Vittorino Grossi Angelo Di Berardino
la chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni
boria
i l formarsi di un pensier...
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Vittorino Grossi Angelo Di Berardino
la chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni
boria
i l formarsi di un pensiero cristiano dopo il NT
Per entrare in merito al formarsi di un pensiero cristia no, dopo il Nuovo Testamento, vanno tenuti sempre pre senti due fattori che furono determinanti per tutto lo sviluppo ulteriore : l. Il cammino fatto dalla comunità cristiana, quanto alla comprensione di se stessa, dagli inizi al tempo delle lettere pastorali (gli scritti cerniera tra il cristianesimo neotestamentario e quello sub-aposto lico); 2. L'intreccio dei problemi interni ed esterni che attraversarono costantemente il nuovo gruppo religioso. Accenneremo brevemente al primo e più estesamente al secondo, che ci darà le coordinate del formarsi di un pensiero cristiano nell'ambito della storia del pensiero umano. 1
. Un nuovo gruppo religioso
I discepoli di Gesù di Nazareth, chiamati « cristiani » dal la amministrazione romana o dalla gente di Antiochia (Atti 11, 26), nell'intento di legare altri al nazareno, rac contarono le cose dette e operate da Gesù (dieta e facta Jesu) con i mezzi di comunicazione allora a disposizione: prendendo la parola nelle sinagoghe degli ebrei o sotto i portici delle città, utilizzando possibilità di incontri etnici e familiari. Dalla raccolta di tali racconti nacquero i nostri Vangeli (Evangelia = buone notizie) . Dall'attività dei dodici discepoli, qualificati poi col nome di Apostoli, che da Gerusalemme si sparsero nei maggiori centri del l'impero diffondendo un po' dovunque il cristianesimo, nacquero gli Atti degli Apostoli (la raccolta dell'operato 7
di Pietro e di Paolo) (1). Gli Apostoli, alle comunità cui avevano dato inizio, scrissero delle lettere: le cosiddette « lettere apostoliche »; lettere dalla pngwnia; lettere « cattoliche », chiamate così perché erano indirizzate a tutte le comunità. Tali lettere, scritte a comunità in for mazione, registrano le prime difficoltà di continuare, sul piano quotidiano, l'esperienza religiosa di Gesù di Naza reth, come pure le prime interpretazioni del modo di essere « cristiani ». Così, ad esempio, al riconoscimento di ampi spazi di libertà nella comunità di Corinto, fa riscontro, in quella di Tessalonica, il bisogno di un ritorno agli impe gni del vivere quotidiano. Le comunità dei cristiani si consolidano ormai come un gruppo religioso che ha uno spazio diverso da quello originario giudaico, anzi ne assume uno proprio tra i tanti gruppi religiosi del tempo. Questo processo di indi viduazione portò naturalmente a una comprensione deli mitativa del gruppo stesso, che cominciò a porsi come « religione cristiana » cioè come una nuova comprensione di << essere religiosi ,, alla sequela di Gesù di Nazareth. Ciò comportò in effetti una radicale rivoluzione culturale in fatto di religione, segnò l'inizio di un'era iconoclasta delle immagini correnti di religione sia di quelle giudai che che pagane, fatte per lo più di riti cerimoniali, di templi, di offerte di cose alla divinità. La religione di Gesù, e quindi dei cristiani, aveva a base la risposta del Nazareno sull'argomento data alla donna samaritana, ri portataci dal vangelo di Giovanni : << Credimi, donna ... è giunta l'ora in cui i veri adoratori (di Dio) adoreranno il Padre in spirito e verità » (Gv 4, 23) . In tale risposta è l'uomo in quanto tale che, rapportandosi a Dio con la sua vita, è religioso. Partendo da tale posizione antropologica, per definire l'uomo come religioso, ci si dovette natural mente spiegare di più, sia all'esterno del gruppo (con i giudei e con i pagani), sia tra gli stessi cristiani. All'e sterno essi denunciarono il superamento cultuale dei giudei e ai pagani si presentarono come una << nuova filo sofia », avente diritto di esistenza così come l'avevano (l) Questi Atti sono accettati nella chiesa come canonici » cioè norma tivi ; altre raccolte di Atti sono ritenute apocrife cioè non riconosciute come libro ufficiale dalla comunità cnstiana. «
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quelli della Stoa e dell'Accademia. Tra di loro poi, cioè al loro interno, incorsero nella difficoltà di una comprensio ne comune della religione di Gesù di Nazareth. Iniziò a imporsi la dialettica ortodossia-eresia insita, d'altra parte, nel mistero stesso di Gesù di Nazareth, non del tutto adeguabile ad alcuna comprensione espressiva. In tale contesto vanno capite le lettere pastorali (gli scritti appunto che, come dicevamo sopra, fanno da cer niera tra la Chiesa apostolica neotestamentaria e quella sub-apostolica) in particolare la prima a Timoteo. Questa registra una situazione di Chiesa che già individua, al suo interno, dei « falsi dottori » (4, 2) che insegnano dottrine non aderenti alle norme e all'insegnamento di Gesù Cri sto {6, l) e sente la necessità, per il cristiano, di custodire « il deposito>> tramandato (da Paolo) , difendendolo da « chiacchiere vuote e profane e dalle diatribe di una scienza falsamente ritenuta tale >> (6, 20). Si fa strada, mentre si mette in luce la fedeltà al messaggio cristiano ricevuto da Paolo, la coscienza che « la Chiesa del Dio vivente è colonna e fondamento della verità>> {3, 15). Si insiste cioè, nelle Lettere pastorali, sulla credibilità della verità custodita nella Chiesa. Non è prevalente ancora l'organizzazione che presiede a tale discriminazione tra ciò che è conforme al deposito della fede e ciò che lo falsa; rimane tuttavia la domanda su chi diresse e con quali criteri quella che sarà poi indicata come la dialetti ca tra l'ortodossia da una parte e l'eresia e l'eterodossia dall'altra. 2. l problemi del nuovo gruppo religioso
Il cristianesimo dovette far fronte all'inizio, e contempo raneamente, come ci risulta dal contesto dialettico delle sue fonti interne ed esterne, a una quadruplice serie di problemi. l . Il primo fu quello interno riguardante le Scritture (precisazione dei libri canonici e del testo) ; la storicità di Gesù; l'etica dei cristiani nel comune contesto del vivere di tutti; la parte organizzativa delle sue strutture.
2. La dialettica ortodossia-eresia: le fonti e l'origine del9
l'eresia e, di contrasto, la fede cristologia-trinità-pneumatologia-la ria-Ia vita cristiana.
«
sana » riguardante la dottrina sacramenta
3. Il problema giudaico, sia riguardo alle profezie riguar danti il Messia che, per i cristiani, si riferivano a Gesù di Nazareth; sia riguardo alla comunità cristiana che si ri teneva il vero erede e il vero popolo di Dio che, d'altra parte, si riannodava completamente alle Scritture del giudaismo e quindi poneva il problema del valore di tan te prescrizioni anche per i cristiani; sia infine riguardo a molte citazioni dell'Antico Testamento che i cristiani ri vendicavano per loro e che i giudei rifiutavano. 4. Il problema del rapporto col mondo pagano, aperto da Paolo all'areopago di Atene (Atti 17, 22-3 1), sul concetto e natura di Dio, sulla possibilità per l'uomo di trovarlo; e sulla risurrezione dei morti, quale punto centrale e spe ranza fondamentale della nuova dottrina religiosa. Dell'intera problematica c'interessa qui direttamente quel la interna relativa alla dialettica ortodossia-eresia con i suoi punti di riferimento (confessioni, simboli e regole di fede ; il ruolo del vescovo, in particolare di quello di Roma; il canone delle Scritture) e alle « note » ( = termi ne tecnico nella teologia per indicare le caratteristiche che individuano la comunità cristiana) dell'apostolicità, vericidità e santità, con le relative conseguenze.
La storia del problema interno del cristianesimo antico viene, in genere, distinto nel periodo prima di Costantino e dopo Costantino; quello prima di Costantino lo si divi de ancora: inizi-fine sec. II; sec. III. La prima divisione è giustificata dalla situazione civile della Chiesa, che venne riconosciuta nel 3 1 3 (editto di Costantino) dalle autorità dell'impero romano. Ciò comportò una diversa compren sione di essere cristiani nella società rispetto alla chiesa dei primi tre secoli. La suddivisione del periodo preco stantiniano: fino alla fine del sec. II e sec. III va fatta perché nei primi due secoli si ebbe il passaggio dalla Chiesa apostolica a quella subapostolica, che si affermò nei tre gruppi fondamentali predominanti: giudeo-cristiani; giudeo cristiani ellenisti; cristiani di origine pagana. Nel III secolo si ebbe: il consolidamento della Chiesa nelle sue strutture; l'affermarsi del cristianesimo asiatico ed lO
alessandrino e di quello africano nel mondo latino. Si posero allora le premesse dell'enorme sviluppo che ebbe poi il cristianesimo sul piano sociale e intellettuale, che si affermerà con le grandi eresie cristologico-trinitarie del sec. IV. La nostra esposizione, pur procedendo per tema tiche, terrà presente lo sviluppo cronologico storico del pensiero cristiano.
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chiesa-ortodossia-eresia
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. La dialettica ortodossia-eresia
Il problema del rapporto ortodossia-eresia nell'antichità cristiana è stato posto, criticamente, o almeno in modo provocatorio nei tempi moderni da W. Bauer. Egli nel 1 934 propose, in uno studio sull'argomento, la compren sione dell'eresia come un dato originario del cristianesi mo, dal cui fondo sarebbe poi emersa l'ortodossia, nel senso che tra le varie letture del cristianesimo primitivo s'impose quella qualificatasi poi come ortodossa, ma che all'origine era alla pari delle altre. Egli giunse a tali conclusioni per due inavvertenze, forse inconsce: l. ap plicò alle testimonianze cristiane antiche la categoria se mantica di eresia allora in uso nelle filosofie, che stava a significare una delle scelte possibili nella ricerca della verità; 2. pensò la dialettica ortodossia-eresia come due aspetti non solo distinguibili ma anche passibili di sepa razione reale. Nel cristianesimo antico la dialettica orto dossia-eresia fu diversa. Al dato originario di Gesù di Nazareth (detti e fatti) venne data, come lettura dotata di garanzia, l'unica possibile dei testimoni diretti, accettati come tali nella comunità. Su tale linea si attestò l'orto dossia cristiana; al di fuori di tale solco, indicato poi tecnicamente come « apostolico » e non prescindendo da esso, si attestò l'eresia che, pertanto, si può definire non in sé ma solo in rapporto all'ortodossia. Nonostante que sti limiti lo studio di W. Bauer provocò il problema sia storico che teoretico relativo al cristianesimo degli inizi e quello successivo, riguardo alle seguenti questioni: come nacque (e nasce) l'eresia nel cristianesimo; quale metro 12
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la definisce tale e, in concreto, quale norma guidò la Chiesa nascente nel suo costituirsi « ortodossa » rispetto ad altre comprensioni del cristianesimo, qualificate come « eretiche ». Oggi, alle domande suscitate da W. Bauer, se ne aggiunge un'altra di natura sociologica, vale a dire: in quale tipo di società umana si pone la questione di un'ortodossia e dell'eresia: solo in raggruppamenti religiosi o pseudo-re ligiosi, oppure nella società umana in quanto tale? La chiesa, ci si chiede, da questo punto di vista, quale tipo di società incarna? D'altra parte il cristianesimo preco stantiniano reclamò per sé, nell'ambito delle sette filo sofiche antiche, un posto alla pari (Melitone, Apolo gia, 3; Eusebio, HE IV, 26, 7-1 1), e Giustino lottò ferma mente perché l'autorità civile gli riconoscesse la sua li bertà di opinione (Apologia I e II). Nella chiesa do po-Costantino il problema della libertà di coscienza, in materia religiosa, si pose acutamente a causa della pole mica donatista, e come problema interno della Chiesa. In questo complesso problema storico-teorico possiamo dire che una società, a carattere religioso, ha sempre i suoi punti di riferimento come presupposto accettato dai componenti, che non mette in discussione, perché altri menti rinnegherebbe se stessa. D'altra parte la storia in segna che tali punti di riferimento, pur costituendo un tutt'uno, possono essere utilizzati gerarchicamente diver sificati: può prevalere ora l'uno ora l'altro a seconda del valore che s'impone. Nella comunità cristiana criteri, co me il libro ispirato, la successione apostolica, la tradizio ne nella disciplina del Maestro, l'autorità del vescovo o dei concili ecc., possono essere articolati ponendoli o me no al primo posto della scala, con la conseguenza che gli spazi « ortodossi ,, sono soggetti ad ampliarsi o a restrin gersi secondo il prevalere del punto di riferimento. La dialettica ordotossia-eresia è soggetta a tale oscillazione e la storia dei punti di riferimento coincide spesso con l'evolversi e il formarsi medesimo del pensiero cristiano. Esso ha, al suo interno, una dialettica che, nei punti più cruciali, si manifesta in quella di ortodossia-eresia, ma che costituisce la sua stessa vitalità che, per sua natura, non è mai del tutto soggetta a una cristallizzazione sia epocale che culturale, benché si esprima in tali mediazio ni. 13
Quanto all'antichità cristiana, la scuola di Harnack volle circoscrivere il problema fino al sec. III, applicando alla chiesa sub-apostolica una categoria, evidente per tale scuola, già nella chiesa del Nuovo Testamento. La chiesa nascente sarebbe stata costituita da due gruppi di fedeli: uno facente capo agli Apostoli (il gruppo istituzionale) ; e un altro facente capo non a un'autorità-istituzione bensì agli uomini spirituali guidati dallo Spirito (il gruppo ca rismatico). I due gruppi si sarebbero dissolti nel sec. III allorché i vescovi assursero a unica autorità normativa, sia giurisdizionale che magisteriale. Sino al secolo III quindi si sarebbe avuta la religione dello Spirito, col ministero dell'insegnamento guidato dai carismatici; poi il tutto sarebbe passato nelle mani dei vescovi, ritenuti essi gli uomini ispirati dallo Spirito, assommanti in sé le prerogative dell'apostolo, del profeta e del maestro. La scuola di Harnack distingue ancora tra un cristianesimo di Gesù (l'evangelium Christi) e un cristianesimo di Paolo (l'evangelium de Christo) nella cui linea si sarebbe poi sviluppato il dogma cristiano, visto come l'ellenizzazione di un cristianesimo che, all'origine, non era dogmatico. Dell'esemplificazione della storia del pensiero cristiano, fatta da Harnack, c'è rimasta la distinzione tra Evange lium Christi e Evangelium de Christo utilizzata da Bult mann nella sua nota traduzione di Urchristentum e Christentum (cristianesimo originario e cristianesimo, quello dopo Gesù). Tale distinzione, applicata metodologi camente ai testi neotestamentari, ha dato origine alle questioni del Gesù storico e del Cristo della fede. Ridi mensionate le soluzioni della scuola di Harnack ai pro blemi che al suo tempo erano sul tappeto, in particolare allo sviluppo del dogma cristiano come ellenizzazione del cristianesimo e all'influsso di Paolo nel Vangelo cristiano, rimangono tuttavia in piedi le questioni di sempre: quale norma scelse la Chiesa nascente per qualificarsi come « cristiana » e riconoscersi tale e da chi fu fatta in con creto tale scelta? Ci si chiede chi abbia guidato la dialet tica ortodossia-eresia, contribuendo alla formazione delle confessioni di fede che, già presenti nel Nuovo Testamen to, avranno poi il loro sbocco nella Chiesa sub-apostolica, nei simboli e nelle regole di fede. Ci si interroga sulla loro origine e sulla loro funzione. Pur riconoscendo alle confessioni di fede un ampio contesto, da quello liturgi14
co-kerigmatico a quello pm strettamente polemico ri guardante la dialettica ortodossia-eresia, ci si chiede quali siano stati la guida e i criteri nel formarsi di tali confes sioni (nel NT è detto che nascono dallo Spirito, cfr. V. H. Neufeld, The Earliest Christian Confessions, Michigan 1 936) e quale ruolo vi abbia giuocato soprattutto l'autori tà nello sviluppo concreto di tale dialettica. Fu essa ca rismatica o istituzionale? Lo sviluppo del pensiero cri stiano fu, in altre parole, anch'esso il risultato di un rapporto tra un'ideologia e il potere anche se in ambito strettamente religioso, oppure fu l'espressione di un nuovo modo di capirsi dell'uomo nell'ambito di un mondo diversamente rapportato a lui, in seguito alla incarnazio ne del Logos, il Figlio di Dio? 2. Confessioni di fede
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Simbol i di fede · regole di fede
Queste tre sintesi della fede cristiana hanno in comune di rappresentarne una sintesi ortodossa nell'ambito di una professione di fede, che può essere eulogica (la lode e il ringraziamento a Dio con formule brevi e per lo più dossologiche), battesimale (la risposta alle domande bat tesimali che esprimeva una concordanza di fede col dia logante), dottrinale (nel quadro dell'insegnamento della fede, dell'apologetica e della lotta contro l'eresia) . Le confessioni di fede (l'homologhia = concordanza) sono le prime espressioni della fede della Chiesa - in esse pertanto si trova la forma più antica della tradizione cristiana - e costituiscono la culla del credo cristiano, attestatosi già sulla linea ortodossa. Si ha cioè la homo loghia cristiana, accanto ad altre homologhie di diversa estrazione. Quali siano stati i contenuti o meglio il conte nuto più antico, gli studiosi, pur convenendo sul dato cristologico, danno diverse indicazioni. La più antica sa rebbe quella riferita a Gesù, seguito dal titolo Cristo (Ge sù è il Cristo), poi dagli altri titoli di kyrios, Figlio di Dio ecc. l simboli di fede (dal verbo syn-ballo = gettare insieme cioè combaciare, concordare) , una serie di articoli di fede del numero di 14, 12 o 9, a struttura binaria o ternaria perché costruiti sulla Trinità o sul binomio Padre-Figlio, 15
rappresentano la traduzione nel linguaggio corrente del messaggio cristiano contenuto nelle Scritture. Essi espri mono perciò una sintesi di fede, avvenuta nelle comunità cristiane antiche. Si formarono man mano, di qui la va riabilità nel numero degli articoli, e assolsero alla funzio ne di essere, per i cristiani, un mezzo di riconoscimento e di appartenenza. Forse Tertulliano allude ad essi quando parla di pactio fidei conventio (De pudic. 9, 16; De anima 35, 3). Sviluppatisi soprattutto in ambito battesimale (i più antichi sembrano essere quelli del Simbolo romano e della Tradizione d'Ippolito) assursero a prevalente valore dottrinale dal sec. IV in poi. Allora ogni chiesa aveva il suo simbolo che veniva usato come base dell'intelligere della fede in ogni riunione sinodale o conciliare. All'aper tura dei lavori lo si leggeva e lo si commentava (ci è rimasto ad esempio il commento al simbolo fatto da A gostino al concilio di Ippona del 393 = De fide et symbo lo), così come avveniva nel rito battesimale. In questo facendolo imparare e recitare al candidato come pubblica professione di fede; con una breve spiegazione si inten deva affidarglielo come tessera di fede, ed esso assolveva tale funzione in ogni questione emergente nella comunità. Le regole di fede o veritatis stanno accanto ai simboli, ne riflettono molta parte ma, più che sul piano di una pro fessione di fede, sono una sintesi cristiana da contenuti più vasti che rifletteva e delimitava gli spazi entro cui ci si riconosceva cristiani nel vivere e nella ricerca dottrina le. Era norma nella fede, e norma di fede. Per tale moti vo con esse s'intendeva talvolta « la predicazione della Chiesa » ma che rifletteva sempre il messaggio degli apo stoli (Origene, In Io. comm. 5, 8). E in tal senso era « il canone ecclesiastico » (Clemente Aless. Strom. 6, 1 8 , 165) o la « regola della tradizione » (ivi, l, l , 1 5 ) . L'espressione tecnica di regula fidei o veritatis l'abbiamo in Ireneo (Adv. haer. l, l, 20; Epideixis 3) e in Tertulliano (praescr. 1 3 : l'enumerazione degli articoli), ma era già presente negli Apologisti ad es. in Aristide (Apol. l, 15, 2). La regula fidei era la norma metodologica nella ricerca cristiana (Tert. praescr. 1 2-13), nella lettura delle Scrittu re (Ireneo, Adv. haer; Ps. Atanasio, De trin. 7, 5) ; nel linguaggio da usare che non può usufruire della libertà concessa ai filosofi (Agostino, De civ. Dei 10, 23); nelle 16
tradizioni da rispettare, come la data della celebrazione della Pasqua (Eusebio, HE 5, 24, 6); nella formula trinita ria da usare nell'amministrazione del battesimo (Ps. Ata nasio, De trin. 7, 10). La regula fidei rilevava più che l'appartenenza nella fede, la sua delimitazione, aveva quindi un ruolo che lasciava emergere la eterodossia. È rimasto classico l'uso fattone da Ireneo per la confutazione del modo di intendere la fede da parte degli gnostici Valentiniani. Era facile che la regula fidei diventasse strumento nelle mani dell'istitu zione, vale a dire da medium fidei diventasse norma: della fede, della dottrina, della stessa ortodossia. Con l'e spansione cristiana dopo Costantino la regula fidei venne ad identificarsi infatti col simbolo o credo, niceno prima e poi anche costantinopolitano, e servì a instaurare l'u nità di fede in tutto l'impero, ma non più solo come espressione di fede dei molti, bensì anche come controllo della fede di tutti. Ciò avvenne non solo sul piano istitu zionale ecclesiastico ma anche civile, allorché il simbolo venne inserito nel Codice di Giustiniano. Il simbolo, in questa utilizzazione, non unisce più una comunità perché si ha tutti una medesima fede, ma assume la funzione giuridica di controllo della fede e quindi di separare co loro che non si ritrovano su tale metro. Simile funzione del simbolo, divenuta normale dopo la caduta dell'impero romano, ne costituì un uso riduttivo. All'inizio esso ave va rappresentato, nell'evoluzione del pensiero cristiano, soprattutto un regola significativa del sensus ecclesiae dell'intera comunità, più che uno strumento di controllo. Riportiamo il simbolo della fede contenuto nella Tradi zione Apostolica e la regola della fede contenuta negli scritti di Ireneo e di Tertulliano. Il simbolo della Tradizione Apostolica è praticamente il simbolo romano o degli Apostoli di cui ci parla Rufino (PL 39, 2 1 89-2 190), ha dieci articoli, sui dodici abituali, mancano quelli riguardanti la remissione dei peccati e la vita eterna, che dovettero essere aggiunti non molto più tardi: « Credo in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo, figlio di Dio che è nato da11o Spirito Santo da Maria Vergine. e crocifisso sotto Ponzio Pilato e morto e sepolto, 17
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e risorse vivo dai morti il terzo giorno, e ascese al cielo, e siede alla destra del Padre verrà a giudicare i vivi e i morti. E nello Spirito Santo e la santa Chiesa, e la risurrezione della carne ». (n. 2 1 : ed. Botte, Miinster 1963, pp. 48-50). La regola della fede, dall'Epideixis di Ireneo, c. 3: ,, Noi dobbiamo mantenere inalterata la regola della fe de ... Innanzitutto la fede ci invita con insistenza a ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per la remissione dei peccati nel nome di Dio Padre e nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, morto e risuscitato, e nello Spirito Santo di Dio ». La
regola della fede, dal De praescriptione di Tertulliano, c. 13-14: « credere che non c'è che un solo Dio; non c'è altro Dio che il creatore del mondo. Egli ha tratto tutte le cose dal nulla per la mediazione del suo Verbo emesso prima di tutte le cose. Questo Verbo è chiamato suo Figlio. In nome di Dio, egli si fece vedere sotto diverse forme dai patriarchi, sentire dai pro feti, e infine discese, ad opera dello Spirito e della Poten za di Dio Padre, nella Vergine Maria, si fece carne nel suo seno e, nascendo da lei, visse come Gesù Cristo. Predicò allora una nuova legge e la nuova promessa del regno dei cieli. Compì dei miracoli, fu crocifisso e risusci tò il terzo giorno. Elevato ai cieli, sedette alla destra del Padre. Mandò al suo posto la potenza dello Spirito Santo, per guidare i fedeli. Ritornerà nella gloria per prendere i santi e farli godere della vita eterna e delle promesse celesti, nonché per condannare i colpevoli nel fuoco eter no, quando sarà avvenuta la resurrezione degli uni e degli altri, con la restaurazione della loro carne. Questa regola, come dimostreremo, fu insegnata da Cri sto. Essa non sollevò tra noi nessuna discussione, se non quelle introdotte dalle eresie e fatte dagli eretici ». •.•
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3. Il vescovo. Il vescovo di Roma
Per la comprensione del ruolo assunto dai vescovi, non solo nel dirigere le comunità ma anche nell'incidere sullo sviluppo del pensiero cristiano dal sec. III in poi, oltre alla loro successione in chiese di derivazione apostolica, va tenuta presente la collocazione dei cristiani in un am biente sociale dove il capo aveva un'enorme importanza. Se effettivamente, come ha ben rilevato Harnack (nel suo Missione e diffusione del cristianesimo) fino al sec. I I abbiamo come capi morali della comunità cristiana prima i dottori (didaskaloi) e i profeti e poi, accanto ad essi, i presbiteri-episcopoi-diaconi; dal sec. III in poi il regolato re della disciplina e della fede della comunità è il vesco vo. I cristiani vennero a trovarsi in un constesto sociale il cui punto di riferimento principale era la polis. Il citta dino aveva la sua rilevanza non in quanto individuo ma perché facente parte della polis, cui convergeva l'ideale della paideia e della filosofia. Chi nella polis contava non era perciò il singolo, quanto colui che lo rappresentava cioè il capo, punto di coesione di tutti i cittadini. I cristiani, facendo leva sul destino del singolo, contesta rono la concezione della polis e la sua paideia, sia a livello locale sia a livello della polis cosmica di estrazione stoica. Anzi rifiutandosi di appartenere a qualsiasi città, si ritennero in esse degli itineranti verso un'altra città. Precisarono tuttavia che agendo così non intendevano de responsabilizzarsi dai comuni doveri cittadini (Giustino, Apol. I, 14; Origene, C. Celso 7, 55; Tertulliano, Apol. 42, 3), né si consideravano diversi dagli altri (A Diogne to, 5-6), solo non si sentivano legati, per il loro desti no individuale al capo della polis e quindi alle poleis nelle quali vivevano. Tertulliano consigliava all'imperatore di accontentarsi di essere « chiamato imperatore e nulla più>> (Apol. 33, 2) cioè come uno che sta a capo, ma che non ha nulla a che fare col destino dei singoli cittadini. I cristiani tuttavia, come ci riferisce Origene, affermavano di costruire la città nelle loro chiese ( C. Celso), vale a dire che vivevano secondo la disciplina del Maestro, che aveva le sue leggi (in Giustino, Apol. I 14- 1 8 il discorso della montagna è redatto in forma di leggi) , quelle del pro prio capo. In tale contesto in ambiente romano capirono la preghiera del Padre nostro sul p iano legislativo dell'o19
ratio principis (il discorso inaugurale di un nuovo imperatore che aveva, nella legislazione romana, valore di legge: cfr. il De oratione di Tertulliano e il De oratione dominica di Cipriano). La « disciplina >> cristiana assunse il significato corrispon dente di paideia (con paideia viene indicato lo stesso cristianesimo: in Clemente Romano, Lettera ai Corinzi 66, 16; 2 1 , 8; Taziano, Discorso ai greci 1 8; Atenagora, A pol. 7). La paideia cristiana è la disciplina del Maestro, vissuta nella comunità dei credenti. I loro capi si indivi duano sempre più in uno, il vescovo ( = colui che vigila dall'alto) al quale si è legati nella, e, per la salvezza, nella fede e nella disciplina. Anche nella civitas cristiana vi è un capo, considerato il doctor e il garante del trovarsi nell'ambito dei cittadini che si raccolgono attorno a Cri sto. Tale capo venne individuato sempre più, nella ne cessità di garantire il vero cristianesimo, in colui che si riannodava agli Apostoli; ma egli ormai acquistava an che, nell'ambito della civitas religiosa, i connotati del capo della polis civile. Il proestos (colui che preside) dell'as semblea eucaristica di Giustino (Apol. I, 67) , al quale fa riferimento ogni attività caritativa della comunità, in I gnazio antiocheno è l'episcopos che ha il primo posto nella costituzione medesima della comunità cristiana, tan to che senza di lui non si ha la celebrazione eucaristica (Trall. 3, 1 ) . In Ireneo egli è indicato come colui che succede all'Apostolo nelle varie chiese (Adv. haer. III, 3, l PG 7, 848). In Tertulliano (De praescriptione) la succes sione apostolica del vescovo ha, come in Ireneo, un valo re di successione teologica; in Cipriano il vescovo riceve infine la sua teorizzazione teologica. L'unità di un solo Dio e di un solo Cristo ha la sua immagine nella Chiesa << una » che, nel vescovo, trova il suo legame e un opera tore dell'unità della Chiesa. La cattedra episcopale costi tuisce la fonte medesima dell'unità della Chiesa e della celebrazione eucaristica (De unitate Ecclesiae, 4). Rispetto alle testimonianze di Ignazio, Cipriano aggiunge alla figu ra del vescovo una dimensione più ampia; egli è il vesco vo in solidum con gli altri vescovi della Chiesa cattolica (universale = coloro che hanno una medesima fede in Dio e in Gesù Cristo, De unit. c. 5).
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Il Vescavo di Roma
In Cipriano il ruolo del vescovo non è limitato alla chiesa locale, il suo ministero è in comunione con quello dei vescovi di tutta la Chiesa. Egli perciò non può privatizza re il suo ministero che, di per sé, ha per oggetto l'unità della Chiesa in un'unica fede, disciplina e speranza co mune. In questa visione del vescovo, legame di unità dei fedeli della chiesa locale ed universale, Cipriano introduce il discorso del vescovo di Roma che siede sulla cattedra di Pietro. Questa costituisce per lui « la fonte e l'origine (nel senso che da essa ha inizio) dell'episcopato » (2) ; in essa i vescovi trovano il loro legame di unità e la catte dra di Pietro assolve a tale servizio. Questa idea di Ci priano aveva avuto già in Tertulliano e in Ireneo alcune indicazioni. Riguardo a Pietro, Tertulliano scrive che a lui era stato cambiato il nome « per edificare la Chiesa » (praescr. 22); su di lui il Signore << aveva posto omnem gradum ordinis sui » (monog. 8) e che le chiavi del cielo erano state date alla chiesa per mezzo suo (Scorp. 10). Quanto alla chiesa di Roma, erede di Pietro, Ignazio ave va già parlato di essa come di « colei che presiede nella carità >> (Ad Rom., inscr.) e Ireneo di una sua potentior principalitas perché fondata dagli apostoli Pietro e Paolo (Adv. Haer. III, 3, 2). Allo stesso modo si esprime Tert. nel De praescriptione (32) ; poi, da montanista, egli negò la successione del pri mato di Pietro (pudìc 21, è la prima testimonianza antica in tal senso). Cipriano parla della cathedra Petri (ep. 59, 14) e della chiesa di Roma come il locus Petri (ep. 55, 8). Sulla comprensione della preminenza della chiesa di Roma e quindi del suo vescovo rispetto agli altri ve scovi, la prospettiva di Cipriano è che la Chiesa, essendo « cattolica >> cioè una nella fede in Dio e nel Cristo, ha i suoi punti nodali di riferimento perché la sua unità venga continuamente salvaguardata e promossa. Scrive Cipriano: (2) Del c. 4 del De ecclesiae unitate di Cipriano si hanno due re Primatus Textus che lo Hartel non dazioni: una longior (PT accolse nella sua edizione critica: CSEL 3/1, 212, Vienna 1 868) ; una brevior ritenuta autentica nella quale non si insiste sul primato di Pietro. Attualmente si ritiene che ambedue le redazioni, nate dalla diversità dei destinatari, siano originarie dello stesso Cipriano (A. Demoustier, in RechScRelig 52, 1964, 337-369) . =
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« La Chiesa universale è una, non è scissa in parti, essa forma un tutt'uno di cui l'unione dei vescovi è il legame » (ep. 66, 8) e « (La chiesa di Roma) è la matrice e la radice della chiesa cattolica » (ep. 48, 3); « (essa) è la cattedra di Pietro e la Chiesa principale da cui è nata l'unità episco pale » ( ep. 59, 1 4 ). Agostino, sulla scìa di Cipriano, scrive rà: « (Pietro) ricevette uno per tutti (il potere di scioglie re e di legare) perché in tutti vige l'unità » (In Io. ev. 1 1 9, 4; ep. 93, 9, 29); (egli personificava) « l'universalità e l'unità della Chiesa » (serm. 295, 2). Questo profondo le game tra Pietro, il vescovo di Roma, e gli altri vescovi, va capito anche nell'ambito dei rapporti allora esistenti tra chiesa evangelizzante e chiese evangelizzate. La chiesa e vangelizzante costituiva il punto di riferimento dottrina le-liturgico e disciplinare delle nuove comunità. Una tale impostazione contribuì a creare un'omogeneità dottrinale e liturgica in vaste aree, per lo più tra loro culturalmente similari. Nacquero così quelle tradizioni cristiane sfociate nelle grandi famiglie liturgiche, che facevano capo alle principali metropoli dell'antichità (Antiochia, Costantino poli, Alessandria, Cartagine, Roma, Aquileia, Milano, Ra venna, Lione ecc.). I testi di Cipriano e di Agostino, riferentisi a Roma, sono da capirsi nell'ambito di Roma, ecclesia principalis della chiesa africana come dell'Occidente latino che, natural mente, non prescindeva da altri elementi sia locali che di provenienza orientale (in particolare per la chiesa di Mi lano e di Lione). Al tempo di Cipriano si ebbe nei rappor ti tra l'Africa cristiana e Roma la questione dei ribattez zandi: si ribattezzavano coloro che venivano dallo scisma o dall'eresia (cfr. nell'epistolario di Cipriano; epp. 69, l ; 73; 7 0 e 7 1 ; 7 4 . 4-6). Gli africani, con a capo Cipriano, erano favorevoli a ribattezzarli (3) ; a Roma non vi era (3) La documentazione sulla questione si ha nell'epistolario di Ci priano. Nel 255 Magno chiese a Cipriano: Se tra gli eretici, quelli che vengono da Novaziano, dopo aver ricevuto il suo ( di Novaziano) lavacro profano, devono essere battezzati e santificati nella Chiesa cattolica col legittimo e vero e unico battesimo della Chiesa, (ep. 69, 1). Cipriano nel De unitate, 11 aveva già espresso il suo giudizio negativo sul battesimo degli eretici. La prassi di ribattezzare gli eretici convertiti, Cipriano la aveva ereditata dal suo predecessore Agrippina ( Presso di noi, Cipriano, non è cosa nuova o improvvisata l'uso di battezzare coloro che ven gono dall'eresia alla Chiesa. Già da molti anni ed è trascorso tanto «
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questo uso e il papa Stefano scrisse a Cipriano che non bisognava apportare nessun mutamento alla tradizione romana trasmessa in Africa (ep. 74, 1 -2: « Niente innova zioni! ci si attenga alla tradizione. Se vengono a voi degli eretici, si impongano loro le mani per accoglierli in peni tenza »). Allo stesso modo rispose nel sec. V il papa In nocenzo I, a proposito di innovazioni liturgiche estranee, immesse nelle chiese evangelizzate da Roma (ep. 25, l, 2: PL 20, 552) . Dopo il concilio di Nicea del 325, convocato dall'impera tore Costantino, si ebbe di fatto in Occidente una evolu zione sempre più favorevole alla gestione primaziale del l'intera Chiesa da parte del vescovo di Roma, piuttosto che una comune gestione dei vescovi sul modello inteso da Cipriano. Nel vescovo di Roma venne a configurarsi l 'immagine di un potere spirituale che ricalcava molto quella dell'impe ratore sul piano civile. Ci si avviò verso la concezione di due poteri: uno temporale e uno spirituale, spesso in conflitto d'interferenze reciproche. Tale dinamica percor se l'intero Medioevo e giunse sino alle soglie del periodo della Riforma, quando iniziò, anche nella cristianità, una revisione di tale concetto, che cioè l'autorità nella Chiesa non si misura nell'ottica di essere di fronte a un potere civile ma all'interno del suo essere una società religiosa.
4. Il canone delle Scritture Un altro punto di riferimento del pensiero cristiano anti co fu la lista riconosciuta dei libri delle sacre Scritture, sia dell'Antico Testamento che del Nuovo, detta Canone. Per l'Antico Testamento i cristiani fecero propria la tra duzione greca detta dei 70, accettando come libri ispirati anche quelli ritenuti deuterocanonici (quelli scritti in tempo da quando, sotto Agrippina, uomo di buona memoria, ra dunatisi insieme moltissimi vescovi, stabilirono questa norma» (ep. 73 ; vedi anche epp. 70 e 71). Nel 256 Cipriano convocò un concilio perché si approvasse tale prassi ma inviati gli atti a papa Stefano non vennero approvati ( ep. 72; ep. 74) . Cipriano si rivolse pure a Firmiliano di Cesarea di Cappadocia (M. Girardi, Scrittura e bat tesimo degli eretici nella lettera di Firmiliano a Cipriano, Vetchr 19, 1982, 37-67).
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greco; i due libri dei Maccabei e il libro della Sapienza). Il giudaismo ufficiale aveva fissato il canone delle Scrittu re ai libri scritti al ritorno dall'esilio al tempo di Esdra. I cristiani, nonostante le discussioni sull'autenticità dei deuterocanonici, protrattesi sino a s. Girolamo, li consi derarono alla pari degli altri libri dell'AT (in Eusebio, HE III, 9, 5; 10, 1-5 Giuseppe Flavio; IV, 26, 1 3-14 Melitone; VI, 25, 1 -2 Origene). Per il Nuovo Testamento si ebbe tutta una produzione relativa sia a Gesù che agli Apostoli. Da essa emersero, con la qualifica di libri canonici del Nuovo Testamento, i libri di cui attualmente disponiamo. Verso il 1 70-220 abbiamo le testimonianze di Melitone, di Ireneo, del canone muratoriano per i quattro vangeli e le 13 lettere di Paolo. Gli altri scritti neotestamentari vennero recepiti più tardi, sempre rispettando i dubbi circa la lettera agli Ebrei, quella di Giuda, la 2 di Pietro, la 2 e la 3 di Giovanni e l 'Apocalisse così come abbiamo nelle liste !asciateci da Eusebio (HE III, 24-25) . Da alcune chiese vennero ritenuti scritti canonici anche la lettera di Barnaba e il Pastore di Erma, ma già al tempo di Eusebio furono messi definitivamente tra gli apocrifi (HE III , 25, 4). La testimonianza antica più esatta circa il canone del NT è la lettera festale di S. Atanasio del 369: il can. 60 del concilio di Laodicea (del 360?) (Mansi 2, 563-604) . Nel Sinodo Romano del 382, sotto papa Damaso, si ha la lista completa dell'AT e del NT, conosciuto come il « Decreto Gelasiano » perché riprodotto da papa Gelasio nel 495. Venne poi canonizzato nel Tridentino nel 1 a sessione quarta dell'8 aprile 1 546. Il canone biblico, soprattutto del Nuovo Testamento, si venne formando a poco a poco. Ebbe un impulso particolare nella polemica con Marcione che restringeva il NT al Vangelo di Luca e neppure tutto, e a 1 0 lettere paoline. Nella produzione letteraria cristiana delle origini si venne operando una selezione non indifferente che venne qualificata come canone, cioè norma di fede per i cristiani o, come si esprime Tertulliano, « la fonte da dove le chiese bevono la fede » (praescr. 36, 5). Il resto venne qualificato come apocrifo, cioè non ritenuto un libro ufficiale della comunità cristiana. Quale sia stato il criterio di selezione che diede origine al canone del Nuovo Testamento e chi guidò tale operazione è porre una domanda che non può avere risposte unilaterali. Uno studioso di tali problemi, 24
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I. Frank (Der Sinn der Kanonbildung, Freiburg i. B. 1971) ritiene che i criteri proposti per il costituirsi del canone biblico: apostolicità, universalità, ortodossia ecc. non possono essere privilegiati singolarmente ma nel loro assieme. Il canone cioè è il risultato di una convergenza di più dati. Pur assentendo a tale posizione di ricerca, riteniamo tuttavia che due fattori abbiano influito di più sugli altri : l'utilizzazione liturgica e il riconoscimento del l'origine apostolica dello scritto. a) L'utilizzazione liturgica dei libri sacri La riunione liturgica, o misterica, come ci si esprimeva anticamente, aveva lo scopo di far partecipi (methexis) del mistero di Gesù Cristo coloro che vi venivano am messi. Vi si accedeva attraverso un'iniziazione che era propria dei vari gruppi religiosi. Essa si svolgeva con dei riti il cui significato era reso comprensibile dalla parola che lo interpretava. « La parola si avvicina a una cosa, scriveva Agostino (In lo. ev. 80, 3), e questa ne riceve significato (diventa sacramento) >>. La parola usata dai cristiani, nelle loro riunioni misteriche, era: la Bibbia dei 70 (da ciò derivò l'assunzione nel canone dell'AT da parte dei cristiani anche dei libri non scritti in aramaico ma in greco) ; le « Memorie degli Apostoli, detti Vangeli >> di cui ci parla Giustino (Apol. I, 66) e che erano in linea con quanto è riferito dagli Atti 2, 42 ''Tutti erano perseveranti nel farsi istruire dagli apostoli ... >>, dove « essere perseve ranti >> (proskarterountes) è termine tecnico per indicare l'andare al tempio per la riunione liturgica. La liturgia quindi, mirando a una partecipazione ai misteri di Gesù Cristo da parte dei convenuti, si serviva naturalmente della parola. Si trattava di una parola qualificata, accetta ta come tale dalla comunità. Quando s'iniziò a scrivere sui dieta e i facta l esu, tali raccolte, utilizzate nella litur gia accanto alla Bibbia dei 70, acquistarono un loro posto di preminenza nella comunità rispetto all'intera produ zione che si venne creando per vari motivi (predicazione, apologetica, devozione) . Si venne così a creare, tra la fede professata nelle riunioni liturgiche e la fede creduta al di fuori di tali riunioni, un nesso inscindibile, collegato ap punto dai libri del Nuovo Testamento utilizzati in sede liturgica. La storia del canone non ha ancora sviluppato 25
del tutto questa pista di ricerca. Essa rimane la pm difficile da esplorare perché tali riunioni, proprio perché caratterizzanti un gruppo, cadevano sotto la disciplina dell'arcano (il segreto di manifestarle a estranei) ma esse esprimevano più che qualsiasi altra riunione, il sentire, il credere e l 'agire dei cristiani. Presiedere nella liturgia era stare sulla « cattedra », essere cioè investiti dell'autorità di insegnare nella fede, garantendo la verità di tale in segnamento. La scelta di quei libri e non di altri segnò definitivamente l'orientamento del pensiero cristiano e ne divenne norma di ogni approfondimento ulteriore. b) La qualifica di libro « apostolico » Nel sec. II, come ci risulta dalla testimonianza di Giusti no (Apol. I, 66), è già chiaro per i cristiani il riferimento dei Vangeli agli Apostoli, che cioè le notizie su Gesù le hanno ricevute dagli Apostoli. Nella produzione neote stamentaria delle comunità sub-apostoliche s'impose la necessità di un criterio selettivo che, già nel Nuovo Te stamento, viene ristretto a coloro che erano « stati col Signore », l'avevano visto, avevano mangiato con Lui (l Cor 1 5 , 5-6; Atti l, 2 1-22). Essi avevano raccontato ciò che avevano udito (i detti di Gesù) e visto fare (i fatti operati da Gesù) da Gesù ( = I Vangeli); e inoltre essi stes si avevano operato e scritto fondando nuove comunità (gli Atti degli Apostoli). L'insieme venne considerato un bloc co unico, quello « Apostolico » che, trasmesso alle nuove chiese, divenne normativa per ogni ulteriore sviluppo. Compito delle comunità sub-apostoliche divenne il custo dire e il trasmettere, di chiesa in chiesa, tale blocco, chiamato ormai come il depositum fidei dei cristiani. Con la scomparsa dell'ultimo apostolo tale << deposito della fede » si ritenne concluso quanto a contenuto e quindi a ulteriori aggiunte scritte. La qualifica di << apostolico » ebbe un tale peso nelle comunità cristiane dei primi tre secoli che una comunità, un libro, una norma, un uso privi di tale connotato, venivano considerati extra-cristia ni. È da collocarsi in tale contesto, accanto alla lettera tura apocrifa, che pur appellandosi agli apostoli non veni va riconosciuta come apostolica, l'intero filone di lettera tura << apostolica » molto fiorente nei primi tre secoli. Nacque una letteratura liturgico-normativa tutta qua26
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lificantesi come << apostolica » per dar credito a quanto in essa era contenuto. Di essa il più famoso scritto è la Tradizione apostolica attribuita a Ippolito. Certamente a vere il riconoscimento « apostolico » fu, nell'antichità cristiana, uno dei criteri base per essere accettato o meno come vincolante nella comunità. Il pensiero « ortodosso » della Grande Chiesa intese allacciarsi al solco apostolico in modo così stretto e determinante, da considerare ogni deviazione da tale solco una scelta fatta al di fuori del tradere cristiano (fu questo il concetto di eresia in area cristiana antica, che venne particolarmente sviluppato nel De praescriptione di Tertulliano) .
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l'autocompresione del la chiesa: apostol icità-veridicità-santità
Questo capitolo, sulla coscienza che la Chiesa ebbe di se stessa nei primi secoli, vuole essere un po' la sintesi dei punti di riferimenti esaminati in merito al formarsi di un pensiero cristiano. L'intero processo del costituirsi di un deposito di fede cristiana, attraverso le confessioni regole-simboli di fede, il formarsi di un canone di Scrit ture ritenute ufficiali e il ruolo svolto da colui che pre siede nella comunità (il vescovo) , avvenne all'interno di gruppi religiosi che facevano capo a Gesù di Nazareth. Tutto ciò non poteva non far maturare la coscienza di una autocomprensione particolare da parte di tali co munità. Esse svilupparono, a tale proposito, tre coor dinate: una relativa alla loro apostolicità, facevano cioè blocco con le chiese fondate dagli Apostoli; un'altra, come conseguenza, sulla loro veridicità religiosa cristia na (la Chiesa è luogo di verità) ; ed una terza, relativa alla << santità >> dei componenti ( = la Chiesa degli elet ti) (4) . Le esaminiamo brevemente mettendo in luce gli
( 4) Nella cristianità latina si ebbe all'inizio l'espressione di chiese apostoliche » al plurale, solo più tardi si usò « la Chiesa » al sin golare ; nella chiesa greca in'llece si affermò ben presto la denomi nazione la Chiesa » al singolare. Nelle « note » della Chiesa si enu· mera anche comunemente quella di « cattolica >>. Questa connotava, anticamente, l 'unità della Chiesa sul piano locale e universale nella sua fede in Dio e in Cristo. La chiesa perciò, essendo una, è universale (cattolica) anche nella molteplicità delle comunità. Questa questione fu preminente nella questione donatista ( anni 3 1 1-411) sviluppatasi nell'Africa cristiana dopo Costantino ( P . M . Berlek, D e vocis catholica > > origine et notione, Antonianum 38 ( 1963) 253-287) . «
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elementi che influirono nello sviluppo medesimo del pen siero cristiano antico. 1. L'apostol icità della chiesa
Il criterio dell'« apostolicità », per qualificare una chiesa come cristiana, significava la non interruzione dell'anello Cristo - Apostoli - chiese apostoliche - chiese sub-apostoliche. Tale verifica si rese necessaria, nel primo cristianesimo, per il pullulare di profeti e maestri che, per motivi vari, si ritenevano interpreti di Gesù Cristo e se ne facevano apostoli, pur non essendo vissuti con Lui. Alcuni di essi, gli gnostici, si ritenevano poi custodi di una dottrina di Gesù Cristo, da Lui annunziata a pochi e quindi non trasmessa alle chiese. Nel primo documento non apostolico, la Didachè (fine del I secolo), si chiede alla comunità cristiana capacità di discernimento sia nel distinguere profeti veri da profeti falsi ( 1 1 , 1-12, l e 8) (5), sia nel porre a capo delle comuni tà vescovi e diaconi capaci di assolvere i compiti dei profeti e dei dottori ( 1 5, 1-2). Si inizia così già a vedere nei vescovi e nei diaconi, anche gli autentici profeti e maestri, il cui compito è custodire integro il depositum fidei che è stato ricevuto. Nelle chie se provenienti dall'ellenismo il binomio vescovo-diacono, sul modello civile del « sorvegliante » (colui che guarda dall'alto, vede e interviene), diventa formula comprensiva per indicare nelle comunità i responsabili dell'unità, della concordia e della pace. In comunità cristiane di estrazio ne giudaica il presbitero ( = anziano), sul modello del consiglio degli anziani, ricopre il medesimo ruolo del ve scovo. In Ignazio antiocheno, vescovo-presbitero-diacono sono già presenti: il vescovo rapportato a Dio e a Gesù Cristo; i presbiteri agli apostoli; i diaconi ai servi di Dio (Smir. 8, l ; Magn. 6, l ; Trall. 2, 1), quali responsabili delle comunità cristiane. Il vescovo-presbitero (due titoli inter cambiabili quanto a funzione) incomincia a essere visto (5) Il movimento profetico fu soprattutto vivo in Asia minore. Lo stesso evangelista Giovanni si pose nell'Apocalisse come « testi mone e profeta» ( 10, 1 1 ; 22, 9) . Il montanismo, che tanto successo ebbe in Africa, si servì dell'Apocalisse per giustificare la sua di mensione profetica (Eusebio HE 18, 14) . 29
dalle comunità cristiane come l'anello tramite degli Apo stoli. Così il martire Policarpo, discepolo dell'apostolo Giovanni, si colloca tra i « presbiteri » (Filip. l , l) e Ire neo lo chiama « vescovo » (Adv. haer. 3, 3, 4). In Asia mi nore il vescovo incarna il didaskalos della dottrina apo stolica, è cioè il tramite della fede e della disciplina apo stolica alla quale tutti i cristiani sono chiamati a essere fedeli nel custodirla come nel trasmetterla (Policarpo, Fi lip. 7, 1). In tale direzione si sviluppa la prova da esibire ( = nota) , per la comunità cristiana, nel qualificarsi come tale, e cioè la sua apostolicità le cui prove vengono a essere indicate nelle liste dei vescovi, quali successori delle chiese fondate dagli Apostoli. Tali liste sono riporta te non tanto come prove storiche bensì teologiche (spesso infatti difettano di successione storica) , vale a dire nei capi di quelle comunità si è avuta una successione apo stolica: in essi v1 e stato l'anello di congiunzione sia di rettamente sia con ciò che gli apostoli hanno trasmes so (6) . « (Gli apostoli), scrive Tertulliano, fondarono chiese in ogni città. Da esse le altre chiese hanno mutuato, per propagine, la loro fede e i semi della dottrina e, quoti dianamente, li mutuano perché siano chiese (cristiane) >> (praescr. 20, 25). L'apostolicità della Chiesa, di cui parla Tertulliano, va intesa in senso globale. Per lui, perché una comunità possa qualificarsi come cristiana, deve aver ereditato e rimanere fedele alla sua derivazione da una chiesa apostolica come una vite deriva per propagine il suo essere da un'altra vite. Le liste dei vescovi si inseri scono nel provare tale apostolicità. In tale prospettiva non emerge tanto la santità morale dei capi della Chiesa, quanto la loro origine e connessione con le chiese aposto liche in tutto ciò che operano, insegnano e trasmettono senza nulla omettere e nulla aggiungere (Tert. praescr. cc. 19-21).
(6) Liste episcopali sono a d e s . i n I reneo, A dv . haer. 3 , 3 , 3; Tert. praescr. 22.
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2. La veridicità della Chiesa
(Il rapporto Chiesa-Croce, Chiesa-Cristo Chiesa-Spirito)
n rapportarsi agli Apostoli delle Chiese sub-apostoliche costituì la prova storica di garanzia, per una comunità cristiana, di essere in quel solco che, iniziato da Cristo, si diffondeva ormai un po' dappertutto e stava conquistando il mondo intellettuale. La « nota >> della apostolicità tutta via, se in sé confinava con l'idea di tradizione dell'intero messaggio cristiano, in effetti veniva utilizzata come cri sterio esterno (storico) che segnava i limiti entro cui si poteva essere cristiani. Per tale motivo la Chiesa, riguar do ai contenuti di verità del suo messaggio, soprattutto quello soteriologico, li giustificò con l'autocomprensione che ebbe di sé, come << ricettacolo della verità » e << luogo dello Spirito ». Queste due dimensioni, di estrazione asia tica, anche se dopo Costantino cedettero a una compren sione di Chiesa più allineata sulla dimensione visibile-giu ridica, rimasero come precomprensione di ogni teologia sulla Chiesa a più vasto respiro.
a. La Chiesa << ricettacolo della verità » Questa espressione si legge nell'omelia Sulla Pasqua di Me litone di Sardi. Tale omelia, costruita come un encomio secondo i canoni delle figure retoriche della Seconda Sofistica, sviluppa i temi principali della Pasqua: No mos-Logos, Croce, Gesù Cristo. L'Ecclesia, più che un te ma da trattare, è dato come il contesto entro cui tali temi hanno il loro spazio, cioè il luogo del realizzarsi della Pasqua (Gesù Cristo) per il popolo di Dio che, nel l'Antico Testamento, aveva i suoi << tipi » o << immagi ni ». Melitone scrive: << Il popolo (eletto) fu dunque l'ab bozzo di un piano, e la Legge una parola scritta. Ma il Vangelo è la spiegazione della Legge e il suo compimento, e la Chiesa il ricettacolo della Verità » (Sulla Pasqua 40, 277-280: ed. O. Perler SChr 123, 80). L'espressione << ri cettacolo >> (apodocheion), che nel Timeo di Platone (49e-50e) indicava lo spazio vuoto e, nel platonismo me dio, veniva usata per spiegare il mondo sensibile, è appli cata alla lettura tipologica delle Scritture e alla Chiesa come luogo-ricettacolo dove avviene, sul piano storico, la 31
realizzazione o il riempirsi di quella impronta di cui ci parlano le Scritture relativamente a Gesù Cristo. L'appli cazione alla Chiesa è fatta da Melitone in relazione al confronto con la comunità ebraica, nel rapporto di figu ra-realtà, tipo-antitipo. Se la comunità ebraica era « tipo » di un'altra comunità e questa è venuta - è l'argomenta zione di Melitone - essa deve cedere il posto alla Chiesa. Egli scrive testualmente: << Il popolo (ebraico) è stato svuotato, una volta fondata la Chiesa. Resosi manifesto il Signore, la figura è abolita >> ( Sulla Pasqua 43, 300-302 : Perler, p. 82). Nel ragionamento di Melitone e delle testimonianze in genere del cristianesimo dell'Asia Minore si applicò alla Chiesa la funzione unitiva e divisoria della croce di Cri sto, tanto sviluppata nelle omelie pasquali del tempo. La Chiesa, nella linea della comprensione della croce, albero della vita (sul paradigma dell'albero della vita piantato nel paradiso terrestre, Genesi 2) e anima mundi (la cate goria platonico-stoica del principio vitale cosmologico e antropologico), viene ad assommare in sé tale duplice funzione: a lei spetta unire e dividere gli uomini dal punto di vista religioso. La croce di Cristo infatti è quello albero della vita di cui parlano le Scritture e l'anima mundi dei filosofi, piantato ormai nel mondo e propria mente nella Chiesa. Si sviluppò in tale visione lo stretto rapporto tra Cristo e la Chiesa per cui, secondo Ireneo, Gesù Cristo se non è quello del praeconium Ecclesiae non è più il Gesù Cristo da adorare, ma un uomo nella linea degli antichi filo sofi (Adv. haer. l , 22, 1). La Chiesa, intesa come « ri cettacolo della verità », nel contesto della comprensio ne della croce, si comprese come la sola portatrice del la Vita (Gesù Cristo) rispetto ai giudei, agli scìsmatici e agli eretici. L'altra categoria della croce, anima mundi (categoria della concezione cosmologica del platonismo e dello stoicismo che, nell'alessandrinismo prima e nel cri stianesimo poi, divenne modulo espressivo dell'antropolo gia nei termini del logos e del pneuma) sviluppava la funzione connettiva della croce da cui dipende la stabilità del mondo stesso. Scrive un autore del II secolo: « Que st'albero dalle dimensioni celesti (è) ... fondamento di tut te le cose, sostegno dell'universo, supporto del mondo intero, vincolo cosmico ... L'universo intero era sul punto 32
di ricadere nel caos e di dissolversi ... ma, al risalire dello spirito divino, come rianimato, vivificato e consolidato, l 'universo ritrovò la sua stabilità » (Sulla Pasqua 5 1 , 9-10 e 55, 3 : ed. Nautin SChr 27, 179 e 183). Nell'ambito semantico del verbo sterizo (consolidare, es sere di sostegno), si sviluppò nell'applicazione alla Chiesa delle funzioni della croce, quel concetto << del fondamen to » dell'essere della Chiesa divenuto poi comune: essa è fondata su Gesù Cristo, sugli Apostoli, su Pietro, sui suc cessori degli apostoli. Naturalmente il significato origina rio di « ricettacolo della verità >>, luogo di realizzazione delle promesse di Dio, attenuatasi la polemica col giu daismo, si spostò sul piano della verità intellettuale sosti tuendo quello storico di realizzazione. La Chiesa venne ad assumere la funzione di colei che possiede la verità e la custodisce, difendendo dagli eretici il suo depositum fidei. Ricevettero, in tale evoluzione, nuovo significato e com prensione anche le regulae e i simboli della fede, come espressioni concrete della Chiesa che giudica le verità proposte dagli altri, al suo interno come all'esterno. An che i concili, da locali che erano, dopo il concilio di Nicea del 325 assunsero una dimensione riguardante l'in tera cristianità: la fede nicena è data come norma di verità ortodossa in tutte le chiese. Le espressioni conci liari diventano sempre più normative, sia per il contenuto che per lo stesso modo di esprimersi. Ogni nuovo concilio ecumenico inizia professando di accettare la fede che era stata professata nel precedente concilio. Ciò produsse una continuità di espressione e d'interpretazione del dato cristiano che, dal punto di vista teologico delle mediazio ni culturali, non poté non accusare la difficoltà dell'in vecchiamento delle mediazioni usate nei concili preceden ti. Si ebbe sempre più infatti un blocco di pensiero cri stiano molto omogeneo ma anche molto limitato, troppo circoscritto a delle verità da credere che, a loro volta, non erano sempre veicolate dalle istanze culturali sia di verse (quelle etniche) sia nuove (quelle proprie dei tra passi culturali) . La croce, oltre quella di congiungere, aveva anche la funzione di separare e si prestava ad essere applicata alla Chiesa, come di fatto avvenne. Essa si pose come elemento discriminante rispetto alla comunità giudaica, eretica e scismatica. Tale applicazione fece da supporto alla Chiesa, che si pensò sempre più in un'u33
nicità che la collocava tra giudei, pagani, eretici, scisma tici, del tutto separabile da loro. Si dovette attendere A gostino per chiarire la concezione dell'unità della Chiesa e la sua funzione all'interno della storia umana, tesa a trovare il suo destino definitivo nella Città di Dio. b. La Chiesa luogo della Spirito Se la Chiesa, << ricettacolo della verità >>, connotava all'ini zio la comunità cristiana apostolica, come luogo storico dell'adempiersi delle promesse di Dio per l'umanità ed evidenziava il binomio Cristo-Chiesa, la Chiesa, << luogo dello Spirito >>, creava un altro binomio di comprensione della sua funzione, quello di Chiesa-Spirito che indicava la comunità cristiana come unica garante di verità, per ché ciò che nasce in lei è frutto dello Spirito di Gesù Cristo. L'elemento << Spirito >> diede alla comprensione di Chiesa una visione più larga di quella legata alla for mula << ricettacolo della verità >>, che si era andata li mitando, nel significato, a contenuti di verità e suo de positum, intesi sul piano logico-dottrinale e non più sul piano storico del compiersi in essa della redenzione uma na. Lo Spirito pone nell'uomo il suo sigillo; nell'unzione bat tesimale lo rende << abitazione sacra dello Spirito divino » (anonimo 14no, In s. Pascha 15, 2: ed Nautin, SChr 27, 143) ; forma la Ecclesia che, contenendo lo Spirito, realizza in sé le promesse di Cristo. Si venne a creare una circolarità tra Cristo-Spirito-Chiesa, che influirà sempre più sulla valutazione di ciò che dice e decide la comunità cristiana conservandone, d'altra parte, anche il limite u mano perché Io Spirito non è circoscrivibile. L'anima mundi stoico-platonica, trasferita nell'ecclesiologia, diviene anima Ecclesiae, presupposto per partecipare alla reden zione di Cristo. II rapporto Spirito-Chiesa diviene la co stante di ogni argomentazione a favore della Chiesa con tro eresie e scismi di qualunque sorta. Va tenuto tuttavia presente anche il tenore della polemica allora in atto nella cristianità, suscitata da Marcione e dallo gnostico Valen tino. Marcione accusava il messaggio cristiano della Chiesa di essersi inquinato di giudaismo e Valentino rivendicava 34
agli gnostici il potere di essere tramite dell'Evangelium veritatis (uno scritto forse di Valentino). Ireneo evidenziò la non verità e quindi la non autenticità del messaggio degli gnostici, confrontandola con la regu la veritatis della Chiesa, la comunità che partecipa diret tamente allo Spirito e alla conoscenza del Padre e del Figlio (Adv. haer. 3, 4, 2), che è in possesso dello Spirito (Epid. 42) ed è perciò capace di giudicare le dottrine false (Adv. haer. 4, 33, 2 7) . Egli scrive: « Nella Chiesa è posta ogni attività dello Spirito ... perciò dov'è la Chiesa ivi si ha pure lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio lì sta la Chiesa e ogni grazia, e lo Spirito è verità » (Adv. haer. 3, 24, 1 ) . Per tale motivo la regola di verità della Chiesa è, al medesimo tempo, base e norma del suo esi stere, perché il Vangelo, opera dello Spirito ed espressio ne della dottrina degli Apostoli, « è colonna e fondamento della Chiesa » (Adv. haer. 33, 1 1 , 8). II rapporto dello Spi rito con la Chiesa, così come la sviluppò Ireneo, segnò la teologia sia asiatica, che quella latina di Ippolito e di Tertulliano. L'accentuazione di tale rapporto ebbe tut tavia altri sviluppi, soprattutto nella chiesa latina, che fecero da supporto alla questione donatista sviluppatasi in Africa nei secoli IV e V. Consideriamo l'insieme dei pro blemi legati al binomio Chiesa-Spirito nell'ambito della nota della Chiesa << la santità >> e della polemica donatista. -
3. La santità della Chiesa·
Donatismo-Svolta costantiniana
L'apostolicità legava la Chiesa alle sue ongm1 per cui essa, come rilevava Clemente Alessandrino, era una, catto lica, antica e non vi era possibilità di misurarsi con lei da parte di gruppi scismatici ed eretici (Strom. l, 16-17). In tale contesto lo gnostico ortodosso, nella linea dei vesco vi, custodi della traditio ecclesiastica e aventi potere di giudicare le dottrine eretiche (Origene, In Num. hom. 9 , 1), svolgeva il ruolo di custode delle dottrine ortodosse degli apostoli e delle chiese (Cl. Aless. Strom. 7, 16, 1 04) . Il legame della Chiesa allo Spirito portò invece, oltre che alla comprensione della veridicità della Chiesa, alla con cezione di una Chiesa « santa >> . Questa non viene com presa come luogo ma come « assemblea di eletti >> (Strom. 35
7, 5, 29), un coetus sanctorum che vive nella giustizia (lp polito, In Dan. l, 14 e 1 7) . In tale linea la chiesa temporale è intesa come « sposa di Cristo » (Il commento di Ippolito al Cantico dei Cantici), come immagine della Chiesa celeste (Cl. Aless. Strom. 4, 8, 66; Tert. De bapti smo 15), quale immagine della stessa Trinità (Tert. De pudic. 2 1 ) . Si entra nella Chiesa col battesimo, porta di accesso alla comunione dei santi, dei giusti e sigillo dello Spirito. Coloro che la compongono sono pertanto gli uo mini nati dallo Spirito cioè gli uomini spirituali. Scriveva Tertulliano in polemica con i vescovi : « La Chiesa, propria mente e principalmente, è lo stesso Spirito nel quale è la Trinità di una divinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito santo. (È Lui che) raduna quella Chiesa che il Signore pose nei Tre e, da allora, anche l'intero numero di coloro che sono stretti da una stessa fede. Sono essi che sono considerati la Chiesa dal suo autore e consacratore. Quindi la Chiesa perdonerà i peccati, ma la Chiesa-Spirito per mezzo dell'uomo spirituale, non la Chiesa-numero dei vescovi » (De pudic. 2 1 ) . Se con Tertulliano si pose il p roblema « Spirito » nel suo legame con i vescovi e gli uomini spirituali ( = i profeti di Montano per Tertullia no); con la questione dei lapsi sorta durante la persecu zione di Decio (249-251) si estese tale problematica a una comprensione generale di Chiesa. Accanto alla situazione di cristiani che avevano confes sato Cristo (sottoponendosi al carcere, a pene pecuniarie, alla perdita del posto di lavoro e anche della vita) si ebbe, nella grande maggioranza, una defezione in massa dal confessare pubblicamente la fede cristiana. Mentre i pri mi si qualificarono come martiri ( = testimoni), gli altri vennero indicati come lapsi ( = coloro che erano caduti). Questi ultimi vennero classificati in: libellatici (da libel lum = attestato) cioè coloro che avevano ottenuto un cer tificato di aver offerto incenso agli dèi; turificati, coloro che avevano offerto un granello d'incenso richiesto dalle autorità; e traditores ( da tradere = consegnare), coloro che avevano consegnato i libri sacri alle autorità civili. Tra i due gruppi, una volta passata la persecuzione, venne a crearsi la difficoltà di convivenza. Nomi molto noti, co me Novaziano e Ippolito, insistevano per la separazione dei due gruppi; altri, in particolare Cipriano, si adopera rono perché la comunità cristiana superasse tale frattura 36
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che rischiava di snaturare la Chiesa come comunità aper ta alla redenzione degli uomini, anche dopo il battesimo. Le istanze di Novaziano e Ippolito vennero raccolte in Africa dai Donatisti (7) . Questi, coagulando proteste di va ria natura esistenti allora nell'Africa del nord (naziona Iismi, tensioni sociali ed ecclesiastiche nelle città come nelle campagne), radicalizzarono la scissione ponendosi essi nella continuazione della Chiesa dei martiri, e cono cando gli altri cristiani, vale a dire la Chiesa << cattolica », in quella di Giuda il traditore. Simili conclusioni non furono soltanto slogan usati nei momenti caldi delle ten sioni tra i due gruppi : esse esprimevano soprattutto le nuove questioni sorte all'interno dell'autocomprensione della comunità cristiana, e, come diverse risposte conno tavano ormai diversi modi di comprendere l'essere cri stiani. La Chiesa dei martiri si riannodava alla testimo nianza dello Spirito. Tale tesi riproponeva la domanda cir ca la << nota >> che potesse individuare la comunità cristiana come tale, e la risolveva nella constatabile fedeltà a Cristo nell'ambito del vivere. Si approfondiva la questione della santità della Chiesa non tanto nella sua origine e mezzi di santificazione (Cristo, lo Spirito, i sacramenti) quanto nei suoi aderenti. Solo negli uomini << spirituali » la testimo nianza a Cristo si poteva rendere evidente. La teologia battesimale di accesso-ingresso nella comunità dei santi, dei giusti, aveva creato, d'altra parte, una sensibilizzazio ne generale, a tale livello, nell'arco dei primi tre secoli della cristianità. La domanda della reale verificabilità del la santità della Chiesa nei suoi aderenti, apertasi al tem po di Tertulliano col problema della riammissione o meno nella comunità di coloro che si erano macchiati di un peccato ad mortem (8), e inaspritasi al tempo di Cipriano e dopo di lui con la questione della riammissione o meno (7) Il donatismo, originato nel 311 dalla sospetta ordinazione di
Ceciliano a vescovo di Cartagine da parte di uno dei traditores della persecuzione di Diocleziano (tra il 303-305), prese tale nome dal partito di Donato (pars Donati), eletto vescovo anti-Ceciliano nel 316. (8) I peccati ad mortem (omicidio-apostasia-adulterio) erano detti così perché ritenuti perdonabili solo da Dio, non quindi perdo nabili in vita da parte della comunità cristiana (fu questa la tesi di Tertulliano sostenuta nel De pudicitia, che tuttavia non ebbe seguito) .
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dei lapsi, ebbe col donatismo la sua teorizzazione e an che il suo epilogo. Sia l'uno che l'altro elemento vanno considerati perché coinvolsero le questioni della libertà religiosa, della natura e dell'estensione del potere spiri tuale della Chiesa sulle coscienze degli stessi cristiani, della natura della concezione dello Stato e quindi delle sue possibilità di intervento, o meno, nelle questioni religiose. L'insieme tanto intricato dei problemi, che il dona tismo pose sul tappeto, dice di per sé in quale momento di trasformazione si dibatteva la Chiesa dopo Costantino rispetto al modello di Chiesa precostantiniana. Il princi pale travaglio di quest'ultima fu di testimoniare Cristo davanti alle autorità civili e, all'interno, di trovare i legami continuativi del suo insegnamento ortodosso; la Chiesa posi-costantiniana dovette passare dal suo essere « Chiesa di fronte al mondo » a essere « Chiesa nel mon do ». La natura teologica della questione donatista fu ecclesio logica. La domanda che si poneva era: << Dove si trova la chiesa << cattolica » ? (Optatus, l , 26) . << Essa è certamente una ... - tuttavia - viene affermato nella Lettera ai cat tolici 2, 2 CSEL 53, 232, uno scritto forse di Agostino tra noi e i donatisti verte la questione dove sia questo corpo, cioè la Chiesa ». I donatisti ponevano l'accento sull'aspetto qualitativo della Chiesa (la sua santità in primo luogo) più che sulla sua estensione, anche per intenderne la cattolicità. Storicamente la scissione, che aveva portato la Chiesa africana ad avere in ciascuna deile sue oltre seicento chiese due vescovi, un duplice clero, due schiere di fedeli a guisa di due partiti (cattoli ci e donatisti), nacque in occasione della persecuzione di Diocleziano (tra il 303-305). Si sospettò che il vescovo di Cartagine, Ceciliano, fosse stato ordinato da uno dei ve scovi traditores, e quindi invalidamente. Si riteneva infat ti che chi durante la persecuzione, avesse << tradito » a vrebbe perso ogni potere spirituale, quello cioè di ordina re altri vescovi o nuovi presbiteri. Si era nell'anno 3 1 1 e Ceciliano venne dichiarato invalidamente ordinato da ot tanta vescovi della Numidia che, in sua vece, elessero Maggiorino. Alla resistenza di Ceciliano i fautori di Dona to, succeduto a Maggiorino nella sede episcopale di Car tagine, si appellarono all'imperatore Costantino perché ri solvesse lui la questione. Siamo nell'anno 3 16 e Costanti38
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no emanò un editto di unione dei due gruppi favorendo Ceciliano. Fu l'inizio dello scoppio della violenza in Afri ca, a motivo di un dissenso religioso, che pose nel seno del cristianesimo la questione dell'intervento civile nelle questioni religiose sia singole che di gruppo. Tra un'alta lena di favoreggiamenti imperiali, ora per i cattolici ora per i donatisti, si giunse all'editto di soppressione dei donatisti da parte di Onorio nell'anno 405. Data la grande importanza, annessa a tale decreto, per la questione della libertà religiosa, ne diamo il testo riferi toci da Agostino e la posizione da lui assunta. « (Il dona tismo) - egli riferisce - non soltanto non poteva più usare violenza, ma non poteva neppure più esistere im punemente ... non fu stabilita per loro una pena di morte ma un'ammenda pecuniaria e l'esilio per i loro vescovi e ministri » (ep. 185, 7, 26). La decisione di Onorio colse di sorpresa i vescovi africani che erano riuniti a Cartagine (anno 404) per discutere su un possibile intervento statale contro i donatisti. Questi avevano ucciso il vescovo catto lico di Bagai, Massimino, e avevano fatto un attentato, andato a vuoto, ad Agostino e al suo amico Alipio. I più anziani chiedevano un decreto di soppressione; altri, tra i quali Agostino, chiedevano misure protettive per i cattoli ci lasciando in corso il dibattito in atto, tesi che prevalse ma che venne annullata dalla decisione imperiale di ob bligare tutti i donatisti di ritornare alla « cattolica ». A gostino rifiutò dapprima tale decisione poi, pressato dagli altri vescovi, vi acconsentì. Vi aggiunse tuttavia, come condizione per applicarla, l'istruzione perché la legge non si tramutasse in tirannia (ep. 93, 5, 17). « Mi sono dovuto arrendere - egli confessa - agli esempi messi sotto i miei occhi dai miei colleghi. Dapprima ero del parere che nessuno dovesse essere condotto per forza all'unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con le parole, combattere con la discussione, convincere con la ragione ... Questa mia opinione però dovette cedere di fronte a quella di coloro che mi contraddicevano non già a parole, ma con i fatti » (che cioè interi paesi, presenti i soldati, passavano alla « cattolica ») (ep. 93, 5, 17). Egli escluse poi perento riamente la pena di morte (ep. 1 32, 2; 1 39, 2) perché « una cosa è l'interesse di una provincia, altro quello della Chiesa » (ep. 1 34, 2-4). Agostino mantenne questa posizione fino alla fine della 39
vita, come ci risulta dalle sue Ritrattazioni (2, 5) che sono dell'anno 426 (9) . Se questo fu il suo appoggio alla tesi della maggioranza dei vescovi africani, che più tardi giu stificò anche col passo evangelico « costringili a entrare » (ep. 185, 6, 2 1-24), nella prassi egli fu sempre contrario a tale metodo che non utilizzò né nella questione donatista né in quella pelagiana, nella quale fu particolarmente coinvolto. La sua clausola che, prima di passare alla co strizione, bisogna istruire il dissenziente, costituì la sua norma di agire. Anche dopo il 405 non lasciò la questione donatista in mano ai soldati imperiali, ma si adoperò perché i vescovi donatisti e cattolici risolvessero loro quel problema che, essendo di natura religiosa, non si poteva demandare alle autorità civili. Si ebbe così la con ferenza di Cartagine del 4 1 1 che pose fine allo scisma centenario (l 0) . La Conferenza di Cartagine del 4 1 1 rap presentò, sul piano teoretico, il superamento di una con cezione di << Chiesa di santi » alla maniera donatista, cri stiani cioè separabili sul piano quotidiano da altri che non sarebbero santi. Nella Chiesa, spiegò Agostino, vanno considerati due momenti: quello del tempo presente e quello futuro, escatologico . La Chiesa senza macchia e senza ruga di cui parla Paolo (Ef. 5, 27) appartiene al futuro; la Chiesa presente è un corpo misto, essa è santa ma non lo sono tutti i suoi membri, << essa è come u(9) Nel medesimo tempo delle Ritrattazioni Agostino scriveva sul la bontà della correzione (De correptione et gratia) per i frati che si lamentavano del loro abate. I secoli posteriori non utiliz zarono tuttavia tale opera né gli scritti antidonatisti per giusti ficare la coercizione a essere cristiani. Furono i concetti agosti niani di giustizia che ci deriva da Dio, e quello della pace cri stiana che, portati dal piano teologico a quello giuridico, nella cristianità dopo-Agostino, giustificarono l'utilizzazione dei mezzi a disposizione del potere civile per la promozione della giustizia cristiana. ( 10) La proposta di Agostino sul come attuare l'unità ( dimissione o convivenza dei vescovi cattolici e donatisti) si ha nell'ep. 128. Sulla sua volontà di trattare le questioni religiose all'interno del puro dibattito religioso aveva scritto prima del 405: « Trattiamo della cosa in sé, con la forza della ragione, con la autorità delle sacre Scritture ... lo poi non farò questo finché i soldati sono qui ... bensì dopo la loro partenza, affinché tutti gli uditori com prendano che il mio proposito non è quello che gli uomini ven gano costretti, contro la loro volontà, ad aderire alla comunione di chicchessia ... Da parte nostra cesserà il terrore rappresentato dal potere temporale » ( ep. 23, 6-7) . 40
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n'aia ... ha la paglia e il grano » (In ps. 25, s. 2, 5) . Grano e paglia, cioè buoni e cattivi, vivono insieme nella Chiesa, visibilmente uniti ma spiritualmente separati, e dove la presenza dei peccatori non pregiudica l'innocenza dei buoni, perché questi ultimi traggono solo da Cristo ogni loro santità. Quanto ai sacramenti, essi portano salvezza ma non in dipendenza della santità di chi li amministra (era la tesi donatista per cui ritenevano invalida l'ordinazione di Ce ciliano e il battesimo di tanti per cui li ribattezzavano). I sacramenti infatti, spiegò Agostino, sono di Cristo quanto a potestas, imprimono cioè il carattere di Cristo e non di Donato o di chicchessia. Essi sono della Chiesa solo quanto al ministero (ep. 98 a Bonifacio) , della Chiesa quindi e non delle singole persone quasi potessero da queste essere monopolizzati o manipolati. « Il battesimo è perciò battesimo non per i meriti di coloro (dai) quali viene amministrato, ma per santità e verità propria, a causa di Colui che lo ha istituito » (C. Cresconium 4, 16, 19) . Per tale motivo « battezzi Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; battezzi pure Giuda, è Cristo che battezza » : In Io. ev. 6, 7). Giu stamente quindi, concludeva Agostino, la Chiesa cattolica non ribattezza chi ha già ricevuto il battesimo, solo lo dichiara suo, lo riconosce come suo; solo ne toglie la divisione affinché esso diventi sorgente di salvezza (In ep. Io. 7, 1 1 ; In lo. ev. 6, 1 5-1 6: la tesi agostiniana della di stinzione dei sacramenti in validi e fruttuosi) . La conce zione di Chiesa di Agostino rappresenta la fine del model lo precostantiniano e apre su quello dopo-Costantino: una Chiesa non più a fronte della società ma inserita total mente in essa. L'editto di Costantino del 3 13 aveva rico nosciuto il principio della separazione cultuale tra la religione e l'Impero, accordando la libertà pubblica a o gni culto religioso senza imporne alcuno. « Accordiamo ai cristiani e a chiunque - aveva sancito Costantino - la libertà di seguire la religione che si vuole. E la divinità che regna nei cieli possa essere benigna a noi e a quanti vivono nel nostro impero >> (Eus. HE 10, 5). Questo editto cambiò il volto civico della Chiesa. L'impero accettava di lasciarsi cristianizzare: si poteva cioè servire l'imperatore e lo stato senza tradire Dio. Venivano a cadere le preven zioni di tanti, in particolare di Celso al tempo di Origene, 41
sulla presenza dei cristiani nel tessuto delle istituzioni civili. Il cristiano, cittadino come gli altri, diveniva un caso normale. Se prima di Costantino il cristiano, poiché serviva Dio non poteva servire l'impero, ora tradisce Dio chi non serve l'impero, come accadeva agli ariani che, con la loro eresia, ne minavano l'unità. Fra impero e religione cristiana si veniva a creare un vero e proprio binomio: l'unità dell'impero veniva legata all'unità della fede che, in termini pratici, significò legare al potere politico dominante la religione cristiana. A quel tempo non esisteva ancora un potere papale alla pari, col quale l'imperatore dovesse accordarsi, si trattò perciò di gua dagnare a quella causa vescovi e personalità cristiane le più rilevanti possibili. Emersero tra tanti Eusebio di Ce sarea in Oriente ed Ambrogio di Milano in Occidente. Essi divennero i primi interpreti della nuova situazione creatasi tra potere civile e fede cristiana. Le gerarchie ecclesiastiche acquistarono autorità morale in tutto l'im pero. La pax romana si vedeva finalmente realizzata nell'impero del principe cristiano (Eus. Laud. Const. 1 6) , che diviene il tipo dell'imperatore che realizza la giustizia nell'ordi namento civile. Si inizia a preconizzare, sul piano politico, una società universale cristiana. Alla nuova situazione qualcuno si ribellava: « Non mescolate Roma e la Chiesa, il potere imperiale e i canoni », ammoniva Lucifero (pro Athanasio 22) ; il Crisostomo introduceva la distinzione della giurisdizione del principe sui corpi e del prete sulle anime (Hom. 4, 4-5 PG 56, 125) che venne poi molto sfrut tata per determinare le rispettive competenze dell'impe ratore e del papa; Ambrogio teorizzava la preminenza della potestas spiritualis della Chiesa sullo stesso impera tore. « Non credere, o imperatore - si rivolgeva a Valen tiniano II di poter avanzare qualche diritto, in quanto imperatore, sulle cose della Chiesa. Non avere queste pretese ... Cesare non è al di sopra della Chiesa, egli è nella Chiesa » (ep. 13). Agostino nel De civitate Dei affrontava l'insieme delle questioni, in particolare quella sul modo di essere cittadini « cristiani >>, quando ormai già esisteva l'alleanza tra i cristiani e l'impero. La Chiesa, nella sua visione, non si pone come una società alternati va alla società, un luogo di rifugio, un'arca di Noè, una casa dove possono abitarvi solo alcuni (i santi della con-
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cezione donatista di Chiesa); essa può abbracciare l'inte ra società umana perché ne è all'interno. La società è il campo della Chiesa quanto a forza e compito di unificar la, data la scissione inerente all'umanità che nasce tutta da Adamo. La « cattolica » è un microcosmo della ristabi lita unità della razza umana, anche se essa porta in sé, come l'intera società umana, la contraddittorietà di due città (quella che perisce fondata sull'interesse privato, l'amor sui, la città terrena; quella fondata sull amor Dei che si costituisce come unica e definitiva città, la Città di Dio). In questa nuova prospettiva delle due città, sia le istituzioni civili che quelle ecclesiastiche vengono segnate dal limite della loro mediazione, dalla relatività del loro apporto al raggiungimento del destino di ogni singolo. Viene valorizzato l'individuo che, solo, è dominus, e che con la scelta del suo amore, costruisce se stesso come cittadino della civitas che perisce (la civitas terrena) o di quella eterna (la civitas Dei) ( 1 1 ) '
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( 1 1) Sulla svolta costantiniana e la Chiesa, vedi L. De Giovanni, Cf!stantino e il mondo pagano, Napoli 1977 ; V. Grossi, Regno di Dw e città terrena: da Costantino alla Riforma, in Regno di Dio . , terrena, Torino 1979, 79-125. e Cltta
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gl i IniZI della riflessione teologica
Il secolo III significò, per la cristianità, il prendere le misure col mondo della cultura a livello di riflessione. Il cristianesimo, che sin dall'inizio aveva portato nel suo ambito molta gente del mondo medio del lavoro, anche i simplices e gli idiotai, a partire del secondo secolo si presenta sempre più come una « filosofia », come un mo do cioè di intendere la vita, capace di dare proprie solu zioni ai problemi del cosmo, dell'uomo, di Dio. A diffe renza di altre religioni che, limitate a pratiche iniziatiche e al senso religioso, non avevano per lo più una teologia, il cristianesimo riflette sulla sua religione, sul suo stesso modo di « essere religiosi », dando origine alla teologia cristiana. I libri di testo di tale teologia furono la Bibbia dei 70 per l'Antico Testamento e il canone del Nuovo Testamento, letti per i problemi riguardanti l'origine del tutto, la libertà dell'uomo e il suo destino. Di fronte a tale fenomeno gli uomini della cultura iniziano ad avvici nare il cristianesimo, a prenderlo in seria considerazione e a darne, naturalmente, una loro lettura. Mentre si con vertono al nuovo credo filosofi come Giustino, alcuni cri stiani, ad es. Melitone di Sardi, propongono e presentano al mondo culturale greco-romano la loro religione come « filosofia » (in Eusebio, HE V, 26, 4-1 1 ) . Dappertutto na scono, sulla falsariga delle scuole filosofiche pagane, scuo le cristiane che mediano il messaggio cristiano nelle cate gorie epistemologiche ellenistiche. Giustino e Taziano fondano, come maestri itineranti, scuole cristiane nelle grandi città; Rodone e i due Teodoto hanno scuole a Roma con dimora fissa (Eusebio, HE V, 1 3 e 18). Prassea, oltre che a Roma e in Asia, fonda una scuola anche a 44
Cartagine (Tertulliano, Adv. Prax) . Tali scuole, che si mi suravano con quelle dei filosofi pagani del tempo, mentre creavano un linguaggio culturale cristiano adeguato ai tempi, davano tuttavia l'immagine di scuole che, in qual che modo, erano sette a sé, non aventi il taglio della Grande Chiesa. I doctores di tali scuole trovavano difficoltà nell'essere capiti dall'intera comunità cristiana, anche se nei discepoli vi era molto entusiasmo per i maestri, e molti venivano guadagnati a tali scuole, soprat tutto i meno preparati intellettualmente. Nei pagani si ingenerava l'impressione che si trattasse di scuole filo sofiche come le loro, mentre i cristiani, diffusisi ormai un po' dappertutto nell'ecumene antica, avevano sempre più coscienza di essere la vera religione dell'umanità tutta ( giudei, greci e barbari), essi cioè erano religiosamente « cattolici » (universali). In seguito a tale situazione in cominciò a diffondersi nel sec. III una vera p sicosi di diffidenza nei riguardi di quei doctores che, tramite la cultura greca, volevano dare una propria lettura del cri stianesimo. « Sembrò quasi, come scrive Harnack (Mis sione e diffusione del cristianesimo, Milano 1945, p. 288), che la salvezza della Chiesa dipendesse dal conservarsi immune da ogni contatto con la cortigiana del demonio, la filosofia ». In realtà, il fatto nuovo che era avvenuto, era l'uscita del cristianesimo dall'orizzonte culturale vetero-testamentario. La comunità cristiana nel rivendicare a sé, come reli gione, l'appellativo di « cattolica » operò, sul piano del pensiero, la rottura con l'universo giudaico. Il suo de positum fidei veniva ormai a essere mediato da altre categorie, quelle ellenistiche, in relazione alla sua conce zione di Dio col conseguente nuovo rapporto con il cosmo e con l'uomo; di Gesù Cristo Dio-uomo; della storia. L'incontro tra cristianesimo e cultura ellenistica, che po teva considerarsi come un riconoscimento ufficiale del messaggio cristiano da parte del mondo della cultura, provocò tra i cristiani una crisi profonda. Il trapasso culturale, dall'universo giudaico a quello ellenistico, fu talmente violento che suscitò in molti l'impressione, a dire di Tertulliano, che non si riusciva più a distinguere la porta vera dove entrare per diventare cristiani (praescr. S-7). La lettura della « filosofia cristiana », da parte degli intellettuali, fece nascere il problema dello 45
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gnosticismo ortodosso tra le file cristiane, una conoscenza cioè della loro fede mediata in categorie culturali greche. Il fascino del pensiero greco portò Marcione a rigettare l'Antico Testamento e tutte quelle parti del Nuovo Te stamento che, secondo lui, sapevano di giudaismo. Si vo leva essere cristiani << greci » e non più giudei, vale a dire culturalmente moderni senza essere più ancorati a ca tegorie del passato. Veniva così considerata superata la rottura di Paolo con l'Areopago (Atti 17, 23-33). Le affermazioni di Giustino, circa i « semi di verità » (A pol. I, 44) sparsi nel paganesimo e « il vivere col Logos » (Apol. I, 46), vengono universalizzati in una ricerca fat tuale con la grecità e in un ideale di vita, soprattutto nella cristianità alessandrina. Nacque quello che, con termine globale, si chiamò gnosticismo e cioè, dal punto di vista cristiano, una conoscenza che equivale a un sistema glo bale di interpretazione del cristianesimo. Iniziò così la riflessione teologica in categorie di pensiero greco, che aveva un proprio universo culturale diverso da quello giu daico. Quest'ultimo poggiava, fondamentalmente, sulla ca tegoria dell'unità del tutto, creato da Dio, in particolare l'uomo; l'universo greco aveva in comune la coscienza del paradosso del tutto, composto di due elementi, lo spirito e la materia che, benché irrudicibili l'uno all'altro, si prestavano però più facilmente a una scomposizione me tafisica logica ed etica e quindi anche a una individuazio ne cristiana in tale contesto. Le difficoltà di comprensione del cristianesimo erano tut tavia evidenti anche nelle categorie del mondo ellenistico. Il mondo platonico mal si adattava a portare il discor so del vero ontologico nell'ambito del sensoriale, che poteva solo essere immagine e mai realtà. Nasceva per tanto la difficoltà non tanto di concepire Dio quanto Gesù di Nazareth, che la fede adorava come Dio: il mon do dell'immagine, della sensazione diventava in Lui il rea le. Inoltre la distinzione spirito-materia portava a indivi duare il bene e il male come realtà in sé e queste, appli cate al cosmo e in particolare all'uomo, portavano a una svalutazione della libertà dell'uomo e a una distinzione dell'umanità in classi per nascita, date dal prevalere dello elemento ilico, psichico o spirituale. Si trattava, come sintetizzava Tertulliano (De praescriptione 7), del pro blema dell'uomo, di Dio, della materia, del male. 46
Sul come affrontare la vastità di tale problematica vi fu nell'antichità cristiana un duplice orientamento che deli neò per sempre, nella storia della Chiesa, le tensioni della riflessione teologica e ne diede pure i primi risultati me todologici. Vi fu la corrente che si oppose alla mediazione culturale greca e tacciò la filosofia di essere la fonte di ogni eresia. Questa corrente mise in luce il dato tradizio nale che, ricevuto in origine, andava conservato senza alterarlo. Essa venne patrocinata, naturalmente, dalle scuole catechetiche di iniziazione al cristianesimo, dove il problema era di vita e non di riflessione: si trattava di imparare come confessare Cristo e non tanto di come mediarlo con la cultura emergente (così è impostato il De praescriptione di Tertulliano e tutta la sua opera cateche tica, in particolare De oratione, de spectaculis, de corona, de idololatria). Il rifiuto, almeno intenzionale, di una pos sibile mediazione culturale greca con la fede cristiana, non significava tuttavia eludere la questione culturale. Lo stesso Tertulliano, che avversò il penetrare della filosofia nella comprensione della fede, si oppose ai simplices e agli idiotai che non intendevano saperne di cultura. Già le Pseudo-clementine avevano severamente criticato colo ro che volevano sostituire un insegnamento dottrinale con i sogni e le visioni, metodo proprio di Simon Mago (Horn. 17, 14-19) . Per Tertulliano il compito del doctor cristiano non era il dover per forza mettere insieme Atene e Geru salemme; egli aveva propri punti di riferimento nella ri cerca della verità (praescr. cc. 3, 7 ; 14) . Il suo appellarsi alla tradizione primigenia gli consentì di rigettare le dicotomie del pensiero greco portate da Mar cione nelle stesse Scritture. Una corretta lettura delle Scritture può aversi solo nell'ambito del traditum da Cristo agli Apostoli e da questi alle chiese, il che suppone di non poter prescindere dalla matrice giudaica del cri stianesimo (praescr.), come voleva Marcione. L'altro orientamento, proprio degli alessandrini, fu di mediare il cristianesimo con le categorie culturali greche. Accettando il travaso di una nuova mediazione, si mette va in luce la vitalità del messaggio cristiano ma si accet tava anche il rischio di dover rifare, intellettualmente, tutte le strutture portanti. A qualcuno è sembrato che t�le tentativo fosse << un assalto della ragione al cristiane Simo » (A. Hamman, in Augustinianum 1 1 ( 1 97 1 ) 457 ss.). 47
In effetti avvenne che, scegliendo l'universo culturale gre co a chiave interpretativa del cristianesimo, si diede ori gine ai sistemi gnostici che si configurarono in due orien tamenti abbastanza precisi: la gnosi eterodossa (Valenti no e altri); la gnosi cristiana alessandrina di Clemente e Origine, che segnò l'inizio articolato del pensiero cristia no. La famosa interrogazione di Tertulliano: « Che c'è di co mune tra Atene e Gerusalemme? tra l'Accademia e la Chiesa? tra gli eretici e i cristiani? » (praescr. 7, 9), sinte tizzò la natura del problema fede-cultura che travagliava la Chiesa del sec. III in Africa come in Asia e ad Ales sandria. La soluzione di tale nodo culturale, che coincide va con la ricerca stessa della verità cristiana, esigeva metodologicamente i suoi punti di riferimento. E dato che il problema si polarizzava attorno all'interpretazione delle comuni scritture (Antico e Nuovo Testamento) se ne cercarono le norme di lettura. Nacquero così il De prin cipiis di Origene e il De praescriptione haereticorum di Tertulliano, come pure in un certo senso, l'Adversus hae reses di Ireneo e la sua Epideixis. Tali opere gettarono le fondamenta della metodologia di ricerca della verità in campo cristiano, e indirizzarono entro i canali dell'orto dossia della Grande Chiesa lo sviluppo del pensiero cri stiano. La ricerca teologica acquisì in questa polemica alcuni punti base. l. Vi fu un consenso generale nel ritenere come norma guida di lettura delle Scritture la regula fidei o veritatis (Ireneo-Tertulliano) o la regola apostolica trasmessa alla Chiesa, la regula ecclesiastica (Origene). Tale regola con sente, secondo Origene, la saldatura tra l'Antico Testa mento e il Nuovo attraverso una lettura tipologica, che conosce nella rivelazione la gradualità e non l'opposizio ne. Egli indicò tali gradualità nelle categorie di om bra-immagine-verità, facendole corrispondere ai tre possi bili modi di capire le Scritture da parte dell'uomo: lette- rale-psichico-spirituale o allegorico (De principiis IV, 2, 4) rispettando la costituzione tricotomica dell'uomo (cor po-anima-spirito). Tale regula fidei o ecclesiastica poneva la Chiesa del presente, o la Chiesa vivente, come inter mediaria tra il rivelato (il dato assolutizzatosi in qualche modo nel canone dell'Antico e del Nuovo Testamento) e -·
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la storia (il dato contingente che interpretava in spazi storici, culturalmente concreti, il dato rivelato). Si venne a creare la coscienza di un sensus ecclesiae, cioè di una percezione corretta della rivelazione che si aveva nell'am bito della comunità, ed essa era ritenuta norma guida di ogni altro principio ermeneutico. La regula fidei venne così a porsi come la prima regola rispetto a ogni pre comprensione culturale del cristianesimo (Ireneo, Adv. haer. I, 9, 4), ritenendola la sola ancorata al solco della tradizione apostolica, contro ogni altra pretesa tradizione, ad esempio quella degli gnostici (Adv. haer. 3, 4, 1 ) . A tale sensus ecclesiae si appellarono in vari modi (prassi della Chiesa, prassi liturgica ecc.), nello sviluppo del dogma cristiano, i secoli seguenti, evitando il pericolo che il cristianesimo venisse limitato a un dato solo di ordine intellettuale, oppure s'ingenerasse l'idea di una duplice religione cristiana: una per la gente colta e una per la gente di ceto popolare ( 1 2) . 2 . Accanto a tale orientamento della regula fidei-sensus ecclesiae si affermano, nella ricerca cristiana, altri due principi. Nell'approccio culturale col cristianesimo non si possono prendere a metro di misura di quest'ultimo le categorie di un dato universo culturale, anche se le si utilizzano. I n tal caso infatti esse si costituirebbero temerariamente in terpreti della natura di Dio e della sua volontà (temeraria interpres divinae naturae et dispositionis, Tert. praescr. 7, 2). Un tale procedere tradirebbe sia l'origine del cri stianesimo sia la sua natura. Il cristianesimo infatti non è un sistema filosofico che si misura con altre filosofie sul piano dialettico, ma è una possibilità data all'uomo di cercare Dio che diventa reale, per chi lo cerca in sempli cità di cuore e non partendo da presupposti culturali anche se si muove entro tali categorie. Così Tertulliano 02) Il pericolo di una dicotomia tra teologia e fede popolare si era posto nel modo stesso di far teologia, in particolare ad Ales sandria. Origene infatti aveva introdotto nella ricerca cristiana i diversi gradi di conoscenza che, da gradualità, potevano stabiJiz. zarsi in veri piani separati (J. Lebreton, Il disaccordo tra fede popolare e teologia dotta nella Chiesa cristiana del terzo secolo, Milano 1972: tr. i t. di due articoli apparsi in RHE, 1919, 481-506 ; RSR, 1922, 265-296) . 49
sintetizzò l'intero problema: « Cosa hanno in comune Ate ne e Gerusalemme, l'Accademia e la Chiesa, gli eretici (i filosofi) e i cristiani? La nostra dottrina viene dal portico di Salomone. E già lui aveva insegnato che il Signore va cercato in semplicità di cuore. Se ne rendano conto colo ro che hanno generato un cristianesimo stoico, platonico e accademico » (praescr. 7, 9-1 1 ) . La ricerca cristiana non è finalizzata a se stessa, quasi si tratti di una divagazione intellettuale; essa è tesa a trovare la verità ricercata per potervi credere e adeguarvi il proprio modo di vivere (praescr. 7, 12; 8-12). La coscienza di una ricerca, a servi zio della vita di tutti i credenti, tenne ancorato il cristia nesimo sia alle radici della storia che alle masse popolari dando all'enucleazione del suo pensiero, nelle formulazio ni conciliari e teologiche, dimensioni culturali di popolo e non solo elitarie. Mantenne inoltre viva la coscienza della provvisorietà di tali formulazioni, legate a polemiche, ad ambienti e a culture determinati e quindi di per sé desti nati a rinnovarsi. Dal sec. II in poi, nello sviluppo del pensiero cristiano, acquistarono un particolare rilievo Paolo e i suoi scritti. La scuola di Harnack, che aveva visto in Paolo una frat tura del genuino cristianesimo di Gesù e lo sviluppo del pensiero cristiano nella linea di Paolo, attualmente ha dovuto aprirsi ad altri risultati. I nfatti gli studi sono ora giunti alla conclusione che Paolo ebbe un suo ruolo dal secolo II in poi quando, nella polemica con Marcione, si recuperarono al canone delle Scritture il Vangelo di Luca e con esso anche gli Atti degli Apostoli. All'inizio Paolo venne avversato dai giudeo-cristiani come « violatore della Legge », finché Marcione ne diede un ritratto, secondo Gal. l e 2 e 2 Cor. 1 1 , di missionario del Vangelo procla mato nella sua purezza, anzi liberato da influssi giudaici. Vi fu ancora il tentativo di Valentino di valorizzare Paolo nel suo sistema - anche se non si sa nulla di un'esegesi sistematica di Paolo da parte degli gnostici - e, contro tale pretesa, nacquero gli Acta Pauli, che danno di lui un ritratto antignostico. Paolo, entrato così nel Canone scritturistico della Grande Chiesa, diviene un punto di riferimento costante nello sviluppo del pensiero cristiano.
