangolato nel luogo stesso ov'egli aveva fatto giustiziare i Tavora e gli Aveira; che il re di Francia morrebbe come aveva vissuto; che il re di Spagna sarebbe ucciso in una sommossa e che il papa che sopprimesse la società di Gesú sarebbe morto nel momento stesso in cui prendesse la penna per sottoscrivere il breve d'abolizione; che Clemente XIV morrebbe nel mese di settembre 1773 durante l'equinozio ». Non mancava neppure la prossima conversione del re di Prussia. Ecco qualche esempio delle notizie di cui son ricchi i fogli manoscritti degli ultimi mesi del pontificato di Clemente XIV: «Gran discorsi si fanno sulla bigotta di Valentano. Essa era alla campagna a lavorare quando entrò il bargello di Montefiascone a prenderla e, dandole della beata, rispose che era una povera miserabile...» « Quando si volle fare il colpo di Portogallo si faceva precedere da profezie...» «Sempre devesi temere qualche fanatico che tenti un colpo...» «Si trovano già chiusi nel Castel Sant'Angelo due fanatici divulgatori di funesti pronostici e sciocchi interpreti di alcune pretese profezie d'un frate Giorgio cappuccino, spargendo per il volgo che del regnante pontefice non si apriranno le porte sante e che successivamente si ristaurerà l'istituto ignaziano alla primiera sua esistenza». « In Orvieto una donna Valente, invasata da simili sognati pronostici e tutta data ad autorizzarli fra le sue pari, fu da quel vescovo fatta chiudere in un monistero...» (TORINO, AS, Materie politiche estere in genere, mazzo 58, 2 e 23 luglio 1773). 2 VON PASTOR, Storia dei papi, p. 411. Cfr. Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone cit., p. 921, 11 ottobre 1774.
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Aveva trionfato con le armi della pace e della concordia, vinse, ma come? o Lusitano impero, o Roma, o scena de' gran fatti sui, ditelo voi, ch'io tanto dir non spero, Storia della vita, azioni e virtú di Clemente XIV cit., p. 185. Notizie interessanti la sagra persona del gran pontefice O. M. Clemente XIV con l'aggiunta in fine di alcune lettere dello stesso non piú stampate, opera di un teologo italiano, Agnelli, Luga2
no
1778.
3 Cfr. WALTER BINNI, Preromanticismo italiano, ESI, Napoli 1 947, PP. 256 sgg. 4 Notti clementine. Poema in quattro canti in morte della santa memoria di Clemente XIV pontefice ottimo massimo, secondo l'edizione fatta da Michele Bellotti, Arezzo s. d. Ci siam serviti
dell'edizione di Lottin e Moutard, Paris 1778 in appendice alla traduzione francese, dovuta a Caraccioli, con una interessante prefazione. Indicheremo i canti con le cifre arabe e le ottave con quelle romane: 4, XXXIx; I, XX, XXI, XXIII. Ibid., 1, xxxiv.
34 0
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Capitolo dodicesimo quali arme ei cinse in benefizio altrui, voi che vedeste a balenar presente serva la bella pace al mio Clemente'.
Se fosse stato lui papa al momento dello scisma d'Inghilterra, questa rottura non sarebbe accaduta. Lo dicevano «alcuni dotti protestanti in Roma e altrove» e indubbiamente a ragione. La soppressione della Compagnia di Gesú pareva venire a medicare le piaghe storiche della chiesa, a riaprire un ciclo chiuso con la controriforma 2 . Era stato un'« anima bella», lontana dalle «procelle torbide del mondo», ben diverso da tutti coloro che sentivano ostile e nemica la sensibilità dalla ragione'.
Come in un quadro di Mengs, come in una cerimonia dell'Arcadia romana (che, ben inteso, Bertola non manca di ricordare e di lodare) l'immagine di Clemente XIV gli si presentava in una gloria armoniosa e serena: Stanno al fianco di lui giustizia e pace e lo circondan le virai piti pure, soggiogata l'invidia a pie' gli giace e il nero aspetto delle ree venture e sono a mille a mille intorno sparte le corone, le cetre e l'auree carte °.
Illusione d ún momento. Le «ree venture» erano tutt'altro che vinte quando scomparve Clemente XIV. E le «auree carte» erano in realtà ben poche. Anche uomini come Amaduzzi, che Bertola chiamava, rivolgendosi all'ombra del papa, l'« Amaduzzi tuo », e che venne indicato da molti come l'estensore addirittura del breve che portò alla soppressione della Compagnia di Gesú, cominciarono a pubblicare le proprie idee e a svolgere il proprio programma culturale soltanto dopo la morte di Clemente XIV'. Le «Efemeridi letterarie», dirette da Giovanni Ludovico Bianconi, ebbero inizio nel 1772, ma andarono sviluppandosi negli anni seguenti, soprattutto quando a questo periodico si affiancò, nell'estate del 1774, l'«Antologia romana». L'età di papa Ganganelli era stata appena l'avvio di quella vita intellettuale che andò svolgendosi, in un clima ormai diverso, sotto il suo successore Pio VI 6 . L'uno a Roma e l'altro a Milano Alessandro e Pietro Verri andarono ' Notti clementine cit., 3, XVIII. Ibid., xrx, nota. 3 Ibid., 3, XLVIII, L; I, XXXVII. ' Ibid., 4, xiv. Ibid., s, XXVIII. 2
Cfr. le voci «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», di A. ABI e «Bianconi, Giovanni Lodovico» di ETTORE BONORA nel DBI, voll. II, pp. 612 sgg. e X, pp. 252 sgg.
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discutendo nelle loro lettere sul significato degli ultimi mesi della vita di Clemente XIV, dalla soppressione dei gesuiti alla morte. I loro giudizi sono incerti, esitando anche loro, come tanti altri in Italia in quel tempo, tra l'apprezzamento positivo di una politica che portava a compimento una disputa pii che decennale tra stati europei e la chiesa romana, e la pur evidente coscienza di quanto quella conclusione male corrispondesse alle grandi speranze ovunque dapprima suscitate. Pietro, pii politico, scorgeva nella soppressione della Compagnia innanzitutto un duro colpo portato all'autorità della Curia. «Cessati i pretoriani, i giannizzeri, i sterlitz — aveva scritto il 4 settembre 1773 —, milizia pericolosa per il dispotico, ma la piú valorosa di tutte, non avrà piú la corte le guarnigioni fidate in paese estero. I vescovi ripiglieranno vigore, i sovrani vi contribuiranno, Febronio vedrà il suo piano in esecuzione: cosí mi pare debba essere l'avvenire... la soppressione di questi atleti bellarministi tende al cangiamento del regime della chiesa»'. Piú vicino al teatro degli avvenimenti, piú preso dall'atmosfera romana, Alessandro tendeva in un primo momento a sottolineare il successo della politica di pace e di conciliazione di papa Ganganelli. Avignone e Benevento erano state restituite e il pontefice poteva vantarsi di non aver neppur richiesto un simile provvedimento. Erano stati i sovrani, i Borboni a venirgli incontro. «Io sono testimonio — scriveva al fratello il 19 febbraio 1774 — di tutta la serie di queste vicende. Io ho veduto pubblicato in Roma il breve del 1768 contro l'infante di Parma, origine delle discordie». Non lontana era la possibilità d'un intervento francese. «Eravamo sul punto di vedere passeggiare in Roma i cadetti francesi». Poi, per quattro anni tutto era rimasto in sospeso, e finalmente la tattica temporeggiatrice del papa aveva vinto. Aveva ben ragione di ringraziare l'Altissimo. « Io credo che non ci sia mai stato al mondo un Te Deum cantato piú a ragione e il trionfo della Santa Sede Apostolica è mirabilmente glorioso» 2. Bastarono pochi mesi perché questa gloria si mutasse nell'atmosfera cupa, incerta, impaurita che attorniò la fine del papa. «L'abolizione de' gesuiti fu eseguita con mano potente; in seguito sparivano le persone, andavano le sbirraglie nelle case nobili... Oltre di ciò il papa... era di un umore asprissimo, aveva allontanato da sé ogni persona ed aveva la positiva fissazione di non volere che si dicesse che invecchiava e decadeva. Pretendesi che l'origine di questa malinconia siano state alcune profezie»'. La situazione annonaria si faceva sempre piú pesante. Lo scontento cresceva nel popolo come tra la nobiltà e i curiali. ' Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., vol. VI, p. 112. Ibid., pp. 168 sgg. Ibid., vol. VII, pp. 31 sgg., Alessandro a Pietro, 28 settembre 2774.