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parte seconda
le istituzioni
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l'iniziazione cristiana e i suoi riti
1. L'iniziazione
Il termine cristiano per indicare i discepoli di Gesù venne usato per la prima volta ad Antiochia (Atti 1 1 , 26) ; non sappiamo però se da parte dei pagani o degli stessi discepoli : sembra più probabile la prima ipotesi, perché l'appellativo non si diffuse subito, il che starebbe a indi care piuttosto un'accusa proveniente dall'esterno e perciò l'accezione dispregiativa del nome. Esso comunque nel tempo sostituì altri termini neotestamentari precedente mente usati: eletti, santi, discepoli, e divenne il nome corrente. Alcuni Padri a quel fine lo fanno derivare da Cristo, inteso come nome proprio, in quanto i cristiani erano i seguaci, i discepoli di Cristo, il maestro per eccel lenza. Raramente indugiano a spiegare il suo significato etimologico: Cristo unto: in tal senso i cristiani - gli unti - sono partecipi del sacerdozio di Cristo. Nel IV secolo si tende a chiamare cristiani anche i cate cumeni, poiché anch'essi già sono i seguaci di Cristo e possono professarsi suoi discepoli, mentre il termine fe dele è riservato esclusivamente ai battezzati. Solo questi ultimi possono partecipare all'eucaristia e a tutta la vita della chiesa. Per essere annoverati tra i fedeli è necessa rio un periodo di prova e di preparazione, che culmina nei riti della notte pasquale, in cui si ricevono i sacra menti dell'iniziazione cristiana. Oggi si adopera il termine iniziazione per indicare tutto il cammino di conversione che si deve compiere prima del battesimo, un tempo di preparazione progressiva, oppure con esso si vuole esprimere l'unità dei tre sacramenti: =
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battesimo, confermazione ed eucaristia. Per i Padri invece il termine indicava soltanto il momento in cui si comp i vano i riti finali e si svelavano le verità cristiane durante la notte pasquale ai neobattezzati, con notevole differenza nell'estensione semantica rispetto all'uso attuale. Per e sprimere il periodo di preparazione in linguaggio patristi co dovremmo parlare di catecumenato e di catecumeni. I Padri dei primi secoli furono riluttanti a usare per l'iniziazione cristiana la terminologia iniziatica tradiziona le, perché questa apparteneva al linguaggio delle religioni misteriche (es. di Eleusi, di Mitra): anzi vi furono pole miche al riguardo; possibili somiglianze rituali furono ne gate o spiegate come scimmiottature diaboliche dei riti cristiani (1). Nel corso del IV secolo invece la terminologia iniziatica entrò nell'uso, come pure si diffuse la disciplina dell'ar cano, espressione moderna coniata per esprimere il segre to che circondava alcuni sacramenti cristiani, la cui co noscenza era riservata solo ai fedeli. Segno che i tempi e lo sfondo religioso erano cambiati. Infatti il cristianesimo antico ha strutturato l 'iniziazione - preferisco l'uso moderno del termine a quello di cate cumenato perché più comprensivo - secondo le varie necessità che insorgevano a causa delle difficoltà derivanti da cambiamenti nel seno della chiesa e della società. In effetti si colgono notevoli affinità tra l'iniziazione cri stiana e quella delle religioni misteriche, e questa consta tazione ha portato ad avanzare l'ipotesi che il cristiane simo avesse improntato i suoi riti ad esse e a proporre il problema del rapporto tra sacramenti cristiani e misteri pagani. Per !imitarci ora solo al primo aspetto, mentre il secondo sarà ripreso in seguito, è innegabile che il cri stianesimo antico si sia presentato come religione di mi stero, iniziatica. L'iniziazione però è elemento fondamen tale e connaturale a ogni religione che intenda, con un complesso di insegnamenti e riti, modificare radicalmente ed esistenzialmente il convertito, il nuovo adepto (2). L'i niziato deve iniziare un nuovo modo di vivere, di pensare, (l) P.-M. Gy, La notion chrétienne d'initiation. lalons pour une enquete, La Maison-Dieu 132 ( 1977) pp. 34 ss. (2) Cfr. M. Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli d'iniziazione, Brescia 1974, pp. 9-15.
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per creare in se stesso un uomo nuovo e distruggere il vecchio . Perciò alcune somiglianze strutturali fra religione cri stiana e religioni misteriche possono spiegarsi soltanto sulla base di questo motivo, altre invece possono derivare da origine comune o semplicemente da appartenenza a una koinè religiosa, altre infine possono indicare un vero e proprio debito. Tuttavia la ricerca attuale ha superato vecchie polemiche al riguardo e si orienta piuttosto a rintracciare l'origine di molti riti cristiani nell'ambiente giudaico, come indicano gli studi di Nock, Ligier, Talley ecc. (3). L'iniziazione cristiana in antico mirava alla globalità del l 'uomo e per questo richiedeva vari tempi, modi e condi zioni per realizzarsi. Il cammino che il catecumeno doveva compiere tendeva a creare una maturità di fede esistenziale, per questo si parlava di una rinascita spirituale, e il neobattezzato ve niva chiamato neofito, cioè il recente nato; oppure neofo tisto, il recente illuminato, in quanto il battesimo era una illuminazione interiore, che permetteva di vedere in senso pregnante cose nascoste. Infatti l'iniziazione era cosa seria e impegnativa, perché comportava l 'annientamento del vecchio modo di pensare e di vivere, la destrutturazione della precedente persona lità per costruirne una nuova. Credere era ben altro che un puro conoscere, e la cate chesi era ben altro che un puro comunicare una dottrina. La traditio fidei, la trasmissione delle verità cristiane, coinvolgeva tutta la vita e non era solo un fatto intellet tuale in quanto tendeva a far entrare l'iniziando nel mi stero di Dio, reso accessibile all'esistenza umana median te il Figlio di Dio, il Verbo incarnato. L'iter dell 'iniziazione comportava tre fasi: la fase preli minare, quella cruciale (liminare) e la fase post-liminare, cioè della nuova realtà. La più importante era quella liminare, perché allora si compiva la rinascita, il passaggio, J 'i11uminazione, e si (3) A. D. Nock , Christianisme et Hellénisme, Paris 1973 ; L. Ligier, De la cène de Jésus à l'anaphore de l'Eglise: La Maison-Dieu 87 0?66) 7-51 ; Th. Talley, De la « berakah » à l'eucharistie: une que sttan à réexaminer: La Maison-Dieu 125 (1976) 1 1-39 ; C. Giraudo, La struttura letteraria della preghiera eucaristica, Roma 1981. 57
dava luogo a un nuovo inizio, a una nuova creazione. II luogo, il tempo, i riti e le cerimonie sottolineavano tale momento e costituivano un'esperienza forte per l'inizian do, che vi veniva coinvolto anche emotivamente. Ognuna delle fasi comportava modi, tempi e contenuti che variavano nelle singole chiese locali, pur coincidendo quanto alla sostanza. Scrive Tertulliano « non si nasce cristiano, ma si diventa » (De anima 1 ) . Passando perciò a descrivere le varie fasi dell'iniziazione ripercorriamo il cammino spirituale che un convertito del I I-IV secolo compiva per diventare cristiano, cioè l'avven tura personale a cui egli si sobbarcava. Il cammino non era solo un fatto privato: era personale ed ecclesiale allo stesso tempo, perché tutta la comunità locale era in qualche modo coinvolta alla nuova nascita nel suo seno, specialmente nella più grande delle sue solennità, cioè la notte pasquale. Anche se alcune persone, come si vedrà, vi erano coinvolte in modo più diretto, lo erano pur sempre in nome della comunità. 2. Fase preliminare (catecumenato)
Un periodo adeguato di preparazione al battesimo fu una istituzione che prese piede lentamente: si trova piena mente sviluppato solo nel III secolo, raggiunge il suo apogeo nel IV e poi comincia a declinare per il diffonder si del battesimo dei bambini. Vari motivi ne fecero avver tire l'esigenza e influirono sul suo sviluppo: le numerose eresie, la volontà decisa di rompere con il mondo pagano, l'affievolimento del primitivo entusiasmo e le apostasie in tempo di persecuzione. Nei primi tempi assistiamo a casi di battesimo immedia to dopo un breve annuncio (kerygma) , soprattutto a be neficio di persone provenienti dal giudaismo, mentre il battesimo dei pagani richiedeva più tempo e maggiore istruzione. Infatti era la formazione religiosa precedente che influiva sull'ammissione al battesimo. Comunque, nel periodo apostolico e postapostolico riscontriamo una va rietà di comportamenti, molto ben rispecchiati negli Atti degli Apostoli (4) . Non c'è distinzione netta tra annuncio ( 4) Cfr. Atti 2, 14-41 ; 8, 26-39 ; i capp. 10 30·33 ; ecc. 58
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1 1 ; 13, 16-42 ; 16, 13-15 ; 16,
(kerygma) e istruzione (catechesi). Questa, come si espri mono le Ps. Clementine, mirava a dare << i primi elementi della dottrina di verità » (Homil. Clem. l, 13). In ogni caso però la condizione indispensabile per tutti era la fede, e la catechesi, l'istruzione, più ampia del semplice annunzio, soprattutto aveva luogo dopo il battesimo. Da questa primitiva embrionale istruzione si sviluppò in seguito più compiutamente una catechesi prebattesimale meglio articolata per gli aspiranti al battesimo, che furo no chiamati, con termine tecnico, catecumeni (coloro che vengono istruiti). Nei tempi più antichi il battesimo veniva amministrato non dopo che il catecumeno avesse dato sufficienti garan zie di vita irreprensibile, ma proprio per aver la capacità di poterla condurre. Invece nella metà del II secolo ve diamo che la preparazione diventa più esigente. Scrive Giustino (t 165 circa) : << Ora vi esporremmo in qual manie ra, rinnovati da Cristo, ci siamo consacrati a Dio; affinché non sembri che, omettendolo, usiamo malafede nella nostra esposizione. A quanti si siano convinti e credano alla verità degli insegnamenti da noi esposti, e prometta no di vivere secondo queste massime, viene insegnato a pregare e chiedere con digiuni a Dio la remissione dei peccati commessi; e con loro preghiamo e digiuniamo anche noi. Quindi sono da noi condotti nel luogo dov'è l'acqua e sono rigenerati nella stessa maniera in cui fummo rigenerati anche noi: nel nome del Padre di tutti e Signore Dio, del salvatore nostro Gesù Cristo e dello Spirito santo essi compiono allora il lavacro nell'acqua .. Tale lavacro è chiamato illuminazione, perché chi accoglie queste dottrine è illuminato nello spirito » (l Apologia 6 1 ) . Qui s i offre solo una istruzione preliminare e si chiede la fede e una condotta cristiana conseguente. Ma all'inizio del III secolo il catecumenato, inteso ormai come novi ziato per tutti, è ben strutturato dovunque e diventa una istituzione precisa e articolata, sia a Roma che a Carta gine, ad Alessandria e in Siria. Si tratta di un'istituzione ecclesiale che prepara in comune i candidati sia con l'i s truzione dottrinale, morale e sacramentale che con una serie di riti e pratiche ascetiche. n cambiamento e i motivi che lo determinano vengono espressi chiaramente da Tertulliano (t dopo il 220) : « Il battesimo è l'autenticazione definitiva della fede e questa 59
fede comincia ed è raccomandata dalla sincerità della penitenza. Perciò non veniamo lavati per smettere di pec care, ma perché smettemmo, perché già siamo mondi di cuore: questo è il primo battesimo dell'uditore. Un timo re indiscusso, da quando egli è penetrato dal Signore, una fede sana, una coscienza che abbraccia il pentimento una volta sola » (De poenitentia 6, 16-17). Nel IV secolo vi saranno pochi cambiamenti di carattere secondario nell'organizzazione del catecumenato e con differenze marginali nelle varie chiese. Nel frattempo si è venuto costituendo tutto un patrimonio di riti e di sim boli estremamente significativi nel contesto in cui veniva no vissuti; decaduto in seguito il catecumenato, essi sono restati nella liturgia battesimale concentrati in breve spa zio di tempo, come ricordo del periodo precedente, ma senza quella carica emotiva che avevano quando erano nati. Infatti la conversione di intere tribù o popoli e l'uso esteso e generalizzato di battezzare i bambini quam pri mum in favore della dottrina ormai comune del peccato originale, non permettevano più una formazione accurata e selettiva, secondo la prassi dei secoli III e IV. Il catecumenato vero e proprio iniziava allorché il candi dato dava il suo nome alla persona incaricata, un diaco no, un presbitero o il vescovo stesso, per essere iscritti nella lista dei catecumeni, in latino detti anche audientes, auditores. Dovevano essere sottoposti a un esame sulla loro vita e la loro professione. « Coloro che si presentano la prima volta ad ascoltare la parola, siano subito con dotti alla presenza dei dottori, prima che il popolo arrivi, e sia loro chiesto il motivo per cui si accostano alla fede. Coloro che li hanno condotti testimonino se sono degni di ascoltare (la parola) . (I nuovi venuti) siano interrogati sul loro stato di vita: hanno moglie? sono schiavi? Se uno è schiavo di un fedele e il padrone glielo permette, ascolti la parola; ma sia rimandato se il padrone non garantisce che egli è buono. Se invece è schiavo di un pagano, gli si insegni a soddisfare il padrone, affinché non gliene derivi calunnia. Se un uomo ha moglie o una donna ha marito, gli si insegni a contentarsi, il marito della moglie, la moglie del marito ... Si esaminino i mestieri e le occupa zioni di coloro che sono condotti a ricevere l'istruzio ne ... », così scrive un importante documento dell'inizio 60
del III secolo, la Tradizione apostolica di Ippolito, nel cap. 16. La pratica di diverse professioni impediva di ricevere il battesimo: non potevano accedervi gli addetti ai culti pagani e ai giochi pubblici, fabbricanti e commercianti di idoli e in genere chi praticava professioni in qualche modo connesse con la religione pagana. Se costoro non promettevano di cambiar vita non venivano iscritti nelle liste dei catecumeni. D'altra parte alcune professioni, co me il servizio militare, che prima di Costantino venivano considerate illecite, successivamente vennero permesse. Si indagava con cura sui motivi per cui si chiedeva il batte simo: infatti potevano esserci persone che si iscrivevano tra i catecumeni solo per curiosità, per interesse o altro. Ecco perché i fedeli che lo conoscevano dovevano testi moniare, cioè essere i garanti della loro serietà (i padri ni). Il periodo di preparazione che durava tre anni poteva esse re anche abbreviato: se il candidato « dimostra particolare zelo e lodevole applicazione, sia giudicato non secondo il tempo, ma secondo il suo comportamento » (Tradizione apost., c. 17). Tuttavia la durata della preparazione varia va anche a secondo delle diverse chiese. Dopo Costantino si diffonde la pratica di differire il bat tesimo all'età avanzata al fine di procrastinare l'inizio di una vita totalmente impegnata in senso cristiano. Ambro gio e Agostino erano stati per molti anni solo catecume ni; alcuni addirittura rimandavano il battesimo fino al punto di morte, come ci testimoniano anche numerose iscrizioni funerarie di neofiti. Venivano chiamati clinici quelli che erano stati battezzati al momento della morte o durante una grave malattia. Questi ultimi, se guariti, venivano guardati con una certa diffidenza dalla comunità e non potevano essere ammessi al sacerdozio: infatti non aver compiuto tutte le cerimonie prescritte e aver ricevu to il battesimo per paura poteva sembrare segno di poco impegno e convinzione interiore. Sappiamo, del resto, che nei casi di invasione di barbari o di pericoli comuni i catecumeni « a vita » affollavano le chiese per ricevere il battesimo (Agostino, De urbis excidio 7 : PL 40, 722) . I Padri esortavano perciò a non differire troppo il battesi mo, mentre i concili si preoccupavano dei malati gravi, permettendo anche a un semplice fedele di amministrare 61
loro il sacramento. In genere si richiedeva, una volta guariti, l'imposizione delle mani da parte del vescovo per dare il dono dello Spirito santo. Sappiamo, per la seconda metà del IV secolo, che l'in gresso ufficiale nel catecumenato comportava una ceri monia con riti particolari : esorcismo, imposizione delle mani, il segno della croce sulla fronte, benedizione e consegna del sale ... , uniti a preghiere e a un discorso di circostanza. I riti, che variavano secondo i luoghi, aveva no tutti un preciso significato simbolico. Il periodo catecumenale era scandito da pratiche rituali e ascetiche e dall'istruzione da parte di un << dottore » che era, nel IV secolo, o presbitero o diacono. Nel III secolo invece i catechisti potevano essere anche laici, come Origene, nel primo periodo della sua vita, e altri. I catecumeni, che potevano essere chiamati già cri stiani, partecipavano alle assemblee liturgiche, occupando un posto riservato, e ascoltavano le letture bibliche e l'omelia; la comunità pregava per loro ed essi ricevevano l'imposizione delle mani ogni volta, poi venivano congeda ti (dimissio), non potendo assistere alla liturgia eucaristi ca. Dopo questo periodo di formazione dottrinale e morale più o meno lungo, i catecumeni potevano accedere al secondo grado, cioè alla preparazione immediata al batte simo, qualche settimana prima di Pasqua . Dalla seconda metà del IV secolo fu fissato per questa preparazione il periodo quaresimale. Il candidato faceva formale doman da di ammissione e dopo attento esame passava tra la classe degli electi (competentes, in oriente photizome noi = coloro che vengono illuminati). La quaresima diven tava così tempo forte di intensa e rigorosa preparazione mediante l'istruzione, diverse pratiche ascetiche e liturgi che, così sinteticamente espresse da Leone Magno: « se condo la regola apostolica gli electi devono essere esami nati e istruiti con frequenti prediche » (Epist. 16, 6: PL 54, 702). Anche gli electi venivano esclusi dalla celebrazio ne eucaristica vera e propria, però con rito diverso dopo gli audientes. Un elemento di fondo ispirava la preparazione: riuscire a vivere secondo le esigenze evangeliche era considerato frutto dell'impegno personale e del dono Dio, che tra sforma l'uomo interiormente. Per questo, oltre la pre62
ghiera personale, era necessaria quella di tutta la comu nità, che era coinvolta nella nascita spirituale dei nuovi membri, e il compimento di esorcismi. Nel IV secolo qualcuno pensava che era meglio amministrare prima il battesimo e poi dare l'istruzione. Ma Agostino rispondeva con la prassi della chiesa e la necessità di una previa penitenza. Gli esorcismi, secondo la citata Tradizione apostolica, si dovevano compiere ogni giorno; nella Roma del IV secolo si compivano in tre domeniche consecutive e venivano detti scrutini. La cerimonia era abbastanza complessa. Secondo l'antica concezione il male, satana, penetrava ogni cosa e quindi anche l'uomo. Bisognava pertanto libe rarlo da esso sia nel corpo che nell'anima: bisognava disintossicarlo dalla presenza malefica. Positivamente il rito significava, ed è il senso profondo della redenzione, che l'uomo non si libera da solo dal male che è in lui: è l'azione di Dio che agisce nell'uomo mediante l'opera della chiesa, di tutta la chiesa. Elemento fondamentale era an che il digiuno, che non aveva tanto carattere penitenziale e ascetico, quanto piuttosto spirituale, di purificazione interiore, e quindi di disponibilità ad accogliere la grazia. Dal tempo neotestamentario fu sempre collegato al batte simo. Il venerdì e il sabato mattina precedenti la Pasqua si svolgeva l'ultima riunione, particolarmente solenne, prima del battesimo: si compivano gli ultimi esorcismi e gli ultimi suggestivi riti, che variavano secondo le chiese. Tutta la cerimonia era focalizzata all'atto solenne della rinuncia a satana, che era anche il primo atto solenne della liturgia battesimale. In alcune chiese poteva svol gersi anche immediatamente la sera prima del battesimo, come a Milano e a Gerusalemme. 3. L'istruzione cristiana
Il giorno di Pentecoste, dopo la discesa dello Spirito san to Pietro rivolge alla folla che si era radunata un discor so che espone brevemente l'annuncio cristiano ed esorta alla conversione. « Allora quelli che accolsero la sua paro la furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone. Erano assidui nell'ascoltare l'insegna63
mento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere » (Atti 2, 41-42) . Tale « inse gnamento degli apostoli » riguarda sia la preparazione al battesimo sia il periodo postbattesimale. Ci sono persone qualificate e incaricate a insegnare: gli apostoli e subito insieme con loro i maestri (i didascali), e in seguito i vescovi e gli altri. Si forma sin dall'inizio un blocco di dottrine da insegnare e da accettare per entrare nella chiesa e che costituisce qualcosa di essenziale da traman dare: " Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annun ziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato ,, (l Corinzi 1 5 , 1-2; cfr: anche Galati l, 6-7; 2, 2-9 . ..). Tale complesso dottrinale conferisce una unità fondamen tale ed essenziale al cristianesimo pur nelle diversità di dettaglio che si riscontrano sia negli scritti neotestamen tari sia nello sviluppo teologico posteriore. Il primitivo annunzio si amplia progressivamente e si struttura me glio in una istruzione, cioè nella catechesi ( = istruzione orale) . Questa è sempre, nell'antichità, connessa al batte simo sia come preparazione sia come complemento im mediato. Lo schema primitivo è cristologico, e va dal ministero del Battista fino alla risurrezione di Cristo, con ricorso alle testimonianze dell'Antico Testamento, partico larmente dei Salmi e di alcuni personaggi veterotesta mentari assunti come typoi, come prefigurazioni simboli che di << colui che deve venire ». Inoltre, sia dai testi canonici che da altri scritti del I e II secolo sappiamo che si impartiva anche un insegnamen to morale, dottrinale e liturgico. Un passo ulteriore si compie durante il II e III secolo, allorché la catechesi si struttura come storia della salvezza, con l'interpretazione tipologica dei libri della Genesi e dell'Esodo (5) . Essa si presenta come insegnamento completo, essenziale e sufficiente sia per l'aspetto dommatico che morale. Quello sacramentale veniva esposto durante i riti e nei giorni seguenti al battesimo così almeno nel IV secolo. Questa struttura e contenuto raggiungono la più completa artico lazione nel periodo post-costantiniano e poi decadono in(5) Cfr. M. Simonetti, Profilo storico dell'esegesi patristica, Roma 1981. 64
siem e con il catecumenato e per gli stessi motivi esposti sopra. La catechesi era strettamente legata alla liturgia, e la parte conclusiva si incentrava sulla spiegazione del sim bolo di fede, del Padre nostro e dei sacramenti del batte simo, del dono dello spirito (confermazione) e dell'euca ristia: fede e preghiera venivano vissute e spiegate. Abbracciava due aspetti: uno pedagogico, tendente a su scitare il desiderio di conoscere quelle nozioni che già conoscevano i fedeli, l'altro contenutistico, relativo cioè agli elementi essenziale della fede, che i catecumeni ap profondivano partecipando, oltre all'istruzione propria per loro, anche a quella dispensata a tutti i fedeli, anch'essa sostanzialmente nutrita di Scrittura. La base della catechesi era biblica; in alcune chiese pote va consistere nell'esposizione sistematica di qualche libro, in altre di passi scelti, ma in genere abbracciava tutta la storia della salvezza, come scrive Agostino: partire « da In principio Dio creò il cielo e la terra (Genesi l, l) fino ai nostri giorni >> (De catechizandis rud. 3, 5). Lo stesso avveniva a Gerusalemme: « percorrendo tutta la Scrittura e dandone anzitutto il senso letterale, poi quello spiritua le >> (Egeria, Diario di viaggio 46), al fine di dimostrare che l'Antico Testamento trovava il suo compimento in Cristo e nella chiesa. Così il catecumeno di provenienza pagana, abbracciando la nuova religione, imparava una storia nuova, quella ebraica e cristiana, che diventava anche la sua storia non tanto per l'accadimento degli eventi quanto per il loro significato. " Il neofita, nel momen to in cui abbandonava il paganesimo, veniva anche spinto ad allargare il proprio orizzonte storico: per la prima volta forse, gli accadeva di pensare in termini di storia universale >> (A. Momigliano, Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1 968, pag. 95). La spiegazione del simbolo, cioè della formula di fede che fondava l'identità della fisionomia religiosa del cristiano, il quid credendum, considerato come sintesi di tutta la Scrittura, rappresentava il culmine della formazione dot trinale. Veniva definita traditio symboli, quasi gesto con cui la chiesa consegnava, come una fiaccola, la sua fede al cate cumeno e comportava la redditio da parte sua, cioè la recita a memoria di fronte alla comunità e al vescovo 65
locale come professione di fede. Il simbolo di fede, cosid detto il credo, che allora era usato esclusivamente nella liturgia battesimale, è successivamente entrato nella ce lebrazione eucaristica in Oriente tra la fine del V e l'ini zio del VI secolo, in Occidente in date diverse, a Roma solo nel secolo XI. Invece la spiegazione del Padre nostro, la traditio orationis dominicae, il quid orandum, poteva farsi in momenti diversi, in Africa, per esempio, imme diatamente dopo la spiegazione del simbolo, mentre a Milano al tempo di Ambrogio dopo il battesimo, perché si pensava che solo chi fosse battezzato potesse recitarlo e invocare ormai Dio come Padre. La redditio, la recita pubblica, del simbolo, ed eventual mente quella del Padre nostro, era la conclusione del catecumenato, e vi faceva seguito il battesimo. Durante il rito battesimale e nei giorni seguenti si completava l'i struzione, con le cosiddette catechesi mistagogiche, ri guardanti la mistagogia (6) cioè quanto veniva compiuto e detto durante i riti di passaggio e la celebrazione dei misteri ricevuti ( = i sacramenti), nel contesto vissuto del momento: infatti i sacramenti si ricevevano e venivano spiegati nella convinzione che la loro comprensione si potesse realizzare solo nel viverli, come si esprime Cirillo di Gerusalemme: « voi siete stati costituiti nella condi zione di comprendere i misteri . » (Catechesi mist. l , 1 ,) . I sacramenti cioè non venivano concepiti come riti di iniziazione, ma nel senso che la vita stessa del cristiano veniva svelata attraverso la Scrittura (7) . Già nel III secolo e più ancora nel IV si diffuse l'uso di circondare di segreto alcune dottrine e riti cristiani du rante l'istruzione catecumenale. Tale prassi viene deno minata, con terminologia moderna, disciplina dell'arca no (8). Agostino, parlando ai neobattezzati dice: « del sa.
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(6) Il termine mistagogia (dal verbo mystagogein) signrfica inizia zione ai misteri e, metaforicamente, i misteri stessi (eucaristia e battesimo) e anche la celebrazione dei riti. (7) Cfr. M. Jourjon, Cathéchèse et liturgie chez les Pères: La Mai son-Dieu 140 (1979) 41-49. (8) La disciplina dell'arcano in particolare si riferiva ai riti del l'iniziazione cristiana, all'eucaristia, al simbolo di fede e alla pre ghiera del Padre nostro. Essa nasce con l'organizzazione del ca tecumenato nel III secolo, per vari motivi: sia per riguardo agli estranei (come avveniva in certe scuole filosofiche di allora) e sia, 66
cramento dell'altare (eucaristia) , che oggi hanno visto, non hanno sentito ancora nulla >> (Serm. 228, 8). Dal vissuto si passava solo in un secondo momento alla sua comprensione e riflessione. Mentre in Africa il segre to riguardava solo l'eucaristia, in altre chiese, per esem pio a Gerusalemme, esso avvolgeva tutti e tre i sacramen ti dell'iniziazione (battesimo, confermazione ed eucaristia) e anche il simbolo e il Padre nostro, e la loro spiegazione era riservata sia al periodo in cui si svolgevano i riti sia al periodo postbattesimale. Si ammonivano i battezzandi a conservare in seguito il segreto. Per questo la normale predicazione dei vescovi in chiesa non affrontava la tema tica sacramentale se non in linguaggio velato, che solo i battezzati potevano capire.
4. Fase cruciale: i riti battesimali Ricerche recenti hanno messo in luce l'ampiezza dello spettro dei riti battesimali nella chiesa più antica, non solo in aspetti marginali ma anche fondamentali. Non esisteva ancora il monolitismo liturgico che si è andato creando dal IV secolo in poi sotto l'impulso di influssi reciproci. Emergono sempre più differenze rituali e anche interpretative di tali riti, soprattutto tra le chiese siro-pa lestinesi e le altre; sono differenze che risalgono a diverse tradizioni liturgiche primitive, originali, della chiesa apo stolica. Si postulava un'uniformità liturgica primitiva perché le conoscenze del IV secolo venivano proiettate al II, offrendo così una ricostruzione distorta dei fatti. In vece la liturgia non è partita da un rito semplice e sostanzialmente uniforme nelle varie chiese, ma da una diversità di riti, propri delle varie comunità in cui il cristianesimo si articolava diffondendosi nei primi decen ni. Proprio perché non esisteva un rituale, un testo nor mativa, si è creato immediatamente un ventaglio di riti in cui si esprimeva la vita liturgica della chiesa. Pertanto l'uniformità non va ricercata agli inizi del processo di sviluppo ma soltanto alla fine. 8?Prattutto, per la convinzione che era necessaria prima una espe nenza per comprendere alcune verità, che sono più accessibili solo a chi sta crescendo o è cresciuto nella fede.
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Il battesimo ( = immersione, abluzione) cristiano risale a Cristo nel senso che esso si amministra per suo man dato ed è distinto da altri tipi di battesimo, in uso presso gli ebrei, e perché, indipendentemente da chi battezza, si considera che è sempre Cristo che battezza: « Egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco » (Matteo 3, 1 1 ). Il battesimo è definito da Paolo: << Lavacro dell'acqua ac compagnato dalla parola >> (Efesini 5, 26) ; nella lettera a Tito è detto « lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito santo >> (3, 5). Già nel Nuovo Testamento esiste una ricca teologia su di esso: è rinascita, rigenera zione, purificazione dello Spirito, sigillo di fede, unione con Cristo nella morte e nella resurrezione, rende figli di Dio, è perdono di peccati, condizione per entrare nel regno di Dio ... Marco e Matteo iniziano il Vangelo con il battesimo di Giovanni e terminano con il comando di Cristo di battez zare tutti; ed è quanto Pietro fa nel suo primo atto pubblico. Ai giudei che gli chiedevano cosa dovessero fa re, risponde: « Pentitevi e ciascuno di voi si faccia bat tezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito santo >> (Atti 2, 38). Forse si potrebbe pensare che gli Atti degli apostoli, essendo stati redatti alcuni decenni più tardi dei fatti che raccontano, non rispecchino la prassi originale della chiesa, che nel frattempo avrebbe potuto modificare il rito del battesimo dei proseliti giudaici. In realtà Paolo ci attesta che anch'egli era stato battezzato; pertanto nel 33/34 d.C. il battesimo è già un rito cristiano, considerato necessario per l'ammissione alla Chiesa (cfr. Romani 6, 3 ; Atti 9 , 1 9 ; 22, 1 6) con u n significato totalmente diverso dal rito di purificazione per i proseliti. E del resto Légasse (9) ha dimostrato recentemente che non c'è alcuna testimo nianza dell'esistenza di un battesimo giudaico per i prose liti nella prima metà del I secolo d.C., ma solo per l a seconda metà. I l battesimo cristiano non è d i carattere rituale - nel qual caso sarebbe ripetibile -; esso invece, una volta ricevuto, non ammette ripetizione, perché è segno del perdono dei peccati e della nuova nascita in Cristo. Sin dall'inizio viene percepito come mezzo neces(9) S. Légasse, Bapteme juif des prosélytes et bapteme chrétien: Bullettin de littérature eccl. 77 ( 1 976) 3-40.
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sario per la salvezza, anche se non sembra assoluto e necessario come rito esterno. Nel periodo neotestamentario non incontriamo dettagli liturgici sul rito battesimale. Dopo una breve preparazio ne, secondo quanto si è detto sopra, era necessaria una professione preliminare di fede, che variava secondo le chiese. Per i convertiti dal giudaismo tale professione doveva avere soprattutto carattere cristologico, mentre per i provenienti dal paganesimo includeva anche la men zione di Dio Padre; comunque, in ogni caso, doveva esse re in qualche modo trìnitarìa, come ben sì configura nel II secolo. Sembra anche che la professione fosse articola ta in risposte che il battezzando dava alle domande del battezzante durante il rito battesimale, che, in linea gene rale, si desiderava avvenisse per immersione nell'acqua viva (corrente) in totale nudità (10) . Però, considerate le circostanze dei luoghi e dei tempi, il battesimo poteva essere amministrato anche mediante versamento dell'ac qua sulla testa (infusione). La Didachè, documento pro veniente dalla campagna della Siria della seconda metà del primo secolo, così descrive il rito: « Quanto al batte simo, battezzate in questo modo : dopo aver premesso tutte queste cose (cioè l'istruzione) battezzate nel nome del Padre, del Figlio e della Spirito santo nell'acqua viva. Se non avessi acqua viva, immergi in altra acqua; se non puoi nella fredda immergi nella calda. Che se non avessi abbastanza né dell'una né dell'altra, versa tre volte sul capo l'acqua in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Prima del battesimo digiunino il battezzante e il battezzando e altri se lo possono; al battezzando però ordina che digiuni un giorno o due prima » (Cap. V) . Il testo citato precisa anche la formula che accompagnava il gesto. Essa è trinitaria, ma noi non conosciamo lo svol gimento esatto del rito, sì che essa potrebbe anche non essere stata vera e propria formula liturgica. La Didachè non menzione altri riti. In alcuni testi si parla del batte simo nel nome di Gesù: ma ciò non significava altro se non che si riceve il battesimo risalente a lui e con esso ci si consacra a lui.
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� 10) La nudità completa era segno di una spoliazione esteriore e m �eriore di tutto ciò che è vecchio per dar spazio alla nuova na � Cita senza alcun impedimento. Nessuno discenda nell'acqua con In dosso qualcosa di estraneo >> (Tradiz.ione apost. 21) . «
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Da diversi testi neotestamentari risulta anche l'esistenza del gesto dell'imposizione delle mani (Atti 19, 5 s; 8, 14-17), legato alla discesa dello Spirito santo sul neofita. Non abbiamo testimonianze sicure di altri riti, come rinuncia a satana, esorcismi oppure unzioni con olio, e neppure circa i tempi e i luoghi, i ministri. Le unzioni sono certe per la fine del II secolo, quando ormai guidare la liturgia era prerogativa del vescovo: « senza il vescovo non è lecito né battezzare né celebrare l'agape », scrive Ignazio agli Smirnesi all'inizio del secolo (8, 2). La testimonianza più notevole e precisa sul rito battesimale all'inizio del III secolo ci è offerta dalla Tradizione apostolica di Ippo lito, che si rifà a tradizioni precedenti e rispecchia una comunità urbana, forse romana, a differenza dell'arcaica Didachè. Altri documenti ricchi di informazioni sono, principalmente, il De baptismo di Tertulliano, gli Atti di Tommaso, un apocrifo siriaco, la Didascalia siriaca. Sulla base di questi testi possiamo ricostruire approssima tivamente il rito battesimale, che normalmente doveva svolgersi nella notte di Pasqua; il suo ministro era il vescovo. Avevano luogo varie unzioni diverse per numero secondo le fonti e con spiegazioni diverse; almeno una di esse era collegata con il conferimento dello Spirito. Dopo la benedizione dell'acqua, avveniva da parte del battez zando la rinuncia a satana, a indicare il rifiuto degli dèi pagani, e si svolgevano gli esorcismi per esprimere che Cristo ha il dominio su tutte le cose. La rinuncia a sata· na, gli esorcismi e la confessione di fede, dato il diverso contesto religioso, non erano praticate nelle antiche chie se siro-palestinesi. Il battesimo, nel rito normale, comportava una triplice immersione: ciascuna a ogni risposta del candidato al ministro che poneva domande sulla fede trinitaria. Così la Tradizione apostolica descrive il rito centrale: << Un diacono discenda nell'acqua insieme a colui che deve es sere battezzato, gli imponga la mano sul capo chiedendo: "credi in Dio Padre Onnipotente?" Colui che viene battez zato risponda: "credo". Lo battezzi allora una prima vol ta tenendogli la mano sul capo. Poi chieda: "credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato per mezzo dello Spirito santo dalla Vergine Maria, è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato, è morto ed è risorto il terzo giorno, vivo dai morti, è salito nei cieli, siede alla destra del Padre e
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verrà a giudicare i vivi e i morti ?". Quando colui che è battezzato avrà risposto: «credo" , lo battezzi una seconda volta, poi ancora chieda: «credi nello Spirito santo e nella santa chiesa e nella risurrezione della carne?" . Il battezzato risponda: «credo". Così sia battezzato per la terza volta » (cap. 21). Tutta la lunga cerimonia si chiu deva con il bacio di pace da parte di tutta la comunità. Nel IV secolo questi riti tendono ad ampliarsi in numero, in estensione e in tempo, anche per il numero maggiore dei candidati, per cui in alcune chiese certi riti si antici pavano al venerdì. Recentemente Riley ( 1 1 ) ne ha offerto uno studio dettagliato, preciso e documentato, con nume rose tavole sinottiche, per le chiese di Gerusalemme, Mi lano, Antiochia e Mopsuestia, e basta un semplice sguar do alle varie tavole a mostrare la varietà, la complessità e la diversità dei riti pur nella sostanziale unità; le diversi tà sarebbero ancora maggiori se prendessimo in conside razione altre comunità. Uno di questi riti consisteva nel far indossare al battezza to la veste bianca per tutta la settimana successiva al battesimo; ma il più solenne e drammatico era senza dubbio la rinuncia a satana. Ogni candidato, prima del battesimo, personalmente e pubblicamente doveva com piere il gesto, che segnava il passaggio da un modo di vivere e di pensare a un altro, da una società a un'altra. A Mopsuestia, si svolgeva così: il candidato, rivestito di un abito di sacco soltanto, sta in ginocchio con le mani tese e gli occhi alzati verso il cielo, mentre il ministro rivolge parole sul significato del gesto; quindi dice: « io rinunzio a satana, ai suoi angeli, a tutte le sue opere, al suo servizio, alla sua vanità e a tutto il suo fascino mon dano; aderisco a te per voto, credo e sono battezzato nel nome del Padre, del Figlio . » ( 1 2). Allora il vescovo, rivestito con splendidi abiti di lino, simbolo dello splendore del futuro regno, lo unge in fron te con l'olio. Il padrino, che sta dietro, lo ricopre di un velo e lo fa alzare. Dopo l'unzione egli ormai è atleta di ..
( 1 1) H. M. Riley, Christian Jnitiation. A comparative Study an the l'! terpretation of the baptismal Liturgy in the mystagogical wri tmgs of Cyril of lerusalem, John Chrysostom, Theodore of Mop . and Ambrose of Milan, Washington 1974. sues tza <1 12) Omelie battesimali 13, l (Studi e Testi 145) , Città del Vaticano 949, p. 367. 71
Cristo, per poter lottare contro ogni male sotto la sua milizia. Infatti nell'antichità era usuale concepire la vita cristiana come milizia continua per Cristo contro le po tenze di satana. Alla metà del III secolo sorse un'aspra disputa sulla vali dità del battesimo amministrato dagli eretici, fuori della chiesa cattolica. La tradjzione romana in questi casi indi cava di imporre solo le mani in segno di riconciliazione a chi, battezzato dagli eretici, desiderasse entrare a far par te della chiesa cattolica, mentre in Africa si conferiva di nuovo il battesimo (13). Prevalse ben presto la teologia romana, che nel IV secolo trovò la sua formulazione mi gliore in Agostino: egli infatti sostenne che la validità del sacramento non dipende dalla persona del ministro, ma da Cristo stesso. Divenne famosa l'espressione « Se Pietro battezza, è lui (Cristo) che battezza; se Paolo battezza, è lui che battezza; se Giuda battezza, è lui che battezza >> (In Joan. Ev. Tract. VI, 7). La ricerca attuale ha raggiunto anche un punto fermo sul battesimo dei bambini. Pur non essendoci testi in propo sito negli scritti neotestamentari, si ritiene certo che sia esistito sin dal periodo apostolico. Abbiamo comunque testimonianze esplicite solo per i secoli seguenti. Non esisteva però un rito speciale per i bambini - creato solo recentemente, dopo il Concilio Vaticano II - ma si osservava quello degli adulti con opportuni adattamenti. Sappiamo della presenza del padrino in ogni tipo di rito battesimale, la cui funzione era di essere garante della vita e della condotta del candidato al momento dell'am missione tra i catecumeni, seguirlo e aiutarlo durante il periodo di preparazione e alla fine testimoniare sulla sua dignità di ricevere il battesimo: pertanto riguardava il periodo preparatorio e non il successivo. Per i bambini la funzione di padrino era svolta dai genitori e per gli schiavi dai loro padroni. ( 1 3) Tutti erano convinti che il battesimo non poteva ripetersi ; tuttavia Cipriano ribattezzava gli eretici convertiti, perché era convinto che essi non avevano ricevuto il vero battesimo, che pu ò essere amministrato solo nella vera Chiesa, perché solo questa ha e può dare lo Spirito santo. Intorno agli anni 256/257 sors e un'accanita discussione al riguardo tra Cipriano di Cartagine e il papa Stefano. Ben presto però la prassi africana, diffusa anche in qualche altra regione, scomparve.
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5. Battesimo-confermazione-eucaristia
Questi tre sacramenti, nell'antichità cristiana, erano stret tamente legati tra loro, poiché immediatamente dopo i riti battesimali si accedeva all 'eucaristia e solo allora. La liturgia battesimale normalmente si chiudeva con la ce lebrazione eucaristica, eccetto il caso del battesimo dei clinici, quelli che erano battezzati per necessità di grave malattia, o dei bambini piccoli, ai quali la comunione era differita. Secondo la prassi comune il battesimo non po teva ripetersi; e a chi peccava gravemente si concedeva la possibilità della penitenza. L'eucaristia invece era fre quentemente ripetuta nella vita della comunità. Battesimo (perdono dei peccati e rinascita spirituale) e confermazione (dono dello Spirito santo) erano stretta mente uniti sia nella riflessione teologica che nella predi cazione catechetica ed erano conferiti dallo stesso mini stro, il vescovo locale, durante la medesima liturgia, per cui è difficile determinare i gesti specifici che si riferisco no alla confermazione. Quando il cristianesimo si diffuse anche nelle campagne e cessò di essere un fatto esclusivamente urbano, si crea rono parrocchie rurali lontane dal centro cittadino, dove risiedeva il vescovo. Per motivi pratici e disciplinari, in Occidente il battesimo in queste parrocchie poteva essere amministrato da preti mentre la confermazione era riser vata al vescovo; in Oriente invece dallo stesso battezzante ma con l'olio (il myron) benedetto dal vescovo. Siamo però in periodo in cui i riti son ormai ben significativi e si ha piena coscienza della distinzione dei due sacramenti. Non altrettanto si può dire per i primi secoli. La ricerca storica recente, iniziata in Inghilterra dopo l'ultima guerra e poi diffusasi sul continente, ha portato notevoli chiariamenti sulla confermazione, anche se non definitivi e completi, che vengono qui sintetizzati (14). Nel Nuovo Testamento si dà importanza all'effusione del lo Spirito santo sul nuovo convertito. Nel caso del centu· rione Cornelio essa avviene prima del battesimo (Atti 10, 44-48; 1 1 , 15-17), ma è un caso eccezionale; in genere (14) .Cfr. A. Caprioli, Saggio bibliografico sulla confermazione nel le rzce rche storico-teologiche dal 1946 al 1973: Scuola cattolica 103 ( 1975) 645-659 . 73
l'effusione dello Spirito si ha dopo il battesimo e per imposizione delle mani degli apostoli, ed è gesto necessa rio per completare il battesimo stesso. « Essi (Pietro e Giovanni) discesero e pregarono per loro perché riceves sero lo Spirito santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano le mani e quelli ricevevano lo Spirito » (Atti 8, 15-17; cfr. anche 1 9, 1-6). Infatti per essere a pieno titolo membri della nuova comunità erano necessarie sia l'immersione (ablu zione) nell'acqua, sia l'imposizione delle mani. Ben presto vediamo che il rito formava una unità, senza intervalli, pur distinguendosi le varie parti, e tutto era ricoperto sotto l'unico nome di battesimo. Ne erano sinonimi: ba gno battesimale, abluzione, rinascita o nuova nascita, il luminazione, sphragis (sigillo). Gli autori antichi sono unanimi nell'affermare che nel battesimo si ottiene il dono dello Spirito santo: « non può esserci battesimo senza lo Spirito » (Cipriano, epist. 70, 1 ) . Tuttavia precisare quale sia il rito specifico è e stremamente difficile, perché i riti si sono evoluti, arric chiti e differenziati, anche radicalmente, nelle varie regio ni. Lo stesso Cipriano in un 'altra lettera scrive : << Quanti sono battezzati nella chiesa (fuori del normale rito) si presentano ai suoi capi e attraverso la nostra preghiera e imposizione delle mani ottengono lo Spirito santo e il Signore dona loro il sigillo della perfezione » (epist. 73, 9). La preghiera e l'imposizione delle mani (o mano) costi tuisce il rito africano per il conferimento dello Spirito, cioè la confermazione ( si veda anche Tertulliano, De bap tismo 8 ) . Cipriano aggiunge anche una signatio, un segno di croce sulla fronte. Altrettanto avveniva a Roma nel III secolo, secondo la testimonianza del papa Cornelio, mentre la Tradizione apostolica di Ippolito parla anche di una unzione. Per Ambrogio (15) l'essenziale consiste nella pre ghiera di invocazione dello Spirito sul battezzato e si suppone, perché era la prassi, anche nella imposizione delle mani: non si parla qui di unzioni. Lo stesso rito ritroviamo in Gallia e in Spagna. (15) A Caprioli, Battesimo e confermazione in S. Ambrogio: Scuola cattolica 102 ( 1 974) 403·428. 74
Unendosi i due gesti dell'unzione con il crisma (olio pro fumato) e della consignatio (croce sulla fronte) in uno solo, si ha la crismazione, che sostituisce lentamente quello dell'imposizioll:e delle �ani e diventa l'unico gesto . essenziale, peraltro nservato m Occidente al vescovo. La confermazione - da confìrmare, così comincia a denomi narsi in Gallia dal V secolo - acquista in tal modo una sua autonomia, anche se si continua ad amministrala, però sempre di meno, insieme al battesimo. Nelle chiese orientali c'è maggiore varietà. Mentre nella Gerusalemme del IV secolo riscontriamo un rito somi gliante a quello occidentale, nella chiesa antiochena e nelle zone di lingua siriaca, in Cappadocia e nel Ponto, non esiste alcun rito postbattesimale specifico, a cui sia annesso il dono dello Spirito e sia paragonabile alla con fermazione della zona latina. Perciò, pur riscontrando che nei testi si parla sempre del dono dello Spirito nel battesimo, gli studiosi moderni trovano difficoltà a precisarne i riti precisi: in pochi testi il dono dello Spirito è collegato allo stesso battesimo, in altri a un'unzione (o unzioni) prebattesimale con il myron, un olio profumato. In ogni caso non c'è rito post battesimale. Non siamo comunque di fronte a una de viazione liturgica, ma a una prassi che si riallaccia a una tradizione originale dei tempi apostolici. Anche qui ci troviamo in presenza di un ventaglio di possibilità, più o meno tutte risalenti a età apostoliche. In seguito il rito di Gerusalemme si è diffuso anche a Antiochia (sec. V) e nelle altre regioni orientali in tempi diversi, che non sia mo in grado di precisare, ma qui i due sacramenti reste ranno sempre legati. Solo poche liturgie resteranno difformi. Qualora il dono dello Spirito segue il battesimo, allora nella riflessione teologica si tende a mettere in rilievo che il suo ruolo è quello di complemento, di perfezione, di confermazione del medesimo; se invece precede, la sua funzione è di rendere il battezzando capace di emettere l'atto di fede soprannaturale e di ricevere il sacramento dell� rigenerazione, come nel caso di Cornelio degli Atti degh apostoli (capp. lO e 1 1 ; cfr. l Corinzi 12, 3). Una volta però adottato il nuovo rito, l'unzione prebattesimale perde il suo significato e . diventa solo esorcistico; quella Pos tbattesimale invece ne assume tutto il senso teologico. 75
BIBLIOGRAFIA
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i ministeri ecclesiali
1. Il popolo cristiano e gli ord i nes
La primitiva comunità cristiana avvertì la novità portata da Gesù e nello stesso tempo restava scossa dal rifiuto a credere opposto dai giudei. Sotto tali spinte è giunta alla convinzione di essere il nuovo popolo di Dio, il nuovo Israele, il popolo della nuova alleanza (cfr. l Pietro 2, 10; Atti 15, 14; Galati 6, 1 6; Romani 9, 1-13; Matteo 26, 28 ...) e quindi erede delle promesse divine (Romani 9, 25 ; 2 Corin zi 6, 16; Galati 3, 29). Paolo introduce la distinzione tra l'Israele secondo la carne e l'Israele secondo lo spirito (cfr. Galati 4, 29; l Co rinzi 10, 18); quelli che credono in Cristo costituiscono il vero Israele (Romani 9, 1-9), l'Israele di Dio (Galati 6, 1 6), cioè la chiesa ( l Tessalonicesi 2, 14; e 2 Tessalonicesi l , 4 ; l Corinzi l , l ; 10, 32). Questa pertanto se da una parte è l'erede spirituale del popolo ebraico e l'oggetto delle promesse divine in piena continuità con l'opera di Dio, dall'altra rappresenta un fatto nuovo sia per i suoi com ponenti, che vengono in maggioranza dal paganesimo, sia perché è un nuovo popolo nato da una nuova alleanza (Matteo 26, 28, ecc.) I cris tiani, dal secondo socolo in poi, si collocano in questa corrente di idee; essi sono l'Israele di Dio : « che dunque, disse Trifone, voi siete Israele ? » (Gius�ino, Dia logo 123, 7). Le Scritture sono proprietà della chiesa (E . Plst. di Barnaba 4, 6; Giustino, Dialogo 1 9, 2; Agostino, Enarratio nes in ps. 56, 9) e spetta ad essa interpretqrle. T ali idee saranno acquisite per semP,re. II populusjplebs Dei (o Christi) è tutta la comunità cri·
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l stiana. Tuttavia il termine plebs, accanto a questo si gnificato generale - come è stato dimostrato dal Loi (l) ne possiede anche uno più tecnico e più ristretto: la comunità locale rispetto al suo vescovo, oppure il laicato rispetto al clero (all'ordo) . Quest'ultima accezione, deri vante dall'uso sociale romano, implica stratificazioni, di stinzioni nell'ambito della stessa comunità. In seguito il termine plebs tenderà a restringersi per indicare una parrocchia rurale (plebs = pieve) (2) . Non soltanto a livello socio-politico dell'amministrazione romana c'era distinzione tra populus e ordines, ma anche nei vari collegia, le associazioni professionali o religiose, che si componevano del gruppo direttivo (ardo) e dei membri comuni (plebs) . Sembra più plausibile che da queste distinzioni la comunità cristiana precostantiniana abbia mutuato una tale terminologia poiché anch'essa si configura socialmente come un'associazione. Anche nell'ecclesia, il popolo convocato da Dio, s'intro dusse la distinzione tra l'ordine l'ordo, il clerus, proe dria), le persone che svolgevano un ufficio direttivo, e la plebs, tutti i battezzati non costituiti in autorità, chiamati anche laici, fedeli o altro. Clero e ordine divennero, sotto tale aspetto, sinonimi, anche se il termine orda poté ap plicarsi anche ai diversi ministeri, presi singolarmente : a rdo episcoporum, ardo presbyterii ... Il concilio di Serdica del 343/344, forse ispirandosi alle carriere pubbliche, proibì di accedere all'episcopato pri ma di essere passati per altri ordini, e la norma si impo se e si precisò, perché si stabilirono gli interstitia, inter valli di tempo, tra la recezione di un ordine e il seguente, al fine che l'homo ecclesiasticus esercitasse per un perio do l'ordine ricevuto e si preparasse al superiore. Così si creava un cursus, che diventava un'ascesa progressiva al grado superiore, visto sempre più come un onore (honor), una dignità (dignitas) nel senso forte del linguaggio giu ridico romano : in ecclesia istae (episcopus et presbyter) sunt dignitates, scrive s. Girolamo (Tract. in ps. 1 ) . Non penso che siamo soltanto d i fronte a un fatto termi-
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( l) V. Loi, Populus Dei-plebs Dei. Studio storico-linguistico sulle denominazioni del « Popolo di Dio » nel latino paleo-cristiano: Salesianum 27 (1965) 604-628. (2) Cfr. Enciclopedia Italiana Treccani 27, 257 s.
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\ nologico. Dal tempo di Costantino in poi una frattura sempre più ampia si crea tra la plebs e l'ardo, che va assu mendo atteggiamenti e forme esteriori delle autorità civi li. I vescovi, per esempio, assumono insegne di dignitari statali, come il pallio o i sandali e si creano anche nuovi segni distintivi: non solo per le azioni liturgiche si intro ducono paramenti speciali, ma anche nella vita ordinaria si tende a distinguersi dai laici nell'abito. Comunque Ambrogio esorta il clero a indossare abiti di qualità ordi naria senza vistosi colori (De offìciis min. l , 82), in quanto non esistevano ancora abiti speciali; e qualche decennio più tardi il papa Celestino (428) scrive ai vescovi della Gallia viennese a narbonense, che essi non devono distin guersi dagli altri per il vestito, ma per la dottrina (epist. 4, l, 2). Questa tendenza era evidentemente già allora in atto, e tutti sappiamo l'importanza sociologica che l'uni forme riveste per la persona che la indossa, in quanto determina la sua identità e la distinzione rispetto agli altri. Anche la terminologia si precisa, grazie a tutto un movi mento di pensiero sul sacerdozio che nasce nel secondo secolo e si sviluppa nel periodo successivo, anche se non abbiamo testimonianze che prima del 200 si usasse un vocabolario sacerdotale per indicare i vari ministri. Non è infatti senza esplicita coscienza che il Nuovo Testamento evita accuratamente una terminologia sacerdotale e cul tuale per indicarli, e se incontriamo numerosi ministeri, diversi nel nome e nell'ufficio secondo i luoghi e i tempi, mai i ministri vengono chiamati sacerdoti; anzi si adope rano termini esclusivamente profani: episcopo, presbite ro, arconte, egumeno, diacono. Infatti il sacerdote giudeo e pagano, scelto in una fami glia o casta, legato a un luogo di culto, era il mediatore tra la divinità e l'uomo. Il ministro cristiano invece, scel to tra tutti i fedeli, ha funzione di vegliare (episcopé) sul Popolo di Dio, insegnare e amministrare i sacramenti. Non ha carattere sacro, perché tutto il popolo è santo e nel suo ambito non c'è distinzione in tal senso. Per i cristiani non esiste un tempo sacro - liturgico sì -, un luogo sacro (Matteo 18, 20; l Pietro 2, 4-6), persone sacre, rna tutti sono santi, eletti e convocati nella medesima ecclesia; ogni tabù è abolito (Atti 10 e 1 1 ; l Corinzi 10, 23-3 1 ; l Pietro l ; Romani 12, l s). Vi sono però alcuni 79
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che sono deputati ad essere gli « amministratori dei mi steri di Dio » (l Corinzi 4, l ; cfr. 2 Corinzi 2, 14). Esiste una struttura ministeriale basata sul servizio e il rapporto tutti (comunità) e alcuni (capi, guide), per cui non si concepisce ancora una precedenza, e di conseguenza lo schema piramidale, con il clero alla sommità come fra giudei e pagani è escluso, come d'altra parte è pure e scluso uno schema democratico. La lettera agli Ebrei, così sfruttata per la teologia sacer dotale, adopera il tema sacerdotale e il rispettivo vocabo lario solo per Cristo, che è l'unico e definitivo sacerdote. Nella prima lettera di Pietro tutti i battezzati sono il popolo sacerdotale, che offre a Dio ablazioni spirituali gradite e proclama le opere meravigliose di Dio (2, 5-9). Paolo si presenta come « ministro (leitourgon) di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando (hierorgounta) l'ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una ablazione gradita, santificata dallo Spirito santo » (Roma ni 15, 1 6). Egli si sente rivestito del sacerdozio per la sua predicazione e l'offerta a Dio dei pagani convertiti. Ma già nella Didachè (13, 3) i nuovi ministri vengono paragonati ai sacerdoti dell'Antica Alleanza e l'eucaristia viene chiamata sacrificio ( cap. 14). Tale paragone diventa parallelismo nella prima lettera di Clemente (capp. 40-44) : Gesù viene detto sommo sacerdote (36, l ; 6 1 , 3 ; 64, l) e i nuovi ministri svolgono anche funzioni cultuali, come parte del loro ufficio pastorale, ma non ven gono denomi nati sacerdoti; qualcosa del genere è insinuato anche da Ignazio di Antiochia, che nomina Gesù come sommo sa cerdote e parla dell'eucaristia e dell'altare (epist. ai Ma gnesi 7, 2). Giustino accenna alla presidenza della celebra zione dell'eucaristia (l Apologia 65-67), che considera rea lizzazione della profezia di Malachia sul sacrificio puro (Dialogo 4 1 , 1-3; 1 17, 14) e Ireneo applica il termine tecni co sacerdos a Gesù, mentre tutti i cristiani sono sacerdo tes (Advers. haer. V, 34, 3). Siamo nel campo di confronti tra i nuovi ministri e i sacerdoti dell'Antico Testamento; in tali autori si comincia a percepire una corrente di pensiero che tende a un riavvicinamento anche se una identificazione non verrà mai compiuta. Tuttavia il voca bolario sacerdotale sarà sempre più usato e si ricorrerà più spesso alla tipologia vetero-testamentaria per parlare del « sacerdozio della Nuova Alleanza » (cfr. Palladio, Vita 80
di Giovanni Crisost. 20; Teodoreto di Ciro, In Hebraeos 8, 4-5 : PG. 82, 735) . Tertulliano è il primo autore che usi abbondantemente la terminologia sacerdotale per indicare sia i ministri che le loro funzioni (sacerdotalia numera: De praescr. 4 1 , 8). Il vescovo è il summus sacerdos e il clero è distinto dai laici (De baptismo 17, 1s). Nella preghiera di ordinazione di un vescovo, nella Tradizione apostolica leggiamo : « Concedi, Padre che conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l'episcopato, di pascolare il tuo santo greg ge, di esercitare, in maniera irreprensibile e in tuo onore, la massima dignità sacerdotale stando al tuo servizio giorno e notte ... di offrirti i doni della tua santa chiesa, di avere, in virtù dello spirito del sommo sacerdozio, il potere di rimettere i peccati secondo il tuo comando di distribuire i compiti secondo la tua volontà » (Cap. 3). Il vescovo esplicitamente è chiamato sacerdote, mentre i presbiteri solo indirettamente. Origene pure adopera più volte sia il termine sacerdote che la terminologia cultuale (es. De oratione 29, 9-10) : il vescovo è il sacerdos per eccellenza, il presbitero è sacer dos inferioris ordinis (Homil. XI in Exodum 6: PG 12, 380-8 1 d). Pertanto con l'inizio del III secolo il vocabolario sacerdo tale (hiereus sacerdos; archiereus summus sacerdos) viene ampiamente applicato, soprattutto al vescovo. Sa cerdos è sinonimo di episcopus, (termine greco come tan ti altri solo translitterato in latino) ; solo raramente il termine si riferisce ai presbiteri (preti) : direttamente o indirettamente anche questi, si fa intendere, godono del sacerdozio (hierosyne) anche se di secondo ordine. Tale uso diventa più frequente alla fine del IV secolo, soprat tutto in Oriente, con Giovanni Cristomo, Teodoro di Mo psuestia e le Costituzioni apostoliche. Forse questa assi milazione terminologica applicata sia al vescovo che ai presbiteri in parte è dovuta alla nuova situazione eccle siale: crescendo le comunità cristiane in numero ed e stendendosi anche nelle campagne, i presbiteri celebrano l'�ucaristia, insegnano e dirigono il popolo, svolgono per , CIO quasi tutte le funzioni una volta proprie del vescovo. P�r questo qualcuno era anche portato a pensare, come Girolamo, che la distinzione tra presbiteri e vescovi fosse solo di carattere disciplinare e non strutturale. ...