2
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Capitolo dodicesimo
Quando il pontefice scomparve, Alessandro dovette concludere che «il papa, malgrado la destrezza ed il giudizio con cui ha trattato gli affari esteri, è morto compianto si può dire da nessuno, anzi è pii permesso assai di biasimarlo che di lodarlo. E ciò proviene perché egli ha lasciato un mondo di gente rovinata..., non aveva stima di nessuno, non amava positivamente nessuno, era impenetrabile ne' suoi sentimenti e violento nelle sue risoluzioni... è dimostrato che il papa era ammalato d'anima non meno che di corpo...»'. Come tutti i rinascimenti, risorgimenti e resistenze d'Italia, anche il moto degli anni sessanta si chiudeva cosí, nell'animo di molti, con una delusione. Eppure basta sollevare gli occhi al di là e al di sopra della Roma papale per vedere come questo movimento, complesso e disperso, non poco contribuisse a portare un po' ovunque negli ambienti e nelle terre piú diverse del nostro paese qualcosa della volontà riformatrice germinata con la primavera dei lumi in Italia. Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri cit., pp. 39 sgg., Alessandro a Pietro, 6
ottobre
1774.
Indice dei nomi
Abelardo, Pietro, 133 n. A Costa, Girolamo, vedi Simon, Richard. Adami, Anton Filippo, 51 n, 68 e n, 216 n. Adams, Leonard, 34 n. Addy, George M., 53 n. Affò, Ireneo, 217. Agnelli, Federico, 50. Agnelli, Giovan Battista, 4, 5 0, 55, 112 n, 120, 121, 254 n, 339 e n. Agnello, Onorato, 115 n. Agostino, Aurelio, santo, 303. Aguilar Pinal, Francisco, 46 n. Aguirre, Francesco d', 76, 107 e n, 108, 247. Alba, Francisco de, 64. Albani, Gianfrancesco, 87 n, 121. Albergati Capacelli, Francesco, 116, 227. Alberoni, Giulio, 45, 215, 221. Alberti, Giovan Vincenzo, 94 e n. Alciati, Andrea, 107. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, detto d', 34, 3 6-4 1 , 43 e n, 82, 109, 110 e n, 116, 120, 121, 131, 162, 190, 218, 229, 230 n, 2 77, 278 n, 290 e n. Alessandro, Natale d', vedi Alexandre, Noël. Alexandre, Jean, 3. Alexandre, Noël, 1 95. Alfani, Onofrio, 40. Alfonso Maria de' Liguori, santo, io6 e n, 195. Allamand, François-Louis, 279. Allamand, Nicolas-Sébastien, 279, 290 n. Allegrini, Giuseppe, 96, 117 n. Almada e Mendoza, Francesco de, 7 n, 9 n, lo, 72 n, 335. Almici, Giovambattista, 252. Almici, Pietro Camillo, ro6, 252. Alvarez de Morales, Antonio, 53 n. Alvarez Ferreira, Antonio, 4. Amaduzzi, Giovanni Cristoforo, 190 n, 34o e n. Amidei, Cosimo, xi, XIII, 96, 236, 237- 49, 2 93. Andrade, Antonio Alberto de, 8 n, 9 n, 10 n, II n. Andreasen, Q jivind, 123 n. Anes Alvarez, Gonzalo, 55 n. Aranda, Pedro Paulo de, 44 n, 46 , 50, 5 6, 5 8 ,
Troppo grande la funzione svolta in queste pagine da editori e librai perché fosse lecito, come d'abitudine, ometterli nell'indice dei nomi. Sono stati inclusi, tuttavia, soltanto se anteriori al secolo XIX. I numeri in corsivo si riferiscono alle illustrazioni.
59, 62 , 64, 1 75.
Argental, Charles-Augustin de Ferriol, 229 e n, 230 n, 277. Argento, Gaetano, 172.
conte d',
Ariosto, Ludovico, 318. Aristofane, 107. Arnaldo da Brescia, 125, 133
e n, 134, 191.
Arnaud, Carlo Marco, 84. Asburgo, Giuseppa d', 176. Assemani, Giuseppe Luigi, 107 n. Atanasio da Passagna, 79 n, 82. Atouguisa,
conte,
4.
Aulisio, Domenico, 172. Aveira, famiglia, 338 n, 4. Azara, José Nicola's de, 28 e n, 45, 46 n, 55, 56, 6o e n, 61 e n, 98 e n, 227, 228, 305 e n, 335 e n. Azevedo, Gioseffo Policarpo d', 4. Azevedo, Joao Lucio d', 7 n. Bacchettus, Isidorus, vedi Verney, Luís Antonio. Bacone, Francesco, 16, 151. Ballerini, Pietro, io6 e n. Bansi, Heinrich, 255 n. Barber, Benjamin R , 289 n. Barbiellini, Carlo, 26, 186 n. Baretti, Giuseppe, 20 e n, 21 e n, 24 n, 31, I01, 253, 282, 332 C n. Baronchielli, Bortolo, 11 n, 114 n, 115, 118 n, 143 n. Baroni Cavalcabò, C.emente, 253 n. Baronio, Cesare, 13o n. Bassaglia, Gianmaria, 52 n, 56, 58 n, 59 n. Bassaglia, Pietro, 3 n, 5 e n, 22, rol n, 176. Bassetti, Giuseppe, 276, 321, 323 e n. Batllori, Miguel, 61 n. Batoni, Pompeo, 45 n. Batteux, Charles, 151, 318. Baudisson, Innocenzo Maurizio, 75 e n. Baum, Wilhelm, 86 n. Baumgarten, Alexander Gottlieb, 318. Beccaria, Cesare, 8 n, 39, 53, 54 e n, 93, 119 e n, 120, 180, 217, 2 37-40 , 24 2 n, 2 43, 246, 252 n, 2 5 6 , 29 2 , 297, 3 1 3, 322. Beccaria, Giambattista, 11. Bechini, Bruno, 92 n, 93 n. Beck, Franz Heinrich, 105 n. Bédarida, Henri, 215 n. Bellarmino, Roberto, vedi Roberto Bellarmino, santo. • Belloni, famiglia, 12.
34 6
Indice dei nomi
Indice dei nomi
Belloni, Girolamo, 22. Bellotti, Michele, 339 n. Benassi, Umberto, 225 n, 2x6 n, 217 n, 228 n, 219 n, 220 n, 226 n , 229 n, 232 n, 233 n, 234 e n. Bencivenni Pelli, Giuseppe, 13 n, 39 n, 107 n. Benedetto XIV, papa, 7 e n, 28, 66, 8 3, 1 43 n, 328.
Bensel, Paul, 28o n. Bentivoglio, Giacomo Michele, 75-77, 124 n. Benucci, Anton Maria, 15 n. Benzi, Bernardino, 44. Berardi, Carlo Sebastiano, 74 e n, 75 e n. Berengo, Marino, 93 n, 131 n, 15o n, 156 n, 286 n, 189 n, 190 n. Bergier, Nicolas-Sylvestre, 186, 328. Bernabò, Rocco, 27 n. Bernieri, Aurelio, 224 n. Bernstorff, Johann Hartvig Ernst, conte di, 320, 321.
Berru yer, Isaac Joseph, 6, 44. Berta, Francesco, 39, 76 e n, 84, 127
n,
236 n,
226.
Berthier, Guillaume-François, 41. Berti, Giuseppe, 223 n. Bertola, Arnaldo, 74 n. Bertola de Giorgi, Aurelio, 339, 34o. Bertoli, Giuseppe, 235. Bertrand, Elie, 228. Besterman, Theodore, 277 n. Bettinelli, Giuseppe, 4 e n, 5, 15 n, 22, 31 n, 32 n, 42, 103 n, 205, 228, 124 n, 203, 226 e n, 2 3, 37, 38.
Bettinelli, Saverio, 223, 224. Bettinelli, Tommaso, 119 n, 251 n. Betto, Bianca, 229 n. Bever, Pierre van, 319 n. Bianchi, Felice Antonio, 229, 2 3 2 , 233 n. Bianchi, Isidoro, 89 0, 190 n, 212, 275. Bianchi, Vincenzo, xo6.
Bianconi, Ludovico, 334 e n, 34o e n. Biasini, Gregorio, xo6 n. Billesimo, Gian Battista, 322, 323.
Binni, Walter, 339 n. Bischi, Nicola, 332 e n. Bizzarini Komarek, Francesco, 191 n. Blanning, T. C. W., 105 n. Bodmer, Johann Jakob, 318. Boehmer, Johann Samuel Friedrich, 3o6 n. Bogino, Giovanni Battista Lorenzo, 47 n, 66, 8o en, 84.
Bohn, Johann Carl, 251 n. Boileau-Despréaux, Nicolas, 318. Bolzani, Giuseppe, 155 n. Boncompagni-Ludovisi, Ignazio, 226 n. Bonifacio VIII, papa, 327 n. Bonnardel, libraio, 2. Bono, Giovanni Battista, 75 e n. Bonora, Ettore, 34o n. Booy, J. -Th. de, 279 n. Bordes, Charles, 277 n. Borgia, Alessandro, 8. Borini, Antonio Maria, 229 n. Bornatico, Remo, 255 n, 289 n.