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Dal V secolo in Oriente con Teodoreto di Ciro e poi con lo Pseudo-Dionigi, hiereus (sacerdos) indica esplicitamen te il presbitero, mentre il vescovo è l'archiereus; in Occi dente l'evoluzione è più lenta: già però nel VII secolo il termine sacerdos si applica quasi esclusivamente ai pre sbiteri e diventa sinonimo di presbyteri. Anche in questo caso l'evoluzione semantica è indice di una nuova visione del ministero, di un mutamento di mentalità, che, iniziata nel secondo secolo, culmina nel Medioevo, allorché il mi nistero viene visto quasi esclusivamente come sacerdozio che presta un culto. Del resto questa doveva essere già un'idea che circolava all'inizio del IV secolo, se Costanti no scrive : qui divino cultui ministeria impendunt, id est qui clerici appellantur (Codice Teodosiano 1 6, 2, 2); e il concilio di Cartagine del 348 : q ui serviunt Dea et annexi sunt clero (can. 6). In questa evoluzione ha influito anche il ricorso più frequente all'Antico Testamento per vedervi anticipazioni più o meno chiare dei nuovi ministeri. Questo processo culmina con Isidoro di Siviglia, per il quale Aaron è il tipo del vescovo, i suoi figli dei sacerdo ti, i leviti dei diaconi, ecc. (PL 83. 781 ss) . Soltanto nel secolo XII, nel quadro più vasto dell'elabora zione del trattato sui sacramenti, si parla del sacramento dell'ordine (to mysterion tes hierosynes), anche se ele menti sono rintracciabili in Agostino e nello Pseudo-Dio nigi. I Padri parlano piuttosto del carattere battesimale inammissibile (signaculum; sphragis) , per cui il battezza to ha recuperato la primitiva immagine divina e appar tiene al nuovo popolo eletto, ma con Agostino e lo Pseu do-Dionigi si attribuisce anche al sacerdote un certo ca rattere (impronta) inammissibile e irripetibile, per cui egli conserva sempre la potestas baptizandi. Sotto tale ispira zione nella scolastica si acquisisce la definitiva teologia della concezione del carattere sacerdotale. Anche se il recupero di una terminologia cultuale e di una tipologia sacerdotale veterotestamentaria non intende però il sacerdozio della Nuova Alleanza nella linea del sacerdozio pagano o di quello giudaico di Aaron, è inne gabile la creazione di blocchi nell'ambito della stessa co munità: da una parte il populus (plebs) e dall'altra il clerus (orda). Se agli inizi tutto il popolo cristiano era santo (plebs sancta) ora l'ardo è sacer (Cast. di papa Vigilio 20, Collectio avell. CSEL 35, 234). Compaiono ope82
re sui particolari doveri del clero: Il Dialogo sul sacerdo zio di Giovanni Crisostomo (38 1-385), I doveri dei ministri di Ambrogio. Una serie di misure legislative separano sempre di più il clero dalla comunità: il divieto di fre quentare gli alberghi (con. di Laodicea, can. 24) , della fine del sec. IV, il celibato ecclesiastico, o, se sposati, la con tinenza cultuale, l'introduzione graduale del segno esterno della tonsura; proibizione di esercitare certe professioni, assenza di mutilazioni volontarie, ecc. Altri aspetti, come le esenzioni imperiali da tasse varie, privilegi diversi (es. quello del foro), non poter disporre dei beni a proprio pia cimento, far testamento a favore della chiesa, hanno an che notevole rilevanza sociale. Questi elementi non solo distinguevano il chierico dal laico, ma, come si è detto, tendevano a costituire un gruppo separato dalla comunità dei fedeli, in cui si de termina una divisione bipolare : da una parte i semplici battezzati e dall'altra il clero, che nel suo interno aveva una rigida gerarchia di uffici, dignità e posti. Un vescovo stabilisce anche quanto spetta a ciascun membro del suo clero delle contribuzioni dei fedeli secondo l'ufficio di ciascuno (Opus imperf. in Mat. PL 56, 884) . In tale conte sto si introdurrà la distinzione tra potere d'ordine, facol tà derivante dall'ordinazione, cioè dal sacramento dell'or dine, e potere di giurisdizione, esercizio concreto del me desimo, cioè la gararchia, come due aspetti scindibili del ministero sacerdotale. Queste due istituzioni sono comun que concetti posteriori al periodo patristico, e ricercarle presso i Padri come più d'uno ha fatto non ha senso, perché per loro essere vescovo significa esserlo in una comunità concreta, come meglio si vedrà nel paragrafo quattro. 2. Scelta e requisiti del clero
Era convinzione profonda che il vescovo fosse scelto da Dio, che costituiva il fondamento della sua autorità. In Pratica però era nominato dalla comunità che poteva de _ Sig nare un candidato anche se questo era invitus, cioè non gradiva la designazione. Sappiamo di diverse persone che, elette, effettivamente non volevano accettare l'ufficio perché rifuggivano per principio dalle cariche ecclesiasti� 83
che (p. es. Gregorio Magno) . Ma a volte questa riluttanza, che leggiamo nelle fonti, è solo un topos letterario. Mentre oggi per una valida ordinazione si richiede la piena libertà dell'eletto, allora era importante la volontà della comunità, non il suo consenso. La Didachè scrive: « eleggetevi vescovi ... degni del Signore » (cap. 15). La Tradizione apostolica precisa ancora: « sia ordinato ve scovo colui che è stato scelto da tutto il popolo; si farà il nome del prescelto e, se esso incontrerà unanimità di consenso, ecc . ... » (cap. 2). Cipriano ci dà ancora maggiori particolari : << Per questo bisogna rispettare con cura la tradizione divina e la prassi apostolica; tradizione e pra tica che si trovano anche presso di noi e in quasi tutte le province. Cioè, per poter procedere secondo la legge del l'ordinazione, devono intervenire presso la comunità in cui avviene la elezione i vescovi più vicini, che apparten gono alla medesima provincia. Si deve scegliere il vescovo alla presenza del popolo. La gente conosce veramente la vita di ognuno e sa apprezzare la condotta vivendo insie me » (Epist. 67, 5, 1). Non viene qui specificato il ruolo dei tre componenti : il popolo, il clero locale e i vescovi vici ni. La procedura variava secondo i tempi e i luoghi. Nel quarto secolo si definì una complessa legislazione canoni ca e civile; spesso però la prassi, anch'essa molto diver sificata, differiva dalla legislazione. Perciò possiamo indi care alcuni elementi di carattere generale per i secoli IV-VI, con riferimenti a casi concreti, tenendo presente che la non osservanza di alcune regole per l'elezione e l'ordinazione spesso dava luogo ad aspre contestazioni sulla legittimità di un vescovo e degli atti della sua ele zione. Numerose testimonianze sottolineano la presenza del po polo, secondo l'espressione di Leone Magno: « Chi dovrà essere proposto a tutti dovrà essere eletto da tutti » (E pist. 10, 6 : PL 54, 634) e il metropolita avrebbe dovuto intervenire solo in caso di difficoltà nell'accordo (Epist. 10, 4; 14, 15). Per i paesi latini resterà in vigore, almeno teoricamente, per il Medioevo la norma degli Statuta ec clesiae antiqua che il vescovo viene eletto « con il consen so del clero e dei laici e l'adunanza dei vescovi di tutta la provincia, soprattutto del metropolita » (Ed. Munier, pro logo). Le modalità si precisano, anche se non sappiamo 84
quanto venissero osservate. Per il secondo concilio di Ar les del 452 (can. 54 ed. Munier) il clero e il popolo locali scelgono uno dei tre candidati proposti dai vescovi vicini; mentre per il concilio di Braga le parti si invertono. Anche in Oriente il popolo prendeva parte attiva alla de signazione del vescovo, anche se il citato concilio di Lao dicea (can. 1 3) voleva escludere la turba chiassosa, come avvenne nell'elezione del Crisostomo (Socrate, Hist. ec. 6, 2), di Eustazio, ecc. Non sappiamo da quando, ma forse già nel V secolo, il metropolita sceglieva tra i tre candi dati proposti dal clero, dai decurioni, i membri del sena to locale e dai notabili della città (Codice di Giust. 1, 3, 41). Una norma definitiva si ebbe nel secondo concilio di Nicea del 787 (can. 3), che riservava l'elezione ai soli vescovi. Il popolo poteva essere valido garante della dignità della persona prescelta, ma in certi casi si lasciava guidare da interessi o altro; nel periodo di disfacimento dell'impero romano fu portato a eleggere persone che lo potessero difendere politicamente e socialmente, e divisioni e lotte popolari non erano rare tra fautori di diversi candidati. Girolamo osserva che il sistema seguito conduceva a met tere da parte i più degni, perché meno intriganti (Adver. Jovinianum l , 34). Agostino scrive che era frequente nelle chiese di Africa, e sappiamo non solo di Africa, il sorgere di contese (Epist . 2 1 3 , l ) ; per questo egli si sceglie un successore, Eraclio, senza consacrarlo, come altrettanto fa Severo di Milevi. Del resto Agostino stesso era stato eletto e consacrato, vivente il suo predecessore, e soltanto più tardi si accorse che la sua ordinazione era stata con traria alla disposizione del concilio di Nicea del 325 (can. 8), che ammetteva un solo vescovo per ogni città (Epist. 213, 4; Possidio, Vita di Ag. 8) ; anche la prassi che il vescovo in carica designasse il successore venne con dannata in vari concili (concilio di Antiochia del 34 1 , can. 23; concilio di Roma del 465, can. 4). l� Crisostomo riferisce manifestazioni popolari in Oriente nvolte a screditare il candidato (Dialogo sul sacer. 3, 1 5) . . S 1 hanno anche rari casi d i successione ereditaria, della quale già Origene si lamentava (Homil. in Num. 22, 4). In Armenia nel IV secolo abbiamo la famiglia di Gregorio l'Illuminatore; a Bourges i Palladii; Rustico, vescovo di N arbona, era figlio del vescovo Bonoso e nipote del 85
vescovo Aratore; Eusebio, vescovo di Lione, ebbe due figli: Salonio, vescovo di Ginevra, e Verano, vescovo di Vence. Tale costume si verificava soprattutto quando si convertivano le famiglie di clarissimi, la classe senatoria le. L'intervento del popolo poteva imporre il proprio candi dato, anche contro il volere dei vescovi, come nel caso di Martino di Tours, che quelli furono costretti a consacrare (Sulpicio Sev., Vita di Martino, 8) . Tuttavia l'intervento popolare, per motivi sociali politici ed ecclesiali, si ridus se sempre di più a vantaggio della gerarchia ecclesiastica provinciale, del papa e dell'imperatore. Forse già nel IV secolo il suo ruolo normale e riconosciuto era solo quello di acclamare il candidato proposto dal clero, come avve niva nella prassi pubblica romana. Un tipico esempio fu quando Agostino propose alla sua comunità la designa zione del successore. Lo stenografo riporta più volte frasi acclamatorie del genere: << I fedeli allora gridarono trentasei volte: sia ringraziato Dio! sia lodato Gesù Cristo! - Tre volte : Cristo ascoltaci ! Viva Agostino! - Otto volte : te per padre, te, per vescovo! - Venti volte: egli (il successore Eraclio) è degno e giusto! - Cinque volte: è meritevole; è degno! - E sei volte: egli è degno e giusto! » (Agostino, Epist. 2 1 3 , 2). L'uso è documentato anche altrove e passò ufficialmente nella liturgia sia latina che bizantina del l'ordinazione nel Medioevo, come è testimoniato dagli an tichi messali. L'imperatore aveva interesse alla scelta dei vescovi per la loro importanza nell'ambito civile, in quanto supplenti delle autorità statali e garanti della fedeltà dei sudditi. Il modo del suo intervento, mai codificato, poteva assumere espressioni diverse: designando un candidato, ratificando un'elezione avvenuta, trasferendo o scegliendo tra con tendenti. Esso si colloca ideologicamente nella linea della concezione romana dell'autorità, che non concepiva poteri al di fuori di quello dello Stato. Il vescovo eletto non necessariamente doveva appartenere al clero della città, ma doveva esservi conosciuto; anche laici potevano essere eletti, ma a partire dal IV secolo la legislazione si orienta a sceglierlo tra il clero, secondo il canone 10 del concilio di Serdica del 343, approvata su proposta di Osio di Cordova: per essere vescovo bisogna 86
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essere stato lettore e diacono o presbitero. Che non si possa più accedere direttamente all'episcopato diventa un dato universale alla fine del IV secolo, anche se cono sciamo diverse eccezioni. Leone Magno torna a ribadire con forza che i laici non potevano essere ordinati vescovi, senza aver prima fatto un cursus, come garanzia della loro preparazione. In que sto periodo comunque si allarga la prassi di ordinare eremiti e monaci - categorie allora non appartenenti al clero - con la speranza che avessero maggior prepara zione e soprattutto fossero osservanti della continenza. Ma non tutti erano un Agostino. Il vescovo, centro della vita della comunità, era colui che sceglieva tutti gli altri membri del clero inferiore, a tale fine si avvaleva del consiglio di altri, soprattutto dei presbiteri. Scrive Ci priano: « Quando si tratta di ordinare i chierici siamo soliti consultarvi prima della loro ordinazione ed esami nare la moralità e i meriti di ognuno nel corso di una pubblica assemblea (Epist. 38, l) (3). Anche Origene accenna che i ministri inferiori venivano nominati dal vescovo (In Matthaeum 1 6, 2 1-22 ). La Di dascalia degli apostoli, del III secolo, attribuisce la scelta al solo vescovo (2, 34), ma in genere le testimonianze posteriori esigono la collaborazione di tutto il clero. Per la nomina dei prespiberi interveniva anche il popolo, ma probabilmente non sempre. A volte l'ordinazione del presbitero avveniva per pressante richiesta popolare, co me fu il caso di Paolino di Nola, di Agostino, di Paolinia no fratello di Girolamo, di Neporiano. La difficoltà di reclutare persone specificamente preparate faceva sorgere l'idea di approntare i futuri quadri, come suggerisce la lettera del papa Siricio a Imerio di Tarra gona nel 385 e come qualche grande spirito già faceva, intuendo le necessità dei tempi, come Agostino. Già nelle lettere Pastorali troviamo indicazioni, soprattut to di carattere morale, per la scelta di un buon vescovo (Tito l , 6 s; l Timoteo 3, 2-7). Inoltre non poteva essere vescovo il neofita e chi fosse sposato due volte, e già nel III secolo non viene ammesso normalmente tra il clero, non solo all'episcopato, chi avesse compiuto la penitenza (3) Cfr. Breviarium Hipponense 20 ; Statuta ecclesiae antiqua, Ed. M unier, can. 10 ; Costituzioni apostoliche, VIII, 16, 4. 87
pubblica, si fosse fatta una mutilazione volontaria o aves se ricevuto il battesimo durante una grave malattia (i clinici) . Le interdizioni sia ecclesiastiche che civili per l'ammis sione nel clero, nel corso del IV secolo, diventano nume rose e limitano fortemente la scelta. La chiesa non am metteva chi esercitasse talune professioni: personale del lo spettacolo, funzionari statali, soldati battezzati prima del servizio militare, amministratori dei beni altrui prima che avessero reso conto finale al padrone, gli schiavi e i liberti poiché non godevano di piena libertà civile. Lo stato d'altra parte, per esigenze economiche, proibiva a di verse categorie di entrare nel clero: gli schiavi e i coloni senza il permesso scritto del loro patronus, fornai e sa lumieri, funzionari subalterni di diversi servizi pubblici, impiegati di fabbriche imperiali, la vasta classe media dei curiales, cioè i membri del consiglio cittadino e i loro familiari, ecc. Ma con la concessione di esenzioni, molte persone passavano al clero, per cui già Costantino più volte intervenne perché, oltre i curiales, anche quelli che possedevano sufficiente ricchezza non potessero entrare nel servizio ecclesiastico, perché « conviene che i ricchi sovvengano alle necessità del secolo e che i poveri siano sostentati dalle ricchezze della chiesa » (Codice Teodosia no 16, 2, 6 : cfr. 16, 2, 3). Pertanto le classi sociali da cui perveniva il clero erano ben poche. Era permesso ai cla rissimi, la classe senatoriale; ma a costoro non conveniva socialmente, e del resto la chiesa non era troppo favore vole. Conosciamo pochi casi, che al loro tempo suscitaro no molto scalpore; e quei pochi dell'alta società che ab bracciavano la vita ecclesiastica diventavano subito ve scovi. Erano anche pochi i membri del clero provenienti dalle professioni liberali, cioè professori e avvocati e questi ultimi non erano molto graditi alla chiesa a causa della loro attività. Inoltre poiché il cristianesimo era, nella maggior parte dell'Impero, un fatto soprattutto urbano, non si potevano reclutare membri provenienti dal mondo contadino. Non restavano che i poveri artigiani della città, ed è da sup porre che questa categoria costituisse l'ossatura del clero del IV-V secolo. Ma il rilevamento sociale del clero di questi secoli è quasi tutto da compiersi e mancano tutto ra strumenti adeguati di ricerca. Non si deve pensare 88
comunque che le indicazioni date dalla legislazione eccle siastica e civile siano state assolute e rigidamente osser vate. II monotono ripetersi di leggi uguali è segno che esse venivano spesso trasgredite, e conosciamo troppe ec cezioni e molti adattamenti al mutare delle situazioni. I papi più volte intervennero per escludere dal clero persone indegne e entrarono in uso veri e propri es �mi (scrutini) per accertare la condotta e la fede del candida to. Infatti il ministero pastorale esigeva una conveniente preparazione teologica e una certa conoscenza della reto rica per la predicazione. Non esistevano però scuole spe cifiche per la preparazione del clero; questa si acquisiva con la frequenza alle celebrazioni liturgiche, con la fami liarità con il vescovo e con altri sacerdoti, lo studio per sonale e l'esercizio degli ordini ricevuti. Girolamo scrive a Nepoziano, giovane sacerdote e monaco ad Altino: « Io so bene che il vescovo Eliodoro, tuo zio, attualmente pon tefice di Cristo, ti ha insegnato la santità, ogni giorno l'assimili, e l'esempio delle sue virtù è per te norma di vita. Ma accetta anche questi consigli, qualunque ne sia il valore; unisci questo libretto all'opuscolo che gli avevo mandato; quello t'insegnerà a essere monaco, questo ad essere sacerdote perfetto » (Epist. 52, 4). Per acquisire la cultura profana si frequentavano le scuo le pubbliche; per quella necessaria al ministero, si ebbero diverse iniziative. Anzitutto, già nel IV secolo, si insisteva che ci fosse una gradualità nella ricezione degli ordini inferiori e che questi fossero esercitati per un certo pe riodo di tempo più o meno lungo, come preparazione ai gradi superiori e come prova della condotta, attraverso i singoli gradi. Questi motivi sono esplicitamente invocati da Leone Magno (Epist. 12, 4). L'esame richiesto prima dell'ordinazione era però rivolto a valutare le qualità mo rali da possedere per appartenere alla militia spiritualis, non tanto la preparazione intellettuale. Naturalmente ques te disposizioni, che divennero più severe con i papi Siricio (384-399) e Zosimo ( 4 1 7-4 1 8 ), valevano soprattutto per i giovani; ma anche a chi entrava già avanti negli anni si imponevano certe esigenze di gradualità per gli stessi motivi. Conosciamo eccezioni che riescono illumi nanti: Agostino, costretto a essere ordinato sacerdote dal vescovo Valerio e dal popolo, non si sentiva ancora sufficientemente preparato alla predicazione, per cui chie89
se e ottenne che per qualche mese si potesse dedicare liberamente allo studio della Scrittura (cfr. Epistola 21); Ambrogio si lamentava che era costretto a insegnare pri ma di aver imparato. Casi simili, scrive Gregorio di Na zianzo, erano frequenti (Oratio 1 8 , 3 3 : PG 35, 1 027; O ratio 43, 25: PG 36, 5 3 1 ) . I n alcune città esisteva una schola lectorum, dalla quale sicuramente doveva provenire parte del clero superiore. Si restava in essa normalmente fino ai vent'anni. L'età dell'aggregazione variava: Epifanio di Pavia a otto anni era lettore. I papi Siricio, Innocenzo e Zosimo ci infor mano che ragazzi battezzati erano inclusi nel numero dei lettori già prima della pubertà. Il lettorato, in genere, costituiva l'inizio del cursus clericalis nella militia spiri tualis. D iodoro, il futuro vescovo di Tarso dirigeva ad Antiochia una scuola che offriva insegnamento teologico e forma zione ascetica. Agostino aveva fondato a lppona un mo nastero di chierici, dove essi potevano ricevere adeguata formazione; i vescovi usciti da qui fecero altrettanto e il loro esempio fu imitato anche altrove. Qualcosa di simile già esisteva a Vercelli con Eusebio (t 371), e dal monastero dell'isola di Lérins uscirono numerosi vescovi. Nel concilio di Vaison del 525 si prescrive che i parroci, se guendo la consuetudine esistente in I talia, devono istruire i lettori. Questi tentativi erano solo palliativi data la ca renza di vere strutture organizzate. Tutti i grandi Padri insistono che il clero abbia una cultura profana e soprat tutto cristiana, e del resto essi stessi si erano formati nelle migliori scuole profane del tempo; ma spesso erano autodidatti in fatto di conoscenze religiose. Per questo insis tono per una lettura assidua della Scrittura, in quanto il sacerdote è scripturarum tractator et doctor (Ago stino, De doctrina chr. 4, 6). Si proibisce di ordinare chie rici che non abbiano un minimo di istruzione: « Gli igno ranti delle lettere non osino aspirare ai sacri ordini » (Concilio di Roma del 465, can. 3), ma il clero del IV e V secolo doveva essere di norma abbastanza ignorante : << Frequentemente per giudizio di Dio e suffragio popolare vengono eletti degli illetterati; almeno però, una volta ordinati sacerdoti, si preoccupino di imparare la legge di Dio, perché la possano insegnare e non si vergognino di imparare dai laici che conoscono ciò che riguarda l'ufficio 90
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del sacerdote », così scrive Girolamo (Comm. in Agg. 2 1 1 ). Agostino faceva la stessa constatazione riguardo al ciero delle campagne africane, « turba di preti campagno li e illetterati » (Epist. 202, 3, 7) ; ma anche il clero urbano lasciava molto a desiderare. Non sappiamo quale grado di preparazione fosse richiesta per i singoli ordini, e non esistono studi a riguardo. Un concilio di Seleucia-Ctesifonte, in Mesopotamia, del 4 1 0 prescrive che il suddiacono sappia almeno leggere i l sal terio (Mansi 7, 1 1 8 1 : can. 26) . Anche il B reviarium Hip ponense ordina che i chierici, senza specificare il grado, conoscano la sacra Scrittura (ed. Munier, can. 2) . Gli Statuta ecclesiae antiqua esigono che il vescovo sia litte ratus, conosca la Scrittura, la sappia spiegare e conosca i principali articoli della fede (ed. Munier, prologo pag. 75 s). Le informazioni posteriori, che si ricavano dai con cili della Spagna e della Gallia, offrono un panorama di un clero ancora più ignorante in Occidente. In Oriente le cose non dovevano andare meglio, stando alle Novelle 6, 4 e 123, 12 di Giustiniano e al canone 2o del concilio di Nicea del 787 . Già però in Occidente cominciavano a sor gere le scuole vescovili. Nel IV secolo inizia anche una legislazione, necessaria mente ancora fluttuante, che riguardava l'età richiesta per l'accesso ai vari ordini. Essa, pur ribadendo principi ge nerali, non è uniforme. Il canone 1 1° del concilio di Neo cesarea del 314/319 richiedeva i trent'anni per il sacerdo zio. Tale età è quella più costante nella varietà delle disposizioni e resterà più o meno normativa per i secoli seguenti. Come abbiamo già accennato, si insiste che ven gano osservati gli intervalli di tempo nella recezione dei singoli ordini, in vista della progressiva formazione del l'experientia disciplinae (Leone M., Epist. 12, 4), necessa ria per l'esercizio dell'ordine superiore. 3. R iti e simboli di trasmissione
di autorità (ordinazione)
« Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, perché sia irreprensibile ... (i vescovi presenti) con consenso di tutti, impongano le mani sull'eletto, mentre i sacerdoti assistano senza far nulla. Tutti taccia91
no, ma preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito santo. Poi uno dei vescovi presenti, a richiesta di tutti, imponga la mano su colui che riceve l'ordinazione epi scopale e preghi dicendo: Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie, Dio di ogni conso lazione ... Concedi, Padre che conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l'episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di esercitare, in maniera irreprensibile e in tuo onore, la massima dignità sacerdotale .. » (Tradizione apos t., capp: 2 e 3). « Quando si ordina un sacerdote, (il vescovo) gli imponga la mano sul capo, imitato dai sacer doti, e preghi nel modo che abbiamo detto a proposito dell'ordinazione del vescovo, dicendo: Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo servo qui presente e infondigli spirito di grazia e di sag gezza sacerdotale ... Sul sacerdote devono imporre le mani anche i sacerdoti perché godono anch'essi del comune spirito sacerdotale. Infatti il sacerdote ha il potere di ricevere, ma non di dare questo spirito, perciò non ordi na il clero ... » (o. c. capp. 7 e 8). « Nell'ordinazione del diacono imponga le mani solo il vescovo proprio perché il diacono viene ordinato non al sacerdozio, ma al servizio del vescovo con il compito di eseguirne gli ordini ... >> (o. c. cap. 8). « Non si imponga la mano al suddiacono, ma lo si nomini perché sia a servi zio del diacono >> (o. c. cap. 13). « Il lettore viene istituito nell'atto in cui il vescovo gli consegna il libro: non gli si fa, infatti, l'imposizione delle mani >> (o. c. cap. 1 1) . Siamo con queste formule in pieno sviluppo d i tradizioni precedenti sulla investitura di coloro che nella comunità svolgono funzioni direttive, in presenza di un rito elabo rato e preciso per significato teologico, con una netta distinzione terminologica. L'investitura di vescovi, presbi teri o diaconi comporta necessariamente l'imposizione delle mani (o mano) (cheirotonia), mentre gli altri entra no in funzione con una nomina (katastasis) ma senza tale imposizione. Cheirotonein-cheirotonia, pur con alcune o scillazioni, diverrà termine tecnico per indicare l'istalla zione di un candidato in un ufficio ecclesiale, mediante la consacrazione compiuta con l'imposizione delle mani e l'epiclesi, cioè la preghiera di invocazione allo Spirito santo. Il corrispondente termine tecnico latino, già dal III secolo, è ordinare-ordinatio, che nel linguaggio cri.
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stiano acquista una nuova accezione derivata dalla paral lela terminologia greca. Con lo stesso significato si usa anche consecrare-consecratio. L'autore della Tradizione a pos tolica, a proposito del fatto che anche le vedove vengo no istituite con la sola parola, dà la ragione di fondo della differenza dei due riti: « Non le si faccia l'imposizione delle mani, in quanto ella (la vedova) non fa l'offerta (eucaristica) né assume alcun compito liturgico. Del re sto, l'ordinazione è limitata al clero che svolge un ufficio liturgico, mentre la vedova è istituita per la preghiera, che è dovere di tutti i cristiani >> (o. c. cap. 10). I riti e le preghiere della Tradizione apostolica hanno avuto enorme influsso sui documenti canonici-liturgici dei secoli seguenti. La preghiera dell'ordinazione del vescovo è stata ripresa recentemente sia dalla liturgia cattolica che dalla chiesa episcopale americana. Si discute sull'origine di questi riti e sul loro retroterra giudaico o pagano. Comunemente si pensa, al seguito di Lohse ( 4 ), che l'ordinazione cristiana sia stata strutturata sul modello dell'ordinazione giudaica (la semikhah), pur ricevendo un significato nuovo nella chiesa primitiva. Ma tale opinio communis è stata contestata dal rabbino ame ricano, L. Hoffman (5), secondo il quale non è stata an cora provata la dipendenza dell'ordinazione cristiana da quella rabbinica: infatti nessun testo tannaitico palesti nese, cioè prima del 200 d.C., prova che nell'ordinazione giudaica vi fosse una imposizione delle mani, ma sembra che il rabbino agiva nelle su funzioni solo per mezzo della parola. I rabbini erano istituiti come dottori e giu risti, ma senza funzioni di presidenza nella comunità. Del resto Cristo ha istituito gli apostoli in forza della sola parola, mentre questi hanno istituito i sette con l'imposi zione delle mani e la preghiera (Atti 6, 6); altrettanto avviene con Paolo e Barnaba ad Antiochia (Atti 13, 3); ma non sappiamo molto sull'importanza di questi gesti al fine del conferimento di un mandato. Il rito si precisa solo con le lettere pastorali (l Timoteo 4, 14; 2 Timoteo l , 6 e passim). La persona così investita di autorità riceve (4) E. Lohse, Die Ordination in Spiitjudentum und im Neuen Te
stam ent, Berlino 1951. (5) L. A. Hoffman, L'ordination juive à la veille du christianisme: La Maison-Dieu 138 (1979) 7-49.
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un carisma, cioè un potere per esercitare fruttuosamente la sua funzione : gli viene conferito simbolicamente un mandato, durante un'assemblea liturgica, per il ministero della parola e della guida della comunità da parte di persone che già tale mandato esercitavano. L'imposizione delle mani, che abbiamo visto così frequen te nell'antichità, è un gesto cultuale (liturgico) dai diversi significati, ed è di volta in volta specificata sia dal conte nuto della preghiera alla quale è unita e sia dal motivo per cui viene compiuta; un conferimento di ordini, batte simo, benedizioni ... Certamente non ha un significato ma gico, come si ricava dalle preghiere che I'accompa!Snano. Infatti la creazione di un ministro comporta due elementi essenziali: imposizione delle mani e preghiera. Pertanto non è un semplice rito di installazione, come quando uno prende possesso di un ufficio, per esempio un console designato a Roma, e non coincide neppure con la desi gnazione del clero fatta dalla comunità locale. Il genere letterario delle preghiere di ordinazione è l'epfclesi, invo cazione rivolta a Dio perché invii lo Spirito santo sulla persona da ordinare, perché questa, fortificata dal dono dello Spirito, possa adempiere le sue funzioni. In tal mo do il vescovo e il presbitero ricevono il ministero (servi zio) dei sacramenti, della parola e più in generale di essere pastori della comunità: secondo l'espressione di Agostino, il sacerdote è il minister verbi et sacramenti (Epist. 2 1 , 4; 228, 2; 26 1 , 2). Per sempre, durante lo svolgimento delle sue funzioni, il ministro resta sotto l'azione dello Spirito, per guidare la comunità lasciandosi egli stesso guidare da esso: è lo Spirito, donato nell'ordinazione, che fonda l'autorità del ministro nella comunità e dà potere per compiere le sue mansioni. Nella Tradizione apostolica solo il confessore, colui che aveva confessato la fede durante la persecuzio ne e che di frequente veniva promosso agli uffici eccle siastici, non riceve l'ordinazione che conferisce lo Spirito, perché, secondo la concezione antica, egli avendo sofferto per la fede già ne è in possesso. Ma questa eccezione, non valida per l'episcopato, la quale sembra derivare da un compromesso tra conferimento del carisma divino e rito d'istituzione, presto scompare. I riti descritti nella Tradi zione apostolica sostanzialmente resteranno in tutti i do cumenti canonico-liturgici posteriori, che aggiungeranno 94
solo precisazioni e arricchimenti di altri elementi. Mentre in Occidente ci si attiene tuttora alla distinzione della Tradizione relativa al gesto dell'imposizione delle mani, riservato alla creazione di un vescovo, di un presbitero e di un diacono, in Oriente esso è stato esteso anche al sud diacono, al lettore e alla diaconessa; anzi nella chiesa di Antiochia anche ad altri uffici (6). Nel IV secolo, nell'ordinazione di un vescovo, si aggiun gerà il gesto dell'imposizione del libro dei Vangeli sulle sue spalle e nel V sorge l'uso del pastorale; poi nel pe riodo franco si moltiplicheranno riti simboli e oggetti: le unzioni, la croce pettorale e l'anello, la mitra. Ognuno di questi elementi ha un significato proprio: sociologica mente il rito di assunzione di un ufficio si arricchisce di nuovi elementi e si appesantisce; teologicamente ogni simbolo vuole esprimere un aspetto dell'ufficio pastorale. Esiste anche un rito di creazione degli ordini minori: lettore, esorcista, ostiario .. (7), che non ci è molto noto per i primi secoli. Dai primi documenti in nostro posses so, come gli Statuta ecclesiae antiqua del V secolo (ed. Munier, numeri 93-97), il rito si componeva di un'ammo nizione, della consegna degli strumenti propri, simboli dell'ufficio, e di una benedizione. Già la Tradizione Apo stolica per il lettore dice: << Il lettore viene istituito allor ché il vescovo gli consenga il libro » (cap. I l) . Secondo gli Statuta, il suddiacono riceve il calice e la patena, l'accoli to il candeliere, l'ostiario una chiave ... L'ordinazione deve avvenire sempre di domenica nel corso di una assemblea eucaristica (Leone M. Epis t. 10, 6), mentre quella dei presbiteri e diaconi avveniva a Roma il sabato sera delle quattro tempora (Gelasio, Epist. 15, 3) (8). Per il vescovo devono essere presenti almeno altri tre vescovi della stes sa provincia (Conc. di Nicea del 325, can. 20) , sia perché solo un vescovo può ordinarne un altro, sia anche come segno di approvazione e di comunione nella fede da parte .
(6) Le Costituzioni apostoliche, documento della seconda metà del IV secolo, lo attestano anche per i confessori: cfr. VIII, 23, 1-3. (7) Di questi e delle loro funzioni si parlerà più diffusamente nel Paragrafo cinque di questo capitolo. (8) Nelle quattro stagioni dell'anno liturgico ( Pentecoste, per an n � ?� � a settembre -, a dicembre e in quaresima) furono sta bihtr gwrni di digiuno, che vennero detti Quatuor tempora e risali rebbero al tempo di papa Siricio (384-399) . 95
di tutta la chiesa: infatti la comunione con alcuni vescovi esprime e significa la comunione con tutti gli altri sparsi dovunque. Vennero proibite le ordinazioni assolute, cioè fatte in modo che l'ordinato non venisse vincolato a una funzione da svolgere per una comunità o per un luogo determinati. Il concilio di Calcedonia del 451 (can. 6) prescrive: << Nes suno deve essere ordinato in maniera assoluta, né presbi tero, né diacono, né alcun chierico in generale, se non gli è assegnata specificamente una chiesa urbana o rurale, o un martyrium o una chiesa monastica. Quanto a coloro che sono stati ordinati senza una di queste funzioni, il santo concilio ha deciso che la loro ordinazione è nulla e non avvenuta e che, a vergogna di chi l'ha conferita, non potranno mai esercitare la loro funzione ». La disposizione non era nuova del tutto ed entrò in vigo re anche in Occidente. In precedenza conosciamo varie eccezioni, come Paolina di Nola, Girolamo e altri, poste riormente soprattutto in Irlanda (9) . L'idea che soggiace a questo divieto è che l'ufficio del clero sia quello di rendere un servizio in una comunità concreta; per questo non si concepisce che uno potesse essere vescovo o presbitero per sé e l'ordinazione, pur perfetta dal punto di vista delle regole e dei riti, senza una diaconia precisa e determinata era considerata inva lida. Essa comportava la residenza in loco e uno stretto rapporto tra il ministro e la sua comunità o luogo di culto. I trasferimenti infatti venivano condannati, anche se eccezioni per i vescovi furono numerose nel IV secolo. La donna, nella tradizione cristiana antica, fu sempre esclusa dall'ufficio di vescovo o di presbitero. Tuttavia tale ordinazione, secondo Epifania, avveniva presso le sette eretiche dei montanisti e dei colliridiani. La prassi normale era così costante che il concilio di Laodicea della fine del sec. IV si limita solo a ricordare che le donne non devono avvicinarsi all'altare (can. 44) . Ricevevano, (9) La legislazione stabilisce che il chierico viene ordinato per un servizio da rendere in un luogo concreto ( monastero, martirio, chiesa) ; ora sinonimo di chiesa è titulus. Inoltre ci si preoccu pava, soprattutto nei secoli successivi, che il chierico avesse an che i mezzi di sostentamento, così il termine titulus passò a indi care anche questi mezzi, per cui si parlerà più tardi del titulus benefìcii per l'ordinazione. 96
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almeno in Oriente, l'ordinazione diaconale. La parola
presbytera non in�ica perci? una sace�dotess�, m� la
moglie di un presbttero, ordmato dopo ti matnmomo, e vivente con lui in continenza, oppure indica una donna anziana, una vedova, che prestava alcuni servizi in chiesa. 4. La gerarchia ministeriale
II termine gerarchia - autorità sacra - è tardivo e
risale allo Pseudo-Dionigi (VI sec.); tra le sue varie acce zioni, indica il ministero cristiano rivolto alla consacra zione degli uomini a Dio e lo strumento di tale opera santificatrice per costruire la chiesa. Il ministero cristia no pertanto si definisce in rapporto al suo fine, l'econo mia della salvezza, cioè l'azione divina per gli uomini, nel senso che Dio, per realizzare il suo piano salvifico, si serve di altri uomini, che sono « ministri di Cristo e amministratori (oikonomoi) dei misteri di Dio » (l Corinzi 4, 1), fra i quali ancora più fortemente il vescovo è defini to << amministratore di Dio (theou oikonomos) » (Tito l, 7). Essi, i ministri, non devono essere dominatori, ma semplici servitori e dispensatori dei misteri di Dio, attra verso la parola (logos) e l'azione (ergon) . Come tali, loro virtù per eccellenza è la fedeltà. Dell'opera divina di sal vezza, scrive Gregorio di Nazianzo, << noi ne siamo i servi tori e i cooperatori (sunergoi) ; noi tutti che presiediamo >> (Oratio 2, 26: PG 35, 436 A). Perciò da una parte c'è l'ini ziativa divina e dall'altra la cooperazione umana. << :È Dio che opera per mezzo di lui >> (Giovanni Crisostomo, Comm. in 2 Tim. 2, 2: PG 62, 6 1 0). Viene continuamente ripetuto che il ministero cristiano è un servizio, che si ramifica in un molteplicità di ministeri, di funzioni, ge rarchicamente disposti, e già nel Nuovo Testamento c'è varietà di ministeri, secondo i luoghi e i tempi, in uno spirito di creatività e di adattamento alle varie esigenze. Anzitutto abbiamo la comunità di Gerusalemme, animata dai Dodici, istituiti da Gesù stesso. Essi vengono chiamati anche apostoli, nome che però si può applicare anche ad altre persone, come Paolo e Barnaba. Giacché la comuni t� è composta da giudei palestinesi, dediti alla predica ZIOne del messaggio, e da quelli della diaspora (ellenisti ), sorgono dissensi. Allora al servizio di questi viene creato 97
un gruppo di Sette, che soltanto secoli più tardi verranno considerati i prototipi dei diaconi. Nel testo degli Atti si dice che essi erano destinati al servizio delle mense (cap. 6) ; in realtà agiscono soltanto come predicatori coraggiosi e dinamici. Le esigenze della predicazione disperdono i due gruppi, dei Dodici e dei Sette, che perciò perdono gradatamente il loro significato originario. Alcuni anni più tardi la comunità di Gerusalemme ci appare struttu rata diversamente: Giacomo ne è il capo, coadiuvato da gli anziani (presbiteri), in analogia col consiglio delle si nagoghe: essi hanno sia funzioni dottrinali (Atti 1 5, 2-29), che assistenziali (Atti 12, 23-30; Epist. di Giacomo 5, 14; Galati 2, 10). Gli Atti parlano di anziani anche in comuni tà paoline (Atti 14, 21-23 ; 20, 17-30) con funzioni direttive. Compaioni altri ministeri, cosicché la chiesa neotestamen taria ci appare articolata in una varietà di funzioni: « Al cuni perciò Dio li ha posti nella chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i doni ... di assistenza, di governo » (l Corinzi 12, 28). « t:: lui che ha stabilito alcuni come pastori e maestri, per rendere idonei i fratel-. li a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo » (Efesini 4, 1 1 s). Nelle lettere sicuramente paoline non s i parla degli anziani; oltre i ministeri menzionati nella lettera ai Corinzi, si aggiungono i vescovi e i diaco ni . Gli uni con l'ufficio di sorveglianza (episkopè), gli altri con quello di servizio (diakonia) : sono i nuovi ministeri legati alle comunità locali provenienti dal paganesimo; sono ministeri stabili in confronto a quelli itineranti, co me gli apostoli e i profeti. Le comunità a prevalenza giudaica invece dovevano avere una struttura simile a quella di Gerusalemme: un · capo unico e un consiglio di collaboratori; anche la terza lette ra di Giovanni mostra un modello di chiesa con un solo capo. La Didachè, della seconda metà del primo secolo, rispecchia invece una situazione fluttuante, in evoluzione, di comunità cristiane provenienti dal paganesimo: « sce glietevi degli episcopi e diaconi degni del Signore, essi eserciteranno per voi la funzione dei profeti e dottori » (Didachè, cap. 15, 1). Le lettere pastorali ci presentano comunità che hanno per capi Tito e Timoteo, come orga nizzatori di tutta la vita ecclesiale, dell'insegnamento e della nomina dei presbiteri-vescovi. Non sappiamo esat98
tamente se questi due ti_toli indic � ir_10 in . quest� l7 tter� funzioni diverse ovvero siano termm1 eqmvalent1, smom mi : cioè se per indicare la stessa funzione si adoperi il termine giudaico tradizionale di presbitero ( = anziano) e il nuovo, improntato alla lingua greca, di vescovo. Essi co stituiscono il consiglio della comunità locale, hanno au torità su di essa, sono incaricati dell'insegnamento e vigi lano sulla dottrina. Hanno diritto alla ricompensa. L'au tore delle lettere insiste nel delineare la figura morale e ministeriale del presbitero-vescovo. Più o meno le stesse qualità devono essere possedute dai diaconi . Questo breve schizzo ci mostra una varietà di organizzazione e di ter minologia, che mano a mano si vanno precisando, come un bambino che nel crescere va assumendo i caratteri somatici e psicologici definitivi . Nel corso del secondo secolo troviamo ancora presbiteri, dottori e profeti, ma già con Ignazio di Antiochia appare ben definita a capo della chiesa la triade vescovo-presbi tero-diacono, anche se le rispettive funzioni non sono mol to chiare. I tre ministeri costituiranno ormai per sempre la struttura gerarchica fondamentale e dirigente della chiesa, e nel corso dei secoli III e IV le loro funzioni si preciseranno e delimiteranno sia teologicamente che giu ridicamente. Nascono intanto anche altri uffici di grado inferiore, con specifici compiti e uno statuto giuridico diffe rente, cosicché si creano due blocchi: il primo, i chierici superioris ordinis, costituito da vescovi presbiteri e dia coni, si trova in ogni chiesa e i tre ordini sono sempre nominati nei documenti con lo stesso ordine decrescente o ascendente. Era la parte dirigente della chiesa per auto rità e cultura e la loro incidenza sociale era molto forte, come dimostra l'abbondante legislazione imperiale nei lo ro riguardi. Il secondo gruppo, i chierici inferioris ordi nis, variano come numero, compiti e importanza secondo le varie province. Svolgono gli uffici più umili, anche cul turalmente, e sono socialmente meno rilevanti. Essi han no diri tti, responsabilità e doveri abbastanza diversi, ai quali accennerò nelle pagine seguenti. Qui mi limiterò a un� ? �eve esposizione sui chierici superioris ordinis, i chienCI dei ministeri di direzione. Si è soliti concepire questi ministeri - episcopato, pre . sbiterato e diaconato - quasi esclusivamente nella loro componente cultuale. Questa è una concezione medievale. 99
Nell'antichità invece essi abbracciavano tutta la vita cri stiana: insegnamento, culto, vita religiosa, assistenza di ogni genere e amministrazione dei beni della comunità. Scrive Gregorio di Nissa che il ministro, con l'ordinazio ne, « è costituito precettore, presidente, maestro, mista gogo dei misteri invisibili » (In diem luminem, PG 46, 581 D). La notevole varietà terminologica per indicarli può sconcertarci, ma essa non riguarda tanto l'unità del ministero in sé quanto le sue molteplici funzioni. L'ele mento economico, per esempio, non è marginale, perché ci sono vedove, poveri, forestieri e malati da aiutare. Perciò le indicazioni qui accennate, quantunque si riferi scano soprattutto ai vescovi, riguardano anche i presbiteri e i diaconi, anche se in misura minore. Conviene soffer marci sui singoli uffici . Il vescovo è il capo della comunità in tutte le sue mani festazioni. Già Ignazio, all'inizio del Il secolo, scriveva: << Seguite tutti il vescovo, come Gesù Cristo segue il Pa dre ... Nessuno faccia, senza il vescovo, alcuna di quelle cose che riguardano la chiesa. Sia ritenuta valida quel l'eucaristia che si celebra dal vescovo o da chi ne ha ricevuto incarico da lui. Dove appare il vescovo, ivi sia la comunità, come dov'è Gesù Cristo, ivi è la chiesa cattoli ca . Senza il vescovo, non è lecito né battezzare né cele brare l'agàpe; ma quello che egli ha approvato è gradito a Dio >> (Agli Smirnesi, cap. VIII). Ogni comunità ha un solo vescovo, che anche la rappresen ta presso le altre chiese o nei vari sinodi . Decide chi am mettere, espellere o riammettere nella comunità. Non può essere trasferito ad altra sede, anche se conosciamo mol te eccezioni; è obbligato alla residenza (Concilio di Nicea, can. 1 6) ; non può compiere ordinazioni al di fuori della sua diocesi, né ordinare persone di altre diocesi oppure scomunicate da altri vescovi. Amministra la giustizia nel l'ambito della comunità; ha cura dei poveri e di tutti i bisognosi. Deve preoccuparsi di tutto il clero e della loro condotta, dei monaci. La presidenza che esercita ha lo scopo di edificare il popolo santo, la comunità, corpo di Cristo . In una parola deve pascere il gregge a lui affida to. Il vescovo è il successore degli apostoli, rappresentante di Dio nella comunità. È scelto da Dio; opporsi a lui è resistere a Dio stesso; chi non è con il vescovo, non è 100
lui le virtù e le nella chiesa. Per questo si esigevano da mpi di e ese esse r p ie necessar ? a tutti e a�:m: : � capacità _ come gm SI La doveri. legislaziOne, numerosi suoi i piere è accennato, diventa sempre più esigente per l'ammissio ne all'episcopato. Deve essere « specchio » per tutti. Egli governa la sua chiesa fino alla morte e non può essere depos to, se non in caso di grave inadempienze, di inde gni tà o di eresia, in genere da un concilio provinciale. La prima e fondamentale funzione del vescovo è la predi cazione, che è riservata a lui : deve istruire i fedeli, con servare la purezza della loro fede, allontanarli dall'errore, correggere gli erranti. Anche se tutto ciò è un peso ingra to, non deve abbandonarlo. :È un precetto divino . Inoltre il vescovo è il centro della liturgia: presiede l'eucaristia, amministra i sacramenti dell'iniziazione, riammette i pen titi, consacra le vergini, le vedove, le chiese, l'olio (cri sma). Ma molte di queste funzioni mano a mano, aumen tando sempre più il numero dei fedeli e dilatandosi le strutture della chiesa locale, vengono attribuite ai presbi teri. L 'espansione del cristianesimo nelle zone rurali porta alla creazione, in alcune province dell'Impero già a partire dal III secolo, del corepiscopo, vescovo della campagna. :t:: un dipendente del vescovo urbano, inferiore di rango, non può ordinare presbiteri e diaconi senza la sua autorizza zione. La legislazione del IV secolo cerca di limitarne il numero e i poteri. Per questo in Oriente la sua figura tende a scomparire fino a restar priva della sua dignità episcopale nel secolo ottavo. Altrettanto avvenne in Occi dente; ma l'inizio dell'istituzione risale al secolo V e la piena espansione ai secoli ottavo e nono nei paesi franchi e germanici. I presbiteri, da cui il termine moderno di prete, che si chiameranno nel Medioevo inoltrato semplicemente sa c7rdoti, costituivano il senato del vescovo, il presbyte rzum (presb iterio ), formato sul modello dell'amministra zione delle città greco-romane e assimilato al collegio a postolico. Erano i consiglieri del vescovo, che si serviva del loro consiglio nella conduzione della comunità e della loro collaborazione nella liturgia: nel battesimo, nella ce lebrazione eucaristica, nella riconciliazione dei penitenti, nell'ordinazione dei presbiteri. Viene loro riconosciuto il carattere sacerdotale, come già si è accennato nel primo 101
paragrafo, ma non agiscono in proprio ma sempre in stret ta collaborazione con il vescovo (10). Tale aspetto collegiale si attenua talvolta per motivi occa sionali, come la persecuzione e l 'assenza del vescovo, e poi a causa dell'espansione del cristianesimo sia nelle città che nelle campagne si ha anche una moltiplicazione di luoghi di culto come le chiese parrocchiali nelle città e nelle campagne, i martyria .. Tuttavia la collegialità resta ben salda sia a livello teorico sia spesso anche pratico, almeno nei secoli IV e V, in molteplici occasioni. Già dal III secolo viene permesso ai presbiteri di cele brare l'eucaristia, di battezzare, di riconciliare i penitenti, con il permesso esplicito del vescovo. Queste facoltà nei secoli seguenti tendono a diventare abituali nei luoghi or ora menzionati, dove il vescovo non può essere presente. Lo sviluppo comunque non è uniforme e dipende dal numero dei vescovi presenti nella regione: in Africa o in Italia centro-meridonale l'eccessivo numero di vescovi, presenti in ogni cittadina, non dava spazio all'apostolato individuale dei presbiteri; in Italia settentrionale o in Gallia invece essi avevano maggiore autonomia e assicu ravano i servizi religiosi necessari nei vari luoghi. In O riente, particolarmente in Egitto, esisteva la figura del prete ambulante, il periodeuta, che visitava le zone prive di sacerdoti stabili, e tendeva a sostituire la figura del corepiscopo. L'arcipresbìtero, il prete più anziano, già si incontra nella metà del IV secolo, nelle chiese cattedrali. Supplisce il vescovo assente, controlla il clero ed esercita altre fun zioni amministrative, secondo i casi. Nella Gallia mero vingia del VI secolo il titolo di arciprete indica sacerdoti di campagna aventi sotto di sé altro clero. Ai presbiteri col tempo si venne affidando sempre di più la predicazione della parola, che pure era impegno tipi camente episcopale. In Oriente nel IV secolo era già con suetudine, se la stessa preghiera antiochena di ordinazio ne accenna a questo dovere; altrettanto ci testimonia E geria per Gerusalemme. Girolamo, ricco dell'esperienza .
( 10) Il carattere collegiale non solo del sacerdozio, ma di tutto il ministero cristiano è messo molto bene in risalto da Vilela per il III secolo: La condition collégiale des pretres au III• siècle, Paris 1971. 102
orientale, biasima il costume di riservare in Occidente la predicazione al vescovo (Epist. 52, 7, a Nepoziano). In Africa, Agostino è il primo presbitero a predicare, poi l'esempio viene seguito anche altrove . In altre province occidentali tale prassi è più lenta a introdursi. La tendenza a trasferire al presbitero funzioni episcopali fu tale che nella seconda metà del IV secolo qualcuno voleva equiparare i presbiteri ai vescovi e considerare la distinzione solo giuridica. Scrive Girolamo: << In realtà, se non guardi alla carica ricevuta che altro fa un vescovo che non possa fare un presbitero? » (Epist. 146, 1) .Questi può infatti operare la consacrazione eucaristica; all'inizio, osserva, non c'era altra distinzione tra i due uffici; per evitare scismi fu eletto uno, solo il vescovo, a presiedere la comunità. Comunque l'assimilazione tra i due ordini, anche se è sostenuta da diversi Padri, fu comunemente respinta con argomentazioni diverse. Girolamo e l'Ambrosiaster, per voler innalzare i presbite ri, abbassano i diaconi, che in alcune città come Roma, avevano notevole potere. Più di un concilio proibisce ai diaconi di celebrare l'eucaristia, di dare la comunione ai presbiteri o di anteporsi a essi. Durante la liturgia, a Roma, i presbiteri stanno seduti, i diaconi invece in piedi (cfr. Girolamo, Epist. 147, 2). I diaconi non sono i continuatori dei Sette degli Atti degli apostoli, anche se posteriormente fu così inteso. Il termine diacono indica un servitore, un ministro, ed e sprime una funzione non un titolo; non sappiamo se nel Nuovo Testamento il termine abbracci una pluralità di funzioni o un solo ufficio. Comunque i diaconi dei testi neotestamentari sembrano svolgere solo funzioni di servi zio e non hanno uno specifico ruolo liturgico. Con Ignazio di Antiochia vengono al terzo posto nella scala gerarchica, sottomessi al vescovo e ai presbiteri; non servitori di cibi e di bevande ma della Chiesa di Dio, aiutano il vescovo; �evono essere rispettati dai fedeli. La Tradizione aposto lzca sottolinea fortemente che essi non sono ordinati al sacerdozio, ma al servizio del vescovo con il compito di eseguirne gli ordini. Difatti non prendono parte al consi gh. o dei presbiteri, ma amministrano e segnalano al ve �co.vo ciò che è necessario fare (cap. 8). Anche Cipriano li�SIS�e su questi concetti, poiché i diaconi << sono i mi mstn dell'episcopato e della Chiesa » (Epist. 3, 1 ) . In un 103
altro testo contemporaneo, la Didascalia degli apostoli, si legge che essi sono « l'orecchio e la bocca, il cuore e l'anima >> del vescovo. I diaconi, essendo i più stretti collaboratori del vescovo e nelle grandi città in numero ridotto rispetto ai presbiteri, in pratica avevano più potere. Il loro numero poteva variare; alcune grandi chiese si attenevano al numero canonico di sette, che era considerato assolutamente non superabile; per questo il loro numero era notevolmente inferiore a quello sempre crescente dei presbiteri. Ma in Oriente, Costantinopoli nel sec. V ne aveva 100, e l'impe ratore Eraclio li portò a 1 5 0. Essi influenzavano e deter minavano le decisioni del vescovo molto di più del col legio dei presbiteri. Avevano un'ampia gamma di funzioni liturgiche, ma soprattutto erano incaricati dell'assistenza ai bisognosi, dell'amministrazione dei beni della comunità e di altre mansioni affidate loro dai vescovi. Erano uomi ni esperti nel governo e nella finanza; godevano prestigio; per questo a Roma il papa, in genere, fu scelto per molti secoli dal loro rango. Era perciò ben naturale che avan zassero pretese a diritti e onori non tradizionali. Sono innumerevoli i testi che richiamano i diaconi al loro ran go, a non dimenticare che il loro ufficio è un ministerium, un servizio, secondo il significato originale della parola greca diakonos. Lo ricorda anche il concilio di Nicea del 325 : « I diaconi sono i servitori dei vescovi e inferiori ai presbiteri » (can. 1 8) . Forse per questo Ambrogio prefe risce la parola ministro, servitore, a diacono, perché più indicativo, per l'orecchio di un latino, del ruolo specifico che spetta al suo titolare, rispetto alla parola greca lati nazzata. Tra i diaconi il primo posto è occupato dall'arcidiacono, che è il loro presidente e il più stretto collaboratore del vescovo. Esercitava autorità sui diaconi, vigilava su tutta l'amministrazione e l'assistenza, suppliva in mancanza del vescovo, controllava le ordinazioni ministeriali, la litur gia; spesso succedeva al vescovo. :È spiegabile perciò perché negli antichi testi si parli maggiormente di ciò che è proibito ai diaconi, che di quello che essi debbono fare. Non è loro permesso benedire, battezzare, offrire l'euca ristia, predicare, ma solo distribuire la comunione. Più tardi si permette loro di leggere il vangelo durante la messa - prima era ufficio del lettore - e battezzare in 104
certe condizioni. �'att�vità as�istenziale c�ms�steva sitare gli ammalati e 1 poven, soccorrerli, ruutare gnosi d'ogni genere.
�el. vi 1
biso
s. Ministri inferiori e altre funzioni
Il papa Innocenza I (401-417) in una lettera distingue i chierici dell'ordine superiore da quelli dell'ordine infe rio re (Epist. 2, 3).
Avendo parlato già della prima categoria accenno ora alla seconda, facendo presente che essa varia molto secondo i tempi e i luoghi e che molte precisazioni ancora ci sfug gono, per cui conviene proporre solo una panoramica complessiva. S. Paolo accenna a una diaconessa, Febe di Corinto (Ro mani 1 6, l ) ; Plinio nella sua lettera all'imperatore Traiano parla di ministrae cristiane (10, 96) . Non sappiamo quali fossero le loro mansioni e se il termine abbia già si gnificato specifico . Altrettanta incertezza c'è circa le ve dove: se fossero soltanto persone assistite ovvero svol gessero anche un ministero, un servizio. Nel Nuovo Te stamento comunque è molto ben attestata la presenza femminile per l'opera del vangelo: donne accolgono in casa riunioni, sono profetesse, prestano diversi servizi, anch'esse « hanno faticato » e « hanno lavorato » per il Signore (Romani 1 6. 1-16). Nei secoli seguenti è attestato un gruppo di vedove ufficialmente riconosciuto dalla chie sa, con un posto speciale nelle assemblee liturgiche. Essé dovevano rispondere ai requisiti della prima lettera a Timoteo: aver compiuto sessant'anni, sposate una sola volta, possedere la testimonianza delle buone opere. So stentate dalla comunità, sicuramente si dedicavano a ope re di bene, a consigliare le più giovani, a una più intensa pratica ascetica. Era loro richiesta la continenza, una vita più dedita alla preghiera e all'ascesi. Il termine vedova pertanto già indica sia una condizione sociale, sia una posizione ecclesiale, con diritti e doveri. Esiste un ordine delle ve dove, che in T ertulliano figura appartenere al cle ro, ed è ammesso dalla comunità, come uno stato di vita, �a . senza avere un compito liturgico : insieme con le ver g�m e gli asceti prefigurano in un certo senso il monache Slmo. 105
Forse al I I I secolo risale in alcune chiese il diaconato fem minile; non è uno sdoppiamento del vedovaggio, ma una creazione nuova, che sostituisce in parte le funzioni delle vedove e in parte ne ha di nuove. Anche se è opinione comune che le diaconesse si identificassero con le vedove, si deve giustamente osservare che mentre queste abbrac ciavano una condizione di vita, le altre invece erano dedi te a compiti di servizio. Secondo un testo del III secolo, la Didascalia degli apostoli, la diaconessa e la vedova svolgono le medesime funzioni assistenziali, ma la prima però svolge anche compiti liturgici relativi alle catecume ne e al battesimo delle donne. II IV - V secolo è il periodo di maggiore fioritura delle diaconesse, soprattutto in ambiente di lingua siriaca. In Occidente l'istituzione non ebbe fortuna, mentre quella delle vedove continuò a esistere. In Siria le diaconesse, scelte tra le vergini o le vedove, appartengono al clero e ricevono l'ordinazione mediante l'imposizione delle mani del vescovo . Hanno una certa autorità, svolgono alcune funzioni liturgiche ben precise: accoglienza nella chiesa e unzioni delle donne, visite alle malate, un po' di catechesi e di assistenza alle donne; sono le intermediarie tra queste e il clero. Sembra però che il diaconato femminile in queste regioni non sia da intendere come promozione della donna, come in pubbli cazioni recenti si vuoi far credere, quanto piuttosto segno di distacco e di separazione tra il clero e le donne stesse. L'età variava; l'imperatore Teodosio aveva stabilito i ses sant'anni; poi anche la legislazione civile si allineò con la disposizione del concilio di Calcedonia, che la fissava ai 40. In ambiente ortodosso mai fu conferito a donne l'ufficio del presbiterato o dell 'episcopato. Il papa Cornelio scrivendo nel 2 5 1 a Fabio di Antiochia espone la situazione della chiesa romana, dove ci sono 46 presbiteri, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti lettori e ostiari (Eusebio di Cesarea, Storia ecc. VI , 43, 1 1 ). Questo testo prezioso, che ci dà l'indicazione completa dei quadri del clero di Roma nel III secolo, quadro che poi sarà di tutta la chiesa latina, già testimo nia una evoluzione: molte delle funzioni di servizio che nei primi due secoli erano proprie del diacono, ora, nel I I I secolo, sono affidate a persone distinte, aventi anche denominazione specifica. Nelle chiese dove non c'erano 106
lcuni ordini minori, il loro ufficio era svolto da altri, che ssommavano in sé più funzioni. L 'Ufficio del suddiacono �ra . qu_ello di aiutante del diac� no ed egli svolgeva manswm diverse, secondo le comum tà · l'accolito era al servizio del diacono o del suddiacono, ed era un ministero quasi esclusivamente occidentale. L'esorcist q_, che imponeva le mani ai catecumeni e ai malati, avè'va il compito di fare esorcismi per liberare il pos seduto dalla presenza diabolica, secondo le credenze dell'epoca; nel rito dell'ordinazione riceveva come segno il libro degli esorcismi. Quest'ordine non fu diffuso in ogni regione, e sembra che scompaia verso il VI secolo. L'o stiario (il portiere) aveva la cura dell'edificio; a Roma non esiste più al tempo di Gregorio Magno. Il suo ufficio nell'alto Medioevo, almeno in alcuni luoghi, fu svolto dal mansiona rio (il sagrestano) , che aveva cura della chiesa, presso la quale abitava, o del cimitero. Ma il mansionario non apparteneva al clero . L'ordine minore più importante e presente in tutte le chiese era quello del lettore, che era incaricato di leggere nelle assemblee liturgiche; in alcune chiese, come in Oc cidente e in Africa era incaricato anche del canto . A Roma invece fino al tempo di Gregorio Magno cantavano i diaconi, e fu il papa a permetterlo anche ai membri degli ordini inferiori. Negli Statuta ecclesiae antigua è attestato anche l'ordine dei cantori, secondo la prassi orientale e di altre chiese, dove esistevano due uffici di versi: il lettore e il salmista. Il lettorato rappresentava in genere l'inizio della carriera ecclesiastica e in questo gruppo venivano iscritti anche ragazzi, che iniziavano una formazione speciale. Ma normalmente il lettore doveva avere non meno di 18 anni; molti grandi Padri furono lettori in gioventù. Era in effetti necessaria una certa cultura e una speciale educazione per leggere in pubblico dal pulpito: saper modulare la voce, pronunziare bene, capire il testo, che allora non aveva la punteggiatura. Il lettore leggeva tutti i testi necessari per l'azione liturgica, a�che il vangelo, la cui lettura in tempo successivo fu nservata al diacono o al presbitero. Si esigeva da lui una buona condotta, per essere di esempio agli ascoltatori. "\PP�rtenevano al clero anche i fossores (copiatae), inca ncah di scavare nelle catacombe e nei cimiteri le tombe dei defunti, ed eseguire tutte le opere di abbellimento;
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era di loro competenza anche l 'amministrazione di questi luoghi. A Roma Leone Magno istituì anche l'ufficio dei cubicularii per la custodia speciale delle due tombe degli apostoli: ma tale ufficio è documentato solo per questa città. La legislazione civile si è interessata ai fossori, in quanto essi rivestivano notevole importanza sociale ed economica. Nel loro lavoro, che apprendevano in modo pratico, erano aiutati da ingegneri e personale specializza to. Erano numerosi. All'inizio vivevano delle offerte dei fedeli e a spese della comunità (Tertulliano, Apologet. 36, 3; Tradizione apost. cap. 40), ma in seguito vendeva no essi stessi direttamente le tombe: per gli abusi che ne derivarono il loro ufficio fu soppresso, forse nel secolo V. I n alcune chiese bilingui, che erano molte nell'Oriente greco-siriano, c'era un personaggio ufficiale e appartenen te al clero, il quale era incaricato della traduzione duran te la liturgia. Egeria, alla fine del IV secolo, trattando della liturgia pasquale a Gerusalemme, scrive che il ve scovo parlava in greco, un prete traduceva in siriaco do po di lui, mentre per quelli che parlavano latino ci si affidava a qualcuno di buona volontà. Uno speciale onore era riservato ai confessori che però non apartenevano al clero; essi avevano infatti confessato la fede durante la persecuzione. Nei primi due secoli i termini martire e confessore sono considerati sinonimi; soltanto più tardi si stabilisce una precisa distinzione tra il martire, che muore durante i supplizi, e il confessore, che sopravvive. Ma ambedue sono accomunati nella soffe renza per liberarsi dal mondo presente per amore di Cristo, partecipando alla sua passione, ed essi possono compiere la loro confessione di fede solo per virtù dello Spirito di Dio che è in loro: Nos pati pro Dea non possumus nìsì Spiritus Dei sit in nobis (Tertulliano, Adversus Praxeam 39) . « Lo Spirito di Dio Padre, che non abbandona e non lascia i confessori, parla ed è coronato » in essi (Cipriano, Epist. 58, 5). Il martirio viene conside rato dono divino : per questo il martire durante le soffe renze ha visioni, compie miracoli, resta sereno . Non solo i martiri, ma anche i confessori erano venerati dalla co munità e tenuti in grande considerazione: veniva loro riconosciuto il potere efficace di intercedere per i fedeli, di intervenire nella vita della chiesa, di perdonare i pec cati. 108
La Tradizione apostolica che f?rse risp�cchia una consue tudine diffusa, ammette tra Il clero Il vero confessore senza rito di ordinazione: « Se un confessore è stato in prigione per il nome del Signore, non gli si faccia l'impo sizione per ordinario diacono o sacerdote » (cap. 9). La confessione di fede sostituisce perciò l'ordinazione e la designazione da parte della comunità, che si limita a constatare l'autenticità della sofferenza per la fede. L'im posizione delle mani invece è richiesta per l'episcopato. Anche Cipriano stesso, pur difendendo i diritti della ge rarchia, attribuisce grande valore alla testimonianza resa dai confessori e li ammette nel clero, perché essi non hanno bisogno di « una testimonianza umana quando precede l'approvazione divina » (Epist. 38, l , 1 ) . Tuttavia è il vescovo che decide l'ammissione e compie l'ordinazione che egli considera necessaria in ogni caso. Anche per la remissione dei peccati, Cipriano riconosce al confessore il potere di intercedere e di contribuire al perdono, però riserva alla gerarchia la decisione e la riammissione di fatto, anche al fine di evitare numerosi abusi ( 1 1 ) . Il ter mine confessore nel IV e V secolo subisce un'amplificazio ne e include anche persone che in senso lato avevano lottato per la fede, come i grandi vescovi coinvolti nella crisi ariana, o tutti quelli che si impegnavano a vivere il cristianesimo in modo più radicale; diventa allora sino nimo di asceta. Nella chiesa dei primi secoli, oltre i ministeri istituziona li, incontriamo altre persone che si dedicano al suo servi zio e alla sua crescita: i profeti e i dottori, che però nel III secolo sono già scomparsi come figure dominanti. Negli scritti neotestamentari i profeti, in quanto carisma tici, sono personaggi influenti, che « pronunciano parole di edificazione, esortazione e consolazione » (l Corinzi 1 4_, 3) e hanno anche un ruolo liturgico (l Corinzi 14, 3-39 ; Dzdachè capp. X I e XIII). II profeta, uomo di Dio, svolge ( 1 1) Durante la persecuzione di Decio ci furono molti lapsi (non avev�no confessato la fede) e molti confessares ; i primi, volendo la _n � oncili azione con la Chiesa, a volte si rivolgevano a questi u_lh mi, che rilasciavano un libellum pacis in segno di riconcilia Zione. Cipriano, e in genere l'episcopato, pur riconoscendo l'im porta nza dell'intervento dei confessori, esigeva che i peccatori si o tomet tessero a una debita penitenza proporzionata alla gravità e pecc ato di apos tasia.
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quindi una funzione a beneficio di tutti: è l 'uomo ispirato in modo particolare e diretto da Dio, per questo gode di libertà e la sua azione è insindacabile. Ma il sorgere di falsi profeti discredita la categoria e spinge a richiedere al profeta prove di autenticità del suo carisma e a sotto parlo al giudizio della comunità. Nel II secolo ci sono ancora rari profeti e il profetismo è apprezzato , ma guardato con un certo sospetto; il montanismo contribuì a svalutarlo e a farlo scomparire. Altro personaggio eminente era il didaskalos (il maestro, il dottore) che veniva nell'ordine subito dopo gli apostoli e i profeti. Egli insegnava non una sua qualunque dottri na, ma quella ufficiale della comunità, di cui era anche catechista e il suo ufficio continua anche nei secoli se guenti. Nella Tradizione apostolica i dottori preparano e istruiscono i catecumeni al battesimo . Invece in Africa, al tempo di Cipriano questi vengono istruiti da presbiteri, che sono detti doctores. Oltre l'istituzione ufficiale c'erano anche maestri privati, che aprivano loro scuole e insegnavano in modo indipen dente la dottrina cristiana alla pari dei filosofi pagani. Potremmo citare Giustino, Rodone, Panteno, Clemente a lessandrino. Origene si sentiva eminentemente un mae stro; egli si qualifica un doctor ecclesiae (Homil, in Eze ch. 2, 2).
Anche i laici, maestri o no, influirono enormemente alla diffusione del cristianesimo. Ma la lotta contro l 'eresia portò gradatamente a insistere sempre più sulla vera dottrina e sulla tradizione che si trasmettono attraverso la successione episcopale. Così il maestro per eccellenza nella comunità diventò il vescovo e la sua cathedra fu il simbolo del suo insegnamento: così anche le funzioni di profeta e di maestro finirono per accentrarsi nella figura del vescovo. Possiamo accennare brevemente ad altro personale legato in qualche modo alla vita della comunità, che diventa sempre più articolata e complessa dopo Costantino. Ad Alessandria e poi a Costantinopoli sorge una associazione di uomini, dediti alla cura degli infermi, detti parabalani, cioè coloro che rischiano la loro vita. In Africa esistevano i seniores laici, una specie di consiglieri di amministra zione, personale laico qualificato, a servizio del vescovo e dell'amministrazione dei suoi beni. 1 10
segretari, impiegati pubblici, che ci I notarii, stenografi e Atti dei martiri, sono presenti anche andato tram hanno comunità ecclesiale per redi della struttura nella he anc gere atti, stenogra�are discorsi in chiesa, att� ?ei con�ili. � dis cussioni pubbliche. Potevano essere lmci o chwnci provenienti dall'ufficio del lettorato. Molti discorsi dei Padri sono stati ripresi dalla viva voce dell'oratore grazie alla loro opera. Un discorso di Agostino ci è stato tra mandato dagli stenografi in tutta la sua vivacità: « Come vedete i notarii ecclesiastici stenografano ciò che diciamo noi e ciò che dite voi: non andranno perdute né le mie parole né le vostre acclamazioni . Per dirla più chiaramen te: stiamo redigendo i verbali canonici con cui desidero vedere confermata la mia volontà per quanto ciò è in potere degli uomini » (Agostino, Epist . 2 1 3 , 2). I notarii romanae ecclesiae, l'espressione è di Leone Magno, cioè i cancellieri, avevano la custodia di tutti i documenti ufficiali, svolgevano un lavoro di documenta zione, trascrivevano documenti dettati, dei quali facevano più copie. Per questo essi ebbero una notevole importan za a Roma, dal V secolo in poi, ed erano raggruppati in un collegio. � Un'altra figura, che si diffti\e solo lentamente, è quella del defensor ecclesiae, cioè una specie di avvocato, ini zialmente laico e successivamente scelto tra il clero infe riore a partire dal tempo di papa Gelasio (492-496). Il defensor, che originariamente doveva difendere gli inte ressi della chiesa nei tribunali, divenne presto, già agli inizi del secolo V, un collaboratore dei vescovi in varie incombenze di carattere temporale. Al tempo di Gregorio Magno a Roma erano sette e svolgevano diversi compiti di carattere giudiziario e amministrativo. 6. Verginità e continenza (celibato)
Negli scritti neotestamentari la verginità viene lodata e raccomandata: essa è dono di Dio ed ha valore se è scelta in vista del regno dei cieli, non come fatto pura mente fisico di astensione dalle facoltà sessuali. Anzi co loro che rifiutano il matrimonio per disprezzo sono con dannati ( l Timoteo 4, 3). La verginità permette di servire più liberamente il Signo111
re; è segno di una realtà futura, della vita futura, ora che siamo negli ultimi tempi, mentre H matrimonio è una realtà del mondo presente, per questo transitorio. I Padri riprendono e ripropongono queste motivazioni fondamentali, anche se a volte si insinuano nella loro esaltazione della verginità motivi non propriamente bibli ci, derivati da concetti correnti al loro tempo: la purità rituale, la svalutazione del corpo di origine platonica, la concezione stoica dell'atarassia, l'idea aristotelica che il matrimonio è un bene minore e anche i fastidi e le noie della vita coniugale. Ma soltanto alcune sette eterodosse disprezzano e rifiutano il matrimonio (12) . I Padri li con dannano e sostengono che questo è un bene, tuttavia la verginità è un bene migliore e superiore al matrimonio. · Scrive s . Ambrogio : « Nessuno che ha scelto le nozze biasimi la verginità, e nessuno che segue la verginità condanni le nozze. Tutti gli avversari di questa norma già da tempo sono stati condannati dalla chiesa, quelli cioè che osano scioglere il vincolo coniugale >> (La verginità 6, 34). E Giovanni Crisostomo: << Sono convinto che la verginità è preferibile al matrimonio, non per questo ri tengo il matrimonio qualcosa di cattivo, anzi lo lodo vi vamente >> (La verginità 9 : PG 48, 539) . Agostino scrive: << Per diritto divino la continenza in se stessa è più eccel lente del matrimonio e la verginità consacrata più eccel lente delle nozze >> (La verginità 1 , 1 ) . Agostino però, in questa opera dedicata a tessere l 'elogio della verginità, sembra più preoccupato di difendere la dignità del matri monio, che la verginità stessa. Abbiamo citato tre opere con lo stesso titolo, a indicare la vasta letteratura dedicata all'argomento. Per i Padri la verginità ha valore se è libera e congiunta alla fede retta e non in se stessa. « Se noi onoriamo le vergini, non è perché siano vergini, ma perché sono ver gini consacrate a Dio con virtù della continenza >> (Ago stino, o.c. 10, 1 1) . Per questo la verginità delle vestali romane, temporanea e soltanto fisica, non viene conside rata una virtù. L'alto numero di uomini e di donne che ( 12) Questo argomento sarà ripreso nel capitolo VII. Erano di· verse le sette che rifiutavano il matrimonio: per es. Adamiti, apostolici, encratiti, marcioniti, priscillianisti (cfr. appendice fi· naie) . 112
è già proposto dagli apologisti del II Vl·vono coinmecastità ' cnper mostrare l' al ta moral"1ta argomento ecolo � � par pagani da dei anche ne ? mirazi � a suscita e a : �tianeretici vergm1 . sono mvece condannab1h, secondo 1 .
Gli Padri, perché disprezzano il matrimonio, opera di Dio e non collaborano con il creatore. La verginità cristiana è una forma di vita perpetua e di carattere ascetico : è necessaria l'ascesi per conservarla, ed essa favorisce la libertà per la contemplazione. Non ha finalità attive, caritative o altro. È la stessa santità per sonale che è di beneficio per tutta la chiesa. Non consta però che nei primi tre secoli ci fosse voto pubblico di verginità, né un rito speciale di consacrazione, come si riscontrerà invece dal IV secolo in poi. Le prime sanzioni canoniche contro coloro che mancano all'impegno preso risalgono ai concili di Elvira (306 circa) e di Ancira (314). Va qui osservato che i termini verginità e vergini nor malmente si applicano alle donne; più volte però, quando si parla in generale, si riferiscono anche agli uomini, che più sovente vengono chiamati asceti. Le donne viventi in verginità vengono denominate le ver gini sante, le vergini di Cristo, spose di Cristo e di Dio (nubere Dea). Già dal tempo di Tertulliano si elabora l'idea dello sposalizio spirituale con Cristo, e il venire meno ad esso è qualificato come adulterio. Con Origene invece si introduce il concetto della fecondità spirituale, propria delle vergini, che vengono considerate membra eccellenti del corpo di Cristo, cioè della chiesa. Esse, in quanto praticano anche l'ascesi, vengono paragonate, anzi equiparate ai martiri e meritano la corona della verginità, come esiste quella del martirio. Per questo occupano un posto riservato nelle assemblee liturgiche e nella vita del la chiesa; appartengono non alla gerarchia ministeriale ma a quella spirituale della chiesa, una specie di aristo crazia spirituale. Nel IV secolo si introduce, in Occidente soltanto, il rito della velatio che, secondo papa Siricio (384-399), si dove v� svolgere a Natale, all'Epifania e a Pasqua, con cerimo llla pubblica che comportava l'imposizione di un velo, il cambiamento del vestito e un breve discorso del vescovo, al quale era riservata la direzione della cerimonia. La velatio, imitazione del rito matrimoniale romano, espri meva lo sposalizio mistico della vergine con Cristo e di1 13
venne termine tecnico per indicare la consacrazione delle vergini. Il velo si doveva imporre solo alle giovani ben formate nella fede e dalla condotta irreprensibile; copriva la testa e le spalle, e doveva essere portato sia in chiesa che fuori. Le vergini consacrate vivevano nelle loro case con le loro famiglie. Perciò si inculcava in loro tutto un codice di comportamento: vestire modestamente, non partecipare a banchetti nuziali, che spesso assumevano carattero osceno, non frequentare le terme, dedicarsi a pratiche ascetiche e preghiere. Nel IV secolo alcune di esse cominciarono a vivere insieme in case private o nei monasteri, dando origine a un'usanza che si confonde con le origini del monachesimo femminile; altre invece conti nuarono a vivere per proprio conto. Nel versante maschile conosciamo i continenti (continen tes) : sono quelli che lottano per conservare la castità oppure persone sposate che si astengono per motivo asce tico dalle relazioni sessuali. In questo contesto va in quadrato un fenomeno che durò diversi secoli: quello che riguarda le agapète (dilette), dette anche un po' sprezzan temente le . virgines subintroductae (le intruse, le illeggit timamente introdotte). Si tratta della coabitazione tra u na vergine consacrata, più tardi anche una vedova, e un asceta o un chierico, con l'unico scopo di un aiuto reci proco sia materiale che spirituale, escludendo il rapporto sessuale. Non sappiamo se questo comportamento fosse ispirato all'idea del matrimonio spirituale, come pure i gnoriamo la sua reale diffusione. Certo è che si prestava ad abusi di ogni genere sicché sono molto numerosi gli interventi dei Padri o dei concili, che si collocano in un vasto arco di tempo e di spazio, per condannarlo aspra mente: segno che il fenomeno era molto diffuso e molto ben radicato. Gli uomini che praticavano la continenza, di cui già si è fatto parola, non constituivano uno speciale ardo, come le vergini. Alcuni di loro potevano essere ammessi tra il clero, i cui membri, a quanto si può dedurre dalla scar sità delle testimonianze, prima di Costantino, erano in maggioranza sposati. Non esiste infatti alcuna legge pri ma del IV secolo, che obblighi il clero al celibato, anche se già nel III c'è un movimento di pensiero crescente in suo favore. Erano proibite solo le seconde nozze, qualora la moglie legittima moriva; ma anche questa norma a 114
era disattesa. I motivi addotti da Tertulliano e da
�orlte igene per preferire un clero non sposato sono piuttosto della preferenza per la d' carattere cultuale, al contrario �a da a:gomenti bi motiva ampiamente e�a che , ità v�rgin spirituali. Clemente Alessandnno aggmnge anche
blici e ragioni pastorali. Nel IV secolo si ammettono ancora uomini sposati agli ordini maggio ri, purché però siano di ottima moralità e non abbiano commesso gravi colpe sessuali, e al momen to del matrimonio ambedue gli sposi fossero vergini. In linea generale non sono ammessi uomini risposati o che abbiano contratto matrimonio con una donna non vergi ne, per esempio con una vedova. Ma non sempre queste dispo sizioni venivano osservate, soprattutto in Oriente. In effetti dall'inizio del IV secolo riscontriamo, in materia, sia in Oriente che in Occidente, un ventaglio di indicazio ni e prescrizioni estremamente vario e complesso, difficile da riassumersi : prova che il celibato o la continenza non entrarono subito nella prassi e che su questo punto si procedette per tentativi. Per questo possiamo presentare solo alcune linee generali, che manifestano divergenza sostanziale tra le due parti della Chiesa a partire dal IV secolo, mentre in precedenza c'era stata una medesima prassi. Nelle chiese di lingua greca si stabilisce che il celibe che viene ammesso agli ordini maggiori, episcopato presbite rata e diaconato, non possa più sposarsi dopo l 'ordina zione. Tale legislazione talvolta si applica anche ai sud diaconi, ma non agli altri membri degli ordini inferiori, che possono contrarre matrimonio. Se invece al momento del l'ordinazione uno è già sposato, può continuare a convivere in matrimonio. È ben vero che su questo punto sono attestate anche tendenze rigoriste: il concilio di Gangra del 340/341 biasima coloro che non vogliono ricevere i sacramenti dal clero sposato . La prassi orientale trova la sua consacrazione ufficiale e definitiva al concilio di Quini sesto del 69 1 : << Noi decidiamo che a partire da questo momento un suddiacono, un diacono o un presbitero, dopo l'ordinazione, non avrà più la libertà di crearsi una famiglia. Se qualcuno avrà l'audacia di farlo, che sia de Posto. Se qualcuno di quelli che entrano nel clero voglia Unirsi ad una donna mediante il legame del matrimonio, lo faccia prima dell'ordinazione al diaconato, suddiacona115
to o presbiterato » (ca. 6). « Noi, fedeli all'antica regola della disciplina e nell'ordine stabilito dagli apostoli, vo gliamo che siano confermate per l'avvenire le unioni contratte, secondo le leggi, dai sacri ministri. Non biso gna rompere il legame che li unisce alle loro spose, né negar loro il diritto alle relazioni coniugali, nel tempo conveniente. Per questo se qualcuno è giudicato degno di essere ordinato suddiacono, diacono o presbitero, non gli si rifiuti l'ammissione a uno degli ordini col pretesto che era con una sposa legittima. Non bisogna richiedergli, al momento dell'ordinazione, di promettere di rinunciare al rapporto legittimo che può avere con la propria moglie » (can. 13). Il sottofondo di tutta la disposizione è una chiara polemica contro i rigoristi; ma essa stessa appare abbastanza rigorista quando precisa che i rapporti coniugali vanno evitati nei giorni di digiuno, di preghiera e di partecipa zione alla celebrazione eucaristica. Questi giorni non era no pochi. Al vescovo sposato invece non è permesso coa bitare con la propria moglie. Il concilio Quinisesto dispo ne che egli si dovrà separare per mutuo consenso, dopo l'ordinazione episcopale; la sposa dovrà abitare in un monastero lontano dall'episcopio ed essere sostentata dal consorte. Nella chiesa latina invece si instaura lentamente una di sciplina diversa: a tutti i chierici maggiori, sposati prima dell'ordinazione, si impone l'assoluto divieto di avere rapporti coniugali con le proprie mogli. Questa norma risale al canone 33 del concilio di Elvira (Granada) dell'i nizio del secolo IV e essa doveva aver vigore solo per la penisola iberica, ma anche qui non sembra che abbia avuto grande successo. Papa Damaso (366-384) nella sua lettera ai vescovi della Gallia riprende lo stesso principio e lo motiva ampiamente; Siricio (384-399), con due lettere, una a Imerio di Tarragona per tutti i vescovi spagnoli, e l'altra, frutto di un concilio romano, inviata per cono scenza ai vescovi delle province occidentali, ripropone la stessa norma, che verrà poi ripetuta da tutti i suoi im mediati successori. Leone Magno la estende anche ai sud diaconi. Da questo periodo possiamo assistere al lento instaurarsi, attraverso numerosi concili locali, di tale prassi in tutto l'Occidente. Vengono elaborate numerose norme perché la 1 16
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continenza (o celìb�to) sia os�erv�t � e protetta: norme . . riguardanti la coabitaziOne dei mmistn con donne, che dovevano essere solo parenti stretti, oppure vincolate da voto di castità. A questo proposito si tenga presente che nell'antichità non si esigeva tanto il celibato, quanto la continenza: perciò il matrimonio contratto dopo l'ordina zione resta valido; soltanto a partire dal secolo XII co minciò a essere considerato nullo. Nella letteratura latina posteriore al IV secolo troviamo termini come episcopa, presbytera, diaconissa e subdia conissa; erano le mogli dei ministri ordinati, con le quali non era permesso avere rapporti coniugali. Le motivazioni addotte, elaborate a Roma nel IV e V secolo, sono ampiamente bibliche, ma spesso però tali testi citati sono interpretati unilateralmente e staccati dal loro contesto: in realtà si vuole giustificare teoretica mente una prassi già consolidata e dare base biblica alla convinzione, profondamente radicata nella mentalità del tempo, della purezza sessuale come condizione necessaria e quotidiana per la preghiera, perché possa essere esaudi ta, e per l'amministrazione dei sacramenti. Non mancano comunque altre motivazioni pratiche: disponibilità pasto rale per tutti, l'esempio da dare, la paternità spirituale, l'imitazione di Cristo vergine, sacerdote e vittima. Non sono neppure assenti i risvolti economici, in quanto i beni della chiesa potevano andare dispersi, se ripartiti tra i figli di chierici. 7.
Privilegi civili e rel igiosi del clero
Per la mentalità antica la religione è una struttura essen ziale della società e pertanto fatto di pubblica utilità: non è mai vista come qualcosa di privato, perché non si concepi sce distinzione tra la sfera privata e pubblica nel la religione. Quindi lo stato deve promuovere la religione, o più precisamente il culto. Su questa base, quando con Costantino il cristianesimo cominciò a essere favorito rispetto alla religione pagana, ne comincia anche a eredi tare le prerogative sociali ed economiche, di cui perciò si avvantaggia innanzitutto il clero. I� primo testo conosciuto riguardante esenzioni (excusa trones) a favore del clero è una lettera del marzo 313 117
indirizzata da Costantino ad Anulino, proconsole dell'A frica, la quale riassume le motivazioni e i primi privilegi : << Ti salutiamo nostro stimatissimo Anulino. Poiché da numerosi fatti è chiaro che il disprezzo della religione, nella quale si osserva il massimo rispetto per la santi ssi ma potenza celeste, ha arrecato gravi danni allo Stato mentre se essa è accolta e osservata secondo le leggi , h� procurato immensa fortuna al nome romano e particolare prosperità a tutte le cose umane, essendo la benevolenza divina a procurare tutto questo, ci è sembrato giusto che quegli uomini che svolgono il loro servizio in funzione del culto divino nella dovuta santità e nell'osservanza di questa legge, ricevano la ricompensa delle loro fatiche, stimatissimo Anulino. Voglio perciò che coloro che nella provincia a te affidata svolgono, nella chiesa cattolica a cui è proposto Ceciliano, il loro servizio in funzione di questo santo culto, e che si è soliti chiamare chierici, siano esentati completamente da ogni onere pubblico, perché non vengano distolti per qualche errore o deviazione sacrilega dalla cura dovuta alla divinità, ma anzi senza alcun disturbo si dedichino al loro servizio in conformità della legge propria. Perché sembra che tributando somma venerazione alla divinità conferiscano i più grandi benefici allo Stato >> (Eusebio di C., Storia ecc. 10, 7) . Nel documento Costantino espone i principi generali che hanno determinato la disposizione imperiale: la religione non ben praticata apporta grandi danni agli affari pubbli ci (argomento storico) ; se invece la si accetta e la si conserva, essa apporta benefici allo Stato e ai cittadini (speranza per il futuro) . Di qui discendono le provvidenze a favore del clero cristiano. Le disposizioni emanate nel corso del 3 1 3 costituiscono la base di una vasta legisla zione susseguente, ricca di ampliamenti, ripensamenti e restrizioni. Essa è perciò complessa, a volte non chiara e persino contraddittoria e non mi risulta che sia stato tentato un esame critico delle sue applicazioni pratiche e delle conseguenze createsi. Qui perciò mi limito a cogliere alcuni elementi unificanti che emergono lungo la legislazione del IV e V secolo. Il clero era liberato dall'obbligo di far parte del senato municipale (curia, curiales) e da tutti i suoi doveri; d'al tra parte però era proibito ai curiali di entrare nel clero, 118
che doveva ess.ere reclut�t � . tra �en�e povera; e . il f�euente ripetersi della prOibiziOne mdica che molti cuna ambivano di entrare nel clero per motivi prevalente mente economici. Comunque il privilegio favorì soprattut to la prima generazione clericale, cioè quella costantinia na. Il clero era inoltre esentato dai munera sordida, cioè da un insieme di servizi da rendere allo Stato, dall'impo sta fondiaria per i beni della chiesa, da pagarsi invece da parte del clero provinciale, dalla capitazione e da certe tasse straordinarie; il clero dedito al commercio non pa gava le tasse proprie dei commercianti (collatio lustralis) . Non sappiamo comunque quale incidenza economica ab biano avuto tali esenzioni, perché ai cittadini ricchi era proibito entrare nel clero, che perciò in maggioranza era povero, anche se le proprietà delle chiese aumentavano. Inoltre l'istituto romano della patria potestas impediva a molti del clero di intestare a se stessi dei beni. Questi vantaggi si estendevano a tutti i membri del clero rico nosciuto ortodosso, dai vescovi ai lettori e agli ostiari, mentre i monaci non appartenevano al clero. In linea generale erano esclusi gli eretici e gli scismatici, in quan to favorire i cattolici era anche mezzo politico per pro muovere l'unità religiosa dell'Impero. Vi erano inoltre immunità che riguardavano solo una parte del clero: i presbiteri non erano tenuti a compiere cerimonie pagane, potevano essere chiamati a testimonia re senza essere sottoposti alla tortura, potevano non esse re tutori e curatori. Il clero delle due capitali godeva ancora di maggiori vantaggi. Nel 355 fu stabilito che i vescovi non potessero essere giudicati dal tribunale civile, bensì dagli altri vescovi (Codice Teod., 1 1 , 39, 8); da Teo dosio furono esentati anche dal testimoniare nei processi. Sorse così il privilegio del foro, in seguito sempre stre nuamente difeso dalla chiesa: il clero può essere giu dicato solo dall'autorità ecclesiastica.
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autorità e organizzazione nella chiesa antica
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L'autorità nella chiesa
L'espressione « i ministri di direzione », usata nel capitolo precedente, implica l'esistenza di persone che hanno au torità nella chiesa. « Per molto tempo predominava l'idea che la chiesa neotestamentaria da principio avesse avuto una costituzione puramente carismatica e fosse stata ret ta esclusivamente da persone elette in maniera carismati ca e dotate di prerogative carismatiche. Poiché in seguito i carismi si attenuarono fino a cessare del tutto, nella chiesa sarebbe stata instaurata la legge dell'uomo. Que st'ultima potrebbe dunque essere considerata un'emer genza, ma sarebbe contraria all'essenza della chiesa. Per quanto siffatta rigida contrapposizione possa non calzare, il rapporto tra Spirito e ministero rappresenta un pro blema della storia della chiesa delle origini e forse di sempre >> ( l). Per questo ci sarebbe una cesura tra la prima generazione cristiana e quella post-apostolica, cioè tra la primitiva comunità con carattere prettamente ca ri smatico e quella con una struttura gerarchizzata e con delle istituzioni; nel momento in cui si produce un tale cambiamento nascerebbe la chiesa cattolica come comu nità di credenti aventi una gerarchia. Una simile interpre tazione sorge dall'opposizione tra carisma, segno di crea tività e di spontaneità, e istituzione; ma essa, non trovando un riscontro pieno nel Nuovo Testamento, in parte è stata abbandonata; tuttavia è servita a comprendere me( 1 ) K. H. Schelkle, Teologia del Nuovo Testamento, vol. IV: Eccle sz olo gia, escatologia, Bologna 1980 pag. 48 s . ,
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glio la struttura della chiesa antica, i suoi vari ministeri e il loro evolversi. Già nel periodo neotestamentario si parla di persone che hanno autorità e si esige l 'obbedienza da parte della co munità. Ci sono gli apostoli che comandano e istituiscono gli episcopi-presbiteri, i diaconi e altri ministri che hanno responsabilità. Tutte queste persone vengono indicate con nomi diversi : capi, guide, maestri ... D'altra parte si parla di obbedienza: « Vi preghiamo poi, fratelli, di aver ri guardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro » ( l Tes salonicesi 5, 12-13). « Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, co� me chi ha da rendere conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo » (Ebrei 1 3 , 17. Cfr. l Co rinzi 16, 16; 1 3, l ; 13, 24 ...) . La comunità deve obbedire, ma nello stesso tempo deve essere critica nei loro riguar di. Non c'è opposizione tra carisma e istituzione, perché questa, intesa come servizio, è anch'essa un carisma. C'è il carisma della spontaneità, ma c'è anche quello dell'or dine, per cui i profeti vanno giudicati dalla comunità e dai suoi capi (cfr. l Corinzi 1 4, 29-30) . Esiste un rapporto dialettico tra la comunità, l'ecclesia, cioè l'assemblea dei fratelli convocati dal Signore, e alcuni che hanno delle responsabilità. Le realtà istituzionali e i carismi non pos sono separarsi, perché sono complementari e condizio nantisi a vicenda. Dopo il periodo apostolico abbiamo una unificazione di caratteristiche di autorità, in precedenza appartenenti a volte a ministeri diversi, nella persona del vescovo, che è il capo, il pastore, il dottore, il liturgo (sacerdote) , il profeta e l 'uomo dello Spirito, ottenuto mediante l'ordi nazione, per l' ecclesia. Clemente Romano, scrivendo alla fine del primo secolo ai corinzi, pur con atteggiamento delicato e pastorale, parla con fermezza ed esorta all'ordine e all'obbedienza ai propri capi: « noi proclamiamo che non possono, secondo giustizia, essere deposti » (44, 3), perché il fondamento della loro autorità sono gli apostoli inviati da Cristo. Qui Clemente già insinua chiaramente l'idea fondamentale della successione apostolica (cfr. cap. 42). Appare chiaro 122
cristiana è organizzata d tutta la lettera che la comunità con la chiesa istitui identifica si essa ed g rarchicamente o. nst c · ta d a all'inizio del secondo Più fortemente Ignazio di Antiochia e secolo ribatte l'idea di unità e sottomission ai ministri, nte v� sibile de� rappresenta il è. he � �escovo, �1 soprattutto . Magnest Lettere at (cfr. Cnsto e che le, invisibi covo ves 3 1 -2; ai Trallesi 3, l ) ; resistere al vescovo è resistere a Dio (Lettera agli Efesini 5, 3) . Ireneo enfatizza il ruolo dei vescovi nella comunità: « bisogna obbedire nella chiesa ai presbiteri (vescovi), a questi che hanno la successione degli apostoli ... ; i quali con la successione dell'episcopato hanno ricevuto il charisma veritatis certum, secondo la volontà del Padre » (Contro le eresie IV, 6, 2). Si è parlato fin qui dell'esistenza dell'autorità, al singola re, nella chiesa e non delle autorità, al plurale, perché queste sono esplicitazioni dipendenti da quella. Inoltre, sembra che vada ben distinto, almeno teoricamente, il concetto di autorità da quello di potere, secondo la famo sa espressione di papa Gelasio nella lettera scritta nel 494 all'imperatore Anastasio: Duo quippe sunt, imperator au guste, quibus principaliter mundus regitur: auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas (Epist. 8: PL 59, 42) ; il potere è possibilità di agire sugli altri, mentre l'autorità è il diritto, e anche il dovere in certi casi, di esercitare il potere. Già Cipriano, scrivendo al vescovo Rogaziano, aveva distinto i due concetti: « Avevi la possi bilità (potestas) di punirlo (un diacono) immediatamente in virtù dell'episcopato (vigore episcopatus) e dell'autori tà della tua cattedra (cathedrae auctoritate) (Epist. 3, l) (2). Per i cambiamenti avvenuti all'interno della chiesa e nelle condizioni esterne dopo Costantino, i significati dei due termini tendono a confond ersi. La suprema autorità naturalmente è quella divina, che si concretizza in Cristo e nel suo insegnamento; quest'ulti mo a sua volta si manifesta nella Scrittura e nella Tradì-
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Cfr. anche la dichiarazione di Cipriano al concilio di Carta gme del 256 (Hartel III, l, pag. 435 s ) . Nel secondo secolo l'ac . cento è messo sul vescovo considerato come maestro, che possiede l� :vera tradizione per mezzo della successione ; la sua cathedra, d1':lene simbolo del suo insegnamento e quindi della stessa auto . . n ta ep1scopale.
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zione apostolica. Il ricorso ad esse è un fatto continuo nell'antichità cristiana e in ogni circostanza, secondo l'espressione di Cipriano : « Infatti se noi ritorniamo alla sorgente e all'origine della tradizione divina ... Se la verità ha ceduto in qualche punto, dobbiamo risalire alla fonte del Salvatore, alla tradizione dei vangeli e degli apostoli. Da qui si deve derivare la motivazione del nostro agire, perché da qui ha avuto origine il nostro ordinamento » (Epist. 74 , 10; cfr. Agostino, Sul battesimo contro i Dona listi V, 25, 36-26, 37); più brevemente Cipriano esprime lo stesso concetto quando scrive: si ad evangelicam auctori
tatem atque ad apostolicam traditionem sincera et reli giosa fide revertimur (Epist. 73, 1 5 , 2; cfr . Epist. 69, 12, 1) . Per i Padri la fonte ultima, dicevo, dell'autorità è divi na (3), secondo lo schema biblico: il Padre manda il Fi glio, che a sua volta invia gli apostoli (cfr. Vangelo di Giovanni 20, 2 1 ; 17, 18). A tale schema primitivo si ag giungono ben presto i vescovi, già da Clemente Romano (Lettera ai Corinzi, i capitoli 40-44), e più ancora I reneo (Contro le eresie III, 3, 3 ; IV, 26, 2-5) e Tertulliano, che così sintetizza l'argomento: in ea regula incedimus quam
ecclesia ab apostolis, apostoli a Christo, Christus a Dea (La prescrizione 37, l ; cfr. 2 1 , 4).
Il fondamento mediato però di ogni autorità nella chiesa
è costituito dagli apostoli. Il concetto di apostolicità, affermatosi nel corso del II secolo, diventa una categoria fondamentale per comprendere la chiesa antica: accenna to da Clemente Romano, presente nelle liste episcopali di Egesippo, elaborato in modo particolare da Ireneo, Ippo lito, Tertulliano e Cipriano, diventa per loro uno stru mento concettuale indispensabile sia nelle elaborazioni dottrinali che nella prassi quotidiana. Ad esso si connette quello di successione dei vescovi. I due concetti si ri chiamano e si includono a vicenda. L'apostolicità riguarda sia l'origine della chiesa, sia la dottrina e sia la succes sione episcopale. Quest'ultima viene provata sia storica mente mediante la redazione di liste episcopali delle chie(3) Qui parliamo dell'autorità nella chiesa ; ogni autorità, sia se condo s. Paolo (Lettera ai Romani 13, ls.) che secondo l'antica con
cezione imperiale deriva da una fonte divina, cfr. P. De Francisci,
Arcana lmperii, Vol. III, 2, Roma 1970 (rist.) , pp. 86-135. 124
sempre verificabili, per esigenze apologetiche, sia con il ricorso a citazioni della Scrittura, e sia teologicamente. Contingenze storiche, come la lotta agli eretici che �i :ichiamavano a un� tradiz one segreta, hanno spinto a msistere sulla successiOne episcopale. Ire neo esplicitamente lo ricorda quando scrive che « i vesco vi istituiti dagli apostoli e i loro successori » fino al suo tempo mai hanno insegnato le dottrine proprie degli gnostici (cfr. Contro le eresie I I I , 3, 1 ) . Tertulliano, nel suo libello La prescrizione degli eretici, dalla quale poco so pra è stata citata una sintetica espressione, nell'intento di dimostrare che la vera dottrina si trova solo nella chiesa cattolica, fonda la sua argomentazione precisamente sulla successione episcopale esistente nelle comunità cristiane e risalente agli apostoli. Ippolito, nello stesso torno di tempo, scrive : « Noi (i vescovi) che siamo i loro succes sori (degli apostoli) , che partecipiamo alla grazia del sommo sacerdozio e del magistero, noi che siamo consi derati i guardiani della chiesa » (Confutazione di tutte le eresie, prefazione, ed. Wendland p . 3, 3-6). Cipria"'lo ha espressioni estremamente precise e forti, alcune delle quali suggeriscono identità di funzioni tra i vescovi e gli apostoli : « Il Signore ha scelto gli apostoli, cioè ha scelto i vescovi e i capi » (Epist. 3, 3); « Cristo, il quale dice agli apostoli e, attraverso loro, a tutti i vescovi che succedono agli apostoli e ne diventano i vicari per ordine di succes sione (apostolis vicaria ordinatione succedunt) : chi ascol ta voi, ascolta me (Luca 10, 16) » (Epist. 66, 4). Dal I I I secolo la dottrina della successione apostolica è costantemente affermata, e non necessita conferma di al tra indicazioni di testi; tuttavia merita qualche delucida zione. L'espressione vicaria ordinatione di Cipriano ci aiu ta a capire il senso della successione apostolica, che è successione di ministero nel pascere, di genere suppletti vo e dipendente dagli apostoli - gli unici che hanno carattere fondante - ma con la stessa autorità, derivata e (4)
�ibli�amente
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(4) Attraverso Eusebio di Cesarea (Storia ecci. IV, 22, 2) sappiamo che Egesippo nel II secolo redasse alcune liste episcopali. Cfr. Ireneo, Contro le eresie III, 3, 3 per la chiesa romana. Sull'impor tanza di queste liste si vedano: Dict. Arch. Chrét et Liturgie e Real _ �n f. Antike und Christ. ; J. Dubois, Les listes épiscopales, l�xik temo_ zf!S de. l'organisation ecclésiastique et de la transmission des tradztzons, m Rev. Hist. Ecc. de France 62 ( 1972) 9-23.
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da Cristo. :E costante presso i Padri l'affermazione che Cristo è presente nei suoi ministri, e in primo luogo nei vescovi, che sono i suoi servitori e rappresentanti, e lo rendono presente e visibile nella comunità. Le espressioni sono varie; essi vengono chiamati: i vicari di Cristo (Ci priano, Epist. 59, 5; 63, 1 4; 68, 5), le immagini e le icone di Cristo (Ignazio, Trallesi 3, l ; Ambrogio, Comm. ai Salmi 63, 1 4 ; Giovanni Crist., Omelie su 2 Ti mo teo) ; agiscono vice Christi (Cipriano, Epist. 63, 14) e sono la << bocca di Dio >> (Didascalia degli apost. II, 28, 9) (5). La successione apostolica è il ponte che unisce il momen to irrepetibile degli apostoli con il presente, e l'apostolici tà riguarda non solo i vescovi, ma tutta la chiesa, tutti i cristiani (6) ; ora poiché << il vescovo è nella chiesa e la chiesa nel vescovo >> (Cipriano, Epist. 66, 8), in lui essa si esprime visibilmente e concretamente. Per questo il rito di ordinazione, di cui già si è parlato nel capitolo prece dente, svolge una funzione importante ed è il titolo che inserisce nella linea di successione, la quale, si noti bene, è successione in un ufficio di autorità non per diretta consacrazione da parte del predecessore, proibita dalla prassi e dai canoni, ma per designazione divina ed eccle siale. L'imposizione delle mani, nel rito di ordinazione, dona lo Spirito santo, che deve trasformare interiormente gli ordinati per essere modelli al popolo e conferisce ad essi quell'autorità necessaria e efficace per adempiere le loro funzioni. Anche quando il vescovo veniva eletto da tutta la comunità, egli non si considerava mai - questo va ribadito con forza - un delegato degli elettori; la sua autorità non viene dal basso, ma dall'alto, dallo Spirito. Allorché però non è fedele alla sua missione di guida e di pastore, perché vien meno nella fede o nel comportamen to , può essere deposto dalla sua comunità e soprattutto dagli altri vescovi. Dopo aver parlato dell'esistenza e del fondamento dell'au(5) Le basi bibliche più frequentemente citate sono: Matteo 10, 40 ( Chi accoglie voi accoglie me ...) ; Luca 10, 16 ( Chi ascolta voi a· scolta me, ...) ; Matteo 28, 18-20 (E Gesù, avvicinatosi, disse loro: mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra ... ) ; Atti l, 8 . (6) Cfr. i testi citati nel corso del presente paragrafo d i Ter tulliano ; anche nella confessione di fede ( i l credo) ci si riferisce a tutta la chiesa e non solo ai vescovi, affermando I'apostolicità della chiesa.
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è necessario accennare brevemente ton" tà nella chiesa, · da parte d e1· P ad n· . della med es1ma one nche alla concezi ma dipen autonomo di qualcosa essendo non , 'autorità sempre c
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servus Christi servorumque Christi (Sui meriti dei peccati e remis. 3, l ; Epis t. 1 40) ; a tale espressione si rifà la formula tanto usata da Gregorio Magno di servus servo rum Dei; anche l'epigrafia cristiana è ricca di espressioni simili, come servus sanctorum. Agostino sottolinea spes sò questa idea di servizio che egli deve rendere alla comuni tà, di cui è membro: << Mi spaventa che sono vescovo per voi, mi consola che sono cristiano con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Il primo è nome dell'im pegno assunto, il secondo di grazia; il primo è di perico lo, il secondo di salvezza; sarò vostro servo in modo più radicale (abundantius) per non essere ingrato al riscatto, per il quale sono diventato vostro conservo » (Sermone 34 0, 1 ) . « Dobbiamo distinguere bene due cose: l'una che siamo cristiani, l'altra che siamo capi (praepositi) . La pri ma, l'essere cristiani, lo è per noi; che siamo capi, lo siamo per voi. Nel fatto di essere cristiani è messo in 127
rilievo la nostra utilità, nel fatto che siamo capi esclusi vamente la vostra utilità » (Sermone 46, 2) (7) . Con la pace costantiniana i vescovi si assimilano sempre di più ai magistrati romani, con conseguente trasforma zione dell'esercizio dell'autorità, poiché i loro poteri ven gono enormemente ampliati, avendo anche risvolti civili. Era facile che alcuni - o molti ? - lasciassero a deside rare nella loro condotta. La trattazione, a carattere storico-teologico svolta fin qui, lascia in ombra gli aspetti sociologici che l 'autorità eccle siale a volte ha assunto nel suo esercizio. Già agli inizi basta vedere la terza lettera di Giovanni - incontriamo lamentele sull'esistenza di ministri indegni sia per dottri na che per comportamento. Origene parla spesso di ve scovi orgogliosi, ipocriti e che accumulano ricchezze ... (es. Comm. a Matteo 16, 8 e 22; 1 1 , 9) ; Cipriano dipinge a tinte fosche molti vescovi suoi contemporanei in occasio ne della persecuzione di Decio. La legislazione canonica del IV e del V secolo fa supporre un quadro meno inco raggiante. Già dagli scritti neotestamentari fino a Gregorio Magno si insiste continuamente sulle qualità morali necessarie per ricoprire un ufficio di direzione, nel delineare la figura del vescovo degno dell'episcopato. Questa insistenza, a volte ossessiva come in Origene, può sottintendere l'idea che l'efficacia dei sacramenti dipenda dalla santità del mini stro, con conseguenze perniciose nella vita della comuni tà. Le numerose scissioni e lotte sorte nell'antichità ne sono una triste conseguenza. Quando il vescovo, l'uomo ripieno dello Spirito nell'ordi nazione, non è più una figura spirituale e carismatica, si sviluppa, nella coscienza del popolo, un'autorità quasi pa rallela a quella gerarchica, soprattutto in Oriente, di ca rattere esclusivamente spirituale, propria del vir Dei. A lui ci si rivolge per i bisogni dell'anima (8).
(7) Y. Congar ha studiato questo tema in: La hiérarchie camme service dans le Nouveau Testament et les documents de la tradi tion, in L'Episcopat et l'Eglise universelle, a cura di Y. Congar, Paris 1962 , 67-99. (8) Cfr. Y. Congar, Problèmes de l'autorité, a cura di J. M. Todd, Paris 1962, pag. 156 s.
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2 . La comunione ecclesiale
La chiesa si presenta già dalle origini come l'insieme di ersone credenti che hanno comunione di vita con Dio er mezzo di Gesù Crist_o �ello Spirito santo e . co:nunione tra di loro (cfr. l Connz1 l , 9; 10, 16; 2 Connz1 1 3 , 13). Giovanni, nella prima lettera scrive: « Quello che abbia mo veduto e udito, noi lo annunziammo anche a voi, perché anch� voi siate in comun�o�e con noi. �a n? stra comunione e col Padre e col F1gho suo Gesu Cnsto » ( 1 , 3). Giovanni mette in rilievo come la comunicazione della fede generi la comunione ecclesiale, che a sua volta è condizione indispensabile della comunione con Dio. I due aspetti sono essenziali e costitutivi della ecclesia e vengono espressi nel Nuovo Testamento con il termine koinonia (comunione) e termini o espressioni affini; koi nonia non ha una corrispondenza nelle lingue moderne, in quanto può indicare sia una comunità, come una par tecipazione e messa in comune di beni o una comunio ne (9}. L'aspetto spirituale di unione con Dio e con gli altri, in quanto si partecipa alla stessa fede e agli stessi sacra menti, soprattutto all'eucaristia, fonda l'unione visibile e materiale tra i credenti, che sono fratelli. È comunione spirituale, ma anche sociale tra i membri, e quindi giuri dica, come direbbe un canonista. L'idea di comunione è categoria fondamentale per capire le istituzioni e la vita della chiesa antica. Lasciando da parte le sue valenze teologiche ed ecclesiologiche, che sono quelle fondanti, dobbiamo fermare in questa sede un po' l'attenzione sui suoi aspetti ecclesiali. Un sintetico testo di Agostino rias sume la visione patristica del problema: « Ciò che è co mune al Padre e al Figlio, per questo stesso hanno voluto che noi avessimo comunione e tra di noi e con loro e fare di noi una unità per opera di quel dono che alle due persone è comune, cioè lo Spirito santo, che è nello stes so tempo Dio e dono di Dio ,, (Sermone 7 1 , 12, 18). Anche nei Padri, come nel Nuovo Testamento, il concetto
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Si chiama Koinonia, e lo � 9) Così spiega Giovanni Damasceno: e davvero, perché per mezzo di essa noi comunichiamo con Cri s �o . . . e anche per mezzo di essa noi comunichiamo tra di noi e Siamo mutuam ente uniti >> (La fede ortodossa 86, IV, 13, Ed. Kot ter n. 197, p. 168 s .) . «
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di comunione viene espresso con numerosi termini; i più frequenti sono: communio-communicatio, concordia, so cietas, unitas, caritas, consortium, fraternitas e i loro corrispettivi greci. Soltanto nel basso Medioevo la parola comunione si è ristretta ad indicare la partecipazione alla eucaristia. Per gli antichi cristiani il termine non ha solo valore affettivo e di amicizia, ma anche e soprattutto valore vincolante e giuridico sia nella coscienza individua le e perciò sacramentale (foro interno), che nei rapporti con gli altri (foro esterno). La distinzione tra queste due categorie non è patristica, ma scolastica, però ambedue sono presenti nell'idea di communio, in quanto questa è comunione di fede e di condotta. Il venir meno alla fede o alla morale cristiana esclude dalla comunione ecclesiale e sacramentale; la comunità, in particolar modo l'episco pato, deve prendere provvedimenti per escludere il colpe vole, anche socialmente, dagli altri credenti (10). La chiesa è una comunione, ma organizzata, e come tale la koinonia ha i suoi modi, le sue forme, i suoi luoghi e i suoi tempi per esprimersi. Per usare il linguaggio dei Padri la chiesa è comunione di fede, di sacramenti e di disciplina, cioè di regole giuridiche e rapporti sociali. An zitutto è comunione di fede, come si esprime Giustino: « a quanti si siano convinti e credono alla verità degli insegnamenti da noi esposti e promettono di vivere se condo queste massime » (l Apologia 6 1 , 1 ) , viene insegnato a pregare, viene amministrato il battesimo, e quindi pos sono partecipare all'eucaristia. È un'idea comune da Ire neo in poi, come si è visto nel paragrafo precedente, che le chiese fondate dagli apostoli, attraverso la successione episcopale, restano in comunione con gli apostoli stessi e tra di loro, e trasmettono la fede ad altre nuove chiese, così che tutte sono apostoliche e hanno la stessa fede e l'unica Tradizione, che dev'essere posseduta e custodita gelosamente. La comunione nella fede viene a configurarsi sia diacronicamente che sincronicamente mediante la successione apostolica e l'unione attuale delle chiese. Per combattere gli eretici già dal II secolo le chiese redigono liste dei loro vescovi a partire dall'inizio per dimostrare ( 10) La scomunica consisteva nel togliere la communicatio con l'altra persona e aveva il duplice scopo di correggere il colpevole e di proteggere la comunità dall'errore. 130
a nnessione, la discendenza apostolica; « manifestino
tgliceretici), dunque, l'origine delle loro chiese, percorran la successio ne dei loro vescovi, che sia tale che, svol �ndosi dall'inizio per gradi successivi, il primo loro ve covo abbia avuto come garante e predecessore un apo �stolo uno di coloro che furono con gli apostoli Questo
1
0 . è infatti, il modo in cui le chiese apostoliche presentano loro origine » (Tertulliano, La prescrizione 32, 1-2). Quelle chiese invece che non possono vantare una origine apostolica diretta, e quindi una comunione dottrinale con gli apostoli, hanno garanzia dalle chiese apostoliche, come efficacemente si esprime Tertulliano: « A possedere que sto aspetto dottrinale (apostolico) saranno (gli eretici) dunque sfidati da quelle chiese che, sebbene non possano proclamare come loro fondatore nessuno degli apostoli o di coloro che furono con gli apostoli, in quanto sono sorte molto tempo dopo di essi (quelle chiese che sono fondate, ad esempio, nei nostri giorni) , pure siccome con cordano nella medesima fede, non sono considerate meno apostoliche delle altre, grazie alla parentela con la loro dottrina (pro consanguinitate doctrinae) ... (Le chiese ere tiche) non sono apostoliche, né possono dimostrare di essere quello che non sono, né sono accolte nella pace e nella comunione dalle chiese che sono, in un modo o nell'altro, apostoliche >> (o.c. 32, 4-5). La crisi ariana del IV secolo, con i suoi concili, le sco muniche reciproche, le lotte, mette ben in luce quanto sia importante concordare nella medesima confessione di fe de per essere in comunione. Di qui un intenso scambio di lettere. In pratica il criterio era abbastanza semplice: ricevere o concedere le litterae communionis ad una per sona significava condividere la stessa fede, in quanto con essa si scambiava la pax. La comunione nella fede rendeva possibile quella nei sa cramenti, particolarmente nell'eucaristia, che, in quanto partecipazione al corpo e al sangue di Cristo, la fondava e �ello stesso tempo ne era l'espressione. Policarpo, reca tosi a Roma per discutere con Aniceto sulla data della pa�qua, e sebbene fossero in disaccordo su questo punto, Amceto gli fece presiedere la celebrazione dell'eucarisitia per significare la pace che c'era tra di loro (Eusebio, . Stona eccl. V, 24, 1 7 ) . Ignazio scrive agli smirnesi: << solo quella è vera (valida) eucaristia, che si fa sotto il vescovo
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o sotto colui a cui ne dia incarico » (cap . 8). Ricevere l'eucaristia da un vescovo significava essere in comunione con lui anche nella fede; per questo i vescovi eretici costringevano i cattolici a ricevere la loro eucaristia, mentre questi se ne astenevano ( 1 1 ) . Ambrogio racconta che suo fratello Satiro era arrivato in Sardegna dopo un naufragio e allora volle ricevere il battesimo, per cui prima « si informò diligentemente (se il vescovo locale) fosse in comunione con i vescovi cattolici, ossia con la chiesa romana » (La morte del fratello l, 47). A Roma esisteva l'uso del fermentum, vocabolo che indicava quel la parte dell'ostia consacrata dal vescovo nella liturgia domenicale, la quale era inviata alle altre chiese urbane in segno di comunione. La concordanza nella disciplina è più complessa e difficile da precisare sia per l'estensione del concetto stesso e sia per le variazioni istituzionali che si svolsero grandemente nei primi secoli. Per questo, più che esporre dei principi, conviene addurre qualche esempio illustrativo. Già dalla fine del II secolo era invalso l'uso che nell'ordi nazione episcopale fossero presenti più vescovi (Tradizio ne apost. 2; Cipriano, Epist. 67, 5); tale uso è reso obbliga torio dal concilio di Nicea, che richiede che siano presen ti tutti i vescovi della provincia, e che gli impediti inviino lettere di adesione; in ogni caso però devono essere pre senti almeno tre vescovi (can. 4) . La norma non ha tanto carattere rituale e liturgico, quanto piuttosto vuole e sprimere l'idea che nell'ordinazione del nuovo vescovo tutta la chiesa è presente e nello stesso tempo lo accoglie nella comunione della chiesa universale. La disputa sul giorno della celebrazione della pasqua nel II secolo stava per provocare uno scisma nella chiesa tra quelli che se guivano l'uso domenicale e quelli che invece si attenevano all'uso giudaico del 14 Nisan (i quartodecimani) . Questi, accettati o tollerati nel II secolo, furono esclusi dalla comunione ecclesiale dal concilio di Nicea del 325. Il perdono da concedere ai lapsi nel III secolo, la questione relativa alla ripetizione del battesimo amministrato dagli eretici, le regole per una valida ordinazione episcopale hanno avuto diversa applicazione secondo i luoghi e i tempi. Cipriano non approva in alcun modo Marziano di (11) Cfr. C. L. Hertling, Communio e primato, Roma 1961, pag. 18 s. 132
Arles che non riammette i lapsi, mentre e�li difende la _ tradizione africai_I a contro quella romana d � nbat�ez�are . , quelli provenienti dali eresia. In quella occasiOne Cipnano ostiene che, salvo iure communionis, è permesso atte ersi a opinioni e tradizioni diverse. Invero questa idea di Cipriano era convinzione profonda e comune in tutta l'antichità cristiana, nonostante che ci fosse grande diver sità di riti e pratiche nelle diverse regioni e a volte nella stessa città. Nel IV secolo i meno preparati potevano pensare che dietro tale diversità ci fosse una differenza di fede. A Gennaro, che gli esponeva queste perplessità, A gostino risponde: « La :e�ola � igliore cui si ruò attenere _ un serio e prudente cnstmno e quella di_ agire nel modo in cui vedrà agire la chiesa in cui si troverà. Poiché tutto ciò che non può provarsi essere né contro la fede né contro i buoni costumi, deve considerarsi indifferente e da osservarsi per rispetto verso coloro tra cui si vive » (Epist. 54, 2, 2: PL 33, 201 ) . Giacché le diversità sono tan te, pur essendo queste difese e salvaguardate, si assiste in questo periodo a una tendenza all'uniformità, che conti nuerà e si accentuerà nei secoli successivi. La comunione tra le chiese, essendo vissuta profonda mente, si esprimeva con ogni mezzo. Anzitutto era un rapporto personale tra le varie chiese sia a livello di vesco vi che di semplici cristiani. Essere in comunione con il vescovo di una comunità significava condividere la stessa fede e viceversa; per questo si scambiavano le lettere di comunione ( litterae communionis - koinonikà grammata). Ogni vescovo aveva una lista, sempre aggiornata, di altri vescovi con cui era in comunione. Nel momento in cui ad Antiochia c'erano tre vescovi (Melezio , Vitale e Paolina), Girolamo, che è da quelle parti, si trova in difficoltà e scrive a papa Damaso: « supplico la tua beatitudine, per la croce del Signore ... scrivi con chi devo comunicare in S i�ia " (Epist. 1 5 , 5 : PL 22, 3 55). Nello stesso periodo Ba _ . Siho di Cesarea riconosceva dei tre solo Melezio: « la mia chiesa è rimasta sempre in comunione con Melezio e, a Dio piacen do, lo saremo sempre » (Epist. 2 58 3 : PG ' 3 2, 915). Tene rsi in contatto continuo era prassi diffusa, a cui non _ SI doveva mancare . Difatti lo stesso Basilio si lamenta con Dam aso: << come mai è avvenuto che non riceviamo una lettera di consolazione, né visita di fratelli, né altro
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aiuto che ci è dovuto per legge di carità? » (Epist. 242, 2: P G 32, 90 1 ) . In genere l e lettere di comunione si inviavano ai vescovi delle sedi principali, che facevano da tramite tra le varie regioni, e in tal modo si creava una s truttura con caratteristica di comunione gerarchica. Anche per il semplice cristiano essere in comunione con una chiesa locale implicava un riconoscimento e una legittimazione in tutte le altre chiese in comunione con la sua; come pure « secondo la regola, colui che è scomunicato ( = fuo ri della comunione) (da un vescovo) non dev'essere riammesso dagli altri » (Concilio di Nicea, can. 5). Lo stesso canone prescrive che in ogni provincia nel sinodo quaresimale << venga allontanata ogni discordia e offerto il dono (celebrazione liturgica) col cuore puro » . Esisteva anche una cassa comune per l'aiuto a i forestieri, dei quali i diaconi erano incaricati. Giustino vi accenna nella sua prima apologia (67, 6) ; Cipriano, nascostosi a causa della persecuzione, aveva lasciato del denaro a un presbitero e ne invia altro nel timore che quello fosse finito (Epist. 7). In diversi documenti canonico-liturgici si ricorda che uno dei doveri del vescovo era quello di preoccuparsi dell'o spitalità. Durante questo periodo si viaggiava molto e l'o spitalità costituiva un tratto distintivo di tutta la chiesa antica; durante il IV secolo furono fondate case per ac cogliere i forestieri. Secondo la teologia dell'episcopato, il vescovo aveva la responsabilità della propria comunità, ma anche in qual che modo di tutta la chiesa. I principali vescovi del II secolo scrivono lettere e intervengono nelle altre chiese: Clemente Romano, Ignazio, Policarpo, Dionigi di Corinto, Ireneo, Vittore. Altrettanto avviene nel I I I secolo. Si in terviene anche per deporre vescovi locali o esaminare la loro fede, a volte con sinodi, come per Privato di Lambe si, Berillo di Bostra, Novaziano a Roma e Paolo di Samo sato ad Antiochia. Questa coscienza di responsabilità e piscopale non limitata alla propria comunità ma che si estende a tutte le chiese viene esplicitamente affermata e applicata. Origene scrive che chi è chiamato all'episcopa to, non è chiamato al dominio, ma al servizio di tutta la Chiesa (Comm. a Matteo 16, 8). Cipriano è quello che nel I I I secolo ha le espressioni più forti a riguardo. Così scrive a papa Stefano a proposito di Marziano di Arles :
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fratello, il numero dei vescovi che formano il " Cariss imo pale è in effetti grande; essi si trovano recico epis o corp . . legati d a una concor d'ra ch e l'1 umsce come p ocamente dell'unità . Per questo quando qualche g uti ne nel vincolo collegio tenta di creare una eresia e nostro del bro em rovinare il gr�gge di Cristo e di _fari?-� sce�pio : gli �lt�i paston utrli e m1sencordr osr, devono inte rvemre e, come del Signore al suo gregge » pecore le rtare ripo no devo
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(Epist. 68 , 3 ) .
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Padri parlano molto di unità della chiesa, continuamen te cercata e realizzata, e, se esiste, mantenuta, come scri ve Ambro gio: « Dobbiamo preservare intatte le prerogati ve degli antichi soci di comunione, le cui buone relazioni ci stanno molto a cuore » (Epist. 1 2, 4: PL 16, 989). Il loro linguaggio può generare l'opinione che essi avvertano il cristianesimo come una federazione di chiese locali con una certa gerarchia tra di loro. Niente di più falso. La loro è più un'ecclesiologia di comunione che di autorità gerarchica, e l'unità visibile della chiesa si manifesta non tanto nell'accettazione di uno o più capi visibili quanto nella communio tra i cristiani e il loro vescovo e nello stesso tempo tra tutti i vescovi. Per questo essi parlano più di unità, di concordia, di pace che di obbedienza. Tertulliano scrive : « Pertanto tutte queste chiese, così numerose e così grandi, non sono altro che quell'unica chiesa primitiva fondata dagli apostoli, dalla quale tutte derivano. Così tutte sono primitive e tutte sono apostoli che, in quanto tutte sono quell'unica chiesa. L'unità è testimoniata dallo scambio della pace (communicatio pa cis) e dall'appellativo di fratello e dalle tessere della mu tua ospitalità (12) : questi diritti reciproci non sono giu stificati da nessun altro motivo se non da un'unica tradi zione del medesimo mistero di fede » (la prescrizione
20, 4) .
Nei due paragrafi che seguono esaminiamo più in dettaglio l'app licazione della dottrina della communio nella vita dell a chiesa.
p�� F_orse la traduzione italiana perde in efficacia; ecco il testo /ernzm_o.tatzs_Probant unitatem communicatio pacis et appellatio fra· et contesseratio hospitalitatis. 135
3 . Forme istituzionali d'autorità L'espressione dell'autorità nella chiesa antica si è andata strutturando secondo le necessità, l'influsso esterno e la vita ecclesiale, raggiungendo nel III-IV secolo le sue for me quasi definitive. Nel periodo iniziale erano gli apostoli quelli che avevano la maggiore autorità; ad essi, come già si è visto, sono andati unendosi altri ministri . Nel II secolo l'episcopato si è pienamente sviluppato. I vescovi sono i ministri supremi delle rispettive comunità, la cui autorità abbraccia tutti gli aspetti della vita ecclesiale locale. Nel secondo secolo la cathedra episcopale, su cui solo il vescovo poteva sedersi, era l'unica indicazione e sterna della sua autorità e diventa sinonimo della sua funzione. Il canone di Muratori, della seconda metà del secolo, scrive di Erma: « sedente in cathedra urbis Romae ecclesiae Pio episcopo fratre eius »; il termine già è tec nico. Nel corso dello stesso secolo il vescovo ci appare soprattutto come il doctor della comunità in contrapposi zione a sette che divulgano false dottrine, e la cathedra era nell'antichità il seggio speciale indicante la funzione dell'insegnamento. Nel III secolo invece si pone l'accento sul vescovo come liturgo, cioè il centro della vita ecclesia le. Sulla cattedra solo il vescovo poteva sedersi perché solo lui era abilitato a parlare durante le celebrazioni liturgiche; solo occasionalmente veniva concesso ai pre sbiteri di predicare. Dal IV secolo si diffonde tale prassi in Oriente e solo successivamente in Occidente. Nelle preghiere di ordinazione episcopale vengono sinte tizzati i poteri del vescovo nei termini di maestro, pasto re e liturgo. Non conserviamo la legislazione episcopale dei primi secoli, ma di essa abbiamo numerose tracce nella vasta letteratura anonima di carattere canonico-li turgico, che si presenta come apostolica, e va dalla Dida chè, alla Didascalia degli apostoli, alle numerose compila zioni del IV secolo (Costituzioni apostoliche, Testamento
di nostro Signore Gesù Cristo, O ttateuco di Clemente, varie raccolte di canoni). Nel capitolo secondo si è parlato a lungo dei poteri del vescovo, altri verranno accennati nel prossimo paragrafo; ora conviene fermare l'attenzione sulle due altre forme istituzionali di autorità: i concili e la posizione singolare del vescovo di Roma. Le assemblee di vescovi, che in
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pastori dovevano conservare la fede e quanto doctores e · os e m � enommate I.n gr�co synod venivano , lina iscip . d . la m io anche latmo uso Ambrog pnmo per ilium; 1 t' no conc traslitterandolo dal gr�co. Dopo l :espei ermine synodus, . . enza apostolica di Gerusalemme e la dtffusa prassi neln semb ra · ana d'� s�o1?er� concz·z za, l'amministrazione ro� . . 1 vescovi st numscano m � I�me per anche e ch rale natu . . discutere e decidere argome�tl di caratte�e e d� �n.teres�e generale. Già nel Il se�olo s.I tengono. dei concth m �si� sulla questione montamsta; Il papa VIttore (1 93-203) mvi ta l'ep iscopato a riunirsi in concili nel Ponto, Palestina e Siria per determinare la data della pasqua (Eusebio, S to ria eccl. V, 23; V, 16). In Africa, Agrippina verso il 220 riunisce un concilio per dichiarare nullo il battesimo amministrato dagli eretici. Cipriano spesso riunisce i ve scovi delle province africane (Africa proconsulare, Numi dia e Mauretania) per discutere con loro alla presenza dei fedeli. Notevole anche il concilio di Antiochia del 268 per deporre il vescovo della città, Paolo di Samosata. Ma l'epoca della grande fioritura dei concili è il IV e il V secolo. Già il concilio di Nicea aveva stabilito che in ogni provincia ecclesiastica si tenessero due concili all'anno (can. 5). L'ampiezza di partecipazione determina la qualità del concilio, che può essere provinciale, patriarcale - dei patriarcati di Alessandria, Antiochia e Costantinopoli -, plenari per esempio dell'episcopato africano, spagnolo o gallo. Un particolare rilievo acquistano i concili ecumeni ci, cioè dei vescovi di tutta la cristianità: Nicea del 325, Costantinopoli 3 8 1 , Efeso 43 1 , Calcedonia 45 1 . Essi sono riconosciuti dai cattolici, dagli ortodossi e da quasi tutti i prote stanti. Gregorio Magno li paragonava ai quattro va�geli: << Accettiamo i quattro concili della santa chiesa umversale come i quattro libri del s anto vangelo » (Epist. III, 1 0 : PL 77, 613). Essi furono convocati dall'imperatore e celebrati in Oriente; le loro decisioni acquistarono valore �1. ��gge statale. Il papa non partecipò personalmente, ma InVIO �ei delegati, non presenti però a quello di Costanti ?0P0h del 3 8 1 , che si celebrò come uno dei tanti sinodi Imperiali del IV secolo. Esso, dopo un periodo di quasi assoluto silenzio, acquistò il valore di "ecumenico" perché la sua professi one di fede fu recepita dal concilio di ·
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Calcedonia, e solo nel 519 fu riconosciuto dal papa Or misda. Lo storico registra un altissimo numero di concili: quelli detti ecumenici avevano grande valore normativa; altri furono recepiti per le loro disposizioni oppure relegati nel passato, altri infine furono rifiutati per i motivi più diversi. Il criterio discriminante non è nel numero dei partecipanti (a Rimini nel 350 erano 400, mentre a Co stinopoli nel 381 erano solo 1 50) , ma in qualche cosa di difficile da definire. Ogni caso ha una storia a sé: contenu to dottrinale, recezione da parte della chiesa, prestigio dei partecipanti, l'appoggio imperiale ... In genere si diceva che lo Spirito santo aveva parlato attraverso i vescovi riuniti in assemblea, oppure si invocava il testo di Matteo �dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" ( 1 8, 20). Sempre si considera come fonda mento dell'autorità conciliare Dio stesso, perché le deci sioni sono state prese dai partecipanti ispirati dallo Spiri to santo: placuit nobis Sancto spiritu suggerente (Cipria no, Epist. 57, 5) . Nel IV e nel V secolo il concilio di Nicea aveva la somma autorità e veniva denominato santo e grande, come esso stesso si era qualificato (can. 14 e 19; introd.) ; a volte viene detto anche ecumenico (Eusebio, Vita di Costant. 3, 17; Atanasio, Apologia c. arr. 59), ma l'aggettivo non ha ancora il senso tecnico che assumerà in seguito. Il concilio di Efeso del 431 stabilì che le decisioni di Nicea non pote vano essere cambiate, perché i Padri avevano legiferato insieme con lo Spirito santo. Sieben (13) ha mostrato che la ragione del suo successo, nonostante le forti opposizio ni del IV secolo, fu perché il suo insegnamento veniva riconosciuto secondo la tradizione. Tuttavia i suoi parte cipanti avevano coscienza di iniziare un'esperienza nuova ad ampio raggio, per questo presero numerose decisioni disciplinari riguardanti la chiesa universale, che diver ranno la base della legislazione ecclesiastica successiva. Ora possiamo porci una domanda più generale : quale autorità ha un concilio qualsiasi dal momento che alcuni di essi vennero ferocemente contestati ? S. Agostino cercò ( 13) H. J. Sieben, Die Konzilsidee der Alten Kirche, Paderbom 1979 ; cfr. R. B. Eno, Pope and Councils: the Patristic Origins, in Sci ence et Esprit 28 ( 1976) 191 s .
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p�' di ordine, di�endo �he ai c?ncili regio di met tere un _ sono supenon quelh plenan e tra que nciali rovi n l1" 0 p II, 3, 4). La chiesa romana i più recenti (Sul battesimo la dottrina dell'accetta elaborare a inizia e I V secolo . del papa, delle causae parte da provazione, dell'ap . ZIOne e . . aio res (14) : è la dottnna che e' passata pOI nel d"1ntto in s�nodo nonico . Papa Gelasio scrive: f! u� d firmavit
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re(utavlt, ha sedes apostolica, hoc _ robur ob tmwt; quod IV, 9: Th1el p. 565). (Tract. firmztatem st pote non ere b
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Pap a Leone fu r chie�to esp � ssamente e �on insitenza d� parte dei partecipanti e dall 1mperatore d1 confermare gh atti del concilio di Calcedonia. In questo periodo era invalso anche l'uso di richiedere un'autorizzazione roma na per celebrare un sinodo. Di fatti il legato di Leone, Lucenzio, al concilio di Calcedonia, rimprovera Dioscoro, vescov o di Alessandria, di aver rotto questa prassi (Mansi VI, 58 1 ; Acta eone. oecum. I l , I, l , 65). In concreto però era sufficiente la comunione con la chiesa romana (Leone M . , Epist. 147-149). Y . Congar ha approfondito il concetto di recezione da parte della chiesa e in particolare della sede romana (15); allorché un concilio viene accettato, recepito, esso acqui sta valore. Per i concili si è verificato un fenomeno in parte simile alla formazione del canone delle Scritture. Mentre nei primi tempi ci si basava soprattutto sul loro contenuto di verità, in quanto corrispondente alla Scrit tura e alla fede ricevuta, sempre più l'autorità si è trasfe rita al concilio stesso, in quanto questo viene accettato e approvato dalla chiesa. Si dà per presupposto che esso esprime la fede tradizionale in uno spirito di continui tà. L'abbondante legislazione conciliare, anche se incompleta, del IV e del V secolo, suscita diversi problemi, oltre quelli interpretativi, sull'area geografica di applicazione, sul! osserv anza, più efficace qualora sia stata approvata da l imperatore con leggi civili, sull'accettazione da parte de 1 non partecipanti e sul rifiuto degli avversari. Dove _ SI �te una specie di unità geografico-ec clesiastica, come in fnca e in Egitto , questi problemi erano molto relativi.
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g;� �apa Innocenza I vueScPh�longar, l
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(402-417 ) : Epist. 2, 3: PL 20, 473. La réception comme réalité ecclésiologique, e t Théol. 56 ( 1972) 369-403.
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Il vescovo di Roma (16) ebbe, nell'antica comunità cri stiana un ruolo preminente, che si accrebbe con il passa re del tempo, sino a divenire un motivo di profonda divisione della critianità e oggi un ostacolo alla riunione per molti cristiani. Qui si vuole esporre brevemente la sua funzione nell'antica chiesa e la dottrina s oggiacente alla sua autorità. Non sappiamo quando il cristianesimo sia arrivato a Ro ma, forse già all'inizio della vita della chiesa (Atti 2, lO); era presente al tempo dell'imperatore Claudio (41-54), che verso il 48 cacciò da Roma i giudei: Judaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit (Svetonio, Claud. 25, 1 1 ). La lettera ai Romani di Paolo del 57-58 è indice dell'im portanza della comunità romana già alla metà del I seco lo. Questa, con la lettera di Clemente ai Corinzi (circa il 96), interviene per sedare discordie sorte in tale comu nità. Il tono della lettera, fraterno ma fermo, il richiamo al martirio di Pietro e Paolo avvenuto a Roma (cap. 5), l'insistenza sulla sucessione apostolica saranno i motivi dei successivi interventi del vescovo di Roma. A qualche anno più tardi risale la lettera di Ignazio ai Romani, dalla prefazione solenne e con il richiamo alla presenza dei due apostoli, che offre alla chiesa romana il ricono scimento di una presidenza nella carità e nella fede. Ire neo ci dà la prima lista, non certamente sicura, dei ve scovi romani, ed aggiunge: « ma poiché sarebbe lungo ... enumerare le successioni di tutte le chiese, {parleremo della) chiesa più grande, più antica e nota a tutti fondata e stabilita in Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo ... con questa chiesa infatti, a causa della sua più potente autorità (potentiorem principalitatem) ogni altra chiesa deve essere in accordo >> (Contro le eresie III, 3, 3). La fondazione petrina non può provarsi e tanto meno quella di Paolo, ma i due apostoli, per mezzo della sue· cessione, sono considerati il fondamento dell'autori tà di ogni vescovo di Roma. Dal III secolo in poi però nor· (16) II termine « papa " (dal greco pappas, papas = padre, babb), era un titolo affettuoso dato ai vescovi e abati ; nel VI secolo �� Occidente tende a diventare appellativo esclusivo del vescovo dJ Roma.
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l mente non si fa più riferimento a Paolo ma solo a tro. Per giustificare il . pr�m.ato che. spetta a . questi, e successon, SI mvoca Il testo di Matteo: q ' ndi ai suoi e su questa pietra edificherò la mia chiesa tro Pie sei u " le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A del regno dei cie�i, e tutto ci� che e darò le chiavi , le?ato nei. cieh. e tu tto ciO che sara terra ulla s rai ghe : le . . . scioglierai sulla terra sara scwlto nei cieh » (Matteo 1 6 18 s) . Dal secondo secolo possiamo documentare nu m�rosi interventi del vescovo di Roma al di fuori del suo territorio, mosso dalla sollicituto omnium ecclesiarum (2 Corinzi 1 1 , 28) in materie riguardanti la fede e la di sciplina o per semplici motivi assistenziali; la chiesa ro mana si distinguerà per essere la custodia fidei et disci plinae (cfr. Leone M., Epist. 1 1 5, 1). Tuttavia l'influsso di Roma dipendeva largamente dalla personalità del suo vescovo. Solo con Damaso (366-384) si elabora pienamente una dottrina del primato romano rispetto a tutti gli altri vescovi; dottrina difesa e approfondita dai suoi successo ri: Siricio, che per primo applicò il concetto di sollicitu do al servizio papale; Anastasio I (399-402), Innocenza I (402-4 1 7) e soprattutto Leone Magno (440-461). Un nuovo modo di intervento era costituito dalle decreta li papali, cioè lettere con le quali si rispondeva a que stioni disciplinari rivolte da vescovi o si comunicavano delle decisioni. Al tempo di Leone fu celebrato il concilio di Calcedonia del 4 5 1 , dove fu approvato un canone, il 28, con il quale, rifacendosi al canone 3 del concilio di Co stantinopoli, si stabilisce che alla chiesa della Nuova Ro ma spettano gli stessi diritti di quella dell'antica Roma, a motivo della presenza dell'imperatore e del senato. Il suo v�scovo diventa patriarca del Ponto, dell'Asia e della Tra c�a. Questo ultimo punto sembra che fosse lo scopo prin Cipale del canone, che intendeva sanzionare di diritto �uella che era ormai la prassi, e non voleva minimamente mtendere un attentato alla posizione della chiesa roma na 0 7) . I legati di Leone erano assenti durante quella seduta e il giorno dopo protestarono energicamente; la rotesta fu inserita negli atti. Leone fu richiesto di conermare il canone, ma si oppose con forza rifiutandosi di
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{17) Cfr. V. Mona ch1'no Il canone 28 del concilio di Ca/cedonia, L'AquiJ a 1978, p ag. 86 s�. 141
confermarlo, perché esso andava contro precedenti cano. ni, scolvolgeva l'ordine gerarchico esistente delle sedi, u surpando diritti altrui, e Costantinopoli non era una fon dazione apostolica; per questo a un certo punto i difen sori della nuova sede immaginarono che essa risalisse all'apostolo Andrea. Tutte le spiegazioni inviate a Leone sembrano minimizzare il contenuto del canone, ma l'ac cresciuta ascesa dell'autorità del vescovo di Costantinopo. li portò a conseguenze non previste allora. Le cose sem. bravano pacificate e il canone, per qualche tempo, non fu inserito nelle collezioni economiche, tuttavia veniva appli cato a vantaggio del nuovo patriarcato; Giustiniano nel 545 (novella 1 3 1 ) riconosceva anche politicamente al ve scovo della Nuova Roma è la dicitura che normalmen te si adoperava nei canoni - il secondo posto dopo il papa; il concilio Quinisesto (o in Trullo) del 691 riaffermò il canone calcedonese nella sua integrità (can. 36) . Il concilio d i Calcedonia del 45 1 , più degli altri preceden ti, ha riconosciuto al papa un primato, che però veniva inteso diversamente in Oriente e in Occidente. Leone ri vendica a se stesso la plenitudo potestatis (cfr. Epist . 14, 1 : PL 54, 671 ) e l'essere il capo della chiesa universale, in quanto vescovo della chiesa romana, che è la testa di tutte le chiese (Mansi 7, 9) . La plenitudo potestatis riven dica al papa, pur nel rispetto dei vescovi, un'autorità universale di insegnamento, un potere legislativo, attuato per mezzo delle decretali, aventi valore dei canoni conci liari, e un controllo sulla disciplina. Quindi viene propo sta una concezione centralizzatrice e assoluta, che tende va a imporre a tutti quanto il papa aveva deciso o quanto aveva elaborato in un sinodo. Questa concezione del pa pato è il punto di arrivo di vicende complesse e di rifles sioni dottrinali. Teologicamente la dottrina del primato romano si basa sulla successione petrina (Paolo era stato messo da parte) e sulla continuità del ministero di Pietro nel papa. La chiesa romana fu denominata la sedes apo stolica per eccellenza anche rispetto alle altre fondazioni apostoliche. Tuttavia numerosi fattori hanno contribuito al prestigio di Roma: le origini apostoliche e la presenza di Pietro e Paolo a Roma; le tombe dei due apostoli, meta di pellegrinaggi; l'antiquitas, concetto caro agli antichi, della sua fondazione almeno rispetto alle chiese occiden� tali; la fedeltà al concilio di Nicea. Si aggiungano fattori -
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iali: Roma capitale dell'Impero e crocevia pol'1t' ci e soc soprattutto nel II secolo; la ideologia tiani, h di cris la òecadenza di altri centri in Occidena; b aetern fi• �n s e ur Milano; forti personalità come alcue gine Carta e com te, . vi ... . ni suoi vesco to de� v�scovo dt Roma v�nava seL'efficacia di interve� . ndo le zone , e ogm provmcta ha una stona dtversa: la ografia qui è un fattore importafolte. Fin? . all:ini�io del nella IV secolo raramente esso superava 1 confim ttaham; metà del secolo gli interventi, assumendo la forma delle decretali, ampliano la sfera di influenza. L'influsso si e sercita soprattutto nella Gallia e nella Spagna; in Africa, che godeva larga autonomia, il ricorso di vescovi e preti a Roma fu proibito in un concilio del 418, ma i rapporti con Roma erano stretti; poco influsso sulle isole britanni che, accentuato con l'arrivo del missionario Agostino al tempo di Gregorio Magno, mentre nei paesi germanici Roma esercita la sua influenza solo a partire dal tempo di s. Bonifacio. Ai metropoliti delle regioni di lingua latina viene inviato da Roma il pallio, come segno di dipendenza da essa. L'Illirico occidentale era sotto l'in flusso diretto di Roma, che aveva a Tessalonica un suo vicario. Le sedi patriarcali di Alessandria e di Antiochia erano fortemente autonome, ma dal V secolo erano in qualche modo subordinate al patriarca di Costantinopoli. Nei regesti pontifici pubblicati da Jaffè-Wattenbach (18), si contano 4335 documenti fino al 1054, l'anno del grande scisma, dei quali cento circa riguardano l'Illirico e solo trecento circa tutte le chiese orientali. Da essi si deduce che queste godevano della più larga autonomia canonica. Un nuovo patriarca, appena eletto, comunicava la sua e�ezione con una lettera (synodicon) al papa, il quale nspondeva per congratularsi; questo gesto di communio era �onsiderato essenziale per il nuovo eletto. Gli inter venti pontifici in Oriente riguardano soprattutto la com . m unzo e la fì des. I? Oriente la coscienza ecclesiale era maggiormente colle gmle, per questo non facilmente essi accettavano ordini ex auctoritate: pur riconosc endo a Roma un certo prima to (da p rimus ) gli orientali insistevano sul concetto di .
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Romanoru m Pontificum a S. Clemente (a.c. 90) ad Cae les tznu m III Ul9lì) , I, Città Vaticano 1943.
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comunione e pensavano che le decisioni pm Importanti dovevano essere prese insieme; pur ammettendo la suc cessione petrina, mai identificarono il papa con Pietro. Per questo non accettarono che le causae maiores doves sero essere giudicate a Roma; per essi le decretali non vennero mai considerate fonti del diritto, come avvenne per l'Occidente. Queste osservazioni ci permettono ora di comprendere meglio la concezione del primato romano nell'antichità. Esso va visto nel contesto della dottrina della communio esposta nel paragrafo precedente. Nei primi tre secoli non c'è differenza di dottrina tra gli orientali e gli occi dentali. Veniva riconosciuta una potentior principalitas alla chiesa romana per la presenza in essa di Pietro e Paolo, per cui essa era punto di riferimento, per la fede, per tutte le altre chiese: era considerata il luogo privile giato della communio universalis nella fede, nei sacra menti e nella grazia. Il vescovo romano era al servizio di questa comunione e presiedeva all'agape (cfr. Ignazio, nella prefazione alla lettera ai Romani) ; per questo egli interveniva nelle altre chiese. Tuttavia non c'era ancora una piena coscienza giuridica inclusa nel ministero petri no. Con Costantino e dopo di lui si continua sulla stessa strada; le strutture ecclesiastiche si perfezionano e si stabilizzano, a volte ispirandosi a modelli civili. Sia i testi liturgici che d'altro genere, soprattutto le lettere dei papi, e i rapporti tra le chiese dimostrano ancora che si conti nua in un 'ecclesiologia di comunione (19), che si esprime in forme sociali e giuridiche. Al centro di questa comunione c'è la chiesa romana, per ché << è da essa che derivano a tutte le chiese i diritti della comunione che vanno rispettati » (Ambrogio, Epist. 1 1 , 4: PL 1 6, 946). Lo stesso Leone, che pur tanto insiste sul primato, mette in risalto la collegialità episcopale. La teologia romana intanto elabora il concetto di caput di tutte le chiese: << Ad unam Petri sedem universalis eccle
siae cura conflueret et nihil usquam a suo capite disside ret » (Leone M., Epist. 1 4, 1 1 ) . L'Oriente invece continua a (19) Y. Congar, La collégialité de l'épiscopat et la primauté de l'éveque de Rome dans l'histoire: Angelicum 47 ( 1970) 403-427 (p. 407) .
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or irnpo r anz� al_Ia �hiesa loc le, �ome punto are rnaggi _ di orgamzzazwm pm vaste; l umta nello stes nza I parte da dove ma basso, dal dall'alto, non parte so sentire .a; s . conserva mag' n armom creare per � � nasce la spint� . mia locale, regwnale o patnarcale. Le deci g� re au tono o riguardanti importanti questioni disci si ni sulla fede essere prese insieme. Il terzo concilio di no linari doveva il più ricco di elogi e di espres (680-681), poli ntino osta papa, non accettò semplicemen il verso nza defere di ni sio papa Agatone, che condanna del dogmatica te la lettera concordava, ma considerò cui su e mo, onotelis m va il ogni problema aperto e da esaminarsi_ a fondo. Lo stesso concilio aveva accolto con grande nspetto tale lettera, perché « scritta dalla suprema autorità degli apostoli » (Mansi 1 1 , 660). Avendo visto che il suo contenuto era conforme alla fede tradizionale, solo allora i vescovi di cono « tutti noi siamo, per ispirazione dello Spirito santo, unanimi e d'uno stesso sentire, e noi diamo la nostra adesione alla lettera dogmatica di Agatone, nostro santis simo padre e papa » (Mansi 1 1 , 664 B). Nel concilio erano presenti diversi vescovi orientali che ammettevano un vero primato del papa; pur tuttavia esso si è limitato a riconoscere la sua posizione privilegiata e non la sua autorità assoluta (20) . Per concludere si può osservare che la chiesa orientale era più condizionata dalle situazioni politiche - si veda il canone 28 del conci lio di Calcedonia, di cui già si è discorso - e riconosceva al papa un primato , che era qualcosa di più di un sem plice primato di onore (21) o di un primus inter pares, ma che tuttavia non si configurava nello stesso senso inteso in Occidente : nell'ambito dell'armonia di tutte le chiese il papa è il primus. Il vescovo di una comunità ha autorità ed è il centro della comunione locale mentre il ' metropol ita, il patriarca e il papa, sempre a livello più alto e più vasto, hanno la sollecitudo per tutte le chiese
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g�� �- De V�ies . Orient et Occident, Paris
1974, pp. 212 ; 21 8-220. Dvom1 k m Byzance et la primauté romaine, Paris 1964, g. 19 · m tte m . rilievo che in Occidente la situazione politica � a aggwre i �p ortanza all'autorità religiosa, che poteva affer . m a supe nonta. dell'autorità spirituale su quella temporale. In ': . ente ques to er� impossibile ; per cui l 'i mperatore continuava a le g erare _ m gres s vament � atene ecclesiastiche, cosa invece in Occidente proe nservata al papa.
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del loro ambito e sono centri e legami di comunione a livello provinciale, patriarcale o universale (cfr. Canoni apostolici, can. 34; concilio di Antiochia del 341, can. 9) .
4. Strutture territoriali ecclesiastiche Il cristianesimo fu anzitutto un fenomeno urbano; nei centri più o meno grandi si formarono le prime comunità cristiane, unite nella stessa fede dallo stesso culto e dalla stessa disciplina. Come già si è accennato, il vescovo è il suo centro, identificandosi con la sua comunità e avente tutti i poteri in senso esclusivo, per cui in ogni centro non può esserci che una sola comunità cristiana, che deve avere un solo vescovo. Ogni comunità è autonoma ed è provvista delle strutture necessarie per il funzionamento. Per ogni provincia civile il numero delle sedi episcopali è in rapporto al grado di evangelizzazione, all'intensità del la popolazione e al numero dei centri abitati (città o municipia) e alla struttura municipale romana. In Africa, in Asia Minore, nell'Italia suburbicaria troviamo più sedi episcopali che in Gallia, in Egitto, ecc. È esatta l'intui zione di Teodoro di Mopsuestia: << In origine vi erano di solito due vescovi, o al massimo tre, in ciascuna provin cia, una situazione che prevaleva nella maggior parte del le province occidentali fino a tempi proprio recenti, e che si può trovare ancora in parecchie ancora al giorno d'og gi. Però col passar del tempo i vescovi furono ordinati non solo nelle città, ma anche in luoghi molto piccoli » (Comm. alle epist. di Paolo, 1 1) . La proliferazione delle sedi episcopali, sia per motivi politici che religiosi, tende va a crescere. Le comunità locali, nei primi tempi, venivano denominate la « chiesa che è a Corinto » o « di Corinto », la « chiesa che è a Cartagine ,, o « di Cartagine >>; solo nel corso del III secolo compare la parola greca parochia (o paroecia) per indicare la chiesa locale e all'inizio del IV essa co mincia a indicare anche il territorio di un vescovo ed è sinonimo di diocesi; nel corso dei secoli V-VI viene ad assumere il significato attuale, ma ristretto alle chiese rurali, non a quelle di città. Col crescere della comunità cristiana in una stessa città 0 in un distretto amministrativo, sorge la necessità di un 146
cultuale; ento ecc1esiale a. prevalente carattere . . , decentram l cwe ur e comu, ptcco » h an b Ie c parroc « le � . co sì nascono 1eb rava ce stcuramente e c h 1tero, b pres un capo a ca con �1 di Serdica, can . 6). Troviamo i Concilio (cfr . tia aris 1 eu c h'1ale m E gttto g1a a11a fine ·mi inizi del sistema parrocc città c� me R� m� , Ales � andria, grandi nelle ecolo; III s e anche ne r centn d1 �ed1� g:an: co Milano, , hia r� tioc . . An . edra, S I costrUiscono drversr edrfic1 d1 dezza com e Nicom ' oma viene divisa in circoscrizioni pastorali, in culto. R una domus ecclesiae, un edificio ognuna delle quali vi era del �lero, che nel IV secol� itazione I'a e per il culto m questo stesso secolo s1 Inoltre tztulus. mata chia veniva cos truisc ono oratori e chiese rurali nei piccoli centri abi tati , cioè nelle villae (tenute), nei vici (villaggi), soprattut to in quelle diocesi molto estese, perché la popolazione potesse partecipare al culto. In Occide nte il sistema parrocchiale si diffonde in Spagna e in Gallia nel corso del V e VI secolo. Per opporsi alla moltiplicazione delle sedi episcopali, il concilio di Serdica aveva stabilito che nei villaggi o piccoli centri era sufficiente un prete, senza ricorrere alla nomina di un vescovo (can. 6) . Comunque sia le chiese urbane che rura li non sedi episcopali avevano scarsa autonomia, perché solo la cattedrale aveva il battistero e in essa normal mente dovevano convenire tutti i fedeli. Durante il VI secolo il sistema parrocchiale acquista maggiore autono mia e i presbiteri svolgono maggiori funzioni : celebrare l'eucaristia, battezzare, riconciliare i peccatori; erano considerati però delegati dei vescovi. Le comunità locali si sentivano parte integrante della chi esa universale, intesa non come una federazione di chiese locali, ma come una unità nella sua origine e nel s�o essere. Le chiese locali, pur autonome e primitive nspetto a ogni altra struttura, per conservare tale unità crearono altri mezzi di comunione reciproca sopradioce s�na. I vescovi, personificazioni e rappresentanti delle nsp ttive chies e, erano di uguali diritti ma reciprocamen � drpendenti. Questa idea viene espressa nello stesso rito 1 o rdin azio ne; alcuni di essi però hanno un privilegio di nore risp etto agli altri, o perché la loro sed e era una . ondazwne a�ostolica o perché la loro città era importan . t per ra o g� �:u poli tiche, culturali, economiche o religiose. ue sto Prtvlle gio di onore include una certa autorità, in ·
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quanto le chiese v1cme fanno riferimento al vescovo di questa città, per le ordinazioni episcopali e le assemblee sinodali. Tali riunioni erano composte dai vescovi dello stesso territorio, che poteva anche non coincidere con la struttura amministrativa romana, cioè la provincia. In tal modo già dal III secolo sorgono, non in ogni parte però federazioni provinciali ecclesiastiche. Queste non sempr� ricalcano i confini delle province; infatti una città come Antiochia aveva un influsso che andava dalla Palestina al Mar Nero; Alessandria abbracciava tutto l'Egitto fino alla Cirenaica; Cartagine emergeva su tutta l'Africa. Il canone 6 del concilio di Nicea ammette e consacra la struttura sopradiocesana con le circoscrizioni metropoli tane, riconoscendo inoltre alle chiese di Roma, di Ales sandria e di Antiochia maggiori diritti rispetto alle altre chiese (22) su più ampia estensione geografica. Il concilio di Nicea fa spesso riferimento all'organizzazione metropo litana: in ogni provincia (eparchia) due volte all'anno si tengano dei sinodi (can. 5) ; nelle ordinazioni episcopali devono convenire possibilmente tutti i vescovi della pro vincia ed è richiesto il consenso del metropolita (can. 4), cioè il vescovo della metropolis, la capitale della provin cia (23). Il metropolita era il centro della comunione pro vinciale (eparchia) : « Conviene che i vescovi di ogni co munità sappiano chi è il loro p rimus (metropolita) e che non facciano nulla al di fuori della propria chiesa senza (22) Tradizionalmente si pensarva che il canone 6 di Nicea, in un certo senso, già ammettesse i patriarcati di queste città, interpre tazione avallata dal concilio di Costantinopoli del 381, con evi dente forzatura del testo ; studi recenti invece hanno dimostrato che Nicea riconosce solo la struttura metropolitana-provinciale, facendo alcune eccezioni. Cfr. M. R. Cataudella, Intorno al VI ca none del concilio di Nicea, in Atti Accad. Scienze di Torino, Classe Scienze Mor. Star. 103 ( 1 969) 379-421 ; A. de Halleux, L'istitution patriarcale et la pentarchie. Un point de vue orthodoxe, in Rev. Théol. Louvain 3 ( 1 972) 177-199, particolarmente pag. 181 ss. (23) Il vescovo della metropoli era denominato metropolitanus, me tropolites ; in Africa anche primas, episcopus primae cathedrae (cfr. Agostino Epist. 43, 5, 15 ; 53, 2, 4 ; 88, 3 ; Contra Cresc. 3, 27,30) . Il titolo di arcivescovo (archiepiscopus) non era sinonimo di me tropolita, ma :fino alla fine del sec. V si adoperava per indicare i vescovi delle grandi sedi ed era quasi sinonimo di patriarca, benché questo ultimo vocabolo divenne poi termine tecnico, e ino_It re a volte si applicava occasionalmente ai vescovi delle metropoli, 0
di altre importanti sedi. 148
prima consultati con lui .... Ma anche . il primus. es sersi· nulla senza consul tarsi con gl"1 al tn » (Canom cia c non fa . 9). Il concilio di Antiochia del 341 precisa can ci toli pos ha la cura dell'intera prorr: il metropolita a o: egli cara . . an . ·a, ha il posto d1 onore e ogm vescovo non puo, apevinCI · ·o (can. 9) . suo ternton rare al di fuori del . . greci, usano 1a paro 1a soprattutto antichi, 1 docum enti indicare l'autorità del metropolita, che per é) (tim e 0 or uarda la creazione di nuovi vescovi, i concili provincia il diri tto di appello a lui, e tutti gli affari interdiocesani. Lo sviluppo dell'organizzazione metropolitana non è omogenea in tutto l'impero romano ; anche in questo l'Oriente precede l'Occidente. In Gallia e in Spagna essa è piena mente sviluppata solo nella seconda metà del secolo IV. Inoltre in Africa mentre nella Proconsularis il metropoli ta - detto primate - era il vescovo di Cartagine, nelle altre province era il vescovo più anziano per ordinazione. Anche le ristrutturazioni amministrative romane avevano ripercussioni nell'organizzazione ecclesiastica, così che la riunione o la suddivisione di province o il cambio della metropoli civile avevano immediata conseguenza nelle strutture ecclesiastiche, con litigi e strascichi tra i vesco vi. Spesso in tali casi si cercava un compromesso per non turbare troppo le situazioni acquisite. II concilio di Nicea aveva messo un po' di ordine nella struttura organizzativa dei ranghi superiori delle autorità ecclesiastiche , ma lasciò diversi problemi irrisolti, perché in genere aveva cercato di rendere di diritto delle situa zioni di fatto. Anche i concili successivi si comportarono alla stessa maniera; questo modo di procedere dava adito a vescovi ambiziosi a introdurre novità e abusi, che suc . c��sivam�nte sarebbero stati legittimati in un futuro con Cibo . È mtere ssante notare come i concili o altre auto rità in ogni circostanza dichiarino con una noiosa mono tonia, di volere essere fedeli « ali� consuetudine e ai ca noni dei Padri » ; in realtà a volte proprio i canoni e spressamente citati vengono forzati per assumere un nuovo si nificato. Un caso tipico di questo modo di pro � cedere nguarda il canone 6 del concilio di Nicea - del ., quale gm ' fatto parola -, che nel concilio di CostanSI· e t"mopoli subis ce una revisione e un ampliamento per con cedere alla sede episcopale costantinopolitana il secondo ·
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posto dopo quello di Roma (canoni 2 e 3) e nel concilio di Calcedonia del 451 fonda il yatriarcato della Nuova . . Roma (can. 28). Cartagme, che di fatto esercitava i nflusso su tutta l'Africa, non arrivò mai a tale grado. Dagli anni del concilio di Nicea del 325 a quello di Calce donia del 451 si hanno una evoluzione e un assest amento della struttura sopra-metropolitana che sfocia nella con sacrazione di cinque patriarcati (pentarchia) , con le ri spettive zone di influenza. Anche in questo caso i concili riconoscono situazioni di fatto, portando a soluzione al cuni problemi non affrontati a Nicea, come il riconosci mento di un'autorità più alta dei metropoliti. Per questo nuovo ufficio all'inizio si usò il termine di metropolita, ma già dalla metà del secolo V fu introdotto quello di patriarca, che si impose definitivamente prima di Giusti niano. A metà del secolo V le grandi sedi ecclesiastiche, per ordine decrescente di onore sono: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Il vescovo di Ro ma, primo nella scala in rapporto a tutte le chiese, era considerato il patriarca dell'Occidente, con le sue varie sfere di influenza (24). Il vescovo della Nuova Roma terminologia preferita dal concilio di Calcedonia - è il patriarca delle diocesi civili della Tracia, del Ponto e dell'Asia . La sua autorità era andata continuamente cre scendo ed estendendosi. Il primo grande passo avvenne nel 3 8 1 , quando il concilio di Costantinopoli sancì che il vescovo della Nuova Roma doveva avere, il primato di onore tra le chiese orientali (can. 3), adducendo motiva zioni politiche; Roma, per lungo tempo, non riconobbe questa novità (cfr. Leone M. Epist. 106, 5), ritenendo la precedente gerarchia delle sedi, che si considerava legate all'apostolo Pietro: Roma - dove Pietro era morto -; Alessandria - fondata da Marco, discepolo di Pietro -; Antiochia - dove Pietro v'era stato per un certo perio do -. Il papa riconobbe formalmente la pentarchia solo nel concilio del Laterano del 125 1 , mentre dal tempo di papa Bonifacio (41 8-422) ammetteva solo la triarchia (Roma, Alessandria, Antiochia) . Diversi fattori contribuirono all'ascesa di Costantinopoli: l'azione dei suoi vescovi che, per zelo o per ambizione, (24) Cfr. il paragrafo precedente a proposito del primato del papa .
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casi, si esercitava anche oltre i confini della secondo i · 1mpena · I e; la pre· · .' deIl'appoggio la poss1· b1· l 1ta . provl·ncia· 1 1 suo 1 e con senato; 1a presenza impena sede della senza · · . "ttà del sinodo permament e, composto da1 vescovi che 1f! ovavano nella capitale per i motivi più diversi, che di appello per richieste di 1 enne una specie di tribunale di Calcedonia del 451 (canoni 9; concilio og i genere. II · · · non nonostant e creatasi, s1tuazwne l a nosce rico l 7 e 28) Roma, e Costantinopoli diventa non solo di ni osizio opp le sede del patri arcato delle diocesi pontica, tracica e asia na' ma il secondo grado di giurisdizione dopo Roma, con un potere effettivo, anche se non sempre definibile, per tutto l'Oriente (cfr. Codice di Teodosio 1 6 , 2, 45), con il titolo dì patriarca ecumenico per il suo vescovo già dal l'inizio del VI secolo. Tale appellativo veniva dato a ve scovi che avevano una più ampia giurisdizione; ma alla fine del secolo gli si volle dare a Costantinopoli significa to più specifico, per indicare la maggiore autorità di quel patriarca. Benché Gregorio Magno si fosse opposto, il titolo è restato fino ad oggi. Il terzo patriarca era il vescovo di Alessandria, che già dal III secolo godeva prestigio in tutto l'Egitto. La sua autorità si estendeva fino alla Cirenaica e all'Etiopia. In questo vasto territorio non c'erano metropoliti, almeno dal IV secolo in poi, nonostante che esso fosse diviso in province e una parte fosse oltre i confini dell'Impero romano. Il vescovo di Alessandria o un suo delegato con sacrava tutti i vescovi, convocava i concili e li presiedeva; spesso decideva per tutti. Questi suoi diritti furono rico nosciut i già dal concilio di Nicea (can. 6) e confermati successivamente. Ma a Calcedonia Alessandria fu degra data al terzo rango. Antiochia, che a Nicea aveva visto riconosciuti i suoi diritti senza specificazioni geografiche, estendeva la sua giurisdizione nella vasta diocesi civile dell'Oriente · il suo influsso però era minimo oltre i confini dell'Im ero ro mano. Gerusalemme invece - che fu chiamata Aelia Capi tolina da Adriano fino a Costantin - dipendeva dal me o tropolita di Cesarea di Palestina, pur avendo ricevuto atte� tati di onore al concilio di Nicea. In quello di Calce doma, con tro i diritti acquisiti del patriarca di Antiochia, Per un compromesso raggiunto tra i vescovi delle due ,
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sedi, divenne sede patriarcale per le tre province della Palestina. Anche in questo caso, non ostante l'opposizione romana l'assestamento geografico circoscrizionale e giuridico ope: rato al concilio di Calcedonia, dopo un periodo di rodag gio perché il sistema funzionasse e si integrasse piena mente nella struttura sinodale e statale, entrò in vigore in Oriente e ricevette la sanzione imperiale definitiva da Giustiniano, che con numerose leggi definì i risvolti giu ridici e le rispettive competenze. Egli convocò nel 553 un concilio, il V nella serie di quelli detti ecumenici, su precisa base patriarcale, che si svolse però senza e contro papa Vigilio, e fu riconosciuto da Roma solo più tardi. In Occidente Aquileia si arrogò per un certo periodo il titolo di patriarcato nel VI secolo ; da esso deriva, nel l'VIII secolo, questo titolo attribuito al vescovo di Venezia. Anche altre sedi episcopali in tempi posteriori si attribui ranno il titolo di patriarcato . A questo punto, prima di concludere il paragrafo, è ne cessario svolgere qualche considerazione di carattere ge nerale. Sono state volutamente lasciate fuori le strutture ecclesiastiche superiori delle comunità cristiane situate al di fuori dei confini dell'Impero romano, le quale si vanno costituendo dal IV secolo in poi: Armenia, Georgia, Per sia, Etiopia, Irlanda ... Esse, per ciascuna regione, hanno aspetti così diversi da non essere facilmente unificabili. Inoltre anche l'esposizione fatta fin qui ha più carattere teologico-canonico che storico, semplificando notevolmen te tuttavia le disposizioni conciliari canoniche, che pre sentano notevoli difficoltà di armonizzazione, essendo una legislazione in fieri e tendente a rendere di diritto situa zioni di fatto, cioè consuetudini più o meno consolidate. Ripercorrere storicamente i primi cinque secoli per vedere come si siano create tali situazioni è molto difficile, per ché si dovrebbe tratteggiare una storia di anarchie, di rivendicazioni, di rifiuti, di lotte e ambizioni, di zelo per il bene, il tutto frammisto a speculazioni teologiche ed esegetiche e ad argomenti storici. Per difendere diritti acquisiti o rifiutare le pretese di una sede metropolitana su una episcopale, oppure di una sede patriarcale su ambedue, assumeva importanza asso luta il rito della consacrazione episcopale, che conferiva una specie di maternità, e quindi di dipendenza, della 152
covo consacrante rispetto a quella del consa sede del ves sto, a livello canonico-liturgico, la storia dei que er P to cr � i di comunità locali in circoscrizioni più ment r gr ppa a storia delle ordinazioni episcopali; lo duce ri si ste ricercare, in ogni caso, perché e dovrebbe erò p co ori t crearsi una determinata situazione di a venuta come sia i di d pendenza delle sedi episcopali tra di e mazia re sup loro. Il sistema delle province ecclesiastiche, metropolita ne prima e patriarcali poi, non coincideva con le suddivi sioni amministrative dell'Impero, anche se in effetti ci furono numerose somiglianze; il fattore politico in genere era determinante, tuttavia altri elementi entravano in gioco, come l'apostolicità, la cultura, il prestigio della ci ttà Una tale organizzazione ecclesiastica non produce un di ritto divino - eccetto il caso del vescovo di Roma -, ma è nata solo per esigenze di maggiore comunione ecclesiale e per risolvere problemi di fede e di disciplina a livello sempre più ampio (25) .
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( 25) Come sI· e, . g1a VIsto, diverse usanze erano sorte per mantenere quest comun . di 1e ere con wne, tra le più importanti vi era l'invio reciproco professione di fede in occasione di una nuova ele. zione Patnar cale.
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BIBLIOGRAFIA
Gran parte delle indicazioni bibliografiche date nel capitolo prec dente valgono anche per questo capitolo. Qui in partico lare ve gono segnalati studi specifici sull ' argomento, alcuni dei quali ric chi di altra bibliografia.
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i l fenomeno monastico
1 . Monachesimi e monachesimo cristiano
Studi recenti hanno richiamato l 'attenzione sul monache simo come fenomeno comune a più religioni e avente numerosi caratteri sostanzialmente coincidenti, pur nelle diversità proprie di ciascuna religione. Tali coincidenze giustificano anche l'adozione di un vocabolario « monasti co » per designare i vari elementi : monaco, abate, novi ziato, monastero ... per i diversi monachesimi. Esistereb bero elementi costitutivi che generano anche alcune strutture comuni di carattere psicosociale della vita mo nastica. Anzi tutto il monachesimo si presenta come fenomeno di persone solitarie o viventi in comunità, separate dall'am biente circostante, non solo psicologicamente ma anche con modi di vita loro propri. Entrare nel gruppo compor ta una progressiva iniziazione religiosa e ascetica, con un noviziato e una professione religiosa, che suggella la definitiva ammissione. Nella vita comunitaria, una volta entrati, le mancanze sono punite, nei casi gravi, con l'e sclusione da essa, mediante l'espulsione. La separazione dagli altri può essere espressa in vari modi: una clausura più o meno stretta, un abito, un taglio di capelli, un nuovo nome, ecc. Altri elementi costitutivi sono: il celi bato, temporaneo o perpetuo, quasi dovunque presente; la povertà espressa con una comunione di beni, come segno di un distacco interiore, qualora non si sia dei solitari - la povertà però ha carattere individuale, non e_ della comunità in quanto tale -; una varietà di pratiche ascetiche. 156
si atteng�n? ad alcune reg�le e sono diret.te Le comuni tà re, a cm e do�uta ?bb ed1enza � sottom1s� perio su da un . . e Povertà e comunanza di bem, celibato e Impegno d1 � tre voti t�adizionali pe � edienza a un superiore ogm monaches1mo. Quanto SI fondano olico catt u Ilo concludere a che il monachesimo è porta � etto fin qui un atteggiamento del di dell'uomo, sità religio rutto delle cerca all'uomo stesso, dell'aldisopra in umano rito l spi realtà terrestri. liberazione dalle una te median le gibi tin a meglio o mezzi, conseguenze soltanto sono » e Le << rinunc << Conviene dire che il mona fondo. di mento teggia l'at del che simo non dovrebbe essere considerato semplicemente come il prodotto contingente di influssi storici, siano essi semplici o comples si . Accanto alle motivazioni ideologiche eredi tate da altri, bisogna fare un largo spazio alle moti vazioni psicologiche provenienti dalla coscienza religiosa: per questo il monachesimo potrebbe corrispondere a una creazione spontanea, nella misura in cui esso esprime l'esigenza di unità, l'esclusivismo che deriva dalla adesio ne ad un assoluto, che, per sua stessa natura, relativizza e tende a escludere tutto il resto. In tal modo il monache simo, apparendo come un fenomeno religioso provvisto di una propria struttura, è potuto nascere, in altri tempi e in altri luoghi, fuori di ogni influsso sia dell'ellenismo sia del giudaismo >> (A . Guillaumont, Aux origines du mona chisme , Bellefontaine 1979, p . 2 1 8) . Nel bacino del Mediterraneo noi conosciamo i pitagorici, gli esseni, i terapeuti, i katochoi addetti al culto di Sera pide in Egitto, i manichei, i monaci sufiti nel Medioevo; per l'Asia medio-orientale i più conosciuti sono i mona chesimi indù e buddista. Una volta ammessa la possibilità che il monachesimo possa essere frutto di un atteggia mento dello spirito religioso dell'uomo, la questione dei vari influssi reciproci perde la carica polemica, che aveva 1I?- passato, e l'interesse maggi ore si sposta sulle motiva Zioni sottintese nei vari monachesimi . Qui le diversità son� radicali e ogni forma monastica ha le sue specifiche motivazioni. Ciò non toglie che vi siano anche motivazioni � muni, soprat tutto quella della ricerca e dell'unione con 1 trascende nte . Tuttavia esse dipendono, in genere, dal credo religioso, dalle condizioni sociali e culturali dei vari P opoli e possono variare all'interno di una stessa religio ne.
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I motivi addotti dagli antichi monaci cristiani sono una ripresa e uno sviluppo della primitiva ascesi cristiana, e a volte una cristianizzazione di idee e pratiche di altra ori gine . Una motivazione tipicamente cristiana è l'imitazione di Cristo, la sua sequela, così come viene drammatica mente esposto nella decisione di Antonio riferita da Ata nasio: << Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando com'era sua abitudine se ne andava in chiesa, raccogliendosi nella propria mente e pensando a tutto: come gli apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore, come gli uomini di cui parlano gli Atti degli apostoli vendessero i loro beni ... Pensando a queste cose, entrò in chiesa e gli accadde di ascoltare la lettura di un passo evangelico in cui ascoltò il Signore dire al ricco: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, e poi vieni, seguimi, e avrai un tesoro nei cieli ». Antonio ... convinto che quel passo e vangelico fosse stato letto per lui, uscì subito dalla chiesa e donò i suoi possedimenti ai concittadini ... Entrato di nuovo in chiesa, non appena sentì il Signore che diceva nel vangelo: « non preoccupatevi del domani >>, subito u scì e distribuì ai poveri il denaro che aveva conservato » (Vita di Antonio 2-3).
Il monaco, volendo seguire concretamente Cristo lo fa « imitando la sua verginità, la sua rinuncia nei riguardi di qualsiasi interesse terreno, la sua sottomissione alla vo lontà del Padre e il suo amore per Lui; si è voluto partecipare al suo mistero unendosi in modo particolare alla sua croce, riproducendo alcune delle sue azioni, come la solitudine nel deserto, il suo digiuno, la sua lotta con tro i demoni, i suoi lunghi momenti di preghiera . Si è voluto rispondere all'appello alla penitenza, alla conver sione, al cambiamento di vita e di mentalità che egli aveva rivolto . Si è voluto realizzare in maniera radicale l'impegno preso nei suoi riguardi con i1 Battesimo, o ttenere sicuramente il perdono dei peccati, ricevere pienamente il suo Spirito, acquistare abbondantemente la sua grazia, entrare, ne� suoi confronti, in quella relazione tra sposo e sposa dl cui parlano i Vangeli, san Paolo, l'Apocalisse, dimostrare che si poteva soffrire per Lui come i martiri e servire la sua Chiesa, con la stessa generosità con cui l'avevano fatto i suoi primi discepoli. Tutti questi temi venivano 158
dal Vangelo e dagli scritti apostolici » (J. . direttamente Istituti Perfezione 5, 1679 s). . Leciercq , Diz. . . o cnstiano fa sempre n"fenmento a Cristo sim I1 onache bile senza di lui. Il richiamo alla prima ed �e inconcepi lemme e 11 punto 1sp1ratore de11a reGerusa di nità u . com . . . crola agostiniana; anz1 per Cass1ano . 1a v1t� ceno b"It�ca h� _ _ "' to la sua pnma espresswne e mcentlvo propno dm av mi cristiani (Conferenz e 18, 5: Sources Chrét. 64, 14-16) . vita mona� tica � iene riallacciata al martirio �d è �l in cui s1 espnme Il nuovo ermsmo nella ch1esa; 11 odo m martirio fu la sofferenza di un momento, la vita monasti che è un continuo martirio, un cotidianum martyrium (Girolamo, Epist. 3, 5; 108, 3 1 ) . L'impegno monastico viene detto anche secondo battesimo, in quanto è una rinunzia più effettiva a satana, compiuta già nel battesimo . Esso inoltre viene concepito come lotta continua, militia spiri tual is contro le cattive abitudini e soprattutto contro i demoni, che, secondo l'antica credenza, abitavano partico larmente nei deserti . Antonio li va a scovare e ingaggia una lotta con essi nel loro stesso terreno. Per questo il monaco si impegna « non ad quietem, non ad securita tem, sed ad pugnam, ad certamen, ad agonem » (Fausto di Riez, Sermo 23, CSEL 2 1 , 314). Egli non può essere perfetto nella sua patria (Girolamo, Epist. 1 4 , 7), per cui è neces sario staccarsi dal suo ambiente e recarsi altrove (xenì teia) , secondo l'esempio di Abramo: « vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre » (Genesi 12, 1). Il cambiamento di vita nel monachesimo implica un cambiamento di residenza e il distacco dalle cose pre cedenti: è anche un esodo spirituale . Il monaco può restaurare la condizione paradisiaca di Adamo e condurre una vita angelica, nel senso della vita contemplativa, della preghiera, dell'innocenza di vita e dell 'a�monia raggiunta in se stessi. Per questo l'intensa asces1 non è frutto di una concezione dualistica o del �isprezzo del corpo - aspetti presenti nei neoplatonici o 1� sette eretiche cristiane, - ma aspirazione a una mag giore realizzazione della vocazion e cristiana in vista della c?n�izi ne paradi siaca primitiva (1). Il monaco però non � SI r n � chiude egoisticamente in se stesso; nella sua solitudi ne e un aiuto per i fratelli nella fede. « I monaci rendono
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-( !) Cfr . D . J.
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Chitty,
The Desert
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City,
Oxford
1966, pag. 4.