Botta Adorno, Antoniotto,
9, 94, 1 55.
Bottagrifi (Bottagriffi), Gino, vedi Bottari, Giovanni Gaetano. Bottagrifi (Bottagriffi), Gino, vedi Foggini, Pier Francesco. Bottari, Giovanni Gaetano, 6 n, 17 n, 22, 23 n, 24 n, 28 n, 45 0, 165 e n , x66 n, 335.
Boulanger, Nicolas-Antoine, 256. Bourdaloue, Louis, 295 n. Boxer, Charles Ralph, 6 n. Braschi, Giovanni Angelo, vedi Pio VI, papa. Breitinger, Johann Jakob, 318. Broggia, Carlantonio, 217. Brol, Enrico, 321 n, 323 n, 324 n. Bronkhorst, Jacques, 33o n. Brugi, Biagio, 156 n. Brunelli, Bruno, 334 n. Buchi, Herman, 97 n. Budò, P., 126 e n. Bujovich, Vincenzo, 332 n. Buonarroti, Filippo, 176 n. Burnet, Gilbert, 267 n. Busa, Valentino, 18 n, 1 46-48, 323. Busembaum, Hernan, 6. Butterfield, Herbert, 311 n. Bynkershoek, Cornelis van, 260.
Cacciatore, Giuseppe, 106 n. Cadonici, Giovanni, 89 n, 275. Caissotti, Carlo Luigi, 75 e n, 84. Caissotti di Chiusano, Paolo, 77. Calderari, Calisto, 4 n. Calefati, Alessandro, 180. Calogierà, Angelo, lot e n, 119 n, 122. Calvini, Nilo, ix n.
Calvino, Giovanni, xi, 72, 1 14, 22 9, 3 1 7. Calzabigi, Ranieri, 329.
Cambiagi, Gaetano, 1 34 n, 337 n, 42 .
Caminer, Domenico, 38 n, 51 n, 119, 120, 1-2, 186 n, 189, 190, 20 3, 2 37.
Caminer, Elisabetta, 126, 120. Campi, Donato, vedi Carpi, Donato. Campiani, Mario Agostino, 76. Campomanes, Pedro Rodriguez de, 46-4 8 , 50-55, 57, 61-64, 68 e n, 126, 130, 137, 140, 172 e n, 1 79, 2 90, 1 9 1 , 1 93, 1 95 n, 204, 205, 228. Canaletto, Antonio Canal detto il, 19. Canova, Antonio, 332 n. CBnOvas del Castillo, Antonio, 55 n. Cantelli, Antonio, 128 n. Cantillon, Richard, 118, x23, 302. Capasso, Gaetano, 223. Capellotti, Pietro, 216, 231, 2 34, 2 35. Capitani, Ovidio, 1o6 n. Capobianco, Alberto, 165 e n. Capolti, 7 n. • Capriata, Luigi, 78. Caraccioli, Luigi Antonio, 328 e n, 329 e n, 331 e n, 332 n, 334 e n, 337 n, 339 e n. Carafa, Francesco, 40. Caramelli, Antonio, 15 n. Carande, Ramón, 52 n. Carbone, Fortunato, 136. Carcano, Pasquale, 242.
Carli, Stefano, 224. Carlo III di Borbone, re di
Spagna, 43, 44-46 , 53, 54, 5 6 , 63, 66 , 7 2 , 73, 2 63, 1 75, 178, 181, 215, 216, 227, 228, 2 3 2 , 337. Carlo Emanuele III, re di Sardegna, 75 e n, 77, 78, 79 0, 8o, 8x, 204, 205, 228. Carlomagno, imperatore, 161, 311 n, 312. Carmignani, Filippo, 50, 217. Carneade di Cirene, 253 n. Carpi, Donato, 241 e n, 242 e n. Carrasco, Francisco, 47 e n, 48, 204. Cartesio, vedi Descartes, René. Carvajal y Lancâster, Isidro de, 55• Carvalho, Rómulo de, 14 n. Casale, Giuseppe, 21. Casale, Scipione, 21, 70. Casaletti, Arcangelo, 332 n. Casali, Antonio, z6, 40.
Casali, Ludovico, 26. Casati, Alessandro, 3i n. Casati, Michele, 79.
Castelo Branco, Chaves, 31 n. Castiglione, Giovanni da, 325 n. Castromonte, Giuseppe Baeza y Vicentello di Cantillana di, 274 n, 177 n, 276 n. Caterina II, imperatrice di Russia, detta la Grande, 224. Catone, Marco Porcio, detto Uticense, 316. Catullo, Gaio Valerio, 197 n. Cavalcanti, Angelo, 267 n, 176. Cecchetti, Bartolomeo, 1 3 2 n, 139 n, 149 n. Centurione, Luigi, 22. Cerati, Gaspare, 328. Cerfvol, le chevalier de, x xo n. Ceri, Giovacchino Domenico, 51 n, 95 e n. Cerretti, Luigi, 224 e n. Cervone, Antonio, 129 n. Cesare, Gaio Giulio, 54, 12 9, 316. Cesarini Sforza, Widar, 217 n. Cesarotti, Melchiorre, 121, 122 n.
Charvert Delorme, 225 e n. Chastellux, François-Jean, marchese di, 334• Chateaubriand, François-Auguste-René de, 286 n. Chauvelin, Henri-Philippe, 33 n, 2x7. Chionio, Francesco Antonio, 75, 79. Choiseul, Etienne-François, duca di, 73, 217, 2 34, 2 76 , 33 6 .
Choiseul, Louise-Honorine, duchessa di, 276. Ciacchi, Vincenzo, 222. Cicerone, Marco Tullio, 240, 316. Cigno, Giustino, 195 n. Cirillo, Pasquale, 181, 183. Ciro, re di Persia, detto il Vecchio, 153. Claret de La Tourette, Marc-Antoine-Louis, 278 n. Clemenceau, Georges, x111. Clémencet, Charles, iix n. Clemente V, papa, 327 n. Clemente VIII, papa, 230. Clemente XIII, papa, xxx, 3 n, 7 n, x1 n, 26 n, 22, 2 3, 54, 59 n, 62 n, 65, 66, 69 n, 77, 83, 84, 86, 8 7, 8 9, 97 e n, 98, 102 e n, 105, 216,
347
1 43 n, 1 44, 148, 214, 226, 227, 229 e n, 231, 234, 235, 270, 320, 327, 3 29, 331, 8, 9.
Clemente XIV, papa, xis, xiv, 28, 66, 8 4, 93, 97, 1 44, 22 9 n, 2 35, 288, 3 20 , 3z 6-42 , 39, 40 , 42. Coatti, Giannantonio, 199 n. Cocceius, Samuel von, 273. Cocidogmacchinvio, Ireneo, vedi Ceri, Giovac-
chino Domenico. Cogliati, Lodovico Felice, 51. Colbert, Charles-Joachim, 179. Coleti, Sebastian, 138. Colla, abate, 26. Colombani, Paolo, 4, 22, 25 n, 42 n, 56, 103 226 n. Colombi, Antonio, 22o n. Comaschi, Giovanni Battista, 224.
n,
Conca, Tommaso, 41. Concina, Daniele, 28.
Condillac, Etienne Bonnot de, 218, 219 e n, 224. Condorcet, Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di, 282. Condorelli, Mario, 278 n. Contarini, Alvise, 50, 139 n, 145. Contarini, Angelo, 25o. Conti, Nicolò, 221. Contin, Tommaso Antonio, 36 n, 41 n, 57 n, 202, 112 n, 128, 1x9 e n, 120 n, 122-32, 232 n, 1 3 8 , 1 5 0 , 2 5 6 , 1 57, 2 90 , 1 95 n, 203, 204, 224, 235, 287 e n, 290 e n, 322, 3 2 , 3 6 .
Corona Baratech, Carlos Eduardo, 46 Corradino di Svevia, 168.
n.
Corsini, Andrea, 40. Corte, Ilario, 87. Costantino I, imperatore, detto il Grande, 262. Coyer, Gabriel-François, 34 n. Cozzi, Gaetano, 138 e n. Cozzi, Giuseppe, 221. Cramer, Gabriel, II() n. Cristiani, Andrea, 250, 287 n, 288 n, 289, 290 n, 2 93, 294 n, 308-10, 3 1 9 n, 321.
Cristiani, Beltrame, 1o8 e n. Cristiano VII, re di Danimarca e Norvegia, 320, 323 n.
Ermanno Domenico, x22 n. Crivelli, Ignazio, 14 n. Cristianopulo,
Croce, Benedetto, 251 n. Cromwell, Oliver, 292. Cudworth, Ralph, 2 54. Cujas, Jacques de, 259, 260. Cumberland, Richard, 254. Cunego, Domenico, 39, 4 1 . Cunha, José Vasques da, 288. Cusano, vedi Niccolò da Cusa. Da
Campagnola, Stanislao, 216 n, 217 n, 232 n,
2 33 n, 2 34 n, 301 n.