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grazie per tutti gli uomini come se fossero i padri dell'in tera umanità; ringraziano Dio per tutti e si esercitano in una vera fraternità » (Giovanni Crisost., In Matth . 5 5 5 · PG 58, 547) . « Il monaco è colui che è separato da tutti 'ed è unito a tutti » (Evagrio, Trattato sulla perf . 124 : PG 79, 1 1 93C) . Come l'ascetismo dei primi secoli, così anche il monache simo iniziato nel IV secolo aveva carattere fondamental mente laicale e non sacerdotale . Però si crearono per tempo due correnti: una ammetteva l'esistenza del mona co sacerdote o vescovo, l'altra invece l'escludeva, perché, secondo questa visione spirituale, il monaco è colui che si dedica all'ascesi, intesa come conquista, e alla contempla zione, mentre il sacerdozio implica la vita attiva. Tuttavia molti monaci, soprattutto in certe regioni, vennero chia mati all'episcopato, e la prassi nel V e nel VI secolo divenne sempre più diffusa: è il caso dei monaci-vescovi . Certe chiese molto frequentate dai fedeli o dai pellegrini sono accudite da una comunità religiosa, che si dedica alla liturgia . Questa diventa posteriormente una nota ca ratteristica del monachesimo, nel senso che i monaci si impegnano a svolgere bene le celebrazioni liturgiche, in quanto queste sono l'immagine del cielo sulla terra. Il monaco, soprattutto in Oriente, è colui che attraverso lo sforzo lungo e continuo diventa l'« uomo di Dio », e perciò ha una grande autorità sui fedeli, parallela ma non opposta a quella del vescovo . Egli può svolgere la dire zione spirituale, non in quanto maestro che istruisce, ma come vero padre spirituale; per questa funzione pubblica non aveva bisogno del sacerdozio ma della sua preghiera e della fiducia della gente in lui . La direzione spirituale naturalmente sfociava nella confessione. Spesso ci si con fessava al monaco, che non era sacerdote: prassi molto diffusa in Oriente . Il monaco era l'uomo libero per eccel lenza, era l'uomo di frontiera in ogni senso. 2. Le origini del monachesimo
Non si possono determinare le origini del monachesimo cristiano, facendolo risalire a un fondatore specifico o a un legislatore. Tuttavia nei secoli successivi ci si è sem� pre richiamati ai modelli del IV secolo per attingere 1 160
. ri di ogni monachesimo cristiano. Il . ricor. mo tIVI· ispirato sempre stato ne11a stona monastica un è gini Ile ori vamento e di fedeltà a un ideale, a un rinno di ente o re . vive di o . od . . . . . . . . m tlci _n? n _cnstlam � �o?aches1m1 simi Gli antecedenti asc� come gm si e accennato nel r1 ati da altri credi rehgwsi, zioni dello stesso bisono manifesta edente, prec fo agra pa · ' probi ema se · fa pm e non uomo, oggi Il' de oso s ogno religi nascente. I cristiano su quello influito no ppure o no bbia rimi monaci cristiani, per . gi� st_i�care il l�r? modo di vivere, ricorrevano a modelli biblici e a motiVI soprattut to neotestamentari . È innegabile però l'influsso di idee provenienti dalla cultura greco-romana sulla letteratura monas tica, come non è da escludere che particolari con dizioni sociali e politiche, almeno in certi casi, abbiano spinto alcuni a rifugiarsi nel monachesimo. In realtà il monachesimo del IV secolo va piuttosto collocato nella linea dello sviluppo e dell'organizzazione di quelle forme ascetiche esistite già dai tempi neotestamentari. « È quindi impossibile fare di questi grandi santi (es . Antonio e Pacomio in Egitto) degli iniziatori, dei fondatori nel senso proprio della parola. La storia vede la loro voca zione come quella d'un giudizioso discernimento in mezzo a una intensa fermentazione; a una lettura attenta, è proprio questo che attestano le fonti, le quali lodano più il discernimento degli spiriti che l'iniziativa rivoluzionaria o, in senso più largo, la creazione autonoma, il progetto personale e nuovo di un Antonio o di Pacomio » (2) . Le primitive comunità cristiane praticavano forme asceti che con rigorismo morale notevole anche se esso almeno ii?- certi gruppi, era più di principi� che realment� sempre v�ssuto . Sappiamo dell'esistenza di persone che abbrac Ciav�n? il celibato o la verginità e venivano chiamati vergmi (le donne) e continenti (gli uomini) . Successiva ment� saranno chiamati asceti, dalla parola greca askeo, es�rc� tarsi . Scrive Atenagora, nel II secolo, che tra cri i sti am esistono << uomini e donne che invecchiano nella
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i;>co:rs[-Uh_Gri_di)Jomont, Pe n:ezi �ne
in: Dizionario degli V, 1684 . Questo vasto Dizionario ancora in di pubb! Icazwne è di notevole valore scientifico e offre una atti m t ratta zione pe r tutti gli argomenti toccati in questo capi· a tolo c me p ur: �ei personaggi nominati . Essendo opera recente, an che a sua bibliografia è aggiornat a. Il monachesimo orientale,
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verginità in seno alla nostra comunità per unirsi più in. timamente a Dio » (Supplica 30) . Mentre gli uomini gode. vano di maggiore libertà, la chiesa aveva speciale cura delle vergini o delle vedove (3), che si impegnavano a restare tali. La loro caratteristica fondamentale era il celibato; però si impegnavano anche ad alcune pratiche ascetiche, come veglie, preghiere e digiuni . Il significato primitivo di monaco era proprio quello di persona celibe prima che passasse a indicare una persona che vive ap: partata. Eusebio di Cesarea, all'inizio del IV secolo, scri ve: " Nella chiesa di Cristo ci sono due generi di modi di vivere; il primo supera la natura e la condotta normale escludendo il matrimonio, la figliolanza, le ricchezze, i possedimenti; distaccandosi completamente dal comune modo di vivere, si dedica esclusivamente al culto di Dio ripieno di un immenso amore per le cose celesti. Quest� persone, quasi separate da questa vita mortale, restando in terra con il solo corpo, sono in cielo per l'affetto e i pensieri . . » (Demonstratio evang. l , 8 : PG 33, 76). Questo gruppo, di cui parla Eusebio con tanta ammirazione, era costituito precisamente dalle « vergini di Cristo >> e dai continenti. Ora questi asceti vivevano non separati dagli altri cristiani e la comunità tutta aveva un certo riguardo verso di loro, in modo particolare delle vergini; nel mo mento in cui si sente il bisogno di appartarsi, di vivere separati da essa, magari da solitari o in gruppo, allora sorge il monachesimo, che nel IV secolo si presenta come movimento parallelo a quello tradizionale ascetico, che era di carattere individuale ma riconosciuto dalla chies a. « Le affinità tra gli asceti premonastici e i monaci mede simi e le loro istituzioni sono tali, che è difficile dire con certezza se certi individui o gruppi debbano classificarsi tra i primi o tra i secondi >> (G. M. Colombas, Diz. Ist. Perf. l, 922). Per i primi secoli constatiamo una varietà di asceti dal regime di vita diverso secondo le varie regioni e addirit· tura nell'ambito di una stessa zona. I siri erano portati a un maggiore rigorismo rispetto agli occidentali; anzi tra di essi c'era la tendenza ad ammettere al battesimo solo coloro che rinunciavano all'uso del matrimonio, se sposa· .
(3) Delle vedove e delle vergini già ho trattato nel capitolo secondo di quest 'opera .
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.. o discenden ti possono essere i celibatari del IV t i , 1· lor al 0 i cosid detti figli del patto -, che erano . . , seco1 l IV l seco o esist an n ne ora A ta . um �� � � della com servizio ovaghi, non 1 egati a un 1 uogo , e spesso cntlcatl . . monaci gir che posse dev � no maggiOr senso. d"1 d"� scermrJ? � nda quelli ilibrio. Persmo nel gruppo scismatlco mehzia to e di equ ad Atanasio in Egitto, esistevano dei monaci. rio cont ra si tenta di disciplinare e dare norme con olo sec IV l rtamento a questi vari tipi di asceti e di crete di compo di discernere e di guidare la loro vita . sforzo ello ve rgini n sono fenomeni spontanei monachesimo il e mo etis asc L' che nascono e si sviluppano al margine della grande chie sa. L'autorità ecclesiastica ne approva alcuni e respinge _
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altri seco ndo i criteri dell'autenticità evangelica. « Il mo nache simo cristiano fu fin dall'inizio un fenomeno selvag gio che fu necessario addomesticare; fu una manifesta zione di "marginalità", che dovette essere " recuperata", integrata nella società religiosa e secolare. Ai vescovi, detentori dell'autorità nella Chiesa, toccò il compito di "evangelizzare" questo monachesimo spontaneo, di ve rificarne l'ispirazione evangelica, di purificarlo, di conso lidarlo, secondo i casi ,, (J. Leclercq, Diz. Ist. Perf . 6, 168 1 ) . È quanto fecero Atanasio per l'eremitismo di Antonio e dei suoi seguaci, Basilio con il suo Asketicon, i concili dell'Asia Minore nei riguardi dei seguaci di Eusta zio di Sebaste o dei messaliani (4), Agostino, Sulpicio Se vero e anche le leggi imperiali, sicuramente ispirate dal l'autorità ecclesiastica (es. Codice Teod. 16, 5, 7 e 1 1 ) . Gli individui o i movimenti riconosciuti sono quelli che ave vano rapporti di rispetto, di collaborazione e di sottomis sione ai vescovi e, pur vivendo ai margini della comunità cris tiana, influivano su di essa con la loro contestazione d�lla morale corrente e la proposta di ideali più alti di VIta senza pratic are un falso dualismo tra loro, i perfetti, e gh_ altr i, i peccato ri. el resto anche le grandi personalità monastiche erano I mpegnate a convogl iare le forze centrifughe e a discipli-
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(4) Bas ilio scris se . . ? nma . 1.1 p.zcco1o as k etzcon, composto d1 203 nsposte e trad tto m latmo � g da Rufina con il . nome che di Re ola, fu l ' co o monastico basiliano conosciuto in Occidente ; Poi r Iasse s�ntt 1l G rande As k eticon, che è un rimaneggiamento e un ampli m to dei P_rimo e si suddivide a sua volta in Piccole Regol _ que st10m, e Grandi Regole, 313 questioni. ·
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narne le migliori aspirazioni. Queste caratteristiche ven gono espresse con il termine tecnico di discernimento (diacrisis, in greco; discretio, in latino); ed è quanto vie ne apprezzato e lodato di loro nelle fonti. Quando si parla di monachesimo, normalmente ci si riferisce a quel lo copto, nato in Egitto come eremitismo con Antoni o e trasformato da Pacomio in cenobitismo, cioè in vita co mune, e riformato da Basilio di Cesarea. Tale monache simo si diffuse dovunque. Questa impostazione s torica tradizionale oggi viene comunemente rifiutata, perché gli stessi antichi parlavano di « diverse classi di monaci >> indipendentemente dalle loro origini storico-geografiche: Egeria, nel suo Diario di viaggio della fine del IV secolo, chiama monaci tutti i vari tipi di asceti incontrati duran te il suo pellegrinaggio in Oriente. Per questo il mona chesimo, esprimendosi nell'antichità in varietà notevole di forme di vita, sorse nelle diverse regioni come frutto maturo dell'ascetismo già praticato dovunque e non risale pertanto a una sola mente creatrice. In questo però l'E gitto ha il merito di aver dato due grandi modelli, quali Antonio e Pacomio, conosciuti nel mondo cristiano più di altri, attraverso una letteratura specifica largamente letta e tradotta, che ha assicurato loro una vasta propaganda e li ha trasformati in archetipi del monachesimo stesso (5). 3. Il monachesimo orientale
Una vasta letteratura antica ci fa conoscere l'eremitismo sviluppatosi nelle regioni desertiche del Basso Egitto. Es sa è costituita in gran parte dalle memorie redatte da visitatori stranieri attratti dalla fama degli eremiti. Im portante è anche la raccolta delle sentenze dei grandi eremiti (Apophthegmata Patrum): Antonio, Arsenio, Ma cario, Sisoè, Pafnuzio, Poimen ... Esse, sostanzialmente autentiche, ci mettono in contatto con il mondo spirituale degli anacoreti. Il primo scritto però, che ebbe prodigiosa diffusione, fu la Vita di Antonio scritta da Atanasio dopo la morte dell'eremita (t 356) , per offrire un modello da imitare da parte degli altri monaci. (5) Nei mondo Iatino erano
soprattutto conosciuti il monache: simo egiziano e in parte quello di Basilio ; mentre quello, pur cosi importante, dì lingua siriaca era quasi ignorato.
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�u �l primo anacoreta, poiché conosciamo Antonio non lm, ma fu certamente il più conosciuto d1 a im pr altri di Atanasio, che n� diffuse l'ideale e merito . . . . proprio per a1 tn monaci. Antomo, . trattenne rappo rti con 1m e con · · lll ziato a tutto, s1 mette aIl a scuol a d"1 un dop0 aver rinun alla meditazione del alla preghiera, dedica · anacoreta e si est1 g 1·1 e1 ement1· q e saranno : oro la al e tura � . . � la Scrit Dopo ncevuto anaver eremitica. VIta della entali m f nda per la sua forma c e da alt re persone spirituali consigli capacità, per pri sue le e sufficientement a provato i ne e in una fortezza prima vive deserto; nel tra inol si o abbandonata, poi va oltre, alla ricerca di maggiore solitu dine. Nel frattempo una schiera di discepoli cerca di imitare la sua vita; essi si rifanno a lui come ispiratore, non come un fondatore, di un ampio movimento spiritua le. Così vanno sorgendo colonie di celle di eremiti: « Conduceva molti altri all'amore degli esercizi spirituali; e poiché le sue parole avevano un fascino immediato, sorsero moltissime dimore di persone che conducevano vita solitaria e a tutti sovraintendeva come padre >> (Ata nasio, Vita di Antonio 15) (6) . Siamo ancora prima del 3 12, cioè della libertà ottenuta dalla chiesa. Gli eremiti si installano soprattutto nel deserto situato sulla riva occidentale del Delta, particolarmente a Nitria, Sceti e i Kellia (Celle). Si formano così come dei villaggi con qualche servizio comune per tutti e il cui punto di riferimento era la chiesa come centro del culto. Non c'era vera vita comune, ma solitari riuniti sotto la guida spiri tuale di un apa (padre). Il periodo di massima fioritura dell'anacoretismo egiziano si spinge fino al 450 circa, la sciando ai posteri una grande lezione di spiritualità. Al�ro grande personaggio egiziano del IV secolo è Paco mw che, dopo alcuni anni di vita eremitica, fondò negli : anm 320-325 un vero monastero nelle vicinanze di Taben nìsi, nell'Alto Egitto, dando luogo a una nuova esperienza dal largo successo : la vita comune dei monaci cioè il cenob"1�tlsmo. Elaborò una regola, maturata attraverso ,e �penenza. Alla sua morte (t 346) già si contano in gitto nove monasteri maschili e due femminili. I l mo nastero pacomia no non è costruito nel deserto e sembra
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(6) I seguact· dl" Antonio pertanto non vivono msteme nel senso di condurre vita comunitaria, ma
sono semplicemente eremiti.
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avere la struttura di un accampamento militare romano: d'intorno un muro, una portineria, gruppi di abitazioni per 20/40 monaci, servizi vari, un luogo di riunione . Sono comunità (Koinoniai) con molti membri, almeno alcune centinaia (le fonti dicono migliaia) sotto la guida di un superiore comune e di superiori per i vari gruppi . M olti plicandosi i monasteri, si crea una specie di superiore generale, la cui residenza è a Pbou, nella Tebaide. La regola pacomiana impone l'uguaglianza tra i membri, in genere non sacerdoti, la povertà dei singoli, l'obbedien za al superiore, lavoro, la preghiera, una formazione bi blica - per questo tut t i devono saper leggere -, ma soprattutto una comunione fraterna tra i membri. La Scrittura è un po' l'anima del cenobitismo pacomiano. Pacomio ebbe due grandi successori: Orsiesi e Teodoro, che continuarono la sua opera superando diverse difficol tà. Esistevano in Egitto nello stesso periodo altri cenobi; famoso fu il grande Convento Bianco, dove furono abati Scenute (t 4 5 1 ) e il suo successore Besa, che ne scrisse la biografia. I cenobi di solito avevano anche alle dipenden ze gruppi di solitari, che conducevano vita semieremitica. Il cenobitismo egiziano, dopo il concilio di Calcedonia del 451 divenne quasi tutto monofisita e perdette il prestigio che aveva goduto fino ad allora, risentendo molto delle lotte teologiche sviluppatesi intorno a quel concilio. La sua storia successiva è poco conosciuta. Sono tutt'oggi pochi i monasteri copti ancora esistenti, maschili e fem minili; in tutto appena quindici. Quando la pellegrina Egeria, verso la fine del secolo IV, si recò al Sinai, vi trovò degli eremiti e una chiesa dove essi celebravano la liturgia; il famoso monastero melchi ta (7) tuttora esistente risale all'imperatore Giustiniano I . Esso possiede una preziosa biblioteca. Anche intorno a Gaza, nella Palestina meridionale, si sviluppò il monache simo, e ne divenne un centro importante, dove vissero monaci scrittori, come Isaia (t 488), Barsanufio (t circa 520) e Doroteo dì Gaza (t 660). (7) Furono detti melchiti ( = imperiali) i cristiani della Siria ligi alla fede del concilio di Calcedonia e accettata dalla corte di Co stantinopoli, per derisione da parte degli altri cristiani passati al monofisìsmo.
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di pellegrin i nel secolo IV, con Pales tina, già terra del secolo sorgono le laure, metà rima p ella C an- one n . . e d a u n n�cl eo ce �era�o cos tltmt e c h luogo, del . tip iche _ ato da c � 11 e d I so 1 Itan. rvizi c? mum circond se di e . . t ral eris tico monachesimo pa1estmese fu mcreQ esto caratt u nta to sopra ttutto da Eutimio di Militene (t 473) e dal m dis cep olo Saba della Cappadocia. In Palestina, v'era s anche fondazioni di e per gli occidentali: di Melania
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� � degli ulivi, di Girolamo e Paola a Betlemme, di �ul Monte Melani a la Giovane a Gerusalemme. In questi
Piniano e e monasteri era vivo l'interesse per la cultura biblica gica. teolo I cris tiani di lingua siriaca erano portati in modo partico lare all'asce tismo; prima vi incontriamo dei rigoristi, gli encratiti, e successivamente << i figli del patto ». Spesso, già dai primi secoli, come già si è accennato, l'ammissio ne al battesimo comportava la rinunzia alla vita matri moniale. Gli asceti tuttavia erano inseriti nella vita ordi naria della chiesa locale . L'origine del monachesimo siro sembra che sia autoctona, tuttavia esso ben presto subì l'influsso egiziano. Girolamo si ritira nel deserto di Calci de, a oriente di Antiochia, e la pellegrina E geria conosce il monachesimo della Mesopotamia. Per il territorio siro Teodoreto (t 466 circa) conosce sia il cenobitismo che la vita eremitica dalle forme ascetiche bizzarre ed eccentri
che. Qui fiorirono gli stiliti, cioè solitari che vivevano su una colonna. Il più famoso fu Simeone lo Stilita, che visse a lungo su un piccolo rifugio posto alla sommità di una colonna, che divenne poi u n centro di culto. È un eremit ismo verticale rispetto a quello orizzontale del de serto. Anc he in Siria incontriamo forme semieremitiche . Il monaches imo siro dei secoli IV e V non è di impronta colt a, tuttavia esso dà numerosi vescovi ed è tenuto in alt � cons ideraz ione dal popolo. Si distinse anche per l 'at _ , �IVIta evan gelizzatrice e caritativa . Non è raro incontrar e IU . Siria anche monasteri b ilingui . In Siria e Asia Minore 0 �Ienta le s i diffonde nel IV secolo un movim ento mona h o det to, con termine di origine siriaca, dei messalian i ro che prega �lO) (8), che non avevano una specifica e s tu rata orga mzzazione . Essi svalutavano il battesim o --
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(B) I mes saliani vengo no detti anche euchiti ed entusiasti (cfr. ApPendice) .
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rispetto alla preghiera; rifiutavano il matrimonio e il lavoro. Vennero condannati in più concili del tempo. Nella zona del Ponto nel IV secolo prosperano anche i discepoli di Eustazio di Sebaste, che si attengono a una severa ascesi e rifiutano il clero sposato. Basilio di Cesa rea entrò in contatto con gli eustaziani, correggendone gli estremismi e creando un cenobitismo diverso da quello pacomiano. Gli eustaziani però nelle condanne di fine del IV secolo e del V vengono considerati messaliani. Basilio di Cesarea, dopo aver visitato i monaci delle varie regioni orientali e dopo la sua esperienza personale ceno bitica, stese una prima redazione di norme di vita asceti ca (il Piccolo Asketicon) (9) e successivamente una secon da e più ampia redazione, suddivisa in due parti: la piccola e la grande regola. Per Basilio, la vita monastica, che ha per scopo l 'amore di Dio, si realizza solo nella vita comune ( koinos b ios: cenobitismo), gerarchicamente or ganizzata sotto la guida di un superiore, coadiuvata da un consiglio, e dove il lavoro è importante per vivere e per opere di carità. La Scrittura deve essere oggetto di medi tazione per il monaco. L'umanità e l'equilibrio delle regole assicurarono enorme successo al cenobitismo basiliano nel mondo bizantino. Costantinopoli, capitale dell'Impero d'Oriente, divenne anche fiorente centro monastico; infatti già nel 448 vi erano 2 3 monasteri e ben 76 nel 536 . Rinomato fu il monastero degli acèmeti, fondato da Alessandro l 'acèmeta (t 430 circa) . Gli acèmeti (gli insonni) a turno pregavano sempre per santificare tutte le ventiquattro ore della gior nata. Una filiazione degli acèmeti fu il grande monastero degli studiti (10). Il monachesimo si diffuse ben presto anche oltre i confini dell'impero romano in Oriente: in Persia e da qui in Asia centrale; in Armenia e in Georgia.
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4. Il monachesimo occidentale Le fonti per conoscere il monachesimo occidentale dei (9) Cfr. nota 4. ( 10) Nella città di Costantinopoli, verso il 422, fu fon da to un ceno bio detto Studion, dal nome del suo fondatore ; tale cenobio ebbe grande prestigio durante i secoli seguenti.
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. . li sono scarse e frammentarie rispetto a quelle pr�ml s11eco · sì abbondanti, insufficienti per conoscere la co ' ' onenta ne, l 'incidenza neIl a socteta e. l a van � ta de11 e sua diffusio ze Inoltre .esse sono qu.asl esc 1ustvamente sue esperien : mate a e d1ficare, non a m for�ar.e, �ome 1� dest e, erari lett ca, che narra solo le aZI� m d1 alcum giografi letteratura a questo la grande maggiOranza delle Per " Dio di · « uomini concreta dei monaci in territovita sulla nde doma tre nos . osta. a nsp . senz a 0 latino rest rme di vita asceti.ca eran� diffuse �nche in Occidente già prima di Costantmo. Ma 11 passaggiO da questo genere di vita al monachesim o sembra che sia avvenuto sotto l'influsso orientale. Tuttavia in Occidente non abbiamo una rigogliosa fioritura dell'eremitismo. Non c 'erano qui veri deserti e inoltre il cristianesimo, escludendo alcune regioni, era più un fatto urbano che delle campagne. L'e vangelizzazione delle campagne fu avvenimento tardivo. Per questo, ad esempio in Italia, gli eremiti si ritiravano nelle piccole isole del Tirreno prima e dell'Adriatico poi. A Roma nella seconda metà del IV secolo esistevano co munità domestiche di asceti; Agostino conosce una co munità femminile e comunità maschili intorno all'anno 387, con un superiore e l'impegno del lavoro. Anche Giro lamo accenna all'esistenza di numerosi monaci in città; egli ci fa conoscere in modo particolare circoli ascetici femminili, che però non hanno carattere popolare, come è del monachesimo orientale, ma aristocratico e familiare. Per vivere il loro ideale le ascete si ri tirano in campagna nelle proprie terre, ma spesso vanno in Oriente e fondano monasteri a Betlemme o a Gerusalemme come Melania seniore, Paola, Melanìa la giovane e su� marito Pìnia no ( 1 1 ) . La predicazione ascetica d i Girolamo a Roma aveva susci tato una forte reazione antimonastica, che conosciamo attraverso le sue stesse opere. In tale reazione si distinse ro Elvidio e Gioviniano . Questo movimento di pensiero voleva giustamente rivalutare la vita matrimoniale' ponendo l'accent o sull'importanza della fede e del battesimo gando però meriti particolari alla verginità e alle prati� e ascetiche (ess e omnium qui suum baptism a servav erint ·
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Cfr. il P aragrafo precedente, dove si è parlato del monache o della Pal es tina.
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unam in caelorum remunerationem). La corrente antimo. nastica non era però solo un fatto romano, in quanto anche in Africa e ad Antiochia esistevano avversari ne}. l'ambito stesso del cristianesimo, per non parlare di p a. gani, come Libanio, Eunapio di Sardi, Rutilio Namaziano A Roma si verifica anche un fatto singolare tra il 430 e iÌ 470: la fondazione di monasteri maschili da p arte dei papi presso alcune basiliche - S. Lorenzo, S. Sebastiano e S. Pietro - con l'obbligo da parte dei monaci di cele brarvi la lode divina. In città intorno all'anno 800 esistevano 46 istituzioni monastiche. La prima fondazione monastica conosciuta in Italia è quella di Eusebio a Vercelli, dove egli era vescovo (metà del IV sec.) conducendo vita comune con i chierici, tutti dediti alla preghiera e allo studio della Scrittura, al lavo ro manuale e a pratiche ascetiche. Durante la sua perma nenza a Milano Agostino conosce l'esistenza di un mona stero fuori le mura della città, mentre il vescovo, Ambro gio, dedica maggior cura alle vergini. Gruppi dì queste erano a Bologna e a Verona. Rufino accenna anche a un gruppo maschile esistente ad Aquileia verso il 370. Egli tradusse in latino la prima regola di Basilio con l'intento di offrire al monachesimo nascente in Italia un indirizzo unitario, senza ottenere però lo scopo prefissosi. Paolino di Nola nel 396 fonda a Nola, in Campania, una comunità, dove uomini e donne vivevano in appartamenti diversi dello stesso complesso. Da questi accenni si ricava quanto siano scarse le notizie di monasteri esistenti in territorio italiano per il IV seco lo, anche se Rufino fa capire che essi dovevano essere parecchi alla fine del secolo. Altrettanto possiamo dire per il secolo V; per quello successivo invece siamo un po più informati per merito dei Dialoghi e delle lettere di Gregorio Magno, che menziona diversi monasteri. II se· condo libro dei Dialoghi è dedicato a s. Benedetto da Norcia, che fonda i monasteri di Subiaco e di Montecas· sino. Lo stesso Gregorio ne fonda uno sul Celio a Roma: dedicato a S. Andrea, da dove partirono i quaranta mon�CI missionari, con Agostino, inviati in Inghilterra. A1tre m formazioni sulla situazione italiana riguardano Cassiodo;o (t 583), che fonda il monastero di Vivarium in Calabr�a, , ed Eugippio (t dopo il 533), che, fuggito dalla Pannonla si stabilisce presso Napoli.
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h · n Gallia esistevano all'inizio del IV secolo degli Anc il monache simo vero e proprio sorge con Mar � a_scetl , a Tours (31 6-397), che si stabilisce come uno ve scovo di · rs , a a �1guge, . �d otto. Km . a sud d·1 Pmt· 1e prim eremita 1 1 o, e ne e p to e 1, vescov 37 1 alt n erem1t . : 0 circondato da u M momag t1er � ( 1 tero armou monas il � '!1 circa, fonda a Tours. I due monasten som1g1lavano nasterium), vicino . . de Icavano al . . d" estines1 . I suoi monaci non s1 11 Iau re pal p uello ed sosten�ti astoral er ano q � m ale � _ _ � av ro manu _ contnbuti nc dai o persone di cnstmna ità omun c d Ila vit ca � esisteva N n mo�ast la a van . bbraccia a e � ch ? e c . _ na regola scritta. Diversi discepoli di Martmo furono letti vescovi . Ai suoi funerali nel 397 sarebbero stati presenti duemila monaci. Il biografo di Martino, Sulpicio S evero, fonda una comunità a Primullac (Périgord) sullo stile di quelle di Martino . Vittricio, vescovo di Rouen, fece costruire altri monasteri. All'inizio del V secolo il monachesimo della Provenza di venne molto fiorente con la comunità di Lérins (due isole di fronte a Cannes) , fondata da Onorato nel 4 10 e quella di S. Vittore iniziata a Marsiglia nel 416 da Cassiano, che vi fonda anche un monastero femminile. Il monachesimo lerinese, da cui uscirono numerosi vescovi, ha carattere più disciplinato e colto rispetto a quello di Martino per la provenienza aristocratica dei suoi membri. Cassiano, pur apprezzando l'ideale eremitico, preferiva la vita co mune all'interno della città e favoriva lo studio teologico intervenendo nei dibat titi del tempo; i suoi stessi scritti hanno influito enormemente sulla spiritualità monastica occidentale . Nel Giura sorge un altro centro monastico. I monas teri in Gallia si moltiplicheranno durante il periodo mer�vingio , ma non sempre all'inizio avevano regole mo nastiche scritte e le situazioni erano molto fluttuanti Len . t�mente si impose la regola benedetti na, soprattutto per l Impulso di Carlo Magno (t 8 14) Ludovico il Pio (t 840) . e Al!a fine del secolo si stima che c'erano in Gallia un . migliaio di monas teri. Pe la penisola iberica sappiamo che vi esistevano monaci e � seconda parte del IV secolo, ma ignoriamo la loro si.stenza numerica, che doveva essere minima . Papa S lCio nel 3 84, nella sua lettera a Imerio di Tarragona, ci fa ono s e c :e nel a provm ! 'esistenza di monasteri maschili e femminili cm tarragonese. Lo scrittore Bachiario è un
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monaco; i priscillianisti, condannati dalla chiesa, pratica vano una rigorosa ascesi. Poco conosciamo anche per il se colo V. Il monachesimo iberico si sviluppò s olo neUa seconda metà del secolo VI con Vittoriano (t 558), Marti no di Braga, Leandro e suo fratello Isidoro di Siviglìa, e con i settanta monaci provenienti dall'Africa con Donato. Esso prosperò nel secolo successivo con Braulione di Sa ragazza. In Africa nel corso del IV secolo numerose sono le vergi ni, che vengono esortate dal concilio di Ippona del 393 e da quello di Cartagine del 397 a vivere in comunità ; ma il primo monastero femminile conosciuto è quello di Ippo na, in cui la sorella di Agostino era la superiora. Tali monasteri femminili si diffusero un po' dovunque nel V s ecolo in Africa (12). Qui vi erano anche eremiti e nume rosi erano i continentes, che vivevano per conto proprio. Conosciamo l'esistenza di monasteri maschili sia a Carta gine che ad Adrumeto già al tempo di s. Agostino, dei quali ignoriamo l'origine, non certamente agostiniana. A gostino, già quand'era a Milano, aveva letto la Vita di Antonio di Atanasio, quindi si era interessato della vita monastica presente in città e a Roma, e pensava a qual cosa di simile per se stesso. Al ritorno in Africa si unisce negli anni 388/389 a Tagaste con un gruppo di amici, ma solo a Ippona nel 391 fonda il suo primo monastero, men tre egli, ormai sacerdote, svolge anche il ministero pasto rale. Consacrato vescovo, fonda anche un monastero per chierici nel suo episcopio, realizzando l'unione tra mona chesimo e sacerdozio, a servizio della chiesa locale, in cui esso è pienamente inserito, e non ai suoi margini come in genere avveniva altrove. Diversi amici e discepoli di Ago stino, membri del suo monastero, divenuti vescovi, se guirono il suo esempio, fondando monasteri maschili e femminili. Agostino propone ai suoi monaci alcuni ideali essenziali e fondamentali: l'unione nella comunità per realizzare concretamente l'amore di Dio, la piena comunione di be ni, la comprensione umana, la preghiera e lo studio nello ( 12) J. Gavigan, De vita monastica in Africa septentrional�
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temporibus S. Augustini usque ed invasiones Arabwn, To rm� ld / pp . 74-93. Questo volume è poco citato, ma molto ricco di a 1 e di informazioni, non facilmente reperibili altrove .
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i uno spirito di amiCIZia, che deve pervadere la sfond. 0 d ha influenzato religiosa. La regola agostiniana n . convive za occi'd enta1 e, sia • me'l monach esimo I tto tu te men nda f s biografo ss�dio suo il econdo P rno. mode : . � . v le che . di afncana p1em monasten chiesa alla sciò la A ?sti no giosi. La vita monastica continuò in Africa dopo Ago tipo di diffic?l tà da par�e ?egl� i o, incontrando ogni . .I "·asori vandali; sono molto numerosi 1 monasten di cm X: ha notizia per i secoli V-VII ( 1 3) . Successivamente l 'A ica romana fu occupata dagli Arabi musulmani con conseguente scomparsa non solo del monachesimo ma anche del cristianesimo. Il monachesimo irlandese è l'ultimo a nascere in Occiden te; esso risale in qualche modo a s. Patrizio (t 46 1 ) , ori ginario della Britannia, il quale pose come sua residenza Armagh, nel nord dell'Irlanda . Tuttavia le prime comuni tà monastiche, delle quali si ha qualche notizia, risalgono alla fine del secolo V e inizio del successivo, legate all'o pera di Enda e Firmiano; esse crebbero notevolmente per numero nel corso del secolo seguente. Diverse diocesi irlandesi furono organizzate su basi monastiche : l'abate della comunità religiosa era anche il vescovo della dioce si. Inoltre alcuni monasteri (paruchiae) mantenevano strettamente collegate a sé altre fondazioni, particolar mente le filiali, come in una specie di congregazione. Nei monasteri v'erano pochi membri sacerdoti; il superiore poteva essere un abate laico, un prete o un vescovo; tuttavia le comunità, per esigenze cultuali, avevano sem pre nel loro seno un vescovo o un prete. Inoltre esse erano alquanto complesse per la presenza non solo di numerosi monaci, ma anche di laici, inquilini, studenti e pellegrini, residenti nelle vicinanze. I �onasteri irlandesi avevano scuole non solo per i pro P:I �embri, ma anche per laici, alcuni di questi prove me.n�I da molto lontano, dove l 'interesse principale era sì reh gwso, ma si coltivava anche profana classi ca1 latina. In tal modo contribu la cultura molto irono alla rinascita . e u turale . . . . c . . aro I'mgm. D a essi m ol tre uscirono numerosi m.IS Sio nan che si recarono a evangelizzare i pagani del
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-03)
Cfr J ·dG_avJgan: .
znonast��1. te raria
o c., pp. 1 16-144, dove vengono indicati tutti i ei quah SI: abbia una pur minima testimonianza !etareheologi ca .
continente, oppure fondarono qui delle comunità mon a. stiche, come Colombano, Fursa e Kiliano. 5. Monachesimo e istituzione
Il monachesimo nella sua origine ci appare come un fe nomeno estremamente libero e spontaneo, e quindi in pieno contrasto con H modo normale di vivere sia della società del tempo sia anche in parte della stessa comuni tà cristiana. È ai margini della società nel suo radicali smo di proposizione di nuovi ideali. Gli abusi nell'ambito del movimento monastico non erano infrequenti, perché in certi casi il margine di differenziazione tra il monaco nella sua realizzazione più alta, e il brigante e il dissolut; erano tenui. Per questo l'eremitismo, che restò sempre l'aspirazione ultima di molto monachesimo antico, pur continuando a sussistere, venne sostituito quasi del tutto dal cenobitismo, che permetteva una regolamentazione e concedeva minore libertà di movimento rispetto agli ere miti, persone assolutamente libere e sciolte da ogni lega me. La regolamentazione provenne da una triplice dire zione: dagli stessi monaci che scrivono regole monasti che, dalle autorità ecclesiastiche, che intervengono con indicazioni normative, e infine dall'autorità civile con di sposizioni legislative per reprimere abusi. All'inizio del movimento monastico non esistevano regole scritte, ma la vita monacale, si pensava, doveva essere appresa alla scuola di qualcuno che già lo vivesse, me diante una viva esperienza con lui. Inoltre i primi monaci si consideravano membri delle comunità cristiane locali con conseguente sottomissione ai rispettivi vescovi, anche se vivevano fisicamente lontane da esse. La Sacra Scrittu ra e gli esempi ivi contenuti erano il punto di riferimento costante per ogni tipo di monachesimo, e così sarà anche per quello successivo. E le norme scritte sorte in seguit� non pretendevano affatto sostituirli, ma solo essere di aiuto ulteriore. La Vita di Antonio scritta da Atanasio fu recepita come regola monastica « promulgando i precetti della vita rno· nastica sotto forma di racconto » (Gregorio di Naz., Ora· , tio 2 1 , 5 PG 35, 1088) . Essa ebbe un enorme influsso en· come più volte abbiamo accennato nelle pagin e preced 174
le Sent enze o J?ettì � eì Pa1 rì (apophthegmata ti. . Anche monaci, trasmesse colta di massime d1 alcum rac · · patrurn) · v�no un p m mes se p er 1sc;1tto cost1tm e ente ralm o 1 1 Prima � q per est1 seco no tre sso es1ste, fi . rimento di rife . P. unto vastissima letteratura vanamente ascetica anc he un� o h, parte degli scrittori. cristiani. del periodo . . perehe gran d Il spintuaa Impregnati e erano oppure naci dei mo ':r�n Gli autori delle regole specificamente mollta onastica. · vano aff atto d"1 fond are, 1n senso mopensa non e h tic . nas possono e non oso, d"1rs1· pertanto 1. 1g e ordine � : derno, un . . comunemente come pens1 leg1slaton, de1 o datori dei fon sa 0 si scrive. La prima regola scritta è quella di Pacomio (t 346), redat ta in copto, poi tradotta in greco, da cui Girolamo la tradusse in latino, nel 404. Essa, essendo stata la prima, influì un po' su tutte le numerose regole monastiche po steriori. L'altro grande pioniere orientale fu Basilio di Cesarea, quello che più ha segnato il monachesimo, parti colarmente quello b izantino, con una serie di scritti di carattere monastico, dei quali già si è fatta menzione. Per le laure palestinesi possiamo nominare il Tipico attribuito a Saba (t 532), un regolamento della vita monastica e liturgica. In ambiente siro sorgono numerose regole, tra le quali emerge quella di Rabbuia, poi vescovo di Edessa (t 436) . L'Occidente latino poteva disporre di traduzioni di scritti orientali, ma ben presto produce regole proprie. Il primo a scriverne una, che esercitò profondo influsso sugli scrit ti successivi, fu Agostino con la sua Regula ad servos Dei. In Italia fu redatta da un anonimo la Regula Magistri, a�ch'ess a di largo successo. A Benedetto di Norcia (t 54 7 crrca) risale la Regula monaster iorum, che fa tesoro delle precedenti esperienze. Conosciamo altre numeros regole, e �!cune anonime, altre risalenti a Cesario di Arles, Aure bano di Arles, (t 551), a Isidoro di Siviglia e a Colomba no . secoli VII e VII I in Occidente si ha una certa u cazione monastica con l 'adozione della regola benedet n soprattutto per l'opera di Benede tto di Aniane ( l ch e fece una collezione di tutte le regole da lui co o ),_ �ClUte. In quel tempo c'era grand e libertà : gli abati sc glrevan . o la regol a che vo levano segmre e potevano carnb·l are . Non esisteva regolamentazione e tanto meno •
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fissità. Inoltre i primi interventi dell'autorità ecclesiastic non avevano carattere legislativo, ma piuttosto cercavan di porre ordine per evitare abusi, e così implicitament riconoscevano la validità dell'ideale monastico. La cond zione giuridica del monaco non era ben definita: era normalmente un laico, ma poteva essere anche un chieri co, anzi il numero dì questi si incrementò col tempo. Non esistevano voti religiosi; solo le vergini consacrate emet tevano l'impegno pubblico di verginità, riconosciuto dalla chiesa. Gli schiavi, per disposizione ecclesiale e civile potevano essere ammessi solo con il consenso dei lor� rispettivi padroni. Il monaco si impegnava alla castità alla povertà e all'obbedienza, ma non con un atto giuridi: co, per cui l'abbandonare la vita monacale era biasimato e il monaco poteva essere sottoposto a penitenza pubbli ca, ma il matrimonio contratto da lui, come anche da una virgo consacrata, veniva considerato sempre valido, anche se il contraente veniva scomunicato o sottoposto a peni tenza: disciplina cambiata successivamente. Si insisteva sull'obbedienza al superiore da parte delle regole, mentre il concilio di Calcedonia (can. 24) parla dell'obbedienza al vescovo locale. In effetti tutti i fedeli dipendevano dal vescovo diocesano sia per la direzione della vita cristiana sia per la liturgia e le ordinazioni. In pratica però tutto dipendeva dalla situazione concreta del monastero: lontananza dalla città, fondazione in una proprietà familiare, oppure il rapporto esistente con un luogo di culto, fondazione da parte dello stesso vescovo ... Il primo caso che si conosca di esenzione di un monaste ro dalla giurisdizione episcopale è quello di Bobbio nel 628, concessa da papa Onorio I (625-638), che lo sottopose alla sua diretta autorità. Con l'eccezione di qualche raro intervento di concili loca li, solo il concilio di Calcedonia, per diversi motivi, inter· venne sulla vita monastica, particolarmente nei canoni 4 e 24, nei quali si prescrive che i monaci non possono erigere i monasteri senza il consenso del vescovo, e una volta eretti e consacrati, devono restare tali, non po tendo divenire abitazioni comuni; i monaci devono essere sot· tomessi al vescovo locale e dedicarsi alle pratiche .sp cifìche della loro vita, per cui non possono dedicarsi a affari secolari; non possono lasciare la propria residenza senza il permesso del vescovo, che deve vigilare su tuttO ·
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comunque credere �on b isogna siano state subito ni
ingenuamente che queste e dovunque osservate. sizio dt ?0interventi conciliari bisognerebbe aggiungere quelli Ag. 1 papi soprattutto di Gregorio Magno, organizzatore di �1 rsi �onasteri. Inoltre anche le autorità civili legiferaspecifici, ma solo raramente prima di Giu r . per casi nte nel 370 ordina che vengano perseguitati Vale no. ia s c oro che, per sfuggire agli obblighi curiali, si uniscono ? monaci (Codice di Teod. 1 2, l, 63). Teodosio nel 390 oib isce ai monaci, per motivi di sicurezza sociale, la perm anenza in città, disposizione revocata nel 392, giac ché alcuni di loro per fanatismo causavano sedizioni ( 14). Nel 427 l'imperatore Leone proibisce ai monaci di uscire dai loro monasteri e di soggiornare in città; ciò è per messo invece ai loro emissari, che però non vi devono discutere di religione. Anche in questo caso è più che evidente il motivo ispiratore della legge. Giustiniano (525-565) emise numerose disposizioni riguardanti i mona ci, le quali si trovano sia nel libro I del suo Codice che nelle Novelle, e riguardano: l'entrata nel monastero e il suo abbandono, l'elezione dell'abate, la separazione tra monaci e monache, la vita comune, aspetti patrimoniali. Le leggi di Giustiniano ebbero applicazione solo nell'am bito dell'impero bizantino. Per quanto riguarda l'aspetto patrimoniale, i singoli monaci non possono possedere, ma la comunità può avere beni comuni, provenienti da dona zioni, dal lavoro dei monaci, da proprietà offerte da chi entra in monastero, qualora non sia stato provveduto altrimenti prima . I singoli monaci sono poveri, ma i mo n�steri, potendo possedere in quanto entità giuridiche, dtverranno sempre più ricchi, accumulando proprietà fondiarie sempre più estese; inoltre, non essendo queste soggette allo smembramento ereditario caratteristico dei ben_i mobili, ma solo alla possibilità che altri beni vi si ggiUngessero, a volte divennero quasi dei feudi, contriuendo così a dare un volto al paesaggio medievale.
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-04) L De 198 1 · , PP .
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Giovanni,
73-77.
Chiesa e Stato nel codice teodosiano,
Napoli 177
BIBLIOGRAFIA Buone bibliografie si possono trovare in: K. Baus, Sto ria d eIl vol. Il, Milano 1977, pp. 404-41 0 ; 431-433. Inoltre in m 1 � t del Dizionario degli Istituti di Perfezione, articoli cfr. la nota 2 � e presente capitolo. Di questo Dizionario ho tenuto p resen te dive . articoli per la redazione di questo capitolo, in modo P arti coJ:s1 e quelli di J. Leclercq, vol . V, 1673-1984 e di J. Gribomon t, vol . ' 1 984-1707. Chiesa,
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2) Tuttavia mi permetto di segnalare in modo specifico:
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5
i l peccatore e la penitenza
1.
La penitenza ecc � esiale nei primi tre secoli e i suoi problemi
La comunità cristiana primitiva ha coscienza di se stessa come comunione sia tra i suoi membri e sia con Dio, per questo essa è luogo di salvezza. È comunità di « santi », di << eletti », perché è comunità di persone perdonate gra tuitamente da Dio. Il perdono divino appartiene al nucleo centrale del vangelo, e portarlo a tutti gli uomini costi tuisce la missione stessa della chiesa: « e nel nome suo (Cristo) saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme >> (Luca 24, 47; cfr. anche 1 5, 22; Marco 16, 1 6 ; Giovanni 20, 21-23). Alla offerta del perdono divino la risposta del l'uomo deve essere quella di una vita nuova, di un radica le cambiamento di mentalità. Tuttavia, anche dopo l'elar gizione del perdono per mezzo del battesimo, la comunità sperimenta che la comunione umana e divina può essere s�ezz�ta da parte di alcuni per infedeltà, nonostante si . Sia VIcmi a Gesù (Matteo 1 8, 22 e 25) . Anche queste per sone, Pentite, possono ottenere di nuovo il perdono, che _ no� ngua rda pertanto solo quelli che si convertono per la Pnma volta, ma anche i membri stessi della comunità Pi:tro; 2 Cori nzi 2, 5-1 1 ; 1 2, 2 1 ; 2 Tessalonicesi 3, 14 s; Ttmoteo l , 20; Giacomo 5, 14-16; tutta l'Apocalisse) . Ne1la conces sione del perdono oppure nel suo rifiuto la comunità svo1 ge un suo ruolo : << Se Il tuo fratello commette u a colp a, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti �. ascoltera av . ra1 guad agnato 1· r tuo fratello; se non ti. ' ascoltera pr en d"1 con te una o due persone, perche, ogm. '
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cosa sia risolta suiia parola di due o tre testimoni. Se p 01 non ascolterà neppure costoro, dillo all'asse mblea· e se non ascolterà neanche l'assembI ea, Sia per te come u n pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tut to quell che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo 0 tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolt anche in cielo >> (Matteo 1 8 , 1 5-18; cfr. anche 16, 1 7-19· Giovanni 20, 21-23) (1). Ora, se i discepoli di Gesù hanno autorità di perdonare hanno anche autorità di non perdonare, escludendo i no� meritevoli di perdono dal suo seno (cfr. Giovanni 9, 22· 12, 42 ; 16, 2; l Corinzi 1 , 3-2; Apocalisse 2, 2-20; Matte� 1 8, 1 7-18). Dai testi biblici, storicamente parlando, non sì deduce apoditticamente l'istituzione del sacramento della penitenza, come è stato inteso posteriormente dalla chie sa, ma neppure essi l'escludono, anzi in qualche modo lo fondano. È certo però che sin dai primi tempi molti testi vengono invocati per legittimare la prassi penitenziale. Nel periodo apostolico e subapostolico non costituì pro blema la concessione del perdono e la riammissione alla piena vita della comunità dei cristiani che avessero gra vemente peccato. Essendo comunità piccole, piene di en tusiasmo e a forte coesione interna, l'infedeltà nella fede o nel comportamento era piuttosto rara, ma non troppo. Tutta la comunità si preoccupava per il ravvedimento del colpevole (cfr. l Clemente 2, 4-6; 2 Clemente 17, 1-2), si pregava per lui (l Clemente 56, 59, 2-4 ; Ignazio , Agli smir nesi 4, 1), ci si correggeva a vicenda (Didachè 4, 3; 15, 3; Barnaba, Epist. 19, 4 ; 2 Clemente 17, 2 ; Policarpo, Epist. 1 1 , 4 .. .) I responsabili della comunità erano coinvolti più degli altri (Barnaba, Epist. 19, 4). Tutte le mancanze era no perdonabili, senza eccezione: « saranno rimessi loro tutti i peccati che commisero per l'innanzi, come pure a tutti i santi che hanno peccato fino a questo giorno, purché si pentano di tutto cuore e allontanino da loro ogni esitazione » (Erma, Pastore, vis. 2, 2, 4). Questo s t.es: so atteggiamento viene espresso in quasi tutti gli scntti del primo e del secondo secolo, anche in quelli apo.
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( 1 ) Questi testi biblici sono fondamentali per la dott na pen ziale della chiesa antica. Cfr. l'articolo di B. Rigaux , Lter et de s110: Les ministères de reconciliation dans l'Eglise des temps apo liques: La Maison-Dieu 117 ( 1974) 86-135, spec. pag. 117.
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anzi che la penitenza si potesse ripetere, . (2) Sembra c �dì ·ché non c'è alcuna testimonianza contraria alla s�a l?e! one di essa e sia per la prassi chiaramente aperta npetlZ ono rinnovato; difatti Tertulliano attesta che Mar a� per fu più volte espulso dalla comunità e reintegrato, Cl�ne dell'espulsione definitiva (De praesc. haer. 39, 2-3). Pnm a il colpevole non mam' festava segm· d'1 ravved'lQualora to veniva applicata la sua esclusione dalla comunità o 3, 10; Didachè 4, �; Ignazio, Smirnesi 4, l ; 7, 2; Efe. a, Epcst. 19, 4; 2 Clemente 17, 3 e 5), la srn i 7' 1 · Barnab dei suoi capi, esercita il potere di legare � mezzo r p quale sci�gliere, doè di escludere o riammettere il colpe ole (3) . Nella lettera di Clemente ai Corinzi esplici tam ente si parla del giudizio della comunità: « Tra voi c'è qualcuno generoso, misericordioso e pieno di amore? Di ca: se per colpa mia si sono avuti sedizione, lite e sci sma, vado via. Me ne parto dove volete e faccio quello che il popolo (plethous) comanda purché il gregge di Cristo viva in pace con i presbiteri costituiti » (54, l ) . Il giudizio della comunità è importante, perché, essendo es sa luogo di salvezza, il perdono divino è legato alla riammissione o esclusione dalla ecclesia: « È meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza >> (l Clemente 57, 2); altrettanto scrive Igna zio ai cristiani di Filadelfia: << Tutti quelli che apparten gono a Dio e a Cristo sono uniti al vescovo, e tutti quelli che fanno penitenza e vengono all'unità della chiesa ap parterranno anche a Dio » (3, 2).
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(Z) Cfr . Ignazio , Filadelfesi 3, 2; 8, 1 ; Smirnesi 4, l ; 5, 3; !Clemente 51: l ; Epistola degli apostoli, 47-50 ; Atti di Pietro 2, 8-10; Atti di Grov n ni 48-54. Tuttavia costituì e costituisce difficoltà per la � d ottn na penitenziale il testo di Ebrei 6, 4-6 (cfr. 10, 26s} , che affe rma l'im possibilità di una nuova conversione con la penitenza e Pertanto il testo parlerebbe della irremissibilità del peccato di P�st�sia. Nell'an tichità cristiana esso fu utilizzato da alcuni (mon :a �!Sh e novaziani) per negare la possibi lità della riconciliazione e �enere dai Padri per asserire l'impossibilità di ripetere il ba secoe mo . Cfr. M. Goguel, La doctrine de l'impossibilité de la
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l' v e_ conversion dans l'épìtre aux Hébreux et sa place dans é o Sc tr on du christianisme, Melun 1931 ; P. Proulx - L. Alonso ho e H eb. 6, 4-6: eis metanoian anastaurountas: Biblica 56 (1975) 193.209 l ,
( 3) Cf� E · Mar ntonio Sguerzo, I delitti contro la fede nell'ordì � namenÌo ca no mco. Sec. I-V, Milano 1979, p . 108.
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Queste osservazioni di carattere generale, riguard anti . primo secolo, ci introducono in uno dei problemi .�1 delicati della chiesa antica: la questione penitenziale dalla metà del secondo secolo si complica e si evolv; fi e no allo stabilizzarsi della prassi nei secoli III e IV, sia p l'Oriente che per l'Occidente. Nei paesi di lingua lati r nei secoli VI-VII avviene un radicale cambiamento e ne secolo XII la penitenza assume la fisionomia ch'è durat fino ai nostri giorni. Anche in Oriente, come si ve drà ha un'evoluzione quasi parallela a quella occidentale.' Si può studiare la penitenza nella chiesa antica sotto varie angolazioni : storica, teologica, sociologica e liturgica. Sceglierne una significa limitare la sua comprensione glo bale; d'altra parte una esposizione coordinata secondo le quattro visuali richiede un notevole spazio, non concesso in questa sede. Credo però, a costo di lasciare importanti elementi in ombra, che questo sia l'approccio migliore, e cercherò di seguirlo, avendo cura di mettere maggiormen te in risalto i numerosi problemi che a mano a mano furono posti e risolti, oppure non risolti . Col crescere della comunità cristiana, anche con l'immis sione di persone battezzate in tenera età, si perde un po' di coesione interna e si registra un certo abbassamento di fervore. In questo contesto non sono eccezionali i casi di gravi mancanze di chi « ricade nella condizione dei pagani » (Policarpo, Epist. 1 1, 2). Un omileta ignoto del II secolo definisce la chiesa « spelonca di ladri » (2 Clemente 14, l ) ; Erma più volte denuncia la condotta di molti cri stiani: apostati, traditori della chiesa, maldicenti, persone arricchite divenute arroganti e orgogliose , che « hanno abbandonato la verità, si sono separati dai giusti, sono vissuti con i pagani e hanno trovato il loro modo di vivere più confortevole » (Pastore, simil. 8, 7, 2 ; cfr. 8, l ; 8, 6, 4-5; 9, 1 ) . I n questo contesto di vita vissuta si colloca il primo grosso problema per la comunità: esiste la pos sibilità di una penitenza post-battesimale e della con se· guente riammissione nella chiesa? A questa domanda un� corrente di pensiero, molto intransigente, risponde co non voler concedere alcun perdono: ,, Udii, Signore, a a alcuni maestri che altra penitenza non c'è s e non qu�l e : �c r � ) imo di quando scendemmo nell'acqua (del battes vemmo la remissione dei nostri peccati passati . M1 d�ce. · Bene udisti; così è infatti. Bisognerebbe che chi ha nce
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emissione dei peccati non peccasse più, ma vi vuto 1 a r purità » (Erma, Pastore, precetto IV, 3 , 1). v sse nella nianza riguarda Roma; altrettanto sappia e timo Questa tes to, dove il vescovo Palmas di Amastris Pon il r o pe Dionigi di Corinto << a ricevere (nella da to � . . . . vtene esorta convertono da . qual s1as1 cad uta, sia s1 . che li quel . ch t es a) . " S tona dt un errore erettco » (E useb 10, di negligenza come "' eccl. IV, 23 ' 6 ) . . . . . 1 'm1z1 d el III seco l o, T_e�t�l,Qualche decennio pm tard1 ag eceden�a aveva ammesso la pos � tbthta liano , che i�. p: . de_B� della riconctllazw ne, � nt1c� ferocemente la . prass1 D �tct u p 11 � , m ! pamphle un ch1esa, a nel ne ssio � riammi . a negh anm, mtento; stessi tale con propno tto scri tia vescovo il motivi, stessi gli per biasima, ito Ro�a. Ippol Callisto (Philosophoumena 9, 1 2) . La corrente rigorista presenta un ventaglio di sfumature, che va da quelli che rifiutano il perdono per tutti i peccati considerati gravi a quelli che escludono solo alcune colpe specifiche, come l'adulterio, l'apostasia o simili . Essa tuttavia non ha a suo favore seri argomenti biblici o teologici, ma solo di ordi ne psicologico, in quanto ha per presupposto che l'indul genza possa aprire la porta ad altri peccati, come lo stesso Tertulliano rigorista riconosce in un attimo di sin cerità: « La chiesa può rimettere i peccati, ma io non lo farò, per paura che poi ne vengano commessi degli altri » (De pudicitia 2 1 , 5). La corrente rigorista, pur respinta nel suo complesso e nelle sue motivazioni, lascia il segno nella disciplina peni tenziale che si elabora negli ultimi decenni del secolo II e agli inizi del seguente (4). La chiesa continua ad ammet t�re la possibilità del perdono, ma accetta però l'innova ZIOne che riscontriamo in Erma per la prima volta, cioè che la penitenza post-battesimale è possibile una sola vol ta_ nella vita per colpe veramente gravi: bisogna acco « gh�re chi ha peccato e si pente, però non per molte volte, , POlche per i servi di Dio la penitenza è una sola » (Pasto(4) Tertulr1a o . � non ha mai sostenuto che esista solo una triade dir o ccatJ Irremiss ! bil! (idolatria, omicidio e adulterio) , poiché P _ ? �1 De pudzcttza offre liste di molti peccati gravi, tutti ir rernis 1b1. 1 . _ tut tavia nell'antichità certe espressioni di Tertulliano influir0 0 anc�e nel secolo IV, per cui alcuni limitarono a quella triade a Pemten za canonica: « nonnulli putant tria tantum crimina esse mo rtife ra (Agostino, Specul. de script. sacr. 29) .
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re, precetto IV, 1 , 8). Questa innovazione diventa norma fissa per tutta l'antichità fino al medioevo sia in Occiden te che in Oriente. Papa Siricio riconosce che non ci sono eccezioni: suffugium non habent paenitendi (Epist. l, 5) ; il concilio di Toledo del 589 rifiuta la concessione di un secondo perdono (can. 1 1) . Per i recidivi non si escludeva il perdono da parte di Dio, ma la chiesa non li riconcilia va più con se stessa (Agostino, epist. 153, 3-8 ; Vittore di Cart. : Mansi 9, 995). L'unica dissonanza per il III secolo a questa prassi severa sembra essere la Didascalia degli apostoli, che ha delle belle pagine sui doveri del vescovo verso i peccatori e in nessun caso parla di un solo perdo no. Forse quest'opera si fa eco di una tradizione più anti ca e non è ancora impregnata di rigorismo (cfr. II, 1 0-13). Alla fine del II secolo si elabora anche la disciplina peni tenziale, che dagli antichi è vista sempre in parallelo con il catecumenato (Tertulliano, De paenitentia 7, 2, 10-12; 12, 2 e 9) ed è rigorosa e lunga; essa viene comunemente chiamata penitenza ecclesiastica o canonica, per distin guerla da quella fatta a titolo personale e da quella cate cumenale. Comportava digiuni, preghiere, elemosine ed altre mortificazioni scaglionati in un periodo di tempo: << Di questa penitenza seconda e unica il procedimento è più rigoroso e la prova più laboriosa, perché non si tratta soltanto di un fattore interiore della coscienza, ma anche di un atto esteriore che lo manifesta. Questa azione con la parola greca più espressiva e più usata - si chia ma exomologesi » (Tertulliano, a.c. 7, 9). Nell'antica ter minologia viene detta anche seconda, rispetto a quella battesimale, considerata la prima; per questo essa va vi sta sempre in relazione al battesimo, dove il perdono dei peccati (aphesis) è gratuito, mentre ora la penitenza è << severa e nelle lacrime » (Agostino, sermo 352, 3, 8; cfr. Cipriano, epist. 55, 22; De opere et elem. 2). Il parallelo con il battesimo rafforza l'idea dell'unicità della penitenza postabattesimale: << sicut unum bapti smum, ita una paenitentia quae tamen publice agitur » (Ambrogio, De paenitentia 2, 10, 95). Ma veri argomenti biblici in favore dell'unicità non potevano essere invocati, per cui lo stesso Agostino onestamente riconosce che la irripetibilità è solo per motivi prudenziali e psicologici (Epist. 153, 7) . Inoltre si annetteva grande importanza agli atti esterni penitenziali (satisfactio) sia per ottenere il 184
perdono divino come per dimostrare alla comunità la propria sincerità di pentimento (Cipriano, De lapsis 1 5, 17; Agostino, Enchiridion 17, 5; Leone M. Epist. 1 8 , 3-5 : PL 54, 1 0 12-13). Ma quale valore avevano i singoli elementi - atti interni, atti esterni, la riconciliazione o assoluzione - nel proce dimento penitenziale ? Gli antichi non sottovalutarono l'aspetto interno della conversione (5), per questo a un peccatore pentito in grave pericolo di morte, in genere, concedevano la riconciliazione pur con l'obbligo, una vol ta guarito, di adempiere le pratiche esterne. Tuttavia po nendo l'accento su questi atti (satisfactio), considerati essenziali, usavano il termine penitenza per esprimere tutto il procedimento. Invece durante il Medioevo, nei secoli VIII-IX, l'accento si sposta sulla confessione dei peccati, considerata essa stessa già come una satisfactio; essa veniva in tal modo apprezzata che si ammetteva la possibilità, naturalmente in caso di necessità e per man canza di un sacerdote, che ci si potesse confessare a un laico, che non aveva però potere di assolvere. In tale contesto di riflessione teologica il termine confessio co mincia a sostituire quello più antico di penitenza; e, ri baltando l'antica disciplina, si introduce la confessione periodica, con il conseguente spostarsi della sactisfactio a dopo la confessione e la riconciliazione (assoluzione) . Nel la coscienza popolare questo ultimo punto è restato sempre vivo, per cui ancora oggi le donne anziane usano la parola riconciliazione per confessione. Con la recente riforma conciliare si propone un certo ritorno all'antica terminologia. Un problema più delicato riguarda il perdono stesso dei peccati: era convinzione comune che solo Dio lo conce desse dopo l'espiazione personale; allora qual è la funzio ne della riconciliazione ecclesiale? Questa domanda in realtà è piuttosto un problema medievale e moderno, che gli antichi non si sono posti in questi termini. Per essi erano essenziali sia l 'elemento personale che l'atto di ri conciliazione concessa dalla chiesa, secondo le classiche (5) Questo è l'unico punto in cui sono pienamente d'accordo antichi, medievali e moderni ; nel medievo però si introducono i concetti di contritio e attritio, indicanti una gradualità di intensità e di motivazioni del pentimento. 185
espressioni di Leone Magno: « Le disposizioni della bontà divina sono così fatte che il perdono di Dio non può essere ottenuto se non con le preghiere dei sacerdoti (ve scovi) . Il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Ge sù, ha dato ai capi della sua chiesa il potere di concedere la penitenza ai peccatori pentiti e di riammetterli, mediante la riconciliazione, alla comunione dei sacramenti, non ap pena si siano purificati con un'espiazione (satisfactio) sa lutare. Il Salvatore stesso interviene continuamente in quest'opera di salvezza, e non è mai estraneo a quanto fanno i suoi ministri poiché egli ha detto: ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo: Matteo 28, 20 » (Epist. 18, 2: PL 54, 1 0 1 1 ) . I Padri, pur non escludendo i n generale che i l peccatore pentito possa ottenere il perdono divino, sostengono che la pax ecclesìae non debba mancare, perché solo chi è membro vivo di essa può ottenere la salvezza (6) . La chie sa è mediatrice e luogo di salvezza, per cui il suo perdo no è essenziale (Cipriano, Epist. 4, 2; 1 6, 2; 17, 2; 57, 4; 55, 1 3 passim) . Agostino approfondisce la dottrina della riconciliazione con un esempio: Dio solo opera la risurre zione di Lazzaro, ma è la chiesa che lo scioglie dalle bende, cioè dal reatus peccati ( cfr. Tract. in Ioan. 22, 7; 49, 24; serm. 67, l , 2; 98, 6; 352, 3 , 8); come più chiaramente si esprime altrove: la << pax ecclesiae dimittit peccata et ab ecclesiae pace alienatio tenet peccata » (De bapt. con tra Donatistas 3, 1 8, 23). Già dall'inizio del III secolo i testi addotti per giustificare tale autorità sono quello di Matteo (16, 1 8 s) : << Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli », e l'altro sempre di ( 6) Cfr. Poschmann, Pénitence et onction des malades, Paris 1966, pp. 58-91. Cfr. anche Origene, In I esu Nave 3, 5 : PG 12, 841 ; Ago stino, Enchiridion, 17, 65: recte constituuntur ab iis qui Ecclesiis
praesunt tempora paenìtentiae, ut fìat satis etiam Ecclesiae, in qua remittuntur ipsa peccata; extra eam quippe non remittuntur. Ipsa namque proprie Spiritum sanctum pignus accepit, sine quo non remittuntur ulla peccata, ita ut quibus remittuntur, conse quantur vitam aeternam ; cfr . M. Righetti, Storia liturgica, Milano
1953, vol. IV, pp. 147-149 ; 161-167.
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Matteo ( 1 8 , 1 8), già citato sopra, in cui viene ripetuto lo stesso concetto, ma esteso ad altre persone, che hanno la stessa autorità di Pietro nel legare e nello sciogliere (7) (cfr. Tertulliano, De pudicitia 2 1 , 9; Didascalia 2, 1 1 ; Ci priano, Epist. 73, 7). Agostino precisa che tale autorità appartiene a tutta la chiesa: << ad liganda et solvenda p eccata claves regni caelorum primus apostolorum Petrus accepit ... nec iste solus, sed universa ecclesia ligat solvit que peccata » ( Tract. in loan. 1 24, 7; sermo 99, 9 passim). Essa tuttavia viene esercitata dal capo della comunità, cioè dal vescovo, raramente da un suo delegato, cioè dai semplici sacerdoti. Questo è un dato costante della tradi zione antica (Didascalia II, 1 0- 1 3 ; Tradizione apostolica, 3 ; Leone Magno, Epist. 1 8 , 2 cfr. nota 6 ) . Dal IV-V secolo la delega ai presbiteri diventa sempre più frequente, sino a diventare in seguito prassi normale. L'unica voce discordante sull'autorità episcopale è quella di Tertulliano montanista, il quale afferma che tale auto rità spetta alla chiesa dello Spirito (De pudicitia 2 1 , 17). Lasciando da parte questa affermazione polemica, sap piamo che i martiri e i confessori nei primi tre secoli, in quanto considerati ripieni di Spirito, svolsero un ruolo importante nella remissione dei peccati; forse agli inizi potevano concdere anche la pax ecclesiae, cioè la ricon ciliazione, ma il ruolo riconosciuto e approvato era solo quello di « intercedere » per i colpevoli. Nell'Oriente bi zantino il ruolo dei martiri fu assunto dai viri Dei, dai monaci, che, in quanto uomini ripieni dello Spirito di Dio, potevano ricevere la confessione dei peccatori e con cedere il perdono (8). La penitenza ecclesiastica antica era pubblica per quanto riguardava la satisfactio, cioè le pratiche penitenziali sopra ricordate, non certamente a motivo di una confessione pubblica dei peccati di fronte alla comunità, anche se questa in certi casi particolari poteva avvenire. Essa era ( 7) Tra cattolici e protestanti si è discusso a lungo su questo versetto per determinarne il vero significato: se cioè quel plurale del testo vada riferito ai capi della comunità oppure a tutta la comunità nella sua totalità ; cfr. J. Schmid, L'evangelo secondo Matteo, Brescia 1962, p. 354 s. e B. Rigaux, citato alla nota l . ( 8 ) Cfr. L. Ligier, Il sacramento della penitenza secondo la tradi zione orientale: in La penitenza, Torino 1968, 151 ; cfr. anche la trat tazione che abbiamo fatto nelle pagine precedenti. 187
pubblica anche per i peccati gravi non palesi: in questo caso era necessario che il peccatore li confessasse ai capi della comunità in privato o in pubblico. Questo appare già chiaro all'inizio del III secolo: « cum (peccator) non erubescit sacerdoti Domini indicare peccatum et quaerere medicinam » (Origene, In Leviticum, homil. 2, 4: PG 12, 4 1 8) ; altrove lo stesso Orìgene consiglia di cercare con cura la persona a cui confessare il proprio peccato, per ché essa dev'essere come un medico esperto (cfr. Horn. II, 6 in Ps. 37: PG 12, 1 386 AB). Leone Magno biasima la prassi di rivelare in pubblico i peccati confessati segre tamente : << Ecco un modo di agire contrario alle disposi zioni apostoliche, un modo che si è stabilito indebitamen te, come ho saputo poco fa, e di cui ordino la soppres sione ... Basta, infatti, che le colpe vengano indicate al vescovo solo, in un colloquio segreto >> (Epist. 168, 2). L'esistenza di una penitenza ecclesiastica del tutto privata o segreta, oggetto di innumerevoli polemiche tra cattolici e protestanti, oggi è comunemente negata, e a ragione. Essa fu introdotta solo nell'alto Medioevo. Per quali peccati era necessaria questa laboriosa peniten za? Possiamo incontrare nei Padri una terminologia simi le alla nostra, che distingue i peccata mortalia (capitalia, graviora ...) e i peccata leviora (venialia, quotidiana .. ) ; per i primi, anche s e occulti, era necessaria l a penitenza ecclesiastica, per gli altri era sufficiente quella penitenza quotidiana che ogni buon cristiano doveva fare con di giuni, elemosine, preghiere, ecc. (cfr. Agostino, sermo 252, 2, 7) . A tal proposito essi redigono liste di peccati, ispirate a quelle del Nuovo Testamento e al Decalogo. Tra le varie liste offerteci dai Padri non v'è omogeneità, in quanto accanto a concordanze vi sono differenze. Tra i peccata capitalia essi collocano, in ordine decrescente, i seguenti peccati: apostasia, idolatria, omicidio, adulterio e fornicazione, spergiuro, spettacoli del circo ... , escluden do normalmente i peccati commessi solo nel pensiero. Pur nella somiglianza terminologica tra l'antichità e oggi, esiste una notevole differenza nella stessa concezione del peccato grave: i moderni sono molto più esigenti e non esiterebbero ad annoverare tra i peccati gravi quelli di pensiero che gli antichi consideravano solo dei venia Zia. .
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2. L'evoluzione penitenziale nei secoli IV-VI
La disciplina penitenziale, dopo Costantino, si sviluppa e si fissa in norme più precise rispetto al periodo preceden te. La nuova situazione politica e sociale comporta anche un cambiamento nei membri della comunità ecclesiale: " Quanti cercano Gesù, se non per ricevere un bene tem porale ! Uno ha un affare, ricorre alla mediazione del cle ro; un altro è oppresso da un potente, si rifugia in chie sa; un altro desidera che si intervenga in suo favore presso uno di fronte al quale egli ha poco credito: chi per un motivo e chi per un altro. Di tali persone si riempie ogni giorno la chiesa. Appena si cerca Gesù per Gesù stesso » (Agostino, Trae t. in Ioan. 25, 10). Già Orige ne nel III secolo rimpiangeva il fervore primitivo e nota va al suo tempo un forte abbassamento del livello etico dei cristiani : « Una volta c'erano pochi fedeli, ma erano veramente fedeli, seguendo la via stretta e angusta che conduce alla vita. Ora che siamo molti, giacché non è possibile che siano molti gli eletti ... tra la moltitudine, ai quali viene insegnato il vero culto di Dio, sono molto pochi coloro che giungono alla elezione di Dio e alle beatitudini » (l n Ierem. ho m. 4, 3 ). Al tempo di Agostino, le cose erano notevolmente cambiate in peggio, come si vede dal testo sopra citato. Oltre a fattori politici e sociali influisce anche l'estendersi dell'uso del battesimo ai bambini - e questo ancor più nei due secoli successivi -, che non vengono ben formati nella dottrina e nella morale cristiana e non sperimenta no l'iter catecumenale (9) . Inoltre la stessa comunità cri stiana non è più un gruppo chiuso dove ci si controlla a vicenda ed eventualmente ci si corregge fraternamente l'un l 'altro, per cui al numero maggiore di peccatori cor risponde un minor controllo; meno persone abbracciano (9) Agostino denuncia questo stato di cose: ci sono bambini bat tezzati che poi non ricevono una educazione cristiana sufficiente, per cui sono nescientes omnino quid christiana disciplina iubeat aut ve t et (Epistolae ad Rom. inch. expos. 16) . In questo periodo inoltre esistevano anche correnti !assiste, che affermavano che chi restava nella vera chiesa sarebbe stato comunque salvato alla fine. Cfr. A.-M. La Bonnarrdière, Pénrtence et réconciliation des p énitents d'après saint Augustin: Rev. Etudes Aug. 13 ( 1967) 31-53 ; 249-283 ; part. 273-274.
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la disciplina penitenziale rispetto a quelle che ne avreb bero bisogno. Agostino lamenta che tanti comportamenti gravemente illeciti sono entrati tra i cristiani sino a di ventare normali, per cui le stesse autorità ecclesiastiche sono divenute più tolleranti: << così che per tali peccati non solo non osiamo scomunicare un laico, ma neanche degradare un chierico » (Enchiridion 2 1 , 80). Al cambiamento e abbassamento del livello etico dei cri stiani non corrisponde un adeguamento della disciplina penitenziale a modi più adatti alla nuova situazione ; anzi ci si muove verso un suo irrigidimento e una maggiore strutturazione, col risultato di riservarla praticamente so lo ai moribondi. Forme penitenziali molto severe che an davano bene per tempi eroici e per comunità a forte coesione interna non possono essere applicate a grandi e amorfe masse; ma purtroppo così si pretende di fare, per cui quelle forme diventano praticamente inutilizzabili. In fatti quelli che erano stati tentativi di soluzione dei due secoli precedenti ora tendono a diventare norme giuridi che: numerosi concili orientali e occidentali emanano ca noni (lO); alcuni Padri, per rispondere alle nuove esigen ze, compongono lettere o trattati sulla penitenza - le prime in Oriente acquistano grande valore canonico (1 1) -, e infine ci sono le decretali dei papi, soprattutto di Siricio, Innocenzo e Leone Magno. Avendo accennato nel paragrafo precedente anche agli aspetti teologici relativi alle discussioni sulla penitenza, in questo invece conviene fermare maggiormente l'atten zione sui suoi aspetti sociologici e liturgici, tenendo pre sente che la penitenza nella struttura essenziale resta la stessa: unica, pubblica, con esclusione dall'eucaristia, svolgimento di penitenze varie e riconciliazione finale. La prassi era la seguente: il colpevole chiede la penitenza (paenitentiam petere (12), riceve allora l'imposizione delle ( 1 0) Gli antichi preferivano parlare di canones, in quanto norme di comportamento, e non di leges ; cfr. l. Anastasiou, La disciplina ecclesiastica nella vita del credente: Concilium 1 1 ( 1975/7) 80. ( 1 1) Per l'Oriente si possono citare: Gregorio il Taumaturgo (t 270) ; Pietro di Alessandria (t 311) ; Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. In Occidente: Tertulliano, Paciano di Barcellona, Ambrogio. ( 12) A volte il vescovo stesso poteva collocare qualcuno nello stato di penitenza, ma non obbligarlo con la forza fisica, perché in questo campo non c 'era intervento secolare. Cfr. più avanti la
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m ani e gli viene specificato ciò che deve compiere (dare pae nitentiam), e così entra a far parte dell'ardo paeniten tium, un gruppo che in chiesa occupa uno speciale posto riservato. Quelli che erano stati incorporati ufficialmente in tale orda potevano essere presenti alla liturgia eucari stica, a differenza dei catecumeni, che dovevano uscire dopo la liturgia della parola, ma dovevano restare in ginocchio, mentre i fedeli stavano in piedi (Statuta ecc. ant. can. 80). Si pregava per loro ed essi ricevevano anche un'imposizione di mani: « I penitenti, qui, sono numero si: quando si impongono loro le mani, si forma una lunga fila ... Alcuni peccatori si sono da se stessi schierati nel posto dove stanno i penitenti (locus paenitentiae) ; alcuni, da noi scomunicati, vi sono stati costretti » (Ago stino, sermo 232, 7, 8). In Asia Minore i penitenti si ripartivano, a differenza dell'Occidente, in due categorie: i flentes (i piangenti) che restavano fuori della chiesa supplicando i fedeli che en travano affinché pregassero per loro, e i veri e propri penitenti, suddivisi a loro volta in tre sottogruppi: gli audientes, che, come i catecumeni, potevano partecipare solo alla liturgia della parola e poi venivano rinviati; i substrati (che giacciono a terra) ; e infine gli stantes (che stanno in piedi come gli altri fedeli). Solo questi restano in chiesa per tutto il tempo della liturgia eucaristica, naturalmente senza poter ricevere l'eucaristia. Inoltre si comincia nel IV secolo a formare una casistica riguardante la durata di tempo di permanenza nella con dizione di penitente secondo i vari tipi di peccati; tale durata può essere di diversi anni per le colpe di maggior gravità. Stralciamo qualche esempio. Il concilio di Ancira del 3 1 4 impone una penitenza a vita per un omicidio volontario e dieci anni per un aborto, mentre per le colpe sessuali e l'idolatria la durata della penitenza va dai due ai trent'anni, secondo le circostanze (can. 2 1 e 22) . Basilio prescrive dieci anni per un aborto e venti per un assassi nio. Le Costituzioni apostoliche, originarie della Siria nel la fine del IV secolo, sono molto più indulgenti. In Occi dente c'è ancor maggior rigorismo, in quanto sia nel V lettera di Agostino a Paolina di Nola ; sermo 392, S . Cfr. F. van der Meer, Sant'Agostino pastore d'anime, Roma 1971, 837-848. Cfr. paragrafo 3 di questo capitolo. 191
secolo che nel VI, si incontrano penitenze che duravano tutta la vita. I vescovi però avevano grande libertà nel determinare la durata della penitenza, tenendo conto soprattutto delle condizioni soggettive del colpevole, perché « se uno ha commesso un tale crimine da meritare di essere separato dal corpo di Cristo, nel far penitenza non si deve guardar tanto la quantità del tempo quanto l'intensità del dolore » (Agostino, Enchiridion 17, 65) . « In ciò che riguarda la valutazione dei loro peccati, spetta al vescovo farlo. Ten ga conto dell'accusa del penitente, ma anche delle sue lacrime e dei suoi gemiti » (papa Innocenza, Epist. l , 7) . Agostino, in una lettera a Paolino di Nola, espone le sue preoccupazioni al riguardo; ne riportiamo alcuni passi: " Che dire poi del problema se si deve punire o non punire, dal momento che in entrambi i casi abbiamo di mira solo di giovare alla salvezza dei fratelli ? Altro pro blema è sapere la misura nel punire, poiché occorre tener presente non solo la natura e il numero delle colpe, ma pure la forza d'animo con cui uno sopporta un castigo o rifiuta il castigo, affinché ne ritragga vantaggio o almeno non ne ricavi uno svantaggio. Quanto è misterioso ed oscuro tutto ciò ... Quanto a me, confesso che a tale pro posito mi succede di sbagliare ogni giorno e di non sape re quando e come osservare il precetto scritturistico: Quelli che mancano, riprendili alla presenza di tutti, affinché tutti ne abbiano timore (l Tim. 5, 20) » (Epist. 95, 3 ) . Per i moribondi i l concilio d i Nicea del 325 aveva stabili to: « Per quello che riguarda i moribondi, si continui a osservare l'antica regola canonica, cioè: il moribondo non venga privato cJ.ell'ultimo e indispensabile viatico. Se l'ammalato ritorna in salute, prenderà posto fra coloro che partecipano solo alla preghiera, dopo essere stato perdonato e ammesso alla communio. Così pure il vesco vo darà l 'eucaristia, dopo previa e necessaria inchiesta, a chi chiede di riceverla in punto di morte » ( can. 1 3 ). Questa regola non si impose che lentamente, poiché essa sconvolgeva non solo la prassi di diverse chiese, ma an che la concezione stessa della penitenza, che esigeva una lunga espiazione previa; per esempio nella rigorista Gallia entrò in vigore solo nel V secolo, soprattutto per opera degli interventi dei papi Innocenza I e Celestino I. 192
In Occidente la penitenza era resa particolarmente pesan te e inaccettabile da parte della masse dei fedeli per una serie di interdetti, che colpivano coloro che si sottomet tevano ad essa; tali interdetti restavano validi anche dopo che i penitenti erano stati riconciliati; tra queste proibi zioni vitalizie incontriamo: non poter assumere funzioni pubbliche civili , svolgere il servizio militare, dedicarsi al commercio, entrare nel clero, e soprattutto la continenza perpetua anche per le persone sposate. Queste severe proibizioni venivano applicate in modo particolare in Gal lia e in Spagna, mentre Leone Magno cercava di essere più indulgente (Epist. 167, 9-19). Il risultato di tanta severità fu che quasi più nessuno accettava la penitenza canonica se non nell'ultimo periodo della vita; anzi un importante concilio della Gallia del 506 prende atto della situazione venutasi a creare e stabilisce che « alle persone ancora giovani si concederà difficilmente la penitenza, a causa della debolezza della loro età » (Agde, can. 1 5) . Si crearo no allora anche dei sostitutivi della penitenza pubblica, come l'abbracciare la vita monacale - allora così stimata da venir considerata come un secondo battesimo - op pure divenire conversi, cioè condurre una vita ascetica privata. In ambedue i casi, una volta abbracciati questi stati di vita, non era necessaria una lunga espiazione e si veniva subito riamessi all'eucaristia. Al clero superiore, sia in Occidente che in Oriente, dall'i nizio del IV secolo, non viene concessa la penitenza, ma la degradazione, che successivamente si accompagnerà con il ritiro in solitudine, in genere nei monasteri: « E. contrario agli usi della chiesa che i chierici ordinati, sa cerdoti o diaconi, possano ricevere il rimedio della peni tenza per i loro peccati con l'imposizione delle mani . I chierici peccatori, per meritare la misericordia di Dio, devono chiedere di essere ammessi a ritirarsi in solitudi ne » (Leone M., Epist. 1 67, 2) . Ormai la penitenza pubblica era arrivata a un vicolo cie co, per questo dal secolo VI I si diffonde con facilità la penitenza detta « tariffata », propagandata dai monaci ir landesi e anglosassoni. Essa consisteva in una confessione precisa delle varie colpe e un'imposizione fissa di peni tenza (in giorni, mesi, anni), consistente soprattutto in digiuni, con possobilità di sostituzione con altre opere che potevevano essere compiute anche da altre persone, ..
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come i monaci per esempio (13). La penitenza, divenuta ormai privata, poteva essere ripetuta per altre colpe, ve nendo così a cadere uno dei presupposti dall'antica di sciplina dell'unicità e irripetibilità di essa; inoltre veniva amministrata regolarmente da un presbitero e non più riservata al vescovo, con la conseguente introduzione del la confessione frequente, che successivamente diventa pe riodica, anzi obbligatoria saltem semel in anno (Concilio Lateranense IV del 1 2 1 5, cap. 2 1 ) . Conosciamo molto d i meno l'evoluzione penitenziale della chiesa orientale; anche nelle regioni bizantine verso il secolo VIII essa sfociò in un sistema simile a quello occi dentale, ma per difficoltà inerente alla sua applicazione, decade quasi completamente (14). Un aspetto interessante del procedimento penitenziale era costituito dal fatto che, durante il periodo della sati sfactio da parte dei penitenti, tutta la comunità era coin volta mediante la correzione fraterna, il consiglio e so prattutto la preghiera. Già Tertulliano all'inizio del III secolo osservava: << Il penitente alimenta d'ordinario le sue preghiere con digiuni ... si rotola ai piedi dei sacerdo ti, si inginocchia davanti a quelli che sono cari a Dio, e supplica i fratelli di intercedere per ottenergli il perdo no » (De paenitentia, 9); « Non può un corpo allietarsi della disgrazia di uno dei suoi membri ... Dove sono uno o due fratelli, là è la chiesa, e la chiesa è Cristo. Perciò quando tu tendi le braccia verso le ginocchia dei fratelli, tu abbracci Cristo, tu implori Cristo, e similmente quan do essi spargono lacrime su di te, è Cristo che soffre, è Cristo che supplica il Padre » (o.c., 1 0) . Conserviamo testi di preghiere che la comunità recitava, come per i cate cumeni, durante le assemblee liturgiche anche per i peni tenti, che ricevevano, come si è accennato, pure l'imposi zione delle mani. La riconciliazione finale e la conseguen te riammissione all'eucaristia (la pax ecclesiae) si compiva no mediante un'ultima << imposizione delle mani, (che) fa le veci del battesimo per il peccatore, poiché noi riceviamo la comunicazione dello Spirito santo sia mediante l'impo( 13) Vengono redatti numerosi penitenziali, cioè liste di peccati con la determinazione precisa della satisfactio da compiere per ciascuno di essi. I penitenziali, abbondanti in Occidente, si trovano anche nell'Oriente bizantino. ( 14) Cfr. Ligier, citato nella nota 8, pag. 146 e 164.