D'Adda, Ferdinando, 112 n. Dall'Armi, Giovanni, 323 n. Damiens, Robert-François, 30. Daniel Caro, N., vedi Denina, Carlo. Dante Alighieri, 245 e n, Dati della Somaglia, Antonia, 275. Davies, L., 20 n. Davies, Thomas, 20 n.
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Indice dei nomi
Indice dei nomi
Davila y Collado, Manuel, 55 n, 56 n, 68 n, 175 n, 176 n, 227 n, 228. Deambrosis, Marcella, 251 n. De Angelis, Crescenzio, 69. De Bonis, Tommaso, 293. De Dominicis, Francesco Nicola, 177 n. De Dominis, Marco Antonio, 126, 132. De Felice, Bartolomeo Fortunato, 51, 132, 289 e n, 301, 305, 315. Deffand, Marie de Vichy Chamrond, marchesa du, 278 n. De Fisson, 94. Defourneaux, Marcelin, 46 n, 52 n, 53 n. De Franceschi, Piero, 139, 146. Delbeke, François, 39 n. Deleyre, Alexandre, 217-19. Della Marca, Biagio Ugolino, 155. Delle Lanze, vedi Sales, Carlo Vittorio delle Lanze de. Delle Laste, Natale, 114 n, 119, 138, 152. De Leon, Ferdinando, 163, 176, 18o, 241. De Luca, Giambattista, 2 59. Delvaille, Jules, 34 n. De Maio, Romeo, 195 n. De Marco, Carlo, 163, 165, 176, 181, 182, 208,
Eginardo, 312, 313, 321. Egret, Jean, 32 n. Eguizébal, José Eugenio de, 63 n. Eineccio, vedi Heinecke, Johann Christian Gottlieb. Elia, Giovanni Battista, 167 n. Elliot, John Huxtable, 311 n. Enrico VIII, re d'Inghilterra, 74, 302. Epicuro, 253. Erasmo da Rotterdam, 32. Erevich, Giuseppe, vedi Orebich, Giuseppe. Erizzo, Niccolò I, 106 n, 144 n, 185 n, 219 e n, 223.
Niccolò II, Erodoto, 262. Eschilo, 171. Erizzo,
186 n, 233 n.
Escobar, Antonio, 6, 44. Esquilace, vedi Squillace, Leopoldo De Gregorio, marchese di Vallesantoro e di. E linger, 105 n. Es t famiglia d', 99• Esterlich, Maria d', 176. Eufrasio Lisimaco, vedi Griffin, Michelangelo. Eusebio Filopolita, 113. Evrard, Guillaume, 105 n, 124 n.
241.
De Michelis, Cesare, fox n. De Montolais, François, 203, 17, 18, 22. Denina, Carlo, 78 -85. De Rubeis, Bernardo Maria, 134 n. Desaint, Nicolas, 33o n. Descartes, René, 8, 16, 33, 222. De Signoriis, Carlo, 67, 69, 73 n. De Simone, Paolo, 165 e n, 267 n, 169 n, 170 n, 172 n, 190 n, 241 n, 301 n. Desing, Anselm, 299-202, 250, 290. De Sperges, Giuseppe, 88. Diaz, Furio, 28 n, 31 n, 186 n, 336 n. Diderot, Denis, 9, 40 e n, 41 e n, 186, 219, 282.
Dieckmann, Herbert, 1SO n, 218 n. Di Ferdinando, Gennaro, 177. Diogene di Sinope, 129, 262 e n, 20, 21. Dionisio d'Alicarnasso, 303. Dionisotti, Carlo, xi-xiv. Di Pietro, Pericle, zoo n. Dolf, Willy, 289 n. Dolfin, Caterina, 322, 324. Domenico di Guzmán, santo, 110 n. Donati, Claudio, 251 n, 308 n. Dorre, Antonio Joseph, vedi Floridablanca, José Mofíino, conte di. Dragonetti, Giacinto, 180. Dubos, Jean-Baptiste, 318. Duclos, Charles Pinot, 217. Ducoudray, Nicolas Tronson, 75 n, 76 n, 77, 124 n. Du Marsais, César Chesneau, 110 e n, 151. Duni, Emanuele, 251 n. Duodo, Alessandro, 1 49. Du Pin, Louis Eilîes, ,x,. Dupont, Sébastien, 277. Du Tillot di Felino, Guillaume-Léon, 127, 128, 215-36, 326.
Fabi, Angelo, 34o n. Fabro, Angelo, x56, 157, 322. Fabro, Giovanni, 260. Fabroni, Angelo, 134 n. Facchinei, Ferdinando, tor, 252, 253. Falces, Ottavio, 168. Falece, Carlo, 119 n. Fantuzzi, Francesco Antonio, 287. Faranca, Gioacchino, 15, 20 e n. Farnese, famiglia, 214, 216. Farnese, Elisabetta, 215, 221. Farnese, Pier Luigi, 231. Fassoni, Liberato, Is. Faulche, Samuel, 41 n. Febronio, Giustino, vedi Hontheim, Johann Nikolaus von. Federico I, imperatore, detto il Barbarossa, 161. Federico II, re di Prussia, detto il Grande, 85, 112, 22 4, 22 9, 273, 280, 301, 325. Feijóo y Montenegro, Benito Jerónimo, 83. Felice Maria da Napoli (Garcia Alonso Guzman), 301-4. Felici, Lucio, 28 n. Felino, vedi Du Tillot di Felino, GuillaumeLéon. Fenzo, Modesto, 109 n, 138 n. Ferdinando di Borbone, duca di Parma e Piacenza, 218, 224, 232. Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, 227. Ferdinando V d'Aragona, re di Spagna, detto il Cattolico, 46 n. Ferdinando VI, re di Spagna, 45. Ferrer del Río, Antonio, 55 n, 62 n. Ferrero di Lavriano, Giuseppe Maria, 7o n. Ferro, Marcello, 277. Ferro, Marco, 138 n. Filangieri, Gaetano, 180.
Filippo di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, 45, 215. Filippo II, re di Spagna, 232 n. Filippo IV, re di Francia, detto il Bello, 327 n. Filippo V, re di Spagna, 45, 2 3 1 . Filippo Neri, santo, 115. Finetti, Giovanni Francesco, 251 e n, 252, 254. Firmian, Carlo, conte di, 49, 6o, 88 e n, 9 2 , 93, 108, 22 3, 2 42 , 28 5, 316, 320, 327 n. Firpo, Luigi, 74 n. Fischer, H. E. S., 6 n. Fleury, André-Hercule de, 30. Fleury, Claude, 14 n, 6o, 125, 151, 301. Floridablanca, José Molino, conte di, 45 e n, 48 e n, 55, 62 n, 40. Florio, Daniele, 134 n. Florio, Francesco, 134 e n. Foggini, Pier Francesco, 6 n, 17 n, 22, 23 n, 24 n.
Fogliani Sforza d'Aragona, Giovanni, marchese di Pellegrino, 278. Foglierini, Antonio, 119 n. Fontenelle, Bernard Le Bouvier de, 116, 1 95, 328, 29.
Fonzi, Fausto, 69 n, 7o n, 71 n, 72 n, 73 n. Forbonnais, François-Louis Véron de, 204. Forges Davanzati, Domenico, 181 n. Fortis, Alberto, 95 n, 117, 120, 122, 123 e n, 323. Foscarini, Giacomo, 156. Foscarini, Marco, 42, 101, 122, 150, 152, 155. Foscarini, Sebastiano, 129, 150, 155, 156. Fraggianni, Diodato, 177. Fraggianni, Niccola, 165, 166 e n, 167 n, 272, 18x. França, José-Augusto, 6 n. Francesco, frate, 328 e n, 329 n. Francesco III d'Este, duca di Modena e Reggio, 88 n, 99 n, loo n, 216. Francesco d'Assisi, santo, tto n. Francesco Giovanni di Dio, vedi Staidel, Francesco. Francesco Saverio, santo, 177. Franklin, Benjamin, 130, 131. Franzoni, Matteo, 70. Fréron, Elie-Cathérine, 329. Friedrich, Hugo, 218. Frisi, Paolo, ix, 38 e n, 39 e n, 54, 90 e n, 131, 218 n, 2 74, 275 en, 329e n. Frugoni, Carlo Innocenzo, 222. Gaeta, Carlo, 167 n. Gaipa, Francesco, 17. Galanti, Giuseppe Maria, 279 n, 180, 181 e n, 205-13. Galasso, Giuseppe, 165 n. Galeazzi, Giuseppe, 38 n, 92 n, 234 n, 334 n. Galiani, Ferdinando, 28 n, 178, 276 e n. Galilei, Galileo, 8, 16. Gallo, Giovanni Battista, 76. Ganganelli, Giovanni Vincenzo, vedi Clemente XIV, papa.