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sizione delle mani sia mediante il battesimo » (Didascalia apost. 2, 4 1 ) . II ministro, vescovo o presbitero, che compiva l a riconci liazione accompagnava il gesto dell'imposizione delle ma ni con una preghiera, ma non pronunciava alcuna formu la assolutoria (io ti assolvo ...) , che si è introdotta invece posteriormente nella chiesa latina (15). Tale rito già nel IV secolo in Italia si svolgeva il giovedì santo: » Quanto a coloro che ... fanno penitenza saranno riconciliati il gio vedì santo, secondo l'usanza della chiesa romana » (Inno cenza, Epist. 25, 7); mentre in Spagna avveniva il venerdì; naturalmente per casi di necessità non c'era un tempo fisso. In Oriente si usava anche ungere il penitente. L'istituzione penitenziale, per sua natura, è complessa, poiché è l'unione di vari elementi: personali, sia interni che esterni, la comunità e la misericordia e la bontà di Dio. Secondo la sensibilità culturale e teologica del tempo a cui ci si riferisce, si può porre l'accento in modo parti colare su uno di questi elementi, che a sua volta influisce sulla forma liturgica e sociologica di questo sacramento. Gli antichi, attribuendo eccessiva importanza alla sati sfactio, lo rendevano accettabile solo ai coraggiosi; men tre i moderni, ponendo l'accento sull'atto interno di pen timento e sulla bontà divina, lo rendono facilmente una routine. Ho cercato di offrire una visione più o meno completa della penitenza nella chiesa antica, anche se per esigenze di spazio su qualche punto mi sono limitato a un cenno sommario. Tuttavia è importante far notare che in questo argomento è necessario applicare una metodologia nuova rispetto a quanto s i è fatto finora, in quanto è indispen sabile studiarlo sotto le varie angolazioni possibili oggi grazie ai progressi di molte scienze. Gli studiosi in passa to, in genere, per esigenze teologiche o apologetiche, han no teso a raccogliere innumerevoli elementi per offrire un quadro più o meno unitario della penitenza antica. Ma la nostra sensibilità storica ci fa utilizzare gli stessi tasselli per offrire una visione cromatica nuova. In altre parole, mentre su questo punto l'antichità ci presenta, da Iuogù a luogo, tante diversità in continua evoluzione, e quindi non facilmente riconducibili a sistema, i moderni hanno (15) Cfr. Poschmann, o.c., pag. 190 ; Ligier, o.c., pag. 153-155. 195
privilegiato solo alcune caratteristiche, perché meglio co nosciute rispetto ad altre. In realtà, in questo specifico argomento, come del resto anche in altri, oggi ci accor giamo che esistettero maggiori diversità di quanto si pen sasse anni addietro proprio nei primi tre secoli: diversità che successivamente andarono attenuandosi per influsso, ad esempio, della legislazione conciliare, piuttosto che di versificarsi ulteriormente, come si credeva in precedenza. Di qui la difficoltà di ricostruire la disciplina penitenziale soprattutto per questo periodo più antico. 3 . Scomunica e unzione degl i infermi
Strettamente connessa con la disciplina penitenziale è l'esclusione dalla comunione ecclesiale ( = scomunica) del colpevole, il quale dopo essere stato ammonito due vol te ( 1 6), venga considerato « come un pagano e un pubbli· cano » (Matteo 1 8, 17). Per il periodo antico è molto difficile distinguere il procedimento penitenziale dall'e· sclusione dalla comunità: pur essendo distinti nella strut tura e nelle finalità, non sono però molto differenziati nella prassi e soprattutto nella terminologia. Di fatti il termine scomunica, pur se tardivo, si applica sovente ad ambedue i procedimenti. Già dal Nuovo Testamento tale separazione può assumere due forme: la prima è una semplice esclusione dall'eucaristia per indegnità (2 Corinzi 1 1 , 26-31 ) ; l'altra è l'espulsione dalla comunità stessa, co me fu per l'incestuoso di Corinto: « scacciate di mezzo a voi quel malvagio " (l Corinzi 5, 1 3 ; 5, 9-12; 2 Tessalonicesi 3, 14 s). I responsabili della comunità non devono tacere, ma intervenire con autorità (l Timoteo 5, 20; Apocalisse 2, 2; 2, 14-16). Lo scopo dell'esclusione è sempre duplice: la comunità si sente minacciata nella sua identità dalla corruzione e si vuoi proteggere (17), d'altra parte cerca il (16) Una prima volta il colpevole è ammonito in segreto ; poi con testimoni, infine davanti a tutta la comunità. Altri passi citati per giustificare nell'antica chiesa il potere conferito agli apostoli sono: Giovanni 20, 22 s. ; Matteo 16, 19 ; 15, 2 ; l Giovanni 5, 16 s. Cfr. J. Bernhard, Excommunication et pénitence-sacrament au x premiers siècles de l'Eglise: Revue Droit Can. 15 (1965) 265-281 ; 318-330 ; 16 ( 1966) 41-70. ( 17) Cfr. Barnaba, Epist. 19, 2: « Non ti unirai a coloro che cam minano nel cammino della morte ». 196
pentimento del colpevole e la sua salvezza, mettendolo in condizione di dover far penitenza: « Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma in parte almeno, senza voler esagerare, tutti voi. Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dai più, cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e con fortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore trop po forte. Vi esorto dunque a far prevalere nei suoi ri guardi la carità » (2 Corinzi 2, 5-8 ; cfr. 12, 21 ; l Giovanni 2, l s; 2 Tessalon. 3, 15). Nell'antico Testamento il colpevo le poteva essere soggetto anche alla pena di morte, invece ora lo si priva solo della cittadinanza della nuova comu nità con scopo chiaramente educativo e correttivo (Dida scalia apost. 2, 39; Agostino, De fìde 1 1 , 3 : PL 40, 199) . Lo stesso atteggiamento riscontriamo nel periodo succes sivo (Barnaba, Epist. 19, 4; Ignazio, Smirnesi 4, l ; 7, 2; 2 Clemente 17, 3 e 5 ; Codex ecci. afric., can. 38; 76; 80) . Nel periodo patristico possiamo distinguere tre tipi di e sclusione dalla communio, delle quali quando venivano applicate dal vescovo, si redigevano appositi verbali (cfr. Agostino, Epist. 250, l e 3). Il primo è l'esclusione com pleta e la rottura totale con il colpevole; esso riguardava soprattutto gli apostati, gli eretici e gli scismatici, cioè quei casi in cui il peccato veniva considerato anche un delitto, che spezzava tutti i legami della communio. La scomunica comportava sia l'esclusione liturgica, cioè la non partecipazione al culto, e sia l'esclusione sociale, per cui agli altri cristiani era proibito avere rapporti con gli scomunicati ( 1 8) . Così si esprime Tertulliano: << Ed è gra vissima minaccia, in considerazione dell'ultimo giudizio divino, che ci attenderà dopo la morte, il fatto che qual cuno si trovi ad aver commesso colpa tale da meritare d'essere escluso dalla preghiera in comune, ed essere te nuto lontano dalle nostre adunanze e da qualunque even( 18) Numerosi testi che si possono addurre: cfr. E. Marantonio Sguerzo, o.c., 1 12-139, part. 114 ss. Le espressioni che usa Origene per indicare la condizione del colpevole sono: abici a convento bonorum, segregari a coetu castrisque sanctorum, extra castra erit conversatio eius: In Levit. 8, 10: PG 12, 502-504. Naturalmente nel IV secolo furono emanate anche disposizioni riguardanti possibili ricorsi contro la scomunica inflitta da un vescovo (Cfr. concilio di Nicea, can. 5 ; Canoni apost. 36 (38) ; Codex ecc. Africanae, can. 133) . 197
tuale rapporto con noi » (Apologetico 39, 4). Gregorio Taumaturgo, in occasione di un'invasione gotica nel Pon to, nel III secolo procedette severamente contro coloro che, approfittando della confusione, si erano impadroniti di beni altrui : << perciò ci parve bene di bandire costoro, per paura che la collera (di Dio) non ricada su tutto il popolo e in primo luogo sui pastori che si fossero astenu ti dal punirli » (Epist. can. 2) . Tuttavia, come si è già visto nel primo paragrafo di questo capitolo, c'era anche per loro la possibilità di riammissione dopo la dovuta penitenza. Se erano nati o erano stati battezzati nell'ere sia, la riammissione non esigeva la satisfactio, ma solo l'imposizione delle mani. L'altro tipo di esclusione invece aveva carattere solo cul tuale, non implicando la rottura dei rapporti sociali per questo alcuni parlano di scomunica liturgica -; essa riguardava sia i peccatori non sottomessi al regime peni tenziale sia quelli che avevano iniziato il cammino di riconciliazione. Esso escludeva dall'eucaristia e conferiva ai penitenti ufficiali uno stato giuridico particolare: un posto riservato nelle assemblee liturgiche, a volte un abi to speciale, preghiere e ingiunzioni varie. Dal IV secolo si introduce un altro tipo di scomunica che non è collegata con la penitenza ecclesiastica e viene applicata per colpe meno gravi; esso comporta solo il rifiuto dell'eucaristia, per esempio una ragazza « che non ha saputo custodire la verginità, se sposa colui al quale si è concessa, dal mo mento che ha soltanto violato la legge del matrimonio, dovrà essere riconciliata in capo a un anno senza dover passare attraverso la penitenza » (Concilio di Elvira, can. 14). I vescovi applicavano a loro discrezione questo gene re di scomunica, per cui Leone Magno, in una lettera ai vescovi della Gallia meridionale, esorta a essere pruden ti. Fino al IV secolo la scomunica vera e propria è così unita a quella liturgica, che in genere non si può distin guere l'una dell'altra; perciò spesso non riusciamo a se perarla dalla penitenza. Con la decadenza di questa, or mai riservata a casi eccezionali, e l'introduzione di quella privata, in parte si scioglie il legame tra penitenza e scomunica, che divenne perciò una pena con scopo cor rettivo indipendente. Inoltre nel p eriodo precostantiniano, non ammettendosi salvezza al di fuori della comunità 198
cristiana, l'esclusione da essa era in qualche modo consi derata anche come anticipazione della futura condanna definitiva; dopo Costantino invece viene sempre più vista come sola esclusione ecclesiale dalla comunità visibile dei cristiani e quindi si distingue maggiormente dalla peni tenza, sino a venir considerata solo come pena esterna medicinale nel diritto canonico moderno. Dobbiamo anche accennare al fatto che, quando l'Impero divenne cristiano, i delitti contro la fede, in genere non quelli contro la morale cristiana, non furono puniti solo con l'esclusione dalla comunione ecclesiale, ma a volte anche dalle leggi civili, con la conseguente esclusione dal la società civile; le due legislazioni erano indipendenti, ma a volte risultavano complementari (19). Anche il sacramento dell'unzione degli infermi è in rap porto, per il perdono dei peccati, con la dottrina peniten ziale. In Occidente, nei secoli VIII-XI, cominciò ad ammini strarsi solo ai moribondi, per cui fu denominato estrema unzione, termine che oggi viene abbandonato in favore della più antica terminologia. In Oriente viene detto eu chelaion (l'olio della preghiera) . Questi nomi, e altri usati nel corso dei secoli, mettono l'accento su un aspetto par ticolare, lasciando in ombra altri, e così pure la riflessione teologica storicamente è legata a questi cambiamenti. Oggi, in questo settore, come in molti altri, si assiste ad un abbondante recupero delle fonti dell'antico cristianesimo, per cui si cerca di avere di questa prassi una visione più globale e meno unilaterale. Racconti di malati che incontrano Gesù e i suoi discepoli costituiscono una parte notevole dei vangeli. I malati ri chiamano la loro cura e la loro attenzione; chiedono e ottengono la guarigione, che si opera con la preghiera e, a volte, viene accompagnata con altri gesti simbolici, co me l'imposizione delle mani (Matteo 9, 1 8 ; 9 , 1 3 ; Marco 7, 32) e l'unzione con l'olio (Marco 6, 1 3) . Marco riferisce ( 19) Cfr. Codice di Teodosio 16, 7, 4 ( gli apostati perdono il diritto di testare) ; 1 1 , 39, 1 1 ( gli apostati decaduti dai diritti civili e po litici) ; 16, 2, 29 ( gli eretici sono privati dei diritti civili) ; 16, 5 , 28 (è eretico colui che si allontana anche in materia leggera dalla fede e dalla disciplina cattolica) ... Cfr. Marantonio Sguerza, o.c., pp. 141-183. - L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel codice teodosiano, Napoli 1980, pp. 81-117. 199
,;
che i Dodici erano stati inviati da Gesù per una prima missione, ed essi « partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano " (6, 12 s). Questo testo è stato molto utilizzato, nell'antichità, per giustificare la prassi dell'unzioni degli infermi. Ma il testo biblico che può meglio fondarla si trova nella lettera di Giacomo: « Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, sal meggi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il mala to: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli unì per gli altri » (5, 1 3-16) . In questo testo si mettono in rilievo vari aspetti: la persona inferma ha una malattia di una certa gravità in quanto non può recarsi personalmente dai presbiteri, ma deve chiamarli a sé; i presbiteri, secondo il contesto, sono i capi della comunità, che è certamente di estrazione giu daica; essi compiono il gesto simbolico dell'unzione ac compagnandolo con la preghiera fondata sulla fede; la preghiera è più importante dell'unzione per ottenere la salvezza; l'olio, senz'altro di ulivo, non viene usato come medicamento, prassi frequente nell'antichità, ma con sco po specificamente religioso-simbolico; l'infermo, semiti camente concepito come unità di anima e di corpo, ne riceverà un beneficio nel suo essere senza ulteriori spe cificazioni di quale carattere sia; l 'infermo può ottenere la remissione dei peccati, qualora ne avesse bisogno; per questo è necessario confessarli. Il rito dell'unzione non è gesto privato di alcuni, ma atto ufficiale della comunità, manifestato per mezzo della presenza dei presbiteri, e quindi di carattere ordinario e non legato al dono delle guarigioni esistente nella chiesa antica. Esso vuole essere segno che tutta la chiesa ha cura dell'infermo. L'autore della lettera non sembra che crei di sua iniziati va questo gesto simbolico di contenuto religioso; esso doveva essere diffuso anche altrove già prima della reda zione della lettera. Infatti sappiamo che l'uso dell'unzione degli infermi era presente anche in ambiente dove la lettera di Giacomo non era riconosciuta come canonica; inoltre il brano riportato, pur così chiaro per noi, non veniva citato nei primi secoli, per giustificare la prassi 200
dell'unzione degli infermi, ma per le remissione dei pec cati nella chiesa (20). A tale proposito non sembra che sia stato utilizzato prima del quinto secolo ; difatti in Occi dente lo ricorda papa Innocenza nel 416, come meglio si vedrà in seguito e in Oriente i Canoni di Ippolito, redatti, a quanto sembra, nel tardo V secolo. La prima testimonianza che faccia riferimento a un'un zione di infermi si incontra nella Tradizione apostolica ed è una preghiera di consacrazione dell'olio: « Come san tificando quest'olio ... tu dài la salvezza a coloro che lo ricevono e si ungono, così esso porti conforto a coloro che lo gustano e salute a coloro che lo usano » (cap. 5). L'olio, di cui si parla qui, è destinato a persone inferme, che lo possono utilizzare sia come bevanda che per l'un zione; non vengono date le precisazioni presenti nella lettera di Giacomo; inoltre tale olio è distinto, sia per la benedizione che per l'uso, da quello dell'esorcismo e dal l'altro per il rendimento di grazie, legati al battesimo e dei quali l'autore parla al capitolo 2 1 . Il testo della Tra dizione apostolica ebbe larga diffusione ed è passato nei documenti canonico-liturgici orientali che dipendono da esso (es. Costituzioni apostoliche, Canoni di Ippolito, Te stamento dì N. Signore) . Un altro documento liturgico che riferisce la benedizione dell'olio è l 'eucologio di Serapione (t dopo il 362) ; per la Siria del IV secolo abbiamo le testimonianze di Afraate (t dopo il 345) ed Efrem il Siro. Se ci rivolgiamo ai paesi di lingua latina, la prima menzione esplicita e chiara è del 416 da parte del papa Innocenza nella sua lettera a Decenzio di Gubbio. Egli per primo cita esplicitamente il testo di Giacomo in riferimento all 'unzione degli infermi e aggiunge che tale unzione viene fatta con olio benedetto dal vescovo, e può essere compiuta sia dal vescovo, che da presbiteri e da laici. Inoltre non può essere conferita ai penitenti, in quanto, essendo genus sacramenti, non può essere ricevuta da quelli ai quali neanche gli altri sacramenti vengono amministrati (Epist. 25, 8). La lettera di Innocenza ebbe larga diffusione e fu inserita nelle (20) Origene sovente paragona il peccato alla malattia e a tal pro posito cita il brano di Giacomo 5, 14 s. in contesto penitenziale: cfr. In Levit. horn, 2, 4: PG 12, 417. Si tenga inoltre presente che in Oriente, durante il rito della riconciliazione, oltre l'imposizione delle mani venne praticata anche l'unzione del penitente. 201
collezioni canoniche occidentali. Tuttavia sono scarse le testimonianze riguardanti l'unzione degli infermi per i secoli successivi, sia per l'Occidente che per l'Oriente. Questa scarsità di dati non è indizio che essa non venisse praticata, ma si spiega in quanto, essendo l'unzione prassi normale, di essa non c'era occasione di parlare. L'olio doveva essere assolutamente benedetto, poiché la preghiera di benedizione, sotto forma di epiclesi, gli con feriva efficacia; in Occidente la benedizione era riservata ai vescovi, mentre in Oriente poteva essere compiuta an che da presbiteri, prassi seguita anche in Gallia e a Mila no. Inoltre in Oriente il rito dell'unzione era riservato al vescovo e ai presbiteri, divenendo sempre più solenne; in Occidente invece era permesso anche a laici, esclusi solo più tardi, sotto l'influsso dell'esegesi della lettera di Gia como, che a sua volta ne determinò la riflessione teologi ca. Questo è un caso tipico in cui la Scrittura non fonda l'istituzione, ma è questa che aiuta a comprendere la Scrittura e tale comprensione a sua volta influisce sull'isti tuzione.
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aspetti economici e sociali
1. Ricchezza e lavoro
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L'atteggiamento dei cristiani, agli inizi della loro storia, verso i ricchi e la ricchezza presenta un ventaglio di sfumature. Luca descrive la situazione idilliaca della co munione dei beni regnante a Gerusalemme, ma essa era solo un atto volontario e compiuto solo da alcuni, non obbligatorio per tutti (Atti 2, 44 ss). E innegabile però la presenza di una struttura comunitaria che tendeva all'e guaglianza tra le varie componenti: tutti sottomessi ai Dodici, la fractio panis in comune, l'assistenza ai biso gnosi con i beni dei più ricchi. Ma l'esperienza di Gerusa lemme, della quale non conosciamo l'estensione e l'am piezza, fu stroncata dalla persecuzione. La lettera di Gia como invece rispecchia un'aspra polemica contro i ricchi e la loro ricchezza, mettendone in luce i pericoli per la salvezza ( 1 , 10 s; 5, 1-6) . In effetti nell'ambiente giudeo-cri stiano esisteva da parte di alcuni la tendenza all'esalta zione del pauperismo: la povertà vi viene magnificata in se stessa. Tale tendenza sfocia nella setta degli ebioniti. Anche Marcione affermava che la buona novella di Gesù riguardava i poveri. Effettivamente la comunità cristiana era composta, nel primo e nel secondo secolo, in grande maggioranza di gente non ricca, per cui agli occhi dei pagani poteva esserci identificazione tra pauperes e cri stiani, come testimonia Minucio Felice (Ottavio 36). Del resto i cristiani non si vergognavano a riconoscerlo: ple rique pauperes dicimur (Tertulliano, Ad uxorem 2, 8). La conversione dei ricchi era più difficile sia per ragioni politiche - difficoltà di far carriera nel cursus honorum 203
-, sia per ragioni sociali - difficoltà di inserimento nella vita sociale della città di allora -, sia per i doveri di fratellanza con tutti, anche con gli schiavi, imposti dalla nuova religione, e sia infine per possibile ricatto da parte dei propri schiavi o di altri con la denunzia di essere aderenti al cristianesimo ( 1 ) . Per cui Lattanzio annota che eo fìt ut pauperes et humiles Dea credant facilius ... quam divites (Divinae Inst. 7, 1 ) . Tra i cristiani, alcuni sceglievano la povertà volontaria per motivi ascetici, senza particolare significato sociale o comunitario; su questo punto il dibattito in seno alla comunità doveva essere vivace in quanto in numerosi scritti si segnalano i pericoli della ricchezza, che accieca e allontana dalla vita cristiana (Didachè 5, 2; l Clemente 1 6, l O ; Barnaba 20,2; Erma, Pastore, sim. 9, 20, 1-2; vis. 3, 6, 5-7; prec. 10, l, 4). Tuttavia la dottrina prevalente, che poi diverrà comune di tutta la chiesa, insegnava che la ric chezza non è un male in sé, ed è eticamente irrilevante; anzi essa va considerata come dono di Dio (Didachè l, 5 ; l Clemente 39, 3 ; Erma, Pastore, prec. 2, 4 ; sim. 2, 7 ; Diogneto 1 0 , 6; Clemente Al . , Quis dives, cap. 1 6 ; Kerygma di Pietro e Paolo, ed. Hilgenfeld p. 57). D'altronde, tolta qualche eccezione, la povertà non viene mai considerata un bene in sé. A qualcuno che poteva pensarla a questo modo le Pseudo-Clementine rispondono: « L'indigenza del l'indigente non è buona se si brama quel che non convie ne. Tra i poveri vi sono di quelli che sono ricchi con il ' desiderio; essi sono castigati per aver desiderato avida mente il guadagno. Del resto non basta essere indigenti per essere giusti ,, (Horn. XV, 10; citato in J. Dupont, Le b eatitudini, I I , Alba 1977, p. 647) (2) . L'uomo pertanto può possedere, ma deve rifiutare la cupidigia, l'avarizia, la sete di ricchezze (Policarpo, Epist. 1 1 , l; Taziano, Ad ( l ) La lettera dei cristiani di Lione riferisce che dei domestici pagani accusavano i loro padroni cristiani (Eusebio, Storia ecc. V, l , 14) . Altrettanto afferma Tertulliano quando scrive che i ne mici erano i domestici nostri (Apologetico 7) . Per altri casi cfr. V. Benigni, Storia sociale della Chiesa, vol. l, Milano 1906, p. 359. (2) I Padri, spiegando la beatitudine evangelica di Matteo, beati i poveri in spirito (5, 3) , hanno presentato tre interpretazioni: ac cettazione volontaria di uno stato di povertà, liberamente scelto o solo accettato ; il distacco interiore dalla ricchezza ; oppure l'u miltà di cuore. Cfr. J. Dupont, Le beatitudini, vol. I I, Alba 1977, pp. 626-656 (per la parte patristica) . 204
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Tertulliano, De Molo/. 1 1 ; Comt. apo> (Pastore. sim. 2, 5-10 trad. Quacquarelli) (3). In questa pagina cogliamo ..
(3) Su questo famoso passo di Erma si veda: L. Alfonsi, La vite e l'olmo, in Vigiliae Chr. 21 ( 1%7) 81-86. Che ci fossero correnti di pensiero che ritenevano che i poveri in quanto tali fossero beati si può dedurre indirettamente dai testi che esplicitamente affermano il contrario, dal movimento ebio nita, dal Quis dives salvetur? di Clemente Al. (cap. 2 e 11), dalle 20S
in abbozzo tutti i motivi della concezione cristiana della ricchezza; e inoltre l'accento posto sul beneficio che il ricco riceve dal soccorrere il povero sarà successivamente ampliato e sviluppato, e sfocerà nelle raccomandazioni dei Padri dei secoli IV e V di far testamento, pensando anzi tutto alla propria anima, mediante lasciti ai poveri e alla chiesa. Una motivazione continuamente ripetuta da scrittori e predicatori riguarda l'elemosina come mezzo per ottenere il perdono dei peccati : « Se potete fare il bene, non lo differite, perché l'elemosina libera dal peccato » (Policar po, Epist. 10, 2). Anzi, viene collocata al primo posto: « Bella è l'elemosina come pentimento del peccato. Il di giuno è migliore della preghiera, e l'elemosina (migliore) di entrambi ... ; l'elemosina è il sollievo del peccato » (2 Clemente 16, 4; cfr. Origene, In Matth. 12, 28 ed. Klo stermann p. 1 3 1 ; Cipriano, De opere et. el. 4-8). Anche altre ragioni vengono addotte per esortare all'elemosina. Questa è come un prestito fatto a Dio, perché colui che dona ai bisognosi « sappia che offre a Dio tutto ciò che offre » (Leone M., sermo 1 1) , così che come rende parte cipe Cristo dei beni terreni, questi lo renderà partecipe del regno dei cieli (Cipriano, De opere et el. 1 3). Si vede una identificazione tra il povero e Cristo: « che ... vediate Cristo nei bisognosi, Cristo che tanto ci ha raccomandato i poveri, da attestare che in essi noi vestiamo, accogliamo e cibiamo lui stesso » (Leone M., sermo 6) . Oltre a questi motivi specificamente cristiani, altri puramente umanitari non mancano, in quanto i poveri sono fratelli bisognosi (cfr. Origene o.c., ed. Klostermann p. 389; Gregorio di Nissa, De pauperibus am. l e passim; Leone M., sermo 1 6); per questo motivo l'elemosina va fatta a tutti senza distinzione di persone (Cipriano, o.c. passim; Giov. Cri sost. Hom. in Eph. 1 0, 4). In alcuni autori, soprattutto di formazione monastica, vengono addotte motivazioni di carattere ascetico per il distacco dalla ricchezza e il suo impiego a vantaggio dei poveri. Alla fine del IV secolo, in modo particolare, personaggi ricchi e influenti compirono gesti clamorosi nel distribuì-
Ps. Clementine, horn. XV, 10 quando si chiede se i peccatori poveri sono da annoverarsi tra quelh che si salvano. 206
re enormi ricchezze. Il caso di Paolino di Nola non fu isolato. II termine elemosina, usato quasi esclusivamente in am biente cristiano, ha forte risonanza religiosa, in quanto essa spesso era legata alla celebrazione liturgica, durante la quale si raccoglievano le libere offerte (cfr. Giustino, l Apologia 67 ; Tertulliano, Apologetico 39; Leone M., ser mo 6), e per questo considerata parte del servizio reso a Dio (cfr. Ireneo, Adv. haer. 3, 12, 7; Basilio, hom. 5, 7) . Essa può essere praticata da tutti, secondo le proprie possibilità, perché quello che vale è l'intenzione : « Anche i poveri, perciò, abbiano il loro guadagno in questo com mercio di misericordia e tolgano dalla loro sostanza, per quanto piccola, qualcosa che non li rattristi, per il so stentamento dei bisognosi. Il ricco sia più abbondante nel dono, ma il povero non sia inferiore nell'animo » (Leone M., sermo 8; cfr. Giovan. Crisost. Hom. 54, 4 in Genesim). Da queti accenni si può arguire che è possibile ricostruire tutta una teologia dell'elemosina nella vita e nella predi cazione della chiesa antica, per ricchezza varietà e diver sità di motivazioni addotte. Inoltre l'insistenza, che direi ossessiva in qualche caso, sulla necessità, l'importanza e gli effetti dell'elemosina, manifesta uno degli aspetti me no conosciuti della vita delle antiche comunità. Il Criso stomo osserva che qualcuno potrebbe rinfacciargli << che il suo discorso ogni giorno riguarda l'elemosina e la mi sericordia » (Hom. in Matth. 88, 3 : PG 58, 779). Solo l'ele mosina frutto di onesto lavoro veniva accettata, mentre quella proveniente da guadagni illeciti o da persone in degne era categoricamente rifiutata (cfr. Didascalia apost. IV, 6; Statuta ecci. ant. 49; Commodiano, Instruct. 2, 20). Clemente Alessandrino è il primo scrittore che affronta il tema della ricchezza e della povertà con un discorso am pio e articolato, nel suo trattatelo Quis dives salvetur? Per Clemente la mancanza di beni non è qualcosa di ammire vole in sé, anzi può costituire ostacolo ad una vita serena da dedicarsi alle cose dello spirito (capp. 12 e 12; spec. fine del cap. 14); come pure non è merito particolare spogliarsi di tutto e poi conservare il desiderio o la bra mosia e l'attaccamento ad esse (cap. 13). In realtà la ricchezza, dono di Dio, ci aiuta a compiere anche i pre cetti del Signore. Ricchezza e povertà in quanto tali non hanno qualificazione etica e pertanto non sono determi207
nanti ai fini del conseguimento della salvezza. Infatti sia il ricco che il povero possono essere pieni di bramosie, di desideri, di legami con la ricchezza. Per questo il giudizio etico e religioso si accentra per Clemente sul modo del conseguimento dei beni, se sia stato onesto o no (Pedago go I, 1 1 ) , e sul loro uso secondo la volontà di Cristo (cfr. Quis dives cap. 14 e cap. 1 8) . Clemente insiste sulla be neficenza, perché « ogni sostanza che ciascuno trattiene per sé come se fosse un bene privato e non mette in comune con chi ne ha bisogno, diventa qualcosa di ini quo » (cap. 32). << Nel pensiero di Clemente confluiscono Ja tradizione della sapienza giudaica (i beni sono buoni e segno di benedizione, nel popolo di Dio non vi deve essere il povero), l'etica stoica (le ricchezze sono un pericolo), l'annuncio evangelico (la circolazione dei beni è segno di amore fraterno) » (4) . Ci siamo soffermati s u Clemente in quanto l e sue posi zioni ideologiche influenzarono la riflessione successiva, che sostanzialmente, pur nella varietà delle accentuazioni ed esigenze, si ritrova sulle stesse posizioni: dato l'ap prezzamento positivo della ricchezza, che non ha rilevan za dal punto di vista etico, il giudizio invece verte sulle modalità dell'acquisto e sull'uso, sull'attaccamento ad es sa, sulle necessità della beneficenza, motivata di volta in , volta da ragioni evangeliche, dall'amore per il prossimo, dal distacco, da ragioni di giustizia, dalla tendenza ad un certo livellamento sociale esistente nel seno della comuni tà, ecc. Inoltre se tutti i Padri sono d'accordo sulla ne cessità del distacco affettivo dai beni, ci furono sempre nella chiesa antica, e non solo allora, coloro che pratica rono anche le forme più austere del distacco effettivo, ' come certe forme di monachesimo e di pauperismo. Tut. : tavia il pensiero comune della chiesa si preoccupava del· l'aspetto sociale e spirituale della rinuncia, e nella predi cazione dei Padri della seconda metà del IV secolo si innestano anche motivi ascetici, giacché molti di essi ave vano avuto formazione monastica; mai però viene messa in dubbio la legittimità della proprietà privata. Quanto si è detto fin qui ci permette di superare un problema spesse volte dibattutto sul diritto di proprietà (4) M. G. Mara, Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, Roma 1980, p. 43. 208
ammesso o negato dai Padri. Questi non si son posti la questione della liceità del sistema economico dei loro tempi e solo raramente hanno affrontato l'aspetto teorico del diritto di proprietà; si sono limitati alle situazioni di fatto, in quanto si preoccupavano di cambiare più gli individui che la società e più i ricchi che i poveri. Dai testi citati esortanti alla beneficenza appare evidente che c'erano persone nella comunità che possedevano; non si contestava il loro diritto, ma le si incoraggiava alla gene rosità e alla fratellanza. Anche le espressioni più forti, che sembrano negare il diritto a possedere, vanno lette nel contesto di una parenesi morale e religiosa. << Non allontanare chi ha bisogno, condividi con tuo fratello ogni cosa e non dire che sono tue. Se siete comuni in ciò che non muore, quanto più nelle cose che finiscono » (Dida chè 4, 8). Una espressione ancora più forte leggiamo in Erma: << I ricchi di questo mondo, se non perdono le ricchezze, non potranno essere utili al Signore » (Pastore, vis. 3, 6, 6). La frase della Didaché si ritrova quasi alla lettera nell'epistola di Barnaba ( 1 9, 8). L'episodio di Ana nia e Saffira degli Atti degli Apostoli mostra chiaramente che non si era obbligati a mettere tutto in comune (Atti 5, 1-1 1 ; 1 1 , 29) e tale libertà non viene mai messa in dub bio ( l Corinzi 1 6, 1-2; 2 Corinzi 8, l ; Atti 1 1, 29). La piena e assoluta libertà del donante risalta anche dalla continua esortazione alla beneficenza e da esplicite attestazioni. Giustino scrive: << I ricchi che ne abbiano volontà, cia scuno secondo il proprio piacimento, danno quello che vogliono » ( l Apologia 67) ; e Tertulliano insiste proprio su questa libertà dell'offerta rispetto alle associazioni paga ne, dove si era obbligati a versare una quota (Apologetico 29) . Constatiamo però che l'impegno e l'insistenza a mettere cose in comune per i bisogni di tutti andarono diminuen do con l'ingrandirsi delle comunità e per l'abbassamento del fervore iniziale e la riduzione della tensione escatolo gica. Tuttavia la condanna continuamente ripetuta di non desiderare la roba d'altri e di non rubare è un'indiretta conferma del diritto a possedere. Gregorio il Taumaturgo, dopo l 'invasione gotica del Ponto della metà del III seco lo, scrisse una lettera, inserita poi nelle collezioni canoni che, la quale condanna un vasto spettro di casi di ap p ropriazioni, di abusi o di trascuratezza dei beni altrui. 209
l Del resto molto clero in quel periodo si dava all'accumu lo di ricchezze (cfr. Cipriano, De lapsis 6) . La stessa comu nità ufficiale aveva i suoi beni, che nel corso del IV secolo si accrebbero enormemente. Clemente Alessandrino rifiuta energicamente la teoria di Epifane, figlio di Carpocrate, il quale, sostenendo che « il mio e il tuo fu introdotto dalle leggi », ammetteva una completa comunanza di beni e di vita, anche nei rapporti sessuali (cfr. Stromati III, 2: PG 8, 1 1 08). La nuova visione dei beni offerta dal cristianesimo, oltre il loro uso, riguardava anche le modalità di acquisto. I Padri non si preoccupavano se essi provenivano dall'ere dità, dal lavoro personale o altro, purché in modo onesto. Consigliavano l'agricoltura e quelle professioni che non compromettevano la loro fede (Aristide, Apologia 1 5 ; Ter tulliano, Apologetico 4 1 ; Tradizione apost. 1 5-16) . Viene condannato ogni tipo di guadagno disonesto, anche l'alte rare i prezzi nel mercato (Clemente Ales. Pedagogo III, 1 1) e soprattutto l'usura. La legge romana permetteva il prestito a un tasso di interesse contenuto, ma i Padri condannano qualsiasi genere di prestito inteso a ricevere più del dato: usura est plus accipere quam dare (Ambro gio, Brev. in ps. 54: PL 1 6, 982). A noi oggi sembra natu rale e perfettamente lecito il prestito a un interesse bas so, mentre per gli antichi cristiani il fenus pecuniae fu nus est animae (Leone M., sermo 17 : PL 54, 1 8 1 ) . Già Clemente Ales. nel III secolo formula chiaramente l'at teggiamento cristiano: « La legge proibisce di prestare a interesse al fratello; essa, dicendo il fratello, non intende solo colui che è nato da comuni genitori, ma anche chi è della stessa razza e della stessa dottrina, ed è partecipe dello stesso Logos » (Stromati 2, 1 9 ; cfr. Pedagogo l , 1 0) . Cipriano nei Testimonia raccoglie alcuni testi biblici per dimostrare che non bisogna prestare a interesse (non faenerandum 3, 48); Commodiano nello stesso periodo va ancora oltre, asserendo che dell'usuraio anche la be neficenza non è accetta a Dio (lnstruct. 2, 20: CCh 1 28, 59). Soprattutto nel IV secolo i Padri si scagliano contro l'usura: si conservano due omelie sull'argomento, una di Basilio e l'altra di Gregorio di Nissa; in Occidente particolarmente significativo fu l'intervento di Leone M., che la condanna energicamente in una lettera indirizzata a diversi vescovi; il brano essenziale passò poi nelle col210
lezioni canoniche ( Hadriana), influenzando fortemente il giudizio morale posteriore fino alla condanna del concilio lateranense III del 1 179, che negava la sepoltura eccle siastica agli usurai (can. 25). Già nel IV secolo il prestito a interesse viene condannato da numerosi concili, a volte comminando anche la scomunica e per il clero la deposi zione (cfr. Elvira, can. 20; Arles, can. 12; Nicea, can. 25 ; Cartagine del 348, can. 1 3 ... ) ( 5 ). Le motivazioni addotte dai Padri per tanta severità, si rifanno, oltre che all'Anti co Testamento, anche a ragioni umanitarie di carità e di necessità del povero. Un altro punto dell'insegnamento morale dei Padri può suscitare meraviglia nel lettore moderno: l'insistenza sul la necessità del lavoro e il rifiuto dell'oziosità. D'altra parte la vecchia posizione apologetica, che riscontrava un completo cambiamento della concezione del lavoro ma nuale rispetto alla mentalità comune greco-romana da parte dei cristiani, sembra eccessiva. Difatti la filosofia stoica, soprattutto quella latina, esaltava l'autosufficienza e anche il lavoro manuale, come fanno Musonio ed Epit teto, e lo stesso Marco Aurelio era grato al suo maestro per avergli insegnato a lavorare con le sue stesse ma ni (6). I Padri parlano spesso dell'obbligo del lavoro se guendo l'insegnamento di Paolo: « Quando eravamo pres so di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi » (2 Tessalonicesi 3, 10); a questo testo fa eco la Didachè : « Chiunque viene nel nome del Signore sia accolto ... Se vuole stabilirsi presso di voi, ed esercita un'arte, lavori e mangi; che se invece egli non ha alcuna arte, provvedete, secondo vi suggerirà la vostra prudenza, affinché un cristiano non abbia a vivere tra voi ozioso. Se egli vorrà far così, è uno sfruttatore di Cristo. Guardatevi da siffatta gente '' (cap. 12). Questo testo del primo secolo (5) Sull'usura si vedano eccellenti studi di R. P. Maloney, Early conciliar Legislation on Usury: Recherches Théol. Anc. et Méd. 39 ( 1972) 145-157. Idem, The Teaching of the Fathers on Usury: an historical Study on the Developpement of Christian Thinkmg: Vigiliae Chr. 27 ( 1973) 241-263. (6) Cfr. R. M. Grant, Early Christianity and Society, London 1978, 74-77 con bibliografia a pag. 199 s. Secondo Gran t Clemente Ales sandrino dipenderebbe da Musonio nell'esaltare il lavoro manuale nel Pedagogo III, 9-9. Per il lavoro nei Padri si veda anche in italiano: A. Negri, Filosofia del lavoro, vol. l, Milano 1980, 495-618 (con breve esposizione, antologia di testi e bibliografia) .
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l esprime già le due linee su cui si muoverà la predkazione successiva: la necessità di lavorare per poter vivere e la fuga dall'ozio, come padre dei vizi. Anzi questi due aspet ti vanno in genere uniti: '' Lavorate dunque sempre; pec cato irreparabile è infatti la pigrizia. Che se qualcuno presso di voi non lavora, costui nemmeno mangi. Giacché il Signore odia i pigri, perché il pigro non può essere un fedele » (Didascalia I, 4, 5, ed. Funk p. 1 2). La prescrizio ne vale anche per il ricco, il quale però, se dispone già di ciò che ha bisogno, si dedichi allo studio della Scrittura (o.c. 6) . I Padri a volte esaltano la dignità del lavoro in quanto partecipazione all'opera creatrice di Dio (cfr. Ireneo Adv. haer. V, 3 , 2); ma in genere non elaborano una teologia del lavoro, limitandosi a offrire solo indicazioni di carat tere morale, in quanto creati ad laborem sumus (Ambro gio, In ps. 114 exp. 14, 9; cfr. De Cain et Abel II, 2, 8). -7 Nel IV secolo, con una legge di Costantino del 321 (Codi ce di Giustiniano I I I , 1 2 , 3; Codice di Teodosio II, 8, l) la domenica viene considerata giorno di riposo dei tribunali e nelle attività cittadine, non però per i lavori di cam pagna, che sono autorizzati. Non sappiamo quali motivi abbiano spinto Costantino a emanare tale legge : se per onorare il giorno del sole - forse egli era ancora adora tore del dio sole - oppure per rispetto del giorno del Signore (dies dominica) . Certamente nel suo pensiero c'e ra anche il desiderio di favorire i cristiani perché potes sero dedicarsi al culto in tale giorno con tranquillità. « Già in epoca precostantiana si erano levate con chiarez za voci isolate che insistevano sul fatto che si può cele brare davvero la festa, solo se si è liberi da preoccupa zioni di lavoro » (7). La chiesa fu oltremodo lieta della disposjzione di Costantino e cercò di farla entrare nella coscienza dei fedeli con l'esortazione, con l'ammonizione e persino con la comminazione di pene, considerando peccato certi lavori compiuti di domenica. I cristiani dei primi tre secoli avevano ripudiato il sabato e celebrato la domenica come giorno festivo, anche se essa era giorno di lavoro. Con Costantino la domenica diventa per essi giorno di culto ma anche di riposo; e per giustificare (7)
W.
Rordorf,
1979, p. XIX.
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Sabato e domenica nella Chiesa antica , Torino
l'obbligo del riposo si compie la singolare operazione di applicare alla domenica le prescrizioni riguardanti il sa bato dell'Antico Testamento, in quanto il Nuovo non offriva qui punti di appoggio. In tal modo la domenica cristiana, che in precedenza era stata accuratamente di stinta dal sabato ebraico, assunse, anche se solo in parte, le caratteristiche di quello (8). La domenica cristiana però doveva celebrarsi non solo con il riposo, ma anche nella gioia: « Il primo giorno della settimana dovete trascor rerlo tutto nella gioia; infatti si rende colpevole chiunque il primo giorno della settimana affligge l'anima » (Didasca lia V, 20, 1 1) . Per questo in tale giorno è proibito il digiu no: « Digiunare in giorno di domenica è grande scanda lo ... detestabile e apertamente contrario alla fede cattoli ca e alle divine Scritture >> (Agostino, Epist. 36, 27; cfr. Const. apost. VIII, 47, 64; Ps. Ignazio, Filippesi 1 3 : PG 5, 937) . Il riposo festivo così tenacemente difeso dalla chiesa non solo nell'antichità ma in tutto il Medioevo aveva anche un profondo risvolto sociale, in quanto era l'unico modo per alleviare l'oppressione delle umili classi da parte dei pa troni, concedendo loro un certo recupero fisico e spiritua le : « La legge impone di concedere riposo a schiavi e animali affinché gli schiavi, le ancelle e i salariati sospen dano il lavoro » (Efrem siro, sermo ad n oc t . dom . 4; cfr. Rordorf o.c. p. 185 e 2 1 7) . Questo aspetto sociale viene messo maggiormente in risalto dal fatto che nei monaste ri si lavorava nei giorni festivi (Girolamo, Epist. 108, 20, 3; Regola di Benedetto 48, 23), e dalla distinzione tra lavori servili, proibiti nei giorni festivi, e altri tipi di lavoro, invece permessi, anche se tale distinzione non appartiene al periodo di cui ci stiamo occupando, ma inizia alla fine del VI secolo. Un discorso a parte meriterebbe il lavoro dei monaci, tra i quali affiorano due tendenze. La prima, diffusa in Egitto e anche in Occidente, ammetteva il lavoro manuale, l'al tra, prevalente in Siria, considerava cosa più perfetta vi vere di elemosina e nella piena fiducia della Provvidenza e dedicarsi alla preghiera e ad altre opere spirituali. Gli (8) Le tendenze a considerare il riposo domenicale a11a totale stre gua del sabato ebraico, pur affioranti di tanto in tanto, furono sempre ripudiate: cfr. concilio di Orléans III, can . 28. 213
Statuta ecclesiae antiqua obbligano i chierici al lavoro, senza detrimento però del loro ministero (can. 29) ; altret tanto fanno personalmente o prescrivono alcuni vescovi, come Fulgenzio di Ruspe (Ferrando, Vita Fulgentii 59) . 2 . L'economia ecclesiale
La primitiva economia ecclesiastica si basava sulle libere offerte; già dal tempo di Gesù esisteva una cassa comune (Giovanni 12, 6; 13, 29) che serviva sia per le necessità del gruppo come anche per i bisognosi. Per il periodo dopo la Pentecoste Luca presenta, piuttosto idealizzando, la vi ta comune dei primi cristiani: « Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno » (Atti 2, 42-43) ; gli apostoli ci appaiono come coloro che erano incaricati di ricevere le offerte e di distribuire il necessario (Atti 4, 34-35). Questa prassi di donare ai capi delle comunità è continuata anche nei secoli seguenti, e i fedeli erano continuamente esortati, come già si è visto, a fare l'elemosina sia privatamente, sia a consegnarla a lo ro, i quali poi provvedevano a ripartire il raccolto ai bi sognosi nei modi che si vedranno nel prossimo paragrafo. La dimensione economica, proprio per il suo profondo carattere assistenziale, fu uno degli aspetti caratterizzanti delle antiche comunità cristiane, del quale però ci restano solo fugaci accenni, sì che ce ne sfuggono ampiezza e consistenza. Ignazio fa supporre l'esistenza di una cassa comune: « (gli schiavi) non cerchino di farsi liberare dal la comunità per non essere schiavi del desiderio » (Poli carpo 4, 3) . Giustino è il primo scrittore ad offrire qualche accenno sulla raccolta dei fondi: « I ricchi che ne abbia no volontà, ciascuno secondo il proprio piacimento, dan no quello che vogliono; ciò che viene raccolto è deposto davanti a chi presiede, il quale soccorre gli orfani, le vedove, i bisognosi . . » (l Apologia 67) . Questa raccolta avviene durante la celebrazione eucaristica domenicale e non viene specificata la natura delle offerte, che potevano essere in denaro, vestiti (Oracoli sib. 8, 402-405) o primizie di ogni genere (Didachè 1 3 , 3-7). Tertulliano ci dà maggio ri ragguagli: « E se anche c'è una specie di cassa sociale, .
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essa non raccoglie elargizioni onorarie, quasi si trattasse di una religione messa all'asta, ma ciascuno versa un modesto contributo una volta al mese o quanto meglio crede, e se lo crede e se lo può. Nessuno è costretto e l'offerta è spontanea. Queste somme formano in certo modo i depositi della pietà » (Apologetico 39, S-6). Mentre Giustino, testimone dell'uso romano, parla di una offerta settimanale, Tertulliano riferisce una consuetudine mensi le per l'Africa, dove anche Cipriano attesta l'esistenza di una cassa amministrata liberamente dal vescovo, che la mette a disposizione del clero a favore dei bisognosi d'ogni genere (Epist. 7, 1 ) . La Didascalia apostolica più volte esorta a offrire doni al vescovo, perché egli conosce gli indigenti (cfr. II, 27, 3-4; II, 34, S-7; II, 36, 4-6 ed. Funk), esortazioni riprese in parte dalle Costituzioni a postoliche (cfr. II, 36, 3-8; II 57, 3 ; V, 20, 1 8 ecc.) . I testi di carattere canonico-liturgico e quelli conciliari conten gono diversi riferimenti su ciò che bisogna offrire e quando (9) . Le libere oblazioni legate al culto continuano a essere offerte anche nei secoli IV e V, anche se in questo perio do registriamo casi sporadici di costrizioni da parte del clero verso i fedeli (cfr. Codice di Giust. I, 3, 38 par. 2). Per Antiochia Giuliano l'Apostata lamenta che le donne cristiane impinguavano le casse della chiesa, facendo cosa gradita ai bisognosi (Misopogon 35 ed. Lacombrade p. 1 89), il Crisostomo constata l'insufficienza delle collette, manifestando anche una certa vergogna (Horn. in Matth. 32 , 6; 66, 3). A Roma speciali raccolte di fondi venivano fatte in alcune domeniche, prassi che, secondo Leone M., era istituzione molto antica: « Con previggenza e pietà dunque, o carissimi, i santi Padri hanno disposto che alcuni giorni, in tempi diversi, siano dedicati a eccitare la devozione del popolo fedele a una colletta pubblica nelle chiese - perché tutti coloro che sono nella necessità ricorrono soprattutto alla chiesa - e dalle possibilità dei molti abbia luogo una raccolta volontaria e santa che serva alle spese necessarie, a cura dell'autorità ecclesia stica » (sermo 1 1 ; cfr. sermo 10, 6) . « Domenica prossima, dunque, vi sarà la colletta. Esorto e ammonisco la vostra (9) Cfr. A. Harnrnan, Vie liturgique et vie sociale, Paris 1968, pp. 262-282. 215
santità che tutti voi vi ricordiate dei poveri » (sermo 6). Altri contributi alla cassa comune erano le primizie e le decime; a volte questi due generi di offerte erano distinte, a volte vengono menzionati insieme (10). Pur essendoci qualche testimonianza proveniente dal mondo non siriaco, sembra che la prassi delle decime non fosse affatto diffusa, perché essa era possibile solo in un ambiente agricolo, mentre il cristianesimo, nei primi quattro secoli, soprattutto in Occidente, fu un fenomeno urbano. In Gallia il concilio di Matisco del 585 volle che fosse ristabilita la consuetudine delle decime (can. 5). Inoltre, essendo i beni in natura facilmente deperibili, dovevano essere distribuiti con una certa urgenza. Speciali donazioni provenivano da persone facoltose che, in speciali occasioni, potevano offrire alla chiesa somme considerevoli e anche beni im mobili. Questo già nei primi tempi. Marcione, proveniente dal Ponto, dona alla comunità romana 200 mila sesterzi (Tertulliano, De praescr. 30); Eubula, al momento della sua conversione, come riferiscono gli Atti di Pietro, dà i suoi beni. Dall'inizio del III secolo la chiesa possedeva luoghi di culto - in precedenza il culto s'era svolto nelle case private -, cimiteri ed altre proprietà, che si accrebbero a mano a mano. Durante il periodo di persecuzioni esse venivano confiscate, ma poi restituite ( 1 1 ) . Mentre però le fonti per l'inizio del III secolo parlano solo di cimiteri e di luoghi di culto, agli inizi del IV le comunità cristiane possedevano anche case e terre. Poiché il cristianesimo, prima di Costantino, era religio illicita, gli storici moder ni hanno avanzato numerose ipotesi sul titolo legale di possesso dei beni da parte delle comunità cristiane. Alcu ne di esse si rifanno alla fortunata ipotesi elaborata dal De Rossi, il quale nel secolo scorso sostenne che le co munità potevano figurare di fronte allo Stato come asso( 10) Cfr. Didachè 13, 3 (le primizie da dare ai profeti) ; Const. apost. II, 22, 6 (consegnare le primizie al vescovo) ; VIII, 30, 2 (le primizie al clero, le decime ai poveri) ; cfr. i Canoni apost. 4 ; Tradizione apost. 28 ; Origene, In Num. ho m. Xl, 2 (le primizie da dare ai predicatori del vangelo) . Cfr. R. Grant, o.c., 134-145. (l l) Cfr. lppolito, Philosoph. IX, 7 ; Tertullìano, Ad Scapulam 3, l ; Histona Augusta, Alex. Sev. 49 ; Origene parla del dispensator in PG 13, 1696-97 ; rescritti di Galliena: Eusebio, Storia ecci. VII, 13 ; 30, 1 9 ; per Galeri o cfr. Lattanzio, De mortzbus pers. 34; Eusebio, o.c., VIII, 17, 9. 216
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ciazioni di carattere funeraticio collegia tenuiorum Ma sembra però che non ci fossero particolari difficoltà a che le comunità locali, in quanto un insieme di persone fisiche e non come ente giuridico, possedessero degli immobili (12). La proprietà apparteneva alle singole chie se locali e non alla chiesa universale in quanto tale, pre siedute dal loro rispettivo vescovo. Non conosciamo la consistenza delle proprietà ecclesiasti che prima dell'editto di Milano del 3 1 3; essa doveva esse re di dimensioni ridotte. Nel corso del IV e del V secolo però si accrebbe in maniera impressionante, almeno per certe chiese. Tale vertiginoso sviluppo fu dovuto a svaria te cause. Anzitutto le munifiche donazioni imperiali, da Costantino in poi, di denaro e beni immobili, di contributi vari (Codice di Teodosio XI, l , l); i templi e i luoghi di culto pagani nel V secolo passarono alla chiesa (o.c. XVI , 10, 20; XVI, 10, 25), come pure quelli dei donatisti (o.c. XVI, 5, 54) . Si aggiungevano le donazioni provenienti da privati cittadini. Costantino, operando una innovazione nel diritto testamentario romano, permise che si potesse fare testamento a favore della chiesa catholica (o.c. XVI 2, 6), per cui era possibile lasciare ad essa tutta la pro prietà, oppure, la pars Dei, cioè considerare la chiesa come un membro tra gli eredi. Molti Padri consigliavano questo secondo modo nel caso che ci fossero dei figli: « Se iscrivi Cristo tra gli eredi e gli attribuisci la parte spettante » (Giovanni Crisost. Horn. in Matth. 45, 2 : PG 58, 474) (13). Anche il clero e i vescovi in particolare erano consigliati a lasciare i propri beni alla chiesa locale. Il concilio di Cartagine del 4 1 9 prescrive che i beni dei membri del clero acquisiti durante la permanenza nel l'ufficio, purché non fossero frutto di eredità o donazione, alla morte del possessore passassero alla chiesa (can. 8 1 ) . Questa norma fu accettata i n Oriente d a Giustiniano (Na vella 1 3 1 del 545) e in Occidente da Gregorio M. (Epist. 4, 36). I beni personali del clero dovevano essere ben distinti da -
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( 12) Per le varie opinioni cfr. G Bovini, La proprietà ecclesiastica e la condizione giuridica del Cristianesimo in età precostantiniana, Milano 1949 ; idem, in E ne. Cat t. 3, 1504-1506. ( 13) Cfr. P. Rentinck, La cura pastorale in Antiochia nel IV se colo, Roma 1970, pag. 314 ; E. F. Bruck, Ktrchenvdter und soziales Erbrecht, Berlin 1956. 217
quelli della chiesa, proprio perché non andassero dispersi (Concilio di Antiochia del 341, can. 24; canoni apost. 40). La legge imperiale stabilisce anche che i beni dei chierici, dei monaci e delle monache, morti senza testamento e senza parenti stretti per eredi, a certe condizioni, dove vano passare alla chiesa (Codice di Teodosio V, 3 , l del 434; Codice di Giust. I, 3 , 20). Da parte della chiesa, vo lendosi conservare integro il patrimonio ecclesiastico, ap partenente alla comunità - per questo denominato i beni di Dio , si condannavano coloro che se ne impadroniva no (cfr. concilio di Antiochia, can. 25; canoni apost. 38; concilio di Cartag. can. 32 ...); per questo stesso motivo la legge canonica non ammetteva la sua alienazione, se non in caso di necessità e a precise condizioni (Concilio di Antiochia can. 1 5 e 25; eone. di Cartagine del 419 can. 33). Tale disposizione valeva sia per il presbitero che ammi nistrava una parrocchia e sia anche per il vescovo. Nello stesso tempo lo Stato favoriva la proprietà ecclesiastica, concedendo alle chiese l'esenzione da alcune imposte (14). Tutti questi fattori favorivano l'accrescimento progressivo della proprietà ecclesiastica; tuttavia « possediamo po chissime cifre per le entrate ecclesiastiche anteriori al VI secolo. La ricchezza delle chiese crebbe enormemente tra il principio del IV e il VI, ma non abbiamo i mezzi per stimare quanto fosse rapida la crescita. Vi furono in tutti i tempi grandi contrasti tra le sedi vescovili più ricche e quelle più povere, e probabilmente si accentuarono con il passar del tempo, poiché le grandi sedi attraevano più numerosi e più grandi benefici , (15). La chiesa romana, certamente la più ricca e di cui meglio si conosce la consistenza del patrimonio, al tempo di Gregorio M. possedeva latifondi non solo in molte regioni italiane ma anche in Corsica, nelle Gallie, in Dalmazia e in Africa. << Un patrimonio, quindi, vastissimo, del quale, però, riesce difficile determinare l'esatta portata, anche se riusciamo a farcene un'idea da qualche dato parziale e mergente dallo stesso epistolario gregoriano » (V. Ree-
( 14) Cfr. Codice di Teodosio XVI, 2, 15: diaria ; non sappiamo però quanto sia l'esenzione dai Munera extraordinaria XI, 16, 15. ( 15) A. H. M. Jones, Il tardo Impero 1981, pag. 1351. 218
esenzione dall'imposta fon durata ; era pure concessa et sordida: Codice Teod.
Romano, vol. III, Milano
chia, Gregorio M. e la società agricola, Roma 1 978, p. 12). Gregorio M. cercò di rendere produttivi questi vasti lati fondi, che venivano considerati come il patrimonio di s. Pietro (Epist. X, 22) , non a suo vantaggio ma dei poveri d'ogni genere : << Non abbiamo ricchezze proprie nostre, ma ci è affidata la cura e la distribuzione della proprietà dei poveri » (Epist. XIII, 23). Però accanto a chiese ric che, come Roma, Alessandria, Milano, Ravenna, v'erano molte chiese povere, come quella del vescovo Musonio di Meloe dell'Isauria, il quale praticava la tanto deprecata usura per poter vivere (cfr. Severo d'Ant. Epist. l , 4). Nella comunità di Gerusalemme gli apostoli, aiutati dai Sette, erano i responsabili per l'amministrazione dei beni comuni (cfr. Atti 6, l ss) ; in Giustino, verso il 1 50, è il vescovo locale colui che è incaricato di ricevere e di distribuire (l Apologia 67, 12), il quale però aveva dei collaboratori, specialmente i diaconi (Ignazio, Trallesi 2-3). La Didascalia più volte afferma la libertà del vescovo nella distribuzione dei beni e nel loro uso (cfr. II, 24-25). Egli resterà sempre il responsabile principale dell'ammi nistrazione dei beni, col pericolo che personalmente ne traesse profitto, cosa aspramente condannata (Cipriano, De lapsis 6; concilio di Ant. can. 1 5 ; canoni apost. 4; 4 1 ) . Il numero dei collaboratori dipendeva dalla grandezza della comunità e dall'estensione dei beni da amministra re. Si andava da un'amministrazione di tipo familiare e patriarcale delle piccole comunità a quella delle grandi città come Roma e Alessandria. Nella metà del III secolo Roma manteneva circa 1 500 bisognosi di vario genere e il clero; inoltre si poteva permettere anche invii di aiuti ad altre comunità; per questo lavoro aveva bisogno di diver so personale specializzato e organizzato. Altrettanto per Alessandria, dove esisteva personale amministrativo (Ori gene, Comm. Series in Mt. 61: PG 1 3 , 1 697). Con l'accre scimento delle ricchezze nei secoli IV e V anche la strut tura amministrativa si amplia e si diversifica, secondo le varie necessità e le regioni. Viene concessa maggiore re sponsabilità al clero (concilio di Ant. can. 25 ; canoni apost. 4 1 ; Gelasio, Epist. 17, l ) ; il vescovo, pur conser vando la sua libertà per principio, della quale però deve rendere conto a Dio, viene sempre più obbligato a non gestire l'amministrazione direttamente, ma di servirsi di altre persone (canoni apost. 4, 4 1 ) . Mentre in alcune chie219
se il capo dell'amministrazione era l'arcidiacono, in altre, soprattutto in Oriente, esisteva l'oikonomos, membro del clero, ufficio reso obbligatorio dal concilio ecumenico di Calcedonia (can. 26) . Tali norme si erano rese necessarie non solo per esigenze amministrative, ma anche per evi tare la dispersione di beni ecclesiastici e profitti persona li. Alcuni Padri lamentavano che i loro sacerdoti dovesse ro dedicare parte del loro tempo a queste incombenze, a scapito del loro ministero (cfr. B asilio, Epist. 285: PG 32, 1021 a; Agostino, In lohan. trae. 6, 25; Giovanni Cri sost., Horn. in Matth. 85, 4). 3. Economia e beneficenza
La beneficenza privata era altamente raccomandata, ma sorse ben presto anche quella organizzata dalle singole comunità. Già conosciamo quella della comunità di Geru salemme, che tuttavia doveva essere povera, se per essa furono fatte collette ad Antiochia (Atti 1 1 , 29) , in Galazia (l Corinzi 16, 1-2), in Macedonia (2 Corinzi 8, l) e in Acaia (2 Corinzi 9, 2) Preoccuparsi dei poveri era una consegna della chiesa primitiva (Galati 2, 1 0 ) : missione principale degli apostoli era il ministerium verbi, la predicazione, ma non meno importante era il ministerium pauperum (Acta Pe tri 17, ed. Vouaux p. 332; Didascalia ap. II, 25, 8). Non erano solo parole, ma azioni concrete: « Quando (i cristiani) vedono un forestiero, lo conducono nelle loro case e si rallegrano di lui come di un fratello. Quando muore un povero, tutti danno secondo le loro possibilità per la sua sepoltura. Si interessano dei carcerati e dei prigionieri; se vi è qualche povero o bisognoso, digiunano per due o tre giorni affine di provvederlo del vitto neces sario » (Aristide, Apologia 15). La beneficenza organizzata dei cristiani abbraccia tutte quelle persone che si trovano in necessità ed è impegno di tutta la comunità, come si deduce dal testo citato di Aristide e ancora più chiaramente da Giustino, che scrive in questi stessi anni: « quanto viene raccolto (durante la celebrazione liturgica) si depone dinanzi a chi presiede; ed egli soccorre tanto gli orfani quanto le vedove, e chi è bisognoso per malattia o altra necessità, e chi è in pri gione, e gli ospiti che vengono da altri paesi: insomma 220
prendiamo a cuore quanti si trovano in necessità » ( l Apologia 67). Qualche decennio più tardi Tertulliano d à la stessa testimonianza per la chiesa d'Africa: « Queste somme (raccolte) formano in certo modo i depositi della pietà: che non impieghiamo per banchetti ... , bensì per seppellire (i morti), per nutrire i poveri, ragazzi e ragazze senza beni e senza genitori, vecchi domati dall'età, e nello stesso tempo naufraghi e cristiani sofferenti nelle miniere o nelle isole o nelle prigioni, purché per la causa della chiesa di Dio, poiché in tal caso diventano i figli adottivi della religione da loro confessata. Ma è appunto l'eserci zio soprattutto di questa carità che agli occhi di certuni ci imprime una marchio di infamia » (Apologetico 39, 6-7). Numerose forme assistenziali esistevano sia tra i giudei che tra i romani, ma tra i cristiani erano qualcosa di più radicale, come constata lo scrittore pagano Luciano di Samosata, che, in uno scritto, deride la carità, la fratel lanza e l'ospitalità cristiane; tra l'altro scrive: « Il loro primo legislatore ha impresso nei loro animi la persua sione che essi siano tutti fratelli; essi dispiegano infatti uno zelo indicibile, ogni qual volta accade qualcosa che tocca i loro interessi comuni; niente sembra loro in quei casi troppo difficile o penoso >> (Morte di Peregrino 13). Diverse erano le categorie di persone assistite dalla co munità. Ci si preoccupava degli orfani e delle vedove, definiti dalla Didascalia apostolica « altare di Cristo >> (IV, 5), perché erano soli e abbandonati e venivano sempre collocati tra i primi da soccorrere. Si cercava di adottare gli orfani, di educarli e quindi di farli sposare con un'al tra persona cristiana (Didascalia apost. IV, 1-4; Ambro gio, De officiis 2; 1 5 ; 7 1-72). Si voleva che tutti avessero J.m lavoro e si guadagnassero il proprio pane, ma quanto questo non era possibile per malattia, inabilità o vec chiaia, solo allora era la comunità a provvedere, in quan to questa non si presentava come una società di mutuo soccorso. I fratelli detenuti in prigione o quelli condanna ti ai lavori forzati non erano abbandonati, ma soccorsi in ogni modo: visitarli, consolarli, ottenere un trattamento più umano, dare a loro tutto il necessario, possibilmente attenerne la liberazione (cfr. Aristide, Apologia 1 5 ; Con s titut. apost. V, l ; Tertulliano, citato sopra) . Eusebio nei Martiri della Palestina enumera diversi casi di cristiani 221
che si recavano anche molto lontano per soccorrere i fratel li nella fede condannati ai lavori forzati. Si organizzavano pure soccorsi speciali in caso di razzie di barbari. Una speciale cura si aveva per i morti, perché tutti potessero aver dignitosa sepoltura, anche i più poveri e i forestieri, adempiendo « anche verso uno sconosciuto l'ufficio che spetterebbe ai parenti » (Lattanzio, Institutiones VI, 12). La beneficenza organizzata dalla chiesa - in certi casi quella privata era sconsigliata (Didascalia apost. II, 36, 4) aveva un carattere personale, nel senso che i bisognosi erano conosciuti individualmente, e di essi si aveva un registro per poter meglio soccorrerli. Origene, in una bel la pagina, osserva che l'ufficio del dispensator dei reditus ecclesiae non consiste tanto nel dare cose, quanto nel conoscere la storia di ognuno e nell'aiutarlo nei suoi bi sogni concreti (cfr. Comm. series in Matth. 61 : PG 1 3, 1 697). Dopo Costantino questo carattere personale e fraterno si andò un po' attenuando, poiché nuove situa zioni imponevano soluzioni nuove. La carità privata con tinuò, così pure quella ufficiale della comunità per tutte le categorie di bisognosi, però con maggiore organizzazio ne. I fondi provenivano dalle libere ablazioni dei fedeli, dalle varie raccolte, da offerte straordinarie e, in modo particolare, dal frutto dei beni immobili, che le chiese possedevano con questo scopo: << Questi beni non sono nostri ma dei poveri; noi, per così dire, ne siamo so lo gli amministratori a loro favore (Agostino, Epist. 1 85 , 9, 35) . Giuliano l'Apostata attribuisce alla << filan tropia » cristiana la conversione di pagani e per que sto vuole imitarne le sue forme; in tal senso egli è testimone prezioso dell'attività caritativa cristiana: « A quanto penso, poiché avvenne che i poveri trascurati dai sacerdoti (pagani) rimanessero negletti, gli empi Galilei (i cristiani) ripensandoci si dedicarono a questo genere di filantropia, e si rafforzarono nella peggiore delle imprese mediante queste pratiche appariscenti ». (Epist. 89 b). Oltre le forme precedenti di beneficenza organizzata, ora sorgono istituzioni più stabili, come ospizi per malati e poveri. Il più conosciuto è il complesso creato da Basilio nella periferia di Cesarea di Cappadocia - soprannomi nato Basiliade per poveri e bisognosi di ogni genere e per i forestieri, del quale Gregorio Nazianzeno fornisce diverse informazioni (oratio 43 in laudem Bas., 63). Basi-
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lio s'era preoccupato di costruire ospizi anche in altre città (Rufino, Storia eccl. XI, 9). Secondo Girolamo la ricca Fabiola a Roma fu « la prima, in ordine assoluto, a mettere su un ospedale per accogliervi tutti gli ammalati che trovava per le piazze e per dar sollievo alle membra di quei poveretti consumati dalla malattia e dalle priva zioni » ( Epist. 77, 6 ); e là ella stessa prestava tutta la sua opera. Un altro ricco romano, Pammachio, fondò a Ostia, il porto di Roma, un grande ospizio per pellegrini, che fu ritrovato nel secolo scorso. Un concilio del 405 svolto a Ctesifonte nella Mesopotamia meridionale dà particolari disposizioni sulla gestione delle case destinate ai bisogno si e fa capire che esse dovevano essere numerose (Mansi VII, 1 1 83, can. 3; 9; 10). Mancano notizie per documenta re l'estensione di queste forme assistenziali, anche se sappiamo che nelle grandi città come Antiochia ce n'era più di una ( 16) e ad esse erano preposti dei chierici (con cilio di Calcedonia can. 8; 1 0) . I vescovi spesso interponevano tutti i loro uffici presso i magistrati romani per ottenere miglior trattamento per i condannati e la loro voce aveva una grande rilevanza (cfr. Agostino, Epist. 1 53). Inoltre in periodo di invasioni bar bariche e di deportazioni uno dei doveri della generosità della chiesa era il riscatto dei prigionieri con l'impiego di larghi fondi e, per eccezione, persino con l'alienazione dei beni ecclesiastici: summa etiam liberalitas captivos redi mere, eripere ex hostium manibus (Ambrogio, De officiis I, 15). Gregorio M. scrive ad Artemio: « Abbiamo spedito alla tua esperienza per tramite del patrizio Stefano, latore della presente, una somma di denaro per il riscatto di quelli che sono stati presi prigionieri, e ti ammoniamo di impegnarti con zelo e prontezza affine di riscattare quegli uomini che sai non aver mezzi sufficienti per farlo da sé ... agisci con tale prontezza e zelo, che quelli che si debbono riscattare non corrano alcun pericolo per la tua negligenza, nel qual caso diverresti altamente colpevole ai nostri occhi » (Epist. III, 32). Le chiese si aiutavano a vicenda in caso di necessità. Uno dei titoli di gloria della chiesa romana erano i soccorsi ( 16) Cfr. P. Rentinck, La cura pastorale in Antiochia nel IV secolo, Roma 1970, pp. 321-323. 223
inviati ad altre comunità: « Fin dal principiO fu vostro costume di prodigare a tutti i fratelli i più svariati be nefici e di mandare soccorsi a molte comunità nelle di verse città ... ,, (Eusebio, Storia eccl. IV, 23, 14), così scri ve nel 1 70 Dionigi di Corinto alla comunità romana. Basi lio scrive a papa Damaso che in Cappadocia si conservava ancora al suo tempo memoria degli aiuti inviati nel III secolo (Epist. 70). Quest'opera della chiesa romana è do cumentabile fino a Gregorio Magno. Nelle piccole comunità del II secolo i vescovi non solo erano i principali responsabili della beneficenza, ma spes so agivano in prima persona: « I vescovi, nel loro mini stero, hanno di continuo protetto gli indigenti e le vedove e hanno menato una vita santa » ( Erma, Pastore, sim. IX, 27). A loro erano associati i presbiteri e i diaconi. Poli carpo così si rivolge ai Filippesi: « I presbiteri siano indulgenti e misericordiosi verso tutti, richiamino gli sviati e visitino tutti gli infermi, senza trascurare la ve dova, l'orfano e il povero, ma solleciti del bene davanti a Dio e agli uomini , (6, 1 ) . A Filippi il presbitero Valente si era appropriato di denaro della cassa comune. Tuttavia gradualmente nell'opera caritativa, sempre sotto l'alta sorveglianza del vescovo, i diaconi diventano i responsabi li immediati, in quanto essi sono « l'orecchio, la bocca, il cuore e l'anima » di lui (cfr. Didascal. apost. II, 44, 4) ; per questo sono esposti ad appropriarsi di quanto era desti nato alle opere assistenziali (cfr. Erma, Pastore, sim. IX, 26, 2; Origene, Comm, series in Matth 6 1 ; PG 13, 1697) . Essi sono coadiuvati per il servizio delle donne dalle diaconesse. Giovanni Crisostomo mentre considera l'am ministrazione dei beni ecclesiastici non opera adatta ai sacerdoti, dice invece che gli apostoli hanno stabilito che loro ufficio sia quello di alimentare i poveri, aiutare i feriti, dare ospitalità, soccorrere gli oppressi e gli orfani, difendere le vedove e le vergini (Rom. in Mat th. 85, 4). In questa prospettiva il ministerium pauperum fu considera to nell'antichità impegno qualificante del clero in genere, incluse le diaconesse. Anzi in tutta l'antichità tale mini s terium fu considerato un requisito essenziale per l'am missione agli ordini. Lo Stato riconosce quest'opera della chiesa sia permettendo le donazioni private sia sovven zionando in proprio (Novella 12); inoltre permette ai sa cerdoti (vescovi ?) di entrare liberamente nelle carceri per 224
scopi assistenziali e spirituali e anche di intercedere nei singoli casi per la liberazione dei carcerati (Const. Sirm. 13 del 4 1 9) . L'intercessio, spesso usata dai vescovi, confe riva più umanità all'applicazione delle leggi statali (cfr. Agostino, Epist. 1 52; 1 1 3 ; 1 1 4 ...) . Una forma familiare, m a non sistematica d i beneficenza, erano le agàpi, cioè pranzi offerti ai poveri o da privati o dalla comunità; in questo caso presiedeva il vescovo o un suo rappresentante. Esse avevano sempre carattere reli gioso e fraterno. Mentre noi oggi siamo molto sensibili alle opere di assi stenza sociale, abbiamo quasi dimenticato il senso del l'ospitalità, tanto cara agli antichi popoli del mondo me ditarraneo. L'ospitalità viene fortemente inculcata negli scritti neotestamentari (Romani 12, 1 3 ; l Pietro 4, 9; Ebrei 6, lO; 1 3 , 2 .. . ), e diviene per i cristiani una virtù, che segue immediatamente la fede (l Clemente 1 0, 7-1 1 ; 12, 1 ) : a Tertulliano i l cristianesimo appare una contesseratio hospitalitatis (De praescrip. 29) . Essa doveva essere pra ticata dai privati, ma anche dalla comunità in quanto tale che doveva provvedere una certa organizzazione, con per sone specifiche incaricate ufficialmente, qualora fosse im possibile al vescovo provvedervi in prima persona; ma anche in questo caso egli era il primo responsabile, e tale attività era un suo preciso dovere (Concilio di Antiochia, can. 25; canoni apost. 4 1 ) . Cipriano, lontano da Cartagine per la persecuzione, dal suo nascondiglio destina delle somme per accogliere i forestieri (Epist. 7). Erano possi bili abusi, e per questo ben presto vennero prese precau zioni (Didachè 1 1) . Infatti Luciano di Samosata, nel De morte Peregrini, ironizza sui cristiani che accolgono tutti. Per questo dall'inizio del IV secolo si esigono per quelli che viaggiano lettere di fiducia (litterae communicatoriae) per poter essere accolti ( 1 7) . Il concilio di Calcedonia sta bilisce che « tutti i poveri e quelli che hanno bisogno di essere soccorsi, dopo un'inchiesta devono esser muniti di lettere ecclesiastiche o di lettere di pace » (can. 1 1 ) . Per i forestieri si costruiscono anche delle case di accoglienza (xenodochia) alle quali erano preposti dei chierici (18). Gli ( 17) Cfr. Concilio di Calcedonia, can. lO ; Basilio, Regulae bret•. 286 ; Epifani o, haer. 75, l ; Palla dio ; Hist. lausiaca 7. ( 18) Concilio di Antiochia, can. 25 ; canoni apost. 41 ; Ambrogio, 225
xenodochia però non erano riservati esclusivamente ai forestieri, ma vi si ammettevano ogni genere di bisognosi, sì che gli stessi edifici servivano a più usi. L'ospitalità divenne una caratteristica del monachesimo antico; la pellegrina Egeria, alla fine del IV secolo, nel suo diario spesso annota di essere stata bene accolta. Nei monasteri sorge la foresteria per gli ospiti; anzi la dispo nibilità era tale - tolta qualche eccezione - che si arri vava a non osservare i digiuni per poter mangiare con i forestieri. Un altro punto merita brevemente la nostra attenzione: il sostentamento del clero per mezzo dei beni ecclesiastici. Il principio risale agli inizi del cristianesimo: « Il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo » (l Corinzi 9, 14; cfr. Galati 6, 6; l Timoteo 5, 1 7) ; tuttavia il ministro, secondo i casi, in genere si guadagnava da vivere con un altro lavoro. I vescovi in cludevano anche il clero più impegnato nella distribuzio ne dei beni; a volte però esso riceveva offerte personali (Didascalia apost. II, 28, 4) e il popolo veniva esortato a contribuire al suo mantenimento (Horn. Ps. Clernent., 3, 7 1 ; Origene, Horn, in Jos. 1 7, 3; Sources Chrét. 7 1 , 380). Nelle zone agricole esisteva il sistema delle decime e delle primizie, particolarmente nella Palestina e nella Si ria (19), mentre nelle città già dal II secolo si inizia a dare un salariurn al vescovo (20). Nel corso del III secolo si afferma la tendenza a liberare il clero superiore da impegni vari perché possa dedicarsi esclusivamente e a tempo pieno alla sua missione. Origene esorta i laici a offrire gli obsequia sacerdoturn, perché questi possano impegnarsi nel loro ministero e nello studio della Scrittu ra (Horn. in Ios. 1 7, 2; Sources Chrét, 71, 380-3 8 1 ) . Questa De officiis 2 ; 21 ; 103 ; Agostino, Epist. 355, 3 ; Sidonio Apoll. Epist. VII, 9. ( 19) Cfr. A. Vilela, La condition collegiales des pretres au III' siècle, Paris 1971, pag. 1 10 ss., dove si citano testi di Origene, che insistono sulle primizie. (20) Un gruppo scismatico a Roma dava al suo vescovo Natalio un mensile di 150 denari - siamo alla fine del Il secolo - sei volte superiore a quello di un soldato (questo però percepiva an che donativi vari) . La singolarità dell'episodio del salarium a Na talio non sappiamo se derivasse dalla somma eccessiva che per cepiva oppure dal fatto che un vescovo venisse retribuito (cfr. Eusebio, Storia eccl. V, 28, 8-12) . 226
situazione è pienamente matura nella ricca chiesa di Ci priano, proprio nel momento in cui l'Africa ha la sua maggiore prosperità economica: « Coloro che nella chiesa del Signore sono ammessi all'ordinazione clericale non devono essere distratti dal servizio divino, né devono e!!• sere impegnati da preoccupazioni ed affari del mondo. I chierici invece, beneficiando delle sportule che i fratelli offrono, come se ricevessero le decime dei frutti, non si allontanano dall'altare, dal sacrificio e dall'attendere giorno e notte nelle cose celesti e spirituali » (Epist. l ' 1 ). Il clero riceveva delle divisiones mensurnae, cioè mensili tà variabili, e sportulae, offerte diverse (cfr. Cipriano, Epist. 39, 5; 34, 4; 4 1 , 2), ripartite a secondo il grado occu pato dal destinatario. Questo ultimo criterio si applicava anche nelle zone dove non esistevano le paghe mensili. Nel IV secolo, allorché molti introiti provenivano da beni immobili, si continua a insistere presso i laici a contri buire al sostentamento del clero (cfr. Const. apost. VIII, 29, 2; Damaso, Mansi 3, 642; Girolamo, Epis. 52, 5; In e pist. ad Titum 3 : PL 26, 599) ; nel frattempo si instaura la consuetudine a fissare la quantità di denaro spettante ai vari gradi dei membri del clero, ma sempre in rapporto all'ufficio (cfr. Const. apost. VIII, 32, 2; Opus imper. in Matth. hom. 44: PG 56, 884) . L'anonimo autore dell'Opus imperfectum in Matthaeum registra le lamentele del clero contro il popolo poco generoso: si populus decimas non obtulerit, murmurant omnes; at si peccantem populum viderint, nemo murmurat contra eum (hom. 44). Il clero del IV e del V secolo oltre lo stipendium, sempre a discrezione del vescovo, e alle offerte dei fedeli, poteva anche ricevere eredità da persone generose; questa possi bilità venne limitata da Valentiniano per sradicare certi abusi (Codice di Teodosio XVI , 2, 20) . A tal fine Girolamo osserva che « ereditare la legge lo vieta soltanto ai chieri ci e ai monaci; e questo divieto non è dato da persecuto ri, ma da governanti cristiani. Eppure non è della legge che mi vergogno, ma mi rattrista il motivo che ci ha meritato questa legge » (Epist. 52, 6). Nella chiesa romana con i papi Simplicio (468-483) e Gelasio (492-496) si stabi lisce la norma, poi diffusasi anche in altre regioni, della suddivisione dei beni in quattro parti: vescovo, culto, carità e clero. Siamo tuttavia a conoscenza anche di altre 227
ripartizioni per altre chiese. Ormai però erano cambiate molte cose; il clero non era sostentato direttamente dalla comunità, di cui era espressione, ma soprattutto per mez zo del patrimonio ecclesiastico. n numero del clero pres so una chiesa era determinato non tanto dalle necessità apostoliche quanto dalle risorse di essa. Con questo si stema siamo a un completo capovolgimento del rapporto dei ministri con il loro popolo. Pur tuttavia anche nella nuova situazione molto clero traeva parte del suo sostentamento dalle varie attività non proibite, soprattutto dal lavoro manuale. Gli Statuta ecclesiae antiqua prescrivono che i chierici imparino un mestiere e vivano del frutto del loro lavoro, pur dedicandosi al ministero (can. 29; 79). Il commercio comunque, se praticato in larga scala, era sconsigliato.
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matrimonio e famiglia
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I l matrimonio e i suoi riti
La dottrina cristiana del matrimonio nasce da una rifles· sione sulla Scrittura, ma con notevoli e determinanti in flussi del diritto romano, delle teorie filosofiche del tem po, soprattutto platoniche e stoiche, e della mentalità e della prassi antiche. Essa pertanto è il risultato di rivela zione biblica, riflessione teologica e modelli culturali. Nel cristianesimo l'uguaglianza dell'uomo e della donna viene affermata in pieno, perché tutti e due sono figli dello stesso Padre e in cammino verso un'unica vita, dove non ci sarà più distinzione di sessi: « Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò >> (Genesi l , 27); « Non conta più l'essere giudeo o greco, né l'essere schiavo o libero, né l'essere uomo o donna; poiché voi tutti siete un essere in Cristo Gesù » (Galati 3, 28); « Nel Signore né la donna senza l'uomo, né l'uomo senza la donna » (l Corinzi 1 1 , 1 1 ) . Pertanto l'essere umano è uno solo, che si diversifica in due esi stenze diverse, in due realtà relazionate, che dànno origi ne al mondo umano. L'uomo e la donna sono i due aspet ti della stessa e unica realtà: l'essere umano. Secondo la citata espressione di s. Paolo ai Galati, le antinomie sorte dalla storia umana, di qualsiasi genere siano, dovranno ricomporsi in Cristo in una riconciliazione superiore e definitiva, persino la stessa frattura fondamentale (sexus s ectus) dovrà scomparire. I Padri, in linea di principio, ammettono l'uguaglianza dell'uomo e della donna, tuttavia il loro pensiero si svi luppa su piani differenti. In sede teologica ammettono il 229
superamento dei sessi nel regno dei cieli, dove non ci sarà distinzione gerarchica, ma perfetta parità, nel senso che la differenzazione non ha alcuna rilevanza, per cui la verginità è l'anticipazione della futura condizione comune a tutti gli eletti. Anche nel mondo presente c'è una u guaglianza fondante: << Dio è unico per tutti e due (uomo e donna) ; unico anche il Pedagogo (Cristo). Una sola Chiesa, una sola morale, un solo pudore . .. Coloro che hanno una vita comune, hanno comune anche la grazia e la salvezza: è comune la virtù e il modo di vivere » (Clemente Aless. Pedagogo I , 4, 1-2) . Ora nella Scrittura ci sono due tradizioni diverse: l'una (Genesi l , 27) afferman te che Eva non si distingue da Adamo se non per una caratteristica sessuale, l'altra invece parla della creazione della donna dopo l'uomo (Genesi 2, 1 8-25), come compa gna di lui e tratta dalla sua costola; inoltre c'è un famoso testo di s. Paolo nella lettera agli Efesini (5, 23 s), che dice: « Il marito è capo della moglie, come Cristo è capo delia Chiesa, egli che è il salvatore del suo corpo. Pertanto, come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mo gli siano soggette ai loro mariti in tutto ». Nei testi biblici non viene affatto affermata una certa qual inferiorità della donna rispetto all'uomo come persona, ma soltanto si pre senta un ordine gerarchico nell'ambito della chiesa e della famiglia, e pertanto solo di ordine sociale. Su questa linea di pensiero e di prassi, proprio partendo dalla Scrittura e in contrapposizione con un diffuso modo di pensare del tempo, che tendeva a svalutare la donna come persona, i Padri hanno elaborato e esposto il loro insegnamento, che tende a sottolineare la fondamentale uguaglianza: « An che questa è opera della grazia di Dio: che per la donna vi siano dei limiti solo nelle faccende temporali; o me glio, neppure in esse. La donna infatti porta su di sé una parte non piccola dell'organizzazione civile: la cura do mestica ... Perciò anche in questo campo (civile), non è piccola la parte della donna, e tanto meno in campo spirituale » (Giovanni Crisost., Omelie 2 lett. Tim. 10, 3 : PG 62, 659). Questa impostazione teoretica non si sottrae completamente ai condizionamenti culturali sia veterote- ' stamentari che del tempo, per cui abbondano negli scritti dei Padri espressioni che sottolineano un'inferiorità della donna sia fisica che sociale e spirituale. Gesù, con tutto il suo comportamento e insegnamento, 230
considera il matrimonio un dato originario dell'esistenza umana, voluto da Dio per realizzare « una sola carne » (Marco 10, 6-9) ; e rifacendosi all'« inizio » Gesù afferma l'esigenza, inconcepibile per tutto il mondo antico, del l'indissolubilità del matrimonio (cfr. Marco 10, 9-1 2 ; Mat teo 5 , 31 s; 19, 3-9), che nello stesso tempo relativizza co me realtà del mondo presente destinato a scomparire con la risurrezione (Matteo 19, 1 2 ; 22, 30; Marco 12, 25; Luca 14, 26; 19, 29). Gesù inoltre introduce una sconvolgente novità rispetto al « siate fecondi e moltiplicatevi » della Genesi (1 , 28), proclamando con un misterioso « chi può capire, capisca » l' eunuchia volontaria « per il regno dei cieli » (Matteo 19, 12), cioè la verginità e il celibato ( 1 ) . Pur affermando la bontà del matrimonio - l 'ordine ori ginario della creazione -, fa capire, anche con il suo comportamento, che la riununcia ad esso per « il regno dei cieli » è un atteggiamento più radicale, ma anche che tale continenza non è qualcosa di assoluto e un valore in se stesso, ma relativo all'avvento del regno. Il matrimonio e la continenza sono beni che non si escludono a vicenda, ma dei quali uno è migliore dell'altro (2). Questo patri monio ideologico è stato una costante della Grande Chie sa; a tal proposito scrive Giovanni Crisostomo: « Chi condanna il matrimonio, priva anche la verginità della sua gloria; chi invece lo loda, rende la verginità più am mirabile e splendente. Ciò che appare un bene soltanto a paragone di un male, non è poi un bene; ma cio che è ancora migliore di beni universalmente riconosciuti tali, è certamente al massimo grado >> (La verginità 1 0 : PG 48, 450). L'esaltazione della superiorità della continenza rispetto al matrimonio, con accenti diversi, percorre tutta l'abbon dante letteratura di ordine escatologico - come era stato per i primi tempi -, ma si arricchisce di motivi giu( l) Per il giudaismo rabbinico il matrimonio era un obbligo as soluto e un dovere generare una discendenza. La Chiesa antica, anche se in qualche caso ha inteso la eunuchia come castrazione fisica, normalmente l'ha interpretata in senso metaforico, per cui ha rifiutato l'ordinazione ai ministeri di persone evirate. Cfr. Grande Less. del N.T. vol. III, 85-90. (2) L'apostolo Paolo difende la bontà del matrimonio, secondo le parole della Genesi, ed esorta a viverlo nella sua pienezza, tut tavia consiglia il celibato come meglio rispondente al tempo pre sente (cfr. l Corinzi 7, 1 -40 ; Colossesi 3, 18s).
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daici, ellenistici, gnostici e popolari, che tendono a svalu tare il corpo, gli impegni familiari e la donna (3). Così la continenza viene a caricarsi di significati nuovi, non sempre positivi, poiché, per affermarne la sua bellezza, a volte si tende a mettere in cattiva luce il matrimonio, di cui pur si riconosce per lo più la fondamentale bontà, ma con tali argomenti e accenti che oggi ci creano delle gravi remare. Sono rare le espressioni come questa del Na zianzeno: « Il matrimonio non allontana da Dio, ma anzi a lui avvicina perché è Dio stesso che ad esso ci sospin ge » (Poemata moralia 1, 275 s : PG 37, 543). Sull'esempio di Gesù, ma soprattutto per altre motivazio ni non sempre « cristiane », ben presto sorgono delle cor renti ascetiche e di pensiero contrarie al matrimonio, per cui già l'autore delle Pastorali condanna coloro che « vie teranno il matrimonio » ( 1 Timoteo 4, 3) e consiglia alle vedove giovani di risposarsi (5, 14) . Tali correnti scandi scono, con puntuale risorgenza, ogni momento della sto ria della Chiesa antica: encratismo, marcionismo, gnosti cismo, messalianismo, novazianismo, priscillianismo, ma nicheismo ... Il fenomeno, che non è possibile approfondi re in questa sede, è troppo vasto per attribuirlo solo a questi gruppi marginali; anzi esso è un indice del diffuso imbarazzo dell'antico cristianesimo di fronte al matrimo nio e alla sessualità: imbarazzo che ha segnato in parte il pensiero cristiano successivo. Globalmente i Padri, sia greci che latini, hanno combattutto gli estremismi. Scrive Ambrogio: « Nessuno di chi ha scelto le nozze biasimi la verginità, e nessuno di chi segue la verginità condanni le nozze. Tutti gli avversari di questa norma già da tempo sono stati condannati dalla Chiesa, quelli cioè che osano sciogliere il vincolo coniugale » (La verginità 6, 34). Per essi il matrimonio è una via per la salvezza, anche se più difficile, per una varietà di legami umani e mondani (cfr. Giovanni Crisost. La verginità 43 s ; 57 s). Tuttavia << quelli che nel matrimonio hanno un ostacolo, sappiano che d'impedimento non è stato il matrimonio, ma la loro libera volontà che ha usato male del matrimonio » (Gio vanni Crisost. Horn. in Hebr. 7, 4). Anche Clemente Ales(3) Cfr. R. Cantalamessa, Etica sessuale e matrimonio nel cristia nesimo primitivo, Milano 1976, pp. 434s ; Ch. 'Munier, L'Eglise dans l'Empire romain (Il" Ili' siècles), Paris 1979, pp. 7-13. -
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sandrino, combattendo la diffusa prassi del mondo paga no di evitare il matrimonio per le sue « schiavitù », esalta i suoi vantaggi e ne difende la sua necessità: « Ci si deve sposare per la patria, per la successione dei figli e anche, per quanto sta in noi, per portare il mondo a perfezio ne ... (coloro che non si sposano) hanno un comportamen to empio, perché distruggono la stirpe umana divinamen te creata; ed è anche segno di poca virilità e di debolezza fuggire la convivenza con la moglie e i figli » (Stromati 2, 1 40-1 46). D'altronde la chiesa, che si preoccupava degli orfani, aveva cura che si sposassero degnamente ed era dovere dei vescovi cercare di favorire il matrimonio (Di dascalia apost. IV, 2; Costituzioni apost. IV, 2). I Padri pertanto hanno rifiutato, e con energia, sia le tendenze anti-matrimoniali più o meno ereticali sia la consuetudine imperante di rifuggire dal matrimonio per motivi egoisti ci (4) . Agostino fu il teologo che superò ogni altro nella rifles sione teologica sul matrimonio e maggiormente influì sul l'Occidente; il suo influsso spesso è stato giudicato nega tivamente, ma per quanto è dato constatare, quasi mai sono state considerate la globalità del suo pensiero matu ro e la sua ultima riflessione, per cui in questo ambito spesso si nota una interpretazione riduttiva e parziale del suo pensiero. Il suo influsso fu determinante, come scrive un fine studioso, per due motivi: « Dall'interesse preva lentemente ascetivo, polarizzato perciò dal confronto matrimonio-verginità, si passa con lui a un interesse propriamente teologico riguardante il matrimonio. Il matrimonio per la prima volta comincia a essere conside rato in se stesso. Il De bono coniugali, il De nuptìis et concupiscentia sono titoli rivelatori di questa nuova prospettiva. In secondo luogo, da una valutazione del matrimonio prevalentemente naturale (come era divenuta (4) Augusto emanò delle leggi per favorire il matrimonio e la procreazione, che restarono in vigore fino a Costantino ; cfr., per questa mentalità antica procreazionistica, Clemente Aless., Stro mati Il, 140-146. Per i cristiani invece la continenza ha valore in quanto libera scelta di consacrazione a Dio, pertanto con carat tere funzionale e non quanto status, condizione di vita, o come fatto biologico: « Neque enim et ipsa quia virginitas est, sed quia Dea dicata est, honoratur » (Agostino, De sancta virg. 8, 8) e in tal senso è un'anticipazione del futuro regno: « in carne corruptibili incorruptionis perpetuae meditatio » (o.c., 13, 13) . 233
dopo la caduta dell'urgenza escatologica), basata cioè sul la natura e sulla creazione, con Agostino si passa a una valutazione anche e soprattutto storica, in rapporto, s 'in tende, alla storia della salvezza » (5) . Agostino cioè prende in considerazione non l'uomo frutto della pura creazione di Dio, ma quello che ha sperimentato l'iniziale peccato con la sua libertà. Agostino ha elaborato più compiutamente le ragioni della bontà del matrimonio, riducibili a tre (i tria bona), che ne costituiscono la struttura essenziale: il bene del ma trimonio << è triplice: la fede, la prole e il sacramento. Con la fides ci si riferisce a che non ci sia una unione al di fuori del vincolo coniugale con un uomo o una donna; con la proles perché si ricevano i figli con amore, li si alimenti con bontà e li si educhi religiosamente; con il sacramentum, a che il matrimonio non sia sciolto e il ripudiato o ripudiata non si unisca ad altra persona neanche per motivi di figli >> (De Genesi ad litt. IX, 8, 12). In Agostino, e in tutta la patristica, non possiamo trovare la concezione del matrimonio come sacramento nel senso successivo della scolastica e del concilio di Trento; tutta via egli ha posto tutte le premesse per arrivarvi. I Padri, pur ponendo l'accento sull'aspetto procreativo del matrimonio, non hanno trascurato di mettere in rilie vo anche i suoi risvolti unitivi, con espressioni non co muni nel contemporaneo ambiente pagano, secondo la frase biblica che i due saranno una carne sola. Anche Tertulliano ha espressioni molto delicate: « Donde mi sa rà dato di esporre la felicità di quel matrimonio che viene contratto davanti alla Chiesa, rafforzato dall'offerta eucaristica, segnato dalla benedizione, che gli angeli an nunziano e che il Padre ratifica? ... Quale giogo quello di due fedeli in un'unica speranza, in un'unica osservanza, in un'unica servitù! Sono fratelli e sono collaboratori; non vi è distinzione fra carne e spirito. Anzi, sono veramente due in una sola carne, e dove la carne è unica, unico lo spirito. Insieme pregano, insieme si prostrano e insieme digiunano; l'uno ammaestra l'altro, l'uno onora l'altro, l'uno sostiene l'altro. Sono uniti nella chiesa di Dio, sono uniti al convivio di Dio, sono uniti nelle angustie, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per (5) R. Cantalamessa, 234
a.c.,
p. 437 s.
l 'altro, nessuno evita l'altro, nessuno è gravoso all'altro » (Alla moglie 9). Oltre l'aspetto teologico i Padri si sono preoccupati prin cipalmente dell'etica del matrimonio, scarsamente invece delle sue regole giuridiche o liturgiche. La novità cristia na è soprattutto di ordine morale. Anzitutto l'indissolubi lità fondata biblicamente sul Nuovo Testamento (Matteo 5, 32; 1 9, 9; Marco 10, 1 1 s; l Corinzi 7, 10 s), in pieno e radicale contrasto con le leggi e il comportamento delle società antiche, anche veterotestamentarie, con un totale rifiuto di ogni tipo di divorzio per sterilità, per prigionia del coniuge, per malattia . . I Padri, a proposito della morale coniugale, fanno rilevare il contrastro: << Le leggi dei Cesari sono diverse dalle leggi di Cristo. L'ordinamen to legale di Papiniano è diverso da quello del nostro Paolo. Nel loro codice si può dire che non c'è freno all'immora lità degli uomini ... Nel nostro codice, invece, c'è piena parità: se una cosa non è lecita alle donne, non è lecita neppure agli uomini; e poiché sono di pari condizione, il vincolo è il medesimo » (Girolamo, Epist. 77, 3) (6). Fece loro difficoltà il testo di Matteo: << Chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di fornicazione, la espone al l'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette a dulterio >> (5, 32; 1 9, 9), e qui va notato che in ambiente cristiano il termine adulterio viene applicato sia all'uomo che alla donna e non a danno solo di questa, come era per il diritto giudaico e greco-romano, per i motivi già accennati. I Padri ammettono che il coniuge innocente ripudi quello colpevole di adulterio, anzi alcuni lo consi derano obbligatorio (7), tuttavia a volte si consigliava di riprendere la convivenza dopo il pentimento. Nel primo caso era possibile risposarsi dopo la separazione (o ripu dio) ? Teoricamente i Padri hanno sempre difeso la più rigida indissoiubilità, ma non conosciamo bene l'applica zione del principio nella pratica quotidiana. Origene an nota che, contrariamente alla Scrittura e alla tradizione, alcuni vescovi avevano permesso un nuovo matrimonio a .
(6) Ancora Girolamo, In epist. ad Eph. 3, 5 v. 22 s.: PL 26, 531 ; Agostino, sermo 392, 2, dove distingue gli iura fori e gli iura coeli. (7) Questi autori si basano su l Corinzi 6, 1 6 ; cfr. Erma, Pastore, prec. IV, l, 4-5 ; Tertulliano, Adv. Mare. IV, 34, 5 ; Novaziano, De pudic. 5-6 ; O ngene, Fragm. in l C or. 35 ; Idem, Comm. in Matth. 28, 25.
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donne, mentre vivevano ancora i loro mariti, e non senza validi motivi; ma per lui il nuovo matrimonio era solo apparente (Comm. in Matt. XIV, 23 s). Questa compren sione pastorale non doveva essere molto diffusa, ed era più aperta agli uomini che alle donne. Nella fine del IV secolo l'Occidente imboccherà la strada del più assoluto rigorismo, mentre l'Oriente sarà ancora più tollerante. La dottrina monogamica viene affermata anche per le persone rimaste vedove, che normalmente vengono scon sigliate, e da qualche Padre interdette, a risposarsi (8). L'Occidente e soprattutto Agostino, pur descrivendo i vantaggi spirituali della vedovanza, fu molto più elastico dell'Oriente, fondando così la prassi successiva. Agostino scrive: « Anzitutto devi sapere che per il bene (vedovan za) che ti hai scelto non devono essere condannate le secondo nozze, ma considerate di minor valore » (De bo no viduit. 5, 6); anzi egli ammette persino più possibilità mostrandosi così molto più aperto delle idee correnti al suo tempo. Nel nostro periodo non esisteva ancora un corpus di norme canoniche o liturgiche che regolassero il matrimo nio; esso andrà formandosi lentamente sotto la spinta di diversi fattori culturali, politici e giuridici. Secondo i di ritti giudaici e quelli ellenistici il matrimonio si realizza va in due momenti distinti ed essenziali, più o meno distanziati nel tempo; mentre per il diritto romano il fidanzamento (sponsalia) era sì un momento importante ma non essenziale in quanto non produceva un legame giuridico - esso non obbligava a perfezionare il matri monio -, ma era sostanzialmente una promessa solenne e impegnativa non scritta, con conseguenze anche sociali e giuridiche, per cui lo Stato interveniva per regolarli (9). La Chiesa accettò la pratica del fidanzamento con i suoi elementi, rendendo la promessa più impegnativa e sacra, in quanto veniva considerato come anticipazione del ma trimonio stesso e influendo in tal modo anche nella legi-
(8) Naturalmente tutte le correnti più o meno ostili al matrimonio erano contrarie alle seconde nozze ; cfr. Ch. Munier, o.c., p. 55-57. S. Basilio condanna severamente i risposati ; la legislazione cano nica bizantina ha conservata tale severità. (9) Cfr. Codice Teod. III, 5, l del 380; III, 5, 6 del 336 ; Digesto, 19, 5, 17, 5 ; 16, 3, 25 ; 23, l . 236
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slazione imperiale, del Tardo Antico (10). Secondo il dirit to romano, che sembra già in vigore nei primi secoli, è il consenso che produce il vincolo giuridico matrimoniale, secondo l'adagio consensus facit nuptias, e non il rappor to fisico tra gli sposi (copula carnalis), come era invece per le tradizioni orientali e germaniche. I Padri non si sono preoccupati di approfondire questo aspetto; tutta via, pur annettendo maggior importanza al rapporto fisi co di quanto lo facesse il diritto romano, per salvare anche la validità del matrimonio della Vergine con Giu seppe, hanno posto l'accento sul consenso, contribuendo così alle soluzioni del diritto canonico posteriore. I cristiani si sposavano secondo le leggi esistenti nelle varie regioni, le quali variavano nella prassi giuridica, da popolo a popolo dentro e fuori dell'Impero romano, o secondo le leggi romane, che andavano sempre più esten dendosi con il parallelo ampliarsi della cittadinanza ro mana. Essi si preoccupavano di rifiutare solo quegli ele menti, anche di carattere rituale, inconciliabili con l'etica e la dottrina cristiana. Già Atenagora scriveva nel II seco lo: « Ognuno di noi si sposa secondo le leggi e le consue tudini ricevute >> (Supplica 33) ; Ippolito accusa Callisto di ammettere nella sua comunità donne che « non erano sposate secondo le leggi >> (Philosph. IX, 2). I Padri se guono il diritto romano, integrato dalla tradizione ebraica per le proibizioni di contrarre matrimonio tra parenti e tra affini, per l'età degli sposi, per la differente condizione soCiale tra di essi, per la diversità di religione ... ( l l ) . I matrimoni misti, cioè tra u n cristiano e un non cristiano, erano molto numerosi; venivano sempre sconsigliati per i pericoli insiti in tali unioni, ma in genere non erano formalmente proibiti, come osserva Agostino: « (tali ma trimoni} nei nostri tempi ormai non vengono considerati come dei peccati, poiché nel Nuovo Testamento nulla è ( 10) Cfr. Tertulliano, De orat. 22, 10 ; Apologetico 6, 4 ; eone. di Elvira can. 54 ; cfr. J . Gaudemet, L'Eglise dans l'Empire Romain, Paris 1958, pp. 521-524. ( 1 1) I Padri parlano poco di questi aspetti, in quanto, come si è detto, essi avevano soprattutto preoccupazioni etiche ; inoltre la distinzione degli impedimenti matrimoniali, distinti in dirimenti - che rendono il matrimonio ipso facto nullo e quelli invece impedienti cioè Io rendono valido ma illecito -, risale ai ca nonisti del sec. XIII. -
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stato stabilito a riguardo, per cui o sono stati considerati leciti o sono stati lasciati nel dubbio » (De fide et oper. 19, 35) . La celebrazione delle nozze, sia in ambito giudaico che romano, comportava anche dei riti esterni, alcuni dei quali avevano carattere religioso. I cristiani, anche in questo caso, hanno accettato tutti i riti, secondo le varie tradizioni locali, eliminando solo quanto v 'era di pagano, poiché « sia se prendiamo moglie, sia se redigiamo un testamento ... non agiamo secondo la nostra legge, ma secondo quanto essi hanno prescritto » (Giovanni Crisost. Hom. ad Ant. 1 6, 4: PG 49, 1 64). Per i primi secoli non conosciamo riti, luoghi e ministri specificamente cristiani per la celebrazione delle nozze; queste si celebravano nel le case private e non era richiesta la presenza del clero ; durante il loro svolgimento si recitava una benedizione, che in un secondo momento fu riservata al clero, qualora fosse stato presente: essa diventa obbligatoria in Oriente solo verso il secolo VII. Alcuni di questi riti erano : le tabulae nuptiales, lette ad alta voce e firmate anche dal vescovo qualora fosse presente {12), la dexterarum iun ctio, l'osculum, la corona sulla testa degli sposi, la dedu ctio in domum mariti, ecc. Il primo testo che parli di una celebrazione eucaristica per l'occasione risale al V secolo (cfr. Praedestinatus 3). Per la Chiesa importava che il matrimonio fosse un fatto pubblico, celebrato di fronte alla comunità e ai suoi rappresentanti, e non una cerimo nia soltanto familiare, per cui erano proibite occultae coniunctiones, id est non prius apud ecclesiam professae (Tertulliano, D e pudic. 4, 4) (1 3). Tuttavia la sacralità del matrimonio cristiano per i Padri non è il risultato della morfologia dei riti celebrativi, ma deriva dalla sua stessa essenza, in quanto è un'istituzione divina e simbolo vissu to dell'amore di Cristo per la Chiesa, in linea con l'e( 1 2) Cfr. Paolina di Nola, Poema 25 ; Ambrogio, Epist. 19, 7 ; Siricio papa, Epist. l, 4 ; Innocenza papa, Epist. 2, 6 ; Pietro Cris., sermo 157 ; Possidio fa capire che Agostino interveniva solo a certe condizioni, Vìta Aug. 27, 4-5 ; Agostino, sermo 332, 4. ( 13) Cfr. Tertulliano, De virg. v el. 12, l ; Girolamo, Epist. 58, 5 ; A gostino, sermo 332, 4 ; sermo 278, 9. Cfr. Ignazio di Antiochia, A Policarpo 5, 2: Conviene agli uomini e alle donne che si sposano, unirsi in matrimonio secondo il parere del vescovo, affinché la loro unione si faccia secondo il Signore e non secondo la carne "· <<
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spressione paolina « questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa » (Efesini 5 , 12). Poiché << fin dall'inizio Dio ha posto ogni cura nell'unione matri moniale » (14), essa è sacra nel suo nascere e in tutto l'arco della sua permanenza, come si esprime Clemente Alessandrino: « Il matrimonio è santificato, se perfetto secondo il Verbo, quando la coppia si sottomette a Dio e conduce la vita matrimoniale con sincerità di cuore e certezza di fede ,, (Stromati IV, 126-129, 4). Questa sacra lità connaturale al matrimonio è la base fondante dell'eti ca cristiana coniugale con le sue esigenze di indissolubili tà, di fedeltà e di amore reciproco: « esso non è qualcosa di umano, ma Dio ha seminato tale amore » (Giovanni Crisost. Omelia su quale donna si debba sposare 3: PG 5 1 , 230). 2. La famiglia e i suoi doveri
Anche l'insegnamento dei Padri sulla famiglia si basa sui testi biblici, secondo cui l'unione matrimoniale sgorga dal cuore (kardia; cfr. Matteo 5, 27 s; 19, 8 : Marco 10, 4), mentre la disunione è frutto della durezza di cuore (sklerokardia); l'elemento connettivo pertanto dev'essere l 'amore, inteso come agàpe (15), anzi l'amore di Cristo per la Chiesa ne costituisce il supremo ideale (cfr. Efesini 5, 32), e il matrimonio stesso è figura del legame tra Cristo e la Chiesa (2 Corinzi 1 1 , 2). Stranamente i testi del Nuovo Testamento parlano più dei doveri dei genitori verso i figli che dell 'obbedienza e dell'amore che questi devono rendere ad essi (16), con una grande simpatia ver so i bambini (Matteo 1 9, 1 3) . I figli devono obbedire ai genitori, ma « nel Signore » (Efesini 6, l) e questi hanno il dovere di educarli con fermezza ma con amore. L'espres sione di Gesù che i coniugi « non sono più due, ma una ( 14) Giovanni Crisost., Horn. in Eph. 20, l ; cfr. Fulgenzio di Ruspe, Regola della fede 42 ; nel frammento del sarcofago di Villa Albani, c'è l 'effigie di Cristo con il gesto di incoronare gli sposi per espri mere l'idea che è lui che li unisce. ( 15) Cfr. Colossesi 3, 18 ss. ; Efesini 5, 22 ss. ; 1 Pietro 2, 18 ss. ; A. Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, Bologna 1971, pp. 223-574. ( 16) Cfr. Colossesi 3, 21 ; Efesini 6, 4 ; Tito 2, 4 ; Luca 15, 11-32. 239
carne sola; quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non separi » (Matteo 1 9, 6; Marco 10, 9 s) costituisce la base dell'insegnamento patristico sulla famiglia (17), con l'intento di mettere in evidenza il suo carattere sacro come anche le sue esigenze. Scrive Giovanni Crisostomo : « Questo devono ascoltare gli uomini, e lo devono ascolta re anche le donne! Le donne, perché manifestino la loro inclinazione verso i mariti e non antepongano nulla alla loro salute; gli uomini, affinché abbiano molta benevolen za per le loro donne e agiscano in tutto come se avessero con la loro moglie un'anima sola e formassero con lei una sola carne. Si ha un vero matrimonio, quando fra i coniugi regna una simile concordia, il vincolo è tanto stretto ed essi sono a questo modo legati dall'amore ... Dove domina questa concordia, ogni bene è presente, v'è la pace, regna l 'amore e la concordia spirituale » (Omelie sulla Genesi 45) (18) . Pertanto il legame familiare, rispetto alle contemporanee mentalità e prassi pagane, viene po sto su altre basi: l'amore e la dimensione religiosa; così si esprime Ignazio di Antiochia: « Raccomanda alle mie sorelle di amare il Signore e di sostenere i mariti nella carne e nello spirito. Così esorta anche i miei fratelli nel nome di Cristo Gesù ad amare le spose come il Signore (ama) la Chiesa » (A Policarpo 5) ( 1 9) . Il mutuus affectus e la charitas coniugalis appartengono alla stessa essenza del matrimonio. Come incontro personale « il matrimonio è il sigillo di un'amicizia infrangibile ... l'unico sorso di una fonte sigil lata, che non gustano gli estranei » (Gregorio Naz. Poemi morali l , 270 ss: PG 37, 543). Ma questo « mistero d'amo re » (agapes mysterion) (20) ha una profonda dimensione sacra nella sua origine - perché proviene da Dio -, nel suo svolgimento, vissuto secondo la sua parola, e nel fine cui tende, la salvezza eterna. Pertanto il cristianesimo (17) Come già si è accennato nelle pagine precedenti, un diritto canonico matrimoniale si va solo abbozzando in questo periodo ; per questo bisogna parlare in questa sede più degli aspetti dottri· nali che giuridici. ( 1 8) Altri testi, cfr. Ambrogio, Esamerone 5, 18-19 ; Girolamo, /11 epist. ad Eph. III, 5, v. 25 ss. ; Lattanzio, Div. inst. III, 21 ; Agostino, sermo 51, 13 ; Contra Faustum 19, 26 ; 23, 8, ecc. ( 19) Cfr. Ireneo, Adv. haer. IV, 20, 12; V , 9, 5 . ( 20) Cfr. Giovanni Crisost., I n epist. a d Col. 1 2 , S . 240
oltrepassa la mentalità corrente, parzialmente nel rivalu tare l'aspetto soggettivo dell'incontro tra due persone e totalmente nell'offrire le motivazioni più profonde e radi cali della convivenza coniugale. Tuttavia il legame matrimoniale, pur basato sulla chari tas, genera una schiavitù reciproca; esso << è davvero un legame ... perché costringe i coniugi a una soggezione reciproca ben più grave di quella di qualsiasi servo ... Come i piedi degli schiavi fuggitivi sono legati ciascuno per sé e collegati l'uno all'altro » (2 1 ) . Per questi motivi i coniugi, nella vita comune, sono su un piano di parità per i diritti e i doveri reciproci di fedeltà, di reciproca assi stenza, dei rapporti coniugali, che, tuttavia, tendono a essere interdetti in certi periodi per ragioni cultuali. Questa parità, soprattutto di ordine soteriologico e affet tivo, non esclude una gerarchia: il marito è il capo indi scusso, per cui la moglie e i figli sono su un piano subor dinato. La stessa struttura della famiglia antica, codificata nel diritto e nella consuetudine, era inconcepibile altri menti anche per i cristiani ; ad essa però i Padri aggiun gono motivazioni biblico-teologiche che si rifanno al rac conto della Genesi sulla creazione e a s. Paolo: la donna è stata tratta dall'uomo e plasmata a sua immagine, ha peccato per prima inducendo anche l'uomo a peccare. Sulla dipendenza della donna dall'uomo va considerata la rilevanza di un fattore sociale, normalmente trascurato dagli studiosi, riguardante la differenza di età tra gli spo si, al momento di contrarre matrimonio, di uno scarto di almeno un decennio: le ragazze in genere avevano 1 6/17 anni, mentre gli uomini superavano quasi sempre i 25. Per questo i mariti erano esortati a essere come le guide e i protettori delle loro mogli, notevolmente più giovani di loro e meno preparate sia socialmente che cultural mente. Anche nell'ambito familiare l'apporto del cristianesimo non mira tanto a cambiare la società di allora, quanto piuttosto a cambiare il cuore degli uomini, per creare un nuovo rapporto umano, per questo la chiesa nei primi secoli non si interessa ai problemi giuridici e patrimoniali regolati dal diritto romano o locale, perché i cristiani si (21) Giovanni Crìsost., La verginità 40 ; Ambrogio, La verginità 6, 33 ; Esa merone V, 7, 18. 241
sposano secundum consuetudinem illius regionis quam incolunt (Mansi II, 1 037 can. 4). Lo farà solo più tardi quando, come in altri settori, si sostituirà allo Stato. Le pratiche abortive, molto diffuse in quel tempo, furono severamente e unanimente condannate sin dagli inizi del cristianesimo, in quanto l'aborto viene equiparato all'o micidio; infatti anche il concepito è un essere vivente e ha diritto alla vita, per cui coloro che lo praticano verran no gravemente condannati da Dio (22) . Scrive Tertulliano; « A noi invece l'omicidio è vietato una volta per tutte; e quindi non c'è permesso neppure di sopprimere il feto nell'utero, quando ancora il sangue materno plasma l'es sere umano. Impedire la nascita è un omicidio anticipato, e nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si tronchi sul nascere. È un essere umano anche quello che sta per nascere ,, (Apologetico 9, 8). Quando l'aborto veni va praticato da qualche cristiano, la Chiesa comminava l'esclusione per coloro che ne facevano uso: « Alla donna che deliberatamente si procura l'aborto sia imposta la pena dell'omicidio. Non si sottilizzi tra noi se il feto è formato o no ... Non si deve tuttavia farla restare in stato di penitenza fino alla morte, ma tenersi dentro la misura dei dieci anni: la guarigione interiore si stabilisca non per il tempo, ma per la qualità della penitenza » (Basilio, Epist. 88, 2) (23) . L'atteggiamento cristiano promana da un'idea nuova : il rispetto della vita in quanto proviene da Dio, per cui essa va protetta da qualunque maniera venga minacciata. Per questo anche l'abbandono dei neo nati - costume legalmente permesso dallo Stato fino al IV secolo - viene fortemente riprovato (24), così pure la loro vendita; mentre viene consigliata la loro adozione. I Padri, nei loro scritti e discorsi, trattano maggiormente dei doveri e delle responsabilità dei genitori verso i figli che viceversa. A questi incombono i doveri dell'ubbidien za, del rispetto e dell'amore filiale e, se grandi, anche della cura dei genitori; ma i genitori devono preoccuparsi (22) Cfr. Didachè 2, 2 ; 5, 2 ; Ep. Barnaba 19, 5 ; 20, 2 ; Giustino, Apolog. I, 27, l ; 29, l ; Atenagora, Supp. 35 ; Tertulliano, De anima 37, 2 ; Minucio F., O t tavio 30, 2 ; Clemente di Al., Pedagogo Il, 96, l ; Stromati Il, 88,4 ; Origene, C. Celsum VIII, 55 ; ecc. (23) Concili: Elvira, can. 63 ; 68 ; Ancira, can. 21. (24) Cfr. Giustino, Apolog. I, 27 e 29 ; Atenagora, Suppl. 35 ; A Dzo gneto 5, 6 ; Tertulliano, Ad nationes l, 15, 3. 242
della loro sana crescita fisica, culturale e soprattutto reli giosa, basata sull'amore e il timore di Dio, per non essere degli << assassini spirituali » dei loro figli (25). I diritti del pater, già nella stessa società imperiale, avevano subito un ridimensionamento; il cristianesimo li ridimensiona ulteriormente, in quanto, pur riconoscendo la patria po testas, preferisce parlare della paterna pietas (26). Anzi va oltre affermando che la famiglia << è una piccola chie sa » (27), poiché lì si prega insieme, si ascolta la spiega zione della Scrittura : « la casa diventa in tal modo una chiesa, affinché, messo in fuga il diavolo, nemico della nostra salvezza, si posi su tutti la grazia dello Spirito santo e ogni pace e concordia protegga quelli che abitano la casa » (Giovanni Crisost. Omelie sulla Gen. 2, 4). In questa piccola chiesa domestica il padre svolge il suo ruolo non con lo spirito di dominio - come gli ricono sceva il diritto -, ma con quello di servizio; egli è il vescovo domestico: « Sicché, o fratelli, quando sentite il Signore che dice: Dove sono io, ivi sarà anche il mio servo, non vogliate pensare solamente ai vescovi e ai sacerdoti degni. Anche voi, ciascuno a suo modo, potete servire Cristo ... E così ogni padre di famiglia si senta impegnato, a questo titolo, ad amare i suoi con affetto veramente paterno. Per amore di Cristo e della vita eter na, educhi tutti quei di casa ... Egli eserciterà così nella sua casa una funzione sacerdotale e in qualche modo episcopale, servendo Cristo per essere con lui in eterno » (Agostino, In fohn. tract. 5 1 , 1 3 ). Non sempre era possibile realizzare questo ideale cristia no nella famiglia, perché nel cristianesimo antico, ancora nel IV secolo inoltrato, si aveva una forte predominanza di donne; queste spesso erano costrette, se non volevano abbracciare lo stato di verginità, a contrarre matrimonio con pagani, pur se in linea generale venivano sconsigliate a farlo. Tuttavia la solidarietà familiare normalmente non
(25) Agostino, Epist. 98, 3 (a Bonifacio) . (26) Cfr. Tertulliano, Adv. Mare. 2, 13 ; M. Roberti, Patria potestas e paterna pietas: Studi Albertoni, I, Padova 1935, pp. 257-270. (27) Giovanni Crisost., In epist. ad Ep h. 20, 6: PG 62, 143 ; per altri testi cfr. P. Rentinck, La cura pastorale in Antiochia nel IV se colo, Roma 1970, pp. 277-280 ; cfr. Agostino, Epist. 188, 3 ; sermo 94: PL 38, 581 .
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veniva intaccata, poiché nel IV secolo regnava una estesa tolleranza religiosa e culturale. Dal discorso condotto fin qui appare abbastanza chiaro che l'atteggiamento cristiano verso il matrimonio inizial mente fu solo di carattere etico e religioso, per cui era naturale che influisse anche sul diritto romano in elabo razione nel Tardo Antico (28); solo successivamente al nostro periodo, usufruendo dell'esperienza giuridica ro mana, si costituì un corpus canonico, che sostituì quello romano.
BIBLIOGRAFIA
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(28) B. Biondi, Il diritto romano cristiano, 3 voll., Milano 19521954 ; J. Gaudemet, Droit romain et principes canoniques en matière de mariage au Bas-Empire: Studi E. Albertario, Vol II, Milano 1950, pp. 173-196. .
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la liturgia
Chiunque si voglia avvicinare o si avvicini alla produzione liturgica dei primi secoli del cristianesimo, prende subito atto dell'esiguità delle testimonianze prima di Nicea, nei confronti di tutta una ricchezza di fonti che si hanno dalla fine del IV secolo in poi. In realtà il periodo cri stiano prima e dopo Costantino fu molto differenziato e la liturgia lo registra con puntualità. Da parte nostra seguiremo tale divisione. l . La l iturgia prenicena l . Culto religioso e vivere quotidiano
La Chiesa prenicena si muove in una dialettica costante col giudaismo e col paganesimo, per trovare una sua identità all'interno di una società che aveva nella religione la sua espressione sociale. Come non si comprende un po polo giudaico senza la sua fede religiosa nel Dio d'Israele, così non si ha la città pagana senza i suoi dèi. Il gruppo dei cristiani non vuole essere confuso col gruppo giudaico (e vi riesce ben presto quando l'amministrazione romana di Antiochia li chiama « cristiani >> e non giudei nell'anno 40: Atti 1 1 , 26) , né intende allinearsi con quello di un qualsivoglia gruppo religioso esistente nell'impero. Esso riconosce come suo fondatore e suo Dio Gesù di Naza reth, crocifisso a Gerusalemme durante la pasqua ebraica dell'anno trenta (all'incirca), essendo governatore romano Ponzio Pilato, e canta solo a Lui i suoi inni e non agli dèi di Roma. Negli anni 1 12-1 1 5 Plinio il giovane, in una 245
lettera a Traiano, c'informa sulle riunioni liturgiche dei cristiani: « Attestavano (i cristiani interrogati) che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche : riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un'invocazione a Cristo considerandolo Dio, e obbligarsi con giuramento, non a perpetrare qualche de litto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i propri im pegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, a ogni modo, quello consueto e innocente ... Mi è parsa una questione in cui valesse la pena di domandare il tuo punto di vista, soprattutto in considerazione del gran numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo: molti di ogni età, di ogni ceto sociale, perfino di entrambi i sessi vengono trascinati, e lo verrano ancora, in una situazione così rischiosa. L'epidemia di questa deleteria superstizio ne è andata diffondendosi non solo negli agglomerati ur- . bani, ma anche nei villaggi e nelle campagne; però sono ' d'avviso che si possa ancora bloccare e riportare sulla giusta via. Almeno risulta assodato che i templi, i quali erano ormai quasi ridotti all'abbandono, hanno ricomin ciato a essere frequentati, che le cerimonie sacre, da lun go tempo sospese, vengono di nuovo celebrate » (Plinio Cecilio Secondo, l .X.96, 97: ed Utet 1 973, Opere Il, 1091-1 1 0 1 ) . Il testo di Plinio ci offre tre elementi circa le riunioni liturgiche cristiane prima di Nicea: 1 . s'invocava Cristo come Dio e poi 2. ci s 'impegnava, sulla base della loro religione, di comportarsi rettamente nel vivere quotidiano; 3. ciò provocava molte defezioni dalle cerimonie in uso nei templi pagani. Si trattava di un nuovo modo di esprimere il proprio essere religioso nelle riunioni abituali, in uso presso i templi da parte di molti cittadini. Il pagano Plinio avverte che si trattava di riunioni in stretta relazione col proprio vivere da cittadini sia sociale che religioso e, naturalmente, da amministratore romano, se ne preoccupa. Al tempo della nascita del cristianesimo l'impero di Roma era attraversato dalla crisi della religione di Stato. La religiosità del cittadino cercava perciò 246
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propri spazi nella sfera del privato, nell'intimo della co scienza individuale dove si avverte la presenza misteriosa di Dio. In tale travaglio religioso rinascono nell'impero i culti orientali misterici o spirituali, a intonazione soterio logica individuale, e con essi viene a misurarsi il cristia nesimo. I cristiani mettono in evidenza l'elemento perso nale sul loro essere religiosi ma ne connotano anche l'a spetto o l'incidenza sociale. Se Plinio se ne era reso conto dalle normali interrogazioni giudiziarie lo si deve al fatto che nelle file cristiane si veniva educati a ciò, in aperta polemica col modo di essere religiosi da parte pagana. Si educava il cristiano a dare peso alla propria fede religio sa che, nel culto, trovava la sua maggior espressione sino a divenire principio di agire dello stesso vivere. La testi monianza di una polemica, sorta al riguardo nel sec. II, tra un cristiano e un pagano, c'informa sufficientemente della diversa concezione della religione e del culto. Un cristiano imputa a un greco l'inutilità del suo lamento, nei riguardi del figlio che attentava al suo matrimonio, nel modo seguente: « Perché tu, che sei greco ( = di religione), te la prendi con tuo figlio se lui imitando Giove, ha teso delle insidie al tuo matrimonio, anzi te lo ha rubato? Perché Io consideri tuo nemico quando tu veneri chi si comporta allo stesso modo? Per quanto riguarda noi cristiani, il nostro imperatore, il Verbo divino, che assiduamente ci presiede, vuole da noi ... un animo puro corredato di santità e le tessere del nostro re, azioni divine » (Pseudo-Giustino, Ai greci 4-5 : PG 6, 238-239). 2. Nuova semantica del termine « Liturgia »
Per esprimere un rapporto religioso, che legava l'uomo a Dio non solo in determinati momenti rituali o in deter minati luoghi ma nell'insieme del proprio vivere, i cri stiani cambiarono significato a una parola chiave per la questione che stiamo trattando, abbastanza in uso nel giudaismo e nell'ellenismo, la parola « liturgia ». Il termine « liturgia » [= leiton ( popolo)-ergon ( azione)] è greco e i traduttori alessandrini della Bibbia (i 70) delimi tarono tale significato al culto reso a Dio per il popolo dai Ieviti (la classe sacerdotale d'Israele) n el tempio di Gerusalemme. La polemica degli scritti del Nuovo Testa mento è interamente contro tale concezione di culto. Il 247
giudaismo tuttavia conosceva nella D iaspora (gli ebrei che vivevano fuori della Palestina) un culto accetto a Dio, sul livello di quello del tempio, nelle tante sinagoghe erette ovunque vi era un consistente agglomerato di cittadini ebrei. Nella Sinagoga si aveva un culto reso a Dio dai « cultori ( = coloro che fanno liturgia) della Sapienza » ( Eccli 4, 14), un culto di natura spirituale che aveva la sua esplicitazione nella preghiera e nella lettura-spiega zione della parola di Dio. Il cristianesimo assimilò certa mente tale dimensione religiosa del giudaismo, che non era strettamente legata al ritualismo del tempio. Con la parola « liturgia ,, gli ebrei indicavano quindi il culto reso a Dio da alcuni (i leviti addetti al servizio del tempio) a favore del popolo. Tra il Dio d'Israele e il popolo c'era la mediazione dei leviti e, per essa, rimaneva no al di qua dell'incontro sia Dio che il popolo. Nel corretto servizio cioè nel rispetto minuzioso delle ceri monie richieste, da parte dei leviti, il termine « liturgia » esprimeva tutta la sua significatività religiosa ebraica nei riguardi del divino. Era un'azione (ergon), che si poteva porre a favore del popolo (leiton) ma solo nel tempio e non da tutti (solo i leviti). I greci, dal canto loro, utilizzavano il termine << liturgia » per indicare una grossa donazione devoluta a favore del popolo. Si trattava per lo più di spesare feste popolari, gare teatrali, i giochi olimpici, la flotta in tempo di guer ra. Con tale sistema si aggirava la difficoltà di far pagare le tasse ai potenti delle città: i loro soldi venivano impie gati come donazioni popolari, a favore del popolo. Natu ralmente si potevano permettere gesti simili da mecenati solo dei possidenti, e il significato della parola « liturgia » veniva ristretto alle possibilità di pochi a favore di tutti. Sia i greci sia gli ebrei immettevano nel significato un elemento generale: il popolo; e uno restrittivo : i pochi, che rendevano possibile di fare qualcosa a favore di tutti. I cristiani intesero diversamente il termine << liturgia » (popolo-azione). Essi non considerarono il popolo come oggetto di una beneficenza, ma lo intesero come il sogget to stesso dell'azione, vale a dire un'azione fatta da tutto il popolo, perché tutti resi capaci di espletare l'azione di culto. Spogliando il termine di qualsiasi restrizione i cristiani lo 248
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intesero nel senso di << accedere a Dio, avvicinarsi a Lui », nella linea e nella unica mediazione possibile, quella di Gesù Cristo, << liturgo del vero tabernacolo » (Ebrei 8 , 12). In Lui tutti gli uomini sono << liturghi », sono cioè capaci di avvicinarsi a Dio. Gesù Cristo diventa il tramite del rapporto religioso tra Dio e ogni uomo, e non solo in particolari raduni religiosi o in luoghi particolari, bensì nel vivere quotidiano dell'esistenza dei cristiani preniceni, nel rilevare il rapporto che ogni loro riunione cultuale, in particolare la celebrazione dell'eucaristia (Giustino, Apo logia I, 67) aveva con l'onestà del vivere. La loro conce zione era che la liturgia non è legata alle possibilità di pochi e a particolari momenti o luoghi, bensì al vivere stesso rapportato a Dio, così come era avvenuto di Gesù di Nazareth. Per una tale rivoluzione religiosa i cristiani vennero accusati dai pagani di ateismo e di empietà (Giustino, Apologia II, 3), e giudicati degli innovatori che si ponevano << contro antiche istituzioni e antichi costu mi » (Giustino, Apologia I, 40). Essi però ribadirono che, solo chi si pone nella linea di partecipazione all'adorazio ne di Dio datagli dal Verbo, è religioso. Ogni altro modo di adorare Dio rimane fuori dallo stesso rapportarsi a Dio. Giustino sintetizzò come segue il pensiero comune dei cristiani: << Vive di Cristo chi vive della ragione che viene da Lui e viene partecipata agli uomini. Questi sono i cristiani e sono religiosi, gli altri sono atei » (Apol. I , 46). Già s. Paolo, in tale ottica, aveva giudicato la sua vita, spesa per convertire a Dio i gentili, come il suo culto e la sua liturgia (Rom 1 5 , 16); e la vita dei gentili, convertiti alla fede in Gesù Cristo, come la loro liturgia o il loro culto offerto a Dio (Rom 15, 15; Fil 2, 17). Attraverso l'ini ziazione alla preghiera, che noi possediamo nei commenti al Padre nostro, l'antichità cristiana faceva una catechesi articolata sul culto cristiano. Precisava quel nuovo modo di capire la religione (quello insegnatoci da Gesù Cristo) che comportava una nuova comprensione degli atti di culto: non andavano capiti come culto celebrato in esclu siva da alcuni per altri, ai quali era preclusa la possibilità di accedere personalmente a Dio; non erano da limitarsi ad atti rituali a sé stanti, a momenti e a luoghi determi nati; l'offerta infine non poteva essere fatta con cose ina nimate o irrazionali, ma dall'uomo stesso che, rapportan249
dosi a Dio nel suo esistere concreto, è « Iiturgo ». Tale visione non annullava il servizio prestato nelle assemblee liturgiche dai responsabili delle comunità, che anzi si or dinavano alcuni cristiani a tale scopo, ma non lo si rece piva nella linea dei sacerdoti !eviti e pagani, che erano dei veri intermediari, bensì in quella di un ministero espletato a servizio della comunità. Ci spieghiamo con una testimonianza di Tertulliano, presa dal suo commen to al Padre nostro, scritto alla fine del sec. II inizi del III. Egli articola la sua concezione di liturgia cioè di culto a Dio sul testo di Giovanni 4, 23, dove Gesù parla alla don na samaritana dei << veri adoratori del Padre ». Per il ca techista di Cartagine il vero adoratore è Gesù Cristo e in Lui i cristiani, sono visti come coloro che ripetono la sua adorazione a Dio. Egli scrive: << Questa è l'offerta spiri tuale che ha abolito tutti gli antichi sacrifici ... Il Vangelo insegna bene quello che ci ha chiesto. Sta scritto: « Verrà il momento quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità e tali adoratori egli cerca ». Noi siamo i veri adoratori e i veri sacerdoti, perché pregando in spirito, in spirito offriamo la nostra preghiera a Dio come ostia a Lui dovuta e accetta. Egli questa offerta ha chie sto e, a questa offerta, volge il suo beneplacito » (De or. 28, 1-2). Questo e altri testi similari, anche di altri autori (ad es. Minucio Felice, Ottavio, 32; Cipriano, Or. domin. 2; Ep. 77, 2), costituiscono tutta una serie di testimonianze in relazione alla vita umana, vissuta nella linea religiosa di Gesù che, di per sé, è culto a Dio.
3. Sacerdozio cristiano e ministero ordinato Accanto ad esse c'è poi un'altra serie di testimonianze (1 Pt 2, 4-10; Apoc 1 , 6; 5, 10 e 20, 6) che indicano il popolo cristiano insignito di sacerdozio regale. Questa denomina zione, di derivazione veterotestamentaria (Esodo 19, 6), indica nel Nuovo Testamento il compimento di una pro messa fatta al popolo giudaico, che sarebbe stato un giorno « un regno di sacerdoti ». Nella lettera di Pietro e nell'Apocalisse i battezzati nel nome di Cristo vengono 250
indicati come re e sacerdoti nel loro assieme (1). Il sacro costituiva, nella antichità, il luogo di accesso a un incon tro sempre mediato da un sacerdote che era, appunto, l'uomo della separazione e insieme della mediazione col divino. Il cristiano, nel contesto di essere insignito di sacerdozio regale, viene indicato come colui che accede direttamente a Dio, senza bisogno di un'ulteriore media zione: in tal senso egli è sacerdote. Il contesto battesima le metteva particolarmente in luce tale aspetto: si veniva consacrati a Dio (Giustino, Apol. 1 , 61) ricevendo quell'un zione dello Spirito che, nella linea dell'unzione di Cristo, consente di accedere a Dio, di essere cioè sacerdoti. Nel l'ambito di un sacerdozio come realtà cristiana, di potersi rapportare a Dio nella linea di Gesù Cristo, l'antichità cristiana conosceva anche una diversità di ministeri che, sul piano concreto, rispecchiavano una struttura gerar chica della Chiesa, in particolare il diacono, il presbitero e il vescovo. Benché la prima generazione cristiana chia mi « sacerdote » anzi « sommo sacerdote » solo Cristo, e non indichi i suoi capi con il titolo di << sacerdoti » ma solo con termini amministrativi (diacono-presbitero-ve scovo) , in ambito soprattutto occidentale ci si mosse in tale direzione. Clemente Romano nell'anno 95-97 interve nendo presso la comunità di Corinto, che voleva destitui re i suoi presbiteri, operò l'accostamente tra episcopé (l'ufficio di vigilare dei responsabili) e sacerdozio, dando così inizio a un'interpretazione del ministero dei preposti alla comunità cristiana in chiave giudaico-sacerdotale di sacerdozio aronitico (l Clem. 43-44). Divenne poi frequen te dal sec. IV di indicare il vescovo col nome di « sacer dote »; in seguito si ebbe la medesima cosa anche per il presbitero, forse in considerazione della sua presidenza nelle assemblee eucaristiche in assenza del vescovo. La presenza di tutta una gerarchia di ministeri all'interno ( l ) L'espressione neotestamentaria di regale sacerdotium deriva dalla Bibbia dei 70. Il testo originale ebraico di Esodo 19, 6 invece di regale sacerdotium ( regale sacerdozio) ha regnum sacer dot um ( regno di sacerdoti) . Il testo di Pietro è il seguente: « Av vicinatevi al Signore . . . Anche voi come pietre vive formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo . .. Voi siete la gente che Dio si è scelta, voi siete il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è scelto per annunziare a tutti le sue opere meravigliose » ( lPt 2, 4-9) .
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della comunità fu molto sviluppata nella Chiesa prenice na, soprattutto in quella latina e in particolare in quella africana. Vi sono i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i sud diaconi, gli accoliti, gli esorcisti, i lettori; i laici poi si distinguono in catecumeni, battezzati o fedeli, penitenti, vedove, vergini, confessori (i sopravvissuti a una persecu zione subita per la fede in Cristo) . L'intera strutturazione ecclesiale tuttavia evitava di creare opposizioni tra le va rie gradualità. Tutta la comunità cristiana infatti, in ogni suo ordine e grado, era chiamata a una corresponsabilità globale. Le testimonianze più eloquenti in proposito ce le ha lasciate Cipriano. « Carissimi, scriveva al clero di Car tagine, mi sono fatta una regola dall'inizio del mio epi scopato, di non decidere niente senza il vostro consiglio e il suffraggio del popolo >> (E p. 14, 4). « Conviene, scriveva ancora, alla disciplina e alla vita stessa che noi dobbiamo condurre, che quanti presiedono l'assemblea, col clero e in presenza di quelli del popolo che non sono caduti e che bisogna onorare per la loro fede e timore di Dio (i confessori), possiamo regolare ogni cosa stando a una deliberazione comune >> (Ep. 19, 2) . 4. La documentazione
La documentazione liturgica ci è data principalmente: a) dalla Didachè, la fonte più antica di un documento litur gico disciplinare (tra l'anno 100-150) che, nella 1a parte (cc. 1-10), contiene istruzioni liturgiche riguardanti, per lo più, i catecumeni e il modo di battezzare. I cc. 9-1 0 ci danno tuttavia le più antiche preghiere eucaristiche, ne ripor tiamo qualche brano : « Come questo pane spezzato, era prima sparso qua e là su per i colli e, raccolto, divenne uno; così anche la tua Chiesa sia radunata dai confini della terra nel tuo regno. Poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli! Nessuno mangi né beva della vostra eucaristia, se non i battezzati nel nome del Signore >> (c. 9). << Dopo esservi saziati, rendete grazie così: Rendiamo grazie a te, Padre santo, per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l'immortalità che hai rivelato a noi per mezzo di Gesù tuo servo. Gloria a te nei secoli! Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa a gloria del tuo nome, cibo e bevanda hai donato agli uomini per loro 252
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conforto, affinché essi ti rendano grazie; ma a noi hai elargito un cibo e una bevanda spirituali e la vita eterna, per mezzo del tuo Servo >> (c. 10, 1-4) (2). b) L'Epistula apostolorum (datata tra il 140-160) contiene un simbolo di fede a costruzione ternaria; riferimenti sulla remissione dei peccati nella Chiesa, e sull'Eucaristia che viene denominata Pasqua: « Il Signore disse: voi ce lebrerete la memoria della mia morte, ossia la Pasqua » (c. 1 3) . c ) Giustino, l'Apologia I, 65-67 c i offre molti elementi sul modo e il significato del battesimo e dell'eucaristia. Di quest'ultima ci viene data la prima indicazione di come la si celebrava, sia dopo il battesimo che nei giorni di do menica: la lettura delle memorie degli Apostoli, la pre sentazione delle offerte, la prece eucaristica detta dal presidente dell'assemblea secondo le sue possibilità di formularla, la distribuzione dell'eucaristia ai presenti e inviata anche agli assenti impossibilitati a intervenire, la raccolta di offerte da devolvere a uso dei bisognosi. Ri portiamo quanto ci riferisce nel c. 67, che è la prima testimonianza esplicita sul modo di celebrare l'eucaristia nel sec. II: << Il giorno che è chiamato del sole, tutti, nelle città e in campagna, si riuniscono in uno stesso luogo: si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti, per quanto il tempo lo permette. Quando il lettore ha finito, colui che presiede fa un discorso per ammonire ed esortare all'imitazione di tali belli insegna menti. Poi tutti ci alziamo e preghiamo insieme ad alta voce. Quindi, a preghiera terminata, si porta pane e vino con acqua. Colui che presiede fa salire al cielo le preghie re e le eucaristie per quanto è capace, e tutto il popolo risponde con l'acclamazione: Amen! Poi si fa la distribu zione e la spartizione a ciascuno delle eucaristie, e si manda agli assenti la loro parte per mezzo dei diaconi. Chi possiede e vuole donare, dà ognuno generosamente quanto vuole. Il raccolto viene affidato a colui che presie de: per gli orfani, le vedove, quanti sono nel bisogno sia per malattia che per altra causa, prigionieri, stranieri di (2) Alcuni autori tendono di sminuire il carattere strettamente eu caristico di tali preghiere in senso cristiano, e le riannodano alle preghiere di benedizione che gli ebrei facevano prima e dopo i pasti. 253
passaggio, insomma per tutti i bisognosi. Ci raduniamo il giorno del sole, perché è il primo giorno in cui Dio, traendo la materia dalle tenebre, creò il mondo, e perché in questo stesso giorno Gesù Cristo, nostro Salvatore risu scitò da morte » (I, 67). d) La Tradizione Apostolica (di lppolito). È il documento liturgico-disciplinare più articolato della Chiesa prenicena. Scoperta nella sua identità originale di opera a sé stante nel primo ventennio del nostro secolo, rimane ancora enigmatica per la sua origine, l'autore e la datazione. Composta nella prima metà del sec. III essa costituì la base di altri libri similari, che adattarono come modello chiese locali sia greche che latine. Anche se non sappiamo se i testi liturgici in essa contenuti siano stati o meno utilizzati, la Tradizione Apostolica ci offre certamente la prima testimonianza diretta di molti riti, in particolare del battesimo e della celebrazione eucaristica (3) . Ripor tiamo la prece eucaristica: « Il Signore sia con voi - e col tuo spirito. In alto i cuori - Ii volgiamo al Signore. Rendiamo grazie al Signore - è cosa degna e giusta. Ti rendiamo grazie, o Dio, per mezzo del tuo diletto Figlio Gesù Cristo che ci hai mandato nella pienezza dei tempi come Salvatore, Redentore e messaggero della tua volon tà. Egli è il tuo Verbo inseparabile per mezzo del quale creasti ogni cosa e nel quale ponesti il tuo compiacimen to. L'hai mandato dal cielo nel seno di una Vergine, nel suo seno egli si è incarnato; si è manifestato come tuo Figlio, nato dallo Spirito santo e dalla Vergine. Ha fatto la tua volontà e, per acquistarti un popolo santo, ha aperto le braccia nella passione per liberare dalla soffe renza quanti hanno creduto in te. Mentre si consegnava volontariamente alla sofferenza per distruggere la morte e spezzare le catene del diavolo, calcare sotto i suoi piedi l'inferno, illuminare i giusti, confermare il testamento e manifestare la sua resurrezione, prese del pane e, rese grazie a te, disse: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che è stato spezzato per voi ». Lo stesso fece col calice, dicendo : « Questo è il mio sangue che è sparso per (3) Della Traditio Apostolzca si ha la ricostruzione più aggiornata di B. Botte, La tradition apostolique de Saint Hippolyte. Essai de reconstitution, Mlinster 1963. Sul suo autore lppolito ( ?) , si veda AA.VV., Ricerche su lppolito, Roma 1977. 254
voi. Quando farete ciò, fatelo in memoria di me ». Memo ri dunque della sua morte e della sua risurrezione, ti offriamo il pane e il vino, ringraziandoti di averci giudi cati degni di stare davanti a te e di s ervirti. Ti chiediamo di mandare il tuo Spirito santo sull'offerta della santa Chiesa. Concedi a tutti i santi che, tu radunandoli, la ricevono, che siano ripieni dello Spirito santo per conso lidare la loro fede nella verità, affinché ti lodiamo e ti glorifichiamo mediante il Figlio tuo Gesù Cristo >> (c. 4 ed. B. Botte, pp. 1 0- 1 7) . e) L'Epistolario di Cipriano per la prassi penitenziale, e i differenti ministeri ordinati; Il De oratione di Tertulliano per molte usanze relative all'eucaristia. S.
Il rapporto con i misteri pagani: il rito come « mistero »
Problemi peculiari pone la liturgia prenicena riguardo al rapporto del formarsi della liturgia cristiana con i riti pagani, in particolare quelli misterici, e i riti giudaici. Riguardo a un rapporto con i riti della religiosità pagana (influssi-dipendenze-priorità) gli apologeti cristiani respin sero ogni connivenza con essi : li considerarono opera diabolica e giudicarono le possibili somiglianze come co piatura e contraffazione dei riti cristiani . Sulla stessa li nea spesso misero anche manipolazioni dei riti cristiani fatte dagli eretici (4) . In realtà se essi misero ogni cura nel distanziare le loro celebrazioni da quelle pagane, s'in contravano di fatto nella comune comprensione di un rito religioso : celebrato in onore di un dio se ne comparteci pava al destino. Se prescindiamo dagli atti di culto pub blico resi agli dèi in tutto l'impero romano, le iniziazioni misteriche, che erano tutte a valenza soteriologica, aveva no tale comune denominatore. Si trattava del concetto della partecipazione << misterica >> al mondo del divino, attraverso cioè un'iniziazione e una celebrazione del dio invocato, come benefattore e salvatore dell'uomo. Il ter mine di mysterion, che i latini tradussero talvolta con
(4) Fu l'accusa fatta a Marcione, rilevata da Tertulliano, e agli gnostici, sottolineata da Ireneo. Tale considerazione è poi pre sente interamente in Giustino.
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sacramentum (5), era già presente in s. Paolo, con una triplice esplicitazione: la volontà di Dio di salvare nel Cristo l'umanità; l'attuarsi di tale piano nella vocazione dei gentili assieme agli ebrei (Ef l , 1-19) ; Cristo stesso è il « grande mysterion della pietà » (l Tim 3 , 16). Quest'ulti- ma accezione di « mistero » divenne nel sec. II, in parti colare con Giustino, il comune denominatore per indicare gli eventi storici della vita di Cristo, che vennero appunto chiamati mysteria (incarnazione-nascita-passione-morte-ri- � surrezione-ascensione) ai quali si compartecipa nelle riu nioni liturgiche celebrate nel suo nome. Oltre alla let teratura battesimale, le testimonianze liturgiche eucari stiche, in particolare la Traditio apostolica registrano tale angolazione di comprensione. Dopo Giustino, soprattutto nel cristianesimo alessandrino, si espresse con l'idea di mysterion tutta l'economia divina nei rapporti col mondo. Il mondo venne così a essere capito come una realtà nascosta, che si manifesta e si lascia cogliere a chi ne è in grado, cioè a chi vi viene iniziato. Il concetto d'inizia zione al mistero si portava dietro l'intera comprensione della catechesi cristiana, esplicitata attraverso gli interven ti di Dio nella storia umana, quali ci sono narrati dalle Scritture. Queste stesse vengono così lette nell'ottica del mysterion da scoprire per poterle far proprie. La catego ria misterica trasse nel suo campo semantico i termini di « immagine, simbolo, segno, verità, tipo-antitipo » e costi tuì la chiave di lettura sia dell'Antico sia del Nuovo Testa mento come celebrazioni liturgiche. Queste vennero capi te come mysterion che indica: Cristo nella sua persona concreta quale mistero primordiale; la Chiesa-mysterion come derivazione da quello di Cristo e luogo del loro realizzarsi; i riti cultuali nel loro insieme, in particolar modo quelli dell'iniziazione (battesimo-cresima-eucaristia). Il cristianesimo, con l'appropriarsi della categoria religio sa della partecipazione « misterica », creò un ponte con l'intera religiosità antica e la fece convergere nel Cristo, l'unico mediatore per gli uomini per poter accedere a Dio (5) Vedi V. Loi, Il termine << mysterium nella letteratura latina cristiana prenicena, Vigiliae Christianae 12 (1966) 85-107. << Sacra »
mentum viene usato prevalentemente per rendere il senso litur gico e sacramentale. La traduzione africana della Bibbia (l'Afra) preferisce sacramentum a mysterium, mentre la traduzione ita liana (l'Itala) preferisce mysterium a sacramentum. »
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Padre. Il maestro e iniziatore di tale dialogo fu Clemente Alessandrino, Origene poi ne fu il teorizzatore nella Chie sa prenicena. Nel cristianesimo invece di derivazione non alessandrina ma asiatica, più legato ai gruppi di estrazione giudaica, la medesima categoria di partecipazione misterica venne veicolata dalla celebrazione dell'eucaristia quale Pasqua dei cristiani. Questa venne ritenuta la vera Pasqua rispet to a quella ebraica, ormai svuotata di rapporto religioso perché confluita, secondo le promesse dell'Antico Testa mento, in quella di Gesù Cristo (6) . Melitone di Sardi, Apollinare di Laodicea, Ireneo di Lione furono i portavoce principali di tale tradizione, a noi rimastaci soprattutto nelle omelie pasquali del sec. I I . Esse hanno assunto un interesse non indifferente in questi ultimi anni in ordine alla conoscenza dalla dialettica giudei-cristiani, dello svi luppo teologico in quell'area e in quel tempo, e infine dal formarsi graduale delle festività cristiane e del loro si gnificato partendo dalla celebrazione della Pasqua. 6. Le matrici giudaiche
Le istituzioni liturgiche cristiane non possono prescindere dalla loro matrice giudaica, essendo Gesù e i suoi disce poli di origine ebraica. Anche nel campo del culto s i trattò, secondo l'istanza del Vangelo di Matteo, non tanto di un'abolizione quanto di un compimento e di rettifiche nella linea profetica (l'istanza religiosa d'Israele sempre attenta a: non cadere nel ritualismo del tempio), della spiritualità legata alle sinagoghe della Diaspora, che aveva i suoi punti nodali nella lettura e spiegazione della Parola di Dio, e non ul timo della spiritualità familiare (la stessa festività della Pasqua era una festa che si celebrava in famiglia) . I cristiani, in polemica con i giudei, approfondirono l'idea che il tempio, come luogo della presenza di Dio, non era più quello di Gerusalemme (peraltro distrutto dopo l'an(6) Per queste questioni rimandiamo al nostro articolo, La Pasqua quartodecimana e il significato della croce nel II secolo, Augusti nianum 16 ( 1976) 557-571 ; e alla recensione alla Epistola di Barnaba ( Corona Patrum l, SEI-Torino 1975) , Biblica 58 ( 1977) 274-278. I testi sulla Pasqua si hanno in traduzione italiana a cura di R. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa, Roma 1972. 257
no 70) e quindi un luogo materiale, ma Gesù Cristo e i credenti in Lui che si radunano nel suo nome. Il luogo della presenza di Dio diventa perciò la persona, l'uomo, l'uomo-Dio, la comunità che si riunisce nel nome dell'invia to da Dio, Gesù di Nazareth, divenuto il Signore (7) . Nella storia del culto religioso vi fu, con tale cambiamento di prospettiva, un vero capovolgimento: la persona veniva definitivamente a sostituire, nel rapporto con Dio, la con cezione del luogo sacro e dell'offerta materiale accetta alla divinità. Del giudaismo si recuperò da parte cristiana non tanto la sontuosità e la minuta attuazione del ceri moniale del tempio, quanto la sua anima religiosa, che ritrovava i legami col suo Dio dovunque: nelle sinagoghe della Diaspora e nell'intimità familiare (la benedizione per i pasti, prima e dopo, in particolare quella del sabato e la cena pasquale) . a) La liturgia della sinagoga - Questa comprendeva: la recita della Shemà ( ascolta, Israele); la Tefillàh o gran de preghiera; letture bibliche (Legge e Profeti ); spiegazio ne delle letture con deduzioni per la vita concreta. - La Shemà, così detta dalla prima parola con cui inizia, cioè « ascolta », era composta da tre passi del Pentateuco (Deut 6, 4-9: « Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è l'unico Dio .. »; Deut 1 1 , 1 3-2 1 ; Num 1 5 , 37-41 ) che com pendiavano la professione di fede monoteistica degli E brei e ne mettevano in evidenza l'impegno di amare Dio con tutte le proprie forze, ricordandosi e osservandone i comandamenti. Tale professione di fede veniva insegnata sin nella tenera età, la si recitava a mattina e anche a sera. Praticamente la sapevano tutti a memoria. Si rife risce a tale preghiera la risposta di Gesù al fariseo che gli chiese cosa dovesse fare per raggiungere la vita eter na, gli rispose: << Come reciti? » e quegli rispose: « Ame rai il Signore Dio tuo ecc. » (Mc 12). Era legata a questa preghiera l'istanza della libertà (la potevano infatti reci tare solo gli uomini liberi, coloro cioè che potevano di.
(7) Questa evoluzione è presente negli Atti degli Apostoli e co stituisce il significato della lapidazione di Stefano (Atti 6-7) (vedi F. Hahn, Der urchistliche Gottesdienst, Stuttgart 1970, tr. it., Bre scia 1 976). 258
sporre del proprio tempo, ne erano quindi esclusi gli schia vi e le donne) . - La Tefillah o le 1 8 benedizioni, costruita sullo schema: tre di lode, dodici di intercessione, tre di ringraziamen to (8), simile a quella in uso poi nella prece eucaristica dei cristiani, veniva pregata tre volte al giorno, da tutti senza eccezione e in qualunque luogo (a casa o fuori, nella sinagoga o nel tempio). Le allusioni contenute nel Vangelo a quanti amavano pregare nei crocicchi delle strade per essere più in vista, si riferiscono a tale pre ghiera. Nella sinagoga veniva recitata a voce alta da un orante rivolto con lo sguardo al Santo dei Santi e le spalle al popolo; il popolo rispondeva, Amen! dopo ogni invocazione. Non c'è dubbio che lo schema di questa preghiera abbia influito su quello cristiano dell'eucaristia nel suo assieme e nelle preghiere d'intercessione, come la nostra preghiera dei fedeli. - Le letture bibliche e la loro spiegazione: La Torah (la Legge), cioè, i libri del Pentateuco venivano letti col siste ma della lettura continua, tranne nelle festività durante le quali si leggevano i passi corrispondenti. I l Pentateuco diviso in 1 54 o al massimo 1 75 pericopi, in Palestina veniva letto nel giro di un anno, in Babilonia in un trien nio. Potevano leggerlo tutti, dai tredici anni in poi; in ogni seduta potevano leggere anche più persone, secondo l 'importanza della festività. Veniva letto sempre in ebrai co, sottovoce, mentre un traduttore lo diceva a voce alta in traduzione aramaica. I Profeti, che costituivano la lettura conclusiva del servi zio divino, chiamata appunto lettura di dimissione della (8) Riportiamo, di ogni sezione, un esempio: di lode: « Tu sei. o Javeh, l'eroe, il forte, Colui che vive eternamente, che risu sciti i morti, che ti prendi cura dei vivi e dai la vita ai morti. Sii lodato, o Javeh, Tu che ridai la vita ai morti » (n. 2) ; d'interces sione: << Per gli apostati non vi sia speranza, e l'insolente governo ( di Roma) possa tu sterminarlo in fretta ; e i nazarei (i cristiani) e gli eretici ( minim) possano scomparire in un momento e venir cancellati dal libro della vita. Sii lodato, o Javeh, tu che abbatti gli insolenti » (n. 12) ; di ringraziamento: « Noi ti ringraziamo, o Javeh, Dio nostro, per tutti i tuoi beni, per l'amore che tu ci hai concesso. Sii lodato, o Javeh, Tu che hai tutti i beni, noi dob biamo ringraziarti » (n. 17) . Questi esempi sono presi dalla re· censione palestinese (Strack-Billerbeck, Excursus 10, pp. 208-249) . 259
assemblea, venivano letti al sabato mattina e in altri giorni festivi, ma non nelle feste principali né nel servizio ve spertino. Seguiva una spiegazione-applicazione da parte del Rabbino. Tali aspetti della liturgia della sinagoga in fluirono nella struttura stessa delle assemblee cristiane, riunite per la celebrazione della loro eucaristia, così come ci viene testimoniato dalla Didachè (cc. 9 e 1 0) e dalla descrizione che ce ne ha lasciato Giustino nella sua Apo logia (I, 65 e 67). b) La liturgia domestica È molto studiata la liturgia domestica d'Israele soprattutto in relazione alla celebra zione eucaristica cristiana. Essa aveva tre momenti prin cipali: la santificazione del sabbato (Qiddus); la benedi zione dopo la cena (Birkat ha-mazon) ; il rituale della cena pasquale. È indubbio che la eucaristia cristiar;ta ab bia inglobato la dimensione fondamentale di tali riti do mestici, e cioè quella della benedizione di Dio a motivo dei suoi benefici, unificati e centralizzati nella prece cri stiana in Gesù Cristo. -
- La santificazione del sabato. Tale rito aveva luogo all'inizio della cena per consacrare a Dio il giorno festivo; più tardi, nel sec. III dopo Cristo, venne assorbito dalla liturgia sinagogale. Esso comprendeva due benedizioni: una sul calice e una sul pane che, in mancanza del vino, sostituiva anche quel la sul calice. La benedizione sul pane era tuttavia di minore importanza di quella sul calice. Vi si aggiungeva inoltre la lettura biblica dell'istituzione sabbatica (Esodo 20, 8-1 1 ; 3 1 , 12-17; 35, 1-3; Deut 5, 12-16). Questo rito si ave va anche all'inizio della cena pasquale ebraica ed è forse il medesimo che si ha nella Didaché (c. 9) dove il rito del calice precede quello del pane (9). - Il ringraziamento dopo la cena. Questa forma di bene dizione comprendeva due parti: l'invito a ringraziare il Signore e il ringraziamento vero e proprio, comprendente quattro benedizioni ( 1 0) di cui la terza era quella della (9) Anche nel passo di Luca 22, 17 sulla cena pasquale si distingue il calice eucaristico da quello propriamente pasquale. II rito del Qiddus costituiva l'anima della spiritualità familiare ebraica. ( 10) Le quattro benedizioni erano per il cibo ; la terra loro con cessa ; Gerusalemme, la città santa ; per tutti i beni, in partico260
cena pasquale. Era in uso nei giorni comuni e, nei giorni festivi, prevedeva aggiunte corrispondenti alla festa. Sembra che essa costituì il fondamento dell'invito del la prece eucaristica cristiana: « Rendiamo grazie al Signo re Dio nostro » (G. Dix, The Shape of the Liturgy, pp. 57; 127; 215). - La cena pasquale. La cena pasquale degli ebrei inizia va col rito della benedizione e distribuzione del pane ai presenti, quindi si aveva la cena vera e propria, il cui s ignificato veniva dato dalla domanda del bambino al padre e dalla conseguente risposta sul perché di quella cena. Era cena « memoriale ,, della liberazione dalla schiavitù dell'Egitto. Dopo la cena si aveva il rito della benedizione del calice (il calice eucaristico o di ringra ziamento). Delle due benedizioni riportiamo quella sul pane: « Si i benedetto Javeh, Dio nostro, re del mondo, che ci hai scelto tra tutti i popoli e con i tuoi comanda menti ci hai santificato! Tu ci doni, o Javeh nostro Dio, nell'amore, un giorno di gioia e di delizia, questo giorno festivo del Pane senza sale, il tempo della nostra libera zione, la riunione per il tuo servizio, un ricordo dell'usci ta dall'Egitto. Tu ci hai scelti e santificati a preferenza di tutti gli altri popoli, e il tuo santo giorno festivo Tu ce lo hai dato in possesso nella gioia e nella letizia. Sii bene detto, Javeh nostro Dio, re del mondo, che ci hai conser vato in vita fino a questo momento » ! L e matrici spirituali dell'eucaristia cristiana hanno le loro radici nel clima spirituale della Pasqua giudaica. La cena pasquale di Gesù, narrataci nel Nuovo Testamento (Mc 14, 1 2-16; Mt 26, 1 7-1 9 ; Le 22, 7-1 5 ; l Cor 1 1 , 23-35), non ha però tutti i crismi della cena pasquale degli ebrei. D'altra !are per il nutrimento. Riportiamo la terza, la medesima della cena pasquale: « Abbi misericordia, Javeh nostro Dio, del tuo popolo, di Gerusalemme la tua città, di Sion l'abitazione della tua gloria, del regno della casa di David, il tuo Cristo, la tua grande santa casa nella quale il tuo nome è stato nominato. Dio nostro, Padre nostro, guidaci Tu, dacci da mangiare, prenditi cura di noi, nutrici, liberaci dalle necessità che ci stringono. Fa' che non abbiamo necessità dei doni degli uomini né dei loro prestiti, ma solo della tua mano santa e sempre aperta, perché non abbiamo a vergognarci in eterno. Costruisci Gerusalemme, la città santa, p resto, durante i nostri giorni ; Sii benedetto, o Javeh, Tu, che nella tua misericordia, edifichi Gerusalemme ! » (Strack-Bìl lerbeck IV/2, 63 l -632) .
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parte la tradizione giovannea, che mette in evidenza la coincidenza dell'agnello ucciso nel tempio e la morte di Gesù, l'agnello vero ucciso fuori la porta della città (Gv 1 8 , 29; 19, 1 4 e 36) discorda dalla tradizione sinottica. Quasi certamente vi sono alla base differenti usi di ca lendari ma forse, più verosimilmente, i racconti neotesta mentari riflettono già l'eucaristia dei cristiani, quale ri cordo della cena del Signore e non della cena pasquale degli ebrei. Le benedizioni sul pane e sul calice, la prima all'inizio e l'altra a conclusione della cena, sono ormai fuse, nei racconti neotestamentari, in un solo rito com memorativo. La benedizione sul p ane prevale inoltre su quella del calice di vino (l'eucaristia viene infatti chiamata nel Nuo vo Testamento: « Frazione del Pane >>) ; e la benedizione di ringraziamento sul calice, al termine della cena, diventa termine riassuntivo per indicare la liturgia eucaristica dei cristiani, che viene appunto denominata << eucaristia » ( 1 1). La liturgia prenicena ha come componente essenziale il formarsi di una nuova visione liturgica e, conseguente mente, di propri mezzi espressivi, che mostrasse la dif ferenziazione del nuovo culto rispetto a quello giudaico e pagano. Il culto cristiano, essendo a livello dello Spirito di Gesù Cristo, coinvolge l'intero rapportarsi dell'uomo a Dio in ogni espressione della vita e non solo a particolari momenti a sé stanti, quelli della celebrazione di un rito sacro. Nella liturgia e attraverso essa si cura di formare l'uomo religioso << cristiano » e non solo di farlo partecipa re a dei riti sacri. L'aspetto antropologico, soteriologico ed ecclesiale è perciò molto presente nelle testimonianze liturgiche prenicene; risulta invece più attenuato quello particolarmente centrato sul rito in sé, quale espressione di momenti sacri o religiosi. Tale dimensione spiega l'in cidenza culturale che ebbe la liturgia cristiana prenicena. Le riunioni o assemblee liturgiche contribuivano in modo determinante a creare l'uomo cristiano: colui che confes sava davanti agli altri la propria fede e identità cristiana; che nella vita civile era il primo ad assolverne gli impe gni; che maturava l'uso della libertà umana per rappor( l l) Dalla benedizione ebraica (la berakah) si passò all'eucaristia cristiana ; nella terminologia greca si ebbe un passaggio da eulogein (benedire) a eucharistein ( ringraziare) . 262
tarsi agli uomini, bisognosi di presenza ed aiuto umano e non solo di soddisfacimento di bisogni (il senso dato da Giustino alla celebrazione eucaristica: Apologia I, 65-67). I l . La liturgia nella chiesa post-ni cena l . Uno sguardo d'insiem e 11':-
La liturgia cristiana conosce, nel periodo dopo Nicea, la sua massima fioritura e la sua stabilizzazione rituale co dificata in libri e formulari in uso nelle celebrazioni: i sacramentari (raccolta di preghiere a uso del presidente dell'assemblea. I più antichi sono il veronese, il gregoria no e il gelasiano) ; i lezianari (raccolte dei brani scrittu ristici secondo il ciclo liturgico annuale) ; gli antifonari (sussidi per il canto durante le celebrazioni); e ancora raccolte di salmi per l 'ufficio cattedrale delle lodi e del vespro, mentre viene formandosi anche un salterio mo nastico: l'orda psallendi. Inizia anche la ritualizzazione di molti elementi più propriamente catechetici riguardanti il sacramento del battesimo, come la traditio o consegna del Simbolo, del Padre nostro, del Vangelo. Si consolida no tradizioni che dànno origine alle grandi famiglie li turgiche dell'antichità, delle quali noi siamo tuttora eredi; nascono gli ardo anni circuii cioè formulari liturgici propri alle varie Chiese, scanditi da un anno liturgico. Le assemblee liturgiche, poi, prendono tale consistenza che richiedono la maggior parte dell'attività del clero, in particolare del vescovo, creando una vastissima produzio ne letteraria e monumentale insieme. Si tratta per lo più di Sermoni e di catechesi mistagogiche tenuti in luoghi costruiti ad hoc. La liturgia esprime ormai la Chiesa a livello sociale. Essa filtra il nascere e il vivere cristiano nell'insieme di una tradizione che assume la funzione di norma, nell'evolversi stesso dell'umanità alla soglia di un rinnovamento storico delle strutture imperiali romane. Da una parte la liturgia tende a cristallizzarsi in ritualiz zazioni a sé stanti; dall'altra il vivere del cristiano viene filtrato quasi interamente dalla liturgia che tende a dive nire la norma di fede quotidiana, raccogliendo in sé sia le tensioni spirituali individuali che quelle più propriamente collettive.
Come esplicitazione può valere l'esempio dell'imperatore Teodosio, separato dalla comunione eucaristica dopo l'ec cidio di Tessalonica dal vescovo di M ilano s. Ambrogio, e poi, dopo aver soddisfatto la penitenza impostagli, di nuovo riammesso nella comunione dei fedeli. In tale fatto si fonde insieme la relìgiosità del singolo, nel volere par tecipare all'eucaristia assieme agli altri; quella della co munità che costituisce il tramite di accesso a tale religio sità; la cura pastorale del vescovo che regola il tutto utilizzando « la potestà delle chiavi » per la remissione dei peccati. Volendo tirare qualche coordinata di comprensione del fenomeno liturgico post-niceno, dobbiamo considerare due fattori : uno di organizzazione della liturgia nella Chiesa antica; e uno di significato o di importanza che da vano al dato liturgico le conseguenze che ne derivavano. 2. L'organizzazione liturgica nella Chiesa antica
I riti liturgici a noi pervenuti fanno capo a tre grandi famiglie liturgiche: l . La famiglia antiochena (siri occi dentali ed orientali, bizantini, armeni) ; 2 . La famiglia a lessandrina (copti ed etiopici) ; 3 . la famiglia romana (ambrosiano, gallicano, mozarabico) che, pur avendo affinità con quella alessandrina, comprende tutti i riti occidentali latini, senza peraltro misconoscere in essi gli influssi orientali. Queste tre grandi famiglie liturgiche del cristianesimo antico, riflettono naturalmente le grandi a ree culturali dell'antichità che, nella liturgia, trovarono una loro espressione unitaria e la trasmisero ai secoli posteriori. Per capire tale fenomeno bisogna andare alle vie di diffusione del cristianesimo, che si ebbe attraverso le grandi metropoli dell'impero. I cristiani, abbandonata Gerusalemme l'anno 70 (distrutta ad opera di Tito Vespa siano), vivono nel mondo ellenistico le cui sedi principali erano: Antiochia, Alessandria, Edessa, Roma, Cartagine. Per creare un filone di continuità con Gesù Cristo si riannodarono agli Apostoli, fondatori delle prime chiese cristiane; e alle Chiese fondate dagli Apostoli. Le grandi metropoli costituivano i centri di raccordo nell'impero e nel cristianesimo avvenne la medesima cosa. Antiochia, Alessandria, Edessa, Roma divennero centri di diffusione e di evangelizzazione cristiana, furono le chiese madri. In 264
tale ottica si rispettò il principiO di riannodarsi alla chiesa evangelizzante sia nel seguirne le tradizioni, sia per risolvere nuove questioni emergenti. Tale modo di proce dere ci è attestato particolarmente nell'Occidente dove le chiese latine, riconoscendo di essere state evangelizzate da Roma, si sforzano di adeguarsi sempre a ciò che è stato loro trasmesso sin dall'inizio (12). I vescovi di Ro ma, a loro volta, ribadiscono la legittimità dei loro inter venti nel contesto di una continua tradizione in merito. Nel riordinamento liturgico generale del sec. V, del quale Agostino ci ha lasciato testimonianza nelle sue due lettere a Gennaro (epp. 54 e 55), intervenne I nnocenzo I nella sua famosa lettera a Decenzio di Gubbio, nel modo se guente: « Ognuno segua ciò che è stato tramandato, non ciò che gli pare ... essendo noto che in Italia, nelle Gallie, nella Spagna, in Africa e in Sicilia con le isole vicine, nessuno ha istituito tali chiese se non coloro che l'Apo stolo Pietro o i suoi successori hanno ordinato vescovi » (PL 20, 55 ss) ( 1 3) . Tuttavia l'unità di rapporto tra la tradi zione romana e le altre liturgie latine si muoveva anche nel rispetto di assimilazione di elementi locali e di influs si di altre chiese, come è evidente nella liturgia ambro siana, in quella africana e anche negli altri riti latini (14). 3. L'importanza data alla liturgia - Il significato dei suoi riti
Nel periodo postniceno, mentre si consolidano le tradi zioni liturgiche a livello sociale e si collega la liturgia all'intera preoccupazione pastorale, si viene approfonden do la sua natura rituale quale mediazione privilegiata per (12) E' rimasta famosa l'affermazione di s . Ambrogio al riguardo: « Io desidero seguire in tutto la chiesa romana » (De sacramentis 3, 1, 5) . ( 13) Della lettera di Innocenza I si ha ora un testo critico curato da R. Cabié, La lettre du pape lnnocent l à Décentius de Gubbio ( 1 9 mars 416) , Louvain 1973. (14) Si veda al riguardo quanto, nel sec. VI, Gregorio Magno scrisse sulla questione liturgica nella nascente chiesa inglese: Sed mihi placet, sive in romana, sive in Galliarum, seu in qualibet ecclesia, aliquid invenis quod plus onnipotenti Deo possit piacere, sollicite eligas, et in anglorum ecclesia, quae adhuc ad fidem nova est in stitutione praecipua, quae de multìs ecclesììs collìgere potuistì, eligas » (MGH E Il, 334). <<
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avvicinare Dio, partecipando al mistero di Cristo redento re nelle mediazioni donate alla Chiesa da Cristo stesso (i sacramenti). Cristo, e la Chiesa nelle sue mediazioni al mistero di Cristo, diventano il tema centrale delle assem blee e riti liturgici. Non si scrive di liturgia (che anzi il termine è usato raramente e nell'accezione di essere in grado di prestare un determinato servizio) ma di mi steri o di sacramenti (si hanno ad es. due trattati di Ambrogio sulle mediazioni che preparano ed effet tuano una partecipazione al mysterium di Cristo). Il momento liturgico è una methexis (terminologia pla tonica che indica partecipazione) con Gesù Cristo, col Figlio di Dio: la finalità stessa della fede cristiana. Di viene infatti possibile che Dio si comunichi all'uomo e questi, può divenire simile a Lui. L'uomo, attraver so la mediazione della liturgia, diviene capace di se guire l'uomo-Dio, d'imitarlo, di mettersi sulla strada della divinizzazione. Cristo, celebrato nelle riunioni litur giche, non solo diventa presente all'uomo, ma anzi lo « inluia », come direbbe Dante. Per i partecipanti alla li turgia questa si muoveva pertanto in una dimensione cristologica e antropologica insieme. Il rito liturgico in quanto tale si riannodava, poi, con la realtà già avvenuta « in quel tempo >> : la vita di Cristo che, rivivendo nel rito, diveniva mistero cioè partecipazione ai presenti, creando, nella persona di Cristo, un nesso intrinseco con la cate chesi e la tradizione. A livello d'insieme nasceva il ser mone liturgico. Questo si muoveva tra una stabilitas da togli dal rito, che si riannodava a una storia già avvenuta in Cristo; e una novitas datogli dal partecipare al rito cui si doveva sempre adattare. La fioritura e la creatività del sermone liturgico venne meno alla fine della seconda me tà del secolo V in poi. Dopo Leone Magno, che ci ha lasciato i sermoni liturgici più articolati, si ebbe la proi bizione di predicare un po' per tutti: per il clero ( Socra te, HE 5, 22; Sozomeno, HE 7 , 19), per i laici ed i monaci (Leone Magno, Ep. 1 1 9, 6). La produzione della Chiesa postnicena venne convogliata in omiliari a uso del ciclo liturgico. Per tale canale si conservò la ricca produzione liturgica avutasi sino a Leone Magno (15).