349
Ggrampi, Giuseppe, 105 n. Garasse, François, 42. Garassisa, vedi Garasse, François. Garbo, Gian Francesco, 129 n. Garms-Cornides, Elisabeth, 88 n. Garosci, Aldo, 84 n. Gassendi, Pierre, 8. Gastl, Johann, 199 n. Gatterer, Johann Christoph, 291, 295 n. Gauchat, Gabriel, 186, 328. Genero, Bartolomeo, 225 n. Gennari, Giuseppe, 4 n, 33 n, 41 n, 42. Genovesi, Antonio, 8 e n, 95 e n, 107, 119, 136 n, 15r, 157, 163-84, 185, 190 e n, 192, 193, 195 e n, 196, 205-13, 240 n, 250, 254, 256, 291, 304. Gerdil, Sigismondo, 79. Gessner, Konrad, 255, 258. Ghio, Pier Filippo, 71. Giacomo I, re d'Inghilterra, 192. Giannone, Pietro, 8 n, 6o, 68, 78 n, rot, 1x8 e n, 125, 163, 17 2 , 175, 18 3, 1 97 n, 205, 2 30, 276 e n , 2 97, 3 12 , 3 18 , 3z 8 , 329.
Giarrizzo, Giuseppe, xv. Giorgetti, Giovanni Francesco, Ito. Giorgi, Carlo, 332. Giorgio, frate, 338 n. Giovannelli, stampatore, 3 n. Giovannelli, Federico Maria, 229 n. Giovanni di Dio, vedi Staidel, Francesco. Girolamo da Praga, 125. Giulini, Alessandro, 51. Giunchi, Paolo, 191 n. Giuseppe I, re del Portogallo, 6, 7 n, 9 n, 16 n, 17, 18 n, 29, 25 n, 106. Giuseppe II, imperatore, 90, 98, 109, 143, 3 24. Giuseppe Maria da Genova, 71, 72. Giusti, Jacopo, 79 n. Giusti, Pietro, 54. Giustinian, Girolamo Ascanio, 106 n, 216 n. Giustinian, Pier Maria, 71, 72 n. Giustinian, Sebastiano, 129 n. Giustinian, Stefano Maria, 71. Giustiniano I, imperatore d'Oriente, 259, 272. Goldoni, Carlo, 23, 24 n, tot. Gonçalves Rodrigues, Antonio, 18 n. Gonzi, Giovanni, 223 n. Gorani, Giuseppe, 31 e n, 240. Gorino, Mario, 75 n. Gosse, Pierre-Frédéric, 114 n. Goudart, Michel, 225 n. Gouffre, 31 n. Gournay, Vincent de, 34• Goya y Lucientes, Francisco José, 315. Gozzi, Gasparo, 42, rot e n, ro5 n, 1rx n, 118, 119 n, 120, 122, 132 n , 1 50-53, 1 55, 3 23. Graneri, Pietro Giuseppe, 205. Granito, Angelo, 177. Gravier, Giovanni, III n. Gravina, Vincenzo, 306. Graziosi, Antonio, 18 n, 41 n, 51 n, 99 n, 505 n, 1v8en, fir n,112n,115n,118en,119,124
n, 128 n, 144 n, 181, 20 3, 259 n, 3 1 9, 36. Gregorio VII, papa, santo, 306.
35o
Indice dei nomi
Indice dei nomi
Gregorio XIV, papa, 107. Grendi, Edoardo, 74 n. Greppi, Emanuele, 51. Griffini, Michelangelo, 288. Grimaldi, Domenico, 212. Grimaldi, Francesco Antonio, 180. Grimaldi, Girolamo, 45, 50, 54, 67 n, 175, 228, 232. Grimani, Girolamo, 6o n, 167 n. Grimm, Friedrich Melchior, 219. Grimsley, Ronald, 37. Griselini, Francesco, 5 n, for e n, 108, 122 e n, 123, 162. Gros, Carlo Armano di, 78 e n. Grozio, Ugo (Huig van Groot), 254 n. Guerci, Luciano, 28 n, 219 n. Guerra, Alvise, 156. Guglielmo di Occam, 245. Guignard, Jean, 6. Gullino, Giuseppe, 129 n, 150 n, 152 n, 155, 156.
Hagedorn, Christian Ludwig, 318. Hamish, Walter, 61 n. Hauben, Paul J., 52 n. Heinecke, Johann Christian Gottlieb, 260. Helvétius, Claude- Adrien, 112, 187, 2 52 , 255, 256, 258.
Hennin, Pierre-Michel, 277. Hérold, Chrétien, 267 n. Hirzel, Hans Gaspar, 286. Hobbes, Thomas, 187, 209, 238, 251, 253, 256. Ho ff mann, Johann Adolf, 251 e n, 267 n. Holbach, Paul-Henri Thiry d', 161, 186, 211, 218, 2 49, 2 78, 2 79, 328 n. Hontheim, Johann Nikolaus von, 22 e n, 6 4, 99 n, xo5 e n, io6 e n, 109, 124 n, 126, 127, 144 n, 286, 287 n, 290, 300, 341• Huber, Ulrich, 252. Hume, David, 18 e n, 190, 218, 302. Hus, Jan, 69. Hutcheson, Francis, 256.
Ibarra, Joaquin, 62 e n, 176 n. Ignazio di Loyola, santo, 12, 32, Im Hof, Ulrich, 286 n. Irnerio, 259. Iselin, Isaak, 286 e n, 291, 3o6 n. Ivavov, Ivan Ivanoviè, 116 n.
2, 7, 12, 32.
Jacobi, Friedrich Heinrich, 279. Jacquier, François, I1. Jemolo, Arturo Carlo, 22 n, 105 n, 123 n, 156 n. Joly de Fleury, Omer, 32 e n. Judice Biker, Julio Firmino, 7 n. Jurieu, Pierre, 295 n. Just, Leo, 105 n. Kagan, Richard L., 53 n. Kaunitz, Wenzel Anton von, 86-90, 93, 94, 97, 1 43, 2 3 2 , 242 , 265, 269, 2 94, 327 n.
Keralio, Auguste de, 218 e n, 224, 275 e n. Klingenstein, Grete, 88 n.
Klotz, Christian Adolph, 318. Koenigsberger, Helmut Georg, 311 n. Krauss, Werner, ixo n. Kiintziger, J., 22 n, 99 n. La Chalotais, Louis -René de Caradeuc de, 3234, 35 0, 36, 37, 40, 150, x68. Lacroix, Pierre- Firmin de, 42 n. Lagrange, Giuseppe Luigi, 38, 39 e n. La Harpe, Jean- François de, 116, 117 n. Lama, Bernardo Andrea, 14 n, 76, 168. Lambert, Johannes Heinrich, 290 n. La Mettrie, Julien Offray de, 301. Lauri, Giovanni, 95 e n, 328. Lamindo Pritanio, vedi Muratori, Ludovico Antonio, 17 n. Lamy, Bernard, 14 n. Lancaster, H ry Carrington, 116 n. Landi, Vincen 241. Lapi Coraliti, v di Pilati, Carlantonio. Lascaris di Castellar, Giulio Cesare, 181 n. Lastri, Marco, 95, 240 n. Lavalette, Antoine, 31 e n, 12. Layer, Adolf, 287 n. Lazzari Gussoni, Faustina, 103. Lazzari Gussoni, Giovanni Battista, 103 n, 22. Le Bret, Johann Friedrich, 25 n, 127, 240 n. Le Brun, 278 n. Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 154, 311. Leone X, papa, 231. Leopoldo II, imperatore, 94, 9 6-9 8 , 178, 2 37, 241, 245 e n. Lepre, Aurelio, 167 n. Le Prieur, Pierre-Al., 9. Le Seur, Thomas, Ix. Lessing, Gotthold Ephraim, 296 n, 318. Levati, Luigi, 7o n. Le Vayer de Boutigny, Roland, ixo, i,, n. Levesque de Pouilly, Louis-Jean, 217. Lioncy, Jean, 31 n. Livio, Tito, 316. Llano y Quadra, José Augustin, 128. Locatelli, Antonio, 36 n. Locatelli, Luigi Antonio, 24 n. Lochstein, Veremund, vedi Osterwald, Peter von. Locke, John, 15, 153, 188, 190. Locorotondo, Giuseppe, 75 n. Lodoli, Carlo, 118, 131, 162. Lomellini, Agostino, 40, 70, 73, 2 75. Longano, Francesco, 180. Longhi, Alessandro, 162. Longhi, Pietro, x18, 31. Longo, Alfonso, 92 e n, 93, 157. Loschi, Ludovico Antonio, 226. Lottici, S., 235 n. Lottin, Augustin- Marin, 339. Lough, John, 34 n. Luigi XIV, re di Francia, detto il Re Sole, 30, 4 1 , 71, 109, 215. Luigi XV, re di Francia, detto il Benamato, 31 e n, I16 n, 227, 22 9, 23 2 , 277. Lutero, Martino, XI, 72, 114, 12 9, 235, 3 1 7.