( 1 5) Gli orniliari che più ebbero influsso furono: i l Liber sermo266
I formulari elaborati in quel periodo d'oro subirono una cristallizzazione tale che, un po' di secoli dopo, Carlo Magno dovette avviare una ricerca per capire il significa to di quei formulari e di quei riti. Li si ripetevano così come erano stati trasmessi, ritualizzandoli sempre più. L'elemento cerimoniale venne convogliato negli Ordines romani. Questi ci hanno trasmesso il modo concreto del realizzarsi della liturgia cristiana nel tardo antico e nell'Alto Medioevo. L'influsso poi della sontuosità della corte bizantina portò anche in Occidente, soprattutto nei vestiti liturgici e nel cerimoniale, una magnificenza non priva dell'ampollosità dei ricevimenti imperiali. La liturgia divenne un momento religioso, ma sempre più scenico ed esteriore, in cui il linguaggio non era veicolato principal mente dal rito liturgico in sé quanto da altri elementi marginali. A uno sforzo di partecipazione corale ai mo menti liturgici, avutosi nel periodo sino a Leone Magno, succedette un'assistenza ai riti liturgici, modellati ormai sulla linea del nascente teatro sacro ( 1 6) .
num sancti Augustini episcopi de diversis solemnitatibus anni ( Parisinus 3798) e l'omiliario di Agimond del sec. VII. ( 16) Si veda ad es. V. Grossi, Sull'origine degli improperi nella liturgia del venerdì santo, in Dimensioni drammatiche della liturgia medievale, Roma 1977, 203-216.
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BIBLIOGRAFIA
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gruppi a tendenza eterodossa nel cristianesimo antico
Nota: L'elenco seguente di gruppi a tendenza eterodossa è suffi cientemente ampio ; tuttavia non tutti i gruppi vanno collocati sullo stesso piano sia per l'incidenza teologica e sia per gli aspetti de vianti. Inoltre alcuni di essi possono consi derarsi eretici solo alla luce di una riflessione teologica posteriore più matura e a defini zioni conciliari successive ; altri invece rappresentano solo ten denze marginali alla Grande Chiesa e hanno interessi quasi esclu sivamente ascetici. Per maggiori informazioni segnaliamo i se guenti riferimenti bibliografici: A) Fonti Antiche Alcuni autori antichi hanno scritto opere con l'intento di elencare e descrivere le varie eresie per confutarle. Si crea in tal modo una tradizione eresiologica, per cui gli scrittori posteriori ripren dono i precedenti elenchi, integrandoli. Tuttavia, dal IV secolo in poi, per Io sviluppo teologico e dottrinale in corso, la confu tazione delle eresie diventa più complessa, richiedendosi una mag giore preparazione e strumenti concettuali nuovi. Per questo le singole eresie o deviazioni teologiche o ascetiche vengono confu tate in opere specifiche e gli eresiologi, in genere, si limitano a offrire delle rassegne. Giustino ( I l sec.) scrisse due opere ora perdute: Contro Marcione e il Liber contra omnes haereses. Egesippo ( I I sec.) : Memorie (Hypomnemata) . Ireneo di Lione ( II sec.) : Adversus haereses. Ippolito di Roma ( inizi III sec.) : Syntagma e Philosophoumena
(Refutazione di tutte le eresie) . Tertulliano ( inizi III sec.) : scrisse diverse opere contro le varie eresie del suo tempo, in particolare il De praescriptione haere ticorum, a cui è aggiunto un catalogo spurio (i capitoli 46-53) . Epifanie di Salamina ( IV sec.) : Panarion (o Haereses) , di cui fu fatto un Riassunto. Filastrio di Brescia ( IV sec.) : Diversarum haereseon liber. Agostino ( inizi V sec.) : De haeresibus ( oltre ad una serie di scritti contro i manichei, i pelagiani e i donatisti) .
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Teodoreto di Ciro (V sec.) : Hereticorum fabularum compendiunz. Praedestinatus, opera anonima del V sec. Uberato di Cartagine (VI sec.) : Breviarium causae Nestorianorum
et Eutychianorum.
Giovanni Damasceno (fine V I I sec.) : De haeresibus. Cfr. F . Oehler, Corpus haeresiologicum, 3 volumi, Berlino 1856-1861. B) Studi moderni
Dizionario Patristico e di antichità cristiane, diretto da Angelo Di Berardino, Ed. Marietti, Casale M. 1983-1984 (da quest'opera sono state prese molte indicazioni) .
Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1949-1954. Dictionary of Christian Biography, Literature, Sects and Doctrines, edd. W. Smith e H. Wace, London 1887. Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1903-1970. A. Hilgenfeld, Die Ketzergeschichte des Urchistentums, unrkundlich dargestellt, Leipzig 1884 (rist. anastatica, Hildesheim 1963) .
ACACIANI. I seguaci di Acacio di Cesarea in Palestina (ve scovo 340-366 ca.), sostenevano che il Figlio era solo si mile al Padre. Si differenziavano dai niceni - per i quali il Figlio è consostanziale al Padre -, dagli anomei - il Figlio dissimile dal Padre - e dagli ariani. Sono detti anche omei (cfr. questa voce). ACÈFALI. Coloro che erano senza un capo, cioè senza un patriarca con cui essere in comunione. Sono quelli che rifiutarono di accettare la professione di fede dell'impe ratore Zenone del 482 e quindi anche del concilio di Cal cedonia del 45 1 . Tuttavia già agli inizi del VI sec. essi avevano dei capi e precisamente i patriarchi di Alessan dria, di Costantinopoli e di Antiochia. Il termine, ormai privo di significato, restò per indicare i monofisiti di Egitto e di Siria. Tra gli altri furono acèfali: Filosseno di Mabbug, Pietro l'Iberico, vescovo di Maiuma, e Nefalio (cfr. monofisiti). ACÈMETI. Il termine significa gli insonni. Erano asceti che a turno, nel monastero, assicuravano una preghiera senza interruzione. Si riscontravano sulle rive del Bosforo. E sponenti principali all'inizio furono s. Alessandro l'acè meta e il suo discepolo s. Marcello. Difensori dell'orto dossia contro i monofisiti e all'inizio del VI sec. contro i monaci sciti, alcuni di loro si avvicinarono al nestoria270
nesimo, per cui furono condannati da papa Giovanni II ( 534 ). Tuttavia l'istituzione come tale si conservò fedele all'ortodossia. AcrrsrÈI. Un gruppo di monofisiti che sosteneva che la carne di Cristo era increata (in greco aktistos). ADAMITI. Volendo imitare la situazione originale di inno cenza di Adamo e di Eva, praticavano il nudismo nelle loro assemblee liturgiche e rifiutavano il matrimonio. ADELÒFAGI (mangiare di nascosto). Una setta poco cono sciuta che, basandosi su alcuni testi biblici, insegnava che i cristiani dovevano mangiare di nascosto. Secondo Epifanio non ammettevano la divinità dello Spi rito santo. AooZIONISTI. Termine moderno usato per indicare i mo narchiani (cfr. voce), che nei primi secoli negavano la divinità di Cristo, il quale, essendo un semplice uomo, era stato adottato da Dio (Teodoto di Bisanzio, Teodoto il banchiere, Artemone ). Al momento del battesimo di Gesù lo spirito di Dio scese su di lui, per cui solo allora cominciò ad operare miracoli. Adozionisti furono, anche se in modo diverso, Paolo di Samosata ( III sec.) e Fo tino di Sirmio ( IV sec. ). AERIANI. Seguaci di Aerio ( IV sec.) di tendenza semia riana, che negavano la distinzione tra vescovo e presbi teri, l'utilità della preghiera per i defunti e la celebra zione della Pasqua. AFTARTODOCETI. Dal ramo monofisita sono nati i seguaci di Giuliano di Alicarnasso ( sec. VI), per questo detti anche giulianisti, ed anche gaianiti ( da Gaiano loro primo vescovo) o fantasiasti ( in quanto sostenitori di una modificazione ap parente del Verbo). Essi insegnavano che il corpo di Cristo era incorruttibile ( aphtartos) nella sua vita mor tale, come i corpi glorificati. Inoltre Cristo, incarnandosi, ha preso un corpo simile a quello di Adamo prima del peccato, quindi impeccabile, incorruttibile e impassibile. Tuttavia egli ha sofferto realmente ma solo quando e co me ha voluto per pura condiscendenza non per necessità di natura, ma rinnovando frequentemente un miracolo di sospensione del suo vero essere impassibile. 271
AGNOETI. Membri di una setta monifisita moderata, se guaci del diacono alessandrino Temistio (sec. VI), che sostenevano che l'anima umana di Cristo ignorava alcune cose, in particolare il giudizio finale. In quanto opposi tori degli aftartodoceti ammettevano che le debolezze umane di Cristo non riguardavano solo il corpo, ma anche il suo spirito umano. AEZIANI. Seguaci di Aezio ( sec. IV), che professavano, nel vasto ventaglio della crisi ariana, un anomeismo radi cale (cfr. voce anomei): il Figlio non è simile al Padre, né identico. Sono detti anche eunomiani ( da Eunomio). ALOGI. Essi rifiutavano la paternità giovannea del IV van gelo e dell'Apocalisse, perché falsi e differenti dagli altri scritti del Nuovo Testamento e Ii attribuivano a Cerinto. Gli alogi abitualmente vengono collegati con Gaio, lo scrit tore romano antimontanista della fine del II sec. Il termine fu creato da Epifania: a-logos senza Logos.
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ANGELICI. Secondo Agostino era una setta che prestava culto agli angeli: altri studiosi fanno risalire il nome ad altri motivi. ANOMEI. I seguaci di Aezio e di Eunomio, che sostenevano un arianesimo radicale: il Figlio radicalmente dissimile ( anomoios) dal Padre. Difatti solo il Padre è ingenerato, mentre il Figlio è generato, pertanto completamente di verso da lui, tuttavia è creato direttamente da lui, di cui partecipa alcune prerogative e perfezioni ( luce, vita, po tenza). Il Figlio è un dio minore, creato, e incaricato dal Padre per la creazione del mondo. Lo Spirito santo inol tre, inferiore al Figlio, è solo la più eccelsa creatura. Per tanto gli anomei non ammettono una Trinità divina.
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ANTIDICOMARIANITI. Avversari ( antidicos) del culto ri volto a Maria, di cui negavano la verginità. Essa avrebbe avuto anche altri figli. Sono detti anche antimariani o antimarianiti. Il termine all'inizio si applicava solo ad una setta araba, poi venne esteso anche ad altri ( Giovi niano ed Elvidio: sec. IV). ANTROPOMORFITI. I sostenitori di un antropomorfismo dif fusi in ambienti monastici antiorigenisti del IV e V se colo. Sostenevano una interpretazione letterale della Scrit tura e il rifiuto di quella allegorica. 1:72
'
)
APOLLINARISTI. Seguaci di Apollinare di Laodicea ( sec. IV) e antiariani. Sostenevano che nel Verbo incarnato si ha una sostanziale unità della carne umana con il Verbo, per cui l'umanità di Cristo era priva di una vera anima umana ( il nous) e quindi incompleta. L'apollinarismo mi se le premesse per le grandi controversie cristologiche della fine del IV secolo e soprattutto del V, controversie affrontate nei concili di Efeso del 4 3 1 e di Calcedonia del 4 5 1 . APOSTOLICI. Asceti ( sec. I V ) diffusi soprattutto nell'Asia Minore, che praticavano una particolare austerità : rifiuto del matrimonio, dell'uso delle carni e del vino perfino nella celebrazione dell'eucaristia (cfr. Aquariani), non riammettevano i peccatori pentiti. Sono detti anche apo tattici ( rinunziatari). AQUARIANI. Coloro che usavano solo acqua nella celebra zione eucaristica (per es. Ebioniti, Marcioniti e i seguaci di Taziano ). A volte anche in ambienti ortodossi si se guiva tale prassi, aspramente criticata da Cipriano nella lettera 63. Erano detti anche Idroparastati ( = che offro no acqua). ARABICI. I sostenitori, diffusi in Arabia ( da qui il nome), della mortalità dell'anima umana insieme con il corpo e della sua risurrezione insieme con esso ( sec. III). Er rore che nasce dalla concezione tipicamente semitica di identificare la vita con il sangue. ARCONTICI. Una setta gnostica del IV secolo con strette somiglianze con i Sethiani (cfr. voce). Per essi alla som mità degli esseri c'è la coppia composta dal Padre di tutto e dalla Madre; i cieli sono suddivisi in due gruppi : uno di otto sfere e l'altro di sette. Questo ultimo è sotto il dominio degli arconti ( da qui il nome), il cui capo è Sabahot, del settimo cielo. ARIANI. I seguaci di Ario, prete alessandrino della prima metà del IV secolo. Secondo Ario solo il Padre è inge nerato, mentre il Figlio, essendo generato, ha avuto un principio, che è il Padre, e pertanto cronologicamente posteriore a lui e non coeterno, anche se anteriore a tutti gli altri esseri creati. Inoltre la generazione del Figlio va intesa nel senso di creazione; tuttavia solo il Figlio 273
è stato creato direttamente dal Padre, mentre gli altn esseri sono stati creati dal Figlio. Tale dottrina fu con dannata dal concilio di Nicea del 325, il primo grande concilio ecumenico, voluto dall'imperatore Costantino. La dottrina ariana diede luogo, nel corso del IV secolo, a infinite discussioni, a una vasta produzione letteraria e a numerosi concili. Nel corso del dibattito sorsero ten denze diverse: gli anomei, gli omeusiani e gli omei (cfr. queste voci ). Gli ariani furono chiamati anche ariomaniti ( da Areios, il dio della guerra); inoltre gli ariani della prima generazione sì chiamarono e furono chiamati an che collucianisti, in quanto discepoli di Luciano di An tiochia.
ARTOTIRITI. Setta dell'Asia Minore che usava pane (artos) e formaggio ( tyros) nella celebrazione dell'eucaristia, in vece del pane e del vino. AscHITI. Setta dai diversi nomi che si riteneva di essere un otre ( askos) ripieno di vino nuovo di cui parla il vangelo e andavano in giro come baccanti. Da Filastrio sono chiamati Ascodrugitae (in Galazia) e Tascodrugitae da Epifania. AuDIANI. Asceti rigoristi seguaci del diacono siro Audio ( III-IV secolo), che sostenevano una stretta somiglianza tra Dio e l'uomo anche nel corpo, quindi un grossolano antropomorfismo ( non vanno confusi con gli antropo morfiti). BARBELOGNOsTICI. Setta gnostica del I I secolo dalle dot trine non ben chiare, la quale deriva il nome dall'impor tanza che la setta dava a Barbelo, eone femminile, ma dre di tutti i viventi provenienti da essa per coppie suc cessive. Sono detti anche Barbelioti ( Epifania) o Bor boriani ( da borboros = fango) e Borboliti. BASILIDIANI. I seguaci dello gnostico Basilide, vissuto ad Alessandria nel II secolo, il quale faceva risalire la sua dottrina all'apostolo Mattia. Secondo Basilide - la sua dottrina non è ben conosciuta - dal primo principio, il Padre, per emanazioni successive si giunge fino agli angeli, che danno origine ai cieli; dagli ultimi angeli deriva il mondo presente. Inoltre non fu l'Intelletto ad essere crocifisso, ma Simone di Cirene. 1.74
BARSANUFITI. Una setta acefala (cfr. questa voce) di mo nofisiti, che ebbero come loro vescovo Barsanufio, detti anche semidaliti (semidalis = farina), i quali si comuni cavano solo a Pasqua con ostie consacrate cosparse con fior di farina. CAINITI. Setta gnostica del II secolo che prende il nome da Caino, oppositore del Dio dell'Antico Tetamento, ri tenuto una potenza malvagia, a cui oppongono Sophia, Dio superiore e buono; rigettano la legge mosaica e tri butano uno speciale onore a Giuda per aver causato la morte salvifica di Cristo. CoLLIRIDIANI. Un gruppo femminile dell'Arabia ( sec. IV) che rivolgeva a Maria un culto, offrendole in sacrificio pane biscottato ( colliris = focaccia, pane biscottato). CATAFRIGI. Nome dato nei primi secoli ai montanisti (cfr. voce), perché inizialmente appartenenti alla Frigia (Asia Minore), che restò il punto di riferimento della setta. CÀTARI. I novaziani ( cfr. voce) chiamavano se stessi catari ( catharos = puro ), termine criticato dagli ortodossi. CERINTIANI. I seguaci di Cerinto, che già nel secondo se colo fu considerato uno pseudoapostolo dell'Asia Minore e avrebbe insegnato che il mondo non fu creato da Dio, ma da una potenza inferiore e che Gesù sarebbe nato, come tutti gli altri uomini, da Maria e Giuseppe; inoltre al momento del battesimo sarebbe sceso su di lui il Cri sto, per cui poté compiere miracoli e predicare il Padre ignoto. CRisTOLITI. Setta che insegnava che Cristo, dopo la morte, salì al cielo solo con la divinità (VII sec.). Qualcuno già sosteneva questa dottrina nel IV secolo. DAMIANITI. Setta monofisita (cfr. voce) egiziana che pren de il nome da Damiano, patriarca di Alessandria ( 578604 ). DIACRINÒMENI. Il termine indicava inizialmente coloro che erano esitanti nel riconoscere il concilio di Calcedonia del 451 e pertanto erano indecisi tra ortodossi ed euti chiani (cfr. voce); poi venne a indicare anche i dissidenti dal medesimo ( separatisti). 275
DocETI. Solitamente vengono detti doceti coloro che nel I e nel II secolo sostenevano che Cristo avesse posseduto solo un corpo apparente ( dokeo = apparire, sembrare) e non reale, per cui la vita umana di Cristo e le sue soffe renze erano pura parvenza. In realtà il docetismo è un atteggiamento del pensiero teologico, che tende a sotto valutare gli aspetti tipicamente umani di Cristo, in quanto indegni del Figlio di Dio: per es. Marcione che parlava di un corpo « celeste di Cristo >>; Apelle invece d'un corpo simile a quello degli angeli; i valentiniani che asserivano che Cristo aveva assunto solo quello che c'era -da salvare nell'uomo. DoNATISTI. Scismatici africani che prendono il nome da Donato, sorti alla fine della persecuzione di Diocleziano e durati fino al V secolo inoltrato : nei secoli seguenti erano ridotti di numero. Essi negavano la validità delle ordinazioni conferite dai traditores ( quelli che avevano consegnato i libri sacri durante la persecuzione) e quindi di tutti i sacramenti conferiti da un ministro indegno. Erano conservatori in liturgia, difendevano una chiesa pura ( la loro), ribattezzavano i cattolici che passavano alla loro chiesa, davano grande importanza all'autorità episcopale, esaltavano il martirio anche volontario. I do natisti più fanatici si organizzarono in bande armate ( circoncellioni o agonistici). DoRoTEI. Una setta ariana che si rifaceva a Doroteo di Antiochia, poi vescovo di Costantinopoli ( IV sec.), che asseriva che il Figlio, essendo creato nel tempo, il Padre in precedenza non poteva chiamarsi così perché mancava del Figlio. EBIONITI. Il termine viene dalla parola ebraica ebion (po vero) e non da un supposto personaggio di nome Ebion e si riferisce a diverse sette giudeo-cristiane del II sec. dalle caratteristiche comuni. Esse consideravano Gesù solo un semplice uomo, non accoglievano le lettere di Paolo e seguivano usi e costumi giudaici. ELCESAITI. Setta originaria dei confini orientali dell'Im pero romano all'inizio del II secolo, il cui nome potrebbe risalire ad un certo Elxai, autore di un libro di rivela zioni. Forse più che di una setta ben precisa giudeo276
cristiana si tratta di un complesso di idee, provenienti dal l ibro delle rivelazioni, che influenzarono diversi grup pi religiosi già esistenti o nuovi. ENCRATITI ( i continenti). Il termine, almeno agli inizi, in dicava più che un gruppo di eretici un complesso di tendenze ascetiche rigoriste presenti in vari gruppi mar ginali alla Grande Chiesa: il rifiuto del matrimonio e della procreazione, il non cibarsi delle carni e il non bere vino. Taziano ( II sec.) viene chiamato da Ireneo il « pa triarca degli encratiti ». Comunque idee encratite sono molto diffuse nella chiesa antica, soprattutto in Siria e in Asia Minore. EusEBIANI. I seguaci dell'ariano Eusebio di Nicomedia (sec. IV ), più moderato rispetto ad Ario stesso. E usTAZIANI. Asceti rigoristi seguaci di Eustazio vescovo di Sebaste (Asia Minore), i quali condannavano il ma trimonio e qualsiasi possesso di beni. Tuttavia non sembra che ad Eustazio si possa rimproverare gli eccessi di qualche suo seguace. EuTICHIANI. I sostenitori della dottrina di Eutiche (sec. V), iniziatore di un monofisismo grossolano, che ammet te una sola natura (physis ) dolo l'incarnazione in Cristo. Pertanto nella unione tra la divinità e l'umanità in Cristo avviene un cambiamento di integrità della parte umana (cfr. monofisiti). GIACOBITI. Sono i monofisiti che prendono il loro nome da Giacomo Baradeo ( sec. VI), vero organizzatore della chie sa monofisita in Siria; teologicamente però essi seguono il monofisismo verbale di Severo di Antiochia; ammettono in Cristo l'integrità della natura divina e di quella umana, tuttavia rifiutano la formula del concilio di Calcedonia. Esistono molte affinità con i cattolici, anche nei sacra menti. Sono tuttora nella Siria, in Iraq e in India e si denominano Siri Ortodossi. GIUDAIZZANTI. Erano i convertiti dal giudaismo che vole vano imporre l'osservanza della legge e dei costumi giu daici da parte di tutti, anche da quelli che provenivano dal paganesimo. In particolare volevano imporre la cir277
concisione, poiché dicevano : « se non vi fate circoncidere secondo l'uso di Mosè, non potete essere salvi » (Atti 15, l ), svalutando così l 'opera salvifica di Cristo. GNosncr. Il termine gnosi ( = conoscenza) indica qual siasi conoscenza dei misteri divini da parte di pochi elet ti, invece quello di gnosticismo si riferisce a un movi mento religioso e di pensiero, sviluppato soprattutto nel II secolo, che insegna una conoscenza religiosa, di carat· tere salvifico, delle verità spirituali dell'uomo. L'insegna mento che si dà all'adepto vuoi rispondere a una serie di domande: « chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati; dove tendiamo, don de siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione » ( Clemente Ales., Excerpta ex Theo doto 78, 2 ). I sistemi gnostici sono diversi, ma hanno in comune alcuni elementi fondamentali : un radicale dua lismo ( due dèi e due mondi); i due dèi sono: il demiurgo, creatore di questo mondo, e il Padre di tutto, padre della Grandezza, da cui, con una serie di emanazioni ( gli eoni) si costituisce il pleroma divino ( = pienezza: totalità degli eoni). I sistemi gnostici si attardano a descrivere queste cosmogonie divine. L'uomo è costituito da una parte ma teriale, negativa, creata dal demiurgo, e da un principio spirituale, un elemento divino, che lo rende simile a Dio. Tale principio va salvato mediante la gnosi, che è per se stessa salvifica, per ristabilire l'ordine iniziale. Si ha una svalutazione del mondo presente come qualcosa di ne gativo, da cui bisogna liberarsi. Essendo lo gnostico un salvato, l'etica può assumere, secondo le varie sette, for me libertine o ascetiche radicali. GIUDEO-CRISTIANI. Con questo termine si suole indicare quei gruppi di cristiani che adottavano elementi del modo di vivere giudaici e particolari idee alla fine del I secolo e nei secoli seguenti. Tuttavia moderne ricerche hanno mostrato il grande influsso esercitato nella Chiesa da idee giudaiche (per es. il millenarismo, la dottrina degli an geli), soprattutto negli ambienti siri. Per questo, con tale termine, possiamo indicare sia gruppi marginali e sia cor renti di idee. La Grande Chiesa intervenne solo quando si negava la verginità di Maria e si voleva imporre la circoncisione (cfr. Ebioniti, Elcesaiti ). 278
IcoNOCLASTI. I negatori del culto delle immagini (secoli VIII-IX) nel mondo bizantino. L'iconoclastia fu iniziata dall'imperatore bizantino Leone III l'Isaurico nel 725. MACEDONIANI. Seguaci del vescovo Macedonia di Costan tinopoli, (sec. IV), che era della corrente omeusiana e in sieme ad altri, intorno al 360, avrebbe rifiutato di rico noscere il carattere divino dello Spirito santo. Per cui il termine inizialmente indicò gli omeusiani del Bosforo e poi passò a indicare quanti rifiutavano di ammettere la divinità dello Spirito santo, i quali vennero detti anche pneumatomachi (cfr. voce). MANICHE!. Gli aderenti alla dottrina di Mani (216-276/277), che verso il 240 cominciò la sua attività di predicatore come inviato di Dio, operando soprattutto nella Persia. Mani scrisse diverse opere, alle quali si aggiunge la let teratura della setta, e molte di esse, attraverso le scoperte del secolo scorso e del presente, oggi si conoscono nei testi originali. Il manicheismo nasce dal grande tronco dello gnosticismo, con un forte sincretismo delle religio ni iraniche e del cristianesimo. Esso ammette due prin cipi p rimordiali: Dio (bene, luce, verità) e la Materia ( male, tenebre, menzogna). Il primo è il mondo della per fezione e l'altro dell'imperfezione: sono due modi di es sere. Il principio del bene, essendo attaccato dal prin cipio del male, invia una emanazione, l'uomo primevo, che tuttavia resta sconfitto e alcuni suoi elementi restano invischiati nel mondo presente. Di qui la lotta inces sante per liberare questi elementi superiori. L'uomo par tecipa a questa lotta, da cui scaturisce tutta una etica che abbraccia il comportamento del manicheo. MARCIONITI. I seguaci della dottrina di Marcione ( metà II sec.), che distingueva il Dio creatore, giusto, crudele e volubile dell'Antico Testamento dal Dio buono e miseri cordioso, Padre di Gesù Cristo, cioè il Dio del Nuovo Testamento: abbiamo due dèi completamente diversi. Questa concezione porta a rifiutare l'Antico Testamento e del Nuovo accetta solo Luca e Paolo, emendato però perché sarebbe stato interpolato. L'etica marcionita inol tre è rigorista e rifiuta il matrimonio; la cristologia è d'intonazione docetista. 279
MELCHISEDECHIANI. Il misterioso personaggio biblico dJ Melchisedek ( Genesi 14, 1 8-20) assunse grande importanza nella tradizione cristiana primitiva in funzione cristolo gica. Inoltre ci furono dei gruppi ( melchisedechiani) che consideravano Melchisedek addirittura superiore a Cristo o lo identificavano con lo Spirito santo. MELIZIANI. Scismatici rigoristi egiziani seguaci del vesco vo Melizio di Licopoli (inizio del IV sec.), che non vole vano riammettere alla penitenza gli apostati della perse cuzione di Diocleziano. Melizio fondò la « chiesa dei mar tiri », cioè di quelli che avevano confessato la fede. Nella lotta contro Atanasio i meliziani si allearono con gli a riani. MESSALIANI. Asceti della Siria e dell'Asia Minore ( IV e V secolo ), che praticavano un monachesimo non ben re golato, per cui facilmente c'erano delle stravaganze, in quanto erano animati da un entusiasmo mistico. Davano grande importanza alla preghiera e all'ascesi in vista del l'espulsione del demone cattivo presente nell'uomo anche dopo il battesimo. MILLENARISTI. Sono i sostenitori del millenarismo (o con termine greco chiliasmo ); secondo tale dottrina i giusti sarebbero risorti per primi e avrebbero partecipato a un regno di felicità per un millennio già su questa terra, dove sarebbe discesa la Gerusalemme celeste. Dopo tale mil lennio ci sarebbe la fine del mondo e il giudizio finale. Il millenarismo era molto diffuso nei primi secoli del cristianesimo, soprattutto in ambienti asiatici, sia in gruppi eterodossi sia in pensatori ortodossi. Comunque in ambiente ortodosso il millenarismo praticamente scom pare nel IV secolo. MONARCHIANI. Con tale termine gli studiosi moderni in dicano quanti, nel corso del II e III secolo, volendo sal vare l'unicità di Dio (Monarchia divina) negano una di stinzione di persone divine, per sostenere un radicale mo noteismo. Il monarchianesimo si configurò in due cor renti: l'adozionismo ( cfr. voce) e il patripassianismo (oggi solitamente detto modalismo ). Secondo questa corrente teologica c'è un solo e unico Dio, il quale a noi si ma nifesta in tre modi diversi: come Padre, come Figlio e 280
come Spirito, ma è sempre la stessa persona. Per cui fu il Padre a patire in croce ( da qui il termine di patri passianismo). Uno dei principali sostenitori fu Sabellio, che diffuse il modalismo in Egitto e in Libia, per questo i Padri del IV secolo parlano normalmente di sabellia nismo. MoNOFisiTI. Coloro che ammettono una sola natura ( phy sis) nel Logos incarnato. I monofisiti radicali (cfr. euti chiani) sembra che ammettessero, dopo l'incarnazione, una sola natura (una terza natura e l'eliminazione di una ) : queste idee però si deducono più dalle opere degli av versari che dagli ad epti Gli altri monofisiti invece ( Se vero di Antiochia, Filosseno di Mabbug, Timoteo Eluro, ecc.), pur accettando nella sostanza la dottrina calcedo nese, non ne usano la formula: una sola persona in due natura. Quest'ultimo monofisismo viene detto anche se veriano (cfr. voce) dal suo principale elaboratore ( Severo di Antiochia: t 538 ). Tuttavia il rifiuto del concilio di Cal cedonia e l'uso di formule anteriori a esso portarono i monofisiti a ulteriori suddivisioni. Noi possiamo dire mo nofisiti tutti coloro che rifiutarono il concilio di Calce donia, molti ancora esistenti (copti, giacobiti, armeni, ecc.). .
MoNOTELITI. I sostenitori del montelìsmo (una sola vo lontà = thelema in Cristo e quindi un solo volere). I mo noteliti ( sec. VIII ) accettavano la formula cristologica cal cedonese (una sola persona in due nature in Cristo), ma per trovare un accordo con i monofisiti aggiungevano l'espressione una sola energia ( volontà) in Cristo. Per questo la dottrina viene detta anche monenergismo.
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MoNTANisTI. Montano, originario della Frigia (Asia Mino re; II secolo) asseriva di parlare a nome dello Spirito santo e di Cristo, per cui richiedeva una incondizionata obbedienza alla sua profezia, negando la chiesa-istituzio ne e non riconoscendo speciale autorità ai vescovi. Par ticolare importanza era data alla profezia ( il montanismo veniva detto « la nuova profezia » ), superiore persino alla Scrittura, e alla glossolalia. Il montanismo, ortodosso dal punto di vista dommatico, ha carattere entusiastico dal la morale rigorista. I montanisti furono detti anche ca tafrigi (la dottrina secondo i frigi). Il movimento conti nuò - Tertulliano negli ultimi anni della sua vita 281
anche nei secoli seguenti ma con un numero minore di adepti. ,
NESTORIANI. Nestorio, vescovo di Costantinopoli dal 428, disapprovava l'uso popolare di chiamare Maria Madre di Dio ( Theotòkos), perché essa in senso stretto era sol tanto madre dell'umanità di Cristo ( Christotòkos), distin guendo nettamente le proprietà umane e divine di Cristo e i termini per esprimerle; inoltre proponeva di ricercare l'unità di Cristo a un livello che non fosse quello della sintesi delle due natura. Tuttavia per mancanza di stru menti concettuali adeguati, la sua cristologia è un po' infelice. Dalla dottrina di Nestorio va distinto il nesto rianesimo di quei vescovi che rifiutarono sia il concilio di Efeso del 43 1 che l'atto di unione tra Cirillo di Ales sandria e Giovanni di Antiochia del 433. La loro dottrina sostiene che in Cristo ci sono due nature e due ipostasi ( persone) e non ammettono la comunicazione degli idiomi ( = proprietà; cioè che i predicati della natura umana e divina in Cristo sono scambiabili in base all'unione esi stente). Tale dottrina si diffuse in Mesopotamia e soprat tutto in Persia, dove divenne la dottrina ufficiale, e dalla Persia nei paesi orientali fino alla Cina. Oggi restano po chi nestoriani presenti nel Medio Oriente. NovAZIANI. Novaziano, prete romano della metà III se colo, fondò a Roma una chiesa scismatica, la quale ebbe una certa diffusione e persistette a lungo. I novaziani esigevano una chiesa di puri (cfr. catari), per cui nega vano la riconciliazione agli apostati nella persecuzione e in genere ai peccatori pentiti; ribattezzavano quanti pas savano alla loro chiesa; volevano una chiesa di corag giosi, di eletti, pronti al martirio in aperta opposizione a questo mondo. OFITI. Sette gnostiche ( II-III secolo) che davano partico lare importanza al serpente ( = ophis ) sia nelle specula zioni che nel culto, in quanto era il serpente che aveva elargito ad Adamo ed Eva la gnosi (la conoscenza) del bene e del male, conoscenza proibita dal demiurgo. Tali sette avevano sistemi teologici diversi. Sono detti anche Naasseni ( dall'ebraico Naas = serpente ). OMEI. I seguaci della dottrina - precisata dal concilio di 282
Sirmio del 359 -, che, nella controversia ariana, soste neva che il Figlio è simile al Padre in tutto secondo le Scritture, senza ulteriori precisazioni e non usava il ter mine sostanza (ousia) perché non biblico (cfr. Acaciani). 0MEUSIANI. I sostenitori, nel corso della controversia a riana del I V secolo, della dottrina che il Figlio è simile al Padre secondo la sostanza ( = homoiusios), ma non consostanziale ( = homoousios), coeterno con il Padre e realmente generato da lui. Essi sostenevano la stessa cosa per lo Spirito santo: simile nella sostanza con il Padre e il Figlio e Dio anche lui. 0RIGENISTI. Origene, il grande pensatore del III secolo, nel suo enorme sforzo di ricerca teologica, aveva propo sto, in genere in forma Ipotetica, alcune dottrine giudi cate, almeno posteriormente, non ortodosse. Queste dot trine furono sistematizzate dai posteri. Esse sono: l'ipo tesi della preesistenza delle anime create all'inizio da Dio; le anime, perdendo il loro primitivo fervore, pecca rono suddividendosi in angeli, uomini e demoni; l'apo catàstasi ( la restaurazione alla fine dei tempi); l'eternità del mondo; il subordinazionismo; la metempsicosi, ecc. Ora alcune di queste dottrine sono origeniane, altre sono nate da un fraintendimento del suo pensiero, altre anco ra non sono certamente sue. Comunque intorno al pen siero di Origene ci furono molte polemiche. I seguaci di Origene vengono detti origenisti, che in senso stretto do vrebbero intendersi i monaci egiziani e palestinesi della seconda metà del IV secolo secondo quanto viene espo sto da Evagrio Pontico ( t 399) e ancora di più quelli palestinesi del secolo VI, che spinsero alcune dottrine fino a un panteismo radicale; in senso ampio tutti i sim patizzanti di Origene e seguaci delle sue dottrine non specificamente eterodosse (es. Basilio di Cesarea, Gre gorio di Nazianzo, Rufino, ecc.). PATRIP4.SSIANI. I sostenitori della dottrina che fu il Padre a patire in croce (cfr. Monarchiani). PAULICIANI. Setta sorta nel sec. VII e diffusasi in Asia Minore, la cui dottrina non è ben chiara; alcuni elementi dottrinali sono : il dualismo, il docetismo, il rifiuto del culto dei santi e il rifiuto dell'uso dei sacramenti. 283
PAULINIANI. I seguaci dell'adozionismo (cfr. voce ed anche monarchiani) di Paolo di Samosata ( III secolo ). PELAGIANI. Pelagio, originario della Gran Bretagna, fu bat tezzato a Roma nel 380/384, dove elaborò le sue dottrine, a cui contribuirono prima Celestio e poi Giuliano d'Eclano. Il pelagianesimo nasce dalla riflessione di una maggiore aderenza al vangelo, dall'esigenza di un ascetismo e delle capacità umane a realizzarlo, senza una predestinazione, ma nella libertà. È quindi una riflessione sul cristiane simo e sul come essere cristiani. I punti salienti della dottrina sono: ogni uomo nasce nella stessa condizione di innocenza di Adamo (non c'è peccato originale ) e il battesimo dei bambini non ha lo scopo di togliere il pec cato originale, ma solo per rigenerarli; l'uomo gode della piena libertà insita nella natura umana; possibilità reale di vivere senza peccato ( impeccantia); la grazia divina è uno stimolo alla volontà umana, un mero ausilio esterno, per osservare i comandamenti. PNEMATOMACHI. Così furono detti inizialmente i negatori della divinità dello Spirito santo ( = che combattono lo Spirito ), successivamente chiamati Macedoniani (cfr. voce) . PRISCILLIANI. Movimento ascetico e di pensiero che si ri faceva allo spagnolo Priscilliano ( t 385). Dagli scritti pri scillianisti pubblicati nel 1 899 oggi può conoscersi un po' meglio il suo pensiero : accettazione di alcuni libri apo crifi ( ispirati), un ascetismo rigoroso (rifiuto del matri monio), negazione della risurrezione del corpo, il demo nio principio del male, una dottrina trinitaria a tendenza monarchiana. Tuttavia non è possibile verificare l'atten dibilità di molte accuse rivolte a Priscilliano e ai suoi seguaci. QUARTODECIMANI. Così vennero chiamati i cristiani che celebravano la Pasqua il quattordicesimo giorno della pri ma luna di primavera ( 1 4 del mese di Nisan ), secondo il calendario ebraico. Tale uso, molto diffuso nel II secolo, mano a mano scomparve. SABELLIANI. I monarchiani ( cfr. voce ) ebbero il loro prin cipale esponente in Sabellio ( inizio III sec.), assertore del 284
modalismo (cfr. monarchiani). I seguaci di tale dottrina vennero detti nel IV secolo sabelliani. SEMIARIANI.
Con questo termine gli occidentali ( Filastrio e Agostino) designavano gli omeusiani (cfr. voce). SEMIPELAGIANI. Il termine moderno di semipelagianesimo vuol indicare un movimento fiorito nella Gallia meridio nale nel V sec. I semipelagiani ammettono il peccato originale, la necessità del battesimo e della grazia per salvarsi, l'universale redenzione di Cristo senza alcuna predestinazione; sua peculiare dottrina è che l'uomo, per i doni naturali datigli da Dio, può iniziare l'opera della sua salvezza, che deve essere portata a compimento con l'aiuto della grazia di Cristo. Il semipelagianesimo, dal punto di vista storico, secondo la ricerca recente, non avrebbe avuto origine dal pelagianesimo, ma sarebbe sta to determinato dall'influsso monastico orientale di Gio vanni Cassiano. SETHIANI. Setta gnostica, ora meglio conosciuta dopo le scoperte di Nag Hammadi ( Egitto ), i cui membri si con sideravano discendenti, fisicamente e spiritualmente di Seth, che era il loro Salvatore-Redentore.
Con tale termine furono detti gli Apollinaristi (cfr. voce), perché sostenevano che in Cristo le due na ture ( sostanze) si erano in tal modo fuse da risultarn� una sola sostanza ( == syn-ousia). SINUSIASTI.
Nella teologia del II e III secolo era co mune la tendenza a considerare il Figlio, pur ricono sciuto come Dio, inferiore al Padre e perciò in posizione subordinata a lui; a sua volta lo Spirito santo è subor dinato al Padre e al Figlio. Tale subordinazionismo può dirsi eretico solo alla luce della teologia posteriore. Aria invece accentua il tal modo l'inferiorità del Figlio da considerarlo solo una creatura speciale, ma non dell'ordine divino del Padre. SuBORDINAZIANI.
SEVERIANI.
Sono i seguaci del monofisismo nella versione di Severo di Antiochia (t 538). Questi rifiutava il concilio di Calcedonia del 451 e il monofisismo eutichiano. Il suo è un monofisismo verbale nel senso che usa formule monofisite, la cui dottrina è ortodossa, in quanto so285
stiene che l'unione del Verba con l'umanità si è realizzata senza mescolanza, confusione e divisione. II monofisismo severiano è la dottrina ufficiale delle chiese monofisite ( giacobita, copta, armena e georgiana). TEOPASCHITI (da theos/pascho = Dio/soffro ). Sono coloro che parlano di una sofferenza del Verbo. In questo senso i monofisiti radicali sono teopaschiti. Tuttavia può esser ci un teopaschismo ortodosso, nel senso che, accettando la dottrina dell'incarnazione del Verbo, allora nel linguag gio comune si può attribuire alla divinità ( la persona del Verbo è il soggetto) tutte le operazioni umane e quindi anche la sofferenza.
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Indici
Indice biblico »
AT:
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3, 10: 181 Giacomo l, lOs: 203 » 5, 1-6: 203 )) 5, 13-16: 200 » 5, 14: 98 » 5, 14-16: 179Ebrei 6, 4-6: 181 )) 6, 10: 225 )) 8, 12: 249 )) 13, 2: 225 )) 13, 17: 122 l Pietro l, l : 79 » 2, 4-6: 77 , 2, 5-9: 80 » 2, 4-10: 250, 2: )) 2, 10: 77 » 2, 18: 239 » 4, 9: 225 l Giovanni: l, 3: 129 » 2, 1: 197 » 5, 16s: 196 Apocalisse l, 6: 250 )) 2,2: 196 » 2,2-20: 180 » 2, 14-16: 191 » 5, 10: 250 » 20, 6: 250
Indice onomastico FONTI Acacio di Cesarea: 270 Aerio: 271 Aezio: 272
111, 148, 183, 190, 223,
1 12, 163, 184, 191, 225,
124, 169, 185, 192, 226,
127' 170, 186, 197,
12
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21
233 , 22
7: 260 7: 179
4, 23: 250 4, 24: 8 9, 22: 180 10, 2: 180 12, 6: 114 12, 42: 180 13, 29: 114 17, 18: 124 18, 29: 265 19, 14 e 36: 262 20, 21: 124 20, 21-23: 179, 180 20, 22: 196 219 2: 26 140 Il: 58 68
12: 58 25 14: 1 14 >: 203 15: 204 . : 208
58 �3 .7: 70, 74 19: 58 68 l, 75, 79 148: 73 l, 75, 79 -17: 73 : 7, 55, 245 : 208, 220 -30: 98
»
9, 1-9: 77 » 9, 1-13: 77 » 9, 25: 77 » 12, ls: 79 » 12, 13: 225 » 13, ls: 124 » 15, 15-16: 249 » 15, 16: 80 » 16, 1-16: 105 l Corinzi l, 1: 77 » l, 3-2: 180 » l, 9: 129 » 4, 1: 80, 97 » 5, 9-13: 196 » 5, 13: 196 » 7, 1-40: 231 » 7, lOs: 235 » 8, 1: 220 » 9, 14: 226 » 10, 18: 77 » 10, 16: 122 » 10, 23-3 1 : 79 » 10, 32: 77 » 1 1 , 23-35: 261 » 12, 3 : 75 » 12, 28: 98 » 13, 1: 122 » 13, 14: 122 » 14, 3: 109 » 14, 3-39: 109 » 14, 29-30: 122 » 15, 1-2: 64 » 15, 5-6: 26 » 16, 1-2: 208, 220 » 16, 16: 122 2 Corinzi l, 6-7: 64 » 2, 2-9: 64 , 2, 5-8: 197 2, 5-1 1: 179 »
, 6, 16: 77. 226 Efesini l, 1-19: 256 » 4, 11s: 98 )) 5, 12: 239 » 5, 22: 239 )) 5, 23: 230 )) 5, 26: 68 » 5, 27: 40 » 5, 32: 239 » 6, 1: 239 )) 6, 4: 239 Filippesi 2, 17: 249 Colossesi 3, 18: 231, 239 )) 3, 21: 239 l Tessalonicesi 2, 14: 77 )) 5, 12-13: 122 2 Tessalonicesi l, 4: 77 » 3, 10: 211 » 3, 14s: 178 » 3, 15: 177 l Timoteo l, 20: 179 )) 3, 2-7: 87 3, 15: 9 )) » 3, 16: 256 » 4, 2: 9 » 4, 3: 111, 232 » 4, 14: 93 » 5, 14: 232 »
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3, 10: 181 Giacomo l, lOs: 203 » 5, 1-6: 203 )) 5, 13-16: 200 » 5, 14: 98 » 5, 14-16: 179Ebrei 6, 4-6: 181 )) 6, 10: 225 )) 8, 12: 249 )) 13, 2: 225 )) 13, 17: 122 l Pietro l, l : 79 » 2, 4-6: 77 , 2, 5-9: 80 » 2, 4-10: 250, 2: )) 2, 10: 77 » 2, 18: 239 » 4, 9: 225 l Giovanni: l, 3: 129 » 2, 1: 197 » 5, 16s: 196 Apocalisse l, 6: 250 )) 2,2: 196 » 2,2-20: 180 » 2, 14-16: 191 » 5, 10: 250 » 20, 6: 250
Indice onomastico FONTI Acacio di Cesarea: 270 Aerio: 271 Aezio: 272
111, 148, 183, 190, 223,
1 12, 163, 184, 191, 225,
124, 169, 185, 192, 226,
127' 170, 186, 197,
12
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21
233 , 22
144, 170, 184, 190, 210, 223, 225, 232, 238, 240, 265 Ambrosiaster: 103 Anania: 209 Anastasio imp.: 123 Anastasio (papa) : 141 Andrea ( apostolo) : 142 Aniceto (papa) : 131 Antonio, abate: 158, 159, 164, 165, 172, 174 Anulino: 1 1 8 Apelle: 274 Apollinare di Laodicea:
212, 221, 241, 264,
161, 163,
257, 272
Apophthegmata Patrum: 164, 175 Aratore: 86 Aria: 273, 277, 285 Aristide: 16, 210, 220, 221 Arsenio: 164 Artemio: 223 Artemone: 271 Atanasio: 24, 42, 138, 158, 163, 164, 165, 172, 174, 284 Atanasio, Ps.: 16, 1 7 Atenagora: 20, 1 6 1 , 237, 242 Atti di Giovanni: 181 Atti di Pietro: 181, 216, 220 Atti di Tommaso: 70 Augusto imp.: 233 Aureliano di Arles: 175 Barnaba: 93, 97 Barnaba, Ep.: 24, 77, 180, 181, 196, 1 97, 204, 209, 242, 257 Barsanufìo: 166 Basilide: 274 Basilio M.: 133, 163, 164, 168, 175, 190, 191, 207, 210, 220, 222, 224, 225, 236, 241, 284 Benedetto di Aniane: 175 Benedetto di Norcia: 1 70, 175, 213 Berillo di Bostra: 134 Besa: 166 Bonifacio (papa) : 150 Bonifacio s.: 171 Bonoso ( Gallia) : 85 Braulione di Saragozza: 172 Breviarium lpponense: 87, 91 Callisto (papa) : 237 Canoni degli apostoli: 143, 146, 149, 197, 216, 218, 219, 225 Canoni di [ppolito: 201 290
Caritone: 167 Carlo Magno : 171, 267 Carpocrate: 210 Cassiano: 159, 171 Cassiodoro: 170 Ceciliano: 37, 38, 39, 41, 1 18 Celestino (papa) : 79, 190 Celestio: 284 Celso : 19, 41 Cerinto: 273, 276 Cesario di Arles: 175 Cipriano di Cartagine: 20, 23, 36, 37, 72, 74, 84, 103, 108, 109, 123, 1 24, 125, 126, 127, 128, 132, 134, 137, 138, 184, 185, 186, 187, 206, 210, 215, 219, 225, 227, 250, 252, 255, 274 Cirillo di Alessandria: 283 Cirillo di Gerusalemme: 66, 70 Claudio imp.: 140 Clemente Alessandrino: 16, 35, 36, 48, 51, 1 10, 114, 204, 205, 207, 208, 210, 2 1 1 , 230, 232, 233, 239, 242, 257, 279 Clemente (papa) : 20, 51, 80, 122, 124, 134, 140, 180, 181, 225, 251 Clementine, Pseudo: 47, 59, 180, 181, 182, 197, 204, 206, 226 Codex ecclesiae Africanae: 197 Codice di Giustiniano: 85, 1 77, 212, 215, 218 Codice di Teodosio: 82, 88, 1 19, 150, 163, 177, 199, 212, 217, 218, 227, 236 Collatio Carth: 40 Colombano: 174, 175 Commodiano: 207 Concili: Agde (506) : 193. - Ancira (314) : 1 13, 191, 242. - Antiochia (341) : 85, 146, 149, 218, 219, 225. Arles ( 452) : 85, 2 1 1 . - Braga (563) : 85. - Calcedonia ( 451) : 96, 106, 137, 138, 139, 141 , 142, 149, 150, 151, 152, 166, 176, 220, 223, 225, 270, 274. - Cartagine ( 252) : 123, ( 256) : 23, ( 348) : 82, 2 1 1 , ( 397) : 172, ( 419) : 217, 218. Costantinopoli (381) : 137, 141 ( canone 28) , 145, 148, 150, 275. - Costantinopoli III ( 680681) : 145. - Efeso (431) : 137, 138, 273, 282. - Elvira ( 306) : 1 13, 116, 198, 2 1 1 , 237, 242. -
Gangra (340-341) : 1 15. lppona (393) : 16, 172. Laodicea ( IV sec.) : 24, 83, 85, 96. Laterano III ( 1179) : 211. Laterano IV ( 1251) : 150, 194. - Matisco (585) : 216. Neocesarea ( 314-319) : 91. Nicea (325) : 23, 33, 51, 85, 95, -
-
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100, 104, 132, 134, 137, 138, 142, 148, 149, 150, 151, 192, 197, 211, 245, 246, 274. Nicea II (787) : 85, 91. Orléans III (538) : 213. Quinisesto (o in Trullo: 691) : 1 15, 142 . Rimini (350) : 138. Roma (465) : 85, 90. Seleucia Ctesifonte ( 405) : 223. - ( 410) : 91. Serdica (343) : 78, 86, 147. Toledo (589) : 184. Vaison (515) : 90 Cornelio (papa) : 74, 106 Costantino imp.: 10, 13, 17, 23, 28, 31, 38, 41 ( editto di) . 43, 61, 79, 82, 88, 110, 1 14, 117, 1 18, 123, 144, 169, 199, 212, 216, 217, 222, 233, 245, 274 Costituzioni apostoliche: 205, 213, 215, 216, 227, 233 Cresconio: 41 -
-
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Damaso (papa) : 24, 116, 133, 141,
224, 227 Damiano di Alessandria: 276 Decenzio di Gubbio: 201, 265 Decio imp.: 36, 109, 128 Detti dei Padri: cfr. Apophtheg
mata Didachè: 29, 69, 70, 84, 98, 109, 136, 180, 181, 204, 211, 214, 216, 225, 242, 252, 253, 260 Didascalia degli Apostoli: 70, 87, 104, 106, 126, 136, 186, 187, 194, 197, 207, 212, 213, 215, 219, 220, 221, 222, 224, 226, 233 Digesto: 236 Diocleziano imp.: 37, 38, 277, 281 Diodoro di Tarso: 90
Diogneto: 19, 204, 242 Dionigi l'Areopagita: 82, 87 Dionigi di Corinto: 134, 183 Dioscoro: 139 Donato: 37, 38, 41, 277 Donato monaco: 172 Doroteo di Antiochia: 277 Doroteo di Gaza: 166
Efrem: 201, 213 Egeria: 65, 108, 164, 166, 167, 226 Egesippo: 124, 125, 269 Eliodoro di Altino: 89 Elvidw: 169, 272 Elxai: 277 Enda: 173 Epifane: 210 Epifania di Pavia: 90 Epifania di Salamina: 225, 269,
273, 275 Epistola degli apostoli: 181, 253 Epitteto: 211 Eraclio imp.: 104 Eraclio di Ippona : 85, 86 Erma: 24, 136, 180, 182, 183, 204, 205, 224, 235 Eubula: 216 Eugippio: 170 Eunapio di Sardi: 170 Eunomio: 273 Eusebio di Cesarea: 13, 17, 24, 29, 41, 42, 44, 106, 1 18, 125, 127, 131, 137, 138, 183, 204, 221, 224, 226 Eusebio di Lione: 86 Eusebio di Nicomedia: 277 Eusebio di Vercelli: 90, 170 Eustazio: 85 Eustazio di Sebaste : 163, 168, 278 Eutiche: 278 Eutimia di Militene: 167 Evagrio: 160, 284 Fabio di Antiochia: 106 Fabiola: 223 Ferrando: 214 Filastrio: 269, 275, 285 Filosseno di Mabbug: 271, 282 Firmiano: 173 Firmiliano: 23 Flavio Giuseppe: 24 Fulgenzio di Ruspe: 214, 239 Fursa: 174 Gaiano: 272 Gaio: 272 Gelasio (papa) : 24, 95, 1 1 1 , 123,
139, 219, 227 133, 265
Gennaro: Giacomo Giacomo Giovanni
(apostolo) : 98, 201, 203 Baradeo: 278 di Antiochia: 283 291
Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni
( apostolo) : 98, 128, 129 Battista: 64, 68 Cassiano: 285 Crisostomo: 42, 71 , 81,
83, 85, 97, 1 12, 126, 160, 206, 207, 215, 217, 220, 224, 230, 231, 232, 238, 239, 240, 241, 242 Giovanni Damasceno: 129, 270 Giovanni Il (papa) : 271 Gioviniano: 169, 273 Girolamo: 24, 78, 81, 85, 83, 89, 90, 96, 102, 103, 127, 133, 159, 169, 175, 213, 223, 227, 238 Giuliano di Alicarnasso: 271 Giuliano l'Apostata: 215, 222 Giuliano d'Eclano: 284 Giustiniano ( codice) : 17 Giustiniano (imp.) : 91, 142, 150, 152, 166, 177, 217 Giustino: 13, 19, 20, 25, 26, 44, 46, 58, 77, 80, 1 10, 130, 134, 207, 209, 214, 215, 219, 242, 249, 256, 263, 269. Giustino Ps.: 247, 251, 253, 255 Gregorio l'Illuminatore: 85 Gregorio Magno (papa) : 84, 107, 1 1 1 , 127, 128, 137, 143, 151, 170, 177, 217, 218, 223, 224, 265 Gregorio di Nazianzo : 90, 97, 174, 222, 232, 240, 283 Gregorio di Nissa: 100, 190, 206, 210 Gregorio Taumaturgo: 190, 198, 209 Ignazio di Antiochia: 20, 21, 29,
98, 100, 103, 123, 127, 131, 134, 140, 144, 180, 181, 197, 214, 219, 238, 240 Ignazio Ps.: 213 Imerio di Tarragona: 87, 1 16, 171 Innocenza ( papa) : 23, 139, 141, 190, 192, 195, 201, 238, 265 Ippohto (e Tradiz. apostolica) : 16, 17, 26, 36, 37, 61, 69, 70, 74, 81, 92, 93, 94, 95, 103, 108, 109, 1 10, 125, 132, 183, 187, 201, 209, 216, 237, 240, 254, 256, 269 Ireneo: 16, 17, 18, (regula fìdei) 20, 21, 24, 30, 32, 35, 40, 49, 5 1 , 80, 123, 124, 125, 130, 140, 205, 207, 212, 255, 257, 269 Isaia: 166 292
Kerygma di Pietro Kiliano: 174
e
Paolo: 204 '
• t,
Lattanzio: 203, 222, 240 Leandro: 172 Leone M. (papa) : 62, 84, 87, 89,
91, 95, 108, 1 16, 139, 141, 142, 144, 150, 185, 186, 187, 188, 190, 193, 198, 206, 207, 210, 215, 266, 267 Leone imp.: 177 Leone III imp.: 279 Lettera dei cristiani di Lione: 204 Libanio: 170 Liberato di Cartagine: 270 Lucenzio: 139 Luciano di Antiochia: 274 Luciano di Samosata ( pagano) :
221, 225
Lucifero di Cagliari: 42 Ludovico il Pio: 171 Macario: 164 Macedonia di Costantinopoli: 279 Maggiorino: 38 Magno (vescovo) : 22 Mani : 280 Marcello (s.) : 271 Marcione: 24, 34, 46, 47, 50, 51,
181, 203, 216, 255, 280 Marco Aurelio: 2 1 1 Maria (culto) : 273, 276, 282 Martino di Braga: 172 Martino di Tours: 86, 171 Marziano di Arles: 132, 134 Massimino (vescovo) : 39 Melania: 167 Melania seniore: 169 Melezio di Antiochia: 133 Melitone di Sardi: 13, 24, 13, 32,
44, 257
Melizio di Licopoli: 281 Minucio Felice: 203, 250 Montanisti: 181, 282 Montano: 36, 282 Musonio: 211 Musonio di Meloe: 219, 242 Natalio: 226 Nefalio: 271 Neporiano: 87 Nepoziano: 89, 103
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Nestorio: 282 Novaziano: 36, 37, 134, 235, 282
Novelle: 91, 131, 142, 177, 217, 224 Onorato: 171 Onorio (imp.) : 39 Onorio I (papa) : 176
Opus imperf. in Matthaeum: 227 Optato di Milevi: 38 Oracoli sibzllmi: 214 Origene: 16, 19, 24, 35, 41, 48, 49, 81, 85, 87, 110, 1 13, 1 14, 128, 134, 186, 188, 189, 197, 201, 206, 216, 219, 222, 224, 226, 235, 242, 257, 284 Onnisda (papa) : 138 Orsiesi: 166 Osio di Cordova: 86 Ottateuco di Clemente: 136 Paciano di Barcellona: 190 Pacomio: 161, 164, 165, 175 Pafnuzio: 164 Palladio: 80, 225 Palmas: 183 Pammachio : 223 Panteno: 1 10 Paola: 167, 169 Paoliniano: 87 Paolina di Antiochia: 133 Paolina di Nola: 87, 96, 170, 190,
207, 238
Paolo ( apostolo) : 8, 9, 10, 14, 24,
41, 46, 50, 93, 97, 105, 140, 141, 142, 144, 158, 211, 229, 230, 231, 235, 240, 249, 256, 280 Paolo di Samosata: 134, 137, 271, 284 Papiniano: 235 Patrizio: 173 Pelagio: 284 Pier Crisologo: 238 Pietro (apostolo) : 8, 21, 22, 33, 41, 63, 68, 140, 141, 142, 144, 150, 183, 250, 265 Pietro di Alessandria: 190 Pietro l'Iberico: 270 Piniano: 167, 169 Platone: 31 Plinio il Giovane: 105, 245, 246, 247 Poimen: 164 Policarpo: 30, 131, 134, 180, 181,
204, 206, 214, 224 Ponzio Pilato: 70 Possidio: 85, 173, 238
Praedestmatus: 238, 270 Prassea: 44 Priscilliano: 285 Privato di Lambesi: 134 Rabbuia: 175 Rodone: 44, 110 Rogaziano: 123 Rufìno di Aquileia: 17, 163, 170, 223, 284 Rustico di Narbona: 85 Rutilio Namaziano: 170 Saba della Cappadocia: 167, 175 Sabellio: 281, 285 Saffira: 209 Sabonio: 86 Satira: 132 Scenute: 166 Serap IOne ( eucologio) : 201 Severo di Antiochia: 219, 278, 282, 286 Severo di Milevi: 85 Sidonio Apollinare: 226 Simone Mago: 47 Sincio (papa) : 87, 89, 90, 95, 1 13, 116, 141, 171, 184, 190, 238 Sisoè: 164 Socrate (storico) : 85, 266 Sozomeno: 266 Satuta ecclesiae antiqua: 84, 87, 91 , 95, 107, 191 , 207, 214 Stefano (papa) : 23, 72, 134 Stefano (patrizio) : 223 Sulp1cio Severo: 86, 163, 171 , 227 Svetonio: 140 Taziano: 20, 44, 204, 278 Temistio ( diacono) : 272 Teodoreto di Ciro: 81, 82, 270 Teodoro monaco: 166 Teodoro di Mopsuestia: 71, 81, 146 Teodosio imperatore· 106, 119,
177, 264 Teodoto il banchiere: 44, 272 Teodoto di Bisanzio: 272 Tertulliano: 16, 21, 24, 27, 30, 35,
37, 45, 49, 52, 108, 113, 1 14, 181, 183, 184, 203, 204, 205,
58, 70, 74, 80, 124, 125, 131, 187, 190, 194, 207, 209, 210,
105, 135, 197, 214, 293
215 , 216, 221, 225, 234, 235, 237, 238, 242, 243, 250, 255, 269, 282 Testamento di N.S.G.: 136, 201 Timoteo: 31, 98, 105 Timoteo Eluro: 282 Tito: 98 Traiano imperatore: 105, 246 Tradizione Apostolica ( vedi lppolito) Trifone: 77 Valente imp.: 177 Valente (presbitero) : 224 Valentiniano II imp.: 42, 227 Valentino ( gnostico) : 34, 35, 48,
50 Valeria di lppona: 89 Verano di Vence: 86 Vigilia (papa) : 82, 152 Vitale di Antiochia: 133 Vittore (papa) : 134, 137 Vittoriano: 172 Vittricio di Rouen: 171 Zenone (papa) : 89, 90 Zenone imp.: 270
AUTORI MODERNI Aland B.: 51 Aland K.: 51 Alfonsi L.: 205 Alonso SchOkel L.: 181 Anastasiou 1.: 190 Audet J.-P.: 268 Bacht H.: 178 Bagatti B.: 52 Baker D.: 51 Bakhuizen van den Brink J. J.:
154
Baltensweiler H.: 244 Bardy G.: 51 Bàrlea 0.: 268 Bauer W.: 12, 51 Baus K.: 178 Benigni U.: 204 Benz E . : 51 Berlek P. M.: 28 Bernhard J.: 196 Bernhart J.: 50
294
Billerbeck P.: 259, 261 Biondi B.: 244 Bovini G.: 217 Botte B.: 18, 254, 255 Brekelmans A.: 51 Bruck E. F . : 217 Bultmann R.: 14 Cabié R.: 265 Camelot P. T.: 51 Campenhausen H. von : 154 Cantalamessa R.: 234, 244, 257 Caprioli A.: 73, 74 Cataudella M. R.: 148 Chitty D . J.: 159, 178 Colombas G. M.: 162, 178 Congar Y.: 128, 139, 144, 154 Countrymann L. Wm.: 228 Crouzel H.: 244 Daniélou J.: 52, 76 Dassmann E.: 202 De Francisci P.: 124 De Giovanni L.: 43, 177, 179 De Ghellinck J.: 51 De Halleux A.: 148, 154 Delorme J.: 120 Demoustier A.: 21 D'Ercole G.: 154 De Rossi G. B . : 216 De Vries W.: 145, 154 Dewailly L. M.: 154 Di Berardino A.: 51, 270 Dix G.: 54, 261 D 'Ors A.: 154 Dubois J.: 125 Du Charlat R.: 76 Dupont J . : 204 Dupuy B .-D.: 154 Dvornik F.: 145, 154 Eliade M.: 56, 76 Eno R. B.: 52, 138, 154 Faivre A . : 120 Farina R.: 51 Fedalto G.: 154 Festugière A . J.: 178 Frank K. Susa: 178 Galot J.: 120 Gaudemet J.: 120, 154, 237, 244 Gavigan J . : 182 Girardi M.: 23
Giraudo C.: 57 Goguel M . : 181 Grant R. M.: 211, 228 Gribomont J.: 161, 178, 228 Gryson R.: 120 Grossi V.: 43, 51, 52, 267, 268 Gy P.-M.: 56, 76, 120 Guillaumont A.: 157, 178
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'
Hagglund B.: 51 Hahn A.: 51 Hahn F.: 258 Hamman A.: 47, 214, 228 Hlindler G.: 52 Harnack A.: 14, 19, 45, 50 Hartel: 21 Hasenhiittl G.: 154 Hertling C. L.: 132, 154 Hilgenfeld A.: 270 Hoffman L. A.: 93 Javierre A. M . : 154 Jonas H.: 51 Jones A . H . M.: 218, 228 Judge E. A.: 178 Karpp H.: 202 Killmartin E. J.: 120 Klosterman F.: 154 Knox J.: 51 Koch H.: 5 1 Kolakowski L.: 51 Kotting B . : 52, 120 Kretschmar G.: 76 Lebreton J.: 49, 51 Leclercq J.: 159, 163, 178 Le Déaut R.: 268 Légasse S.: 68 Ligier L.: 57, 187, 194 Lohse E.: 93 Loi V.: 78, 256 Lynch J. E.: 154 Maccarone M.: 154 Martimort A.-G.: 76 Martini 1 . : 154 McDermott J. M.: 154 Ménard J. E.: 51, 268 Momigliano A.: 51, 65 Monachino V.: 141, 154 Morrison K. F.: 154 Munier Ch.: 84, 85, 87, 91, 95
Nautin P.: 33, 34 Neufeld V. H.: 15, 51 Neunheuser B . : 76 Nock A. D . : 57 O'Connor D. W.: 154 Orban A. P.: 52 Orbe A.: 51 Perrot Ch.: 154 PIOchl W. M . : 120 Poschmann B.: 186, 195, 202 Proulx P.: 181 Prusak B. P.: 154 Quacquarelli A.: 205 Rahner K.: 202 Ranke-Heinemann U.: 178 Recchia V.: 218 Rentinck P.: 217, 223, 228 Reiither Th.: 51 Rigaux B . : 180, 187 Righetti M.: 186 Riley H. M.: 71, 76 Ring T. G.: 154 Ritzer K.: 244 Roberti M . : 243 Robleda 0.: 244 Rordorf W.: 212, 213 Rousseau Ph.: 154 Santantonio A.: 120 Saxer V.: 268 Scheffzyck L.: 154 Schelkle K. H.: 121 Schindler A.: 52 Schmale F. I.: 154 Schmid J.: 187 Schneemelcher W.: 51 Schweiger G.: 155 Scipioni L. 1 . : 52, 120 Shotwell J. J.: 154 Siebsen H. J.: 138, 154 Simon M.: 51 Simonetti M . : 5 1 , 64 Smith W.: 270 Stenzel A.: 76 Strack H. L.: 259, 261 Talley Th.: 57 Taylor J. J.: 154 Todd J. M . : 128, 154 Turbessi G.: 178 295
Van den Eynde D.: 51 Van d e Meer F.: 191 Venturi G . : 76 Vilela A.: 102, 226
Vogel C.: 202, 268 Vorgrimler H.: 202 Wace H.:
270
Indice d i cose notevoli Aborto: 191, 242 Acaciani: 271, 283 Accademia: 9, 48, SO Accoliti: 107, 252 Acèfali: 271 Acèmeti: 168, 271 Actistèti: 271 Adamiti: 112, 272 Adozionismo: 272, 280 Aulterio: 234ss (cfr. matrimonio) Aeriani: 272 Aeziani: 273 Aftartodoceti: 272 Agapète: 114 Agnoeti : 272 Alogi: 273 Anacoreta: 1 64s , 166 Anomei: 273 Antidicomarianiti: 273 Antropomorfiti: 273, 274 Apollinaristi: 273, 285 Apostolici: 1 12, 274 Apostolicità: 124 (cfr. successione) Aquariani: 274 Arabici: 274 Arcano ( disciplina dell ') : 26, 56, 66 (cfr. iniziazione) Arcidiacono: 104, 220 Arcipresbitero: 102 Arcontici: 274 Ariani: 42, 273, 274 Ariomaniti: 275 Armeni: 281, 286 Artotiriti: 275 Asceti: 161, 162, 164, 167, 171 (cfr. continenti ; monachesimo) Aschiti: 275 Ascodrugitae: 275 Assistenza: 214 (cfr. beneficenza ; orfani ; ospizi ... ) Audiani: 275
296
Audientes: 60, 62, 191 Autorità: 121ss Bambini: 189 (battesimo) (cfr.
figli ; orfani) Barbelognostici: 275 Basilidiani: 275 Barsanufiti: 275 Battesimo: 15-17 (fede ; cfr. tra ditio) ; 34, 36-37 (chiesa-socie tà) , 22-23 ( ribattezzare) 59ss ;
102, 132s, 137, 158, 159, 162, 167, 185, 193 (cfr. clinici) Beneficenza: 20Sss, 220ss (cfr. as sistenza, elemosina, ospitalità) Borboriani: 275 Bibbia (70) : 23, 25, 44, 247, 251, 256 (Afra-Itala) Cainiti: 276 Canone ( della Bibbia) : 8-10, 23, 24 (muratoriano) ; 48, SO Cantori: 107 Catafrigi: 276, 281 Catari: 276, 282 Catechesi: 63ss ( cfr. catecume nato ; predicazione) Catecumeni (catecumenato) : 56,
58ss, 184, 189, 191, 252 Cattedra: 20-21, 110, 123, 136 (e piscopale) , 21-22 ( di Pietro) Celibato: 83 ss , 111ss, 156, 162 (cfr clero) Cenobiti: 16Sss, 168, 171, 174 Cerintiani: 276 Chiesa: (subapostolica) : 10, 14, 26, 29, 31 ; ( Grande Chiesa) : 27, 45, 48, 50; « note »: ( apostoli ca) : 10, 26, 27, 28, 29, (cattoli ca) : 20-22, 28, 35, 37-39, 4 1 , 43, 45, (una) : 21, 22, 28, 34, 35, 40, 51 ; (santa) : 28, 35-43 ; (veridi cità) : 28, 31-35 ; (sensus eccle-
,, . l '
siae) : 49 ; ( coetus sanctorum mistero-carismatica) : 14, 15, 35, 36, 42, 256, 263, 266, 267 ; ( so cietà-impero) : 9, 10, 14, 15, 20, 38-43 ; (principale) : 22, 264-265 ; ( di Roma) : 2-23 ; (cfr. pure: comunione ecclesiale, peniten za ; vescovo, ecc.) Chilialismo: 281 ; cfr. millenari smo Circoncellioni: 277 Clero: 83-91 ( scelta e requisiti) ; 87, 1 14, 1 1Ss (continenza) ; 91ss, 96 (ordinazione assoluta) ; 193 (penitenza) ; 226ss ( lavoro ; so stentamento) ; cfr. esenzioni ; privilegi ; ordinazione e i vari ministeri Clinici: 61, 73, 87 Competentes (photizomenoi) : 62 Comunione ecclesiale: 129ss, 143ss, 148, 153, 179, 186, 196, 197, 198 (cfr. litterae commu
nionis)
Confermazione : 73ss Confessione: 185, 187s, 193, 194, 200 Confessori: 108s, 187, 252 Concili: 149, 136 (cfr. autorità) Continenti: 1 1 4 ; 161s, 172 (cfr. asceti) Continenza: 193 (cfr. celibato ; clero ; continenti ; verginità) Copti: 282, 286 Corepiscopo: 101, 102 Cristiano-società: 19-20 Cristoliti: 276 Cubicularii: 108 Damianiti: 276 Decime: 216, 226, 227 Decretali: 141, 142, 144, 190 Defensor ecclesiae: 1 1 1 Diaconesse: 105, 224 (cfr. vedove) Diacono: 19, 29, 98, 103s, 107, 224, 251-253 Diacrinomeni: 276 Digiuno: 63, 69, 188, 193, 194, 213, 220, 226, 244 Diocesi: 146s Disciplina: 20, 130, 132 Divorzio: 230ss
Doceti: 276 Domenica: 212 (cfr. riposo fe stivo) Donatisti: 35-43, 277 Donna: 96, 105, 106, 1 17 (cfr. dia conesse ; matrimonio ; vedove) Dorotei: 277 Dottore ( didaskalos-maestro) : 19, 20, 29, 30, 45, 47, 109, 1 10 (cfr. catechesi) Ebioniti: 273, 276, 277 Elcesaiti: 278
Electi: 60
Elemosina: 184, 20Ss, 213ss (cfr. assistenza ; beneficenza) Encratiti: 112, 167, 232, 277 Esenzioni del clero: 218 ( cfr. privilegi) Esorcismi: 63, 70, 75, 107, 252 (esorcista) Esseni: 157 Eucaristia: 20, 131, 191, 192, 193, 194, 196, 198, 249, 252-255, 259, 262, 263, 73, 274, 275 ; cfr. aqua riani ; fermentum Euchiti: 167 Eusebiani : 278 Eustaziani: 169, 278 Eutichiani : 275, 278, 281, 285 Evangelo (Christi-de Christo) : 14 Famiglia: 239ss (cfr. matrimo nio) Fede: (confessione di) : 14, 15, 28, 33, 258 ( degli ebrei) : cfr. catechesi ; (depositum) : 26, 28, 29, 33, 34, 45 ; (regola di f. o di verità) : 14, 16-18, 28, 33, 35, 48, 49, 51 ; cfr. catechesi ; ( sim bolo di) : 14-17, 28, 33, 65 ; ( sim bolo romano-niceno-costantino politano) : 16-18 ; ( niceno) : 33 Fedeli: 252 Fermentwn: 132 Figli: 234, 239ss Fossores: l07s Giacobiti: 282, 286 Giudeo-cristiani: 279 Giulianisti : 272 Gnostici: 29, 35, 46, 48-50, 255, 278
232,
297
,.
Iconoclasti: 279 Idroparastati: 274 Imposizione delle mani: 62, 69, 70, 72, 74s, 90-93, 94, 106, 107, 109, 126, 190s, 193, 194s, 198, 199, cfr. ordinazione I niziazione: 56ss, 256 (ai misteri) Intercessio: 225 Katochoi: 157 Koinonia: cfr. comunione eccle siale Lapsi: 36, 38 ; cfr. penitenza Laura: 167, 171, 175 Lavoro: 166, 168, 169, 170, 171, 177, 209, 211ss, 212 ( riposo fe stivo) ; 226 ( del clero) Lettore: 90, 92, 95, 104, 107, 252 Libertà ( religiosa) : 13, 38, 44, 46, 51, 258, 262 Liste episcopali: 124s, 133 Litterae communionis: 131, 133s, 225 ; cfr. comunione ecclesiale Liturgia: ( termine) : 247-250 ; ( ce lebrazioni) : 20, 25, 26, 67, 256, 262, 263 ; ( libri) : 25, 263 ; ( mi nistri) : 252-255 (cfr. vescovo ; presbitero ; diacono, ecc.) ; (si nagogale) : 258-263 ; ( sermone) : 266 ( cfr. predicazione) ; (fami glie) : 22, 263-264 Macedoniani: 279, 284 Manichei: 157, 232, 280 Marcioniti: 112, 232, 273, 280 Mansionario: 107 Martiri: 36, 37, 108, 113 Matrimonio: 1 1 1 , 113-114 ( degli asceti e il m. spirituale) ; 1 15 (del clero) ; 158, 162, 169, 176, 229ss, 236 (liturgia e diritto) ; 271, 273s ( misti) ; 277, 279, 284 Melchisedechiani: 280 Melchiti: 166 Messaliani: 163, 167, 168, 232, 281 Metropolita: 148ss Militia Christi: 72 Militia spiritualis: 159 Millenaristi: 281 Ministerium pauperum: 220, 224 Ministero: 77s, 250, 256, 266 (cfr. i vari ministeri) 298
Misteri pagani e cristianesimo: 56, 255 Mistagogia: 66 Modalismo: 280, 285 Monachesimo: 156ss, 226 (cfr. a· sceti, verginità) Monaci sciti: 270 Monarchiani: 271, 281, 284 Monofisiti: 270, 271, 275, 277, 281, 285 Monoteliti: 282 Montanisti: 29, 282 Naasseni: 283 Nestoriani: 270, 282 Notarii: 1 1 1 Novaziani: 1 8 1 , 232, 283 Nuova Roma: 141s, 150 Ofiti: 283 Olio: 198s (cfr. battesimo ; con fermazione ; unzione degli in fermi) Omei: 274, 283 Omeusiani : 274, 279, 283 Oratio dominica: 19, 20, 66, 249, 250 Ordinazione: 109, 126, 132, 152 (cfr. clero ; imposizione delle mani ; donna) Orda: 78, 82 Orfani: 233 ( cfr. assistenza ; bam· bini ; beneficenza) Origenisti: 284 Ortodossia ( cfr. eresia ; appen· dice finale) Ospitalità: 225s Ospizi: 222ss ( cfr. Xenodochia) Paideia: 19, 20 Papa: 140ss ( cfr. vescovo) Paruchia: 173 Parabalani: 1 10 Parrocchia: 73, 125 Pasqua: 131, 132, 253, 257, 26 1, 262 Patriarca: 141, 148ss (con i vari patriarcati) ; 150 (pat. ecume· nico) Patripassiani: 281, 284 Pauliciani: 284 Pauliniani: 284 Pelagiani: 284 Peccato: cfr. penitenza
.
Penitenza: 17, 18, 36, 37, 59s, 101, 102 , 179ss, 252, 253, 255, 264, 280 (cfr. confessione ; perdono dei peccati ; riconciliazione ; sati
sfactio) Penintenziali: 194 Perdono dei peccati: 179ss, 200ss ; (cfr. penitenza) Periodeuta: 102 Pneumatomachi: 285 Predicazione: 101, 102s, 136, 220 Popolus-plebs: 77ss, 82 Poveri: 99, 219, 220ss ; ( cfr. assi stenza ; beneficenza ; elemosi na ; lavoro) Presbiteri ( preti) : 19, 29, 30, 73, 78, 79, 81, 82, 92, 98, 101s, 107, 1 10, 147, 187, 194, 195, 200, 202, 218, 220, 224, 251 Priscilliani: 112, 172, 232, 285 Privilegi del clero: 83, 1 17-119 (cfr. esenzioni) Professioni: 60s (per il battesi mo) ; 83 e 88 ( del clero) ; 209, 213 Profeta: 19, 29, 109 Proprietà privata: 208ss, 216 (del clero) Province ecclesiastiche: 143, 146ss Quartodecimani: 285
Redditio symboli: 66, 70s Riconciliazione: 102, 109, 132, 179ss, 187, 190, 194s, 198, 280, 282 (cfr. Imposizione delle ma ni ; penitenza ; perdono dei peccati) Riposo festivo: 212s (cfr. dome nica ; lavoro) Sabelliani: 285 Sacerdote-sacerdozio: 250, 251 Sacramenti: 41 (cfr. i vari sacramenti cristiani) Salmista: 107 Satisfactio: 185, 186, 187, 194, 195 ( cfr. penitenza) Scisma-scismatico: 22, 33, 35 Scomunica: 130, 134, 190, 196ss Scrutini: 63, 89 Semiariani: 285 Semipelagiani: 285
Senìores laici: 110 Sequela Christì: 158, 159 Sethiani: 273, 286 Severiani: 286 Simbolo di fede: cfr. fede Sinodo permanente: 151 Sinusiasti: 286 Stiliti: 167 Stoa: 9 Studiti: 168 Successione apostolica: 20, 124s, 130s, 140, 142 ( cfr. autorità) Subordinaziani: 286 Suddiacono: 95, 107, 252 Tascodrugitae: 274 Teologia cristiana: 44-50 Teopaschiti: 286 Terapeuti: 157 Titulus: 147 Tonsura: 83 Traditores: 276 Tradizione: 35, 49, 57, 59, 65s (traditio symboli) ; 66 ( della preghiera del Signore) Unzione degli infermi: 199ss ( cfr. olio) Usura: 109s, 219 Valentiniani: 17 Vedova : 93, 100, 101, 105s, 224, 236, 252, 253 Velatio: 113 Vergine-verginità: 1 l l ss, 114 ( vir· gines subintroductae) ; 161, 169, 176, 198, 231s, 233, 243, 252 ( cfr.
velatio) Vescovo: 14, 19-23, 28-30, 35, 36, 70, 71, 73, 75, 78s, 83ss, 87ss, 91ss, 98ss, 103ss, 110, 120s, 124ss, 133ss, 136, 146s, 152s, 160, 163, 173, 176, 186, 187, 188, 190s, 195, 198, 201, 202, 214, 218, 219, 224, 226, 227, 271 ; ( vescovo di Ro ma) : 19, 21-23, 140-145, 150 ; ( cfr. papa) Vir Dei (uomo di Dio) : 128, 160, 169, 187 Virgines subintroductae: 114 (cfr. agapete) Xenodochìa: 225s
299
Indice generale
parte prima ECCLESIOLOGIA
Pag.
Il formarsi di un pensiero dopo il NT
l . Un nuovo gruppo religioso
»
2. I problemi del nuovo gruppo religioso 1 . Chiesa-ortodossia-eresla
l. La dialettica ortodossia-eresia
3. Il vescovo. - Il vescovo di Roma
Il vescovo di Roma, 21 4. Il canone delle Scritture
L'utilizzazione liturgica dei libri sacri, 25 di libro << apostolico », 26
-
7
»
9
"
12
"
2. Confessioni di fede - Simboli di fede - Regole di fede
7
12
"
15 19
»
23
»
28
»
29
>>
31
"
35
»
La qualifica
2. L'autocomprensione della chiesa: apostolicità-verldicità· santità
l. L'apostolicità della chiesa 2. La veridicità della chiesa (il rapporto chiesa-croce, chiesa-Cristo, chiesa-Spirito) La chiesa « ricettacolo della verità », 31 - La chiesa luogo dello Spirito, 34 3. La santità della chiesa - Donatismo-svolta costantiniana 3. Gli inizi della riflessione teologica
»
44
Bibliografia
»
51 301
parte seconda
LE ISTITUZIONI
1 . L'iniziazione cristiana e i suoi riti
,. »
l. L'iniziazione 2. Fase preliminare (catecumenato)
»
»
3. L'istruzione cristiana
,.
4. Fase cruciale: i riti battesimali
»
S. Battesimo-confermazione-eucaristia
»
BibliograJfia 2. l ministeri ecclesiali
l. Il popolo cristiano e gli ordines 2. Scelta e requisì ti del clero
3. Riti zione)
e
simboli
di
trasmissione
di
autorità (ordina
55 55 58 63 67 73 76
»
77
"
77
"
83
»
4. La gerarchia ministeriale
»
91 97
S. Ministri inferiori e altre funzioni
"
105
7. Privilegi civili e religiosi del clero
»
111 117
Bibliografia
"
120
3. Autorità e organizzazione nella chiesa antica
»
121
6. Verginità e continenza ( celibato)
l . L'autorità nella chiesa
2. La comunione ecclesiale 3. Forme istituzionali d'autorità
4. Strutture territoriali ecclesiastiche
Bibliografia
"
» »
121 129
»
136 146
» »
154
»
156
"
156
»
4. Il monachesimo occidentale
»
160 164
S. Monachesimo e istituzione
,.
168 174
Bibliografia
,.
178
5. Il peccatore e la penitenza
"
179
,.
179 189
4. Il fenomeno monastico
l. Monachesimi e monachesimo cristiano
2. Le origini del monachesimo
3. Il monachesimo orientale
l. La penitenza ecclesiale nei primi tre secoli e i suoi problemi 2. L'evoluzione penitenziale nei secoli IV-VI 302
»
,.
3. Scomunica e unzione Bibliografia
degli
l>
infermi
196
"
202
"
203
"
203
3. Economia e beneficenza
»
220
Bibliografia
))
228
7. Matrimonio e famiglia
»
229
))
229
6. Aspetti economici e sociali
l. Ricchezza e lavoro 2. L'economia ecclesiale
"
l . II matrimonio e i suoi riti 2. La famiglia e i suoi doveri
»
"
Bibliografia
214
239
244
"
245
lt
245
,.
263
Bibliografia
»
268
Gruppi a tendenza eterodossa nel cristianesimo antico
))
269
8. La liturgia
l. La liturgia prenicena
Culto religioso e vivere quotidiano, 245 Nuova seman tica del termine « liturgia "• 247 Sacerdozio cristiano e ministero ordinato, 250 La documentazione, 252 Il rapporto con i misteri pagani: il rito come « mistero 255 Le matrici giudaiche, 257 -
-
-
-
>>,
-
2. La liturgia nella chiesa post-nicena
Uno sguardo d'insieme, 263 - L'organizzazione liturgica nella chiesa antica, 264 L'importanza data alla liturgia Il significato dei suo riti, 265 -
INDICI Indice biblico
»
287
Indice onomastico
"
289
Indice di cose notevoli
»
296
Indice generale
))
301
303