Maas, Ferdinand, 86 e n, 87 n, 88 n, 89 n, 92 n, 99 n, 3 2 7 n. / Mably, Gabri l Bonnot de, 217, 219, 305, 306. Macanaz, Melchor Rafael de, 63. Macedo, Jorge Borges de, 6 n. Macedonio, Vincenzo, 40. Machiavelli, Niccolò, 180, 207, 20 9, 235, 263, 269.
Maffei, Scipione, ,o6, 253, 328. Magalhaes, Joao Jacinto de, ix. Magli, Pasquale, 208-11. Malagrida, Gabriele, 7 n, 21, 25, 61 n, 72,
2,
3, 6.
Malchiodi, Ferrante, 221. Mamachi, François-Xavier, 6. Mamachi, Tommaso Maria, XIII, 62, 125, 128 e n, 157, 185-98, 203, 206, 207, 211, 287 e R.
Mamaki, vedi Mamachi, François-Xavier. Mandeville, Bernard de, 20x. Manetti, Camillo, 108, 109 n. Manfredi di Svevia, re di Sicilia, 168. Manfredini, Antonio Maria, 148. Mann, Horace, 228. Manory, 328 n, 329 n. Manzon, Jean, 280 e n, 282, 287, 298, 319 n. Maometto II, sultano ottomano, detto il Conquistatore, 6o. Marefoschi, Mario, 40. Marelli, Giuseppe, 14, 15, 90. Margiotta Broglio, Francesco, 22 n, 75 n. Maria Teresa d'Absburgo, imperatrice, 49, 86, 87, 88 n, 89 e n, 93, 96, 109, 228, 251 n. Marin, Antonio, 47 n. Mariotte, Edme, 16. Marmontel, Jean-François, 217. Marone, Diodato, 180. Marsilio da Padova, 1 2 5, 191, 245. Martelli, Baldassarre Maria, 2x9. Martins, António Coimbra, 8 n. Martorelli, Giacomo, 183. Massillon, Jean-Baptiste, 296 n. Matteucci, Giovanni Battista, 26. Mattzell, Simon, 33o n. Maturi, Walter, 219 n. Maxwell, Kenneth R., 7 n. Mazza, Angelo, 217. Mazzariol, Giuseppe, 23. Mazzei, Filippo, 97 n. Mei, Cosimo, HI n. Mélarède, Amedeo Filiberto, 76. Mélarède, Pierre, conte di, 76. Mendelssohn, Moses, 318. Mengs, Anton Raphael, 334 n, 340 . Merati, Giambattista, 134 n. Mersenne, Marin, 16. Mésenguy, François-Philippe, 54, 75, 121, 165, 166 n. Metastasio, Pietro, 333. Migazzi, Cristoforo, 14 n. Millot, Claude-François-Xavier, 218, 21 9, 22 5. Mincuzzi, Rosa, 165 n, 166 n, 178 n. Minervino, Ciro Saverio, 136 e n, 224 n. Mirabeau, Victor Riqueti, marchese di, x86, 193, 267 n, 302. 13*
351
Mirogli, Filippo, 27 n. Mocenigo, Alvise, 42 n. Modrevio, Andrea Fricio, vedi Modrzewski, Frycz Andrzej. Modrzewski, Frycz Andrzej, 267. Molina, Cayetano Aldzar, 45 n. Molina, Luis de, 6 . Molino, Giovanni, 143. Monauni, Giambattista, 253 n. Moncada, Luis Cabral de, 8 n, xo n. Monclar, Jean-Pierre-François, vedi Ripert de Monclar, Jean-Pierre-François. Monod, Albert, 186 n. Montagnini, Carlo Ignazio di Mirabello, 204, 205. Montagnini, Luigi, 204 n. Montaigne, Michel Eyquem, signore di, 2 55, 258.
Montalvao Freitas Ponce de Leao, Maria Eugénia, 21 n. Montegnacco, Antonio, 126, 132-39, 150, 157, 1 90 , 194 e n, 195 n, 1 9 8 , 204, 3 22 , 33, 34, 35. Montelatici, Ubaldo, 310. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di, 58, 121, 12 5, 1 54, 1 90 , 200, 20 5, 259, 265, 269, 272- 74, 281, 304.
Monti, Alessandro, 73 n. Monti, Gennaro Maria, 181 n, 182 n, 183 n, 184 n. Monti Caprara, Cornelio, 27. Montillet-Grenaud, Jeatr-François de Chatillard de, 42. Mor, Carlo Guido, 10o n. Morelli, Francesco, 166 n, 173 n. Morelly, 134, 301. Moroni, Marco, 116 n. Moschetti, Andrea, 102 n. Mosheim, Johann Lorenz von, 250, 295 e n, 306 n. Motta, Emilio, 5 n. Moutard, Nicolas-Léger, 339. Moxó, Salvador de, 47 n. Muniain, Juan Gregorio, 45. Munter, Friedrich, 123 n, 180. Muratori, Ludovico Antonio, 8 e n, 16 e n, x7 n, 22, 95, 107 e n, 137, 171, 181, 183, 200, 2 5 0 , 2 59, 260, 276 n, 3 1 0, 31 1 , 328, 3 29, 10. Murena, Massimiliano, 291. Muzio, Gennaro, 8. Muzio, Vincenzo, 8. Nasalli, Girolamo, 216. Natali, Francesco, 2 93. Natali, Martino, II n, 92, 93, 94. Nava, Miguel Maria de la, 5o. Neri, Pompeo, 96, 97 n, 107 e n. Nestenus, Giovanni, 1o, n. Newton, Isaac, 8, 16, 1 54, 190. Niccolò da Cusa, 130. Nicolai, Christoph Friedrich, 286. Nicolai, Nicola Maria, 28 n. Nicolini, Fausto, 251 n, 276 n. Nieri, Rolando, 169. Noel, Charles Curtis, 48 n, 55 n, 62 n, 64 n.
35 2
Indice dei nomi
Indice dei nomi
Noodt, Gerhard, 2 59. Novelli, Pietro, 23, 36.
Pesante, Maria Luisa, 25 n, 223 n, 240 n. Pesenti, Emilio, 143 n. Petronio, Ugo, 88 n, 89 n.
Olaechea, Rafael,
Pezzana, Angelo, 217 n. Pezzana, Giuseppe, 217, 222. Piccolomini, Francesco, 94• Pichon, Jean, 6. Pietro, santo, 183. Pietro I, imperatore di Russia, detto il Grande, 9, In, 16, 74, 310. Pietro di Bruys, 133 n. Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, vedi Leopoldo II, imperatore. Piferrer, Thomas, 61 n. Pignatelli, Giuseppe, 22 n, 332 n. Pilati, Carlantonio, xl , xu1 , XIV, 65, 96, 114 e n, 117, 120, 1 57, 73, 1 74 n, 190, 195 n, 202,
44 n, 45 n. Olavide, Pablo de, 46 e n, 47, 48 0, 52 e n, 53 e n, 63, 266.
Oliveira, Fernando de, 17 n. Oliveira, Francisco Xavier de, 18 e n. Onnis Rosa, Pia, 176 n. Orazio Fiacco, Quinto, 316. Orebich, Giuseppe, 7 n. Orell, Hans Konrad, 255 n, 258 n. Ormea, Carlo Vincenzo Ferrero di Roasio, chese d', 175. Orsini, Vincenzo, 209 n. Orsini d'Aragona, Domenico, 68 n. Ortensio Ortalo, Quinto, 316. Ortes, Giammaria, 131, 157-62, 202, 322. Ortolani, Giuseppe, 24 n. Ossorio, Giuseppe Alarçon, 76. Osterwald, Peter von, 126, 290. Otto, Jakob, 225 n, 289.
Ovidio Nasone, Publio,
mar-
335•
Paciaudi, Paolo Maria, 40, 76-78, 123 e n, 127 e 0, 128 e n, 136 n, 157, 217 e n, 221, 223, 224 e n, 226 e n, 234, 235. Pagano, Francesco Mario, 180. Pagliarini, Marco, 9 n, 10, 26, 28. Pagliarini, Nicola, 9 n, 10, 2 5, 2 7-29, z 89, 335. Paglioni, Gioacchino, 51, 122, 1 35. Palafox y Mendoza, Juan de, 54, 57, 95. Palese, Carlo, 132 n, 133 n. Pallante, Gennaro, 177, 241. Pallavicini, Lazzaro Opizio, 66 n, 39. Pallavicino, Sforza, 129, 196. Palmer, Robert R., 186 n. Paoli, Pasquale, 69, 7o e n. Paolo di Tarso, santo, 169. Paolo IV, papa, 232 n. Paolo V, papa, 227. Paolo Veronese, 23. Papa, Egidio, x66 n, 233 n. Papillon, Antonino, 186 n. Parini, Giuseppe, 93 e n. Pascal, Blaise, 41, 186 n. Pasquali, Giambattista, 106, 107 n. Pasquali, Giovanni, 1o6, 118 e n, 319, 322. Passerin d'Entrèves, Ettore, x111. Passionei, Domenico, 22, 29. Pastor, Ludwig von, x111, xv, 33 n, 166 n, 218 n, 33 2 n, 337 n, 33 8 n. Patriarchi, Gaspare, 4 n, 33 n, 41 n, 42. Patrizi, Stefano, 166, 172 e n, 173 e n, 174 n, 1 77, 241, 291.
Patusa, Giovanni, 14 n. Pavini, Luigi, 63 n, x11 n, 115 n, 120, 132 n, 293. Pecchia, Paolo, 196 n. Pelli, Giuseppe, vedi Bencivenni Pelli, Giuseppe. Pepe, Francesco, 16 n, 61 n, ro. Pereira de Figueiredo, Antonio, ,o6, 126, 230, 300.
211, 21 4, 2 3 6 , 2 5
Pio VI, papa, 28,
25, 3i 6 , 33 6 , 3 0 .
334, 340 . Pirrone di Elide, 253 n. Pisani, Andrea, 141. Pisani, Vincenzo, 141. Pisoni, Francesco, 96, 117 n. Pistorozzi, Girolamo, 107 n. Pitteri, Francesco, 14 n, 134 n. Planche, Corrado, vedi Pilati, Carlantonio. Platone, 152, 212. Plauto, 107. Pluquet, François-André-Adrien, 129. Pocquet de Haut-Jusse, B.-A., 34 n. Poletti, Sebastiano, 3 n, 14 n. Poli, Anna Teresa, 338 n. Polisseno Fegejo, vedi Goldoni, Carlo. Pombal, Sebastiâo José de Carvalho e Mello, conte di Oeiras, marchese di, 4 n, 6, 7, 9-11, 1 3, 1 7-1 9, 21 , 24, 29, 56, 2 65, 33 1 , 335.
Poni, Carlo, 99 e n. Porta, Giordano Domenico,
39. Pufendorf, Samuel, 200, 201, 209, 251, 252, 254.
Querini, Andrea, 47, 5 1 , 108, 2 3 8 , 1 39, 1 45, 148 n, 203.
Querini, Angelo, 119, 227 n, 321 n. Querini, Angelo Maria, 328. Querini, Gianantonio, 260.
Radicati, Alberto, conte di Passerano e di Cocconato, 74. Radici, Vincenzo, 33 n, 50, 52 n, 68 n, 106 n, 167 n.
Radonié, Vladimir, 139 n, 144 n, 149 e n, 150 e n. Rameau, Jean-Philippe, x83. Ramler, Karl Wilhelm, 318. Ranza, Giovanni Antonio Francesco, 307. Rastrelli, Modesto, 97 n. Rayneri, Giovanni Antonio, 84. Rebellini, Jacopo, 115 n. Reich, Johann Christian, 42. Remondini, Giuseppe, 319. Renazzi, Filippo Maria, 28 n. Renda, Francesco, 167 n, 177 e n, 178 e n. Renzi, Gioachino M., 293.
Renzi, Pietro Maria, 267 n. Repetto, Felice, 328 n. Rey, Marc-Michel, 279 e n. Rezzonico, famiglia, 226. 226. Rezzonico, Carlo, vedi Clemente XIII, papa. Ribailler, Ambroise, 111 n. Riccardi, Alessandro, 172. Ricci, Lorenzo, 13 n, 20, 12, 3 6 , 44, 45. Ricci, Scipione de', 98. Richecourt, Diodato Emanuele di Nay e di, 68. Richer, François, 297. Ricuperati, Giuseppe, 75 n, 107 n. Riedel, Friedrich Just, 318. Riga, Giambattista, 216. Rigatti, Maria, 251 n , 276 n, 288 n, 308 n, 320 n, 324 n.
Rijklof van Goens, Michaël, 122. Rinaldi, Giuseppe, 199 n. Ripert de Monclar, Jean-Pierre- François, 33 n. Risi, Paolo, 218. Riva, Zan Antonio da, 51, 138, 139, 203. Rivera, Giambattista Balbis Simeoni di, 77, 226 n, 228 n. Rizzardi, Giovanni Maria, 119. Rizziolato, Pietro, 119 e n. Roberti, Giambattista, 217, 223. Roberto Bellarmino, santo, 306, 6. Robertson, William, 13o. Roda y Arrieta, Manuel de, 28, 45 e n, 46 n, 55, 62, 78 n, 176 n, 305.
Rodrigues, Antonio Gonçalves, 18 n. Rodriguez, Laura, 47 n, 55 n, 6, n. Rodriguez, Michele, 3 n, 25. Rodriguez Chico, Francisco José, 63. Rodriguez de Arellano, Joseph Xavier, 61 n. Roggero, Marina, 79 n. Rollin, Charles, 14 n. Romanin, Samuele, x44 n. Romanis, Nicola de, vedi Giusti, Jacopo. Romano, Giuseppe, 167 n. Rosa, Mario, XIV, 95 n, 237, 241 0. Rosemberg-Orsini, Franz Xavier Wolf, 97. 2 93. Ri, oss useppe, Gi Rota , Filippo , 94 • Rotta, Salvatore, 70 n, 74 n, 208 n, 276 n. Rottmann, H. A., 78 n. Rousseau, Jean-Jacques, 34, 42 e n, 82, 112, 118,
Salis, Ulysses von, 289 n, 3 21 , 323 n, 324 n. Salis- Marschlins, Meta von, 289 n, 321 n, 323 n, 324 n.
Salis -M arschlins, Ulysses von, 289 e n. Salis-Soglio, Battista de, 28 9, 3 24 n. Sallustio Crispo, Gaio, 316. Salomoni, Generoso, 9 n, 1o, 12, i98 n, 301
n.
Salvestrini, Arnaldo, 98 n. Salvioli, Giuseppe, 99 n, 10o n. Sancha, Antonio de, 52 n. Sanches, Antonio Nunes Ribeiro, 319 e n. Sanchez de Luna, Gaetano, 166. Sandi, Vettor, 138 n. Sangallo, Giovanni Antonio, 106, 148, 290. Sangro, Nicola di, 177 n. San Nicandro, Domenico Cattaneo, 166. Santorio, Santorio, 16. Santos, Guilherme G. de Oliveira, 17. Sanvitali, Jacopo Antonio, 113 e n. Sapori, Armando, 94 n. Sarpi, Paolo, 5 n, 16, 57, 58, 6o, 61 n, 66, 1o, e n, 102, 107, 118 e n, 121, 123, 126, 1 30, 1 33, 1 35, 1 44, 1 47, 1 5 6 , 1 57, 162, 18 9, 19 1 , 1 95, 227, 276 0, 286, 329, 20, 21.
Sassi, libraio, 288 n. Savarese, Gennaro, 136 n.
Savio, Pietro, 181 n, 241 n, 242 n.
Scaligero, Giuseppe Giusto,
33•
Schalk, Fritz, 218 n. Schenone, Antonio, 220 n. Schiattini, Giacomo Maria, 216. Schlegel, Johann Adolph, 318. Schlözer, Ludwig August, 28o n, 291. Scolti, Francesco, 155 n. Scotton, Gianfrancesco, 57 n, 105 n, 118, 122, 123
e Paolo, 318. Seitz, Anton Michael, 287 n. Semler, Johann Salomon, 311. Senofonte, 212, 213. Serafino da Capricolle, 69. Seriman, Zaccaria, ror e n. Serra, famiglia, 156. Serrao, Andrea, 172 e n, 18o, 181 n, 195 e n, 211-13. Serrao, Joel, 6 n. Servan, Joseph-Michel-Antoine, 217.
124, 126, 134, 186, 187, 192, 200, 20 3, 207, 209, 211, 217-19, 238, 240, 2 43, 2 44, 249, 25 2 , 2 56 , 2 75, 3 01 , 302 , 3 0 4, 328 n. Rucellai, Giulio, 94, 96, 97, 276 .
Severino Boezio, Giuseppe Maria, 2 93. Sforza, Giovanni, 217 n. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper,
Sé e Melo, José Ayres de, 8, 9 n. Saint-Evremond, Charles de, 15 n. Saint-Pierre, Charles- Irénée Castel de, 127. Sala Balust, Luis, 53 n. Saldanha, Francesco de, 7 n. Sales, Carlo Vittorio delle Lanze de, 39, 75, 78 n. Sales, Jean de, 3. Salgado, Antonio jr, 8 n. Salis, famiglia, 255 n, 289. Salis, Andrea von, 255 n. Salis, Meta von, 286.
Sigonio, Carlo, 171. Simioli, Giuseppe, 183, 184, 301 n. Simon, Richard, 110 e n, 297, 25. Sinisi, Addolorata, 177 n. Sisto IV, papa, 70. Sitti, G., 235 n. Sizzo, Cristoforo, 251 n. Smith, John, 7 n. Smith, Joseph, 119. Soave, Francesco, 93. Socrate, 286. Soliani, Bortolommeo, 17 n.
13
353
256. Sibiliato, Clemente, 224 n.
conte di,
354
Indice dei nomi
Somaglia, contessa della, vedi Dati della Somaglia, Antonia. Spallanzani, Lazzaro, 93, 313. Spanzotti, Vincenzo, 75 e n. Speroni, Arnaldo, 189 n. Spinelli, Troiano, duca d'Aquaro e di Laurin, 20 n, 25, II. Spinoza, Baruch, 209, 253, 256. Spiriti, Salvatore, 195-97, 203, 204, 226 e n, 22 7, 37, 38 .
Sposato, Pasquale, 165 n, x66 n. Sprecher, Johann Andreas von, 289 n.
Squillate, Leopoldo De Gregorio, marchese di Vallesantoro e di, 43, 44, 50 , 55, 220. Staidel, Francesco, 253 e n, 254 e n. Stay, Benedetto, xi. Stecchi, Filippo, 307 n. Stegmann, Ildefons, 199 n. Stella, Pietro, 76 n, 77 e n, 78 n, 251 n. Stoffel, Ludwig, 255 n. Suarez, Francisco, 44. Sulpicio Rufo, Servio, 316.
Tabacco, Giovanni,
r02 n, x38 n, 139 n, 143 n, 144 n, 15o n , 152 n, 155 n, 156 n, 322 0,
323 n.
Tacito, Gaio Cornelio,
154.
Talpone, Carlo, 84.
Tamburini, Fortunato, 8. Tanucci, Bernardo, 5 n, 8, 33, 45 n, 55, 56 , 59, 66, 68, 70, 78 e n, 131, 163-83, 195 e n, 220, 226, 228, 229 11, 232, 233 0, 241, 276 e n, 2 7 8 , 29 1 , 3 16 , 338 e n. Tarello, Camillo, 123. Tartarotti, Girolamo, 253. Tassini, Dionisio, 134 n. Tasso, Torquato, 318. Tavora, famiglia, 17 n, 338 n, 4. Tivora, Giuseppe Maria de, 4. Tavora, Leonor Tomasia de, 7 n, 25, 18, 19, 23 n, 4.
Teocrito, 240. Terrasson, Antoine, 151. Terres, Domenico, 171 n. Theiner, Agostino, 327 n, 328 n, 335 n, 338 n. Thomasius, Christian, 200, 2 50 , 25 1 , 259, 295, 306 n. Thun, Pietro Virgilio, 251 n. Tillotson, John Robert, 295 n. Timpanaro, Maria Augusta, 114 n. Todeschi, Claudio, 332 e n. Tomani, Silvana, 90 n, 329 n. Tomas y Valiente, Francisco, 48 n, 49 n, 5o n. Tommaseo, Niccolò, 151 n. Torallo, Giuseppe, 180. Torcellan, Gianfranco, xv, 101 n, 119 n, 122, 12 3, 1 57 n, 252 n. Torcellan, Nanda, 123 n. Torrazza, Giuseppe, 74 n. Torre, Giovanni Maria, 242 n. Torricelli, Evangelista, 16. Torrigiani, Ludovico Maria, 22, 2 9, 5 1 , 54, 65, 86, 122, 226, 228 n.
Indice dei nomi Tosetti, Urbano, Ix, 12, 22, 25, 29, 61 n. Tosi, Andrea, 198, 1 99. Toussaint, François-Vincent, 234. Tozeida, Diego Ferrando, 17. Trieste, Pietro, 252 n. Trinci, Cosimo, 169 n. Tron, Andrea, 36 n, 6o n, 101 e n, 102 n, 129 n, 138 e n, 139 e n, 142 n, 143 n, 144 e n, 150 n, 152 e n, 155 e n, 156 e n, 167 n, 286, 32x, 322 e n, 323 n. Tron, Caterina, vedi Dolfin, Caterina. Tron, Niccolò, 119. Turchi, Adeodato, 181 n, 216 e n, 217 e n, 221, 2 3 2 , 2 33 n, 2 34 n. Valaresso, Alvise, 5, 138, 139, 203. Valente, 338 n. Valenti Gonzaga, Si vio, 28. Valesi, Dionigi, 28, 36. Valperga di Caluso, Tommaso, 235 e n. Valvasense, Pietro, 132 n. Vargas Maciucca, Francesco, 117, 205, 227 n, 241. Vargas Maciucca, Michele, 176, 177. Vasco, Francesco Dalmazzo, 218. Vasco, Giambattista, 86 n. Ventura, Angelo, 142 n, 162 n. Venturi, Franco, xv, 8 n, 28 n, 52 n, 54 n, 7o n, 9411, 101n,110n,169 0,181 n,199n,218 0, 219 n, 252 n, 260 n, 271, 275 n, 293 n, 311 0, 331 n. Venturini, Salvatore, 218. Verney, Luis Antonio, 8-11, 28. Verri, Alessandro, 51 e n, 88 e n, 90 n, 93 n, 112 n, 2 74, 275 n, 340-42. Verri, Pietro, 47 e n, 51 e n, 87, 88 e n, 89, 90 e n, 93 e n, 112 n, 119, 131, 218, 239, 274, 275 e n, 282, 289, 340-42. Vespasiano, Tito Flavio, imperatore romano,
Wieland, Christoph Martin, 291. Willemse, David319 n. Winckelmann, Munn Joachim, 29o, 318. Winning, Wilhelm Heinrich, 255 e n, 258 e n, 261 e n, 289. Witt, Johan de, 251 n. Wolff, Christian von, 200, 251. Wollaston, William, 2 54. Wycliffe, John, 69, 125, 1 34, 1 9 1 . Yriarte, Juan de, 56 e n. Yriarte, Tomas de, 56. Zaccaria, Francescantonio, 17 n, 22 e n, 2 3, 25 n, 61 n, 95, 9 8 , 99, lot, 1o6, 112 e n, 113, 114 n, 287e n,301, 6. Zaccheri de Strozzagriffi, Francescantonio, vedi Zaccaria, Francescantonio. Zaccheri de Strozzagriffi, Tancredi, vedi Zatta, Antonio. Zambeccari, Antonio, 226 n, 229 n. Zambelli, Paola, 8 n, 165 n. Zampel, Giovanni, x 12 n. Zanon, Antonio, 287. Zatta, Antonio, 5 e n, 6 n, 20 n, 22, 23 e n, 24 e n, 25 e n, 11 9, 12 4, 135, 189 n, 25o n, 251 n, 2 53, 3 1 9, II, 22.
Zazo, Alfredo, 179 n, 18o n. Zelada, Francesco Saverio de, 40. Zerletti, Guglielmo, 110 n, 1x1 n, 25. Zimmermann, Johann Georg, 291. Zini, Baldassarre, 323 n. Zobi, Antonio, 95 n, 97 n. Zoepfl, Friedrich, 287 n. Zorzi, Giuseppe, 132 n. Zucchi, famiglia, 103. Zustinian, Sebastian, vedi Giustinian, Sebastia-
no.
339.
Vezzosi, Anton Francesco, 123 n. Viatore da Coccaglio, vedi Bianchi, Vincenzo. Vico, Giambattista, 205, 251 n, 252. Vieusseux, Giovan Pietro, xvi. Viou, Jean-Pierre, 5. Virgilio Marone, Publio, 24o, 316. Visconti, Eugenio, 89. Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, 14 e n, 21, 74, 76, 78 , 79 n, 107 n, 109, 168, 172 n, 1 75.
Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, 74, 85. Vives, Juan Luis, 306. Viviani, Vincenzo, 16. Voegelin, Johann Conrad, 305, 306 n. Voltaire, François-Marie Arouet de, 34 e n, 3 6 , 4 1 , 42 n, 82, 112, 116, 118, 1 73, 18 9, 1 92 , 200, 208 e n, 211, 218, 219, 229 e n, 230 e n, 277 11, 278 e n, 279 n, 280, 2 92, 30 1, 304, 312, 319 n, 328 en, 334. Wall, Riccardo, 33 n, 54, 166. Walser, 255, 258. Wandruszka, Adam, 97 n, 241, 2 45 n. Wasquarez, incisore, 2.
Università degli Studi di Palermo Sistema Bibliotecario di Ateneo
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355